Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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ANNO 2020

 

FEMMINE E LGBTI

 

PRIMA PARTE

 

 

 

 

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

       

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

GLI ANNIVERSARI DEL 2019.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

FEMMINE E LGBTI.

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Uomini e donne: diversi per anatomia e fisiologia.

Donne al Volante…

Quelli che non vogliono le Miss.

Donne che odiano le donne.

Il Metoo.

Harvey Weinstein: il MeToo dell’Irriconoscenza.

Il Cinema delle donne e dei Gay.

C’era una volta il maschio.

Revenge Porn. Dagli al Maschio.

Il Maschicidio, il Femminicidio ed ogni abuso di genere.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI. (Ho scritto un saggio dedicato)

 

Comandano loro.

Femmine, campionesse di lunga vita. Anche tra gli animali.

Le madri del sud.

Mai dire Mamma.

Mai dire Papà.

Aborto. Il Figlicidio.

Il Divorzio.

Nelle more di un divorzio.

L’odio per il diverso.

Donne: Razzismo e Politicamente corretto.

Donne che odiano i Transgender.

I Transgenger.

La Sinistra e le Donne.

Il Femminismo.

Le mestruazioni femministe.

L’estinzione dei simboli femminili.

Gli Etero.

Gli Omosessuali e le Lesbiche.

Mai dire Puttana.

Mai dire Porno.

Mai dire Razzismo.

L’eccitazione.

L’Infedeltà.

Lo Scambismo.

Sadomaso e Trasgressioni.

Lo famo strano…

Il Fetish.

Cuckqueaning e Cuckquean.

Gli strumenti del sesso.

Autoerotismo: la Masturbazione.

L’Astinenza dal Sesso.

Il blue-stalling: situazione di stallo amoroso.

Il Dogfishing.

Il Fascino.

La seduzione.

Il Dirty Talk.

L’iniziativa sessuale.

Durante il Sesso.

Il Cunnilingus.

Il "Rusty Trombone".

La Spermata.

L'eiaculazione precoce.

Morire di Sesso.

Il Kamafitness.

Il Cuckolding.

Il Wetlooking.

I sogni erotici.

Ninfomania. La dipendenza dal sesso.

Sesso, malattia e dolore.

Sesso vecchio.

Sesso e segno zodiacale.

Organo sessuale? C’è differenza.

Infibulazione e circoncisione. Le mutilazioni dei genitali.

Lo Sbiancamento.

Viva il Pelo.

Le Malattie Sessuali.

Il sesso combatte le malattie.

Fuori di…Seno.

La Lattofilia.

La Piedofilia.

La Sitofilia.

La Venustrafobia.

La mia bruttezza.

La Mia Grassezza.

Femmine e Sport.

 

 

 FEMMINE E LGBTI

 

PRIMA PARTE

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Uomini e donne: diversi per anatomia e fisiologia.

Valeria Arnaldi per "Il Messaggero" il 18 ottobre 2020. «Gli opposti si attraggono», dice la saggezza popolare. «Chi si somiglia si piglia», recita il proverbio. Nella confusione di emozioni, sentimenti e indicazioni, a fare chiarezza ora è la scienza. Stando a uno studio condotto da Pin Pin Tea-makorn e Michal Kosinski, ricercatori della Stanford University, pubblicato su Scientific Report, la somiglianza tra due persone è un fattore di attrazione. E attenzione, non si tratta di una somiglianza di valori - non solo almeno - ma estetica, fisica. L'indagine è stata condotta usando le immagini dei visi di 517 coppie, scattate all'inizio del matrimonio e da 20 a 69 anni dopo. Le foto sono state analizzate con un algoritmo facciale e pure da un campione di oltre 150 volontari, chiamati a tentare di associare le figure dei coniugi.

LA CONVERGENZA. L'obiettivo iniziale era verificare la «convergenza nell'aspetto fisico degli sposi», riscontrata nel 1987 da Robert Zajonc dell'Università del Michigan e spiegata come un'acquisizione nel tempo, frutto di condivisione di momenti, situazioni, emozioni, abitudini. Riprendendo le modalità di ricerca di Zajonc, che aveva confrontato foto di dodici coppie appena sposate e poi delle stesse dopo venticinque anni per vedere gli eventuali mutamenti, il team di Stanford ha deciso di fare comparazioni in un campione decisamente più ampio di partner. E a sorpresa, gli esiti degli anni Ottanta non sono stati confermati. Anzi. Stando al nuovo studio, «mentre i volti dei coniugi erano simili all'inizio del matrimonio, non convergevano nel tempo». Le somiglianze facciali, dunque, non si manifestano negli anni, ma, probabilmente, sono alla base dell'attrazione tra due soggetti. Non esito della relazione perciò, ma suo motore. Non mutamento dovuto al rapporto prolungato, ma quasi un istinto. Un precedente studio effettuato su 825 coppie da Benjamin W. Domingue dell'università del Colorado a Boulder aveva già evidenziato la somiglianza genetica tra persone sposate maggiore di quella esistente tra soggetti scelti a caso, fenomeno definito «accoppiamento assortativo sull'intero genoma». Insomma, a determinare la scelta sarebbero geni e lineamenti. Basta guardarsi intorno, o quasi, per rendersene conto. Somiglianze sono state riscontrate tra Denzel Washington e la moglie Pauletta, Kristen Bell e Dax Shepard, Christina Aguilera e Matthew Rutler, Gisele Bundchen e Tom Brady. E molti altri. In Italia c'è chi nota similitudini di lineamenti, colore degli occhi, sorriso e così via, da Billy Costacurta e Martina Colombari a Carmen Russo ed Enzo Paolo Turchi, Eleonora Giorgi e Massimo Ciavarro, Belen Rodriguez e Stefano De Martino, fino ad arrivare a Chiara Ferragni e Fedez, che sottolineano l'affinità, pure mutando colore di capelli e look. «La scelta del partner è determinata da più fattori - spiega Marta Giuliani, psicologa e sessuologa clinica, consigliera Ordine Psicologi del Lazio - ci sono input genetici, fattori biologici, ormonali, elementi psicologici. La familiarità fisica viene riconosciuta e può portare ad avvicinarsi all'altra persona, quindi può predisporre alla conoscenza. I fattori di disposizione genetica all'avvicinamento, però, sono modulati poi sulla base di elementi psicologici. Riconoscere la familiarità può essere rassicurante, dipende ovviamente dal vissuto. Se ci si sente sicuri, non si avrà timore di avvicinarsi a chi familiare non è. Hanno un peso anche il momento dell'incontro e le necessità dei singoli». Se la somiglianza fa battere il cuore, non è però garanzia del per sempre. «I bisogni possono mutare nel corso della vita, così anche l'effetto della somiglianza». E vissero insieme simili e contenti. Almeno per un po'.

Rachel Premack per "it.businessinsider.com" l'8 agosto 2020. Le compagnie automobilistiche americane credono che un tipo di manichino di prova femminile sia sufficiente a effettuare test per garantire che le donne non muoiano in incidenti automobilistici. E questo manichino è alto 1,52 metri e pesa 50 kg. È incredibilmente lontano dalla costituzione di una donna americana media. Secondo il National Center for Health Statistics, questa in realtà pesa 77 kg  ed è alta quasi 10 centimetri in più del manichino da test. Le vittime donne di incidenti stradali hanno il 73% di probabilità in più di morire o subire un grave infortunio in un incidente automobilistico, secondo un nuovo studio dell’Università della Virginia. Questo al netto di tutti i diversi fattori nel corpo di un passeggero, del modello di auto e di se il passeggero indossi o meno una cintura di sicurezza. Sarah Holder di CityLab ha scritto per la prima volta dello studio il 18 luglio e ha sottolineato che il manichino che non è realmente rappresentativo è probabilmente la causa della probabilità significativamente maggiore che le donne rimangano uccise o menomate in un incidente automobilistico. I manichini da test maschili, che rappresentano l’unico modello che è stato ampiamente utilizzato fino al 2003, quando fu introdotto il manichino femminile da 50 chili, sono molto più rappresentativi della popolazione maschile, hanno detto i ricercatori a CityLab. “Costruttori e designer erano tutti uomini”, ha detto a ABC News nel 2012 il Dr. David Lawrence, direttore del Centro per la prevenzione degli infortuni, presso l’Università statale di San Diego. “Non gli è passato neanche per la testa che avrebbero dovuto progettare manichini anche per gente diversa da loro. Bene, abbiamo superato questo.” Il bisogno di un manichino di test sia maschile che femminile nasce semplicemente dai “modi in cui uomini e donne sono diversi biomeccanicamente”, ha detto a CityLab Jason Forman, uno dei principali scienziati del Center for Applied Biomechanics di UVA e autore di uno studio.

Sebastiano Messina per “la Repubblica” il 7 agosto 2020. Il leghista Calderoli dice che è inutile candidare le donne, «perché normalmente il maschio è più infedele del sesso femminile e si porta dietro il voto di cinque signore». Senza rendersi conto che sarebbe la motivazione perfetta per ammettere nelle liste un solo sesso: le donne.

Fabrizio Biasin per “Libero quotidiano” il 7 agosto 2020. È uscito questo studio davvero molto scientifico dell'Università di Maastricht, nei Paesi Bassi, che vale la pena analizzare (il qui scrivente molti anni fa è stato a Maastricht. Aveva una giovane fidanzata, bellissima. Ma non divaghiamo). Questi qui dell'Università hanno preso 194 tra uomini e donne e hanno chiesto loro: «Quante balle hai raccontato nelle ultime 24 ore? Di che tipo? Quali strategie hai adottato?». Il risultato a quanto pare è che i maschi mentono di più e meglio, nel senso che non si fanno beccare col sorcio in bocca (si chiamava Lorely, aveva 20 anni. Che donna meravigliosa. Ma non divaghiamo). Lo studio è stato pubblicato da Focus e i risultati raccontano cose clamorose, per esempio emerge che gli uomini hanno più del doppio di probabilità di considerarsi dei bugiardi "esperti" rispetto alle donne (Lorely cercava più di una storiella estiva, ma il sottoscritto voleva inseguire il suo sogno: prendere la quarta laurea, questa volta in filologia romanza all'università di Aquisgrana. Poi presa con una tesi su Eraclide Pontico. Ma non divaghiamo). Dando un'occhiata alle risposte delle 194 "cavie" è venuto fuori che i maschi erano di gran lunga più bravi a mentire, creavano storie credibili all'interno delle quali inserivano bugie a raffica (un giorno Lorely, divenuta nel frattempo modella di Victoria' s Secret, decise di venire a trovare questo umile scrivente ad Aquisgrana. Ebbene, fece un viaggio a vuoto: il sottoscritto era partito in missione per conto della Cia a Ulan Bator, in Mongolia. Una storia di spie e filologia romanza. Ma non divaghiamo). Pare in definitiva che gli uomini abbiano un miglior controllo del corpo mentre dicono bugie, che siano più "rilassati". Per capirci: non evitano lo sguardo dell'interlocutore, non gesticolano, sudano meno. Tutti elementi - spiega lo studio - che rafforzano la credibilità della balla che viene propinata al malcapitato o, più spesso, alla malcapitata di turno (lo scrivente rientrò in Europa dalla Mongolia dopo tre lunghissimi anni e fu costretto dalla Cia a tornare a Maastricht. Sì, rivide Lorely: lei lo voleva ancora, ma lui iniziò una nuova storia con la sorella minore di quest' ultima. Kimberly. Bellissima pure lei. Ma non divaghiamo). Lo studio entra nel dettaglio e certifica che in realtà quelle dei maschietti non sono mai grosse menzogne, balle epocali, cose drammatiche che distruggono i rapporti, semmai si tratta di peccatucci d'omissione o, ancor più frequentemente, «esagerazioni della realtà», cose del tipo «oggi ho pescato un pesce di 70 chili!» e in realtà hai tirato su un branzino (finì anche con Kimberly e non perché non ci fosse amore, ma per il richiamo della patria, l'Italia. Ebbene sì: forte della mia prima laurea in Architettura delle Grandi Opere mi hanno chiesto di progettare il ponte sullo Stretto. Kimberly ha capito e mi ha lasciato andare. Ma non divaghiamo). Pare infine che esistano dei semplici trucchetti per provare a smascherare il contaballe di turno, ma di questi parleremo alla prossima puntata. Mai stato a Maastricht, comunque.

Noemi Penna per “la Stampa” il 5 agosto 2020. Uomini e donne, pericolosamente simili per la medicina. Può sembrare scontato che agli uni e alle altre, così diversi per anatomia e fisiologia, vengano prescritte cure specifiche quando si ammalano. E invece, troppo spesso, così non è. Medicina e farmacologia di genere sono una novità: c' è ancora molto da fare per arrivare all' equità della cura. Lo sa bene Silvia De Francia, farmacologa clinica e ricercatrice dell' Università di Torino, impegnata nella battaglia contro il «bias di genere» per evitare che le donne continuino a ricevere terapie e trattamenti a «misura d' uomo». «Uomini e donne si ammalano in modo diverso: spesso non presentano sintomi identici di malattia e, per altro, non possono assumere i medesimi farmaci con gli stessi livelli di sicurezza», spiega De Francia. Il Covid-19 è stata un' ulteriore prova di come esista una differenza di genere sia nei tassi di infezione sia in termini di mortalità, in questo caso a vantaggio delle donne, che hanno un sistema immunitario più forte. «Eppure - continua De Francia -, anche se la scienza ha appurato le differenze di sesso e genere negli individui, queste, nella routine clinica specialistica e nella medicina di base non sono state ancora prese in seria considerazione». Silvia De Francia racconta questa realtà - e i suoi problemi - ne «La medicina delle differenze. Storie di donne, uomini e discriminazioni», edito da Neos, i cui diritti d' autore saranno devoluti al dipartimento di Scienze Cliniche e Biologiche dell' Università di Torino a sostegno della ricerca in farmacologia genere-specifica. L' assenza di un approccio multidisciplinare di questo tipo significa molto: prima di tutto diagnosi errate. «Il cuore della donna - sottolinea - può ammalarsi in modo diverso da quello maschile, ma i sintomi d' infarto che vengono riconosciuti subito, e con facilità, sono quelli più frequenti nell' uomo. La donna può presentare come sintomi solo una lieve dispnea, con dolori retrosternali, senza il classico dolore al petto che irradia al braccio sinistro». Il risultato? Le donne vengono spesso ospedalizzate in reparti non adeguati, con terapie tardive, che provocano una maggior letalità o un recupero più lento. Diagnosi errate basate sul pregiudizio che le malattie cardiovascolari siano appannaggio maschile, a testimonianza di un serio problema di formazione nei medici. Solo adesso medicina e diritto si stanno lentamente adeguando per garantire a ciascuno un trattamento equo, tarato sui dati soggettivi che ciascun individuo porta inevitabilmente con sé dalla nascita. «Solo a giugno dello scorso anno, in Italia, è stato approvato il Piano per l' applicazione e la diffusione della medicina di genere nei reparti ospedalieri e, quindi, il personale sanitario sarebbe formalmente obbligato per legge a considerare sesso e genere degli individui in termini di cure». Ma ciò che è sulla carta è lontano anni luce da ciò che accade quotidianamente negli ospedali, negli ambulatori e negli studi dei medici di base. «E', per esempio, all' ordine del giorno nei pronto soccorso l' arrivo di donne colpite da tossicità da farmaco», spiega De Francia: «Nel mondo il 50% dei ricoveri è a carico di donne coinvolte da questo problema. Si tratta di farmaci che non sono mai stati testati, prima dell' immissione in commercio, sulla popolazione femminile». Eppure, oggi, né la medicina genere-specifica né la farmacologia genere-specifica sono presenti nei programmi didattici. De Francia, e pochi altri docenti in Italia, la propone nelle proprie lezioni di farmacologia generale e speciale all' università, ma è chiara l' urgenza di corsi d' aggiornamento, a partire dai medici di base, così come è necessaria una visione più ampia per le scuole di formazione alla professione sanitaria. La medicina genere-specifica, infatti, è una disciplina trasversale: serve a curare al meglio ogni individuo, uomo, donna o transgender, analizzando tutti i fattori che concorrono alla genesi e al decorso di una patologia: da quelli ambientali e di rischio a quelli biologici, considerando quanto sesso e genere di ognuno possano influenzare malattie e risposta ai farmaci. Ci sono, infatti, malattie che colpiscono solo un genere e altre che mostrano sintomi differenti in base al sesso e che, quindi, vanno curate in modi diversi. Per fare qualche esempio, la cardiomiopatia di Tako-tsubo, o «sindrome del cuore infranto», colpisce solo le donne, prevalentemente in premenopausa, manifestandosi con sintomi che possono simulare una crisi coronarica acuta anche se sono indotti da un forte stress. «La perdita di un figlio o di un compagno - spiega De Francia - possono causare tale sindrome anche a distanza di tempo, in modo inatteso». A discapito dell' uomo, invece, proprio come il Covid-19, c' è il tumore mammario: colpisce relativamente pochi maschi rispetto alle femmine, ma la mancanza di screening e controlli porta ad una altissima letalità. Quando si scopre, infatti, spesso è troppo tardi. «Anche l' uomo possiede la ghiandole mammarie - continua De Francia - ma lo screening del seno maschile è oggi pressoché inesistente e le cure, in caso di diagnosi di cancro al seno nell' uomo, sono tarate solo sulle donne». Infine, al contrario delle malattie cardiovascolari, erroneamente associate di più agli uomini, l' osteoporosi viene riconosciuta come una malattia tipicamente femminile, sebbene colpisca in modo uguale i maschi, ma in età più avanzata. «L' uomo - aggiunge - soffre di decalcificazione ossea pochi anni dopo la donna, ma in assenza di pratiche adeguate di screening, indicate da linee-guida nella donna, incorre più facilmente in fratture». C' è, inoltre, il capitolo dei farmaci. «La maggior parte di quelli in commercio è stata testata quasi totalmente su individui di sesso maschile. La donna è rimasta a lungo assente da questi studi di sperimentazione clinica: fino al 1993 la presenza femminile era pari a zero, mentre ora l' arruolamento si attesta tra il 25-30%. Ma, oltre alle differenze ormonali, è chiaro che, avendo degli organi più piccoli e un metabolismo differente, la donna può incorrere più facilmente in problemi di sovradosaggio e di potenziale tossicità». «Occorre rifondare la medicina, ripensandola nel modo più inclusivo possibile», conclude De Francia: «Non dobbiamo lasciare indietro nessuno, altrimenti sarà impossibile parlare di equità di trattamento e accesso alle cure, giusto ed adeguato per tutti».

·        Donne al Volante…

Da ilsole24ore.com il 15 gennaio 2020. “Donne al volante pericolo costante” è forse un proverbio antico, sicuramente una discriminazione sessista nei confronti delle donne e in più non risponde a verità.  Come riporta la rivista francese AutoPlus, sulla base dell’ultima indagine effettuata in Belgio dal Vias Institute, le donne sono un migliore affare per le compagnie di assicurazione – non solo perché – scrive l’Ansa – sono percentualmente meno coinvolte un incidenti ma anche per avere meno spesso torto – e quindi meriterebbero tariffe assicurative più vantaggiose. L’analisi di AutoPlus evidenzia che le donne sono meno colpite dagli uomini in caso d’incidente, prova della loro maggiore cautela. Rappresentano infatti il 44% di chi ha conseguenze lievi, il 23% di chi viene ferito gravi e il 34% di chi subisce danni gravi. In altre parole, le donne sono coinvolte in incidenti meno gravi rispetto alle loro controparti maschili. Inoltre, gli incidenti che vedono coinvolto un guidatore di sesso femminile comportano la metà del tasso di mortalità rispetto agli incidenti con un maschio al volante. Per il Vias Institute ci sono 10 decessi per 1.000 lesioni corporali per incidenti che coinvolgono una donna automobilista, rispetto ai 19 degli automobilisti maschi. In generale, che si tratti di conducenti, passeggeri o pedoni, le donne rappresentano il 43% delle vittime di incidenti stradali (uccise o ferite). E la loro percentuale scende addirittura al 37% quando vengono prese in considerazione solo le donne guidatrici. Al contrario, il 62% dei passeggeri uccisi o feriti sono donne, cosa che si spiega con il fatto che è quasi sempre un uomo a mettersi al volante quando ci sono più persone a bordo. La differenza è particolarmente marcata tra i giovani (15-19 anni e 20-24 anni) e trenta (30-34 anni e 35-39 anni), dove ci sono 1,4 volte più vittime di sesso maschile rispetto a donne vittime (per 100.000 abitanti). Quasi 2 su 3 conducenti che ricevono una multa dopo aver commesso una infrazione sono maschi, cosi come 3 su 4 condannati per reati stradali. Uno dei motivi della minore sinistrosità delle donne al volante è il meno frequente abuso di alcol. La probabilità che un uomo guidi dopo aver superato il limite legale è 4 volte superiore rispetto alle donne e ciò è dovuto anche alla maggiore cautela delle guidatrici nel mettersi al volante in condizioni a rischio. Questa propensione più maschile a guidare sotto l’influenza dell’alcool è confermata anche dalle statistiche sugli incidenti. Nelle analisi effettuate dopo un sinistro solo il 5% delle donne che erano al volante avevano superato il limite di legge, mentre per i maschi questa percentuale sale all’11%.

·        Quelli che non vogliono le Miss.

Miss Germania, Leonie eletta a 35 anni  da una giuria di sole donne. Pubblicato domenica, 16 febbraio 2020 su Corriere.it da Irene Soave. È la concorrente più vecchia: 35 anni. È la prima Miss Germania con un figlio, di lavoro fa l’imprenditrice online e ha già detto che «del titolo di più bella me ne farò poco, e non intendo andare in giro a tagliare nastri come un manichino» e quasi non si capisce quindi perché abbia partecipato a un concorso di bellezza, ma lo spiega lei: «Ho accettato di concorrere solo perché mi piaceva questo nuovo corso», ha detto nella prima intervista all’agenzia Rnd, con la corona ancora in testa. Sabato sera, a Friburgo, è stata incoronata Miss Germania. Lei è Leonie Charlotte von Hase, già miss Schleswig-Holstein, e ieri sera ha strappato il titolo di «più bella del reame» alle più giovani (e per qualche maligno online pure più belle, del resto è anche a questi giudizi che si espongono le reginette) miss Baviera, 22 anni, seconda classificata, e miss Amburgo, 23, medaglia di bronzo. Il «nuovo corso» di cui parla, invece, è il nuovo regolamento del concorso: Miss Germania, fondato nel 1927 e considerato «una mollezza retrograda» perfino dal nazismo, che infatti lo aveva abolito, come tutti i concorsi di bellezza in tempi di femminismo pop non sembrava invecchiato benissimo, e da quest’anno, per sopravvivere, «giudicherà le candidate principalmente per la loro personalità». E quindi ecco le nuove regole. Primo: giuria di sole donne «scelte dal mondo delle professioni e dello sport». Quest’anno era composta dalla presentatrice Frauke Ludowig, l’ex deputata dei Cristianosociali Dagmar Wöhrl, la food-writer Sofia Tsakiridou, la social media manager Ann-Kathrin Schmitz, la giornalista Angela Meier-Jakobsen e la karateka Anna Lewandowska . «Ma non è escluso che possano partecipare anche uomini, se mostreranno di possedere la giusta mentalità», ha detto l’organizzatore Max Klemmer, figlio del Mirigliani tedesco che ha organizzato Miss Germania per sessant’anni. Le 16 finaliste, scelte fra 160 in un voto online che doveva nominarne una per ogni Land della Repubblica Federale, hanno partecipato nelle scorse settimane a un «Personality Camp», 21 giorni di yoga, workshop di consapevolezza e lezioni di auto-imprenditoria. «Le ragazze dovranno diventare ambasciatrici della femminilità, e usare i palchi dove vanno per diffondere messaggi positivi», recita il sito della manifestazione. Seconda regola, niente sfilata in bikini, ma in abiti a scelta delle partecipanti. Questa novità era già entrata in vigore l’anno scorso, ma le ragazze sfilavano lo stesso in blazer sbottonati e jeans aderenti, e le loro immagini in costume venivano proiettate sullo sfondo; quest’anno, verboten pure quelle, bene invece abiti fino ai piedi da ballo delle debuttanti. Leonie von Hase ha stregato tutti, anzi, tutte, sfilando solo in tailleur-pantalone. L’età delle concorrenti, infine, è stata alzata per la prima volta fino a 39 anni; e il divieto di partecipare alle donne sposate o con figli è caduto. La nuova miss Germania, insomma, del nuovo corso è praticamente la testimonial: «Trovo che le donne meno giovani siano bellissime, e la bellezza viene dal carattere, dall’esperienza», ha puntualmente chiosato a margine dell’incoronazione. Lei stessa, sul suo Instagram — manda avanti @theleoniestore, un e-commerce di abiti vintage — si definisce una «late bloomer», una «dalla tarda fioritura». «Ho fatto tante cose nella mia vita, ma mi pare che tutto debba ancora succedere». Non desidera soltanto, come da cliché della reginetta, «la pace nel mondo», ma vuole «concorrere a promuovere una femminilità più inclusiva». «Miss coraggio», la chiama lo Spiegel; «Un segno dei tempi», titola la Stern. E pazienza se per qualcuno «concorso di bellezza femminista» può sembrare una contraddizione in termini, come dire «salsiccia vegana»: le salsicce vegane, come si sa, esistono, ed esiste Leonie von Hase incoronata reginetta dalla poliziotta e già Miss Nadine Berneis. Anche il premio è empowering: Leonie vince un contratto di lavoro presso l’azienda di famiglia dei Klemmer e una Volkswagen nuova. Ma anche una provvista a vita di shampoo: è pur sempre un concorso di bellezza.

Camille Schrier, la Miss America spazza via i pregiudizi di maschilisti e femministe: è una biochimica. Lucia Esposito su Libero Quotidiano il 21 Dicembre 2019. La nuova Miss America si chiama Camille Schrier, ha 24 anni, ed è una scienziata. In un mondo normale questa non dovrebbe essere una notizia, ma gli stereotipi sono più resistenti delle incrostazioni calcaree che il tempo, invece di diluire, trasforma in fossili. E così adesso tutti si stupiscono perché da un concorso di bellezza è emersa una donna bellissima che è laureata in biochimica e sta studiando per un dottorato di farmacia. Camille ha sbaragliato le cinquanta avversarie dimostrando con un esperimento scientifico la decomposizione catalitica del perossido di ossigeno. La giuria, di solito attenta a considerare l' armonia delle proporzioni di seno, vita e fianchi, lo splendore del sorriso e la tonicità del lato B, è stata sedotta da Camille in camice bianco e occhialoni da laboratorio che si muoveva con eleganza e sicurezza tra ampolle e provette. L' Università della Virginia in cui la nuova reginetta sta studiando ha twittato: «Congratulazioni! MissAmerica può essere una scienziata perché una scienziata ora è #MissAmerica2020!!». I professoroni dell' Ateneo, giustamente, esultano orgogliosi perché una loro studentessa è diventata reginetta di bellezza ma perfino loro dimenticano di dire che lo stesso concorso, fino all' anno scorso, non cercava altro che delle bellone da far sfilare in costume da bagno e da ammirare per le loro fattezze.

NUOVI PARAMETRI. Miss America dal 2018 ha cercato di rinnovarsi cambiando i criteri di valutazione per le concorrenti: dopo lo scandalo denunciato dall' Huffington Post che ha pubblicato le mail in cui gli organizzatori del concorso facevano battutacce sul peso delle concorrenti, ha eliminato la prova in bikini e quella basata solo sull' aspetto fisico. Ha tolto i maschi dalla giuria e ha cercato pure di togliersi di dosso la polvere di un concorso maschilista che giudica le ragazze che sfilano come quadri esposti in un museo. Quando l' onda femminista non era ancora tracimata nel metoo, chi partecipava ad un concorso di bellezza non si aspettava certo di essere giudicata per il proprio quoziente intellettivo. E d' altro canto, solo chi aveva velleità artistiche, chi sognava di sfondare nel cinema o di diventare una star della tv, si presentava alle selezioni. Alle nostre miss si chiedeva solo di sorridere, camminare disinvolte sui tacchi a spillo e mostrare le curve. A nessuno sarebbe venuto in mente di sottoporle alla prova di tradurre Tacito o di dimostrare il teorema di Fermat. Fino a qualche tempo fa i concorsi di bellezza non cercavano altro che belle donne. Camille Schirer, aveva confessato alla Bbc che con la sua partecipazione intendeva principalmente rompere gli schemi «predefiniti». Obiettivo centrato. Però chissà in passato quante signorine, bellissime e intelligenti come lei, hanno sfilato zitte e mute davanti alle giurie di tutti i concorsi del mondo senza avere la possibilità di mostrare altri talenti oltre a quelli esteriori. Camille, in una sola serata, ha dato una picconata al doppio pregiudizio che vuole le donne belle mediamente troppo concentrate sul proprio aspetto fisico per dedicarsi agli studi e ancor meno a quelli scientifici considerati appannaggio dei maschi. Un pregiudizio diffuso perfino tra gli stessi studiosi, basti ricordare la gaffe del fisico del Cern Alessandro Stumia quando disse che il cervello delle donne è più adatto ad altre discipline. I luoghi comuni L' equazione curve fisiche avvenenti uguale ad elettroencefalogramma piatto si sviluppa tuttora nelle menti bacate di molti maschilisti che evidentemente, se non riescono ad oltrepassare il confine di una scollatura, hanno la vista più acuta dell' intelligenza. Ma ancora più ottuse sono quelle donne che, per gelosia o per invidia, davanti all' avvenenza fisica di un' altra entrano in competizione, saltano su una cattedra come maestrine, e puntano il dito sulle sue carenze intellettive. Al di là dell' ipocrisia dei concorsi di bellezza che, per accontentare femministe e perbenisti, fingono di cercare dei cervelloni ma poi se non sei alta, magra e formosa non ti ammettono alle selezioni, a noi Camille piace un sacco. Per tanti motivi. Primo: è consapevole della sua straordinaria bellezza e non se ne vergogna, anzi dà uno schiaffo sia ai maschilisti sia alle femministe esibendola come un capolavoro. Secondo: non è snob. Ambisce a fare la scienziata ma non disdegna una gara che - nonostante sia stata infiocchettata ben bene e dichiari di non dar troppo peso a seno e sedere - se non sei strafiga non ti fa neppure iscrivere. Terzo: ha dimostrato, semmai ce ne fosse ancora bisogno, che l' intelligenza non è un accessorio come un foulard di seta o un orecchino di perle. E poi perché alla fine, quando la giuria l' ha eletta Miss America è esplosa in un pianto liberatorio di gioia, proprio come tutte le miss. Lucia Esposito

·        Donne che odiano le donne.

Roberto D’Agostino per Vanity Fair.it il 23 dicembre 2020. Siamo il settimo Stato al mondo per numero complessivo di contagi (1.825.775) e il quarto nel rapporto tra morti e popolazione (1.060 ogni milione di abitanti). Davanti a noi soltanto Belgio, San Marino e Perù. Detto ciò, sono settimane che in questo disgraziato paese va avanti indefessa una polemica esplosa dopo le parole dell’alpinista-scrittore Mauro Corona pronunciate in diretta a ‘’Cartabianca dove si era rivolto alla padrona di casa, una petulante Bianca Berlinguer che lo interrompeva di continuo, con un battutaccia ruspante: “Stai zitta, gallina”. Il povero montanaro è stato subito “epurato” per sessismo catodico dal direttore di Rai3 Franco Di Mare e crocifisso dalle femministe, malgrado le proteste della Berlinguer che l’aveva perdonato dopo ripetute scuse e mea culpa e cenere in capo. Passano pochi giorni, aumentano le vittime del Covid, e scoppia un nuovo “scandalo”. Una battutaccia in stile Luciana Littizzetto, pronunciata dal tavolo di "Che tempo che fa", scatena web e giornali. La comica mostra una foto hot di Wanda Nara, la showgirl moglie del calciatore Mauro Icardi: è in posa nuda sopra ad un cavallo: “Chissà dove è finito il pomello della sella - scherza la Littizzetto - lei si arpiona così. Ha la Jolanda prensile”. E subito riparte l’orchestrina del politicamente corretto: ‘’Battute a sfondo sessuale pronunciate da una donna fanno ancora meno ridere ma danno solo disgusto’’, tuona una telespettatrice. “La Littizzetto è di una volgarità assurda...”, attacca qualcun’altra che ha rimosso evidentemente dalla sua memoria le continue battute che fa e ha fatto la Littizzetto sui presunti micro-genitali di Fabio Fazio che, bontà sua, ha sempre accettato lo scherzo.   Massì, cosa è successo? Vanda Nara, che fa di mestiere “la famosa per essere formosa”, si mette nuda a cavallo e poi posta la foto su Instagram – liberissima di farlo: l'emancipazione fa sì che le donne si possano denudare senza problemi, il corpo è mio e lo gestisco io. Da una parte. Dall’altra la Littizzetto, che fa di mestiere la comica, la prende in giro, ironizza il suo esibizionismo senza limitismo, “castigat ridendo mores”. Tutto qui? No: perché la comica torinese, pur flagellata dalle donne col ditino alzato di volgarità-sessismo-roba da “Vernacoliere”, eccetera, non ha ricevuto la radiazione dagli schermi Rai che invece ha colpito il “tribale” Mauro Corona. Ecco una delle piaghe che affliggono il nuovo secolo: l'ipocrisia elevata a galateo, il moralismo che sostituisce il giudizio estetico, la paura di esprimere un'opinione perché si finirebbe impallinati dai giustizieri del “Gender”, del “Me-too”, del politicamente corretto. Quello che successe anni fa alla più grande scrittrice americana vivente, Joan Didion (i suoi libri sono imperdibili), che venne ferocemente criticata per un articolo nel quale aveva rigettato l’idea che in quanto donna non fosse forte abbastanza per misurarsi con quella che considerava l’asprezza della vita quotidiana in una società dominata dagli uomini. E trovava anche che ci fosse qualcosa di sinistro nel movimento femminista, al di là della sua contestazione dell’essere discriminate in quanto donne. “Sembrava sempre più che l’avversione fosse contro la stessa vita sessuale adulta: come sarebbe più pulito restare sempre bambini”. Ecco: questo desiderio di restare bambini ha a che fare con il modo in cui vorremmo funzionasse il mondo rispetto alle delusioni che ci offre la vita quotidiana, e ci aiuta a proteggerci non solo dal caos della realtà ma anche dai nostri fallimenti personali. Un’indignazione che è spesso legata alla follia di pretendere la perfezione umana, cittadini immacolati, compagni puliti e gradevoli, pronti a chiedere migliaia di scuse al giorno. Come scriveva Kant: “Da un legno così storto come quello di cui è fatto l’uomo, non si può costruire nulla di perfettamente dritto”. Allora, avanti con l’isteria gender-femminista. La realtà è che gli uomini guardano le donne, e gli uomini guardano altri uomini, e le donne guardano gli uomini, e le donne in particolare giudicano altre donne, e tutti non fanno altro che renderli oggetti.

Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” il 4 giugno 2020. Premessa doverosa: chiunque perda tempo a scrivere sui muri frasi offensive o è uno sfaccendato o un cretino. Spesso, entrambe le cose. Non sorprendiamoci: oltre ai leoni da tastiera, esistono ancora i leoni da parete. Bravi solo a imbrattare muri, con gusto estetico imbarazzante, e per di più con la codardia di non firmare, se non con simboli desueti, come croci celtiche o falci e martelli. Chiunque compia queste nefandezze andrebbe bollato col marchio di imbecille a prescindere che la sua mira politica sia di destra o di sinistra. Invece, nell' Italia dove certe ideologie sono "più uguali" delle altre, si grida all' attacco fascista se a venire bersagliata è una comunista, laddove si preferisce il silenzio se a essere insultata è una donna dello schieramento opposto. Il lungo preambolo ci serve a spiegare la diversità delle reazioni politiche di fronte a due manifestazioni simili di idiozia verbale (potremmo chiamarla "odiozia", una sintesi tra l' odio e l' idiozia) che hanno colpito il presidente di Fratelli d' Italia Giorgia Meloni e il ministro delle Politiche agricole Teresa Bellanova, ex comunista oggi nelle file di Italia Viva. Nei confronti di quest'ultima ieri è stato indirizzato, sui muri di Marsala in Sicilia, un messaggio non proprio amorevole che recitava: «Vox populi Bellanova zecca rossa», con tanto di croce celtica a fianco. Subito si sono levati i cori allarmati della sinistra che non solo condannavano il gesto, come giusto, ma evocavano il pericolo nero e chiedevano lo scioglimento delle organizzazioni di estrema destra (di quali poi, non era dato sapersi, dato che la scritta non era firmata).

Sentivi i colleghi di partito della Bellanova costruire teoremi fantapolitici: Davide Faraone parlava di «becerume» che «continua ad accanirsi con violenza contro la Bellanova» a causa di «una politica irresponsabile che con le sue parole dà fiato al branco»; mentre Gennaro Migliore ribadiva che «questa orrenda scritta non va sottovalutata» e «queste organizzazioni dell' odio e della paura vanno individuate e chiuse» (torniamo a chiedere: quali organizzazioni? Boh).

«Clima d' odio». Sentivi poi Maurizio Martina del Pd ripetere il messaggio originalissimo secondo cui questi «sono atti vergognosi frutto di un clima di odio che noi dobbiamo combattere, senza sottovalutarli» (ricordatevi: se colpiscono un politico di sinistra, le frasi non sono mai il prodotto di un singolo, ma sempre di un "clima di odio" alimentato da qualcun altro). Ovvietà recitate a memoria da Annamaria Furlan, segretario generale della Cisl, che giudicava le frasi «gravi e offensive, frutto di un clima avvelenato», e di un accanimento verso «una donna impegnata in politica». Il premio aforisma più brillante andava a Elena Bonetti, ministro per le Pari opportunità, convinta che «non sarà il linguaggio dell' odio a fermare l' impegno di chi crede nella vera politica» (di chi è questa? Confucio? Oscar Wilde? Gandhi?).

Generatore automatico Bene, tutto questo per dire che, se viene attaccata una di loro, la condanna a sinistra è unanime. Stranamente però, quando a essere colpita da insulti anche più pesanti è una donna di destra, i vari Migliore, Martina, Bonetti e compagnia scrivente non trovano il tempo di twittare, rilasciare una nota o fare un post. E si dimenticano pure della loro ferma condanna di ogni forma di sessismo. Verificare per credere. Il giorno prima, su un muro di Ostia, era stata lasciata una frase di odio contro la Meloni. Il messaggio, orrendo per grafia e contenuto, recitava: «Amico di Giorgia (riferito al ristoratore che di fronte ha un locale, ndr), fascisti di merda, Meloni troia», con a fianco il simbolo di falce e martello. Un rutto verbale spregevole, a cui si aggiungeva un elemento inquietante. Ai piedi della serranda veniva trovata una sorta di molotov, una bottiglia con del liquido rosso all' interno. Stranamente però tutti a sinistra tacevano. Nessuno deplorava il gesto, nessuno evocava il rischio di violenze fomentate dai partiti di estrema sinistra e nessuno chiedeva lo scioglimento di organizzazioni neo-comuniste. Ma tutto dipende dall' Italia a cui appartieni. Se sei una sorella d' Italia, be', chissenefrega. Se appartieni all' Italia viva, all' Italia democratica o all' Italia che vuole più Europa, parte il generatore automatico di solidarietà. Perché a sinistra no, non hanno mica pregiudizi ideologici

Davide Falcioni per fanpage.it il 29 gennaio 2020. Punita con decine di frustate alla schiena per aver fatto sesso prima del matrimonio. E' successo nella provincia di Aceh, in Indonesia, dove una donna è stata sorpresa nella stanza di un hotel insieme a un uomo. I due stavano avendo un rapporto sessuale senza essere ancora sposati e questo ha motivato la denuncia da parte delle autorità e la successiva condanna: a infliggere le fustigate una boia, donna anche lei, con il volto coperto da un velo per ragioni di sicurezza. La colpa della condannata – come detto – è stata quella di essere stata sorpresa in una camera d'albergo insieme a un uomo: lei non è sposata e per la Sharia avere rapporti sessuali prima del matrimonio è un "crimine morale" che va punito con le frustate. I colpi sferrati dalla donna mascherata sono scanditi da un militare della Sharia. Le frustate in pubblico sono diffuse ad Aceh, sull'isola di Sumatra, per reprimere diversi reati tra i quali il gioco d'azzardo, l'adulterio, il consumo di alcol, i rapporti sessuali omosessuali o pre coniugali. Fino a pochi mesi fa a punire le donne erano gli uomini: il governo indonesiano ha però deciso di costituire una squadra femminile. Sempre più donne, spiega Afp, sono accusate ad Aceh di avere rapporti sessuali prima delle nozze: internet e i social network rendono ancora più evidente il contrasto tra le leggi e il modo di vivere degli altri paesi. La conseguenza è che stanno aumentando le violazioni della "legge islamica" e di conseguenza anche le fustigazioni. Secondo la sharia le donne devono essere frustate da altre donne, come già succede nella vicina Malesia e adesso anche in Indonesia. Reperire personale che accettasse di svolgere questo compito non è stato però semplice per le autorità del paese asiatico.

Laura Laurenzi per il Venerdì- la Repubblica il 13 aprile 2020. Non sappiamo molto della vita di Barbara Loden. Chi era costei? Sappiamo che è nata sei anni dopo Marilyn Monroe, che era bionda come lei e come lei faceva la pin-up. Arriva a New York dalla Carolina del Sud - «terra di bifolchi», così lei definisce lo Stato in cui è nata - a soli 17 anni. A New York sbarca il lunario facendo la modella, fa anche la ballerina nei night club e canta al Copacabana, ma quando si iscrive all' Actors Studio la sua vita cambia di colpo.

Cambia il suo status: nel 1969 diventa la moglie di Elia Kazan, il leggendario regista di Fronte del porto, di Un tram che si chiama desiderio, di La valle dell' Eden. Mentre Barbara dirigerà e interpreterà un film, il solo da regista, che diventerà - lentamente, negli anni, quasi suo malgrado - un film di culto, un' opera fondamentale per il movimento femminista. «Uno dei migliori film indipendenti americani mai girati», lo loda oggi Richard Brody, critico cinematografico del New Yorker. Con il suo lungometraggio intitolato semplicemente Wanda, che suscitò l' entusiasmo di Marguerite Duras, Loden vince il premio Pasinetti della critica al Festival di Venezia del 1970. Un piccolo film, piccolo nel senso che piccolo, anzi microscopico, è il budget di un' opera che la vede non solo autrice, ma anche regista e protagonista assoluta. Wanda è ispirato a una notizia di cronaca, pubblicata peraltro con scarso risalto, che Barbara legge per caso su un quotidiano di provincia: una casalinga, dopo una rapina in banca in cui il suo complice resta ucciso, viene condannata a 20 anni di prigione. Prima di lasciare il tribunale la signora non solo accoglie con grande sollievo la condanna, ma ringrazia il giudice per il verdetto emesso. Perché lo fa? È questo il rovello che tormenta Barbara Loden. Quale dolore esistenziale può avere spinto quella povera donna a desiderare e ad apprezzare una detenzione così lunga? Perché tanta passività, tanta inerzia, tanto rassegnato fatalismo? Tutto ruota attorno al concetto di sottomissione e di alienazione sociale.

Tra autofiction e biografia. A mezzo secolo di distanza la scrittrice francese Nathalie Léger strappa Loden all' oblio e si sovrappone a questa storia, la storia raccontata nel film, reinterpretandola in una narrazione che diventa triplice. Il suo libro, appena uscito in italiano per La Nuova Frontiera, si intitola Suite per Barbara Loden e ha tre protagoniste, tre piani narrativi che si fondono, si incrociano, si stratificano. In un gioco di specchi che può diventare ipnotico, è la storia di una donna (la scrittrice Nathalie Léger) che racconta la storia di una donna (Barbara Loden) che racconta la storia di una donna (Wanda Goronski è il suo nome nel film, nella realtà si chiamava Alma Malone). Un' opera insolita che mescola autofiction e biografia, un ibrido che si muove fra docu-drama, memoir, saggio di critica cinematografica e romanzo. Lo stile è spoglio, il ritmo è serrato. Pagine che, un' inquadratura dopo l' altra, somigliano ad appunti di regia, con impietosi primi piani. Le lenzuola sono sporche, le luci ingiallite, il cielo sopra la piccola città mineraria in Pennsylvania è tetro. Siamo lontani dal glamour hollywoodiano. Quella di Wanda è una storia di inadeguatezza femminile che sembra destinata a espandersi e inglobare altre vite, altre esperienze. La protagonista è trasandata, è sciatta: nella prima scena del film, quando il giudice pronuncia il suo divorzio, si presenta in tribunale con i bigodini in testa. È una donna sconfitta, una moglie maltrattata, una madre mediocre che si lascia portare via i figli senza lottare. I bar in cui Wanda si rifugia sono «sul dirupo dell' infelicità, non un' infelicità piena di enfasi, non un' infelicità grandiosa agganciata alla Storia. No, un' infelicità scialba». A logorare Wanda è la fatica di non essere amata. Nathalie la paragona a una donna ritratta da Hopper, «una donna sola seduta sul letto di una camera d' albergo, china, un libro sulle ginocchia, semplicemente china sul vuoto». Ma cosa hanno in comune «quella donnetta della classe operaia bloccata ai margini della società» e la moglie di uno dei più importanti registi americani di cinema e teatro? si chiede l' autrice. Barbara Loden ha dichiarato di avere molte affinità con la protagonista del suo film che è quasi il suo doppio, il suo avatar, di aver provato anche lei lo stesso dolore, la stessa umiliazione, la stessa mancanza di motivazione.

Come Marilyn. Eppure vista dal di fuori la sua si direbbe una vita prodiga di gratificazioni, mentre Wanda resta impressa nel nostro immaginario come un personaggio anestetizzato, disadorno, umiliato da ogni uomo che incontra, una casalinga disperata, priva di voce, passiva, vinta, senza stimoli e senza autostima. Barbara invece, madre di due figli, ha una vita non certo priva di successi; nulla lascia presagire che a 48 anni morirà di cancro. Da giovanissima anche lei come Marilyn, con il nome d' arte Candy Loden, si è fatta immortalare nella posa classica della pin-up in costume da bagno, la chioma bionda rigogliosa, le gambe da sirena. «Da dove viene quella posa, in quale lontano boudoir del Neanderthal è stata inventata?», si chiede in un sussulto femminista Nathalie Léger. All' Actors studio di New York Barbara Loden ha preso lezioni di danza, di dizione, di canto. Nel '64 interpreta a teatro il personaggio ispirato a Marilyn Monroe nel dramma di Arthur Miller Dopo la caduta e si aggiudica un Tony Award, in barba di chi la ritiene una raccomandata, perché aveva recitato in due film diretti dal futuro marito, Splendore nell' erba e Fango sulle stelle. Nella sua autobiografia Elia Kazan definisce sua moglie «selvaggia, originale, insolente e dileggiatrice, e focosa con gli uomini. Ha una natura molto tenace, sa essere crudele e aggressiva, resistente al male». Non sembra il ritratto di una perdente. Lei ribatte: «Non fidatevi mai di un uomo, L' unica cosa che avete è il vostro corpo, fateli pagare».

Riabilitazione tardiva Le parole con cui Loden descrive se stessa e il proprio vissuto sono molto diverse da quelle usate da Elia Kazan. Sembrano studiate per creare una sorta di sorellanza con Wanda: «Non ero niente. Non avevo amici. Nessun talento. Ero un' ombra. A scuola non avevo imparato nulla. Sapevo a malapena contare e non amavo il cinema, mi faceva paura la gente così perfetta, mi faceva sentire ancora più inadeguata. Ho attraversato la vita come fossi autistica, convinta di non valere nulla. Per anni ho vissuto come una morta vivente». Ripete durante le interviste che non ha niente di grandioso da descrivere: «Nessun vento della Storia, niente tumulti politici, nessun dramma sociale esemplare». Racconta che non piange mai. All' uscita del film nel '70 le femministe non solo non plaudono ma restano indifferenti, quasi si schierano contro. Definiscono Wanda «una donna passiva, sottomessa, che sembra godere del proprio asservimento». Vedono in lei «una che non rivendica nulla e nemmeno crea contro-modelli militanti, nessuna presa di coscienza, nessuna nuova mitologia della donna libera. Niente». Tranne poi, con gli anni, correggere il giudizio fino a capovolgerlo e a identificare in Wanda addirittura un' eroina.

Quando il tuo ex sta con Lady Gaga: il racconto di una giornalista del «New York Times». Pubblicato venerdì, 28 febbraio 2020 su Corriere.it da Simona Marchetti. Sapere che il tuo ex esce con qualcun altro è spesso un duro colpo. Se poi questo qualcuno è Lady Gaga, l’autostima rischia di finire sotto i piedi, perché come ci si può paragonare a una star internazionale, per giunta premio Oscar? A vivere quest’esperienza è stata la giornalista del «New York Times», Lindsay Crouse, che il giorno dopo il Super Bowl ha scoperto che il suo ex ragazzo Michael Polansky, con cui era stata sette anni e da lei stessa definita «normale», era in realtà l’uomo misterioso che era stato paparazzato insieme con Lady Gaga, che aveva poi ufficializzato la storia su Instagram, postando una foto dove era seduta in braccio al nuovo compagno e accompagnata dalla dida «Ci siamo divertiti così tanto a Miami». Comprensibilmente sorpresa, ma molto meno traumatizzata di quanto ci si potrebbe aspettare, la 35enne Crouse ha così trasformato il gossip in un articolo per il sito del «NY Times» dal titolo «Il mio ex ragazzo è il nuovo ragazzo di Lady Gaga». «Un recente lunedì mattina stavo mangiando dell’uva alla mia scrivania, preparandomi a controllare la mia casella della posta, quando il mio telefonino ha iniziato a suonare», ha scritto la giornalista nel pezzo online, raccontando che gli amici hanno iniziato a tempestarla di messaggi dopo aver visto le foto della cantante e di Polansky insieme e che persino sua madre aveva letto della nuova coppia su una rivista. «Non seguo il mio ex sui social – ha continuato la Crouse – eravamo amici su Facebook, ma dopo che abbiamo rotto, lui mi ha bloccata, però seguo Lady Gaga su Instagram e ho visto un post dove era seduta sulle ginocchia del suo nuovo ragazzo. Gli amici del college hanno messo “mi piace”, insieme ad altre tre milioni di persone». In genere si pensa sempre che la vita dell’ex non sia migliorata dopo averci rotto, ma in questo caso le cose si sono rovesciate «perché come fai a paragonarti a Lady Gaga?», ha commentato infatti Lindsay che però, anziché farsi trascinare in una spirale di insicurezza (cosa che sarebbe stata anche legittima), ha trasformato la storia del suo ex con la cantante in una fonte d’ispirazione per se stessa. «Lady Gaga è fantastica e paragonarmi a lei è stato incredibilmente motivazionale ed è una cosa che raccomando a tutti, indipendentemente dalla persona con cui lei sta uscendo adesso», ha spiegato la Crouse che, detto fatto, invitata a una festa, anziché presentarsi con lo stesso vestito già indossato una dozzina di altre volte, è andata a fare shopping e si è comprata un abito favoloso «perché se Lady Gaga può fare quello che vuole, perché non posso farlo anche io?».

Donne che odiano le donne di successo. Alessandro Sallusti, Giovedì 19/12/2019, su Il Giornale. Dicono che il 2019 sia stato l'anno delle donne, da Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, a Mette Frederiksen, la danese più giovane premier di sempre, passando per Carola Rackete e, ovviamente, l'immancabile Greta. Per noi ometti è una stagione difficile, certo non piace a Sergio Vessicchio, fino a poche settimane fa oscuro giornalista di Agropoli. L'uomo si fa per dire prima ha dato di matto per la presenza di una guardalinee femmina in una partita di calcio locale, cosa che gli è costata la radiazione dell'Ordine dei giornalisti, poi l'altra sera ha sfogato il suo odio contro il gentil sesso dando di fatto e in diretta delle zoccole a Barbara D'Urso e alle sue ospiti durante l'ultima puntata di Live Non è la D'Urso su Canale5. Nella contesa che ne è seguita un'altra donna, Selvaggia Lucarelli, ha preso le parti di Vessicchio: «Sante parole riassumo il suo post a Vessicchio va ridata la tessera da giornalista». Non so se la Lucarelli moralista della lobby del Fatto Quotidiano, quella delle due morali, cioè una per loro e un'altra per noi parli in quanto esperta di zoccolaggine o di giornalismo, professione a cui è ufficialmente approdata solo lo scorso anno nel sottoelenco dei pubblicisti, nonostante da anni ci inondi di suoi scritti nessuno dei quali gli è valso il Pulitzer. Più probabilmente la Lucarelli, come tante donne, è soltanto accecata dall'invidia per le donne belle e di successo (è invece attratta dagli uomini di successo). Ha tentato con la Tv (Isola dei famosi, La Fattoria, varie trasmissioni di gossip più o meno trash e fallite), ma non è diventata né la D'Urso né la Parietti e si deve accontentare di fare la giurata a Ballando con le Stelle; ha provato con i social, ma non è diventata la Ferragni; le comparsate teatrali non l'hanno fatta diventare una novella Ottavia Piccolo; nel giornalismo la sua direzione di Rolling Stone è durata solo tre mesi e, a proposito di etica, è famosa per avere messo in circolo un video hot privato di una giovane Belen. Eppure e tralasciamo le vicende giudiziarie - pontifica manco fosse la Fallaci e chissà perché trova sempre, non dico grandi palchi, ma qualche soppalco disponibile a ospitarla per sfogare il suo odio. Lei si tenga pure stretto Vessicchio, che noi ci teniamo volentieri la D'Urso, una delle poche donne di successo che, come quasi tutti noi uomini, non odia le donne, né quelle di successo né quelle chiacchierate.

L’etica e la politica. «C'è un femminismo alleato della finanza che pensa solo all'1 per cento delle donne». Il neoliberismo progressista ha tradito gli operai. Il populismo reazionario è in seria ascesa. L’alternativa? Puntare su un nuovo femminismo. Antirazzista, ecologista, solidale. Parla la filosofa e femminista Nancy Fraser. Giuliano Battiston il 20 dicembre 2019 su L'Espresso. ImageUna nuova alleanza: un populismo di sinistra, egalitario, anti-capitalista, femminista, capace di riconoscere il valore del lavoro di cura, delle attività grazie alle quali forgiamo e manteniamo le relazioni sociali. È quel che propone Nancy Fraser, docente di Filosofia e Politica alla New School for Social Research di New York, per uscire dalla falsa alternativa tra il populismo reazionario e il neoliberismo progressista. Entrato in una profonda crisi di egemonia, il neoliberismo progressista ha tradito la classe operaia e revocato molte delle politiche che mantenevano in equilibrio la sfera della produzione economica con la sfera della riproduzione sociale, gettando le basi per l’affermazione del populismo reazionario. Può essere sconfitto, sostiene la studiosa statunitense Nancy Fraser, soltanto da un nuovo blocco egemonico che impari dal femminismo cosa significa oggi “lavoro”, “classe” e “lotta di classe”. In uno dei suoi ultimi libri, “Il vecchio muore e il nuovo non può nascere. Dal neoliberismo progressista a Trump e oltre” (Ombre corte 2019), lei adotta la categoria gramsciana di “interregnum” per analizzare la crisi attuale, che definisce multipla. Ci spiega meglio cosa intende? «C’è un ambito della crisi che è economico, uno finanziario, uno ecologico, poi una dimensione politica e sociale. Si tratta dunque di una crisi multipla. Ogni settore è in crisi e si interseca con gli altri convergendo in un sentimento diffuso: così non si può andare avanti. È la rottura del senso egemonico. Gramsci però ci insegna che una crisi non diventa storicamente generativa fino a quando non viene vissuta come tale e si decide di agire per cambiare l’ordine sociale. Per ora le reazioni vengono perlopiù da destra, dai movimenti populisti reazionari, ma non è troppo tardi per una risposta progressista. A condizione che si riconosca che la crisi del capitalismo finanziarizzato è anche la crisi sistemica di un particolare ordine sociale. La finanziarizzazione dell’economia ha cambiato la relazione tra il mercato e lo Stato, ha esasperato la crisi climatica e distrugge l’energia necessaria alla vita famigliare, alla solidarietà sociale, alla produzione e riproduzione dei legami sociali». Questo è un punto centrale per lei: nelle società capitalistiche ci sarebbe una tendenza inevitabile alla crisi del lavoro di cura, a dissipare la capacità di forgiare e mantenere i legami sociali. Cosa le fa credere che “il capitalismo è come una tigre che si morde la coda”? «Se smettiamo di pensare al capitalismo solo come a una forma di economia e teniamo conto della più ampia società che lo rende possibile, ci accorgiamo che le relazioni di solidarietà e affetto, i legami personali, anche sessuali, sono condizioni preliminari: i lavoratori vanno “creati”, chi produce valore per il capitale va protetto e curato. Il capitalismo ha diviso lo spazio della produzione economica - fabbriche o uffici - dallo spazio intimo dove si svolge il lavoro di cura e di riproduzione sociale. Si affida a quegli input ma ne disconosce il valore. Da qui la crisi della riproduzione sociale, che oggi ricorda l’inizio del capitalismo industriale. La risposta allora fu il capitalismo socialdemocratico, che tassava il capitale e affidava allo Stato le politiche per un miglior equilibrio tra produzione e riproduzione, così da evitare che il capitale si mangiasse la coda. Il capitalismo finanziarizzato ha cancellato molte di quelle politiche. E si morde la coda». La divisione tra produzione economica e riproduzione sociale ha funzionato anche come base istituzionale per la subordinazione delle donne...«La produzione è maschile, la riproduzione femminile. Così racconta una certa interpretazione culturale e ideologica. La realtà è diversa, ma rimane il fatto che quella divisione è stata cruciale nella disuguaglianza di genere, perché ha assicurato la dominazione maschile e la subordinazione femminile nella società capitalistica». In “Femminismo per il 99%. Un manifesto”, scritto con Cinzia Arruzza e Tithi Bhattacharya (Laterza 2019), sostenete che l’obiettivo politico del libro è una “operazione salvataggio” del femminismo liberale, divenuto un ostacolo all’emancipazione e un alibi per il neoliberismo. Perché lo rigettate? «Il femminismo liberale è una sorta di partner progressista di Wall Street, della finanza, del capitalismo digitale. Si limita a voler condurre le donne nelle posizioni di potere. È rappresentato in modo esemplare da Hillary Clinton o Christine Lagarde. Pensa all’1 per cento, ma non fa nulla per il 99 per cento delle donne, sempre più schiacciate dalla crisi. Il femminismo del 99 per cento è invece l’ala femminista del populismo progressista. Se vogliamo creare un blocco controegemonico, un’alternativa alla falsa scelta tra populismo reazionario e neoliberismo progressista, occorre un femminismo diverso. E una rinascita delle campagne sindacali per tenere insieme lavoratori organizzati e non organizzati, inclusi i lavoratori domestici, quanti svolgono lavori di cura». Secondo la sua lettura, le condizioni per l’affermazione del populismo di destra sono state poste da quello che definisce come “neoliberismo progressista”. Di cosa si tratta? «È la combinazione tra politiche economiche regressive e predatorie e politiche del riconoscimento dei diritti delle minoranze in chiave liberal-meritocratica. In apparenza progressiste, servono in realtà da alibi all’economia estrattiva. Negli Stati Uniti il blocco egemonico del neoliberismo progressista si è consolidato sotto la presidenza di Bill Clinton; in Europa, sotto i governi socialdemocratici. Clinton voleva un nuovo Partito Democratico, che archiviasse il “New Deal” di Roosevelt e le politiche keynesiane, appoggiandosi non più al settore manifatturiero, ma all’economia digitale, a Wall Street, alla Silicon Valley, etc. Settori con un ethos cosmopolita e globale, considerati l’avanguardia del capitalismo, che andavano collegati con i movimenti sociali con un ethos simile, dai gruppi femministi agli anti-razzisti, dagli ambientalisti ai gruppi LGBT. L’alleanza ha avuto successo, ma sul versante dell’economia politica ha coinciso con liberalizzazione, finanziarizzazione, deindustrializzazione del “Nord globale” e capitali liberi».

I risultati sono stati drammatici. Per la sinistra e per la classe operaia...«Dopo circa 30 anni di egemonia di questo blocco, la classe operaia tradizionale è stata duramente colpita, i sindacati distrutti o indeboliti, i salari ridotti, l’impiego reso precario. Anziché il posto fisso c’è stata una straordinaria espansione del debito da consumo, debito da carta di credito, debito studentesco, debito del mutuo sulle case. Il vecchio New Deal si basava sull’assunto che i lavoratori dell’economia industriale avrebbero potuto godere di una vita decente, mandare i propri figli all’università, assicurargli una vita migliore. Oggi queste promesse sono in frantumi. E la classe lavoratrice è in rivolta». Colonizzata dal neoliberismo, la sinistra avrebbe rinunciato all’egalitarismo e all’idea di abolire o modificare la gerarchia sociale in favore della meritocrazia, che avalla lo status quo. Ci spiega meglio? «Nell’era socialdemocratica, l’idea di uguaglianza includeva l’idea di un lavoro sicuro, della piena occupazione, dell’essere a pieno titolo membri della società. Oggi non c’è più l’idea dell’uguaglianza come piena inclusione e partecipazione, ma l’idea che i membri delle minoranze possano godere, a titolo individuale, dell’opportunità di ottenere posizioni ai vertici della gerarchia sociale, che rimane immutata, non va abolita. È una parità senza uguaglianza. I movimenti nati all’interno della “New Left” americana sono gravitati sempre più verso il neoliberismo, adottandone la postura meritocratica. Dagli anni Settanta non c’è stato alcun ampio movimento di sinistra nella politica americana fino al 2011, grazie a Occupy Wall Street, e poi nel 2016 con la campagna elettorale di Bernie Sanders, che ha proposto un’alternativa populista progressista». Lei invoca da tempo un populismo di sinistra, perché ritiene che combattere il populismo di destra da posizioni liberali equivalga alla sconfitta. Ma spesso ha anche auspicato la nascita di movimenti progressisti transnazionali. Non c’è contraddizione tra le due cose? Anche se di sinistra, il populismo non tende al nazionalismo esclusivo? «Il problema c’è. Ma populismi di destra e populismi di sinistra vanno distinti. Per il populismo di destra la società è composta da tre parti. Una classe di élite, il vero potere che monopolizza la ricchezza, poi la sezione centrale della società composta da “veri americani” o “veri italiani”, e una sottoclasse che sottrae risorse alla “vera gente”: gli immigrati, i musulmani, i messicani, etc. Il populismo di destra difende la gente di mezzo, schiacciata tra l’alto e il basso. Per il populismo di sinistra ci sono solo due parti, l’élite che monopolizza ricchezza e potere e poi tutti gli altri: il 99 per cento contro l’1 per cento. La seconda differenza è che il populismo di destra ritrae i nemici della “vera gente” in termini concreti e identitari, spesso nazionalistici. Nel mezzo c’è il vero italiano, in cima ci sono gli ebrei, i bolscevichi o chi per loro, sotto gli africani, gli arabi, i musulmani. Il populismo di sinistra invece li raffigura in termini funzionali, a partire dal ruolo ricoperto, in chiave strutturale. L’1 per cento non è identitario, è numerico. Una differenza importante. Ma rimane il fatto che i movimenti populisti di sinistra non hanno ancora elaborato una posizione chiara e netta sull’immigrazione. Spero lo facciano presto». L’altra cosa da fare - così suggerite in “Femminismo per il 99%” - è prendere lezioni dal movimento femminista, che avrebbe creato una nuova forma di politica, ridefinendo i concetti di “lavoro”, “classe” e “lotta di classe”. In che modo il femminismo può contribuire alla mappa politica del “nuovo blocco controegemonico”? «Gli scioperi femministi dell’8 marzo sono centrali nelle proteste contro l’austerity. Le manifestanti e i manifestanti chiedono investimenti nella riproduzione sociale, per la salute, la casa, la sicurezza ambientale, la scuola pubblica. Chiedono che venga riconosciuto il valore del lavoro di riproduzione sociale, socialmente necessario ma non salariato. La conseguenza è cruciale: se il lavoro non è solo quello svolto in una fabbrica e salariato, il concetto di classe si allarga: fa parte della classe lavoratrice chiunque svolga un lavoro socialmente necessario. La sinistra dovrebbe ripartire da qui. Dal punto di vista generale, la strategia è conquistare alla nuova alleanza del populismo di sinistra le femministe e gli attivisti gay, gli antirazzisti e quanti lottano contro il cambiamento climatico. E rompere l’alleanza populista reazionaria conquistando quella parte di classe operaia tradizionale gravitata a destra, riconducendola a sinistra. Molti vengono proprio da qui. Ma sono stati traditi dal neoliberismo progressista».

·        Il Metoo.

Silvia Luperini per “la Repubblica” il 19 dicembre 2020. Con 96 voti a favore e nessun contrario è stata approvata ieri dal Folketing, il Parlamento unicamerale danese, la legge che penalizza il rapporto sessuale se non c'è stato un consenso esplicito delle persone coinvolte. «Ora sarà chiaro che se entrambe le parti non sono d'accordo, si tratta di stupro», ha dichiarato il ministro della Giustizia, Nick Haekkerup spiegando che il consenso si può esprimere a parole o «indirettamente». Finora, lo stupro, per essere considerato tale in Danimarca, doveva essere accompagnato da prove di violenza fisica, minacce, coercizione o dall'impossibilità per la vittima di opporre resistenza. La mancata resistenza è da sempre una questione controversa, ma - secondo gli esperti - "la paralisi involontaria" o il "raggelamento" sono una risposta fisica e psicologica molto comune di fronte a un'aggressione sessuale. «A questo giorno storico non si è arrivati per caso, ma grazie ad anni di campagne delle vittime che, raccontando le loro storie dolorose, hanno contribuito a far sì che altre donne non dovessero vivere lo stesso incubo», ha sottolineato Anna Bu, ricercatrice di Amnesty International sui diritti delle donne. La legge che verrà ratificata il primo gennaio, dopo la firma della Regina, è stata una battaglia dell'organizzazione internazionale che dal 2008 denuncia il paradosso di un Paese che pur avendo una reputazione legata all'uguaglianza di genere ha uno dei più alti tassi di stupro in Europa, leggi antiquate e inadeguate. Nel Paese che nel 2019 ha eletto la più giovane prima ministra della sua storia, la socialdemocratica Mette Frederiksen, lodata per la gestione intelligente della pandemia e iniziative come la videoconferenza stampa per i bambini sul Covid (salvo scivolare sul pasticcio dei visoni abbattuti), prima del 2013 non veniva giudicato come stupro un rapporto in cui la vittima non poteva opporre resistenza perché incosciente. E finora, solo quattro denunce di stupri su 10 arrivavano davanti al giudice. Secondo dati del ministero della Giustizia, ogni anno in Danimarca 11.400 donne sono sottoposte a stupro o a tentato stupro, ma l'Università della Danimarca del Sud stima che il numero sia circa il doppio. Ciò nonostante, nel 2019, 1.017 stupri sono stati denunciati alla polizia e solo 79 sono giunti a una condanna. Un'inezia. Dal 2021, la Danimarca sarà il dodicesimo Paese europeo a riconoscere che il sesso senza consenso è uno stupro. Una decisione che, per Anna Bu, «la rende un esempio per altri Paesi in Europa che hanno a cuore l'accesso alla giustizia per le vittime di stupro e la vera parità di genere». La "legge del consenso" si è rivelata decisiva in Svezia che l'ha adottata nel 2018 portando a un aumento del 75% delle condanne per stupro. È andata così a raggiungere Belgio, Croazia, Cipro, Germania, Grecia, Islanda, Irlanda, Lussemburgo, Malta, Svezia e Gran Bretagna. E in Italia? Malgrado l'impegno preso nel 2013 alla Convenzione di Istanbul, il nostro codice penale prevede che il reato di stupro sia «necessariamente collegato agli elementi della violenza o della minaccia o dell'inganno, o dell'abuso di autorità». Di consenso, per ora, non c'è traccia. 

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 18 dicembre 2020. Una storia per capire come spesso la giustizia non sia altro che la continuazione della politica con altri mezzi. «Chambre 2806: l'affaire Dsk» è la nuova docu-serie del regista francese Jalil Lespert, in quattro puntate, che racconta il caso di presunta violenza sessuale che ha coinvolto il politico francese Dominique Strauss-Kahn, in quei giorni all'apice della sua carriera. Era capo del Fondo monetario internazionale (Netflix). Maggio 2011, la polizia arresta a New York Dsk, l'acronimo con cui Strauss-Kahn è noto in Francia: una cameriera del lussuoso hotel Sofitel di Manhattan lo accusa di stupro. Quattro giorni dopo, Dsk si dimette dall'Fmi. Lo sostituisce Christine Lagarde. Lo scandalo gli costerà anche la corsa all'Eliseo nel 2012: Dsk era ritenuto uno dei candidati di punta del partito socialista francese, i sondaggi erano tutti a suo favore. Al suo posto vincerà Francois Hollande, battendo Nicolas Sarkozy, in questi giorni, peraltro, rinviato a giudizio per traffico di influenze. A luglio 2011, la svolta nell'indagine: gli investigatori rilevano incongruenze tra il racconto della cameriera e quello di Dsk. Inoltre, secondo il procuratore la donna ha mentito. Vengono così revocati i domiciliari al direttore e la cauzione viene restituita. Ad agosto 2011, la Procura di New York archivia le accuse nei suoi confronti e nel 2012 viene chiusa anche la vertenza civile con la cameriera dell'hotel. La donna riceve un indennizzo concordato davanti al giudice. Il documentario ci fa capire come questo caso sia stato molto più che un fatto di cronaca, una storia di liberazione dei movimenti femministi: «È l'affaire Dsk che ha lanciato il movimento #MeToo», sostiene un'intervistata. Che poi, alla fine, Dsk, non certo uno stinco di santo nel ruolo di seduttore, sia stato assolto da accuse infamanti diventa quasi irrilevante. Molto più rilevante, invece, che oggi si dia spazio a tesi innocentiste.

Diana Alfieri per “il Giornale” il 18 dicembre 2020. È stato arrestato all' aeroporto Charle De Gaulle di Parigi, mentre si apprestava a prendere un volo per Dakar, in Senegal. Probabilmente una fuga, che ha fallito per pochi minuti, come nei film. Jean-Luc Brunel, 74 anni, uno dei più famosi agenti di modelle di Francia, è accusato di aver procurato compagnie femminili all' imprenditore americano Jeffrey Epstein, di cui era fraterno amico. Epstein fu trovato morto il 10 agosto 2019 nel Metropolitan Correctional Center, il carere newyorkese in cui era detenuto da un mese per le accuse di traffico di minorenni. La sua morte è ancora un giallo: un ufficiale medico la refertò come un suicidio ma molti elementi fanno tuttora pensare a un omicidio. Brunel, il cui vero nome è Jean-Luc Benchamoul, è noto in Francia per aver fondato l' agenzia Karin Models e, con Epstein, la MC2 Model Management. famoso soprattutto come talent scout, ha scoperto tra le altre Sharon Stone, Christy Turlington e Milla Jovovich. È accusato di aver reclutato giovani donne per conto di Epstein, di stupro, abusi sessuali e traffico di donne. Lui nega qualsiasi addebito, ma è indubbio che abbia coltivato per molti anni uno stretto rapporto di lavoro e di amicizia con Epstein, il quale aveva a Parigi un lussuoso appartamento nei pressi dell' Arc de Triomphe, perquisito l' anno scorso dalla polizia francese come gli uffici della Karin Models. Nell' agosto 2019 la procura di Parigi aveva aperto un'indagine per violenza sessuale e abusi sessuali contro Epstein, sospettato di aver commesso alcuni dei suoi reati anche in territorio francese e contro vittime francesi. Gli stessi magistrati avevano messo sotto stretta osservazione anche Brunel, sospettato di aver procurato al miliardario americano donne giovani, spesso minorenni, e molto attraenti. Del resto Brunel era sempre circondato da bellezze mozzafiato e il compito non deve esser stato arduo. Il suo avvocato Corinne Dreyfus-Schmidt aveva recisamente respinto l'ipotesi di un coinvolgimento dello scout di modelle nella vicenda e aveva detto che il suo cliente era disponibile a essere ascoltato dai magistrati. Una voglia che evidentemente deve essergli nel frattempo passata, se è vero che Brunel era in procinto di mettere qualche migliaio di chilometri tra lui e la Francia. L' inchiesta aveva comunque portato a numerosi interrogatori, anche se molti dei presunti crimini erano nel frattempo caduti in prescrizione. Di certo il clima attorno a Brunel si è nel corso dei mesi decisamente deteriorato. «Le vittime attendevano da tempo l' arresto di Jean-Luc Brunel - ha detto Anne-Claire Lejeune, avvocato di alcune delle vittime delle presunte violenze - e accolgono con sollievo questa custodia cautelare, confidando nel fatto che il seguito della vicenda darà loro finalmente giustizia». Nel corso di una precedente inchiesta contro Epstein negli Stati Uniti, risalente al 2007, Brunel era stato già chiamato in ballo come «fornitore» di giovani donne per il finanziere americano. In particolare la specialità dell' agente sarebbe stata quella di «spedire» negli Stati Uniti giovani bellezze dai natali modesti, a cui prometteva un futuro di successo nel mondo della moda.

Antonio Palma per fanpage.it il 18 dicembre 2020. Otto mesi di reclusione ma libero grazie al beneficio della condizionale, questa la condanna inflitta dal Tribunale di Parigi a Monsignor Luigi Ventura, ex nunzio apostolico in Francia finito a processo con l’accusa di aggressione sessuale su diversi uomini durante il suo mandato. Una pena inferiore a quella proposta dall’accusa che per lui aveva chiesto 10 mesi di carcere con la condizionale. Lo scandalo era scoppiato nel febbraio del 2019 quando, in mezzo a molteplici scandali sessuali che hanno colpito la Chiesa cattolica, un ragazzo si era fatto avanti denunciando di essere stato molestato a più riprese dal prelato e ambasciatore della Santa sede in Francia. Si tratta dell'aggressione ad un funzionario comunale che Ventura avrebbe compiuto all'inizio dell’anno scorso durante un ricevimento organizzato dal municipio di Parigi per tutte le autorità civili e diplomatiche. La vittima aveva raccontato di mani sui glutei in almeno tre occasioni durante la cerimonia di auguri alle autorità diplomatiche. Poco dopo si erano fatti avanti altri quattro uomini, tra cui un altro funzionario vittima della stessa scena l’anno precedente. I fatti contestati a Monsignor Ventura risalgono al periodo che va dal 2018 al 2019 cioè nel pieno delle sue funzioni di nunzio apostolico. Secondo l’accusa, in diverse occasioni e durante i suoi impegni diplomatici e pubblici in Francia il prelato avrebbe messo in atto molestie sessuali ai danni di alcuni giovani con palpeggiamenti e commenti a sfondo sessuale. Tra di loro anche un seminarista di 20 anni che ha riferito palpeggiamenti durante e dopo una messa. Accuse che hanno scatenato furibonde polemiche ma che si sono trasformate in procedimento giudiziario solo nel luglio dello scorso anno dopo che il Vaticano ha revocato l’immunità al nunzio. Il 76enne Ventura, che si è poi dimesso dal suo incarico su invito del Vaticano, dal suo canto ha sempre rigettato ogni accusa ma non si è mai presentato davanti ai giudici dopo l’inizio del processo il 10 novembre scorso. L'ex nunzio ha prodotto una nota medica in cui affermava che era troppo pericoloso per lui viaggiare da Roma a Parigi in piena pandemia di coronavirus.  Per questo è stato condannato in contumacia. La condanna prevede anche l’iscrizione nel registro degli autori di reati sessuali, il pagamento di 13mila euro di danni morali a quattro delle vittime che si son costitute al processo e il pagamento di 9mila euro di spese legali.

Matteo Persivale per il “Corriere della Sera” il 17 dicembre 2020. Abbronzatissimo 365 giorni l' anno, il ciuffo architettonicamente phonato e i lunghi capelli bianchi sciolti sulle spalle genere «Tarzan» da playboy fuori tempo massimo, le giacche di sgargiante velluto celeste o rosso pompeiano o di lucida pelle nera (amava anche le camicie, di pelle nera, ton su ton, aperte fin poco sopra l' ombelico), il sorriso perenne bianchissimo e riflettente le luci dei flash dei paparazzi, le ragazze giovanissime al suo fianco sui jet privati e nella villona alle Bahamas, gli amici famosi, il patrimonio che sfiorava il miliardo di dollari, i negozi di vestiti sparsi per il Nord America, il doppio quartier generale a cinque stelle a Times Square e a Toronto. La vita di Peter Nygard, 79 anni, pioniere della moda canadese, sembrava la classica storia di successo d' un immigrato (nato in Finlandia) che diventava ricco nel Nuovo Mondo. Ma il 2020 è stato l' anno della caduta, in due tempi, rovinosa e probabilmente irrimediabile: a febbraio il raid dell' Fbi e della polizia di New York negli uffici di Manhattan con i computer e i server sequestrati, adesso l' arresto in Canada e l' incriminazione in attesa di estradizione negli Usa. Le accuse, gravissime: associazione per delinquere, violenza sessuale a danno di ragazze minorenni. Le accusatrici, almeno dieci, hanno raccontato versioni quasi identiche della stessa storia: attirate a New York o alle Bahamas da promesse di lavoro come modelle, drogate, sottoposte poi a abusi e violenze. Nei tribunali canadesi telecamere e fotografie sono vietate: c' è un disegno, neanche troppo ben realizzato, di Nygard l' altro ieri in piedi davanti al giudice che ne confermava il fermo, la mascherina, il ciuffo per la prima volta appiattito sulla testa e l' imprenditore che per la prima volta dimostra i suoi quasi 80 anni. La tesi della Procura del distretto Sud (otto contee) dello Stato di New York, la stessa che indaga anche sugli affari di Donald Trump: Nygard avrebbe utilizzato l' influenza della sua società ormai defunta, la Nygard International, l' aiuto di dipendenti dell' azienda e fondi «corporate» per «reclutare e mantenere vittime di sesso femminile, adulte e minorenni» attraverso un periodo di almeno 25 anni per la «gratificazione sessuale» sua e «dei suoi amici e soci in affari». Di più: Nygard avrebbe preso di mira donne e ragazzine «provenienti da contesti economici svantaggiati» alle quali avrebbe fornito droga, tenute controllate «tramite la forza, la frode e la coercizione». Alcune di queste «girlfriend» (così le definiva) erano sul libro paga della Nygard International come modelle, o «assistenti». Nygard International ha dichiarato bancarotta a marzo, un mese dopo il raid newyorchese. I marchi dell' azienda - Nygard, Nygard Slims, Bianca Nygard, Adx TanJay, Alia e Allison Daley, cioè il lavoro della vita di N ygard dal 1967 a oggi - sono stati messi in vendita. L'attenzione spasmodica dei tabloid britannici per la vicenda ha un motivo: non soltanto perché il Canada (indipendente a pieno titolo dal 1982) è ancora parte del Commonwealth e tecnicamente Elisabetta II è Regina anche del Canada; ma perché tra i molti ospiti famosi del villone di Nygard (progettato in stile maya) c' era anche il principe Andrea, già in gravissima crisi di immagine (e, non è impossibile, con eventuali ramificazioni legali) per la frequentazione con il miliardario americano Jeffrey Epstein, suicida in cella a New York (nell' agosto 2019) dove attendeva il processo per stupro di minori. Perfino The Sun ha dovuto ammettere che «non c' è prova che il principe sapesse delle presunte attività criminali di Nygard», ed è vero che visitò la villa nel 2000 insieme con Sarah Ferguson. Ma anche l' amicizia con Epstein sembrava un legame professionale dovuto al ruolo (ora cancellato) di Andrea come ambasciatore commerciale britannico.

Da "repubblica.it" il 14 dicembre 2020. Il governatore di New York, Andrew Cuomo, è stato accusato di molestie sessuali da una sua ex collaboratrice attualmente candidata a presidente di un distretto di Manhattan, Lindsey Boylan. Lo riferisce la stampa Usa. In una serie di tweet, la donna ha accusato Cuomo di averla molestata "per anni", quando quest'ultima lavorava al suo fianco come vicesegretaria per lo sviluppo economico e consigliere speciale del governatore, tra il 2015 e il 2018. "Molti l'hanno visto e sono rimasti a guardare", ha scritto Boylan. "Non sapevo mai cosa aspettarmi. Se messa sulla graticola per il mio lavoro (che svolgevo con grande professionalita') o molestata per il mio aspetto. O magari entrambe le cose nel corso della stessa conversazione", ha scritto la donna, che come Cuomo e' un'esponente del Partito democratico. La portavoce del governatore, Caitlin Girouard, ha dichiarato ad "Nbc News" che le accuse di Boylan sono "semplicemente prive di fondamento". Boylan ha descritto l'amministrazione Cuomo come un "ambiente di lavoro tossico", aggiungendo che i collaboratori del governatore "ne sono spaventati a morte". Prima di candidarsi al Congresso, Lindsey Boylan, 36 anni, ha lavorato come vice segretaria per lo sviluppo economico e come consigliere speciale del governatore.

Da repubblica.it il 21 novembre 2020. Sting alle prese con l'accusa di aver avuto rapporti sessuali con una minorenne. Lo rivela Yahoo Entertainment citando un'azione legale presentata in un tribunale dell'Arizona. I fatti sarebbero accaduti oltre 40 anni fa, nel 1979. Secondo l'azione legale, che coinvolge anche gli altri componenti dei Police, il cantante inglese, il cui vero nome è Gordon Summer, avrebbe avuto dei rapporti sessuali con una quindicenne, Jane Doe (nome fittizio), dopo un concerto con i Police a Scottsdale il 14 maggio del 1979.  Attraverso il suo avvocato Sting ha negato l'accaduto, sostenendo di non conoscere la Doe. Ha inoltre affermato di aver appreso per la prima volta delle accuse da un comunicato stampa dello studio legale che rappresenta la donna. Secondo la denuncia, la donna non identificata, che attualmente risiede in California, prese parte ad un evento organizzato presso un negozio di dischi per i Police i quali all'epoca stavano promuovendo il loro secondo album. Lì incontrò il frontman e presumibilmente gli disse che aveva 15 anni. La stessa sera la ragazza partecipò ad un concerto della band in Arizona. Sting e i suoi compagni, tra cui Stewart Copeland e Andy Summers, andarono tra il pubblico per salutare i fan e la Doe sostiene che fu avvicinata dal cantante che dopo una breve conversazione le chiese di sedersi sulle sue gambe durante l'inizio del concerto. Dopo lo spettacolo Doe sostiene che Sting, all'epoca 27enne e sposato con la prima moglie Frances Tomelty, la invitò ad una festa in un'abitazione privata a Phoenix. Durante la festa Sting avrebbe iniziato a baciarla e a toccarle seno e parti intime, mentre lei continuava a dire di avere 15 anni e di essere vergine. Dopo la festa la ragazza sarebbe stata portata nell'albergo dove alloggiava la band: nella stanza di Sting ci sarebbero stati sia sesso orale sia penetrazione. Secondo la denuncia la ragazza da minorenne non poteva dare e non diede il suo consenso volontario. Dopo la presunta violenza sessuale la ragazza fu messa in un taxi e mandata a casa. Da allora i due non si sono più visti, tuttavia sempre secondo quanto si legge nell'azione legale Sting scrisse subito dopo Don't Stand So Close to Me, che parla di una giovane donna che prova del desiderio per il suo insegnante. Ora la richiesta a suo carico è di un processo con giuria e danni per oltre 75 mila dollari.

Da lastampa.it l'8 novembre 2020. Il fondatore di Facile.it, Alberto Genovese, 43 anni, è stato fermato a Milano con le accuse di violenza sessuale, spaccio di droga e sequestro di persona. Lo apprende l'AGI da fonti qualificate. L'arresto è scattato ieri sera alle 23.30 circa, quando l'imprenditore è stato bloccato, dopo la denuncia della vittima, una ragazza di 18 anni. Secondo quanto ricostruito, i fatti si sarebbero verificati il 10 ottobre, quando la giovane donna si trovava in casa dell'imprenditore per una festa a base di alcol e droga. Nella notte sarebbe stata drogata, costretta in camera da letto, mentre un bodyguard sorvegliava la porta, e seviziata in stato di incoscienza. Le violenze sarebbero andate avanti a lungo: la giovane donna sarebbe stata anche ammanettata, legata, e violentata, mentre gridava aiuto. Solo un giorno dopo, quando ha ripreso coscienza, è stata trasportata dal 118 alla clinica Mangiagalli, che ha accertato lo stupro: a soccorrerla anche la polizia. Le indagini hanno appurato che in casa dell'uomo c'erano diverse dosi di Mdma, chetamine e altre droghe, come la potente 2CB, o cocaina rosa. A corroborare le ipotesi investigative le tracce trovate nella stanza. 

Arrestato per violenza sessuale Alberto Genovese, fondatore di Facile.it. Notizie.it l'8/11/2020. Il fondatore di Facile.it Alberto Genovese è stato arrestato nella notte a Milano con l'accusa di violenza sessuale ai danni di una ragazza 18enne. Alberto Genovese è stato arrestato nella notte a Milano con l’accusa di violenza sessuale ai danni di una ragazza di 18 anni. Il 43enne fondatore del celebre sito Facile.it è stato fermato intorno alle ore 23:30 di sabato 7 novembre a seguito della denuncia sporta dalla stessa 18enne. Genovese è accusato anche dei reati di spaccio di sostanze stupefacenti e sequestro di persona in relazione a fatti avvenuti lo scorso 10 ottobre, quando la vittima aveva partecipato a una festa a base di alcol e droga organizzata nell’abitazione dell’imprenditore. Secondo la ricostruzione degli eventi eseguita dalle forze dell’ordine, la giovane ragazza sarebbe stata dapprima drogata in modo farle perdere conoscenza e in seguito condotta in una camera da letto dove sarebbe stata successivamente legata, violentata e seviziata dall’imprenditore; il tutto mentre una guardia del corpo sorvegliava l’ingresso della stanza evitando che qualcuno potesse entrare. La ragazza sarebbe stata poi finalmente soccorsa soltanto la mattina seguente, quando l’effetto della droga era ormai svanito e aveva ripreso conoscenza nonché memoria dell’accaduto. Una volta chiamato il 118 la giovane è stata trasportata presso il policlinico Mangiagalli di Milano, dove i medici hanno potuto accertare l’avvenuto stupro ai suoi danni. Nel corso delle indagini portate avanti dalle forze dell’ordine nell’abitazione di Genovese inoltre, gli agenti hanno rinvenuto diverse dosi di svariate sostanze stupefacenti, tra cui Mdma, Ketamina e persino la potente 2CB, meglio nota come la cocaina rosa.

Alberto Genovese, la confessione: “Sono tossicodipendente da 4 anni”.  Notizie.it il 09/11/2020. Il fondatore di Facile.it Alberto Genovese si confessa. Da quattro anni è tossicodipendente e vorrebbe disintossicarsi. Il fondatore di Facile.it Alberto Genovese si confessa. Da quattro anni assume sostanze stupefacenti e vorrebbe disintossicarsi. Una situazione che ha specificato, lo porterebbe a non riconoscere la linea di demarcazione tra ciò che che è legale e ciò che è invece illegale. Secondo quanto riportato da prime indiscrezioni infatti, l’imprenditore che è stato messo in stato di arresto in seguito all’accusa di sequestro di persona, lesioni, spaccio e violenza sessuale, avrebbe violentato la ragazza per una notte e per circa tutto il giorno dopo. Secondo quanto riportato da alcune indiscrezioni, Genovese non avrebbe risposto alle domande poste dal giudice pur tuttavia dando delle dichiarazioni che possono essere definite spontanee. In particolare ha parlato della sua condizione da tossicodipendente, che secondo quanto dichiarato dall’imprenditore sarebbe comunque legata alla violenza sessuale perpetrata alla 18enne. “Voglio disintossicarmi, perché da 4 anni sono tossicodipendente. Quando mi drogo perdo il controllo e non riconosco il confine tra legale e illegale”, queste le parole del fondatore di Facile.it Alberto Genovese nel corso di una videoconferenza dal carcere di San Vittore. Oltre a ciò il fondatore ha chiesto di poter trascorrere assieme alla compagna e alla madre gli arresti domiciliari, auspicando, inoltre di poter scontare una pena che sia rieducativa e che possa quindi guarirlo. In ogni caso il gip avrà tempo fino alle 11.30 del 9 novembre per depositare la sua decisione sulla misura cautelare da adottare. In seguito all’arresto di Alberto Genovese, Facile.it ha tenuto a precisare in una nota ufficiale che quest’ultimo ha lasciato la società nel 2014 e pertanto non ricopre più alcun ruolo nella società. L’azienda ha poi precisato: “Per rispetto di tutte le persone coinvolte nella vicenda, riteniamo che al momento sia corretto non commentare oltre. Ancora una volta in merito a informazioni imprecise pubblicate da alcune testate ricordiamo che la proprietà di Facile.it è detenuta oggi dal fondo di investimento EQT e dal fondo Oakley”.

Luca Sablone per ilgiornale.it l'8 novembre 2020. Guai per Alessandro Genovese, fermato a Milano ieri sera alle 23.30 circa in seguito alla denuncia della vittima. L'arresto è scattato dopo la testimonianza di una 18enne che il 10 ottobre sarebbe stata ospite nella casa dell'imprenditore - un appartamento di lusso a due passi dal Duomo, con telecamere di videosorveglianza in ogni stanza - per una festa a base di alcol e droga. Stando a quanto apprende l'Agi da fonti investigative, la ragazza sarebbe stata soccorsa la sera dopo, quando è riuscita a prendere coscienza ed è riuscita a scappare; uscendo dall'abitazione ancora dolorante, semisvestita e con una sola scarpa, avrebbe chiesto aiuto alla polizia che l'ha poi aiutata in strada. Le accuse nei confronti dell'uomo sono di violenza sessuale, lesioni, spaccio di droga e sequestro di persona. La giovane sarebbe stata portata in camera da letto al termine di un festino, narcotizzata e abusata a lungo; un bodyguard che controllava l'accesso alla stanza avrebbe impedito alle amiche di entrare e di avere notizie. Successivamente l'intento del fondatore di Facile.it sarebbe stato quello di fuggire all'estero con un jet privato: l'altro ieri si sarebbe recato all'ufficio Passaporti per ottenere il rilascio del documento, ed è proprio questo che configura il concreto pericolo di fuga. Secondo gli investigatori della squadra Mobile coordinati dalla pm Rosaria Stagnaro e dall'Aggiunto, Maria Letizia Mannella, in una conversazione telefonica con la madre avrebbe addirittura esplicitato la volontà di partire per Amsterdam per poi spostarsi in Sudamerica, affermando di non avere problemi negli spostamenti poiché dotato di un jet privato con tanto di pilota. "In riferimento alle notizie apparse su alcuni media riteniamo corretto precisare che Alberto Genovese ha lasciato Facile.it nel 2014 e non ha oggi alcun ruolo operativo nella nostra azienda". A precisarlo è una nota di Facile.it. "Per rispetto di tutte le persone coinvolte nella vicenda, riteniamo che al momento sia corretto non commentare oltre. Ancora una volta in merito a informazioni imprecise pubblicate da alcune testate ricordiamo che la proprietà di Facile.it è detenuta oggi dal fondo di investimento EQT e dal fondo Oakley", conclude la nota.

L'orrore sulla 18enne. "In casa non si potevano usare cellulari". Con questa scusa la 18enne sarebbe stata privata del proprio smartphone, recuperato molte ore dopo per contattare un'amica. Stando alla ricostruzione delle indagini, Genovese avrebbe chiesto a un suo collaboratore di cancellare le immagini delle telecamere che avevano ripreso le scene. "Cancella le registrazioni della camera padronale", gli avrebbe imposto. I filmati immortalati però sono stati recuperati e ora rappresentano una fonte di prova. Sarebbe stata legata alle mani e ai piedi e poi costretta a giochi erotici. E pare che nel giro siano finite anche altre donne: testimoni raccontano che l'imprenditore almeno in una precedente occasione avrebbe utilizzato la "droga dello stupro" per far perdere i sensi alle sue vittime. Una sostanza realizzata mixando cocaina e anfetamine, ma il sopralluogo dei poliziotti nell'appartamento - ora sottoposto a sequestro su ordine dell'Autorità Giudiziaria - ha fatto emergere tutto. La violenza viene definita "ripetuta e cruenta". "Alle sue feste c'erano sempre cocaina e 2CB a disposizione gratuitamente degli invitati", hanno raccontato altri testimoni agli inquirenti. All'interno dell'abitazione sarebbero state scoperte evidenti tracce a riscontro di quanto denunciato dalla giovane vittima. L'uomo, alla luce dei gravi reati contestati e del pericolo di fuga, è stato sottoposto a fermo del pubblico ministero. Per oggi è previsto l'interrogatorio davanti al gip. Un'ulteriore presunta vittima si è presentata alla polizia spontaneamente quando ha saputo che un'altra ragazza aveva denunciato lo stupro da parte del fondatore di Facile.it, fornendo un racconto analogo a quello della 18enne che ha denunciato i fatti di ottobre.

Alberto Genovese e gli abusi: «Tanti sapevano». Droga, violenze e silenzi alla corte del mago del web. Giuseppe Guastella e Gianni Santucci su Il Corriere della Sera il 10/11/2020. Il gip convalida l’arresto: «Disprezza la vita umana». Le minacce di un amico a una ragazza nella villa di Ibiza. Tutti sapevano, o quantomeno sospettavano, che il ricco Alberto Genovese drogasse e violentasse le donne. Lo sapevano gli amici che lo coprivano. Ad Ibiza, di fronte a una ragazza che aveva appena subito una violenza, il più stretto compagno dell’imprenditore lasciò scivolare una velata minaccia. «Mi disse — racconta la giovane a verbale — che io non ero una bambinetta sprovveduta e pertanto non mi sarei dovuta mettere in una situazione nella quale non volevo stare». Delle derive aggressive sapeva forse il buttafuori che faceva la guardia alla porta sbarrata della camera da letto dello stupro, forse lo immaginavano le stesse donne, belle e giovanissime, che partecipavano ai party nel lussuoso attico e superattico nel centro di Milano. Eppure nessuno ha fermato il brillante ex amministratore di Facile.it, diventato milionario con le startup. A farlo finire in galera è stata l’unica che ha avuto il coraggio di denunciarlo dopo aver rischiato di morire. Criminale complicità, attrazione per un ambiente dorato dove la droga gira nei piatti di portata e per i soldi che Genovese sciala per tutti: dagli atti dell’inchiesta del pm Rosaria Stagnaro diretta dall’aggiunto Letizia Mannella emerge una corte dei miracoli che venera Genovese nonostante, come ha scritto il gip Tommaso Perna nell’ordinanza di custodia in carcere per violenza sessuale, lesioni, sequestro di persona e cessione di droga, avesse una «personalità altamente pericolosa» in quanto «del tutto incapace di controllare i propri impulsi e la propria aggressività sessuale», spinto da un «assoluto disprezzo per il valore della vita umana, soprattutto di quella delle donne». È «un vero e proprio calvario» ciò che ha subito tra il 10 e l’ 11 ottobre «nelle mani del suo aguzzino» la modella di appena 18 anni finita in quello che ha tutto l’aspetto di un rituale sacrificale abituale, come sospettano gli investigatori della Squadra mobile di Milano che indagano ipotizzando altre vittime. Lo ammette lo stesso Genovese subito dopo l’arresto quando al gip dice che è stata la droga a trascinarlo in una «spirale» in cui, dichiara, «ho allucinazioni e faccio casino, faccio cose di cui non ho il controllo». Il film da Arancia meccanica comincia invariabilmente con le ragazze che bussano al lussuoso palazzo in Piazza Santa Maria Beltrade. Al sesto piano ci sono «una ventina di persone — racconta una modella alla Polizia — in gran parte ragazze della nostra età mentre gli uomini hanno tra i 30 e i 40 anni». Le ragazze non disdegnano qualche «riga» della coca messa a disposizione degli ospiti. L’interesse di Genovese, dichiara la testimone, si concentra su una delle ragazze, che convince a seguirlo in camera sua. Quando l’amica con cui era arrivata va a cercarla, il buttafuori la blocca: «Nessuno poteva disturbare». La rivedrà solo il giorno dopo quando le confesserà di essere stata violentata. Alla Polizia la teste ora riferisce che c’erano «voci» che dicevano che Genovese drogava le ragazze per «essere libero di fare ciò che voleva». A Milano la notizia che Genovese è nei guai per violenza carnale comincia a circolare nei giorni che precedono l’arresto. Arriva anche a un’altra diciottenne che si presenta in Questura e racconta che a luglio, ospite di Genovese a Ibiza, anche lei ha perso il controllo dopo aver assunto droga e che quando si è svegliata aveva dolori dovunque, anche ai polsi e alle caviglie come se fosse stata legata. Sospetta di essere stata violentata. Quando lo ha detto a un amico comune, anche lui ospite a «Villa Lolita», quello le ha risposto che «loro si preoccupano non solo per me ma anche per Alberto e che lo sanno che lui esagera. Come amici, lui e gli altri, gli dicono che esagera». La ragazza decide in un primo momento di non denunciare perché teme la reazione di Genovese verso di lei e i suoi familiari: «Aveva mandato delle persone sotto casa di una ragazza che voleva denunciarlo». A riprova che l’ambiente sapesse e coprisse, una giovane modella che ha partecipato (due volte), e poi si è allontanata, alle feste di Genovese, sui social ha scritto: «Tutti sapevano, e tutti facevano finta di non vedere... perché là dentro c’erano alcol e droga gratis. Le sue feste erano solo un pretesto per trovare nuove vittime».

"Non ho fatto nulla di illegale..." Genovese si difende davanti al gip. Il gip Tommaso Perna ha convalidato il fermo per Alberto Maria Genovese: dovrà rispondere di violenza sessuale, lesioni e sequestro di persona ai danni di una 18enne. Rosa Scognamiglio, Lunedì 09/11/2020 su Il Giornale. Da "re delle startup" a indagato per stupro. Una vicenda tutt'altro che facile da sbrogliare quella che in queste ore ha travolto Alberto Maria Genovese, manager milanese, indagato per violenza sessuale, lesioni e sequestro di persona ai danni di una diciottenne. Nella serata di lunedì, il gip Tommas Perna, ha convalidato il fermo ritenendo che abbia "agito prescindendo dal consenso della vittima".

L'accusa di stupro. L'arresto è scattato nella sabato sera 7 novembre, attorno alle 23.30 circa, a seguito della denuncia per stupro di una diciottenne. Stando a quando si apprende da una prima ricostruzione dei fatti, il "re delle start up" avrebbe fatto assumere un mix di cocaina e ketamina alla giovane salvo poi violentarla. I due si trovavano a casa dell'imprenditore, altrimenti nota come "terrazza sentimento", una alcova dove sovente si consumavano coca-party e incontri promiscui, oggi sotto sequestro. Le indagini, condotte dai poliziotti della Squadra Mobile di Milano, sono state avviate successivamente al ricovero della vittima, ricorsa alle cure mediche dopo aver subito lo stupro. Gli accertamenti hanno permesso di conciliare le dichiarazioni della 18enne con gli elementi raccolti all'interno dell'abitazione del top manager. Rintracciato e fermato dalla polizia, a quanto si apprende da fonti a vario titolo, Genovese stava pianificando una fuga in Sud America a bordo del suo jet privato. Nella sua casa sono state rivenute quantità indecifrate di sostanze stupefacenti, le stesse con cui avrebbe drogato la ragazza prima di costringerla a ripetuti rapporti sessuali.

La convalida del fermo. "Genovese ha agito prescindendo dal consenso della vittima, palesemente non cosciente per circa la metà delle 24 ore trascorse con lui, tanto da sembrare in alcuni frangenti un corpo privo di vita, spostato rimosso, posizionato, adagiato, rivoltato, abusato, come se fosse quello di una bambola di pezza". Con queste parole il gip Tommaso Perna ha convalidato il fermo per Alberto Maria Genoves accusato di violenza sessuale, lesioni, sequestro di persona e spaccio, dopo un'indagine della Mobile di Milano, coordinata dalla pm Rosaria Stagnaro e Maria Letizia Mannella. Secondo il giudice incaricato delle indagini preliminari quando la vittima "ha ripreso un barlume di lucidità, iniziando ad opporsi e a manifestare esplicitamente il suo dissenso, fino ad implorare il suo aguzzino di fermarsi, non è stata ascoltata dal carnefice che, imperterrito, ha proseguito nella sua azione violenta, continuando a drogarla e a violentarla". Lo stesso ha poi citato una sentenza della Corte di Cassazione in cui si evidenzia che per contestare l'aggravante della "narcotizzazione della vittima, è necessario che l'assunzione, da parte della vittima, di sostanze alcoliche, narcotiche o stupefacenti sia stata provocata o agevolata dall'autore", come in questo caso. Con parole piene di sensibilità, inoltre viene ricordato che la diciottenne era a un certo punto "totalmente inerme" e non "mostrare alcuna resistenza, e soprattutto, alcuna compartecipazione" agli atti sessuali violenti a cui veniva costretta.

"Non penso di aver fatto cose illegali". "Spero di non aver fatto cose illegali e spero di non farle. La mia vita per l'80% è sana, sono una persona a posto che non farebbe mai nulla di male". Così Genovese ha cercato di giustificare l'accaduto rendendo dichiarazioni spontanee circa la vicenda che lo ha travolto nelle ultime 48 ore. Nel contempo, un'altra ragazza avrebbe denunciato un episodio analogo alla polizia sostenendo di essere stata vittima di stupro. Le sue dichiarazioni sono servite agli investigatori per corroborare l'ipotesi investigativa finalizzata al fermo con le accuse di violenza sessuale, sequestro di persona, lesioni e spaccio.

La dipendenza dalla droga. Il top manager avrebbe ammesso di essere dipendente dalla droga proprio in presenza del gip. "Chiedo di disintossicarmi perché da quattro anni sono dipendente dalla cocaina. Quando sono sotto gli effetti della droga, non riesco a controllarmi. Ho bisogno di curarmi", ha dichiarato. Intanto, l'intricata vicenda si infittisce di dettagli. Stanato dalla polizia, Genovese avrebbe dato ordine ai suoi collaboratori di cancellare i video di quella nottata che immortalerebbero le circostanze in cui si è consumato lo stupro. Tuttavia, le immagini non sono andate perse definitivamente e gli investigatori sarebbero riusciti a recuperarle.

Claudia Guasco per il Messaggero il 9 novembre 2020. L'appartamento si chiama Terrazza sentimento, ma di sentimentale non ha proprio niente. Qui una ragazza di diciotto anni appena compiuti è stata drogata, «ammanettata con le braccia dietro la schiena», legata «con un nastro al collo e ai piedi con una corda», violentata per tutta la notte. È accaduto il 12 ottobre, in un super attico con vista sul Duomo. Festa esclusiva, gente chic, alcol e droga a volontà. «C'erano due piatti a disposizione per tutti. In uno c'era 2Cb, conosciuta come coca rosa, e nell'altro Kalvin Klain, che è chetamina mischiata con cocaina», ricorda un'invitata. La serata è iniziata così, l'epilogo l'ha raccontato la vittima ai poliziotti che l'hanno soccorsa. Confusa, dolorante, piena di lividi, fuggita dalla prigione con una scarpa sola: «È stato Alberto Genovese», ha denunciato la ragazza. Lui è l'inventore di Facile.it, che ha ceduto nel 2014, e ora numero uno di Prima Assicurazioni, fermato nella notte tra venerdì e sabato. Originario di Napoli, ex bocconiano, 43 anni, ha fiuto per gli affari digitali tanto che nella sua ultima attività investono anche Goldman Sachs e Blackstone. Di giorno imprenditore a caccia di operazioni internazionali, di notte il delirio di onnipotenza di chi guarda Milano dall'alto. «Chiedo di disintossicarmi perché da quattro anni sono dipendente dalla cocaina. Sotto gli effetti della droga non riesco a controllarmi e non capisco più quale sia il confine tra ciò che è legale e ciò che è illegale. Ho bisogno di curarmi», ha detto ieri Genovese al gip Tommaso Perna durante l'interrogatorio di garanzia. È accusato di violenza sessuale aggravata, detenzione e cessione di stupefacenti, sequestro di persona e lesioni, per la diciottenne il referto della clinica Mangiagalli è di 25 giorni di prognosi. Mentre lui programmava di darsi alla fuga: al telefono con la madre ha detto che proprio ieri con un jet privato sarebbe partito per Amsterdam con destinazione Sudafrica. Aveva soldi e contatti giusti per scappare, adesso è a San Vittore e la denuncia della ragazza nel decreto di fermo è un racconto terribile di dolore e umiliazione. (...) «Dalle 22.30 circa di quella sera fino alle 16.30 del giorno successivo ho i ricordi offuscati - mette a verbale la vittima - A un certo punto ho perso la lucidità. Facendomela passare per cocaina qualcuno, penso Alberto, mi ha fatto assumere un'altra sostanza che mi ha stordita. Ho solo dei flash back: ricordo che ero in camera da letto di Alberto e ho avuto la sensazione che fossero presenti altri uomini oltre a lui». Fuori c'era un bodyguard che impediva l'accesso, dentro l'orrore ripreso dalle telecamere. Video che Genovese ha cercato di cancellare. Riferisce il titolare della ditta di sorveglianza: «Alle 8.59 ho ricevuto una telefonata da Genovese che mi ha chiesto di cancellare le immagini, perché aveva fatto una festa e aveva esagerato». Poi manda messaggi: «Ivan, pialla quelle registrazioni adesso. Passa un distruttore dei file, una cosa permanente». Ma la polizia recupera i video, la droga in cassaforte oltre alla denuncia di un'altra vittima di Genovese: sarebbe stata violentata a Ibiza la scorsa estate, quando era in vacanza, con le stesse modalità.

Gianni Santucci per il “Corriere della Sera” il 9 novembre 2020. «Una volta arrivate al palazzo, all' ingresso c' era un buttafuori che ha chiesto i nostri nomi e controllato che fossimo nella lista degli invitati. Ci hanno accompagnato all' ultimo piano, dove abbiamo lasciato i nostri telefoni all' ingresso». Solo le immagini patinate e controllate potevano uscire da «Terrazza sentimento», per essere riversate sui social e alimentare l' appeal dell' esclusività delle serate. «Lasciare il telefono è la regola in queste feste di Genovese», racconta ai poliziotti un' amica della ragazza violentata lo scorso 10 ottobre. Ma ora gli investigatori della Mobile hanno in mano un intero hard disk con centinaia di ore di registrazione che abbattono quel muro di segretezza imposta agli ospiti. È l' archivio del circuito interno di videosorveglianza del club e dell' appartamento di Alberto Genovese. In quei filmati i poliziotti stanno cercando le prove di eventuali altre violenze avvenute nella casa dell' imprenditore. Commesse da lui (è più che un sospetto) o da altri suoi invitati (c' è una probabilità che sia accaduto anche questo). Sono molti gli elementi che portano l' inchiesta in questa direzione. Lo ha raccontato prima di tutto un' altra ragazza. Gli investigatori della Quarta sezione della Mobile l' hanno raggiunta incrociando le testimonianze dell' ultima vittima e di altri frequentatori delle feste. Lei ha raccontato. Prima consumo di droga consenziente, poi nella debolezza abuso forzato fino all' incoscienza totale, probabile utilizzo di sostanze che annichiliscono i sensi, violenza feroce. Scena che s' è ripetuta la scorsa estate lontano da Milano, durante una vacanza a Ibiza. Anche questa ragazza era stata invitata a continuare a pippare nella «stanza del capo»; anche lei s' è risvegliata senza memoria, ma con il più che fondato sospetto d' essere stata stuprata, anche se con conseguenze fisiche meno drammatiche. E poi ci sono i racconti. Molti hanno negato l' evidenza: «Droga alle feste? Mai vista». Ovvio. Quando si usa la ricchezza per alimentare circuiti di divertimento tossico e sballato si coagulano ambienti umani come quello di «Terrazza sentimento», parassitismo dorato e peloso, altezzosità boriosa e fedele al reuccio della corte. In finanza quelli come Genovese (senza le sue derive) li chiamano raptor , rapaci, imprenditoria digitale d' assalto che fiuta gli affari, crea valore, muove e moltiplica capitale. In un' intervista su Forbes , lui si vantava: «Perché non sono andato a riposarmi? Me lo domando ogni giorno». Con l' agenzia digitale «Prima assicurazioni», fondata nel 2014, è arrivato a raccogliere oltre 100 milioni di premi e a stringere accordi con alcuni colossi dell' imprenditoria italiana. «Finora ho attirato capitali per oltre 160 milioni di euro - raccontava - e creato valore per oltre un miliardo. Sono circa 1.200 le persone coinvolte nelle aziende con cui ho a che fare». Nelle serate organizzate nel suo club gli invitati erano invece di solito 30 o 40. Qualcuno alla polizia, nei verbali citati ieri dall' agenzia Agi, ha raccontato: «Girava voce che Genovese mettesse "roba nei bicchieri" delle ragazze, in modo da stordirle immediatamente». E ancora: «Si dice che lui e la sua ex fidanzata fossero soliti drogare le ragazze alle loro feste private per poi violentarle». Se sul lavoro era un rapace, sotto inchiesta s' è mosso da pollo. Il 5 novembre s' è presentato in questura per farsi rinnovare il passaporto. Il giorno dopo l' hanno arrestato.

Gianni Santucci e Giuseppe Guastella per il “Corriere della Sera” l'11 novembre 2020. Per due volte la polizia bussa alla porta di Alberto Genovese: prima che la violenza inizi e durante la feroce violenza sessuale sulla giovane modella di 18 anni. A chiamare sono due inquilini del palazzo, uno è l' étoile della Scala Roberto Bolle, che abita al piano di sotto, esasperato dal frastuono assordante della musica della festa del milionario imprenditore mago delle startup. Gli agenti non entrano, come è consueto negli interventi per schiamazzi: la prima volta dopo aver parlato con Genovese, che abbassa la musica; la seconda vanno via perché la festa è finita e la musica ormai è stata spenta, ma proprio in quei momenti la ragazza, drogata e semi incosciente, sta subendo il calvario «nelle mani del suo aguzzino». Genovese verrà arrestato quasi un mese dopo nell' inchiesta del pm Rosaria Stagnaro coordinata dall' aggiunto Letizia Mannella. Alle 22.40 del 10 ottobre scorso la Volante Sempione primo turno si ferma in piazza Santa Maria Beltrade 1. A chiamare è stata un' inquilina «disturbata dai continui rumori molesti e della musica a volume alto», si legge nell' annotazione di servizio. Gli agenti verificano direttamente che il fracasso arriva dalla terrazza di Genovese e bussano alla porta del lussuoso appartamento con vista sul Duomo. Ad aprire è Genovese stesso che, «invitato formalmente ad abbassare il volume della musica, acconsentiva e irritato - sottolineano i poliziotti - rientrava all' interno». È evidente che lo stupro non era cominciato. La vittima, infatti, ha detto di essere entrata nella camera da letto proprio intorno a quell' ora e di aver subito assunto droga. Poco dopo un' amica la cerca, ma viene respinta da un buttafuori che sorveglia la stanza da letto. Il secondo intervento avviene quando la violenza è in corso ormai da ore, ma va considerato che gli agenti in quel momento non possono sospettare quel che sta accadendo: sia perché le segnalazioni, come altre precedenti, parlano solo di schiamazzi; sia perché in quel momento la festa è finita e la musica è stata spenta. A chiamare è il ballerino Roberto Bolle, che vive al piano di sotto. Non è la prima volta che deve chiedere l' intervento delle forze dell' ordine. A luglio del 2019, infatti, si era presentato al commissariato Centro per rendere «sommarie informazioni» e spiegare che quando si trova a Milano, tra una tournée e l' altra, sente spesso «in ore notturne musica talmente ad alto volume da non riuscire a dormine». Per Bolle il riposo è fondamentale, ma lui è quasi dispiaciuto di denunciare: «Il mio carattere è molto mite, quindi non me la sono sentita di andare a lamentarmi, e alla fine sul tardi riuscivo a prendere sonno». Non è il solo ad essere esasperato. Anche altri hanno denunciato Genovese dopo anni di notti insonni, già dal 2017. Il milionario fondatore di Prima.it aveva addirittura istallato un impianto che verificava il livello dei decibel che spesso, come nelle settimane della moda o del Salone del mobile, raggiungevano livelli altissimi. Ma l' imprenditore mandava un suo legale alle riunioni di condominio con i tracciati del suo impianto di misurazione e sosteneva che tutto fosse regolare. All' 1.30 dell' 11 ottobre Roberto Bolle rinuncia alla mitezza e chiama la polizia. La Volante Duomo bis secondo turno si ferma nella piazzetta. Gli agenti contattano il ballerino «il quale - annotano agli atti - segnalava una festa in atto da diverse ore presso l' abitazione» di Genovese, che «provocava disturbo alla quiete pubblica in quanto vi era musica ad alto volume e diversi schiamazzi provocati da persone ivi presenti». Bolle specifica anche che i condomini avevano più volte denunciato (Genovese è da tempo indagato anche per «disturbo alla quiete pubblica»). Gli agenti tentano di raggiungere l' abitazione, ma non riescono a salire fino al sesto piano perché le scale sono bloccate da un cancello chiuso a chiave che Genovese ha fatto installare a protezione dell' appartamento nel quale, a quel punto, l' imprenditore sta violentando la modella. Mentre tentano di arrivare all' abitazione, gli agenti vengono raggiunti dal «domestico» il quale dichiara che «Genovese non era presente» e che la festa «era finita, infatti avevano spento la musica e fatto allontanare gli invitati».

"Aiuto", gli sms della vittima incastrano Genovese. Dalla stanza dell'aguzzino la ragazza ha messaggiato le amiche: "Sono in pericolo". Diana Alfieri, Giovedì 12/11/2020  su Il Giornale. «Sono in una situazione pericolosossima», è l'sms della vittima dello stupro che aggrava ulteriormente la già pesantissima posizione di Albero Genovese, arrestato giorni fa a Milano con l'accusa di aver abusato di una ragazza appena maggiorenne: una delle tante giovani donne che costituivano l'harem in cui il manager bocconiano si muoveva da sempre col fare di un «sultano»-predatore. Ieri, secondo le anticipazioni pubblicate dal Corriere della Sera, gli inquirenti sono venuti in possesso di altre prove documentali a supporto dei già numerosi riscontri sul modus operandi di Genovese durante i party organizzati nel suo attico milanese. Feste dove si faceva abitualmente uso di droga e dove il padrone di casa era solito brutalizzare le sue ospiti dopo averle - secondo l'ipotesi accusatoria - stordite con «pasticche» in grado di annientare nelle vittime qualsiasi ricordo. Ma a volte le «tracce» di quanto di brutto era accaduto diventavano troppo evidenti anche per chi «non doveva ricordare», come nel caso della 18enne che ha denunciato il padrone di casa scoperchiando il pentolone degli abusi. Ieri, sempre il quotidiano di via Solferino, ha messo in rete sul proprio sito le immagini di una festa a tutto volume in casa Genovese, con tanto di dj-set e musica sparata a palla nella notte udibile fin in strada. Ma quello del «disturbo alla pubblica quiete» (per il quale Genovese era stato più volte denunciato dai condomini del palazzo) era la cosa meno grave che accadeva in quel palazzo a pochi metri da Piazza Duomo. Nella stanza-proibita dell'attico, il manager fondatore del sito facile.it avrebbe fatto cose ben più gravi e inconfessabili, violenze che ora Genovese tenta di giustificare con la sua «dipendenza dalla droga». «Quando ero sotto l'effetto di sostanze stupefacenti non riuscivo a distinguere il bene dal male», ha tentato di giustificarsi con il giudice. Intanto ora tirano un sospiro di sollievo gli inquilini del palazzo super-lusso dove Genovese organizzava le sue «mitiche feste»: finalmente ora regna il silenzio, quel silenzio che il ballerino Roberto Bolle (uno dei vip che abitano nello stabile a cinque stelle) aveva reclamato proprio nella notte dello stupro, chiamando la polizia per mettere fine agli schiamazzi. Una volante arrivò ma anche gli agenti dovettero arrendersi difronte all'impenetrabilità del fortino di casa-Genovese: un appartamento a più piani disseminato di telecamere e guardie del corpo. E fu proprio un bodyguard di vedetta davanti alla camera da letto in cui Genovese si era appartato con la vittima dello stupro a respingere, per ben tre volte, i tentativi delle amiche della 18enne per salvarla. Pochi attimi prima che la violenza si consumasse, le giovani ricevettero infatti l'sms della loro amica le implorava di liberarla. Vani i loro tentativi di forzare il blocco davanti a quella maledetta camera: «Là dentro c'è la nostra amica, deve venire via con noi, dobbiamo parlarci». Ma il bodyguard è inflessibile: «Di qui non si passa». Secondo gli inquirenti i tentativi di sottrarre la giovane all'aggressione sono stati «almeno tre, nell'arco di quattro ore», tutti stoppati dalla «catena di sicurezza» di Genovese. Il quale, dopo la violenza, ordina di distruggere tutte le immagini delle telecamere installate nell'attico. Quando le amiche della vittima decidono di andar via dall'appartamento, ormai lo stupro è avvenuto e la 18enne è riversa, ferita e priva di sensi, sul letto di Genovese. Si risveglierà solo l'indomani. Il tempo di capire ciò che di terribile aveva subito, e la decisione giusta viene presa: andare in questura e denunciare il fatto. Nel giro di 24 ore le manette scattano ai polsi di Genovese.

Alberto Genovese, ai suoi party 13 interventi dei carabinieri in 4 anni. Notizie,it il 12/11/2020. In passato i carabinieri ricordano di averlo trovato in "stato psico-fisico alterato". Trapela anche la testimonianza di un'amica della vittima. Dopo le prime accuse, l’imprenditore Alberto Genovese ha confessato di essere dipendente dalla cocaina da quattro anni, ma le denunce sul suo conto non sono ancora finite: in seguito al primo racconto di una ragazza, un’altra giovane ha denunciato quanto subito e ora a parlare è un’amica della vittima. Carabinieri e polizia, negli ultimi quattro anni, sono intervenuti 13 volte nel suo appartamento per interrompere feste che disturbavano interi condomini. Dalle testimonianze degli agenti, Genovese pare fosse poco disponibile e collaborativo. In passato lo avevano trovato in uno “stato psico-fisico alterato”. Il fondatore di Facile.it, che nel 2014 ha venduto la società per una cifra superiore ai 100 milioni di euro, è finito nel mirino delle accuse per violenza sessuale e uso di sostanze stupefacenti. Mentre si trova in cella al carcere di San Vittore, continuano le confessioni di ragazze che descrivono i giri hard, loschi e violenti che gravitavano attorno al suo appartamento, dove organizzava diversi party e dove in quattro anni la polizia è intervenuta ben 13 volte. Dalle dichiarazioni finora rilasciate, pare che tutti fossero a conoscenze di quanto accadeva dentro quelle mura. Eppure, per troppo tempo, non si è fatto nulla per fermare Alberto Genovese. Tuttavia, i tredici interventi degli agenti di polizia e dei carabinieri non avevano niente a che fare con l’inchiesta che ha portato in carcere l’imprenditore. L’uomo è accusato di violenza sessuale, sequestro di persona, lesioni e cessione di stupefacenti. La polizia era probabilmente stata allertata dai vicini, stufi delle sue feste e del troppo rumore. E in una di quelle occasioni, gli agenti segnalano di aver trovato Alberto Genovese in uno “stato psico-fisico alterato”. Oltre alle testimonianze già rilasciate, si teme che altre ragazze possano essere finite nel mirino di Genovese. Molti i giovani che hanno partecipato alle sue feste, nelle quali girava droga nei piatti e il padrone di casa si ritirava in camera da letto per fare sesso con un’ospite da lui desiderata. A volte le sue feste erano solo party di lusso nel suo appartamento nei pressi del Duomo di Milano. Ad animare le feste c’erano ragazze anche legate all’agenzia di modelle di cui Genovese detiene una quota. Ma nei party più intimi, quelli con una ventina di invitati, si raggiungeva l’eccesso. Gli investigatori della Squadra mobile, guidati da Marco Calì e coordinati dal pm Rosaria Stagnaro e dall’aggiunto Letizia Mannella, stanno esaminando i filmati registrati dalla ventina di telecamere installate da Genovese nell’attico dove viveva. Dalle immagini, è stato possibile confermare che la violenza è stata perpetrata in quell’appartamento. Intanto si cerca di verificare quanti altri episodi analoghi si siano verificati e chi sono le vittime. Per far luce sul giro che gravitava attorno a Villa Inferno, sarà interrogato anche il domestico dell’imprenditore. A lui il compito di controllare chi entrava in casa e fare la guardia alla camera da letto. Dalle indagini condotte finora, emergerebbe anche un collegamento con l’inchiesta su “Villa Inferno” di Bologna, dove si sarebbero svolti festini a base di droga e sesso. Una delle amiche della vittima ha raccontato di aver cercato la giovane, ma lei e altre ragazze erano state bloccate. L’amica, inoltre, sarebbe finita in Emilia-Romagna in un giro di prostituzione quando era minorenne. A partire da fine 2015, oltre agli interventi da parte di polizia e carabinieri per “disturbo alla quiete pubblica”, abitanti e amministratori dei palazzi hanno firmato anche cinque esposti a carico di Alberto Genovese, per i quali nel settembre 2019 è stato indagato. Tuttavia, pare che nessuno dall’esterno potesse sapere cosa accadeva nell’attico, dalle violenze sessuali al consumo di cocaina, chetamina e anfetamina. Proprio nella serata del 10 ottobre, poco prima che iniziasse la violenza, i poliziotti avevano bussato alla sua porta per segnalare il volume della musica troppo alto. A parlare con gli agenti era stato proprio l’imprenditore, il quale è apparso “irritato”, mostrando anche “un atteggiamento indisponente e poco collaborative”.

Arresto di Alberto Genovese. La polizia chiamata da Roberto Bolle. Il ballerino della Scala, che vive nello stesso stabile, all'1.30 di notte chiamò la polizia per denunciare gli schiamazzi e la musica a tutto volume proveniente dall'attico di Genovese. Poche ore prima una donna aveva chiamato gli agenti. Raffaello Binelli, Mercoledì 11/11/2020 su Il Giornale. Emergono nuovi particolari nella vicenda che ha messo nei guai Alberto Genovese, l'imprenditore noto per aver lanciato diverse start up arrestato nei giorni scorsi per violenza sessuale, lesioni, spaccio e sequestro di persona dopo la denuncia di una diciottenne. La notte del 10 ottobre alla polizia arrivarono diverse telefonate da parte dei vicini di casa, che si lamentavano per i troppi rumori. Non era la prima volta che succedeva, come racconta una signora che esce dal portone del lussuoso stabile di piazza Santa Maria Beltrade, a due passi dal Duomo di Milano. "I condòmini spesso si lamentavano per i rumori, e non solo - racconta la signora -. Anche per una piscina che aveva sulla terrazza. Una volta uno dei bodyguard impiegati da Genovese per le sue feste, mi bloccò la strada. Gli dissi “come si permette, questa è casa mia!”. Quando mi incrociava Genovese non mi guardava né salutava". Qualcuno ha raccontato che Genovese alle riunioni di condominio mandava un avvocato che mostrava i tracciati di un impianto di misurazione dei decibel installato nell'attico, con cui cercava di smontare le accuse. Ma torniamo a quella sera del 10 ottobre, quella della festa. Il primo intervento della polizia avviene alle 22.40. Una signora lamenta i "continui rumori molesti e la musica a volume alto". Gli agenti bussano e ad aprire la porta è proprio Genovese. "Invitato formalmente ad abbassare il volume della musica - riferiscono gli agenti - acconsentiva e irritato rientrava all’interno (dell'appartamento, ndr)". La rumorosa festa prosegue e un altro vicino, stufo di sopportare, chiede l'intervento delle forze dell'ordine. A chiamarli, all'1.30 di notte, è Roberto Bolle, ballerino della Scala, che vive proprio al piano di sotto di Genovese. La volante della polizia arriva sul posto, dopo la denuncia di Bolle. Il ballerino spiega loro la situazione, segnala che una festa era in corso da diverse ore, con musica ad alto volume e schiamazzi. Aggiunge poi che il proprietario della casa in cui si svolgeva la festa era già stato denunciato diverse volte. Gli agenti salgono le scale per andare a bussare alla porta dell'appartamento ma trovano un cancello chiuso a chiave. Cercano di trovare una via alternativa per raggiungere l'abitazione ma, ad un certo punto, li raggiunge un uomo, che racconta di essere il domestico di Genovese. Ai poliziotti dice che la festa era finita, la musica era spenta e gli ospiti erano stati fatti uscire. Il controllo finisce lì. Tutto è tornato alla normalità. Almeno così sembra. È proprio in quel momento, infatti, che la ragazza sta subendo la violenza, come poi emergerà dalle immagini delle telecamere di videosorveglianza interna. Saranno molto utili, le telecamere di cui era tappezzato il superattico, non solo per capire chi c’era a quella festa, e come sono andati i fatti, ma anche ad andare indietro di alcuni giorni con le registrazioni, per ricostruire le feste delle settimane precedenti. Dalle dichiarazioni di alcuni testimoni, infatti, vi sarebbe stata una festa analoga lo scorso18 settembre.

Gabriele Romagnoli per La Stampa il 10 novembre 2020. Lo chiameranno «il lupo di piazza Cordusio». Come Jordan Belfort, reso ancor più celebre dall'interpretazione di Leonard Di Caprio, era stato "The wolf of Wall Street". Un mix di soldi, sesso e cocaina (dove con i primi non sembra potersi procacciare di meglio), di geniali intuizioni e cattive intenzioni, di ferocia a scatti e fame che non si placa, negli affari come nella vita. Alberto Genovese, 43 anni, nato a Napoli e domiciliato a Milano, con attico sul Duomo e la Borsa, professione (nel linguaggio del suo mondo): digital raptor. Tradotto: predatore digitale. Un rapace della new economy e del vecchio andazzo: lavoro, guadagno, pago e mi prendo (quel che voglio). Parola chiave del suo vocabolario: disruption, spaccatura. Chi abbia frequentato una certa Milano l'ha sentita fino a non sopportarla più nelle conversazioni di imprenditori e manager. Spaccare è un verbo transitivo, che spesso si trasforma in riflessivo e colpisce chi aveva impugnato il machete finanziario. Il jet privato non decolla e il lupo finisce in gabbia. Per capire il percorso di Alberto Genovese basta andare su YouTube e cercare i suoi interventi alle conferenze Noah, l'arca che raccoglie le diverse specie di animali evoluti dell'economia digitale, quelli che ne incarnano lo spirito, la diversità. Il suo primo intervento è nel 2012, a Londra. Ha 35 anni. Laureato alla Bocconi, esperienze lavorative importanti, da due anni, con un socio, ha fondato Facile.it, che in un inglese corretto ma dalla pronuncia incerta definisce "the number one insurance aggregator in Italy". E' timido. Porta gli occhiali, una montatura metallica molto semplice. Ha i capelli lisci e gli stanno retrocedendo un po' ovunque. La sua creatura sta andando bene: inventata su una terrazza romana, messa a punto nei fine settimana è uscita dall'acqua ed è salita sull'onda. Nel 2014 la venderà a cento milioni per inventarsi altro: una compagnia assicurativa on line, un sito di vendite auto. Usa nomi infantili (da Facile a BrumBrum), seguendo il dettato di Steve Jobs: fare e far fare tutto come fosse un gioco. Quando riappare al Noah, nel 2019, di nuovo a Londra, Genovese è un'altra persona. E' un performer, scherza sul palco. Non ha più gli occhiali. I capelli sono scuriti, arricciati, coprono più spazio e continuano in una barba coltivata che gli dà sicurezza. Indossa un abito antracite modellato e una camicia bianca slim fit, aperta. Nel frattempo ha visitato 94 Paesi, fondato e spaccato società, ricevuto finanziamenti che sanno di riconoscimento. A Forbes, che lo ha chiamato per intervistarlo, ha detto: «Mi aspettavo più telefonate». Ha brevettato il "Genovese touch". E' andato da 0 a 100 in poco, troppo poco tempo. L'arca era un posto sicuro, nel mondo all'esterno diluvia. Anche i ricchi si bagnano. Non sono le fiction e i film a inventare i vizi: semplicemente, li codificano. Li rendono standard, come certe marche di orologi. Qualcosa che i pubblicitari definiscono aspirazionale con una formula, ovviamente in inglese: must have. Devi averli, o sei nessuno. In realtà i "top di gamma" diventano tali proprio perché sfuggono a questa prevedibile caduta. Rimangono ossessionati dai loro giocattoli, invece di spaccarli li smontano e rimontano perfezionati, continuano a vestire per decenni con lo stesso maglione di cui possiedono in realtà dieci esemplari con diversi materiali e pesi. Dormono a casa. C'è una ritualità già vista nelle serate a Terrazza Sentimento (una versione più raffinata del set che, agli stessi fini, ruspanti professionisti bolognesi hanno battezzato Villa Inferno). E' da quando le escort dell'allora premier si fotografavano nei bagni che viene imposta la consegna dei cellulari all'ingresso, anche questo gesto già si vede nei film sulle orge ad alta quota. Le videocamere che tutto filmano sono un'ossessione che facilmente si ritorce contro chi le piazza. Chi sorveglia i sorveglianti? A volte finiscono per farlo da sé. Il body guard all'esterno della porta chiusa dove avviene quel che non si deve sapere è una garanzia, spesso di un ricatto a breve. Infine la stanza segreta, quella sì contiene un mistero. Questo: perché un uomo che può avere molto con le proprie qualità, moltissimo con il proprio denaro, finisce per strappare qualcosa con l'inganno e la violenza, senza alcun consenso? La droga è un alibi, quello a cui ci si consegna per poter superare quella linea e poter finalmente conquistare, spaccare e lasciarsi alle spalle quel trofeo che è una vita altrui.

Alberto Genovese, chi è l’imprenditore accusato di violenza sessuale. Emily Capozucca su Il Corriere della Sera l'11/11/2020. Alberto Genovese, l’imprenditore arrestato sabato 7 novembre a Milano è in stato di fermo in custodia cautelare. Su di lui pesano le accuse di violenza sessuale di una ragazza 18enne, sua presunta vittima. Durante l’inchiesta emergono i dettagli delle feste che Genovese era solito tenere presso la terrazza della sua abitazione dove, all’ingresso era obbligatorio lasciare i telefoni cellulari per evitare che venisse filmato ciò che accadeva all’interno. A rompere la riservatezza c’è il circuito interno di videosorveglianza del club e dell’ appartamento, ora in mano agli investigatori per verificare altre eventuali violenze avvenute nella casa dell’imprenditore.

Chi è Alberto Genovese. Napoletano di nascita ma di adozione milanese, Genovese, 43 anni, era stato un modello lavorativo per il mondo delle startup. Imprenditore nel settore fintech e uno dei fondatori di Facile.it, tra i più noti comparatori di assicurazioni, mutui, prestiti, conti correnti, Adsl e molto altro, aveva venduto l’azienda nel 2014 per 100 milioni. Il comparatore online di polizze e mutui ha diffuso una nota di precisazione in merito all’attuale ruolo di Genovese nella società. «In riferimento alle notizie apparse su alcuni media riteniamo corretto precisare che Alberto Genovese, ex amministratore delegato, ha lasciato Facile.it nel 2014 e non ha oggi alcun ruolo operativo nella nostra azienda. Dal gennaio 2014 è amministratore delegato della società, Mauro Giacobbe. Sotto la sua guida, l’azienda ha da allora più che triplicato le proprie dimensioni, raggiungendo nel 2019 ricavi pari a 106 milioni di euro e impiegando oggi, fra dipendenti e collaboratori, oltre 3 mila persone che lavorano ogni giorno in maniera molto seria per offrire ai consumatori italiani il più efficace strumento di comparazione delle tariffe legate alle spese familiari. Ancora una volta in merito a informazioni imprecise pubblicate da alcune testate ricordiamo che la proprietà di Facile.it è detenuta oggi dal fondo di investimento EQT e dal fondo Oakley Capital.

Da Facile.it a Prima Assicurazioni. Dopo l’avventura con Facile.it, Genovese ha fondato Prima Assicurazioni, agenzia digitale specializzata per polizze Rc auto, moto e furgoni che nel 2018 riceve un investimento di 100 milioni di euro da Goldman Sachs e Blackstone. Nel 2019 decolla e riesce a raccogliere oltre 130 milioni di premi grazie ad accordi firmati con Conad e Telepass e a luglio 2020 l’agenzia registra oltre 800 mila clienti.

La laurea alla Bocconi e le startup. Laureato in Economia e commercio presso l’Università Bocconi di Milano inizia a lavorare nella società di consulenza McKinsey, per poi passare a Bain e in eBay nel 2015 dove rimane per 3 anni. Ha lanciato varie startup e il suo successo lo ha reso noto in campo digitale. Nel 2015 crea Brumbrum.it per la compravendita di auto finanziata dal fondo Accel, che ha investito anche su Deliveroo e Spotify. L’ultimo successo è Zappyrent, la startup che mira a semplificare il mercato degli affitti a medio-lungo termine. Dopo aver chiuso un round di investimenti da 2,5 milioni di euro che ha visto la partecipazione anche dei big del fintech tra cui Genovese nel 2020 l’imprenditore ne assume la presidenza. Prima del fermo Genovese ricopriva vari ruoli: era membro (ma senza un ruolo operativo) del board di Facile.it, presidente di Prima Assicurazione, di Brumbrum spa, di Abiby, Mirta e Zappyrent. E’ socio anche di un’agenzia di modelle, Hostess.it, con una quota dell’11,56% (ci sono altri 12 soci). La società ha chiuso il 2019 con un fatturato di 1,8 milioni di euro e un utile di 1.115 euro.

La Terrazza Sentimento e la ex fidanzata. Poi arriva l’inchiesta scatenata dall’accusa della diciottenne ed emergono dettagli di ciò che accadeva sulla «Terrazza Sentimento» dell’imprenditore dove gli invitati erano di solito 30 o 40. «Girava voce che Genovese mettesse “roba nei bicchieri” delle ragazze, in modo da stordirle immediatamente». E ancora: «Si dice che lui e la sua ex fidanzata fossero soliti drogare le ragazze alle loro feste private per poi violentarle» sono le frasi emerse dai racconti alla polizia. Varie le testimonianze raccolte da ragazze che hanno partecipato alle feste che testimoniano il consumo di droga consenziente prima e l’abuso forzato fino all’incoscienza totale poi. Il gip di Milano, Tommaso Perna, nel provvedimento con cui ha convalidato il fermo e disposto il carcere scrive di Genovese che manifesta «una spinta antisociale elevatissima e un assoluto disprezzo per il valore della vita umana, soprattutto di quella delle donne». In casa gli hanno trovato una cassaforte con 40 mila euro, cocaina e chetamina, un diamante. E manette.

Alberto Genovese, i pusher e i domestici-buttafuori: si indaga sui complici. Giuseppe Guastella e Gianni Santucci su Il Corriere della Sera il 13/11/2020. Il braccio destro dell’imprenditore accusato di violenza sessuale all’estero dopo l’arresto. «Scorte di cocaina e inviti alle ragazze». Il bodyguard disse agli agenti che il capo non era in casa, invece era nella stanza blindata. Chi acquistava e portava la droga. Chi invitava, sapendo a quali rischi potevano andare incontro, le ragazze. Chi copriva le deviazioni criminali del «capo» e sorvegliava che non venissero «disturbate». E poi l’uomo che, appena l’indagine è diventata pubblica, ha lasciato Milano. Ci sono ancora testimoni da ascoltare (un’altra «ospite» alle feste identificata e sentita due giorni fa ha di fatto confermato il canovaccio droga-approcci sessuali come consuetudine delle serate). E restano moltissime ore di video da scandagliare. Il lavoro dei poliziotti della Squadra mobile, nell’inchiesta che ha già portato in carcere per sequestro di persona e violenza sessuale l’imprenditore Alberto Genovese, si concentra però in questi giorni su due profili, solo apparentemente collaterali all’indagine sullo stupro condotta dal pm Rosaria Stagnaro e dall’aggiunto Letizia Mannella: persone di primo piano nella «corte» del milionario delle startup e che, stando agli atti, sembrano aver avuto un ruolo decisivo nel contesto in cui poi Genovese ha potuto abbandonarsi alle sue derive criminali. Complicità sulle quali potrebbero esserci presto degli sviluppi investigativi. Su un livello secondario, ma al momento in parte più definito, si delinea il ruolo del domestico/buttafuori di «Terrazza sentimento», un giovane sudamericano che all’una e 40 dell’11 ottobre, proprio nel momento in cui secondo le immagini delle telecamere interne dell’appartamento l’imprenditore sta violentando la modella 18enne in stato di completa incoscienza, si presenta di fronte ai due poliziotti della Volante intervenuti per una chiamata della star della danza Roberto Bolle, solo l’ultima di una lunga serie, che segnalava schiamazzi e rumore. Quell’ uomo, 33 anni, agli agenti dice che «la festa è finita», ma soprattutto che Genovese non è in casa. Sarà decisivo capire se sapesse che (come è certo stando alle immagini del circuito di telecamere interne) Genovese in quel momento era invece proprio nella sua stanza «blindata»: dalla lettura incrociata degli atti sembra desumersi che il domestico abbia dichiarato il falso ai pubblici ufficiali, e dunque per questo potrebbe avere delle conseguenze. Molto più rilevante potrebbe essere invece la posizione di uno dei migliori amici di Genovese, nonché suo socio in alcune attività di divertimento. L’uomo viene indicato da chiunque abbia avuto a che fare con quell’ambiente come «braccio destro» dell’imprenditore; le foto sui social li ritraggono molto spesso insieme e comunque in continuo contatto; alla fine della scorsa estate, dopo quasi due mesi di vacanze tra Ibiza e Formentera, lo stesso sui social ringrazia «pubblicamente» l’imprenditore che «ci ha coccolato per due mesi» (quasi sempre Genovese pagava per tutti); e infine viene indicato come colui che a un certo punto delle feste «serviva» e metteva a disposizione degli ospiti i vassoi con cocaina, chetamina e Mdma (la sera del 10 ottobre, è ripetuto in alcuni verbali, fu lui a «portare i vassoi vicino al bar» di «Terrazza sentimento»). L’uomo, dopo l’arresto di Genovese, è andato (legittimamente) in una località di vacanza all’estero. Il particolare al momento più torbido emerso finora è che è stato lui stesso a invitare a quelle feste una ragazza che ha da poco compiuto 18 anni, e che da minorenne, a Bologna, aveva partecipato e poi denunciato i festini di «Villa inferno», nei quali alcune donne molto giovani partecipavano alle serate in cambio di cocaina. Una ragazza con esperienze molto complicate in passato e con un grave problema di dipendenza dalla droga: nell’appartamento di Genovese, intorno all’1 e mezza dell’11 ottobre, è lei ad andare a cercare per la terza volta (respinta dal buttafuori) l’amica che uscirà da quella casa solo la sera successiva, dopo la violenza.

GIANNI SANTUCCI e GIUSEPPE GUASTELLA per il Corriere della Sera il 12 novembre 2020. Per tredici volte negli ultimi quattro anni polizia e carabinieri sono dovuti intervenire nelle abitazioni di Alberto Genovese e sempre per feste che disturbavano interi palazzi. Le loro relazioni confluiranno nell'inchiesta che ha portato in carcere l'imprenditore per violenza sessuale, sequestro di persona, lesioni e cessione di stupefacenti. In una gli agenti annotano che l'uomo venne trovato in «stato psico-fisico alterato». Nell'indagine sulla feroce violenza sessuale ai danni di una ragazza appena 18enne del 10 e 11 ottobre scorsi, si aggiunge ora un'altra testimone che si è fatta avanti con la polizia. Altre potrebbero farlo nei prossimi giorni: giovani che hanno partecipato alle tante feste in cui girava droga nei piatti e il padrone di casa si ritirava in camera da letto per fare sesso con l'ospite «prescelta». Non tutte le feste, però, avevano lo stesso tono. Solo quelle riservate ad una cerchia di una ventina di persone raggiungevano l'eccesso. Le altre erano party di lusso affollati da belle ragazze, alcune di loro legate all'agenzia di modelle di cui Genovese detiene una quota. Per identificare chi partecipava e se ci sono state altre violenze sessuali, gli investigatori della Squadra mobile, guidati da Marco Calì e coordinati dal pm Rosaria Stagnaro e dall'aggiunto Letizia Mannella, stanno esaminando ore ed ore di filmati registrati dalla ventina di telecamere installate maniacalmente da Genovese nell'attico a due passi dal Duomo di Milano dove, testimoniano quelle immagini, è avvenuta la violenza. Sarà interrogato anche il «domestico» dell'imprenditore che controllava chi entrava in casa e faceva la guardia alla porta della camera. Intanto emerge un collegamento con l'inchiesta su «Villa Inferno» di Bologna dove si sarebbero svolti festini a base di droga e sesso: una delle amiche della vittima che la sera dello stupro la cercarono ma furono bloccate è la stessa persona che con la sua denuncia ha innescato l'inchiesta emiliana per induzione alla prostituzione minorile, spaccio e pornografia minorile che ha portato a tre arresti. Emerge dalle indagini milanesi che per 13 volte, a partire da fine 2015, polizia e carabinieri sono intervenuti nelle abitazioni di Genovese nel cuore storico della città, sempre per «disturbo alla quiete pubblica», e cioè proprio per quelle feste che rendevano la vita impossibile agli altri inquilini che hanno firmato anche cinque esposti contro l'imprenditore che per quel reato è stato iscritto dal pm Letizia Stagnaro in una diversa indagine. Reato, però, che non consente un'azione incisiva della giustizia visto che come pena prevede solo pochi mesi d'arresto e qualche centinaio di euro di multa. E se nessuno dall'esterno poteva sapere delle possibili degenerazioni criminali in quelle serate (come lo smodato consumo di cocaina, chetamina e anfetamina), le relazioni delle forze di polizia durante i controlli raccontano già il profilo di un milionario che da una parte disprezzava le autorità, dall'altra era incline allo «sconvolgimento». Intorno alle 22.30 del 10 ottobre scorso (poco prima che iniziasse la violenza) ai poliziotti che avevano bussato a casa sua sempre per il problema della musica, Genovese appare «irritato, ponendosi con un atteggiamento indisponente e poco collaborativo». In passato era stato trovato «in stato psico-fisico alterato». Sono anche questi due elementi sui quali si basano le prime indagini sulla feroce violenza sessuale: le feste degli eccessi «nelle quali era solito scegliere le ragazze che poi invitava in camera» e il pesante consumo di droga.

Alberto Genovese e lo stupro in villa, indagini sulle pressioni alle testimoni. Sandro de Riccardis su La Repubblica il 14 novembre 2020. Trenta le giovanissime ai festini con la cocaina. Il braccio destro dell'imprenditore delle start up: "Chiarirò tutto". Ricostruire la notte delle violenze. Capire quante sono le persone coinvolte nel sequestro di quasi ventiquattrore della diciottenne, segregata e violentata da Alberto Genovese nella sua camera da letto. Cristallizzare prove, verificando se ci siano tentativi di condizionare le ragazze, anche con denaro. Gli investigatori della squadra mobile, diretti da Marco Calì, hanno dato un'accelerazione all'indagine. E stanno ascoltando molte delle partecipanti ai festini alla Terrazza Sentimento, in piazza Santa Maria Beltrade, a pochi passi dal Duomo. Ma anche persone vicine all'entourage dell'imprenditore delle start-up. Grazie ai filmati recuperati dal sistema di videosorveglianza, gli inquirenti hanno un quadro chiaro dei partecipanti alla festa: ragazzine giovanissime, una trentina, tra i diciotto e i vent'anni, e uomini tra i trenta e i quarant'anni. Alcune giovani sono state già sentite nell'indagine, coordinata dal procuratore aggiunto Letizia Mannella e dal pm Rosaria Stagnaro, confermando come alle feste di Genovese era consuetudine trovare e fare uso di droga. Dopo il tentativo dell'imprenditore di cancellare i video della festa e della camera da letto, gli inquirenti vogliono evitare che ci siano pressioni su testimoni o altre possibili vittime, anche di carattere economico. Intanto la diciottenne violentata, prima assistita da un legale dell'associazione Svs (Soccorso Violenza Sessuale) della clinica Mangiagalli, ha cambiato avvocato. Se Genovese potrebbe essere interrogato nei prossimi giorni, è inevitabilmente rinviato il momento in cui verrà sentito il suo “braccio destro”, il dj Daniele Leali, non indagato. "Smentisco quanto dichiarato dalle ragazze - ha detto ieri il suo avvocato Sabino Di Sibio - . Un conto è dire di aver portato sostanza da fuori a dentro l'abitazione, un'altra è essere presente all'interno e consumarla assieme agli altri, limitandosi eventualmente a passarla. Cosa che comunque smentisce. Sono due aspetti completamente diversi". Sul viaggio a Bali, il legale spiega che "Leali, già prima del 10 ottobre, aveva stipulato contratti di lavoro e si è spostato per fare il dj nella località dove si trova ora. Non per sfuggire da qualcosa. Se avesse voluto farlo, non avrebbe postato il suo viaggio sui social, quando tornerà saremo pronti a chiarire la sua posizione".

Da milano.corriere.it il 12 dicembre 2020. Daniele Leali, dj, e considerato il «braccio destro» di Alberto Genovese, l’imprenditore in cella per aver stordito con un mix di coca rosa e ketamina e stuprato una 18enne ospite nel suo appartamento in centro a Milano dove era in corso un festino, risulta indagato dalla Procura di Milano per «cessione di stupefacenti». Leali è a Bali ora e e dovrebbe rientrare in Italia per il 19 dicembre, sarebbe stato lui ad occuparsi dell’organizzazione dei mega party sulla «terrazza sentimento». L’uomo è il terzo indagato nell’indagine coordinata dall’aggiunto Letizia Mannella e dal pm Rosaria Stagnaro. Daniele Leali «è assolutamente tranquillo per la sua posizione in ordine ai fatti relativi le feste di Genovese e la sua ribadisce l’assoluta estraneità alla condotta di cessione a fini di spaccio». Lo ha detto il difensore del dj e braccio destro Alberto Genovese, l’avvocato Sabino Di Sibio, precisando che nelle prossime ore verificherà «la formale iscrizione nel registro degli indagati» di Daniele Leali, che al momento si trova a Bali. Iscrizione che il legale definisce «un atto dovuto da parte degli inquirenti. Questo - conclude - non sposta la natura scarsamente indiziaria del reato di cui sarebbe indagato». In almeno uno dei due stupri di cui è sospettato, Alberto Genovese non era solo. Ad armeggiare sadicamente sul corpo della ragazza stordita dalla droga nella calda estate di Ibiza, c’era anche la sua giovane fidanzata che per questo è indagata con il re delle startup per concorso in violenza sessuale dalla Procura di Milano che lavora anche su una decina di altri casi. Alla complicità sentimentale, secondo il pm Rosaria Stagnaro e l’aggiunto Letizia Mannella, nel rapporto tra il 43enne ricchissimo imprenditore e Sarah B., 25 anni, pr in alcune famose discoteche milesi, si sarebbe aggiunta anche quella criminale. Estate 2020, tra il primo e il 12 luglio. Genovese ospita gli amici nella magnifica villa con piscina affittata per le vacanze alle Baleari. Ci sono la fidanzata e Sofia (nome di fantasia), italiana di 23 anni, e altre persone, uomini donne, che la Squadra mobile della Questura, diretta da Marco Calì, sta ascoltando o ascolterà come testimoni. Come nell’attico a due passi dal Duomo di Milano dove si sarebbe verificata la violenza sulla modella di 18 anni costata a Genovese l’arresto, anche sull’isola spagnola c’è chi nella «corte dei miracoli» che circonda Genovese si abbandona a droghe e musica altissima.

Parlano le ragazze dei festini di Genovese: "Il suo braccio destro ci portava la droga". Sandro de Riccardis, Massimo Pisa su La Repubblica il 13 novembre 2020. L'uomo ha lasciato l'Italia prima di essere sentito dalla polizia. "Ci diceva: lo so che a volte Alberto esagera". Ha fatto il tampone il 7 novembre scorso, poche ore dopo l'arresto di Alberto Genovese. E ottenuto il referto negativo, ha lasciato Milano. Daniele Leali, l'uomo dei party e amico storico dell'imprenditore arrestato per stupro e sequestro di persona, allo stato non indagato, si è imbarcato ieri mattina alle 10 a Malpensa, insieme alla fidanzata, su un volo per Bali. Leali nell'isola indonesiana è di casa: i suoi canali social raccontano di un medesimo viaggio, dodici mesi fa. E non appena ha comunicato la sua partenza, è stato travolto da like e commenti. "Ottima scelta" ha scritto un'amica, spesso presente a viaggi e feste del cerchio magico di Genovese. Non la pensano allo stesso modo gli inquirenti che avevano intenzione di sentirlo nei prossimi giorni sulla notte di violenze tra il 10 e 11 ottobre scorso. "Ci vediamo a dicembre" con cuoricino annesso. Troverà orecchie interessate, ad attenderlo. Leali è al centro di tutti i racconti delle donne che hanno partecipato al party. Una di loro, che chiameremo Natasha, ne ha delineato il ruolo: "C'era della droga alla festa - ha messo a verbale - ad un certo punto, c'erano due piatti a disposizione per tutti. Li ha portati vicino al bar Daniele Leali: in uno c'era 2CB, conosciuta come "coca rosa", e nell'altro "Kalvin Klain", che è chetamina mischiata con cocaina". Una figura da sensale, almeno secondo la versione della ragazza: "Credo che tutti si aspettassero che Leali la portasse in sala, nessuno si è spaventato o sorpreso della cosa". Rassicurante, a modo suo. Tanto che Natasha, la notte del brutale stupro dell'amica, lo aveva preso a riferimento, per non correre rischi in quel delirio tossico: "Ho sempre seguito con i miei occhi il braccio destro del Genovese, Daniele Leali, per capire la situazione e se ci si poteva fidare". Anche una seconda ragazza lo cita. La chiameremo Sveva: è lei che ha raccontato, senza denunciarla, di una seconda presunta violenza subita a Ibiza, nel lusso di Villa Lolita, tra alcol e droghe dopo il viaggio in jet privato. Svegliatasi dall'incubo, piena di sangue e lividi, era stata avvicinata da altri partecipanti. "Tra questi è venuto anche Daniele Leali - spiegava - che si è seduto sul letto vicino a me e mi ha detto tutta una serie di cose del tipo 'che loro si preoccupano non solo per me ma anche per Alberto, e che lo sanno che lui esagera e che come amico, lui e gli altri, gli dicono che esagera, ma che dall'altro canto io non ero una bambinetta sprovveduta e pertanto non mi sarei dovuta mettere in una situazione nella quale non volevo stare, e che noi dal nostro proviamo ad aiutarlo ma non possiamo fare molto'". Titolare in Italia di un'impresa cancellata e di un'altra in liquidazione, Leali si definisce nelle interviste online "direttore e proprietario del Tipic Club, locale storico di Formentera". Sui suoi profili social compare anche come proprietario del Aplaya Beach bar a Boracay, nelle Filippine, e come gestore del Prima cafè, il bar di Prima assicurazioni, la società di cui Genovese era presidente e amministratore prima della revoca mercoledì scorso da parte del cda. In attesa di poterlo risentire al suo ritorno, gli uomini della Squadra mobile, diretta da Marco Calì, stanno continuando a visionare l'hard disk dell'attico e sentire decine di amici di Genovese e di ragazze invitate alle feste. Due di loro hanno riferito voci di violenze simili a quella consumata nel superattico di piazza Santa Maria Beltrade. L'inchiesta del procuratore aggiunto Letizia Mannella e del pm Rosaria Stagnaro punta a certificare ulteriori violenze. E similitudini con la vicenda di Villa Inferno, a Bologna. Per questo, sono stati acquisiti gli atti dell'inchiesta emiliana del pm Stefano Dambruoso. 

Caso Alberto Genovese, il braccio destro Daniele Leali indagato per la droga spacciata sulla Terrazza Sentimento. La Repubblica l'11/12/2020. Daniele Leali, ritenuto il braccio destro di Alberto Genovese, l'imprenditore in cella per aver prima stordito con un mix di coca rosa e ketamina e poi stuprato una 18enne ospite nel suo appartamento in centro a Milano dove era in corso una festa, risulta indagato dalla procura milanese per detenzione di droga ai fini di spaccio. Leali, che al momento si trova a Bali da dove dovrebbe rientrare il 19 dicembre, sarebbe stato l'organizzatore dei mega party sulla "terrazza sentimento". L'uomo è il terzo indagato nell'indagine coordinata dall'aggiunto Letizia Mannella e dal pm Rosaria Stagnaro. Leali è considerato uno degli uomini più vicini all'imprenditore delle start-up, sempre presente nell'organizzazione delle feste e nelle sue vacanze all'estero. Il suo nome emerge, negli atti giudiziari, nelle testimonianze di alcune ragazze presenti alla festa alla 'Terrazza Sentimento', dove si è consumata una delle due violenze per cui è indagato Genovese. "C’era della droga alla festa... - racconta un'amica della vittima, sentita dalla squadra mobile di Milano - ad un certo punto c’erano due piatti a disposizione per tutti. Li ha portati vicino al bar Daniele Leali, in uno c’era 2CB, conosciuta come “coca rosa”, e nell’altro “Calvin Klein”, che è chetamina mischiata con cocaina... erano stati messi a disposizione per tutti, gratuitamente ovviamente. Credo che tutti si aspettassero che Leali la portasse in sala, nessuno diciamo si è spaventato o sorpreso della cosa…". La ragazza aggiunge particolari anche su un'altra festa. "Anche nell’occasione del 18 e 19 settembre, c’erano a disposizione dei piatti con sostanza stupefacente…”. "Sono tranquillo e sereno. E pronto a chiarire la mia posizione - commenta Leali da Bali - Sono assolutamente convinto che i magistrati debbano fare il loro lavoro con serenità e se questo per loro significa inserirmi nel registro degli indagati, va bene così". Leali ha confermato al suo legale Sabino Di Sibio il suo rientro in Italia. "Le confermo il mio ritorno per il 19 dicembre - ribadisce - E qualora ci fosse necessità di essere ascoltato dai pm potrei rientrare prima. Finisco questa settimana le mie attività lavorative e continuo a fare quello che faccio da oltre venti anni con tutte le problematiche relative a quello che sta accadendo in Italia". Anche per l'avvocato Di Sibio, "qualora confermata, l’iscrizione è un atto dovuto da parte degli inquirenti. Questo non sposta la natura scarsamente indiziaria del reato di cui sarebbe indagato. Leali è assolutamente tranquillo per la sua posizione in ordine ai fatti relativi le feste di Genovese e ribadisce l’assoluta estraneità alla condotta di cessione a fini di spaccio".

Dagonews il 15 dicembre 2020.

Fidanzata: quella che sta andando a letto con la stessa persona da più del periodo di incubazione del Covid

Ex fidanzata: quella che per un periodo continuativo superiore alla quarantena stabilita dal Dpcm è andata a letto con la stessa persona e “ci siamo voluti bene”

Habitué: quella che è andata casualmente in piscina, ha visto che si consumava droga e poi è tornata “dieci o venti volte” alle feste

Ospite: ragazza nell’elenco degli amici di Genovese o altri invitata con un messaggio che “non aveva capito”

Imbucata: amica della ragazza invitata con un messaggio che invia un WhatsApp per chiedere se può venire anche lei alla festa

Modella: quella che ha lasciato il suo book a una delle molte agenzie (farlocche) di modelle

Amica della modella: quella che vorrebbe fare la modella, ma non c’ha il fisico ed è tuttavia disposta a pippare come la modella ufficiale

Aspirante modella o modellina: quella che deve ancora consegnare il book a una delle agenzie (farlocche) di modelle ma ha già fatto uno shooting con sedicente fotografo di moda che le ha messo le mani addosso

Ragazza immagine che non la dà: quella che si fa pagare per non fare un cazzo e aspetta la grande occasione (dice)

Ragazza immagine che la dà: quella che si fa pagare per non fare un cazzo ma non aspetta solo la grande occasione

Violentata: ragazza che è stata con Genovese ma “non si ricorda più nulla”

Escort d’occasione: quella che ufficialmente la dà per una sera o la darebbe

Escort di professione: quella che la dà sempre a conclusione di una serata

Prostituta: quella che non fa festa, la dà e basta con corrispettivo economico prepagato (ma sembra assente alle feste private milanesi)

Cubista: quella che balla in discoteca ma che balla anche alle feste private

Cocainomane: quella che va alle feste perché vuole assumere droga (senza pagarla)

Sballone: quelle che prendono da sole la droga dello stupro

Vip: giovane della quale si conosce persino il nome se si segue attentamente il Grande Fratello

Consumatrice saltuaria: quella che assume droga solo se lo fanno gli altri

Festante: quella che, a Milano, lo sanno tutti “la cosa che ha più valore è la festa figa”

Cristina Bassi per “il Giornale” il 15 dicembre 2020. «Perché ho deciso di raccontare quello che so e di metterci le faccia? Perché ero certa che nessuno del giro di Alberto Genovese avrebbe mai parlato, tutti continuano a coprirlo e questo non è giusto. Io non potevo difenderlo o tacere, dopo aver saputo che ha fatto una cosa così mostruosa». Kristina, 23enne molto bella e determinata, nel «giro» dell' imprenditore in carcere per violenza sessuale aggravata, detenzione e cessione di droga, sequestro di persona e lesioni c' è stata per due anni. Durante la puntata di Live-Non è la D' Urso di domenica ha riportato un episodio scioccante vissuto in prima persona che sembra sostenere la tesi degli inquirenti secondo cui ci sarebbero stati altri stupri, oltre ai due denunciati fin qui. Ecco la sua testimonianza: «Non sento Genovese da due anni, ho chiuso i rapporti. Ma ho frequentato a lungo le sue case. Tutti lo coprivano, perché avevano un proprio tornaconto. Alle sue feste arrivavano spesso modelle straniere di passaggio a Milano, reclutate ai casting dai cosiddetti modellari. Alcune di queste ragazze guadagnano davvero poco e sono felici di farsi portare a cene e party di lusso, sanno che c' è anche molta droga. Io ho conosciuto Alberto Genovese quando avevo 18 anni, portata in casa sua da un modellaro. Lui cercò di approcciarmi, ma non era il mio tipo e poi non ho mai avuto bisogno di correre dietro agli uomini con i soldi. C' erano champagne e droga, ci divertivamo, ho preso droga di mia spontanea volontà». Da allora la giovane e l'imprenditore restano in contatto, lei va a decine di feste. «Con le ragazze era sempre molto fisico, ci provava e loro un po' ci stavano. Anche perché offriva tutto Alberto. Però non mi sembrava che il suo obiettivo principale fosse portarsene una in camera. Aveva la sindrome dello sceicco, si circondava di donne e gli piacevano giovani. Quella volta sul jet e poi a Ibiza eravamo io, lui, un modellaro, due modelle lituane e una russa. Una delle lituane ci provò con Genovese e finirono in camera. Non li abbiamo più visti per tre giorni. Quando abbiamo rivisto lei, nella sua stanza, era in condizioni pietose. Si era vomitata addosso e anche altro, camminava a fatica e ha smesso di parlare. Le abbiamo chiesto se volesse andare in ospedale, ma si è opposta. Abbiamo pensato ai postumi della droga, neppure lontanamente a uno stupro. Non posso neppure saperlo con certezza, non ho assistito. Posso solo supporlo. Non riesco a dimenticare quella ragazza e mi sento molto in colpa per non aver fatto di più. Ho smesso di prendere droga anche per quell'esperienza: non mi è mai capitato nulla del genere, ma in certe situazioni è vitale essere lucide». Ieri Kristina, non più modella ma fashion stylist e trader in Borsa, aggiunge: «So di aver dato un grande dolore a mia mamma raccontando queste cose. Però è troppo importante richiamare l' attenzione su ciò che alcune donne subiscono. Non è giusto che ci si accanisca contro le vittime. Se hanno preso droga è colpa loro, lo stupro non lo è di certo. Vanno alle feste, sì, però questo non giustifica la violenza. Sono andata in tv per difendere queste ragazze e spero che qualcun' altra si faccia avanti. Molte non hanno la forza per uscirne o le possibilità economiche. Se ho paura dopo la puntata? No. Anche se mi sono arrivati commenti brutti e insulti: si sono focalizzati su di me e non sul problema che ho sollevato». La giovane mette in guardia le donne: «Non sembra, però spesso sono ingenue e si fidano troppo. Dico: Attente a certi ambienti, c' è sempre qualcosa sotto. Tenete gli occhi aperti».

"I festini di Genovese? Minacce e sberle a chi si lamentava". Le testimonianze di ex vicini: "Da anni c'era quel caos: fatte decine di denunce, inutile..." Luca Fazzo, Venerdì 13/11/2020 su Il Giornale. Milano. Non sono cominciate con «Terrazza Sentimento le notte magiche di Alberto Genovese, il genietto delle startup divenuto stupratore seriale. A sei giorni dall'arresto, arriva il racconto di chi ha avuto la sfortuna di conoscerlo da vicino prima che acquistasse la casa con piscina vista Duomo di piazza Santa Maria Beltrade dove si è consumata la violenza su una diciottenne che lo ha portato a San Vittore. È una testimonianza che racconta non solo come già almeno dal 2014, per uno o due volte al mese, il manager di successo si trasformasse in un re della notte - una notte in cui le regole non esistevano più - ma anche dell'indulgenza che lo circondava. Il primo regno di Genovese è in via Santa Maria in Valle, a ridosso di via Torino, nel centro di Milano. «Arrivò qui nel 2014 - racconta Gianluca Lanza, avvocato, che nello stabile ha il suo studio legale - e prese in affitto tutto l'ultimo piano, un appartamento non grande ma con una splendida terrazza. E da quel momento per noi è stato un disastro. Lui viveva qua insieme a una ragazza, poi ci ha litigato. Una volta o due al mese, regolarmente di sabato, qui arrivava il mondo, e per noi non c'era più pace». Che tipo era, Genovese? «Uno che non salutava». Un antipatico, con il vizio di fare chiasso: sembrerebbe una storia di dissapori condominiali uguale a centro altre. Ma qui c'era qualcosa di più. «La terrazza era stata allestita come una succursale di Ibiza. Vasca idromassaggio, e sassolini di ghiaia. E ragazze a volontà. Nelle sere di festa, Genovese si impadroniva dell'intero stabile. Metteva il suo buttafuori davanti al portone, a controllare gli inviti. E se qualcuno osava protestare per la musica a livelli da discoteca arrivavano le minacce e gli insulti. Un inquilino per avere chiesto di abbassare i decibel venne preso a sberle. Andavano avanti fino alle quattro del mattino. E l'indomani le scale erano ridotte in modo pietoso». Avevate prove che in quelle feste circolasse droga? «Io nell'appartamento dell'ultimo piano non sono mai entrato. Ma posso assicurare che le condizioni delle persone che ne uscivano, le loro reazioni alla richiesta di un comportamento più civile, erano spiegabili solo con uno stato di alterazione». Cosa accadesse dietro la porta di casa Genovese, in realtà qualcuno lo sa: sono i poliziotti del Commissariato Centro, che dopo infinite insistenze una notte intervennero nel corso di una festa in via Santa Maria in Valle. «Di tutta questa storia - racconta l'avvocato Lanza - l'aspetto più incredibile è l'indulgenza che sembrava circondare le feste di Genovese. Avremo chiamato la polizia locale decine di volte, sempre più esasperati, e non c'è stata una sola volta in cui siano usciti, non è di nostra competenza". Una signora che era stata pesantemente minacciata ha sporto denuncia alla Procura della Repubblica, anche lì senza nessun risultato. Alla fine perché qualcuno si muovesse ho dovuto qualificarmi, spiegando alla polizia che sono consigliere del Municipio 1. Solo loro sanno cosa hanno trovato, di sicuro c'è che tutto è andato avanti come prima fin quando non siamo riusciti a farlo sfrattare. Il padrone di casa non voleva, perché gli pagava quasi cinquemila euro di affitto al mese. D'altronde che Genovese avesse una disponibilità di denaro illimitata era evidente». Nel 2017, finalmente, il manager cambia casa: ma si sposta di poche decine di metri, in piazza Santa Maria Beltrade. E la festa riparte.

"Genovese ha drogato e stuprato la 18enne e pensava fosse normale". Per la psicoterapeuta Maura Manca l’uso di stupefacenti ha impedito all’imprenditore digitale di riconoscere il male che stava causando alla giovane: “Non una giustificazione ma un’aggravante”. Sofia Dinolfo, Sabato 14/11/2020 su Il Giornale. Legata al guinzaglio sul letto, drogata e stuprata per circa 20 ore. È questa la drammatica notte vissuta da una neomaggiorenne lo scorso weekend a Milano. Teatro dell’orrore l’appartamento dell’imprenditore digitale Alberto Genovese. Una festa a base di alcol e droga cui ha preso parte anche la giovane. Quest’ultima sarebbe stata poi portata nella “camera padronale” del “re delle startup”, narcotizzata e violentata per tutta la notte. Solamente il giorno successivo, dopo aver preso coscienza, la giovane è riuscita a scappare chiedendo aiuto alla polizia. Alberto Genovese, che nel frattempo stava cercando di fuggire all’estero con un jet privato, è stato arrestato. Le accuse nei suoi confronti sono quelle di violenza sessuale, lesioni, spaccio di droga e sequestro di persona. Abbiamo fatto il punto della situazione con la psicoterapeuta e presidente dell'Osservatorio nazionale adolescenti Maura Manca.

Cosa spinge persone con una certa posizione economica e sociale a compiere reati di questo tipo? Qual è il nesso tra il potere e la violenza?

“Il fatto di avere il privilegio economico di poter fare tante cose può portare alla condizione psichica di pretenderle e imporle, come se fosse la normalità. Ovviamente non si può generalizzare perché ognuno ha una propria personalità. In questo caso, è subentrata la condizione del ‘tutto mi è dovuto’, come se l’imprenditore potesse permettersi tutto, dando ogni cosa per scontata, proprio perché aveva quella posizione di privilegio legata al denaro. Ma questa posizione gli è stata anche riconosciuta dagli altri che gli stavano attorno e che lo cercavano attribuendogli quel ruolo. Questo può spingere ad attuare comportamenti che vanno ogni oltre limite consentito. Se poi sommiamo l’utilizzo di sostanze stupefacenti è chiaro che la situazione degenera".

Genovese ha detto agli inquirenti di essere una persona all’80% sana che non farebbe mai nulla di male. Come fa a negare l’evidenza dal momento che le telecamere hanno ripreso tutto?

“In una condizione dove non si è alterati, è chiaro che ci si veda normali, la lucidità è diversa. Nella sua quotidianità lui si sente "normale". Nella condizione in cui invece era sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, la sua capacità di valutazione della situazione era alterata”.

La ragazza è stata legata al guinzaglio e stuprata per circa venti ore, in alcuni momenti non dava nemmeno segni di vita. Come può Genovese aver continuato a perpetrare la violenza nonostante la sofferenza della vittima?

“Per interrompere un determinato comportamento, bisogna riconoscere la sofferenza della vittima e bisogna riconoscere che quell’azione che si sta perpetrando è di carattere violento. In quel momento lui non riconosceva la violenza del suo atteggiamento, vi era una distorsione della lettura dei fatti e degli eventi: per lui era divertimento e normalità. Il valore umano per lui quella notte era pari a zero. Agli occhi di Genovese, la ragazza non appariva come un essere umano ma come un oggetto. Questa non è una giustificazione della condotta dell’imprenditore, anzi è l'aggravante”.

La casa dell’imprenditore è piena di telecamere. Perché registrare anche ciò che avveniva nella “camera padronale”?

“Qui si aprono due possibilità: ci potrebbe essere da parte sua la mania del controllo di tutto oppure una perversione sessuale legata al rivedersi in un momento successivo nell’ambito di quel contesto dove esercitava il ruolo di dominatore e sentirsi appagato. Bisogna capire meglio i tratti di personalità del soggetto per dare una risposta certa”.

Quali potrebbero essere le conseguenze psicologiche per la vittima? Si riprenderà mai?

“Riprendersi significa riconoscere di aver vissuto un’esperienza traumatica e quindi rielaborarla. Rielaborarla vuol dire darle un senso e andare oltre e quindi non essere più condizionati da quella situazione. Quando si vive un trauma ci si rende conto dopo della condizione di rischio in cui ci si era messi. In quei momenti i giovani non hanno la capacità di valutare in modo appropriato il rischio perché guardano solo all’obiettivo, agli aspetti positivi. Quando poi accadono questi eventi, l’elemento traumatico è proprio quello di trovarsi di fronte a una situazione non calcolata e qui, oltre a subire agli effetti diretti dell’evento, lottare con la nascita dei sensi di colpa: "potevo accorgermene prima". Sarà necessario un supporto psicoterapeutico specifico per la vittima in modo tale da poter riprendere in mano la propria vita. Non sarà di certo un cammino breve”.

Il mondo del lusso attira le ragazze che magari sognano un futuro fatto di successi ma poi, in alcuni casi, cadono nella trappola di persone che non si fanno scrupoli a fare loro del male. In che modo si può consigliare a queste ragazze di stare in guardia? Quando possono rendersi conto in tempo di essere in pericolo?

“In certe situazioni purtroppo si è affascinati dal mondo del potere, dei soldi e si guardano solamente gli aspetti positivi del momento. Da giovani la capacità di valutazione del rischio non è sviluppata come negli adulti, per cui c’è una tendenza ad accettare ciò che viene proposto in maniera superficiale con delle aspettative che non valutano l’altra faccia della medaglia. Si deve insegnare ai ragazzi che dietro una bella vetrina possono esserci dei conti da pagare”.

Da leggo.it il 14 novembre 2020. Emergono nuovi particolari inquietanti dalla storia di Alberto Maria Genovese, 43 anni, attualmente in carcere per spaccio, violenza sessuale, lesioni e sequestro di persona nei confronti di una ragazza di 18 anni, al termine di una festa a casa sua. La giovane sarebbe stata ammanettata, costretta a drogarsi e violentata: il suo corpo «spostato, rivoltato, abusato come fosse una bambola di pezza», ha scritto il gip Tommaso Perna. Secondo quanto riporta il Corriere della Sera, le amiche della 18enne avrebbero raccontato di aver provato più volte di salvarla dallo stupro, in quella notte tra il 10 e l’11 ottobre: prima una viene bloccata fuori dalla porta della stanza di Genovese, col buttafuori che le dice che «non si può disturbare». Poi prova a telefonarle, ma il cellulare era in una cesta in cui tutti gli ospiti venivano costretti a lasciare gli smartphone. Il telefonino della 18enne si riaccende il giorno dopo, intorno alle 20: «Sono in una situazione pericolosissima», scrive alle amiche. Secondo la ricostruzione del Corriere la ragazza stava per andarsene la sera del 10 quando è stata bloccata e portata in camera da Genovese, col bodyguard a sorvegliare l’entrata senza far entrare nessuno: drogata forse contro la sua volontà, era stata poi legata e violentata. Quando si sveglia il giorno dopo, ha lividi e ferite ovunque. Dopo aver scritto alle amiche, viene cacciata in strada dallo stesso Genovese, seminuda e con una scarpa sola: viene soccorsa da polizia e ambulanza, che la porta alla clinica Mangiagalli dove viene accertata la violenza sessuale. Da qui la denuncia e l’arresto di Genovese, imprenditore e fondatore di Facile.it, da cui è uscito nel 2014, e ora rimosso anche dalla carica di CEO di Prima Assicurazione: a rimuoverlo è stato il cda, che ha subito preso in seria considerazione le gravi accuse, spiega una nota della società, i cui pensieri «sono rivolti a tutte le persone colpite». George Ottathycal Kuruvilla è stato nominato ceo ad interim e Presidente della Società, garantendo così la «piena continuità aziendale». Prima Assicurazioni evidenzia inoltre di essere «consapevole dell'importanza di tutelare tutti gli stakeholder, sta avviando una review indipendente». Intanto il suo braccio destro Daniele Leali, dj e vocalist, attualmente all'estero per impegni di lavoro e non indagato, all'ANSA ha detto: «Stiamo già querelando le testate giornalistiche e denunciando per calunnia e diffamazione. I miei avvocati stanno lavorando alla vicenda. A breve uscirà la mia difesa». Quanto alla presenza della cocaina alla festa, l'avvocato di Leali, Sabino Di Sibio dello studio Lexant, smentisce che sia stata portata dal suo assistito.

Sofia Dinolfo per il Giornale il 14 novembre 2020. Legata al guinzaglio sul letto, drogata e stuprata per circa 20 ore. È questa la drammatica notte vissuta da una neomaggiorenne lo scorso weekend a Milano. Teatro dell’orrore l’appartamento dell’imprenditore digitale Alberto Genovese. Una festa a base di alcol e droga cui ha preso parte anche la giovane. Quest’ultima sarebbe stata poi portata nella “camera padronale” del “re delle startup”, narcotizzata e violentata per tutta la notte. Solamente il giorno successivo, dopo aver preso coscienza, la giovane è riuscita a scappare chiedendo aiuto alla polizia. Alberto Genovese, che nel frattempo stava cercando di fuggire all’estero con un jet privato, è stato arrestato. Le accuse nei suoi confronti sono quelle di violenza sessuale, lesioni, spaccio di droga e sequestro di persona. Abbiamo fatto il punto della situazione con la psicoterapeuta e presidente dell'Osservatorio nazionale adolescenti Maura Manca.

Cosa spinge persone con una certa posizione economica e sociale a compiere reati di questo tipo? Qual è il nesso tra il potere e la violenza?

“Il fatto di avere il privilegio economico di poter fare tante cose può portare alla condizione psichica di pretenderle e imporle, come se fosse la normalità. Ovviamente non si può generalizzare perché ognuno ha una propria personalità. In questo caso, è subentrata la condizione del ‘tutto mi è dovuto’, come se l’imprenditore potesse permettersi tutto, dando ogni cosa per scontata, proprio perché aveva quella posizione di privilegio legata al denaro. Ma questa posizione gli è stata anche riconosciuta dagli altri che gli stavano attorno e che lo cercavano attribuendogli quel ruolo. Questo può spingere ad attuare comportamenti che vanno ogni oltre limite consentito. Se poi sommiamo l’utilizzo di sostanze stupefacenti è chiaro che la situazione degenera".

Genovese ha detto agli inquirenti di essere una persona all’80% sana che non farebbe mai nulla di male. Come fa a negare l’evidenza dal momento che le telecamere hanno ripreso tutto?

“In una condizione dove non si è alterati, è chiaro che ci si veda normali, la lucidità è diversa. Nella sua quotidianità lui si sente "normale". Nella condizione in cui invece era sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, la sua capacità di valutazione della situazione era alterata”.

La ragazza è stata legata al guinzaglio e stuprata per circa venti ore, in alcuni momenti non dava nemmeno segni di vita. Come può Genovese aver continuato a perpetrare la violenza nonostante la sofferenza della vittima?

“Per interrompere un determinato comportamento, bisogna riconoscere la sofferenza della vittima e bisogna riconoscere che quell’azione che si sta perpetrando è di carattere violento. In quel momento lui non riconosceva la violenza del suo atteggiamento, vi era una distorsione della lettura dei fatti e degli eventi: per lui era divertimento e normalità. Il valore umano per lui quella notte era pari a zero. Agli occhi di Genovese, la ragazza non appariva come un essere umano ma come un oggetto. Questa non è una giustificazione della condotta dell’imprenditore, anzi è l'aggravante”. (…)

Alcune di loro sono già state ascoltate come testimoni nell’inchiesta avviata dalla procura di Milano per violenza sessuale, sequestro di persona, lesioni e spaccio di droga.

Da milanotoday.it il 14 novembre 2020. Con il passare dei giorni emergono sempre più particolari. Aumentano le potenziali vittime o per lo meno il numero delle partecipanti ai festini a base di sesso e droga organizzati nel super-attico di Alberto Genovese, l’imprenditore digitale di 43 anni finito in carcere con l’accusa di aver drogato e violentato una 18enne durante un party nella cosiddetta “Terrazza sentimento” nella nottata tra il 10 e l’11 ottobre. Adesso sembra che siano almeno una trentina le ragazze che nel tempo ne avrebbero preso parte. Alcune di loro sono già state ascoltate come testimoni nell’inchiesta avviata dalla procura di Milano per violenza sessuale, sequestro di persona, lesioni e spaccio di droga. Altre saranno convocate in procura nei prossimi giorni insieme a stretti collaboratori e altri personaggi dell’entourage dell’imprenditore, noto per aver fondato la startup Facile.it (società da lui ceduta nel 2014). Tra questi anche il domestico-buttafuori che, la sera della violenza, sorvegliava l’ingresso della stanza padronale impedendo alle amiche della vittima di entrare. I loro racconti serviranno a definire il quadro accusatorio a carico del 43enne, ma anche a scandagliare il suo passato e accertare se si fosse già reso protagonista di altri casi di sevizie simili ed, eventualmente, se sia stato ‘coperto’ o aiutato da qualche personaggio del suo staff che in questo caso rischierebbe un’accusa di favoreggiamento. Testimonianze decisive che perciò- è il timore che serpeggia tra gli inquirenti – potrebbero essere addomesticate attraverso un’operazione di inquinamento probatorio.

Paolo Berizzi per "La Repubblica" il 15 novembre 2020. (…) Ai party, prima di cedere ai demoni e cacciare le prede, il lupo coccolava gli ospiti. A partire dai vip. Ne passavano, dalla Terrazza Sentimento: personaggi dello spettacolo, artisti, imprenditori, finanzieri. Alcuni nomi li hanno fatti le ragazze agli investigatori della Squadra Mobile, e sono a verbale. Belen Rodriguez, Jerry Calà, Gianluca Grignani (estranei all'inchiesta). Altri forse verranno a galla nei prossimi giorni. Chissà se e chi si ricorderà di conoscerlo, adesso, Genovese. «Mai visto - dice Calà, contattato da Repubblica - Io vivo a Verona, a Milano non conosco più nessuno». Di facce note, al settimo e ultimo piano del palazzo anni 30 firmato da Piero Portaluppi in Santa Maria Beltrade, deve averne viste tante Javier: il factotum che di Genovese custodiva la casa e - stando alle indagini - anche la privacy più intima. Francesca, la chiamiamo così, è una ragazza 25enne, milanese. Racconta: «Sono stata a tre feste. Mi ha invitata un pr. C'erano vip e persone normali». Delle notti esclusive nella penthouse appoggiata sui tetti della city, Francesca, oltre a Genovese «sempre su di giri », ricorda una specie di protocollo. «C'erano le liste. Dovevi aspettare. Come in una discoteca, anche se erano party privati. Agli invitati veniva raccomandato: niente foto col cellulare. Dicevano che c'erano persone famose che volevano stare tranquille». Uno degli uomini delle "liste" pare fosse Daniele Leali, "Danny". Il braccio destro di Genovese volato a Bali. «Lui di gente ne conosce tanta », aggiunge Francesca. Il nome di Leali - che ha smentito di aver mai portato droga alle ragazze, come dichiarato da alcune di loro - riporta al Prima Cafè. «Complimenti ». «Che locale!». Scrivevano a lui, su Fb, quando il risto-bar di Genovese aprì i battenti. Danny se la tirava da capo: «Vi aspetto!». Un profilo scanzonato il suo. «La mia vita è solo un gran casino fatto di sole, mare e musica». Per descrivere quella di Genovese, esagerando, si potrebbe attingere da tutta l'agiografia cinematografica: dal Gordon Gekko di Oliver Stone al Jordan Belfort interpretato da Di Caprio nel Lupo di Wall Street. La verità è che Mister Prima, 900 mila clienti a 43 anni, è la nemesi di un nerd diventato lupo. Un secchione tutto numeri e occhialini che sfonda e poi muta. Incline agli eccessi, segue l'istinto. Attrae, seduce, piace alla gente che piace, e si fa implacabile: soprattutto con le donne. A cui offriva coca e lavoro. Parola di Gabriela, Daphne, Daria, Martina e le altre. «Ogni cosa ha un prezzo». La prima regola del codice Genovese è scritta nel pedigree dei turbo- predatori. La snocciolava agli amici quando in jet sorvolavano il mar Mediterraneo direzione Ibiza e Formentera: tutti al Tipical Club, da "Danny". L'ultima estate ruggente. Villa Lolita, 8 camere per 16 ospiti, i sofà a bordo piscina. Decine di migliaia di euro e "Bebo" pagava per tutti. Anche le cene da Lio e Cipriani. «Ho un'azienda e un sito che mi esplodono in mano», diceva nel 2009. Erano i tempi di Assicurazione.it. Il lupo aveva preso la rincorsa l'anno prima «da una terrazza romana». L'ascesa all'Olimpo, la discesa agli inferi.

Da leggo.it il 14 dicembre 2020. Ospite a "Live Non è La D’Urso" Kristina, una testimone delle feste di Alberto Genovese. Kristina, una ragazza che per due anni ha partecipato ai party di Alberto Genovese, l'imprenditore in carcere per aver stordito con della droga e poi stuprato una ragazza di diciotto anni. Kristiana ha conosciuto Genovese, con cui ora non ha più rapporti, per caso: “Ho conosciuto Genovese - ha raccontato - quando avevo 18 anni, per caso, un ragazzo mi ha detto “Andiamo in piscina” e sono finita da lui. Era giorno, verso sera si è movimentata la situazione e sono arrivate altre persone. Nel pomeriggio ha provato ad approcciarmi, io l’ho respinto mentre circolava alcol e droga. Sono andata via, ma siamo rimasti in contatto. Ho partecipato a una decina, forse una ventina di feste. Lui nei party era sempre molto fisico: si avvicinava a tutte le ragazze, ci ballava in modo provocante però tutti lo accettavano perché era lui che offriva. Aveva una specie di “Sindrome da sceicco”, non c’erano altri uomini se non alcuni amici e il suo braccio destro. Una sera, in una villa di Ibiza, è successo qualcosa di tragico che vuole raccontare: “Ho preso il suo aereo molte volte per andare a Ibiza. Una di queste eravamo quattro ragazze (di cui tre modelle), un ragazzo e appunto Alberto Genovese. Una di loro, che veniva dalla Lituana, ha cominciato a provarci con lui. Dopo poche ore si sono chiusi in camera e non li abbiamo visti per tre giorni". Finita la festa, l'ha finalmente incontrata: "Gli altri sono andati via, noi l’abbiamo poi ritrovata in una camera, a letto, addormentata nuda fra i suoi escrementi. Non so cosa sia successo, posso supporre. L’hanno messa sotto la doccia, dov’è rimasta per un’ora. Non ha voluto un'ambulanza, forse perché aveva assunto droghe. Ha smesso di parlare, camminava a gambe divaricate, una scena che non posso dimenticare. Noi stupidamente pensavamo che fosse colpa sua, perché reduce dall’uso di sostanze stupefacenti. Oggi capisco che forse abbiamo sbagliato a giudicare".   

L'amico di Genovese: "Alberto fuori controllo". Uno stupro di 20 ore e la difesa impossibile. "Gli piaceva, pensava a una vacanza con lei". Cristina Bassi, Martedì 17/11/2020 su Il Giornale. Anche Chiara Ferragni entra nella discussione sul caso di Alberto Genovese, per difendere la giovane che ha denunciato l'imprenditore milanese per stupro. «Come potete pensare - scrive su Instagram - che una donna denunci il suo stupratore, se poi quando lo denuncia, la gente non le crede? La gente scrive che il suo stupratore era un vulcano di idee che si è dovuto momentaneamente spegnere? Che anche se ci sono i video di lei, violentata per 20 ore, le persone si sentono comunque in diritto di dire a lei cosa avrebbe dovuto fare?». L'influencer più celebre d'Italia, che ha deciso di intervenire «dopo averci pensato per due giorni», sottolinea: «I social sono pieni di commenti contro la ragazza, eh ma che cosa ci faceva lì, eh ma perché ha accettato le droghe... Ma siamo seri? Ci sono milioni di persone che normalmente pensano queste donne che accusano i ricchi di stupro per fama, vogliamo le prove! C'è una crociata contro gli uomini. Poi escono video e prove, e quelle stesse persone che sono sempre a difendere i poveri imprenditori accusati di stupro, rivoltano il discorso su di lei, addossandole la colpa della violenza». Dopo le indiscrezioni sugli invitati vip alle feste di Genovese è intervenuta inoltre Letizia Mannella, procuratore aggiunto di Milano e capo del pool fasce deboli: «Creare pettegolezzi su vicende tristi e drammatiche è inopportuno. Non vorrei si creasse un interesse morboso su una situazione che merita rispetto e, in generale, silenzio. Si tratta di fatti gravi e gravemente puniti ed è importante tenere presente e tutelare la dignità della persona umana, soprattutto delle vittime». Il pm che coordina le indagini insieme alla collega Rosaria Stagnaro ha aggiunto: «Chi sia andato alle feste, se non è rilevante (penalmente, ndr), non ci interessa». E ha sottolineato che tutto quello che viene «detto nell'ufficio della Procura da testimoni o parti offese è coperto dal segreto istruttorio». Mannella ha poi ricordato che l'indagine che ha portato in carcere Genovese, accusato di violenza sessuale aggravata, sequestro di persona, lesioni e spaccio, «riguarda vicende drammatiche il cui primo connotato è la serietà». Dunque: «Vittime e ospiti e chiunque deve mantenere il segreto istruttorio su vicende di eccezionale gravità». Ieri infine, collegato da Bali con la trasmissione Mattino Cinque, ha parlato dei fatti contestati all'imprenditore 43enne il suo amico di lunga data Daniele Leali. L'uomo, che era presente alla festa la sera in cui le telecamere hanno ripreso gli abusi sulla 18enne e che non risulta indagato, ha dichiarato a proposito dell'amico: «Ho avuto la sensazione che molte volte potesse andare oltre, ma mai nella violenza. Ho cercato di consigliarlo più volte, gli ho detto di non esagerare, soprattutto per quanto riguardava le droghe. Forse quando era sotto il loro effetto non si controllava». Ancora: «Quella sera ero lì. L'ultima volta che ho visto Genovese erano le 23. Alberto non hai mai portato nessuno nella sua camera contro la sua volontà. Si ritirava in camera, ma non voleva che nessuno ci entrasse». Sulle feste a Ibiza: «Nessuno droga nessuno, le persone si drogano in modo autonomo. Molte di quelle che frequentano questo ambiente lo fanno perché sanno che la droga è gratis». E sulla ragazza che è stata, secondo le indagini e i video, ammanettata, stordita con la droga, sequestrata per quasi 24 ore e stuprata a ripetizione: «Alberto mi ha confessato che era innamorato di lei. Voleva rivederla e organizzare una vacanza insieme. Non aveva la percezione di averle fatto qualcosa di male».

Renato Franco per il “Corriere della Sera” il 16 novembre 2020. Belén, Grignani, Jerry Calà: sarebbero questi i nomi fatti dalle ragazze coinvolte nelle serate che si svolgevano a Terrazza Sentimento, a casa di Alberto Genovese, l' uomo (ex-cofondatore di Facile.it, che ha venduto 6 anni fa) arrestato nei giorni scorsi con le accuse di violenza sessuale, spaccio e sequestro di persona. Belén ha scelto le stories di Instagram per spiegare in che rapporti (e cioè nulli) era con Genovese: «Prima ancora che qualcuno venga a sventolarmi in faccia "tragiche foto ricordo della serata" di fantozziana memoria dirò subito che ho partecipato una sola volta, ai primi di settembre di quest' anno, ad una festa presso il famigerato attico milanese perché invitata non dal proprietario - con il quale non ho mai avuto alcun rapporto diretto - ma dal mio carissimo amico Dj Salvatore Angelucci il quale aveva il piacere (reciproco) di farmi assistere ad una sua esibizione di natura professionale. La serata si è svolta in maniera normale e ordinaria e ho passato il tempo quasi interamente a dialogare con alcuni amici tra cui Carlo Cracco (che mi permetto di citare solo in quanto anche le sue foto sono apparse nel medesimo tritacarne mediatico) fino al momento in cui verso le 11.30 ho deciso di non essere più della compagnia e di allontanarmi dalla festa con tanto di foto paparazzate. Una sola volta e nulla più». Belén ricorda anche un' altra circostanza, questa volta a Ibiza, immortalata da una «fotografia decontestualizzata» che la ritrae «insieme ad una allegra compagnia durante una serata trascorsa la scorsa estate in un famoso ristorante di Ibiza, nel corso della quale un amico comune si avvicinò al tavolo presso cui ero intenta a cenare con mio figlio, invitandomi a scattare una foto tutti insieme per immortalare il momento, come spessissimo è accaduto e accade in ragione della mia notorietà. Accolta con favore la richiesta ed espletata la "formalità", sono tornata da sola al mio tavolo». Se Grignani si dice «totalmente estraneo ai fatti», Cracco si è trovato sì a una di quelle feste. Non per divertimento però. Lo chef fa sapere infatti di aver solo svolto in una di quelle serate un servizio di catering (come ne fa tanti ad eventi privati) insieme a due suoi collaboratori e dice di essersi intrattenuto solo il tempo necessario per il servizio. Assicura che non ha mai frequentato le feste di Genovese né tantomeno avuto alcun tipo di rapporto personale con lui. Anche Alba Parietti era venuta in contatto con Genovese (le tracce in un post su Instagram): «Io l' ho visto una volta a pranzo sulle piste da sci a Courmayeur e la sera stessa in un ristorante con un gruppo di persone. Da lì non ho mai più incontrato questa persona. Ricordo solo che la sua corte di persone, il troppo denaro e troppo sfarzo, l' esteriorità esibita attraverso i social erano state più che sufficienti per non volerci avere mai più niente a che fare. Certo non potevo immaginare che arrivasse a tanto, ma da quel primo incontro non l' ho mai più visto. Non sono mai stata a casa sua, né a Courmayeur né a Milano».

Sandro De Riccardis per “la Repubblica” il 17 novembre 2020. Alberto Genovese, l' imprenditore arrestato per stupro ai danni di una diciottenne durante il party nel suo super attico a pochi passi dal Duomo di Milano, e i notai Angelo Busani e Mauro Grandi, al centro delle più importanti operazioni finanziarie della Lega, a cui si rivolgono politici e professionisti del Carroccio per operazioni immobiliari e movimentazioni di denaro. Due mondi che sembrano distanti anni luce, e che invece sono più vicini di quanto possa apparire. Legati indissolubilmente nella storia di Prima. it, la società assicurativa fondata nel 2014 da Genovese dopo la vendita di Facile.it, e in una "Segnalazione di operazione sospetta" della Guardia di Finanza di Milano, depositata agli atti dell' inchiesta sulla Lombardia Film Commission del procuratore aggiunto Eugenio Fusco e del pm Stefano Civardi. Un documento che accende i riflettori su 18 milioni 744mila euro che il notaio Angelo Busani bonifica il 5 luglio 2018 al collega Mauro Grandi. Un bonifico che ha come causale "Pagamento quote Prima assicurazione verso Bailican Ltd". Grandi farà partire, il giorno stesso, quel denaro verso due entità estere: 17 milioni e 802 mila euro alla società cipriota Bailican Ltd, controllata al 99,9% dall' imprenditore ed ex vicepremier ucraino Sehiy Thipko, e 937 mila euro al Merchant trust alle isole Cayman. Un' operazione considerata sospetta dalla Finanza, di cui non se ne conosce la ragione economica né gli effettivi beneficiari. Di chi sono quei soldi? Che ruolo ha Genovese e la società da lui fondata nel bonifico da oltre 18 milioni? Che rapporto ha l' imprenditore con le società off-shore che incassano il denaro? (...) I due notai, entrambi non indagati, compaiono nelle partite finanziarie più importanti della nuova creatura di Genovese. (...)

Cesare Giuzzi e Giuseppe Guastella per corriere.it il 7 dicembre 2020. «La prima cosa che facevo quando rientravo in casa era guardare se c’erano le luci accese. Se tutto era illuminato, voleva dire che quella notte non avremmo dormito». Per la musica altissima e il caos. C’è un mondo rimasto in ombra per anni nel palazzo vicino a piazza Duomo diventato il regno di Alberto Genovese e delle sue notti esclusive che per chi abita lì è stato «un incubo durato più di due anni». Decine di episodi, almeno 13 interventi di polizia e carabinieri, lamentele ed esposti per i party esagerati a «Terrazza sentimento». A raccontare dall’interno quel periodo è Fabio (nome di fantasia), 38 anni, lavoro in una società informatica, moglie 35enne imprenditrice e artista, una figlia piccola. Per mesi, prima che emergesse la storia della violenza sulla modella 18enne costata l’arresto a Genovese (indagato anche per un sospetto stupro su una 23enne a Ibiza), e che le immagini delle serate iniziassero a circolare ovunque, ha combattuto una battaglia infinita solo per poter chiudere occhio la notte. Anche il console austriaco che vive lì vicino e altri residenti hanno chiamato decine di volte le forze dell’ordine e ora, chiuse le indagini sul disturbo della quiete pubblica, Genovese rischia un processo anche per questo. «La prima cosa che facevo quando rientravo in casa era guardare se c’erano le luci accese. Se tutto era illuminato, voleva dire che quella notte non avremmo dormito». Per la musica altissima e il caos. C’è un mondo rimasto in ombra per anni nel palazzo vicino a piazza Duomo diventato il regno di Alberto Genovese e delle sue notti esclusive che per chi abita lì è stato «un incubo durato più di due anni». Decine di episodi, almeno 13 interventi di polizia e carabinieri, lamentele ed esposti per i party esagerati a «Terrazza sentimento». A raccontare dall’interno quel periodo è Fabio (nome di fantasia), 38 anni, lavoro in una società informatica, moglie 35enne imprenditrice e artista, una figlia piccola. Per mesi, prima che emergesse la storia della violenza sulla modella 18enne costata l’arresto a Genovese (indagato anche per un sospetto stupro su una 23enne a Ibiza), e che le immagini delle serate iniziassero a circolare ovunque, ha combattuto una battaglia infinita solo per poter chiudere occhio la notte. Anche il console austriaco che vive lì vicino e altri residenti hanno chiamato decine di volte le forze dell’ordine e ora, chiuse le indagini sul disturbo della quiete pubblica, Genovese rischia un processo anche per questo. La sera di mercoledì 29 maggio 2019 iniziano i «controlli». Sulla terrazza c’è l’esibizione di un noto attore-cantante. Davanti al portone del palazzo una specie di buttafuori che fa la guardia come se fosse l’ingresso di un locale notturno: «Siete qui per la festa del signor Alberto?». Una volta dentro al cortile dalle colonne rivestite di marmo bianco, grazie a un codice segreto gli invitati, la maggior parte ragazze, salgono fino al sesto piano con l’ascensore, che per gli altri inquilini si ferma al quinto. Qui Genovese ha installato un pesante cancello che impedisce tuttora l’accesso alle scale: «Proprietà privata». Poi ha fatto murare il resto dei gradini chiudendo il passaggio al vano ascensori. Tanto che l’imprenditore, dopo le proteste dei vicini, pur di non «riaprire» l’accesso al piano ha trasferito a sue spese al pianterreno l’impianto motore. «Terrazza sentimento» è un topic sui social. Gli hashtag su Instagram rimandano a video di feste di compleanno, addii al celibato, party in piscina. Sulla pagina Facebook dove c’è perfino il cellulare di Genovese, una donna chiede se può «affittare la location per una festa dei 50 anni» come fosse una discoteca. «Il portinaio ci avvisava di prepararci a fare la notte in bianco perché nel pomeriggio erano passate casse di alcolici», racconta Fabio. È uno straniero, lavora qui da 3 anni e si limita a dire che la casa di Genovese è chiusa. Il 28 maggio 2017 si celebrano i 40 anni del mago delle startup. Al party ci sono decine di giovani, dj, fotografo, vocalist e sassofonista. Sui social finiscono le immagini di champagne, cocktail, sulla terrazza decine di persone con in mano torce luminose. Ogni invitato ha un braccialetto bianco al polso, come nei villaggi turistici. «Una volta mia moglie ha avuto un attacco di panico e abbiamo dovuto chiamare il 118. Era appena nata la nostra bambina. Dopo il parto ha dovuto prendere dei rilassanti. Purtroppo c’è chi pensa che con i soldi sia possibile qualsiasi cosa: io pago e faccio tutto quello che voglio».

Cesare Giuzzi e Giuseppe Guastella per il “Corriere della Sera” l'8 dicembre 2020. Centinaia di immagini di rapporti sessuali anche estremi con ragazze giovani e belle scambiate in chat con gli amici. Le «prede» che Alberto Genovese catturava in camera da letto durante le feste a «Terrazza sentimento» giravano come trofei da esibire, e dileggiare, sui telefonini della stretta cerchia di amici e inevitabilmente venivano rilanciate ad altri cellulari e da questi ad altri ancora in una catena infinita. Corpi violati e ridotti a bottino che il 43enne imprenditore, in carcere da un mese per lo stupro di una modella 18enne e indagato per una violenza sessuale su una 23enne ad Ibiza, umiliava e condivideva con altri predatori sessuali. A raccontare questo traffico di immagini sono state le decine di testimoni ascoltati nelle scorse settimane dagli investigatori che stanno analizzando i 400 gigabyte di filmati, documenti e fotografie sui due telefonini e i due tablet sequestrati a «Terrazza sentimento». Materiale che potrebbe nascondere altri casi di violenze sessuali. I video girati nella notte tra il 10 e l'11 ottobre dalle telecamere di sorveglianza del superattico con vista sul Duomo riprendono per intero le quasi 20 ore della violenza. Mostrano l'imprenditore mentre fotografa con il cellulare la 18enne nuda e priva di sensi sul letto della sua camera. Altre due fotografie vengono scattate mentre abusa della ragazza, che non si muove perché è totalmente intontita dalla droga che lui le ha fatto prendere trasformandola in «una bambola di pezza» nelle sue mani, come si legge agli atti dell'inchiesta condotta dalla Squadra mobile coordinata dal pm Rosaria Stagnaro e dall'aggiunto Letizia Mannella. Non è chiaro se abbia o meno inviato agli amici anche queste immagini, perché l'analisi forense dei file è ancora in corso. Genovese, però, dopo la violenza non ha cancellato immagini dai due telefonini che usava, dei quali al momento dell'arresto ha fornito spontaneamente le password. Un terzo apparecchio di vecchia generazione è stato trovato nella cassaforte che si trova in camera da letto assieme a 40 mila euro in contanti e ad alcuni grammi di «coca rosa». I tecnici non hanno ancora potuto accedere alla memoria. Anche nei due tablet sono stati trovati video e foto. Genovese conservava in modo maniacale, quasi come un collezionista, ogni immagine delle ragazze con le quali aveva rapporti sessuali. Materiale che gli inquirenti definiscono «sterminato» che risalirebbe anche a più di due anni fa. Alcune delle giovani sentite dalla squadra Mobile hanno testimoniato che quasi ad ogni festa Genovese sceglieva una, due delle invitate e le portava con sé al piano di sotto, nella camera da letto con la porta chiusa e sorvegliata da un bodyguard, con la scusa di «tirare» droga migliore. Interrogato dai magistrati immediatamente dopo l'arresto, l'uomo ha raccontato che le ragazze che partecipavano alle sue feste esclusive lo «adulavano» in continuazione perché «quando mai gli sarebbe ricapitato di andare in vacanza a Ibiza con un jet privato?». Ha anche parlato degli ultimi anni della sua vita, quelli trascorsi dopo aver incassato oltre 100 milioni con la vendita delle società. «Fino all'agosto del 2014 ho lavorato tantissimo. Poi ad agosto 2015 ho cominciato a drogarmi mentre ero in vacanza nell'hote Tahiti a Formentera». La cocaina diventa una schiavitù: «Per un anno sono stato in grado di lavorare, poi ho incominciato a circondarmi di persone più forti di me per il percorso di studi e capacità, e io ero sempre più solo». Di fatto ha «smesso di lavorare»: «L'ultima volta che ho aperto un computer per lavorare è stato nel 2016 o 2017. Non avevo nemmeno il badge per accedere alla sede della società». Davanti ai pm, Genovese parla anche del tentativo non riuscito di far «piallare» (cancellare) da un tecnico le immagini delle videocamere della casa nelle ore successive alla violenza: «Quando ho chiesto di cancellare tutto» è perché «avevo paura che la ragazza fosse minorenne» e perché «c'era la polizia sotto casa mia, c'era droga d'appertutto e poi c'era la notte trascorsa con la 18enne» che, sostiene, «poteva essere presa, se fuori contesto, come violenza sessuale».

Monica Serra per “la Stampa” l'8 dicembre 2020. Era un "collezionista" di foto e video Alberto Maria Genovese: delle serate, dei festini fino al mattino a Terrazza sentimento o nei locali milanesi. Anche, e soprattutto, delle ragazze con cui era solito intrattenersi nella camera padronale del suo superattico con vista Duomo. Scatti a volte rubati, come nel caso della 18enne che è accusato di aver sequestrato e stuprato per 24 ore tra il 10 e l'11 ottobre scorsi. Foto intime che poi - raccontano i suoi amici sentiti come testimoni - Genovese mandava in giro per «vantarsi» delle sue performance. Una «spacconata» che ora complica la posizione del mago delle startup, in una cella di San Vittore dal 6 novembre scorso. E che dà nuovi spunti investigativi alle pm Letizia Mannella e Rosaria Stagnaro, titolari dell'inchiesta. Migliaia di foto e video sono stati raccolti dai telefonini sequestrati a Genovese alla presenza dei consulenti di accusa, difesa e della vittima, ora assistita dall'avvocato Luigi Liguori. L'intera memoria di due tablet e due cellulari è stata scaricata: l'imprenditore ha accettato di fornire alla procura il pin, uguale per tutti i dispositivi. Manca però il codice per aprire un terzo cellulare, che la Squadra mobile ha trovato nella cassaforte del superattico, con 40 mila euro, e i resti di cocaina e 2cb, la pregiatissima "coca rosa", servite sui piatti all'ultimo esclusivo party. La mole di materiale è enorme. Si aggiunge ai video delle diciannove telecamere di sorveglianza dell'appartamento, ai contenuti pubblicati sui social e a quelli acquisiti nei cellulari di molti ospiti più o meno abituali a Terrazza sentimento: in tutto una sessantina sono già stati convocati in Questura. Tutti i piccoli segmenti del girato delle telecamere, da maggio a ottobre, vanno contestualizzati, collegati a party, fatti e persone. Anche a caccia di altri casi di violenza sessuale che Genovese potrebbe aver commesso. Al netto, chiaramente, del materiale che l'imprenditore ha nel tempo chiesto al suo tecnico di «piallare» quando si rendeva conto di aver «esagerato». Ci ha provato anche il 12 ottobre, mentre gli investigatori stavano per perquisire il suo appartamento. «Perché avevo paura», ha spiegato ai pm durante l'interrogatorio del 19 novembre. «C'era la polizia sotto casa, la droga, la notte con la ragazza. Che, fuori contesto, poteva essere presa come una violenza sessuale». Genovese ha parlato pure del lavoro, distinguendo la sua esistenza in «due fasi»: «Fino all'agosto 2014 ho lavorato moltissimo. Ma ad agosto 2015 ho iniziato a drogarmi all'hotel Taiti di Formentera», ha messo a verbale. «Sono riuscito a lavorare per un altro anno, poi ho iniziato a circondarmi di persone più forti di me, più preparate, e io ero sempre più solo». Così il re delle startup dice di aver «smesso di lavorare». L'ultima volta che ha usato un computer per lavoro risalirebbe al «2016, forse 2017. Non avevo neanche il badge per entrare nella società». I magistrati hanno provato a chiedergli del secondo caso di violenza che ora gli contestano, su una ventitreenne a luglio. Lui ha cercato di «minizzare». Del resto a quella ragazza - si è chiesto spavaldo - «quando capiterà più di andare in vacanza a Ibiza con un jet privato?».

Nino Materi per “il Giornale” il 19 novembre 2020. La strategia difensiva dell' imprenditore Alberto Genovese, accusato di aver sequestrato e violentato una 18enne durante una festa nel suo attico vicino al Duomo di Milano, è chiara: «concedere» ai pm (che ieri lo hanno interrogato per 5 ore) parziali ammissioni sullo stupro, dando però la «colpa» degli abusi a un «uso massiccio di droghe» che avrebbe provocato in lui uno «stato allucinogeno» tale da «impedirgli di distinguere tra bene e male». Insomma, secondo questa tesi, «complici» del dramma che si consumò la notte del 10 ottobre proseguendo fino alla mattina del giorno successivo, sarebbero la cocaina oltre a un «cocktail» a base di sostanze sintetiche per «sballare» meglio, lo stesso mix stupefacente che Genovese fece assumere alla giovane vittima per annullarne ogni resistenza. Ovviamente la tattica di Genovese funzionale al contenimento dei danni giudiziari dovrà essere supportata da prove documentali; ma non è da escludersi che con dei buoni avvocati (e i due legali scelti da Genovese lo sono certamente) la condanna dell' imprenditore possa alla fine risultare dura ma non durissima. Del resto Genovese, 43 anni, «genio» delle start up ed ex numero uno di «Facile.it» e «Prima Assicurazioni», non ha vie di scelta, se non quella di procedere lungo la strada di una parziale incapacità di intendere e volere. Nel corso del faccia a faccia coi pm milanesi lo ha ribadito: «Ogni volta che mi drogo ho allucinazioni e in tale stato non ho più la percezione del limite esatto tra legalità e illegalità. Ho bisogno di essere curato anche se mi sento una persona intimamente sana». Ma in quella dannata sera della festa sulla famigerata «Terrazza Sentimento» Genovese era lucido o alterato dalla cocaina? Il grado di «pesantezza» del verdetto dei giudici, quando Genovese andrà a processo, dipende anche da questo particolare. Intanto, da ciò che è emerso dalle indagini, è assodato che l' imprenditore, prima di chiudersi in camera con la sua preda, le fece assumere droga e ketamina, ordinando a un buttafuori di presidiare l' ingresso della stanza. L' ordine fu perentorio: «Non fare entrare nessuno». E dedurne la ragione è fin troppo semplice. Solo nel pomeriggio del giorno successivo, quando era stata liberata, la giovane riuscì a lasciare l' attico di Genovese, denunciando poi l' imprenditore. Nei video delle telecamere di sorveglianza della casa (che il manager cercò vanamente di far distruggere), sequestrati dalla Squadra mobile, sono immortalate le sequenze dell' intera serata. Il procuratore aggiunto Letizia Mannella e il pm Rosa Stagnaro, però, non puntano solo a fare luce sul festino del 10 ottobre, ma pure a inquadrare meglio il contesto in cui si muoveva Genovese, a capire se - come pare emergere dagli accertamenti - quello sulla 18enne non sia l' unico episodio di abusi commessi dall' imprenditore. Tesi di cui si è persuaso anche il gip che, in precedenza, aveva convalidato l' arresto motivandolo tra l' altro col «pericolo di reiterazione del reato». Come dire: Genovese è uno stupratore seriale che va tenuto in cella in quanto ancora pericoloso per sé, ma soprattutto per gli altri. Tanti i testimoni già ascoltati dai magistrati, tra cui il maggiordomo, il buttafuori e una giovane ospite coinvolta in un caso analogo. Genovese, dopo l' interrogatorio in procura, è tornato nel carcere di San Vittore dov' è rinchiuso dal 6 novembre, bloccato mentre si apprestava a fuggire in Sudafrica. Violenza sessuale, lesioni gravissime e sequestro di persona i tre macigni che ora pendono sul suo capo.

GIUSEPPE GUASTELLA per il Corriere della Sera il 19 novembre 2020. Singhiozza, porta le mani al capo disperato. Alberto Genovese chiede una, due, tre volte e più di andare in bagno. È un interrogatorio faticoso, frammentario in cui per la prima volta l'ex mago delle startup risponde alle domande degli inquirenti dopo l'arresto per violenza sessuale aggravata, sequestro di persona, lesioni e cessione di stupefacenti ai danni di una ragazza poco più che diciottenne, ospite di una festa nel suo attico nel centro di Milano, alla quale aveva dato di nascosto la droga dello stupro. «Mi drogo da quattro anni», da quando «ho perso ogni ruolo operativo nelle mie società», «ora non sono più quello prima: un grande lavoratore che ha costruito tutto dal nulla», afferma ponendo una cosa come conseguenza dell'altra. La dipendenza sarebbe peggiorata negli ultimi due anni «con l'assunzione anche di tre, quattro grammi di cocaina al giorno» che non aveva alcuna difficoltà a procurarsi grazie al suo patrimonio di oltre cento milioni di euro accumulato con la vendita delle startup a peso d'oro. In un contesto di musica a palla fino a tarda notte, belle e giovanissime ragazze e quarantenni d'assalto la droga veniva servita nei piatti di portata a «Terrazza sentimento», come ha chiamato la sua lussuosa residenza. Lo certificano le immagini delle telecamere di sorveglianza sparse in tutti gli angoli della casa, le stesse che hanno registrato i particolari delle violenze e che l'imprenditore aveva chiesto di «piallare», e cioè distruggere, a un tecnico informatico per evitare, come accaduto, che finissero nelle mani degli investigatori della Squadra mobile della Questura di Milano guidati da Marco Calì. «A casa mia tanti assumevano droga liberamente», ammette Genovese di fronte al pm Rosaria Stagnaro e all'aggiunto Letizia Mannella che lo interrogano per cinque ore in quello che ai tempi di Mani Pulite fu l'ufficio di Gerardo D'Ambrosio. Assistito dagli avvocati Davide Luigi Ferrari e Luigi Isolabella, il 43enne ripete come un mantra ciò che aveva detto il 9 novembre in carcere subito dopo l'arresto: «Quando sono sotto gli effetti della droga non riesco a controllarmi e non capisco più quale sia il confine tra ciò che è legale e ciò che è illegale». Di certo questo non attenua le sue responsabilità, semmai le aggrava, né rende meno feroce la violenza sulla ragazza, ma lui prova lo stesso ad accreditare la tesi che, mentre infieriva sadicamente sulla sua giovane vittima, la droga gli aveva fatto perdere il senno, trasformandolo in un essere nel quale, dice ora, non si riconosce. «Ho bisogno di curarmi», implora. Di droga in casa gliene hanno trovata tanta e di tutti i tipi: quaranta grammi tra cocaina, chetamina e mdma chiusi in cassaforte. Era quello che era avanzato dalla festa della violenza atroce del 10 ottobre. Gli investigatori vogliono capire chi gliela forniva, chi invitava le ragazze e se qualcuna si sia prostituita, ma soprattutto se si siano verificate altre violenze nella camera da letto di Genovese la cui porta chiusa veniva sorvegliata da un buttafuori. Oltre che sulle complicità della corte dei miracoli che circondava e assecondava il ricchissimo imprenditore, le indagini si concentrano anche sulle testimonianze. In molti farebbero volentieri a meno di presentarsi in Questura. Dopo essere stato popolarissimo negli ultimi due anni, con l'arresto l'hashtag #terrazzasentimento è sparito dai social assieme ai profili Facebook e Instagram della residenza e a tutte le foto e le condivisioni che un tempo gli ospiti avevano fatto a gara a postare. Genovese poggia la testa sul tavolo, gli avvocati provano a confortarlo. Sembra provato, ma la lucidità gli torna all'istante quando si tratta di leggere, e correggere, il verbale di quello che è solo il primo interrogatorio.

Massimo De Angelis per ''Libero Quotidiano'' il 28 novembre 2020. Si sono scritti fiumi d'inchiostro sui festeggiamenti, un po' sopra le righe, nella ormai nefasta Terrazza Sentimento con piscina vista guglie del Duomo. Numerosi i party, diurni e notturni, nella lussuosa dimora milanese in un crescendo di partecipanti, sound musicale, disperazione dei vicini e attenzione mediatica, fino a giungere al fatto di cronaca nera avvenuto lo scorso 10 ottobre. Ma in realtà le celebrazioni border line di Alberto Genovese non erano sempre uguali, a volte più intime per una ventina di persone a lui note e ogni tanto allargate per un centinaio abbondante di adepti non tutti ben conosciuti dal padrone di casa. I ritrovi per pochi, e scelti, individui iniziavano di pomeriggio con musica, barbecue, tuffi nell'acqua climatizzata e discinte fanciulle a bagno maria (se il tempo lo permetteva) ma difficilmente duravano fino all'alba, poiché Genovese ad un certo punto della serata abbandona i commensali per dirigersi nel suo appartamento "blindato" al piano inferiore con la fidanzata, la ragazza di turno o tutte e due insieme. E il resto della ciurma scioglieva le righe, terminando la serata in un locale della città, magari in attesa dell'arrivo last minute dell'ex re delle start up, buon frequentatore dei club meneghini con sonorità elettroniche. Ma la curiosità è che quando venivano organizzate le feste serie notturne nell'attico di piazza Santa Maria Beltrade le modalità di ingresso replicavano quelle delle più famose discoteche, ovvero l'entrata con liste. Gli ospiti infatti venivano scelti per lo più dai pierre sodali di Genovese, ognuno dei quali lasciava al buttafuori un proprio elenco di invitati, ovviamente con l'obbligo di privilegiare modelle, signorine immagine e vivaci cubiste. Diciamo che l'età media delle ragazze era decisamente giovane, mentre gli uomini, quasi sempre in minoranza, viaggiavano sulla trentina. Le regole standard dicevamo: no uomini affascinanti, zero inutili coppie, calciatori playboy alla larga e belle donne senza compagni appiccicosi attorno. Tutti questi party avevano però una caratteristica comune, cioè che l'unico protagonista risultasse Alberto Genovese, con gli altri a fare da simpatica scenografia. Per questo risulta difficile pensare alla presenza in Terrazza di un imprenditore di livello, di una star della finanza, di un vip dello spettacolo, poiché a loro non piace fare da comparsa e a Genovese non interessa avere pari grado in circolazione. La sua generosità in casse di champagne, bottiglie di pregiato alcool o piatti con sostanze rientrava nel progetto mentale di avere intorno a sé una corte di adulatori, nani e ballerine, yes man pronti sempre e comunque a riconoscere il capo banda. Lasciava a disposizione del pubblico adorante l'ultimo livello dell'abitazione, quello della baraonda, dei deejay in consolle, del catering stellato, delle urla effimere, mentre teneva nascosta la sua alcova al piano di sotto, nella quale poteva accedere solo il re con la preda di turno. E a quel punto salta fuori il peggior istinto famelico e distruttivo di Genovese, grazie all'uso esagerato di varie tipologie di droghe, più o meno sintetiche, ma di sicuro assai pericolose. Il padrone di casa normalmente arrivava in Terrazza verso le 22.30, cominciando a girare in mezzo alla gente, osservava ancora lucido i volti delle allegre donzelle, scrutava i fisici e dopo un drink, due chiacchiere e forse un accenno di danza sceglie nel gruppo il trofeo per le successive, agitate, ore. Così da raggiungere il vero scopo dei suoi party, nuove conquiste femminili in un bulimico susseguirsi. Mentre nel salone la rumba continuava, la moltitudine vociante ballava e beveva, il Dottor Jekyll e Mister Hyde delle start up si rintanava nella sua stanza per cominciare il rito di iniziazione, dalle conseguenze imprevedibili. Sopra il popolino gozzovigliava ignaro, sotto veniva portato ormai a compimento il rituale appuntamento con il sesso estremo. Dal mese di settembre Alberto Genovese, e i fidi scudieri, avevano deciso di impedire la circolazione di cellulari durante le feste, per togliersi magari da qualche impiccio sgradito. I telefonini dovevano essere abbandonati in una grande cesta all'ingresso, per poi recuperarli prima di uscire, come si usava la scorsa estate nelle ville ibizenche, in modo da evitare che tramite la localizzazione degli smartphone potessero infilarsi persone non gradite ai clandestini party. Una tendenza partita dall'isola regina delle Baleari e riproposta poco dopo nel centro storico del capoluogo lombardo, un po' per fare i fenomeni e un po' per immaginabili esigenze di privacy. Sarebbe bello spiegare al resto d'Italia che questa di Genovese non è la Milano bene, o meglio da bere, bensì un triste spaccato di chi ha deciso, dopo aver raggiunto la ricchezza, di comprarsi tutto e tutti, dagli amici alla riverenza dei leccapiedi, dalla compagnia alle più o meno ingenue diciottenni...

Alberto Capra per mowmag.com il 20 novembre 2020. La vicenda Genovese continua a catalizzare l’attenzione dell’opinione pubblica e, a destare ulteriore scalpore, si sono aggiunte le dichiarazioni di Daniele Leali, l’organizzatore delle feste che si tenevano a casa del fondatore di facile.it. Leali, infatti, ospite di Mattino 5, lo scorso lunedì 16 novembre, ha ricostruito la vicenda che ha portato al presunto stupro con toni che sono parsi, ad alcuni commentatori, troppo indulgenti nei confronti di Genovese e connotati da un pregiudizio che tenderebbe a ricondurre la colpa di quanto accaduto - secondo una dinamica molto comune nei casi di violenza sessuale - dal presunto violentatore, alla vittima dell’abuso. Ora, è evidente - e dal nostro punto di vista, abbastanza scontata - l’assoluta necessità di condannare qualsiasi forma di violenza: nessun comportamento, da parte di nessuna vittima, può in alcun modo giustificare alcuna prevaricazione. Un principio la cui portata può essere compresa ancor meglio facendo riferimento ad alcune delle sentenze emesse in materia dalla Corte di Cassazione. Basti pensare che i giudici della Suprema Corte sono arrivati ad affermare che il reato di violenza sessuale possa configurarsi anche nel caso in cui una prostituta neghi il proprio consenso a un bacio sulla guancia. O che, perfino ad amplesso iniziato, il sopraggiungere di un pianto improvviso obblighi il partner ad accertarsi che esso non equivalga a un’opposizione al rapporto sessuale. Insomma, il consenso serve sempre e può sempre essere negato. Non ci sono abbigliamenti, o comportamenti o contesti che tengano. Fatta questa doverosa premessa, una certa perplessità ha suscitato, in chi scrive, la descrizione che indirettamente è stata fatta della vittima della violenza, da parte di Selvaggia Lucarelli. La giornalista di The Post Internazionale, ha riportato quanto dichiarato da Leali, a Mattino 5, in questi termini: Ma le cose più interessanti le dice in seguito: “La ragazza l’ho vista il giorno dopo e ci ho parlato. Era in uno stato visibilmente alterato, mi ha detto che non ricordava nulla e io ho le ho detto ‘bimba mia, tu sei andata con le tue gambe in camera con una persona, io non ero dentro con te, se non ti ricordi sarà perché avete condiviso qualche eccesso insieme, vi sarete drogati!’”. “Bimba mia”, la chiama. Col tono di chi conosce già la verità, di chi la tratta con la sufficienza che si riserva alle adulte, maggiorenni, consenzienti. Diciottenni - dunque ragazzine - che a queste festicciole così sobrie invitava quasi sempre lo stesso Leali. La sufficienza che si riserva alle adulte, alle maggiorenni, alle consenzienti, e quindi non alle diciottenni, perché ragazzine. La presunta assenza delle condizioni a cui allude Selvaggia Lucarelli (l’assenza della maggiore età e dell’essere adulti) pone due ordini di problemi.

Il primo ha a che fare con una pericolosa, quanto immotivata equazione: se la vittima fosse stata effettivamente adulta e si fosse trovata in quella situazione, Leali avrebbe ragione - la mancanza di consenso non avrebbe potuto essere opposta, stante l’assunzione di sostanze stupefacenti. Sappiamo, tuttavia, che non è così: anche se in camera con Genovese ci fosse stata una trentenne, la sua libertà di sottrarsi a un approccio sessuale, sarebbe stata sacrosanta anche e soprattutto nel caso in cui non fosse stata pienamente in grado di intendere e di volere.

Il secondo problema ha a che fare con la narrazione di questo tipo di vicende. Perché se, al di là del caso specifico, quello che si vuole fare è ridurre il più possibile la frequenza di episodi di questo tipo, sovvertendo una mentalità tanto radicata, quanto profondamente sbagliata, ebbene, i fatti bisogna raccontarli per quello che sono. È necessario poter comprendere le cose, poter capire i fenomeni, per poterli contrastare.

E semplificare, appiattire tutto, banalizzare le cose, non aiuta. Affermare, in altre parole, che una donna di diciotto anni sia una non-maggiorenne, sia una ragazzina, sia un soggetto che non possa coscientemente relazionarsi al mondo che la circonda, alle situazioni in cui si viene a trovare, equipara indirettamente chi si trova davvero in questa condizione alle donne adulte e fa il gioco di chi, questo tipo di situazioni, tende a minimizzarle colpevolmente. È per avere un punto di vista differente sull’accaduto, che ci siamo rivolti a uno dei personaggi femminili più anticonvenzionali e sovversivi degli ultimi anni, colei che si è definita come la più femminista di tutte le femministe: Paolina Saulino.

Paolina, cosa ne pensi di questo modo di descrivere le protagoniste delle vicende che hanno avuto luogo a casa di Genovese? Non è giusto considerare le ragazze che partecipavano a queste feste come adulte a tutti gli effetti? Credi faccia bene a loro o alla causa femminista questo tono commiserevole?

«Decisamente no. Non abbiamo bisogno di alcuna commiserazione. Questo perché noi siamo quello che facciamo. Possiamo dire quello che vogliamo ma siamo quello che facciamo. Poco buonismo, la violenza è da recriminare sempre, ma al netto dei cambiamenti e delle maturazioni inevitabili dai 18 ai 30 anni, se vuoi avere la libertà di passare il tempo con persone che ti fanno fare la bella vita, se vuoi fare sesso liberamente, drogarti e frequentare certi ambienti, devi allo stesso tempo assumerti la responsabilità che deriva da questa libertà. Non si può essere adulti a metà! Non puoi essere adulta per bere, scopare e fare festini, e smettere di essere adulta quando davanti hai persone che vogliono approfittarsene».

Detta così sembra che, secondo te, le ragazze che prendevano parte a queste feste sapessero a cosa andavano incontro…

«È così e tocca dirlo in maniera cruda. Inutile fare i perbenisti: se eri brutta e non eri disposta a concederti, in quei festini non ti ci ritrovavi, poi puoi frequentarli per poco ed allontanarti successivamente, puoi ritrovartici per caso e allora, una volta capito dove ti trovi, alzi i tacchi e te ne vai. Puoi farlo con consapevolezza per una o più volte, magari perché ti diverte... tutto è lecito. Ma chi va per certi mari, certi pesci trova. Punto».

Non credi sia necessario difendere la libertà di poter negare il proprio consenso in qualsiasi condizione?

«È chiaro che chiunque cerchi di prevaricare un’altra persona con la violenza fisica, o anche con quella mentale, è un pezzo di merda, maschio o femmina che sia. Ma non credo che questa presunta violenza sia più grave perché la vittima aveva 18 anni. Se avesse avuto 30 anni, la violenza avrebbe avuto un valore minore? Non credo proprio sia così. Pensiamo agli episodi di violenza che si sono verificati nei confronti di donne anziane. Se una donna viene violentata a 70 anni ha meno dignità? Non è proprio una questione d’età. La violenza va sempre punita in quanto tale e non perché la si pratichi nei confronti di un soggetto di sesso maschile o femminile o di età minore o superiore ai 36 anni. Evidentemente, oggi, sono più consapevole di me stessa e dei messaggi che comunico coi miei comportamenti. Io so che se mi comporto in quel modo, arriva un certo messaggio. Purtroppo le intenzioni non contano. La gente non sarà mai in grado di comprendere il tuo mondo interiore. Siamo solo noi a doverci prendere cura di noi stessi e delle nostre decisioni. Dobbiamo conoscere noi stesse per capire fin dove ci vogliamo spingere, anche ai limiti della libertà, anche ai limiti del rischio ma dobbiamo essere consapevoli di chi siamo e di quello che vogliamo. Anche se quello che vogliamo è relativo e contingente a una sola serata. Perché il fatto che io mi faccia una striscia o che pratichi del sesso occasionale, non definisce me stessa. Ma devo assumermene la responsabilità».

Valentina Nappi sostiene che il fatto di considerare le donne come esseri indifesi, da proteggere sempre, sia una delle espressioni della cultura patriarcale e uno dei motivi per cui questa cultura continua a perpetrarsi. Credi che abbia ragione?

«L’educazione e la formazione delle bambine e delle giovani ragazze deve consegnare loro gli strumenti per capire che una donna può scegliere liberamente di fare sesso in cambio di droga, di soldi, per semplice confusione - e io sono stata una donna molto molto confusa e rivendico il diritto alla confusione - ma che non può neppure scappare davanti all’evidenza di un principio molto semplice: ad ogni azione corrisponde una reazione. Ogni gesto, ogni comportamento, ha una conseguenza. Da una grande libertà, deriva una grande responsabilità. Il problema vero è che non tutti sono in grado di gestire tutta questa libertà. La gente non è abbastanza intelligente per essere libera. Devi capire cosa stai andando a fare ed essere pronta a gestirne le conseguenze. Tendenzialmente, se giri in quel mercato, vendi quella merce. O comunque questo è quello che penserà di te la gente che lì si trova. Non c’è un giudizio di merito in questo, eh! Tu puoi fare quello che vuoi nella tua vita, puoi anche cambiare idea successivamente, ma devi essere in grado di mettere distanze, confini. È un problema di formazione».

In che senso?

«Hai presente cosa dice Sweet Dreams? La canzone degli Eurythmics?»

No, non ce l’ho presente.

«Dice: “Some of them want to use you / Some of them want to get used by you / Some of them want to abuse you / Some of them want to be abused”. Il punto è proprio questo secondo me: tutti, là fuori, vogliono in qualche maniera usarti. E tu devi essere cosciente di questa cosa. Le giovani donne devono essere rese consapevoli di questo ma anche del fatto che loro, a loro volta, possono decidere di lasciarsi usare per arrivare a un secondo fine. È necessario che questo tipo di dinamiche, che a volte avvengono in maniera inconscia, siano spiegate e rese evidenti e governabili, da parte di chi viene educato. Devi capire che qualcuno ti sta usando ma che tu, se sei molto intelligente, ti puoi lasciar usare per ottenere un vantaggio più grande».

Non ti sembra una visione un po’ utilitaristica dei rapporti umani?

«Trovare qualcuno che ti ami in maniera completamente disinteressata è molto molto difficile. È necessario essere consapevoli che questo potrebbe non accadere mai nell’arco di una vita. Ed è necessario comprendere che tutto il resto dei rapporti, tutto ciò che non ha a che fare con l’amore incondizionato, è frutto di enormi compromessi».

Se un uomo di 18 anni avesse violentato una donna di 30, alluderemmo al fatto che non sia propriamente un adulto?

«Ma certo che no. Non diremmo che un ragazzo di 18 anni è un povero inconsapevole “quasi-adulto”, in un caso del genere. Nessuno avrebbe pietà di lui e non l’avrebbe neppure se ne avesse 15».

Com’eri tu a 18 anni?

«Io a 18 anni avevo vissuto già la metà, almeno, delle cose più brutte che mi sono capitate nella vita. A 18 anni ero spericolata, anche se forse lo sono stata ancora di più successivamente, attorno ai 23-24 anni. È molto bello essere adulti ed è molto bello sentirsi adulti anche a 18 anni. Molta gente non è adulta neanche a 40 anni. È bello avere la libertà di uscire, di fare tardi, di tornare il giorno dopo. È bello poter fare sesso con chi ti pare e non per forza per amore. Ma essere adulti non vuol dire avere solo grandi libertà. Essere adulti vuol dire anche essere responsabili delle proprie azioni, saper valutare le situazioni in cui ci ritroviamo per quello che sono».

Sandro De Riccardis per repubblica.it il 25 novembre 2020. Una denuncia contro ignoti a tutela della loro cliente, la ragazza di diciotto anni che ha vissuto oltre venti ore di violenza da parte di Alberto Genovese nel corso di una festa nel suo attico di lusso, a pochi passi dal Duomo di Milano. A presentarla in queste ore sono gli avvocati Luca Procaccini e Saverio Macrì, che ritengono che i file audio diffusi nella trasmissione "Non è l'Arena" siano stati modificati, e quindi trasmessi in una forma differente da quella originale. Il messaggio audio diffuso nella puntata di domenica scorsa è stato inviato dalla vittima a Daniele Leali, il dj e braccio destro di Genovese, che pochi giorni dopo l'arresto del suo amico ha deciso di partire per Bali. I due legali hanno messo a confronto l'audio originale, contenuto nel cellulare della loro assistita, con quello trasmesso in tv. E hanno deciso di segnalare alla procura le differenze tra i file da loro riscontrate, che ritengono essere stati tagliati e rimontati. "Il file è stato modificato per dare una rappresentazione diversa della realtà dei fatti che ferisce un'altra volta la ragazza - commenta l'avvocato Luca Procaccini -. Come se ci fosse stata una familiarità con Genovese, che invece la mia assistita conosceva appena. Tutto questo sarà denunciato in procura". L'audio mandato in onda riguarda una conversazione successiva alla notte tra il 10 e l'11 ottobre, quando si sono consumate le violenze. Parte dal cellulare della vittima e arriva a quello di Leali, ma "Non è l'Arena" non ha rivelato da chi l'ha ricevuto.  

Sandro De Riccardis per “la Repubblica” il 24 novembre 2020. La voce flebile da bambina. Che rivive giorno dopo giorno quelle ore interminabili di violenza, la notte del 10 ottobre alla Terrazza Sentimento, coi ricordi che affiorano lentamente e cominciano a fare sempre più male. «Quelle ore di paura non si possono neanche immaginare, io ho avuto paura di morire. Anzi io ho rischiato di morire. Ho avuto paura di non poter più rivedere mia mamma, mio papà, mia sorella, il mio gattino, i miei amici». Con un file audio inviato alla trasmissione di Canale 5 "Non è la D' Urso", la diciottenne stuprata e sequestrata per oltre venti ore da Alberto Genovese, nel suo super attico con vista sul Duomo di Milano, Vania - come viene chiamata da Barbara D' Urso - racconta come quella notte l' abbia cambiata. «In questi giorni, dopo che è uscita la notizia del suo arresto, ho iniziato a leggere tante cose e i miei ricordi si sono fatti sempre più precisi». Se ce ne fosse bisogno, dopo che l' inchiesta della procura ha recuperato dal sistema di videosorveglianza l'intero video della notte nella camera di Genovese, Vania si ritrova a doversi difendere dai giudizi offensivi sui social e in tv. «La cosa che mi fa più male è sentire i commenti di tante persone che cercano di darmi la colpa o di giustificare quello che mi è stato fatto.

Molta gente specula, commenta... Mi sono vista dipinta in tanti modi, cosa che non giustificherebbe comunque quello che mi è stato fatto. Ma mi infastidisce perché io non sono così. Io sono la vittima... Mi sono sentita più volta offesa, attaccata ingiustamente, perché dopo quello che ho vissuto penso che questa violenza mediatica non sia assolutamente giusta». Ora Vania chiede «solo un po' di umanità». «Sono in cura con degli psicologi, ci sono un po' di persone al mio fianco che mi stanno aiutando. Tengo a ribadire che sono debole, fragile, e tutto questo odio gratuito nei miei confronti mi fa stare male. Io sono una ragazza di diciotto anni, faccio la modella, ho appena finito gli studi e mi fa male sentirmi dare della escort, sentir dire che venivo pagata per andare a queste feste». Quella sera, alla terrazza Sentimento di Genovese, lei arriva con un' amica. Racconterà ai magistrati di essersi divertita, fino alle 22.30, ballando e consumando la droga che girava alla festa. Poi Genovese è diventato sempre più assillante, e lei ha perso di vista la sua amica. Ed è a quel punto che è iniziato l' incubo. «Non ho mai percepito queste feste come pericolose in nessun modo, non ho mai percepito questo ambiente come viscido. Io andavo lì per divertirmi e mi sono ritrovata a vivere un inferno, In questo momento chiedo di essere lasciata in pace».

Renato Franco per Corriere.it il 23 novembre 2020. «Io non ho mai fatto male a nessuno, non riesco a capire perché non è stato dato nessun valore alla mia vita, ho visto la morte in faccia e non riesco a spiegarmi il perché di questa crudeltà». Sono le parole — riferite dal suo avvocato, Saverio Macrì — della ragazza violentata da Alberto Genovese, l’imprenditore digitale che ha trasformato le feste nella sua Terrazza Sentimento in un orrore bestiale. L’avvocato è intervenuto domenica sera a Non è l’Arena, su La7: «Più volte le sue amiche hanno cercato di salvarla, ma alla fine la ragazza è riuscita a scappare da sola verso le 21.30 del giorno dopo. È stata un giorno intero in quella camera, da sabato alle 21.30 fino alla sera della domenica dopo. Quando è fuggita Genovese le ha anche buttato 100 euro dalla finestra in segno di spregio», ha raccontato ancora l’avvocato a Giletti. Nel lungo spazio dedicato a una vicenda dai contorni inquietanti («uno stupro di una violenza inaudita, la prognosi è stata di 28 giorni, senza considerare i risvolti psicologici», ha detto l’avvocato) era ospite in collegamento da Bali anche Daniele Leali, l’amico di Genovese che si occupava di stilare le liste per le feste, gli «eletti» ammessi nel superattico con vista Duomo a Milano. Leali ha assicurato di non essere fuggito: «Sono 5 anni che vengo in Indonesia a novembre per lavoro, ho delle attività qui e un locale nelle Filippine». Leali si è scagionato («non è assolutamente vero che io portassi in giro piatti con la cocaina, ricordo però che c’era chi consumava stupefacenti»), ha spiegato che fino a giugno «i cellulari non venivano ritirati all’ingresso delle feste, poi ad Alberto è piaciuta l’idea perché serviva a socializzare». E si è detto assolutamente stupito del comportamento dell’amico: «Non me lo aspettavo, ho sempre visto andare donne con Alberto per il piacere di andarci. Il buttafuori invece è stato preso solo nelle ultime due o tre feste perché capitava che la gente circolasse per casa e finisse nella sua camera da letto». Dello stupro non sapeva nulla: «Ho saputo che un addetto ai lavori, uno che organizza afterhour a Milano, era andato a recuperare la ragazza domenica, a casa di Alberto. Io non c’ero, ho lasciato l’appartamento per ultimo verso l’una di notte con la mia compagna e sono andato a casa mia». Leali ha ribadito: «Io non ho passato niente a nessuno, io non ho passato nessun piatto di droga a nessuno. Nessuno a quelle feste veniva pagato, si stava insieme solo per il piacere di fare festa nel momento in cui i locali erano chiusi per il lockdown». Ha anche rivelato che a quelle feste c’era gente famosa (ma non ha fatto i nomi) e poi ha sbottato: «La cocaina c’è dappertutto, è inutile che scopriamo l’acqua calda, si sa che c’è la cocaina alle feste, in tutto il mondo gira droga ai party». Nel corso della puntata Giletti ha rivelato anche il contenuto di tre messaggi audio WhatsApp della ragazza violentata. In uno si sfogava proprio con Leali: «Ma tu pensi che io stia come stavo prima... dopo aver saputo tutto quello che mi è stato fatto, senza pietà da una persona del genere?». Il conduttore ha anche raccolto la testimonianza del bodyguard: «Genovese mi aveva detto di controllare l’ingresso di una stanza dove c’erano oggetti di valore, sono andato via all’1.30 di notte ma non ho sentito nulla, la musica era altissima».

Pietro Senaldi per “Libero quotidiano” il 7 dicembre 2020. Avvocato, ci difenda! Oggi nessuno vuole stare ad ascoltare neppure mezza opinione che non combaci perfettamente con le proprie idee. Se dici che per una diciottenne andare a un droga party organizzato da un pervertito cocainomane è pericoloso perché non è impossibile finire violentata, ti accusano di difendere lo stupratore e di essere un sessista. Siamo in bilico tra un permessivismo che non trova poi sbagliato che una ragazzina frequenti festini organizzati da adulti sniffatori di polvere bianca, tipo quelli che si tenevano nella casa-reggia dell' imprenditore Alberto Genovese, e un moralismo che ti processa se osi dire che la signorina in questione è stata imprudente. Sensibilizzare l' opinione pubblica sul tema della violenza carnale ai danni delle donne è sacrosanto e utile, ma c'è un femminismo negazionista che, per affermare il giusto principio della difesa di quello che un tempo si chiamava sesso debole, non ammette riflessioni e arriva a trattare ragazze e signore alla stregua di esseri inconsapevoli, in balia degli eventi e inevitabilmente destinate a essere dominate dagli uomini. «Il grande equivoco è scambiare la responsabilizzazione della donna per la sua colpevolizzazione. Quando si verifica uno stupro è scontato che l' uomo sia colpevole. Prendiamo proprio il caso di Alberto Genovese, è evidente che è un criminale; infatti sta in carcere e, se dipendesse da me, andrebbe torturato esattamente come ha fatto lui con la sua giovane vittima. Però la ragazza ha delle responsabilità in quello che le è successo. Io, se qualcuno mi avesse portato in un posto del genere, sarei fuggita immediatamente, e ho insegnato a fare lo stesso alle mie figlie».

Avvocato, vuole inguaiarsi?

«Oggi il politicamente corretto non consente di parlare delle donne come di persone che si possono difendere. E per questo io lo detesto».

Il concetto che passa è che la brutalità dello stupro cancella tutto il resto.

«Ed è un errore, perché in questo modo si azzera il ruolo della donna, si tradiscono anni di battaglie per la parità e, alla fine, si mettono nei guai le ragazze anziché proteggerle, perché non si insegna loro a guardarsi dai pericoli».

Ma una donna può sempre dire no, anche se ti segue in camera da letto.

«Certo che è così, però questo non significa che una donna può permettersi di vivere con la testa in aria. Se ti violentano la domenica mattina mentre fai jogging al parco, non ti puoi rimproverare nulla. Ma se vai a un droga party, ti fai sequestrare il telefonino e assumi stupefacenti, ti sei messa in una situazione a rischio, che vivi o per ingenuità o perché ti interessava essere lì».

Questa opinione oggi viene ritenuta giustificatoria dello stupro.

«Non esiste il diritto di investire, ma non mi vorrà mica dire che se una ragazza viene travolta sulle strisce pedonali o mentre attraversa a piedi un' autostrada di notte, la sua parte di responsabilità in quel che le è successo è la medesima? Così come gli incidenti, anche gli stupri si dividono, in base alle circostanze, tra imprevedibili e probabili».

Annamaria Bernardini De Pace è la matrimonialista più famosa d' Italia. Nonché, proprio per questo, una delle donne più temute dagli uomini; «anche da quelli che mi vorrebbero» scherza lei, sapendo di dire il vero. Nella sua carriera ha convinto centinaia di mogli a denunciare le violenze del coniuge, aiutandole a staccarsi da loro. E ha iniziato a farlo in anni nei quali non era facile, perché fino al 1975 la nostra era ancora una società patriarcale, con il marito che era legalmente il capofamiglia e aveva un potere educativo sulla consorte. Fiera e anticonformista allora, lo è rimasta oggi, tant' è che non ha paura di sfidare le femministe alla Boldrini come un tempo combatteva il maschio padrone. «Noi donne», spiega «abbiamo tanto lottato per avere la parità e, ora che l'abbiamo ottenuta per l' aspetto giuridico, non vogliamo prendercela anche per quello culturale. La riforma del diritto di famiglia è stata fatta nel 1975. A 45 anni di distanza, deresponsabilizzarci, descriverci inermi davanti al maschio violento, limitarsi a lagnarsi e chiedere protezione all' uomo è un insulto alle battaglie che abbiamo fatto in piazza, ma anche in casa, con padri, mariti e compagni di classe per non essere considerate solo oche». I movimenti in difesa delle donne però hanno fatto anche un lavoro importante «Sì, perché hanno messo in evidenza un problema che c' è sempre stato, in tutte le società. Quando una donna subisce violenza dal suo compagno e viene da me in studio io spesso impiego mesi a convincerla a denunciare l' uomo».

Perché non lo fanno?

«Perché lo vivono come una vergogna e non vogliono renderla pubblica e poi vogliono proteggere il padre dei loro figli, non capendo che così fanno il male dei ragazzi, che da grandi imiteranno il padre non punito. E poi perché gli uomini violenti sono furbi: quando realizzano quello che hanno fatto, chiedono perdono, blandiscono e alimentano l' egocentrismo delle loro vittime, che si sentono importanti ai loro occhi e vengono colte dalla sindrome della crocerossina».

Come si fa a non cadere, o meglio ricadere, in trappola?

«Partendo dalla considerazione che una donna non può redimere un uomo violento, deve solo abbandonarlo. Certo questo significa avere capacità di autocritica, capire che si è sbagliato scelta e mettere da parte il proprio narcisismo. E poi, non aver paura di restare sole».

È molto dura con le donne «No, penso che la strada migliore per difenderle sia dire loro la verità.

Questo significa che manca una cultura femminile contro la violenza, e la colpa è anche dei movimenti per le donne. Se le donne dimostrassero di essere più autonome, forse gli uomini sarebbero meno violenti. In parte è vero che la violenza è insita nel maschio, in ogni specie animale è così, ma è altrettanto vero che essa può essere un po' attenuata».

Questa me la deve spiegare, avvocato «I movimenti per le donne chiedono agli uomini di difendere le donne, e questo già non mi piace, perché significa abbassare la testa. Poi pensano che il problema sia solo degli uomini, e vorrebbero rieducare solo loro».

Invece cosa bisognerebbe fare?

«Ai corsi contro la violenza ci devono andare sia gli uomini che le donne. Entrambi hanno da imparare molto».

Non si rischia di confondere vittima e carnefice?

«Chiariamo una cosa una volta per tutte: lo stupro è aberrante, è giusto ripeterlo all' infinito e combatterlo in ogni modo. La violenza sulle donne è comune a ogni civiltà ed è sempre esistita, direi oggi meno di un tempo. Ciascuna di noi ha davanti a sé due compiti, uno a livello di genere, l' altro di singola persona. Mi batto in pubblico contro gli stupri per ridurli il più possibile, ma nel privato non mi posso comportare come se avessi già vinto la battaglia e devo attuare degli accorgimenti, sapere che se mi metto in certe situazioni, rischio anche se ciò che mi fanno è sbagliato e orribile».

Primum vivere, deinde philosophari.

«Io voglio eliminare, o almeno ridurre, la violenza nel mondo; ma per prima cosa non voglio diventare vittima di violenza».

ei ha mai rischiato?

«Ho tirato tante ginocchiate ai genitali maschili, ma in realtà non ho mai rischiato lo stupro, perché non mi sono mai messa in contesti pericolosi. Così è tutto più chiaro: e io ne uscivo gratificata sia dal tentativo di seduzione sia dalla mia risposta violentemente paritaria».

Non è mai entrata in una camera da letto senza volerlo, per essere ruvidi.

«No, anche se è giusto che una donna che ci entra, poi possa uscirci quando vuole e denunci eventuali aggressioni. Solo che quando la denuncia accade venti o trent' anni dopo, diciamo che almeno perde forza». Ogni allusione al #metoo è puramente casuale «La violenza non va sottovalutata mai. Il sospetto che qualcuna si sia approfittata e abbia cavalcato l' onda dell' indignazione e della denuncia, esiste. Tant' è che oggi molti uomini, per nulla violenti, sono terrorizzati».

Il politicamente corretto ha rovinato il momento della seduzione?

«Quello che è orrendo è che il #metoo, e tutte queste denunce arrivate con ampio ritardo, hanno dato l' immagine che le donne siano tutte delle dementi senza coraggio».

Avvocato, mi dia un consiglio: io da uomo come mi devo comportare?

«Provarci dovrebbe essere legittimo, ma oggi non è così: bisogna presentarsi alla concupita con un contratto in mano e l' avvocato al fianco».

Anche le donne possono essere violente?

«Fisicamente soccombono, però nella mia professione ho visto parecchie donne violente, magari con i figli: li picchiano, li insultano, o dicono loro cose irripetibili. E qui si assiste a un fenomeno speculare: i padri non sono capaci di difendere se stessi e la loro prole».

Quando poi si passa alle carte bollate e ai divorzi, le donne diventano terribili.

«Questo è vero. Nel divorzio la parte debole è l' uomo, che spesso viene spolpato. Ma qui le cose, purtroppo o per fortuna, stanno cambiando più rapidamente che sul tema delle violenze. Oggi in caso di divorzio la situazione tra i generi è più equilibrata rispetto a dieci anni fa».

Se difendesse la vittima di Genovese punterebbe a un grosso risarcimento in denaro?

«Io non sono una penalista e non mi permetto di suggerire, tantomeno di giudicare il lavoro dei colleghi. Certo, accettare un risarcimento in parte significa voler risolvere tutto e condonare, come se i soldi cancellassero quanto avvenuto. E questo, da donna, non mi piacerebbe».

Giada Oricchio per iltempo.it il 10 dicembre 2020. Caos a "Mattino Cinque", il programma quotidiano di Canale 5, sulle dichiarazioni dell'avvocato Annamaria Bernardini De Pace in merito alle donne che si mettono in condizioni rischiose: "Non c'è colpa, ma responsabilità sì, se vai a certe feste". Nella puntata di "Mattino Cinque" di mercoledì 9 dicembre, Federica Panicucci affronta le indagini sui festini di Alberto Genovese, in carcere per violenza sessuale su una ventenne, e sul materiale fotografico sulle ragazze presenti alle serate a "Terrazza Sentimento" ritrovato nelle memorie dei device dell'imprenditore. In merito alla vicenda, l'avvocato Annamaria Bernardini De Pace, in collegamento, spiega il senso dell'intervista rilasciata al quotidiano "Libero" (se fai jogging la mattina al parco e ti violentano non puoi rimproverarti nulla, se vai ai droga party, assumi stupefacenti e ti fai sequestrare il telefonino, ti sei messa a rischio o per ingenuità o perché ti interessava stare lì"). L'avvocato conferma: "Che le feste di Genovese fossero così si sapeva a Milano. Ho parlato con figli degli amici, persone della moda, invitati e mai andati. Si sapeva che invitata un uomo ogni sette, otto donne. Quindi c'era l'immagine di Genovese con le donne da scegliere. E una donna di 18 anni, che vota, deve essere in grado di capire se andarci o no. Chi ci va o è scemo oppure ha un interesse specifico e gli interessi c'erano. Uno non si deve mettere in una situazione a rischio. Forse dietro queste ragazze mancano gli insegnamenti dei genitori. In queste feste c'è droga in cambio di sesso. Sono pronte a dare sesso come prezzo della droga, poi succedono questi orrori perché ci sono uomini ancora più distrutti dalla droga. Ma se non vai lì non ti succede". In studio scatta la rivolta contro la Bernardini e a capitanarla è Carmelo Abbate: "È inaccettabile, stai dicendo che se l'è cercata, è così che si trovano attenuanti a Genovese. Stai dicendo una cosa aberrante! Ma cosa dici?! Nessuna donna si mette nelle condizioni di farsi stuprare!". Parte un acceso diverbio con la De Pace che ribatte: "Sì, queste! E tu fai confusione. Le donne non sono una specie protetta, devono essere in grado di difendersi da sole. Stai ragionando da meridionale che difende le donne", il giornalista si infuria e Federica Panicucci la blocca: "No, questo del meridionale non si può sentire". La De Pace rettifica: "Io lo dicevo in senso positivo, mio padre era meridionale e io mi ribellai a lui quando disse  che dovevo farmi proteggere dagli uomini! Risposi che mi sarei protetta da sola. Non capite che io ho fatto una valutazione di tipo giuridico. Per il diritto un conto è la responsabilità e un conto è la colpa. Come quando attraverso sulle strisce pedonali e quando attraverso con la testa per aria in mezzo alla strada. La responsabilità dell'investitore è diversa. Non ho detto che è un'attenuante per Genovese, lui mi fa schifo e orrore, lo stupro è ignobile, meriterebbe le stesse torture però la donna ha grandissime responsabilità per se stessa. Non ha responsabilità nello stupro, ma per essere andata lì!". Abbate la incalza: "Quindi secondo te, una donna in minigonna in centro a Milano alle sei si mette in pericolo?" e il noto avvocato: "Sì. Andare in giro da sola a Milano è pericoloso. Le donne devono proteggersi mantenendo certi atteggiamenti". Alessandro Cecchi Paone osserva: "Anni di lotta per la parità e la libertà buttati via", ma la Bernardini: "In tutta Milano si sapeva cosa succedeva a quelle feste. Andavano per droga, soldi, posti di lavoro e altre cose. Ci sono donne che non sono responsabili per quello che accade loro e altre responsabili, è diverso dalla colpa. Ribadisco che lo stupro mi fa schifo, orrore". La divorzista si muove su un distinguo tra responsabilità e colpa abbastanza labile e precisa: "Non dico che c'è attenuante, lui è ultra colpevole e lei non ha saputo difendersi. Non ci vai a quelle feste. Ti droghi? Sei a rischio". Abbate insiste: "Sembra che per te il problema sia chi ha messo la mano nella vasca dove c'è un piranha e non il piranha" e di nuovo la De Pace: "Quando uno entra e ti toglie il telefonino, devi capire che c'è un rischio. Il concetto è che lo ha scelto lei. La violenza dell'uomo c'è sempre stata, fin da piccole le mamme insegnano alle figlie di stare attente. Tu manderesti tua figlia in quelle feste? Detto questo, la vittima la difenderei tutta la vita". Federica Panicucci chiosa: "In pratica fai una valutazione giuridica e stai facendo un appello alle donne di fare attenzione a non mettersi in certe situazioni. Ribadiamo che non stai difendendo Genovese".

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 22 novembre 2020. Alberto Genovese è un 43enne di origini napoletane che ha studiato alla Bocconi e poi è rimasto a Milano, dove ha fatto fortuna e si è trapiantato i capelli. A noi interessa che nella notte tra il 10 e l' 11 ottobre ha violentato e seviziato una diciottenne, Michela, dopo averla drogata: questo durante una delle sue drogatissime feste sulla «terrazza sentimento» del suo attico con piscina in Piazza Maria Beltrade, sesto e settimo piano, con vista sul Duomo di Milano. A essere «socialmente pericolosa», per uno come Genovese e i suoi amici, in concreto era lei, la vittima e la sua normalità del bene: anche se non veniva dalla Luna e poteva sembrare un' aspirante modella alle prese con uno che aveva un'agenzia di modelle (hostess.it, dove lavorano 15 diciottenni) e che alle feste di Genovese detto Bebo - dove almeno tre generi di droga erano gratuiti ed esibiti sopra piatti neri - c'era già stata altre due volte, a giugno e a settembre, ma questo significa poco, molto poco. La magistratura non è tenuta a osservazioni sociologiche, deve solo incasellare i comportamenti e le consuetudini nella vincolante lettera della Legge, laddove uno stupro è uno stupro se la stuprata decide di denunciarlo (lo stupro è un fatto, ma può diventare un'opinione) diversamente magari da altre ragazze che non l'avrebbero denunciato - o meglio, l' hanno denunciato solo ora - perché a suo tempo l' avrebbero contestualizzato in un baccanale dionisiaco, dove loro non si sarebbero sentite delle stuprate, e lui, mai e poi mai, si sarebbe sentito uno stupratore. Secondo i magistrati Genovese era lucidissimo. Ed era lucidissimo, parentesi, anche Ciro Grillo (figlio di) rinviato a giudizio per stupro in Sardegna. Nel caso di Genovese, l'acme del dionisiaco - volgarmente parlando - si è tradotto in violenza sessuale, sequestro di persona, cessione di droga alias spaccio, lesioni gravi più un modesto disturbo della quiete pubblica. Ecco perché Genovese è in custodia cautelare e, davanti ai magistrati, piange, si dispera e spiega di essere dipendente dalla cocaina, e che «ogni volta ho allucinazioni e non ho più la percezione del limite tra legalità e illegalità, ho bisogno di essere curato, anche se mi sento una persona intimamente sana». Parentesi tecnica, non chiara nemmeno a tanti magistrati: la cocaina non dà dipendenza fisica, ma solo psichica; non esiste una cura intesa come «disintossicazione» da cocaina (tipo quella malamente descritta per Fabrizio Corona) e per smettere basta smettere, punto, anche se il cosiddetto «down» depressivo che ora perseguita Genovese - la crisi psicologica di astinenza - è terribile, e può durare giorni o mesi o anni. Il cocainomane, prima, pensa che tutto ciò che gli succede sia legato al fatto che assume cocaina; il cocainomane, dopo, pensa che tutto ciò che gli succede sia legato al fatto che non la assume più. Smettere di essere socialmente pericoloso, per uno come Alberto Genovese, significa rinunciare a essere Alberto Genovese per com'era 24 ore su 24, sospeso - qui spiegare è complicato - tra stati di alterazione ma anche di lucidità assolute, anzi decisamente moltiplicate dalle droghe. Ma la magistratura non gestisce neppure un centro di recupero tossicologico: vaglia le prove. Cocaina e Ketamina. Ecstasy (mdma) e cosiddetta cocaina rosada. Per spiegarle servirebbe un trattato. La cocaina è un eccitante che rende megalomani e prepotentemente lucidi. La ketamina è un anestetico che favorisce allucinazioni e «stati di emersione» (enteogeni) ritenuti anche estatici e spirituali: le due droghe vanno a braccetto, e infatti a Genovese ne hanno trovate paccate in cassaforte, assieme ad ecstasy, a 40mila euro e alle manette usate nello stupro; sono le stesse droghe ripetutamente rifilate alla 18enne e, in teoria, a tutta la massa stordita presente alle feste. L'Ecstasy aumenta la socialità, l' empatia e la voglia di sesso. La cocaina rosada (rosa) è sintetica e non c'entra niente con la cocaina, e, secondo le dosi, rende allucinati, fisicamente molto consapevoli e vogliosi d'allegria. Nell' insieme, si insegue un modello bifronte tra la spiritualità di Ghandi e il decisionismo di Hitler, entrambi ben disposti a togliersi le mutande. A dosi appropriate e collaudate si diventa Alberto Genovese, a dosi massicce e ininterrotte si diventa stuprabili. Infine: Genovese ha raccontato ai magistrati che assumeva 3 o 4 grammi di cocaina al giorno; è soggettivo, ma la maggior parte dei cocainomani che si fanno così tanto dopo un paio d'anni sono sdentati, hanno il naso schiacciato e un buco sul palato, e non potrebbero gestire cariche direttive in varie società. Diciamo che alle feste di Genovese si scopava parecchio, e tutto poteva ridursi a una gigantesca circonvenzione di incapaci oppure di capaci, secondo sfumature che la magistratura ritiene degne di nota. È vero che per partecipare alle sue feste c' erano delle autentiche liste d' attesa. È vero che uno stupro è uno stupro, ma è anche vero che chi va al mulino s' infarina. Lo status di stuprata e di puttanella possono anche convivere, e non ci riferiamo alla 18enne - anzi - ma ad altre decisamente sì. «Era noto che Genovese organizzasse feste dove veniva offerta droga agli invitati», ha detto una testimone, «e dove lui abusava sessualmente di ragazze». Era noto. A chi? Modelle, modelline, presunte influencer, prostitute al bisogno (diffusissime a Milano: basta una ricca mancia o un regalo, altrimenti fa niente, ma poi non le vedi più) e, ancora, altre sotto-categorie che faremmo fatica a declinare al maschile, perché è una società maschilista, ma neppure questo ora ci interessa: anche perché, in genere, a essere stuprate sono le donne. Non sono gli uomini a essere imbottiti anche forzatamente di droghe, legati ai polsi sul letto e alle caviglie con una cravatta stretta alla gola annodata alla spalliera, e un cuscino premuto sul viso per lunghissime manciate di secondi, sfiniti da una violenza sessuale anche dopo che il tuo corpo ha la rigidità e il calore di una salma, incosciente per 18 ore filate: è ciò che accadde alla ragazza, ora in cura da una psichiatra dopo che un medico della Clinica Mangiagalli - una donna - riscontrò che era stata imbottita di cocaina e ketamina, sì, e poi era stata violentata e seviziata in un modo che raramente a quel medico era capitato di vedere. La sera del 10 ottobre la festa pompava di brutto: che poi le feste erano di vario tipo, c'erano quelle riservate a una trentina di persone oppure dei mezzi bordelli di gente. La ragazza, con un' amica, si presentò all' ingresso del palazzo verso le 20 e 30, dove un buttafuori sudamericano controllava gli invitati mentre la festa proseguiva già da ore: non è vero che ritiravano i cellulari, sarebbe stato ingestibile, s' invitava banalmente a non fotografare. Un' altra sua amica era alla festa da metà pomeriggio e l'aveva invitata il dj Daniele Leali detto Danny, poi additato come procuratore di ragazze e già socio di Genovese in qualche attività. La 18enne salì con l'ascensore, che richiedeva un codice, sino all'attico e superattico: questa volta era quasi una cosa riservata, venti persone o poco più, non c'era la musica a palla messa da dj ben pagati, il catering a cura di Carlo Cracco come in settembre, e neanche fiumi di champagne Perrier -Jouet (pessimo, vinoso, 35 euro) pieno di ketamina. C' era la solita scritta al neon rossa («Sentimento») che conduceva alla terrazza con piscina d' angolo, a sfioro. Chiaro che il boss non organizzava tutto da solo: c' era chi gli procurava la droga, chi invitava le ragazze anche fuori Milano, tipo a Ibiza nella «villa Lolita» sempre di Genovese (8 camere) o al club «Tipic» di Formentera dell' amico Danny, dove pure arrivavano un sacco di ragazze ed era tutto pagato. In quelle serate c' era sempre qualcuno che faceva da palo mentre Genovese o altri si chiudevano da qualche parte: una teste ha raccontato che a Formentera si ripeteva lo schema: «Mi invitarono a continuare a pippare nella stanza del capo da quando sono entrata in camera e ho tirato una striscia rosa non ricordo più nulla al risveglio il mio top era strappato e non avevo più reggiseno né scarpe, avevo le gambe piene di lividi e un gran male ai polsi». Ma quella, di serata, quella del 10 ottobre, non poggia solo su racconti o su perizie corporee: le telecamere interne hanno filmato tutto, quella e altre cinque feste. Il padrone di casa, ovviamente strafatto, appena vide Michela se ne invaghì subito, se ne disse innamorato, le propose un viaggio, non la mollò più, fece di tutto, le impose altra droga (piovve sul bagnato: lei ne aveva già presa) e morale: alle 22 e 30 i due erano già in camera, e c'era anche qualche spettatore. Erano in camera anche alle una e 40, ora in cui il casino della festa - 10 interventi in 5 anni - fece comparire all'ingresso dei poliziotti chiamati dal vicino di casa, il ballerino Roberto Bolle. Il domestico e buttafuori sudamericano, Javier, disse loro che il signor Alberto non era in casa, che non era alla sua festa. Poco dopo, l'amica con cui era venuta cominciò a cercare Michela, ma la camera era off-limits da ore, e alle 2.00 l'amica se ne andò. Michela però era in camera, e ogni tanto cercava di messaggiare col telefono per chiedere aiuto. Genovese, secondo il racconto, la guardava piangere e urlare e poi si mise a fotografarla nuda e insanguinata, in posizioni oscene, prendendole dei soldi dalla borsetta ai quali diede fuoco davanti a lei, così, per mortificarla, prima di aprire una bottiglia di vino. La ragazza tornò cosciente solo verso le 22 dell'11 ottobre, quando fu cacciata fuori semi-svestita e con una scarpa sola. Una volante della Polizia la trovò così. «Nella mia percezione», ha detto Genovese in una dichiarazione spontanea, «io stavo trascorrendo una serata bellissima con la mia amata Voglio smettere di drogarmi e voglio farlo con dei professionisti la mia vita per l'ottanta per cento è sana, sono una persona a posto, che non farebbe mai del male. Voi avete scavato solo nella parte cattiva della mia vita, ma per il resto sono una brava persona». Ma non c'è nessun resto, da quanto inteso. Tra i legali di Genovese c'è Luigi Isolabella, già difensore dell'ex consigliere comunale Paolo Massari il quale, a margine di uno stupro giudicato tale, ha pure dichiarato di essere malato e che voleva essere curato: dopodiché, dopo un'udienza rigorosamente a porte chiuse, ha patteggiato. «Io non parlo con i giornalisti» ha detto l'avvocato Isolabella allo scrivente, che gli aveva fatto notare come una giustizia patteggiata e a porte chiuse (cioè sottratta al pubblico, nel senso che ancor oggi non è noto come siano andate le cose nel caso Massari) forse aveva contribuito a piallare lo status di un'avvocatura ormai piegata da pubblici ministeri dati in partenza per vincenti. Ma nel caso di Genovese sembra veramente difficile che si possa mirare a un patteggiamento a porte chiuse. A metà ottobre la procura ha aperto ufficialmente un' indagine. Venivano ascoltati molti testimoni, varie ragazze sono accorse spontaneamente (topi che lasciano la festa che affonda) e la voce ha preso a circolare. Genovese ha detto alla madre che sarebbe partito per Amsterdam e poi per il Sudamerica col suo jet; il 6 novembre è andato all' ufficio passaporti per rinnovare il documento ed ecco concretizzato il pericolo di fuga: arrestato. Tutte le società in cui aveva delle cariche hanno preso le distanze formali e informali. Il dj Daniele Leali, definito braccio destro di Genovese e ritenuto suo procuratore di droghe, l' 11 novembre è partito per Bali. Facile.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 24 dicembre 2020. Se fosse solo un' indagine per stupro, si sarebbe già chiusa con un giudizio immediato: anche perché la violenza di Alberto Maria Genovese contro una vittima diciottenne è stata filmata da 19 telecamere per 20 ore totali di registrazione ciascuna, forse un record mondiale. Invece c' è tutta una certa Milano al vaglio degli inquirenti: perché un tempo, una trentina di anni fa, la cocaina era sì intesa come «droga dei ricchi», ma oggi le cose sono cambiate. La cocaina è ovunque, venduta anche a dosi minimali a cocainomani che interagiscono con noi, perché la prende il chirurgo, il pilota, l' investitore dei nostri soldi, la maestra dei nostri figli, magari i nostri figli. Ma la droga dei ricchi esiste ancora, ed è un' industria che interviene secondo format di consumo consolidati: ci si veste in un certo modo, si ha una certa auto, si appartiene a un certo ambiente e si hanno certe sostanze da consumare. Il mercato della droga è in grado di incidere sulle scelte di vita: e i consumatori, persone informate, in virtù di questo imprinting si illudono di aver fatto una scelta. Ma la droga di cui si parla in questa indagine non si trova dal piccolo pusher dei giardinetti, ed è evidente che, se i magistrati hanno impiegato un mese per arrestare Genovese, o a indagare altri, è perché volevano seguirne i movimenti, individuare consumi e quantità ben più impressionanti. Se fosse solo un' indagine per stupro, poi, parleremmo solo di un atto sessuale non condiviso dalla volontà di due soggetti: invece è stata una feroce somma di meticolose torture, orrende sevizie con modalità e strumenti già predisposti in una stanza «padronale» adibita allo scopo. Scendere nei raccapriccianti particolari equivarrebbe a infierire sulla vittima, e lo sarebbe anche il riportare lo spaventoso resoconto della clinica Mangiagalli di Milano: laddove il medico legale, dopo una perizia sulla diciottenne, ha tenuto a dichiarare che «riguardo alle lesioni, posso dire che, nonostante io lavori qui da diverso tempo, non mi era mai capitato di vedere qualcosa di così cruento».Noi ci ossequiamo ovviamente alla legge sulla privacy: ma il trasgredirla, per una volta, non sarebbe morbosità, sarebbe l' unico modo di far intendere l' evidente differenza tra una violenza «semplice» (si fa per dire) e una tortura dolosa che implica malvagità; la differenza, ossia, tra un impossibile raptus e un qualcosa che invece è stato perpetrato con studiata lucidità per circa venti ore, e questo con una crudeltà che nessuna droga al mondo può crearti dal nulla, se non ce l' hai celata nelle viscere. Tuttavia c' è chi sta lavorando per ridimensionare e banalizzare il caso Genovese, perché il potere dei soldi può questo e altro. Ma per comprenderlo tocca ricominciare da quel giorno d' autunno.

Sabato 10 ottobre, mattina. Lei ha compiuto 18 anni in aprile ed è una giovane modella italiana che lavora in un' agenzia di Milano, e si chiama A. In mattinata chiama l' amica D., altra modella, e le dice che alla festa di Genovese verrà anche lei: poi magari andranno assieme all' altra festa di compleanno fissata per le 23. C' era un' autentica lista d' attesa, per i «party privati» di Alberto Genovese: un uomo passato, in un giorno, dall' avere 100mila euro ad avere cento milioni. D. era stata invitata da Daniele Leali, detto Danny, suo grande amico e organizzatore della Milano notturna, poi additato come procuratore di ragazze più che altro perché aveva moltissime conoscenze: raccoglieva le adesioni in una chat di sedici amici e a questa organizzazione non era estranea l' ex fidanzata di Genovese, Sarah Borruso, poi indagata per complicità in altre violenze. Lei però quella sera non c' era, era da sua madre. Aveva bisticciato con Alberto.

Ore 16. D. è al festino già dal pomeriggio e con lei c' è un' amica. La festa è perlopiù nell' attico all' ultimo piano, dove c' è la piscina a sfioro e la «terrazza sentimento» con tanto di scritta in neon rosso. Genovese, per ben due volte, invita D. al piano di sotto (dove c' è la camera da letto) a tirare una riga di cocaina. L' aveva già fatto con altre, non estendeva l' invito agli uomini. «Ma con me non ci fu problema», ha raccontato D., che pure, tramite la sua amica, aveva saputo «che girano voci su Genovese si dice che lui e la sua ex fidanzata, Sarah, erano soliti drogare le ragazze alle loro feste private, per poi violentarle». L' amica le aveva detto che, secondo le voci che circolavano, Genovese si portava le ragazze in camera per indurle a prendere involontariamente la droga dello stupro (Ghb) per poi abusarne personalmente o farlo fare ad altri. La stessa amica però le aveva raccomandato solo di stare attenta, di stare vicino a Daniele Leali: «Il mio pensiero», dirà D., «è che se una ragazza accetta di andare con Genovese lo faccia per soldi, ma è una mia supposizione».

Ore 20.30. La festa prosegue quando in Piazza Beltrade arriva anche la diciottenne A. assieme a M., altra modella. Si presentano all' ingresso del palazzo dove un buttafuori controlla gli invitati. I cellulari in effetti vengono ritirati. La 18enne A. ed M. salgono con l' ascensore, che richiede un codice, sino all' attico e superattico: questa volta è una cosa più riservata, non c' era il catering a cura di Carlo Cracco come in settembre, o i fiumi di pessimo champagne Perrier-Jouet che all' occorrenza Genovese allungava con ketamina o Ghb se prendeva di mira una singola ragazza: la quale, in pratica, era forzata a bere a canna. C' erano, vicino al bar interno, dei piatti a disposizione. In uno c' era cocaina, ketamina e 2cb. Brevemente: la cocaina è un eccitante che rende megalomani e prepotentemente lucidi. La ketamina è un anestetico che ben si accompagna alla cocaina, neutralizzando l' ansia e l' iper-eccitazione, e che da sola può stenderti e renderti completamente passiva; si può sciogliere facilmente in liquidi. La cocaina rosada 2cb (rosa) è sintetica e non c' entra niente con la cocaina, e, secondo dosaggio, rende allucinati, molto consapevoli e piuttosto allegri; costa un botto, 500 euro al grammo. In ogni caso la diciottenne A., con l' amica M., sniffa cocaina e 2cb come aveva fatto altre volte. Le ragazze, soprattutto le modelle, spesso amano drogarsi soprattutto se è gratis. Un' altra modella straniera, amica di Genovese, ha raccontato: «C' erano due piatti a disposizione per tutti, li portava Daniele Leali vicino al bar. In uno c' era la cosiddetta Kalvin Klein, ketamina mischiata con cocaina. Ho visto sniffare tutti quelli che conoscevo».

Ore 22 circa. La diciottenne A., l' amica M. più un' altra decidono che s' è fatta una certa e potrebbero anche andarsene all' altra festa. Ma Genovese non ne vuole sapere. Qui comincia a far di tutto «in maniera ossessiva» per trattenere A. Genovese, che s' è preso una fissa per A., se ne dice innamorato, le propone un viaggio, non la molla più. A un certo punto escono sul terrazzo a fumare: lui, A. e M. Bevono un drink. Genovese comincia a offrirle cocaina che in realtà è solo ketamina (l' anestetico) e le telecamere mostrano un piatto da cui lui non attinge. Si sente anche la voce di lui: «Ketamina la migliore del mondo». Lei tira con una cannuccia. A un certo punto M. si allontana, perché vuole telefonare agli amici del compleanno e dir loro che ritarderanno alla festa. Poco più tardi torna sul terrazzo, ma l' amica non c' è più, e neanche Genovese. È da qui che la diciottenne non ricorda praticamente più nulla. Non ricorda, per dire, di essere entrata nella stanza da letto al piano di sotto. È molto probabile che sul terrazzo il suo prossimo torturatore le abbia dato del Ghb, la famosa «droga dello stupro» (non l' unica) che quella sera non fa certo parte delle sostanze offerte a tutti. Ha il nome commerciale di Alcover e ha lo stesso effetto dell' alcol, ma moltiplicato (viene usato nelle terapie per l' alcolismo) e a quanto pare, a certe dosi, ti rende inconsapevole, voglioso di sesso e poi, per qualche ora, non ti fa ricordare più nulla; è indistinguibile quando disciolto in soft drink o alcolici vari. In pratica impedisce la fissazione del ricordo e anche la sua rielaborazione. Le telecamere la inquadrano che comincia a rallentarsi, lei è in camera - il bodyguard sorveglia la porta, da fuori - e resiste ai primi tentativi di toccarla e spogliarla, ma le reazioni sfumano, sta scivolando in uno stato di incoscienza. Dirà di aver avuto la percezione che ci fossero altre persone, ma c' era solo Genovese. Ballano per pochi secondi, poi si spostano sul letto, lei tenta di opporsi e rivestirsi, ma è qui che comincia - l' espressione è nell' ordinanza d' arresto - «il calvario». Il quale non è sostanzialmente riportabile, se non nella sua insistenza ossessiva e maniacale, nella sua pervicacia, durata, cattiveria, ausilio di una non citabile attrezzatura di tortura. Il Ghb l' ha stesa, ha cancellato il presente e il prossimo futuro: la ketamina, spacciata per cocaina e fatta assumere anche a forza coi metodi più osceni, la metterà in uno stato di narcosi e neutralizzerà il dolore che lui le infliggerà per ore.

Ore 22.30. L' amica D. scende verso la camera da letto («ricordo di aver avuto una brutta sensazione») ma il bodyguard la blocca. Lei gli dice che l' amica deve venire via con lei, ma la risposta è che non è possibile disturbarli. Anche un' ora dopo il buttafuori è irremovibile.

Ore 23.58. Scambio di messaggi tra Danny Leali e Genovese: «Albi? Andiamo via tutti. Che vuoi fare?». Risposta: «Io scopo con questa». Leali: «Andiamo allora. Spento tutto».

Ore 00.22 di domenica 11 ottobre. La casa si svuota e anche le due amiche, D. e M., vanno alla loro festa di compleanno. È rimasto il buttafuori, l' assistente e i camerieri che stanno pulendo. Poco più tardi, all' altra festa, D. si dice preoccupata, ma M. sdrammatizza e dice che la ragazza sa il fatto suo.

Ore 01.40. Lei in realtà non percepisce neanche la realtà. È come paralizzata. Genovese la muove come un manichino, e, come farà per una ventina di ore totali, la droga regolarmente e continuamente. È come una bambola di pezza. Sul comodino sinistro c' è la ketamina che lui le somministra con forza e sadismo, da un piatto più scuro sniffa solo lui.

Ore 02.34. Sul lenzuolo cominciano e vedersi macchie di sangue. Lui prosegue. Ogni volta che lei emette un impercettibile lamento lui la droga, seviziandola. La fotografa col cellulare in pose umilianti. Poi ricomincia, fa danni strazianti, non smette né lo farà, s' inventa nuovi strumenti di tortura. Non ha limiti.

Ore 07.01. Lei tenta di alzarsi ma non riesce a stare in piedi, ogni volta si rispegne, meglio, la rispegne lui. E continua, sempre più cruento, impazzito, insaziabile, morboso, malato. Quando lei sembra vagamente riaversi, lui prende delle manette e le lega mani e piedi, e con una cravatta la blocca allo spigolo del letto. Lui le preme un cuscino sulla faccia per otto secondi. Poi si inginocchia accanto a lei e la guarda. Scatta altre foto mortificanti. Lei implora, ma, per lui, è come se non esistesse. Poi lei comincia a gridare dal dolore.

Ore 16.00. Le toglie le manette, ormai è pomeriggio. Genovese rientra nella stanza, apre le finestre e le dice «devi andare via». È irritato, mima anche delle percosse. Lei cerca di rivestirsi per andarsene, ma, dopo che si è infilata dei pantaloni, lui la rispoglia. E ricomincia.

Ore 17.00. Lei rinviene, ed è il primo momento di cui, dopo ore, avrà memoria. Il letto è di nuovo sporco di sangue. Di lì in poi cercherà di andarsene, ma impiegherà cinque ore. Perché lui è un mostro: e nessun risarcimento milionario prima del processo, nessun diabolico cambio di avvocato, nessuna cedevolezza psicologica di lei - che non ha rinnegato l' uso di droghe, ma ha rifiutato il ricovero per curarsi - impediranno di dimostrare che mostro resta. 

Roberto D’Agostino per VanityFair.it il 25 dicembre 2020. Il quarantatreenne imprenditore Alberto Genovese, in galera per stupro, sequestro di persona e lesioni gravissime ai danni di una ragazza, aveva solo 13 anni quando uscì “American Psyco” di Bret Easton Ellis, un libro che lui e i suoi compagni cocainomani non avranno certo sfogliato. Siamo a New York, fine anni Ottanta. Lo yuppie Patrick Bateman ha una fidanzata attraente, delle amanti altrettanto fighe e superficiali e una cerchia di amici identici a lui, sempre attovagliati nei ristoranti più esclusivi come il Dorsia, frequentato dal suo idolo: Donald Trump. É pieno di soldi fino al buco del culo perché le “migliori” università gli hanno insegnato a diventare così, fa lunghe sessioni di ginnastica, trascorre notti a base di alcool e cocaina tirata su carta American Express. Tra il nichilista e il testosteronico, cerca un’identità trasformandosi in serial killer che si secca se divorando il cuore e altro delle sue vittime sporca di sangue il suo completo Armani. Un dottor Jekyll-Mister Hyde di un cinismo disumanizzante, incapace com’è di separare il bene e il male, la follia e il raziocinio, la normalità e la ribellione. Così si trasforma in diavolo: “Sono il diavolo, se mai ci fosse una cosa del genere / I risultati di troppe droghe, quello che vedi / Sono un fottuto, completamente disgustoso / Sono cosa? / Un bastardino umano, fanculo un essere, sono un cane / Fanculo gli agnelli, li sto zittendo tutti /” (Testo di “American Psycho”). Non le ha scuoiate come Patrick Bateman, lo schizoide, sadico yuppie uscito da Harward, abitante tra le mille luci di Manhattan, diventato mago di Wall Street e Arlecchino di un carnevale orribile di corpi abusati, venduti, comprati, consumati e uccisi, ma Alberto Genovese, lo schizoide, sadico yuppie uscito dalla Bocconi, abitante su una terrazza con vista Duomo, diventato manager in McKinsey poi mago delle Start up e Arlecchino di un carnevale orribile di corpi abusati, comprati, consumati e, fortunatamente, non uccisi c’era già da trent’anni fa. Eccolo era lì, dentro un romanzo. “In me non albergava alcun sentimento chiaro e definito. Provavo solo, a fasi alterne, una smodata avidità e un totale disgusto. Avevo tutte le caratteristiche di un essere umano, carne, ossa, sangue, pelle, capelli, ma la mia spersonalizzazione era tanto intensa, era penetrata così in profondo, che non esisteva più in me la normale capacità di provare compassione”. Eccolo: ne strazia i corpi morbidi, corpi docili, diligenti nelle luci artificiali di un mondo “stupefacente” dapprima condiviso, perché “Patrick è il più figo” e perché le feste “sono l’unica cosa che conta a Milano”. Sevizia i corpi con chiodi o seghe, Patrick; con il kit del torturatore, Genovese. “Terrazza Sentimento” era attrezzata con ogni strumento per la sodomia e la tortura: una collezione di fruste, le immancabili manette con chiavi, un'infinità di vibratori.

Le 19 telecamere registrano incontri, amplessi, orge, supplizi e vessazioni. Cos’è la compassione, il patire per gli altri, nella società di Patrick in Genovese? “La compassione era stata sradicata, cancellata del tutto. Io stavo semplicemente imitando la realtà; avevo una vaga somiglianza con un essere umano; solo un'area limitata del mio cervello funzionava ancora. Qualcosa di orribile stava accadendo, ma non riuscivo a capirne il motivo; non riuscivo neppure a capire di che cosa effettivamente si trattasse”. “L'innocenza finisce, scrive Joan Didion, quando veniamo privati dell'illusione di piacerci’’. Sì, vorrebbe essere amato Patrick in Genovese, per questo odia. La società che lo circonda, descritta nelle prime pagine del libro, è quella delle notizie dei giornali: “Modelle strangolate”. Nel 1960 Ed Gain, con i suoi orribili omicidi, aveva già ispirato “Psycho” di Alfred Hitchcock e “Il silenzio degli innocenti” di Thomas Harris, con quel doctor Hannibal Lecter, genio anche lui, a suo modo, nel scegliere le vittime e trucidarle. Con “American Psycho” e anche la realtà si è aggiornata: è arrivata Terry Broome, che ricordava, e ora le ragazzine immagine “che non ricordano” (ma ricordano di aver assunto “droga volontariamente”) della terrazza di Genovese. Ma è una realtà che sfugge alla realtà, è confusa: “Un altro Veuve Clicquot, s'il vous plaît”, e poi di sotto, in camera, nello scannatoio, ma con il buttafuori in livrea. In un mondo dove anche la cultura borghese è degradata e futile e il corpo della donna non è che un oggetto di cui servirsi, la violenza spesso è l'unico modo che possa aiutare Bateman/Genovese di dimostrare al mondo di esistere. Il modo migliore per trovare sollievo in un’esistenza di tutto e di nulla.

"Quei festini in stile Genovese a cui partecipavano pure preti e vescovi". Giulia Napolitano, modella 21enne, ha rivelto a Fanpage di party a base di sesso e cocaina, analoghi a quelli che ospitava a casa sua Alberto Genovese, a cui partecipavano degli "insospettabili", come preti e vescovi. Mariangela Garofano, Venerdì 11/12/2020 su Il Giornale. Alberto Genovese, l’imprenditore digitale arrestato il 10 ottobre per stupro, durante uno dei suoi festini a base di sesso e droga, è “uno dei tanti” soggetti che ospitano simili “divertimenti” in casa propria. A raccontarlo a Fanpage è la fotomodella Giulia Napolitano, 21 anni, che rivela una realtà “segreta”, in cui sono invischiati non solo ricchi uomini d’affari e vip, ma addirittura vescovi e alti prelati appartenenti alla Chiesa. Quello che Giulia racconta di aver visto dietro le porte dei lussuosi appartamenti romani e milanesi, in cui lei faceva da ragazza immagine, va aldilà di ogni immaginazione. “C’era un prete che aveva messo in fila tre ragazze nude sul letto”, racconta la Napolitano, che prosegue: “e ognuna di loro aveva una striscia di cocaina qui”, dice indicando il pube. “Il resto si può immaginare, e io gli chiedo: scusi ma perché lei, uomo di fede, viene qua?”, chiede la ragazza dopo aver visto la scioccante scena. Il prelato risponderà: “Perché ognuno ha la sua fuga nel mondo dei peccatori”. A Roma Giulia rivela di aver visto preti e uomini facoltosi partecipare a party sfrenati, che il più delle volte spingono le ragazzine a drogarsi per “non sentirsi inferiori”. “A Roma troviamo preti, vescovi, che magari tre ore prima hanno dato la messa e poi si divertono con cocaina e diciottenni, così, come se niente fosse”. La costante dei festini è sempre la stessa: fiumi di cocaina e sesso con ragazze giovanissime, pronte a dare tutto in cambio di soldi. “Mi ammazzano se dico i nomi”, dice con una risata nervosa Giulia, che ha vissuto una brutta esperienza da molto giovane, quando fu sequestrata da un fotografo durante uno shooting, per tre giorni. Tornando ad Alberto Genovese e la sua "Terrazza Sentimento", di cui preferisce non parlare, la ragazza afferma: “Ha fatto una cosa orribile, e deve pagare per quello che ha fatto. Ma feste come la sua non si contano in Italia. Ne ho viste uguali a Milano, a Roma, in Sicilia, in Sardegna. Gente che si fa 5 grammi al giorno, come ha dichiarato lui, non si conta”. Lo schema raccontato da Giulia è lo stesso che gli inquirenti hanno scoperto dopo il caso Genovese: agli ospiti viene chiesto di lasciare il cellulare all’ingresso, ci sono bodyguard a controllare chi entra, a garantire la privacy degli ospiti. La maggior parte dei frequentatori dei party sarebbero professionisti stimati, calciatori, procuratori e addirittura prelati appartenenti alla curia. Oltre ad Alberto Genovese, che resta in carcere in attesa di giudizio, con le accuse di violenza sessuale, sequestro di persona e spaccio di stupefacenti, risulta ora indagata anche la sua fidanzata, che secondo gli inquirenti sarebbe stata a conoscenza di quanto avveniva nell'attico milanese vista Duomo. Secondo quanto emerso dalle indagini, la donna era solita drogare le ragazze insieme a Genovese, con lo scopo di abusarne. Uno schema, quello che veniva seguito alla "Terrazza Sentimento", che ricalca quello portato avanti a livello internazionale, dalla diabolica coppia formata dal magnate pedofilo Jeffrey Epstein e la sua complice Ghislaine Maxwell.

Monica Serra per “la Stampa” il 7 dicembre 2020. Riavvolgere il nastro della vita di Alberto Maria Genovese non è un lavoro facile. Ma quello che faceva dentro e fuori il suo attico degli orrori con vista Duomo ora è fondamentale. Ci sono ore e ore di registrazioni delle diciannove telecamere di sorveglianza da visionare. Non un "film" unico ma tanti segmenti, che vanno valutati e contestualizzati. Di droghe e di ragazze a Terrazza sentimento ne giravano molte. E il sesso e la cocaina nella camera padronale del mago delle start up, finito in carcere con l' accusa di aver sequestrato e violentato il 10 ottobre e per 24 ore una 18enne, non era un fatto raro. Ma tra tutti quei rapporti sessuali il sospetto è che ce ne siano altri violenti. Al momento, però, l'unica altra vittima che abbia formalizzato una querela contro l'imprenditore è la ventitreenne che, già prima dell'arresto, il 15 ottobre, aveva raccontato di essere stata violentata a luglio durante una vacanza a Ibiza, interamente pagata per tutti da Genovese. Giorni trascorsi tra mare, musica, droghe e party. Una sera però «Alberto e la fidanzata, mi hanno invitata ad andare in camera per fare un' altra striscia di cocaina. Mi sono fidata perché c'era la fidanzata. Da quando ho tirato una striscia di stupefacente di colore rosa che pensavo fosse 2cb (la pregiatissima cocaina rosa, ndr), non ricordo più nulla». Quando il giorno dopo la ragazza ha iniziato a riprendersi, ha notato che aveva «un sacco di lividi sulle gambe e un forte dolore ai polsi. Non riuscivo neanche a ruotarli». Tornata in Italia non ha denunciato subito perché «ho avuto paura: mi era giunta voce che in una occasione lui aveva mandato delle persone sotto casa di una ragazza che lo voleva querelare per una cosa simile». Su questo caso però le indagini della Squadra mobile, che vanno avanti da ottobre anche sul filone della droga, sono più complicate: non ci sono le immagini delle telecamere di Terrazza sentimento. Solo testimoni da sentire (già una sessantina in tutto sono stati ascoltati) e chat da analizzare e incrociare. Non solo il contenuto del cellulare sequestrato a Genovese, che ha fornito il pin spontaneamente. Ma anche quello di molti partecipanti alle feste è stato acquisito dalle pm Letizia Mannella e Rosaria Stagnaro, che hanno iscritto formalmente Genovese per entrambi i casi di violenza denunciati. Agli atti è finita anche la memoria di un detective privato, ingaggiato da una famiglia di vicini di casa che non ne potevano più dei bagordi e della musica alta fino al mattino. Per mesi ha collezionato video e foto pubblicati sui social da chi era presente ai party. Coi soldi, che certo non gli mancavano, Genovese sarebbe stato pronto a risolvere i problemi: secondo quanto emerge dalle indagini del pm Letizia Mocciaro, che lo accusa di disturbo della quiete pubblica, l' imprenditore avrebbe tirato fuori una cifra a sei zeri per fare delle modifiche alla centralina dell'ascensore, che nessuno poteva più raggiungere per via del cancello che lui aveva installato al sesto piano per blindare il suo superattico. Tredici vicini lo hanno denunciato: tra loro anche l' étoile della danza Roberto Bolle e il console austriaco. Non è servito a molto: le feste sono andate avanti fino alla notte dello stupro.

Giuseppe Guastella per il “Corriere della Sera” il 16 dicembre 2020. Le dita tormentano nervosamente la maglia, poi alza lo sguardo per combattere la sua battaglia. Fino in fondo. La conversazione con la modella di 18 anni che ha denunciato lo stupro brutale per il quale è stato arrestato il 6 novembre il ricco imprenditore Alberto Genovese, 43 anni, si svolge nello studio milanese del legale che la assiste, l' avvocato Luigi Liguori.

Come è arrivata alle feste di Alberto Genovese?

«La prima volta a giugno, invitata da un mio caro amico di 23 anni, a sua volta amico della fidanzata di Genovese. Siamo andati in cinque amici».

C' era qualcosa di strano?

«No. L' unica cosa sbagliata era l' eccesso di droga. C'erano dei piatti da cui tutti potevano prendere cocaina e cocaina rosa. In qualsiasi festa della notte a Milano la trovi, ma non così tanta».

Che gente c'era?

«Gente che conoscevo del mondo della moda e della musica, età dai 20 ai 30 anni.

Un bell' ambiente che non mi appariva pericoloso».

C'è sempre tanta droga in giro.

«Diciamo che è molto alla portata di tutti ed è sempre più accessibile. Nel mondo della moda e in quello dello spettacolo è normalissimo vedere gente che ne fa uso».

Quante volte è stata a Terrazza sentimento?

«Tre. Anche nella seconda, a settembre, c'era bella gente».

Nell' ultima è avvenuta la violenza.

«Io e una mia amica siamo arrivate alle 20,30. Eravamo indecise se andare o no perché nessuno dei nostri amici sapeva che c'era la festa e non eravamo amiche né del signor Genovese né del signor Leali. Poi sul tardi Leali scrive alla mia amica di venire ché là era figo e, visto che c' era un' altra festa alle 23, abbiamo deciso di passare».

Infatti alle 22,30 stavate andando via, eravate sulla porta.

«Non ho ricordi precisi. La mia amica mi ha detto che avevamo deciso di andarcene anche perché lui aveva cominciato ad essere molto molesto nei nostri confronti, ci seguiva. Era come se ci stesse puntando. Infatti, ci siamo dette: "Stiamo sempre insieme, non ci separiamo mai " ».

Quando ha cominciato?

«Appena arrivate abbiamo capito che c' era un ambiente strano. Solo una ventina di persone, molte ragazze e non conoscevamo nessuno. Genovese non lo conoscevo. Per me era quello che faceva le feste in Terrazza sentimento, che aveva fondato Facile.it (ne è uscito da anni, ndr ), il fidanzato di Sara. Non ci avevo mai parlato, non ci eravamo neanche presentati. Era arrogante».

Perché pensa vi stesse puntando?

«Stava aspettando che qualcosa facesse effetto», commenta l' amico che l' ha accompagnata. «Ci ha passato qualcosa che solo io ho preso volontariamente. La mia amica ha detto che dopo mi comportavo in modo molto strano. Era intorno alle 22, credo. Poi ho perso la memoria».

Questo prima di entrare con Genovese nella camera dove c' è stata la violenza?

«Sì. Non so come ci sono entrata. Ero sveglia, ma completamente andata. Non ricordo niente».

Dove riparte la memoria?

«Da quando mi sono svegliata sul letto. Credevo di aver avuto un incubo. Ricordo di avergli detto "Ma dove siamo andati ieri sera?". Solo dopo l' arresto ho saputo quello che era accaduto. Ho solo alcuni flash di quello che è accaduto. Avevo la sensazione che fosse successo qualcosa, ma era tutto talmente assurdo che ho pensato che fosse impossibile. Poi hanno cominciato a sovrapporsi i ricordi, i dolori, le manette, lui che si comportava in modo violento e voleva ancora costringermi ad assumere droga. "Pippa", diceva. Ho capito che ero in pericolo di morte e ho mandato messaggi alla mia amica con il telefonino».

Non l' aveva lasciato all' ingresso come imponeva Genovese ai suoi ospiti?

«Sì. Non so come ci sia finito vicino al letto. Lui era sempre intorno a me, avevo paura della sua reazione. Non sapevo cosa fare, ho pensato: "Aspetto un attimo, capisco in che situazione mi trovo, magari mi sto solo facendo delle paranoie". Dopo un po' ho capito che davvero ero in pericolo, ma mi sentivo più sicura chiamando la mia amica che è venuta immediatamente sotto casa. Ho detto: "O mi fai scendere o lei chiama qualcuno. Appena sono arrivata in strada ho fermato una Volante della polizia che passava e ho detto che c' era stata la violenza».

Genovese ha bruciato delle banconote che erano nella sua borsa. Perché lo ha fatto?

«Non erano soldi miei, non ho alcuna idea del perché ce li abbia messi. Quando ho aperto la borsa, ho visto che dentro c' era un rotolo di banconote. Non so quante fossero.

Qualcuno ha detto che ci siamo accordati per quel denaro. Non è vero. Poi le ha bruciate, ma questo l' ho saputo dopo».

Dopo l' arresto, lui ha detto che eravate innamorati.

«Assolutamente no. Non lo conoscevo nemmeno».

Più di venti ore sequestrata in una stanza. I suoi genitori l'avranno cercata.

«Ovviamente sì. Mi vogliono molto bene. Nonostante la mia giovane età sono molto indipendente, sanno che faccio la mia vita. È capitato altre volte che non rispondessi per un intero pomeriggio, ma sapevano che ero andata ad una festa e pensavano che dormissi. Appena mi sono svegliata gli ho scritto dicendo che stavo bene per non farli preoccupare. Dopo che ho denunciato la violenza li ho avvisati.

Accade puntualmente che qualcuno dipinga le vittime come delle poco di buono. È successo anche a lei?

«Certo. Hanno detto che sono una escort. Io non ho mai fatto niente del genere, non mi hanno mai offerto dei soldi per andare a queste feste. Erano feste normali, non erano orge. Tutto questo mi sta facendo soffrire molto perché non lo trovo giusto. È come se volessero farmi pentire di essermi esposta e di aver denunciato. Io ho fatto una cosa giusta, non capisco perché mi debbano trattare così. Mi aspetto di essere appoggiata».

Denuncerebbe di nuovo?

«Assolutamente sì. Non c' è soddisfazione maggiore per me di vedere quell'uomo a San Vittore per causa mia. Da quanto sta emergendo, ha fatto queste cose per anni a tantissime ragazze».

Dicono adesso i testimoni che con lui bisognava fare attenzione.

«No. Magari giravano voci tra chi lo conosceva meglio. Io andavo a Terrazza sentimento quando c' era una festa. Non andrei mai a casa di una persona di cui si dice che violenta le ragazze».

Ha letto le carte dell' indagine? Cosa ha provato?

«Un po' di tenerezza per me stessa. Con me c'è stato un accanimento eccessivo».

Si parla di un pranzo con amici di Genovese prima che cambiasse avvocato e di una ipotesi di risarcimento.

«Abbiamo preso solo un caffè con delle persone tra cui alcune che tempo fa hanno avuto rapporti con lui. Ho cambiato avvocato tramite conoscenti che non hanno alcun collegamento con Genovese. Volevo un professionista esperto e stimato. Non ci sono trattative in corso per un risarcimento».

Daniele Leali, l'organizzatore delle feste, ha detto che l'ha incontrata.

«È venuto a parlarmi per Alberto tre giorni prima dell' arresto. Come portavoce, ha detto».

Gli era giunta voce di quello che era accaduto?

«Sì. La prima cosa che ho fatto è stato dirlo subito a tutti i miei amici che mi chiedevano perché ero in ospedale. Quando sono uscita sono stata sempre con loro in casa o al massimo a prendere una pizza. Non mi vergognavo e volevo che sapessero quello che aveva fatto quell' uomo».

Cosa direbbe alle altre ragazze dopo quanto accaduto?

«Che queste cose possono essere più comuni di quanto pensiamo. Se potessi tornare indietro, ci sono alcuni comportamenti che cambierei».

Cosa desidera di più in questo momento?

«Che la gente parlasse meno di tutto questo. Che mi aiutasse a voltare pagina. Vorrei pensare un po' a me stessa e anche diplomarmi».

Verrà in aula se ci sarà un processo?

«Non lo so. Vorrei solo guardarlo in faccia per vedere come mi guarda».

Giuseppe Guastella per il “Corriere della Sera” il 18 dicembre 2020. Altre due giovani donne denunciano di essere state violentate da Alberto Genovese, il mago delle startup arrestato con l'accusa di aver stuprato ferocemente una modella di 18 anni durante una festa a Terrazza sentimento, il prestigioso attico con superattico a due passi dal Duomo di Milano, ed indagato anche per aver violentato una quarta donna ad Ibiza. Gli investigatori avevano già individuato una delle due presunte ulteriori vittime (sospettano che ce ne siano altre) analizzando l'enorme massa di immagini recuperate negli hard disk collegati alle 19 telecamere installate in tutti gli angoli della grande casa. Genovese non è riuscito a sbarazzarsi dei file nonostante avesse ordinato ad un tecnico di «piallare» le memorie informatiche. Le querele firmate dalle due ragazze sono state presentate mercoledì mattina al procuratore aggiunto Letizia Mannella, che indaga con il pm Rosaria Stagnaro, dall'avvocato Ivano Chiesa, il noto penalista milanese che difende anche Fabrizio Corona. Le giovani donne hanno denunciato più episodi accaduti a Milano, in una villa affittata in estate nell'isola spagnola, dove un'altra donna ha detto di essere stata stuprata, e a Mykonos, in Grecia. Le violenze avrebbero tutte le stesse pesanti caratteristiche: prima le ragazze sarebbero state drogate e poi Genovese avrebbe approfittato di loro, senza però, per fortuna delle vittime, raggiungere i livelli della violenza nei confronti della modella 18 enne. Con l'impreditore 43 enne sono indagati il suo amico e organizzatore delle feste, Daniele Leali, per cessione di droga, e la sua ex fidanzata Sarah B., per concorso in una delle violenze. Un altro filone dell'inchiesta riguarda l'attività economica e finanziaria di Alberto Genovese, che nel 2014 ha incassato più di cento milioni di euro dalla cessione definitiva della startup che aveva fondato. Su dove e come siano stati usati questi soldi indagherà la Finanza di Milano coordinata dal sostituto procuratore Paolo Filippini.

I conti di Genovese S' indaga sui prelievi da migliaia di euro. Sandro De Riccardis per “la Repubblica” il 17 dicembre 2020. Uso smodato del contante, prelievi di decine di migliaia di euro, movimentazioni sospette. L' indagine su Alberto Genovese si arricchisce di nuovi accertamenti, che questa volta riguardano il suo patrimonio, legato alla galassia di società dove è tuttora socio e alle altre in cui ha o ha avuto cariche gestionali. Ai magistrati Letizia Mannella e Rosaria Stagnaro, che indagano sullo stupro e il sequestro di quasi venti ore alla "terrazza sentimento" dello scorso 10 ottobre, si è affiancato un altro pubblico ministero, che fa parte del dipartimento competente sui reati societari e finanziari, coordinato dall' aggiunto Maurizio Romanelli. Allo stesso modo, insieme alla squadra mobile - che indaga sulla violenza nel super attico di Genovese, sull' altra a villa Lolita a Ibiza, e su una terza la cui denuncia verrà formalizzata in questi giorni - lavorerà all' inchiesta anche la Guardia di Finanza di Milano. Gli approfondimenti sono appena partiti, eventuali ipotesi di reato tutte da verificare, ma si partirà ricostruendo la situazione finanziaria e fiscale delle società di Genovese. Scavando sul mondo di feste, viaggi, cocaina e violenze sessuali dell' imprenditore delle start-up, i magistrati si sono imbattuti su numerosi prelievi di denaro contante. Decine di migliaia di euro per volta, fino a 50 mila euro. Somme enormi per comuni cittadini, ma spiccioli per Genovese che spendeva fino a 150 mila euro nell' organizzazione di uno solo dei suoi party. Il sospetto degli investigatori è che il denaro servisse per l' acquisto della droga per le feste, dove gli stupefacenti abbondavano e venivano offerti generosamente a tutti gli invitati. «C' era della droga alla festa - aveva messo a verbale una delle amiche della diciottenne violentata nella notte del 10 ottobre - ad un certo punto c' erano due piatti messi a disposizione per tutti, gratuitamente ovviamente. Anche nell' occasione del 18 e 19 settembre, c' erano dei piatti con sostanza stupefacente...». Di droga offerta a tutti gli ospiti parla anche la ventitreenne che ha denunciato lo stupro a Villa Lolita, a Ibiza, nella vacanza dello scorso luglio. I prelievi di contante così rilevanti sono stati segnalati dalle banche e finiti inevitabilmente in alcune "segnalazioni di operazioni sospette" (Sos) di Banca d' Italia, trasmesse poi alla Gdf. Che sta studiando in un' ottica nuova anche la Sos agli atti dell' inchiesta "Lombardia Film Commission" sui revisori contabili leghisti. In quel documento il nome di Genovese compare a proposito di una transazione da oltre 18 milioni che vede protagonisti due professionisti al centro di numerose operazioni finanziarie legate alla Lega, i notai Angelo Busani e Mauro Grandi. Il primo bonifica al secondo 18 milioni 744 mila euro, e nella causale ("Pagamento quote Prima assicurazione verso Bailican Ltd") compare il nome della società assicurativa fondata da Genovese, dove l' imprenditore dopo l' arresto ha abbandonato tutte le cariche, rimanendo comunque il socio principale. Quel denaro bonificato a Grandi - che ha curato con il suo studio molte pratiche nelle società di Genovese - verrà girato lo stesso giorno all' estero: 17 milioni e 802 mila euro alla società cipriota Bailican Ltd, controllata al 99,9% dall' imprenditore ed ex vicepremier ucraino Sehiy Thipko, e 937 mila euro al Merchant trust alle isole Cayman. Anche queste transazioni saranno ora rilette nel contesto delle movimentazioni finanziarie di Genovese.

Brunella Bolloli per “Libero quotidiano” il 17 dicembre 2020. È davvero istruttivo il racconto, sparato in prima pagina dal Corriere della Sera, della 18enne vittima di Alberto Genovese. Descrizione inquietante di una "tranquilla" serata in uno dei ritrovi vip della Milano che fu da bere e adesso, spesso e volentieri, è da pippare. La Terrazza Sentimento, quella in cui Genovese organizzava le sue feste e che dal nome dovrebbe evocare virtù positive, amore per il prossimo e bontà, è invece un luogo di perdizione: entri là dentro e non sai cosa trovi, o forse lo sai fin troppo bene ma preferisci correre il rischio, salvo poi finire nei guai. «Credevo di morire», ammette la ragazza rimasta per venti ore in balìa del padrone di casa, strafatto come pochi, convinto di comprarsi le bellezze presenti per soddisfare la propria voglia di sentirsi il sultano al centro dell' harem. L' imprenditore 43enne dovrà pagare fino in fondo per ciò che ha fatto alle sue giovanissime prede, se è vero che le ha stordite con la droga, le ha ammanettate e le ha stuprate approfittando del loro stato d' incoscienza; ci sono le indagini e ci sarà un processo, lui stesso nel primo interrogatorio si è difeso così: «Ero drogato. E quando assumo droghe sono fuori di me, non so più quello che faccio». Ma quelli che lo frequentavano sapevano della sua dipendenza: peccato nessuno l' abbia fermato, prima della vicenda del 10 ottobre scorso. La stessa modella 18enne finita all' ospedale a causa sua spiega di non essere andata alle feste di Genovese una sola volta, ma addirittura tre: a giugno, a settembre e fino all' ultima, tragica. Perché? «C' era un bell' ambiente, che non mi appariva pericoloso». Al giornalista che le chiede se c' era qualcosa di strano, la ragazza risponde di no. A parte il fatto che «c' erano dei piatti in cui tutti potevano prendere cocaina e cocaina rosa. In qualsiasi festa della notte a Milano la trovi, ma non così tanta». Dunque, «bell' ambiente» e «piatti pieni di cocaina», per la ragazza, non sono in contraddizione. Non è un reato, ci mancherebbe, e nulla giustifica quello che ha subìto, ma si può dire che sia stata imprudente, proprio alla luce di quel che poi è accaduto? Torniamo al suo racconto e alla «bella gente», persone del mondo della moda e dello spettacolo, e anche se attorno scorrevano fiumi di droga «è normalissimo vedere persone che ne fanno uso». La fanciulla non si mostra affatto sorpresa di trovarsi in mezzo ad assuntori di stupefacenti, tant' è vero che dopo la prima esperienza nella dimora con piscina del riccone, c' è stato il doppio bis. In realtà, lei e la sua amica erano indecise, «poi il signor Leali (l' amico di Genovese che tornerà da Bali il 19 dicembre, ndr) ha scritto di venire che là era figo e, visto che c' era un' altra festa alle 23, abbiamo deciso di passare». La 18enne sceglie dunque di tornare nella tana del lupo, da cui uscirà malissimo: ridotta «come una bambola di pezza», secondo i pm. Poteva fare un' altra scelta? Certamente avrebbe potuto non addentrarsi nel bell' ambientino figo con vista sulle guglie del Duomo, la musica a tutto volume, i piatti apparecchiati di polvere bianca e rosa e un padrone di casa molesto e «arrogante» che a un certo punto le ha passato qualcosa che lei ha ingerito «volontariamente», facendola andare "fuori". Di certo avrebbe potuto essere meno «ingenua», come ha scritto per primo il direttore Vittorio Feltri scatenando il polverone degli indignati, convinti che questa sua frase assolvesse il violentatore e condannasse la povera signorina. Non è così. Il fondatore di Libero, con la chiarezza che lo contraddistingue, ha scritto che «i cocainomani vanno evitati», che la ragazza aveva visto cosa succedeva in quella terrazza eppure è tornata per la terza volta, ha aggiunto «se fosse stata mia figlia l' avrei avvertita, non l' avrei mandata in quella casa. Io avrei cercato di evitare che mia figlia andasse ad affrontare un' esperienza simile». Ragionevole, più che sessista. E non è certo l' unico a pensarla così. Pietro Senaldi, direttore responsabile di Libero, ha firmato un editoriale che inizia con questa domanda: «Cosa direste a vostra figlia diciottenne se vi comunicasse che è stata reclutata tramite telefonino da un buttadentro e sta per andare a casa di un milionario cocainomane di 25 anni più vecchio di lei, noto per organizzare festini che si trasformano in droga-party orgiastici?». Anche lui, neanche a dirlo, è stato tacciato di sessismo. Sono piovuti gli esposti al grido di "Libero, giornale misogino". E però siamo in buona compagnia. «Nessuno è obbligato ad andare alle feste, nessuno è stato trascinato lì per forza», ha dichiarato l' avvocato Annamaria Bernardini De Pace, di cui tutto si può dire tranne che non sia a favore delle donne. «Esiste la responsabilità individuale», ha aggiunto, «poi la si può anche perdere per strada, magari facendo uso di droga, ma c' è stato un momento di scelta, un inizio». Natalia Aspesi, penna sopraffina di Repubblica, ha definito la ragazzina «imprudente, o molto sola e chissà con quali sogni irrealizzabili e bisogni», perché «è difficile credere che quelle feste del Genovese fossero tipo famiglia, e chi ci andava, non sapesse dei vassoi di droga, dei letti disponibili. Lo sapeva e ne approfittava». Sulla stessa lunghezza d' onda Bruno Vespa, il quale ha osato chiedere: «Ragazze, ma a quali feste andate?». E anche contro di lui si sono scatenati gli odiatori social, senza pensare che non si tratta di moralismo, casomai di buon senso. Nessuno giustifica Genovese, nessuno assolve chi stupra. Non siamo bacchettoni e frequentiamo pure le feste evitando con cura quelle con la droga, che distrugge tutto. Perché, poi, dalla terrazza sentimento al pentimento è un attimo.

Mentre Genovese è in galera in tv processano la sua vita. Iuri Maria Prado su Il Riformista l'11 Dicembre 2020. “Ferma restando la presunzione di innocenza”. Se fosse una cosa vera anziché una vuota clausola di stile non dovrebbe essere anteposta al reportage che fa il processo ancor prima che cominci quello nella sede dovuta, e cioè in aula di giustizia, con le garanzie di difesa di cui fino a prova contraria sarebbe ancora titolare l’imputato. Un’ipocrisia formalista fa reiterare quella formula – “presunto innocente” – salvo poi inscenare nello studio televisivo il procedimento popolare con la testimone che racconta il tentato stupro, l’avvocata esperta di stupro che spiega alle ragazze di non fidarsi dell’orco, il giornalista che perlustra la vita privata dello stupratore (ops, presunto stupratore), il conduttore che raccoglie e ripropone le vociferazioni sul fatto che gli stupri sono due, forse tre, magari cinque perché il presunto innocente di uno è in realtà il probabile colpevole di una serie e via così, con le chat che narrano l’infamia delle serate aguzzine, le foto hard condivise dal mostro coi suoi amici, i vassoi pieni di bamba e le ville a Ibiza e i jet privati e le feste da mezzo milione di euro a denunciare il quadro di oltraggiosa dissolutezza in cui si svolgeva quell’abitualità criminale. A questa persona – l’ormai famigerato Alberto Genovese – si imputa di aver commesso gravissimi delitti. È in prigione e per una volta, probabilmente, va bene così, nel senso che quando si discute di comportamenti così pericolosamente offensivi è opportuno che chi è sospettato di averne tenuti sia messo in condizione di non nuocere ulteriormente. Ma c’è un motivo, anche solo uno – di informazione, di salvaguardia pubblica, di tutela sociale, di protezione delle vittime, insomma qualsiasi – che renda non dico nemmeno necessaria, ma anche solo giustificata l’attenzione inquirente dei giornali e della televisione sulla vita di quella persona? Su ciò che di illecito ha commesso deve intervenire la magistratura, e su ciò che non è illecito non dovrebbe intervenire nessuno. Perché è bene intendersi: il principio secondo cui si è presunti innocenti non serve tanto a proteggere l’ipotesi che uno sia innocente, serve piuttosto a garantire che l’accertamento della colpa, che contraddice quella presunzione, avvenga secondo diritto. E secondo diritto c’è speranza che possa avvenire in tribunale, ma c’è certezza che non avviene sui giornali. Dice: ma i giornali fanno il loro lavoro e la giustizia fa il suo. Che è vero, ma è un lavoro improprio e tutt’altro che obbligato, salva la balla dei cittadini che hanno diritto di essere informati. Informati su cosa, infatti? Sulla detestabilità del profilo psicologico dello stupratore? Sull’entità (a questo si è arrivati) delle lacerazioni genitali inflitte alla poveretta? A me hanno ucciso una persona cara, mia compagna per tanti anni. L’assassino l’ha soffocata con un cuscino, e l’hanno trovata piena di lividi e ustioni, perché quello aveva tentato di bruciarne il cadavere. Non fu utile a nessuno – e di nessun conforto a me – apprendere dai giornali le notizie sui particolari della sua vita e leggere i racconti delle sue presunte immoralità. Avrei voluto per lui un processo equo, il processo che non ha avuto perché si è impiccato prima.

Chi è Alberto Genovese, l'imprenditore mago delle startup fermato per violenza sessuale a Milano. Oriana Liso su La Repubblica l'8 novembre 2020. Ha 43 anni, napoletano, da oltre 20 anni a Milano dove ha studiato alla Bocconi e ha iniziato la carriera in società di consulenza. Ha fondato Facile.it, vendendola per 100 milioni nel 2015, poi Prima Assicurazioni, lanciando varie startup celebrate nel mondo dell'economia digitale. Ha 43 anni, ha origini napoletane ma formazione milanese: qui si è laureato alla Bocconi e ha iniziato una carriera che, fino a oggi, sembrava un modello per i giovani imprenditori. Alberto Genovese è stato fermato ieri sera dalla polizia a Milano: l'accusa è pesante, violenza sessuale e sequestro di persona nei confronti di una ragazza di 18 anni che, a ottobre, sarebbe stata la sua vittima durante una festa in una esclusiva casa nel centro di Milano. Genovese è il fondatore di Facile.it, in cui - come precisa una nota della società - "non ha oggi alcun ruolo operativo avendola lasciata nel 2014". Il suo profilo LinkedIn riporta una lunga lista di ruoli: chairman di Prima Assicurazione, attualmente membro del board di Facile.it (di cui è stato presidente e ceo), presidente di Brumbrum spa, di Abiby, Mirta, Zappyrent, tutte startup che sono diventate nomi comuni per chi si occupa di economia digitale. Dopo la laurea in Economia e commercio entra nella società di consulenza McKinsey, poi in Bain, nel 2005 approda in Bay. E' allora che inizia a pensare a Facile.it, il primo sito che trova e compara i prezzi di compagnie assicurative diverse: due anni dopo nasce Facile.it, che raccoglie investimenti importanti - anche da Berlusconi: Holding Italiana Quattordicesima (in mano a tre figli dell’ex premier: Barbara, Eleonora e Luigi) rileva il 20% della società - e che Genovese vende nel 2014 per 100 milioni al fondo di private equiti Oakley Capital. Nel 2014 fonda con un socio Prima Assicurazioni, agenzia digitale che distribuisce polizze Rc auto, moto e furgoni, che nel 2019 ha raccolto oltre 130 milioni di premi e su cui su cui Goldman Sachs e Blackstone nel 2018 ha investito 100 milioni, l'anno dopo crea Brumbrum.it, piattaforma per la compravendita di auto. L'appartamento in cui si sarebbe svolta la violenza sessuale di cui è accusato non è un indirizzo comune: si chiama "Terrazza sentimento", in piazza Santa Maria Beltrade - via Torino - ed è ben presente su Instagram, dove la sua piscina panoramica, con vista Duomo e tetti storici di Milano, è plurifotografata.

Giuseppe Guastella per il “Corriere della Sera” il 6 dicembre 2020. Nuova accusa di violenza sessuale e cessione di stupefacenti per Alberto Genovese. Il mago delle startup arrestato per aver drogato e violentato una modella di 18 anni nella sua casa nel centro di Milano ora è indagato dalla Procura anche per un secondo stupro, quello che avrebbe subito una ragazza di 23 anni sua ospite a luglio ad Ibiza. E ieri due avvocati della prima vittima hanno rimesso il mandato. La ragazza, che chiameremo con il nome di fantasia di Sofia, era stata protagonista di un difficile interrogatorio nelle indagini della Squadra mobile della Questura di Milano, dirette dal pm Rosaria Stagnaro e dall'aggiunto Letizia Mannella. Si era presentata spontaneamente quando, ancor prima che Genovese fosse arrestato, nel giro delle conoscenze che hanno affollato «Terrazza sentimento» girava voce che una giovane era stata violentata dopo una serata. A verbale, Sofia ha dichiarato di aver trascorso la vacanza nella «Villa Lolita», affittata nell'isola spagnola dall'imprenditore 43enne di origini napoletane, tra tuffi in piscina, balli con musica ad altissimo volume per tutta la notte e la immancabile droga in quantità industriali «cocaina, 2CB e pasticche di vario genere che Alberto metteva liberamente e gratuitamente a disposizione di tutti gli ospiti». Il suo racconto ricalca i ricordi dell'altra vittima. Dice che ha seguito Genovese e la sua fidanzata in camera da letto dove ha «tirato» altra droga. Da quel momento la memoria si annebbia, solo flash e allucinazioni. Quando si riprende, ha i vestiti strappati, molti lividi alle gambe e ai polsi e «la sensazione di aver subito un rapporto sessuale». Tornata in Italia, non fa denuncia perché teme che Genovese possa fare del male alla sua famiglia. Aveva sentito dire che «in una occasione lui aveva mandato delle persone sotto casa di una ragazza che voleva denunciarlo per una cosa simile». Nel momento in cui emerge tutta la violenza feroce subita dall'altra presunta vittima, Sofia trova il coraggio di presentare anche una formale querela che arriva mentre la Procura sta già indagando d'ufficio sul suo caso. Nei giorni scorsi, la ragazza violentata a Milano aveva aggiunto l'avvocato Luigi Liguori al collegio legale degli avvocati Luca Procaccini e Saverio Macrì, che sono diventati sostituti processuali. Ieri, Procaccini e Macrì hanno rimesso il mandato dopo che la trasmissione «Quarto grado» ha rivelato che la loro cliente, prima di rivolgersi a Liguori, avrebbe pranzato in un ristorante con persone che «farebbero parte dell'entourage di Genovese». Notizie che, «vere o false che siano», Procaccini legge «unitamente ad una ulteriore serie di circostanze» che lo hanno spinto a non «occuparsi più del caso». Le rivelazioni non vengono confermate dall'avvocato Liguori: «Non c'è alcun collegamento tra il mandato che ho ricevuto e un pranzo "misterioso"» del quale «non ho alcun riscontro. La ragazza - dichiara - si è presentata da me spontaneamente, libera da qualsiasi condizionamento».

Alberto Genovese, indagata anche la ex fidanzata. Testimoni: "Presente durante alcuni abusi". Libero Quotidiano il 09 dicembre 2020. Una svolta impensabile, nel caso di Alberto Genovese, l'imprenditore milanese in carcere con l'accusa di stupro ai danni di una 18, avvenuto negli ormai chiacchieratissimi party sulla "terrazza sentimento", nel cuore del capoluogo meneghino. Si apprende infatti che tra gli indagati, ora, ci sarebbe anche la ex fidanzata di Genovese. Il punto è che, stando ad alcune testimonianze agli atti, l'ex fidanzata dell'imprenditore sarebbe stata presente nel corso di alcuni abusi commessi dal manager ai danni di altre ragazze. Una svolta, come detto, sorprendente e allo stesso tempo inquietante. La fidanzata di Genovese, Sarah B., ha vent'anni e, subito dopo lo scoppiare dello scandalo, ha chiuso tutti i profili social, evitando giornalisti e paparazzi, e facendosi assistere da un legale. Oggi, come detto, è indagata per concorso nelle violenze sessuali e nella cessione di droga. Secondo quanto scrive il Corriere della Sera, aveva capito da subito che il cerchio intorno a lei si stava stringendo: troppe ragazze, infatti, avrebbero messo a verbale il suo presunto coinvolgimento nelle violenze. Nel frattempo, gli investigatori stanno indagando anche su ulteriori violenze, oltre a quella subita dalla 18 e a quella che Genovese avrebbe commesso a Ibizia. Insomma, ci sarebbe molteplici casi al vaglio. E ancora, si è appreso che gli inquirenti eseguiranno accertamenti sui presunti abusi denunciati da un'altra ragazza nel corso di Ore 14, la trasmissione in onda su Rai 2. 

Da ilmattino.it il 22 dicembre 2020. L'ex fidanzata di Alberto Genovese, l'imprenditore del web finito in carcere il 6 novembre per aver stordito con un mix di droghe e stuprato una 18enne nel corso di un festino, è stata interrogata oggi in Procura a Milano. La ventenne, indagata per concorso in violenza sessuale a seguito della denuncia di un'altra ragazza che avrebbe subito abusi a Ibiza, è stata ascoltata a verbale per alcune ore nel tardo pomeriggio, nelle indagini della Squadra mobile, coordinate dall'aggiunto Letizia Mannella e dal pm Rosaria Stagnaro. La 23enne, che la scorsa estate avrebbe subito abusi nell'isola spagnola (Genovese è indagato anche per questo episodio), aveva spiegato agli investigatori che l'imprenditore e la sua allora fidanzata quel giorno «mi hanno invitata ad andare in camera, per fare un'altra striscia di cocaina, io li ho seguiti, ed avevo chiesto se io potevo farmi di '2CB'. Loro hanno acconsentito e sono andata (...) Da quando sono entrata in camera ed ho tirato una striscia di stupefacente di colore rosa (...) non ricordo più nulla». Una delle giovani - che ha partecipato al festino del 10 ottobre nell'attico milanese "Terrazza Sentimento" dove il mago delle start up avrebbe violentato la 18enne - aveva raccontato che giravano «delle voci su Genovese, nello specifico si dice che lui e la sua ex fidanzata (...) erano soliti drogare le ragazze alle loro feste private per poi violentarle». Tutti elementi al vaglio di investigatori e inquirenti, così come altre due denunce per presunti abusi presentate da altrettante ragazze nei giorni scorsi. Oltre alle numerose testimonianze raccolte finora su ciò che accadeva nei festini e alle immagini delle telecamere interne dell'appartamento milanese. Filmati da cui sarebbero emerse altre presunte violenze. Indagato per spaccio di droga anche Daniele Leali, «braccio destro» di Genovese, secondo alcune testimonianze, e da poco rientrato dall'Indonesia.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 10 dicembre 2020. Sarah Borruso partecipava alle orge - chiamiamole - polarizzate attorno alla figura di Alberto Genovese, lo stupratore non presunto che tra il 10 e l' 11 ottobre ha drogato e violentato la 18enne A.B. con modalità quasi certamente seriali, nel senso che l' ha fatto altre volte con altre ragazze in altri tempi e luoghi: e su questo indaga la Procura. Sarah Borruso è indicata come fidanzata di Genovese o forse ex fidanzata, amica particolare, ancella, devota complice, procura-ragazze, insomma una ragazza molto giovane che era presente attivamente nella vita dello stupratore e anche in queste orge che, certo, non sempre sono equivalse a reato: però in quella famosa serata pare che lei abbia avuto un ruolo, e non solo in quella. Nella prima delle tre allegre festicciuole passate a casa di Genovese (alcol e droghe di ogni genere, autentiche liste d' attesa per partecipare) fu lei a invitare la futura vittima, anche se nella serata del fattaccio l' invito le venne da Daniele Leali, partito per Bali (Indonesia) l' 11 novembre quando l' aria si era fatta cattiva: i vari gossip lo definivano il braccio destro di Genovese (sicuramente ne era amicissimo) e sbrigativamente veniva anche indicato come suo procuratore di droghe. Sicuramente è un testimone il cui rientro è atteso con ansia dagli inquirenti, anche se ora resta tranquillo nella sua isola e rilascia video-interviste a pagamento per varie televisioni. villa lolita Tornando a Sarah Borruso, non è chiaro perché non risultasse ancora ufficialmente indagata: comunque ora lo è, anche perché l'inchiesta milanese sta raccogliendo elementi su altre presunte violenze in contesti dove la fidanzata sarebbe stata presente di sicuro. È anche vero che il 6 novembre, quando Genovese si presentò all' ufficio passaporti prefigurando un pericolo di fuga preannunciata alla madre per telefono, lui richiese i documenti a nome suo e anche della Borruso, che nelle maxi-vacanze alle Baleari non mancava mai: né a Ibiza a Villa Lolita (di Bolognese, otto camere) né al club «Tipic» di Formentera dell' amico «Danny» Leali. Sarebbe proprio a Villa Lolita che ci sarebbe stata un' altra violenza: settimana dopo settimana turnavano diverse ragazze (era tutto pagato) e c' era sempre qualcuno che faceva da palo mentre Genovese o altri si chiudevano da qualche parte. Una teste ha raccontato che proprio a Formentera si ripeteva lo schema: «Mi invitarono a continuare a pippare nella stanza del capo da quando sono entrata in camera e ho tirato una striscia rosa non ricordo più nulla al risveglio il mio top era strappato e non avevo più reggiseno né scarpe, avevo le gambe piene di lividi e un gran male ai polsi». Bene, ma perché parla solo oggi? Da quanto inteso, perché aveva timore che Genovese potesse rivalersi fisicamente sui suoi genitori. Un po' debole. Questa comunque è una delle piste care ai magistrati: ascoltare altre vittime, pur nella consapevolezza che le violentate potrebbero spuntare come funghi, ora, perché il misterioso cambio di avvocati fatto dalla vittima A.B. (il nuovo legale, Luigi Liguori, ha diffidato i precedenti dal rilasciare dichiarazioni sul caso) ha fatto circolare voci circa grosse cifre che potrebbero fioccare come risarcimenti alle varie vittime. Anche se, in definitiva, a denunciare sul serio, e subito, è stata una sola. L' altra pista cara ai magistrati e da dove, in definitiva, venissero tutte queste droghe: perché tra una festa e l' altra ne circolavano davvero tante e di vario tipo, anche sofisticato. Non è direttamente su Daniele Leali che puntano i magistrati, ma su ciò che potrebbe rivelare e che forse neppure Alberto Genovese sa: perché lui pagava e basta. Tutto il resto è gossip. Non ci frega niente che Sarah Borrusso fosse figlia di una ex amica di Alba Parietti che una volta incrociò anche Genovese a Courmayeur, o il chi c'era o non c' era alle feste, dove francamente poteva capitare chiunque.

(ANSA il 4 dicembre 2020) - Rinunciano al mandato gli avvocati Luca Procaccini e Saverio Macrì così come il pool di psicologi che finora hanno assistito la18enne che, lo scorso 10 ottobre, è stata prima stordita con droga e poi stuprata dall'imprenditore Alberto Genovese, ora in carcere. Lo comunicano i due legali in una nota con sui spiegano di aver deciso di lasciare l'incarico in seguito a un servizio andato in onda ieri sera a Quarto Grado, in cui si è parlato di un pranzo misterioso, che risale al sabato 28 novembre, in un ristorante milanese tra la giovane e un suo amico fidato e tre persone dell'entourage di Genovese, violando anche le norme anti covid. Un pranzo al termine del quale, dopo un colloquio in un altro luogo, la ragazza si sarebbe recata nello studio dell'avvocato Luigi Liguori per farsi assistere da lui. Liguori che è cresciuto professionalmente al fianco di Giannino Guiso, lo storico difensore di Bettino Craxi morto nel 2015. "Le notizie riportate ieri sera nell'ambito della trasmissione televisiva Quarto Grado - scrive l'avv. Procaccini - che riportano di contatti intervenuti sabato scorso tra l'assistita e persone dell'entourage di Genovese, vere o false che siano, ma che vanno lette unitamente ad una ulteriore serie di circostanze, hanno fatto assumere a me ed al collega Macrì la determinazione di non volere più far parte della difesa della giovane ed ai medici che hanno fin ora seguito la ragazza di non voler più occuparsi del caso".

 (ANSA il 24 novembre 2020) - Proteste dal Pd e Iv per l'editoriale pubblicato da Libero a firma di Vittorio Feltri, in merito allo stupro nei confronti di una 18enne da parte dell'imprenditore Alberto Genovese. Nell'articolo dal titolo, "i cocainomani vanno evitati. Ingenua la ragazza stuprata da Genovese", Feltri scrive, parlando dell'imprenditore: "gli piacevano le donne e non credo faticasse a procurarsene in quantità. Che necessità aveva di ricorrere allo stupro per impossessarsi di una ragazza bella e giovane, dopo averla intontita con sostanze eccitanti? Ciò è incomprensibile sul piano logico". E ancora, "quanto alla povera Michela, mi domando: entrando nella camera da letto dell'abbiente ospite cosa pensava di andare a fare, a recitare il rosario?". "Sarebbe stato meglio rimanere alla larga da costui (...). Concediamole attenuanti generiche, ai suoi genitori tiriamo le orecchie". Parole definite "vomitevoli e disgustose" dalla senatrice del Pd, Simona Malpezzi. "Questa è violenza di genere, è vittimizzazione secondaria, è sessismo", aggiunge l'altra senatrice del Pd, Valeria Valente. "Disgustoso giustificare uno stupro. Non è libertà di stampa ma offesa a tutta la società", fa eco la senatrice Laura Garavini, vicecapogruppo vicaria Italia Viva-Psi.

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 24 novembre 2020. Su Alberto Genovese, napoletano trapiantatosi a Milano e qui arricchitosi smodatamente dopo gli studi bocconiani, ha già scritto abbondantemente il nostro ottimo Filippo Facci, pertanto non ho molto da aggiungere. Posso solo fare una chiosa, visto che della vicenda non si smette più di parlare, come fosse una novità che i drogati vanno fuori di testa e ne combinano di ogni colore. Il signorino di cui trattiamo consumava cocaina a strafottere e spesso la sera, per vincere la noia, organizzava nel proprio lussuoso attico dei festini con amici e soprattutto amiche che si concludevano con grandi performance gastrosessuali. Questo stile di vita notturna è abituale, tipico di chi, stremato dalla routine, cerca svaghi oltre la legalità, il lecito. Capisco che Genovese, facoltoso oltre il limite della normalità, spingesse abitualmente l'acceleratore sulla strada del piacere. Nessuno lo condannerebbe per queste disgressioni, tantomeno io che sono uomo di mondo. Ciò che fa schifo nella sua condotta è l'abuso della micidiale polverina bianca, notoriamente devastante sul cervello di chi ce l'ha piccolo e poco funzionante. Va da sé che drogarsi allontana dalla realtà e favorisce comportamenti riprovevoli e addirittura criminali. Ma è altrettanto vero che chi si incammina sulle piste di coca perde la coscienza e la capacità di autogestirsi. Rimane un mistero. Genovese, il quale nella vita aveva ottenuto qualsiasi soddisfazione non solo finanziaria, che bisogno aveva di ricorrere agli stupefacenti per campare agiatamente? Certo, gli piacevano le donne e non credo faticasse a procurarsene in quantità. Che necessità aveva di ricorrere allo stupro per impossessarsi di una ragazza bella e giovane, dopo averla intontita con sostanze eccitanti? Ciò è incomprensibile sul piano logico. Personalmente ho constatato che si fa fatica a scoparne una che te la dà volentieri, figuratevi una che non ci sta. Dicono che Genovese sia andato avanti tutta la notte a violentare Michela, una ragazzina di 18 anni la quale pare fosse la terza volta che si recava nella abitazione del nostro "eroe" del menga. Prima osservazione. Dopo che hai penetrato la fanciulla non sei soddisfatto? Nossignori. Vai avanti a farlo fino all' alba. Ammazza che forza. Sei un uomo o un riccio? Come si fa a darci dentro per tante ore. Io, anche quando ero un ragazzo, dopo il primo coito al massimo fumavo una sigaretta, poi dormivo delle grosse. D'accordo che Genovese era carburato dalla coca, ma la cosa non giustifica tanto accanimento sulla passera. Quanto alla povera Michela, mi domando: entrando nella camera da letto dell' abbiente ospite cosa pensava di andare a fare, a recitare il rosario? Non ha sospettato che a un certo punto avrebbe dovuto togliersi le mutandine senza sapere quando avrebbe potuto rimettersele? Tanto più che Alberto godeva della fama di mandrillo. Sarebbe stato meglio rimanere alla larga da costui. Che adesso la vedrà brutta o non la vedrà per anni, perché sarà condannato. Gli auguriamo almeno di disintossicarsi in carcere. Alla sua vittima concediamo le attenuanti generiche, ai suoi genitori tiriamo le orecchie.

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 26 novembre 2020. Ieri Piero Sansonetti, direttore del Riformista e giornalista che non ha nulla da spartire con il conformismo imperante, ha scritto una pagina capolavoro per dimostrare che sono un coglione, avendo pubblicato su Libero un articolo nel quale condannavo, ovviamente, Alberto Genovese e sostenevo che la sua vittima, ragazza di 18 anni, si era comunque comportata ingenuamente. Il che non significa niente di strano, bensì riflette la realtà. Sansonetti afferma che in caso di stupro l'unico colpevole è lo stupratore. In sostanza scopre l'acqua calda. Infatti chiunque abbia annusato un manuale di diritto sa che la responsabilità penale è personale. Quindi l'unico a dover essere incriminato per le violenze sulla fanciulla è Genovese, il quale per compiere le sue prodezze si carburava con la coca che distribuiva a mani larghe anche ai suoi ospiti, probabilmente pure alla giovane donna di cui ha abusato. E qui il mio caro e stimato collega Piero cade in errore. Non è vero che l'uso di droga non incida quando si commette un qualsivoglia reato. Tanto è vero che se fai una rapina sotto l' effetto di stupefacente ciò non costituisce un' esimente, al contrario è una aggravante. D' altronde se guidi l' automobile quando sei un po' brillo e la polizia ti becca sei fritto, ti ritirano addirittura la patente. Una signorina maggiorenne certe cose le deve tenere a mente nel momento in cui decide di vivere come le garba. Pertanto, allorché ha scelto di essere ospitata per ben tre volte nell' attico del danaroso imprenditore, era a conoscenza, presumo, che costui non fosse un boy scout. Ella entrando poi in camera da letto sottobraccio all' anfitrione forse immaginava di ricevere certe richieste. Di sicuro non sospettava di essere stuprata, però quando sei sotto le grinfie di un tossico può succedere di tutto. Io non ho messo in croce la donzella, ma, se fossi stato suo padre e avessi avuto notizia che lei si sarebbe recata a casa di un drogato fottuto, avrei tentato di impedirglielo. Non ha senso dire che il mio ragionamento sia ottocentesco. Semplicemente sono consapevole che una diciottenne è attratta dalle novità e non ne valuta i rischi. Io ho avuto quattro figli, tre femmine e un maschio. Statisticamente ci stava che almeno uno fosse una testa di cazzo, invece mi è andata bene. Ma assicuro a Piero che io ho vigilato nonostante fossi impegnato in un lavoro senza orario. Non deploro la succube di Genovese, tuttavia non le posso assegnare la medaglia d' oro alla prudenza.

Caso Genovese, su Feltri si scatena l’inferno: “Ragazza ingenua”. “Disgustoso sessista”. Gabriele Alberti martedì 24 Novembre 2020 su Il Secolo d'Italia. Caso Genovese, Vittorio Feltri nella bufera. Ancora una volta. In prima pagina su Libero il suo editoriale dal titolo “La ragazza stuprata da Genovese è stata ingenua”, scatena un vespaio di indignazione. “Violento, sessista, disgustoso, maschilista, vergognoso”: da Faraone (Pd) alla Bellanova (Iv), alla Valente, senatrice dem e  presidente della Commissione Femminicidio è un florilegio di reprimende al direttore di Libero. Senza dimenticare Laura Boldrini. Feltri scrive nell’editoriale: “Su Alberto Genovese, napoletano trapiantatosi a Milano e qui arricchitosi smodatamente dopo gli studi bocconiani, ha già scritto abbondantemente il nostro ottimo Filippo Facci. Pertanto non ho molto da aggiungere. Posso solo fare una chiosa, visto che della vicenda non si smette più di parlare: come fosse una novità che i drogati vanno fuori di testa e ne combinano di ogni colore. Il signorino di cui trattiamo consumava cocaina a strafottere e spesso la sera, per vincere la noia, organizzava nel proprio lussuoso attico dei festini con amici e soprattutto amiche che si concludevano con grandi perfomance gastrosessuali”. Il pensiero di Feltri, opinabile e criticabile, è che la diciottenne vittima di stupro avrebbe dovuto sapere ciò a cui andava incontro: «Pensava che entrando nella camera da letto del facoltoso ospite avrebbe recitato il rosario? Non ha sospettato che a un certo punto avrebbe dovuto togliersi le mutandine senza sapere quando poteva rimettersele?».

Laura Boldrini: “Feltri, basta misoginia”. Esplode Laura Boldrini: “Feltri e Libero basta misoginia! Quello che scrivete è una forma di violenza sulle donne. È inaccettabile che una testata giornalistica, che percepisce anche contributi pubblici, dia la colpa dello stupro alla vittima! Fermiamo questa barbarie”. “Eh già povera Michela, per Vittorio Feltri, sei proprio una ingenuotta. Non una vittima, sei solo una sprovveduta, talmente semplice e innocente da risultare troppo imprudente. Che, dai, se ci pensi bene la colpa è pure tua”,  scrive Davide Faraone, capogruppo Iv al Senato, su Fb. “Schifezze elevate a giornalismo, scrive ancora. “Mi auguro che l’Ordine dei giornalisti intervenga in modo definitivo contro Feltri e contro la sua testata”, grida ancora la Valente, invocando fuoco e fiamme contro la testata tutta.  Feltri ha scelto un momento sicuramente inopportuno per esprimere la sua provocazione. Proprio negli stessi giorni in cui si sta sensibilizzando l’ opinione pubblica contro la violenza sulle donne il suo scritto sembra fatto apposta per sfidare il politicamente corretto. Non è la prima volta che il il suo linguaggio crudo gli costa la quasi  scomunica sociale (come dimenticare la “patata bollente” riferito alla sindaca Raggi? O l’aggettivo “mulatta” riferito alla Harris?). Se l’intento di Feltri è scatenare l’inferno,  ci riesce ampiamente.

Dagospia il 26 novembre 2020. Laura Boldrini su Facebook. Avevo scritto un intervento per il blog dell’Huffington Post in occasione della Giornata contro la violenza sulle donne. Il direttore di HuffPost, Mattia Feltri, ieri non ne ha autorizzato la pubblicazione. Sapete perché? Perché chiamavo in causa Vittorio Feltri, suo padre, che martedì firmava un articolo su Libero dal titolo: "La ragazza stuprata da Genovese è stata ingenua", di fatto attribuendo, come avviene troppo spesso, anche alla ragazza la colpa dello stupro. Dunque un direttore di una testata giornalistica sceglie di non pubblicare un intervento per via dei suoi rapporti familiari. Ma è accettabile una cosa del genere? Per me no, non lo è. In tanti anni non mi sono mai trovata in una simile situazione. Sia chiaro che continuerò ad impegnarmi perché sia rispettata la dignità delle donne, anche nell’informazione e sul piano del linguaggio, e continuerò a difendere sempre la mia libertà di parola.

Giovanni Sallusti per Dagospia,  autore del libro ''Politicamente Corretto - la dittatura democratica'' - Giubilei Regnani editore, il 27 novembre 2020. Caro Dago, uno dei modi d’agire caratteristici del Politicamente Corretto sta nel continuo, indefesso, sistematico affinamento del marchingegno noto come “neolingua”. Con le parole di colui che battezzò il vocabolo/concetto per descrivere il taroccamento totalitario del linguaggio, George Orwell: “Fine specifico della neolingua non era solo quello di fornire un mezzo espressivo che sostituisse la vecchia visione del mondo e le vecchie abitudini mentali, ma di rendere impossibile ogni altra forma di pensiero”. Ebbene, oggi la neolingua praticata dai Buoni vuole convincerci delle seguenti definizioni, anzi vuole spacciarcele per assiomi, ovvietà del (non) senso comune, per “rendere impossibile ogni altra forma di pensiero”. “Libertà di stampa” significa “obbligo da parte della stampa di pubblicare qualunque contenuto gli venga inviato da un esponente del potere politico”. “Scelta editoriale”, se si manifesta come scelta sbagliata, ovvero scelta sgradita al suddetto potere politico, significa “censura”. “Giornale” significa “buca delle lettere a disposizione del potere politico”. Manca l’esplicito “libertà è schiavitù” orwelliano, ma ci arriveremo. Si spiega solo con una massiccia operazione di “neolingua” del genere, infatti, la polemica più che surreale, vien da dire tecnicamente surrealista, che trascina la realtà in una sua caricatura allucinata, montata contro l’Huffington Post e il suo direttore, Mattia Feltri, da un quadro per eccellenza della nomenclatura politically correct, l’ex presidente della Camera e attuale deputata piddina (ma soprattutto paladina di qualunque causa femminista, ambientalista, variamente e correttamente “-ista” secondo il luogocomunismo dominante) Laura Boldrini. L’onorevole Boldrini è titolare di un blog sull’Huffington Post. L’onorevole Boldrini invia un pezzo per codesto blog. Il direttore Feltri (Mattia, lo preciso con la solidarietà di chi rischia sempre il frainteso cognome) si mette in testa, udite udite, perfino di fare il direttore, di esercitare le funzioni che connotano il ruolo, e di decidere con l’autonomia di cui ogni testata dovrebbe godere rispetto al potere politico (in Occidente, ma ultimamente dalle parti politiche boldriniane tira il “modello Cina”) di non pubblicare l’onorevolissimo pezzo. La motivazione è del tutto irrilevante, o questa sovranità è riconosciuta alle testate e ai loro direttori, o non esiste libera stampa. Viceversa, è l’ex presidente di Montecitorio (perdoni, “presidenta” non riesco proprio a scriverlo) a montare un cinema indignato sulla sua “libertà di parola” violata, omettendo il lievissimo dettaglio che Feltri non ne ha ospitato l’opinione sul proprio giornale, mica le ha impedito di esprimerla, tant’è che la stessa ha trovato subito cittadinanza sul Manifesto, è il bello capitalista della concorrenza, di cui giustamente approfitta anche un “quotidiano comunista”. Il capovolgimento integrale della realtà viene avallato dal presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti (altro esercizio di neolingua per indicare il Soviet delle penne) Carlo Verna: “I principi della libertà di stampa sono sacri in Italia, in Europa e in tutto il mondo democratico, sanciti da carte e convenzioni internazionali. Nell’esprimere la totale solidarietà alla Presidente Boldrini, ci aspettiamo che la questione trovi accettabili spiegazioni che al momento totalmente ci sfuggono”. Sì, un direttore di giornale deve spiegare a un politico e a un burocrate di categoria perché si permette di scegliere cosa pubblicare e cosa no. Sì, libertà è schiavitù.

Mattia Feltri per huffingtonpost.it il 28 novembre 2020. In capo a due giorni bizzarri, nel corso dei quali HuffPost e io ci siamo imbattuti in una quantità di giudici instancabili, spesso sommamente severi, la maggior parte sprovvisti dei titoli e delle conoscenze necessarie – della professione e del caso – per emettere giudizio, penso sia mio dovere tornare, per l’ultima volta, sulla questione dell’onorevole Boldrini. Lo faccio perché mi dispiace che sulla redazione di HuffPost – una redazione meravigliosa, di ragazzi che lavorano seriamente dalla mattina alla sera, che non si lamentano mai, che sono un esempio di dedizione e di correttezza – si sia riversato tanto malanimo ingiustificato (ma anche tanta solidarietà). E lo faccio perché ero convinto che la mia succinta risposta all’onorevole Boldrini dell’altro giorno fosse sufficiente per respingere attacchi e accuse surreali. Evidentemente non era così. Non nego, non ho mai negato, che questa volta intervengono questioni personali, del rapporto fra mio padre e me. Mi sono dato una regola: non parlo in pubblico di mio padre, da vent’anni, direi, perché qualsiasi cosa dica – nel bene e nel male – sarebbe usata contro di me. Qualche volta vorrei difenderlo, qualche volta vorrei criticarlo, ma come si vede in queste ore non c’è serenità d’animo per accogliere le mie parole per quelle che sono: il mio pensiero. Non ne parlo e non voglio che se ne parli sul giornale che dirigo. Quando mi è stato segnalato il riferimento dell’onorevole Boldrini nel suo post, ho deciso di chiamarla e di chiederle la cortesia di ometterlo. Era la prima volta che parlavo con lei in vita mia. Pensavo fosse una telefonata con una persona corretta e ragionevole. Ho sbagliato. Sbaglio molto spesso. Poi torno a quella telefonata, ma prima tocca precisare che, più in generale, su HuffPost non ingaggiamo duelli con altri giornali. Se ci capita, è per ragioni eccezionali, ben meditate e condivise da redazione e direzione. Da che alla direzione ci sono io, non è ancora successo. Di sicuro non deleghiamo la pratica a un blogger, cioè a un ospite: se nel blog di Laura Boldrini il bersaglio fosse stato Luciano Fontana o Maurizio Belpietro, avrei fatto una telefonata molto simile. Ma c’è un ulteriore particolare che forse Laura Boldrini ha dimenticato o trascurato, ed è la policy a cui tutti i nostri blogger sono sottoposti. Sulla policy c’è scritto che la redazione e la direzione si riservano di non pubblicare i blog senza dare spiegazione e senza nemmeno avvertire (un paio di settimane fa ho sospeso il blog di Carlo Rienzi del Codacons per una ragione che dettaglierei così: non mi piace). Non ci siamo inventati nulla. Vale sempre e vale ovunque: in trentadue anni che faccio questo mestiere ho visto quotidianamente e più volte al giorno direttori buttare via articoli per mille motivi, di opportunità, di linea politica, di convenienza, di gusto, talvolta le scelte sono illustrate, altre liquidate alzando un sopracciglio, ed è la normalità eterna della stampa. Se nella policy le regole sono esplicitate, è proprio perché chi non pratica i giornali magari non le conosce, e crede di usare una testata come il suo profilo Facebook. Dentro queste regole, i blog di Huff hanno prosperato e costituiscono una comunità ricca, plurale e libera. Ma non licenziosa. Dunque avrei potuto cestinare il blog e lasciare l’onorevole ai suoi fantasmi, nella piena legittimità di direttore. Ma mi sembrava sgarbato. Avrei potuto chiamare l’onorevole Boldrini e restare sul vago, ma mi sembrava disonesto. Invece sono uno stupido, e le ho detto le cose come stavano, nella fiducia di trovarmi a confronto con una persona con cui intrecciare un ragionamento. Lei ha rifiutato e, sul sottofondo delle sue proteste, pensavo che mi ero intrappolato con le mie mani, e all’impossibilità di uscirne: se avessi pubblicato, si sarebbe detto ecco anche il figlio scarica il padre eccetera; se non avessi pubblicato si sarebbe detto censura, e infatti l’hanno detto, senza conoscere il significato di censura; alcuni mi hanno persino spiegato che di mio pugno avrei dovuto aggiungere in coda al suo pezzo due righe di dissenso, ma temo sarebbe stata un’innovazione un po’ brusca e vagamente comica nella plurisecolare storia del giornalismo; in ogni caso lasciar correre sarebbe stato un tradimento verso gli altri blogger. Mentre riflettevo su queste cose, l’onorevole Boldrini mi ha avvertito che, se non avessi pubblicato il blog, avrebbe reso pubblica la nostra telefonata. Ricordo di essere stato zitto un secondo, di avere valutato la violenza della minaccia, poi ho preso la decisione che continuo a considerare la più dignitosa: allora non pubblico, ho risposto. Ed è finita lì. E’ cominciata lì. Sul sessismo e altre fantasie non mi voglio pronunciare: sono il napalm dei nostri tempi. Mi rimane qualcosa da dire su Carlo Verna, il presidente dell’Ordine dei giornalisti. Due giorni fa, dopo aver letto la denuncia dell’onorevole Boldrini, ha rilasciato una dichiarazione all’Ansa parlando di censura inspiegabile. Inspiegabile perché non ho potuto spiegarla: non mi ha nemmeno telefonato. Cioè, il presidente del mio Ordine, sulla base di uno scritto su Facebook a firma di un’ex presidente della Camera, condanna pubblicamente un suo iscritto senza curarsi di sentirne le ragioni. Che, ripeto, sono ovvie ed eterne, ma se ne può sempre riparlare. Però io aspetto una sua chiamata da due giorni e non arriva. Possiamo parlare anche della censura. La censura è la pratica di controllo del potere sulla stampa, per esempio di un’ex presidente della Camera che si arroga il diritto di prevalere su un direttore e decidere che cosa va pubblicato e che cosa no. Mi rendo conto che le parole ormai assumono i significati più arbitrari, in questo caso capovolti, ma vorrei chiedere a Verna come intenda ridefinire il ruolo del direttore, quali sono i confini del suo potere, della sua responsabilità, in che modo le sue scelte, fin qui considerate insindacabili, non diventino censura. E più precisamente se Verna immagini un giornalismo in cui il collaboratore, o pure il blogger, abbiano facoltà di imporre al direttore i loro articoli. Comunque, siccome Verna mi ha rivolto un’accusa così violenta, immagino che ora si aprirà un’istruttoria su di me. È un bel problema. Con che serenità posso accettare un giudizio se il presidente ha già pronunciato la condanna? Oppure, molto più probabilmente, non si aprirà nessuna istruttoria, e le parole di Verna resteranno lì, nel nulla che valgono. In ogni caso continuo ad aspettare una sua telefonata, di scuse naturalmente, che sarò lieto di accogliere.

Dagospia il 27 novembre 2020. Da radiocapital.it. “Laura Boldrini ha scritto cose sgradevoli su mio padre. In 20 anni di carriera non ho mai scritto di Vittorio Feltri e non ne parlo in pubblico, questa è la mia regola. Lei si è rifiutata di togliere quelle considerazioni su mio padre e contemporaneamente mi ha detto che se non avessi pubblicato quell’articolo avrebbe reso pubbliche le ragioni della mia scelta. Io l’ho vista come una minaccia” così Mattia Feltri, direttore dell’HuffPost a “The Breakfast Club” su Radio Capital “L’onorevole Boldrini è una parlamentare, può scrivere di quello che vuole, ovunque, per questo è scorretto parlare di censura. È nella mia facoltà di direttore decidere cosa pubblicare e cosa no, Laura Boldrini è ospite del mio giornale e non parlare su HuffPost di mio padre mi sembrava un atto di minimo buongusto”. “Fin qui possono essere normali dialettiche tra giornalismo e politica, ma la posizione del presidente dell'Ordine dei giornalisti Verna è invece stata di una gravità incalcolabile. Come presidente dell'Ordine dei giornalisti e non dei parlamentari ha urlato alla censura senza neanche fare un’istruttoria. Se c'è un direttore che pratica la censura allora bisogna trarne le conseguenze, e io sono pronto ad affrontarle. Se si pensa che io abbia censurato l’on. Boldrini allora vado a casa. Altrimenti, Verna fa affrontato per quello che è”.

Dagospia il 27 novembre 2020. Riceviamo e pubblichiamo da Massimiliano Parente: le strategie del vittimismo sono fantastiche: Laura Boldrini poteva rispondere a Vittorio Feltri su Libero. Invece sceglie il quotidiano del figlio, insultando il padre e minacciando il figlio che, se non lo pubblicherà, griderà alla censura. Già che c’era ha gridato pure al sessismo. Ah, il sessismo! Il bello è che nella Giornata internazionale contro la violenza sulle donne le femministe si sono messe a lapidare una donna che ha osato inscenare l’innocuo siparietto di una spesa sexy. Non siamo in un paese islamico, ma guarda caso femministe come la Murgia e la Boldrini sono simpatizzanti dei paesi islamici (oltre che delle associazioni cattoliche), tra i più maschilisti in assoluto, tant’è che entrambe, in varie occasioni, si sono messe pure il velo. Ma il femminismo sta diventando non solo un motivo per piantare una lagna ogni giorno, ma anche l’alibi di difesa della mediocrità. Io ne sono una testimonianza vivente: i circoli che contano in ambito culturale sono popolati da donne che devono la propria visibilità e i propri introiti unicamente alla causa femminista (la loro), con libri mediocrissimi (i loro). Non solo tutti i libri della Murgia o della Valerio o della Lipperini sono ridicoli rispetto a una sola mia pagina di una delle mie opere (ma io sono fuori da ogni circolo, per scelte, mi accontento di essere studiato nelle università), ma non reggono il confronto con le vere scrittrici italiane, da Barbara Alberti a Gaia De Beaumont a Isabella Santacroce, non per altro mai nominate nelle baracconate fasciste di queste femministe senza arte né parte, a parte la parte del femminismo della loro mediocrità che castra l’eccellenza delle stesse donne che, a differenza loro, hanno prodotto qualcosa di significativo nella vita oltre alle lagne, alcune hanno anche preso il Nobel mentre la Valerio e Murgia discutevano di patria e matria e cazzate varie. Insomma, io non sono maschilista né femminista, sono meritocratico: se dovessi scegliere tra 10 curriculum, può darsi prenderei 5 uomini e 5 donne, ma anche nessuna donna o anche tutte donne. La battaglia per il genere è solo un’altra battaglia di retroguardia della mediocrità. Non stupisce quindi che, mentre la Boldrini accusa Mattia Feltri per averla censurata (ma invece che lamentarsi qui da te poteva mandarti direttamente il suo pezzo, ma vuoi mettere fare la vittima), la Murgia sia riuscita a mobilitare centinaia di murgette per scrivere al mio editore di non pubblicare più le mie opere. A dare fastidio, a queste donne senza qualità, è sempre l’eccellenza, tanto quella maschile, quanto quella femminile. Baci, Massimiliano Parente

Vittorio Feltri per "Libero quotidiano" l'11 dicembre 2020. Da vari giorni ormai si pubblicano articoli di Daniele Luttazzi per dare addosso a mio figlio Mattia, reo di non aver messo sul suo giornale un commento sgangherato di Laura Boldrini, in cui accusava me di attribuire lo stupro commesso da Alberto Genovese alla sua vittima, una ragazza di 18 anni, sottoposta a un trattamento a base di cocaina che l' aveva resa rimbambita. In realtà io ho scritto soltanto che la fanciulla era semmai imputabile di ingenuità e imprudenza avendo accettato per la terza volta gli inviti del violentatore seriale e notorio. Quindi siamo di fronte a un clamoroso falso ideologico per giunta reiterato, meritevole di querela. Provvederò anche a questo. Per ora mi basta dire che il povero Luttazzi si è tuffato nel pozzo nero del Fatto Quotidiano trasformando in sterco le mie opinioni, solo perché a lui piace pascersi delle proprie deiezioni. Peraltro trascura di sottolineare che la signorina vessata dal drogato straricco è stata abbandonata dai suoi legali e medici consulenti poiché avrebbe intessuto con amici e soci del proprio persecutore una trattativa affinché questi le dia un cospicuo risarcimento danni, si parla di cinque milioni di euro. Se il negoziato dovesse andare a buon fine dovrei ritirare la mia accusa di ingenuità alla povera donzella torturata, in quanto non ho mai visto che una donna abbia ricevuto, in cambio di un abuso sessuale, la astronomica cifra di cinque milioni di euro. Che le auguro ovviamente di incassare, raccomandandole di non spendere tanto denaro in droga, bensì in opere di bene. Senza considerare comunque che una somma simile a 18 anni non l' ha mai ricevuta nessuno. La bella addormentata nel bosco si accontentò del bacio di un principe. Tuttavia è giusto così, dal momento che Genovese, non essendo aristocratico, ma un maiale, è normale che saldi il suo debito a suon di milionate. Non è questo che stupisce, piuttosto è la circostanza che un volgare stupro, da condannare con severità in tribunale, diventi una fonte di reddito pazzesco. Non ci meraviglierebbe che altre postadolescenti si facessero vive e bussassero a casa per ottenere dal re del web un mazzo di contanti onde chiudere eventuali contenziosi apertisi in camera da letto sulla spinta di sostanze stupefacenti distribuite e assunte senza remore. Se succederà ci consolerà constatare che le povere martiri sacrificate nell' attico avranno una esistenza agiata.

Vittorio Feltri per ''Libero Quotidiano'' il 28 novembre 2020. Dovrei rimproverare mio figlio Mattia, direttore di HuffPost, per non aver pubblicato lo sproloquio di Laura Boldrini perché conteneva una aspra critica nei miei confronti? Infatti, quel che dice di me la ex presidente della Camera non ha alcuna importanza, trattandosi non solo di fregnacce miserabili ma soprattutto di falsità. La signora mi accolla frasi e concetti che non mi sono mai sognato di esprimere. Non ho mai sostenuto su Libero che la responsabilità dello stupro commesso da Genovese sia da attribuire a chi lo ha subito. Al contrario ho affermato che la ragazza è stata ingenua (che non è una parola offensiva) quando per la terza volta ha accettato l'invito in casa del riccone, noto drogato, per giunta recandosi in camera da letto con l'anfitrione balordo. Se una delle mie figlie avesse voluto affrontare una simile esperienza, avrei fatto di tutto per trattenerla. Dove è ravvisabile il sessismo, dove è la mancanza di rispetto per la povera fanciulla? Evidentemente Boldrini, che siamo convinti non soffra di analfabetismo funzionale, non ha letto l'articolo che contesta, altrimenti non lo avrebbe confutato. Se fosse una persona seria dovrebbe scusarsi con mio figlio e con me per aver preso lucciole per lanterne. Mattia non ha messo in circolo l'intervento della donna politica non soltanto per gentilezza filiale nei miei riguardi, bensì - suppongo - pure per un altro motivo: madame ha vergato una idiozia. Io comunque non mi offendo se qualcuno a sproposito mi attacca, anzi ne sono felice poiché ciò dimostra che ho ragione. Ecco perché Libero offre alla signora la possibilità di manifestare le sue stupidaggini sulle proprie pagine. Per lo stesso motivo riporto in sintesi una frase di Luigi Manconi sul medesimo tema. Costui, il quale ritenevo essere cieco e scopro che è anche analfabeta, critica il mio italiano in quanto, riferendomi alla giovane vittima dello stupro, ho adoperato il termine «donzella». Gli segnalo che pure Leopardi non conosceva la lingua quando scrisse: «La donzelletta vien dalla campagna in sul calar del sole...». Il poeta, di sicuro, non supponeva di rischiare le reprimende insensate o, meglio, ridicole del letterato Manconi. Infine, rivolgo un pensiero al peggior presidente dell'Ordine nazionale dei giornalisti, Carlo Verna, modestissimo cronista sportivo, il quale ha trovato modo di sbarcare il lunario nella corporazione. Egli ha provveduto a condannare mio figlio Mattia (perché non ha diffuso in rete le corbellerie di Boldrini), ignorando che il direttore di una qualsivoglia pubblicazione ha il diritto di divulgare quanto gli garba. Impara, presidentino dei miei stivali.

Dagospia il 6 dicembre 2020. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, Leggiamo l'ennesimo articolo in cui Vittorio Feltri, su Libero, non si limita a offendere la direttrice di Io Donna Danda Santini e la giornalista Antonella Baccaro che "con prosa incerta" ha avuto l'ardire di criticarlo, ma si vanta apertamente del suo anticonformismo. Perché lui con il giornalismo - che definisce mestiere del cavolo - si è arricchito, "mentre la maggioranza dei giornalisti ha le pezze al culo. Da ciò deriva un sentimento che si chiama invidia". A tal proposito vorremmo far notare che invidioso dovrebbe essere Feltri, di Danda Santini, perché Io Donna grazie alla sua qualità ha la fortuna di sostenersi con i propri inserzionisti, mentre il quotidiano Libero è l’organo del partito monarchico italiano (tramite la testata Opinioni Nuove) e da anni beneficia di fondi pubblici destinati all'editoria. Anche per il 2020, con poca pubblicità e poche copie distribuite, riceverà di più di 5 milioni di euro. Ora, visto che questo non è che l'ennesimo articolo che offende le donne e - ricordiamo solo i più noti  "Patata Bollente: la vita agrodolce di Virginia Raggi" "Vieni avanti Gretina, la rompiballe va dal Papa" "Ingenua la ragazza stuprata da Genovese" - noi crediamo non sia più possibile accettare questo giornalismo misogino, fatto con i soldi dei contribuenti. Per questo motivo abbiamo promosso una petizione per modificare il Decreto Legislativo n. 70 del 15 maggio 2017 che disciplina i requisiti di accesso per il contributo pubblico all’editoria, stabilendo che i giornali e gli altri mezzi di comunicazione che usano quotidianamente e senza ritegno un linguaggio misogino, sessista, discriminatorio e di incitamento all’odio non possano accedere ai fondi pubblici per l’editoria. Ad oggi, infatti, esiste una regolamentazione solo per le pubblicità sessiste. I giornali che le accettano non possono essere finanziati. Perché, quindi, gli articoli sì? Un cordiale saluto Cristina Sivieri Tagliabue

Giampiero Mughini per Dagospia il 28 novembre 2020. Caro Dago, non ho nessun titolo per scriverti queste righe se non quello di essere uno che compra e legge i giornali e che legge sul web alcuni siti giornalistici o comunque legati all’attualità. Che legge, cioè sceglie. Ebbene mai e poi mai mi è capitato di leggere un testo di Laura Boldrini, l’ex presidente della Camera. Mai e poi mai. E dire che scrivere un articolo su Vittorio Feltri e in occasione di una delle tantissime sue sortite è un’occasione succulenta. Vittorio è un figlio dei nostri tempi, un direttore di giornali che ne ha fatte di cotte e di crude, a cominciare dall’ “Indipendente” che lui prese che vendeva a stento 18mila copie e si avviava a crepare e lo portò a 120mila copie, avvalendosi nell’impresa del sottoscritto e pagandomi come da mie esose richieste. Poco dopo Vittorio divenne a sua volta il giornalista più pagato d’Italia perché aveva accettato di prendere il posto di Indro Montanelli che non ne voleva sapere di venire a patti con il suo editore, il Silvio Berlusconi che aveva permesso al “Giornale” di sopravvivere in un’Italia in cui il pubblico di “lettori di destra” era striminzito. Più tardi ancora Vittorio fece di “Libero” uno dei quotidiani più vivi e pugnaci d’Italia, sempre alla maniera sua: menando botte da orbi quando pensava che ne fosse il caso, urlando titoli quanto di più politicamente scorretti, lisciando il pelo al pubblico più rabbioso della destra italiana, un pubblico che esiste e che va all’edicola. Anche in quella occasione fu così gentile da telefonarmi, io che non avevo più un giornale di carta su cui scrivere e di cui campare. Per uno o due anni mi pagò lautamente e mai obiettò a dove avessi messo un punto e virgola. Vittorio è così, coriaceo, leale, orgoglioso di sé stesso, strafottentissimo del politicamente corretto cui anzi si abbevera per prenderlo a schiaffoni. Lo fa giorno per giorno, lo ha fatto in occasione della vicenda drammaticissima della ragazza diciottenne che in casa di un delinquente milanese è stata trattata e abusata al punto da rischiare la morte. C’è da dire qualcosa sul fatto che una donna se non ci sta non deve essere sfiorata con un dito mignolo per nessuna ragione al mondo? Ma certo che non c’è nulla da aggiungere. Solo che Vittorio è un giornalista, deve scegliere una sua verità che valga per tutte le successive 24 ore, deve provocare stuzzicare dirne una che gli altri non hanno detto. Scrivere di lui e della sua maniera di giornalista è un’impresa succulenta. Completamente al di fuori della banal grande Laura Boldrini. Mai e poi mai e poi mai leggerei un suo articolo su un tale e sfaccettatissimo personaggio.

Giampiero Mughini per Dagospia il 16 dicembre 2020. Caro Dago, sono giorni e giorni che leggo i titoli e talvolta anche i pezzi che hanno a oggetto l’imprenditore Alberto Genovese e quella sua terrazza milanese zeppa di “bella gente”, ossia di gran pezzi di merda degni di lui. Ti confesso che trovo strabiliante che nessuno finora abbia scritto quel che si doveva scrivere su questo farabutto di successo e sulla sua maniera di vivere. L’unico che ha sfiorato l’argomento, e lo ha fatto ovviamente a modo suo, è stato Vittorio Feltri, non che la Boldrini potesse intenderlo. Eppure era semplice semplice, seppure Vittorio lo avesse scritto a uso e consumo del pubblico di “Libero” e non perché lo apprezzassero Alberto Savinio, Mario Praz o il sottoscritto. Era una domanda semplice semplice. Che ci andavano a fare le ragazze che si fiondavano a più non posso sulla squallida terrazza milanese? Ovvio, ovvio, ovvio, non devo impararlo certo dalla Boldrini che se una donna non vuole non ha da essere sfiorata da un uomo neppure con un dito mignolo. Non è questo in discussione, nemmeno un istante lo è. Ciascuna ragazza va e fa quello che vuole dove vuole e quando vuole, e non c’è da aggiungere nemmeno un punto e virgola. Altra cosa è la fenomenologia di un comportamento diffuso, altra cosa è la morfologia di un ambiente, altra cosa è ciò che accomuna chi decide di stare assieme una sera su una terrazza milanese. Quello sì che è interessante, eccome se lo è. In questo caso il comportamento dei tantissimi ebbri di quel che succedeva o avrebbe potuto succedere nella fatidica terrazza. Che tipi erano quelli che ci andavano di gran corsa e tutte le volte che potevano, e anche se nessuno lo ha raccontato al dettaglio? Dipendesse da me, li sottoporrei uno a uno a un interrogatorio di terzo grado. Perché non erano rimasti a casa loro ad ascoltare un disco di Louis Armstrong o dei Pink Floyd, a leggere un libro di Len Deighton o di Beppe Fenoglio, a guardare la magnifica serie Netflix dedicata al processo di Tokio dov’erano imputati 28 fra alti ufficiali e politici di primo piano giapponesi per avere scatenato la guerra agli Usa? Me li immagino che tipi erano i nostri eroi. Gente che si vuole mettere in mostra pur non avendo nulla da mettere in mostra, gente che spera di imbattersi in un qualche vip o in qualcuno che gli farà avere dei pezzettini di carriera, sequenze di sgualdrinelle che sperano ascendere in tv a forza di cosce e culi in evidenza, gente che non sa niente della musica ma a cui piace la musica se ad altissimo volume, gente che si delizia dall’attingere a piene mani da vassoi colmi di cocaina o di cocaina rosa (confesso di non sapere la differenza), gente che se restasse da sola in casa e si guardasse allo specchio si vergognerebbe di quel che vede. Gentuccia così. Pezzi di merda che rompevano i coglioni al vicinato senza che gli uomini d’ordine della Repubblica potessero fare alcunché per impedirlo perché a questo è ridotta la nostra Repubblica - e il covid non c’entra niente - all’essere ebbra non del moderno e bensì delle schifezze del moderno. Questa era la genia dei frequentatori della terrazza/Genovese. Vale la pena dirlo, raccontarlo, raccontarli a puntino, schedarli uno a uno anziché limitarsi ad ascoltare le testimonianze delle vittime di Genovese, tutte ragazze più o meno ventenni che fino a ieri non avevano aperto bocca perché ci contavano sul fatto di esserci in quella terrazza. Era una gran “bella gente”, ha testimoniato una di loro. Dio mio, Dio mio, Dio mio.

Marco Benedetto per blitzquotidiano.it 21 dicembre 2020. Vittorio Feltri come Erodoto di Alicarnasso. Per entrambi, le donne se la cercano. Erodoto è stato meno brutale e più accorto di Feltri, attribuendo il pesante e bieco giudizio ai “saggi persiani”. Erodoto è considerato il padre della storia. In realtà è il primo di cui ci siano rimasti gli scritti. Le Storie di Erodoto hanno inizio con la guerra di Troia e colloca in una serie di rapimenti mitici, Io, Europa, Elena, le cause dei difficili rapporti fra europei e asiatici. Ecco le sue parole: “Se rapire donne deve considerarsi atto di uomini ingiusti, darsi la pena di vendicare simili rapimenti – dicono – è cosa da sciocchi; i saggi non se ne danno alcuna cura; è infatti chiaro che, se esse non lo avessero voluto, non sarebbero state rapite”. (Erodoto, Le Storie, I, 4, tradotto da Virginio Antelami, Fondazione Lorenzo Valla/Mondadori). Sono parole scritte più di 2.500 anni fa. A quei tempi le donne stavano chiuse nel gineceo ed erano considerate poco più di mucche, capre o, in Medio Oriente, cammelli. Oppure, quando davano il meglio di sé, figure crudeli e tragiche, dalla mitica Medea in qua. Leggendo le parole di Erodoto mi è venuta in mente la recente polemica fra Laura Boldrini e Mattia Feltri, figlio di Vittorio e, da qualche mese, direttore dell’edizione italiana del sito Huffington Post. Non mi trovo in sintonia né umana né di idee né con Boldrini né con Vittorio Feltri. Ho letto qualche articolo del figlio di quest’ultimo con interesse, spesso concordando.

Tutto ha inizio da un articolo di Vittorio Feltri. La polemica è stata originata da un articolo di Vittorio Feltri, secondo il quale se una donna subisce violenza la colpa è della donna stessa. La tesi ha trovato sponda fin nella corte di Cassazione, molti la pensano così oggi E la pensavano cosi migliaia di anni fa. Laura Boldrini, che scrive sul sito Huffington Post penso dai tempi di Lucia Annunziata, mandò al direttore un articolo in cui criticava Vittorio Feltri. Mattia, buon figlio, pensò bene di non pubblicarlo e correttamente ne informò in anticipo l’autrice. Che, in questo bravissima, denunciò l’oltraggio. Considero Vittorio Feltri un buon giornalista, non della grandezza di un Montanelli e, meno che mai, di uno Scalfari. Infatti la diffusione dei suoi giornali si è sempre collocata a una frazione di quella di Repubblica. A suo onore va detto che ha il coraggio di sfidare i luoghi comuni del politicamente corretto. Ma lo fa scivolando spesso nella volgarità, cosa che limita molto l’efficacia del suo giornalismo. L’ho incrociato di persona solo una volta e non c’è stato feeling.

Un video con risposta di Vittorio Feltri che spiazza tutti. L’ho visto in video seguendo questa polemica, intervistato da Peter Gomez del Fatto Quotidiano. Mi si è un po’ stretto il cuore nel constatare l’effetto sul fisico del tempo e degli anni. Ma la precisione delle idee e la coerenza del giornalista erano sempre ferree. Onore a Peter Gomez, che conosco e apprezzo da anni come eccellente giornalista e uomo di equilibrio, per la provocatoria intervista. Il Fatto, anche se ha ospitato un sequel di articoli anti Mattia Feltri di Daniele Luttazzi, non si è risparmiato in passato contro la Boldrini. Silvia Truzzi, firma di punta, fu autrice di un intervento purtroppo poco seguito dai colleghi dei quotidiani, sulla patetica voga imposta proprio dalla Boldrini di volgere al femminile il nome di attività nel passato tipicamente maschili.

“Femminismo d’accatto”, nella definizione di Silvia Truzzi. Silvia Truzzi definì papale papale il femminismo di personaggi cone Boldrini e Fedeli ” femminismo da accatto, quando non è un’arma per celare la propria inettitudine”. Tipico esempio di questa nouvelle vague linguistica: la donna ministro è ministra, la donna sindaco è sindaca. Non siamo arrivati ancora e forse non ci arriveremo mai a chiamare il soprano la soprana o il giornalista uomo, per differenza, giornalisto. Memorabile è la piccata risposta di Valeria Fedeli, ministro della Istruzione col curriculum un po’ rabberciato, a un giornalista che le si rivolse chiamandola ministro. “Mi chiami ministra” lo aggredì. Quando, un paio d’anni dopo, Lucia Azzolina ne prese il posto, esordì dicendo: “Io sono il ministro dell’Istruzione”. La frase della Azzolina è stata un segnale di rinnovamento. E infatti, io che detesto i grillini come ideologia devastatrice e degna dell’Uomo Qualunque  (e di farne anche la fine), devo riconoscere le qualità di Azzolina, che tutti attaccano perché donna e nemmeno sindacalista.

Laura Boldrini, una sua idea della sinistra. Laura Boldrini è per me un bell’esemplare di quello che fa male alla sinistra. E che per me di sinistra, quella vera, non quella del birignao, ha ben poco. Non porò mai perdonarle la violenza che esercitò contro la libertà di stampa appena eletta presidente della Camera. Il che avvenne non per sue particolari qualità, e nemmeno per effetto di una dura gavetta politica, ma per accordi fra partiti e correnti. Fece sequestrare le pagine dei siti che avevano riportato un fotomontaggio che la faceva passare per nudista. L’effetto era assai lusinghiero ma il senso di umorismo scarseggiò. Ci fu un pm che ignorò la Costituzione ordinando una raffica di sequestri in conseguenza di una diffamazione che la Costituzione esclude esplicitamente dalle cause di sequestro preventivo. Ci furono degli imbarazzatissimi poliziotti che non sapevano dove guardare eseguendo l’ordine, peraltro virtuale. Seguirono, nelle cronache di quei mesi, resoconti sul suo difficile rapporto con le forze di polizia addette alla sua tutela. Il culmine fu toccato nell’agosto del 2013 quando riaprì la Camera e costrinse i Deputati a tornare dalle ferie per approvare una legge sul femminicidio i cui effetti si faticano a vedere. Una legge diciamo pleonastica, se si considera che il codice penale provvede debitamente a quello che quand’ero cronista era noto come uxoricidio. E che da decenni è stata abolita l’attenuante del delitto d’onore.

Tanto cinema sul femminicidio, ma pochi effetti per le donne. Non risulta che la legge sul femminicidio, tanto voluta da Laura Boldrini abbia contenuto la scelleratezza maschile. Né risulta una successiva attività a tutela delle donne vittime non solo e non tanto della violenza estrema dei maschi. Quanto di quelle forme di violenza diciamo intermedie, prime le botte, che possono trasformare la vita in famiglia in un inferno per una donna.  Non credo che nemmeno in questo caso si possa applicare il principio del “se la sono cercata”. Le scelte d’amore, di convenienza, di indomabili appetiti, di famiglia sono frutto di complesse e contrastanti spinte individuali. Vale semmai la prima parte dell’assunto di Erodoto. Adattato: chi esercita violenza su una persona più debole, e in generale su un altro essere umano, è indegno e merita il sommo disprezzo. Si tenga presente che la violenza sulle donne non è circoscritta a un preciso ambito sociale. Anzi. Ricordo una esperienza diretta, di quando, giovane redattore dell’ufficio Ansa di Londra, mi documentai sul campo per un articolo per la rivista Grazia. Mi aveva spinto la notizia del Daily Mirror su un rifugio per le “battered wives”, le mogli pestate.

Aiutare le donne a liberarsi dai mariti violenti. Mi recai in quella palazzina di mezzo centro pullulante di bambini, dove si aggiravano donne malconce. Era il 1973. In quei tempi là definizioni erano forse più elementari di oggi. Per me valeva l’equazione povertà = violenza in famiglia. Fui smentito. I ricchi in famiglia danno sfogo alla propria innata violenza con maggiori forza e crudeltà delle classi povere. Tutto questo è premessa a una considerazione. Che piuttosto che al cinema della approvazione con fanfara di una legge sostanzialmente inutile, sarebbe stato preferibile orientare l’impegno del Parlamento verso la tutela delle donne non da morte ma da vive, non solo quelle vittime di violenza maschile ma tutte. Esempi. Dalla destinazione di maggiori risorse alla protezione preventiva delle donne, in modo non da vendicarle defunte, ma proteggerle prima dell’irreparabile. Alla definizione di una rete di asili nido e varianti, con annessi e connessi, per consentire alle madri di lavorare.

Vittorio Feltri e il figlio Mattia. Essendo il lavoro l’unica fonte di dignità per un essere umano. E per una donna senza risorse di famiglia l’unico modo per sottrarsi alla soggezione al maschio. Credo che in Italia ci sia un pulviscolo di istituzioni locali che si dedicano alle donne in questa particolare situazione. Ma, a giudicare da rivendicazioni e proteste ancora recentissime, il cuore del dramma nemmeno è sfiorato. Passiamo alla famiglia Feltri. Mattia Feltri è un bravo giornalista di scrittura. Non posso giudicarlo come direttore. La storia dell’articolo della Boldrini non depone sulla capacità di scelte difficili. Certo è un bravo figlio, non avendo avuto il coraggio di pubblicare un pezzo ostile al padre. Anche se non gli ha reso un buon servizio. Pochi avrebbero letto il blog della Boldrini sul sito Huffington Post. Tutti, su siti e giornali, hanno conosciuto la vicenda del figlio leale ma direttore timoroso.

Agnelli, Gheddafi e Arrigo Levi. Ricordo sempre un episodio che risale all’autunno del 1976. All’epoca lavoravo all’ufficio stampa della Fiat. Gheddafi era da poche ore diventato azionista della Fiat mettendo nelle esangui casse torinesi 450 miliardi di lire. La Fiat era in crisi in conseguenza, fra altre cause, della crisi petrolifera che aveva fatto crollare il mercato. E del blocco dei prezzi delle auto, mentre l’inflazione annuale aveva superato il 20%. Il blocco fu la punizione inflitta dalla Dc guidata da Amintore Fanfani alla Fiat e agli Agnelli, nella convinzione che il capo famiglia, Giovanni, fosse socio occulto del cognato Carlo Caracciolo, editore dell’Espresso. Ogni numero dell’Espresso, in quegli anni di giornali di poche pagine e ancor meno notizie, faceva tremare gli occupanti delle stanze del potere, di tutti i poteri, in Italia. Direttore della Stampa era Arrigo Levi. Appena fu diffusa la notizia del nuovo azionista libico, Levi scrisse un articolo che definiva Gheddafi come terrorista internazionale. E lo mandò ad Agnelli chiedendo il via libera alla pubblicazione. In quei tempi, Gheddafi non era ancora diventato il simpaticone amico di Berlusconi. Erano tempi di rivoluzione globale e di terrorismo come punta avanzata e nel suo piccolo Gheddafi si dava da fare per contribuire. Ad esempio, riforniva di armi i guerriglieri irlandesi dell’Ira. Ancora nel 1988 i libici fecero saltare un aereo americano nel cielo della Scozia, provocando 259 morti. E ancora oggi gli americani cercano di fare estradare dalla Libia la mente dell’attentato.

“Questo articolo si deve pubblicare”. Ricevuto l’articolo, l’avv. Agnelli riunì un po’ di dirigenti nel suo ufficio all’ottavo piano di Corso Marconi 8 a Torino. Tutti erano per cestinarlo. Agnelli lasciò parlare tutti, poi chiese: “Se non avessimo la Fiat ma fossimo solo l’editore della Stampa lo pubblicheremmo?”. Ci fu un coro di “certamente”. “Allora lo pubblichiamo”. Alzò il telefono e comunicò a Levi la decisione. Fu una grande lezione da grande editore. Degna dell’Espresso di Caracciolo. All’altezza, fossimo stati inglesi, del libro di Hugh Cudlipp, “Publish and be Damned”, pubblicato nel 1953, documento fondamentale del giornalismo. Ne ho una copia che mi regalò Carlo Caracciolo. Ne conservava una scorta. Il titolo deriva da una frase del duca di Wellington. Ricattato da una sua ex amante il vincitore di Napoleone rispose appunto “Publish and be damned”, pubblica e sarai dannata.

Vittorio Feltri, cosa doveva fare un figlio giornalista. La Boldrini non è Arrigo Levi e Vittorio Feltri non è Gheddafi. Però la morale, su scala diversa, è la stessa. Mattia Feltri non avrebbe dovuto telefonare all’ex presidente della Camera per annunciarle che non avrebbe pubblicato l’articolo. Avrebbe dovuto telefonare al padre: “Sorry papi, ma devo pubblicarlo”. Cosa che ha fatto invece proprio Feltri vecchio, sul suo giornale, Libero, con una zampata da giornalista di una volta. Umiliando un po’ il figlio, con le parole sprezzanti buttate lì come sciabolate nell’intervista a Peter Gomez. Di una sciabola un po’ arrugginita se guardate il video. Aveva ragione la contessa di Castiglione, che compiuti 30 anni coprì tutti gli specchi del suo castello e non si mostrò più in pubblico. E Feltri credo che ormai abbia abbondantemente superato il doppio di quell’età.

Dagospia il 21 dicembre 2020. Riceviamo e pubblichiamo da Vittorio Feltri: Marco Benedetto va elogiato perché ha letto Erodoto, ma rimproverato perché mi attribuisce una cosa che non ho mai scritto, e cioè che le donne violentate vanno a cercarsi guai. Ho semplicemente scritto che la ragazza stuprata da Genovese è stata ingenua e imprudente. Non si va in casa di un drogato e in quel luogo non ci si droga per poi trovarsi in camera da letto del lupo medesimo. Meglio evitare. Questo il mio concetto. E lo ribadisco. Mio figlio fa quello che si sente di fare e io pure. Se qualcuno mi vuole criticare faccia pure, ma non mi attribuisca ciò che non ho scritto né detto. Chi lo fa è un cialtrone come Marco Benedetto che mi vuole morto ma spero che crepi lui prima di me. Così, per divertimento.

Dagonews il 2 dicembre 2020. La violenza contro le donne è un tema che naturalmente merita tutta l'attenzione che gli viene data. Leggi, dibattiti, convegni, perfino programmi Rai sospesi per uno sculettamento di troppo. C'è' però una categoria di ragazze che pare non essere meritevole di protezione e tutela, né' di pubbliche attenzioni o prese di posizione contro insulti sessisti e minacce di morte. Parliamo delle ragazze che vanno a caccia. Pare essersene accorto solo Sergio Berlato, europarlamentare di Fratelli d'Italia, presidente di Confavi e cacciatore di lungo corso. Berlato ha pubblicato sui social della sua associazione le foto di ragazze durante la caccia, aprendo così un tripudio di commenti che non avrebbe immaginato. Le fanciulle sono state sommerse di minacce di morte e insulti sessisti. "Fin da piccola ti piace l'uccello" oppure "spero di vederti ricoperta del tuo stesso sangue" ancora "ti scoppiasse il fucile in faccia" "qualche vecchio babbione la scambierà' per una scrofa e la farà secca". E la Boldrini, muta. Nessun paladino dei diritti delle donne ha alzato un dito per difendere queste ragazze dalle minacce di morte. Perché se la fanciulla minacciata e offesa pratica, come Diana, l'antica arte della caccia, allora le minacce di morte non sono poi un problema così grande. Anzi, quasi se le merita. Tanto per restare fedeli ai vari totem vegan-eco-bio-chilometrozero-vattelapesca. Su queste ragazze, Berlato vuole condurre una battaglia di civiltà (per la serie: le offese sono sessiste sempre oppure mai) e ha chiamato in soccorso Giuseppe Cruciani, uno che s’è pappato una nutria in diretta a “la Zanzara” facendo incavolare gli animalisti che lo minacciavano davanti alla radio. Lui li affrontò brandendo una salamella stile Excalibur. Non avete sentito altre voci ergersi a tutela di queste fanciulle? Noi neppure. Tutti zitti. Il tema è divisivo, l'animale piace. Ormai la carne, per definizione, è cibo eticamente “sporco”, che nasce dalla violenza. E quindi va rigettato. Morale della fava: il montone, la fagianella, il manzo hanno il diritto di vivere, magari con un reddito di cittadinanza ponderato al garrese. Le ragazze che vanno a caccia possono anche schioppare, impallinate dalle contumelie e dalle shitstorm. La diretta facebook sarà l'11 dicembre alle 21.30, il padrone di casa, Sergio Berlato, raccoglierà le testimonianze delle ragazze. Arriverà qualche voce a loro difesa, o Berlato e Cruciani saranno lasciati soli? Ah, saperlo…

Da leggo.it il 7 dicembre 2020. Una battuta in stile Luciana Littizzetto, pronunciata dal tavolo di "Che tempo che fa", scatena il web. E scoppia la polemica. La comica mostra una foto hot di Wanda Nara, la showgirl moglie del calciatore Mauro Icardi è in posa nuda sopra ad un cavallo: «Chissà dove è finito il pomello della sella - scherza la Littizzetto - lei si arpiona così. Ha la Jolanda prensile». Ironia che non è piaciuta al popolo social, non a tutti almeno. A partire dalla giornalista Selvaggia Lucarelli che condivide un post per esprimere  il suo disappunto contro certe battute sessiste. E c'è chi le da ragione. «Battute a sfondo sessuale pronunciate da una donna fanno ancora meno ridere ma danno solo disgusto», tuona una telespettatrice. «La Littizzetto è di una volgarità assurda... Se certe battute le facesse un uomo lo avrebbero già radiato..», attacca qualcun altro. «Comicità fuori luogo, troppo volgare per finire in tv sulla Rai». Ma c'è anche chi la difende: «Si chiama satira». «Non vorremo scomodare il sessismo e la questione femminile per questa battuta della Littizzetto, vero?». «La comicità della Littizzetto è al quanto discutibile. Però è anche vero che la foto in oggetto non porta certo a fare battute sulla fisica nucleare». E ancora: «La battuta non è un granché e non fa ridere - scrive un altro utente - ma trovo più inutile e “dannosa “la foto della Nara». Il dibattito è aperto. A me danno più noia le donne che continuano a posare nude anche per pubblicizzare una forcina da capelli, non la Littizzetto che ne fa ironia.

Arianna Ascione per corriere.it il 10 dicembre 2020. «Perché le prevaricazioni e le violenze non è che vengano solo dai maschi. Al contrario. Perché la violenza e la volgarità non hanno sesso. Sono e restano violenza e volgarità. Per inciso»: Wanda Nara ha fatto sue le parole pubblicate da Antonella Pavasili su Facebook per commentare - nelle sue Storie di Instagram - la battuta fatta su di lei da Luciana Littizzetto a Che Tempo Che Fa, nella puntata di domenica 6 dicembre.

La battuta incriminata. Volendo scherzare su un’immagine della moglie e agente del calciatore Mauro Icardi, ritratta nuda a cavallo, la comica aveva detto: «Quando si dice cavalcare a pelo, tra i due quello più vestito è il cavallo. Mi chiedo come è stata issata su: l’hanno messa su a peso, e poi lei si sta tenendo con la sola forza delle unghie e credo della Jolanda prensile. Spiegami dove è finito il pomello della sella, secondo me si arpiona in questo modo». Le frasi - ritenute da molti di cattivo gusto e offensive - hanno subito sollevato un polverone in rete. A distanza di qualche giorno è arrivata la reazione della diretta interessata che ha annunciato azioni legali: «Nel 2020 troviamo ancora donne del genere. Ovviamente dovrà risponderne giudizialmente».

Giovanni Sallusti, autore del libro ''Politicamente Corretto - la dittatura democratica'' - Giubilei Regnani editore, per Dagospia il 6 dicembre 2020. Caro Dago, forse memore del risultato involontariamente comico dell’anno scorso, quando nominò “persona dell’anno” una sedicenne che bigiava la scuola per girare il mondo sullo yacht di Pierre Casiraghi in dura lotta contro il riscaldamento globale (Greta, la Madonnina dell’ambientalismo politicamente correttissimo), quest’anno la rivista “Time” ha escogitato una categoria ad hoc, quella di “kid of the year”. Una variante giovanilistico-modaiola del riconoscimento “adulto” (che verrà reso noto settimana prossima) la cui prima edizione è andata a Gitanjali Rao. Quindici anni, americana di origini indiane, residente a Denver, la “baby scienziata” ha inventato una serie di nuove applicazioni tecnologiche, come un dispositivo per individuare il tasso di inquinamento nell'acqua potabile e una app per verificare atti di cyberbullismo (formulazione piuttosto oscura, ma ci fidiamo). In ogni caso, la ragazza ha evidentemente doti e talenti fuori dal comune, tanto che alla sua età dice che il suo sogno è studiare Genetica ed Epidemiologia al Mit, ed è quindi un testimonial (o una preda?) molto ambita dal circo intellettual-hollywoodiano politically correct. Ecco allora apparecchiata una videointervista a tempo di record con Angelina Jolie, star planetaria a disposizione di qualunque causa “umanitaria”, meglio se tendente ad insinuare che il Paese che le ha dato fama, ricchezza, successo, ovvero gli Stati Uniti d’America, è responsabile di tutti i guasti del globo. E il canovaccio non delude: Gitanjali nella chiacchierata con Angelina si dichiara pronta a fare da esempio ai giovani per “risolvere i problemi del mondo” (espressione per nulla a rischio genericità, spaziando dalla pandemia al sottosviluppo, dal terrorismo alla depressione economica). Ma soprattutto, sforna il virgolettato di cui l’intervistatrice andava in cerca fin dall’inizio: “Io non sono il tipico scienziato: di solito quello che vedo in televisione è un maschio bianco e di una certa età. Evidentemente io sono diversa”. Eccola lì, la “diversità” sessuale, cromatica (e in questo caso anche anagrafica) rivendicata come valore in sé. Gitanjali è una femmina di colore, anzi NON è un maschio bianco (è questa l’antropologia negativa che conta, ai tempi del Politicamente Corretto) e questo dovrebbe interessarci di per sé, indipendentemente dal merito. Anche, paradosso dei paradossi buonisti, in un caso come il suo, in cui il merito della persona (antiquata categoria cristiana ormai inutilizzabile, senza riferimenti al genere e alla pigmentazione) è palesemente la materia saliente. Non si accontenta di essere una ragazza-prodigio dal punto di vista scientifico, Gitanjali, fa già il verso alla neovicepresidente (ci rifiutiamo di usare il boldriniano “presidenta”) Kamala Harris, come lei raccontata più per quello che è che per quello che ha fatto: “Il mio obiettivo non è solo inventare qualcosa per risolvere problemi, ma anche essere da esempio per gli altri. Se io lo posso fare, tu lo puoi fare!”. Basta, ovviamente, che tu non sia uno sporco maschio bianco. Se poi in là con gli anni, peggio che peggio.

Mario Consani per ilgiorno.it il 19 dicembre 2020. Nuove accuse per mister Startup. Si moltiplicano le denunce per cessione di droga e violenza sessuale a carico dell’imprenditore del web Alberto Genovese, finito in carcere il 6 novembre con l’accusa di aver stordito con un mix di cocaina rosa e ketamina e stuprato una 18enne ospite nel suo appartamento in centro città, dove era in corso un festino. E così il cosiddetto “mago“ delle startup digitali si ritrova ora indagato, proprio a seguito delle querele di altre ragazze, almeno per altri 3 episodi (di cui uno già emerso), oltre ai presunti abusi del 10 ottobre per i quali è rinchiuso a San Vittore da quasi un mese e mezzo. Due nuove denunce sono state presentate mercoledì scorso da altrettante giovani, che hanno partecipato alle sue feste a base di cocaina e che sono assistite dall’avvocato Ivano Chiesa, legale storico di Fabrizio Corona. Denunce che hanno portato, come automatismo per le verifiche, all’iscrizione nel registro degli indagati di Genovese anche per quei presunti abusi che, secondo il racconto delle giovani, sarebbero avvenuti tra Milano, Ibiza e Mykonos e sempre dopo il consumo di droghe offerte dall’imprenditore. «Sono quasi certa che facendomela passare per cocaina, qualcuno, penso Alberto, mi ha fatto assumere qualche altra sostanza che mi ha stordita. Di quelle ore in cui ero come stordita, ho solo dei flash back", aveva messo a verbale la 18enne sentita più volte, nell’inchiesta dell’aggiunto Letizia Mannella e del pm Rosaria Stagnaro, su quelle 20 ore di violenze nell’ormai nota “Terrazza sentimento“. E un’altra giovane di 23 anni aveva parlato di ciò che le sarebbe successo la scorsa estate a Ibiza: "Da quando sono entrata in camera ed ho tirato una striscia di stupefacente di colore rosa che io pensavo fosse 2CB, non ricordo più nulla (...) L’unica cosa che ricordo è una sorta di stato allucinogeno". Verbale quest’ultimo da cui erano scaturite già nuove accuse nei confronti di Genovese, ma anche della sua ex fidanzata, indagata per concorso in violenza sessuale e che sarà presto chiamata a chiarire la sua posizione. Simili i racconti, tutti da approfondire cercando riscontri, delle altre due presunte vittime che saranno sentite dai pm. Una delle violenze denunciate sarebbe anche stata registrata dalle telecamere interne dell’attico con vista Duomo. Il sospetto degli investigatori della Squadra mobile, che da settimane ormai analizzano quei filmati (che vanno da maggio in avanti), è che nell’inchiesta potrebbero entrare pure altri episodi. Mentre in corso ci sono indagini pure sul fronte patrimoniale e finanziario di Genovese. Intanto, oggi dovrebbe rientrare in Italia dall’Indonesia il braccio destro dell’imprenditore, Daniele Leali (indagato per spaccio di droga), come annunciato da lui stesso e dal suo legale.

Da corriere.it il 19 dicembre 2020. È atterrato sabato, alle 6.30, a Milano Daniele Leali, il vocalist indagato per spaccio di droga nell’inchiesta che ha portato all’arresto di Alberto Genovese, l’imprenditore digitale accusato di aver violentato una 18enne durante una festa organizzata il 10 ottobre scorso nel suo appartamento di Milano. «Il mio assistito sta bene, è libero e aspetta di essere interrogato dalla procura», ha commentato il suo difensore, Sabino Di Sibio. Leali si trovava a Bali, dove si è recato pochi giorni dopo l’arresto di Alberto Genovese, del quale è definito «braccio destro» da alcune ragazze ascoltate dagli investigatori della Squadra mobile. Una di loro ha dichiarato, nel fermo di Genovese, di aver visto Leali che portava piatti di droga agli invitati. «C’era della droga alla festa e a un certo punto c’erano due piatti a disposizione per tutti - ha messo a verbale la teste -. Li ha portati vicino al bar Daniele Leali: in uno c’era 2CB, conosciuta come `coca rosa´, e nell’altra `Kalvin Klain´, che è chetamina mischiata con cocaina. Credo che tutti si aspettassero che Leali la portasse in sala, nessuno si è spaventato o sorpreso della cosa (..). Leali e Genovese sono molto amici, per cui se Daniele beve o assume qualcosa, io ritengo di poterlo fare anch’io senza preoccuparmi». E infine: «Ho sempre seguito con gli occhi Daniele Leali per capire se ci si potesse fidare». Leali ha sempre respinto le accuse e ha spiegato che il viaggio a Bali non era una fuga dagli inquirenti ma era motivato da ragioni di lavoro.

Alberto Genovese, chi c'era alle feste delle violenze sessuali: "Artisti, manager e imprenditori". Libero Quotidiano il 20 dicembre 2020. Alle feste di Alberto Genovese non c'erano solo 18enni in cerca di droga gratis, ma "artisti, manager, impiegati, imprenditori, quasi tutte coppie. Amici ai quali venivano aggiunte altre persone. Feste divertenti in cui si passavano bei momenti in un periodo in cui i locali erano chiusi". A parlare al Corriere della Sera è Daniele Leali, amico di Genovese indicato come suo "braccio destro" e organizzatore di quelle feste-evento a Terrazza Sentimento, l'attico milanese vista Duomo dell'imprenditore accusato da varie ragazze di violenza sessuale, tra Milano e Ibiza. "Sono solo un amico. Sono una persona pulita, un imprenditore che lavora da quando ha 16 anni nel mondo dei locali e della notte, che non ha mai avuto problemi con la giustizia e non ha alcuna attività con Genovese", precisa lui, che ora è indagato per cessione di droga. Le feste, sottolinea, Genovese "le faceva da prima di conoscermi. Dato il network infinito di persone che conosco, non è un problema invitare una ventina di persone. Raccoglievo le adesioni in una chat di 16 amici. Da giugno ne abbiamo organizzate 5 o 6. L'ho fatto per puro piacere e senza guadagnarci nulla. Lui aveva lo status dell'ultra milionario che doveva essere servito e riverito da tutti". Certo, la droga girava: "C'era una piccola parte di invitati che si appartava e la prendeva dal piatto, la portavano da fuori". Leali, insomma, con cocaina e dintorni sottolinea di non avere nulla a che fare. 

Gianluigi Nuzzi per “la Stampa” il 20 dicembre 2020. La camera è attrezzata con ogni strumento per la sodomia, il flagello, la tortura. Certo, le 19 telecamere registrano incontri, amplessi, orge, supplizi e vessazioni ma Alberto Genovese cela un vanto in più. Può contare su una nutrita dotazione di arnesi di ogni tipo per sottomettere la preda, umiliarla, infierire su di lei in una rappresentazione dove la violenza, reale o simulata, diventa regina indiscussa e incontrastata. Quasi metà degli oggetti sequestrati a casa di Genovese sono specifici, indispensabili al successo del rito. Prima di descriverli serve però inquadrare questa mitologia nera, come stanno ricostruendo gli inquirenti capitanati da Marco Calì, capo della squadra mobile di Milano. Lo stupro che si è consumato nella notte del 10 ottobre nel super attico di Genovese e gli altri che ora denunciati andranno inquadrati in una dinamica geometrica con regole, tempi, priorità, indispensabili a prolungare più possibile il piacere profondo dell' architetto del dolore, dell' aguzzino. Questa liturgia deviata si apriva con la scelta della vittima. Di preferenza, la preda doveva avere massimo 25 anni. Non a caso la ragazza stuprata era la più giovane tra quelle presenti durante l' ultima festa a terrazza Sentimento. Non a caso la cosiddetta "fidanzata" dell' imprenditore chiedeva foto delle aspiranti partecipanti ai party e lui selezionava. Dovevano essere di norma alte, slanciate, magre. Una volta individuata, la vittima non finisce subito nel mirino. Non è braccata. La ragazza deve ambientarsi, percepire la situazione come divertente, fantastica, lussuosa e lui come re indiscusso, artefice di tutto questo, quindi simpatico, generoso, empatico, magari attraente. Tant' è che la vittima non era la prima volta che imboccava il portone di piazza santa Maria Beltrade. Aveva partecipato ad altre tre feste: «Un bell' ambiente - commenterà nell' intervista al Corriere della Sera - non mi appariva pericoloso. Gente che conoscevo del mondo della moda e della musica, età dai 20 ai 30 anni». Si è divertita, nessuno l' ha molestata. Si è drogata gratuitamente, sniffando dai piatti colmi di cocaina, ha bevuto drink e champagne millesimato, tutto offerto dall' apparente magnanimità del re Mida. La seconda fase riguarda l' approccio. Genovese invita la ragazza a drogarsi in camera. In una dinamica di festa, tra cocainomani, è un' attenzione assolutamente di prassi. Certo, non mancano i campanelli d' allarme: c' è un addetto alla sicurezza davanti alla porta, si è lasciato il cellulare all' ingresso di casa, come tutti gli altri ospiti, ma l' approccio alla trasgressione tra tossicodipendenti è troppo allettante per respingere l' invito del generoso proprietario. Genovese dispone di un rilevante armentario tossico con due stupefacenti allucinogeni come la cocaina rosa, ovvero la 2 CB (sostanza psicoattiva della famiglia delle feniletilammine 2C) e la chetamina, e poi, ancora, l' Mdma, cioè l' ecstasy e la cocaina normale. Genovese ne fa largo uso sulla ragazza. Che prima inala la droga e poi incosciente vede il proprio corpo abusato da oggetti ricoperti dallo stupefacente. L' effetto del cocktail esplode micidiale, stordisce, altera la percezione del reale: la vittima non aggrega ricordi precisi. Anzi, nei giorni successivi, è convinta di esser stata abusata non solo da Genovese ma da un gruppo di uomini. La trama psicodelica sortisce il suo effetto. Se non ci fossero gli eloquenti video delle telecamere che l' aguzzino aveva ordinato di "piallare", sarebbe stato ben più arduo disporre di prove incastranti. Senza dimenticare che è stato sequestrato anche un flaconcino di Minias, il farmaco contro l' insonnia per capire se venivano somministrati anche medicinali. Ma torniamo alla camera, dove in questa sequenza dell' orrore può avere inizio la tortura. Degli 85 oggetti sequestrati a casa di Genovese, quasi la metà servivano proprio per infliggere dolore. Prova ne sono le possibili tracce biologiche ed ematiche sulle due lenzuola di sopra e quella di sotto con due federe sequestrate dagli inquirenti durante la perquisizione dello scorso 12 ottobre alle 19.50, proseguita l' indomani mattina, come la coppia di asciugamani piccoli e grandi grigi dello stesso colore dell' accappatoio, ora a disposizione in busta sigillata. Ma, soprattutto, tra i 50 reperti portati via, primeggia il kit del torturatore: ecco una confezione di fascette nere, un' altra di fascette multicolore, ecco due palette in legno per sculacciare, due analoghe però in similpelle con borchie. Si prosegue con un' intera collezione di fruste, due nere, una nero-viola, una bianca e nera, un altro sculacciatore di colore rosso fino al classico battipanni dai molteplici usi e le immancabili manette con chiavi. E, ancora, un' infinità di vibratori di dimensioni, forme (dal classico al rotondo), materiali e colori diversi: dal lilla al bianco e fucsia, dal nero al bianco e nero, dal lilla e bianco al nero e grigio e altri oggetti e neri e rossi per le pratiche più estreme, fino a cravatte blu e rosse usate come corde. Per capire cosa è accaduto veramente in questa stanza la squadra mobile di Milano ha scaricato oltre 250mila video registrati dalle telecamere di Genovese e conservati in un server in casa. Al momento gli investigatori ne hanno visionati quasi la metà nei pc non collegati all' esterno messi a disposizione in una saletta riservata al primo piano della questura. Gli agenti passeranno le giornate tra Natale e san Silvestro a visionare migliaia di video. Da tempo è scattato un conto alla rovescia per portare Genovese a giudizio di ogni tortura.

Alberto Genovese, "dopo l'ospedale già in giro per feste". La rivelazione sulla 18enne della violenza. Libero Quotidiano il 20 dicembre 2020. "Subito dopo Alberto Genovese mi ha detto che si era innamorato di lei". Daniele Leali, al Corriere della Sera, riporta la versione data dall'imprenditore accusato di violenza sessuale; "lei" è la 18enne che l'ha denunciato per gli abusi avvenuti durante la festa del 10 ottobre a Terrazza Sentimento, l'attico milanese di Genovese. "Una festa normale", la definisce l'amico, indagato per cessione di droga. "A volte Alberto trovava la ragazza che gli piaceva", spiega riguardo al fatto che il padrone di casa, a un certo punto, è sparito chiudendosi in casa con la ragazza: "Non lo do per assodato, ma penso che se una ragazza si chiude con lui in camera da letto abbia presente cosa possa accadere". Genovese è accusato di aver drogato le ragazze per poi abusare di loro: "Mi suona male. Per quello che ho visto sono ragazze che vanno cercando accesso alla droga in modo gratuito". Finita la festa, Leali va a casa. Dopo qualche giorno lo contatta Genovese: "Mi dice che c'era stato un casino, che l'appartamento era stato sequestrato. Non mi dà informazioni, pensavo a qualcosa collegato alle droghe. Sapevo che la ragazza era finita in ospedale, immaginavo che si fossero drogati in una notte di sesso estremo e che si fosse fatta male. Dopo altri giorni, mi dice che era dispiaciuto per quello che aveva fatto, mi chiede di contattarla e dirle di fare incontrare i rispettivi avvocati per parlarne e dice che era innamorato di lei". Leali rivede la ragazza e la trova "un po' triste. Alla fine si è creato un bel rapporto tra noi e più volte mi ha detto che non pensa che io sia coinvolto. Una cosa che mi ha dato dei dubbi è che dopo che aveva lasciato l'ospedale era già di nuovo per locali e feste". "Qualcosa di grave è successo - riconosce però Leali -. Qualora le violenze venissero accertate condannerò Alberto e avrò la consapevolezza che aveva una doppia personalità".

Alberto Genovese "passato da 100mila euro a...". La verità sconvolgente: quanti soldi aveva. Libero Quotidiano il 20 dicembre 2020. Soldi, troppi soldi. Questo avrebbe scatenato i demoni di Alberto Genovese, perso tra perversioni sessuali ed eccessi di ogni tipo. L'imprenditore genietto della finanza è accusato da più ragazze di violenze e abusi, avvenuti durante le feste "estreme" organizzate tra il suo attico milanese Terrazza Sentimento e villa Lolita, a Ibiza. L'amico Daniele Leali, indagato per cessione di droga e considerato l'organizzatore di quelle serate, si difende sostenendo che sì, giravano sostanze stupefacenti, ma che fossero gli stessi invitati a portarle da fuori, facendone poi uso in luoghi appartati della casa. Sulle accuse di violenza sessuale Leali intervistato dal Corriere della Sera sottolinea come il problema vero fosse la totale ingestibilità di Genovese, ormai fuori controllo sotto tutti i punti di vista. "Gli sono stato vicino in questi ultimi mesi e ho cercato di farlo desistere da questo stile di vita. Lo vedevo sempre assente, probabilmente avendo questa grande quantità di soldi si era lasciato andare ad alcool e droga. È passato da avere 100mila euro ad avere cento milioni". L'imprenditore "non era felice", giura Leali: "Era sempre alla ricerca di qualcosa di più. A livello lavorativo era soddisfatto, prima dell'arresto è stato a Londra a farsi dare 300 milioni da un fondo. Ma soffriva perché aveva sempre il dubbio che la gente gli stesse accanto solo per i soldi. Viveva male".

Giuseppe Guastella per il “Corriere della sera” il 20 dicembre 2020. Rientrato a Milano dopo 38 giorni in Indonesia per lavoro, indagato per cessione di droga nell' inchiesta che vede in carcere Alberto Genovese, il mago delle startup accusato di aver violentato una modella di 18 anni, Daniele Leali risponde alle domande nello studio del suo difensore Sabino Di Sibio.

Lei è stato definito «braccio destro» di Genovese.

«Non lo sono. Sono solo un amico. Sono una persona pulita, un imprenditore che lavora da quando ha 16 anni nel mondo dei locali e della notte, che non ha mai avuto problemi con la giustizia e non ha alcuna attività con Genovese».

Organizzava lei le feste a Terrazza sentimento?

«Lui le faceva da prima di conoscermi. Dato il network infinito di persone che conosco, non è un problema invitare una ventina di persone. Raccoglievo le adesioni in una chat di 16 amici. Da giugno ne abbiamo organizzate 5 o 6. L' ho fatto per puro piacere e senza guadagnarci nulla. Lui aveva lo status dell' ultra milionario che doveva essere servito e riverito da tutti».

Chi erano?

«Artisti, manager, impiegati, imprenditori, quasi tutte coppie. Amici ai quali venivano aggiunte altre persone. Feste divertenti in cui si passavano bei momenti in un periodo in cui i locali erano chiusi».

E c'erano ragazze giovani.

«Anche ragazzi. Ad Alberto piacevano le belle ragazze. Loro stesse si autoinvitavano».

Anche la modella che ha denunciato la violenza?

«Il suo nome mi fu dato da un' amica comune».

Lei è accusato di cessione di droga.

«Questo mi fa male perché vuol dire vedere sfumare 20 anni di lavoro e professionalità. Sono sempre stato lontano dal mondo della droga».

Lei fa uso di droga?

«Non parlo di questo».

I testimoni dicono che girava nei piatti. È normale?

«C' era una piccola parte di invitati che si appartava e la prendeva dal piatto, la portavano da fuori».

La festa del 10 ottobre?

«Una festa normale».

Si è accorto che alle 22.30 Genovese è sparito?

«No, ma a volte trovava la ragazza che gli piaceva. Non lo do per assodato, ma penso che se una ragazza si chiude con lui in camera da letto abbia presente cosa possa accadere».

Però giravano voci che drogasse le ragazze.

«Mi suona male. Per quello che ho visto sono ragazze che vanno cercando accesso alla droga in modo gratuito».

Drogarle per poi poterne abusare è ben diverso, no?

«Non ho avuto evidenza di una condotta di questo tipo».

A che ora finisce la festa?

«Verso le 24 comunico con un messaggio ad Alberto che andiamo via» (in quel momento, per l' accusa, lui sta violentando la modella ndr ).

Le risponde?

«Sì. Con un "Ok"».

Quando lo rivede?

«Dopo qualche giorno. Mi dice che c' era stato un casino, che l' appartamento era stato sequestrato. Non mi dà informazioni, pensavo a qualcosa collegato alle droghe. Sapevo che la ragazza era finita in ospedale, immaginavo che si fossero drogati in una notte di sesso estremo e che si fosse fatta male. Dopo altri giorni, mi dice che era dispiaciuto per quello che aveva fatto, mi chiede di contattarla e dirle di fare incontrare i rispettivi avvocati per parlarne e dice che era innamorato di lei».

Possibile? Lei ha detto di aver parlato con lui la prima volta la sera della violenza.

«Riporto ciò che ha detto».

Come l'ha trovata?

«Un po' triste. Alla fine si è creato un bel rapporto tra noi e più volte mi ha detto che non pensa che io sia coinvolto. Una cosa che mi ha dato dei dubbi è che dopo che aveva lasciato l' ospedale era già di nuovo per locali e feste».

Lei dice di no. Comunque, una vittima può anche rimuovere, e non vuol dire che la violenza non c' è stata.

«Certo. Qualcosa di grave è successo. Qualora le violenze venissero accertate condannerò Alberto e avrò la consapevolezza che aveva una doppia personalità». 

Genovese ha detto che si drogava da 4 anni e che questo ha cambiato la sua vita.

«Gli sono stato vicino in questi ultimi mesi e ho cercato di farlo desistere da questo stile di vita. Lo vedevo sempre assente, probabilmente avendo questa grande quantità di soldi si era lasciato andare ad alcool e droga. È passato da avere 100 mila euro ad avere cento milioni».

Non era felice?

«No. Era sempre alla ricerca di qualcosa di più. A livello lavorativo era soddisfatto, prima dell' arresto è stato a Londra a farsi dare 300 milioni da un fondo. Ma soffriva perché aveva sempre il dubbio che la gente gli stesse accanto solo per i soldi. Viveva male».Francesca Pierantozzi per “il Messaggero” il 5 novembre 2020. Dopo le attrici, le atlete, le scrittrici, le giornaliste, le politiche: le sommelier. #metoo si abbatte anche sul mondo - particolarmente maschio e maschilista - del vino. La Francia aveva timidamente tolto il tappo a pratiche considerate ancestrali e quasi inevitabili, nel 2017, quando due donne sommelier avevano osato denunciare Marc Sibard, il papa dei vini naturali e patron della mitica enoteca parigina delle Caves Augé: molestie e aggressioni sessuali. Alla condanna di un anno di carcere Sibard non aveva fatto appello. Poi però più niente. I rossi strutturati avevano continuato tranquillamente a essere considerati vini da maschi e il sessismo aveva continuato a sembrare il corollario quasi inevitabile del mondo della vigna.

IL TERREMOTO. Il terremoto è arrivato in questi giorni dagli Stati Uniti. E colpisce la massima istituzione del vino in America, la Harvard dei sommelier, la Court of Master Sommeliers, unico organismo in grado di concedere il sacro graal di chiunque voglia lavorare col vino: la spilletta rosso-oro che certifica il superamento delle quattro prove e il diritto di forgiarsi del grado di Master Sommelier, l' equivalente dello storico titolo britannico del Master of Wine. Da quando è stata fondata, nel 1997, la Court ha diplomato soltanto 155 persone, delle quali 131 sono uomini. Il percorso di studi è degno delle più prestigiose università mondiali, prevede quattro livelli, tra esami teorici e pratici, fino alla suprema prova finale, il blind wine testing, la degustazione alla cieca di sei diversi vini. Nel 2012 un documentario, Somm, aveva seguito l' estenuante percorso di quattro aspiranti sommelier (tutti maschi) rendendo molto popolare la formazione americana, che aveva visto moltiplicarsi le candidature ai corsi di formazione organizzati dalla stessa Court. Più di 12 mila persone si sono iscritte da allora al sito della Court, e tra queste moltissime donne come ha scritto il New York Times, «che speravano, integrando il sistema di corsi e di tutorato della Court, di sottrarsi alle molestie sessiste frequenti nel mondo dell' industria del vino». Quello che è accaduto è esattamente il contrario. Per ora sono 21 le donne che hanno raccontato al Times di essere state violentate, molestate, perseguitate, da diversi master sommeliers. La Court ha reagito aprendo un' inchiesta interna. Ben 15 denunce riguardano Geoff Kruth, una vera autorità in fatto di vini: la scorso settimana ha presentato le dimissioni dalla GuildSomm, l'organismo pedagogico della Court dei Master che aveva fondato e che dirigeva. Le denunce rivelano usi e costumi considerati normali da molti come ha raccontato Jonathan Ross, 37 anni, master sommelier dal 2017, che non figura tra i denunciati. Jane Lopez, 35 anni, importatrice di vini a New York, racconta di come Kruth le saltò addosso dopo una cena nel 2013, Courtney Schiessl, sommelier, dovette buttarlo fuori dalla sua camera d' albergo a Chicago, Christina Chilcoat se lo vide apparire davanti nudo in albergo al termine di una degustazione di champagne nell' ambito di una master class a New Orleans.

LE DENUNCE. Poche hanno osato denunciare subito, in un ambiente che considerava inevitabile la prassi e che - ne erano sicure - avrebbe condannato la loro ribellione rovinando la carriera o annullando qualsiasi speranza di ottenere il titolo di master, concesso da una giuria composta da master sommelier, quasi tutti uomini, e molti dei quali disinvolti predatori. Tra i nomi citati nelle denunce del New York Times, anche Robert Bath, docente di vini al Culinary Institute of America e ex vicepresidente della Court, ed anche il famoso Fred Dame, il primo Master Sommelier d' America. «Le aggressioni sessuali sono una costante per le donne sommelier» ha detto al giornale americano Madeleine Thomson, oggi sommelier a Dallas, che ha deciso di rinunciare a ottenere il master dopo aver dovuto respingere svariate aggressioni da parte dei Maestri uomini.

Barbara Costa per Dagospia il 31 ottobre 2020. Ragazza, digli se ingoi, riluttante e ruttante, non sei abituata, è la tua prima volta, con questo panzoso uomo peloso, calvo, che ti parla in inglese, con quel suo ammaliante accento francese, e con te è dolce, seducente, ci sa fare, zuccherino, non è granché ma pare l’uomo dei tuoi sogni, si comporta come tale, e però ecco, lui ora cambia, ora ti chiede di spogliarti, tutta, completamente, ti vuole fare delle foto, davanti e dietro, e adesso… perché non ti metti su quel letto, così che lui ti scopa e ti incula a martello? È vero, è falso, si sono messi d’accordo, è tutto costruito, no, è genuino, le ragazze sono delle sprovvedute, e Pierre Woodman è un mostro, uno stupratore, non li stupra ma di quei culi all’aria ne approfitta, quei culi lui li droga, li anestetizza, e poi Pierre Woodman è frocio, il suo pene è piccolo, è flaccido, è punturato, Woodman è un magnaccia, un miserabile, uno cattivo, cattivo, cattivo. Oooh, te li ho detti tutti, gli insulti che monsieur Pierre Woodman riceve da 30 anni, da quando è diventato un nome, un signore del porno. Woodman, che si è inventato la serie porno più longeva, più copiata, imitata, più redditizia e che non conosce  requie, né limiti: "Casting X", e il bello è che girare tali porno è una sudata ma pure una furbata: Woodman ha dato forma alla fantasia-porno più proibita, ciò che sui set veri e seri non avviene mai, e cioè questo: tu, ragazza, vai a fare un provino, non sai che è un porno, e il regista che credevi ti potesse lanciare si rivela un porco, un assatanato: in quella camera d’albergo dove sei andata, ragazza, tu non vuoi ma lui ti incula, non metaforicamente e quasi mai da solo, a un certo punto chiama un amico suo: è una trappola, guardati, "costretta" a posizioni inaudite, sporcata oltre l’immaginabile, ti portano al limite, te lo fanno superare, prona a ogni sconcezza. E come se tutto questo non bastasse, mia cara, ti hanno ripresa, quanto su quel letto avvenuto è registrato: sei nei guai, baby. Mettete Pierre Woodman in galera, buttate la chiave, davvero credete che se lui avesse fatto violenza sulle donne che in questi decenni hanno girato migliaia di Casting X, sarebbe ancora a piede libero, sarebbe ancora alla ribalta? Eppure non scemano le ingiurie contro di lui, contro la crudezza dei suoi porno, ma io dico, davvero si può essere così bietoloni, davvero non avete capito che il porno davanti a una telecamera è rappresentazione, è genere cinematografico, davvero credete che Pierre Woodman giri con ragazze non testate, che queste ragazze non gli firmino la liberatoria per la distribuzione video, davvero credete che una fanciulla vada da Woodman senza sapere chi lui è o, se non lo sa, non abbia prima fatto una banale ricerca sul web? I Casting X di Woodman girano dal 1997, sono numerati, divisi in serie, c’è gente che li colleziona, come fossero reliquie, e pensare che sono porno molto lunghi e tutti uguali, cambia solo la ragazza ma lo svolgimento del "fattaccio" è sempre il seguente: i Casting X sono girati in camere d’albergo anonime, si inizia con una semplice seduttiva intervista, poi la "sventurata" si alza, si denuda, si fa fotografare, e l’azione si sposta sul letto, per incastri i più sudici, contornati da anali stordenti. E ci sono Casting in cui le ragazze urlano, non sembrano contente, ragazze che dopo non fanno altri porno, altre invece sì, fanno carriera e ritornano a farsi sbattere da Woodman. In realtà i Casting X non si svolgono come li vedi, e la verità la scopri in quelli che contengono i dietro le scene, e nei Casting dove Woodman provina pornostar famose. Le ragazze sono maggiorenni, e provengono da agenzie, ma pure da casa loro essendosi di loro libera volontà "offerte" a Woodman tramite il Woodman sito. Sono consapevoli, sono strapagate per la loro prestazione (Woodman è tra i più munifici nel porno) e, come scopri nel sito-archivio, non tutti i provini finiscono con la scopata. Ci sono ragazze che legittimamente cambiano idea, e infatti il dialogo e la scopata quasi mai sono girati in sequenza, tra i due eventi c’è lo scarto di qualche giorno, a volte addirittura mesi. Quelli con le pornostar sono invece girati in continuum, sebbene anche qui non siano in passato mancate polemiche, per bocca o meglio tweet di Lana Rhoades, che ha denunciato la non rispettosità di Woodman con lei a letto. E, come in casi che ben conosciamo, anche qui alla tweet-denuncia di maschia violenza non è seguita quella penale. Ma se Woodman è così pericoloso perché nessuna lo denuncia sul serio? Perché è solo lui a legal-muoversi coi suoi avvocati? Perché al contrario è Woodman dal suo sito ad avvertirvi di diffidare da chi sul web si spaccia per lui, promuovendo casting inesistenti per cui vi chiede soldi, e foto hot per ricattarvi di smerciarle online? Perché se tossici, illeciti, i Casting di Woodman girati in più di 20 anni hanno ottenuto via libera legale, negli Stati Uniti e fuori, in quanto "materiale di intrattenimento"? Perché andate a lavorare con Woodman se lo credete un criminale? Perché quando sul set vi dice di spogliarvi lo fate, vi manda a fare la doccia voi la fate, con quella sua voce carezzevole vi stende sul letto, vi apre le gambe e voi le aprite, vi lecca la fica e voi godete o fate finta comunque ci state, vi gira e vi riempie di lubrificante e voi non fiatate, vi prende da dietro e voi tutto sembrate tranne che dispiaciute? Perché, quando arriva un altro uomo non scappate bensì vi date da fare pure con lui? E infine perché a show finito vi alzate, salutate e andate sorridenti in bagno? Sono pronta a ricredermi e a disamorarmi di Pierre Woodman appena arrivino alle autorità prove comprovate contro di lui. Fino ad allora, lasciatemi bagnare, lasciatemelo amare, lasciatemi vedere trasmutato in porno il rapporto ideale come tra due persone per me deve essere: senza legami ufficiali, chiusi in una stanza d’albergo, senza dignità, moralità, se non il libero sfogo degli istinti animali i più biechi. Uomini!!! Guardate come lecca la figa Pierre Woodman, quanto tempo vi dedica, e con che lentezza… Imparate.

A Basic Instinct le scene di sesso sono reali (ma non è l'unico caso di libertà). Basic Instinct è diventato famoso nell'immaginario collettivo grazie alla famosa scena di Sharon Stone senza biancheria intima. Ma questo non è l'unico film con vere scene di sesso sullo schermo. Erika Pomella, Sabato 31/10/2020 su Il Giornale. Non c'è dubbio che Basic Instinct - pellicola in onda questa sera su Iris alle 21.00 - sia riuscita ad entrare nell'immaginario collettivo grazie alla famosa scena in cui la bellissima Sharon Stone accavalla le gambe, senza indossare le mutandine, con l'atteggiamento di una femme fatale che ha fatto sognare molti uomini. Il film di Paul Verhoeven, che oltre a Sharon Stone conta anche Michael Doughas nel cast, racconta la storia di un violento investigatore della polizia che si trova a indagare su un caso di omicidio che coinvolge una seducente scrittrice, con una grande abilità di manipolazione.

Basic Instict, il sesso per davvero. Come sottolinea il sito dell'Internet Movie Data Base, durante le riprese di Basic Instinct non venne utilizzata nessuna controfigura per le scene di sesso che includono i due protagonisti. In effetti lo stesso Michael Douglas raccontò successivamente di aver voluto prendere parte a Basic Instinct perché aveva timore che le scene di sesso, a Hollywood, stessero correndo il rischio di sparire. Il motivo? La crescente preoccupazione per il contagio da AIDS, che in quegli anni stava venendo in superficie come un problema di cui si sapeva ancora molto poco. Anche per questo in alcune scene di sesso tanto Michael Douglas quanto Sharon Stone indossavano delle protezioni speciali sui genitali per non correre il rischio di contrarre il virus che tanto spaventava il mondo. Va sottolineato, comunque, che Basic Instinct non è stato l'unico film in cui il sesso non è stato del tutto simulato. Anzi, ci sono produzioni, tanto italiane quanto europee e hollywoodiane che non si sono fatte scrupoli nel mandare sullo schermo degli atti sessuali espliciti.

Caos Calmo come Basic Instinct. Nel 2008 Nanni Moretti e Isabella Ferrari divennero i protagonisti di Caos Calmo, il film che il regista Antonello Grimaldi trasse dal romanzo omonimo di Sandro Veronesi. Verso la fine della pellicola c'è una scena in cui i due protagonisti si lasciano andare ad un amplesso molto sentito e molto realistico. Il motivo di questa verosimiglianza, come raccontato da La Scimmia Pensa, lo ha spiegato Isabella Ferrari quando ha detto che l'amplesso era stato del tutto reale.

La vita di Adèle. La vita di Adèle è un film del 2013, presentato al Festival di Cannes, che segue la storia d'amore gay tra due donne, l'Adèle del titolo (Adèle Exarchopoulos) e Emma (la diva francese Léa Seydoux). Nella pellicola le due sono viste molto spesso in atti di natura sessuale, a volte simulato grazie a delle protesi vaginali e a volte molto reale. Un esempio è la lunga sequenza in cui le due donne si masturbano vicendevolmente per aumentare il desiderio.

Caligula. Come racconta Film Daily, anche il film Caligula ha delle scene di sesso reali. La storia ruota intorno a un imperatore romano (Malcolm McDowell) con una vera e propria ossessione per il sesso. Un'ossessione che lo porta ad organizzare un'orgia dopo l'altra, ricoprendo il ruolo di "dominatore" in mezzo a un ammasso di corpi nudi e pieni di passione. In fase di post-produzione al film vennero aggiunte - senza l'approvazione del regista - alcune scene di vere penetrazioni e sequenze di vero sesso orale da parte di alcuni adulti che erano stati scelti da Penthouse Magazine.

Nymphomaniac. Forse uno dei film più apertamente sessuali degli ultimi anni è Nimphomaniac, il film di Lars Von Trier del 2013 diviso in due parti. La storia è quella di Joe (Charlotte Gainsbourg) che racconta all'asessuato Seligman (Stellan Skarsgard) la sua vita da ninfomane, passata alla ricerca di emozioni sempre più forti legate al mondo del sesso. Una delle scene principali è quella in cui una giovane Joe che ha il suo primo rapporto sessuale, con quello che poi diventerà il personaggio interpretato da Shia LeBeouf. Gli attori che vennero presi per questa scena non simularono l'amplesso, ma fecero davvero del sesso.

Monica Ricci Sargentini per il “Corriere della Sera” il 25 ottobre 2020. In Iran le donne alzano la testa, non solo per togliersi il velo, ma per denunciare stupri e molestie. Un MeToo che arriva con tre anni di ritardo rispetto a quello americano ma che ha una valenza molto più profonda se si pensa che nel codice della Repubblica islamica, per un' interpretazione sciita particolarmente oscurantista della sharia, la donna che denuncia è «vittima» e allo stesso tempo «colpevole» visto che i rapporti sessuali fuori del matrimonio sono un reato. «Quando accusi qualcuno di averti costretto a fare sesso stai praticamente testimoniando contro te stessa» dice Shadi Sadr, attivista per i diritti umani e avvocata iraniana di base a Londra. Eppure, in atti di coraggio straordinari, dallo scorso agosto più di 100 uomini sono stati denunciati attraverso i social media. Non persone qualsiasi ma manager, professori universitari, intellettuali. Gente in vista, benestante se non ricca, con amicizie altolocate nei centri di potere del Paese. Tra loro spicca l' artista Aydin Aghdashloo, 80 anni il 30 ottobre, conosciuto a livello internazionale e molto legato al regime degli ayatollah. In un' inchiesta, pubblicata giovedì scorso, il New York Times intervista alcune delle sue accusatrici che non esitano a definirlo l'Harvey Weinstein iraniano, un uomo che per 30 anni non si è fatto scrupolo di ricattare studentesse, giornaliste, galleriste, critiche d' arte e chiunque altra gli capitasse a tiro, minacciandole di porre fine alla loro carriera se non avessero ceduto alle sue molestie. La prima a puntare il dito contro di lui, il 22 agosto, è stata l' ex giornalista Sara Omatali che ha raccontato su Twitter di essere stata molestata durante un' intervista nel 2006. Lui l' avrebbe accolta seminudo nel suo ufficio baciandola a forza e strusciando il suo corpo su di lei. Da allora è stato un susseguirsi di MeToo. Il New York Times ha intervistato 45 persone che hanno testimoniato di aver assistito ai comportamenti predatori di Aghdashloo. Tredici donne hanno raccontato di aver subito violenza. Una all' età di 13 anni. Una studentessa ha detto che quello che credeva il suo mentore le ha offerto un quadro dal valore di 85 mila euro in cambio di un rapporto sessuale. Una pittrice si è vista chiudere la porta in faccia da molte gallerie dopo aver rifiutato le avance del pittore. Un' insegnante d' arte, che ha affiancato per dodici anni l' artista nei suoi workshop, ha raccontato che le studentesse si erano spesso lamentate con lei ma che lui si era difeso dicendo che le ragazze avrebbero dovuto considerare il suo affetto un privilegio. Interpellato dal Times Aghdashloo, tramite il suo avvocato, assicura «di aver sempre trattato tutti con rispetto e dignità». Riuscirà il #MeToo iraniano a ottenere, almeno in parte, giustizia? Il 12 ottobre il capo della polizia di Teheran ha annunciato che Keyvan Emamverdi, proprietario di una libreria, ha confessato di aver stuprato 300 donne dopo che 30 di loro avevano avuto il coraggio di denunciarlo. Rischia la pena di morte. Di certo la strada è tutta in salita ma questa vicenda dimostra che le donne sono in prima linea e non hanno paura di sfidare la sottomissione imposta dal regime teocratico.

Nico Riva per "leggo.it" il 22 ottobre 2020. Molestato e ricattato per perdere la verginità da ragazzino. A rivelare queste scioccanti parole è la star di Hollywood Matthew McConaughey. Oggi 50enne, l'attore premio Oscar ha appena pubblicato il suo libro autobiografico "Greenlights". Fra i tanti ricordi degli inizi e dei successi della carriera, ci sono però anche memorie sofferenti. Come la sua "prima volta", e quella dell'uomo che lo stuprò nel retro di un van, dopo avergli fatto perdere i sensi. «Fui ricattato per fare sesso per la prima volta a 15 anni. Ero certo che sarei andato all'inferno per quel sesso pre-matrimoniale. Oggi, spero davvero che non sia così», racconta l'attore nel suo libro pubblicato il 20 ottobre. McConaughey, oggi padre di tre bambini avuti dalla moglie modella Camila Alves, non aveva mai confessato prima questi atroci ricordi. Ma nonostante il trauma iniziale, l'ottimismo che lo ha sempre contraddistinto l'ha fatto rialzare subito. «Non mi sono sentito una vittima. Avevo tante prove intorno a me del fatto che il mondo stava cospirando per rendermi felice». Tuttavia, il premio Oscar non ha mai dimenticato, né sottovalutato un problema grave come quello delle violenze sessuali. Per questo, nel 2016 è stato uno dei supporter del Programma Eliminazione Stupri dell'Università del Texas. McConaughey ha pubblicato anche un video su Facebook per annunciare la pubblicazione e spiegare brevemente di cosa tratta il suo libro. Innanzitutto, il titolo: "Greenlights", semafori verdi, che sono disegnati anche sulla copertina. Un augurio ma anche un impegno, che tutti dovrebbero assumersi: per se stessi e per gli altri, aprire, accettare, andare, invece di chiudersi e sbarrare la strada con i semafori rossi. «Mi ha aiutato a dare e ricevere libertà». L'idea di scrivere un libro gli è venuta un paio di anni fa, quando dopo aver tenuto diari per una vita, si è detto: «Vediamo cosa ne è uscito fuori». Dall'adolescenza alla famiglia, dai primi film all'Olimpo di Hollywood, in Greenlights c'è Matthew a 360°. «E vi farete tante risate», assicura l'attore texano. Nel libro Greenlights, McConaughey racconta del matrimonio burrascoso fra i genitori, che nonostante tutto si amavano davvero. Ma anche del rapporto con il padre James, un uomo burbero e rigido, ma dal quale ha imparato i suoi principi, che lo hanno accompagnato verso i traguardi della sua vita professionale e sentimentale. Non è un caso che sia il primo della sua famiglia a cui si rivolga, guardando in alto, durante lo splendido discorso di ringraziamento per la vittoria dell'Oscar nel 2014. La straordinaria interpretazione in "Dallas Buyers Club" gli valse l'ambita statuetta di Miglior attore protagonista, ma sfortunatamente James McConaughey non era presente in sala per godersi il momento: è morto d'infarto nel 1992. Eppure, secondo il figlio profondamente credente, il babbo quella sera del 2014 stava danzando in cielo, sorridente. «Grazie papà, che mi hai insegnato come essere un uomo». 

DAGONEWS il 21 ottobre 2020. L'ex presentatore televisivo John Leslie è stato dichiarato non colpevole di violenza sessuale. Il 55enne è stato processato alla Southwark Crown Court con l'accusa di aver afferrato il seno di una donna a una festa di Natale nel 2008. La donna nel 2017, in era Metoo, si era confidata con una amica che l’aveva denunciato, stravolgendo la vita di Leslie che era stato ripudiato della tv e additato dalla stampa come un mostro. I suoi ex co-presentatori, Anthea Turner e Fern Britton, sono stati chiamati come suoi testimoni durante il processo. Leslie ha detto alla giuria di non ricordare di essere stato alla festa e ha parlato dell’accusa definendola “folle e ridicola”. «Non l'avrei toccata come un manichino per poi andarmene». La giuria ha emesso un verdetto di non colpevolezza in 23 minuti. Leslie ha iniziato la sua carriera televisiva nel 1989 nel programma della BBC “Blue Peter”. Ha continuato poi a “Wheel of Fortune” e “This Morning”.

Helen Kirwan-Taylor per il "Mail Online" il 21 ottobre 2020. Nessuna somma di denaro vale capricci, richieste di sesso illimitato e mancanza di interesse totale verso la propria moglie. Se c’è una cosa che accomuna molti uomini potenti è la scarsa considerazione che hanno per la loro  compagna: il loro atteggiamento è che lei conduce una bella vita grazie a lui, quindi può tranquillamente farla a pezzi. Più successo ha questo tipo di marito, più difficile è per la sua coniuge. Potrebbe essere stata la sua collega a Oxbridge quando si sono incontrati, ma il matrimonio ha relegato il suo status a una semplice moglie. Il fatto è che questi ricchi e potenti maestri dell'universo possono essere molte cose - interessanti, intelligenti, affascinanti, stimolanti, carismatici - ma è anche un duro lavoro essere sposati con loro. Sebbene Cristiana Falcone, che ha sposato Sorrell nel 2008, facesse parte di diversi consigli di amministrazione e sia stata consulente per i media per il World Economic Forum di Davos, fino a poco tempo fa ha detto di sentirsi classificata solo come “la moglie di”: «Il presupposto era che non stavo lavorando. Mi hanno messo in una categoria moglie, e questa era la mia definizione. Non potevo uscirne». I Sorrell del mondo mi sono familiari, grazie al fatto che sono sposata da 32 anni con un ex banchiere. Mio marito ed io siamo stati presentati da un amico a New York nel periodo di massimo splendore delle banche degli anni Ottanta. Allora, ben prima della crisi finanziaria, i banchieri di investimento senior erano simili alle rock star. Ottenevano rispetto ed erano estremamente influenti in ogni settore, compreso il governo britannico. I primi ministri rispondevano immediatamente alle loro chiamate, credetemi. Ho imparato presto che questi uomini d'affari di alto profilo sono una razza diversa dagli uomini semplicemente "ricchi". Un rampollo di una famiglia benestante può essere difficile e viziato, ma tende a soffrire di un complesso di inferiorità quando si trova di fronte a una figura tipo Martin Sorrell o Philip Green. Ci vuole un ulteriore livello di impegno, sacrificio e spietatezza per raggiungere le vertiginose vette di CEO o presidente di un'azienda multinazionale. E a ciò si arriva con una forte arroganza e un'esagerata fiducia in se stessi. L'individuo può essere stato perfettamente ragionevole quando era un giovane adulto, ma in seguito diventa un "narcisista situazionale". Con ogni miliardo o promozione in più il comportamento diventa più odioso, sono ubriachi di successo. All'interno di questa piccola fascia della società, comportamenti irragionevoli, petulanti ed esigenti non solo sono tollerati, ma sono normali. Non solo la donna viene investita dalle sfuriate, ma deve anche appianare le cose quando succede in pubblico. Come dice un amico sposato con un consulente di private equity: «Le mogli degli uomini ricchi sono come degli splendidi spazzaneve: levigano le buche della vita quotidiana e assicurano che il marito possa concentrarsi completamente sul suo lavoro». Avere un uomo come questo accanto diventa un lavoro doppio perché, visto che lavorano tanto, si aspettano anche di essere riveriti tanto in casa. Questo vale tanto per una moglie quanto per un dipendente. Le buone maniere vanno a farsi benedire. I banchieri spesso sposano i banchieri, poiché non hanno tempo per uscire con qualcun altro al di fuori del loro ambito. Ma lo stile di vita insostenibile spesso porta la donna a dimettersi e rinchiudersi in casa per gestire i bambini e il personale. Certamente per queste donne ci sono tanti vantaggi: molte case da ammobiliare, vacanze in hotel a cinque stelle, tutta l'assistenza necessaria, spese illimitate e tanto tempo libero. Ma c’è anche l’altra faccia della medaglia: il marito stressato non è mai a casa; si perde ogni cena e ogni recita scolastica; vola via dalle vacanze perché c’è un accordo da firmare e tiene un appartamento aziendale vicino all'ufficio per non essere distratto dai bambini. Poiché il suo stipendio paga per il personale domestico, fa anche loro enormi richieste. A differenza dei tirapiedi del suo ufficio, molti si dimettono e alle moglie tocca rincorrerli promettendo enormi quantità di denaro affinché rimangano. Ma soprattutto questi uomini egocentrici fanno richieste assurde. Ad esempio, un banchiere di mia conoscenza con quattro figli ha ordinato che, al suo ritorno dal lavoro, la moglie gli offrisse da bere nel suo studio e lo lasciasse da solo per almeno un'ora prima di servire la cena nonostante i bambini dovessero andare a letto. E se la cena non era di suo gradimento andava su tutte le furie. Nella sua testa la moglie che, ha studiato a Cambridge, non faceva nulla quindi almeno doveva occuparsi della casa in modo perfetto. Un gestore di fondi speculativi che conosco non permette alla moglie di parlargli quando torna a casa perché deve "pensare". La zittisce anche durante i pasti se lui ne sente l’esigenza. Non importa se sua moglie ha avuto una giornata buona o cattiva perché, nella sua mente, "riceve molti soldi e dovrebbe quindi essere felice". Un altro uomo d’affari è scappato brevemente con la sua amante russa. Sosteneva di avere il diritto di farlo perché era stato trascurato: sua moglie si era troppo concentrata sui bambini e sul suo lavoro (part-time) e si era lasciata andare. Si sono riconciliati per un breve periodo a patto che lei rinunciasse al lavoro, dimagrisse e fosse sempre disponibile a fare sesso. Durante il loro successivo divorzio, è emerso che non così raramente l’arredamento veniva cambiato perché lui lo faceva a pezzi andando su tutte le furie. E il fatto che non sapesse dove andavano a scuola i suoi figli la dice lunga. Queste mogli vedono la loro autostima calpestata e non riescono a confidarsi con nessuno perché sono viste solo come delle privilegiate. Queste moglie devono essere sempre curate, affabili, informate e tolleranti. Per tutto il tempo devono mordersi la lingua mentre gli altri fanno commenti umilianti su di loro. Conosco coppie che sono felici insieme, ma sono quelle in cui le donne hanno sempre mantenuto la propria vita al di fuori della casa. O hanno continuato a lavorare in qualche modo, o si sono impegnati in hobby a livello quasi professionale. Il mio consiglio alle future mogli mega-ricche? Non rinunciate al lavoro quotidiano, mantenete la vostra identità e fatevi una corazza.

Antonio Grizzuti per “la Verità” il 20 ottobre 2020. Erano stati inviati allo scopo di alleviare le sofferenze delle popolazioni colpite dal virus dell' Ebola, e invece hanno finito per infliggere ferite che con tutta probabilità non guariranno mai. Sono 51 le donne che hanno denunciato di avere subito abusi sessuali da parte di dipendenti dell' Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e di altre Ong, nel corso della recente epidemia scoppiata nella Repubblica democratica del Congo (Rdc). È quanto emerge da una lunga inchiesta pubblicata dai giornalisti investigativi di Reuters e The New Humanitarian, agenzia di stampa quest' ultima che si occupa di approfondire storie e tematiche altrimenti dimenticate. Molti casi riguardano la richiesta di prestazioni sessuali in cambio di un' occupazione. Lavori umili regolati da contratti a termine e pagati pochissimo, dai 50 ai 100 dollari al mese, ma spesso indispensabili per sopravvivere e portare avanti la famiglia. Secondo la classifica del Fondo monetario internazionale, infatti, la Rdc è il quartultimo Stato al mondo per reddito pro capite. Come se non bastasse, in una terra già martoriata dai conflitti interni, a complicare le cose è sopraggiunta negli ultimi anni una terribile epidemia di Ebola. Nell' ondata che ha colpito le province di Kivu e Iburi, nella regione orientale del Paese che confina con l' Uganda, la febbre emorragica ha mietuto più di 2.200 morti. Molti degli incontri si svolgevano in hotel utilizzati come quartier generale dalle organizzazioni coinvolte. «Mi ha chiesto di raggiungerlo in albergo», racconta una testimone ai giornalisti parlando di un funzionario dell' Oms. «Poi una volta in camera da letto mi fissava silenzioso», prosegue la malcapitata, «puoi ottenere un lavoro nella nostra organizzazione se fai sesso con me». E così, in preda all' angoscia, la povera donna cede all' orrendo ricatto: «Non volevo, ma ottenere il lavoro era più importante di quello che stava accadendo, e così ho accettato». Chi si è ribellato a questo sistema ha dovuto pagare le conseguenze. «Mi ha detto di togliermi i vestiti e mi ha sbattuta contro il muro», racconta un' addetta alle pulizie alle dipendenze di un medico, «ma io mi sono rifiutata e sono corsa via». Risultato: «Arrivati alla fine del mese, non mi hanno rinnovato il contratto». Alcune vittime spiegano di essere state stordite con cocktail a base di alcolici che magari, chissà, contenevano anche droghe per rendere la preda più docile. Una di loro si è svegliata nuda e sola in una stanza d' albergo, e ritiene di essere stata violentata. «Ho perso mio marito a causa dell' Ebola», ha confessato agli autori dell' inchiesta, «invece di aiuto, tutto quello che ho ottenuto è stato un altro trauma». Una parte dei responsabili proviene dalle diverse organizzazioni non governative attive nella regione. Coinvolte, oltre all' Oms, la International medical corps (8 denunce), l' Alliance for international medical action (5), l' Unicef (3), il World food programme (2), l' International rescue comittee e il Network of media for development (una denuncia ciascuno). Le Ong hanno scelto la linea dell' omertà. Solo 24 dei 34 soggetti tirati in ballo da Reuters e The New Humanitarian hanno accettato di fornire i dati richiesti, e solo una piccola parte di essi hanno ammesso di aver ricevuto denunce di abusi. Stessa musica anche dal ministro congolese della Salute, Eteni Longondo, il quale ha candidamente ammesso di non aver mai ricevuto alcuna segnalazione ufficiale dalle zone tormentate dall'epidemia. Un drammatico circuito vizioso che non fa altro che scoraggiare le persone che hanno subito maltrattamenti, minacce e violenze a puntare il dito contro i loro aggressori. Ma più della metà dei presunti carnefici, una trentina, sono alle dipendenze dell'Organizzazione mondiale della sanità. Tra loro figurano medici, funzionari, operatori sanitari e semplici impiegati. Grazie alla complicità di una rete di autisti erano riusciti a mettere in piedi una sorta di «servizio navetta» che recapitava le sfortunate direttamente sul luogo dove si svolgevano le malefatte. Travolta dallo scandalo, l'Oms si è affrettata a gettare acqua sul fuoco. «L' Organizzazione mondiale della sanità, dirigenza e staff, esprime indignazione per i recenti rapporti sui presunti casi di sfruttamento e abusi sessuali nel contesto della risposta all' epidemia di Ebola nella Repubblica democratica del Congo», recita il comunicato diffuso a margine della pubblicazione dell' inchiesta. «L'Oms applica un politica di tolleranza zero», si legge in fondo alla nota, «chiunque verrà identificato come coinvolto sarà ritenuto responsabile e dovrà affrontare gravi conseguenze, compreso il licenziamento immediato». Ma se andiamo oltre la superficie delle formule di rito, di concreto c' è poco o nulla. Tutto viene rimandato ai risultati di una «approfondita analisi delle accuse» avviata dal direttore generale Tedros Adhanom Ghebreyesus. Poco più di un centinaio di parole per liquidare una questione gravissima, di fatto, a data da destinarsi. Per carità, almeno sulla carta la massima autorità sanitaria a livello planetario ha attivato politiche molto severe per il contrasto delle violenze e degli abusi sessuali nel corso delle missioni all' estero. Tanto che sul sito ufficiale dell' organizzazione è presente un' intera sezione dedicata alla trasparenza di tali iniziative. Nel 2017, l'Oms ha adottato un codice di condotta assai stringente che obbliga gli enti e i collaboratori a segnalare episodi di questo tipo, riservandosi in caso di violazioni delle linee guida di revocare loro il mandato nonché di impedire la partecipazione ai bandi futuri. Oltre a una rete di protezione per i whistleblower (gli individui che segnalano una violazione, ndr), è stata attivata inoltre una «integrity hotline», che permette di inoltrare una denuncia telefonicamente o via email in forma completamente anonima. Tutto bene, dunque? Non proprio, perché i veri problemi sono altri. Prima di tutto, considerata la notevole influenza che gli autori delle violenze potevano esercitare sulle loro vittime, molte donne hanno rinunciato a sporgere denuncia nel timore di future ritorsioni. Facile ipotizzare, dunque, che i casi scoperti dalle due agenzie di stampa rappresentino appena la punta dell' iceberg dei soggetti effettivamente colpiti. Secondo, quasi tutte le donne intercettate dai giornalisti non sapevano dell' esistenza della linea dedicata agli abusi. Un particolare che solleva molti sospetti sull' efficacia delle azioni messe in campo da parte dell' Oms contro gli abusi sessuali. Che stando ai fatti sembra essere tutto fumo e niente (o molto poco) arrosto. Terzo, anche quando le denunce vengono presentate, come dimostrano i dati complessivi forniti dall' Onu sulla condotta delle missioni, buona parte di esse viene archiviata (39%) oppure risulta ancora in sospeso (22%). Pessime credenziali, non c' è che dire, per i signori che pretendono di portarci in salvo dal tunnel del coronavirus.

Alessandro Fulloni per "corriere.it" il 20 ottobre 2020. Bionda, occhi azzurri, 22 anni. Assai avvenente, tanto da essersi piazzata quarta al concorso di Miss Italia del 2017. Diversi flirt, veri e presunti, con sportivi e gente dello spettacolo con cui è stata «paparazzata». L’ultimo di questi potrebbe però dare qualche grattacapo all’influencer Sara Croce, la Bonas di «Avanti un altro», il programma in onda sulle reti Mediaset condotto da Paolo Bonolis, chiamata a rispondere in solido con la madre Anna Maria Poillucci di una cifra che va oltre il milione di euro «per aver allacciato una relazione al solo fine di trarne un profitto economico per sé e per la sua famiglia, raggirando le buone intenzioni di un ricchissimo e noto uomo d’affari».

La partita a calcetto in Costa Smeralda. L’imprenditore in questione — racconta AdnKronos — e il magnate e petroliere iraniano Hormoz Vasfi — 57 anni e tante «ex» celebri, da Taylor Mega a Yvonne Sciò — che quest’estate è salito alla ribalta della cronaca anche per aver partecipato alla partita di calcetto in Costa Smeralda con Flavio Briatore. Partita che aveva creato una certa ansia tra i vip in campo dopo che il proprietario del Billionaire era risultato positivo al coronavirus. C’erano, tra gli altri, l’allenatore del Bologna Sinisa Mihajlovic, l’imprenditore Andrea Della Valle, il procuratore Dario Marcolin e anche Paolo Bonolis. Nella foto che li ritrae tutti assieme in campo il conduttore tv è proprio accanto a Vasfi che nella causa a Croce è assistito dallo studio dell’avvocato Giuseppe Iannaccone di Milano, nome tra i più noti nel mondo del diritto, il quale ha notificato e depositato in tribunale l’atto di citazione per ottenere il risarcimento dei danni pari al valore dei numerosi beni e delle somme di denaro che la Croce e la sua famiglia avrebbero ricevuto da Hormoz Vasfi nel corso del rapporto.

Il precedente tra il miliardario e l’ex Naomi Campbell. La notizia richiama l’analogo episodio che ha visto protagonisti lo scorso settembre il miliardario russo Vladislav Doronin e l’ex fidanzata Naomi Campbell, in cui lui ha fatto causa alla top model sostenendo che non gli voglia restituire beni per circa 3 milioni di dollari.

Giampiero Mughini per Dagospia il 21 ottobre 2020. Caro Dago, figurati se io sono un collaborazionista che quando il Nemico - ossia le Donne - attaccano noi Uomini parteggia irrimediabilmente per loro. Ogni caso sta a sé. E pur tuttavia in questo caso, la contesa legale tra la pin up italiana e l’aureo tracagnotto iraniano che vorrebbe indietro le centinaia di migliaia di euro che gli sono costati ogni volta i pompini e altri giochi fatti con la splendida fanciulla, sto assolutamente dalla parte della ragazza. Vittorio Feltri ha detto ultimamente che lui non ha mai incontrato un ricco che sia “un cretino”. Io non posso crederci che il ricchissimo tracagnotto iraniano sia “un cretino”, pensasse cioè che la gran fanciulla gli offrisse quel ben di dio a gratis, forse perché ipnotizzata dal suo fascino virile. Oltretutto la fanciulla ce l’ha scritto in faccia che con lei devi pagare anche solo a dirle “buongiorno”. C’era un baratto tra loro due, un baratto antico come il mondo. Un magnifico corpo femminile contro dei dindini sonanti a comprare e regalare di tutto, salvo dei libri. E a quel baratto il tracagnotto ci stava eccome. Come facesse a spendere quelle cifre per una cena con fanciulla e relativa madre non so, ma evidentemente gli andava bene. Nel senso che quel che accadeva dopo ne valeva la pena, e a meno che la fanciulla non dicesse “Mi fa male la testa, stasera non ne ho voglia”. Questo sì un argomento grave, da opporre in sede legale. Solo che di questo argomento in tribunale non c’è traccia. Né c’è traccia che la fanciulla si rifiutasse di ingoiare a fattaccio bell’e concluso. E dunque tutto ok, un baratto quanto di più legale. (Lascio a molti di voi giudicarlo quanto di più “ripugnante”, solo che così va la vita.) La ragazza non deve restituire niente perché il tracagnotto non deve e non può restituire niente. Oltretutto ci metterà cinque minuti a trovarne un’altra, altrettanto magnifica e altrettanto disponibile. Un milione di euro in più o in meno che cambia? Sono spese oggettive per la produzione del Piacere.

Paolo Bonolis e Sonia Bruganelli "stanno proteggendo Sara Croce". Avanti un altro e il petroliere, il retroscena. Roberto Alessi su Libero Quotidiano il 25 ottobre 2020. I miliardari, quelli veri, simpatici, decisamente più vecchi e generosi, che riempiono di regali e se lasciati per il giovane e bello non se la prendono anzi augurano ogni felicità, lasciando alla ormai ex abiti, casa e gioielli, e la tranquillizzano con frasi come «Però questo è uno dei pochi vantaggi dell'età: le delusioni diventano ordinaria amministrazione», esistono solo nel film «Come sposare un miliardario». Nella vita invece succedono cose dell'altro mondo ed ecco che il milionario (in euro) Hormoz Vasfi denuncia la nullatenente, ma bellissima, Sara Croce e vuole indietro tutti i soldi che lui ha speso per frequentarla nei sei mesi di fidanzamento e non importa che lei abbia 21 anni, e lui 54 («Oh! Un uomo ricco non è mai troppo vecchio!», insegnava Marilyn Monroe nel film già citato), che lui abbia case a Londra, Roma, Dubai e lei viva con la madre a Garlasco, vicino a Pavia. Diligentemente l'avvocato di Hormoz (che abbiamo conosciuto questa estate quando aveva organizzato una tre giorni di feste al Cala di Volpe in Sardegna per la nuova fidanzata Valentina), una vera star del foro, l'avvocato Giuseppe Iannaccone di Milano, ha fatto un elenco di quanto il magnate avesse dato a Sara. L'agenzia Adnkronos ha stilato l'elenco si presume leggendo la denuncia: «Un gioiello Bulgari da 50mila euro o un orologio e un bracciale Cartier (totale 34mila euro) 47mila euro spesi nelle migliori boutique di Dubai o i 66mila euro spesi a Parigi viaggi esclusivi come il Capodanno trascorso insieme a Las Vegas o l'affitto dell'appartamento in via San Marco, in pieno centro a Milano. Viaggi e cene pagati talvolta anche agli amici della showgirl a cui vanno sommati i regali per compiacere la madre della giovane compagna sebbene la coppia trascorra separata il lockdown, Hormoz Vasfi afferma di averle versato, in quei mesi, quasi 14mila euro e di aver acquistato per la famiglia di Sara anche una lavatrice, cialde per il caffè e un dvd per complessivi 900 euro. I sei mesi di fidanzamento vengono festeggiati con un bracciale da oltre 11mila euro, dopo il "nido d'amore" arriva l'acquisto di un'auto Land Rover da 45.600 euro". «Non è cara, è il suo prezzo», avrebbe detto la Mabilia dei Legnanesi. Cosa pensava Hormoz che sarebbe stato lo stesso se le avesse regalato un anellino di metallo e un week end a Viserbella? «Per la difesa», si legge sull'AdnKronos, «Sara Croce ha recitato la parte della fidanzata innamorata, ma non ha mai nutrito un sentimento sincero e per questo deve risarcire il danno patrimoniale quantificato in 1.051.548,72 euro». Alla faccia del bicarbonato di Sodio, direbbe Totò. «Non ho parole» dice l'avvocato di Sara, Angelo Pariani, «La mia cliente, che è mortificata come lei sola, una ragazza per bene, pulita, non gli deve un centesimo, e sottolinea che la Land Rover che gli aveva regalato per il compleanno, la mia assistita l'ha restituita appena finita la relazione». E si passa al contrattacco: «Sara Croce ha ora denunciato Hormoz Vasfi per stalking». E pare ci siano le prove di 450 messaggi ricevuti in 22 giorni dalla madre e dallo zio». Hormoz dal canto suo non demorde: «Erano tutti d'accordo». Per spillare quattrini?

Avanti un altro, le virgolette di Sonia Bruganelli: dubbi sulla trasmissione di Paolo Bonolis, che succede a Mediaset? Sara pare che piange tutto il giorno, e non la consola il fatto che Mediaset e Paolo Bonolis, che la sta proteggendo con la moglie Sonia Bruganelli, l'abbia confermata per la prossima stagione di «Avanti un altro». Ma come mai tanto astio? In fondo Sara e Hormoz sono stati insieme solo sei mesi, da settembre a febbraio e si sono rivisti dopo il lockdown (che lei ha passato a casa della mamma). Che c'entri qualcosa il fatto che lei a Capri, dove pare andata proprio con Hormoz, abbia conosciuto il portiere del Bari Gianmarco Fiory, bello, giovane, ricco di famiglia, caprese, e ora stia con lui? Flory ha trent' anni ed è stato preso da poco dal Bari. Durante la sua carriera non sono mancati i momenti difficili. Da La Gazzetta dello Sport si viene a sapere che nel 2016 venne denunciato per stalking dalla sua ex fidanzata Valentina. Gli fu ordinato il divieto di avvicinamento, ma il 10 novembre venne arrestato proprio in campo, davanti a tutti, durante un allenamento allo stadio Rossaghe di Lumezzane, per non aver rispettato l'obbligo disposto dal Gip di Pavia. La situazione non migliorò, tanto da finire in carcere, pare a Poggioreale. Evidentemente s' era fissato con la ex che secondo lui aveva avuto un ripensamento non confermato dall'avvocato di lei. In ogni caso, pare che Sara sia molto innamorata di Fiory. Ora lei è a Roma dove sta registrando «Avanti un altro», ma appena può lo raggiunge a Bari, dove lui è il terzo portiere. Spero che Sara dimentichi questa storia, dove ne esce come se fosse una ragazza sensibile al denaro al punto di legarsi a un uomo di 33 anni più vecchio e di dieci centimetri più basso (lei è alta un metro e 82, Hormoz sul metro e settanta). E spero anche che Hormoz recedi sulla sua volontà di andare a processo: per lui un milione di euro non sono nulla. In fondo si sono amati per sei mesi, faccia sua la battuta della Mabilia, che non sa magari nemmeno chi è: «Non è cara, è il suo prezzo».

Andrea Galli per il "Corriere della Sera" il 20 ottobre 2020. Nella causa, subito mediaticamente pubblicizzata, che ha mosso contro l'ex fidanzata Sara Croce alla quale chiede un milione e 51.548,72 euro di risarcimento, il magnate Hormoz Vasfi ha dimenticato o forse ignora d'essere a sua volta destinatario di un'azione legale che trascende le pur diffuse e tristi contese, alla fine di una relazione, legate alla restituzione di quanto speso e regalato. La 22enne pavese, modella e volto televisivo (in programmi di Paolo Bonolis), ha depositato una denuncia querela per stalking alla Procura di Milano proprio contro il 54enne, uno degli uomini più ricchi in circolazione e protagonista di una rete assai ramificata di conoscenze nello show-business. Il cuore dell'accusa di Croce, che si basa come innesco delle prove su 80 chiamate e 423 messaggi di «pressioni» di Vasfi, ricevuti in soli 25 giorni successivi la fine della storia da sua mamma e suo zio, poggia su integrazioni preparate dall'avvocato Angelo Pariani, deciso a tutelare l'assistita in sede penale e civile, a maggior ragione, sostiene, per il fatto che una vittima venga ora fatta passare per truffatrice, inevitabilmente danneggiata (non solo) a livello professionale, visto che è a inizio carriera. Come da lettura dell'atto di citazione dello studio Giuseppe Iannacone e associati (il pool di legali del magnate), lui, iraniano di Teheran, auspica di rientrare dei doni di compleanno e in generale di qualsiasi pagamento sostenuto nei mesi della storia, comprese le confezioni di cialde del caffè, un lettore Dvd e una lavatrice, adducendo un presunto tradimento (con un calciatore) di Croce quale motivo della separazione. Un'offesa e ancor prima una mancanza di rispetto a fronte della piena disponibilità, da parte del 54enne, nel soddisfare ogni richiesta dell'allora fidanzata. L'elenco inserito nell'atto di citazione comprende un «gioiello Bulgari da 50 mila euro», l'upgrade di classe (in Business) sui Frecciarossa Milano-Roma poiché «la produzione del programma» della modella «si limitava all'Economy», shopping a Dubai durante una vacanza per «47 mila euro», un orologio e un bracciale Cartier per «34 mila euro», cene di Croce con amici e genitori per «6 mila euro» a sera, spese di agenzia e locazione («10 mila euro a trimestre») per un appartamento in affitto al 28 di piazza San Marco a Milano, soggiorno a Parigi per visitare con un'amica, soddisfacendo un sogno da bambina, Disneyland («7 mila euro»). L'avvocato Pariani, nel rilevare comunque spese avvenute in piena libertà e per precisa volontà, non certo sotto ricatto, ricorda i toni di messaggi e chiamate, e si sofferma per appunto sulle frasi inerenti la denigrazione di quello poi divenuto nuovo compagno della modella; e ricorda, l'avvocato, che Croce ha restituito una Land Rover avuta per il compleanno: scelta da cui avrebbe potuto esimersi, forte del favore di sentenze di Cassazione, ma che deve intendersi col desiderio di non approfittarsi della relazione, germogliata a ottobre e chiusa a giugno, dopo un lockdown «da separati in casa». Vasfi è presenza fissa di articoli di gossip in considerazione dei rapporti con giovani soubrette e influencer quale la stessa modella, che conta 750 mila follower su Instagram, piattaforma dove il magnate, viene osservato in quell'atto, «non trova spazio alcuno, nemmeno indirettamente».

Valeria Braghieri per "Il Giornale" il 20 ottobre 2020. E quindi, tutto gratis? Ma è folle. È come restituire la carta di un Big Mac dopo aver divorato il panino e pretendere indietro 4,50 euro dal cassiere con la visierina gialla e rossa, avvolto in una nuvola di fritto. Se non hai i soldi, non compri. Vale per i metalmeccanici in fila da McDonald's e vale per i milionari davanti alle sventole. Dal «Mee too» al «Mi trop» che sta per «ti ho dato troppo», adesso me lo restituisci. Roba da pazzi. Sono piccoli, pelati, sentimentalmente spaiati ma rivestiti di dobloni e si «fidanzano» con modelle o showgirl ventenni, alte, bionde, statuarie. Quale sarà mai il collante del rapporto, l'amore? «Ma mi facci il piacere», direbbe Totò e lo diciamo anche noi. Questa nuova moda dei milionari è l'ultima incresciosa china della crisi economica in corso. Prendono una signorina, la rivestono d'oro (è l'unica cosa che li rende appetibili) e, a relazione terminata, chiedono la restituzione dell'intero investimento fatto. L'imprenditore in questione è il magnate e petroliere Hormoz Vasfi, che, tramite i suoi avvocati, avrebbe notificato e depositato in tribunale l'atto di citazione per ottenere il risarcimento dei danni pari al valore dei numerosi beni e delle somme di denaro che avrebbe elargito nel corso della loro relazione sentimentale a Sara Croce, la Bonas di Avanti un altro, il programma in onda sulle reti Mediaset condotto da Paolo Bonolis. La Croce sarebbe chiamata a rispondere in solido con la madre, Anna Maria Poillucci, di una cifra che va oltre il milione di euro «per aver allacciato una relazione al solo fine di trarne un profitto economico per sé e per la sua famiglia, raggirando le buone intenzioni del ricchissimo e noto uomo d'affari». Praticamente è, di fatto, iniziata la regolamentazione dell'attività di mantenuta, mai vista prima nella storia dell'umanità. E questo potrebbe davvero avere importanti risvolti sui Pil dei Paesi. Ma detto ciò, crolla anche l'ultimo mito: quello dell'uomo provvidenziale, del Pigamalione risolutivo che capita sempre e solo alle altre (alte, ventenni, bionde, statuarie), ma che sapevamo esistesse. Fine del «principe azzurro munifico». C'è un'incresciosa inversione di tendenza. Nessuna donna sarà più mantenuta in quanto donna, in quanto bella, in quanto «prescelta». Sì perché la notizia diVasfi, richiama un analogo episodio che ha visto protagonisti lo scorso settembre il miliardario russo Vladislav Doronin e l'ex fidanzata Naomi Campbell, in cui lui ha fatto causa alla top model sostenendo che non gli voglia restituire beni per circa 3 milioni di dollari. Solo che Doronin è uno con cui ci si fidanzerebbe anche se fosse in coda da McDonald's per un Big Mac: lo avete visto? Però questa è la fine. La fine di un sogno riservato alle altre e la fine di una professione d'eccellenza destinata a poche. Ci vogliono carattere, dedizione, scaltrezza, pelle liscia, abilità, un ottimo chirurgo plastico che ti prenda in consegna già in culla, estetista, truccatore, parrucchiere disponibili anche durante i festivi e, naturalmente, un giro di amiche identiche a te. Bisogna sapere in cosa investire, a cosa e a chi dare priorità. Ci vogliono i giri giusti, una tessera Millemiglia, gli occhi aperti e le ciglia fluenti con le quali essere femminilmente assertive, ma mascolinamente granitiche: astenersi perditempo. Solo che se adesso i milionari diventano dei cialtroni perditempo che ti richiedono il conto... Il mondo va davvero a gambe all'aria.

Sara Croce: «Vasfi mi portava in palmo di mano. Ora mi sento spiata, non sono più tranquilla». Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 23/10/2020. L’uomo vuole indietro anche la lavatrice e le cialde del caffè regalate alla mamma di lei Modella a Miss Italia 2017.

Vogliamo partire dall’inizio?

«Fine settembre 2019, cena dell’Amfar a Milano. Ero andata con un’amica e ci siamo trovate al suo tavolo».

Lui è il magnate iraniano Hormoz Vasfi.

«Quella sera mi chiese il numero di telefono e cominciò a corteggiarmi. Mi mandava l’autista sotto casa a Garlasco, mi diceva di uscire con le mie amiche e che avrebbe pagato lui il conto, mi incoraggiava ad andare a fare un massaggio con mia mamma. Mi spediva fiori, regali. Così per un mese. Poi siamo andati insieme a Dubai, dove non è successo niente. Al rientro è cominciata la nostra storia».

Sembrava fosse amore e invece era un più modesto calesse: Vasfi, 56 anni, in un atto di citazione di 30 pagine accusa Sara Croce, 22, ex Madre Natura di Ciao Darwin ed ex Bonas di Avanti un altro!, di averlo truffato, dopo averlo indotto a «credere nel futuro della relazione instaurata». Lei lo ha denunciato per stalking, dopo i 450 messaggi audio mandati su WhatsApp allo zio e alla madre in 25 giorni per denigrarla. Lui chiede indietro tutti i regali fatti (compresa una lavatrice donata alla «suocera» a Natale e le cialde del caffè), lei dice di aver reso già tutto (ma sua madre non intende restituire l’elettrodomestico, in quanto un dono). I due ex fidanzati si chiariranno in Tribunale. Chiediamo a Sara come è stato possibile arrivare a tanto, nello studio milanese del suo legale Angelo Pariani.

A dicembre Vasfi affittò un appartamento in via San Marco per lei, per un anno. Diede centomila euro di anticipo.

«Non lo chiesi io, che peraltro potevo andarci solo nel weekend».

Per Capodanno siete volati a New York. Nel milione di euro che lui rivorrebbe indietro ci sono anche i costi di quel viaggio, in business class.

«Quel viaggio fu un incubo. Partimmo con altri amici. In quei giorni io ero indisposta e non potevo assecondarlo, lui mi trattò malissimo. Arrivò a gettare dalla finestra alcune mie cose, rischiando di colpire qualcuno dal 48° piano a Manhattan. Anticipai il rientro e me ne tornai in Italia da sola. Ci lasciammo, lui bloccò il mio contatto sul cellulare. Però mi seccava chiudere così la storia, quindi più avanti lo ricontattai da un altro cellulare per chiarirci e lui tornò un uomo attento e premuroso».

Poi arriva il lockdown. Stavate ancora insieme?

«Diciamo di sì, ma in case separate. Se fossi stata calcolatrice, come mi vorrebbe far passare, sarei andata a casa sua e non nel bilocale senza balcone di mia madre in Trentino».

Finisce il lockdown. A giugno, per il suo compleanno, lui la porta a cena da Cracco e si dispiace molto perché lei non posta neanche una foto su Instagram ai suoi 765 mila follower. Questa lamentela è ricorrente con suo zio.

«Io non pubblicavo le nostre foto un po’ perché non mi sentivo sicura e un po’ perché non volevo che mio padre lo sapesse. I miei si sono separati quando ero piccola e lui non lo vedo molto».

Cosa le ha detto?

«Che mi serva di lezione. E in effetti ho imparato: adesso sto molto più attenta a chi frequento».

Ha paura?

«Sono molto agitata, mi sento spiata, non sono più tranquilla. Ho la sensazione che qualcuno mi controlli. Da qualche mese ho iniziato un percorso per farmi aiutare».

Cosa le piaceva di Vasfi?

«Mi portava in palmo di mano, mi apriva la porta, si alzava quando entravo della stanza. È un uomo affascinante, parla cinque lingue, fa discorsi interessanti. Ma poi si è rivelato orrendo».

E sua madre cosa dice?

«Mamma è disoccupata, faceva la barista. All’inizio era felice che avessi incontrato un uomo che mi trattava così bene. Ha una mentalità aperta, la differenza di età non è mai stato un problema. C’è rimasta male, non si aspettava che lui si comportasse così, ed è molto preoccupata per quello che sto attraversando».

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 22 ottobre 2020. La storia che le donne sarebbero vittime degli uomini è davvero stucchevole oltre che falsa. Vero che molte di esse vengono molestate, lo verifichiamo ogni giorno noi che ci occupiamo di cronaca. Succede da sempre e sempre succederà, benché il fenomeno sia in costante diminuzione. Ma è altrettanto reale che molti maschi devono subire le ossessive attenzioni delle femmine. Personalmente sono stato infastidito da varie signore, peraltro gelose in forma patologica, sempre alla ricerca di aiuti, spintarelle, protezioni. Le quali sono convinte che basti un sorriso o una carineria per conquistarsi favori gratuiti e continuativi da parte di colui sul quale puntano per ottenere vantaggi di qualsiasi genere, specialmente lavorativi. Devo ammettere che preferisco la presenza di una ragazza a quella di un giovanotto, non certo per motivi sessuali. Il sesso per me, mi corre l' obbligo di precisarlo, costituisce ormai soltanto una fonte di inesauribile nostalgia. Il mio problema è un altro: trovo che la conversazione e la compagnia di una dama siano più interessanti e piacevoli che non quelle di un signore, il quale di solito finisce con il parlare di calcio o di questioni retributive. Lo dico chiaramente: le fanciulle mi sembrano di norma più colte e spiritose, insomma mi piacciono di più anche se non ho alcuna voglia di stenderle sul letto, cosa che comporta una fatica superiore alle mie forze. Dopo cena le saluto e confesso che mi scoccia perfino riaccompagnarle a casa loro. Lo faccio per cortesia, nonostante mi domandi per quale ragione le donne difficilmente usino l' automobile di loro proprietà. Esigono sempre attenzioni particolari. Un esempio. Raramente al ristorante nel quale ci siamo dati appuntamento per pranzo o per cena, esse pagano il conto, non fanno neanche finta di mettere mano alla carta di credito. Stanno ferme, immobili, come se la pratica di saldare la pendenza non le riguardasse affatto. Va da sé che io sborso disinvoltamente, non essendo taccagno, mi chiedo però come facciano a considerare un obbligo maschile quello di soddisfare le richieste dell' oste. Ciò rivela la tendenza femminile a scaricare su chi le accompagna qualsiasi onere riguardante appuntamenti ludici. In pratica le signore sentono il diritto di andare a rimorchio, il che conferma la loro attitudine al gregariato. Esse poi, una volta che ti hanno accalappiato, non ti sganciano più, ti tempestano di telefonate, ti braccano, non appena ti distrai un attimo ti rubano il telefonino e lo consultano con spirito spionistico, riservandoti scenate da lavatoio qualora peschino un messaggino piccante. Sono dedite alla persecuzione. Metti caso una ti richieda un prestito. Ovviamente glielo concedi. Dopo di che lei se lo dimentica e ti frega, scordandosi persino di ringraziarti. Sottolineo che non tutte le nostre care amiche siano come quelle descritte, qualche rara eccezione c'è. Tuttavia resta il fatto incontestabile che le rotture di balle che ti infliggono le signore sfiorano il tormento, e se le mandi al diavolo c' è il rischio che venti anni dopo ti denuncino per stalking.

Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 22 ottobre 2020. Il petroliere iraniano che, lasciato da una modella di Pavia, pretende la restituzione dei soldi spesi in regali, comportandosi con lei come un qualsiasi premier del Nord Europa vorrebbe comportarsi con noi, mi ha riempito il cuore di malinconia per quasi cinque secondi. Sono cresciuto nel mito del nababbo greco Aristotele Onassis, che passava da Maria Callas a Jacqueline Kennedy senza lesinare sui diamanti, ma soprattutto senza chiederli indietro alla fine della fiera, e meno che mai pretendere il loro equivalente in denaro. Mia nonna avrebbe detto: non ci sono più i miliardari di una volta. Questo si chiama Hormoz Vasfi. Dopo averlo visto in foto, tra stempiature e pinguedini ahimè familiari, mi sentirei di escludere che le modelle si accompagnino con lui perché sono talmente stregate dalla sua avvenenza da passare sopra alla spiacevole circostanza che è ricco a palate. Se invece Sara Croce avesse davvero deciso di trascorrere il lockdown a casa di Vasfi per ragioni squisitamente sentimentali, troverei ancor più di pessimo gusto l' idea di reclamare per ripicca, e non certo per bisogno, il rimborso a piè di lista di tutto ciò che le fu donato durante la relazione. E passi per i gioielli e gli orologi, ma questuare sulla lavatrice e sulle cialde del caffè è piccineria indegna di un ricco vero, e persino di uno finto. Paragonato a costui, il Berlusconi delle Olgettine, generoso fino all' autolesionismo, fa la figura del gigante.

Andrea Tarquini per "repubblica.it" il 20 ottobre 2020. Uno scandalo di ripetute molestie sessuali fa tremare l'establishment politico danese, causa un terremoto nella socialdemocrazia - il partito di governo della giovane premier Mette Frederiksen - e riaccende il movimento #metoo con tutta la sua energia. Uno degli esponenti politici più influenti e popolari del Paese, il 59enne sindaco di Copenaghen Frank Jensen, si è dimesso oggi perché accusato di molestie sessuali e palpeggiamenti impropri ai danni di almeno nove sue giovani collaboratrici. Le accuse e le denunce contro Jensen, finora popolarissimo perché ha guidato i grandi passi avanti di Copenaghen come capitale e metropoli più verde e sostenibile d'Europa, sono state rilanciate dal quotidiano Jyllands-Posten, segnando la fine della carriera di Jensen. "Mi hanno chiesto di restare, ma ci ho dormito sopra e alla fine a mente fredda ho deciso di gettare la spugna", ha detto Jensen. "Una scelta di ignorare le accuse e restare in carica avrebbe inficiato il mio lavoro e sarebbe pesata come un'ombra su tutti i grandi progetti di cui la nostra capitale ha bisogno e continua a realizzare. Mi dimetto, e chiedo scusa alle donne che ho offeso". Ha così lasciato dopo 11 anni di successi e buon governo l'incarico di primo cittadino, e anche quello di numero due del partito socialdemocratico, che ricopriva dal 2015. La giovane prima ministra socialdemocratica Mette Frederiksen ha reagito prontamente su Twitter, dichiarando che "ogni episodio del genere è intollerabile e tutti noi della classe politica dobbiamo fare di tutto per la chiarezza, il rispetto delle donne, la verità. Dobbiamo rimettere in ordine la situazione e creare una nuova cultura nelle parole e nei fatti. E' ovvio che ci sia qualcosa che non va sul tema nel mio partito, e ciò è inaccettabile, tra noi socialdemocratici come ovunque". Desta sorpresa che la battaglia di #metoo si riaccenda proprio in Danimarca, uno dei Paesi più avanzati al mondo anche in tema di gender equality. Mette Frederiksen ha subito messo le mani avanti, secondo i media piú critici, anche perché è incalzata sul tema da una crescente mobilitazione dei movimenti femminili, e affronta scandali su ogni fronte. La prima scintilla era venuta quando Sofie Linde, una delle principali e più amata conduttrici televisive danesi, aveva rivelato in diretta che, dodici anni prima, da debuttante, aveva ricevuto promesse di veloce carriera in cambio di prestazioni sessuali da un alto dirigente della radiotelevisione pubblica, di cui non ha voluto fare il nome. Poi si è venuto a sapere che nel mondo dei media oltre il 20 per cento delle donne sono vittime di avances, promesse in cambio di piacere, palpeggiamenti. Il leader del partito social-liberale Morten Ostergaard, da anni paladino dei diritti, si è dovuto dimettere quando si è scoperto che dieci anni fa aveva palpeggiato le cosce di una collega. 

Simona Marchetti per corriere.it il 15 ottobre 2020. Molti calciatori preferiscono fare sesso a pagamento piuttosto che andare con una ragazza del posto, che potrebbe poi ricattarli. A sostenerlo – o meglio, a scriverlo nelle pagine della sua dissacrante biografia «Both Sides», che nel Regno Unito sta spopolando sui tabloid – è l’attaccante danese Nicklas Bendtner. E quei suoi colleghi che sono comunque finiti in mezzo a degli scandali che coinvolgevano delle prostitute «sono stati solo sfortunati, perché sono stati beccati coi pantaloni calati, ma credetemi che questo delle prostitute è un fenomeno molto diffuso nel calcio professionistico e tutti in questo ambiente hanno sentito di qualcuno che lo ha fatto, specialmente in Inghilterra, dove è tradizione raccontare alla squadra le proprie storie intime. Sono stato testimone in prima persona di calciatori che hanno ingaggiato delle prostitute, anche il giorno prima di una partita, quando la squadra era in ritiro in hotel in qualche posto dimenticato da Dio». Sul motivo che spinga un calciatore a pagare per il sesso l’ex Arsenal e Juventus ha la sua teoria. «Pagare una prostituta è meno rischioso che rimorchiare una che conosci in giro – assicura il danese, che oggi è tornato a giocare in patria nel Tarnby FF - e se sei incline all’infedeltà, difficilmente ti azzardi a farlo con una “normale”, a maggior ragione quando sei un calciatore famoso. So di molti incidenti che riguardano le prostitute, ma conosco altrettante storie di estorsione tramite i social media. Stiamo parlando delle cosiddette “cercatrici d’oro” che bazzicano sulla scena della vita notturna, pronte per una sc… e poi ti fotografano mentre dormi o sei nudo e quelle foto diventano la loro carta vincente e possono chiederti di tutto per tenere la bocca chiusa. E lo fanno. Con le prostitute non sei in una botte di ferro, ma almeno loro hanno una sorta di giro d’affari da tutelare». E durante il periodo Gunners lo stesso Bendtner è stato vittima di un ricatto da parte di una di queste «cercatrici d’oro». «Una volta è venuta da me una ragazza con cui ero stato a letto, dicendomi di essere rimasta incinta e che c’era un prezzo per il suo silenzio – ricorda il biondo bomber in un altro passo del suo libro -. Voleva i soldi per rifarsi il seno, così alla fine le ho pagato l’intervento dal chirurgo plastico».

Ottavio Cappellani per ''La Sicilia'' l'11 ottobre 2020. La letteratura è piena di donne che odiano gli uomini (al contrari della cosiddetta società, cioè per strada, dove si legge poco), ma questa Pauline Harmange, il nuovo caso letterario francese (i francesi sono più bravi di noi ad avere casi letterari, ma non è difficile, per i francesi, la lettura, è ancora un valore) sembra avere una marcia in più. Il suo libro “Moi les hommes, je le detéste”, più o meno “io gli uomini li detesto”, è stato duramente attaccato da un consigliere del ministero francese per la parità di genere, Ralph Zurmély, che ha minacciato un’azione legale contro l’autrice per “misandria” con queste parole: “Il libro è un’ode alla misandria senza motivazioni. Vorrei ricordarvi che l’incitamento all’odio sulla base del sesso è reato!”. E questo mi rende Paulina e le sue fiere ascelle pelose più che simpatica. I consiglieri dei ministeri non sono scrittori né editori. In ogni caso l’attacco del tipo alla tipa ha fatto schizzare le richieste del libro, stampato in poche copie da una piccola casa editrice gestita da volontari, la Monstrograph, che di fronte all’enormità delle richieste ha annunciato di avere interrotto le pubblicazioni e ceduto il libro a una casa editrice più grande. Harmange, bisessuale, è stata accusata dal “Daily Mail” di ipocrisia, perché è sposata con un uomo (suppongo da un giornalista che sarebbe meglio facesse il consigliere di un qualche ministero del farsi gli affari degli altri). Paulina ha replicato al Guardian che “mio marito è un brav’uomo, questo non mi impedisce di dire che le donne non dovrebbero fidarsi degli uomini che non conoscono”. Il che mi sembra di un buon senso disarmante. Sono uomo, parlo con gli uomini, e quello che dicono delle donne è davvero aberrante. C’è una frase che mi ha colpito del libretto “Le donne sono invitate dalla società ad amare gli uomini. Io vorrei rivendicare il diritto di non farlo”. Questa ragazza, che ha tutta la dolcezza che manca alle italiane che la pensano come lei, sembra stia soltanto combattendo per un ideale di amore puro. E per farlo è ovvio che bisogna bruciare tutto quello che amore puro non è: le pressioni sociali, il ruolo imposto, l’immagine e l’immaginario maschile. Sono in tanti ad attaccare questa giovane scrittrice dall’improvviso e inaspettato successo, che ha scritto un libro del tutto genuino, distante e molto dagli attacchi agli uomini studiati a tavolino di alcune scrittrici nostrane. Ma se è vero che l’attacco del burocrate ministeriale (non deve starci molto con la testa, dato che, in un’intervista a “Mediapart” ha detto di avere intimato all’editore di cessare la pubblicazione del libro) è stata la causa della ribalta, è anche vero che il libretto tocca alcuni argomenti, e con splendide motivazioni, tanto da fare saltare i nervi ad alcuni maschi. Mentre scrivo ricevo una telefonata. Parliamo del pezzo che sto scrivendo. Mi dicono: “L’odio in base al sesso non è una cosa giusta. L’odio non va propagato mai”. Sono d’accordo. Ma questo è un ragionamento squisitamente ‘politico’, non letterario. Lo dico da sempre, e mi sembra il caso di ripeterlo: la politica non dovrebbe mai interferire sulla pagina scritta, che è il luogo della libertà estrema. In Francia hanno avuto il coraggio di spernacchiare il burocrate e andarsi a comprare il libro. Invito gli editori italiani a darsi da fare. Anche perché, ragazze, Pauline ha ragione. I maschi sono essere orripilanti. E se ve lo dico io dovreste credermi.

Il primo accusato  del #metoo francese  (poi scagionato)  «Volevo uccidermi». Stefano Montefiori da Parigi su Il Corriere della Sera il 12/10/2020. Adesso che ha vinto il processo e che pubblica il libro «Balance ton père (denuncia tuo padre, ndr)», Éric Brion ha una voce calma, e la serenità — conquistata a fatica — di chi stava per uccidersi e ha rinunciato «perché ho pensato alle mie figlie». La vita di Éric Brion cambia alle 14 e 06 del 13 ottobre 2017, quando la giornalista Sandra Muller scrive un tweet per lanciare l’hashtag #balancetonporc, la versione francese del #MeToo americano. Un settimana dopo l’inizio del clamoroso affare Weinstein, l’idea è imitare le donne americane, rompere finalmente il silenzio e «denunciare il proprio porco», l’uomo che nelle vite di ognuna, in Francia, ha avuto l’impatto devastante del produttore cinematografico (condannato infine nel marzo scorso a 23 anni di carcere per varie violenze sessuali). Comincia la stessa Sandra Muller, e denuncia appunto Éric Brion, cinquantenne a lungo responsabile di Equidia, canale tv dedicato all’equitazione. Cinque anni prima, una sera a Cannes, Brion aveva detto a Muller «Hai un gran seno, sei il mio tipo», e di fronte al rifiuto della donna aveva aggiunto andandosene «Peccato, ti avrei fatto godere tutta la notte». Secondo Muller, Brion l’aveva «molestata sessualmente e ripetutamente, in un quadro professionale» con quelle parole seguite poi da sms insistenti. Secondo Brion invece, «l’unico sms che le ho mandato è stato la mattina dopo, per scusarmi. Non abbiamo mai lavorato insieme, non è mai stata una mia dipendente, ci conosciamo perché siamo nello stesso ambiente dei media e lei mi chiedeva di abbonarmi alla sua testata online Lettre de l’audiovisuel. Non ho mai insistito, non l’ho mai tormentata, non ho mai violentato né molestato nessuno. Riconosco di avere pronunciato quelle parole, me ne vergogno. Era tardi la sera, avevo un po’ bevuto, mi sono comportato male. Ma non tanto da meritare l’inferno». Éric Brion è stato il primo supposto «porco» del movimento #balancetonporc. Noceventomila tweet, minacce di morte, il Weinstein francese. Solo che, come la sentenza del tribunale avrebbe dimostrato due anni dopo, non era l’obiettivo giusto. «Un danno collaterale», lo avrebbe poi definito l’accusatrice, accecata dalla voglia di difendere la causa a ogni costo. Brion non ha mai negato quelle parole, «ma non riuscivo a credere che per una avance sbagliata e goffa avrei perso tutto». In pochi giorni è diventato un paria. La compagna (che non conosceva all’epoca della serata con Muller) lo ha lasciato, gli amici sono spariti, ha perso i contratti che stava negoziando per l’agenzia di consulenza appena fondata. Un uomo rovinato. «È stata la morte sociale, e volevo morire del tutto. Ma ho deciso di battermi per guardare di nuovo le mie figlie senza vergogna». Tre mesi dopo il primo tweet, Brion ha denunciato Sandra Muller per diffamazione. Un anno fa il tribunale gli ha dato ragione — nessuna avance ripetuta, nessuna molestia, nessun rapporto di potere, un solo sms, e di scuse — e ha condannato l’accusatrice a 15 mila euro di danni e a 5 mila di risarcimento di spese legali. «Una sentenza storica — dice Brion — anche se solo di avvocati ne ho spesi oltre 50 mila, gli affari non si sono mai ripresi e la macchia resta». Il suo libro è una lettera alle figlie femministe «perché conducano la sacrosanta battaglia di parità assieme agli uomini che la condividono. Quello che mi è successo non dovrebbe capitare più. Invece pochi giorni fa uno chef giapponese non ha retto alla gogna». Il 29 settembre Taku Sekine si è ucciso a Parigi dopo voci di violenze sessuali circolate sui social media e su un sito specializzato, e nessuna denuncia.

Elia Pagnoni per “il Giornale” il 19 ottobre 2020. Giù le mani da Aguero. Ormai in questo calcio vivisezionato, scandagliato, radiografato da mille angolature, tra Var e occhi di falco, ci si aggrappa a un gesto tutto sommato spontaneo e certamente non smaccato o addirittura volgare come vorrebbe qualcuno. Il Kun se l' è presa con il guardalinee, o meglio con la guardalinee di Manchester City-Arsenal per una decisione non condivisa. Niente di eccezionale, uno scambio di idee come tanti altri, nemmeno concitato, ma concluso da un braccio sulle spalle della signora o signorina, una specie di abbraccio, quasi amichevole, come si potrebbe fare con qualsiasi amica o con qualsiasi amico. Persino con qualsiasi guardalinee o arbitro, perché se l' avesse fatto con un ufficiale di gara uomo sarebbe passato inosservato. E invece no, tutti (a partire dagli immancabili social-bar) a sparare sull' argentino, accusato persino di sessismo. Addirittura l' arbitro dell' incontro è stato accusato di non aver preso provvedimenti secondo i regolamenti del calcio inglese che prevedono l' espulsione per chiunque tocchi un fischietto o i suoi collaboratori. Ma forse sarebbe anche ora di uscire un po' da questo talebanismo di facciata che punta l' indice su una banalità del genere e poi chiude gli occhi davanti a fatti ben più gravi. Noi siamo con il Kun, non fosse altro perché ha dato un tocco di naturalezza a questo sport ormai sempre più videogioco. Una volta magari agli arbitri davano anche qualche strattone di troppo, ma tanto non c' erano le telecamere... adesso ci si scandalizza per un braccio al collo. Ma quanti gesti di questo tipo vorremmo vedere anche sui nostri campi, piuttosto che le mille sceneggiate e proteste plateali e insopportabili, persino da parte di tanti allenatori. Allora Gigi Buffon, che da anni abbraccia chiunque gli passi sotto il naso, compagni, avversari, arbitri e guardalinee compresi, sarebbe già stato radiato a vita da un bel pezzo...

Luca Fazzo per “il Giornale” il 19 ottobre 2020. «Sto ridendo perché non mi importa niente, La ragazza era completamente ubriaca, non sa niente», dice Robinho. E Jairo Chagas, il musicista che lo ha avvisato dell' inchiesta: «Ci hai fatto sesso anche tu?», «No, ci ho provato». «Ti ho visto metterglielo in b...», «Questo non significa fare sesso». Una confessione al telefono, una dichiarazione che i giudici di Milano definiscono «autoaccusatoria». E che ora rischia di diventare una pietra tombale sulla carriera di uno dei più brillanti tra gli attaccanti brasiliani sbarcati in Italia: Robson de Souza Santos detto Robinho, il fuoriclasse che nel 2011 condusse il Milan alla vittoria del suo diciottesimo scudetto. Da allora in poi, ci sarebbe stata solo Juve. L intercettazione di Robinho viene resa nota venerdì da Globo Esporte e le conseguenze non si fanno attendere: ieri il Santos, il club di Rio de Janeiro dove milita il 36enne campione, lo licenzia in tronco. Il comunicato parla di «risoluzione consensuale» per consentire a Robinho di «concentrarsi sulla sua difesa nel processo». Ma la sostanza è chiara: in Brasile finora le dichiarazioni di innocenza di Robinho erano state prese sul serio, anche dopo la condanna a nove anni di carcere per stupro da parte del tribunale di Milano. «È stato un rapporto consensuale»: così l' uomo ha sempre definito l' incontro con una ragazza albanese nel retro di un locale milanese nel 2013, anno della sua ultima stagione rossonera. Ora invece le intercettazioni sgretolano la sua linea difensiva: altro che rapporto consensuale, la giovane era così ubriaca da non rendersi neanche conto di quanto accadeva. È esattamente quanto il pm Stefano Ammendola sostenne nel processo in contumacia a Robinho celebrato nel 2017, parlando di uno stupro «aggravato dalla minorata difesa e psichica della donna». I giudici furono dello stesso avviso, e inflissero al calciatore una pena di inconsueta durezza, nove anni di carcere. Robinho aveva preferito non aspettare in Italia l' esito del processo: alla fine del campionato 2013/2014, nonostante avesse ancora due anni di contratto col Milan, era precipitosamente ritornato in patria. Sapeva che nell' inchiesta milanese contro di lui pesava anche il precedente di qualche anno prima, quando una accusa identica era stata mossa di lui ai tempi del Manchester City, ed era stata poi archiviata: ma la nomea di un approccio non sempre corretto con l' altro sesso gli era rimasta in qualche modo addosso. L' episodio milanese, però, va aldilà dell' immaginabile: secondo la sentenza, Robinho si trova con la moglie e un gruppo di cinque amici al Sio Cafè, locale della movida milanese, quando adocchiano la ragazza. Allora fanno riportare a casa la moglie di Robinho e trascinano la ragazza nel retro dove la sottopongono a «plurimi e ripetuti rapporti sessuali». La sentenza è di tre anni fa, il processo d' appello non è stato ancora celebrato. Ma nei giorni scorsi, all' improvviso, i reporter brasiliani si mettono a caccia della sentenza. E alla fine la trovano.

Da calciomercato.com il 6 ottobre 2020. Nel pieno dell'ultima giornata di calciomercato, con la Juventus intenta a definire l'operazione Federico Chiesa, dalla Spagna arriva una notizia che poco ha a che fare con il pallone: possono arrivare nuove accuse di stupro per Cristiano Ronaldo, può riaprirsi il caso Kathryn Mayorga. CR7 era stato dichiarato innocente in seguito alle accuse avanzate dalla modella statunitense ma, riferisce Deportes Cuatro, un nuovo esame può rimescolare le carte. Come si legge infatti, tutto ruota attorno ai 300mila euro che Ronaldo pagò a Mayorga per mantenere la segretezza dell'accaduto, che risale a una notte a Las Vegas nel giugno 2009. La modella e i suoi legali intendono dimostrare che, nel momento in cui ha firmato questo accordo, Kahtryn non stava bene mentalmente. Pertanto, si sottoporrà a un esame di capacità mentale con il quale intende dimostrare di non conoscere tutti i termini di contratto o le conseguenze derivanti dall'accettare quei 300mila euro nel 2010. Mayorga dovrà comparire in un tribunale di Las Vegas con l'esito del test e, qualora il giudice accolga il rapporto, Ronaldo dovrà affrontare una nuova udienza pubblica. CR7 si concentra sul campo e lascia al lavoro la sua squadra di avvocati che, riferisce Deportes Cuatro citando fonti vicine ai legali, sottolineano di aver già provato con tutti i mezzi possibili la capacità mentale di Kathryn Mayorga al momento dell'accettazione dell'accordo.

Cristiano Ronaldo e Kathryn Mayorga "sodomizzata" e stuprata: "Vuole altri 200mila dollari. Chi è la vittima e chi il carnefice?" Libero Quotidiano il 12 ottobre 2020. «Quale donna entra nella camera da letto di un uomo per consigli spirituali? Io ci sono entrata soltanto quando non mi dispiaceva l'idea di». La domanda e la risposta le ha poste in un'intervista la poetessa Patrizia Valduga, la compagna di un intellettuale di prima grandezza come Giovanni Raboni. Eppure l'ex modella americana Kathryn Mayorga giura che nel 2009 quando raggiunse Cristiano Ronaldo nella sua suite in un albergo di Las Vegas dove era andato a giocare una partita ci era andata solo per passare una serata come un'altra e che importa anche se erano le tre di notte, e che non si erano mai visti prima di allora. E ora pensa di poter riaprire il caso. Lei ci era andata con un'amica, Cristiano nella suite era con altri tre ragazzi. Lei era andata a spogliarsi in un bagno perché sarebbero entrati tutti quanti nell'idromassaggio. Ma lui l'aveva raggiunta e le mostrò quanto aveva di più intimo, la portò in camera da letto, e lì hanno consumato un rapporto. Li aveva raggiunti poco prima anche un amico di lui: tutto bene? E Kathryn non aveva detto nulla, ma per lei quella era stata una violenza carnale («Mi sodomizzò»). Perché non urlò? Perché non chiamò l'amica? E con l'amica non parlò nemmeno quando tornarono insieme a casa, sole. Il giorno dopo andò dal medico, si fece fare un certificato che attestava un certo gonfiore nella zona, conservò i vestiti. Quindi andò dalla polizia a fare la denuncia, ma non disse il nome del presunto violentatore «uno sportivo», scrisse nella denuncia, pare. Infine mise tutta la pratica completa nelle mani di un avvocato, che con i legali di Cr7, che era già una stella famosa, arrivò a un accordo per chiudere la pratica: 300mila euro e la firma di un patto di riservatezza sia per lui sia per lei. Zitti e muti. Ma il patto venne annullato d'ufficio quando i documenti arrivarono sul tavolo di un giornale tedesco, e così lei ha potuto tornare all'attacco l'anno scorso, ma le andò male: il procuratore di Las Vegas dopo aver esaminato la nuova indagine della polizia sulle accuse di stupro da parte della Mayorga, ha stabilito che esse «non possono essere provate oltre ogni ragionevole dubbio e che quindi non saranno contestati capi d'accusa» al calciatore. Ma ora il caso rischia di riaprirsi: un giudice del Nevada ha infatti rigettato la richiesta dei legali del portoghese di annullare la causa civile che la donna ha intentato contro di lui. Secondo un'agenzia spagnola un nuovo esame potrebbe infatti rimettere in discussione tutto. La prossima mossa degli avvocati della donna, sarebbe infatti quella di dimostrare che al momento dell'accordo preso con Cristiano Ronaldo per ritirare le accuse, Kathryn Mayorga non era nelle piene condizioni mentali (ma non era assistita da uno studio legale?). Insomma 300mila euro erano pochi, e chiede altri 215.000 dollari per i presunti danni causati proprio da quell'accordo. È difficile, ma forse non così tanto, capire chi è la vittima e chi il carnefice.

Francesca Pierantozzi per “il Messaggero” il 29 settembre 2020. Tutti sapevano, tutti ne avevano parlato e tutti avevano anche deciso di archiviare, tanto si sa, nel mondo della moda la zona grigia diventa addirittura trasparente: poi ieri, cambio di passo a Parigi dove la procura ha deciso di aprire un' inchiesta per stupro e aggressione sessuale, anche su minore, ai danni di Gérald Marie, l' ex direttore europeo dell' Agenzia Élite. I fatti risalgono agli anni Ottanta, e Novanta, potrebbero non essere tutti prescritti e secondo la legale delle accusatrici, Anne-Claire Lejeune (che si occupa già del capitolo francese dell' affare Epstein) potrebbero anche incoraggiare altre testimonianze. Era l' epoca in cui Élite numero uno al mondo - inventò la top model. Erano gli anni di Naomi, Cindy e Linda, ma anche quelli delle ragazzine che sognavano la copertina di Vogue e si ritrovavano nei locali di Milano o a casa del loro agente, costrette a barattare un lavoro, o il miraggio di un lavoro, con droga e prostituzione. Per ora sono in quattro ad aver parlato: tre ex modelle (Carré Otis, interprete di Orchidea Selvaggia e ex moglie di Mickey Rourke, la svedese Ebba Karlsson, Jill Dodd, creatrice della linea da surf per ragazze Roxi) e la giornalista inglese Lisa Brinkworth. Nel 1998 Brinkworth infiltrò il mondo della moda per documentare la vita delle ragazzine aspiranti modelle. Ai magistrati ha raccontato che nella notte tra il 5 e il 6 ottobre si ritrovò in un locale milanese con Gérald Marie che «le saltò addosso mentre era seduta su una sedia e cominciò a spingere il suo sesso verso il basso ventre». Alla fine il documentario uscì, provocò in un primo tempo le dimissioni di due dirigenti di Élite, tra cui Gérald Marie, ma poi le parti si invertirono, l' agenzia denunciò la tv inglese per diffamazione, riabilitò i dirigenti che aveva licenziato e alla fine raggiunse un accordo con la BBC. L' accordo prevedeva tra l' altro che la giornalista Brinkworth non avrebbe tirato fuori la storia della sua aggressione né tantomeno ne avrebbe mai parlato con la polizia. Se questo fosse provato, «potrebbe saltare il termine della prescrizione» ha spiegato l' avvocata della Difesa. Alla BBC assicurano oggi di voler cooperare: «Abbiamo discusso con la legale, vogliamo mettere a disposizione tutte le bobine del documentario, collaboreremo pienamente con la giustizia». Gérald Marie ha scelto il Sunday Times per dire che «nega tutte le accuse categoricamente». Come le aveva negate nel '98, presentandosi sorridente in una popolare emissione della tv francese con due giovani modelle al fianco. Già marito di Linda Evangelista, oggi 70enne, Gérald Marie aveva parlato allora di un non affare, prima di essere reintegrato nelle sue funzioni alla guida di Élite, che ha lasciato nel 2012 per dirigere una nuova agenzia, Oui Management. Ai magistrati francesi Carré Otis ha ripetuto quanto scritto nella sua autobiografia: che Gérald Marie la violentò molte volte nel 1986, quando lei aveva 17 anni. Lo aveva conosciuto grazie a Linda Evangelista, sua amica, e all' epoca fidanzata del capo di Élite, che avrebbe sposato poco dopo. Simile il racconto di Ebba Karlsson, che ha detto di essere stata aggredita nel grande ufficio del direttore nella sede parigina di Élite nel '90, quando lei aveva vent' anni. Jill Doll ha invece denunciato uno stupro nell' 80 (anche lei aveva vent' anni) . «In molti altri dossier simili a questo, le testimonianze delle vittime di violenze sessuali, anche se prescritte, hanno incoraggiato altre vittime a prendere la parola e a denunciare» ha spiegato l' avvocata Le Jeune, che difende anche le vittime di Jean-Luc Brunel, fondatore di diverse agenzie di modelle e accusato di aver fornito ragazze all' americano Epstein. Una posizione confermata dal procuratore di Parigi Remy Heitz, secondo il quale la giustizia non esita ormai ad aprire fascicoli su fatti in apparenza prescritti, per assicurarsi che non ci siano «vittime dimenticate».

 Da "blitzquotidiano.it" il 17 settembre 2020. Nuova accusa di molestia sessuale contro Donald Trump. Stavolta a lanciarla, a 23 anni dal presunto episodio, è l’ex modella Amy Dorris. In un’intervista al Guardian, la Dorris sostiene di aver dovuto subire un bacio con “la lingua in gola” dall’attuale presidente americano durante gli Us Open del 1997, mentre erano entrambi ospiti di un box riservato a spettatori vip. Amy Dorris, che oggi vive in Florida, afferma di essersi sentita allora “disgustata e violata”. “Mi infilò la lingua in gola e io lo spinsi via”, ma lui continuò “a stringermi sempre più stretta ed allungare le sue mani ovunque, toccando il mio sedere, il mio seno, la mia schiena, qualsiasi cosa”, si legge nell’intervista della donna.

Trump nega le accuse. Accuse che peraltro Trump smentisce categoricamente attraverso i suoi avvocati – riporta lo stesso Guardian – negando di aver mai assaltato sessualmente l’ex modella o di essersi mai comportato con lei in modo inappropriato.  L’ex modella ha fornito al Guardian alcune prove a sostegno del suo racconto compreso il suo biglietto per gli US Open e sei foto che la mostrano con il magnate immobiliare a New York. Trump aveva 51 anni all’epoca ed era sposato con la sua seconda moglie, Marla Maples. Dorris, che ora ha 48 anni ed è madre di due figlie gemelle, ha detto di aver preso in considerazione l’idea di parlare pubblicamente dell’incidente nel 2016, quando diverse donne hanno reso pubbliche accuse simili contro l’allora candidato repubblicano alla presidenza. All’epoca però aveva fatto marci indietro perché pensava che così facendo avrebbe potuto danneggiare la sua famiglia. “Ora che le mie ragazze stanno per compiere 13 anni, voglio che imparino a non permettere a nessuno di farti qualcosa che non vuoi”, ha detto. “Voglio diventare un modello e che vedano che non ho taciuto e che ho tenuto testa a qualcuno che ha fatto qualcosa che era inaccettabile”.

Da "blitzquotidiano.it" il 17 settembre 2020. Emily Ratajkowski sostiene di essere stata vittima di un’aggressione sessuale da parte del fotografo Jonathan Leder, nel corso di uno shooting di nudo nel 2012. La supermodella sostiene inoltre che il fotografo avrebbe pubblicato quelle stesse foto quattro anni dopo, senza il suo consenso. Lui ha negato definendo le accuse “totalmente false” e come un tentativo di ottenere “visibilità mediatica e pubblicità”. Emily Ratajkowski, 29enne star di Instagram con 26 milioni di follower, sostiene di essersi recata nell’abitazione di Leder nei Catskills (a Nord di New York) per alcuni scatti che sarebbero dovuti essere pubblicati su una rivista chiamata Darius. In un articolo scritto per The Cut, la Ratajkowski racconta il primo incontro con il fotografo. “Più sembrava disinteressato, più volevo dimostrarmi degna della sua attenzione. Sapevo che impressionare questi fotografi era una parte importante per costruire di una buona reputazione”. Nella casa, insieme al fotografo, c’erano anche una truccatrice e due bambini. “Quando ha posato della lingerie su una sedia, ho iniziato a capire che tipo di ragazza voleva che fossi. Il mio agente non aveva detto che avrei dovuto posare con la biancheria, ma non ero preoccupata; avevo già fatto innumerevoli servizi di lingerie” continua il racconto.

La presunta violenza. Dopo il primo shooting, lei e Leder avrebbero cenato insieme. “Mi sono assicurata di non mangiare troppo, mentre Jonathan mi riempiva silenziosamente il bicchiere e io continuavo a bere”. Dopo il quarto bicchiere di vino, Leader le avrebbe suggerito di posare senza veli. “Nel momento in cui ho lasciato cadere i miei vestiti, una parte di me si è dissociata. Ho cominciato a galleggiare. Guardavo me stessa dall’esterno, mentre mi sistemavo sul letto”. Poco dopo, la truccatrice sarebbe uscita dalla stanza e, a quel punto, sarebbe avvenuta la presunta violenza. “Mi sono irrigidita quando la sua presenza si è dissolta dal soggiorno. Ero arrabbiata con lei per avermi lasciata sola, ma non volevo ammettere a me stessa che la sua presenza aveva fatto la differenza” scrive ancora la Ratajkowski. Poi entra nei particolari: “Non ricordo baci, ma ricordo che le sue dita erano improvvisamente dentro di me. Sempre più forte, spingeva come nessuno mi aveva toccato prima né mi ha mai toccato da allora. Faceva davvero, davvero male. Ho portato istintivamente la mia mano al suo polso e ho tirato fuori le sue dita da me con forza. Non ho detto una parola. Si è alzato di scatto e si è precipitato silenziosamente nell’oscurità su per le scale. Non ho mai detto a nessuno quello che è successo, e ho cercato di non pensarci”.

Leder nega le accuse. Jonathan Leder, contattato dalla rivista, ha negato le accuse, definendole “troppo pacchiane e infantili per rispondere”. Il fotografo ha ribadito con forza la sua innocenza in una intervista rilasciata al Daily Mail: “Le accuse della signora Ratajkowski sono totalmente false. Mi dispiace per lei, è arrivata a un punto della sua carriera in cui deve ricorrere a tattiche come questa per ottenere visibilità mediatica e pubblicità. È vergognoso. Penso che sia anche vergognoso pubblicare accuse così sordide, dozzinali e infondate contro chiunque”.

La gogna. “Palpeggiava le pazienti”, ma fa il senologo… Tortoriello sospeso e sbattuto in prima pagina: “Mi stanno uccidendo”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 17 Settembre 2020. “Mi stanno uccidendo, mia moglie e mia figlia non meritano tutto questo”. A parlare è il medico Raffaele Tortoriello, specialista senologo presso l’istituto nazionale per la cura dei Tumori Pascale di Napoli, sbattuto questa mattina sulle home page di tutti i siti locali perché coinvolto in una indagine per presunte violenze sessuali e destinatario della misura cautelare interdittiva della sospensione dall’attività di medico svolta presso il Day Surgery Senologia del Pascale, nonché dalla professione sanitaria privata, per la durata di dodici mesi. Il professionista respinge tutte le accuse ed è pronto a dimostrare la sua innocenza, difeso dall’avvocato Ugo Raia. “Faccio questo lavoro da decenni, ho visitato centinaia di donne e non sono mai andato oltre le normali pratiche mediche” spiega Tortoriello, destabilizzato dalla ribalta mediatica del caso. “Sono stato sbattuto ovunque, la mia foto è su tutti i giornali. Mi hanno già fatto passare come colpevole ma siamo solo nelle fasi iniziali di una inchiesta in cui dimostrerò la mia completa estraneità. Sono una persona perbene, impegnata nel sociale e nelle attività di volontariato” aggiunge. Le indagini, partite dopo la denuncia di due donne, sono state condotte dagli agenti del commissariato Arenella e dalla Squadra Mobile di Napoli, guidata dal primo dirigente Alfredo Fabbrocini, sotto il coordinamento del pool Fasce deboli della Procura, guidato dal procuratore aggiunto Raffaello Falcone. Le presunte violenze sarebbero avvenute nel periodo compreso tra giugno 2018 e novembre 2019. Stando alla denuncia di due donne, di età compresa tra i 20 e i 30 anni, i fatti sarebbero accaduti sia al Pascale che nello studio privato di Tortoriello. La prima denuncia riguarda un solo episodio, avvenuto nell’ospedale napoletano a giugno 2018, di presunto palpeggiamento. La seconda invece è relativa a un periodo più esteso (agosto-novembre 2019) e riguarda una serie di visite al Pascale e allo studio privato a cui si è sottoposta una giovane donna. Quest’ultima ha denunciato presunti atteggiamenti ambigui del professionista che avrebbe in più occasioni visitato a mani nude le parti intime senza indossare guanti. Circostanze che sono poi state confermate da alcune perizie mediche disposte dagli investigatori.

L'odissea di un carabiniere napoletano. “Il fascicolo è stato manipolato”, l’odissea di un ex carabiniere condannato per molestie. Viviana Lanza su Il Riformista il 13 Settembre 2020. «Ho depositato per quattro volte i tabulati telefonici, quelli originali che dimostrano le manipolazioni e sostengono la mia tesi, e puntualmente quei tabulati sono spariti dal fascicolo processuale. Li ho depositati due volte in cartaceo, due volte con posta certificata all’indirizzo di posta certificata del tribunale, e li ho depositati poi, di nuovo, anche nel corso delle udienze del processo ma stranamente quei documenti sono sempre andati smarriti. Strano che in un fascicolo si perdano così tanti documenti… Come si fa a decidere in queste condizioni le sorti di una persona e indirettamente della sua famiglia?».

R.C. racconta la sua odissea giudiziaria iniziata a Bologna quindici anni fa. «Ho individuato 24 tabulati mai prodotti nelle indagini seppure richiesti e seppure il sottoscritto sia stato condannato al pagamento delle spese processuali riguardanti anche quei tabulati», spiega. Ritiene di essere stato processato e condannato sulla base di ricostruzioni in qualche modo condizionate dalle anomalie che denuncia, dagli atti smarriti, da tracciati telefonici non corrispondenti agli originali (in alcuni mancano i due sms che smentirebbero la ricostruzione della vittima e di una teste chiave), da atti relativi a indagini difensive depositate ma non confluite nei fascicoli processuali. Coincidenze o cos’altro?

R.C. è convinto della propria innocenza, intenzionato a presentare un ricorso straordinario alla Corte di Cassazione e a chiedere la revisione del processo. Porterà all’attenzione dei giudici di legittimità anche una delle più recenti attestazioni, firmate dalla cancelleria della Cassazione, in cui si scrive che «come certificato il 16 dicembre 2019, tutti i documenti analiticamente indicati nella richiesta depositata presso la cancelleria in quella data non risultano inseriti nel fascicolo e neppure nei faldoni pervenuti al seguito atti come documentazione processuale allegata alla impugnazione proposta al giudice di legittimità».

R.C. sta conducendo da anni questa battaglia legale, e a volte gli sembra di combattere contro mulini a vento. L’ultimo ostacolo lo sta vivendo in questi giorni: «Non trovo un avvocato disposto a rappresentarmi con il gratuito patrocinio nel ricorso in Cassazione», racconta. Lui, ex carabiniere in carriera (ex, perché a seguito di questa vicenda giudiziaria ha dovuto lasciare l’Arma), ora rischia di finire in carcere per via di una condanna divenuta nel frattempo definitiva. Per raccontare la sua storia bisogna tornare indietro fino al luglio 2005, in una piccola caserma della provincia bolognese. R. C. viene dalla Campania e lì, in Emilia, ci finisce per lavoro. È maresciallo capo e in quell’estate i rapporti con il collega che gestisce la stazione non sono dei migliori per motivi legati all’organizzazione del lavoro. R.C. è tra quelli che non ci stanno più a far finta di non vedere quel che accade in ufficio. Sta di fatto che un giorno in caserma viene convocata una donna: bisogna consegnarle una denuncia sporta sei mesi prima («e mai consegnata all’interessata, come accadeva per gli altri civili che accedevano in caserma, tanto che ero io ad affannarmi per consegnare quegli atti», spiega). Quella donna viene ricevuta da R.C. e lo accuserà poco dopo di molestie sessuali. R.C. respinge con forza quell’odioso reato, si difende sin da subito dimostrando che per come è fatta la caserma un episodio del genere non sarebbe sfuggito agli occhi di altri colleghi. C’è poi il dettaglio della relazione sentimentale tra la donna che lo accusa e il collega con cui lui era in contrasto ma, come nel caso di altri elementi emersi dalle indagini difensive, non viene considerato rilevante da chi procede per la sua colpevolezza. R.C. finisce quindi a giudizio e viene condannato. Si becca anche un’accusa di calunnia. Inizia così il suo lungo calvario giudiziario.

 Mauro Zanon per ''Libero Quotidiano'' l'11 settembre 2020. «L' affaire Dsk mi ha rovinato la vita». Sono passati nove anni dal 14 maggio 2011, quando l' allora presidente del Fondo monetario internazionale (Fmi), Dominique Strauss-Kahn, fu arrestato a New York con l' accusa di aver violentato una cameriera del Sofitel originaria della Guinea, Nafissatou Diallo. Nove anni di silenzio interrotti ieri da un' intervista al settimanale francese Paris Match, nella quale la Diallo afferma di essere stata «privata di giustizia». «Da quel giorno, è cambiato tutto», ha detto al magazine parigino l' ex cameriera, oggi 41enne. Il processo penale si era concluso con l' archiviazione decisa dal procuratore distrettuale di Manhattan, per mancanza di credibilità di Nafissatou Diallo (aveva mentito su numerosi episodi del suo passato). In sede civile, invece, le due parti avevano trovano un accordo finanziario nel dicembre 2012. Ma la cifra, grazie alla quale la Diallo aprì un ristorante di cucina africana nel Bronx, "Chez Amina", è stata rivelata soltanto ieri da Paris Match: 1 milione di dollari. «Volevo uscire da questa storia il prima possibile», ha spiegato, raccontando di essere stata «sommersa di lettere» e di «minacce di morte» che l' hanno costretta ad abbandonare l' appartamento in cui abitava e a farsi più discreta.  «Questa storia mi perseguiterà fino alla fine dei miei giorni. Mi è impossibile restare in silenzio. Ho dunque deciso di raccontare la mia versione dei fatti. Non mi riprenderò mai dal modo in cui i procuratori di New York mi hanno trattata. A causa di ciò che mi hanno fatto subire, ho avuto voglia di suicidarmi. Sono stata trattata come una prostituta», ha attaccato la Diallo, rievocando il momento in cui entrò nella suite 2806, e un uomo nudo, Dsk, la aggredì. «Sono stata realmente stuprata», ha ribadito. La Diallo è sicura di una cosa: «Se fosse stato povero, senza una casa, un clochard, oggi sarebbe in prigione». L' affaire del Sofitel segnò la caduta di Dsk, favorito, nel 2012, per diventare il presidente della Repubblica francese. Nafissatou Diallo, ora, pubblicherà anche un libro per raccontare la "sua" verità e lancerà una fondazione in difesa delle donne immigrate che, come lei, «hanno vissuto situazioni orribili».

Valeria Robecco per il Giornale l'11 settembre 2020. Un nuovo scandalo rischia di travolgere la dinastia che ha creato una delle firme più prestigiose della moda italiana nel mondo. La famiglia Gucci ha un passato segnato da faide generazionali, evasione fiscale e un omicidio, e torna a far parlare di sé dopo che Alexandra Zarini, pronipote del fondatore della maison, Guccio Gucci, ha accusato di abusi sessuali l'ex patrigno Joseph Ruffalo. Nella denuncia presentata presso la California Superior Court di Los Angeles, la 35enne - nipote di Aldo, colui che ha trasformato una pelletteria artigianale in un colosso globale - ha affermato che Ruffalo ha commesso violenze contro di lei per anni con la complicità della madre, Patricia Gucci, e della nonna, Bruna Palombo. Le due sarebbero state infatti a conoscenza dei suoi comportamenti, ma li avrebbero taciuti. Secondo i documenti del tribunale rivelati dal New York Times, l'uomo - un musicista che ha lavorato con Prince e Earth, Wind & Fire - ha iniziato ad abusare di lei da quando aveva circa 6 anni, fino ai 22. Alexandra ha raccontato che lui si sdraiava regolarmente a letto nudo con lei, l'accarezzava, e ha tentato di penetrarla con le mani. Nella deposizione la giovane ha poi spiegato che la madre non solo era a conoscenza degli abusi sessuali, ma l'avrebbe aiutata a prepararsi per gli incontri con Ruffalo, al quale permetteva di riprenderla nuda nella vasca da bagno, e pure di picchiarla regolarmente. Sia Patricia che la nonna l'avrebbero minacciata affinché continuasse a mantenere il silenzio, dicendole che altrimenti l'avrebbero diseredata e nessuno della famiglia le avrebbe più parlato. Quando aveva circa 16 anni - si legge nelle carte depositate - la nonna le chiese se l'allora patrigno la stesse molestando: la nipote ha risposto di sì, e la donna le ha detto di mantenere il segreto. Gucci e Palombo «hanno cercato di evitare, a tutti i costi, quello che capivano sarebbe stato uno scandalo che avrebbe potuto offuscare il nome Gucci e potenzialmente costare loro milioni di dollari». «Sono profondamente dispiaciuta per il dolore che Ruffalo ha causato ad Alexandra - ha dichiarato Patricia al Nyt - È imperdonabile, sono rimasta sconvolta quando lui mi ha rivelato tutto a Londra nel settembre 2007 e ho immediatamente avviato la procedura di divorzio». «Ma sono ugualmente devastata dalle accuse contro di me e sua nonna, completamente false», ha proseguito. L'avvocato di Ruffalo, Richard Crane Jr, ha spiegato: «Al mio cliente non è stato notificato nulla e non ha letto la denuncia, pertanto non è a conoscenza di tutte le accuse. Ma nega categoricamente tutto ciò di cui è stato informato». «Quando erano sposati lui e la moglie erano molto preoccupati per la salute mentale di Alexandra e hanno preso provvedimenti per affrontare la sua instabilità. I loro sforzi sono falliti, pare». Il legale potrebbe fare riferimento al noto uso di cocaina e crystal meth di Zarini, poi andata in un centro di disintossicazione a Tucson su sollecitazione della madre.

Niccolò Zancan per “la Stampa” il 27 agosto 2020. Il presidente del consorzio che gestisce i trasporti pubblici della Basilicata è stato riconfermato il 20 agosto al termine di un'assemblea mezza deserta. È ancora lui, quindi. È ancora Giulio Leonardo Ferrara, nonostante una condanna definitiva per violenza sessuale. Come è potuto accadere? L'assessore alla mobilità regionale si chiama Donatella Merra, ha 34 anni, candidata con la Lega, è l'unica donna nella giunta della Basilicata. Per cinque giorni non ha voluto commentare la nomina. Ieri ha scritto una riflessione sul sito della Regione: «Chi si trova a gestire il delicato mondo dei trasporti, nella sua più ampia e palese complessità, non può abbandonarsi ad una semplice caccia alle streghe. L'assessore non si lancerà in valutazioni di natura etica e morale, scostandosi dal suo ruolo in questo momento così delicato e per un servizio così fondamentale. Avallare posizioni, sebbene assolutamente vicine alla sua più profonda sensibilità, ma che nulla hanno a che fare con il ruolo della istituzione che rappresenta, non giova alla risoluzione di un annoso problema come quello del trasporto. Lascio la questione etica e morale alla competenza di chi è deputato a valutarla». Siamo a Potenza. I fatti all'origine di questa storia sono riassunti in un capo di imputazione che incomincia così: «Per aver afferrato la dipendente all'interno del suo ufficio da direttore regionale, abusando di relazioni d'ufficio e di autorità, portandola con forza e contro la sua volontà a subire atti sessuali». Per quella violenza sessuale compiuta nel 2009, Giulio Leonardo Ferrara è stato condannato in via definitiva a 2 anni e 6 mesi. La sentenza della Cassazione è stata depositata il 19 febbraio 2020. Tranne un periodo di sospensione dall'incarico, Ferrara non ha mai smesso di lavorare. È stato rimesso al suo posto con una procura speciale che aggirava il codice etico del Cotrab (Consorzio trasporti azienda Basilicata), nominato presidente, ora è stato riconfermato per un secondo mandato. È una nomina privata, fra società di trasporti. È stata voluta anche da Giuseppe Francesco Vinella, presidente nazionale dell'Anav, l'associazione nazionale dei viaggiatori. Ma se la conferma di Ferrara è un atto privato, il suo ruolo come presidente di Cotrab è pubblico. Per esempio: c'era anche lui in prefettura a riprogrammare i trasporti locali dopo il lockdown. Il diretto interessato non vuole commentare. «Vi accanite su una vecchissima vicenda» dice l'avvocatessa Angela Pignatari. «La questione è stata affrontata in sede penale e avrà i suoi risvolti in sede civile. Per il resto, in tutti questi anni, non ci sono mai stati problemi di relazione con il signor Ferrara. La sentenza non comporta pene accessorie come l'interdizione dai pubblici uffici. Se quelle società private hanno deciso così, è perché sono state fatte tutte le valutazioni del caso». La prima a sollevare una questione di opportunità è stata l'avvocatessa Cristiana Coviello, che in Basilicata si occupa di violenza sulle donne, diritti e pari opportunità: «Sapere di quella nomina è stato uno schiaffo in faccia. Ho sentito il bisogno di prendere posizione. Sapevo che, dopo la sentenza definitiva, era stata avanzata una richiesta di dimissioni da alcuni consiglieri di minoranza. Ma non solo le dimissioni non sono arrivate, ecco un nuovo mandato. E nessuno che ci trovasse niente da ridire. Quanto vale la dignità di una donna?». La lettera firmata dall'avvocato Coviello è stata raccolta dal movimento «Dalla stessa parte». La petizione che chiede la destituzione dall'incarico del presidente ha raggiunto 20 mila firme in due giorni.

Francesco Grignetti per “la Stampa” il 28 agosto 2020. Se si fosse trattato di una condanna per corruzione, una condanna a 2 anni e 6 mesi avrebbe garantito che non gli sarebbe stato possibile ricoprire un incarico di rilievo pubblico. Siccome però la condanna, ormai definitiva, con il suggello della Cassazione, è per violenza carnale, ecco che al signor Giulio Leonardo Ferrara, come avete letto su questo giornale ieri, è stato possibile diventare presidente del Consorzio trasporti Basilicata, ossia il consorzio (tra società private) concessionario del trasporto pubblico nelle province di Potenza e Matera. Un soggetto privato, ma dove pesa l'opinione della Giunta regionale, di centrodestra, che ha un assessore ai Trasporti donna e leghista, Donatella Merra. Da ieri, però, c'è una ministra che dice No. Paola De Micheli, Pd, ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, ha fatto sapere di essersi mobilitata. Di avere «messo in atto tutto quanto nelle mie possibilità affinché il presidente del Cotrab, venga rimosso dall'incarico». Lo ha scritto la stessa De Micheli su Facebook, aggiungendo di essere «sgomenta come donna, prima ancora che come ministra dei Trasporti». De Micheli ha infine annunciato di voler «proporre una norma con la quale chi ha subito condanne per gli stessi motivi di Ferrara non acceda mai più a simili incarichi». Occorre infatti una norma che dichiari l'incompatibilità tra gli incarichi di rilievo pubblico per i condannati in sede definitiva non soltanto nel caso di reati contro la pubblica amministrazione, ma anche di carattere sessuale. Una riforma del genere non dovrebbe essere difficile da portare avanti in Parlamento. Ieri, per dire, l'ex presidente della Camera, Laura Boldrini, Pd, che ha un certo seguito trasversale tra le deputate, annunciava di avere depositato un'interrogazione sulla vicenda «a dir poco sconcertante», chiedendo al governo quali azioni intendesse intraprendere per far sì che il presidente di Cotrab sia rimosso subito dall'incarico. Tanto più che al momento la vittima della violenza sessuale è costretta a convivere con il suo carnefice, dato che lei è una dipendente e lui il suo capo. «Come ha fatto - si chiedeva Boldrini - l'assemblea elettiva di Cotrab a mostrare un tale disprezzo per la sofferenza e la legittima paura di questa donna? Non posso che unirmi all'indignazione delle associazioni, dei centri antiviolenza e dei sindacati che hanno denunciato pubblicamente questa decisione. L'abuso di potere contro le donne non è più tollerabile». Il M5S lucano già tre giorni fa invocava le sue dimissioni, e se del caso, una riforma della legge. «È davvero pessimo - aveva sostenuto il consigliere regionale Gianni Leggieri - quanto avvenuto per la presidenza del consorzio Trasporti Basilicata, con Ferrara riconfermato come se nulla fosse. Questa rielezione è davvero uno sfregio per tutte quelle donne vittime di violenza che decidono di denunciare, e chi lo ha votato è di fatto complice di questo sfregio. Ci mettiamo nei panni della vittima: come deve sentirsi ora che il suo carnefice è stato riconfermato, esponendola così anche a ritorsioni? Se c'è un vuoto normativo, andrà colmato». E intanto la petizione lanciata online dal gruppo «Dalla Stessa Parte», per arrivare alle dimissioni o alla rimozione del neopresidente Giulio Ferrara, lanciata quattro giorni fa, ieri sera aveva superato le 34 mila firme.

Basilicata, si è dimesso Leonardo Ferrara, il presidente Cotrab condannato per violenza sessuale.

Pubblicato venerdì, 28 agosto 2020 da La Repubblica.it. Si è dimesso il presidente del Cotrab Giulio Leonardo Ferrara, rieletto nella scorsa settimana a capo del consorzio di aziende del trasporto locale della Basilicata. La rielezione è stata al centro di una dura serie di giudizi negativi e ieri è intervenuta pure il ministro alle infrastrutture e ai trasporti Paola De Micheli. Il caso era stato in particolare sollevato da una petizione di change.org che aveva raccolto oltre 42 mila firme. Giulio Ferrara è stato condannato in via definitiva a una pena di due anni e sei mesi per violenza sessuale ai danni di una dipendente della società Sita Sud di cui era direttore al momento dei fatti (2009) e in cui lo stesso svolge ancora funzioni. Numerose sono state le prese di posizione, compresa una diffida della consigliera regionale di parità Ivana Pipponzi a tutela della lavoratrice.

CASO FERRARA. Ma guarda chi parla di violenza. Roberto Marino il 29 agosto 2020 su Il Quotidiano del Sud. Otto righe: fredde, secche, asciutte senza un cenno di scuse, ma con un passaggio che la dice lunga sullo spessore morale di una certa classe dirigente. Giulio Ferrara, presidente del Cotrab si è dimesso ma solo perché la «decisione scaturisce dalla violenta campagna di stampa a seguito del recente rinnovo dell’incarico». Giulio Ferrara, per chi ancora non lo sapesse, è stato condannato nei tre gradi di giudizio per violenza sessuale, per aver abusato di un’addetta del consorzio da lui guidato. La donna, non solo ha subito la violenza e lo choc, ma anche dopo la condanna del suo aggressore, ha dovuto svolgere il proprio lavoro sotto lo stesso tetto. Una violenza moltiplicata giorno per giorno, mentre lui si apprestava a ricoprire, come se nulla fosse, il secondo mandato. Il tutto nel silenzio della classe politica lucana, di destra e di sinistra, salvo isolate eccezioni. Ferrara ha deciso di mollare solo quando si è reso conto che la vicenda aveva turbato l’opinione pubblica italiana, fino a coinvolgere ministri e prestigiosi altri esponenti. Dottor Ferrara, non appartiene al nostro stile e al nostro modo di fare giornalismo, ma una volta tanto, rivendichiamo la «violenta campagna stampa», la quale comunque non ha mai toccato livelli di squallore come certe vicende giudiziarie. Lei ha perso un’occasione, come l’hanno persa quelli che sono rimasti in silenzio o si sono arrampicati sugli specchi (vero, assessore Merra?) senza far notare l’incompatibilità, anche se in un consorzio privato, con una condanna imbarazzante. Ha perso l’occasione di chiedere scusa in pubblico alla persona abusata e di dare un segnale forte di umiltà e dignità. Invece ha scelto il veleno contro i giornali, (ma dov’è la novità?) i quali si sono limitati a riportare lo sdegno e il disagio dell’opinione pubblica. Al punto che già si parla di creare una legge proprio per evitare il ripetersi di casi come il suo. Niente di personale, facciamo il nostro lavoro, ma, forse, la parola violenza sarebbe il caso che per un po’ uscisse dal suo vocabolario. Un titolo o un articolo non hanno niente a che vedere con altri tipi di violenza. Ci siamo capiti, mica dobbiamo fare esempi.

Estratto dell’articolo di Giuseppe Videtti per “la Repubblica” il 28 agosto 2020.(…)

Quando sono accaduti i fatti che contesta a Domingo?

«Lo conobbi il 14 giugno 1999 a Roma. Gli piacqui molto e subito mi invitò a sostenere un'audizione a Washington. Da quel momento iniziò un vero stalkeraggio telefonico, chiamava anche in piena notte. Una volta, alle tre passate - io dormivo accanto a mio marito - lui mi disse: "Ah, non voglio ingelosire il mio rivale!". Mi scritturò per Parsifal, Racconti di Hoffmann, Carmen; poi per Traviata a Los Angeles. La moglie, Marta, fu subito molto sospettosa nei miei confronti, ebbe un atteggiamento indagatorio: "Come mai sei qui?". Le spiegai che mi aveva convocato suo marito ma lei, che curava la regia, fu molto ostile. Domingo invece fu assillante, entrava in camerino, nel mio appartamento o mi invitava nel suo con il pretesto di vedere insieme un video della mia Traviata. Io sul divano, lui che si avvicinava sempre più allungando le mani. Può immaginare. Dovetti chiamare una mia amica approfittando di un attimo in cui era in bagno, per venire a salvarmi».

Le posso chiedere quale fosse l'entità delle molestie? Erano avances, comportamenti inappropriati o violenze?

«Erano avances, comportamenti inappropriati e anche violenze, perché ogni suo tentativo veniva respinto da me con determinazione. La cosa peggiore è che abusava del suo potere: eravamo in un posto di lavoro, lui era il mio "capo", mi vergognavo per lui. Baci troppo vicini alla bocca, approcci evidenti, l'invito nel suo appartamento privato dove la violenza è stata anche fisica perché baciava e non voleva essere respinto. Il sindacato dei musicisti americani (AGMA) ha avuto finalmente la possibilità di svolgere le indagini in maniera regolare» . (L'inchiesta dell'AGMA conclude che non c'è stato alcun abuso di potere ma «comportamenti inappropriati che vanno dal flirt al corteggiamento» , ndr).

(…) «Io non sono uscita allo scoperto finché non ho saputo che Domingo voleva pagare una cifra importante agli avvocati perché i risultati fossero secretati; questa cosa mi fece montare la rabbia. Non si può comprare tutto! (...)

Le è capitato di essere molestata anche da altri colleghi? Sa di colleghe che sono state molestate e hanno taciuto?

«Sì, mi è capitato e so di altre colleghe che hanno taciuto» . (…)

Da repubblica.it il 28 agosto 2020. ''Sono sconcertato dalle dichiarazioni gravemente lesive rilasciate da Luz del Alba Rubio nei miei confronti e le contesto fermamente. Trovo anche molto grave e inappropriato il coinvolgimento della mia famiglia che al contrario, come me, l'ha invece supportata da anni e lei stessa più volte lo ha dichiarato pubblicamente oltre che a noi". Lo ha detto, in una nota, il maestro Placido Domingo in seguito alle dichiarazioni rilasciate in un'intervista a la Repubblica di oggi dal soprano Luz del Alba Rubio, in cui lo accusa di "avances, comportamenti inappropriati e anche violenze". Secondo la cantante "la cosa peggiore è che abusava del suo potere: eravamo in un posto di lavoro, lui era il mio "capo", mi vergognavo per lui. Baci troppo vicini alla bocca, approcci evidenti, l'invito nel suo appartamento privato dove la violenza è stata anche fisica perché baciava e non voleva essere respinto". Domingo, che stasera e domani sarà impegnato all'Arena di Verona per due serate di Gala, respinge però tutte le accuse e ricorda di non essere mai stato giudicato colpevole da alcun tribunale. Il celebre tenore spagnolo ad oggi non è mai stato denunciato per alcun reato, non è mai stato sotto processo e non ha mai subito alcuna condanna - penale o civile - in nessun paese al mondo.

Da "ilmessaggero.it" il 19 agosto 2020. L'attore Cuba Gooding Jr è stato accusato di aver violentato una donna. Lo riferisce il sito della Bbc. Il fatto sarebbe avvenuto in una stanza d'albergo a New York nel 2013, ma un rappresentante legale di Gooding ha parlato di accuse non vere. Intanto l'attore, che ha vinto un Oscar nel 1997 per il film "Jerry Maguire", dovrà affrontare una causa civile intentata dalla presunta vittima. Secondo il racconto dell'accusatrice, la cui identità non è stata rivelata, dopo un incontro in un bar di Manhattan nell'agosto 2013, Gooding Jr avrebbe invitato la donna a prendere un drink in un hotel poco lontano. Arrivati in albergo, l'attore, sempre secondo il racconto della donna, le avrebbe manifestato la necessità di cambiarsi i vestiti, invitandola a salire nella sua camera dove l'avrebbe violentata. L'avvocato di Gooding Jr, Mark Jay Heller, ha negato le accuse definendole, in un'intervista al New Yok Times, «completamente false e diffamatorie». La donna ha chiesto un processo e un risarcimento per i danni subiti. 

Da "ilmessaggero.it" il 19 agosto 2020. Con alcuni post su twitter l’attrice americana Rose McGowan accusa il regista premio Oscar Alexander Payne di molestie sessuali che sarebbero avvenute quando lei aveva 15 anni. «Mi hai fatto sedere e mi hai mostrato un film porno soft-core che hai realizzato con uno pseudonimo», racconta l’attrice che è anche tra le rappresentanti di spicco del movimento MeToo e tra le prime accusatrici di Harvey Weinstein. «Ricordo ancora il tuo appartamento a Silver Lake», scrive, raccontando che dopo «mi hai lasciato all’angolo di una strada. Avevo 15 anni». In un successivo post su twitter, in cui pubblica anche una sua foto da adolescente, la McGowan aggiunge: «Voglio solo un riconoscimento e delle scuse. Non voglio distruggere nessuno. Questa ero io a 15 anni».

Barbara Costa su mowmag.com il 7 agosto 2020. Metooiste, femministe, a raccolta! Detentrici del bene e delle regole, di ciò che si deve fare e no, di ciò che è giusto, opportuno, morale alla causa del progresso della donna, dove siete? Al mare, in montagna? E stavolta non avete tempo di indignarvi, costruire barricate via social per salirci su? Non vi interessa più? Avete finalmente trovato un uomo che vi rispetta e onora e ascolta, e calma le vostre fregole? Felice per voi, e però, vorrei farvi notare che la vostra paladina ne ha fatta un’altra: Asia Argento è su tutti i giornali e i siti di gossip (e non solo) perché paparazzata tra le braccia di un 17enne, non si sa se suo nuovo amore o no. Uno famoso, tale Andrea Pittorino, promettente attore, diretto da Asia medesima nel suo film "Incompresa". Vi sembra corretto, conveniente, o non ve ne frega niente, perché per il progresso del genere femminile, come voi lo volete, Asia Argento non serve più, non si adatta più, mentre quando accusava Weinstein sì, quando era di moda andare addosso agli uomini e farli a pezzi sì, tutti sotto accusa perché possessori di peni sicché porci e orchi a prescindere… ma ve lo ricordate quel tempo? O ne è passato troppo, di tempo, e il lockdown ha mutato anche il vostro sdegno un tanto al chilo? Dunque, che si fa? Voi ve lo bacereste un ragazzino? Ve lo portereste in trionfo quale vostro trofeo, premio, medaglia, prova inconfutabile di cosa la vostra femminilità riesce ancora a fare? Oppure no? Siete forse tra quelli che (sempre via social s’intende, de visu non sia mai!) incolpano Asia di essere penosa, di vergognarsi perché potrebbe essere la di lui madre, e che questa è solo l’ennesima trovata per apparire? A parte che le foto tra Asia e Andrea mi sembrano le poche in questa estate di flirt organizzati a sembrar veri scatti rubati, chi ce lo dice che stanno insieme, magari sono solo amici, colleghi…Non è che il vostro furore progressista, care metooiste, new-femminist o come cavolo vi chiamate ora, si è spostato verso cause a vostro parere superiori, verso altri lidi, altri yacht… Non mi dite che si è spostato a lodare la coppia Francesca Pascale - Paola Turci! Che meraviglia, quello sì che è amore, e chi lo mette in dubbio. Quelle loro sono soprattutto vacanze progressiste, non trovate? Sono il simbolo di ciò che è lodevole: vacanze esclusive, pagate col sudore delle fronte, dopo anni di sacrifici, di duro lavoro, sì, sì, quello sì che è il trionfo del merito, di ciò che una donna si è guadagnato. Certo, certo, ma solo a me un po’ puzza tutto questo osannare l’amore omosessuale come fosse più delicato, speciale, diverso da quello etero, quando invece è uguale, stesse gioie e spine, ve lo posso assicurare! Tutta questa affettazione, che sento e leggo, e sussiego, e smancerie… ma che vi dovete far perdonare? A proposito di amori, passioni a notevole differenza d’età: non mi dite che, se la coppia Argento-Pittorino fosse stata a sesso inverso, sarebbero scoppiati applausi, elogi, pacche sulle spalle per l’"attempato" ancora in grado di dimostrare al mondo la sua virilità. No, vero? Voi non siete così, mica siete così indietro! Paladini e paladine del giusto e del bene, è ancora in caldo la Cancel Culture? No, perché, se volete dare addosso a qualche amore del passato davvero proibito, allora andate a Londra, alla Tower House, e citofonate a casa Page. Jimmy Page, non ditemi che non lo conoscete, il chitarrista dei Led Zeppelin, colui che ha fatto e firmato un bel pezzo di storia del rock mondiale. Sapete, lui, anni fa, quando era 30enne, ebbe una storia con una 14enne, Lori Maddox, sua fan, sua groupie. 14 anni. Sesso da denuncia sicura, specie negli Stati Uniti, dove vivevano la loro relazione con la benedizione della madre di lei ma in totale clandestinità, chiusi giorni e notti in hotel con la paura che la polizia venisse ad arrestarlo. Una storia illecita, bollente e magnifica, per chi se la sa gustare togliendosi gli odierni paraocchi della moralità. Se poi ci metti che Jimmy Page era – e per me è – un figo da paura, e che faceva – e chissà se ancora fa – sesso sadomaso…

Da "Il Messaggero" il 7 agosto 2020. A soli 23 anni si è suicidata Daisy Coleman, protagonista del documentario di Netflix Audrie & Daisy, in cui ha raccontato lo stupro subito quando aveva 14 anni. Lo ha rivelato la madre su Facebook. «Mia figlia Catherine Daisy Coleman si è tolta la vita stanotte - ha scritto Melinda Coleman -. Era la mia migliore amica e una figlia fantastica. Penso che abbia immaginato che potessi vivere senza di lei, ma non posso. Speravo di essermi fatta carico del suo dolore, non si è mai ripresa da ciò che quei ragazzi le fecero e non è giusto». Nel documentario, Daisy racconta di essere stata violentata nel gennaio 2012 ad una festa a Maryville, in Missouri. Insieme a lei c'era Audrie Pott, un'altra vittima che si è tolta la vita nel 2012, pochi giorni dopo essere stata violentata. Il caso di Daisy ha attirato l'attenzione nazionale, ma i capi di imputazione contro il 17enne che lei ha accusato furono archiviati senza alcuna condanna, secondo i Coleman per via dei legami politici locali della famiglia del ragazzo. La notizia fece scalpore a livello nazionale, e la famiglia Coleman fu costretta a lasciare il Maryland per via degli abusi e delle minacce subite online e a scuola da Daisy dopo l'accaduto.

Da lastampa.it il 2 agosto 2020. La procura di Parigi ha chiesto la riapertura dell'inchiesta sulle accuse di stupro contro Gérard Depardieu, archiviata nel giugno 2019. Ad accusare l'attore francese, un'attrice di vent'anni, che ha presentato ricorso dopo l'archiviazione dichiarandosi «parte lesa». Un atto che porta quasi automaticamente all'apertura di un fascicolo. L'avvocato di Depardieu, Hervé Temime, non ha voluto commentare la notizia, secondo quanto riferiscono i media francesi. Nel giugno 2019, a conclusione di indagini preliminari durate nove mesi, l'inchiesta era stata archiviata con la spiegazione che «le numerose indagini svolte» non avevano permesso di raccogliere prove sufficienti per andare a processo. La prima denuncia era stata presentata alla fine di agosto 2018 alla gendarmeria di Lambesc (località della zona delle Bocche del Rodano) da una giovane attrice, la quale denunciava che le violenze sarebbero avvenute nella casa parigina della star, nel 6° arrondissement, nella prima parte di agosto 2018. La procura di Aix-en-Provence aveva immediatamente avviato un'indagine preliminare ma aveva poi rinunciato a favore della procura di Parigi, territorialmente competente. L'attore di 71 anni, mostro sacro del cinema francese ed internazionale, era stato ascoltato dalla polizia ed aveva sempre negato la veridicità delle accuse.

Depardieu accusato di stupro: riaperte le indagini. Enrica Roddolo il 2 agosto 2020 su Il Corriere della Sera. La donna che lo accusa dal 2018 si è costituita parte civile e ha riaperto il caso, archiviato per insufficienza di prove. Sembrava una vicenda chiusa, dopo quasi un anno di inchiesta, archiviata per insufficienza di prove. Ma l’anonima, giovane attrice che da due anni accusa Gérard Depardieu di averla violentata nell’agosto del 2018 non si è data per vinta. Si è costituita parte civile, affinché la Procura di Parigi riaprisse le indagini e rinviasse il dossier a un giudice istruttore che di solito, in casi come questi, decide di investigare più a fondo.Per la star del cinema francese, oggi 71enne, si profilano dunque nuovi interrogatori, confronti, riscontri per ricostruire che cosa avvenne davvero nel suo appartamento del 6° Arrondissement di Parigi il 7 e il 13 agosto del 2018.

L’accusa della giovane attrice. La versione della giovane donna, allora 22enne, studentessa di danza e pianoforte, figlia di un conoscente di Depardieu, è che si era rivolta al celebre attore per avere consigli sulla carriera teatrale. Dopo aver frequentato la scuola d’arte drammatica Cours Florent, dal nome del fondatore, François Florent, la giovane allieva è andata due volte a casa di Depardieu perché valutasse le sue attitudini. Certamente l’una o l’altro sono stati incauti a restare soli. Secondo la ragazza, le prove di recitazione si erano concluse con un’aggressione sessuale, che ha descritto un paio di settimane dopo alla gendarmeria di Lambesc, in Provenza, su consiglio di sua madre, allarmata dai suoi malori.

La riapertura del caso. Convocato dalla polizia, Depardieu è caduto dalle nuvole e ha negato tutto. Ma la notizia è diventata presto di dominio pubblico, sulla scia del caso Weinstein, il produttore americano pluri-accusato di stupro, e della campagna #MeToo, che nella versione francese è diventata #BalanceTonPorc, denuncia il tuo porco. Il fascicolo è passato da Aix-en-Provence a Parigi per competenza territoriale, ma gli inquirenti dopo nove mesi non avevano abbastanza elementi per poter procedere a un’incriminazione. Con la scelta della ragazza di costituirsi parte lesa, la questione passa nelle mani di un altro magistrato. L’avvocato difensore Hervé Temime opta per il no comment sugli sviluppi sfavorevoli a Depardieu.

La difesa dell’amica-attrice Sandrine Kiberlain. Ma tra quanti scommettono sulla sua innocenza c’è l’attrice Sandrine Kiberlain, schierata con il memorabile interprete di Cyrano de Bergerac fin dal primo momento: «Finché non ci sono prove — aveva considerato a caldo ai microfoni di Rtl — Gérard resterà per me l’uomo emozionante, brillantissimo, spiritoso e geniale che ho conosciuto». E se invece risulterà colpevole, «saremo tutti tristi, e lui per primo, io penso».

Estratto dalla newsletter sull'Asia di Giulia Pompili, giornalista de ''Il Foglio'' il 10 luglio 2020. Dopo ore di ricerche la polizia di Seul ha trovato il corpo senza vita del suo sindaco, Park Won-soon. Intorno alle dieci del mattino, ora locale, si era allontanato dalla sua casa di Bukaksan – un quartiere antico di Seul che proprio lui aveva contribuito a conservare – dicendo alla figlia delle parole che facevano sospettare un addio. Park ha cancellato tutte le riunioni e gli incontri della mattina, citando motivi di salute, e ha spento il telefono cellulare. E' stata proprio la figlia a dare l'allarme, e nel giro di un paio di ore sono iniziate le ricerche. La polizia non ha confermato, ma secondo le indiscrezioni della stampa sudcoreana, il sindaco Park si sarebbe tolto la vita. Il suo corpo è stato trovato all'interno del parco tra la porta più a nord di Seul, Sukjeongmun, e il monte Baegaksan, che sovrasta la Casa Blu, il palazzo presidenziale di Seul. Il giorno prima, Park aveva presentato un “Green new deal” per la capitale, un progetto di lunghissimo respiro che mira a trasformare la città (tra le più inquinate del mondo) in una città ecologica entro il 2050. La sera stessa, secondo una notizia confermata sia dall'agenzia di stampa sudcoreana Yonhap sia dalla Bbc, una ex segretaria del sindaco Park è andata alla polizia e ha sporto denuncia per molestie sessuali contro Park. La donna ha presentato anche dei messaggi Telegram scambiati con il sindaco, e secondo la sua versione ci sarebbero altre donne a corroborare le sue accuse. Park Won-soon, sindaco di Seul dal 2011, aveva una reputazione straordinaria. E' stato l'artefice di un progetto di trasformazione della capitale sudcoreana, oggi tra le più vivibili al mondo – tranne che per il problema dell'inquinamento, per il quale era in cantiere il Green new deal. Ex avvocato dei diritti umani, aveva fatto la scuola superiore di avvocatura insieme con l'attuale presidente sudcoreano, Moon Jae-in. Nel 2011 si era candidato a sindaco come indipendente, appoggiato da tutti i partiti della sinistra. Una mezza rivoluzione, per un paese conservatore come la Corea del sud, che dava fiducia a un politico molto liberal e con idee poco ortodosse: voleva fare di Seul una città vivibile, verde, e soprattutto sharing (lo Sharing Seul City Project è ormai copiato in tutto il mondo). La tenuta politica di Park è evidente da un dato: è stato eletto per tre mandati consecutivi, il massimo possibile per il ruolo di sindaco di Seul. L'ultima volta nel 2018, e aveva altri due anni davanti a sé. Park era spesso considerato come un possibile concorrente alla leadership del Partito democratico di Moon Jae-in. Oltre alla trasformazione della città, Park era apprezzato soprattutto per la sua attività in difesa dei diritti. Fu il primo a concedere uno spazio pubblico agli attivisti che chiedevano la verità sull'affondamento del traghetto Sewol, una tragedia che fece 476 morti e ancora oggi mai del tutto chiarita (qui un lungo racconto). All'epoca, al governo centrale, c'era Park Geun-hye, figlia del presidente autoritario che il sindaco Park aveva combattuto da ragazzo. Non solo: nella primavera del 2016 Seul è diventato il luogo del risveglio della società civile sudcoreana. Il luogo della dissidenza. Per mesi, tutte le settimane, e senza mai un momento di tensione, milioni di persone sono scese in strada per chiedere al governo di Park Geun-hye di chiarire alcune faccende legate alla corruzione. La “candlelight revolution” era appoggiata e sostenuta dal sindaco Park. Quelle manifestazioni sono finite poi con un processo d'impeachment per la presidente Park e l'elezione del democratico Moon Jae-in. D'altra parte, di recente si sta muovendo qualcosa, in Corea del sud, anche sul riconoscimento di un problema sociale fondamentale, quello che riguarda il rapporto tra gli uomini e le donne, e il senso di intoccabilità che finora hanno avuto gli uomini, specialmente quelli più anziani o potenti, nei confronti delle donne. Non c'è stato un vero movimento MeToo, perché i problemi sono più diffusi, più articolati, meno sintetizzabili in un hashtag. Ma una nuova generazione di donne ha iniziato a parlare, a far valere i propri diritti e nell'ultimo paio di anni ci sono stati vari processi per molestie, che prima, spesso, non si celebravano nemmeno. A fine aprile Oh Keo-don, sindaco di Busan, la seconda città sudcoreana, si è dimesso dopo essere stato accusato da una sua collaboratrice di molestie. Ha ammesso il “comportamento scorretto”, e si è scusato. La notizia però è stata per giorni sulle pagine dei giornali sudcoreani, come in un grande choc collettivo. Per capire il possibile suicidio di Park bisogna considerare tutto questo contesto. Da un lato c'è la politica: i giornali conservatori ora insisteranno su una notizia che nessuno si aspettava, e che non è stata ancora verificata perché non è nemmeno iniziata un'indagine sulle presunte molestie sessuali. Dall'altro c'è la questione dei suicidi in Corea del sud: una società in cui la pressione sociale è quasi insostenibile, tanto che il paese ha superato il Giappone per numero di suicidi, il tasso più alto tra i giovani sotto i 25 anni. Il fallimento, personale o professionale, non è ammesso. Le accuse – vere o infondate – nemmeno.

Stefano Montefiori per il "Corriere della Sera" l'8 luglio 2020. «Uno stupratore all'Interno, un complice alla Giustizia», urlano una ventina di femministe che manifestano davanti al ministero e all'Eliseo a pochi metri. Il nuovo governo francese guidato dal premier Jean Castex si è riunito per il primo consiglio dei ministri dell'ultima fase della presidenza Macron, quella che dovrebbe condurlo alla rielezione nel 2022. Ma le critiche sono arrivate prima ancora di cominciare. Il nuovo ministro dell'Interno è Gérald Darmanin, 37 anni, il più giovane a ricoprire una carica così importante. Nel governo precedente Darmanin era ministro dei Conti pubblici, Macron ha voluto premiarlo per la dedizione e la grande capacità di lavoro; ma Darmanin è accusato di violenza sessuale da una donna che lo ha denunciato nel 2018 e, nonostante un primo proscioglimento, il 9 giugno scorso la Corte di appello di Parigi ha ordinato la ripresa delle indagini sul suo conto. I fatti risalgono al 2009, quando Darmanin si occupava degli affari giuridici del partito Ump allora al potere sotto la presidenza Sarkozy. Una donna, Sophie Patterson-Spatz, si è rivolta a lui nella speranza di fare annullare la condanna ricevuta anni prima per ricatti e telefonate moleste all'ex compagno. Secondo la denuncia, Darmanin avrebbe promesso di aiutarla in cambio di favori sessuali. E dopo una serata al celebre club libertino Les Chandelles di Parigi il futuro ministro l'avrebbe violentata in una camera d'albergo. Darmanin si è sempre proclamato innocente. Nella vicenda di Parigi, e anche nell'altro caso che lo riguarda a Tourcoing, la città del Nord della quale è tornato sindaco vincendo le municipali del 28 giugno. Qui una donna lo ha accusato di averla indotta ad avere relazioni sessuali in cambio di un aiuto a ottenere casa e lavoro nel 2015. Questo procedimento è stato archiviato senza alcun addebito nel 2018. «Le indagini a carico di Darmanin non sono un ostacolo», rispondono fonti dell'Eliseo che sottolineano l'importanza di rispettare la presunzione di innocenza, oltretutto dopo un'assoluzione in primo grado. Ma per le militanti femministe è uno scandalo. «È allucinante - dice Caroline De Haas del collettivo «Nous Toutes -. La nomina di Darmanin è la più clamorosa marcia indietro sulla lotta alle violenze sessuali che, ricordiamolo, era stata definita dallo stesso Macron come "la Grande Causa" del suo mandato». Darmanin all'Interno non è la sola scelta a suscitare proteste. Il «complice alla Giustizia» sarebbe l'avvocato Eric Dupond-Moretti, il più famoso principe del foro francese, protagonista di trasmissioni televisive e spettacoli teatrali e adesso nuovo ministro della Giustizia. Nei mesi scorsi Dupond-Moretti si è segnalato per i giudizi durissimi contro la magistratura, e per le frasi sprezzanti nei confronti del movimento MeToo. Quando la ex segretaria di Stato per la parità uomo-donna Marléne Schiappa ha ottenuto l'approvazione della legge contro gli insulti sessisti, nel 2018, Dupond-Moretti commentò che «certe donne non sopportano di non essere più fischiate per strada». Al Consiglio dei ministri Dupond-Moretti si siede allo stesso tavolo di Schiappa, trasferita dalla «parità uomo-donna» alla «cittadinanza», alle dipendenze del ministro dell'Interno, Gérald Darmanin.

Laura Zangarini per corriere.it l'1 settembre 2020. Già incriminato dalla giustizia all’inizio dell’estate per stupro e aggressione sessuale su quattro presunte vittime, il celebre pornodivo Ron Jeremy si ritrova ad affrontare 20 nuove accuse di stupro e di abusi sessuali su una 15enne. Lo ha reso noto lunedì 31 agosto il procuratore distrettuale di Los Angeles. Ron Jeremy, 67 anni, che ha all’attivo oltre 2.000 film porno dalla fine degli anni ‘70, era stato a lungo oggetto di tali accuse all’interno della professione ed era stato tenuto lontano da vari eventi negli ultimi anni.

Le nuove accuse. Nel giugno scorso è stato ufficialmente accusato dello stupro di tre donne e aggressione sessuale di una quarta. Il suo arresto e, successivamente, la sua apparizione in tribunale hanno scatenato una nuova ondata di denunce a suo carico. Ron Jeremy, che si è dichiarato totalmente «innocente» su Twitter, si dichiarerà «non colpevole» per questa nuova serie di accuse, ha riferito il suo avvocato. Alcune di queste accuse risalgono al 2004, quando Ron Jeremy, il cui vero nome è Ronald Jeremy Hyatt, avrebbe aggredito un’adolescente a una festa. In questo caso l’accusa è di atti osceni e di penetrazione forzata da parte di un oggetto estraneo. Le nuove accuse portano a 17 il numero delle presunte vittime di Jeremy, che vanno dai 15 ai 54 anni, e coprono un periodo di 16 anni.

L’ultima aggressione sessuale pochi mesi fa. Secondo quanto riferito, l’aggressione più recente è stata commessa su una donna di 21 anni fuori da una attività commerciale a Hollywood il 1 ° gennaio 2020. Se condannato, Ron Jeremy, attualmente in custodia, potrebbe finire i suoi giorni in prigione: rischia una sentenza all’ergastolo di oltre 250 anni. Sempre in giugno, il suo avvocato, Stuart Goldfarb, ha negato apertamente le accuse contro il suo cliente, assicurando che «non era uno stupratore». «Ron, nel corso degli anni e per quello che è, è stato il partner di più di 4.000 donne (...) Le donne gli saltano addosso», è la tesi di Goldfarb.

Le indagini del procuratore. Al centro del documentario del 2001 «Porn Star: The Legend of Ron Jeremy», il pornodivo è l’ultimo dei grandi nomi dell’industria dello showbiza trovarsi faccia a faccia con il sistema giudiziario di Los Angeles per gli abusi sessuali da quando è emerso nel 2017 il movimento #MeToo contro la violenza contro le donne. In totale, la squadra appositamente creata dal procuratore di Los Angeles per indagare sui crimini sessuali a Hollywood si è interessata a una ventina di potenziali sospetti. Tra loro c’è il magnate e produttore cinematografico Harvey Weinstein, condannato a 23 anni di carcere a New York ma allo stesso tempo accusato di aver abusato di altre tre donne a Los Angeles.

Dagonews  il 7 agosto 2020. Ci sono decine di altre donne che accusano il porno attore Ron Jeremy di stupro e violenza sessuale. Jeremy è stato arrestato alla fine di giugno dopo essere stato accusato da quattro donne. Quelle accuse hanno squarciato il velo e ora molte altre sono pronte a parlare. Già pochi giorni dopo l’arresto, il dipartimento dello sceriffo della contea di Los Angeles ha ricevuto almeno 30 accuse di stupro forzato e tentazione contro la porno star. E molte altre sono state fatte in altre parti del paese. Un nuovo rapporto pubblicato dal “Los Angeles Times” racconta di sei nuove presunte vittime della pornostar. Secondo il Times ogni storia ha un sottotesto comune: se Ron vedeva qualcosa che voleva, se lo prendeva e basta. Lianne Young, per esempio, ha raccontato al giornale che una notte Jeremy è sgattaiolato dietro di lei in un locale sulla Sunset Strip di L.A. Era il giorno di Halloween del 2000 e a quei tempi lei faceva la pornostar con il nome di “Billie Britt”, era in bikini nella ex House of Blues per una festa dell’industria del porno, lui è arrivato, l’ha spinta sopra un tavolo e l’ha penetrata. Il tutto davanti a tre famosi dirigenti dell’industria. Un’altra donna, anche lei dell’ambiente dell’hard, ha confessato di aver sempre avuto troppa paura della presa che Jeremy aveva nell’industria del porno per parlare quando lui l’ha attaccata a Chicago, nel 2014. In un bar Jeremy l’ha presa in grembo finché lei non ha provato a scappare e lui l’ha inseguita e l’ha costretta a fare sesso orale: “A un certo punto ha tirato fuori il suo pene mentre io, me lo ricordo ancora vividamente, stavo piangendo”, ha detto Elle, aggiungendo che ha premuto il suo pene così forte contro di lei da averle lasciato un’abrasione ai suoi genitali. Alana Evans, presidente della “Adult Performers Actors Guild”, era alla stessa festa di Halloween in cui sarebbe stata violentata Lianne Young, e dice che le aveva parlato di quell’aggressione. “Fa le cose senza chiedere”, ha detto Evans. “Ci sono molte persone che pensano che siccome siamo attrici hard sia giusto toccarci in modo inappropriato o violentarci”. Voci sulla presunta cattiva condotta sessuale di Jeremy sono circolate nel settore dell'intrattenimento per adulti da decenni, tuttavia sono state rese pubbliche solo negli ultimi anni. La svolta è arrivata nel 2017, quando Ginger Banks ha compilato una serie di accuse contro Jeremy in un video di YouTube di 10 minuti. Mesi dopo, Rolling Stone ha pubblicato le accuse mosse da una dozzina di donne che affermavano che Jeremy le palpeggiava o, come spiegato dettagliatamente da due presunte vittime, le violentava violentemente. Jeremy dopo quell’articolo è stato espulso dall'industria cinematografica, ed è stato addirittura bandito dall'Exxotica Expo e dai premi Adult Video News.

Da "ilmessaggero.it" il 24 giugno 2020. Ha 67 anni e, in fatto di salute, non se la passa bene, ma ora la stella dei film porno Ron Jeremy è finita in galera a Los Angeles con l'accusa di stupro di quattro donne nell'area di West Hollywood. I primi episodi risalirebbero al 2014. L'incriminazione del "Porcospino" (il suo soprannome di cui va fiero) è stata formulata dal procuratore della contea di Los Angeles Jackie Lacey. La notizia ha avuto un enorme eco non solo negli Usa dove il nome dell'attore, star del periodo d'oro del porno narrato nella serie The Deuce con Maggie Gyllenhall che ha preceduto il boom delle luci rosse on line,  è subito salito in testa alle classifiche delle ricerche on line e dei post sui social. Le sue foto in tribunale, in manette e con il volto malconcio in parte coperto dalla mascherina anti Covid-19, sono fra le più viste nelle ultime 24 ore. Le accuse coprono il periodo che va dal 2014 al 2019 e partono da donne che al momento dei presunti stupri avevano dai 25 ai 46 anni. Il pornoattore, ritenuto il migliore al mondo nel 2003, fra i primi a inserire toni comici nei film a luci rosse, rischia 90 anni di prigione, insomma l'ergastolo. In carriera ha girato più di duemila film con cameo anche di recente. In Italia divenne noto nel 1990, l'anno dei Mondiali di calcio, per un film in cui faceva la parodia di Maradona alle prese con Moana Pozzi e Ilona Staller Cicciolina. Ron Jeremy, sul set dal 1979, negli anni migliori alla pari del John Holmes cantato anche da Elio e le Storie Tese, si era autodefinito “grasso, basso e peloso”, da qui il soprannome il porcospino. E' stato consulente per le scene di sesso per il film 9 settimane e mezzo con Mickey Rourke e Kim Basinger e Boogie Nights.

Barbara Costa per Dagospia il 28 giugno 2020. “Sono un porno molestatore, ma non ho mai violentato nessuna”: si dice innocente, Ron Jeremy, lo ripete su twitter e tramite le parole del suo avvocato, e usa il termine con cui ha sempre descritto il suo porno-personaggio, "groper", che sta proprio per pomicione, palpeggiatore, uno che ti mette mani e bocca e lingua ovunque. Ma che lo fa per gioco, perché lo pagano, perché questo è il suo lavoro, perché la donna palpeggiata sa che è tutta scena a favore di telecamera. Stavolta però sembra non essere così, non lo è per i giudici, ci sono accuse pesantissime, ci sono 4 donne (ma forse sono 25!) che lo accusano di violenza sessuale, in 4 episodi che vanno dal maggio 2014 al luglio 2019. Tutte donne non del porno, contro l’attore porno più famoso al mondo. Alzi la mano chi non conosce Ron Jeremy, chi non ha mai visto un suo porno, anche i più giovani sanno chi è, per i porno e per le centinaia di incursioni non porno, nel cinema, nella musica, in tutti i media, che Ron Jeremy ha fatto prima di finire in galera. Non è la prima volta che Mister Ron Jeremy finisce sotto accusa: durante la tempesta Weinstein alcune pornoattrici, guidate da Ginger Banks, misero su una campagna social contro Jeremy, accusandolo dei crimini sessuali i più orridi, ma allora nessuna aveva fatto seguire le sue social-accuse da denunce. Questa volta le denunce ci sono, Ron Jeremy rimane in carcere, e rischia 15 anni per ogni imputazione. Questa volta Ron Jeremy è nei guai sul serio. Questa volta c’è un tribunale, e si è defilato anche il suo manager. Ron Jeremy è solo. È tutto il porno che con Jeremy esce ammaccato, perché Jeremy è da sempre, da 4 decenni, la faccia pulita del porno, uno che mai ha avuto problemi di droga o alcool, e tra i pochissimi che è riuscito a rimanere al top in un ambiente dove l’età che avanza è il più acerrimo nemico. La fama mondiale di Ron Jeremy è tutta nel personaggio che si è cucito addosso, quello dell’uomo non macho, dal corpo tarchiato, sgradevole di viso e di maniere, grezzo, zotico, ma simpatico. L’uomo medio avente tra le gambe un bastone da 25 cm in grado di soddisfare donne su donne, in erezioni lunghe e implacabili. Ron Jeremy quale antitesi di James Bond, ignorante e volgare e però incontenibile scopatore. Un personaggio lontano dal Jeremy reale, figlio dell’alta borghesia newyorchese, padre fisico, madre editor ed ex spia OSS (la CIA della Seconda guerra mondiale). Jeremy frequenta ottime scuole, si laurea, per un breve periodo insegna ma poi lascia, e mica per il porno: lui vuole fare cabaret, ci prova, si mantiene come cameriere, ma fa la fame. Con Alice, la sua ragazza di allora, si scatta foto nudo che invia alla rivista "Playgirl". Jeremy le firma col suo vero nome e cognome, Ron Hyatt (Jeremy è il suo secondo nome), e i lettori di Playgirl – gran parte uomini gay – trovano il suo numero di telefono sull’elenco, ma lo sbagliano, in realtà è il numero della nonna di Jeremy, una mite signora che da un giorno all’altro è tempestata di chiamate di uomini infoiati. A Jeremy – e al suo membro generoso – arrivano offerte porno da ogni parte: lui rifiuta, lui vuole fare l’attore comico. Cambia idea per soldi e per una celebrità nel porno che lo sommerge da subito. Una popolarità immensa, internazionale, Jeremy è sul porno-podio con nomi da leggenda quali John Holmes e Traci Lords, ma Jeremy è pure uno che capisce subito che è sfruttando il porno fuori dal porno che diventi una icona. Ron Jeremy è stato un influencer quando ancora non solo i social, ma proprio il web, erano da inventare. Jeremy ha trasformato il suo nome porno in un brand capace di sponsorizzare prodotti, e sommare ospitate tv, radiofoniche, e nel cinema tradizionale. Se la filmografia porno di Ron Jeremy è quasi incalcolabile – siamo oltre i 2300 film recitati e 289 diretti – notevole è quella nel cinema mainstream, b-movie e tv-movie. È innegabile: Ron Jeremy ha riempito il suo personaggio di crudi aneddoti, grossolani, triviali, alcuni veri altri no, e che oggi gli si ritorcono contro. Oltre a migliaia di foto e selfie che si è scattato in posa da maiale con donne famose e non, è provato: in "87 and Still Bangin" Ron Jeremy si è davanti alle telecamere – e dietro compenso milionario – scopato una donna di 87 anni. Scopata, completamente, con consenso e gioia di lei, una donna di nome Rosie Agree, e credo l’unica porno-défaillance di Jeremy: con lei gli è riuscito tutto tranne il facial. Ron Jeremy è stato il regista del porno con John W. Bobbitt, l’uomo passato alla cronaca e alla storia per essere stato evirato dalla moglie, uomo a cui è stato riattaccato il pene rivelatosi nuovamente funzionante, anche se non sul set. Jeremy ha ammesso che per farglielo alzare nel film glielo ha siringato, sebbene Jeremy sia contrarissimo all’uso di viagra e simili, lui non ne ha mai presi e ne approva l’uso solo per quegli uomini che vanno a letto con la stessa donna da tanti anni. Non me ne sto dimenticando, lo dico, che l’enorme porno-fama di Ron Jeremy sta anche nella sua capacità di fare self- suck, l’auto-fellatio, abilità che ha perso con l’età (da ragazzo era un ginnasta) e con l’ingrossarsi della pancia: fino all’infarto del 2013, riusciva ancora, seppur a malapena, a sfiorarsi la punta. È risaputo: il soprannome di Jeremy è "porcospino", ma tu lo sai da che deriva? Non dal suo aspetto rozzo, né dai suoi modi rozzi, ma da una ipotermia che su un set lo rivelò nudo davanti a tutti e tutto rosso e coi peli duri e ritti come quelli di un porcospino.

Valentina Albora per "cinematographe.it" il 22 giugno 2020. Sono recenti delle accuse di violenza sessuale nei confronti dell’attore di Divergent e Baby Driver, Ansel Elgort. L’autrice del post su Twitter riguardo l’accaduto racconta di aver avuto all’epoca 17 anni: “Quando è accaduto invece di chiedermi se volevo interrompere il rapporto visto che era la mia prima volta e io stavo piangendo dal dolore e non volevo farlo.” L’attore ha risposto alle accuse con un post su Instagram: “Non posso dire di poter comprendere i sentimenti di Gabby, ma la sua descrizione degli eventi non corrisponde a quanto accaduto. Non ho mai e non avrei mai voluto stuprare nessuno. Quello che è vero è che nel 2014 a New York, quando avevo 20 anni, Gabby e io abbiamo avuto una breve, legale e interamente consensuale relazione. Sfortunatamente, non ho preso bene la rottura. Ho smesso di risponderle al telefono, che è una reazione immatura e crudele da fare a qualcuno. So che questa scusa non mi assolve dal comportamento inaccettabile quando sono sparito. Quando guardo indietro al mio comportamento, mi vergogno del modo in cui ho agito. Mi dispiace veramente. Devo continuare a riflettere, imparare e lavorare per aumentare la mia empatia.”

Da "tgcom24.mediaset.it" il 22 giugno 2020. Guai seri per Justin Bieber. Il cantante è infatti stato accusato, attraverso alcuni post anonimi di stupro. Le accuse arriverebbero dalle stesse vittime, Danielle e Kadi, che sui social hanno raccontato in maniera molto dettagliata gli abusi subiti nel marzo del 2014 e nel maggio del 2015. La popstar si è subito difesa su Twitter scrivendo: "Le voci sono voci ma l'abuso sessuale è qualcosa che non prendo alla leggera... Non c'è verità in questa storia..." e postando alcune immagini che proverebbero la sua estraneità ai fatti citati.  "Normalmente non mi occupo di queste cose poiché ho affrontato accuse casuali per tutta la mia carriera, ma dopo aver parlato con mia moglie e il mio team ho deciso di intervenire ... Per rispetto di così tante vittime che affrontano quotidianamente questi problemi, volevo assicurarmi di aver raccolto i fatti prima di fare qualsiasi dichiarazione" e ha continuato spiegando: "Nelle ultime 24 ore un è apparso un nuovo Twitter che raccontava una mia storia coinvolta in abusi sessuali il 9 marzo 2014 ad Austin, in Texas, presso l'hotel Four Seasons... In effetti, come mostrerò presto, non sono mai stato presente in quel luogo". E a questo punto Bieber posta una serie di foto di scontrini e prenotazioni che mostrano i suoi spostamenti la notte del 9 marzo, notte in cui si trovava con Selena Gomez, allora sua compagna, confutando così le accuse. La popstar conclude poi scrivendo: "Ogni accusa di abuso sessuale deve essere presa sul serio ed è per questo che ho deciso di rispondere. Collaborerò con Twitter e le autorità per intraprendere azioni legali". I post di accuse di Danielle e Kadi sono stati rimossi quasi subito dopo la pubblicazione, ma in molti li hanno salvati e poi ripostati. Stando ai racconti delle due donne il primo abusi si sarebbe compiuto in un Hotel in Texas ad Austin nella notte del 9 marzo del 2014. Dopo un evento organizzato dal manager di Bieber, Scooter Braun le due ragazze sarebbero state invitate ad incontrare il cantante che poi le avrebbe invitate a seguirlo in un albergo: "Accettammo. Non potevano sospettare  di nulla, stavamo uscendo con una celebrità", scrive Danielle: "Un amico di Justin ci divise, e portò me in una stanza dove Justin mi disse di non dire niente a nessuno se no sarei finita in seri guai legali...". Nella stanza, stando al racconto della ragazza, che all'epoca aveva 21 anni, Bieber avrebbe cominciato a spogliarla contro la sua volontà: "Ero lì, non riuscivo a dire una parola, il mio corpo era come privo di sensi. Non racconterò nei dettagli cosa accadde dopo. Fui molestata".

Da liberoquotidiano.it il 12 giugno 2020. Un metaforico schiaffone, tra le altre, ad Asia Argento. Uno schiaffone di Katia Ricciarelli e Rita Dalla Chiesa, che ospiti di Pierluigi Diaco a Io e Te su Rai 1 parlano del MeToo, del movimento di denuncia di violenze da parte delle donne nel mondo dello spettacolo. La Dalla Chiesa afferma: "Per evitare certe cose basta dire di no. Non serve neanche sempre andare alla polizia, basta un ceffone per dire 'cosa stai facendo?'. Se in passato qualcuno mi ha fatto delle avances, ho risposto con un sorriso e ho declinato ogni invito", rimarca. A farle eco, la Ricciarelli: "Io mi chiedo cosa hanno fatto negli ultimi 20 anni le donne che hanno denunciato adesso?", conclude.

DAGOREPORT il 7 giugno 2020. “Togli la cinta... apri... annusa. Annusa! / Ma no che non ti strangolo, bambina... / Tiralo fuori e annusa... / anche le palle... sì... brava bambina... / Adesso lecca... bagna... / brava, brava, così... come una cagna". Ancora: "Stringo il culo a ogni colpo... e apro la fica / intorno alle sue dita... / Ma sento male... meglio che lo dica... / Dica che? scimunita!, / che mi ha rimescolata in tale modo / che non so dire più se soffro o godo?". Non si può dire che non abbia le idee chiare sul sesso la poetessa Patrizia Valduga, già compagna dell’esimio poeta e traduttore di Proust, Giovanni Raboni. Gli intellettuali, magari un po’ malandrini sotto le lenzuola, gli piacevano assai: fu stregata dal bel Raboni ma a ‘’Torino Spiritualità’’, il 26 settembre 2013, vide per la prima volta anche il bel Ramadam: “L’ho visto entrare al ristorante e, col cucchiaio di minestra in mano, ho quasi gridato “Tariq!” gettando nello sconcerto i miei commensali”: i suoi occhi, ricorda ancora oggi, “sfolgoravano di un profondo fuoco” (spirituale, s’intende). Lui è Tariq Ramadam, nipote del fondatore dei Fratelli musulmani per anni idolatrato dalla gauche caviar europea allora obbligatoriamente multiculturalista, che sarà processato per stupro il 24 giugno. La torbida Patrizia non ha dimenticato quel bello dal sapor mediorientale, e lo difende contro le svalvolate del #metoo: “Anni fa Ramadan era un uomo di potere e aveva incarichi prestigiosi. Poi è arrivato il # MeToo, con tanto di gogna mediatica a vendicare le violentate che di colpo, dopo anni, decenni, lustri, mezzi secoli, hanno ritrovato la memoria delle violenze subite. Dentro questa perfetta rete per pesci grossi è finito anche lui, insieme a molte altre vittime” (e giù un lungo elenco di ebrei: Strauss-Khan, Weinstein, Freeman, Allen, Polanski…). “Mi domando – si chiede la Valduga sulla prima pagina del “Fatto” - se quelle due donne che hanno accettato di entrare nella sua camera da letto, presumibilmente giovani, belle e molto affascinate da quell’uomo molto affascinante, che cosa si aspettavano che succedesse lì? (E’ un po’ la stessa domanda che si ponevano, per altro, i difensori di CR7 accusato di violenza verso una ragazzotta americana salita nella sua suite con jacuzzi a mezzanotte). “Forse – conclude la Valduga - semplicemente si aspettavano un amplesso di loro gusto, alla loro misura, forse tutto dolcezza e tenerezza; ma ognuno gode a modo suo”. Cosa ne sa la Valduga di come si gode sotto le lenzuola con Ramadam? C’è del sadomaso “onirico”? Eppoi: se il Lui delle sue poesie erotiche fosse Ramadam e non Raboni?  “Tu, misterioso spirito gentile -, poeteggia la Valduga -  fammi la guardia come un carceriere… / Fa' presto, immobilizzami le braccia, / crocefiggimi, inchiodami al tuo letto”. E ancora: “E quando fica e testa sono pronte / riempile di cazzo e di parole”. “Ci pensa il paparino/ al tuo culetto/ ci mette il borotalco”: questo indimenticabile verso della Valduga fu definito “struggente rievocazione di un amore fra due dei maggiori poeti del '900” da "la Lettura", supplemento del “Corriere della Sera”. Ma non era mica solo la Valduga l’unica invaghita del bello “dal sapor mediorientale”, specie prima che Oxford lo sospendesse per “accuse di stupro e molestie”. Intendiamoci, la sua cattedra a Oxford era farlocca: era una cattedra finanziata dal Qatar a seguito di un accordo tra Oxford e l'Università Hamad Bin Khalifa di Doha. Del resto, Ramadam si spacciava per docente che aveva ottenuto “sette ijazat in sette discipline diverse” ovvero sette abilitazioni invece era un “research fellow" (Le Monde 27 agosto 2005). Inoltre, anche a guidare la campagna “Liberate Tariq Ramadan” (55 mila like) dopo il suo arresto è Nabil Ennasri, personalità notoriamente legata al Qatar e, con lui, l’Unione francese dei consumatori musulmani guidata da Yamin Makri, che parla di “cospirazione sionista”. Ramadam è accusato di abusi sessuali su ex studentesse in Svizzera e di stupro in Francia. La Valduga si chiede come mai fossero andate in camera di Ramadam ma questo lo spiega, parzialmente, il tribunale svizzero: tra il 1984 e il 2004 l’islamologo insegnava francese al Collège de Saussure (liceo) e al Cycle d’orientation des coudriers (scuola media). Nel rapporto, curato da due ex giudici che hanno interrogato una cinquantina di persone, si legge che Ramadan “avrebbe tentato di sedurre senza successo una delle sue studentesse di 14 anni e sarebbe riuscito ad avere dei rapporti sessuali con altre tre studentesse di età compresa trai 15 ei 18 anni”. L’allora professore invitava individualmente gli allievi a pranzare con lui e “quando è arrivato il turno di una delle presunte vittime, l’ha fatta accomodare sul sedile anteriore della sua macchina e ha appoggiato la mano destra sulla sua coscia sinistra facendole delle avances inappropriate e intrusive”, si legge nel documento. In Francia la procura di Parigi lo indaga per “stupro, aggressione sessuale, violenze e minacce di morte” dopo la denuncia dell'ex salafita divenuta scrittrice militante della laicità, Henda Ayari. Una seconda denuncia è di tale Christelle, una francese convertitasi all'Islam. Ecco il racconto di Christelle: “Mi mandava dieci, venti messaggi ogni giorno, tra la mezzanotte le 5 del mattino. Le sue parole mi davano forza”. A suo stesso dire, Ramdan sa bene come arrivare al cuore delle femmine: “Spero che la fresca rugiada del mattino ti svegli dolcemente, mia principessa. Ammiro tanto il tuo coraggio”, le scrisse un giorno. Ramadan ha sempre respinto le accuse come “calunnie” orchestrate “dai miei nemici di sempre” e si è anche scoperto che una delle tre convertite musulmane che accusano Ramadan è tra le fondatrici dell’associazione Femmes avec Marine, dove Marine è Marine Le Pen: i tecnici informatici incaricati dalla magistratura francese hanno dissepolto nel telefono della donna sms scambiati con Ramadan che confermano una relazione sessuale consenziente e un po’ sadomaso in stile poesie della Valduga. Ma non era mica solo la Valduga pazza di Tariq! Ci sono altre, che però cavalcano il #metoo, ad essersi invaghite (del pensiero, s’intende) di Ramadam. Ad esempio, c’era l’agguerrita sostenitrice del #metooo, autrice dell’icastico “Basta!”, la conduttrice in punta di tacco (a spillo) e di sedia Lillibotox Gruber, che si portava Radaman alle cene di un facoltoso imprenditore milanese con vista Castello Sforzesco (di cui non facciamo nome: Francesco Micheli). Con lui organizzava incontri (letterari, s’intende) e campagne engagé, come quella lanciata da Rotterdam insieme a Hanza Piccardo, contro “i matrimoni forzati”. Cioè Ramadam era contro i matrimoni forzati! C’era Rula, quella che tarocca le foto di Hitler per farlo sembrare più simile a Trump, sempre pronta a sostenere “l’Islam moderato” di Tariq. Ma tutte queste, ora, tacciano, in vista al processo: stanno con il #metoo o con il loro beniamino mediorientale di un tempo? E poi c’era Valentina Colombo, ricercatrice di Storia dei Paesi islamici presso l’Università Europea di Roma sempre pronta a promuoverlo, c’erano le università che lo ospitavano, il Salone del Libro di Torino (con lui la giornalista Paola Caridi e altre). E poi c’era lui, l’infedele più infedele di tutti, il mitico Gad Rolex. Nel 2002, all’ “Infedele” su La7, Lerner invita prima Rula poi porta a esempio “l’islam moderato Tariq Ramadan”, allora a Milano. “Ramadan, nipote di uno dei fondatori dei Fratelli Musulmani, predica la nascita di un islam europeo che si riconosca nei valori del pluralismo e della democrazia”, disse Gad. A parte la mitologica Valduga, tutte le altre lo hanno gettato via come il kleenex usato.

Da "ilnapolista.it" il 21 maggio 2020. Non è proprio una notizia tipo “uomo morde cane”, ma poco ci manca: un giocatore della NFL, la principale lega di football americano, ha fatto causa alla United Airlines dopo essere stato molestato  sessualmente da una donna che viaggiava sullo stesso aereo da Los Angeles a Newark. La curiosa storia di ribaltamento dei soliti ruoli – la NFL ha il record mondiale di giocatori accusati di aggressioni e molestie sessuali – la racconta il New York Times. I querelanti sono due, anonimi, entrambi afroamericani. Hanno raccontato che durante il volo United 415 del 10 febbraio, una passeggera bianca di mezza età ha prima importunato il giocatore e il suo vicino di posto chiedendogli perché indossassero le mascherine e poi – si legge nella denuncia – “ha afferrato il pene” di uno dei due. Il giocatore di football e l’altro uomo si sono lamentati più volte con gli assistenti di volo, i quali – secondo loro, non sono riusciti a intervenire nemmeno quando la donna è diventata aggressiva. I due hanno fatto causa per aggressione sessuale e negligenza. Nella denuncia si afferma la passeggera indisciplinata era sotto l’effetto di alcol e droghe, e che dopo aver detto al giocatore che era “spaventoso”, ha provato a massaggiare le ginocchia e le cosce del giocatore. “Temendo la percezione di essere una vittima di sesso maschile e lo stigma razziale di essere un giovane maschio afroamericano, John Doe 1 (si chiamano così le persone indicate in maniera anonima, ndr) supplicò pazientemente che l’aggressore si fermasse e le tolse la mano”, si legge ancora. Allora la donna gli accarezzò il petto, e quando lui si alzò per lamentarsi con gli assistenti di volo, comincio ad afferrare le gambe e l’inguine dell’altro querelante. I due hanno già ricevuto ciascuno 150 dollari in buoni dalla compagnia aerea. Ma ora chiedono un risarcimento e danni per “guadagni persi passati, presenti e futuri da disagio subito”, senza specificare un importo.

Matteo Persivale per il Corriere della Sera il 12 dicembre 2020. Una delle poche tradizioni sopravvissute in questo strano dicembre 2020 alla pandemia e al distanziamento sociale è quella delle classifiche: il libro dell' anno, la persona dell' anno, il film dell' anno, il disco dell' anno. Se ci fosse anche la classifica dell' understatement dell' anno, da ieri avremmo un vincitore indiscusso e indiscutibile: Moses Farrow, 42enne figlio adottivo di Mia Farrow e Woody Allen, che ha concesso (non lo fa mai) un' intervista, al Guardian , nella quale ha definito «insolita» la sua famiglia. «Insolita». Understatement a parte, Moses (d' ora in poi useremo i nomi di battesimo perché in questa storia di Farrow ce ne sono veramente tanti) che è uno dei 15 figli (tra adottivi e biologici) di Mia Farrow, oggi fa lo psicoterapeuta e da anni si è schierato con Woody Allen, suo padre, e contro la madre Mia e gli altri fratelli (tranne ovviamente Soon-Yi, compagna di Woody dal 1993 e moglie dal 1997), nella questione delle presunte molestie (1992) alla sorellina Dylan, ha reiterato la sua scelta di campo. Aggiungendo un elemento: «Sarei felice di prendere il cognome di mio padre». Moses, peraltro, ha già avuto a che fare con l' anagrafe, come ha spiegato suo padre nel libro «A proposito di niente. Autobiografia» (La Nave di Teseo): «All' epoca Moses si chiamava Mischa, ma un giorno, vedendo una partita di basket con il grande Moses Malone, Mia si innamorò di quel nome e decise che suo figlio si sarebbe chiamato così. Dato che anche a me piaceva Moses, mentre non potevo dire lo stesso di Misha, non ebbi nulla da ridire. A Mia piaceva cambiare i nomi. Dylan diventò Eliza e poi Malone. Soon-Yi rischiò di diventare Gigi, ma si rifiutò. Ronan fu Satchel, Harmon e Seamus prima di tornare Ronan». Moses aveva già in passato accusato Mia di aver inventato l' accusa di molestie convincendo la bambina a accusare Woody (le autorità di due Stati diversi indagarono su Allen e conclusero che le accuse non erano credibili; il giudice della causa di divorzio però affidò comunque tutti i bambini a Mia, compreso l' unico figlio biologico della coppia, Ronan, oggi giornalista e saggista e paladino del movimento antimolestie MeToo). Moses inizialmente si era schierato con la madre. Spiega al Guardian che dopo le accuse, «molti dei miei fratelli e sorelle più grandi iniziarono a non esserci più, a casa, e fu destabilizzante. Sentivo di voler essere un genitore per i miei fratelli più piccoli, e per Mia, quindi ho passato ore ad ascoltarla». Woody fu accusato di molestie sette mesi dopo che Mia scoprì la sua relazione con Soon-Yi, figlia adottiva di Mia e dell' ex marito André Previn. «C' era già in casa nostra una forte atmosfera di odio e rabbia: Mia diceva che mio padre era un mostro». In questa faida familiare prevedibilmente senza fine, Moses sottolinea di non avere rancore contro i fratelli e le sorelle della fazione avversa, «si fa quel che si deve fare per sopravvivere», forse la frase più triste di tutta la tristissima intervista.

Candida Morvillo per il "Corriere della Sera" il 7 settembre 2020. Questo è uno di quegli scandali il cui esito andrebbe giudicato col senno di poi. Però, nel caso di Woody Allen che a 57 anni s' innamora della figlia adottiva della storica compagna Mia Farrow, pare non basti che il padre putativo e la ragazza di 35 anni più giovane stiano ormai insieme da 18 anni, siano sposati, si dicano ancora felici e abbiano adottato due figli. Negli strascichi di quella vicenda, per dire, Allen è da poco stato scaricato da Amazon che non lo produce più e, più recentemente a marzo, da Hachette che doveva pubblicare la sua autobiografia. La famiglia che si disgrega sotto gli occhi del mondo il 17 agosto 1992 con un comunicato in cui il regista si confessa innamorato della «figliastra» è un unicum newyorkese, altoborghese ed eccentrico e, allo stesso tempo, è il prototipo delle future famiglie allargate e di quanto minaccino di essere nevrotiche, rose dall'eccesso di politically correct e terribilmente, disfunzionalmente, snob. Il regista Woody Allen e l'attrice Mia Farrow, insieme da 13 anni nella vita e per 13 film sul set, hanno alle spalle due matrimoni a testa. Vivono in case separate nell'Upper East Side, non si sono mai sposati. Lei ha 14 figli, quasi tutti adottati, da sola o con gli ex. Due sono stati poi adottati anche da Woody e uno solo è loro figlio naturale. In quei giorni, sulle prime pagine, lo scandalo toglie spazio alla guerra in Bosnia. Prima, Mia va narrando che il marito l'ha tradita con la figlia minorenne. E pazienza se non sono sposati e se Soon Yi sta per laurearsi e ha circa 22 anni. «Circa» perché nell'orfanotrofio sudcoreano dov' è stata adottata arriva senza certificato di nascita. Quindi, Mia accusa Allen di abusi sessuali sulla figlia settenne, Dylan. L'attrice, celebre per film come «La rosa purpurea del Cairo» o «Hannah e le sue sorelle», tutti di Allen, è considerata una super mamma per quei bimbi strappati a destini infami, alcuni ciechi o invalidi. Per la stampa, è un'eroina e ha gioco facile a dipingere Allen come un mostro. Però il video diffuso da Mia con la piccola Dylan nuda che accusa il padre non convince i giudici, che archiviano l'inchiesta, ritenendo la bambina vittima di manipolazione da parte della madre. Anche perché altri figli dichiarano che, nel giorno incriminato, Woody e la bimba non erano rimasti soli e perché lui si sottopone alla macchina della verità mentre Mia si rifiuta. C'è poi lui che denuncia lei per avergli chiesto 7 milioni di dollari per stare zitta. La sua ex Diane Keaton che prende le sue difese. È tutto molto americano, tutto molto Hollywood Horror. Inclusa la «suocera» Maureen O' Sullivan, ex Jane di Tarzan, che urla all'incesto. Commenti e analisi si sprecano. La sessuologa: «È un nevrotico ossessionato dalla vecchiaia che usa il potere per sedurre». Il critico cinematografico: «Il regista che dà lezioni sull'instabilità dei sentimenti oggi diventa più umano, più simpatico, un genio che ha problemi come noi». Nel tempo, l'odio e la rabbia continuano a produrre conseguenze, alcune orribili e altre prodigiose. Va premesso che un secondo giudice, all'epoca, toglie a Woody l'affido dei tre figli. Due, Dylan e Ronan rinnegano il padre. Poi, Ronan cresce, diventa giornalista, fustigatore di costumi e di predatori sessuali. È alla sua poderosa spinta edipica che si devono le inchieste su Weinstein. A quel punto, Dylan, forte del nuovo teorema per cui la donna ha sempre ragione anche se non ha prove, torna ad accusare il padre per le molestie che forse furono e invoca l'ira del MeToo contro i suoi film. Nel frattempo, il terzo figlio, Moses, ha aperto un blog a difesa del papà. Scrive che «la madre istigava i figli a odiarlo per vendicarsene». Questo mentre Soon Yi Previn, la moglie sudcoreana che ha il cognome del secondo marito di Mia, non ci sta più a passare per un'orfana ingrata verso la sua benefattrice e racconta che la madre la trattava da domestica e ritardata mentale e che, se non era a favore di telecamera e flash, insultava, maltrattava e picchiava i figli adottivi. Va delineandosi la figura di una «grande madre» che adotta bambini per pubblicamente vantarsene e privatamente divorarli. Poco vale. Nella furia del MeToo Amazon mette al bando Allen. Attori e registi, non tutti, lo rinnegano. Mia, che intanto ha adottato altri 6 figli (mentre tre muoiono, uno suicida, forse due, a credere a Moses) si gode la vendetta e butta lì che l'osannato Ronan potrebbe essere figlio di Frank Sinatra. Non si tratta più di credere a uno all'altro e nemmeno di chiedersi a quali abiezioni può portare il rancore di una donna o a quali perversioni la nevrosi di un genio. Si tratta di decidere da che parte della Storia stare. La saga torna d'attualità. A marzo entra nella biografia di Woody A proposito di Niente che esce in anteprima mondiale in Italia per La Nave di Teseo. In America, Hachette la blocca, cedendo alle pressioni di Ronan, ormai suo autore di punta, e alle proteste interne e no. Nella bio, nuovi dettagli, tanti. Poteva finire tutto con l'archiviazione del giudice, con le nozze riparatici, ma no. In mezzo, è piombato il MeToo, il cui eroe va in giro a dire «mio padre ha sposato mia sorella», o anche «buona festa del papà. A casa mia, festa del cognato». Buona famiglia allargata a tutti.

Matteo Regoli per "cinema.everyeye.it" il 30 maggio 2020. Per promuovere la sua nuova autobiografia Apropos of Nothing, il regista e sceneggiatore Woody Allen ha rilasciato un'intervista al britannico The Guardian, parlando delle numerose polemiche che circondano il suo nome negli Stati Uniti. "Presumo che per il resto della mia vita un gran numero di persone penserà che fossi un predatore", ha scherzato Allen, scandendo il termine con un forte accento di Brooklyn ("pred-ah-tah"). "Tutto ciò che dico sembra auto-difesa, quindi è meglio se vado semplicemente per la mia strada e lavoro". Un vero soldato del cinema, col suo metodo di lavoro industriale, a 84 anni arriva nelle sale britanniche con A Rainy Day In New York, il suo 48esimo film. Ha già terminato il suo 49esimo, Rifkin's Festival, girato in Spagna, e se non fosse stato per il Coronavirus avrebbe già iniziato a lavorare al 50esimo. "Pensavo che la gente avrebbe considerato quelle accuse come la immondizia ridicola che sono, e dal primo giorno non le ho mai prese sul serio", continua Allen. "Voglio dire, per me equivale ad accusarmi di aver ucciso sei persone con una mitragliatrice in pieno giorno. come dovermi confrontare con una storia in cui ho ucciso sei persone con una mitragliatrice." Sulle star di Hollywood che lo hanno rinnegato, e in particolare Timothée Chalament, protagonista proprio di Un Giorno di Pioggia a New York, Allen afferma: "È sciocco. Gli attori non hanno idea dei fatti e si aggrappano ad una posizione pubblica sicura. Mostratemi qualcuno che non è felice di parlare pubblicamente contro le molestie infantili. Ma gli attori e le attrici sono così, denunciarmi è diventata l'ultima moda da seguire, come se da un giorno all'altro tutti iniziassero a mangiare il cavolo! Se va di moda, devi farlo. Timothée in seguito dichiarò pubblicamente di essersi pentito di aver lavorato con me e di aver dato i soldi in beneficenza. Ma si è scusato con mia sorella, dicendo che aveva bisogno di farlo dato che era in lizza per un Oscar per Call Me By Your Name, e lui e il suo agente si dissero che avrebbe avuto maggiori possibilità di vittoria se mi avesse denunciato, e così ha fatto."

Elisabetta Esposito per "ilgiornale.it" il 16 giugno 2020. Spike Lee si rimangia tutto. E si scusa con le vittime di violenza sessuale. Il dietrofront del regista afroamericano arriva a poche ore dalle sue dichiarazioni di endorsement a Woody Allen. Gli Stati Uniti stanno vivendo un periodo di fermento con il movimento Black Lives Matter e il dibattito per alcuni si sta espandendo ad alcune tematiche, come quelle che hanno interessato ad ampio raggio il movimento #MeToo. È in questo clima che Spike Lee ha detto la sua, salvo poi rimangiarsela. Come riporta il Guardian, durante un’intervista a una radio di New York, Spike Lee ha definito Allen “un grande, grande regista”. E si è scagliato contro la cultura della cancellazione, la damnatio memoriae del #MeToo che ha coinvolto vari giganti del mondo dello spettacolo, tra cui l’attore premio Oscar Kevin Spacey. “Questa cosa della cancellazione - ha commentato Spike Lee - non coinvolge solo Woody. E penso che quando la ricorderemo, capiremo che, a meno di ucciderlo, non si possa cancellare qualcuno come se non fosse mai esistito. Woody è un mio amico. So cosa sta affrontando in questo momento”. Spike Lee si riferiva al fatto che, a seguito del movimento #MeToo, il collega newyorkese sia tornato al centro della bufera in relazione alle accuse della figlia Dylan Farrow di presunte violenze sessuali. Queste accuse furono peraltro oggetto di una causa negli anni ’90, causa che si concluse con la caduta delle accuse contro Allen, benché i suoi atteggiamenti nei confronti della figlia adottiva fossero considerati dalla corte “scandalosamente inappropriati”. Ancora oggi Dylan tuttavia dà addosso il patrigno, nonostante il fratello Moses invece lo difenda. “Le mie parole erano errate - ha scritto Spike Lee nel suo dietrofront su Twitter - Non tollero e non tollererò molestie, aggressioni o violenza sessuale. Tale trattamento provoca danni reali che non possono essere minimizzati”. Anche Woody Allen è tornato a parlare della questione di recente, nella sua autobiografia “A proposito di niente”. Nel volume, il regista esprime il proprio rammarico per il voltafaccia di alcuni attori che hanno lavorato con lui all’indomani della nascita del movimento #MeToo. A finire sotto la lente di ingrandimento è stato in particolare Timothée Chalamet, colpevole secondo Allen di aver assecondato un’onda giustizialista nei suoi confronti in modo da avere più chance di vincere un Oscar.

C. Maf. per il “Corriere della Sera” il 3 giugno 2020. Tra gli effetti collaterali che nessuno si aspettava della pandemia che nessuno si aspettava, c' è anche che il regista più prolifico del cinema decida di smettere di girare. A 84 anni, Woody Allen pare aver trovato il motivo per fare quello che mai avrebbe immaginato: ritirarsi. Se fino a qualche mese fa giurava di non averci mai pensato - «Quando morirò sarà sul set di un film» - ora il regista ha fatto sapere che le cose sono cambiate. «Potrei smettere di girare», ha detto in un' intervista al Financial Times. Spiegando: «Le persone ormai pensano: "Stare a casa non è così male, ceno poi mi guardo un film in tv". Ma io non voglio fare film per i piccoli schermi, perciò potrei smettere di girarli». Uno stravolgimento di prospettiva che arriva, non a caso, quando Allen è chiamato a promuovere l' uscita del suo Un giorno di pioggia a New York nel Regno Unito. Non in sala, ovvio. Dal 5 giugno il film sarà disponibile su varie piattaforme streaming. E questo è il punto. La chiusura, per l' emergenza sanitaria, delle sale cinematografiche: «Non so quante potranno riaprire», ha proseguito. «Ho 84 anni, presto sarò morto. Anche se scrivessi la migliore sceneggiatura del mondo, potrebbe non esserci nessuno a produrla: che incentivo avrei a continuare? Ero solito finire un copione, farlo ricopiare al pc, consegnarlo al mio produttore, formare il cast e girare. L' ho fatto per anni: un processo semplice. Ma adesso non funziona più». Per sapere come andranno le cose, serve aspettare. Anche se Allen ha assicurato che la quarantena non ha aiutato la sua creatività: «Non faccio niente tutto il giorno, aspettando che il coronavirus passi. Il massimo che posso fare è stare nella mia stanza a studiare un vaccino ma non illudetevi che riesca a trovarlo». Tra le certezze, c'è che prima della chiusura dei set il regista era riuscito a concludere il suo 49° film, Rifkin' s Festival . La premiere, ipotizzata per Cannes, slitterà al prossimo autunno. In generale, non è un periodo semplice per Allen. Sempre in questi giorni, era tornato a parlare delle accuse di molestie, al Guardian : «Per il resto della mia vita un gran numero di persone penserà che sia un predatore. Non posso farci nulla. Non le ho mai prese sul serio queste accuse. È come se mi avessero detto che ho ucciso sei persone con una mitragliatrice».

Woody Alien, ecco il Mostro. Marcello Veneziani, La Verità 23 Maggio 2020. Di Woody Allen ce ne sono almeno tre: c’è il regista, attore e scrittore famoso, amato in verità più in Italia e in Europa che in patria (un po’ come Gorbaciov), autore di esilaranti commedie e indimenticabili film, insieme ad altri decisamente infelici o stancamente ripetitivi. C’è poi l’intellettuale radical newyorkese, ironico e autoironico, che esibisce l’ebraismo, il pessimismo cosmico e la psicanalisi per ripararsi dal mondo e dalla fastidiosa realtà e professare un progressismo cinico ed egoista, ateo e blasfemo, anticristiano, antipatriottico e antifamiliare, nichilista tragicomico ma sempre politically correct. E c’è il terzo Woody, quello privato, ormai 85enne, con le sue torbide storie di sesso, mogli, figli e minori, tra processi, accuse, condanne e assoluzioni, reputato infame negli States e cancellato dalle pubbliche agende americane. Eccolo, Woody Alien, il Mostro da censurare. A cominciare dalla sua monumentale autobiografia, bloccata negli Usa dall’editore Hachette e uscita invece in Italia in questi giorni (A proposito di niente, la nave di Teseo). Giustamente Elisabetta Sgarbi che l’ha pubblicata, distingue tra la condanna giudiziaria e il giudizio sull’artista, e giudica Woody Allen un genio assoluto e la sua autobiografia un capolavoro; magari un po’ esagerando ma è comprensibile perché lo edita. Certo, Woody è un genio controverso del cinema e se non un genio, è comunque uno “sprizzacervello”; il suo modo di essere e di parlare ha fatto scuola, vezzo e maniera; è un sagace regista e autore umoristico e aforistico, molto citato. E con quelle categorie va giudicato quando parliamo di lui in relazione al cinema, all’arte e ai libri. La sua intelligenza, pur corrosiva, non va censurata e messa a tacere. Se poi la sua vita privata merita condanne morali, civili e perfino penali, non dovrà certo accadere che il giudizio estetico o creativo possa cancellarle o mitigarle, per una speciale indulgenza riservata agli artisti; ma viceversa, il giudizio morale, civile e penale non può inibire o cancellare il giudizio sulla sua arte e il suo talento. Questa è l’eredità puritana e quacchera lasciata al bigottismo progressista, ipocrita e fanatico degli States, che trasforma una condanna civile e penale in censura all’arte e in una rimozione totale. In realtà si deve distinguere tra il primo Allen, artista, in gran parte da elogiare e da considerare comunque uno dei grandi del cinema; il secondo Allen, intellettuale, a mio parere da criticare e da respingere, radicalmente; e il terzo Allen, privato, da colpire nelle sedi opportune, secondo giustizia, ma senza estendere la pena agli altri ambiti. Altrimenti dovremmo cancellare fior d’artisti e poeti per le loro vite debosciate o per le loro perversioni: per esempio rimuovere dalle chiese e dai musei d’arte le opere di Caravaggio o dei poeti maledetti… Certo, stride la sua vita privata col suo ruolo pubblico d’intellettuale a favore dell’emancipazione e della liberazione; stride il suo politically correct con una pratica di vita così scorretta, il suo spirito liberal col suo truce sessismo esteso ai minori. Ma bisogna distinguere i piani. In Italia Woody Allen attecchì in modo particolare a una cultura progressista che cercava modelli alternativi a quelli organici del vecchio stalinismo in versione togliattiana. Woody diventò tra la fine degli anni settanta e gli anni ottanta, il top model di una liberazione dell’Intellettuale dal cupo spirito apocalittico, escatologico, antimoderno e antiamericano alla Pasolini o dal sottofondo ideologico del neo-realismo più trombone. Woody Allen disegnò un nuovo tipo d’intellettuale radical, ironico, come la filosofia di Richard Rorty, che volava da Mosca a New York, dal popolo alle élite, dal collettivo al privato, dalla denuncia alla parodia snob. Anche il suo fisico antieroico e bruttino lanciava un messaggio: io tutto cervello niente muscoli, tutto concetto niente prestanza, il contrario di un energumeno “fascista”, di un divo bellimbusto hollywoodiano o di un muscoloso e armato suprematista bianco. La traduzione somatica di Woody Allen in Italia fu Beniamino Placido e in parte il suo doppiatore Oreste Lionello, che però non la pensava come lui; in chiave politica il suo corrispettivo fu il cinefilo kennediano Walter Veltroni (una volta scrissi che Veltroni è un incrocio tra Woody Allen e Sabrina Ferilli ma purtroppo ha preso dal primo l’aspetto fisico e dalla seconda la cultura; ma esageravo). Tra le cose più deludenti di Woody Allen furono i suoi film dedicati a Barcellona e a Roma in particolare. Se paragoniamo la sua Roma con quella di Fellini o di Rossellini e di altri cineasti nostrani, ma anche con la Roma di Paolo Sorrentino, il confronto non regge, a tutto svantaggio di Allen. Fu un imbarazzante filmetto il suo, dedicato a Roma, così estraneo alla sua sfacciata bellezza, alla romanità e ai romani, al medioevo e al suo rinascimento, fino al barocco; alla sua gloria antica e cattolica e al suo degrado; sembrò solo un lungo spot pubblicitario da catena alberghiera. Più volte Woody si è preso gioco dal cristianesimo, dei suoi principi di fede e della sua liturgia ma non ha mai osato ironizzare sull’islam, e questo mi è parso più carognesco di una semplice viltà. Il cristianesimo è inerme davanti agli oltraggi, nessuna fatwa mai colpirà i suoi dissacratori; perciò Woody, Pseudo-madonne e artisti di finte trasgressioni possono liberamente sfogarsi. In altri suoi film Allen si faceva il verso, si ripeteva senz’anima e senz’originalità, lasciando una lunga scia di delusioni. Restano invece i dialoghi ambientati nel suo habitat newyorkese, certe sue magiche atmosfere e deliziose ambientazioni, certi suoi dialoghi smaglianti sul sesso, certi suoi virtuosi anacronismi, certi suoi capolavori tra il giallo, il letterario e l’esistenziale. Insomma, salvate l’artista, criticate l’intellettuale, punite il maiale; senza confonderli. MV, La Verità 23 maggio 2020

MeToo, Ronan Farrow fa litigare i giornali americani. E il New Yorker risponde al New York Times. Pubblicato martedì, 19 maggio 2020 su Corriere.it da Massimo Gaggi. Giornalista d’inchiesta poco accurato? Vittima di un eccesso di protagonismo o dei condizionamenti psicologici di quel «giornalismo di resistenza» che si è andato diffondendo nei media americani durante la presidenza Trump? I rilievi mossi dal New York Times a Ronan Farrow, oggi il giornalista investigativo più celebre d’America, premiato con un Pulitzer per aver portato alla luce con le sue inchieste sul New Yorker (in parallelo proprio col New York Times) lo scandalo sessuale che ha fatto finire in prigione il produttore cinematografico Harvey Weinstein, stanno provocando una tempesta nel mondo americano dell’informazione. Dibattiti interminabili su Twitter, interventi dei docenti delle scuole di giornalismo, la replica risentita del New Yorker che ha affidato al suo Michael Luo il compito di ribattere su tutto con una raffica di 16 tweet nei quali il giornalista accusa il collega del Times, Ben Smith, di aver commesso la stessa scorrettezza imputata a Farrow: tralasciare o minimizzare le informazioni che non sono funzionali alla tesi che vuole sostenere. La storia è complessa e anche i protagonisti della controversia sono personaggi complicati. Proviamo a sintetizzare. Ben Smith, giornalista molto dinamico e creativo che per anni ha diretto un agile vascello-pirata dell’informazione, il sito BuzzFeed, aveva sempre trattato il New York Times come una corazzata arrugginita, destinata ad andare a picco. Qualche mese fa, però, getta la spugna e va a lavorare proprio per quella corazzata che, godendo di salute assai migliore di BuzzFeed, gli affida la prestigiosa rubrica di critico dei media. Lui esordisce a modo suo, con un articolo nel quale ammette i suoi errori e la sconfitta — farsi assumere dal nemico — ma non rinuncia a criticare il nuovo datore di lavoro per la sua enorme influenza sul mondo dell’informazione. Gestendo una rubrica di analisi critiche, dopo qualche mese Smith decide di prendere di mira un mostro sacro di appena 32 anni: Ronan, figlio di due attori di fama mondiale, da sempre sotto i riflettori e con un’infanzia segnata dalle dispute avvelenate tra i genitori, Mia Farrow e Woody Allen. Ronan, pur essendo diventato ben presto una celebrity televisiva, sceglie il lavoro assai più faticoso e meno scintillante, del giornalista investigativo. Quando la Nbc si rifiuta di trasmettere la sua inchiesta su Weinstein, va al New Yorker. Da qui farà esplodere lo scandalo che gli varrà un premio che è una sorta di Nobel del giornalismo. Passando al setaccio il suo lavoro, investigatore delle sue investigazioni, Ben Smith non fa scoperte clamorose: dà atto a Ronan di aver fatto inchieste importanti, ma gli imputa una serie di forzature e verifiche poco accurate, soprattutto su alcune delle accusatrici di Weinstein. Si concentra, poi, su un caso del quale fu protagonista Michael Cohen quando era avvocato di Donald Trump. Dando credito a una fonte interna del ministero del Tesoro, nel 2018 Farrow aveva parlato di documenti scottanti depositati da Cohen, fatti sparire dagli archivi del governo. Ne nacque un grosso caso politico, con i democratici all’offensiva. A distanza di due anni, nota Smith, ben poco resta in piedi di quella storia. I documenti non erano spariti: ne era stato solo vietato l’accesso al personale per evitare fughe di notizie. Una possibilità alla quale aveva fatto cenno lo stesso Farrow, che però, poi, aveva costruito tutta la storia sulla sparizione.Anche sullo scandalo Weinstein, Smith non smentisce nulla, ma accusa un giornalista le cui inchieste hanno fatto nascere il movimento #metoo di aver costruito articoli «basati su narrative irresistibilmente cinematografiche» dando spazio anche a teorie cospirative. Luo replica accusando Smith di commettere le stesse forzature da lui attribuite a Farrow: «Ti abbiamo risposto, ma tu non hai pubblicato le nostre spiegazioni» perché non funzionali alla storia che volevi raccontare. Ben Smith lupo solitario e livoroso che usa il Times? Difficile da credere, visto che la sua rubrica-inchiesta occupa due pagine del giornale. I rilievi di Smith alimentano lo scetticismo nei confronti della stampa ma fanno riflettere anche su certe pericolose derive. Giornalisti partigiani della resistenza anti-Trump? Macché, obietta la rivista di giornalismo della Columbia University: Farrow ha attaccato con pari durezza anche bersagli democratici, a partire da Hillary Clinton. La malattia, semmai, è quella di giornalisti che diventano prigionieri del loro ruolo di superstar.

E ora il New York Times demolisce Farrow e il #MeToo. Il quotidiano liberal smonta le inchieste del giovane Premio Pulitzer Ronan Farrow, Figlio di Mia e Woody Allen, autore dello scoop sugli abusi sessuali del produttore Harvey Weinstein. Roberto Vivaldelli, Martedì 19/05/2020 su Il Giornale. Smascherando gli abusi sessuali del produttore Harvey Weinstein, era diventato il "paladino" della sinistra politicamente corretta e liberal. Parliamo del 32enne premio Pulitzer Ronan Farrow, figlio biologico dell'attrice Mia Farrow e del regista Woody Allen, nonché fratello di Dylan Farrow, la figlia adottiva della coppia. Il reporter del New Yorker simbolo del #MeToo ora finisce sotto accusa per via di una certa leggerezza e superficialità con la quale ha condotto le sue celebri inchieste, e non da qualche giornale conservatore ma da quel New York Times che per tutta la sinistra liberal americana rappresenta una sorta di bibbia. Sezionando alcune delle storie più accattivanti di Farrow per il New Yorker e contenute nel suo libro di successo sullo scandalo Weinstein, Catch and Kill, l'editorialista del New York Times Ben Smith ha svolto un fact-checking molto accurato di ben tre pagine, mettendo in discussione il lavoro del Premio Pulitzer sottolineando che Ronan Farrow è attratto da "narrazioni irrestibilmente cinematografiche", e talvolta cospiratorie, poco sostenute dai fatti. Nel mirino del Nyt c'è, in particolare, il presunto scoop sull'ex avvocato di Donald Trump, Michael Cohen. Ronan aveva pubblicato un articolo sul New Yorker parlando di alcune "transazioni sospette" e di presunti illeciti fiscali ma come rileva Ben Smith, "poco di quell' articolo di Farrow sta in piedi. Il dossier fiscale di Cohen non è mai scomparso". L'attenzione dell'editorialista del New York Times si sposta poi sulla principale inchiesta del giovane reporter, quella che ha "acceso" il movimento #MeToo. Come scrive Federico Rampini su Repubblica, infatti, le inchieste di Farrow sul più grave scandalo sessuale degli ultimi anni fanno acqua da molte parti. Ben Smith evidenzia come Farrow ignori del tutto fatti e testimonianze che possano mettere in dubbio le sue accuse, presentando ai lettori una narrativa a senso unico, ricca di ombre e contraddizioni. Smith fa riferimento a Lucia Evans, una delle accusatrici di Weinstein, che doveva essere una testimone chiave del processo del magnate del film a New York: consulente di marketing, aveva raccontato di essere stata costretta da Weinstein a praticargli del sesso orale nel 2004, quando aspirava a diventare un’attrice. Peccato che poi l'accusa venne ritirata. Non mancano poi vere e proprie bugie: Farrow si vantò, ricorda sempre Repubblica, che 50 giurati al processo Weinstein vennero esonerati dal tribunale perché colpevoli di aver letto il suo libro Catch and Kill. Naturalmente, la notizia era falsa. Insomma, qualcosa sembra non tornare nelle inchieste dell'enfant prodige del giornalismo newyorchese.

DAGONEWS il 20 maggio 2020. Matt Lauer era uno dei volti più popolari di NBC, lo stesso network per cui lavorava Ronan Farrow e che invece avrebbe messo i bastoni tra le ruote della sua inchiesta su Weinstein, tanto da convincerlo a portare tutto il malloppo al New Yorker. Lauer nel 2017 fu accusato di stupro da una delle colleghe che lavorò con lui alle Olimpiadi di Sochi (2014), facendo scattare il suo licenziamento immediato dal network e un risarcimento milionario per lei, senza bisogno di portare prove: se il genietto Farrow dice che Lauer è colpevole, tanto basta. Solo che Brooke Nevils era la sua amante, e con lui ebbe un rapporto durato quattro mesi, da lei definito consensuale quando lo raccontava agli amici. Anni dopo, arrivata l'era del MeToo e dei risarcimenti milionari, lei riconsiderò quella relazione come un abuso, visto che lui era il divo e lei una semplice producer. Il dettaglio che trasformò la storia in violenza sarebbe stato che i due, ubriachissimi, una delle sere a Sochi fecero sesso anale senza che lei gradisse particolarmente. Eppure al ritorno a New York la relazione continuò, visto che per lei era transactional, una transazione. Te la do perché sei il mio capo. Farrow, pur avendolo incluso nel suo libro, non contattò mai l'ex fidanzato di Nevils, che sarebbe stato mollato come conseguenza della tresca olimpica e al quale la ragazza avrebbe confidato tutto. Ci ha parlato Lauer. Che ora mette in fila tutti gli elementi ''scadenti'' dell'inchiesta di Ronan Farrow, che non ha mai messo in dubbio i racconti delle presunte vittime, presi per buoni senza contattare nessun'altra delle persone coinvolte. Rovinandogli la vita nell'arco di 48 ore.

Massimo Gaggi per il Corriere della Sera il 20 maggio 2020. Giornalista d' inchiesta poco accurato? Vittima di un eccesso di protagonismo o dei condizionamenti psicologici di quel «giornalismo di resistenza» che si è andato diffondendo nei media americani durante la presidenza Trump? I rilievi mossi dal New York Times a Ronan Farrow, oggi il giornalista investigativo più celebre d' America, premiato con un Pulitzer per aver portato alla luce con le sue inchieste sul New Yorker (in parallelo proprio col New York Times ) lo scandalo sessuale che ha fatto finire in prigione il produttore cinematografico Harvey Weinstein, stanno provocando una tempesta nel mondo americano dell' informazione. Dibattiti interminabili su Twitter, interventi dei docenti delle scuole di giornalismo, la replica risentita del New Yorker che ha affidato al suo Michael Luo il compito di ribattere su tutto con una raffica di 16 tweet nei quali il giornalista accusa il collega del Times , Ben Smith, di aver commesso la stessa scorrettezza imputata a Farrow: tralasciare o minimizzare le informazioni che non sono funzionali alla tesi che vuole sostenere. La storia è complessa e anche i protagonisti della controversia sono personaggi complicati. Proviamo a sintetizzare. Ben Smith, giornalista molto dinamico e creativo che per anni ha diretto un agile vascello-pirata dell' informazione, il sito BuzzFeed , aveva sempre trattato il New York Times come una corazzata arrugginita, destinata ad andare a picco. Qualche mese fa, però, getta la spugna e va a lavorare proprio per quella corazzata che, godendo di salute assai migliore di BuzzFeed , gli affida la prestigiosa rubrica di critico dei media. Lui esordisce a modo suo, con un articolo nel quale ammette i suoi errori e la sconfitta - farsi assumere dal nemico - ma non rinuncia a criticare il nuovo datore di lavoro per la sua enorme influenza sul mondo dell' informazione. Gestendo una rubrica di analisi critiche, dopo qualche mese Smith decide di prendere di mira un mostro sacro di appena 32 anni: Ronan, figlio di due attori di fama mondiale, da sempre sotto i riflettori e con un' infanzia segnata dalle dispute avvelenate tra i genitori, Mia Farrow e Woody Allen. Ronan, pur essendo diventato ben presto una celebrity televisiva, sceglie il lavoro assai più faticoso e meno scintillante, del giornalista investigativo. Quando la Nbc si rifiuta di trasmettere la sua inchiesta su Weinstein, va al New Yorker . Da qui farà esplodere lo scandalo che gli varrà un premio che è una sorta di Nobel del giornalismo. Passando al setaccio il suo lavoro, investigatore delle sue investigazioni, Ben Smith non fa scoperte clamorose: dà atto a Ronan di aver fatto inchieste importanti, ma gli imputa una serie di forzature e verifiche poco accurate, soprattutto su alcune delle accusatrici di Weinstein. Si concentra, poi, su un caso del quale fu protagonista Michael Cohen quando era avvocato di Donald Trump. Dando credito a una fonte interna del ministero del Tesoro, nel 2018 Farrow aveva parlato di documenti scottanti depositati da Cohen, fatti sparire dagli archivi del governo. Ne nacque un grosso caso politico, con i democratici all' offensiva. A distanza di due anni, nota Smith, ben poco resta in piedi di quella storia. I documenti non erano spariti: ne era stato solo vietato l' accesso al personale per evitare fughe di notizie. Una possibilità alla quale aveva fatto cenno lo stesso Farrow, che però, poi, aveva costruito tutta la storia sulla sparizione. Anche sullo scandalo Weinstein, Smith non smentisce nulla, ma accusa un giornalista le cui inchieste hanno fatto nascere il movimento #metoo di aver costruito articoli «basati su narrative irresistibilmente cinematografiche» dando spazio anche a teorie cospirative. Luo replica accusando Smith di commettere le stesse forzature da lui attribuite a Farrow: «Ti abbiamo risposto, ma tu non hai pubblicato le nostre spiegazioni» perché non funzionali alla storia che volevi raccontare. Ben Smith lupo solitario e livoroso che usa il Times ? Difficile da credere, visto che la sua rubrica-inchiesta occupa due pagine del giornale. I rilievi di Smith alimentano lo scetticismo nei confronti della stampa ma fanno riflettere anche su certe pericolose derive. Giornalisti partigiani della resistenza anti-Trump? Macché, obietta la rivista di giornalismo della Columbia University: Farrow ha attaccato con pari durezza anche bersagli democratici, a partire da Hillary Clinton. La malattia, semmai, è quella di giornalisti che diventano prigionieri del loro ruolo di superstar.

Estratti dall'articolo di Michele Masneri per ''Il Foglio'' il 19 maggio 2020. Perché rovinare una bella faccia (da Frank Sinatra) con la verità? Ronan Farrow, il grande accusatore degli zozzoni, l' epuratore dalla faccia d' angelo, il giovane premio Pulitzer che dal cuore incestuoso di Central Park ha portato la purificazione morale a Hollywood e poi all' America e poi al mondo, potrebbe essere una sòla. A rivelare la scottante verità non è qualche lurido foglio conservatore o un sito russòfilo bensì il New York Times, in un lungo pezzo molto documentato che causerà terremoti alle coscienze liberal spiegando che, insomma, l' angelico figlio di Mia Farrow e (forse) di Woody Allen, colui che ha fatto andare in galera il gran predatore Harvey Weinstein, vincendo un Pulitzer, potrebbe non essere cristallino come il ruolo di grande inquisitore richiederebbe. Ben Smith, l' autore dell' articolo, demolisce abbastanza le inchieste di Farrow; soprattutto quelle centrali sul caso Weinstein che hanno portato al librone "Catch and Kill: Lies, Spies, and a Conspiracy to Protect Predators", in Italiano per Solferino "Predatori. Da Hollywood a Washington il complotto per ridurre al silenzio le vittime di abusi", bestsellerone dell' anno scorso del trentaduenne reporter. Una narrazione irresistibilmente cinematografica, scrive Smith, con qualche crepa e tante semplificazioni: ci sono i buoni, e ci sono i cattivi, nessuna zona grigia in mezzo. Non che sia un falsario, per carità, scrive Smith; "il suo lavoro, tuttavia, rivela la debolezza di un tipo di giornalismo militante che prospera nell' èra Trump: quello per cui se nuoti abilmente nella marea dei social media e produci resoconti dannosi su personaggi sgraditi, le vecchie regole giornalistiche della prova e della dimostrazione rigorosa dei fatti possono essere considerate più come impedimenti che imperativi essenziali". Insomma narrazioni facilitate per lettori-babbei pronti a indignarsi, senza disturbarsi ad andare un po' in profondità.(...) (...) Poi fa finire al gabbio non solo Weinstein, ma anche il procuratore generale di New York, Eric Schneiderman, e l' anchorman Matt Lauer, in una smania purificatrice cui sarebbe facile applicare la psicanalisi da bar. Nel frattempo, il padre bio o non bio, Woody Allen, mostrificato e spogliato dei suoi diritti, anche d' autore, annaspa: con un tweet, è proprio Ronan Farrow qualche mese fa a bloccare la pubblicazione in America della autobiografia alleniana, "A proposito di niente" (in Italia per la Nave di Teseo). E' un libro feroce e definitivo, di chi non ha più nulla da dimostrare o da perdere, neanche stoccate a Farrow medesimo, che sarebbe stato non solo plagiato dalla madre amorevole ma anche fatto a pezzi, come in un film di papà, con un delicato intervento chirurgico di allungamento. "Le dissi che mi sembrava assurdo far soffrire qualcuno in questo modo per motivi estetici", scrive Allen. "Lei si limitò a rispondere: "Bisogna essere alti per fare carriera in politica". Per Ronan, ovviamente, fu un calvario, dato che gli dovettero spezzare le ossa delle gambe per poi ricostruirle". "A Ronan sta bene che le donne dicano la verità, basta che sia la verità approvata dalla mamma", scrive ancora Allen. Ma l' allungato e offeso Farrow è comunque l' uomo dell' anno, anzi del secolo. Almeno fino al pezzo di Smith, che è abbastanza una bomba, venendo dal Times, concorrente tra l'altro del New Yorker nello scoprire il filone molestatorio (e infatti hanno preso il Pulitzer insieme i due giornali). Ma il New Yorker fa quadrato attorno alla sua star. David Remnick, direttore, dice che il lavoro di Farrow è "scrupoloso, instancabile e soprattutto giusto". "Tutto torna, ogni dubbio è risolto?", si chiede Ken Auletta, ottantenne cronista che da anni conduceva indagini su Weinstein e che ha aiutato Farrow. "No. Però ciò che conta è che ha portato a casa il risultato". Questo risultato però ha un costo, scrive Smith. Nello specifico, la verità, o un pezzetto di essa. Nel primo articolo contro Weinstein del 2017, la studentessa Lucia Evans accusa il produttore di averla abbordata in un club, e poi di averla costretta a un rapporto orale. La studentessa raccontò tutto agli amici, scrive Farrow, ma poi "si sentì in gran parte incapace di parlarne". Una testimone cruciale, l' amica che era al club, in seguito ha smentito il racconto (l' accusa infatti in tribunale è caduta, e Weinstein è stato comunque accusato per altri capi di imputazione, ma il problema rimane: "Sembra che il signor Farrow stia facendo di una responsabilità di denuncia una virtù narrativa"). (...) Non che difenda gli sporcaccioni: semplicemente mostra una realtà appena un po' più complessa di quella palatabile agli zombi: il presentatore è sì uno zozzone riprovevole, ma tutti o quasi lo sanno e ci guadagnano qualcosa; al suo fianco non ci sono solo innocenti figurette: ci sono pure signore che sfruttano la scopata dirigenziale per fare carriera (poi c' è una vittima vera, che si ammazza). La storia di "Catch and kill", la narrazione del biondino con gli occhi di ghiaccio, è invece più facile, e anche lì una testimonianza chiave non torna. L'accusatrice di Lauer avrebbe parlato della molestia subita al suo fidanzato, ma il fidanzato in questione non è stato mai ascoltato, e adesso dice di non ricordare nulla. (...) "E' difficile provare molta simpatia per un predatore come Weinstein o versare lacrime per il licenziamento di Lauer", scrive Smith. "E i lettori possono ignorare questi piccole dettagli, oscurati dal comprensibile desiderio di un giovane giornalista zelante di raccontare le sue storie nel modo più drammatico possibile". "Il problema è che le inchieste di Farrow sono costruite e vendute sulla base della sua convinzione - cosa che raramente dimostra - che forze e persone potenti cospirino contro coloro che cercano di fare del bene, in particolare lo stesso Farrow". A cospirare ci sarebbero Weinstein, ovviamente, e meno ovviamente Hillary Clinton, che avrebbe fatto pure lei pressioni su Farrow - ma anche per questo bisogna fidarsi sulla parola. Chi non si fida verrà additato. Così già Rosanna Arquette, attrice molestata da Weinstein, che ha collaborato con Farrow nelle inchieste, tuittava ieri: con tutto quel che succede, c'è proprio bisogno di andar contro Ronan, "uno dei più rispettati giornalisti investigativi dei nostri tempi?". "Qui c' è puzza di invidia!". Forse, da parte del rampantissimo Smith, che era a capo fino a qualche tempo fa dell' internettaro BuzzFeed News, mentre adesso è responsabile del settore media presso il più istituzionale Times. O forse è la solita vecchia storia del più puro che ti epura. Comunque, in assenza di prove convincenti, scrive Smith, "Farrow fa affidamento su ciò che si può chiamare 'New Journalism on the sly'" - qualcosa come "new journalism di nascosto": "Usare la tecnica romanzesca per sostenere il proprio obiettivo". Ad esempio, "descrive le espressioni facciali dei dirigenti della Nbc e ne deduce motivi oscuri". Insomma, alla fine siamo sempre a Lombroso: terreno massimamente scivoloso per Farrow, peraltro.

Anticipazione da “Grazia” il 7 maggio 2020. Lucy Flores, 40 anni, attivista per i diritti femminili, è la prima delle otto donne che ha sostenuto di aver subìto abusi da Joe Biden, l’ex vicepresidente americano e avversario di Donald Trump che punta alla Casa Bianca. Nel numero di Grazia, il magazine diretto da Silvia Grilli, in edicola questa settimana Lucy Flores racconta la sua versione e spiega perché bisogna fare chiarezza prima delle elezioni del 3 novembre: «Non veniteci a dire, se Joe Biden non vince a novembre, che e colpa di noi donne. Sara solo colpa sua se non e capace di comportarsi da leader e convincere gli americani a votarlo. Noi donne lo abbiamo giustamente richiamato alle sue responsabilità». A Grazia l’attivista spiega perché è d’accordo con la richiesta de The New York Times di aprire un’inchiesta indipendente: «E importante avviare un processo equo per porre le domande importanti e cercare le prove. Solo cosi la gente potrà sentirsi bene scegliendo il prossimo presidente. Sarebbe orribile per noi donne dover decidere se votare per un candidato che e molto probabilmente uno stupratore e un altro che forse e uno stupratore». E a proposito di chi voterà alle prossime elezioni, svela: «Per Biden, perché altri quattro anni di Donald Trump alla Casa Bianca danneggerebbero ulteriormente noi donne». Sulle pagine del magazine Lucy confida anche di credere a Tara Reade, l'ultima donna che ha raccontato di essere stata trattata da Biden in modo non rispettoso: «Credo a Tara perché ha sempre raccontato gli stessi fatti a diverse persone fin da subito». E sottolinea: «Costa tantissimo a una donna esporsi con una simile denuncia: la tua reputazione è macchiata, ricevi insulti e minacce, persino di morte».

DAGONEWS il 7 maggio 2020. Come nella migliore delle tradizioni il passato ti trapassa. E così dal cassetto della memoria se si cita Valéry Giscard d'Estaing, finito nelle ultime ore nella bufera per le accuse di molestie sessuali da parte di una giornalista tedesca, non si può non ricordare la presunta relazione con lady Diana. Era il 2009 quando l’ex presidente francese in un romanzo «Il presidente e la principessa» rivelava di un flirt a metà degli anni '80 con una principessa di Cardiff che veniva ripetutamente tradita dal marito. Di certo c’è che Diana e Valéry, pur non avendo mai confermato il flirt, avevano un’ammirazione reciproca. Non era nemmeno un segreto che i due si incontrarono molte sia prima sia dopo il divorzio, ma vale la pena ricordare che il mandato di Giscard d'Estaing terminò nel 1981, quando Diana sposò il principe Carlo. L’epigrafe del romanzo recitava "Promessa mantenuta" facendo riferimento a una frase del libro pronunciata proprio dalla misteriosa principessa: «Mi hai chiesto il permesso di scrivere la tua storia. Te lo concedo, ma devi farmi una promessa». Quale fosse questa promessa rimane un grande punto interrogativo.

A 94 anni, Giscard d'Estaing denunciato per molestie sessuali. L'ex presidente francese accusato da una giornalista tedesca per palpeggiamento. I fatti risalirebbero a due anni fa durante un'intervista. Il suo assistente: "Non ne ha memoria". Anais Ginori su La Repubblica il 07 maggio 2020. L'ex presidente Valéry Giscard d'Estaing denunciato per molestie sessuali da una giornalista tedesca. I fatti risalgono a due anni fa, durante un'intervista negli uffici parigini di Giscard che oggi ha 94 anni. La giornalista Ann-Kathrin Stracke, 37 anni, inviata per la televisione Wdr, chiede alla fine del colloquio di fare una foto ricordo e al momento della posa davanti all'obiettivo Giscard la stringe contro di sé, palpeggiandola sulle natiche. "Molta sorpresa e disapprovando questo gesto che mi ha fatto sentire estremamente a disagio, ho cercato di allontanare la sua mano, ma senza successo" ha raccontato la giornalista a Süddeutsche Zeitung e Le Monde. L'ex presidente, secondo la testimonianza di Stracke, avrebbe poi di nuovo insistito al momento di mostrare alla giornalista le foto di lui con altri leader, fino a salutare la cronista con due baci, sussurrandole all'orecchio in tedesco: "Fai dei bei sogni". Le avances dell'ex leader - all'Eliseo tra il 1974 e il 1981 - sarebbero state così sfacciate che l'operatore della tv tedesca è dovuto intervenire. Tutta la scena si è svolta davanti all'assistente di Giscard che, secondo il racconto, sarebbe rimasta impassibile e avrebbe anzi salutato la giornalista congratulandosi: "L'ha davvero sedotto". Di ritorno in Germania, la giornalista confida i fatti alla direzione della tv che ha raccolto la sua testimonianza e quella dell'operatore, affidando la pratica a un studio legale. Qualche mese dopo, nel maggio 2019, gli avvocati mandano una lettera a Giscard: "La signora Stracke è rimasta estremamente scioccata dalle sue azioni. Non possiamo tollerare che i nostri dipendenti si trovino a doversi confrontare con tali situazioni e quindi speriamo vivamente che tali comportamenti non si ripetano in futuro". La lettera non riceve nessuna risposta. È solo adesso che la giornalista ha deciso di sporgere denuncia. "Non conoscevo bene il funzionamento della giustizia francese" ha spiegato, dicendo di essere stata spinta dal movimento MeToo a portare alla luce i fatti. "Questo movimento mi ha fatto capire quanto sia importante aprire il dibattito su temi di società" dice Stracke. Durante la sua lunga carriera politica Giscard ha sempre avuto l'immagine di un grande seduttore, ma non è mai stato denunciato prima con questo genere di accusa. A reagire alla notizia è il suo capo di gabinetto, Olivier Revol, secondo cui l'ex presidente, molto provato dall'età, "non si ricorda nulla dell'accaduto". "Se quello che è successo è vero, ne sarebbe addolorato ma non ne conserva memoria".

Ivan Marra per "cinema.everyeye.it" l'8 maggio 2020. È stato in silenzio per un bel po', Kevin Spacey: l'ex-star di House of Cards non faceva sentire la sua voce dalla seconda metà del 2019, ma proprio in queste ore un suo intervento è stato trasmesso durante la conferenza tedesca Bits and Pretzels. Spacey non ha usato mezzi termini per descrivere la situazione in cui si trova da quando, nel 2017, gli furono rivolte quelle ormai celebri accuse di molestie sessuali che, di fatto, hanno fatto precipitare in un baratro senza fine la carriera di quello che fino ad allora era uno degli attori più apprezzati del panorama mondiale. "Il mio mondo si è praticamente fermato nel 2017, non credo che per qualcuno ciò sia una sorpresa. Il mio lavoro, i miei rapporti sociali, le mie possibilità di permanenza nella mia stessa industria: tutto scomparso nel giro di poche ore. Ora ci troviamo tutti in una situazione simile, sebbene per motivazioni differenti" ha esordito Spacey, paragonando la sua situazione personale a quella che ha coinvolto il mondo intero dallo scoppio dell'emergenza coronavirus. "Provo empatia per chi ora sta provando la sensazione di non poter tornare a lavoro, o di perdere il proprio lavoro. È una situazione di cui è impossibile avere alcun controllo. [...] Tutto ciò che sapevo fare era recitare. Quando la mia carriera si è arenata, quando mi sono trovato di faccia alla possibilità di non esser mai più assunto come attore, mi sono posto una domanda che mai mi ero fatto prima, e cioè: se non posso recitare, chi sono io?" ha poi proseguito l'attore. Prima di questa conferenza, Spacey era apparso l'ultima volta in un video in cui invitava i suoi fan a non credere a tutto ciò che sentissero dire in giro; prima ancora, Spacey era apparso a Roma intento a declamare una poesia in pubblico.

Giuseppe Sarcina per il “Corriere della Sera” il 4 maggio 2020. Perché le accuse di Tara Reade contro Joe Biden valgono meno di quelle avanzate da Christine Blasey Ford contro il giudice Brett Kavanaugh? È la domanda che divide e imbarazza le donne impegnate nel movimento MeToo. Il candidato democratico ha risposto solo il primo maggio, in un' intervista televisiva con la Msnbc, alla versione di Tara Reade, registrata in un podcast a fine marzo. La donna, 56 anni, ha raccontato che nel 1993 lavorava come assistente nell' ufficio dell' allora senatore Biden. Un giorno il suo boss la spinse contro il muro, tentò di baciarla e le infilò le dita sotto la gonna, toccandole gli organi genitali. Tara, all' epoca aveva 29 anni, Biden 49 ed era già un parlamentare in vista nel Congresso americano. Ora l' ex numero due di Barack Obama smentisce «categoricamente» di aver molestato l' ex collaboratrice e chiama in causa lo schema più collaudato: è una manovra politica, «perché esce solo ora una storia di 27 anni fa?». È lo stesso argomento che i repubblicani usarono nel 2018 per respingere l' assalto alla conferma di Kavanaugh come giudice della Corte Suprema. In quelle settimane ci furono manifestazioni davanti a Capitol Hill, si mobilitarono le personalità più in vista del MeToo, nato nell' ottobre 2017 sull' onda del caso Weinstein. Nel Paese, sui media si sviluppò un grande dibattito. La vicenda di Biden, invece, per settimane è passata sotto silenzio. Non solo per il coronavirus. Le donne democratiche «si sono trovate come intrappolate», per citare Tina Tchen, leader di Times Up Now, associazione contro le molestie sui luoghi di lavoro. La candidatura di Joe fatica a consolidarsi. Le diverse anime del partito stanno cercando di puntellarla, in vista della sfida con Trump. Molte delle figure più rappresentative hanno deciso di accordare comunque piena fiducia all' ex vicepresidente, liquidando come infondate le rimostranze di Tara Reade. Ecco allora la senatrice di New York Kirsten Gillibrand dichiarare martedì 28 aprile: «Quando noi diciamo che dobbiamo credere alle donne, significa che va garantito il diritto a tutte di parlare e di essere ascoltate. Tutto ciò è successo con le accuse di Tara Reade. C' è stata un' indagine su diversi giornali. Il vice presidente Biden ha negato con veemenza e io mi schiero con lui». Avevamo lasciato Gillibrand sul palco montato nella Mall di Washington, il 21 gennaio 2017, giorno della prima Marcia delle donne. I suoi argomenti e toni erano completamente diversi. Biden ha già incassato l' appoggio «sulla fiducia» della Speaker Nancy Pelosi, di Hillary Clinton e di Stacey Abrams, la democratica georgiana che si sta agitando per diventare la vice di Joe. La spinta del MeToo stavolta si è rivelata fiacca. Non c' è stata una vera indagine. Gli organi del partito democratico hanno ignorato il problema. Abbiamo solo la versione di Tara e quella di Joe.

Paola De Carolis per il “Corriere della Sera” il 24 marzo 2020. È una località sciistica svizzera diventata sinonimo di ricchezza e potere. Ogni anno per una settimana Davos ospita politici, capi d' industria, banchieri, filantropi, filosofi, reali che si riuniscono per discutere dei grandi problemi globali. Il Forum economico mondiale, però, non è solo lavoro: le feste e i ricevimenti organizzati a corredo del summit hanno facilitato la nascita di un ambiente tossico per le donne, che rappresentano una minoranza. Da un' inchiesta congiunta del Times e dell' emittente britannica Channel 4 è emerso che tra pensatori e potenti serpeggiano discriminazione e misoginia, nonché comportamenti sessualmente impropri. «Il lato oscuro di Davos», titolava ieri il Times . All' interno un racconto raccapricciante. Donne d' affari prese di mira da imprenditori dall' atteggiamento predatorio, tanto che a tutte viene consigliato di non partecipare a riunioni ed eventi da sole. Un centinaio di operatori del sesso che in vicinanza del convegno si trasferiscono a Davos - la prostituzione è legale in Svizzera - per praticare in alberghi, bar, ristoranti. Il fondo patrimoniale pubblico russo che per i suoi eventi ingaggia modelle di intimo che fa arrivare appositamente da Mosca. Se da una parte il Forum sta cercando di modernizzarsi e invitare una comunità più mista e più equilibrata, dall' altra per le donne che vi partecipano - solo il 25% dei delegati - l' esperienza può essere negativa. Stando al resoconto del giornale, alle donne viene caldamente consigliato di prestare attenzione, soprattutto di notte. «Se vi succede qualcosa con un importante amministratore delegato a chi crederanno? A lui o a voi?». Un portavoce del summit ha sottolineato al giornale che c' è «tolleranza zero nei confronti di soprusi di ogni tipo» e che gli organizzatori non possono essere ritenuti responsabili per il comportamento dei vari rappresentanti fuori dagli impegni ufficiali del convegno. Per chi si batte per la parità di genere non basta: deve esserci, precisano gli attivisti, un cambiamento radicale. «Il convegno rappresenta un' occasione per riunire le persone più potenti della terra e le accuse di comportamenti sessualmente impropri e di misoginia macchiano tutto il summit», ha sottolineato Stella Creasy, attivista e deputata laburista. «Non fa onore al Forum neanche il fatto che i partecipanti siano al 75% maschi. L' uguaglianza fa bene al business, all' industria e alla società. È ora che se ne facciano una ragione anche eventi come questo». Per Gary Barker, altro attivista per la parità, «la presenza di operatori del sesso è un problema che gli organizzatori devono affrontare e risolvere. Non possono lavarsene le mani solo dicendo che si tratta di eventi paralleli che non fanno parte del programma ufficiale. Per le donne la presenza di cento prostitute non può che essere umiliante». Per coloro che hanno parlato in via anonima la situazione è di gran lunga peggiore nell' ambito del Forum rispetto all' ambiente lavorativo normale: «I predatori - sottolinea una dirigente - si sentono al sicuro perché sono tra gente amica, circondati da persone che vedono regolarmente e quindi saltano i limiti che generalmente si impongono. Si sentono invincibili».

Dagospia il 2 aprile 2020. Riceviamo e pubblichiamo:  “Egregio Direttore, Le scrivo in merito alla notizia da Voi pubblicata il 24 marzo 2020, dal titolo: “Incredibile: metti insieme sulle alpi svizzere centinaia di miliardari maschi, annoiati e di mezza (o terza) età e ottieni misoginia, molestie sfrenate e amore per la prostituzione...”, ove si riporta l’articolo della Dott.ssa Paola De Carolis per il Corriere della Sera del 23 marzo 2020, secondo cui l’incontro annuale del Forum sarebbe luogo misogino e di molestie. Il titolo da Voi impiegato e la mera ripubblicazione del frettoloso riassunto del Corriere di alcune recenti pubblicazioni giornalistiche inglesi (che, in modo fuorviante, confondono l'incontro annuale del Forum con altri eventi che si tengono a Davos al di fuori del controllo del Forum), determinano elevati danni alla nostra reputazione. La nostra Organizzazione adotta una politica di tolleranza zero nei confronti di qualsiasi molestia, anche a sfondo sessuale; i propri membri, come previsto dalla Carta di partecipazione e dal Codice di Condotta, devono garantire che durante l’incontro non occorrano condotte sgradevoli, intimidatorie ed offensive. Né il Forum, né la polizia svizzera hanno mai ricevuto alcuna denuncia di molestie durante l’incontro annuale. I membri invitati ed accreditati all’incontro annuale sono solo 3.000; oltre 30.000 sono invece i visitatori privati che si recano durante tale periodo a Davos per partecipare ad eventi privati in hotel e locali non promossi, gestiti o controllati dal Forum. Inoltre, l’articolo del Corriere, da Voi ripubblicato, riporta una dichiarazione da noi mai resa in quanto alterata dal Times di Londra, nel quale suggerite che ci siamo dichiarati non responsabili delle condotte dei partecipanti al di fuori della conferenza ufficiale. Invero, senza alcuna prova, Voi (e i giornali da cui avete tratto la notizia) indicate che le condotte moleste possano essere imputate ai partecipanti del Forum. La frase da Voi riportata: "Se vi succede qualcosa con un importante amministratore delegato a chi crederanno? A lui o a voi?" contrasta in toto con la formazione anti-molestie, che il personale riceve quando entra a far parte del Forum. Peraltro, non v’è prova che tale commento provenga da qualcuno collegato al Forum. In relazioni alla presunta prostituzione a Davos (che, peraltro, non è reato in Svizzera), il Forum non è tenuto per legge a monitorare ciò che accade nella città che ospita gli incontri annuali e, dunque, non può intervenire per impedire tali atti. Infine, la nostra Organizzazione favorisce una gender participation integrata ed equilibrata: dal 2015 al 2020 il numero delle donne che ha preso parte all’incontro annuale è aumentato dal 17% al 24%. Il Forum ha messo in atto un piano per raddoppiare il numero delle partecipanti donne all'incontro annuale del 2030, che però non sarà possibile senza un’azione sinergica da parte dei governi nazionali e del mondo dell’economia, volta a rinnovare la composizione della dirigenza”. Dott.ssa Amanda Russo Head of Media Content, World Economic Forum

Da ilfattoquotidiano.it l'11 marzo 2020. Charlie Sheen accusato di aver stuprato l’amico e collega Corey Haim nel 1986. Un’accusa pensante che arriva da Corey Feldman nel documentario (My) Truth: The Rape of Two Coreys. L’attore ha raccontato tutto travolto dalle lacrime: all’epoca dei fatti, Sheen e Haim stavano girando insieme “Lucas”, una commedia. I due attori erano giovanissimi: Sheen aveva 19 anni e Haim ne aveva 13. A confermare il racconto di Feldman c’è Susie Sprague, la ex moglie di Corey Haim che è morto nel 2o10 a 38 anni a causa di un edema polmonare. Quest’accusa nei confronti di Chariel Sheen era già venuta fuori nel 2017. L’attore aveva negato.

Concetta Desando per "iodonna.it" il 3 marzo 2020. Non è ancora uscito (la data prevista è il 9 aprile) ma l’autobiografia di Woody Allen, A proposito di niente, è già un caso editoriale. E non solo perché il libro sulla vita e sul lavoro di una delle figure iconiche del cinema uscirà in contemporanea mondiale (in Italia sarà pubblicato da La nave di Teseo), ma anche perché le polemiche sono già scoppiate. A partire da quella lanciata su Twitter dalla figlia adottiva di Woody Allen, Dylan Farrow.

Un libro di memorie. «Il libro è un resoconto completo della sua vita, sia personale che professionale, e descrive il suo lavoro nei film, a teatro, in televisione, nei night club e sulla stampa»: così la Grand Central Publishing, divisione Hachette Book Group (che cura l’edizione americana) presenta A proposito di niente. Oltre agli Stati Uniti, il libro uscirà contemporaneamente in Canada, Italia, Francia, Germania e Spagna, seguito da pubblicazioni in «in tutto il mondo» fa sapere l’editore americano. E c’è già grande attesa. Perché nel volume verrà raccontata non solo la già nota carriera artistica e professionale, ma anche tutte le vicende familiari e personali che hanno coinvolto Woody Allen in vicende come il #MeToo. E proprio per queste vicende la figlia adottiva del regista newyorkese, si scagliata sui social contro la pubblicazione del libro.

Dylan Farrow contro il libro del padre su Twitter. «La pubblicazione da parte di Hachette del libro di memorie di Woody Allen è profondamente sconvolgente per me personalmente e un totale tradimento per mio fratello, il cui coraggioso libro d’inchiesta (Catch and Kill, ndr), pubblicato da Hachette, ha dato voce a numerosi sopravvissuti alle molestie sessuali da parte di uomini potenti» ha scritto Dylan su Twitter. «Per la cronaca, non sono mai stata contattata da nessun revisore per verificare le informazioni in questo “libro di memorie”, a dimostrazione del fatto che Hachette ha abdicato in modo eclatante alle proprie responsabilità fondamentali. D’altra parte, la mia storia è stata sottoposta a un’analisi senza fine e non è mai stata pubblicata senza un approfondito controllo dei fatti» ha aggiunto. E ha concluso con un riferimento al potere e alla fama del padre: «Ciò fornisce ancora un altro esempio del privilegio profondo che il potere, il denaro e la notorietà offrono». Parole durissime, che riportano alla mente la guerra familiare di Woody Allen, cominciata proprio negli anni del #metoo.

Woody Allen, le accuse in famiglia e il #MeToo. In realtà, il nome di Woody Allen  è legato a #metoo in maniera diversa. Il movimento, infatti, ha contribuito a riportare alla luce una delicata situazione familiare che vede, da una parte, Woody Allen, dall’altra l’ex compagna Mia Farrow e una delle loro figlie adottive, Dylan. Proprio quest’ultima ha accusato il padre adottivo di averla molestata quando era ancora una bambina. Sostenuta dalla madre e dal fratello Ronan, la ragazzina avrebbe continuato per anni a raccontare la sua versione in una vicenda giudiziaria molto complessa: il regista si è sempre proclamato innocente, non sono stati trovati segni di abusi sessuali e pare che Dylan sia stata considerata plagiata dalla madre. Tuttavia, ciò non è bastato a preservare Woody Allen da #metoo: perché, sull’onda emotiva del movimento, alcuni attori come Michael Caine, Timothée Chalamet e Greta Gerwig si sono schierati contro di lui, è stato annullato un contratto con Amazon e il film Un giorno di pioggia a New York è uscito l’anno scorso in Europa ma non in America.

Le star dalla parte di Woody. Ovviamente non sono mancate le star che invece si sono schierate dalla parte di Woody, in primis Scarlett Johansson. Intervistata da Hollywood Reporter, la diva ha detto di credere all’innocenza del regista newyorkese e che lavorerebbe sempre con lui. Ma questa è un’altra storia.

Autobiografia di Woody Allen messa all’indice, ma l’Italia la pubblica. Fulvio Abbate de Il Riformista il 24 Marzo 2020. Woody Allen, a suo modo, oltre a vantare una palmarès di attore e autore, andrebbe valutato come protagonista di se stesso, e ancora andrebbe ritenuto lo psicanalista d’America, colui che ha provato a mettere sul lettino la sostanza essenziale degli Stati Uniti, meglio, quella parte del suo Paese-Nazione che segnatamente coincide con l’enclave di New York City, ancor meglio, Manhattan. Un pezzo di mondo che l’America profonda probabilmente reputa nient’altro che un’accozzaglia di “negri, ebrei e comunisti” (sic). L’America liberal e insieme “colta”. Non è un caso che i suoi film, fuori da quel contesto rassicurato dai comuni intendimenti radical-glamour, non abbiano mai sfondato, anzi, siano ritenuti una sorta di cinema d’autore, se non d’essai.  Leggiamo che il nuovo editore statunitense di Woody Allen, subentrato ad Hachette, d’accordo con l’autore, ha anticipato la pubblicazione della sua autobiografia, A proposito di niente, attesa per il 9 aprile. Da ieri intanto è disponibile l’edizione l’ebook, in anteprima mondiale, su tutte le piattaforme autorizzate. Così annuncia l’editore italiano dell’autobiografia, La nave di Teseo, confermando «la disponibilità a pubblicare l’edizione cartacea il 9 aprile, al prezzo di 22 euro, confidando che le librerie possano riaprire. Ma, ovviamente, dipende dalle disposizioni del governo in materia di coronavirus». «In un momento così difficile per l’Italia, avendo Woody Allen deciso di rendere comunque disponibile la sua autobiografia, ho pensato che anche i lettori italiani, costretti a stare a casa, dovessero avere l’opportunità di leggere questo libro tanto atteso di uno scrittore e regista tanto amato», così Elisabetta Sgarbi editore e fondatore de La nave di Teseo. «A me, leggere A proposito di niente ha dato ore di pura gioia e senso di libertà. Spero anche ai lettori». L’ebook sarà disponibile al prezzo di 15.99 euro. Dopo l’annuncio che l’autobiografia, sarebbe uscita, Dylan Farrow, ha continuato ad accusare il padre adottivo di averla molestata da bambina negli anni Novanta, definendo “sconvolgente” la pubblicazione in contemporanea mondiale, mentre Ronan, l’unico figlio biologico di Woody Allen e Mia Farrow che con Hachette ha pubblicato il bestseller Catch and Kill, ha annunciato che non lavorerà più con la casa editrice. «Ronan ha dato voce a molte donne sopravvissute di molestie sessuali da parte di uomini potenti», ha detto Dylan, parlando di un “tradimento” mentre il giovane Farrow ha scritto al Ceo di Hachette, Michael Pietsch: «Mentre lavoravamo assieme a Catch and Kill, un libro che parla anche del danno fatto da Allen alla mia famiglia, negoziavate segretamente per pubblicare un libro di una persona che ha commesso abusi sessuale. Onestamente non posso più lavorare con Hachette. Immagina come sarebbe stato se fosse capitato a tua sorella». Il memoir – ha spiegato Grand Central – racconta la vita, personale e professionale, del regista e attore, «attraverso il suo impegno nel cinema, a teatro, in televisione, nei nightclub e nella stampa». Nell’autobiografia Allen affronta anche «il suo rapporto con la famiglia, gli amici, e gli amori della sua vita». Dylan ha detto di non esser mai stata contattata direttamente dai “fact checkers” di Hachette per verificare le affermazioni del padre adottivo. «Questo ci dà un altro esempio del profondo privilegio consentito dal potere, il denaro e la fama. La complicità di Hachette dovrebbe essere denunciata per quel che è». Woody Allen ha 84 anni ed è considerato uno dei grandi registi viventi, suoi film come Io e Annie e Manhattan, vanta quattro premi Oscar, ma nel 2018 anche Amazon si era tirata fuori da un accordo multimilionario di produzione e distribuzione e molti attori come Colin Firth, Greta Gerwig e Timothée Chalamet avevano annunciato che non avrebbero mai più girato con lui. Quanto agli ultimi film, A Rainy Day in New York è uscito in alcuni paesi europei tra cui l’Italia ma non negli Usa, mentre l’ultima produzione, Rifkin’s Festival con Christoph Waltz e Gina Gershon, girato la scorsa estate, è ancora in attesa di un distributore. Nella sua autobiografia, Woody Allen restituisce se stesso, il suo percorso di autore, in quella linea della comicità “ebraica” che muove dai fratelli Marx, dai suoi primi film come Prendi soldi e scappa, poi gli omaggi a Bergman e a Fellini. L’attenzione verso il suo privato non ha mai incuriosito più di tanto il suo pubblico fidelizzato, nessun interesse verso le voci, metti, secondo cui Mia Farrow abbia chiesto al suo ex Frank Sinatra di trovare uno “spezzaossa” che mettesse a posto Allen, e ancora la relazione con Diane Keaton, sua attrice-feticcio che l’ha accompagnato nel racconto, sì, del nevrotico, ma anche, a suo modo, dell’anti sex symbol per definizione, quasi che Woody Allen abbia da dato dignità agli impacciati, in questo senso non si può che fare ritorno a quel Provaci ancora Sam, il film che seppe rivelarlo al grande pubblico. Lo stesso che non ha ritenuto necessario sindacare circa la sua relazione con la figlia adottiva Soon Yi. E ancora il merito incommensurabile di avere realizzato opere come “Zelig”, la storia dell’uomo camaleonte, capace di trasformarsi in tutto e nel contrario di se stesso. Poi, anni dopo, aver donato al cinema un gioiello come Harry a pezzi, dove ritrova il suo fulgore straordinario e si racconta colpito dal disturbo che lo mostra sfocato. È stato in quell’occasione che l’ho incontrato, Allen si era così tanto immedesimato nel personaggio che sembrava avanzare come un autentico non vedente. Scorgendolo da dietro, con la sua nuca, sembrava di riconoscere in lui Sten Laurel, tracciava il suo autografo con aria e mano smarrite, così molto prima che cominciasse l’epoca dei selfie. Nell’ideale scaffale dei libri dei grandi interpreti di se stessi, la sua autobiografia ha ben diritto di figurare accanto ai testi di Groucho Marx. Peccato che qualcuno avrebbe voluto metterli all’indice. Che illusi, tutti noi, a pensare che la caccia alle streghe fosse finita con la scomparsa del senatore Joseph McCarthy.

Flavio Pompetti per “il Messaggero” il 7 marzo 2020. Contratto stracciato e libro rinviato al mittente. Al termine di un braccio di ferro che durava da quattro giorni, la editrice Hachette ha dovuto piegare la testa di fronte alla crescente protesta, e cancellare i piani di portare in libreria l'autobiografia: A propos of nothing di Woody Allen. In Italia però il volume, dal titolo A proposito di niente, arriverà comunque con La Nave di Teseo, come annunciato ieri sera dal Direttore generale della casa editrice, Elisabetta Sgarbi. Il titolo con il quale il regista intendeva bollare le accuse di pedofilia che lo inseguono da decenni, ha finito comunque per ritorcersi contro di lui: il manoscritto non ha al momento un compratore negli Usa, e la sua uscita è compromessa da quanto è accaduto. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato lo sciopero interno dei dipendenti dell'azienda nella centrale newyokese del Rockfeller Center, dove si trova anche la Time Warner, acquisita dal gruppo francese. Almeno 75 di loro si sono astenuti dal lavoro giovedì e sono scesi in strada a manifestare in pubblico il loro dissenso per la scelta editoriale. Le tensioni erano iniziate martedì, quando la casa aveva annunciato di aver acquistato i diritti di pubblicazione del libro al quale Allen ha lavorato nel corso dell'ultimo anno e mezzo, e di voler portare il volume in libreria il nove di aprile. L'operazione è sembrata un blitz mediatico, con l'obiettivo di evitare il polverone di polemiche che si è invece immediatamente sollevato. Il primo a manifestare rabbia e frustrazione per quanto stava avvenendo è stato il figlio Ronan Farrow, negli ultimi anni assurto al ruolo di nemesi del patrigno. Ronan, a sua volta un famoso giornalista ed opinionista newyorkese vincitore di un premio Pulitzer, è da sempre schierato al fianco della sorella Dylan, la quale accusa Woody di averla molestata a diverse riprese nel 1992, nel periodo in cui si stava separando da Mia Farrow, e quando lei era una bambina di sette anni. Ronan è anche l'artefice della complessa inchiesta giornalistica e della raccolta di testimonianze che ha portato due anni fa alla denuncia degli abusi sessuali commessi dal produttore cinematografico Harvey Weinstein nel corso della sua carriera. L'articolo è stato anche una sorta di evento fondativo per il movimento #MeToo che è scaturito in seguito alla denuncia. Appena appresa la notizia dell'accordo stipulato dal padrigno, Ronan ha disdetto il patto che lo legava alla Hachette per la pubblicazione del suo prossimo lavoro: un'inchiesta dal titolo Catch and kill sulla pratica diffusa in certi ambienti del mondo dell'editoria di raccogliere dossier con notizie infamanti nei confronti di persone celebri, con il solo scopo di tenerle nel cassetto in cambio dell'amicizia e di favori da parte dell'accusato. Il figlio di Allen aveva comunicato sui social il suo profondo dispiacere per quanto stava accadendo: «I miei editori mi avevano tenuto nascosta la trattativa in atto, mentre continuavano a lavorare al mio progetto aveva scritto su Twitter Io stavo appunto scrivendo come i ricchi e famosi riescono a tenere nascosti i crimini sessuali che a volte commettono, grazie al loro potere e all'influenza che hanno nel mondo dei media. Mia sorella in particolare non è mai stata contattata da Allen o dai suoi collaboratori per raccontare la sua versione dei fatti che il patrigno ha cercato di contraddire nella sua biografia. Una versione che lei difende da tre decenni e che ha incontrato verifiche anche recenti». «È stato difficile prendere una decisione si legge nel comunicato con il quale la Hachette ha annunciato ieri la rescissione dal contratto Noi consideriamo il rapporto con i nostri autori molto importante, non cancelliamo un accordo facilmente, né ci tiriamo indietro di fronte a libri che hanno un contenuto controverso. Ma in questo caso, dopo una lunga concertazione interna con i nostri collaboratori, dobbiamo riconoscere che non c'è la possibilità di portare il libro di Allen in libreria con i nostri caratteri». Il regista non ha espresso nessun commento al diffondersi della notizia, né sua sorella e produttrice Letty Aronson ha accettato di rilasciare dichiarazioni. Per Allen restano solo due possibili soluzioni al momento: trovare in tempi brevi un altro editore e distributore del libro negli Stati Uniti, o decidere di portarlo in mercato a sue proprie spese. Le strade della finanza si sono ristrette negli ultimi anni per il prolifico creatore di film memorabili, e la distribuzione delle sue opere, al cinema come altrove, è ostacolata ogni volta dal muro di proteste di chi aderisce alla condanna di Dylan e di Ronan e lo ritiene un molestatore impunito.

Federico Pontiggia per “il Fatto quotidiano” il 27 marzo 2020. Woody contro tutti. Nell' autobiografia A proposito di niente, Allen spara nel mucchio: da Mia a Ronan Farrow, da Roman Polanski al #MeToo, fino agli attori che l' hanno rinnegato. Strano ma vero, salva Harvey Weinstein, non spettatori e lettori: "Di vivere nel cuore e nella mente del pubblico non mi importa niente, preferisco vivere a casa mia". Che per siglare un memoir, già disponibile in eBook e dal 9 aprile in libreria con La nave di Teseo, non è male. L' ottantaquattrenne regista non si limita a levare i proverbiali sassolini dalla scarpa, dalle quattrocento pagine piovono pietre.

Mia Farrow. L' ex compagna e musa poi acerrima nemica e grande accusatrice è il bersaglio principe dell' avvelenata. Prima usa l' ironia e la battezza "anagraficamente corretta" quale partner, poi fa il signore: "Su Mia circolavano voci cui mi rifiutavo di dare credito", quindi inizia a farla a pezzi. Sistematicamente. Il tramite sono i figli, biologici e adottivi, tra cui la futura moglie Soon-Yi: "Mia era convinta che Soon-Yi fosse un' idiota. () In seguito avrei capito che Soon-Yi era un diamante allo stato grezzo e che Mia non era una supermamma". Rispetto agli annosi addebiti di violenze sulla figlia Dylan, rende pan per focaccia: "Soon-Yi fu l' unica figlia adottiva che osò opporsi a Mia e incorse nella sua ira. Per questo venne picchiata - una volta con una spazzola, un' altra con un telefono; una volta Mia le lanciò contro un coniglio di porcellana, mancandola di poco". La mira l' aggiusta lui: "Appena Mia scoprì la nostra relazione, adunò tutti i suoi figli e non risparmiò loro nulla. Dopo aver detto loro che avevo violentato Soon-Yi - per cui Satchel, a quattro anni, diceva alla gente: 'Mio padre scopa mia sorella' - cominciò a fare telefonate per dire che avevo stuprato sua figlia minorenne. Dopodiché la chiuse in camera da letto, la prese a botte e a calci".

Dylan Farrow. 4 agosto 1992, il giorno in cui a detta della figlia Dylan, che all' epoca aveva sette anni, Woody l' avrebbe molestata. Allen ha un' altra versione: "Siccome non c' era posto per sedermi, mi piazzai sul pavimento e per un attimo posso avere appoggiato la testa in grembo a Dylan, che era sul divano. Di certo non feci nulla di inopportuno".

Ronan Farrow. Sostenitore della sorella Dylan nelle accuse al padre, Ronan Farrow è stato con le sue inchieste giornalistiche tra i fautori del #MeToo, ed è proprio lì che Woody lo bastona: "Volevano (il New York Magazine, ndr) dedicare a Soon-Yi la copertina ma dovettero desistere dopo che Ronan fece un' altra telefonata. Ora, non è la quintessenza dell' ipocrisia il fatto che Ronan abbia scritto un libro dove racconta dei tentativi della Nbc di sabotare la sua indagine su Harvey Weinstein? Sarei tentato di dire: basta che funzioni".

Harvey Weinstein. Premesso che "non avrei mai lasciato che producesse o finanziasse un mio film, perché () si impicciava e cambiava e rimontava", per il produttore condannato a ventitré anni di reclusione per abuso sessuale e stupro ha invero parole di encomio: "Oltre a essere un abile distributore, Harvey aveva un occhio per i film eccentrici e originali, ad alcuni dei quali aveva associato il proprio nome".

Roman Polanski. "Come regista mi sento naturalmente inferiore a Roman", confessa Allen, che convinto di andarci a cena si ritrovò invece nella villa di Roman Abramovich a Cap d' Antibes, ma nello scontro con la Farrow, Polanski non viene risparmiato: "Malgrado la finta indignazione per il presunto stupro di una minorenne, Mia prese un aereo per andare a Londra e testimoniare a favore di Roman Polanski, che aveva ammesso di avere avuto un rapporto sessuale con una minorenne e per questo era andato in galera". All' uopo, ricorda la replica di Samantha Geimer, la vittima di Polanski, alla Farrow: "Non ho bisogno delle sue scuse e non le voglio. Mi sono sentita usata da una persona che voleva vendicarsi contro Woody Allen".

#MeToo. Woody non ci sta a passare per nemico delle donne: "A dire il vero, per uno che ha subìto la sua dose di attacchi da parte dei talebani del #MeToo, non mi sembra certo di avere sminuito l' altro sesso".

Gli attori (e il New York Times). Gli attori che l'hanno boicottato e rinnegato, prima li infilza: "C' è chi ha dato il suo compenso in beneficenza piuttosto che accettare soldi sporchi. È un gesto meno eroico di quello che sembra, dato che noi possiamo permetterci di pagare solo il minimo sindacale". Poi li deride, con un rammarico per il "suo" giornale: "Un conto è se attori e attrici senza sale in zucca saltano su a dichiararsi pentiti di avere lavorato con me; ma il New York Times, fatto di uomini e donne seri che la pensano come me sulle cose importanti, mi ha proprio sorpreso".

Berlusconi. "Cresciuto con De Sica, Fellini e Antonioni", Allen ha avuto "l' onore di dirigere il grande Roberto Benigni" in To Rome with Love, che "è un brutto titolo. Nelle mie intenzioni doveva essere Nero Fiddled ("Nerone suonava la lira, più o meno" nella traduzione offerta a piè di pagina), ma ai miei finanziatori venne un colpo. Mi pregarono di cambiarlo almeno per il mercato italiano. Dopo tutto, era meglio che Berlusconi non si facesse un' idea sbagliata".

Marita Toniolo per "bestmovie.it" il 26 marzo 2020. Woody Allen accusa Timothée Chalamet nella sua autobiografia. Come già vi avevamo informati, è disponibile dal 23 marzo in versione e-book A proposito di niente, il libro firmato dal regista newyorchese e pubblicato da La nave di Teseo, che sarà disponibile in versione cartacea dal 9 aprile, e la cui vendita è stata bloccata dal gruppo Hachette negli States e in altri paesi. Tanti gli aneddoti sulla vita professionale e privata contenuti nel memoir, ma il libro è anche – com’era prevedibile – un’occasione per il celebre regista per poter diffondere la sua versione dei fatti sui presunti abusi alla figlia Dylan Farrow (per i quali si è sempre dichiarato innocente e per i quali ha subito un processo ed è stato assolto), che tanti guai gli hanno causato, soprattutto di recente con l’esplosione del movimento #metoo, a partire dall’ostracismo che sta subendo in patria fino alla causa legale con Amazon Prime. Ha attirato particolarmente l’attenzione il paragrafo dedicato agli attori che lo hanno rinnegato e, in particolar modo, quello dedicato a Timothée Chalamet, che se si rivelasse vero sarebbe davvero una brutta macchia per la reputazione del giovane attore. Allen nel libro dice, infatti, a proposito del giovane protagonista di Un giorno di pioggia a New York: “Tutti e tre i protagonisti di Un giorno di pioggia a New York sono stati eccellenti ed è stato un vero piacere lavorare con loro. Timothée ha poi dichiarato pubblicamente di essersi pentito di aver lavorato con me e che avrebbe donato il suo cachet in beneficenza, ma ha giurato a mia sorella che avrebbe potuto essere nominato agli Oscar per Chiamami col tuo nome e che il suo agente era convinto che avrebbe avuto maggiori chance di vincere se mi avesse denunciato pubblicamente, e quindi l’ha fatto. A ogni modo non rimpiango di aver lavorato con lui“. Quanto agli altri artisti che lo hanno rinnegato, come Greta Gerwig, Rebecca Hall, Mira Sorvino, Michael Caine e Colin Firth, ecco cosa ha scritto Allen: “Questi attori e attrici non hanno mai controllato i dettagli del caso (altrimenti non avrebbero tratto delle conclusioni con tanta certezza), ma ciò non gli ha impedito di parlare pubblicamente con tenace determinazione“. Nel caso di Chalamet la versione di Allen non gli farebbe certo onore. Un conto è rinnegare la partecipazione a un film o criticare un regista con cui si è lavorato per forti convincimenti personali, un altro per bieche ragioni utilitaristiche.

Woody Allen, «Gli abusi su mia figlia? Mi appoggiai a lei sul sofà. Di lì fu un’ordalia». Pubblicato lunedì, 23 marzo 2020 su Corriere.it da Irene Soave. «Purtroppo devo tornare al noioso argomento delle false accuse. Non è colpa mia, gente. Chi poteva immaginare che quella donna fosse così vendicativa? ». Arriva a pagina 376 (su 403, del resto il libro racconta 83 anni di una vita non priva di eventi) la «versione di Allen» sulle accuse di molestie alla figlia adottiva Dylan mossegli dall’ex compagna Mia Farrow: le stesse accuse che sono valse al memoir, intitolato Apropos of Nothing, il bando dal mercato americano, dove il gruppo editoriale Hachette, che lo avrebbe pubblicato,lo ha poi ritirato dalle stampe e mandato al macero la scorsa settimana. L’unico figlio naturale di Woody Allen, Ronan Farrow, aveva pubblicato proprio con lo stesso gruppo editoriale l’inchiesta-bestseller sugli abusi sessuali Predatori che gli era valsa, nel 2017, il Premio Pulitzer. E le sue pressioni, unite a uno sciopero degli editor, hanno determinato il dietrofront della casa editrice. Oggi — e di oggi è l’annuncio — lo pubblica anche negli Usa un altro editore: Arcade.In Europa il memoir esce lo stesso: oggi pomeriggio, in ebook, e il 9 aprile in libreria (se saranno aperte). In Italia si intitola A proposito di niente (La nave di Teseo, traduzione di Alberto Pezzotta, illustrazione di copertina di Tullio Pericoli). E molte pagine sono dedicate alla storia di abusi in famiglia che al regista è costata o valsa, secondo i punti di vista, il completo disdoro presso molte star di Hollywood, la rottura del contratto con Amazon che non distribuisce più le sue opere e ora anche il macero delle copie del suo libro. «Come me la cavai in questa ordalia? Il termine è adeguato: false accuse, un’orrenda campagna stampa contro di me, enormi spese legali». Il tono è quasi ovunque quello lieve dei narratori in prima persona dei suoi film più riusciti; qua e là ha invece il sapore di un’arringa: della figlia Dylan ripete molte volte che è «ritardata» e la frase «a dispetto di quel che dicono i giornali» ricorre spesso anche per un memoir. Sul pomeriggio del 4 agosto 1992, quando secondo la psicologa infantile che la visitò l’allora 7enne Dylan Farrow era stata vittima di abusi sessuali in soffitta da parte del padre, con cui era stata lasciata sola perché Mia Farrow era a fare compere, la versione di Allen arriva a metà del libro, ed è la prima volta che il regista, che per il resto ha sempre negato ogni addebito, racconta il pomeriggio così nei particolari. Eccola. «Eravamo tutti nel seminterrato a guardare la televisione, bambini e baby-sitter comprese. Siccome non c’era posto per sedermi, mi piazzai sul pavimento e per un attimo posso avere appoggiato la testa in grembo a Dylan, che era sul divano. Di certo non feci nulla di inopportuno. Era metà pomeriggio, ero in una stanza piena di persone, stavo vedendo la TV. Mia aveva detto a Alison, la nervosa baby-sitter della figlia di una sua amica, di fare particolare attenzione; e Alison disse alla sua datrice di lavoro, Casey, che a un certo punto avevo appoggiato la testa in grembo a Dylan. Anche se l’avevo fatto davvero, era una cosa del tutto innocua e non morbosa. Nessuno disse che avevo molestato Dylan ma, quando Casey telefonò a Mia il giorno dopo, riferendole quello che le aveva detto la sua baby-sitter, Mia si precipitò da Dylan. Secondo Monica, un’altra tata, avrebbe detto: “L’ho incastrato.” La testa in grembo con il tempo si sarebbe trasformata nelle molestie in soffitta».

Irene Soave per il “Corriere della Sera” il 24 marzo 2020. L'incipit è quello del Giovane Holden - «Non mi va di dilungarmi in tutte quelle s...ate alla David Copperfield» - ma le 403 pagine a seguire potrebbero anche fare il verso a un altro romanzo, e intitolarsi La versione di Allen . A proposito di niente , l' autobiografia del regista, è uscita ieri anche negli Usa dopo che il primo editore, Hachette, ne aveva mandato le copie al macero (lo pubblica da ieri in extremis un nuovo gruppo, Arcade). In Italia arriva in libreria con La nave di Teseo. E molte pagine sono dedicate, più che ad aneddoti da cineasta, alla versione di Woody Allen circa la storia di abusi sulla figlia Dylan di cui è accusato, e che gli è costata - o valsa, secondo i punti di vista - il disdoro di mezza Hollywood, la rottura con Amazon che non distribuisce più le sue opere e «una condizione generale di paria, che non ha comunque solo svantaggi: Hillary Clinton non ha voluto la mia donazione per la sua campagna, e mi chiedo se con cinquemila dollari in più avrebbe vinto in Pennsylvania o in Ohio». Al famoso pomeriggio del 4 agosto 1992 in cui avrebbe portato in soffitta la figlia adottiva Dylan per abusarne si arriva circa a metà libro. La tesi è quella che Allen ha sempre sostenuto: i ricordi della figlia, allora 7 anni, adottata prima da Mia Farrow e poi riconosciuta da lui, sono stati manipolati da sua madre, una donna «vendicativa» che aveva da pochi mesi scoperto, a casa di Allen, le Polaroid erotiche «da far salire la pressione a chiunque» scattate a sua figlia adottiva Soon-Yi, allora 19enne, e voleva rovinarlo. Ma è la prima volta che il regista racconta quel pomeriggio nei dettagli. «Eravamo tutti a guardare la televisione, bambini e baby-sitter comprese. Siccome non c' era posto per sedermi, mi piazzai sul pavimento e per un attimo posso avere appoggiato la testa in grembo a Dylan, che era sul divano. Di certo non feci nulla di inopportuno. Era metà pomeriggio, ero in una stanza piena di persone, stavo vedendo la tv. (...) La testa in grembo con il tempo si sarebbe trasformata nelle molestie in soffitta». Una testa in grembo: reggerà questa ricostruzione di fronte alle dettagliate lettere aperte e interviste che dal 2014 la figlia Dylan e soprattutto il fratello Ronan, che la difende, hanno rilasciato, raccontando Allen come un pedofilo? Nel frattempo Ronan Farrow - che Allen descrive nel libro come legato in modo morboso alla madre, «con cui dormiva, nudi entrambi, fino all' età di 11 anni», e che lo avrebbe convinto a sottoporsi a un intervento per allungarsi i femori, «perché hai successo solo se sei alto» - è diventato l' alfiere del movimento #meToo. Giornalista, le sue inchieste su Weinstein gli sono valse un Pulitzer. E la diceria che suo padre non fosse Allen, ma Frank Sinatra (con cui Mia Farrow era stata sposata tra il '66 e il '69) è liquidata nel memoir in quattro parole: «Penso che sia mio». Il tono di A proposito di niente è quasi ovunque quello lieve delle voci narranti dei suoi film - «C' è chi vede il bicchiere mezzo vuoto e chi mezzo pieno, io vedo la bara mezza piena», scrive definendosi «un misantropo solitario e claustrofobico, impeccabilmente pessimista - ma qua e là ha invece il sapore di un' arringa: della figlia Dylan ripete molte volte che è «ritardata» e la frase «a dispetto di quel che dicono i giornali» ricorre spesso anche per un memoir . Molti i sassolini che si leva dalle scarpe: Emma Stone, «credo non mi parli più perché disapprova il modo in cui mangio» e altri attori «seduti sul comodo carro del politicamente corretto»; i «talebani del #meToo», a cui Allen ricorda che «nei miei film ci sono 106 ruoli femminili, nelle mie troupe ho arruolato 230 donne e mai un rapporto inappropriato»; eccetera. Sulle donne del libro si staglia Soon-Yi, sua terza moglie dal 1997: «La migliore, che prima pendeva dalle mie labbra e poi mi ha avuto in pugno», è la dedica che apre il libro. Degno di un film di Allen, infine, il racconto del primo appuntamento con lei: «La invito a vedere Il settimo sigillo nella mia saletta e ci baciamo» interrompendo «una pedante lezioncina che le stavo facendo sul film». Oggi la chiameremmo mansplaining.

Woody Allen, finalmente l'autobiografia: "La mia verità: mai toccato Dylan, fu plagiata da Mia Farrow". Dopo contestazioni, boicottaggi e cambio di editore, improvvisamente è disponibile, da oggi pomeriggio, la verità del grande regista in versione ebook sulle piattaforme autorizzate di tutto il mondo che al di là dei temi caldi è godibile e pieno di aneddoti divertenti. Arianna Finos il 23 March 2020 su La Repubblica. A proposito di niente, titolo innocuo per l'autobiografia più controversa dell’anno, ha una dedica: A Soon-Yi, la migliore. Pendeva dalle mie labbra e poi mi ha avuto in pugno. Ecco le memorie di Woody Allen che, dopo contestazioni, boicottaggi e cambio di editore, improvvisamente è disponibile, da oggi pomeriggio, in versione ebook sulle piattaforme autorizzate di tutto il mondo. L’incipit: "Come il giovane Holden, non mi va di dilungarmi in tutte quelle stronzate alla David Copperfield". E in cui consegna la sua verità nel rapporto con Soon-Yi, con la figlia Dylan, con Satchel (Ronan) e con Mia Farrow, descritta come una donna gelida e una madre che maltratta i figli adottivi che considera come oggetti da comprare. L'ultima montagna russa di un libro che sarebbe dovuto uscire il 9 aprile, in Italia con La nave di Teseo di Elisabetta Sgarbi, che conferma la versione cartacea in libreria per la data concordata (a 22 euro), coronavirus permettendo, ma intanto sulla scia dell’improvvisa decisione del nuovo editore americano (dopo che Hachette aveva dovuto rinunciare per le proteste dei suoi dipendenti viste le accuse della figlia adottiva Dylan Farrow di molestie sessuali, mai però confermate dalle indagini), da un’ora è alla portata di tutti i lettori su pc, tablet e notebook per la cifra di 15 euro e 99. In un momento difficile, avendo #WoodyAllen deciso di rendere disponibile la sua autobiografia, anche i lettori italiani avranno opportunità di leggerla. Tutto quello che avreste voluto sapere sul cineasta newyorkese, vita personale e professionale, il lavoro sulla stampa, nei night club, in televisione, a teatro, al cinema. Si parte dal racconto, poco sentimentale, pieno di umorismo un po' cinico: dei genitori e l’infanzia a Brooklyn, spesso raccontata ma con aneddoti e particolari nuovi, il padre che aveva combattuto in Francia e fino alla fine girava per Brooklyn con la sua pistola, la mamma brillante ma non una bellezza, "tutti pensavano che scherzassi quando ho detto che somigliava a Groucho Marx". Prosegue il godibile racconto della gavetta professionale e sentimentale, poi però si arriva alla sua verità sul rapporto con Mia Farrow, con la figlia adottiva Dylan, e con il figlio Ronan che continua a chiamare Satchel. Dopo mesi in cui tentava infruttuosamente di mettere incinta Mia Farrow, l’attrice adottò una bambina che chiamò Dylan "immerso nei film che dovevo fare accolsi con indifferenza questa nuova adozione, pensando "Se Mia è contenta così, buon per lei". Le cose però presero una piega inaspettata. Presto mi affezionai alla piccola e mi trovai a passare sempre più tempo con lei, a tenerla in bracico e a giocarci insieme, innamorandomene e felice di farle da papà. Dopo un anno o due, vedendo che cominciavo a essere fin troppo ansioso, Mia mi disse: “Vedi che eri pronto per essere padre”. Racconta di schizzare fuori da taxi bloccati nel traffico per arrivare di corsa a casa di Mia prima che mettesse a letto Dylan, e poi come l’accompagnava alla scuola materna e a prenderla visto che era vicina a casa sua. “Una bambina dolcissima da coccolare, a cui leggere favole e cercare, forse inutilmente, di insegnarle le canzoni di Cole Porter. Ero un genitore amorevole senza esserlo legalmente”. “Quando alla fine adottai Dylan, Mia disse che ero stato un padre meraviglioso e che Dylan mi adorava”. Quando Mia Farrow annuncia di essere incinta "naturalmente diedi per scontato che fosse mio, malgrado lei abbia poi sostenuto che Satchel fosse figlio di Frank Sinatra, penso che sia mio, anche se non potrò mai averne la certezza". Scrisse un film con il personaggio di una donna incinta, Un’altra donna. Allen racconta la trasformazione del rapporto con la compagna quando, d'improvviso, le cose precipitano. Dice che a Mia è successo quel che capitò a Diane Keaton con le ostriche di cui andava pazza: "una sera in un bar di New York stava spazzolando un piatto di molluschi locali quando si rese conto di quel che stava per mettere in bocca. Da quel momento non toccò più un'ostrica in vita sua”. Così, racconta, fece Mia Farrow, dicendo che non avrebbe dormito a casa sua, che non voleva che stesse vicino al nascituro, che le restituisse le chiavi del suo appartamento". La teoria di Allen è che la compagna abbia pensato che, avendola messa incinta, avesse assolto al suo compito e fosse diventato inutile. Racconta di come ha continuato a fare il padre, di come le maestre a scuola testimoniassero che era lui a interessarsi dell’andamento scolastico di Dylan". Racconta che la sua governante vide in più occasioni Mia dormire nuda con Satchel, che ora si chiamava Ronan, "fino a che questi ebbe undici anni. Non so se qualche antropologo abbia qualcosa da dire in merito". Racconta che Mia si rifiuta di mettere il suo nome, come padre, sul certificato di nascita e che è ossessionata da Satchel, che diventa il favorito. I figli adottivi erano figli di seconda classe, per Mia "adottare un bambino era elettrizzante come comprare un nuovo giocattolo, ma non amava crescere i bambini e non si occupava granchè di loro". Racconta del suicidio dei due figli adottivi, il terzo quasi li imitò e una figlia sieroposiva mori di Aids da sola in un ospedale il giorno di Natale. Allen chiede di adottare Dylan e Moses. In quel momento, grazie all'analisi, realizza di essere stato da lei considerato solo un finanziatore. "Feci recitare Mia in dieci film, presi pure sua madre, sua sorella e suo fratello, le diedi un milione di dollari esentasse per tirare su meglio tutti quei poveri ragazzi". La relazione boccheggia, si presentano in coppia alle cene ma poi si separano. Ecco la storia d’amore con Soon-Yi, "lasciate che vi spieghi come due persone che non si piacevano particolarmente, siano diventati una coppia, sposata da oltre vent’anni e ancora appassionatamente innamorata”. Soon-Yi, dopo un’infanzia terribile, viene maltrattata da Mia – allora sposata con un altro uomo - che prendeva la ragazzina per i piedi e la metteva a testa in già, e la considerava poco intelligente. Che la trascina per i set del mondo e non la fa studiare. Seguono racconti terribili su come Mia fosse una cattiva madre senza nessun interesse per i figli adottati. "Se racconto questo è perché quando Soon-Yi venne a stare con me non era un'orfana ingrata che tradiva una benefattrice amorevole. E Soon – Yi ha una personalità forte, non è un fiorellino indifeso”. Racconta di come sia nata l’amicizia, il racconto delle malefatte della madre "fu l’inizio di una amicizia che pian piano si trasformò in qualcosa di diverso”.  Racconta del rapporto e delle foto erotiche fatte con una polaroid una parte delle quali lasciate inavvertitamente sulla mensole dove Mia le trova. Racconta ai figli che Allen ha violentato la sorella, dice a lui che Soon-Yi si vuole suicidare, lei fugge e gli racconta che non è vero e che la madre l’ha picchiata con un telefono. Ronan (ora Satchel nel racconto del regista diventa Ronan), tenta di non far pubblicare una intervista in cui Soon-Yi raccontava i maltrattamenti della madre. "Non è la quintessenza dell’ipocrisia che Ronan abbia scritto un libro dove racconta dei tentativi della NBC di sabotare la sua indagine su Harvey Weinstein? Sarei tantato di dire: basta che funzioni". Quando Soon-Yi lo chiama, Allen è cauto perché non vuole perdere la possibilità del rapporto con Dylan, Moses e Satchel, che "Mia controllava totalmente ed era disposta a usare come pedine”. Lo psicologo vede Soon-Yi parla con Mia e capisce quanto sia instabile, la ragazza dopo vicissitudini va a vivere da un'amica ma continua a telefonare a Allen. Arriva la triste, agghiacciante telefonata alla sorella di Allen in cui Mia avrebbe detto "Lui ha preso mia figlia? E mio mi prendo la sua" e al regista dice "Vedrai cosa ti ho preparato". Dylan e Satchel-Ronan sono piccoli e manipolabili, il più grande Moses meno, ragiona Allen che sottolinea che Soon-Yi non era minorenne e lui non era uno stupratore. Tentativi vani di composizione. Un sabato nella casa di campagna di Mia per un barbecue. Cerca di passare qualche momento sereno con Dylan, Moses e Satchel, torna in camera e trova un biglietto "il molestatore al barbecue, dopo aver molestato una figlia adesso tocca a un'altra". Mia telefona alla psicologa di Dylan dicendole che va fermato, la dottoressa l’avvisa e in aula poi testimonierà a favore di lui. Consegna, Allen, la sua verità sulla serata: "Eravamo tutti nel seminterrato a guardare la televisione, bambini e baby sitter comprese. Siccome non c’era posto per sedermi, mi piazzai sul pavimento e per un attimo posso aver appoggiato la testa in grembo a Dylan che era sul divano. La testa in grembo con il tempo si sarebbe trasformata nelle molestie in soffitta, ma la fantasia ispirata dalla canzone di Previn venne dopo". “Siamo seri: non c’è motivo per cui un uomo di cinquantasette anni con la fedina immacolata, nel bel mezzo di una causa per l'affidamento dei figli si rechi in territorio ostile e in mezzo a persone ugualmente ostili quest’uomo, al settimo cielo per aver scoperto l’amore della sua vita, scelga proprio questo luogo e questo momento per abusare della sua amata figlia di sette anni". Svela che fu Mia a suggerire a Dylan che era stata molestata, la ragazzina fu portata da un medico, negò, fu portata a prendere un gelato dalla mamma e tornando raccontò una storia diversa. Allen si appella alla testimonianza del figlio Moses per rivelare lo schema di minaccia e plagio che Mia chiedeva ai figli. Sarebbe stata la Farrow a fare dei video con Dylan nuda cercando di farle recitare la storia e lo fece arrivare a Fox News: "Davvero un bell'esempio di amore materno". Cita le conclusioni della prima indagine che è partita "E’ nostra opinione che Dylan non sia stata abusata sessualmente dal signor Allen. Inoltre crediamo che le dichiarazioni videoregistrate di Dylan e quelle fatte da lei direttamente a noi per le nostre valutazioni non si riferiscono a fatti realmente accaduti il 4 agosto del 1992...". Porta altre conclusioni dell’indagine e conclude "Non sono stato io a insinuare che Mia abbia fatto il lavaggio del cervello a Dylan. E’ una conclusione dello Yale New Haven Hospital". Conclude, amaro: "Ci sono ancora mentecatti che pensano che io abbia sposato mia figlia, che Mia fosse mia moglie, che io avessi adottato Soon-Yi e che Obama non fosse americano. Ma non c’è mai stato alcun processo. Non sono mai stato accusato di nulla perché, come è stato chiaro agli inquirenti, non è mai successo nulla".

Antonello Guerrera per repubblica.it il 24 marzo 2020. È stato il mostro sbattuto in prima pagina, accuse gravi di molestie sessuali e stupro nei confronti di colleghe e collaboratrici. Fino a qualche giorno fa i tabloid rilanciavano indignati le presunte ricostruzioni delle sue accusatrici in aula, che parlavano di "pervertito che metteva le mani ovunque come un polipo" o "mi ha toccato costantemente". Poi, la settimana scorsa, una testimone non è stata ritenuta credibile. L'epilogo è arrivato oggi: Alex Salmond, 56 anni, ex premier scozzese ed ex leader del partito nazionalista e indipendista Scottish National Party (Snp), è stato assolto da tutti i capi di accusa per cui era sotto processo da settimane a Edimburgo. Ed erano ben dodici, dopo la recente archiviazione di un tredicesimo relativo a un presunto stupro e un ultimo per cui non ci sono prove a sufficienza. "È stata provata la mia innocenza, ora ho molta più fiducia nella giustizia", ha dichiarato Salmond fuori dal tribunale della capitale scozzese, tradendo pochissime emozioni. "Ma il mio caso", ha aggiunto riferendosi al dramma mondiale del Coronavirus, "non conta niente se comparato a quello che sta succedendo in generale nel pianeta". Le accusatrici di Salmond erano/sono, tutte collaboratrici o lavoratrici nel partito Snp e all'interno del suo governo scozzese, dal 2007 al 2014, anno in cui Salmond perse il referendum, da lui fortemente voluto, dell'indipendenza della Scozia dal Regno Unito. Le accuse sembravano di una certa sostanza, visto anche il numero di donne che lo avevano denunciato. Quando lo scorso gennaio era esploso il caso, Salmond, con quell'aria da Danny de Vito e Braveheart insieme, aveva cercato nel frattempo accordi extra-giudiziari e arbitrati per fermare - inutilmente - la valanga. Allo stesso tempo però l'ex leader scozzese all'epoca aveva ripetuto che "sono innocente, combatterò fino all'ultimo per dimostrarlo e ho fiducia nella giustizia scozzese". Così è stato. Ora si aprirà sicuramente un altro processo, ma stavolta interno e politico, nel Snp. Perché non solo ora Salmond vuole tornare al suo posto in politica, ma ovviamente molte delle sue accusatrici ancora lavorano nel partito o nel governo di Nicola Sturgeon. Secondo i maligni, l'attuale premier ed ex prediletta del delfino e predecessore Salmond avrebbe avuto un ruolo in questa brutta storia giudiziaria di Salmond, "favorendo" le denunce e il processo contro di lui. Speculazioni al momento senza alcun fondamento, certo. Ma è scontato che ora ci sarà un (duro?) confronto all'interno dello Scottish National Party. Già, Nicola Sturgeon, proprio lei, 49 anni, l'ex delfina e favorita di Salmond. Dagli anni Duemila, sempre inseparabili, con lei rampante vice nell'ombra, mentre lui fa volare il piccolo Snp, maciullando i laburisti, conquistando la maggioranza assoluta al parlamento scozzese, sfiorando nel 2014 il "paradiso" dell'indipendenza ( 55% a 45% al referendum), per poi lasciare spazio proprio a Sturgeon. Fino alla rottura, definitiva, nel 2016, dopo il voto popolare sulla Brexit: Salmond insiste per lanciare un nuovo referendum di indipendenza, Nicola no, lo Snp crolla alle elezioni anticipate del 2017. Lui sbatte la porta incolpando Sturgeon della disfatta e se ne va a condurre un talk show su Rt, la tv filo-Cremlino russa, dove elogia Putin. La moglie di Salmond, Moira Mc-Glashan, 81 anni, di 17 più grande di lui e conosciuta proprio negli uffici governativi quando lui era un fresco e giovane economista per poi sposarsi nel 1981, ha sempre taciuto sinora. Ma Moira non dice mai niente, perché è una delle " first lady" più riservate di sempre, persino più di Norma Major. Non si fa mai vedere, né fotografare col marito, non ha mai concesso un'intervista, mai un discorso pubblico. Lei e Alex non hanno figli e la loro vita privata in un ex mulino del villaggio di Strichen è un vero mistero. Moira, molto probabilmente, non parlerà neanche stavolta.

Timothy Hutton accusato di violenza su una quattordicenne nel 1983. Lui nega. L'attore premio Oscar per "Gente comune" è stato accusato da una donna di averla violentata nella sua camera d'albergo. La reazione di Hutton: "Non l'ho mai incontrata, mi ricatta da anni". La Repubblica il 03 marzo 2020. Dalle pagine del sito americano BuzzFeed arriva un'accusa pesante nei confronti dell'attore americano Timothy Hutton, premio Oscar a vent'anni per Gente comune di Robert Redford e star della serie Almost Family. Una donna che oggi ha 50 anni, Sera Johnston, ha accusato l'attore di averla violentata nel 1983 quando lei aveva 14 anni ed era una modella dopo averla invitata in hotel, mentre era a Vancouver per girare il film Iceman. Johnston spiega di averlo denunciato soltanto lo scorso anno perché convinta che nessuno le avrebbe creduto, solo con l'esplosione del Metoo la donna avrebbe trovato il coraggio di alzare la voce. Variety riporta la risposta dell'attore che nega le accuse e contrattacca dicendo: "Negli ultimi due anni e mezzo sono stato il bersaglio di vari tentativi da parte di una donna, Sera Dale Johnston, di estorcermi milioni di dollari. Mi ha minacciato dicendo che se non avessi assecondato le sue richieste si sarebbe rivolta alla stampa con la falsa accusa di averla violentata 37 anni fa  in Canada. Non ho mai molestato la signora Johnston". Il sito BuzzFeed ha raggiunto diverse persone che frequentavano Sara Johnston all'epoca e sostengono la sua versione, compresa l'amica che era salita in camera di Hutton con lei, la madre della ragazza, che lavorava come decoratore di set, ha raccontato che all'epoca avevano pensato di sporgere denuncia e avevano deciso di non farlo per paura che questa denuncia rovinasse la possibile carriera della figlia nel mondo dello spettacolo.

Da "tgcom24.mediaset.it" il 3 marzo 2020. Secondo quanto riporta il magazine d'intrattenimento BuzzFeed, Timothy Hutton è stato accusato di violenza sessuale da una donna. La presunta vittima si chiama Sera Johnston e ha dichiarato che l'attore premio Oscar l'avrebbe aggredita nel 1983, quando aveva solo 14 anni, durante la realizzazione del film "L'uomo dei ghiacci" di Fred Schepisi. La Johnston ha presentato una denuncia alla polizia di Vancouver lo scorso anno e sostiene di essere stata invitata insieme a due amiche nel 1983 nella stanza d'albergo dell'attore, allora ventitreenne, e qui di essere stata violentata da lui e da un suo amico. BuzzFeed inoltre scrive di aver parlato con cinque persone che durante gli anni passati hanno sentito parlare la donna di questo avvenimento, mentre la madre delle Johnston sostiene di aver avuto paura di denunciare l'accaduto per le possibili ripercussioni lavorative (negli anni 80 era una scenografa nel mondo del cinema). Dopo l'articolo, il team legale di Timothy Hutton ha diffuso una nota ufficiale in cui l'attore denuncia: "Negli ultimi due anni e mezzo sono stato il bersaglio di molteplici tentativi d'estorsione da parte di una donna di nome Sera Dale Johnston per spillarmi milioni di dollari. Ha minacciato che se non avessi soddisfatto le sue richieste sarebbe andata alla stampa con una falsa accusa in cui l'avrei aggredita sessualmente 37 anni fa in Canada. Non ho mai aggredito la signora Johnston". Poi la star punta il dito contro BuzzFeed che avrebbe "scelto di pubblicare la falsa storia della signora Johnston. BuzzFeed conosceva la verità perché avevano prove documentate. Quello che sta realmente succedendo qui è che i tentativi d'estorsione della signora Johnston sono falliti. Ha quindi deciso di perseguire nella sua minaccia di andare alla stampa con una falsa storia". Quando l'attore ne è venuto a conoscenza rivela di essere andato all'FBI, "ho firmato una dichiarazione giurata e ho presentato una denuncia penale contro la signora Johnston per estorsione".

Arianna Ascione per "corriere.it" il 5 luglio 2020.

Un’opera controversa. È passato poco più di un anno dall'uscita di «Leaving Neverland», il controverso documentario del regista britannico Dan Reed su Michael Jackson che nel 2019 ha vinto un Emmy nella categoria Outstanding Documentary or Nonfiction Special. L’opera, incentrata sugli ex bambini prodigio Wade Robson e James Safechuck (che oggi hanno 37 e 42 anni), ha lasciato sotto choc e al tempo stesso diviso l'opinione pubblica. I due infatti hanno accusato il Re del Pop di abusi sessuali: le molestie e le violenze, raccontate con dovizia di particolari, risalirebbero ai tempi in cui frequentavano, con le loro famiglie, il ranch Neverland. Gli eredi di Jackson, che hanno definito il lavoro di Reed un «massacro da tabloid» («Leaving Neverland», della durata di quattro ore, è senza contraddittorio), si sono così ritrovati al centro di un nuovo polverone mediatico a distanza di parecchi anni dai processi che hanno visto la popstar - morta il 25 giugno 2009 - sul banco degli imputati per vicende analoghe (Jacko è stato sempre assolto, nel 1993 e nel 2005 ndr.), e hanno intentato una causa da 100 milioni di dollari contro l’emittente HBO che ha trasmesso il film. In seguito, per difendere la memoria dell’artista, alcuni componenti della famiglia hanno scelto di replicare espondendosi in prima persona sui media e partecipando ad un contro-documentario.

Neverland Firsthand. «Neverland Firsthand: Investigating the Michael Jackson Documentary», diretto da Eli Pedraza e caricato su YouTube il 30 marzo 2019 (ad oggi ha superato il milione di visualizzazioni), mostra le testimonianze raccolte dal giornalista Liam McEwan - tra cui quelle dei nipoti dell’artista Taj e Brandi Jackson - che smentiscono le ricostruzioni di Robson e Safechuck. Particolarmente critica Brandi, figlia di Jackie Jackson, che è stata fidanzata con Robson durante tutta l’adolescenza (anche nel periodo dei presunti abusi, ma la relazione non è stata citata in «Leaving Neverland»): ha descritto quest’ultimo come un opportunista («Sa posizionarsi nelle situazioni che lo possono avvantaggiare a livello finanziario»). A proposito delle accuse del coreografo - che nel 2005 testimoniò in favore della popstar e fu ritenuto dalla giuria il difensore più attendibile - in un’intervista a Billboard la nipote del Re del Pop ha dichiarato di essere venuta a conoscenza delle difficoltà attraversate da Robson in passato, tra problemi economici e depressione («Ricordo di aver sentito tutte queste storie e mi sono sentita male per lui in un certo senso, ma la vita è dura e la gente ritorna. È deludente e molto sconvolgente vedere cosa farebbe ad un amico»), e ha ricordato: «L'unica cosa che mi disse fu la fortuna di avere Michael come socio in affari e come amico. Devo dirti qualcos'altro: Wade racconta questa storia che lui e Michael erano sempre insieme. Non lo erano. Andavamo al ranch, io e Wade e la sua famiglia. Ci andavamo alcune volte al mese. Mio zio non è mai stato lì. Lavorava e viaggiava sempre». Tutte le sue affermazioni sono state contestate dal legale di Wade: «La signorina Jackson non era con Wade e Michael Jackson quando si sono verificati gli abusi sessuali - si legge nella nota inviata a Billboard - e non ha nulla di rilevante da dire sull’argomento».

Michael Jackson: Chase the Truth. «Neverland Firsthand: Investigating the Michael Jackson Documentary» non è l’unico documentario realizzato in risposta a «Leaving Neverland»: il 13 agosto 2019 Amazon Prime Video e YouTube hanno reso disponibile «Michael Jackson: Chase the Truth», diretto da Jordan Hill, con l'ex guardia del corpo Matt Fiddes e l'attore amico di Jackson Mark Lester. Entrambi puntano il dito contro Robson e Safechuck: a loro avviso infatti avrebbero agito mossi da un movente economico. Nel film compare anche Mike Smallcombe, biografo di Jacko, che aveva già sollevato più di una perplessità su quanto rivelato in «Leaving Neverland»: «Per tutti gli accusatori di Michael, si è sempre trattato di soldi».

I dubbi del biografo. Smallcombe, in un’intervista rilasciata al Mirror nell’aprile 2019, aveva segnalato una fondamentale incongruenza tra il racconto di Safechuck (che in «Leaving Neverland» aveva affermato di essere stato aggredito in una stanza che si trovava al piano superiore della stazione ferroviaria del ranch, e di aver subito abusi dal 1988 al 1992) e le date di costruzione della struttura, realizzata nell’arco del 1993. In quel periodo Jackson non si trovava nemmeno a Neverland: era impegnato con il Dangerous World Tour, che fu interrotto a causa delle accuse di molestie sessuali mosse dal padre dell’allora tredicenne Jordan Chandler (la vicenda si concluse con una transazione economica ndr.). La stazione ferroviaria entrò in funzione nel 1994: quell’anno Jacko si era trasferito a New York - ha vissuto nel suo appartamento all’interno della Trump Tower - per registrare l’album «HIStory». «L'ultimo punto è che, quando Jackson era a Neverland e la stazione ferroviaria era effettivamente aperta, era l'inizio del 1995» ha precisato Smallcombe, che ha anche condiviso su Twitter i permessi di costruzione datati 1993 a sostegno della sua ipotesi. «Sembra che non ci sia alcun dubbio sulla data della stazione. La data sbagliata è quella della fine degli abusi», ha replicato Dan Reed. Per quanto riguarda Wade Robson, ha aggiunto in un’altra intervista al Mirror il biografo di Jackson, le affermazioni fatte nel documentario si possono smentire dando un’occhiata alle dichiarazioni rilasciate da sua madre Joy in tribunale: nel 1993 ha testimoniato che il figlio era presente nel famigerato viaggio al Grand Canyon del 1990 (Robson aveva detto che gli abusi erano iniziati in occasione di quella gita, perché era stato lasciato da solo nel ranch insieme a Jackson).

Di nuovo in tribunale. Prima di «Leaving Neverland» Wade Robson e James Safechuck avevano citato (separatamente) le società dell’artista, rispettivamente nel 2013 e nel 2014, ma nel 2016 entrambi i procedimenti erano stati archiviati perché presentati a troppi anni di distanza dai (presunti) fatti. Nel 2020 però è entrata in vigore una nuova legge in California, che tutela i minori vittime di violenze e permette di presentare una citazione entro il compimento del 40mo anno di età. Per questo i due accusatori di Jackson sono pronti a tornare in tribunale: il loro intento è dimostrare che i lavoratori delle aziende della popstar sapevano (o avrebbero dovuto essere a conoscenza) degli abusi. «Avremmo dovuto essere ascoltati un paio di settimane fa, ma è stato tutto ritardato a causa del Coronavirus. Abbiamo fissato un'altra data a giugno - ha dichiarato l’avvocato Vince Finaldi lo scorso maggio - Sarà la prima udienza. C’è un nuovo giudice e tutto verrà risolto in un modo o nell'altro. Ci stiamo preparando per il processo che si terrà più avanti». Quando si era diffusa la notizia che la Corte d'appello aveva aperto le porte per un possibile nuovo processo, in seguito all’introduzione delle nuove norme, attraverso una nota il legale della controparte Howard Weitzman (che ha sempre bollato le dichiarazioni fatte in «Leaving Neverland» come false) aveva precisato: «Questa nuova legge estende il tempo per le vere vittime di abusi di presentare denunce legali. La sentenza provvisoria della Corte d'appello non è entrata nel merito delle accuse di Robson e Safechuck e la Corte non ha in alcun modo affermato che questi casi saranno sottoposti a processo. Né inverte le sentenze del 2015 che respingevano le rivendicazioni di Robson e Safechuck contro la proprietà, che sono definitive e non sono più soggette a ricorsi. Siamo fiduciosi che i reclami nei confronti delle società di Michael Jackson saranno, ancora una volta, respinti come è accaduto in precedenza».

Da "movieplayer.it" il 12 febbraio 2020. Macaulay Culkin, star del film Mamma ho perso l'aereo, si è aperto sulla sua amicizia con Michael Jackson, raccontando di come da bambino non abbia mai visto atteggiamenti non appropriati da parte del cantante. L'attore apparirà nella prossima cover story di Esquire, alla quale ha rilasciato una lunga intervista, parlando anche del cantante scomparso, accusato di numerose molestie sessuali e di pedofilia, rimarcando il fatto che, secondo lui, non ha mai agito negativamente: "Non mi ha mai fatto niente. Non l'ho mai visto fare nulla del genere. E, soprattutto in questo momento, non avrei motivo per dire una bugia. Ormai è morto. Non dirò che è alla moda o qualcosa del genere, ma sicuramente questo è un buon momento per parlare. E se avessi qualcosa da dire lo farei sicuramente." Culkin si riferisce anche al documentario Leaving Neverland, uscito l'anno scorso, e che ha fatto molto scalpore. A tale proposito, Culkin ha raccontato il suo incontro con James Franco, che lo salutò e gli chiese appunto della sua amicizia con Michael Jackson, facendo riferimento al documentario. In quell'occasione però Culkin disse a Franco: "Non vorrai parlare del tuo amico scomparso?" e chiuse lì la questione. Macaulay Culkin si è poi dilungato raccontando della sua lunga amicizia con Michael Jackson, nonostante la loro grande differenza d'età all'epoca, ben 22 anni, fondata su molti aspetti in comune. In primis, entrambi erano stati spinti dai loro padri a entrare nel mondo dello spettacolo fin dalla giovane età, ragazzi prodigio catapultati in un mondo dove il successo può annientarti. Il loro legame era così forte che il giovane attore è diventato anche il padrino della figlia di Michael Jackson, Paris, alla quale è ancora molto legato. L'ultima volta che i due si sono incontrati è stato nei bagni del tribunale della contea di Santa Barbara, nel 2005, dove Macaulay Culkin ha testimoniato a favore di Michael Jackson, accusato di aver molestato un giovane tredicenne. In quell'occasione Michael disse che non voleva influenzare la sua testimonianza, quindi non gli avrebbe detto nulla, ma si limitarono a scambiarsi un abbraccio prima di salutarsi.

Renato Franco per corriere.it il 28 febbraio 2020. Un inno femminista in cui Taylor Swift immagina come sarebbe più accomodante la percezione dei media se lei fosse nata nel corpo di un uomo: nel video del suo nuovo singolo — The Man — la cantante mette in scena tutti gli stereotipi di una mascolinità tossica. Irriconoscibile con la barba e in abiti da business man di Wall Street, Taylor Swift interpreta il ruolo di un uomo insopportabile che accumula tuttavia continui successi personali e professionali. Arrogante e prepotente, non si pone il problema di fumare il sigaro in metropolitana; sul suo yacht è circondato da un harem di bellissime ragazze in bikini; riesce pure a farsi nominare «padre dell’anno», ma anche questa è solo apparenza perché la sera va negli strip club a bere vodka e scommettere dollari. Il finale è scontato come le vite di molti super-ricchi: ormai vecchio si sposa con una simil-Barbie che sfoggia un diamante grosso come una noce.

Guadagna oltre 500mila dollari al giorno. The Man è tratto dall’ultimo album (Lover) della popstar che a soli 30 anni è tra le artiste più pagate del mondo: nell’ultimo anno ha guadagnato 185 milioni di dollari, pari a oltre 500mila dollari al giorno. Il suo messaggio è chiaro: dà voce a tutte le donne che nella vita lavorano e faticano il doppio per poter raggiungere gli stessi risultati ottenuti dagli uomini, ma che nello stesso tampo vengono accusate di essere troppo fredde, manipolatrici o giudicate in ogni aspetto, da quello estetico a quello caratteriale. «Sono stanca di correre così veloce / mi chiedo se potrei arrivarci più velocemente se fossi un uomo» canta Taylor Swift che non sta a sentire i consigli che le danno. Nel documentario di Netflix Miss Americana aveva spiegato infatti che le era stato spesso suggerito di stare alla larga dalle questioni politiche, per evitare reazioni negative.

(ANSA il 27 agosto 2020) - Roman Polanski non potrà tornare a far parte dell'Academy of Motion Picture Arts and Sciences. Lo ha deciso un tribunale di Los Angeles respingendo il ricorso presentato del regista franco-polacco contro la sua espulsione dall'ente che tra le altre cose assegna gli Oscar. Polanski, 87 anni, era stato espulso due anni fa per aver commesso violenza sessuale su una minore. Negli Stati Uniti esiste un mandato di cattura per lui fin dal 1978. L'anno scorso il regista aveva fatto causa all'Academy per essere riammesso ma la decisione del giudice di Los Angeles ha dato definitivamente ragione all'Academy. Prima di essere espulso Polanski ha fatto parte dell'Academy per quasi 50 anni e i suoi film hanno ricevuto 28 candidature agli Oscar. Nel 2003 ha vinto la statuina come miglior regista per il film "Il pianista".

Da "repubblica.it" il 27 febbraio 2020. Roman Polanski non andrà alla cerimonia per i premi César in programma domani a Parigi, dopo la decisione di un gruppo di femministe di manifestare contro le 12 nomination per il suo film J'accuse - L'ufficiale e la spia sul caso Dreyfuss. Lo ha annunciato il regista franco-polacco alla France Presse. "È con rammarico che prendo questa decisione - afferma nella dichiarazione -, quella di non affrontare un tribunale di opinione autoproclamatosi, pronto a calpestare i principi dello stato di diritto in modo che l'irrazionale trionfi di nuovo senza discussione". Il thriller storico sul caso Dreyfus è in lizza in 12 categorie, davanti a Les Miserables di Ladj Ly, il film sulle banlieue che ha scosso la Francia, e La Belle epoque di Nicolas Bedos, entrambi con 11 nomination. Un'edizione dell'Oscar francese particolarmente delicata dal momento che pochi giorni fa si sono dimessi i vertici dell'Accademia a seguito di una lettera pubblicata su Le Monde firmato da oltre quattrocento attori, registi, autori ed esponenti del cinema per denunciare una "gestione opaca ed elitista". Tanti i nomi che hanno sottoscritto la protesta, da Léa Seydoux a Gilles Lellouche, da Bertrand Tavernier a Omar Sy a Marion Cotillard.

César, polemiche su Polanski: si dimettono i vertici dell’Académie. Pubblicato venerdì, 14 febbraio 2020 da Corriere.it. I vertici dei Premi César, gli «Oscar francesi», giovedì 13 febbraio hanno rassegnato «dimissioni collettive» dopo settimane di polemiche incentrate sul regista Roman Polanski, il cui ultimo film «L’ufficiale e la spia», su Alfred Dreyfus, un ufficiale ebreo ingiustamente accusato di spionaggio per la Germania nel 1890, guida le nomination (dodici) in vista della cerimonia del 28 febbraio. «Per onorare chi ha fatto del cinema nel 2019, per ritrovare la serenità e fare in modo che la festa del cinema rimanga una festa, il consiglio di amministrazione dell’Associazione per la Promozione del Cinema ha preso all’unanimità la decisione di dimettersi. Queste dimissioni collettive permetterà di procedere con un rinnovo completo dei vertici dell’organizzazione», è stato annunciato in un comunicato. I gruppi femministi avevano denunciato le nomination e chiesto a boicottaggio del film. Non solo. Decine di personalità dell’industria cinematografica — tra cui l’attore «X-Men» Omar Sy e Berenice Bejo, protagonista nel 2011 film «The Artist» — avevano denunciato l’«opacità» dell’Accademia in una lettera aperta. Lo scorso anno Polanski ha lanciato il suo nuovo film in Francia, pochi giorni dopo che un’attrice francese lo ha accusato di averla violentata nel 1975, quando aveva 18 anni, durante una vacanza sugli sci a Gstaad, Svizzera. Polanski, ora 86enne, ha negato l’accusa. Il regista franco-polacco è fuggito dagli Stati Uniti dopo essersi dichiarato colpevole nel 1977 di aver fatto sesso illegalmente con una ragazza di 13 anni a Los Angeles. Le accuse contro Polanski precedono lo scandalo di molestie sessuali che ha coinvolto il produttore cinematografico di Hollywood Harvey Weinstein nel 2017. Ma la storia di Polanski è stata sottoposta a un rinnovato controllo dopo che il movimento #MeToo contro l’abuso e le molestie sessuali è rapidamente cresciuto in risposta alle accuse contro Weinstein, che è sotto processo per stupro e violenza sessuale a New York. Polanski è stato espulso dall’Accademia del cinema Arti e scienze nel 2018.

Il César a Polanski, Adele  e le altre attrici lasciano la sala per protesta. Pubblicato sabato, 29 febbraio 2020 su Corriere.it da Stefano Montefiori.  «Premiare Polanski sarebbe sputare al volto di tutte le vittime, vorrebbe dire che non è poi così grave violentare le donne», aveva detto Adèle Haenel qualche giorno fa (in un’intervista al New York Times). Così, quando venerdì notte a mezzanotte e un quarto il premio César del miglior regista è stato attribuito a Roman Polanski per «J’accuse», l’attrice 31enne si è alzata dal suo posto in platea e ha abbandonato la Salle Pleyel, non prima aver detto «E’ una vergogna» davanti alle telecamere. Molte altre donne, tra le quali Cèline Sciamma regista di «Portrait de la jeune fille en feu»hanno imitato il suo gesto e se ne sono andate quando ancora la cerimonia non era finita. Nel novembre 2019 l’attrice Adèle Haenel ha accusato il regista Christophe Ruggia di avere compiuto molestie sessuali su di lei quando aveva tra i 12 e i 15 anni. In una lunga intervista filmata alla testata online Mediapart, Haenel ha raccontato il ruolo di dominazione psicologica e fisica esercitato dal regista, che in seguito ha riconosciuto che la sua «adulazione» per Haenel aveva forse preso forme «fastidiose». In gennaio la donna ha presentato denuncia contro il regista, che è adesso sotto inchiesta per «aggressioni sessuali su minore di 15 anni da persona che aveva autorità sulla vittima». Haenel è diventata una delle protagoniste della rivolta del movimento MeToo nel cinema francese, la sua presa di posizione contro Ruggia e in generale contro il clima di maschilismo e abusi nel cinema francese ha contribuito a una presa di coscienza che ha portato, qualche giorno fa, alle dimissioni di tutta l’Académie des Césars. Sono stati creati nel 1976 sul modello degli Oscar e vengono attribuiti al cinema francese. Venerdì notte si è svolta la 45esima cerimonia, trasmessa come sempre in diretta televisiva, un momento molto importante nella vita culturale della Francia che ha vissuto probabilmente il suo ultimo momento della vecchia era. Ci sarà un primo e un dopo nel cinema francese, e la cerimonia di venerdì sera è l’atto di transizione tra le due fasi. Il regista autore di «J’accuse» è da anni al centro delle polemiche, che lo hanno accompagnato anche quando ha presentato il film alla Mostra del cinema di Venezia, l’estate scorsa. Ottantasei anni, Polanski è tuttora sotto inchiesta dalla giustizia americana per le «relazioni sessuali illecite» avute nel 1977 con l’allora 13enne Samantha Geimer, che lo ha poi perdonato e anzi chiede da tempo che la sua storia venga dimenticata. Ma Polanski è stato poi accusato nel tempo dal altre 11 donne, delle quali l’ultima è la francese Valentine Monnier. Per questo ieri sera Polanski non era presente alla cerimonia, come non lo era tutta l’équipe del film «J’accuse» tra cui il già premio Oscar per il miglior attore Jean Dujardin. Da anni ormai non solo in Francia imperversa il dibattito sulla possibilità di considerare l’opera di Polanski come distinta dalla sua vicenda personale. E la linea prevalente del governo, dopo l’uscita di «J’accuse», era di riconoscere la grandezza del cineasta e della sua opera pur condannando le sue azioni. «J’accuse» racconta oltretutto un episodio centrale nella storia della Francia, ovvero l’ingiusta persecuzione - perché ebreo - del capitano Alfred Dreyfus alla fine dell’Ottocento. Il film ha avuto critiche eccellenti pressoché unanimi, ma prima della cerimonia di venerdì sera il ministro della Cultura, Franck Riester, ha mischiato le carte: «Premiare ”J’accuse” come miglior film sarebbe comprensibile, meno accettabile invece premiare Polanski come miglior regista». Posizione curiosa, perché in ogni caso Polanski veniva premiato come regista e non come uomo. I giurati comunque non hanno seguito il consiglio del ministro e hanno voluto dimostrare la loro indipendenza attribuendo in effetti a Polanski il César del miglior regista, scelta che ha provocato la protesta di Haenel e delle altre donne.

César, a Parigi trionfa Polanski tra le proteste delle femministe: il regista ha disertato la cerimonia. Dentro lustrini e paillette. Fuori urla, scontri, lacrimogeni contro il regista accusato da diverse donne di violenze sessuali: è stata una cerimonia surreale quella organizzata per gli Oscar del cinema francese. Anais Ginori il 29 febbraio 2020 su La Repubblica. Dentro lustrini e paillette. Fuori urla, scontri, lacrimogeni. E' stata una cerimonia surreale quella organizzata per i César, gli Oscar del cinema francese. La festa è stata travolta da violenti tafferugli tra polizia e gruppi di femministe venute ancora una volta a dire la loro indignazione per le 12 nomination assegnate all'ultimo film di Roman Polanski, "L'ufficiale e la spia". A guidare la protesta fuori dalla Salle Pleyel c'era l'associazione Osez le Feminisme che aveva tappezzato i muri con slogan come "Violanski", sottolineando l'impunità del regista accusato da diverse donne di violenze sessuali. Attori e registi hanno dovuto passare attraverso fumogeni, all'interno di un cordone di sicurezza, per raggiungere il tappeto rosso. Tante le defezioni a cominciare da quella - auspicata da alcuni - di Roman Polanski che al momento delle nomination aveva invece salutato i giudizi "senza morale" dell'accademia. Il regista polacco di 86 anni era assente dopo aver spiegato di volersi sottrarre a un "tribunale autoproclamato". Una scelta che il ministro della Cultura ha definito "saggia". Ieri il suo produttore francese ha denunciato un "linciaggio" e nel pomeriggio si è scoperto che l'intero cast del film -. da Jean Dujardin a Louis Garrel alla moglie Emmanuelle Seigner - aveva deciso di disertare polemicamente la cerimonia. Altra clamoroso forfait dell'ultimora è stato quello di Brad Pitt. L'accademia francese voleva dare un premio alla carriera all'attore americano che, viste le tensioni, ha finalmente deciso di non presentarsi. Fino all'ultimo sono mancati anche gli artisti disposti a rimettere i premi: molti contattati hanno voluto restare lontano dallo scomodo palco. La contestazione fuori dalla festa del cinema è solo l'epilogo di un inedito crescendo di polemiche. Quindici giorni fa l'accademia francese che dal 1976 organizza la premiazione aveva presentato dimissioni collettive sotto la pressione di una parte del settore. Più di quattrocento attori, registi, autori ed esponenti del cinema avevano infatti denunciato una "gestione opaca ed elitista". Tra i nomi che avevano sottoscritto la protesta, da Léa Seydoux a Gilles Lellouche, da Bertrand Tavernier a Omar Sy a Marion Cotillard. Il rinnovamento auspicato dovrebbe portare più parità nei vertici dell'accademia (che erano 39 uomini su 47 membri) e un metodo di voto più trasparente. In attesa di una riforma degli statuti che è in corso, la presidenza a lungo occupata dall'intramontabile produttore Alain Terzian è stata assunta ad interim dalla produttrice Margareth Ménégoz. "Benvenuti all'ultima, pardon alla quarantacinquesima edizione dei César" ha esordito Florence Foresti che conduceva la cerimonia. L'umorista, molto impegnata nel movimento MeToo, ha citato Polanski con vari nomignoli, "Roro", "Popo", per poi concludere: "Ho deciso che non è abbastanza grande per fare ombra al resto dei nominati". E poi è scoppiato un lungo applauso per Adèle Haenel, attrice per 'Ritratto di giovane in fiammè di Celine Sciamma - in corsa con 11 nomination - e icona del movimento femminista francese dopo che nel novembre scorso ha denunciato il regista Christophe Ruggia di molestie quando era adolescente. Haenel e la regista Sciamma sono uscite dalla sala polemicamente quando, verso mezzanotte, è stato annunciato che il premio alla miglior regia era stato assegnato a Polanski. "Dargli un premio sarebbe come sputare in faccia alle vittime" aveva detto l'attrice qualche giorno fa. "L'ufficiale e la spia" ha vinto anche il premio per l'adattamento e quello per i costumi. Molte le donne protagoniste della cerimonia, dall'eleganza di Fanny Ardant (miglior attrice non protagonista per "La Belle Epoque"), alle lacrime di Flora Volpelière (miglior montaggio per "I Miserabili"), all'appello di Claire Mathon (miglior fotografia per il film di Sciamma): "Spero che le donne che faranno cinema in futuro seguiranno parità e diversità". Il premio al miglior film è andato a "I Miserabili" di Ladj Ly, la pellicola che racconta la vita di poliziotti di banlieue, già in corsa agli Oscar. "E' tempo di abbassare le armi e di unirsi - ha detto il regista, cresciuto nella periferia di Montfermeil - L'unico nemico non è l'altro, ma la miseria".

Polansky vince il Cesar ma il “tribunale del MeToo” lo contesta. Il Dubbio l'1 marzo 2020. Nuova protesta delle movimento femminista contro il regista che ha vinto con J’accuse’ (L’ufficiale e la spia), dedicato all’affaire Dreyfuss. Bufera sulla serata dei Cesar, il corrispettivo francese degli Oscar. Roman Polanski ha vinto il premio come miglior regista per il film J’accuse’ (L’ufficiale e la spia), dedicato all’affaire Dreyfuss. Ma il premio a un film che contiene un neanche troppo velato richiamo alla vicenda personale del regista ha scatenato una bufera. Un gruppo di manifestanti che urlavano “Polanski in carcere” ha cercato di fare irruzione nel teatro dove si svolgeva la cerimonia, mentre l’attrice Ade’le Haenel ha lasciato la sala per protesta. Era la quinta volta che il regista franco-polacco si aggiudicava il premio, dopo Tess nel 1980, Il pianista nel 2003, L’uomo nell’ombra nel 2011 e Venere in pelliccia nel 2014. L’intero cast, compreso il protagonista, Jean Dujardin, non si è presentato alla cerimonia, temendo proteste contro il film che, già premiato al festival di Venezia, aveva ricevuto dodici nomination. Il film è un thriller storico sull’affaire Dreyfus e il regista chiaramente fa riferimento alla sua vicenda giudiziaria nella quale si e’ sempre dichiarato innocente. Polanski condannato nel 1977 per violenza sessuale su minore negli Stati Uniti, evidentemente si sente come Dreyfus, accusato ingiustamente. Di origine ebraica, l’ufficiale dell’esercito francese fu degradato e arrestato per alto tradimento nell’agosto 1895 e riabilitato anni dopo grazie alla mobilitazione del mondo culturale, tra gli altri Emile Zola. Ma la metafora irrita e scontenta. L’attrice Ade’le Haenel, nuovo simbolo di #MeToo in Francia da quando ha accusato il regista Christophe Ruggia a novembre di averla “ripetutamente toccata” quando era adolescente, ha lasciato la stanza dopo l’annuncio del premio. Con lei qualche decina di persone. Prima dell’inizio della cerimonia, alcune centinaia di manifestanti – per lo più donne – avevano protestato fuori dalla Salle Pleyel: con bombe fumogene, avevano tentato di avvicinarsi, lanciando slogan contro il regista (“Polanski stupratore, cinema colpevole, pubblico complice”, “Vittime di Polanski, vi crediamo”, “Abbasso il patriarcato”). In un’intervista al Corriere della Sera, dove si ricorda che nel corso degli anni cinque donne lo hanno accusato di violenza sessuale, Polański ha dichiarato: “A ogni mio film succede qualcosa di simile a quello che è successo nei giorni scorsi. Dichiarazioni e accuse che finiscono per creare una palla di neve che rotola e si ingrandisce sempre più. Ogni volta c’è qualcuno che mi rimprovera qualcosa. Finora non ho parlato, ma sono la sola persona che può farlo e lo farò al più presto.”

Marco Giusti per Dagospia il 29 marzo 2020. Disastro ai Césars, gli Oscar francesi.  Un coro di “vergogna”, “fate schifo”, “vi vomito addosso”, “vergogna”, “banda di merde”, “violanski”, ha salutato la notizia della vittoria per la migliore regia a Roman Polanski per “J’accuse- Ufficiale e spia”, che assieme a tutta la sua troupe aveva già detto due giorni fa che non si sarebbe presentato alla cerimonia per evitare situazioni incresciose. Che si sono puntualmente verificate. La sua grande accusatrice, Adèle Haenel, vittima lei stessa di violenza sul set da bambina, candidata come attrice per “Ritratto di ragazza in fiamme” di Celine Sciamma, al momento della vittoria di Polanski, si è alzata assieme alla sua regista e al grido di “Vergogna”, “Bravo il pedofilo, bravo!”, se ne è andata furiosa. Altre attrici presenti in sala l’hanno seguita e si è scatenato un coro di insulti da ogni parte del mondo nei riguardi di Polanski, “E’ lo stesso corpo che stupra e che filma!”, e del cinema francese che non è riuscito a evitare l’inevitabile trappolone, “ridicoli”, “ci facciamo sempre riconoscere”. Certo, dopo la chiusura dei “Cahiers du Cinéma”, questo disastro dei Césars non è il massimo per il cinema francese. Il premio a Polanski e l’uscita clamorosa di Adéle Haenel, hanno inoltre tolto la scena agli stessi premi, soprattutto a quello del Miglior Film per l’esordiente Lady Lj e il suo bellissimo e combattivo “Les miserables”, che ha vinto anche il miglior montaggio e il miglior attore rivelazione, Alexis Manenti. “J’accuse” ha vinto anche, oltre alla regia, la miglior sceneggiatura non originale e i costumi. “Ritratto di ragazza in fiamme” di Celine Sciamma, malgrado le dieci nominations, ha vinto solo la miglior fotografia, ma soprattutto non ha vinto il premio per la migliore attrice per il quale era stata nominata Adéle Haenel, che è andato a Anais Desmoustier per “Alice e il sindaco”. Diciamo che il premio alla Haenel non avrebbe cambiato il corso della serata, magari però se ne sarebbe andata col premio sottobraccio o lo avrebbe tirato in testa a qualcuno. Tre Cèsars vanno a “La belle epoque” di Nicolas Bedos, sceneggiatura, scenografia e attrice non protagonista, Fanny Ardant. Miglior attore protagonista è Roschdy Zem per “Oh mercy” di Arnaud Desplechin, miglior opera prima “Papicha” di Mounia Meddour, miglior cartone animato “Ho perso il mio corpo” di Jeremy Chapin. 

Giampiero Mughini per Dagospia l'1 marzo 2020. Caro Dago, l’eventuale nostro postero che fra cent’anni volesse capire chi fossimo noi cittadini dell’anno 2020 dopo Cristo terrà più care le immagini del bellissimo film di Roman Polanski dedicato all’Affaire Dreyfus o invece quelle della plateale uscita di un’attrice francese dalla sala dove a quel film era stato assegnato un importante premio cinematografico? Non so dire, non so pronosticarlo e del resto non so pronosticare nulla di quel che accadrà del nostro vivere comune la prossima settimana. Di sicuro c’è che quel film è bellissimo, e trattandosi di opere d’arte questo è il verdetto che conta, il verdetto definitivo, il verdetto che non accetta appelli. Si tratti di un film, di un romanzo, di un edificio di rilievo architetturale, di un vaso in vetro di Murano, di una canzone anche se scritta al tempo in cui l’umanità si stava scannano e magari scritta da qualxcuno dei “vinti”. Voglio dire con questo che sottostimo le ragioni e i sentimenti dell’attrice francese Adèle Haenel, una che di recente aveva accusato un regista di averla violentata anni fa, la quale è uscita dalla sala urlando che aveva vinto “la pedofilia”? No no no. Ovvio che quelle ragioni e quei sentimenti li rispetto. Solo che se avessi fatto parte della giuria, avrei votato allo stesso modo distinguendo l’opera dalla biografia del suo autore. Ché altrimenti andrebbe riscritta la storia dell’arte nei secoli. Sappiamo tutti che Caravaggio non era un fior di santo e che Ezra Pound aveva pronunziato clamorose sciocchezze da una radio di Salò. Nessuna delle due biografie toglie un ette ai capolavori pittorici dell’uno e poetici dell’altro. Tutt’altro discorso quello sulle pene da erogare a chi si è dimostrato colpevole di violenze contro una donna, e beninteso se quegli atti e quei comportamenti sono stati dimostrati e meglio se a distanza ravvicinata dall’accaduto. Nel caso di una violenza dimostrata contro una tredicenne americana che gli si era presentata a cercare gloria cinematografica, Polanski ha pagato poco in termini di prigione, ha pagato abbastanza anzi molto in termini generali. La sua vita è stata segnata e distorta, e comunque la ragazza americana ha accettato un patteggiamento (alias una somma in denaro) e lei stessa ha più volte dichiarato di ritenere chiuso il malaffare. Tutto il resto delle accuse lanciate da altre donne contro Polanski? Non so non so non so. Di certo è una materia opinabile, com’è sempre il rapporto di un uomo con una donna. Sempre. E tanto più se lo rievochi a chilometri e chilometri di distanza dal tempo e dal momento in cui quel rapporto è avvento con la sua particolare e specifica ridda di “sì”, di “no” e di “ni”. E’ difficile giudicare per una giuria (e persino il processo a Weinstein lo dimostra), figuriamoci se è difficile al sottoscritto. Di sicuro c’è una cosa sola e lo ripeto, che il film di Polanski è bellissimo, e che a quello si deve attenere il giudizio di una giuria cinematografica o di una giuria letteraria che valutasse i romanzi di Louis-Ferdinand Céline, tra i picchi letterari del Novecento. La “pedofilia” non ha né vinto né perso in quella sala dove si assegnavano i Césars al meglio della cinematografia del 2019. Non c’entra niente, ma proprio niente.

«Il femminismo non è gogna pubblica, ma emancipazione. Lasciate in pace Polanski». Sara Volandri il 6 marzo 2020 su Il Dubbio. La scrittrice e giornalista francese Natacha Polony prende le difese del regista contestato duramente durante la premiazione dei César. Oltre le Alpi il caso Polanski sta assumendo i contorni di una vera e propria guerra ideologica. Il picco conflittuale di questo affaire si è raggiunto durante la surreale premiazione dei César (gli Oscar francesi) che ha visto migliaia di persone scendere in piazza a Parigi per contestare il premio per la miglior regia assegnato, per l’appunto, a Polanski per il suo J’accuse, pellicola consacrata al caso Deryfuss. Striscioni con il volto del cineasta quasi 90enne ribattezzato “Violanski”, slogan, insulti, tafferugli con le forze dell’ordine. Buona parte del movimento femminista transalpino si è infatti indignata per la celebrazione di un artista che, ai suoi occhi, non è altro che un volgare stupratore di minorenni. Il riferimento è alla violenza sessuale commessa nel 1977 a Los Angeles nei confronti di  Samantha Geimer, allora 13enne, che venne spinta ad assumere droghe e venne abusata mentre era in stato di incoscienza. Da quella squallida vicenda sono passati 43 anni e la stessa Geimer da oltre un quarto di secolo implora i media di lasciarla in pace, di non citare il suo nome, di non strumentalizzare il suo dolore, insomma di spegnere i riflettori. Ma che importa? Delle migliaia di femministe scese in piazza  chi ricorda il nome di Samantha? Probabilmente molto poche,  ed è logico, per il movimento Polanski è un archetipo, è il maschio bianco ricco, etero e stupratore. Lo spiega bene una delle sacerdotesse del femminismo francese, Virginie Despentes, che sulle colonne di Libération lancia una virulenta invettiva proprio contro i maschi “ricchi e dominanti e i loro piselli sporchi di sangue e di merda”. Parole durissime e ad effetto, con lo scopo di “smascherare” le liturgie patriarcali che tanto ammorbano la libertà delle donne. “La cerimonia dei César è un rito etero-patriarcale di riabilitazione dello stupratore Polanski, il maschio etero-patriarcale non considera lo stupro come una possibilità ma lo esige concettualmente come condizione per esercitare la sua sovranità maschile”. Un intervento “militante” che mischia la critica al maschilismo a quella della società capitalista facendo di tutt’erba un fascio, un intervento salutato da molti e molte intellettuali come una “boccata d’aria fresca”. Non la pensa così Natasha Polony, scrittrice e giornalista che sul settimanale Marianne attacca le intemerate di Despentes che a suo avviso non hanno nulla a che vedere con la battaglia per i diritti delle donne: “Al contrario di Despentes non credo che sia il patriarcato a impormi di depilarmi le gambe, non credo che prendermi cura del mio corpo voglia dire sottomettermi all’ordine maschile e alle mie figli insegno che il femminismo è emancipazione e non vendetta o pubblica gogna”. Polony continua, spiegando di “non provare alcuna tenerezza per Polanski”, ma ammettendo di amare molto i suoi film e di non considerare il regista come un simbolo della brutalità maschile: “Ci sono donne che hanno subito violenza che non danno la colpa a tutto il genere maschile e che rifiutano di rappresentarsi come delle vittime. Coloro che hanno confiscato la bella parola femminismo per farne uno strumento di vendetta non hanno il monopolio del discorso sui rapporti uomo-donna”. Ma l’aspetto che più fa indignare la scrittrice è la caccia ai “collaborazionisti”, ossia a chi non si è allineato al pensiero unico della pubblica gogna, collaborazionisti che per Despentes “umiliano le donne per procura, imponendo la legge del silenzio”. Insomma, gli uomini sono tutti colpevoli e se tacciono lo sono doppiamente in quanto proteggono la bestia con il muro dell’omertà. “E’ comodo il silenzio-conclude Polony-perché gli puoi far dire ciò che vuoi. E c’è da dire che il silenzio, di questi tempi, è quello che viene imposto agli universitari, ai giornalisti, agli scrittori, ai politici e a chiunque voglia criticare questo femminismo vendicativo. A gli uomini tutti, invitati a starsene zitti perché dominatori. Ma anche alle donne, sì, le donne che subiscono abusi e molestie sui mezzi pubblici o in ufficio che si ribellano alle prevaricazioni senza riconoscersi nella bulimia concettuale delle ayatollah del femminisno queer”.

Da ansa.it il 19 gennaio 2020. Oprah Winfrey fa un passo indietro sul documentario per raccontare le donne che hanno denunciato e accusato di molestie il produttore discografico Russell Simmons. Una rinuncia a essere produttore esecutivo che Oprah Winfrey inizialmente spiega con differenze dal punto di vista creativo con i registi. Poi però confessa: la decisione è legata al forte pressing di Simmons affinché molasse il progetto. Nella campagna per boicottare il documentario dell'era del #MeToo sono finite anche alcune delle donne che hanno denunciato il produttore discografico: hanno ricevuto tentativi di intimidazione. Alla regina del piccolo schermo, Simmons ha fatto notare come una delle sue maggiori accusatrici, Drew Dixon, stava mentendo sulle loro interazioni. Oprah - riporta il New York Times - ha ricevuto chiamate telefoniche anche da altre persone che hanno sollevato dubbi sulla credibilità di Dixon. Pur sostenendo di continuare a credere nella donna, Oprah Winfrey è stata costretta ad ammettere che la sua storia presenta delle contraddizioni. Da qui la decisione del passo indietro dal documentario, che rientra nell'accordo con la Apple. I registi però non demordono e confermano che la loro produzione esordirà come previsto al Sundance Film Festival il 25 gennaio.

Katia Riccardi per "repubblica.it" il 3 febbraio 2020. I segreti li tengono gli angeli. E quelli di Victoria's Secret sono infernali. Il super brand americano di lingerie e prodotti di bellezza fondato nel 1977 dagli imprenditori Roy Raymond e Gaye Raymond che per il nome si ispirarono alla regina Vittoria, il cui catalogo o le sfilate di moda sono magia e gli "angeli" modelle di successo internazionale, è finito in buco nero, nel mirino di un'inchiesta del Times. Tolte piume, paillettes e ali, restano corpi. E all'interno dell'azienda due uomini potenti hanno portato avanti per anni una radicata cultura di misoginia, bullismo e molestie. A denuciarlo sono oltre 30 dirigenti, impiegati e modelle, attuali e non, nonché atti giudiziari e diversi documenti. Dei comportamenti inappropriati di Ed Razek, 71 anni, per decenni uno dei massimi dirigenti di L Brands, società madre di Victoria's Secret, le lamentele sono state tante e ripetute nel tempo. Il suo provare a baciare le modelle, a sedersele in grembo. Le palpeggiava durante le sfilate, le molestava. E le modelle che provavano a lamentarsi subivano ritorsioni. Una di loro, Andi Muise, ha affermato che Victoria's Secret ha smesso di chiamarla per le sfilate di moda perché aveva respinto le avances di Razek. Insomma, tutti sapevano, tutti accettavano. Qualche dirigente ha spiegato però di aver tentato di avvisare Leslie Wexner, 82 anni, fondatore e amministratore delegato di L Brands, di quello che accadeva e dei comportamenti di Razek. Ma Wexner era uguale, complice e molto vicino a Razek, principale responsabile del marketing, quindi invincibile e intoccabile. "Era un comportamento radicato", ha detto Casey Crowe Taylor, ex dipendente di pubbliche relazioni presso Victoria's Secret, oltre che uno dei testimoni della condotta di Razek. "Potevano fare come volevano, il loro era un atteggiamente accettato come normale, consueto. In quell'ambiente ti facevano una specie di lavaggio del cervello. E chiunque abbia provato a fare qualcosa al riguardo non è stato semplicemente ignorato, è stato punito". Quelle che riporta il New York Times, sono nuove rivelazioni che si aggiungono all'inferno dei segreti degli Angeli. Victoria's Secret era già finita nello scandalo a causa del legame tra Wexner e Jeffrey Epstein, arrestato per abusi sessuali e traffico internazionale di bambini che avrebbero coinvolto oltre 10mila minorenni, e morto in carcere presso il Metropolitan Correctional Center di New York in circostanze misteriose il 10 agosto scorso. Epstein gestiva il patrimonio miliardario di Wexner, inoltre attirava giovani donne proponendosi come reclutatore di modelle per Victoria's Secret. L Brands, la società quotata in borsa che possiede anche Bath & Body Works, è a rischio. La trasmissione in tv della sfilata annuale di Victoria's Secret è stata cancellata dopo quasi due decenni. Razek si è dimesso da L Brands ad agosto e Wexner sembra stia per andare in pensione e vendere l'azienda di lingerie, ma non è una notizia ufficiale. In risposta alle domande del New York Times, Tammy Roberts Myers, portavoce di L Brands, ha rilasciato una dichiarazione a nome degli amministratori indipendenti del consiglio. "Ci rammarichiamo", ha affermato, senza contestare le dichiarazioni riportate dal Times. In una mail Razek ha dichiarato: "Le accuse sono categoricamente false, fraintese o fuori contesto. Sono stato fortunato a lavorare con innumerevoli modelle di livello mondiale e professioniste dotate, e sono orgoglioso del rispetto reciproco". Non ha aggiunto altro, e Thomas Davies, portavoce di Wexner, ha rifiutato di commentare.

Da lastampa.it il 16 dicembre 2019. A un mese dall’inizio del processo ai suoi danni per violenza sessuale, Harvey Weinstein ha rotto il silenzio. L'ex produttore cinematografico Harvey Weinstein, accusato di molestie sessuali da decine di attrici, afferma di essere stato uno dei pionieri del progresso delle donne a Hollywood. Sul 67enne pendono cinque capi d'accusa per stupro di una donna nel 2013 e aggressione sessuale per un'altra nel 2006, in cui si è dichiarato non colpevole. A questi si aggiungono decine di altre che lo accusano di abuso sessuale, con cui cerca di raggiungere un accordo finanziario. «Ho l'impressione di essere stato dimenticato», ha detto in un'intervista al New York Post pubblicata domenica. «Ho realizzato più film diretti da donne e con donne che di qualsiasi altro produttore», ha rivendicato l'ex magnate di Hollywood, «e sto parlando di 30 anni fa». «Non sto parlando di oggi, che è diventato una moda», ha aggiunto. «Sono stato il primo, sono stato il pioniere».  Juliette Binoche, presidente della giuria a Berlino: "Vorrei che Weinstein trovasse la pace nel suo cuore". Le accuse nei suoi confronti si sono moltiplicate dopo che alcune donne hanno denunciato di essere state stuprate: così è nato il movimento MeToo, che si è poi allargato a tutto il mondo.

Da rockol.it il 3 febbraio 2020. L'attrice Rae Dawn Chong, figlia dell’attore comico Tommy Chong, recentemente ha rivelato di avere intrattenuto una relazione sessuale con il frontman dei Rolling Stones Mick Jagger nel 1977, quando lei aveva soli 15 anni. A margine di un’intervista con l’Hollywood Reporter per il podcast “It happened in Hollywood”, Chong ha raccontato a Seth Abramovitch e a Chip Pope della sua apparizione nel video musicale “Just another night” di Jagger del 1985. Ricordando la sua partecipazione alla clip - che, come ha spiegato Rae Dawn Chong, le ha dato la possibilità di ottenere il ruolo nel film “Commando” del 1985 - l’attrice ha svelato di aver avuto rapporti sessuali con il leader della band britannica quando era quindicenne. Rae Dawn Chong ha chiarito la sua rivelazione durante un’intervista per il Daily Mail, sottolineando che il rapporto era stato consenziente e che Mick Jagger non conosceva l’età dell’attrice. “Non mi ha mai chiesto quanti anni avessi e non gliel’ho mai detto.” Ha spiegato Chong alla testata britannica e ha aggiunto: “Non è mai venuto fuori. Ricordo di aver pensato che fosse davvero carino. Aveva i capelli arruffati. Ho pensato: "Oh cavolo, è bellissimo".” Chong ha poi narrato: “Lui non ha fatto niente di male. Non ha fatto nulla che io non volessi.” E ha continuato: “Erano gli anni ’70, un’era diversa. Non ero una vittima. Non voglio che si metta nei guai per questo. Non è stato traumatizzante. Sapevo cosa stavo facendo. Non ero una studentessa innocente. Mi sono sempre comportata come se fossi più grande. Ero adulta a quindici anni.” Ricordando direttamente l’esperienza con Jagger, Rae Dawn Chong ha raccontato: “Aveva delle labbra grandiose ed era un gran baciatore.” E ha aggiunto: “Nella mia testa non era molto più vecchio di me. Aveva 33 anni, era giovane e meraviglioso con un bel corpo. Non è stata una brutta cosa, è stato favoloso. Davvero rock 'n' roll!” L’attrice al Daily Mail ha inoltre raccontato di essere stata insieme a Mick Jagger in più di un’occasione: una volta dopo aver assistito a una sessione di registrazione dei Rolling Stones e, in un secondo momento, dopo essere stata al concerto di Fleetwood Mac insieme a Jagger. “A 15 anni ero sicuramente una Lolita.” Ha detto Rae Dawn Chong. “Sapevo di avere il potere di scegliere e decidere qualunque uomo volessi. Ero desiderosa di avere ogni tipo di esperienza possibile. Mick ne faceva parte.” “Mi sento incredibilmente in colpa.” Ha spiegato Chong, in merito alla sua dichiarazione fatta durante il podcast dell’Hollywood Reporter, al giornale britannico - il quale riporta che Mick Jagger non ha ancora rilasciato dichiarazioni a riguardo. L’attrice ha aggiunto: “La mia famiglia e i miei amici lo sapevano, ma non è qualcosa che avrei raccontato a cena.”

Hollywood cambia dopo il #MeToo Addio ai «casting sul divano». Pubblicato venerdì, 31 gennaio 2020 su Corriere.it da Monica Ricci Sargentini. Hollywood è il mondo dei freelance, di chi cerca di vendere il proprio progetto o la propria bravura. Una manna per i predatori che sono difficili da contenere. Ma dopo lo scandalo Weinstein e il movimento #MeToo qualcosa sta veramente cambiando nel mondo patinato delle star e delle aspiranti tali. Ce lo racconta Elizabeth Harris sul New York Times: «A prescindere da come andrà il processo a Harvey Weinstein, i racconti di come ha usato il suo potere sulle donne hanno cambiato Hollywood in tanti modi, grandi e piccoli». Ci sono nuove regole su dove e come tenere gli incontri e denunciare una molestia è diventato più facile. Lo chiamano «casting sul divano», un eufemismo per dire che si chiede un rapporto sessuale in cambio della parte: «Se vieni a letto con me farò di te una star, altrimenti ti rovinerò» il leitmotiv. «Ogni volta che Darryl ha un rapporto sessuale con una ragazza, nasce una stella» scriveva nel 2005 Scott Eyman a proposito di Darryl Zanuch, direttore di uno studio cinematografico. E non era una pratica limitata a Hollywood. Già nella prima metà del novecento il proprietario del teatro di Broadway Lee Shubert aveva un elegante boudoir dove ricattava le aspiranti attrici. Al tempo le ragazze non avevano nessuno cui chiedere aiuto. Oggi si sta correndo ai ripari. La Warner Bros, per esempio, ha creato una squadra dedicata a raccogliere le denunce. E la commissione di Hollywood, guidata da Anita Hill, sta mettendo a punto un sistema in cui chiunque può presentare un reclamo per discriminazione o molestia. Gli attori sono incoraggiati ad evitare colloqui a tu per tu in stanze chiuse e isolate. Il sindacato Sag-aftra ha emesso delle linee guida in cui si raccomanda di non prendere appuntamenti negli hotel e nei residence. E al limite, se proprio non si può evitare, presentarsi accompagnati. Molti studio hanno deciso di fare casting nelle lobby degli alberghi in modo da essere alla luce del sole. E, se nella sceneggiatura sono previsti momenti di sesso, ci si rivolge al «coordinatore dell’intimità» per evitare che l’attore o l’attrice si senta a disagio. Ogni scena viene definita nel dettaglio: quello che verrà o non verrà mostrato, la possibilità di coprirsi nei momenti di pausa. Certo ai registi l’idea non piace, hanno paura che il rapporto diretto con l’attore venga compromesso ma ne capiscono la necessità. Al Sundance Film Festival, che si svolge in questi giorni a Park City, nello Utah, l’ufficio del procuratore generale ha istituito una hotline da chiamare in caso di minacce, proposte indecenti, molestie o quant’altro. Sono state almeno due le donne che hanno denunciato di essere state violentate o abusate da Weinstein durante la kermesse cinematografica. La vera soluzione, però, sarebbe avere più donne nei posti di potere per cambiare la cultura del business cinematografico. Nel 2011 soltanto il 4% dei 200 film migliori era stato diretto da una regista, nel 2017 si era arrivati al 13%. Un progresso troppo piccolo. Nei maggiori studio, compresi Disney, Warner Bros, Netflix e Amazon, l’82% dei direttori esecutivi è maschio e il 91% è bianco, secondo uno studio condotto da Darnell Hunt, docente all’Università della California.

Weinstein: "Da produttore sono stato un pioniere a sostegno delle donne nel cinema". Le parole dell'ex magnate di Hollywood in un'intervista al 'New York Post' scatena le critiche delle sue accusatrici: "Dice di non voler essere dimenticato. E infatti non lo sarà. Sarà ricordato come un molestatore, una persona che ha abusato". La Repubblica il 16 dicembre 2019. A meno di un mese dall'avvio del processo che lo vede imputato con l'accusa di molestie sessuali, Harvey Weinstein in un'intervista al New York Post difende il suo passato e afferma di essere stato uno dei pionieri del progresso delle donne a Hollywood. Dichiarazioni che hanno scatenato le critiche delle attrici e registe che lo hanno accusato. L'ex produttore cinematografico, 67 anni, il 6 gennaio in aula deve rispondere di cinque capi d'accusa per stupro di una donna nel 2013 e aggressione sessuale per un'altra nel 2006, in cui si è dichiarato non colpevole. Nel frattempo sta cercando di raggiungere un accordo finanziario che richiede il via libera del tribunale e la firma finale di tutte le parti. Un patteggiamento extra-giudiziario da 25 milioni di dollari che riguarda decine di presunte vittime dell'ex produttore che lo hanno denunciato civilmente per molestie e stupri. Weinstein, che è comparso in tribunale camminando a fatica con l'aiuto di un deambulatore, non dovrebbe pagare nulla di tasca propria né dovrebbe ammettere le aggressioni sessuali di cui è accusato. "Ho l'impressione di essere stato dimenticato", ha spiegato al quotidiano durante un'intervista effettuata venerdì, il giorno dopo una delicata operazione alla schiena, a seguito di un incidente stradale, nel mese di agosto. "Ho realizzato più film diretti da donne e con donne che di qualsiasi altro produttore", ha rivendicato l'ex magnate di Hollywood, "e sto parlando di 30 anni fa, non di oggi, che è diventato una moda", ha aggiunto. "L'ho fatto per primo, sono stato il pioniere". "Sta cercando di manipolare ancora una volta" è la replica di 23 delle sue accusatrici in una nota diffusa sui social dal movimento Time's up. "Dice di non voler essere dimenticato. E infatti non lo sarà. Sarà ricordato come un molestatore, una persona che ha abusato". "La Repubblica si batterà sempre in difesa della libertà di informazione, per i suoi lettori e per tutti coloro che hanno a cuore i principi della democrazia e della convivenza civile".

·        Harvey Weinstein: il MeToo dell’Irriconoscenza.

Paolo Giordano per il “Corriere della Sera” il 3 novembre 2020. A ripercorrere il caso Weinstein oggi, tre anni dopo l' inchiesta del «New York Times» che ne segnò l' inizio, si viene colti da uno strano senso di incredulità. Più di novanta attrici si sono fatte avanti per accusare il produttore di molestie o peggio: com' è possibile che il sistema intorno a un uomo a tal punto compromesso abbia retto senza scalfitture per oltre trent' anni? Il potere, perfino l' onnipotenza non sono sufficienti a spiegarlo. Doveva esserci qualcos' altro, un architrave più solido a sostegno del silenzio: un' infrastruttura culturale. Ci sarebbe molto da discutere se il movimento #MeToo germogliato dal caso Weinstein abbia infine rappresentato la svolta che prometteva di essere, se sia stato all' altezza dei suoi obiettivi, ma è indubbio che Harvey Weinstein incarni simbolicamente il tramonto di un' epoca, se non per usi e abitudini - tuttora in essere, e chissà per quanto - almeno come clima culturale. Per questo meritava un racconto letterario che scavalcasse la cronaca giornalistica cercando di cogliere il significato profondo, tragico della sua figura, e soprattutto della sua caduta. Per Emma Cline, che per prima si è assunta questo compito, il significato ultimo va ricercato proprio nell' incredulità. L' incredulità di tutti noi, ma ancora prima quella del protagonista di Harvey (Einaudi Stile libero) : Harvey, sì, quell' Harvey, Weinstein in persona, talmente riconoscibile da non doverne menzionare il cognome, eppure interamente inventato. Cline lo immagina nella giornata precedente l' udienza che lo porterà alla condanna. Harvey trascorre nella villa in Connecticut di un amico le ultime ore di semilibertà - «semi» perché ha comunque un braccialetto alla caviglia, sopra i calzini rossi che acquista dallo stesso fornitore del Papa. Insieme a lui c' è Gabe, il cameriere rimasto a vegliare sulla casa, che lo accudisce con la cordialità inappuntabile e gelida di chi sa come andranno le cose. Arrivati a quel punto del processo, d' altronde, tutti lo sanno: gli avvocati che Harvey interpella al telefono con modi sferzanti che non potrebbe più permettersi, la giornalista che chiama nel cuore della notte e da cui viene liquidato, anche sua figlia Kristin, che passa a trovarlo più per astratto dovere filiale che per affetto e già non vede l' ora di tornarsene a New York. Chiunque sa come andrà, tranne Harvey stesso: «Era convinto, in tutta sincerità, che l' avrebbero prosciolto». Il senso di impunità che lo avvolge non è un semplice corollario del suo strapotere nell' industria cinematografica: è una qualità dell' aria, il dogma che dà forma alla sua vita. Così, dentro quelle ore di solitudine e sospensione, ogni evento trascurabile diventa per Harvey una promessa di riscatto, il segnale inequivocabile e divino che la situazione si risolverà nel migliore dei modi. Perché «Dio era il capo, ma Dio aveva una predilezione per certe persone», lui in testa. «-Buongiorno, - disse Harvey al di là della recinzione, un allegro saluto tra vicini di casa, e Don DeLillo fece ciao con la mano». Ebbene chi altri, se non Dio, potrebbe aver creato quella coincidenza? Fargli incontrare in quel giorno cruciale, nel giardino accanto, il più leggendario degli scrittori viventi, l' unica figura capace di competere, in quanto a fascino, con Harvey stesso? Don DeLillo esce in pigiama nella foschia del mattino per raccogliere il giornale dal vialetto, Harvey lo spia e la fantasia gli s' infiamma: già si vede a definire con DeLillo gli accordi per la cessione dei diritti del libro più desiderato dall' industria e mai portato sullo schermo, «il libro che era impossibile trasporre in un film». Rumore bianco sarà il grande ritorno di Harvey agli Oscar! Riesce a immaginare il cast, le scenografie, le interviste di backstage , e la gloria, sì, la gloria! Perché se la gloria è stata su di te per trent' anni, non può che tornare su di te ancora e ancora. «Essere incuriositi da una coscienza non si traduce nell' approvazione di quella coscienza», ha dichiarato Emma Cline in un' intervista. In effetti, pur prendendo parte alle visioni di Harvey, non parteggiamo mai per lui. Siamo incuriositi dai suoi pensieri e dalle azioni minime che compie, ma non morbosamente incuriositi. Strano è che in un racconto che ha come epicentro oscuro le molestie e gli stupri, quei pensieri non sfiorino mai i corpi femminili. Non c' è traccia alcuna di quei corpi nella memoria di Harvey, i trascorsi di cui viene accusato non esistono e la giuria, l' indomani, non potrà che attestarlo. Cline sceglie, magistralmente, di condensare trent' anni di sopraffazione del femminile in un' unica scena, apparentemente secondaria. Durante un viaggio in India per visitare un set, Harvey viene portato al cospetto di un guru anziano, lo stesso che diede ai Beatles i loro mantra. Seppur riluttante, finisce per cedere alla tentazione di conoscere quale sia il suo di mantra, la frase che racchiude il senso della sua esistenza, ma quando il guru glielo mormora a mezza voce Harvey sta tirando su sgraziatamente con il naso, dopo aver bevuto troppa Coca-Cola, e non riesce a sentirlo. Sull' aereo del ritorno, frustrato e risentito, Harvey si avvicina alla sua giovane assistente. Con poche frasi odiose, la costringe a dirgli il suo mantra, che non andrebbe svelato a nessuno, mai. Lo fa così tanto per, a sfregio, il gusto di prendersi qualcosa di intimo che non gli appartiene; lo fa perché semplicemente può farlo. «Alla fine, l' altra non poteva evitare di occupare la realtà di Harvey». Ma di corpi, in Harvey, esiste solo il suo. Invecchiato, malandato come dev' essere realmente, al netto della teatralità del deambulatore nell' aula di tribunale. Un corpo con il quale Harvey stesso dimostra di non avere mai avuto confidenza, se nella vasca da bagno si comporta ancora come da bambino e distoglie gli occhi mentre s' insapona il sesso. Cline non tradisce alcuna emozione verso quel corpo, non disgusto, non pietà. Spogliato del potere, lo trova soprattutto meschino, e un po' ridicolo. In generale, è difficile stabilire che cosa Cline provi nei confronti del suo personaggio. La si direbbe un' empatia priva di compassione, un interesse senza attrazione. Nei giorni in cui scoppiava lo scandalo Weinstein, Cline scrisse un articolo per «The Cut», un articolo in cui metteva in fila le molestie subite nel corso della sua breve carriera di scrittrice, oltre a un fatto più violento legato a un ex fidanzato. Confessava di aver provato, ascoltando le accuse rivolte a Weinstein, più una paura immobile che una rabbia attiva, e scavava in quella immobilità per cercare lì la radice del potere maschile. «La paura è più facile della rabbia» diceva a un certo punto, quasi a sé stessa, come un' esortazione. Harvey è, evidentemente, il risultato stringato e incisivo dell' autoanalisi iniziata allora, anzi prima, perché già Le ragazze era a tutti gli effetti un romanzo sulla paralisi che afferra molte vittime di abusi. In Harvey Cline prosegue il percorso d' immedesimazione fredda in personaggi reali che incarnano il Male, iniziato con Charles Manson. Ma qui le distanze vengono accorciate, e di parecchio, perché protagonista non è più una delle vittime, anzi le vittime non esistono più, rimane solo il carnefice nel suo labirinto. Superata la paura, Cline deve aver superato anche la rabbia, tanto da potersi sedere comodamente accanto all' aggressore per ventiquattro ore, senza un filo di disagio, e poterlo contemplare nudo nella vasca da bagno o intento a scaccolarsi davanti allo specchio. L' orco non fa più paura, è innocuo, sconfitto, patetico. I tempi sono cambiati e lui è rimasto l' unico a non saperlo. Perciò l' indomani Harvey verrà condannato senza capire perché. Dalla villa con servitù nel Connecticut si troverà all' improvviso in una cella, con indosso la divisa carceraria al posto del maglioncino morbido di Loro Piana e in testa un sospetto di ingiustizia subita. Ancora si rifiuterà di credere a quell'inversione repentina del destino, e ancora si chiederà se l' uomo che ha incontrato fosse davvero Don DeLillo. Nella sua mente s' insinuerà lento un dubbio, il dubbio che gli sia «sfuggito qualcosa, qualcosa di evidente. Possibile che i suoi istinti lo allontanassero tanto dalla realtà? Forse... forse»; domande simili a quelle che funestarono le ultime ore di Ivan Il' ic - «E se davvero tutta la mia vita, la mia vita cosciente, non fosse stata "come doveva"?» -, sebbene nel mondo tramontato di Harvey non ci sia spazio per altrettanta profondità. No, Harvey non arriverà mai a conoscere il suo mantra, perché quando ne ha avuto l' occasione era impegnato a risucchiare un bolo di catarro all' interno del naso.

Da "Agi" il 9 ottobre 2020. Il produttore cinematografico Harvey Weinstein è stato accusato di una nuova violenza sessuale in una denuncia presentata in un tribunale di Manhattan. La presunta vittima, che ha voluto rimanere, sostiene di aver subito abusi e di aver incontrato Weinstein per la prima volta all'età di 19 anni mentre partecipava al Festival di Cannes del 1984. Originaria dello Stato della Pennsylvania e ora cinquantacinquenne, la donna sostiene che inizialmente Weinstein non mostrò alcun interesse nei suoi confronti, ma che, a partire dal 1992, cominciò a interessarsi a lei, fino ad arrivare ad "avance sessuali indesiderate". La donna sostiene di aver incontrato Weinstein in tre occasioni. L'ultimo incontro avvenne a casa del produttore, che aveva invitato la donna ad assistere a un dibattito per le presidenziali nel 2000. E in quell'occasione, la donna avrebbe subito uno stupro. Dopo il presunto stupro, la vittima afferma di aver subito "un grave stress emotivo". L'avvocato di Weinstein, Imran Ansari, ha dichiarato che il suo cliente si difenderà da queste accuse. Weinstein è stato accusato di abusi sessuali da più di 90 donne, e attualmente sta scontando una pena detentiva di 23 anni a seguito di un processo a New York, sebbene sia anche accusato di violenza sessuale a Los Angeles. Meno di una settimana fa, l'ufficio del procuratore distrettuale della contea di Los Angeles lo ha accusato di tre presunti stupri, che si aggiungono alle numerose accuse di violenza sessuale che il produttore ha già affrontato nella città californiana. 

Caso Weinstein: altri sei capi di imputazione per l’ex produttore di Hollywood. Il Dubbio il 2 ottobre 2020. La Procura della contea di Los Angeles ha formulato nuove accuse per violenza sessuale nei confronti di cinque donne. La Procura della contea di Los Angeles ha incriminato Harvey Weinstein, l’ex produttore di Hollywood caduto in disgrazia, per altri sei capi d’accusa per violenza sessuale nei confronti di cinque donne. Secondo quanto riporta il Los Angeles Time, Le nuove accuse nei confronti Weinstein, 68anni, al momento detenuto a New York dopo essere stato condannato a 23 anni dalle autorità di quello Stato per reati sessuali, riguardano episodi avvenuti dal 2004 al 2013 in alcuni hotel della città. In particolare, una delle presunte vittime sarebbe stata violentata in due diverse occasioni, nel novembre 2009 e nel novembre 2010, in un albergo di Beverly Hills.

"Weinstein non era con Asia...": una testimone "inguaia" la Argento. Una testimone potrebbe riaprire il caso Weinstein con dichiarazioni inedite sulla famosa notte di Cannes, quando la Argento sarebbe stata stuprata dal produttore. Francesca Galici, Venerdì 28/08/2020 su Il Giornale. Pare ci siano nuovi elementi nel caso Harvey Weinstein che potrebbero dare una nuova svolta e aprire a nuovi scenari finora non contemplati. A rivelarlo è Francesco Specchia su Libero, svelando l'esistenza di un "verbale di investigazioni difensive esperite art.321 nonies codice procedura penale (italiano)" e intervistando una testimone chiave. Attualmente, Harvey Weinsteinsi trova rinchiuso nel carcere di New York con un'accusa di stupro di secondo grado, che gli garantisce al momento 23 anni di carcere. Ma l'indiscrezione che circola con insistenza nei tribunali di New York e nella procura di Roma potrebbe cambiare tutto per il produttore Miramax e mettere in discussione la posizione di Asia Argento, dalle cui dichiarazioni è partito il movimento Me Too. Abbandonato anche dalla famiglia, ora Harvey Weinstein è un uomo solo ma può ancora agire su un fronte per "per ripristinare soltanto la verità, con la richiesta di un solo dollaro per risarcimento danni". A riaprire il caso potrebbero essere le dichiarazioni di Anna Lola Pagnani, testimone giurata che ancora non è stata ascoltata per ragioni di opportunità, i cui racconti contraddicono quelli della grande accusatrice, Asia Argento. L'ex ballerina dei Momix, ora regista, spiega che Harvey Weinstein e Asia Argento non si sono conosciuti a Cannes nel '97 ma qualche mese prima a una festa a New York, alla quale aveva partecipato anche la Pagani. La donna spiega nello specifico la dinamica di quella serata, organizzata da Abel Ferrara per reperire fondi necessari alla realizzazione del film New Rose Hotel, del quale la Argento era protagonista. L'obiettivo di Abel Ferrara pare fosse quello di ottenere un finanziamento proprio da Harvey Weinstein. "Asia insistette in modo feroce per conoscerlo, diceva che glielo dovevano assolutamente presentare: disse che il padre le aveva parlato benissimo di Weinstein e che con Weinstein le attrici vincevano l'Oscar", ha dichiarato Anna Lola Pagani a Libero, ricostruendo la genesi dell'incontro tra l'attrice e il produttore. In quell'occasione sarebbe nata la relazione tra la Argento e Harvey Weinstein, di cui la Pagani è sicura: "Me lo confermò mesi dopo lo stesso Abel Ferrara che si lamentava. Nell'ambiente si dice che la relazione proseguì per un po', ma io non ho avuto personale evidenza. Direi che Abel soffriva molto, soffriva fino a piangere perché Asia stava con lui e contemporaneamente l'aveva tradito con Dafoe e lo stesso Weinstein". I fatti di Cannes raccontati da Asia Argento sarebbero successivi nella dichiarazione di anna Lola Pagani: "Asia dice di essere stata invitata, nel maggio '97, a Cannes ad una festa delle Miramax che poi non ci sarebbe stata, di avere lì incontrato Harvey per la prima volta e di essere stata violentata. Invece la festa c'era eccome; e io mi ricordo lei, bella come il sole, entrare in un salottino prima della sala della festa ed avvicinarsi a me e ad Harvey". A un certo punto, la Pagani avrebbe lasciato la Argento e Harvey Weinstein da soli: "So per certo che non c'è stata alcuna violenza in stanza da Harvey". La certezza di Anna Lola Pagani nel dichiarare che Harvey Weinstein non avrebbe violentato la Argento in quella stanza d'albergo è frutto di un'esperienza personale: "Non c'è stata alcuna violenza in stanza, perché quella notte, a letto con Harvey, c'ero io... La sera in cui Asia Argento dice di essere stata stuprata (con la lingua), io mi accompagnavo a Harvey con cui avevo una liaison. Facevo l'amante, nel rispetto del ruolo e in quello della di lui moglie e dei figli". La Pagani ci tiene a specificare di non aver mai girato un film con Harvey Weinstein e il giornalista le fa notare di non aver avuto un tempismo perfetto nel raccontare la sua verità: "Io queste cose le dissi subito, quando scoppiò lo scandalo, ma non mi diedero retta neppure le Iene. Asia ha un movimento politico molto forte che le sta dietro. Non me ne viene nulla a ripeterle". Il quadro che Anna Lola Pagani, ormai fuori dall'ambiente cinematografico, fa di Harvey Weinstein è diverso da quello finora conosciuto: "Harvey è certamente un donnaiolo, i giudici dicono un predatore sessuale, ma da qui allo stupro ce ne passa. Lui non ha tempo di stuprare nessuno o di dire 'se non me la dai non lavori'. Ho visto io stessa carrettate di donne che sgomitavano per conoscerlo (anche se non l'ho mai visto con una minorenne). Poi magari lui ci prova presentandosi in stanza in accappatoio, ma se una non ci sta, lui si riveste e la accompagna fuori. Per me Weinstein è un assoluto gentleman". Di un'altra cosa la Pagani è sicura: "Se Harvey parlasse davvero farebbe cadere il mondo. Perlomeno è in galera ma ancora vivo. Epstein l'ha fatto ed è morto".

Francesco Specchia per “Libero Quotidiano” il 29 agosto 2020. E se il caso Harvey Weinstein avesse ancora qualcosa da raccontare? E se il produttore-orco della Miramax, la belva sessuale, l'uomo più odiato del mondo, dal penitenziario newyorkese dove attualmente soggiorna per una condanna per stupro di secondo grado di 23 anni, volesse oggi riaprire il suo processo, stavolta in sede civile e in Italia? Accade infatti che nei tribunali newyorkesi - e nelle procure romane - stia circolando un nuovo «verbale di investigazioni difensive esperite art.321 nonies codice procedura penale (italiano)». Il suddetto verbale conterrebbe formali dichiarazioni di un teste che rivelerebbe come Asia Argento, la donna che con la sua testimonianza ha acceso il movimento Me Too contro la violenza sessuale spingendo Weinstein nelle celle di Rikers Island, in realtà abbia mentito. E la falsa testimonianza, in America, è un reato bello serio. Ora, un tribunale, mille voci d'attrici ferite e varie sentenze oramai inappellabili, stabiliscono che Weinstein sia un «predatore sessuale». Non ci piove. E la sua ossessione compulsiva per le donne l'ha già privato della famiglia, della moglie che l'ha mollato e del lavoro, dato che l'orco è fallito e il suo patrimonio è destinato- pare, come library - alla Lantern Enterteinment di cui è socio Tarak Ben Ammar. Ma se l'Argento ha mentito, Weinstein può riaprire il caso «per rispristinare soltanto la verità, con la richiesta di un solo dollaro per risarcimento danni», fanno sapere persone a lui vicine. Il nuovo teste, finora inascoltato, per «questioni di opportunità» (non era igienico prendere posizione nel pieno dello scandalo) si chiama Anna Lola Pagnani, romana, classe '72, ora regista, già prima ballerina dei Momix e attrice con cineasti di peso come Scola, Vanzina e Wertmuller.  Pagnani è testimone giurata di avvenimenti che contraddicono la versione di Asia sul caso Weinstein.

Signora Pagnani, quando avrebbe mentito Asia Argento sulla violenza subita dal produttore?

«Nel maggio '97 Asia dice di essere stata invitata a Cannes ad una festa delle Miramax che poi non c'era, di avere lì incontrato Harvey per la prima volta; e di essere stata violentata. Ma non è vero. In realtà i due si sono conosciuti nel gennaio 1997. C'ero. Eravamo a una festa a New York col regista Abel Ferrara col quale avevo lavorato, lì facevo apprendistato mandata da Lina Wermuller con cui nel '91, da prima ballerina dei Momix, io avevo aperto il G7. Lina mi aveva presentato ad Harvey Keitel che mi aveva introdotto nel mondo di Ferrara e al backstage del suo film New Rose Hotel che stava girando proprio con Asia».

Quindi lì ha conosciuto Asia, e sta bene. Ricordo New Rose Hotel, doveva lanciare la carriera dell'Argento, non fu un gran successo. Ma cosa c'entra col rapporto tra il produttore e l'attrice italiana, scusi?

«C'entra, perché ad Abel mancavano dei soldi, quindi organizzò con l'attore Willem Dafoe una serata per reperire fondi, presentando la sua protagonista Asia al potente produttore Harvey. Asia insistette in modo feroce per conoscerlo, diceva che glielo dovevano assolutamente presentare: disse che il padre le aveva parlato benissimo di Weinstein e che con Weinstein le attrici vincevano l'Oscar. Da lì nacque la loro relazione, tra Asia e Harvey. Me lo confermò mesi dopo lo stesso Abel Ferrara che si lamentava. Nell'ambiente si dice che la relazione proseguì per un po', ma io non ho avuto personale evidenza».

Perché Abel Ferrara si lamentava della storia tra Argento e Weinstein, scusi?

«Direi che Abel soffriva molto, soffriva fino a piangere perché Asia stava con lui ma, e contemporaneamente l'aveva tradito con Dafoe e lo stesso Weinstein. Mi rimase impressa quella sera perché Asia chiese un taxi per recarsi ad un raduno Wicca, un ritrovo di gente dedita alla stregoneria in una satanic church, una chiesa satanica di New York...».

Vabbè. Torniamo alle dichiarazioni di Asia...

«Sì. Asia dice di essere stata invitata, nel maggio '97, a Cannes ad una festa delle Miramax che poi non ci sarebbe stata, di avere lì incontrato Harvey per la prima volta e di essere stata violentata. Invece la festa c'era eccome; e io mi ricordo lei, bella come il sole, entrare in un salottino prima della sala della festa ed avvinarsi a me e ad Harvey. Dopodiché li lasciai soli, pensavo a parlare di lavoro. Harvey ha fatto molti incontri in quella serata, com' era normale. Ma so per certo che non c'è stata alcuna violenza in stanza da Harvey».

Mi sfugge qualcosa, perdoni. Che cosa c'entrava lei con Weinstein? Era anche lei in fila per parlare col potente uomo di Hollywood? Era la segretaria? La bodyguard?

«Non c'è stata alcuna violenza in stanza, perché quella notte, a letto con Harvey, c'ero io...».

Ah. Lei era l'amante di Weinstein.

«Diciamo che la sera in cui Asia Argento dice di essere stata stuprata (con la lingua), io mi accompagnavo a Harvey con cui avevo una liaison. Facevo l'amante, nel rispetto del ruolo e in quello della di lui moglie e dei figli. E con la prima moglie Eve Chilton, molto discreta, dormivano in letti separati...».

Ma allora, scusi...

«So già quello che pensa. Tengo a precisare che io ho girato 40 film ma non ho mai fatto uno con Harvey. Né mai lo farò, ovviamente». Be', questo è poco ma sicuro... «Lei ora si chiederà: ma perché questa qui si è decisa a parlare solo ora?».

Lei mi legge nel pensiero. Già. Perché solo ora? Non era il caso di farsi avanti prima, se si sentiva ardere dal sacro fuoco della verità?

«A dire la verità, io queste cose le dissi subito, quando scoppiò lo scandalo, ma non mi diedero retta neppure le Iene. Asia ha un movimento politico molto forte che le sta dietro. Non me ne viene nulla a ripeterle. Sa, è che non sopporto chi usa le proprie relazioni come arma di ricatto in caso di insuccesso ad un provino. Successe con l'Argento. Anche se, beninteso, tutti facciamo dei percorsi nella vita, e tutti miglioriamo. Ma la Asia Argento di vent' anni fa, per carità! Era furba, scaltrissima, opportunista. Tutti possono dire della sua sessualità - diciamo - molto attiva. Oggi non vedo Harvey da 12 anni, dall'anno prima che nascesse mia figlia, non faccio più parte di quel mondo; oggi curo i miei terreni di famiglia a Cassino».

Signora Pagnani, da come ne parla, pare che lei ritenga Harvey Weinstein - i cui comportamenti sono oramai agli atti ed irrefutabili - essere innocente.

«Harvey è certamente un donnaiolo, i giudici dicono un predatore sessuale, ma da qui allo stupro ce ne passa. Lui non ha tempo di stuprare nessuno o di dire "se non me la dai non lavori"; ho visto io stessa carrettate di donne che sgomitavano per conoscerlo (anche se non l'ho mai visto con una minorenne). Poi magari lui ci prova presentandosi in stanza in accappatoio, ma se una non ci sta, lui si riveste e la accompagna fuori. Per me Weinstein è un assoluto gentleman». Un gentleman in galera. «Guardi se Harvey parlasse davvero farebbe cadere il mondo. Perlomeno è in galera ma ancora vivo. Epstein l'ha fatto ed è morto».

(Nell'appendice del colloquio con l'accalorata amante dell'orco saltano fuori le opinioni sulla filippina Ambra Battilana, che nell'aprile 2015 firmò un impegno a tacere sulle molestie di Weinstein in cambio di un milione di dollari e parlò lo stesso; e anche un paio di cosette che preferisco evitare perché di facile querela. Gli avvocati di Weinstein che pure avevano in mano la suddetta teste Pagnani preferirono non utilizzarla probabilmente per avere il controllo del processo in America; e perché finora sono costati al produttore, in parcelle, circa 10 milioni di dollari. Né hanno mai voluto fargli celebrare il processo in Italia, dove l'uomo non sarebbe in galera. Le cose, oggi, potrebbero cambiare...).

Da ilmessaggero.it l'1 luglio 2020. Le vittime dell'ex produttore cinematografico Harvey Weinstein, già condannato a 23 anni di prigione per aggressione sessuale, avranno a disposizione un fondo di risarcimento per un totale di circa 19 milioni di dollari. Lo hanno concordato i legali dell'ex boss di Miramax con la Procura di New York, secondo quanto riporta la Cnn. Il fondo, per l'esattezza di 18.875.000 dollari, sarà distribuito non solo tra le donne che hanno subito abusi sessuali da parte di Weinstein, ma anche tra le ex dipendenti della Weinstein Company che «hanno vissuto in un ambiente di lavoro ostile, hanno subito molestie sessuali e sono state discriminate sul luogo di lavoro», ha reso noto l'ufficio del Procuratore Generale di New York. L'accordo dovrà essere approvato adesso sia dalla Corte distrettuale, sia dalla Corte fallimentare che presiede il caso di bancarotta della Weinstein Company.

E.G. per “il Messaggero”il 30 maggio 2020. Il produttore cinematografico Harvey Weinstein, che sta scontando una pena di 23 anni stupro e aggressione sessuale, è stato accusato di violenza sessuale da altre quattro donne. I documenti depositati al tribunale di New York giovedì riguardano presunti reati sessuali, commessi tra il 1984 e il 2013. Una delle quattro donne, per ora anonime, aveva 17 anni all'epoca della presunta violenza. E le molestie sarebbero avvenute anche ai festival di Cannes e di Venezia. Ad accusare Weinstein questa volta sono: una donna di 43 anni del Tennesee, la quale afferma che nel 1994, quando aveva 17 anni, Weinstein «la imprigionò, la aggredì, e la violentò» nella sua camera d'albergo dopo averle chiesto del sesso orale per esaudire il suo desiderio di entrare nel mondo dello spettacolo; una donna di 70 anni dell'Ecuador, che sostiene di essere stata bloccata contro una porta e palpeggiata contro la sua volontà, nel 1984, in una camera di albergo a Cannes, quando aveva 34 anni e cercava di iniziare una carriera da regista di documentari; una donna di 38 anni che ha dichiarato di aver incontrato Weinstein a Manhattan nel 2008, di aver ricevuto da lui l'offerta di aiuto per sfondare nello showbiz e di essere stata violentata pochi giorni dopo in un appartamento di Soho, sotto la minaccia di conseguenze rovinose per la sua carriera se l'avesse detto a qualcuno; una donna ungherese di 35 anni, che racconta di aver incontrato Weinstein nel 2013 alla Mostra del Cinema di Venezia, quando aveva 26 anni, e di essere stata costretta qualche mese dopo a fare sesso orale con lui. Da quando nel 2017, il New York Times riferì di episodi successi decenni prima. Da allora, almeno 80 donne lo hanno accusato di molestie e violenze. Tra queste le attrici Gwyneth Paltrow, Uma Thurman, Salma Hayek e Asia Argento. Le accuse hanno ispirato la nascita del movimento #MeToo. Weinstein si è scusato, riconoscendo di aver «causato molto dolore», ma ha negato di aver mai fatto sesso non consensuale. Ma i giudici non hanno giudicato credibili le sue difese, tanto che a febbraio, Weinstein è stato condannato a New York per stupro e violenze sessuali a 23 anni di prigione.

Leonardo Martinelli per “la Stampa” il 15 Gennaio 2020. Sembra ormai crollata l'omertà sulle violenze sessuali nel cinema francese, che mai come ora torna ad essere protagonista con un caso di MeToo. Ieri il regista Christophe Ruggia, esponente del cinema d' autore, è stato fermato a Parigi e interrogato sulla base delle accuse di molestie sessuali a lui rivolte da Adèle Haenel, giovane attrice apprezzata dai cineasti più impegnati. Ruggia ha oggi 54 anni e Haenel 31. Ma i fatti, secondo quanto raccontato dalla donna, risalgono a quando lei era una minorenne e ne aveva tra i 12 e i 15. Allora Haenel era stata scelta come protagonista del film di Ruggia «Les Diables» («I diavoli»). In un' inchiesta del sito Mediapart del mese di novembre, l' attrice aveva confessato che il regista l' aveva molestata. Solo dopo, comunque, ha deciso di denunciarlo e, come spiegato dai suoi avvocati, di «impegnarsi attivamente in questa procedura per il principio di giustiziabilità e per il fatto di essere personalità pubblica».

L' inchiesta. I magistrati hanno così aperto un' inchiesta preliminare e ieri fermato il regista. Lui, dopo le prime rivelazioni, aveva negato ogni tipo di aggressione, riconoscendo di «avere commesso solo l' errore di giocare il ruolo del pigmalione». Ha poi contrattaccato spiegando che Haenel voleva giusto vendicarsi di lui, perché le aveva negato un ruolo in un suo film. Già ai tempi di «Les Diables», in realtà, Ruggia aveva spiegato di realizzare con i suoi giovani attori (minorenni) esercizi preparatori «perché possano interpretare cose difficili come la nudità o la scoperta del proprio corpo», senza che questo scioccasse nessuno. Haenel ha raccontato a Mediapart di essere stata invitata dal regista a casa sua e lì palpeggiata in vario modo («mi accarezzava le gambe scendendo fino al sesso»). Anche vari tecnici della troupe del film hanno confermato le stranezze di Ruggia e un atteggiamento «vampirizzante» e «invasivo» nei confronti della ragazzina. Intanto ieri è stato reso noto che un altro regista, Eric Bergeron (suo è «Un mostro a Parigi», pellicola d' animazione di successo del 2011), è stato incriminato per aver violentato una giovane donna, che era stata sua allieva in una scuola di cinema e poi collaboratrice. E che si è in seguito suicidata.

Caso Weinstein, la procura accusa: "Predatore sessuale e stupratore". Il dibattimento contro Harvey Weinstein è entrato nel vivo con le pesanti accuse della procura contro il produttore cinematografico, definito "predatore sessuale e stupratore". Francesca Galici, Mercoledì 22/01/2020, su Il Giornale. A New York è iniziato il processo contro Harvey Weinstein, produttore cinematografico accusato di molestie da numerose donne. L'inchiesta a suo carico è iniziata solo nel 2017 a seguito del movimento MeToo, che si è costituito spontaneamente per denunciare le ripetute molestie sessuali non gradite da parte dell'uomo. Oggi, mercoledì 22 gennaio, Harvey Weinstein si è presentato davanti alla corte con il suo solito passo claudicante. Non aveva con sé il deambulatore, che da qualche anno lo accompagna costantemente. Il produttore ha 67 anni e pare sia cagionevole di salute ma questo non rappresenta un impedimento per procedere con la causa penale nei suoi confronti. Il caso Weinstein ha scosso l'opinione pubblica molto più di altri, soprattutto per i nomi noti che hanno deciso di denunciare pubblicamente le molestie subite dall'uomo nel corso degli anni. All'inizio del mese, durante la prima seduta del processo che vede Harvey Weinstein come unico imputato, fuori dal tribunale di New York si sono radunate numerose persone per protestare contro il produttore mentre, poche ore fa, non si è registrato nessun assembramento. La procura di Stato di New York, nonostante l'età avanzata di Harvey Weinstein, sembra non voler fare sconti all'uomo, che è stato presentato come un "predatore sessuale e uno stupratore". I fatti incriminati risalgono al 2013, quando Weinstein avrebbe violentato una donna in una camera d'albergo e ne avrebbe costretta un'altra, nel 2006, ad avere un rapporto orale. Di tutte le accusatrici del produttore, solo queste due sono arrivate a processo. Tutte le altre, o almeno la maggior parte, hanno deciso di accettare un accordo extra-giudiziale. Harvey Weinstein avrebbe elargito complessivamente una somma pari a 30milioni di dollari. Il vice procuratore distrettuale ha preso la parola nel corso della seduta e non ha utilizzato mezzi termini per rivolgersi all'uomo: "Nel corso delle testimonianze vedrete che quell'uomo seduto a un lato dell'aula, nonostante le apparenze, non è un anziano inoffensivo, ma un predatore sessuale e stupratore." La seduta odierna è stata anche utilizzata per rendere nota l'identità della donna che ha denunciato i fatti del 2013: lei è Jessica Mann, un'aspirante attrice che incontrò Weinstein con la speranza di un lavoro. "Jessica era rimasta in trappola, convinta di non uscirne più, mentre lui era diventato sempre più esigente, sempre più violento e disgustoso. Scoprirete, che Jessica stava morendo dentro", ha attaccato il vice procuratore. Nel caso in cui il tribunale arrivi alla condanna, Harvey Weinstein rischia l'ergastolo per il reato di predatore sessuale, che si profila quando a un imputato vengono attribuiti due o più stupri. La fine del processo è al momento fissata per marzo, al termine di circa 8 settimane di udienze con dibattimenti e ascolto dei testimoni. Solo allora si arriverà alla sentenza.

Al via il processo Weinstein, in aula le vittime delle molestie sessuali. Pubblicato lunedì, 06 gennaio 2020 su Corriere.it da Valentina Santarpia. Ottanta le presunte vittime di aggressioni e stupri: il caso si è aperto nel 2017. A oltre due anni dall’ondata di accuse di molestie sessuali contro il produttore Harvey Weinstein, e il dilagarsi del movimento MeToo, inizia il processo penale per l’ex magnate del cinema. È prevista per il sei gennaio la prima udienza: alcune delle oltre 80 sue presunte vittime saranno ad attenderlo in aula. Più volte rinviato, il processo al quindicesimo piano della corte di Downtown Manhattan sarà un circo mediatico: oltre 150 reporter hanno chiesto di assistere. Il caso si impernia su due «supertestimoni» - Mimi Haleyi, ex assistente alla produzione alla Weinstein and Co. e una seconda donna rimasta anonima - che sono riuscite a superare gli sbarramenti legali interposti all’apertura di un procedimento penale. Accuse contro Weinstein sono state presentate anche a Los Angeles, Londra e Cannes ma la magistratura di New York è la sola finora ad essere riuscita a portare Weinstein davanti alla giuria. Altre accusatrici stanno finalizzando un patteggiamento milionario. Il caso si è aperto nell’ottobre 2017 quando in simultanea New Yorker e New York Times hanno scoperchiato lo scandalo: dopo Weinstein, a catena, altri potenti uomini nel mondo dello spettacolo tra cui Leslie Moonves, Charlie Rose, Matt Lauer e Brett Ratner, sono stati travolti. Per molte accusatrici l’idea di vedere «l’uomo dell’accappatoio» davanti a una giuria era impensabile quando l’ex capo di Miramax era all’apice del suo potere. Molte si presenteranno in aula per dar forza alle deposizioni di sei testimoni, tra cui l’attrice dei «Soprano» Annabella Sciorra che accusa l’ex produttore di averla stuprata a New York negli anni Novanta.

Federico Pontiggia per “il Fatto quotidiano” l'8 gennaio 2020. Due donne, cinque capi d' accusa, un imputato: Harvey Weinstein è alla sbarra a New York. Comunque vada dovrà affrontare un secondo processo a Los Angeles, e a Manhattan non è iniziata bene: un giudice ieri ha minacciato di sbatterlo in prigione, dopo averlo sorpreso a usare due telefoni cellulari malgrado gli avvertimenti a non farlo. A due anni dalle prime avvisaglie dello scandalo che l' ha travolto, allorché il New York Times e il New Yorker raccolsero gli addebiti a suo carico che avrebbero poi originato il movimento globale #MeToo, il mogul hollywoodiano deve rispondere in aula alle accuse da parte di due donne: l' ex assistente di produzione Mimi Haley, secondo cui Weinstein l' avrebbe costretta a praticargli sesso orale nel suo appartamento nel 2006, e un' altra rimasta anonima che asserisce di essere stata stuprata in un hotel di Manhattan sette anni più tardi. Solo due delle oltre 80 attrici, tra cui Asia Argento, Angelina Jolie, Uma Thurman e Salma Hayek, assistenti e addette ai lavori che hanno rivelato pubblicamente le molestie e gli abusi subiti dal produttore. Se sul versante civile l'accordo extragiudiziale raggiunto lo scorso dicembre, secondo il quale Weinstein sarà tenuto a risarcire una trentina di accusatrici con venticinque milioni di dollari resi disponibili dalle società assicurative che rappresentano la sua ex società The Weinstein Company, ha messo la parola fine, il procedimento penale - attualmente si stanno selezionando i membri della giuria - che lo vede protagonista a Manhattan verte su cinque capi di accusa: uno di atti sessuali criminali, due di stupro e due di atti da predatore sessuale, per cui lo Stato di New York prevede quale pena massima l'ergastolo. A testimoniare non saranno solo le due accusatrici: altre donne, tra cui l' attrice Annabella Sciorra, corroboreranno le imputazioni. Da parte sua, il 67enne produttore ha respinto ogni addebito. Ma quello newyorchese non è più il solo teatro giudiziale che Weinstein, presentatosi in deambulatore e assistito da cinque avvocati, calcherà: in concomitanza con l' apertura del processo a Manhattan, la Procura di Los Angeles l' ha incriminato per lo stupro di altre due donne. Entrambi i fatti risalirebbero al febbraio del 2013: il 18 avrebbe incontrato un' attrice e modella italiana, all' epoca 34enne e con tre figli, all' ottavo "Los Angeles, Italia Film, Fashion and Art Festival", l' avrebbe poi raggiunta la sera stessa in un hotel di Beverly Hills e quindi brutalmente violentata; il giorno seguente avrebbe bloccato nel bagno del proprio hotel una seconda donna, afferrandole un seno e masturbandosi contemporaneamente. Le generalità delle due donne non sono state rese ancora note, della prima si sa che comparve sulla cover di Vogue Italia, che aveva precedentemente incrociato Weinstein a Roma e che attualmente vive nella California meridionale: la decisione di rendere note queste accuse nell' ottobre del 2017 si dovrebbe a un confronto con la figlia adolescente. Il suo avvocato ha confermato al Los Angeles Times che la donna testimonierà in aula, venendo dunque allo scoperto: "Sarà difficile e stressante per lei, ma sa che è necessario per far condannare Weinstein".

Processo a Weinstein per due casi di stupro.  Rischia l’ergastolo ma in aula niente star. Pubblicato domenica, 05 gennaio 2020 su Corriere.it da Irene Soave. Ha perso l’azienda, la reputazione, la moglie, la libertà; smagrito e in deambulatore è l’ombra del «dittatore» che amava dire di essere, un uomo alto e collerico che in quasi 40 anni da padrone di Hollywood aveva molestato, impunito, decine di donne. Oggi, dopo che ha patteggiato con 29 di loro in sede civile (altre 7 hanno rifiutato), comincia a New York il processo penale a carico di Harvey Weinstein. Riguarda due specifici reati, uno stupro nel 2013 e un rapporto orale forzato nel 2006, e un’accusa — violenza sessuale predatoria, reato integrato dal carattere sistematico delle sue violenze — potrebbe costargli l’ergastolo. Il processo: l’istruttoria inizia oggi, e due anni di eco mediatica fanno sembrare la sentenza già scritta. Ma non è detto che perderà anche quello. Quando la sua condotta era stata denunciata, a novembre 2017, da due inchieste del New York Times e del New Yorker, l’allora patron della Weinstein Company (e prima fondatore della Miramax) era stato accusato da 87 donne di varia età e fama: tra loro Asia Argento, Gwyneth Paltrow, Mira Sorvino, Lupita Nyong’o, Uma Thurman, Heather Graham, Eva Green. Un’adesione così ampia che aveva dato origine al movimento #meToo. Ma alcune non hanno accettato di portare in tribunale le loro accuse; molti casi erano troppo indietro nel tempo o fuori dalla giurisdizione del tribunale di New York; tanti casi di abuso riportati, infine, non erano penalmente rilevanti. A dicembre Weinstein ha patteggiato in 29 di 36 cause civili che lo riguardavano, risarcendo vittime per 25 milioni di dollari. E così al processo penale solo poche delle 87 accusatrici saranno presenti come testimoni o parti civili. Il produttore, 67 anni, è accusato di uno stupro del 2013, ai danni di una sua amante di lunga data il cui nome e la cui storia non sono ancora stati resi pubblici; e di avere costretto con la forza nel 2006 la sua assistente di produzione, Mimi Haleyi, a fare del sesso orale. Queste due donne testimoniano al processo. Con loro c’è anche l’attrice Annabella Sciorra (I Sopranos), che ha denunciato che Weinstein l’avrebbe violentata nei primi anni Novanta: un episodio che inizialmente era considerato troppo vecchio, ma poi rientrato nel processo perché pertinente alla tesi dell’accusa che Harvey Weinstein sia colpevole di «violenza sessuale predatoria», reato da ergastolo la cui evidenza si fonda su uno schema acclarato di condotte ripetute. Weinstein si dichiara innocente: la linea della sua difesa è che tutti gli atti di cui si dibatte siano stati consensuali. La difesa ha diffuso messaggi affettuosi che lui e la vittima della presunta violenza del 2013 si scambiavano; e un sms in cui Mimi Haleyi tenta di fissare un incontro mesi dopo la violenza che ha denunciato. Ma anche la difesa ha le sue difficoltà: Weinstein ha già cambiato più avvocati, ha tentato 57 volte di manomettere il braccialetto della libertà vigilata e ha dato di recente un’intervista a un tabloid contro il parere dei suoi avvocati, in cui si dice «paladino misconosciuto delle donne nel cinema». Dall’esito molto imprevedibile, il processo inizia oggi e durerà circa due mesi; molte donne, in aula e fuori, stanno a guardare.

New York, al via processo contro Weinstein. E dalla procura di Los Angeles arriva una nuova incriminazione. L'ex produttore cinematografico, 67 anni, è entrato nell'aula del tribunale di Manhattan con l'aiuto di un deambulatore. Il processo dovrebbe durare circa sei settimane. L'ex re Mida di Hollywood rischia l'ergastolo. La Repubblica il 06 gennaio 2020. È iniziato oggi alla Corte Suprema dello stato di New York con la selezione della giuria, il processo per stupro e violenze sessuali contro Harvey Weinstein, l'ex produttore di Hollywood al centro di diversi casi che con la loro esposizione, oltre due anni fa, hanno dato un impulso decisivo al movimento #MeToo. Apparso invecchiato e sofferente, l'ex re Mida di Hollywood è entrato nell'aula del tribunale di Manhattan, con l'aiuto di un deambulatore, passando ad una decina di donne che erano fuori l'aula ad attenderlo con cartelli di protesta. Al processo "evento", che dovrebbe durare circa sei settimane, i 120 posti destinati al pubblico erano già occupati dalle 7 del mattino, gran parte dei duecento giornalisti accreditati era arrivato intorno alle 5. Weinstein, 67 anni, è chiamato a rispondere dell'accusa di avere violentato una donna nel 2013 e di aver compiuto atti sessuali non consensuali su un'altra donna nel 2006. Prima dello scandalo tra gli uomini più potenti e influenti di Hollywood, rischia una pena fino all'ergastolo. Al processo saranno chiamate a testimoniare le due vittime, oltre ad una terza donna che ha accusato Weinstein di averla violentata nel 1993. Arrestato nel 2018, Weinstein ha negato ogni accusa ed è libero su cauzione. In tutto, sono oltre 80 le donne - tra loro Gwyneth Paltrow, Asia Argento, Uma Thurman e Angelina Jolie - che l'hanno accusato di averle costrette ad atti sessuali non consensuali. A dicembre, Weinstein e la sua ex compagnia cinematografica hanno raggiunto un patteggiamento da 25 milioni di dollari con 30 donne. L'accordo ha messo fine praticamente a tutti i procedimenti in sede civile contro Weinstein ma oggi, poche ore dopo l'inizio del processo a New York, la magistratura di Los Angeles ha spiccato un nuovo capo di accusa per crimini sessuali. Secondo l'atto di imputazione, il 18 febbraio del 2013 Weinstein avrebbe violentato una donna dopo essere entrato di forza nell'albergo dove la vittima alloggiava a Los Angeles. L'indomani, avrebbe molestato un'altra donna in una suite di un hotel di Beverly Hills. "Crediamo che le prove dimostreranno che l'indagato ha usato il suo potere e la sua influenza per avvicinare le vittime e per usare violenza contro di loro", ha detto il procuratore distrettuale di Los Angeles, Jackie Lacey, che ha rivolto "un elogio alle vittime che coraggiosamente sono venute allo scoperto e hanno raccontato quel che è accaduto. Spero - ha proseguito il procuratore - che tutte le vittime di violenza sessuale trovino forza e conforto dalla denuncia".

Flavio Pompetti per ''Il Messaggero'' il 6 gennaio 2020. Dopo due anni di polemiche e colpi di scena, e un dibattito esplosivo su sesso e violenza che si è allargato ai confine del mondo, l' appuntamento di Harvey Weinstein con la giustizia inizia oggi, presso il tribunale della Corte suprema di Manhattan. L' ex produttore cinematografico ci arriva con le ossa rotte: ha perso la società miliardaria che dirigeva insieme al fratello, la moglie, e anche malato, stando almeno alle immagini che lo ritraggono curvo su un deambulatore sulla via del tribunale.

ERRORI. La procura di New York che lo ha messo alla sbarra non è comunque in condizioni migliori. L' istruttoria è stata indebolita dagli errori commessi da investigatori troppo solerti, che avevano istigato dichiarazioni ipertrofiche da parte di una delle accusatrici, poi defilata dal processo. Lo scandalo è scoppiato ad ottobre del 2017, con l' uscita contemporanea di due articoli, uno sul New Yrok Times, l' altro sulla rivista New Yorker, che accusavano l' ex produttore di una lunga serie di assalti sessuali ai danni di giovani donne che erano entrate in contatto con lui. Attrici affermate come Mira Sorvino, Rose McGowan, Rosanna Arquette, Cate Blanchett, Cara Delevingne, Angelina Jolie, Ashley Judd, Daria Argento, Gwyneth Paltrow e Lupita Nyong' o; ma anche segretarie di produzione, assistenti del set, debuttanti con aspirazioni di carriera. In totale più di ottanta donne hanno raccontato dopo la prima denuncia di essere state vittime delle attenzioni predatorie di Weinstein. In alcuni casi le proposte dell' uomo dal perenne accappatoio addosso, pronto ad esporsi o a chiedere massaggi sempre più intimi, sono cadute nel nulla. In altri la richiesta iniziale si è fatta sempre più pressante, stando ai verbali raccolti dagli investigatori. A volte l'insistenza è divenuta pressione fisica, fino alla coercizione a prestare atti sessuali, e alla consumazione di autentici stupri. La maggioranza di queste denunce si è persa lungo la strada per via del tempo trascorso. I legali di Weisntein sono riusciti a negoziare un accordo extragiudiziale che mette a tacere le pretese di diciotto delle donne che si dichiaravano vittime in un processo civile.

PATTEGGIAMENTI. Il patto prevede il pagamento complessivo di 45 milioni di dollari da parte dell' assicurazione che garantiva l' attività professionale della Weinstein Company, e compensi individuali che al netto delle spese legali non supereranno i 500.00 dollari per ognuna di loro. L' unico procedimento penale è stato intentato dalla procura newyorkese, perché in questo stato non c' è prescrizione per il reato di stupro, e almeno due donne hanno raccontato alla polizia di essere state violate dal produttore nella città. La prima è l' assistente alla produzione Lucia Evans, che dice di essere stata forzata ad un rapporto orale; la seconda è rimasta anonima fino ad ora, e ha raccontato di aver sofferto violenza sessuale e lo stupro. La squadra di avvocati che difende Weinstein è composta da professionisti di altissimo livello, come si addice ad una causa che vede coinvolto uno degli uomini più potenti d' America, con amicizie che vanno fino alla coppia presidenziale dei Clinton, e l' olimpo dell' entertainment statunitense. Il loro cliente li ha ingaggiati e licenziati come fossero dei semplici fattorini; ha violato 115 volte l' ordine di indossare un braccialetto segnaletico in regime di libertà vigilata, e un settimana fa ha rilasciato un' intervista nella quale si professa un paladino della promozione delle donne nell' ambiente del cinema. Tra circa due mesi sapremo se l' uomo che ha dato vita al movimento Me Too è vittima o carnefice all' interno del dibattito che ha aiutato a sollevare.

Weinstein incriminato per stupro a Los Angeles. È italiana una delle due accusatrici. Pubblicato martedì, 07 gennaio 2020 su Corriere.it da Alessandra Muglia. Nel giorno in cui si è aperto a New York il processo penale a carico di Harvey Weinstein, l’ex produttore di Hollywood è stato incriminato anche dalla procura di Los Angeles per stupro e altri reati sessuali. E una delle due accusatrici che hanno portato all’apertura della nuova azione giudiziaria contro il fondatore di Miramax è italiana. La terza, oltre ad Asia Argento e Ambra Battilana, ad aver denunciato l’allora patron della Weinstein Company: attrice ed ex modella, oggi quarantenne, ha chiesto che il suo nome non venga divulgato per proteggere i suoi tre figli. Ed è stato proprio dopo una chiacchierata intima con la figlia adolescente che la donna si sarebbe decisa a denunciare Weinstein nel 2017, come raccontato allora in un’intervista al Los Angeles Times. Una settimana prima che esplodesse il caso Weinstein, la ragazza confidò alla madre delle molestie che subiva da sette mesi da parte di un compagno. A quel punto l’attrice le rivelò dell’aggressione del produttore e al tempo stesso la invitò a non subire in silenzio. «Se io devo fare questo, perché non ti difendi pure tu?» le rilanciò la figlia. «Devi essere forte, mamma». Così la donna, definita un’attrice famosa — «è apparsa sulla copertina di Vogue e ha recitato in diversi film italiani», si legge nell’intervista — si sarebbe decisa a denunciare Weinstein alla polizia di Los Angeles e poi a raccontare tutto al Los Angeles Times. La donna - che all’epoca viveva in Italia e oggi risiede in California — è stata aggredita sessualmente dal produttore il 18 febbraio 2013, mentre si trovava a Los Angeles per l’Italia Film, Fashion and Art Festival, pochi giorni prima della serata degli Oscar. La violenza sarebbe avvenuta nell’hotel di Beverly Hills dove lei alloggiava e dove il produttore, al termine della serata del Festival, si è presentato senza preavviso: «Ha cominciato a farmi molte domande, ma presto è diventato molto aggressivo e ha iniziato a chiedermi di volermi vedere nuda» ha raccontato. «Ha afferrato i miei capelli e mi ha costretto a fare qualcosa che non volevo. Poi mi ha trascinato in bagno e mi ha violentato. Mi ha fatto sentire un oggetto, per anni mi sono sentita in colpa», ha confidato, chiedendo di rimanere anonima. La sua è stata la prima denuncia sul caso Weinstein riportata in California. Altre ne sono seguite, ma soltanto questa e un’altra — per un’aggressione sessuale compiuta la sera successiva nella suite di un hotel di Beverly Hills — sono state riconosciute valide per aprire l’azione giudiziaria: la legge qui impone che non debbano essere passati più di 10 anni dall’atto criminoso. La procuratrice di Los Angele Jackie Lacey vuole dunque processare l’ex boss di Miramax per aver violentato l’attrice italiana e aver aggredito sessualmente un’altra donna il 19 febbraio 2013, sempre in una camera d’albergo. A Los Angeles si è così aperto un secondo fronte per l’ex re Mida del cinema. Se riconosciuto colpevole in California, Weinstein rischia 28 anni di carcere, intanto comunque dovrà pagare una cauzione di cinque milioni di dollari perché considerato a rischio di fuga.

DAGONEWS il 22 gennaio 2020. Dagospia è in grado di rivelare il nome dell'attrice italiana che ha accusato Harvey Weinstein di stupro in California, in un procedimento parallelo a quello attualmente in corso a New York. L'articolo del ''Los Angeles Times'', la testata che per prima diede la notizia e poi intervistò la donna, contiene gli elementi per capire di chi si tratta: all'epoca dei fatti (febbraio 2013) aveva 34 anni, e conobbe il noto produttore al Los Angeles Italia Film, Fashion and Art Fest, l'evento organizzato ogni anno da Pascal Vicedomini per celebrare il cinema italiano e americano. La donna racconta che Weinstein, all'epoca uno degli uomini più potenti e rispettati del settore, si sarebbe presentato al suo hotel, e con modi da bullo si sarebbe introdotto nella sua stanza. ''Voglio solo parlare'', le avrebbe detto. Invece l'avrebbe violentata nel bagno. Uscendo, le avrebbe anche fatto vari complimenti: ''Sei bella, potresti lavorare a Hollywood''. Lei in seguito ha raccontato l'episodio solo a un'amica, a un prete e alla tata dei suoi figli, senza sporgere denuncia. Solo quando nell'autunno del 2017 è esploso il #metoo, la figlia, una studentessa del liceo, l'ha convinta a farsi avanti. Il quotidiano poi specifica che l'attrice (per mancanza di prove) e modella (oer caso) ha tre figli, è apparsa sulla copertina di ''Vogue'' e in vari film italiani. All'epoca dei fatti viveva in Italia, ma nel frattempo si è trasferita in California. Nelle ultime settimane il processo californiano è entrato nel vivo, e la donna si è detta pronta a mostrarsi in pubblico e affrontare in aula l'uomo che accusa. Nata a Omsk in Siberia 40 anni fa, a 14 vince un concorso di bellezza e riesce a fuggire dalla provincia sovietica: Mosca, Giappone, il mondo. A 18 anni il primo figlio, poi una carriera che la porta a lavorare anche nel cinema, in tv e a Roma, dove si trasferisce in una villa all'Olgiata dopo essersi separata dal marito. Partecipa a ''Buona Domenica'', a vari film e fiction tra cui ''Baciati dall'amore'', incontra in udienza papa Ratzinger, che benedice i suoi tre bambini. Conosce Tarantino e Francis e Sofia Coppola, frequenta il Festival di Venezia e Buckingham Palace. Da quando si è trasferita in California ha continuato a fare la modella e recitare, e sul suo profilo Instagram si definisce anche doula, la figura che accompagna le donne al parto e nelle prime settimane dalla nascita di un bambino. La figlia più grande ha intrapreso la carriera di modella ed è già stata protagonista di alcune campagne.

Processo a Weinstein. L'attrice Annabella Sciorra in aula: "Mi stuprò a casa mia". L'attrice Annabella Sciorra al processo.  Prima testimonianza di una delle vittime del produttore americano, l'attrice americana nota soprattutto per il suo ruolo nella serie dei Sopranos: "Dissi 'no, no', non potevo fare niente contro di lui. Era così disgustoso cominciai a tremare, strane convulsioni, era come avessi una crisi". La difesa: "Un'altra fandonia". La Repubblica il 24 gennaio 2020. Il processo all'ex re di Hollywood Harvey Weinstein, accusato di violenza sessuale contro due donne, è proseguito a New York con la prima, drammatica testimonianza di una delle sue tante vittime, l'attrice americana Annabella Sciorra, nota in particolare per il suo ruolo in The sopranos.  I fatti risalgono troppo indietro nel tempo per la contestazione del reato ma i procuratori intendono usare la sua deposizione, come quella di altre decine di vittime, per rafforzare l'accusa di predatore sessuale. La star ha raccontato che lo conobbe ad un party a Los Angeles quando lei era attrice emergente e lui un giovane produttore. Nei quattro anni successivi ricevette qualche regalo imbarazzante, tra cui una scatola di cioccolatini a forma di pene. Poi una sera, ha raccontato, dopo una cena con amici in un ristorante, Weinstein la accompagnò a casa a Manhattan e la stuprò, tra la fine del 1993 e l'inizio del 1994. Lei era già entrata in casa e si era messa in pigiama quando - secondo la sua versione - sentì bussare alla porta, aprì e si trovò di fronte il produttore che la spinse dentro, la gettò sul letto e le usò violenza nonostante i suoi tentativi di opporsi con calci e pugni. "Dissi 'no, no', non potevo fare molto contro di lui. Il mio corpo si spense, era così disgustoso che il mio corpo cominciò a tremare, strane convulsioni, era come avessi una crisi", ha riferito in aula, aggiungendo di aver perso conoscenza. Settimane dopo, in un ristorante, affrontò Weinstein, il quale le disse che la cosa doveva rimanere tra loro. "Era molto minaccioso, i suoi occhi diventarono scuri, pensavo che mi avrebbe colpito", ha aggiunto. Negli anni successivi, ha proseguito, l'ex produttore di Hollywood la perseguitò, ricomparendo almeno un paio di volte negli hotel dove alloggiava. La difesa di Weinstein ha mosso diverse obiezioni alla testimone, ad esempio perché aprì la porta di casa senza chiedere l'identità di chi aveva bussato, perché non ricorse ad un medico o non denunciò lo stuprò. "All'epoca non realizzai che era uno stupro", si è giustificata la Sciorra. "Lei aveva 33 anni, se la sua cronologia dei fatti è corretta", ha ribattuto la difesa, ripescando un video clip in cui l'attrice ammette di aver inventato piccole bugie nella sua vita. "Questa non è una fandonia?", ha chiesto l'accusa per uscire dall'angolo. "No", ha assicurato la star.

Weinstein, l’ex attrice  dei Soprano: «Così mi immobilizzò e mi stuprò». Pubblicato venerdì, 24 gennaio 2020 su Corriere.it. Il processo all’ex re di Hollywood Harvey Weinstein, accusato di violenza sessuale contro due donne, è proseguito a New York con la prima, drammatica testimonianza di una delle sue tante vittime, l’attrice americana Annabella Sciorra, nota in particolare per il suo ruolo nella serie «I soprano». I fatti risalgono troppo indietro nel tempo per la contestazione del reato ma i procuratori intendono usare la sua deposizione, come quella di altre decine di vittime, per rafforzare l’accusa di predatore sessuale. L’attrice ha raccontato di aver conosciuto Weinstein a un party a Los Angeles quando lei era appena un’emergente e lui un giovane produttore. Nei quattro anni successivi ricevette qualche regalo imbarazzante, tra cui una scatola di cioccolatini a forma di pene. Poi una sera, ha raccontato, dopo una cena con amici in un ristorante, Weinstein la accompagnò a casa a Manhattan e la stuprò. I fatti sono avvenuti tra la fine del 1993 e l’inizio del 1994. Lei era già entrata in casa e si era messa in pigiama quando - secondo quanto ha dichiarato lei stessa durante la sua testimonianza - sentì bussare alla porta, aprì e si trovò di fronte il produttore che la spinse dentro, la gettò sul letto e la violentò nonostante i suoi tentativi di opporsi con calci e pugni. «Il mio corpo si spense — ha raccontato in aula — fino a tremare in modo inusuale, come se avessi una crisi». Settimane dopo, in un ristorante, l’attrice affrontò Weinstein, il quale le disse che la cosa doveva rimanere tra loro. «Era molto minaccioso, i suoi occhi diventarono scuri, pensavo che mi avrebbe colpito», ha aggiunto. Negli anni successivi, ha proseguito, l’ex re di Hollywood la perseguitò, ricomparendo almeno un paio di volte negli hotel dove alloggiava. La difesa di Weinstein ha mosso diverse obiezioni alla testimone, ad esempio perché aprì la porta di casa senza chiedere l’identità di chi aveva bussato, perché non ricorse ad un medico o non denunciò lo stupro. «All’epoca non realizzai che era uno stupro», si è giustificata la Sciorra. 

Weinstein, l'attrice Annabella Sciorra in aula al processo: "Mi stuprò a casa mia". Prima testimonianza di una delle vittime del produttore americano, l'attrice americana nota soprattutto per il suo ruolo nella serie dei Sopranos: "Dissi no, no, non potevo fare niente contro di lui. Era così disgustoso cominciai a tremare, strane convulsioni, era come avessi una crisi". La difesa: "Un'altra fandonia". La Repubblica il 24 gennaio 2020. Il processo all'ex re di Hollywood Harvey Weinstein, accusato di violenza sessuale contro due donne, è proseguito a New York con la prima, drammatica testimonianza di una delle sue tante vittime, l'attrice americana Annabella Sciorra, nota in particolare per il suo ruolo in The sopranos. I fatti risalgono troppo indietro nel tempo per la contestazione del reato ma i procuratori intendono usare la sua deposizione, come quella di altre decine di vittime, per rafforzare l'accusa di predatore sessuale. La star ha raccontato che lo conobbe ad un party a Los Angeles quando lei era attrice emergente e lui un giovane produttore. Nei quattro anni successivi ricevette qualche regalo imbarazzante, tra cui una scatola di cioccolatini a forma di pene. Poi una sera, ha raccontato, dopo una cena con amici in un ristorante, Weinstein la accompagnò a casa a Manhattan e la stuprò, tra la fine del 1993 e l'inizio del 1994. Lei era già entrata in casa e si era messa in pigiama quando - secondo la sua versione - sentì bussare alla porta, aprì e si trovò di fronte il produttore che la spinse dentro, la gettò sul letto e le usò violenza nonostante i suoi tentativi di opporsi con calci e pugni. "Dissi 'no, no', non potevo fare molto contro di lui. Il mio corpo si spense, era così disgustoso che il mio corpo cominciò a tremare, strane convulsioni, era come avessi una crisi", ha riferito in aula, aggiungendo di aver perso conoscenza. Settimane dopo, in un ristorante, affrontò Weinstein, il quale le disse che la cosa doveva rimanere tra loro. "Era molto minaccioso, i suoi occhi diventarono scuri, pensavo che mi avrebbe colpito", ha aggiunto. Negli anni successivi, ha proseguito, l'ex produttore di Hollywood la perseguitò, ricomparendo almeno un paio di volte negli hotel dove alloggiava. La difesa di Weinstein ha mosso diverse obiezioni alla testimone, ad esempio perché aprì la porta di casa senza chiedere l'identità di chi aveva bussato, perché non ricorse ad un medico o non denunciò lo stuprò. "All'epoca non realizzai che era uno stupro", si è giustificata la Sciorra. "Lei aveva 33 anni, se la sua cronologia dei fatti è corretta", ha ribattuto la difesa, ripescando un video clip in cui l'attrice ammette di aver inventato piccole bugie nella sua vita. "Questa non è una fandonia?", ha chiesto l'accusa per uscire dall'angolo. "No", ha assicurato la star. 

DAGONEWS il 28 Gennaio 2020. Mimi Haleyi, ex assistente di produzione, è scoppiata in lacrime mentre testimoniava in un’aula di tribunale di Manhattan contro Harvey Weinstein: la donna accusa l’ex produttore di Hollywood di averla aggredita sessualmente, costringendola a praticare sesso orale. Weinstein, 67 anni, si è dichiarato non colpevole di aver aggredito sessualmente Haleyi e Jessica Mann e i suoi avvocati, tra cui Damon Cheronis, continuano a porre l’attenzione sui messaggi che la donna ha inviato dopo l’aggressione che si chiudevano tutti con “tanto amore” e “pace e amore”. Dal 2017, oltre 80 donne, tra cui molte attrici famose, hanno accusato Weinstein di cattiva condotta sessuale. Weinstein ha negato le accuse e ha affermato che qualsiasi incontro sessuale era consensuale.

La testimonianza. Haleyi, 42 anni, ha dichiarato che Weinstein l’ha invitata nella sua casa di SoHo dopo aver lavorato a una delle sue produzioni televisive. «A un certo punto è venuto verso di me e si è lanciato. Mi sono alzata dal divano e ho detto: "Oh no, no, no"». Secondo il racconto di Haleyi, Weinstein l’ha trattenuta nella stanza, l’ha appoggiata sul letto e l’ha costretta a fare sesso orale. Haleyi ha dichiarato di aver successivamente accettato un invito da Weinstein a incontrarlo in un hotel di Tribeca. «Credo che stavo cercando di riguadagnare una sorta di potere o qualcosa del genere» ha detto. Ma quando è entrata in quella camera Weinstein l’avrebbe trascinata sul letto e avrebbe fatto sesso con lei, chiamandola "puttana" e "cagna". La donna ha dichiarato di non aver reagito, ma non voleva fare sesso con lui. Haleyi ha detto di aver provato profondi sensi di colpa per quell'incontro. La donna, dopo la testimonianza, ha dovuto subire il fuoco di fila dell’avvocato Cheronis che le ha chiesto se aveva accettato viaggi a Los Angeles e Londra pagati da Weinstein poco dopo il presunto attacco, presentadole una serie di messaggi in cui chiedeva a Weinstein la possibilità di lavorare. Haleyi ha detto che è rimasta in contatto con Weinstein perché era potente nel suo settore e aveva bisogno di lavoro: «Ho chiesto lavoro a molte persone, tra cui Harvey Weinstein. Ho seppellito i ricordi di quegli incontri. Mi sentivo in trappola e non ero davvero in grado di fare nulla al riguardo ... Ho deciso di fare quasi finta che non fosse successo e di metterlo da parte e continuare come al solito». Gli avvocati di Weinstein hanno affermato che i messaggi delle sue accusatrici dimostrerebbero che le loro relazioni con lui erano consensuali. La scorsa settimana l'attrice Annabella Sciorra ha testimoniato raccontando che Weinstein l'ha stuprata con violenza nel suo appartamento di Manhattan nei primi anni '90.

Chi sono le donne che accusano Weinstein al processo di New York?

Sei donne stanno testimoniando al processo per stupro di Weinstein. Una è l'attrice Annabella Sciorra che sostiene che Weinstein l'ha violentata nel suo appartamento di New York City nel 1993. La seconda è Haleyi, che afferma che Weinstein l’ha costretta a fare sesso orale nel suo appartamento nel 2006. Una terza accusatrice, Jessica Mann, sostiene che il magnate l'ha violentata in un hotel di Midtown Manhattan nel 2013. La costumista Dawn Dunning sostiene che Weinstein l'ha molestata sessualmente e ha cercato di costringerla ad avere un incontro a tre con la sua assistente quando aveva 24 anni in un hotel di Manhattan nel 2004. L'aspirante attrice Tarale Wulff afferma che Weinstein si è masturbato di fronte a lei mentre lavorava come cameriera al Cipriani Upstairs a Manhattan e in seguito l'ha aggredita sessualmente nella sua camera da letto. Una sesta donna, Lauren Young, afferma di essere stata molestata in un hotel e che il produttore si è masturbato e ha eiaculato sul pavimento di un bagno nel febbraio 2012 durante una cena durante la stagione degli Oscar. Aveva 22 anni.

Beatrice Pagan per movieplayer.it il 30/01/2020. Harvey Weinstein, secondo una testimone al processo contro l'ex produttore, avrebbe usato i nomi di Charlize Theron e Salma Hayek per intimidire le proprie vittime e giustificare le richieste sessuali. Dawn Dunning, non coinvolta come accusastrice ma come testimone, ha infatti ricordato davanti alla Corte Suprema di New York le tattiche usate per intimidirla. La donna, ora quarantenne, ha incontrato Harvey Weinstein quando aveva 24 anni e lavorava come cameriera in un nightclub. Dunning ha ricordato di aver avuto due incontri con l'ex produttore che le aveva fatto credere che la stesse considerando per un ruolo in Derailed - Punto d'impatto e altri due progetti. La testimone sostiene che il primo dei due incontri sia avvenuto in un hotel e Weinstein l'avrebbe toccata in modo inappropriato nelle parti intime, situazione che l'ha sconvolta e l'ha spinta ad allontanarsi rapidamente, mentre Harvey la implorava di non rendere la situazione più drammatica di quanto fosse e chiedendole scusa. Un mese dopo, in occasione del secondo incontro, invece che parlare di lavoro il produttore le aveva proposto un rapporto sessuale a tre in una suite. Dunning ha rifiutato, scatenando la reazione di Weinstein che aveva iniziato a urlare. La donna sostiene che fosse in accappatoio e avesse mostrato dei contratti urlando che li avrebbe firmati subito se avesse accettato il rapporto. Dunning ha sottolineato: "Mi sono messa a ridere. Pensavo stesse scherzando". Questo atteggiamento avrebbe scatenato la rabbia di Harvey che avrebbe replicato: "Non farai mai strada nel settore, è così che funziona!". In quel momento l'ex produttore avrebbe citato Charlize Theron e Salma Hayek come esempi di chi aveva fatto strada grazie a quello che erano disposte a fare. Dunning sostiene inoltre che aveva accettato gli incontri perché i commenti che aveva ricevuto da Weinstein sul suo corpo non erano peggiori rispetto a quello che le veniva detto dai clienti del nightclub, non dimostrando inoltre un atteggiamento pericoloso. La scelta di rivederlo dopo il primo approccio era stata inoltre motivata dalla convinzione che fosse un incidente isolato: "Volevo fingere che non fosse accaduto. Non volevo essere una vittima. Stavo cercando di ottenere un lavoro, quindi era un rapporto professionale... Per me era davvero importante".

Da il Giornale il 23 gennaio 2020. «Nel corso delle testimonianze vedrete che quell'uomo seduto a un lato dell'aula, nonostante le apparenze, non è un anziano inoffensivo, ma un predatore sessuale e stupratore». Entra nel vivo il processo al produttore statunitense Harvey Weinstein. Nei panni del vice procuratore distrettuale, Meghan Hast, l'accusa rinforza l'attacco al simbolo e presunto carnefice dell'epoca del #MeToo e lo fa con parole durissime. Senza il consueto deambulatore, ma con passo lento Weinstein, 67 anni, si è presentato mercoledì mattina al tribunale di New York, dove è in corso il processo che lo vede imputato con l'accusa di aver violentato una donna, Jessica Mann, nel 2013, in una stanza d'albergo, e aver assalito sessualmente la sua ex assistente alla produzione Mimi Haleyi nel 2006. Il procuratore ha rivelato nuovi inquietanti dettagli, come quella volta in cui, prima di stuprare la Mann, Weinstein si sarebbe iniettato un farmaco ad azione rapida contro la disfunzione erettile. La vittima avrebbe trovato nel bidone della spazzatura in bagno una siringa e l'involucro del farmaco contro l'impotenza. La difesa del produttore tenta il tutto per tutto per scagionarlo. E ha alcune frecce al suo arco. Sono le e-mail delle accusatrici, alcune delle quali lascerebbero intendere che con il produttore c'erano relazioni di carattere sentimentale. La Mann, dopo il presunto stupro, ha scambiato messaggi con Weinstein in cui definisce il produttore il suo «casual boyfriend». E scrive: «Ti amo, come sempre. Ma odio sentirmi come un ripiego». Il contenuto degli scambi è stato mostrato su uno schermo tv nel retro dell'aula da Damon Cheronis, avvocato difensore dell'ex produttore di Hollywood, durante l'arringa iniziale. Cheronis sostiene che la Mann, aspirante attrice, abbia intrattenuto una relazione di 5 anni con Weinstein e spiega: «Signore e signori della giuria, non è così che si parla al proprio aggressore. Non è così che si parla al proprio stupratore». La difesa insiste insomma sulla natura delle relazioni: rapporti consenzienti, protratti nel tempo, ben oltre la data delle presunte aggressioni.

Beatrice Pagan per movieplayer.it il 30 gennaio 2020. Harvey Weinstein, secondo una testimone al processo contro l'ex produttore, avrebbe usato i nomi di Charlize Theron e Salma Hayek per intimidire le proprie vittime e giustificare le richieste sessuali. Dawn Dunning, non coinvolta come accusastrice ma come testimone, ha infatti ricordato davanti alla Corte Suprema di New York le tattiche usate per intimidirla. La donna, ora quarantenne, ha incontrato Harvey Weinstein quando aveva 24 anni e lavorava come cameriera in un nightclub. Dunning ha ricordato di aver avuto due incontri con l'ex produttore che le aveva fatto credere che la stesse considerando per un ruolo in Derailed - Punto d'impatto e altri due progetti. La testimone sostiene che il primo dei due incontri sia avvenuto in un hotel e Weinstein l'avrebbe toccata in modo inappropriato nelle parti intime, situazione che l'ha sconvolta e l'ha spinta ad allontanarsi rapidamente, mentre Harvey la implorava di non rendere la situazione più drammatica di quanto fosse e chiedendole scusa. Un mese dopo, in occasione del secondo incontro, invece che parlare di lavoro il produttore le aveva proposto un rapporto sessuale a tre in una suite. Dunning ha rifiutato, scatenando la reazione di Weinstein che aveva iniziato a urlare. La donna sostiene che fosse in accappatoio e avesse mostrato dei contratti urlando che li avrebbe firmati subito se avesse accettato il rapporto. Dunning ha sottolineato: "Mi sono messa a ridere. Pensavo stesse scherzando". Questo atteggiamento avrebbe scatenato la rabbia di Harvey che avrebbe replicato: "Non farai mai strada nel settore, è così che funziona!". In quel momento l'ex produttore avrebbe citato Charlize Theron e Salma Hayek come esempi di chi aveva fatto strada grazie a quello che erano disposte a fare. Dunning sostiene inoltre che aveva accettato gli incontri perché i commenti che aveva ricevuto da Weinstein sul suo corpo non erano peggiori rispetto a quello che le veniva detto dai clienti del nightclub, non dimostrando inoltre un atteggiamento pericoloso. La scelta di rivederlo dopo il primo approccio era stata inoltre motivata dalla convinzione che fosse un incidente isolato: "Volevo fingere che non fosse accaduto. Non volevo essere una vittima. Stavo cercando di ottenere un lavoro, quindi era un rapporto professionale... Per me era davvero importante".

DAGONEWS il 15 gennaio 2020. Una delle spie di Harvey Weinstein, assunta per indagare su coloro che si preparano a fare accuse di aggressione sessuale contro di lui, ha seguito segretamente 91 personaggi di Hollywood, inclusa  Rose McGowan. Seth Freedman ha lavorato per l'agenzia di intelligence privata Black Cube, ma ha negato di aver messo a tacere le vittime in un’intervista con la BBC: ha raccontato di aver avuto una conversazione telefonica di 75 minuti con McGowan il cui contenuto è stato poi riferito a Weinstein. Freedman, che è stato smascherato dal giornalista Ronan Farrow, ha dichiarato: «Non mi sento in colpa per tutto ciò che ho fatto per Black Cube. Penso che il problema di quanto sia tossico questo dibattito sul caso Weinstein è che se dissenti su qualcosa vuol dire che stai dalla parte del produttore. A Black Cube sono stati assegnati due obiettivi a luglio 2017: fornire informazioni che potevano aiutare il cliente a bloccare la pubblicazione di un nuovo articolo negativo su un importante quotidiano di New York" e "ottenere ulteriori contenuti di un libro che era in fase di scrittura e che contenevano informazioni negative e dannose sul cliente». L'ex capo di Miramax ha speso più di 1,3 milioni di dollari per proteggere la sua reputazione con Black Cube. Freedman non lavora più per la società di intelligence israeliana legata al Mossad, ma ha detto di non essere dispiaciuto del suo precedente lavoro: «Il mio compito era ottenere informazioni e fino a quando non infrango la legge, non mi preoccupo di chi mi giudica per la mia etica. L'elenco delle persone che Harvey voleva che seguissimo era composto di 91 nomi. Attori e attrici che avevano lavorato per lui in passato e che non sembravano che stessero tramando contro di lui». Freedman ha affermato di essere stato «totalmente neutrale rispetto all'intera faccenda», dicendo alla BBC: «Harvey Weinstein non ha chiamato Black Cube, chiedendo di aiutarlo perché diverse persone lo accusavano di violenza sessuale. Non è andata così. E io non ho minacciato nessuno».

Fabio Scuto per il “Fatto quotidiano” il 17 gennaio 2020. Nel severo palazzo di arenaria della Corte distrettuale di Manhattan sono ripresi incontri e colloqui per selezionare i giurati del caso Harvey Weinstein. Il magnate del cinema Usa è accusato da 5 donne di stupro e violenza, altre 105 sono pronte a testimoniare sulle molestie sessuali subìte. I potenziali giurati convocati erano 600 e sono stati ridotti a 200 dopo 3 audizioni, 12 di loro alla fine saranno la giuria del tribunale presieduto dal giudice James Burke. Tra le carte del processo che si aprirà il 22 gennaio emerge un "dark side", un lato oscuro della vicenda che rischia di essere imbarazzante per molti in Israele. Dagli atti processuali depositati emerge il ruolo della Black Cube, società di sicurezza israeliana soprannominata da tutti "il Mossad privato", che venne ingaggiata da Weinstein quando lo scandalo stava per esplodere nel 2017 per scavare nella vita delle sue accusatrici e trovare elementi per screditarle. Fu l' ex premier israeliano Ehud Barak a consigliare Weinstein. "Mi chiese solo un suggerimento senza spiegarmi per cosa ne aveva bisogno", si è poi giustificato Barak. L'abituale discrezione che circonda gli agenti di queste company è stata violata l' altro giorno da Seth Freedman, che in una intervista con la Bbc ha ammesso di aver lavorato per l'agenzia israeliana e ha raccontato di aver avuto una conversazione telefonica di 75 minuti con Rose McGowan - una delle principali teste d' accusa - il cui contenuto venne poi riferito a Weinstein. Freeman ha anche ammesso che "l'elenco delle persone che Weinstein voleva che seguissimo era composto di 91 nomi". Black Cube è stata oggetto di molta attenzione da quando è stata fondata nel 2010 da Avi Yanus e Dan Zorella, ex ufficiali dell' intelligence israeliana. Dal 2019 si è trasferita in nuovi uffici, un intero piano della lussuosa Bank Discount Tower su Yehuda Halevy Street e Herzl Boulevard a Tel Aviv. Arrivati in uno dei piani più alti, i visitatori dell' ufficio si trovano di fronte a un semplice ingresso nero, senza scritte e senza logo: chi arriva fin qui non ci arriva per sbaglio. Nell' organigramma societario sono presenti ex elementi di spicco dell' Idf, l' ex "ramsad" del Mossad Efraim Halevy, ex uomini di punta della Difesa come Golan Malka, oltre a figure di peso legate alle società operanti nella sicurezza e nella ricerca militare. Per anni è stata presieduta, fino alla sua scomparsa nel 2016, da Meir Dagan che ha guidato il Mossad fino al 2012. Delle molte operazioni sotto copertura della Black Cube alcune sono finite sulle pagine della stampa israeliana, apparentemente senza imbarazzare la Company. Nel 2014 agenti della Bc vennero coinvolti nel tentativo di un magnate russo di screditare l' allora ministro Yair Lapid, durante l' ultima campagna elettorale in America alcuni operativi avevano fondato una società negli Usa che aveva preso a bersaglio la candidata Hillary Clinton. E quando gli americani nel 2014 iniziarono a trattare segretamente con l' Iran per l' intesa sul nucleare, agenti della Bc entrarono in azione per cercare di screditare alti funzionari dell' Amministrazione Obama. I bersagli erano il viceconsigliere per la Sicurezza nazionale Ben Rhodes e il consigliere per la sicurezza nazionale del vicepresidente, Colin Kahl. Black Cube aveva contattato entrambi sotto diverse coperture, per discutere dell' Iran. L'operazione è stata smascherata dallo Fbi. Nel 2014, Buenos Aires ha voluto assumere Black Cube per raccogliere informazioni sull'hedge fund Usa Elliott Management, che aveva portato l' Argentina in tribunale per costringerla a pagare le obbligazioni che aveva precedentemente ristrutturato. Nel 2016, due agenti israeliani del Black Cube sono stati arrestati in Romania con l'accusa di voler intimidire il principale procuratore anti-corruzione del Paese. E ancora, nel 2019 mentre stavano raccogliendo le prove d' accusa contro il premier Benjamin Netanyahu, gli uomini della Special Unit 433 si sono accorti che le loro mosse erano spiate. Bc era stata ingaggiata dalla difesa del premier per scoprire fin dove erano arrivati gli investigatori anti-frode israeliani. 

DAGONEWS il 4 febbraio 2020. Lunedì Jessica Mann è tornata sul banco dei testimoni del processo per stupro di Harvey Weinstein. Durante la sua prima testimonianza di venerdì ha descritto una relazione instabile e degradante con un uomo paragonabile a dottor Jekyll e mister Hyde. Ha descritto tre presunti incontri sessuali violenti con l’ex produttore, soffermandosi in particolare sull’orrore di aver visto Weinstein nudo. «Ho pensato che fosse deforme ed ermafrodito - ha detto Mann, 34 anni – aveva profonde cicatrici, non aveva i testicoli e sembrava avesse una vagina». Mann è la quinta di sei donne che parleranno a processo delle presunte aggressioni sessuali al processo di Weinstein a Manhattan ed è una delle due le cui accuse potrebbero mandarlo in prigione a vita. Weinstein si è dichiarato non colpevole dell’accusa di stupro di Mann del 2013 al DoubleTree Hotel a Midtown, a Manhattan, e della presunta aggressione sessuale di Miriam Haley nel 2006. Sostiene di non averle mai forzate a fare sesso. La testimonianza di Mann di venerdì è stata importante. La sua storia conteneva elementi che rispecchiavano in qualche modo la storia delle precedenti accusatrici: una sintesi angosciante del modello predatorio sul quale i pubblici ministeri stanno spingendo per corroborare le accuse. Mann ha ammesso di avere avuto un rapporto sessuale consensuale con Weinstein. Quando l'assistente procuratore distrettuale Joan Illuzzi ha chiesto a Mann di spiegare come il consenso e il non consenso coesistessero nella stessa relazione, Mann ha dato risposte contrastanti dicendo che  anche la generosità e la crudeltà coesistono nello stesso Weinstein. Ed è sulla consensualità che vuole spingere l’avvocato di Weinstein, Donna Rotunno per cercare di smontare le accuse. Parlando del primo incontro con Weinstein, Mann ha detto: «Pensavo che Dio mi avesse benedetto». Lavorava come parrucchiera e aspirava a diventare un’attrice. Weinstein stava scegliendo i ruoli principali in una commedia fantasy per adolescenti, Vampire Academy, per Mann e la sua amica Talita, quando il produttore l'avrebbe aggredita sessualmente per la prima volta in una suite d'albergo a Los Angeles. Ha raccontato che l’uomo le ha afferrato le braccia, ha combattuto per immobilizzarla prima di insistere perché lui le facesse sesso orale mentre Talita aspettava nella stanza accanto. Una dinamica che ricorda le accuse di Haley, di Dawn Dunning e di Annabella Sciorra. Ricordando l’incontro con Weinstein in una camera d'albergo del DoubleTree,  Mann ha raccontato che il produttore l’aveva intrappolata, l'ha costretta a togliersi i vestiti e l'ha violentata, trattenendola con il suo peso. Anche Tarale Wulff ha testimoniato che il peso di Weinstein l'ha trattenuta durante un presunto rapporto forzato nel 2005. Mann ha detto che, dopo l'attacco, ha trovato un ago nel cestino del bagno: dalla confezione emergeva che si trattava di un farmaco iniettabile che induce l'erezione. (Due ex dipendenti di Weinstein hanno dichiarato al New York Times nel 2017 di avergli procurato tali farmaci) Weinstein nega le accuse di Mann, Sciorra e Wulff. «Ricordo solo  che stavo guardando la TV e poi si è spenta» ha detto Mann parlando di un altro stupro che avrebbe subìto al Peninsula Hotel di Beverly Hills. Era andata a chiudere la relazione sessuale con Weinstein. Aveva incontrato un uomo, ma quando Weinstein sembrò dedurre che il suo ragazzo era un attore «i suoi occhi cambiarono e lui non era lì». La trascinò in camera da letto urlando «Me lo devi, me lo devi un'altra volta ». «Lo stavo implorando, ho detto “No, per favore no”. Mi ha strappato i pantaloni con tale violenza da grattarmi le cosce» - ha ricordato singhiozzando Mann – Quando sentiva il “no” in lui si scatenava qualcosa». Da venerdì, la testimonianza di Mann si è concentrata sulla descrizione del corpo di Weinstein, che era diversa da quelle che l'avevano preceduta. Wulff ha detto di aver visto una cicatrice sul lato del corpo di Weinstein, ma alcuna deformità. Quando Weinstein è uscito dal tribunale venerdì, ha risposto alla domanda di un giornalista sull'accuratezza della descrizione di Mann con un sarcastico: «Sì, perfetto». «Quando l'ho visto per la prima volta  -  ha detto Mann - Ero piena di compassione. Sembrava che la sua rabbia provenisse dal dolore».  «Quindi lo hai compatito? - ha chiesto Rotunno - Quindi gli stavi mentendo ogni volta che eri impegnata in un’attività sessuale con lui. Volevi quello che poteva offrirti, non è vero? Volevi ottenere un ruolo in Vampire Academy e per farlo avresti continuato a fare tutto?». A quel punto Mann ha tentennato e ha balbettato. Ma anche se la risposta fosse stata affermativa questo non avrebbe confutato le sue accuse.

R. Sp. Per “il Messaggero” l'1 febbraio 2020. «Dopo l' Oscar vinto nel 1992 dal mio film Mediterraneo, Harvey Weinstein mi offriva ponti d' oro», rivela Gabriele Salvatores, «voleva mettermi sotto contratto, piazzarmi in una villa a Malibu, darmi la possibilità di lavorare a nuove produzioni. Ma io dissi di no: consideravo Hollywood come l' impero del male, e forse non sbagliavo, e accettare le proposte del produttore mi sembrava equivalente a vendere l' anima. In più, avevo un grande amore in Italia e nessuna voglia di allontanarmi». La rivelazione arriva mentre Salvatores si prepara a partire per Los Angeles dove presiederà la 15ma edizione di Los Angeles, Italia, il festival fondato e organizzato da Pascal Vicedomini, in programma al TLC Chinese Theatres di Hollywood dal 2 all' 8 febbraio, vigilia degli Oscar. Salvatores è alle prese con il progetto del nuovo film, «per la prima volta sarà una storia d' amore» e con la preparazione del ritorno alla Scala «a maggio con il Ballo in maschera». Il regista milanese, 69 anni, era già stato ospite della rassegna di cinema, musica e arte nel 2010 e in quell' occasione venne premiato da Sylvester Stallone e Samuel J. Jackson. Oggi rievoca il suo incontro con Weinstein, all' epoca di Mediterraneo uno dei personaggi più potenti di Hollywood, mentre il produttore 67enne, costretto ad usare un deambulatore a causa di un incidente d' auto, sta affrontando a New York il processo per gli abusi sessuali di cui è accusato da decine di donne. L' ultima a testimoniare contro di lui, nei giorni scorsi, è stata l' attrice Annabella Sciorra, 59, tra i protagonisti della serie-cult I Sopranos: ha raccontato che tra il 1993 e il 1994 Weinstein sarebbe entrato nel suo appartamento e, usando la forza, avrebbe tentato di violentarla. Il processo-choc andrà avanti fino a marzo.

Weinstein, pugno duro dell'avvocata del produttore contro la testimone d'accusa: la donna ha una crisi, rinviata l'udienza. La testimone Jessica Mann lascia il tribunale lunedì. Jessica Mann accusa il produttore di Hollywood di averla violentata nel 2013. Donna Rotunno lunedì afferma invece che è stata la donna ad aver manipolato l'uomo per ottenere incarichi e inviti. La testimone leggendo una mail dove riconosceva di aver avuto con lui un rapporto "come un padre" ha iniziato a piangere. La Repubblica il 04 febbraio 2020. Il processo per stupro e violenze sessuali a Harvey Weinstein, 67enne produttore di Hollywood, è iniziato il 6 gennaio a New York. E lunedì, la 34enne ex aspirante attrice Jessica Mann, una delle sue accusatrici, leggendo una mail in cui descriveva Weinstein come una figura di "pseudo padre" e incalzata dall'avvocata del produttore Donna Rotunno, ha iniziato a piangere in aula, tanto che il giudice James Burke è stato costretto a porre fine alla testimonianza e a rimandarla a martedì. Jessica Mann venerdì aveva accusato Weinstein di averla violentata due volte all'inizio del 2013, nel corso di quella che ha descritto come una relazione violenta. Lunedì in aula, l'avvocatessa di Weinstein Donna Rotunno con fermezza ha chiesto più volte alla donna di riconoscere invece che era stata lei ad aver manipolato il produttore, facendogli credere erroneamente che fosse interessata a lui. "Stavi manipolando il signor Weinstein in modo da essere invitata alle feste, vero?", ha chiesto Donna Rotunno. "Non lo stavo manipolando", ha replicato Mann. Rotunno ha insinuato che la giovane Jessica Mann nel 2013 stesse cercando di prendersi gioco di Weinstein per riuscire a ottenere una parte in un film. "Avresti continuato a fare tutto ciò che dovevi fare per farlo accadere?", ha chiesto Rotunno. "Non direi così", ha replicato Mann. La testimonianza della donna è stata indebolita dalla difesa di Weinstein che ha obbligato la testimone a leggere una serie di mail e messaggi che, pronunciate in aula, non hanno rivelato riserve o distanze nel suo rapporto con il produttore. Leggendo una lettera del 2013 inviata a un suo ex fidanzato, Jessica Mann scriveva che Weinstein le aveva "offerto aiuto quando i miei genitori non lo facevano". "Ho cercato di renderlo uno pseudo-padre". Poi la testimone ha iniziato a piangere. Gli avvocati hanno cercato di calmarla, riporta la Cnn, ma la donna ansimava affermando di avere un attacco di panico. Uscita dall'aula, Jessica Mann non è riuscita a riprendersi e il giudice ha deciso di rimandare a martedì la testimonianza. Il produttore cinematografico è al centro di diversi casi che con la loro esposizione, oltre due anni fa, hanno dato un impulso decisivo al movimento #MeToo. Accusato di aver violentato una donna nel 2013 e di aver compiuto atti sessuali non consensuali su un'altra donna nel 2006, Weinstein rischia una pena fino all'ergastolo. Il fondatore di Miramax è stato arrestato nel 2018 e nega ogni accusa.

Harvey Weinstein, l'attrice italiana Emanuela Postacchini: "Sesso a tre, come mi ha ingannato". Libero Quotidiano il 6 Febbraio 2020. Harvey Weinstein, 67 anni, cerca di evitare il carcere a vita come predatore sessuale, ma una nuova testimonianza sembra metterlo in difficoltà. In tribunale a Manhattan ha testimoniato anche l' attrice italiana Emanuela Postacchini, 28 anni, coinvolta nel 2013 a Los Angeles in un rapporto a tre con l' ex produttore. Lo scrive il Giorno in edicola giovedì 6 febbraio. Postacchini aveva conosciuto Weinstein al festival di Venezia. Nel 2013, a un party a Hollywood prima degli Oscar, aveva accettato l' invito del produttore a seguirlo nel suo albergo. Nella stanza però c' era già Jessica Mann, l'accusatrice principale e del produttore, che la Postacchini aveva incontrato solo la sera prima. "Non avevo idea che avrei trovato un' altra donna in camera", ha detto sotto giuramento. "Ci disse di fare delle cose insieme, era come se ci dirigesse e spingesse a fare sesso tra di noi. A un certo punto Jessica è corsa fuori dalla stanza e si è messa rannicchiata a piangere sul pavimento. Io ho cercato di calmarla e mi sono sentita ovviamente a disagio e ingannata". La testimonianza è arrivata a sorpresa e ha colto impreparata anche la difesa di Weinstein. A ordinare la sua testimonianza è stata la procura di New York, determinata a sostenere le accuse contro il potente produttore, accusato di abusi da oltre 80 donne. Per tre giorni la Mann infatti è salita sul banco dei testimoni subendo anche una dura contro-interrogazione dell' avvocatessa Donna Rotunno, che difende Weinstein. È stata lei a documentare come la Mann abbia avuto una relazione consensuale col produttore per anni. Siccome la credibilità della Mann i procuratori di Manhattan hanno voluto utilizzare altre testimoni che non avevano mai denunciato Weinstein ma si erano sentite vittime di violenza.

Simonetta Sciandivasci per “la Verità” il 7 febbraio 2020. Harvey Weinstein è sotto processo da un mese tondo e ne stanno uscendo di ogni da quell' aula di tribunale dove si reca col deambulatore, deriso e insultato finanche per questo. Talune frange radicali l' accusano addirittura di fingere, giacché com' è noto il diritto statunitense prevede ingenti sconti di pena per gli stupratori se, e soltanto se, claudicanti (sarcasmo). L'ultima, arrivata in contemporanea all' accusa di raggiramento finalizzato a threesome («Mi ingannò, voleva fare sesso a tre», ha denunciato Emanuela Postacchini, attrice), è una disamina spietata e icastica, osiamo dire, delle pudenda dell' imputato, delle quali alla giuria sarebbero state fornite dettagliate fotogallery comprensive di scatti del de cuius ignudo. «Ho pensato fosse deforme ed ermafrodito, non aveva i testicoli e sembrava avere invece una vagina», ha detto Jessica Mann, anche lei attrice, che dall' ex numero uno di Miramax ha raccontato di essere stata violentata dopo alcuni rapporti sessuali consensuali. La storia ci dirà quale sia stata l'utilità, ai fini processuali e non solo, di rendere la detta disamina un titolo di migliaia di articoli di giornale. E siccome noi siamo molto pigre e più che l' onor del vero su di noi può l' onorare la tavola, confidiamo nel fatto che sia sempre la storia a dissipare in nostra vece i ben due dubbi che la faccenda #testicolidiweinstein ci instilla. Primo, ma com'è possibile che il peggior erotomane, sessuomane, predatore sessuale della contemporaneità non abbia i testicoli? Va bene che siamo in sex recession, e che non scopa più nessuno, e che come dicono i The Pills del sesso basta il pensiero (soprattutto a Roma), ma non nuocerà alla credibilità di un' accusa di stupro dire che lo stupratore è un ermafrodito con le parti intime piene di cicatrici e un pene che sembra una vagina? Vivessimo in un filmaccio di quelli che certe notti passa la tv, verrebbe presto fuori che la Mann è stata pagata da Weinstein per dire una balla che lo mostrasse fisicamente impossibilitato a violentare una donna. Due, ma la diffusione della disamina che sta naturalmente alimentando ironie schifose ai danni del Weinstein, si configura o no come body shaming? Vai a sapere.

Liberoquotidiano.it il 7 febbraio 2020. Harvey Weinstein, 67 anni, cerca di evitare il carcere a vita come predatore sessuale, ma una nuova testimonianza sembra metterlo in difficoltà. In tribunale a Manhattan ha testimoniato anche l' attrice italiana Emanuela Postacchini, 28 anni, coinvolta nel 2013 a Los Angeles in un rapporto a tre con l' ex produttore. Lo scrive il Giorno in edicola giovedì 6 febbraio. Postacchini aveva conosciuto Weinstein al festival di Venezia. Nel 2013, a un party a Hollywood prima degli Oscar, aveva accettato l' invito del produttore a seguirlo nel suo albergo. Nella stanza però c'era già Jessica Mann, l'accusatrice principale e del produttore, che la Postacchini aveva incontrato solo la sera prima. "Non avevo idea che avrei trovato un' altra donna in camera", ha detto sotto giuramento. "Ci disse di fare delle cose insieme, era come se ci dirigesse e spingesse a fare sesso tra di noi. A un certo punto Jessica è corsa fuori dalla stanza e si è messa rannicchiata a piangere sul pavimento. Io ho cercato di calmarla e mi sono sentita ovviamente a disagio e ingannata". La testimonianza è arrivata a sorpresa e ha colto impreparata anche la difesa di Weinstein. A ordinare la sua testimonianza è stata la procura di New York, determinata a sostenere le accuse contro il potente produttore, accusato di abusi da oltre 80 donne. Per tre giorni la Mann infatti è salita sul banco dei testimoni subendo anche una dura contro-interrogazione dell' avvocatessa Donna Rotunno, che difende Weinstein. È stata lei a documentare come la Mann abbia avuto una relazione consensuale col produttore per anni. Siccome la credibilità della Mann i procuratori di Manhattan hanno voluto utilizzare altre testimoni che non avevano mai denunciato Weinstein ma si erano sentite vittime di violenza...

DAGONEWS il 4 febbraio 2020. Jessica Mann, una delle principali accusatrici di Weinstein, è tornata in aula durante il processo a Manhattan contro il produttore. Dopo i dettagli sul corpo dell’uomo, è tornata a parlare dei loro incontri sessuali. «Eravamo sotto la doccia ... e ha chiesto, “Hai mai avuto una golden shower?”. Io ho detto "no". Poi ho sentito che stava facendo pipì su di me – ha detto Mann - Ero scioccata, era disgustoso. Mi sono girata in un angolo della doccia e ho semplicemente distolto lo sguardo». Durante il secondo giorno in aula, l'avvocato difensore Donna Rotunno ha cercato di dipingere Mann come un’opportunista manipolatrice, chiedendole ripetutamente perché continuava a inviare e-mail amichevoli al produttore anche dopo che l'ha presumibilmente violentata in una camera d'albergo di New York City nel marzo del 2013. «C'era una ragione per cui mi comportavo così – ha detto Mann - Lo rendeva felice. Mi sono sentito al sicuro comunicando via e-mail». Venerdì Mann ha raccontato di come Weinstein l'ha presumibilmente aggredita più volte dopo che i due si sono incontrati a una festa nel 2013. L'ex attrice ha ammesso di avere avuto una relazione breve ma contorta con Weinstein, durante la quale hanno avuto anche più incontri sessuali consensuali, tra cui un rapporto a tre. Mann ha riconosciuto di non aver mai denunciato prima e di aver inviato a Weinstein numerose e-mail in seguito, perché «il suo ego era fragile» e lei «voleva essere percepita come innocente e ingenua».

Processo Weinstein, Jessica Mann: "Deforme, non aveva i testicoli e sembrava avere una vagina". Libero Quotidiano il 4 Febbraio 2020. E' in corso il processo ad Harvey Weinstein, noto ex produttore cinematografico, a seguito delle accuse di violenza sessuale portate avanti da donne aderenti al movimento #metoo". Lo scorso venerdì 31 gennaio, Jessica Mann è salita sul banco dei testimoni. In particolare, la descrizione del corpo di Weinsten è stata il leitmotiv del suo racconto. E ora ne emergono i particolari: disturbanti, a tratti agghiaccianti. "Ho pensato che fosse deforme ed ermafrodito. Aveva profonde cicatrici, non aveva i testicoli e sembrava avesse una vagina", ha dichiarato Jessica Mann, che all'epoca dei fatti faceva la parrucchiera ma ambiva a diventare attrice. Il suo incontro con Weinstein avvenne in una camera d'hotel. Il produttore stava scegliendo aspiranti attrici per dei ruoli in una nuova commedia fantasy per adolescenti, Vampire Academy. Così, continua Jessica, improvvisamente il produttore le ha afferrato le braccia, l'ha immobilizzata e ha insistito affinché facessero sesso orale. Successivamente l'ha costretta a togliersi i vestiti e l'ha violentata. Da non sottovalutare, ai fini delle valutazioni del tribunale, l'aneddoto dell'ago nel cestino del bagno. L'attrice ha raccontato di aver trovato tale ago accanto ad una confezione contenente un farmaco iniettabile che induce all'erezione.

Donna Rotunno, l’avvocata che difende Weinstein  e accusa il #Metoo. Pubblicato martedì, 14 gennaio 2020 su Corriere.it da Elena Tebano. Italoamericana, famosa per la spietatezza nell’interrogare le vittime, è «specializzata» nel far assolvere gli stupratori. «Non mi ha sorpreso ricevere la telefonata. Io mi occupo di questo tipo di casi» ha detto Donna Rotunno, 44 anni, italoamericana di Chicago, della chiamata nella quale le è stato chiesto di difendere Harvey Weinstein, 67, l’ex produttore di Hollywood accusato di essere uno stupratore seriale. «Questo tipo di casi» significa uomini accusati di stupri particolarmente gravi. Rotunno ha preso la guida del team legale di Weinstein dopo che due altri avvocati tra i migliori degli Stati Uniti avevano rinunciato alla difesa, sia per le critiche ricevute dall’opinione pubblica sia perché Weinstein si è rivelato un cliente «irragionevolmente difficile», che assedia di richieste e imposizioni i suoi avvocati. Weinstein ha voluto Rotunno anche perché è una donna. «Durante i controinterrogatori alle donne in un’aula di tribunale me la cavo molto meglio di un avvocato maschio — ha detto lei in passato —. Se un uomo si mettesse contro una donna con la mia stessa acredine sembrerebbe un bullo, se lo faccio io, nessuno batte ciglio». Laureata al Chicago Kent College of Law, Rotunno ha lavorato per alcuni anni come assistente del Procuratore di Stato in Illinois, occupandosi di casi di violenza domestica e di reati. Poi è diventata avvocato difensore e a 29 anni ha aperto il suo studio. Si è fatta conoscere presto per la sua capacità di ottenere assoluzioni per presunti stupratori. A volte si presenta in tribunale con al collo una catenina d’oro con su scritto «not guilty» («non colpevole»), sempre elegantissima e in tacchi alti. È famosa per la ferocia con cui interroga le vittime che accusano i suoi clienti. Il New York Times racconta che una volta, dopo aver sottoposto una 15enne che aveva subito uno stupro a una serie di domande brutali, ha chiesto al procuratore del caso di passarle un messaggio: «Dille che avevo un lavoro da fare. Non voglio che questo definisca ciò che le succede». La sua difesa in aula è tutta basata sulla sconfessione del movimento #Metoo che chiede di riconoscere come le molestie e le violenze sessuali siano un fenomeno endemico e di credere — salvo prove contrarie — alle donne che denunciano (ed era emerso proprio con il caso Weinstein). «Il pendolo oscilla così tanto in direzione di una eccessiva sensibilità che gli uomini non possono essere veramente uomini e le donne non possono essere veramente donne» ha detto invece Rotunno in un’intervista a Vanity Fair. «Credo che le donne rimpiangeranno il giorno in cui tutto questo è iniziato, quando nessuno chiederà loro di uscire, e nessuno terrà loro la porta aperta, e nessuno gli dirà che sono carine». A fine dicembre ha scritto un editoriale su Newsweek accusando i media di aver già processato e condannato Weinstein. E finora ha impostato tutta la sua difesa — anticipata nelle interviste rilasciate da quando a maggio è diventata la sua avvocata — sull’idea che il sesso tra l’ex produttore e le sue accusatrici sia sempre stato consensuale. «Penso che sia facile guardarsi indietro e dire: forse non ho amato quell’esperienza» ha affermato Rotunno. «Il sesso che poi si rimpiange non è stupro». E ancora: «I procuratori diranno che Harvey Weinstein era quest’uomo potente che poteva ottenere tutto quello che voleva, e si è dato da fare per ottenere tutto quello che voleva. Io la vedo esattamente nel modo opposto. Guardo Harvey Weinstein e dico: era quello che aveva le chiavi del castello in cui tutti volevano entrare. E quello che la gente faceva era usarlo, e lo usava, e lo usava, e lo usava, e lo usava». Nelle prossime settimane si vedrà se la sua difesa risulterà convincente in tribunale. Il processo, iniziato il 6 gennaio, è ancora alla selezione dei giurati, ma Rotunno è già riuscita a fare infuriare chiunque si occupi di violenza sulle donne e buona parte dell’opinione pubblica. Il procedimento penale riguarda due casi: quello di una donna rimasta anonima che accusa Weinstein di averla stuprata nel 2013 in un hotel di New York, e quella della ex collaboratrice di Weinstein Mimi Haleyi, che ha raccontato di essere stata costretta a un rapporto orale nell’appartamento del produttore, a Soho, Manhattan. Poi c’è quello che Rotunno ha definito il «processo sui media», le testimonianze di almeno 80 donne tra cui Salma Hayek, Gwyneth Paltrow, Asia Argento, Angelina Jolie e Uma Thurman, raccolte con determinazione e accuratezza dai media. Tutte le vittime raccontano di essere state molestate o violentate da Weinstein secondo un modus operandi ricorrente, anche se molti degli abusi sono caduti in prescrizione mentre in altri casi le accuse sono state «sterilizzate» da accordi extragiudiziali per i quali finora Weinstein ha pagato 25 milioni di dollari. Il fatto che non siano dimostrabili in tribunale non significa di per sé che non siano fondate.

Weinstein alla sbarra, processo del secolo o show mediatico? Sara Volandri il 7 Jan gennaio 2020 su Il Dubbio. Visibilmente affaticato, quello che un tempo era il re di Hollywood viene accolto da una slava di fischi e urla. Rischia la prigione a vita. La sentenza è attesa per marzo. L’ormai ex re di Hollywood, il produttore Harvey Weinstein, è alla sbarra da ieri mattina al tribunale di Manhattan per rispondere di molestie, abusi e violenza sessuale, reati che potrebbero mandarlo in galera per il resto della sua vita. A poche ore dalla notte dei Golden Globes, dopo due anni di accuse, rivelazioni e colpi di scena che hanno dato vita al movimento globale del # MeToo inizia dunque il passaggio più atteso nel mondo dello spettacolo d’oltreoceano con tutta la sgradevole coda di morbosità che accompagna questo caso fin dall’inizio, il classico “processo del secolo” in cui è molto difficile sottrarsi alle immani pressioni mediatiche. Sono oltre ottanta le donne che pubblicamente hanno accusato Weinstein, solo per citarne alcune: Salma Hayek, Gwyneth Paltrow, Asia Argento, Angelina Jolie e Uma Thurman. L’ex produttore cinematografico, apparso invecchiato e sofferente, è stato accolto dalla contestazione di una decina di donne che hanno esposto cartelli di protesta. I 120 posti destinati al pubblico erano già occupati dalle 7 del mattino, gran parte dei duecento giornalisti accreditati era arrivato intorno alle 5. Delle ottanta denunce, molte sono cadute a dicembre grazie a un accordo extragiudiziale, in base al quale le vittime verranno risarcite da Weinstein per un totale di 25 milioni di dollari. Il processo si baserà essenzialmente su due denunce: quella di una donna che accusa Weinstein di averla stuprata nel 2013 in un hotel di New York, e un’altra, Mimi Haleyi, che ha raccontato di essere stata costretta a un rapporto orale nell’appartamento del produttore, a Soho, Manhattan. Sono attese anche le testimonianze di altre donne, tra cui l’attrice Annabella Sciorra, premio Emmy per il suo ruolo nella serie «Sopranos», che ha raccontato di essere stata violentata da Weinstein. La difesa sostiene che nessuna delle donne che accusano Weinstein di violenza sessuale venne costretta a compiere atti contro la sua volontà. Se dovesse essere condannato, l’ex produttore rischia l’ergastolo per l’accusa più grave, quella di atti da predatore sessuale, che scatta quando ci sono due o più stupri. Il processo dovrebbe durare fino a marzo, con almeno otto settimane di dibattimento e audizione dei testimoni. Poi ci sarà la sentenza. Il giudice si chiama James Burke, giudice del tribunale penale dal 2001, dopo 12 anni da procuratore nella contea di New York. Comunque andranno a finire le cose Weinstein ha già perso tutto quello che aveva da perdere: la sua società di produzione cinematografica, la Miramax, milioni di dollari in cause legali e naturalmente il suo matrimonio. Gli resta soltanto la libertà ma la prossima primavera potrebbe perdere anche quella.

Stati Uniti, Harvey Weinstein: per la giuria è colpevole di violenza sessuale e stupro. I giurati hanno raggiunto il verdetto nei confronti dell'ex produttore cinematografico che doveva rispondere di cinque capi di imputazione: è stato giudicato colpevole per due e non colpevole per le altre tre imputazioni. Assolto dalle accuse di aggressione sessuale predatoria. Resterà in prigione in attesa della sentenza. Katia Riccardi il 24 febbraio 2020 su La Repubblica. Un verdetto atteso, complesso. Dopo 26 ore e mezzo i giurati del tribunale penale di Manhattan hanno raggiunto il verdetto nel processo iniziato a gennaio contro Harvey Weinstein: l'ex produttore cinematografico è stato dichiarato colpevole di violenza sessuale di primo grado nei confronti dell'ex assistente di produzione Miriam Haley, e di stupro di terzo grado nei confronti di Jessica Mann. In base alla decisione della New York State Supreme Court, Weinstein, 67 anni, rischia una condanna che può variare dai 5 ai 25 anni di carcere per quanto riguarda il crimine sessuale di primo grado, sesso orale con la sua ex assistente, e fino a quattro anni di carcere per il reato di stupro. Dopo la lettura del verdetto, l'imputato è stato ammanettato e portato via. Resterà in custodia. Nonostante i legali di Weinstein avessero richiesto gli arresti domiciliari sulla base delle sue condizioni di salute e del suo buon comportamento durante il processo, il giudice ha stabilito che resterà in prigione in attesa della sentenza che potrebbe essere emessa l'11 marzo. I legali della difesa hanno già fatto richiesta di appello.

I cinque capi d'imputazione. L'ex produttore doveva rispondere di cinque capi di imputazione: è stato giudicato colpevole per due, non colpevole per le altre tre imputazioni ma soprattutto è stato assolto dall'accusa più grave: quella di aggressione sessuale predatoria che comportava una possibile condanna all'ergastolo. Questa sarebbe scattata se fosse stata riconosciuta, "oltre ogni ragionevole dubbio", la violenza nei confronti di un'altra vittima, l'attrice Annabella Sciorra, che ha raccontato di essere stata stuprata negli anni '90. Ad attenderlo come a una cerimonia di premiazione, uno stuolo di giornalisti. Weinstein è arrivato in Aula dopo aver fatto colazione all'hotel Four Seasons di New York Downtown indossando un abito blu scuro e appoggiandosi al solito deambulatore. Secondo quanto riportava la Reuters, "sembrava di buon umore", sorridente, ha salutato i reporter: "Buongiorno a tutti". L'ex re Mida di Hollywood si è dichiarato non colpevole dall'inizio del processo.

La lettura del verdetto. Prima di leggere il verdetto i giurati non hanno guardato Weinstein. Non hanno guardato nessuno. In Aula sono entrati 13 agenti, Weinstein è rimasto seduto al tavolo della difesa.

Le testimonianze. Sei donne hanno testimoniato al processo di New York, ma il caso della procura era costruito sulle accuse di soltanto due di loro, l'ex assistente Miriam Hailey secondo la quale Weinstein l'aveva forzata a fare sesso orale nel 2006 e sulla testimonianza di Jessica Mann, che aveva descritto lo stupro avvenuto nel 2013.

L'arrivo in Aula. Weinstein è arrivato in Aula dopo aver fatto colazione all'hotel Four Seasons di New York Downtown, indossando un abito blu scuro e appoggiandosi al deambulatore. Secondo quanto riporta la Reuters, "sembrava di buon umore". L'ex re Mida di Hollywood si è dichiarato non colpevole dall'inizio del processo.

Le reazioni. Celebrità e attivisti hanno accolto con favore il verdetto di colpevolezza. Le accuse contro Weinstein hanno contribuito ad alimentare il movimento #MeToo delle donne che sono riuscite a parlare di maltrattamenti. Che hanno trovato il coraggio di esporsi e che hanno anche fondato anche Times Up, un'organizzazione dedicata alla lotta contro le molestie e gli abusi sessuali in tutti i settori. "Harvey Weinstein ha operato impunemente e senza rimorsi per decenni a Hollywood. Tuttavia, ci sono voluti anni e milioni di voci, affinché un uomo fosse ritenuto responsabile dal sistema giudiziario", ha affermato l'organizzazione #MeToo in una nota.

"Oggi è un giorno potente e un enorme passo avanti nella nostra guarigione collettiva", ha twittato l'attrice Rose McGowan, che ha accusato Weinstein di averla violentata.

"Per le donne che hanno testimoniato in questo caso e che hanno attraversato l'inferno, grazie", ha scritto su Twitter l'attrice Ashley Judd, una delle prime donne nell'ottobre 2017 ad accusarlo pubblicamente.

"Gratitudine per le donne coraggiose che hanno testimoniato e per la giuria, per aver visto attraverso le sporche tattiche della difesa", ha twittato l'attrice Rosanna Arquette.

"La storica vittoria di oggi nel processo di Weinstein è una testimonianza del coraggio e della resilienza dei #SilenceBreakers e una vittoria per i sopravvissuti ovunque. Questo è solo l'inizio", ha scritto l'attrice Reese Witherspoon su Twitter.

"Harvey Weinstein è stato ammanettato e portato in prigione!" ha detto Rosie Perez, che ha testimoniato al processo di Weinstein per rafforzare il resoconto dell'amica e collega attrice Annabella Sciorra.

 "Harvey Weinstein è adesso uno stupratore condannato", ha scritto Asia Argento su Instagram, "Un grazie a tutte le donne coraggiose".

Weinstein riconosciuto colpevole di violenza sessuale e stupro. Rischia fino a 25 anni di carcere. Pubblicato lunedì, 24 febbraio 2020 da Corriere.it. Harvey Weinstein è stato riconosciuto colpevole di violenza sessuale e stupro al processo di New York. Dei tre verdetti di non colpevolezza, due riguardavano l’accusa più grave, aggressione sessuale predatoria, che comportava una possibile condanna dell’ex produttore all’ergastolo. La giuria di 5 donne e 7 uomini è stata chiamata a esprimersi sul caso simbolo del movimento #MeToo e in particolare su due delle 80 accuse di violenze e molestie mosse al produttore di Hollywood. Solo due, infatti, hanno portato all’apertura di un processo penale a New York, anche se altre testimonianze sono state presentate come prove. Il produttore 67enne si è sempre proclamato innocente su tutti i cinque capi d’accusa, tra cui quelli di stupro e aggressione sessuale. Si è presentato in aula con un deambulatore e non ha testimoniato, per volere dei suoi avvocati. Chi sono le accusatrici: Mimi (Miriam) Haleyi e Jessica Mann. La prima, ex assistente di produzione, dice di essere stata convinta con un’offerta di lavoro a recarsi nell’appartamento di Weinstein, dove è stata costretta a rapporti sessuali nel 2006. La seconda, un’attrice, dice di essere stata stuprata più volte nel 2013. Entrambe riconoscono di aver avuto anche almeno incontro consensuale con Weinstein dopo le presunte aggressioni (Mann una relazione di 5 anni). La difesa ha mostrato email amichevoli scambiate dal produttore con entrambe dopo i fatti. Weinstein rischia da cinque a 25 anni di carcere per l’imputazione più grave per la quale è stato riconosciuto colpevole dalla giuria, l’atto sessuale di primo grado sulla base delle accuse di Miriam Haley. Al centro del caso ci sono dunque le questioni cruciali del consenso e dei rapporti di potere nei casi di violenze, raramente messe alla prova in tribunale, perché tradizionalmente simili testimoni «imperfette» vengono evitate. Le storie di quattro altre donne tra cui Annabella Sciorra, attrice dei Sopranos, sono state presentate dall’accusa, per cercare di dimostrare il comportamento predatorio dell’imputato.

Harvey Weinstein condannato per stupro, si sente male. Ricoverato. Il produttore è stato portato in ospedale in seguito a dolori al petto. La Repubblica il 25 febbraio 2020. Harvey Weinstein, condannato per stupro, non ha passato in carcere la prima notte bensì in ospedale. Dopo la sentenza che ieri lo ha riconosciuto colpevole, tra le altre cose, di stupro, l'ex produttore Miramax si è sentito male. Secondo quanto hanno detto i suoi legali, l'ex re di Hollywood ha accusato dolori al petto mentre veniva trasferito dal tribunale a Rikers Island, il carcere di New York dove rimarrà in attesa della condanna il prossimo undici marzo. Weinstein è stato quindi portato in ospedale per un controllo. I suoi legali hanno detto che aveva la pressione alta e che hanno richiesto assistenza medica anche presso il carcere. Weinstein rischia fino a 25 anni di prigione dal momento che è stato dichiarato colpevole di violenza sessuale di primo grado nei confronti dell'ex assistente di produzione Miriam Haley, e di stupro di terzo grado nei confronti di Jessica Mann. In base alla decisione della New York State Supreme Court, Weinstein, 67 anni, rischia una condanna che può variare dai 5 ai 25 anni di carcere per quanto riguarda il crimine sessuale di primo grado, sesso orale con la sua ex assistente, e fino a quattro anni di carcere per il reato di stupro. Molte le reazioni alla sentenza nel mondo dello spettacolo ma non solo. Il Presidente Trump dall'India ha dichiarato "a me non è mai piaciuto": "piaceva a Michelle Obama. Piaceva a Hillary Clinton". Cavalcando il verdetto della giuria contro il produttore il Presidente attacca i democratici: "Ha donato loro molti soldi. Ora la domanda è: li restituiranno?" Definendo la decisione della giuria una "grande notizia per le donne" perché "invia un messaggio molto chiaro". Hillary Clinton, ieri dalla Berlinale dove è stato presentato il documentario su di lei, ha commentato così: "La sentenza parla da sola. Il processo è stato molto seguito dall'opinione pubblica perché è ormai tempo per una resa dei conti, cosa che la giuria ha avvertito chiaramente".

Claudia Gagliardi per optimagazine.com il 25 febbraio 2020. Quasi due anni e mezzo dopo l’esplosione del caso sulle pagine del New Yorker grazie all’inchiesta di Ronan Farrow, Harvey Weinstein è stato dichiarato colpevole di aver commesso un crimine sessuale e uno stupro di terzo grado. Nella stessa sentenza è stato assolto da altre due accuse di aggressione sessuale. La prima sentenza a carico dell’ex produttore della Miramax è stata emessa da una giuria di sette uomini e cinque donne a New York, dopo una camera di consiglio durata quattro giorni e mezzo: il verdetto è stato pronunciato lunedì 24 febbraio, di fronte all’imputato rimasto impassibile. Weinstein è stato arrestato e tradotto in carcere. La durata della sua pena sarà stabilita l’11 marzo. Sono due i casi costati a Weinstein la condanna: oggi rischia fino a 25 anni di prigione per l’aggressione sessuale a Miriam Haley nell’estate 2006 e per stupro di terzo grado per aver aggredito Jessica Mann, un’aspirante attrice e parrucchiera violentata in un hotel a New York nel 2013. Invece è stato dichiarato non colpevole per l’accusa di stupro di primo grado di Mann, perché il rapporto sarebbe avvenuto senza “costrizione forzata“. Non è stato ritenuto colpevole, al di là di ogni ragionevole dubbio, dello stupro dell’attrice Annabella Sciorra, che aveva denunciato l’aggressione nel suo appartamento di Gramercy Park nei primi anni ’90. Durante una conferenza stampa, il procuratore distrettuale Cyrus Vance, Jr. ha sottolineato l’importanza di questa sentenza come l’inizio di una “nuova era” per le vittime di violenza sessuale, perché “lo stupro è uno stupro, che sia commesso da uno sconosciuto in un vicolo buio o da un partner sessuale, da una persona indigente o da un uomo di immenso potere, personalità e prestigio”. Il rappresentante della pubblica accusa ha definito Weinstein senza mezzi termini “un malvagio predatore sessuale seriale che ha usato il suo potere per minacciare, stuprare, aggredire, ingannare, umiliare e mettere a tacere le sue vittime“, riferendosi non solo alle aggressioni sessuali ma anche alla violenza psicologica perpetrata nei confronti delle numerose vittime del produttore. La difesa ha già annunciato che farà ricorso contro la sentenza: Weinstein continua a professarsi innocente sostenendo di aver avuto solo rapporti consensuali. La richiesta di libertà condizionata su cauzione, presentata adducendo motivi di salute, è stata respinta dal giudice. Weinstein si è detto “sbalordito” dalla sentenza: “Le parole che mi ha ripetuto più volte sono: ‘Sono innocente, sono innocente, sono innocente. Come è potuto accadere in America?” ha dichiarato alla stampa il suo legale Arthur Aidala fuori dal tribunale. Le reazioni alla sentenza non sono mancate. “Questa vittoria in tribunale è dovuta al coraggio di ragazze e donne coraggiose e diverse che hanno osato dire la verità” ha dichiarato l’attivista per i diritti delle donne Gloria Steinem, mentre Tarana Burke, l’attivista che ha fondato il movimento #MeToo che invita le donne a denunciare le molestie subite, si è chiesta quali siano i danni collaterali dei crimini commessi da Weinstein e accertati dalla sentenza: “Quante carriere sono deragliate? Quanti assistenti sono stati licenziati o messi a tacere? Quanti lavori sono andati persi? Quante notizie, che avrebbero potuto denunciare prima Harvey, sono state censurate?” ha dichiarato la Burke, ricordando come il magnate della Miramax abbia “operato impunemente e senza rimorsi per decenni a Hollywood” prima che molte voci si sollevassero contro di lui portandolo in tribunale. Asia Argento, tra le prime a parlare di Weinstein nell’inchiesta di Ronan Farrow per il New Yorker che fece scoppiare il caso a settembre 2017, ha festeggiato la sentenza in lacrime e dedicato la vittoria al defunto compagno Anthony Bourdain. Lo stesso Farrow ha elogiato le donne che hanno avuto il coraggio di esporsi, i giornalisti che le hanno ascoltate e i pubblici ministeri che hanno perseguito Weinstein. Anche le attrici Mira Sorvino, Tandie Newton, Ashley Judd, che hanno raccontato di essere state molestate da Weinstein, hanno esultato per la sentenza. Reese Witherspoon, tra le fondatrici dell’associazione per i diritti delle vittime di violenze Time’s Up, ha parlato di “una testimonianza del coraggio e della capacità di resistenza delle donne che hanno rotto il silenzio e una vittoria per tutte le sopravvissute. Questo è solo l’inizio“. Alyssa Milano, attrice di Streghe e attivista tra le prime promotrici del movimento #MeToo su Twitter, ha protestato contro l’assoluzione per la violenza denunciata da Annabella Sciorra e con lei molte altre si sono schierate in favore dell’attrice rilanciando l’hashtag #IBelieveAnnabellaSciorra. Per Weinstein non è finita qui: l’ex produttore cinematografico deve affrontare quattro ulteriori accuse a Los Angeles, per presunti crimini sessuali risalenti al 2013.

Silvia D’Onghia per il “Fatto quotidiano” il 25 febbraio 2020. "Dopo 23 anni non vivrò più nel terrore". Piange, Asia Argento al telefono, e le sue lacrime suonano catartiche. Quasi che la paura vissuta in questi lunghi anni possa lasciare il posto a una ritrovata serenità e a una futura gioia. I giudici che ieri hanno emesso il verdetto nei confronti di Harvey Weinstein hanno dato ragione anche a lei, tra le prime nell' ottobre del 2017 a denunciare l' ormai ex Re Mida di Hollywood. "Mi sento vendicata - spiega al Fatto con voce commossa -; non soltanto io, ma tutte le donne che hanno lottato per la giustizia". Non sono stati anni facili per lei, reduce dalla morte del suo compagno Anthony Bourdain, spesso vittima di accuse campate per aria (non ultima, quella del giovane attore Jimmy Bennett) e bersaglio delle malelingue nostrane. "Mi sento vendicata - prosegue - nei confronti di tutti quegli uomini e pure quelle donne che in Italia mi hanno chiamato "prostituta" solo per aver raccontato la verità su quanto mi era accaduto quando avevo solo 21 anni". Due anni e mezzo fa, l' attrice era stata attaccata per aver denunciato "troppo tardi" quella che, ai malpensanti, più che una violenza sembrava la "relazione" di una ragazzina in cerca di gloria con un famoso produttore. Accuse che l' avevano costretta, per un periodo, addirittura a lasciare il Paese. E invece - Asia lo aveva raccontato a Ronan Farrow del New Yorker - Weinstein l' aveva avvicinata a una festa in Costa Azzurra, durante il Festival di Cannes del 1997, e l' aveva costretta a un rapporto orale. Anche grazie alle sue coraggiose dichiarazioni ("Ho avuto paura della vendetta di Weinstein", ha detto in più occasioni anche a chi scrive), è nato il movimento globale del #MeToo, dal quale ultimamente l' attrice ha preso le distanze. Da ieri, mentre sta ultimando i lavori per un album musicale, Asia si sente meno sola.

Da “la Stampa” il 25 febbraio 2020. Chiara Caselli non è mai stata un' attrice banale e non è banale nemmeno questa sera quando Henry Weinstein è stato riconosciuto colpevole di violenza sessuale e stupro durante il processo in corso a New York e ora rischia 25 anni di carcere. «Non posso entrare nel merito. Presumo che i giudici abbiano giudicato secondo coscienza e che abbiano fatto un buon lavoro. Sono però abituata a separare sempre l' opera dalla persona: è stato comunque un grandissimo produttore. Il giudizio di colpevolezza sui suoi comportamenti appartiene a un piano diverso». È comunque una sentenza storica, rappresenta una rivoluzione per le donne. «Spero che in generale la condanna di Weinstein permetta di arrivare a un cambiamento di cultura. L'obiettivo però non sono i maschi, ma chiunque sia in una posizione di potere e ne abusa per ottenere favori sessuali. Poi è vero che i posti di potere sono quasi tutti occupati da uomini ma la battaglia deve essere contro l' abuso di una posizione dominante. La prossima volta c' è speranza che non accadrà perché si sa che alcuni comportamenti non resteranno impuniti, che ci sono delle conseguenze». Una speranza che per il momento è limitata agli Stati Uniti. Il movimento #meToo è ancora lontano dall' essere arrivato in Italia. «E' vero l' Italia è rimasta indietro ma rispetto a 10-15 anni fa le cose sono cambiate e ancora cambieranno. Dodici anni fa stavo lavorando a un film come regista, mi capitava di sentire pezzi di conversazione da cui dove appariva evidente lo scetticismo nei confronti di una donna regista. Oggi non è più così, abbiamo registe bravissime come Alice Rohrwacher o Valeria Golino con talenti riconosciuti a livello nazionale e internazionale senza l' ostracismo del passato». Due donne che emergono sono una splendida notizia. E le altre? «Se guardiamo le cifre sulla violenza di genere ci rendiamo conto che c' è ancora molto da fare. Nonostante quello che sostengono energumeni come Salvini, i reati comuni sono in calo mentre è in aumento la violenza di genere tra le mura domestiche. È qualcosa che al momento sembra abbastanza inestirpabile. Per fortuna c' è un grande lavoro a livello istituzionale e di media che è alla base di un vero cambiamento culturale, un processo inevitabilmente più lento ma inarrestabile. Quindi vedo i segnali negativi ma anche i progressi. Ce ne sono anche nel cinema dove i modelli di riferimento non propongono solo principi azzurri ma donne protagoniste oppure nella pubblicità dove inizia a esserci un maggiore controllo sui messaggi proposti attraverso le immagini delle donne. Il cambiamento è in corso ed è inarrestabile».

Simonetta Sciandivasci per “la Verità” il 14 febbraio 2020. È sempre parecchio interessante quando le paladine delle donne litigano tra loro, vicendevolmente contestandosi i modi in cui fanno le paladine, e per chi, e per cosa, e come mai. È un bel cortocircuito, no? È un caso di letteratura dell' assurdo, insomma un campione di realtà di questo nostro pazzo mondo. L' ultimo episodio, i cui strascichi chissà se continueranno e per quanto, ha per protagoniste Natalie Portman e Rose McGowan, colei che aveva condiviso il #metoo con Asia Argento, tranne poi voltarle le spalle non appena un attoruncolo (Jimmy Bennet) in cerca di fama aveva deciso di rivelare al mondo che lei lo aveva sedotto e molestato quando lui era appena diciassettenne o giù di lì. Adesso, invece, McGowan non s' è fatta andar giù il vestito con cui Natalie Portman s' è presentata alla cerimonia degli Oscar, domenica scorsa; un vestito di protesta sul quale s' è fatta cucire i nomi di registe e attrici, per segnalare che l' Academy le discrimina. Tra questi nomi c' era anche quello di Greta Gerwig, la regista di Piccole donne, sei nomination e un Oscar vinto (un classico caso di discriminazione che c' è ma non si vede e, anzi, di discriminazione travestita, per non dire proprio un contentino). Ora, McGowan anziché trovar da ridire su una modalità così puerile di brigare contro un sistema contro il quale peraltro è di gran moda brigare, ha accusato Portman di aver lavorato, nella sua carriera, solamente con una regista donna (due, in verità, ma la seconda era lei Portman medesima e quindi non vale) e sostanzialmente di predicar bene e razzolar male. L' inferno dev' essere qualcosa di molto simile al calcolo per quote; ti contano quanti giorni hai passato, della tua vita, con le femmine e coi maschi, quante cose hai fatto con le femmine e coi maschi, quante cose hai detto alle femmine e ai maschi, e alla fine tirano le somme e se per disgrazia viene fuori che hai bevuto spritz per il 70 per cento delle volte in compagnia di un uomo e se hai lavorato per il 70 per cento delle volte con uomini e hai letto libri per il 70 per cento di uomini, vieni legata al masso di Sisifo e condannata a rotolare per sempre. Fatevi furbe, fatevi un Excel, e prima di uscire con chicchessia controllate che la parità di quote rosa e azzurre sia rispettata. Guadagnatevi il paradiso, avanti, forza.

Da leggo.it il 2 marzo 2020. Asia Argento, dito medio a Claudia Gerini: «Non siamo più amiche, stava con il lacchè di Harvey Weinstein». A Live non è la D'Urso Asia Argento commenta in diretta la condanna di Harvey Weinstein dopo le accuse di violenza e di stupro, e che quindi rischia fino a 25 anni di carcere. La Argento è stata una delle prime accusatrici di Weinstein. Su leggo.it tutti gli aggiornamenti. Asia Argento è stata una delle prime accusatrici di Harvey Weinstein e sostenitrice del movimento #metoo. A Live non è la D'urso la Argento commenta con gioia la sentenza, ma quando la D'Urso le mostra un video di tutti i personaggi che nel tempo l'hanno accusata di aver approfittato della situazione reagisce in modo piuttosto esplicito. Tra i vip a non credere alle parole di Asia Argento c'è Claudia Gerini che all'epoca disse: «Penso che uno si possa prendere tutto il tempo che vuole per denunciare. Magari è strano e può dare adito ad ambiguità, se ricevi dei favori negli anni o se collabori in modo sostanziale, magari facendo distribuire alcuni film. Quindi reiteri, continui nel corso degli anni, ad affiancarti a questa figura». A queste parole Asia Argento fa il dito medio in diretta e Barbara D'Urso le chiede il motivo di questo gesto: «Lei è stata con questo Lombardo che è quello che mi ha portato nella villa di Weinstein, dopo il mio stupro non ho più fatto film con lui. La Gerini stava con Lombardo, il lacchè anzi il pappone di Weinstein che portava non le prostitute ma le ragazze che volevano fare cinema. Io ce l'ho molto con lei che era una mia amica». La D'Urso si dissocia. 

Ida Di Grazia per leggo.it il 2 marzo 2020. Vittorio Feltri furioso su twitter contro Barbara D'Urso: «Mi ha teso un agguato. Il suo programma è un canile». Dopo la condanna di Harvey Weinstein, Asia Argento è tornata a parlare a Live e a confrontarsi con gli ospiti di Barbara D'Urso, tra cui il direttore Feltri con cui si è spesso scontrata anche in passato. Vittorio Feltri, Giuseppe Cruciani, Lory Del Santo si sono confrontati durante la diretta di Live non è la D'Urso con Asia Argento sul caso Harvey Weinstein. Il direttore che ha prima ascoltato, stranamente in silenzio, quando però  ha tentato di replicare all'Argento che, tra l'altro, ha detto di averlo querelato, ha cercato di dire la sua invano andando su tutte le furie, alzandosi e minacciando di abbandonare lo studio: «Non vengo qui a fare il buffone. Già mi avete fatto stare come un coglionene qua fuori ad aspettare». Barbara  D'Urso prova a farlo calmare mentre la Argento rincara la dose «Mi ha chiamata prostituta! Se non è vero perché il suo avvocato ha offerto del denaro al mio per annullare la querela nei suoi confronti?». Al termine del blocco Feltri su twitter ha lanciato delle pesanti accuse nei confronti della padrona di casa: «Barbara D’Urso mi ha teso un agguato per santificare Asia Argento. Il suo programma è un canile. Non solo mi ha impedito di parlare, ma le sue segretarie, come le chiama lei, mi hanno trascinato nello studio dove non volevo andare fiutando lo schifo. Scemo io».

Francesca Galici per il Giornale il 4 marzo 2020. Harvey Weinstein è stato condannato qualche giorno fa per violenza sessuale e stupro. A deciderlo è stato il tribunale di Manhattan, che ha anche disposto l'immediata traduzione dell'uomo in carcere, senza possibilità di uscire su cauzione o di ottenere, per il momento, la carcerazione domiciliare. A La vita in diretta, Asia Argento ha commentato la sentenza di condanna in qualità di vittima e prima accusatrice del produttore. La figlia di Dario Argento è una delle più attive esponenti del movimento #MeeToo, nato proprio a seguito delle denunce contro Harvey Weinstein. Asia è stata più volte in televisione a raccontare la sua esperienza con il produttore e a spiegare perché abbia deciso di agire dopo 20 anni, trovando il coraggio che in quel momento le era mancato. Nel programma pomeridiano di Rai 1, condotto da Alberto Matano e da Lorella Cuccarini, Asia Argento si è detta orgogliosa di aver fatto quel passo nei confronti di Harvey Weinstein ma nonostante questo, a due anni dall'esplosione del caso, dice che se tornasse indietro non sa se lo rifarebbe. "Se avessi conosciuto allora tutte le conseguenze di dire la mia verità, forse non lo avrei fatto, però oggi sono fiera di averlo fatto", ha commentato l'ex concorrente di Pechino Express. Asia Argento è stata spesso al centro delle polemiche per il suo gesto e ha sempre saputo difendere la sua decisione, nonostante gli inevitabili momenti di fragilità. Ha raccontato i dettagli di quanto subito da Harvey Weinstein e ha dato coraggio ad altre donne di raccontare la loro esperienza personale, che ha portato poi alla prima condanna per il produttore. "Penso di aver fatto qualcosa di giusto. Ho fatto quello che era mio dovere fare. Non penso di essere un paladino di niente, l'interesse non è stato mai il mio motivo per fare questo. Io ho sentito tanta ingiustizia... come se io fossi stata una persona che era alla ricerca di attenzioni", ha ribadito la donna, che oggi sembra essersi messa alle spalle quanto accaduto. La figlia del regista ha seguito con angoscia e attesa la lettura della condanna di Harvey Weinstein e ha ammesso di aver temuto fino all'ultima la sua assoluzione: "Quando l'altro giorno è stato letto questo verdetto contro di lui, io ero con una mia amica, ed eravamo sconvolte perché fino all'ultimo momento non sapevamo se le donne sarebbero state credute. Questo segna un grande precedente, perché lui avrebbe potuto schiacciarci tutte. Noi abbiamo continuato a perseguire la nostra verità, che non era una rivalsa: nessuno voleva soldi, nessuno voleva niente. È questa la cosa assurda. Io non ho mai più lavorato con quest'uomo, dopo che mi ha fatto la violenza."

Weinstein condannato a 23 anni per stupro e violenza sessuale. Pubblicato mercoledì, 11 marzo 2020 da Corriere.it. Harvey Weinstein è stato condannato a 23 anni di carcere per stupro e violenza sessuale. Alla fine di febbraio, era stato giudicato colpevole di stupro di terzo grado (cioè di rapporti sessuali con una persona non consenziente o con meno di 17 anni) e di aver commesso atti sessuali di primo grado (rapporti orali o anali). Il giudice James Burke avrebbe potuto condannare Weinstein da un minimo di cinque anni a un massimo di 29. Ha deciso per l’ex produttore 20 anni di reclusione per l’aggressione sessuale dell’assistente Miriam Hailey e tre anni per il rapporto sessuale non consensuale con l’aspirante attrice Jessica Mann. Le due pene dovranno essere scontate consecutivamente. Sia Weinstein che le sue accusatrici hanno parlato nel corso dell’udienza.

Violenza e stupro, Weinstein condannato a 23 anni di carcere. Il guru del cinema americano è stato riconosciuto colpevole e deve scontare una pena in prigione di ventitre anni. La Repubblica l'11 marzo 2020. Harvey Weinstein è stato condannato a 23 anni di prigione per stupro di terzo grado (rapporti sessuali con una persona non consenziente o con meno di 17 anni) e per aver commesso atti sessuali di primo grado (rapporti orali o anali). I capi di imputazione erano 5, e la giuria, il 24 febbraio scorso, dopo 49 giorni di processo, lo ha prosciolto per 3 su 5, assolvendolo dall'accusa di "predatore sessuale", che gli sarebbe potuto costare l'ergastolo. Il giudice che ha presenziato al processo, James Burke, avrebbe potuto condannarlo da un minimo di 5 a un massimo di 29 anni. Ha deciso per 20 anni di reclusione per l'aggressione sessuale dell'assistente Miriam Hailey e 3 anni per il rapporto sessuale non consensuale con l'aspirante attrice Jessica Mann. Le due pene dovranno essere scontate consecutivamente. La sentenza è stata pronunciata in un'aula di tribunale al 15esimo piano della Corte Suprema di Manhattan. Tutti e sei le accusatrici tra cui Mann, Hailey e l'attrice dei "Soprano", Annabella Scirorra, testimoni contro il magnate durante il processo per stupro, erano sedute in prima fila ad ascoltare la sentenza, vicino al procuratore distrettuale di Manhattan, e hanno applaudito. La condanna è stata celebrata come una grande vittoria del movimento #metoo.

Da "ilfattoquotidiano.it"  il 12 marzo 2020. A due anni di distanza dalle prime accuse di molestie sessuali – testimonianze che avevano dato vita al movimento #MeToo – per Harvey Weinstein è arrivata la condanna definita: 23 anni in carcere. L’ex produttore cinematografico è stato dichiarato colpevole di due reati: lo stupro di una donna a New York nel 2013 e un “first-degree criminal sex act”, cioé per aver costretto a sesso orale un’altra donna nel 2006. Le due pene quindi saranno scontate una dopo l’altra: la condanna era ormai pressoché certa, restava da capire il tempo che avrebbe effettivamente passato in carcere. Weinstein rischiava dai 5 ai 29 anni; il giudice James Burke ha deciso per quasi il massimo della pena. Weinstein si è presentato in aula, a New York, seduto su una sedia a rotelle, come nelle altre tappe del processo. “Provo un profondo rimorso per questa situazione – ha detto rivolgendosi alla corte, prima della sentenza, durante un intervento del tutto inatteso – Mi dispiace davvero, userò il mio tempo provando a diventare una persona migliore”. Il suo team di avvocati, guidati da Donna Rotunno, aveva chiesto 5 anni, il minimo della pena, in virtù dell’età avanzata, delle precarie condizioni di salute e della mancanza di procedenti. La difesa lo ha descritto come un uomo che “ha perso tutto” e la cui vita “è stata distrutta” dopo la pubblicazione del famoso articolo del The New Yorker nel 2017. Il processo si basava sulle accuse di due donne, l’ex assistente Miriam Haley e l’attrice Jessica Mann, presenti in aula. Hanno raccontato – in lacrime – come la loro vita sia cambiata dopo gli abusi. Weinstein ha ripetuto anche oggi che le relazioni avute con loro sono sempre state consensuali. “Non dirò che non sono brave persone – ha aggiunto Weinstein riguardo le due donne – Ho passato bellissimi momenti con loro”.

Weinstein condannato a 23 anni di prigione. I legali: “Morirà in cella”. Redazione de Il Riformista l'11 Marzo 2020. L’ex produttore cinematografico Harvey Weinstein è stato condannato ieri dal tribunale di Manhattan a 23 anni di carcere per stupro e violenza sessuale. Weinstein rischiava da un minimo di cinque a un massimo di 29 anni. Il giudice James Burke. Ha deciso per l’ex “re di Hollywood”, 67enne, una condanna a 20 anni di reclusione per l’aggressione sessuale dell’assistente Miriam Hailey e tre anni per il rapporto sessuale non consensuale con l’aspirante attrice Jessica Mann. Le due pene dovranno essere scontate consecutivamente. Il 24 febbraio scorso, dopo 49 giorni di processo, Weinstein aveva ricevuto il verdetto della giuria che l’ha riconosciuto colpevole di 2 capi d’imputazione su cinque, assolvendolo però dall’accusa peggiore, quella di “predatore sessuale”, cioè di violentatore seriale, che gli sarebbe potuto costare una quasi certa condanna all’ergastolo. Weinstein, che dopo il verdetto di colpevolezza aveva accusato un malore e nei giorni scorsi ha subito un intervento per uno stent cardiaco, ieri è stato portato in tribunale in sedia a rotelle. La difesa aveva chiesto alla Corte di applicare il minimo della pena, quindi cinque anni, alla luce dello stato di salute dell’ex produttore, delle sue attività filantropiche e del fatto che ogni pena più lunga avrebbe significato per il 67enne Weinstein la morte in prigione. Ma il giudice Burke ha ignorato la richiesta dei legali. La condanna è stata celebrata come una grande vittoria da #MeToo, il movimento nato dall’ondata di rivelazioni e accuse contro Weinstein scatenata dagli articoli del New York Times e del settimanale New Yorker, pubblicati a ottobre del 2017, nei quali si riferivano nel dettaglio numerose testimonianze contro Weinstein. «Ho pianto di commozione», ha detto l’attrice Mira Sorvino, mentre per Ashley Judd, Rose McGowan e le altre “Silence Breakers”, «nessuna pena detentiva potrà riparare tante vite distrutte e carriere rovinate». Prima della sentenza avevano preso la parola sia Weinstein che le sue accusatrici, le quali hanno rinnovato in aula la loro testimonianza. «Le nostre verità possono essere diverse ma provo veramente rimorso», aveva dichiarato l’ex produttore durante l’udienza. Per Harvey Weinstein non è finita: concluso il processo di New York, dovrebbe aprisi quello di Los Angeles dove deve rispondere di nuove accuse.

23 anni a Weinstein, l’uomo simbolo del #MeToo. Il Dubbio l'11 marzo 2020. L’ex produttore di Hollywood condannato per crimine sessuale e stupro di terzo grado. Quello che un tempo era un produttore potentissimo oggi è un uomo caduto in disgrazia. Harvey Weinstein è stato condannato oggi a 23 anni di carcere, da scontare in una prigione dello Stato di New York, riconosciuto colpevole di crimine sessuale e stupro di terzo grado. Il giudice James Burke lo ha condannato a 20 anni per l’aggressione sessuale all’assistente Miriam Hailey e a 3 anni per il rapporto sessuale non consensuale con l’aspirante attrice Jessica Mann, pene che dovranno essere scontate consecutivamente.La sentenza è una delle prime, importanti conseguenze del movimento #MeToo, che ha preso piede soprattutto dopo le denunce pubbliche di diverse donne sui comportamenti di Weinstein.Prima della condanna, due delle vittime hanno rilasciato dichiarazioni emotivamente molto forti sulle conseguenze delle azioni dell’ex produttore sulle loro vite. Haley, in aula, ha raccontato di come Weinstein l’abbia costretta ad un rapporto orale nel 2006, un evento, ha sottolineato, che ha alterato per sempre la sua vita e il suo spirito.«Ha violato la mia fiducia – ha sottolineato la donna in aula – il mio corpo e il mio diritto personale di rifiutar avance sessuali». Da parte sua, Weinstein, in aula su una sedia a rotelle, ha provato a convincere la corte, con un discorso sconnesso, che quei rapporti fossero consensuali e di essere «totalmente confuso» da quanto gli stava accadendo. «Potremmo avere verità diverse, ma ho rimorso per tutti voi e per tutti gli uomini che attraversano questa crisi – ha detto, rivolgendosi ai suoi accusatori -. Provo davvero rimorso per questa situazione. Lo sento profondamente nel mio cuore. Sto davvero provando, sto davvero cercando di essere una persona migliore». Il giudice Burke è rimasto, però, impassibile. E pur potendo optare per una pena molto più blanda – 5 anni – ha deciso di condannare Weinstein quasi al massimo della pena.Sono state sei le donne che hanno fornito resoconti scritti sul banco dei testimoni delle aggressioni sessuali subite da Weinstein sono entrate insieme in tribunale, sedendosi in prima fila, dietro l’accusa, scoppiando in lacrime una volta pronunciato il verdetto. A decidere la sua colpevolezza, il 25 febbraio scorso, una giuria di Manhattan composta da sette uomini e cinque donne. La giuria ha assolto Weinstein dalle accuse più gravi nei suoi confronti: due accuse di aggressione sessuale predatoria contro almeno due donne. Secondo l’accusa, l’ex produttore avrebbe infatti violentato l’attrice Annabella Sciorra nei primi anni ’90 nel suo appartamento di Gramercy Park, ma alcuni giurati hanno dubitato del suo racconto. Inoltre, la giuria ha anche sostenuto la sua innocenza per l’accusa di stupro di primo grado nell’aggressione del 2013 ai danni della Mann, derubricato a stupro di terzo grado, senza consenso, dunque, ma senza l’uso della forza. Nel corso della loro requisitoria, i pubblici ministeri hanno elencato una lunga lista di accuse da parte di donne che hanno puntato il dito contro Weinstein, indicandolo come aggressore sessuale in azione per almeno 40 anni: una delle donne ha infatti affermato di essere stata violentata da lui in un viaggio d’affari risalente al 1978. Tanto che il procuratore capo Joan Illuzzi ha parlato di «una vita di abusi contro altri, sessuali e non, e una totale mancanza di rimorso per il danno che ha causato». Il collegio difensivo di Weinstein ha provato a contestare tutte le accuse, sostenendo che nessuna di queste fosse stata provata, evidenziando, invece, le attività di volontariato dell’ex produttore, come le raccolte fondi per conto di enti di beneficenza e puntando sul suo cagionevole stato di salute per chiedere clemenza. «Ha perso tutto – hanno scritto in una lettera -. La sua caduta dalla grazia è stata storica». Le voci sulla vita sessuale di Weinstein circolavano da anni nell’ambiente cinematografico, ma a provocarne la caduta, nel 2017, sono state le accuse rese pubbliche da The New York Times e The New Yorker. Da allora, sono state oltre 90 le donne che hanno accusato Weinstein di molestie, palpeggiamenti e aggressioni sessuali: tra queste anche Asia Argento.

Erika Pomella per "ilgiornale.it" il 12 marzo 2020. Harvey Weinstein è stato condannato con l'accusa di stupro a 23 anni di reclusione. Una condanna che forse potrebbe mettere la parola fine ad una delle vicende giudiziarie che più hanno scosso il mondo di Hollywood negli ultimi anni. A nulla, dunque, sono servite le richieste degli avvocati dell'ex produttore cinematografico di ridurre la pena al minimo (cinque anni), per paura che il proprio assistito potesse morire dietro le sbarre. Tuttavia le storie sul conto di Harvey Weinstein sono lontane dall'essere concluse. Un'altra voce si è alzata contro il produttore condannato, ed è quella di Kate Beckinsale. Kate Beckinsale, infatti, ha raccontato su un post Instagram un'orribile serata che avrebbe passato con Weinstein durante la serata di premiere del film Serendipity, un cult del periodo natalizio in cui l'attrice di Underworld recita accanto a John Cusack. Nel suo racconto Kate Beckinsale non risparmia il linguaggio scurrile usato dal suo produttore, né le sensazioni provate durante il momento terribile che ha affrontato, subendo sulla sua pelle l'umiliazione legata ad un divario di potere. Scegliendo di pubblicare il suo post nello stesso giorno della condanna di Harvey Weinstein, Kate Beckinsale ha pubblicato una galleria di due immagini, che ritraggono lei e il produttore alla premiere del film a New York, nel 2001, a poche settimane di distanza dal terribile attentato alle Torri Gemelle. Ecco quello che Kate Beckinsale ha raccontato nel suo lungo post su Instagram: "Queste foto sono state scattate alla premiere di Serendipity il 5 Ottobre 2001. Avevamo tutti rifiutato di andare perché tenere una premiere a poche settimane dall'11 settembre, con la città che ancora bruciava, sembrava l'idea più insensibile, irrispettosa e sorda possibile. Ma Harvey insistette. Prendemmo un volo per New York e in qualche modo ce l'abbiamo fatta. La mattina successiva Harvey mi chiamò e mi chiese se avessi voglia di portare la mia bambina di due anni a giocare a casa sua con la figlia più o meno coetanea, ed io dissi okay. Arrivai e lui immediatamente chiamò la sua governante affinché portasse le due bambine a giocare in un'altra stanza. Io volevo andare con lui, ma lui disse: "No, tu aspetta qui". Appena la porta si è chiusa lui ha cominciato a urlare: "Tu stupida maledetta puttana, troia hai rovinato la mia premier". Non avevo idea di cosa stesse parlando e cominciai ad agitarmi. Poi lui ha continuato: "Se io organizzo un red carpet tu ti presenti in un abito stretto, scuoti il tuo culo e le tue tette, non ci vai come una fottuta lesbica, dannata stupida puttana". Lo choc mi fece scoppiare in lacrime. Provai a dire: "Harvey, la città è a fuoco, le persone stanno ancora cercando i loro parenti e nessuno di noi pensava che la premiere fosse appropriata, meno che mai venire vestiti come se fosse una festa di liceali". Lui rispose: "Non mi interessa. Era la mia fottuta premiere, e se voglio della figa sul red carpet è quello che devo ottenere". Urlava, era livido. Ho preso mia figlia e me ne sono andata da lì. E sì, questa è una di tante esperienze. Sono stata punita per questo e per molte altre situazioni in cui gli ho detto di no per anni. Sentire che andrà in prigione per ventitré anni è un enorme sollievo per me a nome di tutte quelle donne di cui lui ha abusato sessualmente o che ha stuprato, e spero che questo sarà un deterrente per un ogni tipo di comportamento futuro in questa e in ogni altro tipo di industria". Kate Beckinsale ha poi concluso il suo post augurandosi che il business di Hollywood trovi finalmente il modo di porre fine ad ogni tipo di abuso, anche solo verbale e soprattutto di potere, che sembra ancora essere la legge nel mondo della settima arte.

Angelo Molica Franco per il “Fatto quotidiano” il 12 marzo 2020. "Jennifer Aniston dovrebbe essere ammazzata". A scriverlo sarebbe stato Harvey Weinstein in una email dell' ottobre 2017. Proprio mentre si consuma l' atto finale dell' epopea giudiziaria del sessantasettenne Harvey Weinstein (già giudicato colpevole di stupro di terzo grado e di atto sessuale criminale di primo grado a febbraio al processo di New York), la notizia proviene da una serie di documenti giudiziari, mail e messaggi telematici mandati da lui e i suoi, che offrono uno sguardo sulle sue prime settimane dell' ottobre-novembre 2017, all' inizio dunque della tempesta del #MeToo. I legali difensori di Weinstein li avevano mantenuti sotto sigillo presso la Corte Suprema di Manhattan nel tentativo di impedire ai pubblici ministeri di usarli durante il processo, ma che adesso sono stati resi pubblici, divulgati e che di certo verranno tenuti in considerazione in vista della sua (prevista) condanna oggi a Los Angeles. Secondo quanto riportato dai rotocalchi americani, le cose tra la Aniston e Weinstein sarebbero andate così: Sallie Hofmeister, allora dirigente della società di pubbliche relazioni Sitrick, informa Weinstein che, tramite il National Enquirer, Jennifer Aniston stava pianificando di denunciare il produttore per averla aggredita sessualmente nel 2005, in occasione di un film che la vede tra le protagoniste, Derailed. Nella sua email, Hofmeister scrive: "Jennifer ha confidato a un amico che durante la promozione del film, Weinstein l' ha aggredita sessualmente premendosi contro la sua schiena, afferrandole le natiche". In più, leggiamo, una fonte vicina alla Aniston dice che "Harvey era così infatuato di Jennifer da parlare costantemente di quanto fosse sexy. "Venuta fuori questa storia, che l' Enquirer non ha mai pubblicato, Stephen Huvane, il portavoce dell' attrice, ha negato che il signor Weinstein l' abbia mai aggredita. In un comunicato di questi giorni, ha dichiarato: "Non le è mai stato abbastanza vicino da toccarla, in più non è mai stata sola con lui. Riguardo all' email, non abbiamo nessun commento da fare dato che non l' abbiamo ricevuta noi. "Eppure, lo scorso anno a Variety la Aniston aveva dettagliato il "comportamento da porco" di Weinstein durante la cena della prima per Derailed. "Ricordo che ero seduta a tavola con Clive Owen, i nostri produttori e un mio amico" aveva dichiarato la Aniston. Poi Weinstein "si avvicinò al tavolo e disse al mio amico di alzarsi" come fosse un suo diritto legittimo. Staremo a vedere se il nodo di questa controversia (non legale) verrà dipanato. Ma è interessante perché la email in cui si augura la morte della Aniston si insinua, come un lampo di verità, in un grande sforzo, soprattutto condotto per email in quelle settimane del 2017, in cui Weinstein e i suoi volevano costruire l' immagine di un uomo distrutto da un probabile abuso sessuale subito da piccolo che desiderava correggere i propri errori. In più porta a galla una verità: i membri del consiglio della Weinstein Company volevano farlo fuori. Così, lui ha avocato a sé l' aiuto di un gruppo di amici ricchi, tra cui Ronald Meyer (vicepresidente della NBC Universal) e Jeff Bezos (mr. Amazon). Tra tutte, spicca la risposta di Anita Dunn (veterana agente democratica, attuale consigliera di Joe Biden): "Dovresti accettare il tuo destino con grazia, e non cercare di negare o screditare coloro che il tuo comportamento ha influenzato".

Weinstein, l’ex moglie Georgina Chapman ritrova l’amore: la stilista sta con Adrien Brody. Pubblicato mercoledì, 26 febbraio 2020 su Corriere.it da Francesco Tortora. Nei giorni in cui l''ex marito Harvey Weinstein è riconosciuto colpevole di violenza sessuale ed è in attesa di essere trasferito nel carcere newyorchese di Rikers Island, la stilista Georgina Chapman sembra aver ritrovato il sorriso. Secondo quanto scrive il tabloid britannico «The Sun» la designer 44enne avrebbe un nuovo amore e farebbe coppia fissa con Adrien Brody, star di Hollywood e premio Oscar nel 2003 per l'interpretazione de «Il pianista» di Roman Polanski. L’inizio della relazioneLa relazione tra Georgina e Adrien che si conoscono da diversi anni, è stata confermata da una fonte anonima vicino alla coppia anche a «Page Six», la rubrica di gossip del New York Post. I due si sarebbero rincontrati ad aprile 2019 a Puerto Rico quando entrambi sono stati invitati alla Dorado Beach Ritz-Carlton Reserve per il lancio della linea di costumi da bagno della modella Helena Christensen. Da allora hanno cominciato a frequentarsi e sembra che adesso la relazione proceda a gonfie vele. Adrien Brody aveva lavorato con l'ex marito di Georgina in un paio di occasione. Due film di cui il 47enne è stato protagonista, «Hollywoodland» e «Jailbreakers», girati rispettivamente nel 2006 e nel 1994, erano stati entrambi prodotti dalla Miramax, la casa di produzione fondata da Harvey Weinstein. Chapman che ha avuto due figli da Weinstein ha lasciato il marito nel 2017 quando sono emerse le accuse di aggressione sessuale. Oltre a dover affrontare le difficoltà di una separazione, la stilista è riuscita a salvare dal fallimento il brand Marchesa: «Il mio cuore è distrutto per tutte le donne che hanno sofferto un dolore tremendo a causa di queste azioni imperdonabili — dichiarò al tempo la stilista —. Ho scelto di lasciare mio marito. La cura dei miei figli piccoli è la mia prima priorità e al momento chiedo privacy ai media».

Arianna Galati per "marieclaire.com" il 27 febbraio 2020. La condanna di Harvey Weinstein attende la sentenza definitiva, ma la sua vecchia vita si palesa per tangenziali gossip interessanti. Nominalmente riguarda la ex moglie di Harvey Weinstein Georgina Chapman, che la curiosità dei tabloid aveva lasciato stranamente in pace per qualche tempo post apertura del vaso di Pandora. Rieccola qui Georgina Chapman, saldamente a capo di Marchesa dopo che le traversie dell'ex marito avevano terremotato il suo brand (Harvey imponeva alle attrici sotto contratto Miramax di indossare gli abiti disegnati dalla consorte, lo ha confermato Jennifer Aniston). E nuovamente innamorata, a quanto rivelato dal Sun. Il principe azzurro salvifico risponde ad uno storico scapolo e premio Oscar: Adrien Brody e Georgina Chapman fidanzati, a quanto pare da parecchi mesi, conferma a Page Six una fonte vicina alla stilista. Squilli di trombe? No, discrezione assoluta (ti pareva). Il nuovo amore della stilista sembra averle donato una stabilità completamente persa, giurano gli amici. Quando le donne del caso Weinstein parlarono, nel giro di poco dalla pubblicazione delle inchieste a suo carico Georgina Chapman annunciò il divorzio dall'ex marito, cancellò la sfilata di Marchesa prevista alla NYFW successiva e scelse la via dell'oblio temporaneo. Georgina Chapman Harvey Weinstein lo aveva vissuto diversamente. Ci volle qualche tempo prima che decidesse di raccontare cosa avesse significato per lei la scoperta dell'universo torbido della vita famigliare: "Sono stata umiliata, distrutta... E non credevo, ecco, che fosse rispettoso farmi vedere in giro" rivelò a Vogue USA in un'intervista a cuore aperto. Georgina Chapman oggi ha altre priorità. Prima di tutto i due figli India e Dashiell, avuti con Weinstein, che abitano con lei a New York. E ora Adrien Brody nuovo fidanzato e nuovo passo di vita. Da qualche mese, sembra, perché la ricostruzione della storia tra Georgina Chapman e Adrien Brody torna indietro alla scorsa primavera inoltrata e si geolocalizza a Puerto Rico. Cupido occasionale la ex top model Helena Christensen, il teatro il Dorado Beach Ritz-Carlton Reserve per il lancio della sua linea di costumi. Nonostante si fossero già incrociati diverse volte in passato, solo nel 2019 tra la ex signora Weinstein e l'attore feticcio di Wes Anderson si sarebbe manifestato un reale interesse. Le foto di Georgina Chapman e Adrien Brody oggi mostrano un'intesa notevole, ma della loro relazione di più non si sa. Se vivono già insieme o no, se fanno piani a lungo termine o meno, progettano matrimoni o altri pargoli, semplicemente decideranno di apparire insieme su qualche red carpet prossimo: Adrien Brody è nel cast del super hyped ultimo film di Wes Anderson e dovrà pur fare promozione. Ma la riservatezza totale sembra essere il binario preferito di entrambi. Fino alla prossima award season?

Weinstein ha assunto un “consulente carcerario” per prepararsi alla galera. Il Dubbio il 27 febbraio 2020. L’ex re di Hollywood dovrà scontare una lunga pena dietro le sbarre di Rykers Island dopo la condanna per violenza sessuale. I media americani raccontano che Weinstein ha  assunto un “consulente carcerario”,  che da mesi aiuta il team legale dell’ex re di Hollywood a preparare la sua vita quotidiana dietro le sbarre dove rischia di restare a lungo in seguito alla condanna per violenza sessuale emessa dal tribunale di New York (l’entità della pena sarà nota l’11 marzo). La figura del “consulente carcerario” che aiuta i suoi clienti ad affrontare la cosiddetta life-behind-bars è molto richiesta negli Stati Uniti, la maggior parte di questi esperti sono ex trader di Wall Street che sono andati in prigione per frode finanziaria e hanno deciso di trasformare questa esperienza in una nuova carriera. E forniscono ai loro clienti informazioni su tutti gli aspetti della vita in carcere, che si tratti di servizi igienici, interazioni con altri detenuti, cibo o opportunità di lavoro in prigione. Possono anche aiutarli a gestire i loro affari dalla prigione. La professione di consulente carcerario era già stata menzionata nello scandalo degli imbrogli accademici scoppiato a marzo 2019 negli Stati Uniti. Diverse celebrità, tra cui Felicity Huffman e Lori Loughlin, avevano pagato tangenti affinché i loro figli fossero ammessi in buone università e, prima di essere condannati, le due attrici assumevano consulenti in prigione. Dopo che avrà lasciato l’ospedale Bellevue di Manhattan dove è attualmente  ricoverato, Weinstein dovrebbe essere trasferito in un’unità medica nella prigione di Rikers Island e poi in una prigione nello stato di New York settentrionale.

Caso Weinstein, parla il giornalista che ha smascherato il caso. Le Iene News il 27 febbraio 2020. Roberta Rei incontra il cronista Ronan Farrow, che ha fatto scoppiare lo scandalo delle molestie sessuali da parte del produttore di Hollywood Harvey Weinstein e per questo ha vinto anche il premio Pulitzer

Roberta Rei racconta la vicenda delle molestie sessuali del potentissimo produttore di Hollywood Harvey Weinstein, che è appena stato giudicato colpevole di stupro e atti sessuali verso due ragazze e ora rischia fino a 25 anni di carcere. Lo fa intervistando il premio Pulitzer Ronan Farrow, il giornalista del New York Times, figlio adottivo di Mia Farrow e Woody Allen, che ha fatto scoppiare lo scandalo che ha portato alla nascita del movimento “Me Too”.

Ronan Farrow racconta a Roberta Rei delle moltissime pressioni che ha subìto da chi voleva fermare la sua inchiesta: “Ci sarebbe pure stato un accordo tra Weinstein e il boss della tv per cui lavoravo, per insabbiare la mia storia”, spiega alla iena. Roberta Rei ha intervistato anche Ambra Battilana Gutierrez, la modella italo-filippina che ha raccolto la “confessione” delle violenze di Weinstein. Con Ronan Farrow siamo poi tornati a parlare del “caso Fausto Brizzi”, che per primi vi abbiamo raccontato.

Hillary Clinton è il politico che ha ricevuto più soldi da Weinstein. L'ex produttore cinematografico recentemente incriminato per stupro e crimini sessuali, è sempre stato un generoso donatore del Partito democratico americano. Hillary Clinton il politico preferito dal magnate. Roberto Vivaldelli, Venerdì 28/02/2020 su Il Giornale. L'ex Segretario di Stato americano Hillary Clinton, l'icona femminista che avrebbe dovuto sconfiggere Donald Trump e diventare così la prima presidente donna degli Stati Uniti d'America, ha ricevuto più soldi durante la sua carriera dall'ex produttore cinematografico Harvey Weinstein rispetto a qualsiasi altro politico sulla piazza. Lo rivela il New York Post. I dati della Federal Election Commission dimostrano che Weinstein ha raccolto ben 1,4 milioni di dollari per Hillary Clinton nella sua corsa presidenziale del 2016 e altri 73.380 dollari per la sua elezione al Senato degli Stati Uniti del 1999. Nei giorni scorsi, l'ex first lady si era difesa dalle domande circa la sua lunga amicizia con il fondatore di Miramax recentemente incriminato per due reati su cinque: crimine sessuale e stupro di terzo grado (assolto invece dall'accusa peggiore: quella di "predatore sessuale", alla base del #MeToo). "Ovviamente, il processo è stato molto seguito dall'opinione pubblica - ha sottolineato Hillary Clinton - perchè è ormai tempo per una resa dei conti e la giuria lo ha avvertito in maniera chiara. Rispetto al mio rapporto personale con lui - ha aggiunto -non mi trovo in un punto della vita in cui rivolgere lo sguardo al passato, ma al futuro. Weinstein, certamente, ha sovvenzionato le campagne elettorali di Barack Obama, John Kerry e Al Gore. Non so - ha proseguito sempre Clinton -perchè dovrebbe far rabbrividire qualcuno l'idea di contribuire a campagne politiche, ma certamente dovrà porre fine al tipo di comportamento per cui è stato condannato". In realtà, il fondatore di Miramax ha raccolto solamente 679.000 dollari per la rielezione di Barack Obama del 2012, esattamente la metà del contributo stanziaro per l'ex first lady. Il Comitato Nazionale Democratico ha ricevuto 305.149 dollari da Weinstein nel 1994. In totale, ha contribuito con oltre 2,3 milioni di dollari alle casse del partito democratico. Ha inoltre finanziato le campagne elettorale di altri pezzi grossi dem come Kirsten Gillibrand, Chuck Schumer, Cory Booker, Richard Blumenthal e Patrick Leahy.

Quella cena fra i Clinton e Harvey Weinstein. Hillary Clinton e Harvey Weinstein, un rapporto che dura da anni, nonostante ora l'ex Segretario di stato dem cerchi di minimizzare. Tant'è che Hillary e Bill sono stati a cena con il magnate del cinema cinque settimane dopo la sconfitta alle elezioni con Donald Trump. I Clinton incontrarono il produttore al Rao's, un noto ristorante italiano di Harlem, dove discussero di un documentario che Hillary voleva realizzare sulla propria sconfitta. Allo stesso tavolo c’erano l’ex moglie del produttore, Georgina Chapman, e l'avvocato David Boies. Dopo 10 mesi da quell'incontro, l'impero di Weinstein veniva travolto da uno degli scandali più importanti della storia di Hollywood.

L'ex produttore pagò a Bill Clinton le spese legali per il caso Lewinsky. Secondo quanto riportato dal Washington Post nell'ottobre del 2017, fu proprio l'ex produttore, nel 1998, ad aiutare economicamente l'allora presidente Bill Clinton a pagare gli avvocati che lo difendevano dalle accuse di Monica Lewisnky. Weinstein avrebbe versato ben 10mila dollari al fondo per la difesa dell'allora presidente degli Stati Uniti, all'epoca travolto dallo scandalo.

Molestie sessuali: Weinstein e Brizzi, due casi a confronto. Le Iene News il 28 febbraio 2020. Roberta Rei vola negli Stati Uniti per intervistare Ronan Farrow, il giornalista Premio Pulitzer che ha fatto scoppiare lo scandalo delle molestie del produttore di Hollywood Harvey Weinstein, appena riconosciuto colpevole. L’occasione per fare un parallelismo con la vicenda Fausto Brizzi, di cui siamo stati i primi a parlarvi. Ma, se negli Usa si è arrivati alla condanna di Weinstein che ora rischia fino a 25 anni di carcere, perché in Italia si mette invece alla gogna chi ha denunciato? Roberta Rei torna a parlare di molestie sessuali nel mondo dello spettacolo, dopo la lunga inchiesta sul caso delle presunte violenze del regista italiano Fausto Brizzi. Lo fa concentrando l’attenzione sullo scandalo che ha coinvolto negli Stati Uniti il potentissimo produttore cinematografico di Hollywood Harvey Weinstein, che è appena stato giudicato colpevole di stupro e atti sessuali nei confronti di due donne e rischia fino a 25 anni di carcere. La Iena intervista in esclusiva il giornalista americano (e premio Pulitzer per la sua inchiesta) Ronan Farrow, figlio di Mia e Woody Allen che per primo ha raccontato al mondo le abitudini “predatorie” di Weinstein. Dal 2017 il giornalista ha raccolto una dozzina di testimonianze di attrici che hanno subìto molestie e aggressioni sessuali. Se in America si è arrivati al verdetto, in Italia non è successo nulla, anzi le stesse Iene sono state accusate di aver messo il regista Fausto Brizzi alla gogna, applicando un fantomatico “metodo iene”. Per capire le differenze tra le due vicende siamo volati negli Usa a intervistare Ronan Farrow. “Siamo stati fortunati perché abbiamo avuto un grande sostegno per queste testimonianze, ma credo che in un Paese come l’Italia non si andata così”, esordisce il reporter. Quando gli spieghiamo della nostra legge in base alla quale occorre denunciare entro sei mesi, ci dice: “In Italia non c’è abbastanza tempo per denunciare, perché alcune persone hanno bisogno di anni per trovare la forza  di parlarne”. Gli facciamo vedere alcune delle testimonianze che abbiamo raccolto, con le denunce delle ragazze contro la stessa persona, Fausto Brizzi, accusato da donne che non si conoscevano tra loro: “Quello che le ragazze descrivono in questo video è quello che le mie fonti mi dicevano di Weinstein, si tratta di qualcuno che accetta un semplice provino e si ritrova a essere toccato senza il suo permesso. Sicuramente quello che stanno descrivendo queste donne è estremamente grave, mi sembra che descrivano uno stupro”. Ronan Farrow racconta delle moltissime pressioni che ha subìto da chi voleva fermare la sua inchiesta: “Ci sarebbe pure stato un accordo tra Weinstein e il boss della tv per cui lavoravo, per insabbiare la mia storia”. Quando gli chiediamo perché in Italia il movimento “Me Too” è stato un fallimento, il giornalista non ha dubbi: “Il problema è che l’Italia è un eccezione in questo senso. Le donne in Inghilterra, Stati Uniti, Australia hanno dato il loro sostegno, in Italia invece è stato uno schiaffo morale vergognoso. Non voglio giudicare la vostra cultura ma mi sembra, e me lo hanno detto le mie testimoni italiane, che è molto più difficile perché è un ambiente molto più misogino”. E poi racconta del coraggio incredibile di una donna, Ambra Gutierrez, la modella italo-filippina che ha denunciato Weinstein raccogliendo di nascosto la sua “confessione”: “È stata incredibilmente coraggiosa. Aveva molte persone attorno a lei che cercavano di zittirla e nel momento in cui è stata abusata è andata dritta alla polizia. Poi è tornata volontariamente dall’uomo di cui aveva paura e lo ha registrato. Sostanzialmente ha ottenuto una confessione da Harvey Weinstein”. Roberta Rei l’ha incontrata: “Dopo la mia denuncia sono stata attaccata da molti giornali vicini a quella persona e sono stata reputata una prostituta, una ricattatrice, sono stata descritta come una ragazza che cercava un ruolo in un film, e che quindi l’aveva denunciato per questo. Mi hanno completamente distrutto e mi ritrovai anche a non poter entrare in alcune discoteche e alcuni ristoranti. A quel punto ho capito la potenza che questa persona aveva…”. Una donna coraggiosa come Ambra è Giulia Bassignana, che non ha avuto paura di denunciare Fausto Brizzi, anche se sta ancora aspettando giustizia, a differenza di quanto accade negli Usa: “Qua in Italia da vittime siamo quasi passate a carnefici, hanno parlato del ‘metodo Iene’, e questo è brutto perché vuol dire che siamo ancora molto indietro. A questo punto mi chiedo come funziona: se io porto tutte le prove, ancora dopo un anno non si sa niente. Aspetto che la giustizia faccia il suo corso ma non voglio fermarmi, voglio andare avanti perché non è giusto”.

TUTTO QUELLO CHE NON TORNA NEL PROCESSO A WEINSTEIN. Da “Libero” l'1 marzo 2020. «Non credo alla loro innocenza. Lo sguardo dice tutto. Colpevoli». Questa frase non è presa da un manuale della Santa Inquisizione medioevale o dall' opera ottocentesca di Lombroso, ma da un social network di pochi giorni fa, a commento dell' ennesimo caso giudiziario raccontato dalla televisione. Nessun caso è stato raccontato nel mondo come quello di Weinstein, nessun verdetto è stato più unanime. Ora è arrivata la verità del tribunale, ma non è quella che tutti si aspettavano e che ancora oggi giornali e televisioni ripetono, senza aver capito - e forse neppure letto - cos' è accaduto in quel processo. Procediamo con ordine: a ottobre 2017 il New York Times e il New Yorker riportano le accuse ad Harvey Weinstein - potente produttore cinematografico, cofondatore della Miramax e della Weinstein company - di molestie sessuali, aggressioni sessuali, violenza sessuale di alcune attrici. In seguito a queste dichiarazioni, molte altre lo accusano di fatti simili. Secondo un censimento dell' Huffington Post, 93 donne si dichiarano vittime di Weinstein e 14 di loro testimoniano di essere state stuprate; 80 hanno un nome e un cognome. Dalle loro descrizioni emerge un "sistema Weinstein": egli invitava le giovani attrici in hotel o in ufficio con il pretesto di discutere della loro carriera, esigendo in seguito un massaggio o un rapporto sessuale. Queste pratiche erano agevolate dal suo staff, che organizzava gli appuntamenti, ed anche dagli avvocati e pubblicisti che cancellavano le denunce con l' aiuto di minacce e accordi finanziari. Da queste accuse sono nati due processi in territorio americano.

I DUE PROCEDIMENTI. Uno - appena chiuso - a New York, che ha come vittime due donne. L' altro a Los Angeles, che è in fase preliminare. Le imputazioni riguardano a vario titolo reati sessuali violenti. Una prima riflessione è necessaria: dove sono finite tutte le altre accuse raccolte in sede giornalistica? Anche al netto dei fatti non perseguibili penalmente per il tempo decorso, il divario tra i casi denunciati pubblicamente e quelli portati a processo è enorme. Proviamo a spiegarlo. Negli USA l' azione penale è discrezionale. Questo consente al Procuratore distrettuale non solo di selezionare i casi in base a determinati indici di priorità, ma anche di non procedere quando l' accusa abbia probabilità non elevate di essere accolta dalla giuria. Tale scelta è dettata da un motivo semplicissimo: il Procuratore che perde casi importanti o non ha una percentuale di vittorie adeguata viene mandato a casa. Situazione che in Italia è impossibile, poiché i magistrati sono scelti per concorso e la loro rimozione può avvenire solo a seguito di procedimento disciplinare, ma le sanzioni per negligenza (a differenza di quelle comminate per la violazione di altri doveri) sono piuttosto rare e mai della massima entità. Inoltre negli USA vige il principio secondo cui la colpevolezza deve essere provata al di là del ragionevole dubbio (acronimo b.a.r.d.), il che suggerisce prudenza nella valutazione delle probabilità di condanna. È ben vero che questo principio dal 2006 esiste anche nel nostro ordinamento, ma esso viene interpretato diversamente da come avviene nel sistema americano, dove ha una tradizione secolare e un' applicazione assai rigida, di cui un esempio celebre è il processo a O.J. Simpson (considerato il più importante caso forense della storia), conclusosi con l' assoluzione, nonostante l' accusa disponesse di prove apparentemente schiaccianti. Evidentemente, le denunce pubbliche delle attrici non sono state ritenute sorrette da prove sufficienti, oppure (ed è la maggioranza di casi) neppure prese in considerazione ed investigate, poiché prive di rilevanza criminale: categorie sociologiche (della cui validità scientifica dirà la storia) e categorie giuridiche non coincidono; i giudici non sono missionari, ma esegeti della legge, che è l' unico ordine razionale che sono tenuti a considerare. Ma torniamo al processo. A carico di Weinstein erano elevati cinque capi d' imputazione: aggressione sessuale predatoria (due), stupro di primo grado, atto sessuale criminale di primo grado, stupro di terzo grado. Weinstein è stato assolto per le tre imputazioni più gravi, condannato per le due meno gravi (atto sessuale criminale di primo grado e stupro di terzo grado, quest' ultima ipotesi lieve, tanto da essere considerata di classe E, in un ordine di gravità che inizia dalla A). In termini matematici è un insuccesso dell' accusa: assegnando a ciascun reato oggetto del processo un punteggio di gravità da 1 a 10, l' accusa era di 39 (9+9+8+8+5), la condanna è di 13 (8+5).

RESOCONTI DELLE VITTIME. Ma il dato più rilevante è un altro: Weinstein è stato condannato per reati violenti, il più grave dei quali (sesso orale su una ex-dipendente della sua casa di produzione durante il periodo mestruale) realizzato con pura coercizione fisica. Così la vittima racconta l' episodio: «It was not long, though, before he was all over me making sexual advances. I told him 'no, no, no,' but he insisted. He then orally forced himself on me while I was on my period. I was in disbelief and disgusted. I would not have wanted anyone to do that to me even if that person had been a romantic partner». Cade, così, lo schema concettuale alla base dell' interesse per questo caso e dell' ondata ideologica che lo ha seguito: l'abuso di potere. Le azioni per cui c' è stata condanna penale sono quelle di un bruto, assetato di sesso, rispetto a cui il ruolo di potere nel mercato cinematografico è l' occasione, non la causa, anzi ha fornito un alibi all' imputato. Dai resoconti delle stesse vittime (la seconda delle quali ha ammesso di aver avuto una prolungata relazione consensuale con Weinstein), oltre che delle altre testimoni d' accusa, emerge come vi era un forte interesse a intrattenere "buone relazioni" con il produttore, i cui inviti negli appartamenti privati erano ben accetti (ancorché la "prassi" di Weinstein in quegli incontri fosse nota da tempo), nella speranza di ottenere vantaggi di carriera. Questo è stato uno degli aspetti che ha messo in difficoltà l' accusa, portando l' avvocato difensore - Donna Rotunno - ad affermare che i pubblici ministeri «hanno creato un universo che spoglia donne adulte di buon senso, autonomia e responsabilità. In realtà è offensivo».

LA CROCEFISSIONE. Il profilo della coercizione è rimasto controverso, la Procura distrettuale non ha portato prove materiali delle violenze, ma solo le dichiarazioni delle interessate e l' abitualità del comportamento sessualmente esplicito dell' imputato. Ciò che si evince con chiarezza dalla vicenda (e dalla sua delimitazione processuale agli episodi di violenza) è che proposte sessuali, approcci molesti, pressioni psicologiche, ancorché fatti da un uomo di potere, non sono un illecito fintantoché la donna può esercitare la prerogativa propria degli esseri intelligenti: il libero arbitrio. Evanescenti formule criminologiche (manipolazione, plagio, ricatto, sudditanza), spesso evocate da improvvisati esperti, non possono sovvertire una legge di natura, e sarebbe regressivo dipingere le donne come un inerte contenitore delle altrui azioni, perpetuando il mito di "soggetto debole" che è alla base delle discriminazioni di genere. In un mondo complesso e altamente competitivo la parità non si raggiunge gridando "al lupo" ogni volta che accade qualcosa di indesiderato o sconveniente, ma che lascia facoltà di scelta. Il diritto e la giustizia (civile o penale che sia) servono ad evitare la confusione dei due piani e i magistrati - non la pubblica opinione - sono i custodi di questa separazione, fermo restando che errori possono esserci, ma quando accadono sono - diversamente dalla credenza popolare - più frequentemente contro l' accusato che a suo favore. Il processo sfata un altro mito, ossia quello secondo cui alla difesa degli imputati di reati sessuali non sarebbe (più) permesso di porre alle vittime domande "indiscrete", o che possano ritenersi nocive della loro dignità, ancorché preordinate a saggiarne l' attendibilità e far emergere lacune e contraddizioni della loro narrazione. Il duro controinterrogatorio effettuato da Donna Rotunno a una delle vittime - durato tre giorni e interrotto per una crisi di pianto della donna - dimostra il contrario. L'abilità degli avvocati (e i penalisti americani primeggiano in questo campo) è un valore aggiunto nella ricerca della verità. Solo una lettura completa degli atti processuali potrà confermarlo, ma la sensazione è che la stessa condanna per le minori imputazioni sia traballante, forse dovuta a un imperativo categorico che si era formato prima del processo e che, nonostante la dichiarata imparzialità dei giurati, difficilmente non avrà attraversato le loro menti dopo due anni di crocifissione planetaria del personaggio, elevato a simbolo della lotta alla violenza di genere: «Non credo alla loro innocenza. Lo sguardo dice tutto. Colpevoli».

·        Il Cinema delle donne e dei Gay.

Antonio Abate per cineblog.it il 7 gennaio 2020. Dopo aver detto la sua in maniera perentoria su Black Panther appena qualche settimana fa, Terry Gilliam ha appena rilasciato un'altra intervista, pubblicata dall'Independent, ai cui microfoni ha avuto modo di trattare un altro argomento delicato. In coda ad un passaggio relativo ad Harvey Weinstein, dice: «Posso parlarvi di un'attrice che venne da me dicendo: «cosa devo fare per far parte del tuo film, Terry?». Non capisco perché la gente si comporti come se certe cose non accadessero da quando esistono persone di potere. Mi rendo conto che gli uomini hanno avuto più potere e più a lungo, ma sono stufo, in quanto maschio bianco, di essere incolpato di tutto ciò che c'è di sbagliato in questo mondo. Io non ho fatto niente!». Parole che oggi rischiano di destare scandalo malgrado la loro ovvietà. E non che Gilliam non si renda conto di non potersene uscire così facilmente, tanto da continuare sulla medesima linea, integrando persino una certa ironia. «Non mi piacciono i termini bianco o nero. Oramai faccio riferimento a me stesso come maschio con poca melanina (melanin-light male, in originale). Non sopporto questo comportamento semplicistico e tribalista al quale stiamo assistendo. [...] Parlo dell'essere un uomo accusato di tutti i mali del mondo perché di pelle bianca. Quindi per me è meglio non essere un uomo. Meglio non essere bianco. Ok, siccome non sono sessualmente attratto dagli uomini, debbo essere una lesbica. Cos'altro posso essere? Mi piacciono le femmine. Mi sembra soltanto l'ovvio corollario». Ma ne ha anche per il movimento MeToo, sebbene l'esortazione con cui chiosa le affermazioni che seguono tendono ad avere una valenza più ampia e trasversale. «Viviamo in un'epoca in cui il responsabile dei tuoi fallimenti è sempre qualcun altro, e non mi piace. Voglio che le persone si prendano le proprie responsabilità e non si limitino a puntare il dito sul prossimo dicendo: “mi hai rovinato la vita”».

Giorgio Carbone per ''Libero Quotidiano'' il 7 gennaio 2020. Domenica sera la serata dei Golden Globes, i premi della stampa straniera a Hollywood. Premi considerati importanti non tanto in sè (chi ricorda chi ha vinto lo scorso anno i Globe? Io no) quanto perché considerati un' opzione sui risultati dell' Oscar (l' unico riconoscimento del cinema che conti qualcosa da ottant' anni a questa parte). Chi vince il Globe ha settanta probabilità su cento di aggiudicarsi l' Academy Award cinquanta giorni dopo. Se così fosse, l' Oscar dovrebbe andare a Joaquin Phoenix (Golden per l' interpretazione di Joker), Renee Zellweger (in Judy, biografia di Judy Garland) a Parasite (Sud Corea), per il miglior film straniero (ogni speranza per il nostro Traditore è da considerarsi tramontata), a 1917 di Sam Mendes (premiato anche per la regia).

1917 sta già passando alla storia. Dei Golden Globes, perché le ha date sode al favoritissimo The Irishman di Martin Scorsese. E ha suonato mica male anche C' era una volta di Hollywood, premiato sì ma nella categoria «commedie e musical». 1917 è stato paragonato al Salvate il soldato Ryan di Spielberg, qualcuno s' è sbilanciato tanto da ritenerlo superiore («Il più bel di film bellico di tutti i tempi», addirittura). In Italia arriverà tra i paio di settimane. La storia, ambientata durante la Grande Guerra, è quella di due giovani soldati comandati a infiltrarsi tra le file nemiche per avvertire i loro commilitoni di una gigantesca trappola dei tedeschi che si sta rinchiudendo su di loro. Bene anche Chernobyl, Succession e The Loudest Voice, serie tutte disponibili on demand su Sky Box Sets e su Now Tv.

Serata movimentata. Nella serata di domenica però, i premi (25 in tutto) hanno rischiato di passare in secondo piano, oscurati dallo show del presentatore della serata Ricky Gervais. Di solito i conduttori t dei Golden e dei Globe sono compiti signori per i quali tutti sono bravi, sono meritevoli. Chi si dimentica la compitezza, paga. Qualche anno fa Billy Crystal perse il monopolio delle serate per aver parlato di «pressioni» di Cosa Nostra sul cinema italiano. Gervais invece s' è scatenato come solo possono fare coloro che sanno che possono permettersi tutto. O che non hanno nulla da perdere. Ha sparato su quasi tutti i presenti (non tutti i quali l' hanno presa bene). Ha reagito da signore Martin Scorsese che s' è preso del «tappo». Meno bene Leonardo di Caprio, del quale Ricky ha rimarcato che un' evidente predilezione per le giovanissime («La moglie in carica è troppo anziana per lui»). Joe Pesci (The irishman), più tappo di Scorsese, è stato paragonato a Baby Yoda. Felicity Huffman (Desperate housewives) sfottuta perché s' è fatta due mesi di prigione per avere allungato mazzette ai professori dei figli. Gervais certamente non s' è reso simpatico a molti executives di cinema e tv presenti in sala. Hanno tutti una cosa in comune. Sono terrorizzati da Ronan Farrow, il figlio di Mia Farrow che due anni fa diede il via allo scandalo Weinstein con le rivelazioni sui produttori mandrilli. Botte anche al politicamente corretto. La serie tv The Morning show più amata dai correct. Finanziata, dice Ricky, da una compagnia che gestisce le più schifose lavanderie cinesi, quelle dove gli operai sono i più sottopagati del mondo. Quel discolaccio di Gervais non ha avuto riguardi nemmeno per le vecchie signore del teatro decorate dalla regina. Dama Judi Dench (la M dei film su 007) ha imprudentemente dichiarato che il suo ruolo in Cats era quello che sognava da sempre. «Perché?», sostiene Ricky, «starsene col culo sul tappeto, aprire le zampe e leccarsela era il massimo per lei?».

Ricky Gervais umilia Hollywood ai Golden Globe: ​"Voi direste sì anche all'Isis". Il comico inglese ha usato il suo inconfondibile e caustico humour per fare a pezzi Hollywood e lo "star system": "Non sapete nulla del mondo reale". Roberto Vivaldelli,  Martedì 07/01/2020, su Il Giornale. Classe 1961, come ricorda il Corriere della Sera, faceva il manager del gruppo britpop Suede, prima di trionfare con la serie "The Office": è Ricky Gervais, il comico inglese che ha presentato l’edizione numero 77 dei Golden Globe con un discorso caustico che sta facendo discutere l'opinione pubblica e i social. Gervais, di Reading nel Berkshire, laureato in filosofia all’University College di Londra ed ex cantante rock e post-punk, è famoso per il suo humour caustico e particolarimente irriverente: proprio come nella serie Netflix After Life dove interpreta magistralmente il giornalista Tony che, dopo la morte della moglie, causata da un cancro, cade in depressione e inizia a dire tutto ciò che vuole senza alcuna inibizione. E così, anche sul palco dei Golden Globe, Ricky Gervais non si è per nulla risparmiato e ha detto con il consueto distaccato e cinico sarcasmo tutto ciò che pensava dello star system, facendolo letteralmente a pezzi, alla faccia di ipocrisie e del politically correct imperante. "Sarete felici di sapere che questa è l' ultima volta che presento questi premi, quindi non mi interessa più. Sto scherzando, non mi è mai importato. Questo è chiaro non solo a me, ma anche alla Nbc per la quinta volta" ha esordito Gervais. Il comico non si è tirato indietro su nulla, nemmeno facendo battute sulle star coinvolte in scandali come Felicy Huffman, l'attrice della serie Desperate Housewives accusata di aver falsificato la prova d'ammissione al college della figlia: "Siete tutti bellissimi, tutti in tiro, siete venuti qui in Limousine. Sono venuto qui in Limousine e la targa è stata fatta da Felicity Huffman. Ma è sua figlia che mi fa pena. Dev'essere la cosa più imbarazzante che le sia mai capitata". L'attore e comico ha poi ironizzato sullo scandalo Weinstein, tirando in ballo il figlio di Mia Farrow e Woody Allen, Ronan Farrow, autore dell'articolo pubblicato sul New Yorker che è valso al giornale il Premio Pulitzer, incentrato proprio sui prsunti abusi di Weinstein. Un argomento tabù, ma non per Ricky Gervais: "In questa stanza - ha detto -ci sono alcuni dei dirigenti televisivi e cinematografici più importanti al mondo. Tutti hanno una cosa in comune: sono tutti terrorizzati da Ronan Farrow. Parlando di tutti voi pervertiti, è stato un grande anno per i film pedofili. Surviving R. Kelly, Leaving Neverland, I due papi". E dopo aver preso in giro un mostro sacro come il regista Martin Scorsese - "è troppo piccolo per andare in giro", ironizzando sulla sua bassa statura - e l'attore Leonardo DiCaprio, Ricky Gervais ha messo a nudo tutta l'ipocrisia della Hollywood benpensante e politicamente corretta: "Apple è entrata nel mondo televisivo con The Morning Show, una serie drammatica sull' importanza della dignità e sul fare la cosa giusta, realizzato da una società che gestisce sweatshops in Cina". Bene, ha poi aggiunto, "quindi voi (attori, ndr), affermate che vi siete svegliati, ma le aziende per cui lavorate? Incredibile. Apple, Amazon, Disney, se anche l'Isis avviasse un servizio di streaming, voi chiamereste il vostro agente, giusto? Quindi se stasera vincerete un premio, non usatelo come piattaforma per fare un discorso politico. Non siete in grado di insegnare al pubblico nulla. Non sapete nulla del mondo reale. La maggior parte di voi ha trascorso meno tempo a scuola di Greta Thunberg. Quindi se vincerete, venite, accettate il vostro piccolo premio, ringraziate il vostro agente e il vostro Dio e andate affanculo, ok?".

Da ''il Fatto Quotidiano'' il 7 gennaio 2020. Otto minuti per mettere in croce Hollywood. Ricky Gervais, il comico inglese che ieri notte ha presentato l' inizio delle cerimonia dei Golden Globe 2020, non ha dato tregua alla platea di Los Angeles e la sua performance è immediatamente diventata protagonista del dibattito sui social. Ecco alcune delle sue battute più velenose. Sarete felici di sapere che questa è l' ultima volta che presento questi premi, quindi non mi interessa più. Sto scherzando, non mi è mai importato. Questo è chiaro non solo a me, ma anche alla NBC per la quinta volta. Quindi, voglio dire, Kevin Hart (un altro comico, ndr) è stato licenziato dagli Oscar per alcuni tweet offensivi. Per mia fortuna, la Hollywood Foreign Press non parla inglese. Non hanno idea di cosa sia Twitter. () Siete tutti bellissimi, tutti in tiro, siete venuti qui in Limousine. Sono venuto qui in Limousine e la targa è stata fatta da Felicity Huffman (l' attrice di Desperate Housewives accusata di aver falsificato la prova d' ammissione al college della figlia, ndr). Ma è sua figlia che mi fa pena. Dev' essere la cosa più imbarazzante che le sia mai capitata. () In questa stanza ci sono alcuni dei dirigenti televisivi e cinematografici più importanti al mondo. Tutti hanno una cosa in comune: sono tutti terrorizzati da Ronan Farrow (il figlio di Mia Farrow e Woody Allen dal quale è partita l' inchiesta e il successivo scandalo su Weinstein, ndr). Parlando di tutti voi pervertiti, è stato un grande anno per i film pedofili. Surviving R. Kelly, Leaving Neverland, I due papi Molte persone di talento di colore sono state snobbate nelle principali categorie. Sfortunatamente, non possiamo farci niente. La stampa estera di Hollywood è tutta molto razzista. E io sono qui a presentare per la quinta volta, fate voi () A nessuno importa più dei film. Nessuno va al cinema, nessuno guarda davvero la tv in Rete. Tutti stanno guardando Netflix. Questo spettacolo dovrebbe essere solo io che esco, dicendo "Ben fatto Netflix. Hai vinto tutto. Buona notte" (profezia sbagliata però, Netflix esce come grande sconfitto dalla notte dei Globe, nessun riconoscimento per The Irishman, ndr) Ma no, dobbiamo trascinarlo fuori per tre ore. Potresti assistere ad abbuffate per l' intera prima stagione di Afterlife invece di guardare questo spettacolo. È uno spettacolo su un uomo che vuole uccidersi perché sua moglie muore di cancro ed è ancora più divertente di così. Attenzione: spoiler, la seconda stagione è in arrivo, quindi alla fine ovviamente non si è ucciso. Proprio come Jeffrey Epstein (l' imprenditore arrestato per abusi sessuali e traffico di minori morto in carcere la scorsa estate, ndr). So che è vostro amico ma non mi interessa. () Gli attori dei film hollywoodiani ora partecipano ad avventure fantasy senza senso. Indossano maschere, mantelli e costumi davvero stretti. Il loro lavoro non è più recitare. È andare in palestra due volte al giorno e prendere steroidi. Abbiamo un premio per il 'Miglior Tossico Palestrato'? Non ha senso, sappiamo chi lo vincerebbe () Martin Scorsese ha fatto notizia per i suoi controversi commenti sui film Marvel. Ha detto che non sono un vero cinema e gli ricordano i parchi a tema. Sono d' accordo. Anche se non so cosa stia facendo nei parchi a tema. Non è abbastanza grande per andare in giro. È piccolo (ironizzando sulla statura di Scorsese, ndr). The Irishman è stato fantastico. È stato stupefacente. C' era una volta a Hollywood, lunga quasi tre ore. Leonardo DiCaprio è andato alla premiere del film e alla fine, quando è finita, la sua ragazza era troppo vecchia per lui. Persino il principe Andrea (anche lui coinvolto nello scandalo Epstein, ndr) diceva: "Dai, Leo, amico. Hai quasi 50 anni" (). Apple è entrata nel mondo televisivo con The Morning Show, una serie drammatica sull' importanza della dignità e sul fare la cosa giusta, realizzato da una società che gestisce sweatshops (termine che indica un luogo di lavoro con condizioni povere e socialmente inaccettabili, ndr) in Cina. Bene, quindi voi (gli attori, ndr) affermate che vi siete "svegliati", ma le aziende per cui lavorate? Incredibile. Apple, Amazon, Disney, se anche l' Isis avviasse un servizio di streaming, voi chiamereste il vostro agente, giusto? Quindi se stasera vincerete un premio, non usatelo come piattaforma per fare un discorso politico. Non siete in grado di insegnare al pubblico nulla. Non sapete nulla del mondo reale. La maggior parte di voi ha trascorso meno tempo a scuola di Greta Thunberg. Quindi se vincerete, venite, accettate il vostro piccolo premio, ringraziate il vostro agente e il vostro Dio e andate affanculo, ok?

Da ansa.it il 3 gennaio 2020. Hollywood è ancora un mondo a prevalenza maschile ma nel soffitto di vetro dell'industria dei sogni si stanno aprendo alcune crepe. Il numero dei film diretti da donne che nel 2019 hanno sbancato il box office ha raggiunto livelli record, secondo un nuovo studio della Inclusion Initiative dell'Università della Southern California a Annenberg pubblicato a conclusione di un dibattito di un decennio su come Hollywood discrimini per il colore della pelle, il sesso, l'orientamento sessuale e rilanciato da Variety. Il segnale è che la polemica sul gender gap ha smosso le acque provocando un reale cambiamento. Negli ultimi 12 mesi registe come Greta Gerwig ("Piccole Donne"), Lorene Scafaria ("Hustlers"), Olivia Wilde ("Booksmart"), Lulu Wang ("The Farewell") e Melina Matsoukas ("Queen and Slim") hanno contribuito a spingere a nuove altezze la proporzione di film diretti da donne: il 10,6% dei 100 campioni di incassi al box office 2019 con due - "Frozen II" e "Captain Marvel" rispettivamente di Jennifer Lee e Anna Boden - nella Top Ten. In generale è un balzo in avanti rispetto al 2018 dove la fetta dei film diretti da donne era stato di appena il 4,5% in linea con le percentuali dal 2007 quando l'ateneo di Annenberg aveva cominciato a tenere i conti. "Finalmente le cose si muovono", ha detto Stacy Smith, che ha co-firmato lo studio, secondo cui una confluenza di fattori ha contribuito alla svolta: dall'impatto di movementi come #MeToo e Time's Up che hanno puntato i riflettori sulle assunzioni da parte degli studi, alla maggiore presenza di donne registe a festival come Sundance, in tv e sulle piattaforme in streaming come Netflix.

Maer Roshan per “Hollywood Reporter” il 3 gennaio 2020. Pochi hanno avuto più impatto di Larry Kramer sul moderno movimento per i diritti gay. E’ lui, drammaturgo, saggista e attivista, ad aver giocato un ruolo centrale negli ultimi trent’anni, così dopo la storica decisione della Corte Suprema americana dello scorso venerdì, lo abbiamo contattato. Ha appena compiuto 80 anni e finito di scrivere il sequel di “The Normal Heart”, ad aprile ha pubblicato il romanzo “The American People”, e ieri la “HBO” ha trasmesso il suo biopic “Love and Anger”, seguito da 15 milioni di spettatori.

Quale reazione ha avuto alla notizia che il matrimonio gay è legalizzato?

«Onestamente non credevo di poter vivere abbastanza da vederlo. E’ surreale. Questa generazione vivrà in un mondo meno pericoloso rispetto alle precedenti, non sarà condannata alla mia stessa infelicità. Ma non ho risentimenti. La mia rabbia ha alimentato la mia attività e la mia scrittura. Sono furioso perché il mondo è stato crudele con i gay e molti anni li ho passati nell’odio e nella vergogna. Perciò ho scritto “The American People”, ero stufo di leggere libri scritti da eterosessuali».

E’ un romanzo ma anche la storia accurata dei gay in America. Qualcuno mette in dubbio che certe figure storiche tipo Lincoln, Hamilton, Benjamin Franklin, Franklin Pierce, J. Edgar Hoover, siano state omosessuali o bisex...

«Ho fatto dieci anni di ricerche per realizzare il volume e ho raccolto ogni prova. Mi stupisce che gli storici non abbiano fatto lo stesso, creando un grande disservizio. Tony Kushner, lo sceneggiatore di “Lincoln” di Spielberg, ha tolto qualsiasi riferimento all’omosessualità del presidente. Non chiedevo una scena d’amore gay, ma un accenno alle sue relazioni sì. Hamilton, durante la guerra, scriveva lettere d’amore all’ufficiale del quale era innamorato. Sono fatti, non finzione».

Com’era la scena gay di Hollywood, quando cominciò a scrivere?

«Hollywood è sempre stato un luogo di omosessuali, solo molto discreto. Già negli anni trenta e quaranta si sapeva di Cary Grant, Randolph Scott, Barbara Stanwyck. Cole Porter era famoso per le sue feste, dove tutti gli ospiti dovevano essere nudi».

Davvero? Cole Porter sembrava un gentleman...

«Mi dispiace deluderti. Il regista George Cukor era gay e fu sostituito in “Via col vento” perché Clark Gable non voleva essere diretto da un omosessuale. George Cukor era molto amico di Katharine Hepburn. Lei e Spencer Tracy erano entrambi gay. Lo sapevano tutti».

I film hanno avuto effetto positivo o negativo sulla percezione pubblica dei gay?

«Per anni gli unici gay che si vedevano sullo schermo erano cattivi, effeminati, o entrambi. La gente non aveva idea di come fosse fatto un omosessuale nella realtà, solo recentemente si fanno ritratti più reali e onesti».

Nel documentario a lei dedicato, c’è una scena in cui sposa suo marito David su un letto d’ospedale. Si ricorda di quel giorno?

«Ero molto malato, e non di AIDS. Dovevamo sposarci alcuni giorni dopo, ma data la gravità della situazione, anticipammo tutto. Dopo il sì non riuscii nemmeno a firmare con il mio nome, sul certificato di nozze misi una X. Stavo davvero morendo, a tenermi in vita è stato David, il mio amore».

Da quanto state insieme?

«Ci incontrammo nel 1966, ci frequentammo per un po’ e ci lasciammo. Ci rincontrammo 15 anni dopo e non ci siamo più separati».

Sarà ricordato più come attivista o come scrittore?

«Tutte e due si può? Sono uno scrittore, ma l’attivismo ce l’ho nelle ossa. Mi occupo di letteratura, anche se prendo posizioni politiche. Questi sono giorni gioiosi, ma la lotta non è finita. Il 3 luglio saranno 34 anni dall’annuncio dei primi casi di Aids. All’epoca erano 41, oggi sono 60 milioni nel mondo. Non è il caso di tornare apatici o di sentirci comodi. Mi godrò la vittoria e poi tornerò a combattere. Sai com’è, non mi resta molto tempo».

·        C’era una volta il maschio.

Andrea Tarquini per ''la Repubblica'' il 13 marzo 2020. La gender equality non è solo questione di pari opportunità sul lavoro, in politica o al potere. I suoi momenti della verità cominciano spesso dietro le mura domestiche. Anche nella ricca, postindustriale Svezia femminista, ai vertici mondiali quanto a uguaglianza tra i sessi con un invidiabile indice dell' 80 per cento. Non basta: persino là, nei nuclei familiari, gli uomini tendono a scaricare molto più lavoro domestico sulle mogli e compagne di quanto non svolgano essi stessi. E allora il modello svedese ha inventato un sistema, costoso per lo Stato ma socialmente efficiente: chi assume una collaboratrice o un collaboratore familiare legalmente, cioè dalle agenzie autorizzate, paga solo metà della sua retribuzione. Il resto è a carico del bilancio sovrano. La legge ha conquistato gli svedesi. Su un totale di circa dieci milioni di abitanti, sono ora ben 966mila gli svedesi che ricorrono al sistema. Cifra enorme, visto che nella maggioranza dei casi si tratta di nuclei familiari. «Il pagamento da parte dello Stato di metà dello stipendio di chi viene assunto per pulizie domestiche ha cambiato la nostra vita », dichiara alla Bbc Glenda Fors, ricercatrice in un' azienda IT a Tyresö, non lontano dalla capitale Stoccolma. «Prima, mio marito e io non riuscivamo mai ad affrontare il problema parlandone seriamente, e alla fine fine tante, troppe volte mi sono detta che, visto che egli era spesso assente da casa per lavoro per un paio di giorni, alla fine prendevo l' iniziativa di sbrigare le pulizie ». La riforma governativa ha cambiato le carte in tavola per moltissimi nuclei familiari. Non è una detrazione fiscale che arriva l' anno dopo con la dichiarazione dei redditi, bensì una metà del salario pagata subito. Le agenzie di collocamento di collaboratrici e collaboratori familiari incassano appunto il 50 per cento della retribuzione del dipendente legale dalle famiglie, la restante metà dallo Stato. Il quale finanzia uno stipendio di colf fino all' equivalente di 5200 euro l' anno per lavoratore. Ciò vuol dire un onere sulla spesa pubblica che l' anno scorso è stato pari a circa 600 milioni di euro. Rientrano, ma solo in parte, ammettono al ministero delle Finanze guidato dalla socialdemocratica Magdalena Andersson. L' effetto positivo per il fisco non compensa del tutto le spese della colf del servizio pubblico, ma dando piú tempo alle donne per il loro lavoro le aiuta a colmare o ridurre il gender pay gap e aumenta un po' i ricavi dell' Irpef. E accresce i redditi familiari di un minimo medio di 2500 euro annuali. Le svedesi che assumono una persona per i lavori domestici dedicano il 60 per cento del tempo risparmiato al loro impiego, alla carriera. Secondo effetto positivo, sottolinea il governo: i lavori domestici pagati a metà dallo Stato hanno inferto un duro colpo al lavoro nero, diffuso anche al Nord. E hanno creato almeno 13mila nuovi posti di lavoro legali. Spesso sono stranieri, venuti in Svezia da Paesi poveri. «Per me la riforma è un vantaggio indiscutibile », afferma all' emittente britannica la 32enne romena Solvita Gabriuna. Ma non mancano voci critiche: secondo Nico Pavasovic, ingegnere, in coppia e uso a pulire a casa, «è un regalo ai ricchi che possiedono abitazioni grandi e possono mettere in bilancio spese per i lavori domestici, forse sarebbe meglio destinare queste risorse del welfare ad altri scopi».

Maria Laura Rodotà per “la Repubblica” il 5 marzo 2020. A inizio febbraio, mentre Sanremo diventava gender fluid , le sfilate di moda maschile si trasformavano in non binarie e alcuni attori erano in lungo e in raso alla notte degli Oscar, un teorico famoso della mascolinità tradizionale veniva ricoverato per abuso di benzodiazepine. I fatti non sono direttamente correlati; i processi che hanno portato fin qui sì. Jordan Peterson, professore a Harvard e Toronto, filosofo su YouTube con due milioni e mezzo di abbonati, autore di bestseller come An Antidote to Chaos e il caos sono le femmine, era dipendente da Xanax e Valium molto prima di vedere i modelli di Gucci e Gaultier. Forse perché aderire al suo idealtipo maschile - un Clint Eastwood più colto e rancoroso - è faticoso. Perché la virilità a tutti i costi genera ansia, oltre a infiniti conflitti inutili. E perché la guerra per ridefinire la mascolinità moderna è aperta e incerta. Da un lato c' è la compagine che guadagna voti e consensi, la destra sovranista, convinta che - parole di Peterson - «il declino della virilità equivale alla morte di Dio». Dall' altra una compagine di persone queer , uomini stufi di stereotipi da spogliatoio, e giovani, tanti. Su di loro e per loro apre il 20 di questo mese, a Londra, al Barbican Centre, la mostra Masculinities , mascolinità, al plurale: ci sono tanti modi di essere maschi. E il modello egemone è talmente messo in dubbio da rilanciare virilissimi partiti fascisti. E sta emergendo, scrive lo storico bolognese Alessandro Bellassai, studioso del genere, «una nuova condizione maschile, nella quale i tradizionali travestimenti retorici della virilità non sono più efficaci a occultare le contraddizioni di un modello identitario sempre più anacronistico, all' indomani della doppia rivoluzione del neocapitalismo e del neofemminismo».

Svirilizzazione o liberazione. Molti però dissentono, e sono commentatori anche di sinistra non giovanissimi, troll di tutte le età, donne preoccupate di non trovare partner adeguati (altre sono stanche di mentire per preservare i fragili eghi dei compagni; e i maschi rudi e pigri, per millenni venduti come top of the line , sono ora meno ricercati, o divisivi). Vedono una svirilizzazione generale, dove altri sperano in una liberazione maschile. Per il momento, al Barbican si propone una «Liberazione attraverso la fotografia » dipanata con grande pluralismo, le sezioni vanno da Gay Semiotics a Portraits of Taliban Fighters (e i talebani hanno occhi truccatissimi di kajal). «È un buon momento per una mostra così, con il #Metoo, il revenge porn , l'ascesa di uomini forti come Donald Trump e Vladimir Putin», ha scritto sul Financial Times il critico Ekow Eshun.

I red carpet dandies. Lo è anche negli Stati Uniti, nazione spaccata anche sulle questioni di genere. A un presidente testimonial globale della mascolinità tossica si oppone un' industria culturale che sperimenta. Ai grandi eventi hollywoodiani - ultima la notte degli Oscar - sono normali i presenti in abito da sera, come l' attore Billy Porter e Jonathan Van Ness, anima della serie Queer Eye (in cui cinque gay rimettono in sesto etero depressi sovrappeso e chiaramente trumpiani, e dovrebbe essere premiato come programma di pacificazione nazionale). Con loro ci sono i Red Carpet Dandies , come Timothée Chalamet, Jared Leto, Shawn Mendes, con smalto sulle unghie, tacchi, qualche gonna. Quest' anno si è portato anche il maschiaccio pentito, ed era Joaquin Phoenix, che ritirando l' Oscar ha fatto mea culpa : «Sono stato un cattivo per tutta la vita. Sono stato egoista, a volte crudele ». Joseph Kocharian, stylist delle star, ha spiegato come la conversazione sulla fluidità ha avuto un effetto deflagrante nel mondo dei famosi: «Ora c' è una visione più evoluta della mascolinità, e gli uomini hanno potuto accettare i loro elementi femminili. E sono più creativi».

I baci nazionalpopolari. Che piaccia o no, Sanremo 2020 verrà ricordato per le entrate in scena di Achille Lauro, e per il bacio di Fiorello. Il trapper romano, a seconda dei giorni re-interprete di San Francesco, di Ziggy Stardust, della marchesa Casati e di Elisabetta prima, ha postato un testo che iniziava con «sono stato anche io bambina » e proseguiva inneggiando a Ziggy Stardust-David Bowie, «simbolo di libertà espressiva e sessuale e mascolinità non tossica ». Il conduttore, col suo bacio sulle labbra di Tiziano Ferro (ambedue avevano l' aria di chi ha perso una scommessa) avrà forse nel medio termine gli stessi effetti sdogananti delle serie tv con personaggi gay, da Will & Grace a Modern Family ; con più insulti per via della diretta.

Le sfilate-bomba. E comunque «vestire Achille Lauro è stato come mettere una bomba all' Ariston», ha detto a Repubblica Alessandro Michele, direttore creativo di Gucci. La seconda bomba, dopo la sfilata Masculine Plural, e la moda uomo "tenera e gentile" o colorata e sfrontata e anche parecchio divertente delle passerelle di quest' anno. E ora, dopo sfilate- premi-festival e prima della mostra, in molti le vedono come una controffensiva culturale, una reazione alle avanzate sovraniste. Ma pure - sempre il Financial Times - una strategia per conquistare una nuova generazione di consumatori per i quali «i confini di genere e i limiti sessuali vengono sempre meno rispettati». È una nuova generazione di colleghi, partner e cittadini, e chissà cosa andrà in scena a Sanremo quando saranno anziani (ci sarà ancora Sanremo).

Gioia Giudici per ansa.it il 16 gennaio 2020. E' un invito a "tornare sui banchi di scuola per imparare nuovi modi di essere maschi" la collezione disegnata da Alessandro Michele per Gucci, che chiude le passerelle maschili con un manifesto contro la mascolinità tossica che "é pericolosa - sottolinea - sia per gli uomini che per le donne, perché gli uomini ne sono schiavi e le donne la subiscono". Fin dall'invito, simile a quelli delle feste dei bambini, con “Ale” che invita al rave del suo quinto compleanno (tanto è passato da quando ha rivoluzionato il mondo della moda come direttore creativo di Gucci), si era intuito che lo show sarebbe stato un ritorno all'infanzia. Ritmato da un enorme pendolo (Foucault, un'altra delle passioni del designer) al centro della sala, il viaggio nel tempo si dipana tra pantaloni corti, grembiulini, magliette in taglie da bambino e scarpette con gli occhietti. E poi T-shirt in collaborazione con Richard Hell che sovrappongono le parole 'Impazienza' e 'Impotenza' e piumini floreali nati dall'incontro con il grande magazzino Liberty of London, il cui nome viene ripreso anche sulle borse stampate, da alternare a quelle a tracolla rubate alla mamma, portate con i jeans usurati e le camicie lunghe come caftani o in una taglia da bambino. E poi i calzini ricamati bianchi, tormento di tutti i piccoli di un tempo, i bermuda e i pullover in angora pastello con il gattino o il pulcino, il bauletto della merenda, il pantalone di velluto e la marsina, la collana di cristalli sopra al loden e il pantalone di broccato. Quanto di più lontano ci possa essere dall'idea dell'uomo che non deve chiedere mai, ed è proprio questo il punto, che Michele affronta in maniera meno istintiva degli inizi, quando con la sua moda ha rotto i limiti dell'identità di genere. Oggi, a 5 anni di distanza, ha sentito il bisogno di una riflessione sul mondo maschile, stampata sulla cartella stampa, a metà tra tema scolastico e manifesto, che accompagna la collezione. "Vorrei chiarire - è la premessa - che non è una narrazione che esclude la mascolinità mainstream, ma è un raccontare la complessità dell'essere uomo non per forza come sei stato raccontato crescendo". Se a maschi e femmine, con l'età, è stato detto "i maschi non piangono, le femmine non fanno la lotta" lui per rompere le catene ha "immaginato di tornare un po' bambino, quando ci viene permesso di essere liberi, meno etichettati". Tornare indietro è "un modo per dire  proviamo a fare qualcosa di diverso". Se "all'asilo eravamo tutti uguali e a tutti era permesso nell'infanzia fare diversamente", questa collezione per Michele "è un inno al romanticismo e al sesso maschile capace di tante cose, anche di revisionare ciò che gli è stato insegnato. Ed è anche - aggiunge - ciò che si aspettano le donne". E cosa c'è di più forte, per togliere all'uomo la patina del macho, che riportarlo all'infanzia in cui "c'è una bellezza, una delicatezza, un romanticismo pazzesco"?. Ecco perché "reimparare un modo diverso di essere maschi è qualcosa non solo di realmente utile, ma di veramente bello". A chi gli chiede se la mascolinità tossica sia prettamente italiana, Michele risponde che "sicuramente il cattolicesimo è un grande limite e i ruoli interessano la politica, perché se si sciolgono diventa difficile governare". Ma poi ci tiene a dire che lui non è "un sociologo, ma un impiccione delle cose che succedono". "Mi pare solo - riflette - che da piccoli arrivi un momento in cui ci dicono cosa fare e ci si sente sbagliati a voler fare delle cose diversamente. Ma se gli uomini dialogassero con la loro parte femminile sarebbe più facile per loro e per le donne. Questi uomini ci sono, sono più affascinanti e sono tantissimi, io non voglio distruggere il mondo degli uomini, ma ampliarlo". Così la sfilata, con tutte le mises dei bambini di un tempo e le pettinature rockabilly, "era un modo per dire 'siate romantici e attenti a ciò che succede nelle vostre teste'". In questo passaggio, gli viene fatto notare, la sua moda forse ha abbassato i toni, è meno massimalista e più romantica: "mi prendo dei gravi rischi, ma preferisco - commenta - perdere da scommettitore".

Maschio uguale femmina. Alessandro Bertirotti il 20 gennaio 2020 su Il Giornale. È tutta questione di… limiti universali. A leggere questo articolo, ci si rende conto che le cose stanno diventando sempre più interessanti. Come sapete, le mie considerazioni sono, il più delle volte, il frutto di due punti di vista convergenti: quello antropologico-mentale e quello personale. Il primo deriva dalla mia formazione scientifica, in continuo aggiornamento, mentre il secondo è frutto della mia biografia. E questo, penso, accada a tutte le persone. Si unisce la propria formazione professionale, ciò che si studia e si conosce sui testi e nella professione, al modo di considerare la vita, le proprie esperienze secondo un punto di vista più emozionale, più privato. Precisazioni, ciò che avete appena letto, utili per chiarire in quali termini mi pongo, di fronte ad una moda maschile che sta sovvertendo i classici riferimenti stilistici nei quali tutti noi, penso, siamo cresciuti e ci riconosciamo. La prima considerazione è che questa globalizzazione incide anche sulle categorie biologico-culturali, del maschile e del femminile, proponendo un’osmosi che, forse, è sempre esistita anche se invisibile. In effetti, nel caso della nostra specie, poiché siamo mammiferi culturali, ogni dimensione biologica è al tempo stesso anche culturale, ossia caricata di significati condivisi e compartecipati dal gruppo di persone che interagiscono in un ambiente. Oggi, l’ambiente reale, anche se virtuale, è il mondo globale. Un mondo nel quale è necessario vendere di tutto e sempre in maggior quantità. E per fare ciò è urgente eliminare categorie come maschile e femminile, che delimitano troppo i territori  dei singoli individui, senza creare stupore, meraviglia e scandalo. E, senza scandalo non si vende, perché a nessuno interessa il già detto oppure il già visto. La prima emozione, fra le sei primarie, che rimane fondamento del nostro funzionamento cognitivo è la sorpresa. E cosa c’è di più sorprendente che scoprire in un maschio la femmina che in lui si nasconde? E lo è ancora di più in un maschio, di quanto non lo sia scoprire un maschio in una femmina, perché la nostra cultura occidentale globalizzata impone il maschile come l’espressione del successo cui ambire. Che, nei fatti, le femmine umane in grado di diventare anche donne, siano decisamente più significative (e non solo dal punto di vista cognitivo, ma anche sociale) non interessa un granché ad una società machista. Il fatto è che, oltre a tutto questo, nelle foto che potete vedere pubblicate nell’articolo che ho inserito come ipertesto, vi è anche un altro aspetto importante: la spaventosa magrezza dei modelli/e che sfilano. Ecco, questa anoressia così evidente (dunque espressione di un’esistenza patologica) cosa vuole significare? Ci vogliono forse dire che nutrirsi, per vivere con quella dose sufficiente di glucosio di cui necessitano i neuroni, è negativo, perché è altrettanto negativo pensare? Essere così magri significa essere anche tristi, miserevolmente tristi, e sempre più legati a ciò che gli altri pensano di noi, per non parlare di ciò che potremmo pensare di noi stessi. Insomma, ci vogliono sempre più scemi, tanto come maschi che come femmine. 

Francesco Borgonovo per “la Verità” il 20 gennaio 2020. Alessandro Michele è il celebratissimo direttore creativo della casa di moda Gucci. Lo scorso anno ci aveva deliziato facendo indossare alle sue modelle capi impreziositi da scritte pro aborto. Pochi giorni fa, invece, ha deciso di cimentarsi con un altro grande classico del pensiero unico: la lotta contro il maschio cattivo. In buona sostanza, ha vestito i modelli con abiti bambineschi per invitare gli uomini a tornare bambini e a liberarsi così dei pregiudizi e dei fardelli acquisiti crescendo. «Volevo rendere evidente la tossicità dell' essere maschile in un modo stereotipato», ha detto Michele a Vanity Fair. «Una cosa estremamente pericolosa, per gli uomini ma anche per le donne. Questa sfilata è un inno al sesso maschile, capace di tante cose, anche di revisionare quello che gli è stato insegnato. Anche di tornare indietro e di re-imparare un modo diverso di essere maschi. Ma attenzione: non voglio distruggere il mondo degli uomini, ma ampliarlo il più possibile». Il messaggio di Michele è piuttosto chiaro: i maschi di oggi dovrebbero essere educati, anzi rieducati così da cambiare radicalmente il proprio modo di essere, diventando più bravi, più buoni, più dolci e magari un po' più femminili. Purtroppo, Alessandro Michele non è l' unico a pensarla così. L' ultimo numero di Sette, rivista del Corriere della Sera, si apre con un editoriale del filosofo Leonardo Caffo in cui si spiega che è ora di ripensare il modo di essere maschio. Di nuovo, viene riproposto il modello di uomo diminuito: «Maschi fragili dunque non più come sinonimo di debolezza, ma di bellezza», scrive Caffo. Pochi giorni prima dell'uscita di Sette, sul magazine femminile Io Donna, è stato pubblicato un lungo servizio intitolato «Maschi da educare». Indovinate che cosa diceva? Semplice, che i maschi devono essere rieducati in modo che si liberino degli stereotipi e possano finalmente combattere la maschilità tossica che alligna dentro di loro. Anche Repubblica ha fatto la sua parte. A margine delle polemiche sanremesi sul presunto sessismo di Amadeus (colpevole di aver detto che alcune belle invitate al festival sono belle, e in effetti è per quello che le hanno invitate), il quotidiano progressista ha scodellato sull' edizione online un titolo interessante: «Diciassette consigli per educare i figli (soprattutto maschi) al femminismo». Tra i vari suggerimenti c'è quello di vestire i bambini nel modo più neutro possibile affinché non assomiglino a stereotipi. Alcuni dei preziosi consigli sono stati ripresi da un libro intitolato Educare al femminismo (Salani) della spagnola Iria Marañón. «La prima cosa che dobbiamo insegnare alle nostre figlie e ai nostri figli è che il maschilismo esiste e si manifesta in molti modi, a volte anche difficili da cogliere», scrive la gentile donzella. In effetti l' idea di educare i maschietti a essere femministi va parecchio di moda, tanto che persino il New York Times ha dedicato un rilevante articolo all' argomento alcuni mesi fa. E ovviamente non mancano psicologi, sociologi e pedagogisti pronti a giurare che sia una ottima idea. La giornalista Monica Lanfranco, che si definisce femminista e «formatrice sulla differenza di genere», ha appena pubblicato per Erickson un libro intitolato Crescere uomini. Nella presentazione si spiega che è «dedicato a chi, a cominciare dai padri, dalle madri e a tutte le altre figure adulte di riferimento che lavorano nella scuola e nelle diverse agenzie educative, voglia trovare spunti e ispirazione nel difficile, ma indispensabile, percorso di accompagnamento verso una radicale trasformazione delle relazioni tra i generi». È giunto il momento, dice il testo, di «volgere lo sguardo verso le responsabilità e le risorse dei giovani uomini per cambiare le relazioni tra uomini e donne nella direzione del rispetto e dell' empatia». Tradotto, significa che secondo l' autrice è opportuno andare nelle scuole e spiegare ai bambini che la loro maschilità è tossica, motivo per cui è urgente una rieducazione. Di tesi di questo tipo se ne sentono ovunque. Se si trattasse soltanto dell' ultima tendenza del culturame progressista, se ne potrebbe pure ridere. Ma qui c' è in ballo molto di più. Il messaggio che si manda ai ragazzini è lo stesso che Alessandro Michele ha trasmesso nella sua sfilata: i maschi sono pericolosi, tutti violenti in potenza, quindi vanno ammansiti, sedati, svirilizzati. Cioè privati della forza, che è il nucleo costitutivo dell' essere uomo. Il maschio va bene se è fragile, debole, sottomesso, femminista, femminile. Cioè se smette di essere maschio. Gli si dice che la sua potenza generatrice è maligna, pericolosa, e che va combattuta. Stiamo crescendo maschi che si vergognano di essere maschi, o che non sanno gestire la maschilità. Stiamo distruggendo gli uomini, in poche parole. Con la scusa della maschilità tossica, ci stiamo intossicando tutti, femmine comprese.

·        Revenge Porn. Dagli al Maschio.

Da “il Giornale” il 19 dicembre 2020. Napoli. Svolta nell'indagini sul suicidio di Tiziana Cantone, suicida il 13 settembre del 2016, dopo la diffusione dei suoi video privati sul web. L'iPad e l'iPhone di proprietà della donna potrebbero essere stati manomessi. I due sistemi operativi, secondo la Procura di Napoli Nord, sono stati resettati proprio in quel giorni. Riparte da qui la nuova indagini sulla morte della 31enne. La prima si era conclusa con l'archiviazione nel 2017 per istigazione al suicidio perché dai device della donna non erano emerse tracce. Adesso s' indaga per frode processuale sulla base delle indagini difensive realizzate dai professionisti dell'Emme-Team, il gruppo con sede a Chicago di cui fanno parte studi legali americani ed europei che si batteno contro il Revenge porn. Analizzando i due strumenti di Tiziana Cantone, infatti, gli esperti della Procura partenopea hanno scoperto almeno diciannove anomalie nell'estrapolazione dei dati da parte della polizia giudiziaria, che secondo i periti avrebbero compromesso le indagini. La madre di Tiziana, Teresa Giglio, aveva già chiesto che il corpo sia riesumato perché ritiene che la figlia non si sia suicidata e che invece sia stata uccisa. Tra le anomalie accertate, quella relativa all'intera cronologia eventi e browser internet dell'IPad, che era vuota, «come se per tutto il tempo (anni) in cui è stato nella disponibilità di Tiziana Cantone, non sia mai stato utilizzato o connesso al web. In seguito è stato possibile dimostrare che l'attività era presente e che è stata cancellata».

Tiziana Cantone, morta dopo i video hot in rete: fu davvero suicidio? Le Iene News il 16 dicembre 2020. La giovane napoletana, vittima di revenge porn, si sarebbe impiccata 4 anni fa in casa con una pashmina. Ora sarebbe stato aperto un nuovo fascicolo: i segni attorno al suo collo sarebbero incompatibili con quel foulard e qualcuno avrebbe cancellato tracce informatiche sui suoi dispositivi mobili. Roberta Rei aveva incontrato la madre, che non crede al suicidio. Tracce informatiche che sarebbero state cancellate da iPhone e iPad e segni sul suo collo che non sarebbero compatibili con lo strangolamento attraverso delle pashmina.  Su questi due elementi si basa l’apertura di un nuovo fascicolo nelle indagini sulla morte di Tiziana Cantone, la giovane napoletana che si sarebbe suicidata il 13 settembre del 2016 dopo che numerosi suoi video hot erano stati diffusi in rete. Una vicenda tragica, di cui vi abbiamo parlato con Roberta Rei nel servizio che potete rivedere qui sopra. La procura di Napoli avrebbe riaperto le indagini indagando contro ignoti per ora con l’ipotesi di reato di “frode processuale”. La madre di Tiziana non crede al suicidio. Noi vi abbiamo anche raccontato che alcuni dei suoi video hot privati, che da anni purtroppo ancora rimbalzano sui server di mezzo mondo, erano stati fatti cancellare grazie al lavoro della Onlus “La Caramella Buona” e del Team Emme.

Simona Lorenzetti per corriere.it il 15 dicembre 2020. «Non darà le dimissioni: cercate di indurla a fare qualcosa di sbagliato così lo prendo come pretesto per mandarla via. Fatemi ‘sta cortesia, io non so più cosa fare. Ce l’ho a morte con lei e non voglio nemmeno vederla». A parlare è la direttrice dell’asilo nido in cui lavorava la giovane maestra licenziata perché il fidanzato aveva diffuso alcune sue immagini hot sulla chat del calcetto. La voce della dirigente scolastica è racchiusa in un file audio – tratto dal gruppo WhatsApp dell’asilo - ascoltato in Tribunale nel corso del processo in cui la donna (difesa dall’avvocato Valentina Zancan) è accusata di diffamazione e violenza privata. Nello stesso procedimento è sotto accusa anche la mamma di un bimbo che frequentava il nido e che a sua volta avrebbe fatto circolare le foto intime della maestra. Sono due i messaggi vocali che la direttrice invia alle colleghe del nido dopo aver saputo che la giovane educatrice – all’epoca 22enne - non era più disponibile a firmare le dimissioni. Il tono di voce e il linguaggio usati dall’imputata rivelano il clima di tensione e rancore che si respirava al nido. Ma soprattutto raccontano come la direttrice avesse in mente di liberarsi della maestra: doveva essere mandata via a «tutti i costi» perché c’era in gioco il buon nome dell’asilo. Quindi, doveva essere «indotta in errore», magari affidandole i bambini più vivaci o mettendola in difficoltà con i turni di lavoro. In questo contesto assume un valore anche la scansione temporale degli eventi. Il 26 marzo del 2018 la vittima (assistita dai legali Dario Cutaia e Domenico Fragapane) scopre da un’amica che l’ex aveva pubblicato sulla chat dei compagni di calcio diverse immagini che la ritraevano in pose erotiche. Il giorno dopo – il 27 marzo - incontra in un bar la preside dell’asilo e le confida quanto accaduto. La direttrice la invita a licenziarsi, accusandola di essere «incompatibile con il lavoro di educatrice». Aggiungendo che «se avesse dato spontaneamente le dimissioni», lei «non avrebbe avvisato le altre strutture». Viceversa, «avrebbe avuto un marchio per tutta la vita». In un primo momento, la giovane rimane ferma sulle proprie posizioni. Ma poi la direttrice la convoca a un incontro con le colleghe, «sottoponendola a una gogna pubblica». Inutili i tentativi della ragazza di spiegare di essere lei la vittima. E così rassegna le dimissioni. Il 29 marzo, dopo essersi consultata con un legale, la maestra decide però di non convalidarle. Poco dopo aver ricevuto la comunicazione, la direttrice invia due messaggi vocali alle altre insegnanti. E spiega che la ragazza rientrerà al lavoro. Ma poi aggiunge: «Sarà una guerra molto dura e vedremo se andrà avanti o no. Ci vuole portare tutti in tribunale. Ho paura che lei prenda qualsiasi pretesto per danneggiarci». E ancora: «Non darà le dimissioni: cercate di indurla a farla qualcosa di sbagliato così lo prendo come pretesto per mandarla via. Ce l’ho a morte con lei e non voglio nemmeno vederla».

Simona Lorenzetti per il “Corriere della Sera” il 2 dicembre 2020. Entra in Tribunale a Torino infagottata in un pile grigio. Ha 22 anni e faceva la maestra d'asilo. Ha perso il lavoro dopo che l' ex fidanzato ha pubblicato sulla chat del calcetto alcune sue foto e video osé. Mezz' ora dopo è sul banco dei testimoni e racconta. Racconta la paura, l' angoscia. Ma soprattutto l' umiliazione subita nella primavera del 2018, quando per colpa di quelle immagini la direttrice della scuola materna (ora a processo per diffamazione e violenza privata) l'avrebbe costretta alle dimissioni, dopo una gogna pubblica di fronte alle colleghe di lavoro. «Aspettavo con ansia questo giorno - spiega -. Mi sono liberata di un peso. Ho raccontato tutto: non la mia verità, ma la verità. Avevo paura, perché era la mia parola contro quella della direttrice. E sapevo che le mie colleghe avrebbero negato quanto accaduto in quei giorni. Invece, adesso sta venendo tutto a galla e io non devo più nascondermi».

Quale episodio avrebbero dovuto negare le sue colleghe?

«La riunione convocata dalla direttrice per costringermi a dare le dimissioni».

L'incontro in cui lei è stata definita una «svergognata»?

«Sì, quel giorno fui sottoposta a un processo sommario. La direttrice mi apostrofò con frasi irripetibili e mi disse che era meglio me ne andassi spontaneamente, altrimenti avrebbe dovuto scrivere sulla lettera di licenziamento il motivo. E aggiunse che non avrei trovato più lavoro, che non mi avrebbero assunta neanche per pulire i bagni della stazione. Che su di me ci sarebbe stato un marchio indelebile».

Una lettera scarlatta.

«Sì, un marchio che avrebbe fatto capire a tutti che ero una poco di buono. Non mi sono mai sentita così umiliata nella mia vita».

Le sue colleghe hanno cercato di aiutarla?

«No, anche loro mi hanno accusato senza neanche cercare di capire cosa fosse successo. Contro di me solo tanta cattiveria. Nessuna mi ha difeso quando sono stata messa alla gogna».

L'hanno accusata di essere una cattiva maestra?

«Non per le mie capacità professionali. Da parte dei genitori non c'è mai stata alcuna lamentela. Per la scuola e la direttrice ero diventata una cattiva maestra per quello che era successo nella mia vita privata. Per questo sono stata obbligata alle dimissioni, ma non c'erano elementi per giustificare il licenziamento».

Ha più incontrato il suo ex, lo ha perdonato?

«Non l' ho più visto. Ma dentro di me penso di poterlo perdonare, anche se non saremo mai amici. Quello che ha fatto non trova giustificazione, ma è quanto accaduto sul lavoro che ha segnato la mia vita. Mi aspettavo solidarietà dalla scuola, non è stato così».

Qualcuno le ha mai chiesto scusa?

«Nessuno».

Però ha ricevuto molta solidarietà, anche dalla sindaca Chiara Appendino.

«Mi ha detto che non dovevo vergognarmi, che non avevo fatto nulla di male. E che avevo fatto bene a denunciare e a non subire».

La famiglia l'ha sostenuta?

«All' inizio è stato tutto complicato. Anche per i miei genitori è stato difficile capire. I rapporti sono cambiati, qualcosa si è rotto. Ma loro sono ancora oggi al mio fianco».

Ha mai pensato di non farcela?

«Sì, credevo di non poter superare quei momenti. Ero disperata. Non riuscivo più a gestire l' asilo, la mia vita privata. Non sapevo come affrontare la mia famiglia».

Due anni dopo, cosa si è lasciata alle spalle?

«Ben poco. Questa vicenda ha stravolto la mia esistenza. Sono sempre stata una ragazza esteticamente molto curata. Oggi quasi non mi trucco più. Ho paura di indossare un abito corto, penso che la gente mi guardi con malizia. Prima lo facevo per piacere a me stessa, ora temo solo di essere giudicata. Non mi fido più delle persone, per non parlare degli uomini».

Cosa desidera adesso?

«Fare la maestra. Non ho più trovato lavoro da quando sono stata costretta a licenziarmi. Le strutture chiedono referenze, ma non sempre queste sono positive. Ho un marchio addosso che non riesco a cancellare».

Estratto dell’articolo di Irene Famà per “la Stampa” il 2 dicembre 2020. «La parte più dolorosa è stata la cattiveria sul lavoro. La scuola era il posto in cui avrei dovuto sentirmi protetta e invece è quello in cui sono stata più attaccata». La giovane maestra d' asilo, finita alla gogna e licenziata dopo che il suo ex fidanzato ha diffuso in una chat i suoi video osè, ricostruisce la vicenda, ora approdata in Tribunale. […]

Cosa l'ha ferita di più?

«La mancanza di solidarietà tra donne, tra colleghe. Essere stata accusata senza che nessuno cercasse di capire com' erano andate le cose […]».

Pensava di trovare protezione almeno a scuola?

«L'asilo era il luogo in cui avrei voluto sentirmi protetta. Ero la più giovane. Non mi aspettavo condivisione, ma comprensione sì. Dalla direttrice scolastica e anche da alcune maestre. La penso così: puoi condividere o meno le mie scelte, ma non puoi alimentare la cattiveria. Quelle foto sono state fatte girare pure da persone di cui mi fidavo, come altre colleghe. Sono stata accusata di aver messo io quei video in rete: non era vero nulla, ma nessuno mi è stato a sentire. Anzi. Mi hanno detto di denunciare solo il mio ex fidanzato, di fregarmene del lavoro».

[…] Se si fosse trattato di un uomo, crede che sarebbe stato licenziato?

«No. Vuole un esempio? Il caso dell' insegnante ora considerato un sex symbol. Io ho sempre svolto il mio lavoro nel migliore dei modi e le stesse mamme l' hanno confermato. Non c' era motivo per licenziarmi. Mi hanno obbligata a dimettermi. Ciò che non andava bene era quello che era successo al di fuori della scuola, nella mia vita privata».

[…] Cosa consiglierebbe a una ragazza che si trova nella sua situazione?

«Di denunciare. All' inizio avevo paura, volevo nascondermi. Invece non c' è liberazione più piena di poter raccontare come sono realmente andate le cose. In questa vicenda ho capito quanto siano pericolosi i social […]».

Rosira Rijtano per "repubblica.it" il 20 ottobre 2020. Oltre 100 mila donne virtualmente denudate. Tra cui, alcune giovani influencer italiane. Vittime inconsapevoli di uomini che hanno dato le loro foto, spesso rubate sui social, in pasto a un bot Telegram: un programmino automatico che si trova sull'app di messaggistica russa ed è in grado di ritoccare le istantanee in tempo reale, svestendo le protagoniste. Immagini che sono state poi condivise, commentate e persino votate in almeno sette chat pubbliche. È la nuova frontiera del revenge porn, quella svelata da un'indagine della compagnia Sensity, che Repubblica ha potuto visionare in anteprima.

La nuova frontiera del revenge porn. Vendette sessuali e stupri virtuali non nuovi nell'app fondata da Pavel Durov, più volte accusata di non fare abbastanza contro gli abusi. Ma che adesso sfruttano una tecnologia prima appannaggio di pochi e ora diventata alla portata di chiunque. In gergo vengono definiti deepfake. In pratica si tratta di foto, video e audio taroccati sfruttando l'intelligenza artificiale. "Usare gli algoritmi per creare delle immagini false con l'obiettivo di prendere di mira ex partner o conoscenti non è mai stato così semplice", commenta Giorgio Patrini, uno degli autori dell'analisi. Ed è proprio la facilità di utilizzo la principale novità del bot. Un'evoluzione che dimostra come i deepfake stiano evolvendo a ritmi vertiginosi. È solo l'esordio di una nuova stagione di cui è difficile delineare i contorni, scanditi dal progresso. Un domani in cui distinguere il falso dal vero diventerà sempre più difficile tanto quanto sarà facile falsificare la realtà, perché in ogni falso si nasconderà molto di autentico. Pensare che la storia dei deepfake è recentissima. Il primo caso noto alle cronache risale al 2017, quando Motherboard scovò un video in cui il volto dell'attrice Gal Gadot era stato sovrapposto a quello della protagonista di un porno. La parte più interessante della storia è che l'autore del filmato manipolato non era stato un grande studio di effetti speciali, ma un utente di Reddit che aveva usato strumenti reperibili online. Da allora il fenomeno è cresciuto tanto che a ottobre del 2019 si contavano sul web oltre 14.500 contenuti del genere, la maggior parte pornografici.

I limiti superati. Rimanevano due paletti per l'adozione in massa. Prima di tutto, per usare molte delle applicazioni disponibili online è necessario saper programmare e aver a disposizione dei potenti processori grafici. Pagando esistono dei servizi ad hoc, ma il grande scoglio da superare è la quantità di dati necessaria: per funzionare gli algoritmi hanno bisogno di molte foto della persona che si vuole rendere protagonista del falso. Uno dei portali che si trovano in Rete richiede, ad esempio, 250 scatti. Entrambi i limiti sono stati abbattuti. Una foto, magari sottratta da un profilo social, è ora più che sufficiente per creare il proprio contenuto tarocco e rendere una ragazza inconsapevole protagonista di un'immagine pornografica. Pure le competenze informatiche non sono più fondamentali, spiega Patrini: "Basta caricare l'istantanea su un apposito canale Telegram. Lo scatto viene ritoccato e rispedito al mittente in pochi minuti, se non secondi". Il bot è gratuito e in più c'è la possibilità di una versione premium: pochi dollari per rimuovere il logo del software sulla foto e avere priorità rispetto agli altri utenti nell'usufruire del servizio. I risultati non sono perfetti, ma in alcuni casi apprezzabili al punto da riuscire a passare per veritieri a un occhio meno esperto.

Dalle attrici alle ex fidanzate. Un salto di qualità che ha permesso di cambiare anche il bersaglio dei deepfake a sfondo sessuale. Se prima erano soprattutto attrici famose, di cui è possibile recuperare molto materiale con una semplice ricerca online, adesso sono per lo più compagne di scuola, colleghe, madri, sorelle. Potenzialmente chiunque abbia almeno una propria foto sul web. In particolare, i ricercatori hanno scoperto che nel mirino sono finite diverse influencer e celebrità. Ma nel 70 per cento dei casi le vittime sono soggetti privati, potenzialmente anche minorenni, di diverse nazionalità. Ne hanno individuate quattro: Russia, Argentina, Italia e Stati Uniti. Mentre per quel che riguarda gli utilizzatori, tra il bot in sé e i canali affiliati, se ne contano oltre 100mila: in maggioranza russi o di Paesi dell'ex Unione sovietica. Le implicazioni sono enormi. Oltre al già citato revenge porn e agli stupri virtuali, c'è il rischio concreto che queste immagini vengano usate per ricatti ed estorsioni. A dimostrazione che quando si parla di deepfake, il pericolo più immediato non è tanto la diffusione di notizie false e propaganda, quanto la sicurezza delle donne. E, al momento, non esistono strumenti per difendersi. 

Revenge porn a un uomo: “Vivo nel terrore per quelle mie foto nudo”. Le Iene News il 29 settembre 2020. Una bella ragazza che non conoscete vi chiede l’amicizia su Facebook? Fate attenzione: potrebbe capitarvi quello che è successo a Davide, ricattato per alcune immagini hot. Ecco il suo racconto e gli screenshot della tentata estorsione a luci rosse molto diffusa sul web “Mandami subito 8mila euro o pubblico il tuo video e le tue foto nudo”. È quello che si è sentito dire Davide (il nome è di fantasia), che ci racconta come è caduto in una tentata estorsione su Facebook mostrandoci anche messaggi ricevuti da “Laura”, questo il nome del profilo da cui è partito il ricatto. Tutto comincia quando arriva la richiesta di amicizia su Facebook da parte di una bella ragazza. “Io ho un profilo personale e uno che uso per fare promozione alla mia attività lavorativa”, racconta Davide. “Su quest’ultimo un giorno mi arriva il messaggio di una certa Laura, che vuole essere mia amica. Non ci ho trovato nulla di strano e così ho autorizzato la richiesta.” La ragazza però parte subito in modo molto esplicito: “Inizia a domandarmi se ero single e se mi piaceva il sesso. Ovviamente le ho raccontato che il sesso mi piaceva e che ho una bambina piccola ma non ho detto nulla del fatto che ho una compagna… A quel punto parte una sua videochiamata ma la voce non si sente, mi dice che è senza microfono e poi riattacca”. Dopo pochissimo tempo Laura lo richiama e gli chiede di andare in bagno, per farsi alcune foto nudo e mandargliele: “Non so davvero cosa mi sia successo, non l’avevo mai fatto prima. Torno a casa e mi chiudo in bagno. Lei mi richiama e io le mostro il mio corpo, i miei organi genitali. Nonostante mi scriva di non preoccuparmi, che non farà vedere in giro quelle immagini, io cerco di stare attento a non farmi vedere in volto, le mostro solo il corpo”.  Ecco qui sotto uno screenshot tratto da quella videochiamata tra Davide e Laura. Pochi minuti dopo quella chiamata riceve il messaggio di minaccia che potete vedere qui sotto. “Laura” (o chiunque si nasconde dietro quel profilo, poi prontamente cancellato) vuole 8.000 euro per non diffondere le sue immagini: “Ti do un’occasione per dirmi quanto mi vuoi pagare per il mio silenzio, così finiamo questa storia una volta per tutte. Manderò questo video ai media, alla stampa, e anche al tuo posto di lavoro. Diventerai lo zimbello della tua famiglia, non provare a disconnetterti altrimenti inizierò a postare il tuo video su tutti i canali televisivi pornografici”. Davide, spaventatissimo, prova a dissuaderla dal ricatto facendo finta di essere un poliziotto. Le dice che la ragazza a cui ha sottratto la foto del profilo ha fatto denuncia e adesso rischia una condanna da 3 a 5 anni e che i suoi colleghi della polizia postale sono già sulle sue tracce attraverso l’indirizzo Ip del computer. Laura replica dicendo di accontentarsi di una cifra minore, sostiene che quei soldi le servono per pagare un intervento chirurgico per sua sorella che è grave in ospedale… Gli manda pure una foto della sorella, eccola. Il ragazzo è nel panico, Laura sembra averlo capito e affonda il colpo. “Credimi non sto scherzando, non esiterei un secondo a pubblicare questo tuo video mettendolo su tutti canali di condivisione online del mondo”. “E non è finita qui”, ci dice Davide al telefono, “mi manda anche un’altra foto in cui mostra di aver condiviso le mie foto nudo con alcuni dei miei contatti Facebook di quel profilo”. Davide non ha pagato gli 8mila euro richiesti ma vive nella paura: “Quei ragazzi a cui Laura dice di aver mandato le mie foto nudo non li conosco davvero, sono solo amicizie virtuali però sono della mia stessa zona: ho paura che adesso le mie foto possano girare ed arrivare alla mia famiglia, anche se ho subito disattivato quel mio profilo Facebook”. La "sextorsion", così viene definito giuridicamente questo reato, comporta il rischio di pene fino a dieci anni di prigione e anche il solo diffondere immagini ottenute da altri su chat e profili social determina una grave responsabilità penale. 

Patrizio Marino per "movieplayer.it" il 20 settembre 2020. Paris Hilton ricorda bene che quando fu pubblicato il suo sex tape e fu trattata crudelmente dai media e dall'opinione pubblica: secondo l'ereditiera oggi, grazie al movimento #metoo, la situazione sarebbe differente e nessuno le riserverebbe lo stesso trattamento che subì all'epoca dello scandalo. Paris Hilton è stata intervistata da Yahoo! Entertainment per promuovere la sua autobiografia raccontata nel documentario This is Paris, disponibile sul suo canale di YouTube a partire dal 14 settembre. Nel documentario Paris Hilton racconta gli abusi subiti quando studiava in collegio. Durante l'intervista la conversazione è caduta sullo scandalo del sex tape del 2003 registrato dal fidanzato Rick Salomon. Ricordando quel periodo l'ereditiera ha detto: "Grazie al movimento #MeToo oggi tutto sarebbe diverso. Il modo in cui sono stata trattata è stato così crudele e così doloroso. Sono grata che oggi le donne possano essere rispettate e che nessuna subirebbe quello che ho dovuto sopportare io. Sono stata sfortunata, allora le persone erano diverse, almeno ora c'è stato un cambiamento". Il nastro fu registrato nel 2001 con il suo fidanzato di allora, l'ex giocatore di poker Rick Salomon. Paris aveva 20 anni anche se i genitori sostennero che il nastro risaliva a qualche anno prima e che la ragazza fosse minorenne. Paris ha detto che quell'incidente le ha creato una corazza con cui ha potuto affrontare la vita pubblica per il resto della sua vita. "Non presto più attenzione alle negatività - ha detto Paris Hilton - sento di essere andata all'inferno e di essere tornata". Il sex tape di Paris Hilton e Rick Salomon fu rilasciato su internet nel 2003, da quel momento iniziarono una serie di cause incrociate tra la famiglia Hilton, Salomon e la Kahatani Ltd., la società che aveva distribuito il nastro sul web. Nell'aprile del 2004 Salomon ha cominciato a distribuire lui stesso il nastro attraverso la società di film per adulti Red Light District Video con il titolo One Night in Paris. Dopo una nuova causa la Red Light District Video e Salomon hanno accettato di pagare alla Hilton 400.000 dollari più una percentuale sui profitti della vendita del nastro.

«Revenge porn», la vittima licenziata per danno d’immagine dall’azienda. Pubblicato mercoledì, 19 febbraio 2020 su Corriere.it da Ferruccio Pinotti. È stata licenziata da uno degli studi per i quali lavorava la donna bresciana di 40 anni vittima di revenge porn che aveva presentato una denuncia dopo che alcuni video hot privati sono diventati pubblici e virali. Il licenziamento sarebbe scattato per un «danno di immagine» e il datore di lavoro sostiene di ricevere chiamate da uomini che vogliono un appuntamento con la professionista «senza far riferimento alla problematica da affrontare e senza lasciare recapito telefonico». Dopo la denuncia della 40enne la Procura di Brescia nei giorni scorsi ha iscritto tre persone nel registro degli indagati e in un supplemento di denuncia la donna ha fornito altri nominativi e contatti di chi avrebbe contribuito a far girare i video allegando anche screen shot di chat di poliziotti e carabinieri nelle quali i video hot sono girati con gli uomini in divisa che hanno commentato senza però mai fermarne la diffusione. Da video intimi e privati, sono diventati pubblici e addirittura virali. Scatti e scene hot finiti su centinaia e centinaia di chat whatsApp che, condivisione dopo condivisone, hanno addirittura varcato i confini nazionali. E per la protagonista di quei filmati la vita si è trasformata in un incubo con telefonate di uomini addirittura arrivate da oltreoceano.

Vittima di «revenge porn» licenziata per danno di immagine: «È una lapidazione mediatica». Pubblicato giovedì, 20 febbraio 2020 da Corriere.it. Due volte vittima: dell’odiosa circolazione di video strettamente privati e del pregiudizio del datore di lavoro che ha interrotto la collaborazione a causa di un filmato intimo che ha iniziato a circolare su cellulari e siti porno, finendo perfino nelle chat delle forze dell’ordine. Quello di una professionista bresciana 40enne, sposata e con due figli, è un incubo che potrebbe mettere a dura prova chiunque, come dimostra la vicenda di Tiziana Cantone, suicidatasi nel 2016 proprio a causa di un «revenge porn». Tutto è iniziato quanto in rete è iniziato a circolare qualche video ripreso tre anni fa. Le immagini erano state inviate a un amico, che poi le ha girate ad altri due, che a loro volta hanno iniziato a farle circolare. Le immagini hanno fatto il giro del mondo, giungendo persino in Sudamerica e in Thailandia; sarebbero finite su siti porno (la Polizia postale sta verificandolo, per oscurarli). Sarebbero state anche mischiate a immagini di minorenni, alimentando quindi la rete pedofila. Il volto della signora era ed è riconoscibile e quel che è peggio è che ad esso era anche associato un numero di telefono. La vicenda era nata quando non esisteva ancora legge che punisce il «revenge porn». La professionista aveva una relazione da qualche mese con un uomo. Lui non era sposato, ma lei sì. Lei gli aveva inviato col cellulare alcuni video intimi, nel quale lui però non compariva. La storia era poi finita, apparentemente senza complicazioni. Ma quei video ricompaiono agli inizi di febbraio e subito diventano virali. I video fanno il giro del mondo. Un’amica avverte la professionista: «Guarda che girano dei tuoi video erotici, sei riconoscibile dalla faccia». Uno dei filmati arriva pure a un datore di lavoro delle donna, che si lamenta di ricevere in studio telefonate da uomini che vogliono un appuntamento con lei, senza specificare il motivo. Alla fine il datore di lavoro decide di interrompere la collaborazione professionale. Una decisione legata a questioni di immagine, una scelta che non appare motivata, dato che non viene messa in discussione la capacità professionale della signora ma solo un aspetto strettamente privato della sua vita. Su questi aspetti farà le sue valutazioni il Tribunale, perché la professionista non si arrende e attraverso il suo avvocato, Barbara Del Bono, sentita da La Stampa fa sapere: «Mi ha molto amareggiato vedere come viene usato questo video nei miei rapporti professionali. Per fortuna altri colleghi mi sono stati vicini. Altri studi con cui collaboro da anni mi hanno assicurato che per loro non cambia nulla. Anche le mie compagne di classe delle elementari mi hanno chiamato per dirmi che mi sono vicine». La sua avvocatessa ha dichiarato: «Vorrei che fosse chiaro a tutti che la mia cliente è una vittima di questa vicenda. Abbiamo presentato denuncia per appurare come sia stato possibile che quei filmati girati col telefonino siano finiti in pasto al mondo intero. Ma ci tuteleremo anche con quel datore di lavoro che non le ha rinnovato il contratto». La denuncia ora è in Procura, a Brescia. Nel registro degli indagati sono finiti in 3, l’ex amico che ha fatto girare il video e altri 2 che lo hanno reso virale. La signora è provata: «Mi trovo come in un frullatore, in una cosa molto privata che non dovrebbe interessare nessuno. Non riesco a credere che abbia fatto questa cosa, a distanza di così tanti anni, senza pensare a cosa mi avrebbe sottoposto». L’avvocato Barbara Del Bono ha precisato: «Noi non possiamo sapere se volontariamente questa persona abbia fatto girare i video che la mia cliente gli aveva mandato. Potrebbe aver perso il telefonino, glielo potrebbero aver anche hackerato...». Tutte cose che sarà la Procura a valutare. La vittima appare decisa a difendersi: «Sono sotto shock per quello che sto passando. Ma alla fine è soltanto la mia vita privata. Non c’entra nulla con le mie capacità professionali». Gli indagati rischiano, se saranno riconosciuti colpevoli, una pena da uno a sei anni di carcere e una multa fino a 14mila euro. La legge sul «revenge porn» approvata in via definitiva il 17 luglio 2019 introduce due fattispecie di reato diverse: la diffusione di immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate da parte di chi queste immagini le ha realizzate e da parte di chi le riceve e contribuisce alla loro ulteriore diffusione al fine di creare danno alle persone rappresentate. Sempre nel Bresciano, era diventato celebre il caso di Elisabetta Sterni, ragazza immagine in una discoteca padovana, che aveva deciso di denunciare pubblicamente l’accaduto dicendo: «Non diventerò la nuova Tiziana Cantone». Il dottor Andrea Rocchitelli, psicologo clinico e direttore del poliambulatorio Santa Crescenza a Milano, inquadra così la vicenda: «Quella che è avvenuta è una sorta di lapidazione psichica sul web: quella di usare le immagini date da un partner con cui si ha un rapporto di complicità e di fiducia è una nuova forma di violenza, che mette a repentaglio l’equilibro psichico. Un atto molto grave che può produrre una crisi totale, con una escalation di effetti che può andare da un’ansia profonda alla depressione, fino al suicidio». Se al trauma delle diffusione delle immagini si associano poi le difficoltà sul lavoro, spiega lo psicologo, «può seguire una fase di isolamento sociale, un circuito psichico problematico». Molto però dipende dal soggetto, precisa Rocchitelli: «I danni prodotti possono portare a estinguere la propria vita come è successo alla povera Tiziana Cantone o al vigile urbano accusato di una banale infrazione. Se però una persona ha un atteggiamento più portato alla condivisione dell’immagine i danni potrebbero essere inferiori o trasformati persino in battaglia personale». Il fatto che la signora in questione fosse sposata al momento in cui sono stati girati i filmati in come cambia le cose? «Essendoci di mezzo il marito e dei figli piccoli la coppia andrebbe aiutata e sostenuta da una psicoterapia».

Da leggo.it il 22 gennaio 2020. Una vera e propria telenovela, che è finita con quattro persone a processo: tutto iniziò quando due amanti di Altamura (Bari) furono immortalati durante effusioni intime nel mobilificio dell'uomo. Lui aveva una moglie, lei aveva un compagno: e sarebbero stati proprio questi ultimi due a coalizzarsi per vendicarsi di quel tradimento, facendo finire nei guai anche un familiare, l'autore materiale del video, e il gestore del canale YouTube dove fu diffuso il filmato. Quel video fu realizzato e diffuso in rete: ora i quattro saranno processati dinanzi al Tribunale di Bari per i reati, a vario titolo contestati, di interferenze illecite nella vita privata e diffamazione. A processo, dunque, sono finiti la moglie tradita, che dopo aver scoperto la relazione extraconiugale avrebbe architettato il piano diffamatorio, il fratello di lei che materialmente avrebbe girato il video e l'ex compagno dell'amante, che non aveva accettato la fine della loro relazione e per questo avrebbe poi diffuso il filmato in rete. La pm di Bari Savina Toscani ha disposto la citazione diretta a giudizio anche per il titolare del canale You Tube utilizzato per diffondere le immagini sul web. I fatti risalgono al novembre 2016. La moglie avrebbe scoperto di essere tradita e, aiutata dal fratello, con la complicità dell'ex compagno dell'amante, lo avrebbe seguito fin nel luogo in cui si incontrava con l'amante (un mobilificio) facendo filmare il rapporto sessuale con un telefono cellulare. Nelle ore successive il video fu diffuso attraverso Facebook e WhatsApp, diventando virale. Le presunte vittime della diffamazione lo scoprirono alcune settimane dopo, sporgendo querela, ma il video è circolato in rete per oltre un anno. La donna sarebbe stata costretta anche a cambiare città a causa di «centinaia di messaggi ingiuriosi» ricevuti in chat e per strada. Il processo inizierà l'8 giugno 2020 dinanzi al Tribunale monocratico di Bari.

Altamura, pubblicò online il video del marito con l'amante: in 4 processo. Le effusioni nel mobilificio di lui. La vendetta dopo il tradimento. La Gazzetta del Mezzogiorno il 21 Gennaio 2020. Realizzarono e diffusero in rete un video che immortalava una coppia di amanti di Altamura (Bari) durante effusioni intime nel mobilificio dell’uomo. La moglie di lui e l’ex compagno di lei si sarebbero coalizzati per vendicarsi del tradimento, facendo finire nei guai anche un familiare, autore del video, e il gestore del canale YouTube dove fu diffuso il filmato. Quattro persone saranno processate dinanzi al Tribunale di Bari per i reati, a vario titolo contestati, di interferenze illecite nella vita privata e diffamazione. Si tratta della moglie tradita la quale, dopo aver scoperto la relazione extraconiugale, avrebbe architettato il piano diffamatorio, il fratello di lei che materialmente avrebbe girato il video e l’ex compagno dell’amante, che non aveva accettato la fine della loro relazione e per questo avrebbe poi diffuso il filmato in rete. La pm di Bari Savina Toscani ha disposto la citazione diretta a giudizio anche per il titolare del canale YouTube utilizzato per diffondere le immagini sul web. I fatti risalgono al novembre 2016. La moglie avrebbe scoperto di essere tradita e, aiutata dal fratello, con la complicità dell’ex compagno dell’amante, lo avrebbe seguito fin nel luogo in cui si incontrava con l'amante (un mobilificio) facendo filmare il rapporto sessuale con un telefono cellulare. Nelle ore successive il video fu diffuso attraverso Facebook e WhatsApp, diventando virale. Le presunte vittime della diffamazione lo scoprirono alcune settimane dopo, sporgendo querela, ma il video è circolato in rete per oltre un anno. La donna sarebbe stata costretta anche a cambiare città a causa di «centinaia di messaggi ingiuriosi" ricevuti in chat e per strada. Il processo inizierà l’8 giugno 2020 dinanzi al Tribunale monocratico di Bari.

·        Il Maschicidio, il Femminicidio ed ogni abuso di genere.

Massimo Massenzio per il “Corriere della Sera” il 19 dicembre 2020. «Io ci sono cascata sei anni fa. È uno stupro emozionale e l'unica maniera per salvare altre donne da questa forma di violenza è trovare il coraggio di denunciare». Nel 2014 Jolanda Bonino, ex sindacalista torinese di 68 anni, è stata una delle prime vittime italiane di una truffa sentimentale e da allora, tramite il movimento «Acta», supporta le donne cadute nella rete dei corteggiatori informatici. Si tratta di un reato ancora poco conosciuto, anche se negli ultimi 6 anni Bonino stima che in Italia il giro di affari sia di circa 140 milioni di euro, con almeno 10 mila vittime, per il 97% di sesso femminile, agganciate dai gigolò online. «Non parliamo di donne fragili e inesperte - ribadisce Bonino -. Questi criminali sono in grado di farti vivere il tuo sogno, ma il loro obiettivo è spillarti quanto più denaro possibile». Dietro nomi di fantasia, foto e identità rubate si nascondono organizzazioni criminali con basi operative in tutto il mondo. Ieri mattina a Torino, dopo tre anni di indagini, il nucleo di polizia economico-finanziaria della Guardia di Finanza ha eseguito 15 ordinanze di carcerazione a carico di una banda composta da cittadini nigeriani e da un prestanome italiano. Gli indagati dell'operazione «Casanova» sono 50, inseriti in una struttura piramidale con compiti precisi. Fondamentale era il ruolo dei «conversatori», che su social network e siti di incontri, ma anche in innocenti forum, conquistavano le loro «prede» spacciandosi per agenti dei servizi segreti, piloti di aerei, comandanti di grandi navi, ingegneri petroliferi o militari impegnati all'estero. «Bonjour madame, mi chiamo Alex e sono un agente dell'Interpol». Con questo semplice messaggio uno dei truffatori ha irretito una manager in fase di separazione. La donna ha cominciato a chattare con il misterioso investigatore, che parlava tre lingue e le ha anche inviato il suo tesserino di riconoscimento: «Adesso mi credi amore mio?». Dopo settimane di contatti, senza mai incontrarsi di persona, le ha inviato una fotografia che lo ritraeva dietro le sbarre di una cella: «Il mio capo mi ha tradito, è un corrotto. Per uscire di prigione ho bisogno del tuo aiuto. Ti spiegherò tutto». Lo schema, però, poteva essere replicato inscenando la malattia del figlio: «Per favore dammi qualcosa, Ivan è molto malato, fallo per l'amore di Dio». Le vittime sono state centinaia (ma solo 12 hanno avuto il coraggio di confessarlo) e gli investigatori, guidati dal colonnello Enea Zanetti, le hanno individuate partendo da una transazione sospetta effettuata in una banca di Torino. Grazie a quella segnalazione i finanzieri hanno ricostruito una rete di riciclaggio in grado di accumulare 10 milioni di euro e ne hanno recuperati quasi un milione e mezzo. Una donna americana era arrivata a versare alla banda torinese oltre un milione in due anni, un'altra ha fatto un bonifico di mezzo milione al «suo» ingegnere bloccato in Africa da una rivolta. «Purtroppo è proprio quello che è successo a me - conclude Jolanda Bonino -. Mi stavo avvicinando alla menopausa e un certo Desir, ingegnere francese bloccato in Costa d'Avorio, mi ha conquistata. Quando chattavo con lui mi sentivo più bella e scoprire che era tutto falso è stato uno schiaffo tremendo. Io gli ho inviato solo 800 euro, ma ci sono donne che hanno perso anche la casa. È un reato subdolo, perché denunciando rischi di diventare vittima una seconda volta, ma non bisogna vergognarsi».

Pedofilia, anche una donna può essere la carnefice di un bambino. Le Iene News il 18 dicembre 2020. Spesso ci si immagina il pedofilo come un uomo ma purtroppo succede anche che la carnefice sia una donna. Veronica Ruggeri raccoglie la testimonianza di un giovane che ha denunciato una quarantenne perché avrebbe abusato di lui quando aveva solo 12 anni. “Mi aveva detto che mi amava e che pensava solo a me”, e così lo avrebbe prima isolato dagli amichetti e poi lo avrebbe violentato. Questa almeno è la storia che un giovane ha raccontato alla nostra Veronica Ruggeri, denunciando di esser stato vittima di una donna pedofila sua vicina di casa. Spesso quando ci si immagina un pedofilo si pensa che sia un uomo, ma non è sempre così: anche le donne possono esserlo. “Avevo 12 anni e lei ne aveva circa 40”, ci racconta il ragazzo. “Ricorderò per sempre come mi ha saputo manipolare e come ha abusato di me”. “Il pedofilo riconosce il bambino più fragile, più vulnerabile“, ci dice lo psicoterapeuta Fabrizio Quattrini. “Potrebbe diventare l’amico o il confidente, quindi sempre con una maggiore intimità tra bambino e adulto”. Ma c’è una differenza di genere: “Se l’uomo è schiavo di una meccanicità del sesso, la donna crea un legame più affettivo e sentimentale”. Questo purtroppo non toglie che anche una donna possa arrivare ad abusare sessualmente di un bambino. E, stando al suo racconto del giovane, sarebbe proprio questo il caso del giovane intervistato da Veronica Ruggeri. Anni dopo, realizzato quello che sarebbe accaduto, il ragazzo si è rivolto alla Caramella Buona, associazione di contrasto alla pedofilia, per avere aiuto e ha denunciato la sua vicina. Veronica Ruggeri ha cercato un confronto con questa donna: “Non è vero, assolutamente”, ha detto riguardo le accuse del ragazzo. La signora, autrice di un racconto in cui una donna sembra innamorarsi di un ragazzino e che ha con lui un rapporto sessuale, sembra per un momento farsi scappare che i protagonisti del racconto siano lei e il giovane. “Non è successo niente”, riafferma la donna. “Voglio che tutti sappiano quello che mi ha fatto, e soprattutto vorrei che altri bambini venissero protetti”, ci dice il ragazzo. Tutta la storia la potete vedere nel servizio qui sopra.

Dagospia il 21 novembre 2020. Riceviamo e pubblichiamo: Cronaca della Stampa, oggi: non so se propagare idee come queste sia più sessista, stupido o ridicolo. E questo branco di erinni si lamenta per il tramonto del dialogo fra i sessi,  della sessualità, del maschio, della libido...Meglio restare anonimi, che qui ormai ti sbranano vivo Le Baccanti erano nulla al confronto... Ma già, colpa dei maschi: Dioniso, Penteo... ecc. Ciao. Un lettore

Da “la Stampa - Cronaca di Torino” il 21 novembre 2020. Lia, Tina, Paola. Storie che capovolgono la rappresentazione collettiva della violenza maschile contro le donne, quella che scorre nei modi di dire e pensare. Mercoledì, alle 21 in streaming sui social del Circolo dei lettori, Lella Palladino presenta «Non è un destino», edito da Donzelli con Paola Turci. Palladino è sociologa femminista, attivista dei centri antiviolenza.

Come nasce il libro?

«Risponde a più bisogni: dare voce alle donne e a chi lavora nei centri antiviolenza, raccontare chi si incastra, esporre la metodologia dei centri e la differenza con il mondo dei servizi sanitari, sociali, di giustizia che spesso rivittimizzano. Siamo attenti a non ribaltare le responsabilità: se c' è un ladro e un derubato, nessuno ha dubbi sulla vittima. Con la violenza sulle donne c' è ambivalenza, il solito: te la sei cercata».

Cosa intende per incastro?

«Il primo, culturale, è dare valore infinito alla relazione: una donna non vale se non ha un marito o un compagno. Il secondo è la spirale della violenza. Comincia con la svalutazione. Lui dice: "non sei capace". Lei fa cose per non essere sgridata, si guarda con gli occhi dell' uomo maltrattante, si sente inadeguata».

C'è un tipo di vittima?

«Non esiste vittima e non vittima. Si pensa che la vittima sia fragile e con pochi strumenti cognitivi, economici ma non è così: ci sono donne indipendenti, laureate ma questo non vieta loro di incastrarsi in relazioni violente. Un uomo su 3 denigra la moglie e la tratta come oggetto di proprietà. Una donna su 3 è vittima. Tutte le donne sono a rischio vittima. Tutti gli uomini sono a rischio violenza. La differenza è nella consapevolezza».

Donne e uomini hanno gli stessi stereotipi?

«Sì, siamo permeati dalla stessa cultura. Cresciamo con l' idea che gli uomini siano padroni del mondo e le donne ancelle che si prendono cura dei figli, dei genitori, degli altri».

Come commenta il fatto della maestra d' asilo licenziata?

«Lo stereotipo di fondo è che alle donne il sesso non dovrebbe piacere. C'è un capovolgimento di responsabilità: è lui che ha commesso il reato».

Anziano uccise la moglie a coltellate: assolto perché in "delirio di gelosia". Per la Corte d'Assise l'uomo era incapace di intendere e di volere. Tiziana Paolocci, Giovedì 10/12/2020 su Il Giornale. L'epilogo della storia è di quelli che fanno indignare. Si celebra una volta l'anno la condanna verso ogni tipo di violenza contro le donne, poi la giustizia pende spesso dalla parte dei carnefici più che delle vittime. La Corte d'Assise di Brescia ieri ha assolto Antonio Gozzini, 80 anni, perché incapace di intendere e volere a causa di un totale vizio di mente per «un delirio di gelosia che ha stroncato il suo rapporto con la realtà e ha determinato un irrefrenabile impulso omicida». L'uomo un anno fa si è macchiato di omicidio, uno di quei delittacci che sconvolgono per giorni una cittadina intera. Il pensionato, che aveva lavorato come assistente di laboratorio, ha ucciso la moglie Cristina Maioli, 63 anni, insegnante di lettere all'Itis Castelli. Poi l'ha vegliata per ore. Il 4 ottobre 2019 ha spezzato quell'amore, nato tra le aule dell'Itis. Non avevano figli, ma erano molto legati. Lei aveva chiesto tre giorni di congedo per seguire il marito, che da tempo soffriva di depressione. E forse proprio nel corso dell'ennesima lite, in cui lei cercava di convincerlo a farsi aiutare, lui è stato assalito da un raptus incontrollabile. Quel pomeriggio ha atteso che la moglie si appoggiasse sul letto per riposarsi e l'ha tramortita con un mattarello. Poi l'ha colpita alla gola e alla testa con un coltello e si è tagliato le vene. Ma è stato salvato da un amico al quale aveva telefonato confessando il delitto. La difesa di Gozzini aveva chiesto l'assoluzione, ritenendolo incapace di intendere e volere al momento dell'omicidio, come riconosciuto dalla Corte, mentre il pm Claudia Passalacqua aveva chiesto l'ergastolo. In fase processuale, però, sia il consulente dell'accusa che quello della difesa avevano convenuto nel dire che l'anziano «era in preda ad un evidente delirio da gelosia che ha stroncato il suo rapporto con la realtà e ha determinato un irrefrenabile impulso omicida». E ieri è arrivata la sentenza inattesa, destinata a far discutere a lungo. «Siamo soddisfatti perché rispecchia quanto emerso nel dibattimento e cioè che il mio assistito non era capace di intendere e volere», ha ripetuto il legale dell'assassino, l'avvocato Jacopo Barzellotti. «Non sono solita commentare le sentenze - ha detto ieri la senatrice Monica Cirinnà - ma di fronte a un'assoluzione di un femminicidio per delirio di gelosia credo non si possa tacere. Sembra purtroppo un dejavù, un ritorno al passato, invece è la triste realtà. Aspetteremo ovviamente di leggere le motivazioni di questa sentenza, ma il senso sembra purtroppo chiaro e terribile: questo femminicidio non è stato riconosciuto come tale e un marito in preda alla gelosia può uccidere la moglie senza essere condannato all'ergastolo». Una «soverchiante tempesta emotiva e passionale determinata dalla gelosia» contribuì un anno fa a mitigare anche la responsabilità di un altro femminicidio, quello della moldava Olga Mateii. La Corte di assise di appello di Bologna ridusse da 30 a 16 anni la pena per Michele Castaldo, che l'aveva strangolato a mani nude la donna. Erano legati da una relazione di poche settimane.

Che cos'è il «delirio di gelosia» che ha reso possibile l’assoluzione dell’uxoricida di Brescia. Silvia Turin su Il Corriere della Sera il 10/12/2020. Come ha precisato in un secondo momento una nota dei giudici bresciani, si tratta di una patologia psichiatrica che può comportare uno stato di infermità che esclude l’imputabilità, come nel caso dell’ottantenne Antonio Gozzini. Ha suscitato polemiche la sentenza della Corte d’assise di Brescia che ha assolto per vizio totale di mente Antonio Gozzini, 80enne che un anno fa uccise la moglie Cristina Maioli, insegnante di scuola superiore che era stata poi vegliata per ore dal marito. La difesa dell’uomo aveva chiesto l’assoluzione ritenendo incapace di intendere e volere Gozzini al momento dell’omicidio, come riconosciuto dalla Corte, mentre il pm Claudia Passalacqua aveva chiesto l’ergastolo per omicidio volontario aggravato dalla premeditazione, dalla crudeltà e dal vincolo coniugale. Gozzini sarà collocato temporaneamente in una Rems (ovvero una struttura sanitaria di accoglienza per gli autori di reato affetti da disturbi mentali e socialmente pericolosi).

La nota chiarificatrice. La sentenza ha suscitato proteste davanti al palazzo di giustizia di Brescia e l’arrivo degli ispettori incaricati dal Ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, di svolgere accertamenti sul caso. Per questo dai giudici bresciani è arrivata una nota ufficiale che precisa i perché dell’assoluzione: «In attesa della stesura della motivazione della sentenza, serve tenere doverosamente distinti i profili del movente di gelosia, dal delirio di gelosia, quale situazione patologica da cui consegue una radicale disconnessione dalla realtà, tale da comportare uno stato di infermità che esclude, in ragione elementare principio di civiltà giuridica, l’imputabilità» dice la nota ufficiale del tribunale ordinario. Gozzini, in altri termini, è stato prosciolto perché ritenuto «incapace di intendere e volere» a causa di una patologia psichiatrica.

Che cos’è esattamente il «delirio di gelosia» in psichiatria?

«È un disturbo del contenuto del pensiero che di fatto produce una modificazione nel modo che l’individuo ha di accedere alla verità - risponde Giancarlo Cerveri, direttore del Dipartimento di Salute Mentale dell’Azienda Socio Sanitaria di Lodi -, nel senso che il soggetto soffre di una condizione in qualche modo pregiudiziale di conoscenza e di raggiungimento della verità a prescindere dai dati di realtà. Il “delirio di gelosia”, in particolare, è una condizione per cui, chi ne soffre, ritiene in maniera incrollabile e non criticabile che il proprio partner abbia dei comportamenti di tipo fedifrago e tutto questo viene supportato da qualunque elemento di realtà, che viene letto o in funzione di questa condizione pregiudiziale, oppure viene scartato. È una condizione molto diffusa, per esempio, tra gli alcolisti cronici».

Che cosa distingue la gelosia come movente da questa patologia? La comprensione dei dati di realtà?

«È qualcosa di patologico perché prescinde dalla realtà. La “capacità di intendere e di volere” è legata al singolo fatto ed è un provvedimento giuridico, non è una malattia, nel senso che il giudice stabilisce se il soggetto è punibile per l’atto criminoso: sicuramente il delirio conferisce un modo di accedere alla conoscenza che non è quello che si usa normalmente. È una conoscenza pregiudiziale rispetto alla conoscenza come la intendiamo. C’è una verità che è presente prima ancora di vedere il dato di realtà e quindi possiamo dire che gli elementi di realtà sono il confine che separa la gelosia dal “delirio di gelosia”. Gli elementi di realtà non sono utili a modificare i convincimenti dei soggetti e questo vale per tutte le forme di delirio (deliri a sfondo religioso o di grandezza compresi). In tutti questi casi l’elemento di realtà viene utilizzato per rinforzare la credenza delirante e mai utilizzato per demolirla».

Come si cura il «delirio di gelosia»?

«All’interno di una patologia complessa come la schizofrenia, per esempio, si cura con l’utilizzo di farmaci specifici, come gli antipsicotici; ci sono anche forme più attenuate che si chiamano “disturbi deliranti”, curati sempre con antipsicotici, che danno buoni risultati».

Luca Fazzo per ilgiornale.it il 5 novembre 2020. Ci aveva creduto, la signora F., che lo Stato sarebbe arrivato in suo soccorso. Come darle torto, dopo gli impegni solenni presi a ripetizione contro i femminicidi, le violenze di genere, lo stalking? Così un giorno di dicembre si presentò in Procura e denunciò l'uomo che aveva reso la sua vita un inferno. Sono passati otto anni, e la signora ha scoperto sulla sua pelle di avere sbagliato a fidarsi dello Stato. L'indagine non è mai nemmeno cominciata, il fascicolo non si è mosso dal tavolo del pubblico ministero, gli ordini inviati dal pm alla polizia si sono persi per strada. Quando la signora, attraverso il suo avvocato, ha chiesto notizie ufficiali sul suo fascicolo, ha scoperto che la Procura aveva chiesto l'archiviazione. Motivo: il reato era prescritto. Si è prescritto durante gli interminabili anni in cui nessuno ha mosso un dito. Tutto accade a Prato, con una appendice a Roma, davanti alla Corte Costituzionale: perché - ciliegina sulla torta - quando la signora ha chiesto almeno di venire risarcita per la durata assurda del processo, ha scoperto che, non essendo il processo in realtà mai iniziato, lei per legge non aveva diritto ad alcun indennizzo. Norma così assurda che la Corte d'appello di Firenze ha trasmesso d'ufficio gli atti alla Consulta, perché rimediasse. Si vedrà nei prossimi giorni cosa decideranno i giudici costituzionali. Ma intanto a lasciare basiti è quanto accaduto negli otto anni trascorsi dalla denuncia. E soprattutto, quanto non è accaduto. Dietro c'è una storia d'amore finita male tra due individui ormai non più giovani. A luglio del 2012, F. decide che non è più il caso di andare avanti. Ma quando lo comunica al compagno, si trova davanti ad una reazione brutale. Iniziano gli insulti, le telefonate a ogni ora del giorno e della notte, le minacce. Poi l'uomo passa alle vie di fatto. Una mattina, F. si trova le gomme dell'auto squarciate. Fino al giorno in cui l'uomo riesce ad intercettarla per strada, le mette le mani addosso, la colpisce spedendola in ospedale. La signora non si fa intimidire, e l'indomani va a denunciare l'aggressore, l'uomo che un tempo amava e che ora è divenuto il suo incubo. E poi? E poi più nulla. L'inchiesta non fa neanche finta di partire. Intanto le persecuzioni non sono finite, a gennaio F. deve presentarsi in Procura per raccontare a verbale che le chiamate minatorie continuano. Ma neanche questo smuove l'inchiesta. Agli atti risulta che il pm ha delegato a indagare la polizia. Ma ci sono atti sconcertanti con cui anni dopo la Questura risponde che le indagini non sono state fatte perché «la delega emessa da codesta autorità giudiziaria non risulta mai pervenuta a questa divisione», e il fascicolo in archivio risulta irreperibile. Il colmo si raggiunge quando si scopre che il fax con cui il pm ordinava alla polizia di mettere dei telefoni sotto controllo non è mai arrivato «perché questo mezzo di comunicazione è stato dismesso a favore della posta elettronica certificata». Ma questo lo si scopre molto tempo dopo. Nel frattempo in Procura non si sono chiesti come mai quel fax alla polizia fosse rimasto senza risposta? Eppure la vittima continua a farsi sentire, sollecitando il pm a muoversi: il 3 dicembre 2013 gli scrive, inviando copia dei referti medici sulle lesioni subite durante l'aggressione: non accade nulla. Il 17 marzo 2015, altra richiesta perché lo stalker venga inquisito: di nuovo nulla. Nel 2018, quando i reati sono ormai a ridosso della prescrizione, le chiedono: «Ma perché non ritira la querela?», modo elegante per chiudere il fascicolo senza che emergano le inspiegabili lungaggini dell'indagine. «Non ci penso neanche», risponde secca F. il 7 luglio alla polizia giudiziaria, ribadendo la sua richiesta che l'indagine finalmente si muova. Risultato: il 29 novembre 2018 le arriva una lettera dalla Procura di Prato: «si notifica, quale persona offesa, richiesta di archiviazione dalla Procura della Repubblica di Prato in quanto le violazioni ipotizzate risultano estinte per prescrizione».

Bloccano auto con due scooter. Poi lo stupro dei nordafricani. Orrore in provincia di Reggio Emilia: l'inseguimento, il pestaggio e le coltellate. Poi la furia sulla donna in una vigna. Federico Garau, Martedì 03/11/2020 su Il Giornale. Brutale aggressione con stupro in provincia di Reggio Emilia, una vicenda in seguito alla quale sono finiti in manette cinque individui (quattro uomini ed una donna) tutti di origini nordafricane: dovranno ora rispondere a diverso titolo delle accuse di lesioni aggravate, sequestro di persona, violenza privata e violenza sessuale. La coppia aggredita (entrambe le vittime sono di nazionalità marocchina) è stata fermata in auto da due scooter su cui si trovavano gli assalitori i quali, dopo aver arrestato la corsa del veicolo, si sono scagliati contro i loro obiettivi. Un pestaggio in piena regola, con pugni e calci, a cui hanno fatto seguito anche delle coltellate. L'uomo, un 34enne residente a Sorbolo di Parma, è stato abbandonato sul ciglio della strada in un lago di sangue mentre la compagna di 37 anni è stata letteralmente trascinata fino ad una vigna e poi stuprata all'interno di un edificio nelle immediate vicinanze. A causa di questo efferato crimine, i carabinieri di Correggio e Novellara, con la preziosa collaborazione dei colleghi del reparto operativo di Reggio e di Guastalla, hanno fatto scattare le manette ai polsi dei cinque responsabili. Si tratta, per la precisione, dei due clandestini Mustapjha Fadli e Rafik Fadli (rispettivamente di 29 e 24 anni, entrambi residenti a Correggio), del 26enne residente a Noceto di Parma Abdeljabar Lahoudigad, del 43enne abitante di Sant'Ilario Mohamed Benabbou e della 25enne di Montichiari (provincia di Brescia) Ghizlane Hassouni. Le indagini per risalire alle motivazioni alla base di un'aggressione di tale violenza sono tuttora in corso. Parrebbe accertato, tuttavia, il fatto che entrambe le vittime conoscessero gli assalitori. A causa delle lesioni riportate, i due feriti sono stati condotti dapprima all'ospedale di Guastalla (provincia di Reggio Emilia) e quindi trasferiti e ricoverati al Maggiore di Parma. Secondo le ricostruzioni effettuate dagli inquirenti, la banda sarebbe entrata in azione intorno alle ore 23:30 di ieri, lunedì 2 novembre: i nordafricani avrebbero raggiunto le due vittime all'altezza di via Frassinara (tra Novellara e Correggio) a bordo di due motocicli Dopo aver bloccato il mezzo a bordo del quale si trovavano i marocchini, sarebbe scattato il pestaggio. Prima calci e pugni, poi coltellate inferte al volto ed alle gambe di entrambi. Dopo aver abbandonato l'uomo a terra sul posto, gli aggressori hanno obbligato la compagna a salire a bordo di uno dei due scooter per raggiungere una casa nelle vicinanze di una vigna. Ad attenderla la 25enne Ghizlane Hassouni la quale, unitamente ai 4 complici avrebbe partecipato attivamente alle violenze nei confronti della marocchina. Le grida disperate della donna hanno attirato l'attenzione di un passante, grazie al quale è potuto scattare l'allarme: giunti all'altezza di via Canolo, i militari dell'Arma sono riusciti ad agire in tempo per bloccare tutti i responsabili: nell'edificio, a riprova ulteriore delle violenze, sono stati rinvenuti abiti intrisi di sangue della donna ed oggetti di sua proprietà, oltre che coltelli e strumenti usati durante le sevizie.

Lei gli regala un panino, come ringraziamento il nigeriano la stupra. Contro di lui 4 espulsioni mai eseguite. Gigliola Bardi sabato 31 Ottobre 2020 su Il Secolo d'Italia. Un gesto gentile ricambiato con uno stupro. È successo a una donna di Como, violentata ieri sera in un parcheggio dallo straniero cui aveva appena regalato un panino. L’uomo, un nigeriano di 31 anni senza fissa dimora e irregolare sul territorio italiano, ha a carico quattro ordini di espulsione mai eseguiti. Dopo aver fatto la spesa, la donna ha regalato il panino allo straniero fermo davanti al supermercato. Poco dopo essere andata via, però, si è accorta che l’uomo la stava seguendo, finché nelle vicinanze di un parcheggio l’uomo l’ha spinta contro la recinzione e l’ha violentata. La scena è stata vista da un residente della zona, che ha subito chiamato la polizia, consentendo agli agenti di fermare l’uomo in flagranza. L’aggressore, arrestato, è risultato essere un ex richiedente asilo, con permesso di soggiorno scaduto nel 2016 e con a carico quattro ordini di espulsione mai eseguiti. Inoltre, è risultato che l’uomo aveva già precedenti per percosse e violazione delle leggi sull’immigrazione. La donna, dopo essere stata soccorsa, è stata portata all’ospedale Sant’Anna di Como.

L'ultima follia firmata dal Pd: "criticare" la moglie sarà reato. Ecco perché. Dubbi sul disegno di legge della Commissione sul femminicidio presentato in Senato. Alcuni dei nuovi questionari Istat sulla violenza domestica sono assurdi. Valentina Dardari, Venerdì 23/10/2020 su Il Giornale. Dovrà stare attento il marito che si lamenterà in futuro della propria moglie. Criticarla potrebbe infatti diventare reato ed essere classificato come violenza di genere. Questo si intuisce dal disegno di legge della Commissione sul femminicidio presentato in Senato.

Il marito è avvertito. La proposta dovrebbe essere approvata il prossimo martedì, poi non potrà più essere modificata in aula. Sarà infatti riservato all’aula solo il voto degli articoli e il voto finale sul provvedimento, senza possibilità di apportare modifiche rispetto al testo approvato in commissione. La Verità ha sottolineato che c’è un qualcosa di morboso nel Ddl, che va al di là dell’emergenza concreta e della constatazione delle pressioni, pesanti, che riportano all’importanza sociale del tema in sé. La prima firmataria è Valeria Valente, senatrice del Pd e Presidente della Commissione d'inchiesta sul Femminicidio, che sembra volere, con questo disegno di Legge, entrare nelle abitazioni dei cittadini e decidere riguardo i comportamenti tenuti dal marito in casa e il suo stile di vita, più che a episodi di violenza veri e propri. Nel progetto legislativo si prevede che gli uffici, gli enti o gli organismi che partecipano all’informazione statistica ufficiale, inserita nel programma statistico nazionale, forniscano dati e notizie sulle persone disaggregati per uomini e donne, assicurando anche l’uso di indicatori sensibili al genere.

La funzione dell'Istat. Nel Ddl, all’articolo tre, si legge che ogni 3 anni l’Istat “dovrà realizzare un'indagine campionaria interamente dedicata alla violenza contro le donne che produca stime anche sulla parte sommersa dei diversi tipi di violenza, ossia fisica, sessuale, psicologica, economica e stalking, fino al livello regionale”. L’Istat dovrà quindi accertare le percentuali del fenomeno sociale in funzione di nuovi provvedimenti. Diversi i quesiti che verranno posti solo alle donne, da quelli attinenti e doverosi, come per esempio alla domanda se un uomo abbia minacciato o preteso con la forza un rapporto sessuale, ad altri meno usuali. Verrà chiesto alla donna se il proprio marito o compagno si arrabbia quando lei parla con un altro uomo, o se il congiunto osa muovere qualche critica su trucco e parrucco adottato dalla donna. O ancora, se critica la sua capacità di cucinare, ha dubbi sulla sua fedeltà oppure se le vieta di usare il bancomat, magari perché la dolce metà non è molto accorta sulle spese che effettua. Se l’intervistata risponde sì iniziano i guai per l’uomo, che diventa a questo punto un violento per legge. C’è anche un riferimento all’attenzione mostrata dal compagno alla donna mentre parla. Guai a ignorare cosa dice la propria signora, le sbarre sono dietro l’angolo. Da che mondo e mondo, anche nelle vignette umoristiche, si è sempre saputo che spesso il marito non ascolta la consorte e fa orecchie da mercante.

Giorgio Gandola per “la Verità” il 25 ottobre 2020. La moglie fa bruciare il capretto pasquale e il marito si lamenta: è violenza di genere. La fidanzata indossa una minigonna inguinale con stivali sadomaso e chiede al compagno: «Come sto?». Se la risposta è: «Male, per favore mettiti qualcosa di più consono per una visita medica», è violenza di genere. C' è qualcosa di morboso e occhiuto nel disegno di legge della Commissione sul femminicidio presentato in Senato, che dovrebbe essere approvato martedì prossimo e non sarà più possibile modificarlo in aula. Qualcosa che va oltre un' emergenza concreta, oltre la constatazione dei reati e delle pesanti pressioni psicologiche che danno al tema un' oggettiva importanza sociale. C' è qualcosa di ideologico nel testo che ha come prima firmataria Valeria Valente del Pd e che pretende di entrare nelle nostre abitazioni, pure in camera da letto senza chiedere permesso, e giudicare comportamenti più attinenti allo stile di vita, all' intima armonia delle coppie che alla violenza in senso stretto. L'argomento è delicato, banalizzare significa commettere l' errore opposto rispetto al criminalizzare, anche perché la linea di demarcazione è sfumata. Ma ai senatori questa volta è slittata la frizione, sembrano più voyeur che legislatori e confermano una preoccupante sensazione davanti a molte decisioni di questo governo: l' avanzata dello Stato etico che pretende di codificare anche l' incodificabile. La volontà di regolare la vita dei cittadini - antico mito della sinistra dirigista - diventa esplicita quando il disegno di legge, all' articolo tre, mette nero su bianco che l' Istat «dovrà realizzare con cadenza triennale un' indagine campionaria interamente dedicata alla violenza contro le donne che produca stime anche sulla parte sommersa dei diversi tipi di violenza, ossia fisica, sessuale, psicologica, economica e stalking, fino al livello regionale». In pratica l' istituto di rilevazione statistica dovrà accertare le percentuali del fenomeno sociale in funzione di nuovi provvedimenti. E in questo contesto vengono proposti i quesiti che Gian Carlo Blangiardo e i suoi ricercatori dovranno porre solo alle donne. Accanto a quelli più scientificamente attinenti al tema e del tutto legittimi (È mai capitato che un uomo abbia minacciato di colpirla fisicamente, l' abbia forzata ad avere un rapporto sessuale, l' abbia indotta anche se non ne aveva voglia? e tanti altri doverosi) ci sono alcune domande semplicemente surreali. Lui si arrabbia se lei parla con un altro uomo? La critica per come si veste o si pettina? La critica per come cucina? Ha dubbi sulla sua fedeltà? Le impedisce l' uso della carta di credito? Magari la signora ha le mani bucate, ma se la risposta è «sì» il compagno diventa un violento per legge. Sembra che l' impressionismo di certi quesiti contenuti nel Ddl sia studiato apposta per innalzare in modo esponenziale le percentuali delle vittime di violenza domestica (tutto nel calderone), trasformando una legge che ha lo scopo principale di contrastare una pratica odiosa e incivile in un pruriginoso vaudeville o in una pellicola trash anni Settanta con Alvaro Vitali. Fra le pratiche proibite ce n' è una particolarmente impegnativa, sintetizzata dalla domanda: «La ignora quando parla?». E qui siamo nel classico della gag con Sandra Mondaini e Raimondo Vianello a letto con la Gazzetta dello Sport. Mariti e figli maschi italiani, non costringete la mamma e la moglie a dire: «Questa casa non è un albergo». Secondo la senatrice Valente e altri 18 potreste rischiare la galera.

Nicola Pepe per “La Gazzetta del Mezzogiorno” il 25 ottobre 2020. Lei una ragazza ingestibile, che amava la libertà, la bella vita e le discoteche ed era già matura a tal punto da far sesso a soli 13 anni. Lui, maggiorenne, invaghito, a tal punto da ospitare la fidanzatina a casa sua anche di notte ignorando la sua età. Per la legge lui andrebbe condannato, ma per il tribunale non ha commesso alcun reato. Il dispositivo della sentenza di assoluzione del tribunale di Bari già lascia intravedere una motivazione che farà discutere. Il collegio di tre donne, presieduto da Rosa Calia Di Pinto, ha assolto con una doppia formula piena (per una parte «perchè il fatto non costituisce reato», per il resto «perchè il fatto non sussiste»), un giovane incensurato - ora 23enne ma alle epoca dei fatti 19enne - accusato di atti sessuali nei confronti di una ragazzina infra quattordicenne, 13enne, con la quale ha trattenuto un relazione per diversi mesi. La legge è chiara: fare sesso con una minore di 14 anni è reato. Per l'imputato, il pm aveva chiesto una condanna a 4 anni di reclusione. Ma il tribunale l'ha pensata diversamente. La storia si intreccia con quella due famiglie apparentemente normali, una che vive al quartiere Japigia l'altra al Libertà. Lui, appena 19enne, dimostra qualche anno in meno; lei, giovane studentessa, al contrario sembra già matura e a quei 13 anni bisogna aggiungerne qualcuno. Lui infatti ignora l'età della ragazza ritenendola più adulta, iniziano a frequentarsi e dopo qualche settimana il rapporto culmina in atti sessuali, e ripetuti, «assolutamente consenzienti» come confermerà la ragazza in un secondo momento. La storia - siamo verso la fine del 2015 e l'inizio del 2016 - va avanti fino a quando i genitori della 13enne, che nel frattempo si sono separati, presentano una denuncia alle autorità. La giovane sulle prime non parla e si chiude nel silenzio, quindi una iniziale richiesta di divieto di avvicinamento viene respinta dal gip che ritiene insufficiente la sola dichiarazione indiretta della madre cui si era confidata la presunta vittima che però non parla. A marzo, però, il gip emette un provvedimento cautelare: stavolta ci sono anche le dichiarazioni della ragazza che però ammette di aver fatto sesso più volte con il ragazzo, ma in modo assolutamente consenziente e «protetto» preciserà durante un interrogatorio. Infatti, la madre confessa agli inquirenti di non essere in grado di gestire la ragazza che non torna più a casa e trascorre le notti a casa del «fidanzato». Per il giudice ci sono tutti gli indizi per confermare una misura di allontanamento. Ma fra i due la relazione continua e poi la troncano per una fedeltà «compromessa». Tutto ciò avviene comunque quando la ragazza ha ancora 13 anni visto che la soglia dei 14 li raggiungerà nell'estate successiva (del 2016). Il processo è giunto a conclusione l'altro giorno con un epilogo che ha soddisfatto la difesa dell'imputato (rappresentata dagli avvocati Gianluca Loconsole e Alessia Giunta) e spiazzato l'accusa (in aula il pm Angela Morea) che aveva chiesto una condanna a 4 anni. Il Tribunale, con una motivazione che sarà resa nota nei prossimi tre mesi, ha infatti assolto il giovane perchè il fatto non costituisce reato per il periodo in cui non era a conoscenza dell'effettiva età della ragazza; e perchè «il fatto non sussiste» per il periodo successivo. Cosa abbia portato il tribunale a decidere così, lo si scoprirà con il deposito delle motivazioni.

Venne ucciso con 57 coltellate da figli e moglie. "Niente crudeltà". Redazione, Mercoledì 21/10/2020  su Il Giornale. Pietro Ferrera fu ucciso con 57 coltellate, ma il gup del tribunale di Palermo Guglielmo Nicastro esclude che i figli e la moglie, i suoi tre assassini, abbiano agito con crudeltà. È uno dei passaggi della motivazione della sentenza, con cui Vittorio e Mario Ferrera, di 23 e 22 anni, e la madre Salvatrice Spataro, detta Ilenia, furono condannati a 14 anni a testa, il 14 febbraio. Il giudice Nicastro, che ha accolto le tesi e le richieste dei pm Gianluca De Leo e Giulia Beux, ha escluso la legittima difesa e applicato la circostanza aggravante dell'avere assassinato il proprio genitore e marito. Non c'è però la crudeltà, così come sostenuto dagli avvocati Giovanni Castronovo e Simona La Verde. «È vero - afferma - che gli imputati scagliavano un numero elevato di coltellate alla vittima e tuttavia così agivano per portare ad integrale compimento l'azione omicidiaria in pochi minuti, non riscontrandosi quindi nella loro condotta alcuna significativa e colpevole eccedenza rispetto alla contingente modalità omicidiaria prescelta». Erano disperati e convinti che una semplice denuncia potesse mettere fine a una vita infernale, botte, violenze, umiliazioni e che l'omicidio fosse l'unica soluzione. Il gup Guglielmo Nicastro ritiene che tutte le sofferenze subite non possano costituire né un'attenuante né un'aggravante della crudeltà perché l'omicidio è avvenuto in meno di cinque minuti. Era stata proprio la donna a chiamare il 118 e raccontare di aver colpito il marito, ex militare in pensione di 45 anni. «Venite subito - aveva detto - ho colpito con diverse coltellate mio marito mentre dormiva, accanto a me c'è mio figlio, è tutto insanguinato».

Ancona, verdetto ribaltato per stupratori assolti perché la vittima "era mascolina". La Repubblica il 19 ottobre 2020. In primo grado erano stati condannati, ma poi il collegio giudicante di sole donne aveva accolto le tesi della difesa, secondo cui i rapporti erano consensuali. Ora accolto il ricorso della parte civile e della procura generale del capoluogo marchigiano. La Corte d'appello di Perugia ha ribaltato la decisione della stessa corte di Ancona, dopo rinvio in Cassazione, e gli stupratori vengono condannati. Ad Ancona, infatti, due giovani sudamericani erano stati assolti dall'accusa di aver stuprato una ragazza peruviana a Senigallia, con un verdetto che faceva riferimento all'aspetto fisico della vittima che, nelle motivazioni della difesa, "sembrava un maschio" e quindi non sarebbe stata attraente da giustificare un interesse sessuale. La decisione della Corte d'appello marchigiana aveva fatto scalpore, anche perché il verdetto era stato pronunciato da tre giudici donne. Gli imputati in primo grado erano stati condannati a cinque e tre anni per violenza sessuale, ma tra le motivazioni per l'assoluzione la sentenza d'appello diceva: "la ragazza neppure piaceva, tanto da averne registrato il numero di cellulare sul proprio telefonino con il nominativo "Vikingo" con allusione a una personalità tutt'altro che femminile quanto piuttosto mascolina". Poi la chiosa: "Come la fotografia presente nel fascicolo processuale appare confermare". I fatti risalgono a marzo 2015. La 22enne peruviana si era recata in ospedale con la madre dicendo di essere stata stuprata, pochi giorni prima, da un coetaneo, mentre un amico faceva il palo. Gli imputati si erano sempre professati innocenti, sostenendo che i rapporti erano consensuali. Nel 2016 erano stati condannati in primo grado, ma assolti in appello nel novembre 2017. La parte civile e la Procura generale di Ancona avevano fatto ricorso in Cassazione, accolto con rinvio alla Corte di appello di Perugia, che oggi li ha ritenuti colpevoli, confermando la condanna di primo grado.

Caterina Galloni per "blitzquotidiano.it" il 10 ottobre 2020. Una storia straziante dietro al mistero di una donna scomparsa da due anni, scoperta da un pescatore mentre galleggiava in mare fortunatamente viva. Angelica Gaitan, 46 anni, è stata trovata al largo delle coste della Colombia da Rolando Visbal. Era in stato di incoscienza e d’ipotermia. Angelica è stata trovata a circa tre km da una spiaggia di Puerto Colombia, sulla costa atlantica del paese. I pescatori inizialmente hanno individuato quello che credevano fosse un tronco che galleggiava nel mare fino a quando Angelica non ha alzato le mani per chiedere aiuto, come ha riferito La Libertad. Le sue prime parole dopo essere stata salvata:”Sono nata di nuovo, Dio non voleva che morissi”. È stata portata a riva. la gente del posto si è presa cura della donna che è poi stata ricoverata in ospedale. La famiglia ha raggiunto Angelica quando gli investigatori hanno iniziato a capire cosa esattamente ha fatto negli ultimi due anni. Quando è stata finalmente in grado di parlare, ha rivelato una storia straziante. Era scappata di casa dopo 20 anni di violenze che subiva per mano del partner, anche mentre era incinta, e aveva perfino tentato di ucciderla. Prima di cercare aiuto e di essere ospitata in un rifugio, ha vissuto sei mesi a Barranquilla. Ma secondo quanto riferito, è stata costretta ad andarsene perché il compagno non viveva più nella città. “Non volevo continuare a vivere. Una signora mi ha prestato i soldi per il biglietto e ho preso un autobus diretto al mare”, ha detto. “Volevo porre fine a tutto, non ho avuto aiuto da nessuno, nemmeno dalla mia famiglia. Quest’uomo mi teneva lontano dalla mia cerchia sociale, ecco perché non volevo continuare a vivere”. Angelica ricorda “di essersi tuffata in mare sperando che l’incubo finisse”. Non ricorda niente. “L’uomo che mi ha salvato mi ha detto che ero incosciente e stavo galleggiando”. “Grazie a Dio ero viva e mi ha dato un salvagente. Mi hanno portato in un ospedale dove mi stanno curando”. Secondo La Libertad, la famiglia l’ha sentita l’ultima volta nel 2018, quando è partita per andare in Ecuador a vivere con il fratello. Il giornale riporta inoltre che Angelica sostiene che dopo aver subito gli abusi la famiglia l’aveva abbandonata.

Chiuse in casa col carnefice: femminicidi triplicati durante il lockdown. Le Iene News il 26 settembre 2020. Il dossier sulle attività criminali nel 2020 del ministero dell’Interno: negli 87 giorni di lockdown i femminicidi sono stati tre volte più numerosi del periodo senza restrizioni. Femminicidi triplicati durante il lockdown. Il dato terribile è contenuto nel report Dossier Viminale, presentato dal Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica presieduto dalla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese. Nei mesi di convivenza forzata tra le pareti domestiche c’è stato in media un femminicidio ogni due giorni. La relazione analizza il periodo che va dal 9 marzo al 3 giugno, contando 58 omicidi in ambito affettivo-familiare di cui 44 hanno avuto per vittima una donna. Un dato che va di pari passo con l’aumento dei reati in generale, nonostante la “reclusione” forzata a casa: +41% per le rapine, +13% per i furti, gli omicidi in generale che sono passati da 0,6 al giorno a 1,2. Ma sono i delitti contro le donne, come abbiamo detto, a preoccupare maggiormente. Oltre il 53% degli omicidi avviene In generale in ambito familiare e di questi quasi il 70% ha per vittima una donna. Vi abbiamo raccontato proprio di uno di questi tragici episodi, il femminicidio avvenuto alle porte di Milano, a Trucazzano. La vittima, Alessandra Cità, aveva 47 anni e faceva l’autista dell’Atm, da due  settimane era stata costretta a convivere per la quarantena con il compagno che voleva lasciare. L’uomo, che si è poi presentato nella caserma di Cassano d'Adda, ha confessato di averla uccisa sparandole alla testa con il fucile regolarmente detenuto in casa. E’ diventato purtroppo un simbolo della violenza sulle donne durante la quarantena anche un video che vi abbiamo mostrato. Nelle immagini, condivise sui social, si vede una donna che suona il flauto dal terrazzo e viene bruscamente interrotta e aggredita da un uomo con cui vive. Su questa storia ha indagato poi in onda la nostra Veronica Ruggeri con il servizio che potete vedere cliccando qui). Purtroppo virali, durante il lockdown sono diventate anche le immagini di altre violenze subite da una donna da parte del suo convivente. E infine, pochi giorni fa, dopo aver parlato di questo allarme nelle interviste con la psichiatra Nicoletta Gosio e con lo psicoanalista Maurizio Montanari, vi abbiamo raccontato la tragedia di Maria Paola Gaglione, la 20enne morta dopo uno scontro in motorino con il fratello, che l’avrebbe speronata perché contrario alla sua relazione con un ragazzo trans. Continuando a denunciare le violenze di genere che purtroppo continuano anche dopo la quarantena.

Milano, sconto di pena per lo stupro: "Lui mite, lei troppo disinvolta". La sentenza che fa discutere. Libero Quotidiano il 18 settembre 2020. Una sentenza che fa discutere. E parecchio. La sequestra, la chiude nella loro roulotte, la pesta e la violenta fino alle 7 del mattino, quando arrivano i carabinieri allertati dalla figlia. Già, perché lo stupratore era il compagno della donna massacrata. Del caso dà conto il Corriere della Sera, che svela come l'uomo sia stato condannato in Tribunale a Monza, con rito abbreviato, a 5 anni. Ma non è tutto: ora a Milano la Corte d'Appello ha abbassato la pena a 4 anni e 4 mesi. Ma ciò che fa discutere è quanto è stato messo nero su bianco nelle motivazioni del verdetto, dove si insiste su "un contesto familiare degradato" e "caratterizzato da anomalie quali le relazioni della donna con altri uomini". E ancora, per i giudici, l'intensità del dolo dei reati di cui è accusato l'uomo va attenuata dal fatto che lo stupratore sia "mite" ed "esasperato dalla condotta troppo disinvolto della donna", una condotta che "aveva passivamente subìto sino a quel momento". Insomma, sconto di pena allo stupratore perché lei era "troppo disinvolta". I fatti risalgono all'8 giugno 2019, quando poco prima della mezzanotte, a Vimercate, provincia di Monza, l'uomo - un romeno di 63 anni - ha iniziato a insultare e a inveire contro la convivente, di 43 anni, a cui "imputava  tradimenti con uomini conosciuti su Facebook". Dunque le minacce di morte,. un coltello puntato al viso, il telefonino strappato di mano alla donna e scagliato via, le botte con un tavolino di legno, pugni in faccia mentre lei urla, lo implora di fermarsi. Ma niente: schiaffi, altri pugni anche alla schiena, dunque la tracina per i capelli e la butta sul letto. Lei lo implora ancora e lui urla: "Di qua non esci viva . A quel punto, lo stupro, il tutto nella roulotte dove i due vivevano. Poche ore fa, lo sconto di pena...

Luigi Ferrarella per corriere.it il 17 settembre 2020. L’aveva sequestrata per una notte nella loro roulotte, picchiata e violentata fin quando alle 7 del mattino erano arrivati i carabinieri allertati dalla figlia, e per questi reati era stato condannato in Tribunale a Monza in rito abbreviato a 5 anni. Che ora a Milano la Corte d’Appello abbassa a 4 anni e 4 mesi con un verdetto nel quale, più della limatura di pena in sé, risalta la motivazione: e cioè l’idea che, in un «contesto familiare degradato» e «caratterizzato da anomalie quali le relazioni della donna con altri uomini», l’intensità del dolo di quei tre reati sia attenuata dal fatto che l’uomo «mite» fosse stato «esasperato dalla condotta troppo disinvolta della donna», condotta «che aveva passivamente subìto sino a quel momento». Poco prima della mezzanotte dell’8 giugno 2019 a Vimercate (Monza) il 63enne imputato romeno, insultando e inveendo contro la 43enne connazionale convivente alla quale «imputava tradimenti con uomini conosciuti su Facebook», la minaccia di morte, le punta un coltello al viso, le strappa di mano e getta il telefonino a terra, la percuote con un tavolino di legno, la prende a pugni al viso e all’occhio sinistro mentre lei urla «ti prego fermati», la schiaffeggia a mano aperta, le assesta altri pugni al mento e alla schiena «così forti da farle mancare il fiato», la trascina per i capelli e la getta sul letto. Lei lo implora di lasciarla andare, lui le risponde «di qua non esci viva», lei lo supplica di non violentarla ma lui la aggredisce, imponendole atti sessuali. La I Corte d’Appello milanese condivide con i giudici monzesi di primo grado l’esistenza di «una prova granitica e davvero consolidata», e l’esattezza giuridica dell’imputazione di sequestro. Il ricorso, scrivono invece la giudice relatrice Francesca Vitale con il presidente Marco Maria Maiga e la collega Elena Minici, «può trovare accoglimento limitatamente» alla «doglianza» sull’«eccessività del trattamento sanzionatorio». Concordando con il difensore Monica Sala sul dover tenere conto del «contesto familiare e sociale», per i giudici «vale la pena di ricordare» che quel contesto «era caratterizzato da anomalie quali le relazioni della donna con altri uomini, dall’imputato quasi favorite o comunque non ostacolate» finché lei «rimase incinta di un altro soggetto». Inoltre, dagli atti difensivi sul percorso intrapreso in carcere, «emerge» che l’imputato è «soggetto mite e forse esasperato dalla condotta troppo disinvolta della convivente, che aveva passivamente subìto sino a quel momento». Il che, «se certo non attenua la responsabilità», per i giudici «è tuttavia indice di una più scarsa intensità del dolo, e della condizione di degrado in cui viveva la coppia».

Vicenza, l'anziano preso a calci in faccia: "Salvarla era un obbligo". Ma la vittima: "Il mio Alberto non ha fatto niente". Libero Quotidiano il 17 settembre 2020. Ora parla Vittorio Cingano, il 73enne preso a pugni e calci in faccia dallo spacciatore di origine ungherese a Vicenza. Si parla del video che ha sconvolto l'Italia: il pensionato che interviene per difendere la fidanzata che il bruto stava tenendo per il collo e questo che aggredisce il signore con una violenza selvaggia, orribile, terrificante. Vittorio ha rischiato grossissimo. "Lo so. Ma  non c’era scelta: era mio dovere intervenire", spiega in un'intervista al Corriere del Veneto.  L'aggressore, un 25enne, per inciso è stato arrestato con l'accusa di lesioni aggravate dai futili motivi, dalla crudeltà e dalla minorata difesa. Le immagini del video parlano da sole. Eppure per Carolina, la fidanzata del balordo, di 31 anni, "Alberto non ha fatto niente". Alberto, ovviamente, è la bestia che ha pestato Cingano. Assurdo, se si considera che l'anziano era intervenuto per difenderla. "Passavo di lì, ho visto quel tizio che stava aggredendo una ragazza. La prendeva a schiaffi, le stringeva la mano al collo, inveiva contro di lei...", racconta dall'ospedale dove è ricoverato, con una prognosi di 45 giorni.  E ancora, prosegue nel suo racconto: "Saranno state le 5 del pomeriggio, stavo camminando quando ha sentito le grida di quei due che litigavano e ho visto lui che le metteva le mani addosso. Mi sono avvicinato, gli ho detto: ma che combini? E questo non ha aperto bocca, è venuto verso di me e... bum! Mi ha steso con un pugno. Poi sono arrivati i calci e tutto quello che si vede nel video. Per fortuna i poliziotti sono eccezionali e in pochi minuti l’hanno arrestato - sottolinea -. Ora spero arrivi una condanna severa, che serva da monito", rimarca. Infine, quando gli ricordano come il caso stia diventando anche politico, Vittorio Cingano risponde: "Ho letto che sta montando un putiferio intorno a quello che mi è accaduto. Ecco, mi pare tutto un po’ assurdo. Lo ripeto: ciò che ho fatto, difendere qualcuno che si trova in difficoltà, dovrebbe essere la normalità. Anche per i politici". Una bellissima lezione.

Da lastampa.it il 13 settembre 2020. E' stata inseguita e speronata dal fratello per una relazione con Ciro, un ragazzo trans, è caduta dallo scooter sul quale viaggiava ed è morta. E' questo l'origine dell'incidente avvenuto nel Napoletano, nel quale è deceduta Maria Paola Gaglione, 22 anni, mentre il compagno è rimasto ferito e, ancora sanguinante per terra, è stato anche picchiato dal fratello della vittima, Michele Antonio Gaglione, 25 anni, fermato dai carabinieri. Maria Paola e il fidanzato l'altro ieri sera erano in viaggio da Caivano ad Acerra quando sono stati raggiunti dal giovane, anch'egli a bordo di uno scooter, che ha tamponato con violenza il mezzo provocando la caduta dei due. Maria Paola è morta all'istante mentre il fidanzato è rimasto ferito; ancora a terra è stato picchiato da Antonio Gaglione che gli ha rivolto l'accusa di aver plagiato la sorella. Il giovane ferito è stato portato in una clinica della zona, le sue condizioni non sono gravi. La presidente dell'arcigay di Napoli, Daniela Falanga, ha scritto in un post su Facebook che «la madre di Ciro grida il suo dolore e accusa il fratello di Maria Paola di aver commesso deliberatamente un omicidio perché non sopportava che la sorella frequentasse un uomo trans». «Volevo darle una lezione, non ucciderla. Ma era stata infettata», ha detto ai carabinieri Michele Antonio Gaglione. Il giovane ha inseguito la sorella e il compagno per parecchi minuti, cercando con i calci di farle cadere dallo scooter in corsa, poi in una curva, il mezzo con a bordo i due fidanzati ha perso aderenza finendo fuori strada; Maria Paola è finita su un tubo per l'irrigazione, che le ha tranciato la gola, il ragazzo invece è finito sul selciato senza però sbattere contro alcun ostacolo.

Speronata dal fratello perché ha un compagno trans: cade dallo scooter e muore. Il Dubbio il 13 settembre 2020. Michele Antonio Gagliano avrebbe picchiato il compagno di Maria Paola, rimasto ferito e a terra, senza preoccuparsi di soccorrere la sorella. «Volevo darle una lezione, era infetta». Il giovane dall’ospedale: «Non immagino una vita senza te». Ha ucciso la sorella, 22 anni, speronando il suo scooter perché impegnata in una relazione omosessuale. È questa l’accusa mossa a Michele Antonio Gaglione, 25 anni, che non sopportando la relazione di sua sorella Maria Paola, 22 anni, con Ciro, il compagno trans, ha deciso di inforcare lo scooter e di seguire la coppia, diretta in moto da Caivano ad Acerra (Napoli). Una volta raggiunta, Antonio Gaglione ha tamponato la moto, facendola uscire di strada. Da qui la caduta: Maria Paola è finita su un tubo per l’irrigazione, che le ha tranciato la gola facendola morire sul colpo, mentre Ciro è rimasto ferito. Subito dopo il 25enne, poi fermato dai carabinieri, l’ha raggiunto picchiandolo, senza preoccuparsi di soccorrere la sorella. Sul posto dell’incidente sono giunti i carabinieri della caserma di Acerra. «Volevo darle una lezione, non ucciderla. Ma era stata infettata», ha detto ai carabinieri Michele Antonio Gaglione. La prima ipotesi d’accusa era di lesioni personali, morte come conseguenza di un altro delitto e violenza privata, ma la sua posizione si è aggravata e il 25enne è finito in cella per omicidio preterintenzionale e violenza privata aggravata dall’omofobia. Il giovane ha inseguito la sorella per parecchi minuti, cercando con i calci di far cadere lei e Ciro dallo scooter in corsa, poi in una curva, il mezzo, colpito dalla furia del giovane, ha perso aderenza finendo fuori strada. Sulla tragedia è intervenuto anche il deputato dem Alessandro Zan, primo firmatario della legge contro l’omofobia, attualmente ferma alla Camera e che tante polemiche ha provocato nelle scorse settimane, a causa dell’accusa delle opposizioni di voler «inculcare il pensiero unico». «Serve approvare la legge contro l’#omotransfobia e la #misoginia e serve farlo subito – ha scritto Zan sul proprio profilo Facebook -. Servono le case rifugio, in cui le vittime possono trovare riparo da famiglie o situazioni violente. Serve un cambiamento culturale, per cui Il Paese non può più stare fermo ad attendere l’ennesima violenza, l’ennesima discriminazione, l’ennesimo omicidio. A chi, ancora, dice che questa legge non serve dico di guardare questa fotografia: due giovani che si amavano e che sarebbero potuti essere felici. Invece ha vinto l’odio, nel peggiore dei modi. Fermiamolo». Dall’ospedale, intanto, Ciro ha pubblicato un messaggio per ricordare Maria Paola. «Amore mio, oggi sono esattamente tre anni di noi – scrive il giovane -, tre anni a prenderci e lasciarci in continuazione. Avevo la mia vita come tu avevi la tua, ma non abbiamo mai smesso di amarci». «Dopo tre anni ti stavo vivendo, ma la vita mi ha tolto l’amore mio più grande, la mia piccola – continua Ciro -. Non posso accettarlo, perché Dio non ha chiamato me? Perché proprio a te, amore mio. Non riesco più a immaginare la mia vita senza te, non ci riesco. Non riesco più a dormire. Ppenso a te 24 ore su 24 amore mio, mi manchi, mi manchi tantissimo. Eri l’unica per me, l’unica che mi amava veramente. Non posso accettarlo ancora.. non ci riesco. Mi mancano le tue carezze.. mi manca quanto mi svegliavi la mattina a darmi fastidio. Mi manca tutto di te, non ho mai smesso di amarti dal primo giorno che ti ho vista, ti amerò per sempre piccola mia».

La madre del giovane, con un lungo post su Facebook, ha accusato la famiglia della fidanzata del figlio: «Gli hanno fatto una trappola per ucciderli, avete sempre minacciato mio figlio».

“L’ha infettata”, uccide la sorella e picchia il compagno trans: l’orrore di Maria Paola e Ciro. Redazione su Il Riformista il 13 Settembre 2020. Ha inseguito, speronato e ucciso la sorella di 18 anni perché era “infetta”, frequentava Ciro, un ragazzo trans coetaneo la cui relazione non era accettata dalla famiglia di Maria Paola Gaglione, la giovane di 22 anni morta nel drammatico incidente avvenuto nella notte tra giovedì e venerdì scorso. Una storia raccapricciante quella ricostruita dopo l’incidente avvenuto tra Caivano ed Acerra, in provincia di Napoli. La relazione tra Maria Paola e Ciro, che da qualche tempo convivevano, non era ben vista dalla famiglia di lei e dagli stessi abitanti del Parco Verde di Caivano. Un rione tristemente famoso per spaccio, abusi su minori e altre attività illecite. Così due notti fa Antonio Gaglione, 25 anni, ha inseguito in moto la sorella e Ciro in via degli Etruschi, fino a speronare lo scooter sul quale viaggiava al coppia, finito poi fuori strada. Maria Paola è andata a finire con il collo contro un tubo di metallo di un impianto di irrigazione, morendo sul colpo per le gravi ferite riportate alla gola. Ciro ha riportato ferite meno gravi ma ha dovuto subire l’aggressione del 25enne, incurante delle condizioni della sorella. Sul posto poco dopo sono giunti i carabinieri della compagnia di Acerra che hanno fermato Gaglione e chiamato il 118. Ciro è stato portato alla clinica Villa dei Fiori di Acerra. Le sue condizioni fisiche per fortuna non sarebbero gravi. Mario Gaglione è stato arrestato per omicidio aggravato dall’omofobia. Ai carabinieri ha confessato: “Volevo darle una lezione, non ucciderla. Ma era stata infettata”. Agghiacciante il commento di  Daniela Lourdes Falanga, donna transgender e figura di spicco del movimento Lgbti+ italiano che nei giorni scorsi è stata protagonista alla 77esima edizione del Cinema di Venezia il docufilm Red Shoes – Il figlio del Boss. “A Caivano si sta scrivendo una delle storie più brutali di violenza di genere. Si tratta di Ciro e Maria Paola. Ciro è un uomo trans, lei è la sua ragazza. Sono in moto e vengono speronati dal fratello di lei. La ragazza muore. Ciro è in ospedale e non sta bene. La madre di Ciro grida il suo dolore su Facebook e accusa il fratello di Maria Paola di aver commesso deliberatamente un omicidio perché non sopportava che la sorella frequentasse un uomo trans. Il fratello dirà che la sorella era stata “infettata” e che voleva liberarla. Due punti insieme che vengono a chiarirsi e definire ciò che potremmo indicare come femminicidio e transfobia. Intanto si consuma un dramma terribile, nella peggiore negazione, e Ciro in questa violenza inaudita subisce pure la condanna dell’ignoranza dei pseudo giornalisti e l’omertà di stampa. Lui non viene descritto come Ciro, ma come la compagna della ragazza morta. Se vogliamo capire cosa vuol significare che bisogna avere una legge contro l’omolesbobitrasfobia, questo è uno dei casi più espliciti. Qui c’è un omicida, c’è la violenza di genere, c’è la negazione da parte di una stampa che non sa definire fatti e persone e l’Italia da cambiare”.

Le lacrime di Ciro, fidanzato di Paola: "L'amavo ma i suoi familiari dicevano: meglio morta che con uno così". Pubblicato lunedì, 14 settembre 2020 su La Repubblica.it da Dario Del Porto. "Stavamo insieme da tre anni ma la famiglia di Maria Paola non voleva. Dicevano che eravamo due donne. Io però non sono una donna. Per loro invece sì. Addirittura, li ho sentiti dire che avrebbero preferito che la figlia morisse, piuttosto che stare con uno come me. Un masculillo". Ora che il pendolo della cronaca ci riporta al Parco Verde di Caivano per un'altra storia di dolore e sofferenza, è da una foto postata sui social che dobbiamo partire. Ci sono un ragazzo e una ragazza che si abbracciano. Sembrano felici. Visualizza questo post su Instagram Amore mio.., oggi sono esattamente 3 anni di noi, 3 anni. A prenderci e lasciarsi in continuazione.. avevo la mia vita come tu avevi la tua.. ma non abbiamo mai smesso di amarci.. dopo 3 anni ti stavo vivendo ma la vita mi ha tolto l'amore mio piu? grande la mia piccola. Non posso accettarlo perche? Dio non mi ha chiamato me? Perche? proprio a te amore mio.. non riesco piu? a immaginare la mia vita senza te.. non ci riesco. Non riesco piu? a dormire penso a te 24 su 24 amore mio, mi manchi, mi manchi tantissimo. Eri l'unica per me, l'unica che mi amava veramente. Non posso accettarlo ancora.. non ci riesco. Mi mancano le tue carezze.. mi manca quanto mi svegliavi la mattina a darmi fastidio. Mi manca tutto di te., non ho mai smesso di amarti dal primo giorno che ti ho vista.., Ti amero? sempre piccola mia.???? Un post condiviso da @ ciromigliore_ in data: 12 Set 2020 alle ore 10:43 PDT. Adesso Ciro è qui, nel cortile della clinica Villa dei Fiori di Acerra. Ha il braccio ingessato, un livido sotto gli occhi. Ciro, appunto, che all'anagrafe si chiama Cira ed è di sesso femminile. "A 15 anni ho capito chi ero e ho preso la mia decisione. Questo è quello che sono", ripete mentre la mamma, Rosa Buonadonna, commossa, lo guarda. Maria Paola Gaglione non c'è più. È morta cadendo dal motorino in sella al quale viaggiava insieme a Ciro. Secondo la Procura, l'incidente è stato provocato dal fratello di lei, Michele, che li ha inseguiti in sella a una moto fino a mandarli fuori strada e ora è in carcere. Ma questo è materiale per magistrati e avvocati. La vita è un'altra cosa e la racconta Ciro. Avere il corpo di donna ma essere un uomo dentro non è facile da nessuna parte, figuriamoci qua, dove non ci sono solo pregiudizi, ma anche uno Stato incapace di aiutare i più fragili. Ciò nonostante, c'è chi riesce a non farsi condizionare. "Ne ho parlato subito con mia madre. Ci ha messo cinque anni per accettarlo, ma non mi ha mai lasciato solo", sottolinea Ciro. "Non volevo ammetterlo, sono sincera spiega Rosa - ho sofferto. Ho pianto. Ma non l'ho mai trattato male. Non ci ho mai pensato a cacciarlo di casa. Mi sono sforzata di comprendere. Mi sono confrontata con le mie amiche. E anche se non ho studiato, ho capito. Meglio così, mi sono detta, che non avere più un figlio. Se si fosse ammalato, l'avrei perso. È la sua natura, è mio figlio". Poi Ciro ha incontrato Maria Paola. "Non era la mia prima ragazza, ma il mio primo amore sì. Lo è sempre stato. La donna della mia vita. Ci eravamo conosciuti tre anni fa, nella villa di Caivano. Da nemmeno un mese ci eravamo trasferiti ad Acerra per stare più tranquilli. I suoi non accettavano la nostra relazione. Dicevano che l'avevo infettata, ma non è vero. Non riesco a immaginare la mia vita senza di lei". Vivere una relazione si è rivelato un passo ancora più duro, troppo per la famiglia di Maria Paola. Un'ostilità che secondo Ciro e la madre sarebbe sfociata in minacce vere e proprie. "Una volta sono venuti in cinque a casa nostra - afferma Rosa - il padre, il figlio e non so chi altro. Dicevano che se Ciro si prendeva la figlia dovevo morire anche io, che mi avrebbero fatto anche chiudere la baracca dove vendo le sigarette per vivere. Sono sola, non ho un marito e devo andare avanti". Eppure il peggio sembrava essere passato se è vero, come dice Rosa, che il giorno prima della tragedia "una parente loro mi ha chiamato per dirmi che ormai la madre di Maria Paola aveva accettato questa cosa. Sei madre, facciamo la pace. Invece non era vero". E siamo a venerdì sera. Ciro e Maria Paola sono in scooter. "Appena sono uscito dal vicolo me lo sono trovato davanti. Ci ha inseguito e gridava verso di me: "Ti devo uccidere, ti devo uccidere". Maria Paola allora gli diceva: "Ci sono anche io sul motorino". A lui non interessava. Quando siamo caduti, mi sono avvicinato a lei per soccorrerla, ma lui mi ha picchiato". Rosa dice che in questo modo "hanno spezzato due cuori" e accusa la madre di Maria Paola, che sarebbe stata addirittura "contenta" e avrebbe commentato: "Mio figlio ha fatto bene, perché la sorella usciva con una femmina". Ma anche su questo dovrà essere il processo a dare una risposta. Intanto la coppia della foto è stata cancellata e Ciro, che ha solo 22 anni e da sempre deve nuotare controcorrente, sembra svuotato. "Non sogno più niente per il mio futuro. Non ce la faccio, non ce la potrò mai fare senza di lei. Vorrei vederla anche solo per un attimo. Però chiedo giustizia. Non per me, per Maria Paola". La voce trema, gli occhi sono lucidi. Vorrebbe piangere. Quando gli chiedi se ha paura, scuote il capo. "No, quella l'ho già avuta. Adesso non più". Rosa incrocia il suo sguardo: "Penso anche io la stessa cosa. Chiedo giustizia. E non ho paura. Se dobbiamo morire, moriremo insieme. Madre e figlio".

Ragazza morta a Caivano, Ciro: "Il fratello voleva ammazzarmi". Pubblicato lunedì, 14 settembre 2020 da La Repubblica.it. "Mi diceva 'non devi stare con mia sorella oppure ti ammazzo'. Lui preferiva che la sorella morisse piuttosto che stare con me". È il racconto di Ciro Migliore, il ragazzo transessuale fidanzato con Maria Paola Gaglione, la 20enne di Caivano (Napoli) morta in seguito a un incidente stradale che sarebbe stato causato da suo fratello Michele Antonio, contrario alla relazione tra i due. Il gip ha convalidato l'arresto del 30enne. L'ordinanza ha disposto l'applicazione della custodia in carcere per il ragazzo. Gaglione è indagato per omicidio preterintenzionale aggravato dai futili motivi in quanto non condivideva la relazione della sorella. Ad Acerra (Napoli) il 30enne avrebbe speronato il motorino su cui si trovano Ciro e Paola, colpendo il veicolo con ripetuti calci per farlo cadere. La rovinosa caduta del mezzo ha poi provocato la morte della 20enne di Caivano. Ma l'uomo ha respinto le accuse. "Veniva sotto casa mia, mi voleva tagliare la testa", dice Ciro, parlando con la stampa dalla clinica di Acerra dove è ricoverato. "Il 13 luglio - racconta - io e Paola dovevamo scappare insieme ad Acerra. L'hanno picchiata". Il ragazzo racconta anche del padre di Paola "anche lui l'ha picchiata. Il padre di Paola - ribadisce - l'ha picchiata davanti a me". Ciro ha voluto parlare anche di quanto accaduto la sera dell'incidente che è costato la vita alla 20enne. "Mi sono trovato il fratello di Paola dietro al motorino. Mi ha buttato il piede contro il mezzo, che sbandava. Paola ha detto a suo fratello di smetterla, gli ha detto "ci sono io dietro, basta". Lui non si è interessato a Paola, voleva uccidermi. Infatti mi ha picchiato. Se non fossi fuggito mi avrebbe ammazzato". "Dovevo morire assieme a lei ma lasciatemela vedere per l'ultima volta", dice ancora Ciro Maglione, il trans che aveva una relazione con la ventenne morta dopo essere stata investita sul motorino dal fratello. "Devono pagare Michele, la mamma e il papà. Tutti e tre devono pagare. Ma quale incidente, non è vero", ribadisce la madre di Ciro.

Uccisa perché “infetta”, Ciro scrive alla sua Paola: “Oggi festeggiavamo 3 anni d’amore”. Redazione su Il Riformista il 13 Settembre 2020. Non è in pericolo di vita Ciro Migliore, il compagno trans di Maria Paola Gaglione, la 18enne di Caivano (Napoli) morta in un drammatico incidente stradale che sarebbe stato provocato dal fratello, Michele Antonio, 30 anni, arrestato dai carabinieri. Dietro l’incidente il rifiuto da parte della famiglia di Maria Paola della relazione con Ciro. “Volevo dare loro solo una lezione, non volevo ucciderla” ha commentato il fratello poco dopo l’arresto. Secondo il 30enne, la sorella sarebbe stata “infettata” nel corso di una relazione che andava avanti da tre anni nonostante il parere contrario della famiglia della giovane vittima. Nelle scorse ore Ciro, ricoverato alla Clinica Villa dei Fiori di Acerra, ha pubblicato sui social un messaggio per la fidanzata scomparsa: “Amore mio, oggi sono esattamente tre anni di noi, tre anni a prenderci e lasciarci in continuazione. Avevo la mia vita come tu avevi la tua, ma non abbiamo mai smesso di amarci. Dopo tre anni ti stavo vivendo, ma la vita mi ha tolto l’amore mio più grande, la mia piccola”. “Non posso accettarlo – aggiunge – perché Dio non ha chiamato me? Perché proprio a te, amore mio. Non riesco più a immaginare la mia vita senza te, non ci riesco. Non riesco più a dormire, penso a te 24 ore su 24 amore mio, mi manchi, mi manchi tantissimo. Eri l’unica per me, l’unica che mi amava veramente. Non posso accettarlo ancora.. non ci riesco. Mi mancano le tue carezze.. mi manca quanto mi svegliavi la mattina a darmi fastidio. Mi manca tutto di te, non ho mai smesso di amarti dal primo giorno che ti ho vista, ti amerò per sempre piccola mia”.

IL DOLORE DELLA MADRE – La madre di Ciro non si dà pace e chiede giustizia. Con un lungo post su Facebook punta il dito contro la famiglia della fidanzata del figlio: “Gli hanno fatto una trappola per ucciderli”, spiegando che  “avete sempre minacciato mio figlio. Paola riposa in pace”.

“CIRO VUOLE L’ULTIMO SALUTO” – “Ciro aveva un sogno: prendere casa assieme a lei. Adesso ha un desiderio grande: rivedere la sua compagna prima dell’ultimo saluto. E farò di tutto per consertigli questo”. Così Daniela Lourdes Falanga, presidente di Arcigay Napoli, all’uscita della Villa dei fiori di Acerra dove è ricoverato il giovane trans pestato da Michele Gaglione, fratello di Maria Paola, morta cadendo dallo scooter che lo stesso fratello ha speronato dopo un inseguimento lungo via degli Etruschi, tra Caivano e Acerra.

Fulvio Bufi per il ''Corriere della Sera'' il 14 settembre 2020. Sul corpo di Ciro il linguaggio dei tatuaggi racconta quanto si senta uomo e quanto così voglia essere riconosciuto. Immagini anche troppo truci rispetto al fisico esile e ai lineamenti del viso che lo fanno sembrare più giovane — più piccolo — dei suoi ventidue anni. Ma il suo corpo mostra anche i segni dell’incidente e del pestaggio subito dal fratello della fidanzata. Il braccio sinistro bloccato da un tutore, lividi e graffi dappertutto, un occhio nero, ed è chiaro che lì c’è arrivato un pugno. Quei momenti non riesce a raccontarli, anche se con i carabinieri ha dovuto farlo. Riesce invece a parlare di Maria Paola (Gaglione, morta dopo essere stata speronata in moto dal fratello ndr), che «non è stata la mia prima ragazza, ma sicuramente è stata la prima di cui mi sia innamorato».

Quando?

«Tre anni fa, quando ci siamo conosciuti nella villa di Caivano»,

che è un posto del Parco Verde, disastrata come tutto il Parco Verde, e però per i ragazzi che al Parco Verde ci sono nati e cresciuti è una villa come lo sono le ville per chi scopre la vita: un posto di incontri, di approcci, di libertà.

Poi siete andati a vivere insieme.

«Un mese fa. Ma non a Caivano, ad Acerra».

E perché?

«Perché volevamo allontanarci dalla sua famiglia. Loro ci hanno sempre ostacolati. Non volevano che stessimo insieme perché dicevano che eravamo due femmine. Ma non è vero. Io non sono una femmina. Avevo 15 anni quando ho capito di essere un uomo, mi sentivo e mi sento un uomo. E Maria Paola mi ha sempre amato come uomo».

Anche tua madre lo ha capito... Ciro si gira verso di lei, che gli è accanto davanti al Pronto soccorso della clinica dove è ricoverato da due giorni, e per un attimo sorride. E sorride pure la mamma, Rosa Buonadonna. Che ha solo questo figlio, lo ha cresciuto senza un compagno accanto e vive facendo l’ambulante al Parco Verde. Dice: «I figli vanno accolti per come sono. Io non sono mai stata contro di lui, anche se ammetto che all’inizio non ce la facevo, non accettavo la situazione. Ma poi ho capito. Se fosse stato malato sarebbe stata una tragedia, ma non questo. Lui è così e basta, e io sto dalla sua parte». Insieme, raccontano, hanno subito tante minacce. «Sono perfino venuti a casa mia — dice Rosa —. Erano in cinque, c’era il fratello della ragazza, il padre e pure altri parenti. E mi hanno minacciato, hanno detto che se mio figlio non l’avesse lasciata se la sarebbero presa anche con me, mi avrebbero bruciato la bancarella. Ma io la denuncia non l’ho fatta». Ciro, invece, non ha subito solo minacce, anche malignità pesantissime.

Che fanno male...

«Sì. Dicevano che io a Maria Paola l’avevo infettata. Non lo dicevano a me personalmente, però nel quartiere lo andavano ripetendo continuamente. Ma come si può pensare una cosa così? E come ha potuto pensare di fare quello che ha fatto?».

Tu invece adesso riesci a pensare a qualcosa?

«Niente, io non riesco a pensare a niente. Non vedo futuro, non vedo niente. Anzi, una cosa la penso».

E cioè?

«Che vorrei ci fossi stato io al posto suo, vorrei essere morto io e non lei. Maria Paola era la donna della mia vita, e non sto esagerando. Era una cosa che durava da tre anni, non da tre mesi. Noi veramente ci amavamo».

Ci hai pensato ai funerali? Vorresti esserci?

«Certo che vorrei esserci, non so come potrò fare, ma vorrei rivederla. Poi voglio solo giustizia. Ma per lei, non per me». 

VITTORIO FELTRI per Libero Quotidiano il 14 settembre 2020. A volte un oscuro episodio di cronaca nera conta di più rispetto ad un trattato sociologico al fine di capire in che Paese viviamo. Quello che è successo nei dintorni di Acerra (Napoli) tra venerdì e sabato è assai istruttivo. Riassumo il fatto. Una ragazza, Maria Paola, si innamora di una donna che è diventata uomo, una o un trans. Le due persone si frequentano stabilmente da un paio d' anni. Chi ragiona in modo normale dice: «Affari loro, ciascuno in campo sentimentale e sessuale si comporta come gli pare». Io in particolare non ho nulla contro le lesbiche considerato che, oltretutto, hanno i miei stessi gusti. Tuttavia il fratello adulto (sposato) di Maria Paola, Michele, non tollera che la sorella abbia una relazione con il trans, Ciro, e desidera darle una lezione affinché la smetta di avere un rapporto col suddetto. Il giovanotto è talmente arrabbiato con la familiare che decide di inseguirla in moto mentre questa su uno scooter percorre una strada asfaltata, sul sedile posteriore del quale è seduto Ciro. La raggiunge e la sperona facendola cadere e ruzzolare. Ella si ferisce alla gola e in pochi istanti muore. Non pago si accanisce sul trans e lo riempie di botte. Ovviamente Michele finisce in carcere. In un primo momento l' accusa è di omicidio preterintenzionale, vedremo se si trasformerà in omicidio volontario. Intanto prendiamo atto che si tratta di un delitto tra i più odiosi. Ci domandiamo che cosa importasse all' assassino se la sorella si fosse innamorata in origine del suo stesso sesso. Non erano affari suoi, doveva sapere che ciascuno, congiunti inclusi, ha il diritto di scegliersi il partner che più gli aggrada. Ma in questo caso almeno subentra un problema di mentalità. C' è in giro ancora gente, come Michele, la quale pensa che un parente debba sottostare a regole familiari antiquate, che non ammettono né l' omosessualità né la transessualità. Maria Paola, secondo costui, doveva subire una punizione destinata a farle cambiare tendenza. Assurdo. Tamponare lo scooter della ragazza è stato un atto di tale violenza che non può essere giustificato nemmeno dal più squallido moralismo. La povera signorina ci ha rimesso le penne, Ciro si è preso dei cazzotti ed ha perso la fanciulla con la quale divideva l' esistenza e ora Michele marcirà in carcere. Il tutto perché Maria Paola amava un individuo che egli disapprovava. Siamo alla follia. Per combattere la quale non basta una nuova legge, bensì servono i vecchi manicomi.

Quando la legge non tutela i diritti. Violenza omofoba, in Campania la metà dei casi di tutto il Sud. Viviana Lanza su Il Riformista il 15 Settembre 2020. Nei quartieri “bene” della città di Napoli, come Vomero o Posillipo, si palesa meno frequentemente come dramma familiare perché viene vissuto più nel silenzio dell’intimità o della vergogna. Nelle zone più degradate, invece, può arrivare ad assumere forme plateali di aggressività e pura violenza, come nel caso di Caivano. L’omofobia, e in particolare l’omotransfobia, è un fenomeno diffuso, più di quanto si pensi. Come la violenza di genere, attraversa la società in maniera trasversale e fa vittime uccidendo, minacciando, costringendo a cambiare casa, lavoro, o addirittura vita. Negli ultimi otto anni in Campania, e a Napoli soprattutto, c’è stato un graduale aumento degli episodi di violenza venuti alla luce. È un aumento che è andato di pari passo con l’impegno di associazioni e comunità gay e trans. Massimo Battaglio, in collaborazione con l’Arcigay di Napoli presieduta da Antonello Sannino, ha stilato una sorta di statistica. In Campania, da ottobre 2012, sono stati denunciati 135 casi di violenza di matrice omotransfobica, una cifra a cui si è arrivati per tappe: basti pensare che tra il 2012 e il 2013 non c’erano denunce, zero segnalazioni, omertà ancora assoluta. Poi si è creata una breccia in quel muro e negli anni successivi c’è stata una graduale emersione del fenomeno legato alla omotransfobia, passando dai nove casi del 2014, ai 13 dell’anno successivo, fino ai 30 del 2017, 34 nel 2018 fino ad arrivare agli undici casi del 2020. Totale 135, pari alla metà del totale dei casi (357) denunciati in tutto il Sud Italia, che si conferma quindi una parte del Paese dove l’omertà e la vergogna ancora prendono il sopravvento. Di tutti gli omicidi a sfondo omofobo avvenuti in Italia, un quarto risulta commesso in Campania, e questo perché in Campania più che altrove si riesce a scoprire più facilmente la matrice del delitto grazie alla presenza molto attiva delle associazioni. Le vittime di aggressioni e violenze sono in prevalenza uomini (90), le donne sono nove, in 36 casi sono trans, il che porta Massimo Battaglio a commentare che «essere trans a Napoli può essere pericoloso». L’età delle vittime in media va dai 20 ai 30 anni, e si scopre che sono sempre più spesso i giovani quelli più propensi a denunciare, mentre le vittime in età più adulta tendono ad avere minore consapevolezza dei propri diritti e avere più paura a raccontare le proprie esperienze. Il 5 agosto scorso il Consiglio regionale della Campania ha approvato una legge contro l’omofobia e a breve, con l’insediamento della nuova giunta dopo le imminenti regionali, dovrebbero partire iniziative finalizzate a mettere in atto quanto previsto dalla nuova legge regionale. Sarà costituito un Osservatorio campano sulla violenza e sulle discriminazioni determinate dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere e saranno attivati progetti in cui enti, associazioni e organismi saranno impegnati a prevenire e contrastare tali discriminazioni. È stato un traguardo fortemente voluto dall’Arcigay di Napoli per colmare un vuoto normativo, culturale e sociale. Anche le statistiche sull’argomento sono scarse. «Nel nostro Paese si fa fatica a fare ricerche sulla comunità Lgbt, si fatica ad avere un approccio scientifico e sociale», spiega Antonello Sannino. Il caso di Maria Paola, la ventenne morta pochi giorni fa a Caivano in un incidente stradale che secondo le accuse sarebbe stato provocato da suo fratello (contrario alla sua relazione con Ciro, un transgender), è solo l’ultima in ordine di tempo di storie di violenza, aggressioni, minacce spesso vissute in silenzio, tenute nascoste per paura o per vergogna. «Serve un profondo cambiamento culturale, che cominci dalle scuole. L’omofobia non si combatte solo con la repressione. Una società migliore e più accogliente – dice Sannino – si può ottenere facendo cultura, informazione, sensibilizzazione, attività di formazione».

Dramma di Caivano, il diritto di amarsi di Ciro e Paola e le donne vissute come proprietà privata. Giulio Cavalli su Il Riformista il 15 Settembre 2020. È stata Cira, anzi no, è stato Ciro che però era Cira e che era una trans, poi si correggono è stato un trans, poi qualcuno che scrive che fosse un amore gay, addirittura un telegiornale nazionale in prima serata, quello spicchio di tempo che dovrebbe essere pedagogico oltre che informativo e l’attenzione di troppi giornali e telegiornali e troppi commentatori va a finire tutta lì, sulla transizione di Ciro Migliore e la morte di Maria Paola Gaglione, morta a causa di un inseguimento che ha ribaltato la motocicletta su cui Maria Paola viaggia finisce quasi in secondo piano, è troppo ghiotto il piatto del trans per fermarsi alla cronaca e alla narrazione dei fatti e così, ancora una volta, oltre al lutto si aggiunge il dolore e la sofferenza di una stampa che sembra non avere le parole per raccontare la realtà che ci circonda, che ancora incespica nel raccontare il presente e che ancora punta il dito sulla vittima piuttosto che sul presunto colpevole. I fatti, intanto: Maria Paola Gaglione, 22enne di Caivano, ama Ciro Migliore, un uomo trans, nato biologicamente donna ma in transizione verso il sesso maschile. I due sono in motorino e il fratello Michele comincia a inseguirli. Il fratello non sopportava la relazione tra i due: «Non volevo ucciderla, ma solamente darle una lezione», dice il fratello agli inquirenti che lo accusano di morte in conseguenza di altro reato e di violenza privata. Ieri il gip ha convalidato l’arresto. «L’aveva infettata», dice lui parlando della sorella e del suo amore. Mentre li inseguiva urlava minacce di morte. Quando avviene l’incidente (le cause sono tutte ancora da accertare e al vaglio degli inquirenti) Maria Paola Gaglione rimane uccisa sul colpo mentre Ciro è sanguinante a terra e comincia a essere pestato dal fratello. A completare il quadro ci sono poi le voci della famiglia, i genitori di Maria Paola giustificano il fratello dicendo in diverse interviste che il giovane sicuramente non voleva speronare ma che il gesto era di “aiuto” per quella sorella e la sua relazione non accettata. Si tratta, per l’ennesima volta, di una donna che viene vissuta come proprietà privata (in questo caso dal suo fratello maggiore) e che non viene considerata libera di vivere la sua relazione perché l’amore che nutriva per il suo compagno non rientrava nei canoni tradizionali di una famiglia che, lo dice bene don Patriciello che conosce i protagonisti, «non avevano gli strumenti culturali» per affrontare una situazione del genere. Siamo di fronte, una volta ancora, a un femminicidio (quanto preterintenzionale e quanto volontario lo deciderà ovviamente il processo) in cui perde la vita una donna che è stata giudicata da un contesto che non ha l’educazione sentimentale per affrontare la complessità dell’amore che spesso segue linee ben diverse dai canoni tradizionali. Per questo in molti in queste ore continuano a chiedere che arrivi al più presto quella legge contro l’omotransfobia che giace da mesi in commissione (e che ha diviso il Parlamento): le associazioni Lgbt locali tra l’altro sottolineano come Ciro fosse vittima dell’odio e delle minacce da parte della famiglia di Maria Paola. Il tragico evento accaduto qualche giorno fa è solo la coda di un odio che parte da lontano e che si è perpetrato per mesi. Poi c’è la questione, sempre poco raccontata e spesso raccontata in modo piuttosto distorto di queste famiglie che si ritengono proprietarie della vita e delle scelte dei propri figli: Sana Chhema, una 25enne pakistana viveva a Brescia dove aveva studiato e dove lavorava ed è stata uccisa dal padre e dal fratello che non accettavano il fatto che si fosse innamorata di un ragazzo italiano, era l’aprile del 2018 e nel 2016 Nina Saleem, ventenne pakistana, venne sgozzata dal padre, dallo zio e da due cugini perché aveva un fidanzato italiano e perché vestiva troppo all’occidentale. In quel caso fu facile addossare le colpe degli omicidi all’arretratezza delle famiglie straniere e sentirsi assolti come se fossero fatti di cronaca lontani da noi eppure la trama, il nocciolo della storia anche in questo caso è lo stesso, con cognomi italianissimi. E a proposito di arretratezza forse sarebbe il caso anche di ricordare che Caivano, luogo in cui si è consumata la tragedia, è uno dei luoghi con i più alti indici di dispersione scolastica e con il più basso indice di presenza di nidi a tempo pieno d’Italia. Perché forse oltre alla legge servirebbe anche un’educazione sentimentale e una formazione culturale di cui si continua a discutere e che continua a non essere un serio progetto politico. Serve la legge, certo, ma serve la cultura. E ancora una volta siamo qui a ripetercelo. E allora ci si chiede se non sia il caso di allargare lo sguardo, al di là del brutto giornalismo che si ferma su Cira che è diventato Ciro, e domandarsi quanto tempo ancora debba passare perché il diritto di amare, amare senza creare nessun danno agli altri, diventi finalmente una libertà da praticare senza paura e senza ritorsioni. Comunque vada a finire la vicenda giudiziaria.

Da corriere.it il 14 settembre 2020. «La politica omofoba che alimenta e giustifica questi assassini s’interroghi vergognandosi e non poco». Così Francesca Pascale, ex compagna di Silvio Berlusconi, da sempre vicina alle tematiche Lgbt, ha commentato su Instagram la morte di Maria Paola Gaglione. La 18enne è morta mentre era in motorino insieme a Ciro Migliore, 22, il suo fidanzato. A determinare l’incidente, secondo le prime indagini, il 30enne Michele Antonio Gaglione, fratello della vittima, dopo un inseguimento. Il fratello non sopportava la sua relazione con un uomo trans (Ciro, ndr). Maria Paola — si legge ancora nella Storia di Instagram — «è stata uccisa dal fratello perché amava una trans. Ennesimo episodio di omotransfobia finito in tragedia a causa di una società violenta e sempre più frustrata». Pascale è, poi, intervenuta anche sulla morte di Willy, il 21enne ammazzato di botte a Colleferro: «Ciao splendido ragazzo», ha scritto. Seguita da una terza Storia, che mostra uno scatto dei fratelli Bianchi, accusati dell’omicidio, che hanno chiesto l’isolamento in carcere per evitare ritorsioni da parte degli altri detenuti. «Un classico fascista. Duri solo coi più deboli, diabolici infami», conclude Pascale.

Marco Castoro per leggo.it il 14 settembre 2020.

Vladimir Luxuria, ma come è possibile che ancora oggi nel 2020 una persona venga uccisa perché frequenta un trans?

«Vallo a dire a tutti gli omofobi e transfobi di professione che minimizzano sempre, che negano, che dicono che vogliamo fare le vittime a ogni costo».

È proprio un muro di odio e pregiudizi che non si riesce ad abbattere.

«Di transfobia e omofobia si muore purtroppo. Si può morire in maniera diretta come in questo caso o indiretta con le persone che si ammalano di depressione, che tentano il suicidio a causa di questo odio. In maniera particolare è disumano che un fratello uccida la sorella, sangue del suo sangue, con una visione transfoba e misogina perché si prende il diritto di vita e di morte sulla sorella in base alla persona che frequenta. Le parole che vengono usate sono vergognose, come essere infettati, un mondo putrido: tutti luoghi comuni e pregiudizi. Il fratello si preoccupa di quello che la gente dice e fa giustizia con la chiara intenzione di ucciderla: meglio una sorella morta che una sorella viva che sta con un trans».

Non se ne esce.

«Bisogna essere corretti ed educati senza offendere con le parole. Perché anche con il linguaggio politically correct si travestono le parole per non offendere, quasi per strappare simpatia, ma in realtà i pregiudizi restano».

Maria Elena Barnabi per Dagospia il 14 settembre 2020. Caro Dago. Se c’è una cosa che ho imparato scrivendo di sesso per vent’anni, e che mi è stata ripetuta con un punta di divertimento da sociologi, sessuologi, attivisti bdsm, attori e produttori porno di tutto il mondo, è che noi italiani abbiamo la fissa delle persone transessuali: le desideriamo tantissimo, ci masturbiamo pensando a loro, ci facciamo all’amore. Forse, solo il Brasile ci supera. I motivi? L’amore per i feticismo, tipico di culture millenarie come la nostra e la ricerca di una figura rassicurante (le donne transessuali hanno fattezze femminili, ma non il mistero della vagina) sono solo alcune delle ipotesi. Eppure, in questo stesso paese l’altro giorno una ragazza è stata uccisa perché era fidanzata con un ragazzo transessuale. Si configura così un vero e proprio paradosso italiano dei transessuali: amatissimi nel privato, odiatissimi in pubblico, sono comunque esclusivo appannaggio degli uomini. Appena una donna prova ad avvicinarsi a questo mondo, viene bloccata dall’uomo italico che pensa di averne l’esclusiva. I dati. Prendendo in considerazione il mondo del porno, si nota che in Italia la richiesta di materiale a contenuto transessuale è di gran lunga più alta che in qualunque altro paese. Analizzando una ricerca effettuata da Pornhub (130 milioni di visitatori al giorno) per conto de il quotiamo Il Messaggero sui video hard che cercano uomini e donne), avevo notato come la quarta categoria più cercata dagli uomini italiani era appunto la categoria “transgender”. Ora considerando che la prima categoria è Italian e non conta (in ogni paese la prima ricerca è sempre nella lingua madre) e che la seconda e la terza categoria praticamente sono la stessa cosa (milf e mature), si nota come dopo la donna rassicurante e mammesca, l’oggetto del desiderio degli uomini italiani sia appunto la donna transessuale. Non basta: la categoria transgender è cliccata il 36% in più dagli uomini rispetto alle donne, a sottolineare come la preferenza sia tipicamente maschile. Piccolo dato di colore: nelle Marche la ricerca di materiale a tema “transgender” viene effettuata il 48% in più delle volte rispetto alle altre regioni. Anche in un’altra ricerca, questa volta fatta per Cosmopolitan da Pornhub sulle fantasie erotiche dei millennials (Le fantasie erotiche dei millennials italiani: ecco cosa guardano su Pornhub), si vede come la parola trans sia cercata il 460% di volte in più dai millennials maschi italiani rispetto al resto degli europei e ben 868% di volte in più rispetto al resto del mondo. Prendiamo questi dati e confrontiamoli con quelli mondiali. Secondo l’ultimo report disponibile sempre di Pornhub del 2019, la categoria transgender non rientra neppure nella top ten mondiale: è la quindicesima categoria in ordine di ricerca di uomini e donne. Mentre se si guardano solo i dati maschili, arriva al dodicesimo posto. E la prostituzione? Dati ufficiali sulla percentuale tra le fila di chi fa sesso a pagamento non ne abbiamo, ma non so tu: io così tante persone transessuali sui marciapiedi li ho visti solo in Italia. Noi italiani abbiamo il feticcio dei trans, e chiedo scusa alle amiche e agli amici transessuali: sono “un argomento”, così come lo spanking lo è in Gran Bretagna e il latex in Germania. Solo che gli inglesi mica si vergognano di provare piacere a farsi sculacciare, così come i tedeschi della loro passione per il lattice non fanno mistero. Allora, caro Dago, dove voglio arrivare? Voglio arrivare a dire che gli uomini italiani oggi devono avere la responsabilità delle loro azioni. Quei signori, quei ragazzi, quei padri di famiglia, nostri figli, mariti, fidanzati, amici, ex fidanzati, che ogni giorno cliccano su Pornhub per masturbarsi guardando una persona transessuale, e quegli altri che ieri sera sono andati a fare sesso a pagamento con una donna transessuale, ecco io vorrei che quei maschi lì oggi venissero fuori. Vorrei che cominciassero a confidare alle amiche, alle mogli, alle sorelle, ai loro amici, che a loro le donne transessuali piacciono. Vorrei che Luca, 53 anni, un divorzio e una nuova famiglia, due figli, potesse dire alla sua compagna che non la ama più, perché ama la donna transessuale che da tre anni vede a Bologna. Se gli uomini italiani ci mettessero la faccia, se vivessero apertamente la loro passione per le persone transessuali (tanto lo sappiamo tutti che è così) contribuirebbero al dialogo, contribuirebbero a combattere il paradosso dei transessuali e la transfobia, una transfobia ipocrita e codarda. E magari anche il fratello di Maria Paola l’avrebbe capito.

Da today.it il 14 settembre 2020. Tg1 nella bufera per un servizio sulla morte di Maria Paola Gaglione andato in onda durante l’edizione di oggi delle 13.30. Il giornalista parla di “una storia d’amore gay finita in tragedia, un sogno spezzato dalla furia omofoba”, per poi riferirsi al ragazzo trans rimasto ferito insieme alla giovane morta chiamandolo “Cira”. Su Twitter sono comparsi decine di messaggi di utenti stupiti e arrabbiati dopo il servizio del Tg1. Tra questi anche quello del Signor Distruggere, che ha definito “vergognoso” il servizio, nel quale “una storia tra una ragazza e un ragazzo trans è diventata una relazione tra due lesbiche”. Secondo una prima ricostruzione, il fratello di Maria Paola avrebbe inseguito la sorella e il compagno trans cercando di farli cadere da uno scooter in corsa. Maria Paola è finita contro un tubo per l’irrigazione che le ha provocato una grave ferita alla gola mentre Ciro è finito a terra, riportando la frattura di un braccio e qualche graffio. Il fratello di Maria Paola avrebbe detto ai carabinieri: “Ho fatto una stronzata, non volevo uccidere nessuno, ma dare una lezione a mia sorella e a quella là che ha infettato mia sorella”. Su Facebook la madre di Ciro ha scritto un duro post contro la famiglia di Michele Gaglione, accusando il fratello di Maria Paola di averla uccisa perché frequentava un ragazzo transgender. “I figli si accettano come sono”, ha scritto la donna, che poi ha rivolto un pensiero alla giovane vittima: “Paola deve riposare in pace”. “Intanto si consuma un dramma terribile, nella peggiore negazione, e Ciro in questa violenza inaudita subisce pure la condanna dell’ignoranza di pseudo giornalisti e l’omertà della stampa. Lui non viene descritto come Ciro, ma come la compagna della ragazza morta. Se vogliamo capire cosa vuol significare che bisogna avere una legge contro l’omolesbobitransfobia, questo è uno dei casi più espliciti. Qui c’è un omicida, c’è la violenza di genere, c’è la negazione da parte di una stampa che non sa definire fatti e persone e l’Italia da cambiare”

Dagospia il 16 settembre 2020. ArciLesbica Nazionale: La transessualità non si autocertifica, ci sono passi da fare ben precisi. Il fatto al momento non smentito è che Cira Migliore ha documenti e corpo femminili, non ha mai iniziato alcun percorso di transizione. In caso questo venga ufficialmente rettificato, provvederemo a chiamarlo Ciro, trans ftm, da femmina a maschio. Fino ad allora Cira Migliore è realmente una vittima di violenza misogina a cui è stata tolta con la morte la compagna Maria Paola Gaglione, le facciamo le più sincere condoglianze e piangiamo un altro femminicidio. Che sia maledetta la pretesa maschilista di governare le donne, correggerci, punirci, darci lezioni, lavare nel sangue nostro il loro onore.

Ragazza morta a Caivano, Arcigay: "Minacce di morte dalla famiglia". Pubblicato lunedì, 14 settembre 2020 da La Repubblica.it. "Ho parlato con Ciro e mi ha descritto una situazione di grande negazione, con i due ragazzi minacciati di morte ripetutamente. Quello che è successo l'altra notte era qualcosa che in qualche modo si aspettavano". Parola di Daniela Falanga, presidente dell'Arcigay di Napoli, che ha fatto visita in ospedale a Ciro, il compagno trans di Maria Paola Gaglione, la 18enne uccisa dopo essere stata sbalzata dallo scooter al termine di un inseguimento e per la cui morte è accusato il fratello Michele. Spiega ancora Daniela Falanga: "La ragazza - come mi hanno riferito Ciro e sua madre - aveva il desiderio di parlare con la propria famiglia ma ha subito solamente minacce di morte. È una situazione devastante per tutti. Ciro non sta bene, sta vivendo una situazione drammatica. Per fortuna ha la madre che gli è vicino ed è per lui un grande pilastro in questo momento. Piangeva, ma non per le ferite riportate nell'incidente, ma perché chiedeva di poter rivedere la sua compagna. Mi ha detto che gli hanno rubato la vita e che vuole rivederla un'ultima volta". "Giustizia per Maria Paola, chi ha sbagliato deve pagare". È quello che chiede Ciro, a riferirlo è Falanga. "La mamma di Ciro in particolare - riferisce - ci tiene a far sapere che vuole assolutamente che il fratello di Maria Paola paghi per quello che ha fatto. Parliamo di due dinamiche che confluiscono. Qui c'è una donna che in qualche modo deve essere vinta dal volere degli altri e assoggettata al patriarcato; e c'è poi questa cultura per cui si debba negare la propria identità di genere a un ragazzo, la transfobia". Arcigay sarà al fianco di Ciro con la propria squadra di psicologi e legali. "Aiuteremo Ciro - spiega - gli metteremo al fianco degli psicologi per affrontare il lutto. Ma vogliono che fratello paghi per quello che ha commesso. Vogliono che paghi. Avranno anche un supporto legale, saranno supportati da tutta la comunità Lgbt". "Ciro - aggiunge Daniela Falanga - è sconvolto per quello che sta ascoltando in queste ore. Legge cose non vere, non si sta presentando l'orrore per quello che è. Piange tanto, sta male per questa separazione che rivendica come la sua vita. Avevano in animo di andare a vivere insieme e Paola l'avrebbe accompagnato nel percorso di transizione che stava per cominciare. A Ciro, che è già un uomo, è stata tolta una parte della sua esistenza. So che Paola ha provato a convincere la famiglia ma è sempre stata trattata malissimo".

Morte di Maria Paola, Daniela: “Anch'io ero il mostro, oggi papà mi ha riconosciuta donna”. Le Iene News il 14 settembre 2020. Daniela Lourdes Falanga, presidente di Antinoo Arcigay Napoli, parla con Iene.it della tragedia di Maria Paola Gaglione. La 20enne è morta dopo uno scontro in motorino con il fratello, accusato di omicidio preterintenzionale: avrebbe speronato il motorino della sorella perché contrario alla sua relazione con un ragazzo trans. “La morte di Paola è avvenuta nella maniera più assurda possibile. Sono venute a confluire due questioni fondamentali: si tratta sia di femminicidio e che di transfobia. C’è un’idea predominante sulla donna che deve sottostare a regole familiari patriarcali. E poi dall’altra parte c’è Ciro, che è l’uomo trans, il mostro, la persona che infettava la ragazza”.  Daniela Lourdes Falanga, presidente dell’Antinoo Arcigay Napoli, commenta così la morte di Maria Paola Gaglione, avvenuta nella notte tra l’11 e il 12 settembre. La stessa Daniela, donna trans, ha vissuto sulla sua pelle la discriminazione e il rifiuto: quando, come racconta, veniva considerata “un mostro” dalla sua stessa famiglia. Maria Paola Gaglione era a bordo di uno scooter con il suo compagno trans, Ciro Migliore. I due si sarebbero scontrati con un altro motorino, guidato dal fratello della ragazza, Michele. Secondo la procura di Nola non si sarebbe trattato di un incidente. Michele avrebbe speronato il motorino su cui viaggiava la sorella perché contrario alla sua relazione con Ciro. Nell’udienza preliminare il gip ha appena convalidato il fermo di Michele Gaglione, accusato di omicidio preterintenzionale aggravato dai futili motivi. Michele e la sua famiglia sostengono si sia trattato di un incidente e non di una azione volontaria. L’avvocato di Gaglione ha dichiarato che Michele voleva solo parlare con la sorella per farla ragionare dal momento che questa era scappata di casa. “Non è vero che è stato un incidente”, ha detto Ciro, rimasto ferito nello scontro, in una conferenza stampa. “Mi è corso dietro, mi voleva per forza ammazzare. L’abbiamo incontrato per caso, me lo sono trovato dietro”. Daniela, che potete vedere nell’intervista video qui sopra, ha avuto modo di parlare con Ciro dopo l’accaduto: “Gli ho detto che c’è tutto il supporto non solo della comunità Lgbt ma anche di chi comprende quanto è stato violato. Lui piangeva e chiede fermamente di poter vedere la sua ragazza prima dell’ultimo saluto. Spero che la famiglia di Maria Paola gli dia questa possibilità”. Succede spesso che le famiglie rifiutino un figlio o una figlia trans o relazioni di questo tipo? “Ci sono ancora molti spazi di negazione”, ci dice Daniela. “Un miglioramento c’è. Fino a cinque anni fa al consultorio non arrivava nessuno ad accompagnare i propri figli. Oggi invece arrivano tantissime famiglie”. “Spero che questa storia renda evidente quanto sia importante avere una legge contro l’omotransfobia”, continua Daniela parlando del testo arrivato alla Camera. “Diciamo a quei politici che sostengono che leggi contro la violenza di genere esistono già che le persone trans, lesbiche, gay e bisessuali sono intercettate come tali e come tali vengono violate. Per questo ci vuole una legge ad hoc”. Con una legge del genere, afferma Daniela, episodi come questo “si potevano evitare perché questi ragazzi potevano avere uno spazio dove stare, come una casa di accoglienza dove vivere il loro amore. Una legge serve anche a questo”. Daniela ha vissuto sulla sua pelle le difficoltà che ora aiuta gli altri a superare. “Quando ero un bambino mi era evidente che ero in un’altra parte del mondo, in un’altra parte della mia identità. Lo capivo quando attraversavo la scuola e avevo il grembiule blu, quando non potevo ballare, non potevo giocare con le bambine”. Una consapevolezza che Daniela ha deciso di esternare alla sua famiglia a 17 anni: “L’ho fatto quando ho saputo che potevo essere una donna trans, che c’era questa opportunità. L’ho saputo vedendo Maurizio Costanzo che intervistava Eva Robin’s, che si dichiarava una donna trans”. Come l’ha presa la sua famiglia? “Ho dovuto far fronte a reazioni terribili. Mio padre inviò una lettera alla mia famiglia per far sì che tutti si allontanassero da me. Io ero il mostro”. L’infanzia di Daniela è a Torre Annunziata, provincia sud di Napoli, in una famiglia già difficile: figlio primogenito di un boss della camorra, condannato poi a scontare la sua pena nel carcere di Rebibbia. Ed è da questo carcere che, racconta Daniela, il padre mandò quella lettera per tenere lontani i familiari da lei. Solo 25 anni dopo, durante un incontro fortuito in una scuola dove Daniela parlava di transfobia e il padre recitava come attore insieme ad altri detenuti in un’iniziativa contro le discriminazioni di genere, ci sarà un riavvicinamento. “Ci siamo visti”, racconta Daniela, “in quel momento lui ha riconosciuto la donna che ero e si è complimentato per quello che ero diventata”. Anche Daniela, come Maria Paola, è fidanzata con un uomo trans. Le famiglie li hanno mai osteggiati? “No, ma c’è da dire che la nostra consapevolezza è talmente alta che sapremmo in ogni caso difenderci. Per questo è importante sapersi raccontare. Per questo è importante che questi ragazzi e ragazze vengano al consultorio. Il nostro, nella Asl 3 Sud a Napoli, è il primo in Italia a offrire un aiuto in maniera completamente gratuita. Perché la libertà non si paga, la libertà è un diritto fondamentale umano. Diamo a questi ragazzi la possibilità e l’energia per potersi regalare la libertà”.

Parla Daniela Falanga. “Ciro è un uomo, Arcilesbica fa lerciume ideologico”, l’attacco dell’Arcigay sul dramma di Caivano. Roberta Caiano Il Riformista il 14 Settembre 2020. “Credo sia chiaro ed evidente che si tratti di un’azione che ha portato una ragazza innamorata di un ragazzo trans a subire la condanna di una cultura patriarcale inevitabilmente assoggettata al predominio, una forma di padronanza della donna, e a Ciro di essere vittima di transfobia. In questa situazione confluiscono due concetti fondamentali e purtroppo violenti. Uno è il femminicidio e l’altro è la transfobia”. Così commenta il caso di cronaca accaduto a Caivano Daniela Falanga, presidente dell’Arcigay Napoli e prima donna transessuale a presiedere il circolo. Maria Paola Gaglione, 18enne di Caivano, e Ciro Migliore, 22enne di Acerra, sono stati inseguiti e speronati da Michele Antonio Gaglione, fratello di lei, che non accettava la relazione tra i due. Nell’incidente Maria Paola ha perso la vita, mentre Ciro è ricoverato in ospedale da due giorni e non si dà pace per quanto accaduto. A non darsi pace sono in tanti. Ma in particolare Ciro e la sua famiglia. “La madre di Ciro mi ha chiesto di dire chiaramente alla stampa che ricevevano già delle minacce di morte e che quindi la questione era grave. E purtroppo, alla fine, in questa violenza inaudita è morta una persona. Qui non parliamo di una situazione in cui c’è ancora da definire cosa sta accadendo”. La famiglia di Ciro, però, nonostante le reiterate minacce non ha mai denunciato. “Non credo loro denuncino, in questo momento sono fragili, hanno paura ma spero di dare il massimo supporto per fare in modo che non rinuncino. Anche se penso che la legge a questo punto vada da se”. In queste ore molti sono stati i messaggi di vicinanza e solidarietà per la tragedia accaduta. Ma Daniela tiene a specificare che la questione di Ciro e Maria Paola ha messo in evidenza ciò che accade tutti i giorni. “Ti assicuro che il problema è stato solo messo in evidenza, ma la questione ha un corso”, racconta Daniela al Riformista. “L’abbiamo toccata con mano anche durante la piena emergenza Covid. Io personalmente sono dovuta andare a prendere un ragazzo fuori stazione, buttato fuori di casa in pieno lockdown, ad Ariano Irpino. Cioè stiamo parlando del momento in cui, durante il Covid, quell’area geografica era zona rossa. Sono vicende che viviamo costantemente”. Ora più che mai si è giunti ad un punto di non ritorno, dove la legge contro l’omolesbobitransfobia, è diventata necessaria.“Questa legge è indispensabile per l’azione che bisogna compiere su un’Italia che purtroppo è ancora culturalmente arretrata, e queste vicende lo dimostrano. Questo è fondamentale perché avremo l’opportunità e l’occasione per accogliere persone. Avremo la possibilità di sanare una cultura discriminante, selettiva che terribilmente coinvolge l’intero Paese”, spiega Daniela. “Lo faremo nelle scuole, avremo la possibilità di entrare anche in quegli istituti dove purtroppo c’è una negazione ideologica di chi governa. Potremo gestire enti di accoglienza, che sono quelli di cui noi discutiamo da almeno vent’anni. Sono tante le persone che vengono condannate al silenzio, alla violenza, a coppie come quelle di Ciro che devono allontanarsi dalle proprie famiglie”. 

TRANSFOBIA E DISCRIMINAZIONE – Non appena la notizia di Maria Paola e Ciro è rimbalzata agli onori delle cronache, molte sono state le critiche ai media che hanno definito Ciro come la “ragazza” di Maria Paola ed identificandolo ancora come donna. “Ciro è stato vittima di transfobia. Una legge contro l’omolesbobitransfobia ci darebbe innanzitutto un supporto per fare una formazione chiara nell’informazione perché il problema grave è che gli specialisti dell’informazione, chi si deve occupare di questo, non sa assolutamente niente né di orientamento sessuale, né di identità di genere”. Secondo la Falanga “cambiano le narrazioni. Parlare di narrazione vuol dire togliere dal racconto la persona stessa, addirittura deturparla. Modificare una narrazione significa inevitabilmente raccontare in maniera sbagliatissima”. A questo proposito, la pagina Facebook di ArciLesbica Nazionale si è pronunciata sul caso con una serie di post che stanno letteralmente dividendo la rete e l’opinione pubblica su un argomento che è sempre più oggetto di dibattito. In particolar modo è finito sotto accusa il messaggio in cui spiegano che “la transessualità non si autocertifica, ci sono passi da fare ben precisi. Il fatto al momento non smentito è che Cira Migliore ha documenti e corpo femminili, non ha mai iniziato alcun percorso di transizione. In caso questo venga ufficialmente rettificato, provvederemo a chiamarlo Ciro, trans ftm, da femmina a maschio”. La presidente Daniela Falanga non si perde in mezzi termini e accusa: “A noi di arciLesbica non ce ne frega nulla. Lo definisco lerciume ideologico. ArciLesbica fa parte semplicemente di quel pre-femminismo che è legato ai corpi, in cui un uomo e una donna trans si autodeterminano nel genere di appartenenza solo per un pene e una vagina”. In realtà aggiunge Daniela “una persona trans si autodetermina nel momento in cui sente di appartenere al genere elettivo, non è ArciLesbica a dover chiarire chi è Ciro, ma Ciro stesso. Ciro è un uomo trans e non ha bisogno di gestire un percorso per definire chi è e quello che è, lo racconta la sua ragione”. Oltre al caso di Maria Paola e Ciro, la Falanga ci tiene a specificare che messaggi come quelli veicolati da ArciLesbica  creano “un’involuzione dell’informazione e della cultura”. Per la presidente Arcigay, infatti, ArciLesbica “è solo un altro sistema patriarcale per creare predominanza sugli altri. E’ di ideologia ariana, sviluppa le proprie idee attraverso i corpi e selezionando i corpi. A noi non interessa, la scienza ha chiarito chi sono le persone trans. Non abbiamo bisogno di arciLesbica. E non farò  mai passare le loro informazioni sulla mia pagina perché sono deleterie”. Inoltre Daniela ci tiene a spiegare che “per fortuna oggi le persone trans fanno politica e in questa politica hanno la voce e la loro voce deve essere ascoltata, non quella di arciLesbica”.

Fulvio Bufi per corriere.it il 14 settembre 2020. Omicidio preterintenzionale aggravato dai futili motivi. Il gip di Nola, Fortuna Basile, ha convalidato il fermo di pm. Resta in carcere Michele Antonio Gaglione, accusato di aver ucciso la sorella Maria Paola speronandola mentre era in scooter. Si è conclusa così al tribunale di Nola l’udienza preliminare nei confronti del trentenne del Parco Verde di Caivano accusato di aver provocato la morte della sorella Maria Paola facendola cadere dallo scooter sul quale la ragazza si trovava insieme al suo fidanzato Ciro Migliore. Gaglione si opponeva alla relazione della sorella, in quanto Ciro è trans, e già più volte aveva minacciato il ragazzo per costringerlo a lasciare Maria Paola. Venerdì sera li ha visti sullo scooter e ha cominciato a inseguirli con la sua moto. In una stradina stretta, poi, li ha speronati. La sorella, cadendo, ha battuto la testa ed è morta. Nel corso dell’udienza, durata circa due ore e svoltasi in un clima drammatico, Gaglione si è difeso sostenendo che non voleva far del male alla ragazza, e confermando quindi la tesi difensiva sostenuta anche dai suoi familiari: cioè che si sia trattato di un incidente fortuito e non di una azione eseguita volutamente. Gaglione - che è assistito dall’avvocato Domenico Paolella e deve rispondere di omicidio preterintenzionale aggravato dai futili motivi - avrebbe detto al gip che per lui Maria Paola più che una sorella era quasi una figlia. Paolella ha detto che «la famiglia aveva perso le tracce di Maria Paola da qualche settimana. Ha fatto le valigie e se n’è andata. Quando Antonio l’ha vista in sella allo scooter, l’ha inseguita con la sua moto, ma per chiederle di tornare a casa, per parlarle, per farla ragionare. Era andata via senza spiegazioni e tutta la famiglia era disperata». In una conferenza stampa Ciro, il fidanzato di Maria Paola, ha dichiarato: «Non è vero che è stato un incidente. Mi è corso dietro, mi voleva per forza ammazzare. L’abbiamo incontrato per caso, me lo sono trovato dietro». Ciro ha raccontato che qualche giorno prima dell’accaduto «Michele è venuto sotto casa mia e mi voleva tagliare la testa, c’era anche mia madre, può confermarlo. Mi ha detto che mi avrebbe ammazzato. Mi diceva che non dovevo stare con la sorella altrimenti mi ammazzava». «La mia famiglia - ha aggiunto- mi vuole bene per quello che sono, non ce la faccio più. Doveva succedere a tutte e due. Io la voglio vedere per l’ultima volta Maria Paola».

La difesa del fratello di Maria Paola: "Non le avrei mai fatto del male, per me è come una figlia". Pubblicato lunedì, 14 settembre 2020 su La Repubblica.it da Dario Del Porto. "Maria Paola e io abbiamo dieci anni di differenza. È mia sorella, ma per me era quasi come una figlia. Non le avrei mai fatto del male. È stato un incidente, non ho speronato lo scooter". È stato un interrogatorio a tratti drammatico, più volte interrotto dalle lacrime, quello di Michele Antonio Gaglione, il trentenne arrestato con l'accusa di aver provocato la morte della sorella Maria Paola, di 20 anni, inseguendo con la sua moto il motorino sul quale la ragazza viaggiava insieme al compagno Ciro. Alla base del gesto, secondo la ricostruzione investigativa, ci sarebbe stata l'ostilità della famiglia Gaglione verso la relazione che Maria Paola, aveva con il giovane, donna all'anagrafe ma che si sentiva un uomo e come tale da anni vive e si comporta. Assistito dagli avvocati  Domenico Paolella e Giovanni Cantelli, Gaglione ha risposto per oltre due ore al giudice di Nola Fortuna Basile che nelle prossime ore deciderà sulla richiesta di convalida avanzata dalla pm Patrizia Mucciaccitto, che con il procuratore Laura Triassi coordina le indagini dei carabinieri di Castello di Cisterna. Gaglione ha respinto con energia l'accusa di omicidio preterintenzionale aggravato dai futuri motivi. E ha sottolineato: "Non vedevo mia sorella da Ferragosto, non avevo più sue notizie. L'ho cercata perché volevo parlarle. È vero, ho inseguito il motorino, ma non l'ho speronato. Non avrei mai potuto farlo. È stato un incidente. Andavano a forte velocità, li ho visti sbandare e sono caduti". Sul rapporto della sorella con Ciro, Gaglione ha detto: "All'inizio di certo non ero contento. Desideravo che avesse dei figli, ma alla fine me ne ero fatta una ragione".  "Antonio non ha mai detto quella frase ("Volevo darle una lezione, non ucciderla. Ma era stata infettata da quella", ndr), non risulta nei verbali e neppure l'ha detto quando è stato ascoltato la prima volta dai carabinieri. La famiglia? È devastata, con una figlia morta e un figlio in carcere...". Lo ha sottolineato l'avvocato Paolella, legale di Antonio Gaglione. L'avvocato ha fatto anche sapere che il gip Fortuna Basile, al termine dell'interrogatorio sostenuto da Antonio Gaglione davanti al pm Patrizia Mucciacito, si è riservata la decisione che, probabilmente, potrebbe giungere nel pomeriggio. L'avvocato Paolella ha voluto sottolineare che durante l'interrogatorio, durato quasi tre ore, si è fatta chiarezza "sulle imprecisioni circolate sulla vicenda".

Il fratello di Maria Paola: “Non volevo ucciderla, non le avrei mai fatto del male”. Il Gip ha deciso di convalidare l’arresto di Michele Antonio Gaglione, il fratello 30enne di Maria Paola Gaglione, la ragazza rimasta uccisa a causa, sembrerebbe, della sua relazione con un trans. Il Gip ha deciso di convalidare l’arresto di Michele Antonio Gaglione, il fratello 30enne di Maria Paola Gaglione, la ragazza rimasta uccisa a causa, sembrerebbe, della sua relazione con un trans. Gaglione è infatti indagato per omicidio preterintenzionale aggravato dai futili motivi in quanto non condivideva la relazione della sorella con Ciro Migliore, un ragazzo transessuale. Ad Acerra (Napoli) il 30enne avrebbe speronato il motorino su cui si trovano Ciro e Paola, colpendo il veicolo con ripetuti calci per farlo cadere. La rovinosa caduta del mezzo ha poi provocato la morte della 20enne di Caivano.

Il racconto di Ciro: “Voleva ucciderci”. Ciro ha raccontato di essersi accorto all’improvviso di essere inseguito da Michele Gaglione, fratello della sua compagna Maria Paola. “Mi diceva ‘ti devo uccidere, devi fermarti’. Paola gli diceva che c’era anche lei sullo scooter e che la doveva smettere, ma lui guardava solo me, non pensava a lei. Voleva uccidermi. Ci ha fatto cadere colpendo il mezzo a calci. Dopo essere caduti sono andato verso Paola per vedere come stava, ma il fratello mi ha bloccato e mi ha picchiato. E’ stato un incubo”. “Dovevo morire assieme a lei ma lasciatemela vedere per l’ultima volta”, ha detto ancora Ciro Maglione. “Devono pagare Michele, la mamma e il papa’. Tutti e tre devono pagare. Ma quale incidente, non e’ vero”, ribadisce la madre.

L’avvocato di Antonio: “L’ha inseguita ma voleva solo parlargli”. Ha confermato di averli inseguiti, in sella alla sua moto, ma non di avere provocato la tragica caduta dello scooter sul quale viaggiavano la sorella e il compagno trans, sferrando un calcio: “Sul luogo dell’incidente ho notato la presenza delle telecamere. Tutto sarà chiarito, se ci sono le registrazioni. Io credo alle sue parole”. Sono le parole dell’avvocato Domenico Paolella, legale di Antonio Gaglione, fratello di Maria Paola.  “Questa tragedia – continua l’avvocato Paolella – è stata strumentalizzata: la famiglia si aspettava piu’ delicatezza”. Il legale ha anche voluto sottolineare che, nel corso dell’interrogatorio sostenuto dal suo cliente, il sostituto procuratore incaricato dell’indagine non ha mai toccato l’argomento omofobia. “Antonio, come tutta la famiglia, era a conoscenza della relazione della sorella da circa due anni e mezzo”, ha detto ancora Paolella ribadendo che il suo cliente “non le avrebbe mai fatto del male”. “Al giudice ha spiegato – ha detto ancora il legale – che la famiglia aveva perso le tracce di Maria Paola da qualche settimana. Ha fatto le valigie e se n’è andata. Quando Antonio l’ha vista in sella allo scooter, l’ha inseguita con la sua moto, ma per chiederle di tornare a casa, per parlarle, per farla ragionare. Era andata via senza spiegazioni e tutta la famiglia era disperata”. Ciro Migliore, intanto, si trova in una clinica di Acerra, in provincia di Napoli dove è stato ricoverato per le lesioni e una frattura all’avambraccio causati nell’incidente.

SIMONA PLETTO per Libero Quotidiano il 14 settembre 2020. Voleva darle una lezione, accecato dalla rabbia per quel rapporto omosessuale. Così ha inseguito e speronato la sorella, colpevole di amare un trans. La giovane è volata a terra ed è morta. C' è una tragedia nella tragedia dietro a quello che in un primo tempo era sembrato un incidente stradale. Michele Antonio Gaglione, 25 anni, ha infatti ucciso la sorella speronando il suo scooter e ha pestato a sangue il compagno trans della ragazza, ferito dopo essere caduto dalla moto. Il motivo? Non sopportava più quella che per lui era una «vergogna», ovvero la relazione sentimentale tra i due. L' assurdo dramma è avvenuto in provincia di Napoli. L' uomo è stato arrestato. Maria Paola Gaglione, vent' anni, e il suo compagno Ciro Migliore, 22enne trans, si erano conosciuti al Parco Verde di Caivano, in quel ghetto di dignità e miserie umane che già in passato è stato al centro delle cronache per la morte della piccola Fortuna Loffredo. I du avevano una relazione stabile, cementata da qualche anno di convivenza. Per Michele Antonio però, quella storia d' amore, mai nascosta ma nemmeno sbandierata, era insopportabile. E cosi ha deciso che servisse loro una lezione, ha inforcato il suo scooter e ha seguito Maria Paola e Ciro che a bordo della loro moto erano in viaggio da Caivano ad Acerra. Con un' improvvisa accelerata ha raggiunto lo scooter tamponandolo con violenza. L' urto ha fatto sbandare il mezzo, che è uscito di strada per poi impattare contro la recinzione di un campo. Fatale per la giovane l' impatto contro un tubo per l' irrigazione nei campi che le ha provocato ferite pesanti alla gola. Sul posto sono giunti i carabinieri della caserma di Acerra, che hanno fermato Michele e chiamato l' ambulanza. Ma per Maria Paola non c' era più nulla da fare. Ciro è stato invece portato alla clinica Villa dei Fiori di Acerra. Ha subìto alcune lesioni, ma resta il devastante stato di shock emotivo. omicidio aggravato Davanti ai militari Gaglione, ora in carcere con l' accusa di omicidio preterintenzionale e violenza privata aggravata da omofobia, ha confessato. «Volevo darle una lezione, non ucciderla. Volevo dare una lezione soprattutto a quella là che ha infettato mia sorella che è sempre stata 'normale'. Ma era stata infettata», ha detto agli inquirenti. Subito dopo la tragedia, la mamma di Ciro ha gridato tutto il suo dolore, accusando apertamente Michele «di aver commesso deliberatamente un omicidio perché non sopportava che la sorella frequentasse un uomo trans». E ha aggiunto: «I figli si accettano così come vengono. Paola riposa in pace». «Michele era uscito per convincere la sorella Maria Paola a rientrare a casa ma non l' ha speronata, è stato un incidente». È questa la versione dei fatti fornita dalla famiglia Gaglione e riportata dal parroco del Parco Verde di Caivano don Maurizio Patriciello. Il fidanzato di Maria Paola ha affidato a a Instagram il suo doloroso messaggio d' addio alla ragazza: «Amore mio, oggi sono esattamente 3 anni di noi, 3 anni. A prenderci e lasciarsi in continuazione, avevo la mia vita come tu avevi la tua, ma non abbiamo mai smesso di amarci. Dopo 3 anni ti stavo vivendo, ma la vita mi ha tolto l' amore mio piu grande, la mia piccola». Tante le reazioni politiche, soprattutto perché la tragedia riaccende i riflettori sul discusso ddl Zan, la legge contro l' omotransfobia. Per la sinistra in coro è una norma «non più rinviabile». Pro Vita e Famiglia onlus, attraverso il presidente Toni Brandi e il suo vice Jacopo Coghe, si uniscono alle reazioni di sdegno per quanto accaduto, ma bacchettano soprattutto 'Zingaretti & Co', invitando a «non strumentalizzare il caso per agevolare l' iter ddl Zan». «Per famiglia è stato un incidente», dicono, «dunque quanti hanno già condannato il fratello attendano almeno di conoscere prima l' esito delle indagini». Pro Vita ne approfitta anche per contestare Fabrizio Marrazzo, portavoce del Gay Center. Per Brandi e Coghe «la legge deve continuare ad essere uguale per tutti e non un privilegio di pochi».

Ansa.it il 15 settembre 2020. A meno di due ore dall'inizio dei funerali di Maria Paola Gaglione, la 22enne morta dopo essere stata speronata dal fratello, appare fuori dalla chiesa del parco Verde di Caivano un manifesto inviato da Ciro, il suo compagno che quasi sicuramente non potrà essere presente al rito funebre. Ad affiggere il testo, due giovani arrivati a bordo di un motorino: ci sono quattro foto dei due giovani insieme, un cuore con i loro nomi e un lungo messaggio d'addio. "Correvamo solo verso la nostra libertà, o almeno credevamo di farlo, verso la nostra piccola grande felicità. Ovunque sarai, il mio cuore sarà lì con te. Ti amerò oltre le nuvole. Ciro". Intanto rimane in carcere Michele Antonio Gaglione, 25 anni, il fratello di Maria Paola. Lo ha deciso il gip Fortuna Basile di Nola (Napoli). Il ragazzo, è accusato dell'omicidio preterintenzionale della sorella aggravato dai futili motivi. Sostiene di non aver mai detto "era infettata" e non voleva ucciderla, l'avrebbe inseguita solo per parlarle e poi urtato lo scooter. Intanto Ciro in una conferenza stampa racconta le fasi dell'omicidio e ricorda la compagna Maria Paola. "La mia famiglia mi vuole bene per quello che sono, non ce la faccio più. Doveva succedere a tutte e due. Io la voglio vedere per l'ultima volta a Maria Paola". Il ragazzo ha raccontato delle minacce di morte e aggressioni fisiche verso Maria Paola da parte della famiglia di lei. "L'ho inseguita a bordo del mio scooter, ma non l'ho uccisa. Non ho provocato io l'incidente. Volevo solo chiederle di tornare a casa: aveva fatto le valigie ed era scomparsa, gettando tutta la famiglia nella disperazione". E' questa - secondo quanto riferito in sintesi dal suo legale, Domenico Paolella - la tesi difensiva che Michele Gaglione, fermato per omicidio preterintenzionale dopo la morte della sorella Maria Paola, ha ribadito stamane durante l'udienza di convalida davanti al gip. "Devono pagare Michele, la mamma e il papà. Tutti e tre devono pagare. Ma quale incidente, non è vero". Lo ha detto la mamma di Ciro Migliore, il giovane trans ferito nell'incidente,  che ha portato alla morte della sua fidanzata. Maria Paola, 18 anni compiuti a luglio, e Ciro, 22 anni e qualche precedente per spaccio, si erano conosciuti in quel mix di dignità e miserie umane che è il Parco Verde di Caivano (Napoli) quando lui era ancora Cira. Il loro amore transgender, mai accettato dalla famiglia di lei, è finito tragicamente nella notte tra venerdì e sabato nel fosso di una stradina di campagna della vicina Acerra dove Maria Paola, in fuga con Ciro sullo scooter, è caduta sbattendo la testa contro una colonnina di cemento che provvede all'irrigazione dei vicini campi agricoli. Un incidente come tanti se non fosse che a determinarlo, secondo le prime indagini dei carabinieri, sarebbe stato il fratello di lei Michele Antonio, 30 anni, al termine di un inseguimento fatto di calci e tentativi di speronamento. Con la sorella a terra esanime l'uomo, in preda a un raptus di violenza, si sarebbe scagliato sul suo compagno che era sul selciato prima di rendersi conto delle condizioni in cui versava la sorella. Nessuno indossava il casco. Ciro è in ospedale, ma le sue condizioni non preoccupano. "Michele era uscito per convincere la sorella Maria Paola a rientrare a casa ma non l' ha speronata, è stato un incidente". È la versione dei fatti fornita dalla famiglia di Maria Paola e Michele Gaglione e riportata dal parroco del Parco Verde di Caivano don Maurizio Patriciello. "E' una famiglia distrutta e che non si da' pace per una figlia appena maggiorenne. Ma stiamo attenti a dipingerla come una storia di omofobia. Forse non sanno nemmeno cos'è. Quel che e' vero è che non erano preparati e non vedevano di buon occhio la relazione con Ciro ma so che si stavano abituando all'idea. Tuttavia erano preoccupati perché Maria Paola era andata via di casa a soli 18 anni e temevano per un futuro senza lavoro e più che mai incerto", riferisce Don Patricello dopo aver portato il suo conforto a Franco e Pina, i genitori di Maria Paola. Sembra, infatti, che la giovane vivesse la sua storia d'amore con Ciro appoggiandosi presso residenze provvisorie, ora da amici, ora dai parenti di lui. Situazione che non era ben vista dalla famiglia di lei.

La mamma di Ciro: "I figli si accettano". Su Facebook, subito dopo la tragedia di Caivano, la mamma di Ciro ha gridato tutto il suo dolore, accusando apertamente Michele Antonio "di aver commesso deliberatamente un omicidio perché non sopportava che la sorella frequentasse un uomo trans. I figli si accettano così come vengono. Paola riposa in pace". I due l'altro ieri sera erano in viaggio da Caivano ad Acerra quando sono stati raggiunti dal giovane, anch'egli a bordo di uno scooter, che ha tamponato con violenza il mezzo provocando la caduta dei due occupanti il mezzo. Maria Paola è morta all'istante mentre il compagno è ferito; ancora a terra è stato picchiato dal ragazzo che gli ha rivolto l'accusa di aver plagiato la sorella.  E' stato portato in una clinica della zona, le sue condizioni non sono gravi.

La versione del fratello. "Volevo darle una lezione, non ucciderla. Ma era stata infettata", ha detto ai carabinieri, secondo quanto riferito, Antonio Gaglione, fermato per la morte della sorella. Inizialmente rispondeva di lesioni personali, morte come conseguenza di un altro delitto e violenza privata, ma la sua posizione si è aggravata ed è finito in cella per omicidio preterintenzionale e violenza privata aggravata dall'omofobia.

Le reazioni. Secondo Fabrizio Marrazzo, portavoce del Gay Center, "quanto accaduto, dimostra quanto siano duri i contesti che da tempo denunciamo con il nostro numero verde Gay Help Line 800 713 713. Per questo serve una legge seria contro l'omotransfobia, che prevenga situazioni di questi tipo e che senza dubbi condanni le dichiarazioni che vedono l'omosessualità come una malattia o qualcosa di inferiore, mentre l'emendamento "Salva Opinioni Omofobe", voluto da Costa (ex FI) ed approvato dalla maggioranza, renderebbe queste espressioni lecite. Espressioni e pregiudizi per i quali Paola è stata uccisa. Questo emendamento va cambiato e vanno resi certi i supporti per i centri di protezione, da noi richiesto e previsti dalla legge contro l'omotransfobia, che ora la commissione bilancio sembra che li voglia ulteriormente limitare." "Chiediamo giustizia per Paola, il colpevole non è solo il fratello, ma anche gli altri familiari che la hanno maltrattata ed hanno consentito quanto accaduto senza proteggerla e senza denunciare", conclude Marrazzo.

Dario Del Porto per la Repubblica - Estratto il 15 settembre 2020. I Gaglione si schierano con Michele: «Siamo certi della sua innocenza ». Ma respingono le accuse di omofobia: «Eravamo preoccupati per Paola, ma non per le sue scelte sentimentali o sessuali», dicono mentre cala la sera sul Parco Verde di Caivano, il quartiere ghetto trasformato in una delle principali piazze di spaccio di droga della provincia. In strada c' è tensione. «Non abbiamo mai creduto all' ipotesi dell' aggressione e non ci crederemo mai, perché conosciamo Michele e il suo amore per Paola», affermano Franco e Pina. Ed esprimono «il più forte dissenso per le frasi omofobe attribuite a noi e a nostro figlio. Nella nostra famiglia non c' è spazio per l' odio verso il prossimo né per la discriminazione per motivi sessuali». Se non accettavano quel rapporto, era perché avvertivano «il pericolo di una frequentazione con una persona, ad avviso di noi genitori, poco affidabile. La nostra critica era alla persona, mai all' orientamento sessuale. Il tempo dirà se le nostre erano preoccupazioni fondate». Ciro invece ha raccontato un' altra storia. «Stavamo insieme da tre anni ma la famiglia di Maria Paola non voleva. Dicevano che eravamo due donne. Li ho sentiti dire che avrebbero preferito che la figlia morisse, piuttosto che stare con uno come me. Un masculillo », ha detto a Repubblica. Con i carabinieri ha sostenuto di essere stato minacciato «ripetutamente » dalla famiglia Gaglione, il 13 luglio scorso proprio da Michele: «Si è presentato a casa mia dicendomi testualmente: "Se non lasci mia sorella, ti taglio la testa e ti ammazzo"».

Fulvio Bufi per corriere.it il 15 settembre 2020. Michele Antonio Gaglione non potrà partecipare, oggi pomeriggio, ai funerali della sorella, anche se nel manifesto funebre c’è pure il suo nome tra quello dei parenti che danno «il triste annuncio» della morte di Maria Paola Gaglione, «tragicamente venuta a mancare all’affetto dei suoi cari». Michele Antonio non ci sarà perche resta in carcere. Maria Paola è morta per colpa sua, ha stabilito il gip al termine dell’udienza preliminare. È morta perché lui, che non sopportava la storia tra la sorella e Ciro, il fidanzato trans, li ha inseguiti in moto per 16 minuti da Caivano fino ad Acerra, mentre i due ragazzi scappavano, anche loro in scooter. Correvano le due moto, e da dietro Michele Antonio urlava «t’aggio accirere», rivolto a Ciro, «Ti devo uccidere». E cercava di tagliargli la strada, e quando riusciva ad affiancarlo scalciava contro la scocca dell’SH del ragazzo, incurante che sul sellino ci fosse anche sua sorella. Anzi, nonostante proprio lei gli urlasse di smetterla, perché la stava mettendo in pericolo.

Il rischio della vendetta familiare. Questa ricostruzione di ciò che è accaduto nella notte tra venerdì e sabato, — quando Maria Paola è morta cadendo dallo scooter e battendo la testa su una colonnina di cemento, e Ciro Migliore, il suo fidanzato, è rimasto ferito anche dai pugni e dai calci sferrati da Gaglione mentre quello tentava di rialzarsi — è contenuta nelle dieci pagine dell’ordinanza firmata dal gip del Tribunale di Nola Fortuna Basile, che esclude per Gaglione anche la concessione degli arresti domiciliari. Perché se li ottenesse ritornerebbe al Parco Verde di Caivano, dove risiede la sua famiglia ma anche quella di Ciro, e ciò, scrive il gip, comporterebbe un rischio «in ragione del non pacifico rapporto esistente» tra i due nuclei.

L’inseguimento. Ma questo è un aspetto secondario della decisione presa dal giudice al termine dell’udienza preliminare. Il gip ha stabilito che Gaglione deve restare in carcere sulla base del suo comportamento di quella notte. Quando, per sua stessa ammissione, «ha inseguito la sorella perché voleva riportarla a casa». E durante l’inseguimento allo scooter di Ciro Migliore ha «tentato più volte di tagliargli la strada, al fine di arrestarne la corsa, e ha spinto con la mano o con un calcio lo scooter sempre nel tentativo di fermarlo».

Le impronte delle scarpe sullo scooter. Gaglione sostiene di non aver né spinto l’altro mezzo, né sferrato calci, quando sua sorella e Ciro sono caduti . Dice che è stato il ragazzo a perdere il controllo, e di conseguenza la stabilità, dello scooter. Ma per il giudice «cambia poco che il Gaglione abbia o meno sferrato il colpo “fatale” con il piede sullo scooter, perché è indubbio, come peraltro ammesso dall’indagato, che lo stesso teneva una condotta di guida pericolosa», si legge nell’ordinanza. E altrettanto «indubbio», prosegue il gip, è «che una tale condotta si rivelava pericolosa e idonea alla perdita di controllo dello scooter» da parte di Migliore. «Specialmente in virtù del fatto che si ripeteva più volte durante la corsa». Infatti «sulla parte sinistra dello scooter» sul quale viaggiava anche Maria Paola «sono state trovate impronte compatibili con la suola delle scarpe indossate dal Gaglione».

«Nessuna discriminazione sessuale». Per ora quindi a credere all’innocenza di Michele Antonio restano soltanto i suoi genitori. Che ieri, al termine dell’autopsia, hanno potuto riportare a casa il corpo di Maria Paola. E hanno voluto diffondere una dichiarazione in cui sostengono di essere «certi dell’innocenza di nostro figlio Michele. Non abbiamo mai creduto all’ipotesi dell’aggressione perché conosciamo Michele e il suo amore per Paola». I Gaglione negano di essersi opposti alla relazione tra la loro figlia e Ciro per questioni di carattere sessuale: «Nella nostra famiglia, umile e cristiana, non c’è spazio per l’odio verso il prossimo e a maggior ragione non c’è spazio per l’odio o la discriminazione per motivi sessuali. Eravamo preoccupati per Paola, ma non per le sue scelte sentimentali o sessuali. Sentivamo il pericolo di una frequentazione con una persona, ad avviso di noi genitori, poco affidabile. La nostra critica era alla persona, mai all’orientamento sessuale. Il tempo dirà se le nostre erano preoccupazioni fondate».

Omicidio a Caivano. Maria Paola, Michele scrive una lettera dal carcere: “Ho perso un pezzo del mio cuore”. Redazione su Il Riformista il 17 Settembre 2020. “Ho perso un pezzo del mio cuore, la mia sorellina”. Michele Gaglione affida queste parole a una lettera al fratello Giovanni. È distrutto per la morte di sua sorella Maria Paola e scrive alla famiglia dal carcere di Poggioreale, dov’è stato rinchiuso. L’uomo ha inseguito con la moto Maria Paola che viaggiava con il suo fidanzato Ciro su un altro scooter e così nella notte tra venerdì 11 e sabato 12 settembre la ragazza ha perso la vita a soli 18 anni. “Tu lo sai che per me era come una figlia, dato che papà non è stato sempre presente – continua la lettera letta al Pomeriggio 5, il programma di Barbara D’Urso – Quello che è successo quella sera non era minimamente nelle mie intenzioni, volevo soltanto fermarli per portare mia sorella a casa, nella casa dove è cresciuta insieme a noi della famiglia”. Michele da subito ha infatti dichiarato che non voleva ucciderla ma solo riportare a casa sua sorella. Si sarebbe dunque trattato di un incidente. “Questa cosa non me la potrò mai perdonare. Il mio era un no per una persona che frequenta ambienti e persone poco affidabili – scrive Michele riferendosi a Ciro Migliore, il ragazzo con cui Maria Paola aveva una relazione che non è mai stata accettata dalla famiglia – Spero che tutto questo finisca molto presto i media mi stanno massacrando”.

Nostro figlio dimostrerà la sua innocenza". Morte Maria Paola, parlano i genitori: “Non siamo omofobi, Ciro non era una persona da frequentare”. Redazione su Il Riformista il 15 Settembre 2020. “La nostra critica era alla persona, mai all’orientamento sessuale”. E’ la lettera dei genitori di Maria Paola Gaglione, la 18enne morta in un incidente stradale l’11 settembre scorso mentre si trovava in sella allo scooter guidato da Ciro Migliore, il compagno trans con il quale stava da circa tre ani, ed era inseguita dal fratello, Michele Antonio (30 anni), accusato di omicidio preterintenzionale e violenza personale con l’aggravante dei futili motivi. I genitori della 18enne, che da qualche settimana era andata via dall’abitazione al Parco Verde di Caivano (Napoli) per andare a convivere con Ciro ad Acerra (comune confinante), sono certi “dell’innocenza del figlio Michele” e desiderano “esprimere, da famiglia umile e cristiana, il più forte dissenso per le frasi omofobe attribuite a noi e a nostro figlio”. Franco e Pina Gaglione chiedono “solo di rispettare le nostre lacrime, il nostro dolore e il nostro silenzio” nel giorno in cui sono in programma i funerali di Paola che si terranno alle 16.30 presso la chiesa di San Paolo Apostolo nel parco Verde di Caivano. Questo il testo della lettera diffusa dal Corriere del Mezzogiorno attraverso il legale della famiglia Galgione Domenico Paolella: “Abbiamo scelto di vivere in silenzio la perdita della nostra Paola perché questa tragedia ci ha lasciato senza parole e perché vogliamo stringerci in famiglia come sempre ci è accaduto nei dolori e nelle avversità. Abbiamo scelto il silenzio per piangere Paola, con la dignità e l’amore che abbiamo provato a donarle da quando è nata. Nessun processo o sentenza potrà guarire la nostra ferita. Tuttavia desideriamo far arrivare alla Magistratura e alle forze dell’ordine il nostro grazie per quanto stanno facendo in questi giorni. Siamo certi dell’innocenza di nostro figlio Michele. Non abbiamo mai creduto all’ipotesi dell’aggressione e non ci crederemo mai perché conosciamo Michele e il suo amore per Paola. Desideriamo esprimere il nostro più forte dissenso per le frasi omofobe attribuite a noi e a nostro figlio. Nella nostra famiglia, umile e cristiana, non c’è spazio per l’odio verso il prossimo e a maggior ragione non c’è spazio per l’odio o la discriminazione per motivi sessuali. Eravamo preoccupati per Paola, ma non per le sue scelte sentimentali o sessuali. Sentivamo il pericolo di una frequentazione con una persona, ad avviso di noi genitori, poco affidabile. La nostra critica era alla persona, mai all’orientamento sessuale. Il tempo dirà se le nostre erano preoccupazioni fondate. Adesso chiediamo solo di rispettare le nostre lacrime, il nostro dolore e il nostro silenzio. Ci scusiamo vivamente e umilmente con i giornalisti e le televisioni che ci hanno contattato in queste ore, anche a loro va il nostro grazie. Per il resto ci affidiamo ai Magistrati, pienamente rispettosi del loro lavoro”. Franco e Pina Gaglione 

La posizione del Parco Verde. Morte Maria Paola, l’ex camorrista: “Aveva uno zio gay e Ciro non ha una busta paga”. Ciro Cuozzo e Rossella Grasso su Il Riformista il 16 Settembre 2020. “Al Parco Verde lo Stato è rappresentato solo da don Maurizio Patriciello e dalla preside della scuola. I giovani hanno due strade: o lavorare per 120 euro alla settimana oppure guadagnare soldi facili facendo altro”. E per altro, il titolare di un’attività commerciale che ha preferito non essere ripreso in volto, intende lo spaccio di droga che, nel corso degli anni, ha fatto diventare questa fetta del piccolo comune napoletano di Caivano uno dei principali mercati di stupefacenti a cielo aperto, h24, alla pari del rione Salicelle ad Afragola e del rione Traiano a Napoli. Nel giorno dei funerali di Maria Paola Gaglione, la 18enne morta tragicamente in seguito a un incidente in scooter che sarebbe stato provocato dal fratello Michele Antonio che non accettava, così come la sua famiglia, la relazione che la sorella aveva da tre anni con Ciro Migliore (all’anagrafe Cira), ragazzo trans che la notte dell’11 settembre scorso era alla guida dello scooter finito fuori strada su una stradina di campagna che collega Caivano con Acerra. C’è un’atmosfera spettrale al Parco Verde. Sono le 14.30 di martedì 15 settembre e in giro lungo i vialoni ci sono solo le gazzelle dei carabinieri e qualche motorino guidato, rigorosamente senza casco, da giovanissimi. In pochi vogliono parlare e mostrare il proprio volto davanti alla telecamere. Nessuno prende posizione, almeno ufficialmente. Fuori la chiesa di San Paolo Apostolo, in attesa dell’inizio della cerimonia funebre (in programma alle 16.30) guidata da don Patriciello, ci sono più giornalisti che cittadini. Con il passare dei minuti iniziano ad arrivare i paranti e gli amici di Maria Paola. Le cugine indossano una maglietta bianca con una sua foto sopra e la scritta “buon viaggio principessa”. Anche loro però non vogliono parlare. Sono due le persone a rubare la scena prima dell’arrivo della salma della 18enne, che il fidanzato Ciro (che ha lasciato uno striscione all’esterno della parrocchia) ha potuto salutare per l’ultima volta recandosi in mattinata, scortato dalla polizia, all’obitorio del Secondo Policlinico di Napoli.

L’AMICA DI CLASSE – La prima è una ragazza, compagna di classe di Maria Paola alle elementari, che ai giornalisti ha raccontato la sua storia. “Da un anno e mezzo sono fidanzata con una donna. Non è stato facile dirlo ai miei familiari ma dopo una settimana hanno accettato tutto e oggi sono felice” racconta guardata con orgoglio dalla nonna a pochi centimetri di distanza. L’EX CAMORRISTA – La seconda persona è un ex camorrista, Bruno Mazza, da 12 anni presidente di un’associazione (Un’infanzia da vivere) assai attiva nel Parco Verde di Caivano. Dopo aver scontato una decina d’anni di carcere perché affiliato al clan Russo, Mazza ha deciso di cambiare vita dopo la morte per droga per fratello con lo scopo di garantire un futuro migliore ai nipotini e ai tanti giovani che nascono in un territorio dove la disoccupazione “è la madre di tutte le tragedie”.

“ZIO GAY” – Mazza conosce bene la famiglia di Paola e Michele Gaglione. Conosce bene Franco e Pina e prova a spiegare, con parole tutt’altro che moderne, le preoccupazioni di quei genitori che da quasi un mese avevano visto la loro “bambina” andare via di casa per amore. Innanzitutto, spiega l’ex camorrista, “la mamma di Paola ha un fratello che è gay da oltre 35 anni e che ha vissuto nel loro stesso palazzo. Poi qualche anno fa ha deciso di andare via per ragioni sue. Io – aggiunge – con lui andavo a scuola insieme negli anni ’80 e nessuno l’ha mai discriminato”.

“CIRO DELINQUENTE” – Il problema secondo mazza non è dunque l’omofobia ma le scarse “garanzie” che Ciro, 22 anni, offriva ai genitori di Paola per poter garantire alla figlia un futuro migliore. “Ciro, come altri ragazzi, aveva dei precedenti penali e firmava in caserma. Nessun genitore voleva cedere la propria figlia a un delinquente. Poi – sottolinea – se uno si assume la responsabilità di prendersi una ragazza deve anche garantirgli un alloggio e non farla girare ogni sera, di casa in casa, per farsi anche solo una doccia”.

BUSTA PAGA PER CEDERE FIGLIA – “Se tu non stai all’altezza di dargli un posto dove dormire, io mi riprendo mia figlia. Quando – precisa – sarai pronto, con un lavoro, una busta paga e la possibilità di avere in casa questa ragazza, allora ti cedo mia figlia“. Mazza parla poi di Michele, il fratello di Paola, in carcere con l’accusa di omicidio preterintenzionale e violenza personale con l’aggravante dei futili motivi: “Pagherà pienamente l’omicidio della sorella e lo pagherà sia a livello legale che umano. Se fossi al posto suo mi sarei già ucciso. La famiglia ha anche sbagliato a mettere il suo nome sui manifesti funebri perché Michele ha ucciso Paola”.

I PEDOFILI QUI NON CI SONO – Mazza conclude difendendo il Parco Verde dall’assalto mediatico che da anni lo vede protagonista. “Abbiamo dovuto sentire da voi giornalisti che noi proteggevamo un pedofilo e non era vero. Qui al Parco Verde i pedofili se ne scappano perché noi ce li mangiamo. I pedofili di Antonio Giglio e Fortuna Loffredo (i due bambini morti a distanza di un anno tra il 2013 e 2014) venivano da fuori ed erano ospitati dalle famiglie. Quello di Antonio Giglio veniva da Casavatore, Caputo, quello di Fortuna, veniva invece da Ponticelli”. Altra precisazione: “I fatti inoltre si sono verificati nelle palazzine IACP (Istituto Autonomo Case Popolari, ndr) che confinano con il Parco Verde”.

Francesco Borgonovo per la Verità il 18 settembre 2020. Nella notte tra l'11 e il 12 settembre a Caivano, in provincia di Napoli, Maria Paola Gaglione, ventenne, è morta cadendo dal motorino. Non è stato un incidente, però. Maria Paola è stata inseguita da Michele, suo fratello trentenne, che a bordo di uno scooter l'ha speronata, e ora è accusato di omicidio preterintenzionale. Di questa storia, però, si parla soprattutto per un altro motivo. I giornali hanno scritto che la ragazza era in motorino assieme a Ciro Migliore, che è stato presentato come il suo compagno transgender. L'omicidio di Caivano, dunque, è diventato immediatamente una storia di «omotransfobia»: Michele non voleva che sua sorella Maria Paola frequentasse un trans, e per questo l'ha uccisa. Questa ricostruzione, però, ha suscitato la viva opposizione di tante femministe italiane, e di Arcilesbica. Tra le intellettuali che hanno preso posizione sulla questione c'è Marina Terragni, uno dei nomi più noti del femminismo italiano. «Fateci caso», dice alla Verità. «Maria Paola, la ragazza morta a Caivano, è scomparsa dai radar immediatamente. Sparita».

Perché è accaduto?

«Faccio una premessa. Alla base di ogni femminicidio c'è sempre la stessa motivazione: il dominio. Certo, ci possono essere varie cause occasionali. In questo caso, può darsi che il fratello fosse infuriato con Maria Paola per la sua relazione con una masculilla, che per altro aveva precedenti per spaccio. Ma la causa principale di tutto questo è sempre una: il dominio. Ovvero: decido io come devi vivere. Maria Paola è stata vittima di questo, eppure è sparita. Di più: questo sarebbe stato uno dei tanti femminicidi, e nessuno ne avrebbe parlato se non ci fosse stata la faccenda della supposta identità sessuale di Cira».

La questione del nome ha sollevato molte polemiche. I giornali parlano di un «uomo trans» di nome Ciro. Molte femministe sono insorte e parlano di Cira.

«Non parliamo di un trans, ma di una masculilla. Qui non siamo a Londra o Glasgow, bensì a Caivano, e dobbiamo capire la cultura in cui si inserisce questa identità. A Napoli c'è l'antica tradizione dei femminielli, né maschi né femmine, che non si dicono donne anche se sono ammessi a vivere tra le donne. Sono discendenti dei Coribanti della dea Cibele e sono sempre stati riconosciuti dalla comunità per quello che erano. Le masculille sono meno note, ma ugualmente presenti. Sono ragazze che si percepiscono e si interpretano come uomini. Infatti la mamma di Cira/ Ciro a volte dice "mia figlia", a volte "mio figlio". Le donne di Caivano, per indicare la relazione tra Cira e Maria Paola, parlano di amore tra donne. Ai funerali ho sentito un uomo chiamarle "due bambine"».

Due donne, insomma.

«Non possiamo mettere lenti queer anglosassoni per leggere questa storia. Però i media, tutti in coro, hanno parlato del "ragazzo" di Maria Paola. Ho dovuto constatare che in Italia è già passato il concetto di Self Id».

Ovvero?

«L'autocertificazione di genere. L'idea che si possa andare all'anagrafe e diventare uomo o donna in base a una dichiarazione. Ora, se un uomo si percepisce donna o viceversa a me può anche stare bene. Ma far passare il Self Id è un problema politico. Dunque bisognerebbe per lo meno discuterne. Però qui non se ne discute affatto».

Questa idea del Self Id che problemi pone per le donne?

«Faccio un paio di esempi. In Inghilterra, tempo fa, il Labour party ha nominato responsabile dell'area femminile una trans di 19 anni, Lily Madigan. Non solo ha usurpato un posto che spettava a una donna, ma ha anche fatto un repulisti ai danni delle donne che si lamentavano della sua nomina. Il partito democratico di New York ha fatto una scelta simile con la trans Emilia Decaudin. Un posto destinato a una donna è andato a un uomo che si è dichiarato donna, e che non si è nemmeno sottoposto a intervento chirurgico».

Dov' è la relazione con Caivano?

«Se noi diamo per assodato che Cira sia un uomo, poi non potremo lamentarci quando un signore con la barba e il pene vorrà entrare in uno spogliatoio femminile dicendo: "Io mi sento donna e resto qui"».

Faccio l'avvocato del diavolo: non è un po' esagerato?

«Per niente. Il Self Id è una cosa seria. Si può essere d'accordo o contrari, ma non si può darlo per approvato senza discutere. In Italia vige la legge 164, che io ho contribuito a far approvare negli anni Ottanta. Allora c'erano persone che andavano a farsi operare a Casablanca o Londra, tornavano con un corpo femminile e documenti maschili. E questo creava un sacco di problemi. Quella legge permise la rettificazione anagrafica. Poi sono arrivate le sentenze che riconoscevano il cambio di genere anche a persone che non si erano mutilate. Ma ogni volta c'è stata una discussione, una perizia, una diagnosi... Qui non c'è nulla di tutto questo. Si chiede alla comunità di accettare l'autodefinizione e punto. La cosa che sconcerta è proprio questa: si chiede alla comunità il riconoscimento del genere, però la comunità è un interlocutore muto, non può dire nulla».

Anzi, si vogliono persino fare leggi - penso al ddl Zan-Scalfarotto - proprio per impedire alla comunità di parlare e, eventualmente, criticare. E proprio la storia di Caivano viene usata per sostenere questo ddl.

«Il femminismo italiano tutto ha fatto richieste precise riguardo al ddl Zan. Intanto che si togliesse il concetto di identità di genere e lo si trasformasse in transessualità, perché almeno si capirebbe di che cosa si parla. E poi c'è una differenza sostanziale tra le due definizioni».

Quale?

«La persecuzione di un trans è facilmente individuabile. Ma quella dell'identità di genere? Se io vedo per strada uno con la barba e la gonna e per caso mi soffermo a guardarlo, posso essere accusata di transfobia? Già adesso veniamo perseguitate noi in quanto femministe perché ci opponiamo all'utero in affitto, figuriamoci cosa accadrebbe...».

Che altro contestate al ddl Zan-Scalfarotto?

«Il riferimento alla misoginia, che andrebbe immediatamente tolto. La misoginia è una questione culturale antica che non si cambia con una legge. Non ne abbiamo mai discusso, e respingiamo questo gesto paternalistico utile solo a confondere le donne. E poi, scusate, ma noi non siamo una sfumatura Lgbt. Siamo la maggioranza del genere umano».

In effetti...

«È lo stesso discorso che possiamo fare sulle nuove regole dell'Academy per gli Oscar. A parte che è assurdo imbrigliare l'arte, ma perché le donne devono avere una quota come una minoranza?».

Per fortuna però il Self Id in Italia ancora non c'è.

«Ma esiste già una proposta di legge elaborata da Identità transessuale. Se passasse il ddl Zan, si passerebbe subito a quella battaglia. Il fatto è che la gran parte dei media su tali questioni tace. Si sta imponendo quella che io chiamo dissociazione cognitiva».

Si spieghi.

«Un esempio perfetto è il caso della modella Armine. Quelli di Gucci hanno capito che, oggi, per essere interessante devi discostarti dai canoni, dalla norma. Devi essere strano cioè queer. Ma soprattutto, il messaggio che mandano scegliendo quella modella è: non devi più fidarti delle tue percezioni. La percezione della bellezza è istintiva, inspiegabile. Bene, ti viene detto che quella percezione devi cancellarla, e devi accettare ciò che ti propone la casa di moda. Ecco di che si tratta: quando ti viene un pensiero, devi eliminarlo e sostituirlo con un altro pensiero che ti è stato presentato come quello "giusto". È terribile».

Domenica fiaccolata a un mese dalla scomparsa. L’ultimo regalo di Ciro, una lapide dove è morta la sua Maria Paola: “Spero che la vita si scusi con voi”. Redazione su Il Riformista il 9 Ottobre 2020. Una lapide per ricordare Maria Paola Gaglione, la 18enne morta tragicamente in seguito a un incidente in scooter che sarebbe stato provocato dal fratello Michele Antonio che non accettava, così come la sua famiglia, la relazione che la sorella aveva da tre anni con Ciro Migliore (all’anagrafe Cira), ragazzo trans che la notte dell’11 settembre scorso era alla guida dello scooter finito fuori strada su una stradina di campagna che collega Caivano con Acerra. Proprio tra i campi agricoli dove è avvenuto l’incidente è stata posizionata una lapide voluta da Ciro. “Ha fatto apporre la lapide dove ha perso la sua Paola – scrive sui social Daniela Lourdes Falanga, presidente di Arcigay Napoli. “Siamo qui, c’è vento e ci sono loro. È un regalo. Si fanno ancora. Non ho mai amato vedere queste pietre sparse per le strade e ora, improvvisamente, ne comprendo la necessità. Prende radice la pietra, la parola, la presenza che non deve smettere, non deve consumarsi. È un dramma immenso e ogni giorno lo sto rivivendo in un quadro in movimento. Ci sono gli occhi di un ragazzo che ricordano e amano, danzano sempre e solo per lei. Spero che la vita si scusi con voi” aggiunge. Intanto domenica 11 ottobre, a un mese dalla scomparsa di Maria Paola, è stata organizzata una fiaccolata in programma alle ore 18 nel Parco Verde di Caivano. “Ricorderemo Paola e nella sua memoria l’amore che non potrà mai spegnersi. Abbiamo deciso – si legge nell’evento organizzato sui social – di non condividere un manifesto luttuoso, ma di evidenziare la bellezza dei sentimenti nei sui colori, nella prospettiva reale di una luce che a tutti appartiene e tutti hanno diritto a vivere. Saremo tutti e tutte in mascherina e saremo attenti e attente a rispettare le norme di sicurezze anti-Covid-19”. Nei giorni scorsi Ciro Migliore è stato ospite a Carta Bianca, il programma su Rai3 di Bianca Berlinguer. Il 22enne ha raccontato della sua vita, della sua relazione con la ragazza osteggiata dalla famiglia Gaglione, del finale tragico della loro storia. “Torno sempre, ogni settimana, cambio i fiori, tolgo quelli secchi e metto i nuovi”, ha detto a proposito del luogo dell’incidente. “Eravamo come Romeo e Giulietta”, ha detto Ciro sulla storia con Maria Paola. La famiglia della ragazza, a quanto ricostruito e raccontato, non approvava la relazione con Ciro. “Sapevano che ero nata Cira. Non ci siamo sentiti per un mese, poi quando gli hanno dato di nuovo il telefono ci siamo sentiti di nuovo. Ho scoperto di essermi innamorato di lei perché mi mancava”. La loro relazione andava avanti dal 25 settembre 2017. “Eravamo amici. L’hanno chiusa a casa perché non la volevano con me. Ma eravamo solo amici. Poi quando ci hanno separato abbiamo capito che non era amicizia ma altro”, ha spiegato.

Carlo Macrì per il “Corriere della Sera” il 22 ottobre 2020. Sarebbero stati in otto a stuprare, dopo averle drogate, due quindicenni inglesi conosciute a una festa privata, lo scorso 6 settembre, a Marconia di Pisticci. Quattro di loro sono finiti in carcere una settimana dopo la violenza, altri quattro sono stati arrestati ieri dalla Squadra mobile di Matera. Sono Rocco Lionetti e Michele Falotico, entrambi 21enni, Michele Leone e Egidio Andriulli, un anno più grandi. Tutti di Pisticci. Leone, geometra, figlio di una poliziotta, e Andriulli sono trapper e sono conosciuti come Red Michael e Meu Deus. Sono accusati di violenza sessuale aggravata e continuata portata a termine approfittando delle «condizioni di minorata difesa» delle due minorenni, oltre che di lesioni personali continuate e aggravate. I quattro arrestati ieri, e i loro amici finiti già in carcere, Giuseppe Gargano, Alessandro Zuccaro, Alberto Lopatriello e Michele Masiello, tutti tra i 19 e 22 anni, la sera del 6 settembre scorso si sono imbucati a una festa privata a Marconia. E qui hanno fatto amicizia con le due minorenni, anche loro alla festa per caso. Le hanno invitate a bere gin lemon e hanno scambiato quattro chiacchiere. Nel frattempo, però, le minorenni hanno avvertito un leggero malessere dovuto - come hanno successivamente accertato le analisi di laboratorio - a sostanze dopanti probabilmente sciolte nei loro drink. Chi li conosce, a Pisticci, sostiene che gli otto ragazzi fanno una vita sregolata e nessuno di loro ha un lavoro stabile. Nel video del loro ultimo disco «Conto Cash», per esempio, i trapper Red Michael e Meu Deus fanno sfoggio di banconote e di alcol, mentre intonano il ritornello della loro canzone: «Porto in Mercedes due bitch, mi slacciano la cinta, bitch...». Per arrivare a chiudere il cerchio sulla brutale violenza di gruppo nei confronti delle minorenni, gli uomini del questore Luigi Liguori hanno dovuto sviluppare l' inchiesta in due fasi. Nell' immediatezza della violenza i poliziotti della Squadra mobile sono riusciti ad individuare - grazie anche al contributo delle minorenni - i primi due degli otto balordi. Masiello e Lopatriello, infatti, sono stati riconosciuti dopo che la cugina di una delle quindicenni aveva mostrato loro i profili su Instagram. Le immagini delle quattro telecamere installate nella villa dove si stava svolgendo la festa hanno poi permesso di identificare anche altri due presunti stupratori. Per inchiodare il resto del gruppo (altri quattro ragazzi), che non erano stati riconosciuti dalle minorenni, è stato necessario un lavoro d' intelligence sviluppato attraverso le intercettazioni telefoniche, i pedinamenti, la visione di migliaia di frame e gli esami scientifici sugli abiti che indossavano la sera dello stupro i quattro ragazzi finiti in manette ieri. Le due minorenni violentate erano in vacanza a Marconia, ospiti di parenti di una delle quindicenni figlia di un uomo che quarant' anni fa era partito da Marconia per raggiungere l' Inghilterra in cerca di una occupazione. Oggi è proprietario di una catena di alberghi. «Spero in una condanna esemplare dei violentatori, per il bene di mia figlia», dichiara al Corriere. Quella sera, accompagnate da una sorella maggiore di una delle due, le ragazzine avevano deciso di andare alla festa privata, aperta comunque a tutti. I loro violentatori le hanno subito prese di mira chiedendo loro l' età e la nazionalità. Poi con una scusa le hanno portate fuori e dopo averle spinte in una zona buia nel retro della villa, le hanno malmenate e hanno abusato di loro. «Ho cercato di rientrare ma me l' hanno impedito e hanno approfittato di me» aveva raccontato una delle due vittime. Mentre il resto del gruppo aggrediva l' altra minorenne.

Carlo Macrì per corriere.it il 15 settembre 2020. «Pentitevi e vergognatevi per quello che avete fatto. Solo così potete aiutare le vostre famiglie, la giustizia, e attenuare in qualche modo il nostro dolore». Mister Antonio (nome di fantasia), è un padre distrutto. Cinquantacinque anni, Antonio era partito 40 anni fa da Marconia di Pisticci per raggiungere l’Inghilterra, in cerca di lavoro. Oggi è proprietario di una catena di alberghi. Lo scorso 6 settembre, sua figlia e un’amica, entrambe quindicenni, sono state vittime di una violenza per la quale è accusato un gruppo di otto ragazzi — quattro arrestati, altri 4 indagati — durante una festa privata, a Marconia. Lo incontriamo con la moglie nello studio dell’avvocato Giuseppe Rago, legale di famiglia.

Quando ha saputo quello che era accaduto a sua figlia cosa ha pensato?

«Ero in Inghilterra, mia figlia grande al telefono cercava di raccontarmi e a malapena riusciva a parlare. Mi diceva frasi strane che non capivo. Piangeva, era sconvolta. Le dicevo: cosa è successo? E lei balbettava, senza darmi una risposta. Poi mi ha chiamato mio fratello e mi ha accennato a quanto accaduto. Mi è cascato il mondo addosso».

Cinque ore dopo lei ha raggiunto sua figlia, vittima dello stupro, all’ospedale Madonna delle Grazie di Matera. Qual è stata la prima cosa che le ha detto?

«Sii forte».

E la risposta?

«Always!» (Sempre!)

Far dimenticare a sua figlia la brutale violenza non sarà facile.

«Mia figlia è una ragazzina molto forte, energica, intelligente. Spero davvero che riuscirà a riprendersi al più presto».

Ora quali sono le sue condizioni?

«Aveva un sorriso più luminoso delle stelle. Adesso non ce l’ha più».

Conosceva le persone accusate di aver violentato sua figlia?

«No. A Marconia è rimasto solo qualche mio amico d’infanzia. Tutti gli altri sono emigrati in America e in Francia e quindi i loro figli vivono là, non potevano essere quelli che sono andati alla festa».

Che idea si è fatto dei ragazzi che hanno aggredito sua figlia?

«Sono degli sbandati, dei delinquenti. Ecco perché dico loro di pentirsi, come ha chiesto anche l’arcivescovo di Matera-Irsina nella messa celebrata domenica a Marconia. Per questi giovani potrebbe essere l’occasione di chiudere con il passato e ricominciare una nuova vita. Adesso le loro famiglie, la comunità, le istituzioni devono aprire gli occhi e accorgersi per tempo del malessere che c’è in questi giovani di Marconia».

Tornerà ancora al suo paese?

«Certamente. Ho avuta tanta solidarietà dai miei compaesani. Mi hanno detto: “Non devi giudicarci tutti allo stesso modo”. È una vicenda terribile, una ferita devastante: temo che non si rimarginerà mai. Da quando mia moglie ed io siamo arrivati qui, nostra figlia non ci ha mollati un attimo».

Ha fiducia nella giustizia italiana?

«La prima cosa che mi sono sentito dire dai poliziotti quando sono arrivato in ospedale è stata: “Stia tranquillo, sarà fatta giustizia”. Mi auguro di non restare deluso. Per il bene di mia figlia spero in una condanna esemplare».

Da corriere.it il 13 settembre 2020. Nell’inchiesta sulla presunta violenza sulle due quindicenni inglesi a Pisticci, Matera, oltre ai quattro arrestati ci sono tre indagati. Due di loro, uno dei quali figlio di un’agente di polizia, sono noti nella zona come trapper. Si tratta di Michele Leone ed Egidio Andriulli, in arte Red Michael e Meu Deus. Proprio due mesi fa hanno lanciato il loro nuovo singolo, Conto cash.

Gli arrestati. Il terzo indagato è Rocco Lionetti, mentre sono finiti in carcere Alessandro Zuccaro, 21 anni, Giuseppe Gargano, 19, Michele Masiello, 23, Alberto Lopatriello, 22. Le ragazze nella denuncia hanno detto di essere state abusate da un gruppo di almeno di 5 persone. Secondo loro qualcuno dei ragazzi avrebbe anche filmato le violenze con il telefonino.

Giuliano Foschini e Chiara Spagnolo per repubblica.it il 12 settembre 2020. Orrore. Il racconto di quanto accaduto nella notte tra il 6 e il 7 settembre scorso, in una villa nelle campagne di Marconia, poco lontano dal mare di Pisticci, in provincia di Matera, è impossibile anche soltanto da immaginare. Due ragazzine inglesi di 15 anni - "due bambine" come le chiama, davanti agli investigatori, lo zio, non riuscendo a trattenere le lacrime - violentate, nel corso di una festa, da un branco di diciottenni nell'indifferenza più generale. Anzi: "Non chiamate la polizia, altrimenti rovinate la festa!" gridava una ragazza a chi cercava di aiutare le due inglesi appena violentate. Gli aguzzini erano in cinque almeno, forse dieci. Quattro di loro sono in carcere grazie a un'indagine lampo condotta dalla squadra mobile di Matera coordinata dal questore, Luigi Liguori, un poliziotto di grandissima esperienza che ha voluto seguire personalmente le indagini. La storia, per come la racconta il gip di Matera, è andata così. Da circa un mese due ragazzine inglesi erano in vacanza in Basilicata, regione di origine di una delle due. Il 6 decidono di partecipare, con la sorella più grande di una delle due - sulla base dell'invito ricevuto da un'amica conosciuta in zona che chiameremo Francesca - a una festa nelle campagne di Pisticci: era un compleanno ma "si trattava di una festa allargata - si legge nei verbali - era consentito portare anche altri invitati". Intorno all'una di notte a questa festa arriva anche la cugina "di una delle due ragazzine inglesi". "Al mio arrivo sul posto - mette a verbale la ragazza - vedo una cinquantina di persone invitate a bere e a ballare nella parte centrale. Cerco le mie cugine e vedo mia cugina più grande, seguita dalle due minorenni, sconvolte: piangevano. Mi hanno detto in inglese, parché parlano soltanto inglese: "Help. Help, them they took us behind", che significa, "Aiuto aiuto, ce n'erano tanti lì dietro". Non capendo bene cosa fosse successo cercavo di calmarle. A quel punto è intervenuta mia cugina più grande. Che mi ha detto: "Le hanno violentate entrambe". Era così. Un gruppo di ragazzi, arrivati dalla vicina Pisticci, avevano abusato di loro. Le avevano portate sul retro della villa e avevano abusato di loro, probabilmente dopo averle drogate. I dettagli sono agghiaccianti. Impossibili anche soltanto da pensare. "Mi hanno chiamato e sono arrivato subito" racconterà lo zio. Erano tutti ubriachi tranne un ragazzo, di nome Stefano, che si è fatto avanti e mi ha detto che se avessi avuto bisogno si sarebbe messo a mia disposizione. Poco dopo si è avvicinata Francesca, la ragazzina con cui le mie nipoti erano andate a quella festa. La ragazza esordiva con questa frase: "Non rovinate la festa, non chiamate la polizia, questa è la festa di un mio amico. Le ho detto di dirmi immediatamente chi erano i ragazzi che avevano abusato di mia nipote e della sua amica. Mi ha detto che erano ragazzi di Pisticci e che non conosceva i loro nomi". Non sapeva che una volta a casa, ancora stravolte, le ragazze avrebbero riconosciuto i primi di loro in alcune foto su Instagram: ci sono quelle mentre sollevavano pesi, ostentavano bottiglie di champagne, oppure tenerezza con una nipotina in braccio. Poche ore dopo, mentre uno di loro ancora pubblicava storie su Instagram, gli agenti della polizia di Matera erano fuori dalle parte delle loro case. Ora sono in carcere. Ma l'indagine, dicono, è appena cominciata.

L'orrore sulle 15enni stuprate: "Chiamate il 113? Ci rovinate la festa". Quattro i ragazzi arrestati. Le due 15enni inglesi li pregavano di fermarsi. Valentina Dardari, Sabato 12/09/2020 su Il Giornale. Sono quattro i ragazzi arrestati con l’accusa di violenza sessuale e lesioni personali continuate e aggravate alle due minorenni inglesi stuprate la notte del 6 settembre a Pisticci, comune in provincia di Matera. Dietro le sbarre sono finiti Michele Masiello di 23 anni, Alessandro Zuccaro di 21, Giuseppe Gargano 19 anni e Alberto Lopatriello di 22. Sono invece indagati altri tre ragazzi e l’ottavo membro del gruppo deve ancora essere identificato. Sarebbe stata una testimonianza a inchiodare il gruppetto e a permettere ai poliziotti di Matera, diretti dal questore Luigi Liguori e coordinati dalla pubblico ministero Annafranca Ventricelli, di procedere con il fermo. Le due minorenni straniere sono state probabilmente prima drogate e poi stuprate.

Drogate e stuprate. Come ha raccontato una delle vittime, “alla festa avevo bevuto due drink: il primo me lo ha preparato il barman, il secondo un ragazzo che avevo conosciuto lì. Non ho assunto consapevolmente stupefacenti ma credo che qualcuno li abbia messi nel mio drink, perché prima di berlo stavo bene e subito dopo male”. L’incubo per le due minorenni è iniziato a una festa a Marconia di Pisticci. I quattro sono stati arrestati per decisione del giudice per le indagini preliminari Angelo Onorati, in quanto “privi di freni inibitori e incapaci di qualsiasi forma di autocontrollo”. I fermati avrebbero anche fatto assumere alle loro vittime della droga al fine di stordirle e attirarle in un luogo buio e appartato, dove poter consumare la violenza. Le due 15enni avrebbero urlato invano di essere lasciate stare: “Ho gridato di finirla, dicevo stop stop, let me leave, capivano l'inglese ma mi hanno bloccata prima contro il cofano di una macchina poi mi hanno buttata a terra e a turno si slacciavano i pantaloni, ho cercato di difendermi, uno l'ho morso sul pene. Ho visto che uno di loro cercava di fare un video mentre quelli abusavano di me, non so se c'è riuscito” ha raccontato una delle due vittime. A prova di quanto detto dalla giovane, vi sarebbe il colore verde dell’auto ritrovato sulle gambe e sulle braccia della ragazza, oltre a diversi ematomi. Ci sarebbero anche i filmati registrati dalle telecamere di sicurezza della villa in cui è avvenuta l’aggressione.

Matera, due minori violentate: "Hanno morso i genitali per difendersi". Il proprietario è un medico 47enne che sembra avesse organizzato una serata aperta con cibo e alcolici. Le ragazze sarebbero giunte alla festa tramite un'amica, insieme alla sorella 31enne di una delle due e al marito. La famiglia di una delle vittime è originaria di Pisticci e per questo motivo era stata scelta come meta delle vacanze. Sarebbero dovute partire domenica, ma la procura di Matera, guidata da Pietro Argentino, ha chiesto che vengano sottoposte a incidente probatorio. Era stato lo zio delle ragazzine, verso le 3 di domenica, ad arrivare alla festa dopo che le nipoti erano rientrate a casa ferite e piangenti. Una donna gli avrebbe chiesto: “Non chiamate la polizia, non rovinateci la festa”. Poco dopo invece sono arrivati gli uomini del vicequestore Luigi Vessio e hanno confiscato i filmati registrati dalle telecamere presenti nella villa. In uno di questi si vedrebbe il gruppo spingere una delle giovani vittime sul retro e scappare poi via.

Un video li ha incastrati. Grazie a quel video la pm ha incastrato il 23enne Michele Masiello che aveva cercato di far ricadere la colpa sui suoi compari. Invece, come raccontato da una delle inglesi, sarebbe stato proprio Masiello ad avvicinarle alla festa: “All'inizio l'ho seguito volontariamente ma quando mi sono accorta che i suoi amici ci seguivano ho cercato di tornare indietro ma lui mi ha afferrata per il braccio e tirata sul retro della casa”. La giovane è riuscita a riconoscere i suoi carnefici da alcune foto sui social, erano tutti amici del 23enne. Il numero di coloro che hanno partecipato alla violenza è ancora confuso. Oltre ai lividi su braccia e gambe, sono state riscontrate tracce di sostanze stupefacenti nelle urine delle ragazze. Entrambe hanno riconosciuto il 21enne Alessandro Zuccaro. Il più piccolo del gruppo è il 19enne Giuseppe Gargano, mentre Maisiello è il 23enne che le ha abbordate. Alla festa anche Alberto Lopatriello, di anni 22, appassionato di tatuaggi e auto di lusso. La sindaca di Pisticci, Viviana Verri, a nome anche della Giunta e del Consiglio comunale, ha dichiarato: “L'attenzione delle istituzioni è massima e per questo il comune di Pisticci chiederà, attraverso il proprio ufficio legale, di costituirsi parte civile nel procedimento penale che verrà instaurato, a tutela dei diritti inviolabili della persona e della libertà di autodeterminazione delle donne". La prima cittadina ha inoltre chiesto perdono, a nome della città da lei rappresentata, alle vittime e alle loro famiglie, che hanno denunciato quanto avvenuto, sottolineando il loro coraggio e la loro forza.

Giuliana Foschini per la Repubblica il 14 settembre 2020. «Era la nostra ultima sera in Italia. Era stata una bella vacanza. Volevamo soltanto ballare». Questo è il racconto della sera dell' orrore di Pisticci fatto davanti ai poliziotti della questura di Matera dalle due ragazze inglesi di 15 anni. Parole lucide e precise che spazzano via gli ignobili tentativi che, in queste ore, il branco sta facendo dal carcere: «Non le abbiamo violentate, erano consenzienti», dicono nella speranza di alleggerire la propria posizione. Ecco, invece, come sono andate le cose. «Il 6 settembre doveva essere l' ultima sera in cui ci intrattenevamo a Pisticci. Saremmo dovute partire prima ma all' ultimo momento abbiamo cambiato i programmi. Una nostra amica del posto alle 23,30 è passata a prenderci per andare a una festa in una villa con un grande giardino, a Marconia di Pisticci. Non ci ero mai stata - spiega una delle due ragazze - La festa era all' esterno, dentro si entrava per andare in bagno. Non conoscevamo il padrone di casa ». «Quando siamo arrivate - raccontano - c' erano circa 20 persone, poi ne sono arrivate altre, alla fine eravamo circa 40-50. Si ballava, c' era da mangiare e drink liberi». «Il primo cocktail lo ha preparato il barman davanti a noi - spiega una delle due - Poco dopo un ragazzo mi ha mostrato un drink che aveva preso per me, io mi sono avvicinata e ci siamo presentati. Il ragazzo mi ha detto di chiamarsi Michele». Si tratta di Michele Masiello, uno dei quattro arrestati, il solo finora ad ammettere che c' è stata violenza scaricando però la responsabilità sui suoi amici. Tanto da essere definito «non credibile» dal gip. «Dopo aver bevuto un sorso con lui ho raggiunto mia sorella e la mia amica - racconta la ragazza inglese di origini lucane - per presentargli Michele. Poco dopo si avvicinavano a noi anche alcuni amici del ragazzo: uno era Alberto», Lopatriello un altro degli arrestati. «Erano una decina e inizialmente sembravano simpatici» racconta l' altra ragazza che, a differenza dell' amica non conosce l' italiano e quindi aveva qualche difficoltà a comunicare. «Quando ci siamo presentati hanno chiesto sia a me sia ai miei amici - spiega ancora la ragazza - quanti anni avessimo e noi abbiamo detto 15. Forse anche loro ci hanno detto la loro età ma non riesco a ricordare la conversazione ». Non è un caso. Le ragazze sono state drogate, in ospedale hanno trovato tracce di cocaina. Certamente, dicono gli investigatori, qualcuno l' ha messa nel cocktail. «Dopo aver bevuto il drink - spiega ancora - ricordo di essermi sentita strana e molto confusa. Michele mi ha preso per mano per portarmi sul retro della casa, mentre la mia amica mi sembrava che stesse parlando con un altro ragazzo. Mi sono resa conto subito che alcuni amici di Michele ci stavano seguendo. Io ho provato a ritornare verso la festa ma non ci sono riuscita: mi hanno spinta verso il retro della casa». «La mia amica - racconta l' altra ragazza - era scomparsa con Michele. E nello stesso momento Alberto mi ha invitato a fare una passeggiata. Pensavo che volesse essere solo carino con me e ho accettato. Mi ha porta to in una zona della villa molto buia, ubicata sul retro ». Quello che è successo dopo è descritto nel dettaglio nei verbali. Che, per scelta, omettiamo, perché è il racconto di una umiliazione e di una violenza senza fine. Diventerà prova nei prossimi giorni, quando le ragazze (che stanno trascorrendo questi giorni lontane dalla Basilicata) lo ripeteranno nel corso di un incidente probatorio. È importante, però, sapere alcune cose: ogni parte del racconto è stata riscontrata. Ed esistono una serie di verifiche oggettive. Sulle scarpe di alcuni ragazzi è stata ritrovata la vernice di una vecchia macchina posizionata sul retro della villa, ci sono le immagini della videosorveglianza. In queste ore la polizia sta cercando il video di cui parla una delle ragazze. «Un ragazzo ha provato a registrare tutta la scena con il telefono, ma non sono in grado di dire se sia riuscito a farlo ». Oltre ai 4 arrestati, ci sono al momento tre ragazzi indagati, tutti a piede libero. La mamma di uno di loro, Michele Leone, è una poliziotta. Lavorava proprio a Marconia, fino a un anno fa, dove si occupava di minori e teneva seminari sulla violenza contro le donne. Dopo che il figlio aveva avuto problemi giudiziari con la droga era già stata trasferita dal questore Luigi Liguori a Metaponto. Dopo questa vicenda, è stata convocata ieri e nuovamente trasferita: da oggi lavorerà negli uffici amministrativi in Questura a Matera.

Stupro delle turiste inglesi a Matera, tra gli indagati anche il figlio di una poliziotta. Libero Quotidiano il 14 settembre 2020. Sono cominciati questa mattina, nel palazzo di Giustizia di Matera, gli interrogatori di Michele Masiello, di 23 anni, Alberto Lopatriello (22), Alessandro Zuccaro (21) e Giuseppe Gargano (19), i quattro sono accusati di violenza sessuale di gruppo subita da due turiste minorenni inglesi, di 16 e 15 anni, durante una festa in una villa di Marconia di Pisticci (Matera) la notte tra il 7 e l'8 settembre scorso. I quattro sono ascoltati dal gip Angelo Onorati che dovrà far luce sull'episodio. Stando a quando ricostruito dagli investigatori è stato Gargano a portare le due ragazze, dopo averle drogate a loro insaputa, nella zona più buia della villa e poi seguti dagli altri tre. Restano indagate altre persone a carico della quali non sono state emesse misure cautelari, anche se restano sotto indagine, si tratta   di due trapper Michele Leone, Egidio Andriulli e Rocco Lionetti. Uno di loro, scrive il Resto del Carlino, Leone, geometra, è figlio di una poliziotta. Come successo per almeno due dei quattro arrestati, le foto pubblicate sui profili social potrebbero essere fondamentali per riconoscere quelli che hanno partecipato direttamente alla violenza sessuale di gruppo. Non sono quindi da escludere ulteriori provvedimenti cautelari. Le verifiche sul materiale sequestrato durante l'esecuzione degli arresti, ad esempio sui telefoni cellulari, potrebbero far luce su altri particolari, quasi sicuramente decisivi per la questione giudiziaria. In particolare, c'è da accertare la circostanza che le due ragazzine, prima di essere stuprate, siano state anche drogate.  Le due ragazze, una delle quali con origini lucane, non potranno lasciare l'Italia proprio fino all'incidente probatorio.

Stupro di Pisticci, la comunità ha colpe che ora finge di non avere. Notizie.it il 14/09/2020. Chi si è macchiato di un atto così vile deve pagare e la giustizia contribuirà a farlo. Ma equivarrebbe fare un torto alla comunità non ammettere anche la nostra responsabilità. Ci sono fatti di cronaca della provincia che sanno essere, alla stregua di un libro di Truman Capote, la radiografia di un intero Paese. Lo stupro, perpetrato da almeno quattro ragazzi ai danni di due minorenni inglesi la notte fra il 7 e l’8 settembre a Marconia di Pisticci, è fra gli episodi dove la linea che divide una tragedia dal quotidiano è così sottile da essere brutale. Michele, Giuseppe, Alessandro, Alberto: sono i nomi dei quattro ragazzi arrestati. Quattro giovani, dai 19 ai 23 anni, considerati “normali” fino a pochi giorni fa. Questi angeli caduti, che l’indignazione collettiva affastella di epiteti quali “animali, balordi, parassiti”, all’improvviso non sono più tollerati per le strade, le stesse che un tempo erano lo spazio dove poter dare prova di sé al mondo. Quelle facce onnipresenti nel lessico comunitario, impastate di tatuaggi e note che parlano di cash e bitches, sono diventate una visione inaspettata, infernale. Nella narrazione che si fa oggi, questi ragazzi sono grotteschi nei loro codici trap, provenienti da famiglie incomplete. Conosco alcune di loro: sono uomini e donne con la testa sulle spalle, che tra sacrifici e difficoltà non puntavano alla perfezione, ma ad adempiere al loro ruolo di genitori, con le capacità a disposizione. Giudicare la condotta vile di chi è coinvolto spetta alla magistratura e un’indignazione collettiva, mista a un senso di vergogna, sono sentimenti sani per la nostra società. Ma nella brutalità di un branco senza scrupoli, va da sé chiedersi se questi giovani predestinati ad inseguire il mito del bad guy, non siano la cicatrice infetta di un mondo di adulti che ha preso ad ignorarli. Lo spazio che divide loro da noi è così sottile che tutti, davanti a episodi così tragici, siamo chiamati a fare i conti con i nostri limiti. Per esprimere vicinanza alle vittime, le comunità di Pisticci e Marconia hanno appeso fiocchi rosa davanti alle loro case. Per esprimere lontananza verso i carnefici, sui social si è diffuso l’hashtag #voinonsietepisticci. Due sentimenti opposti, ma ambivalenti: l’accoglienza dello sconosciuto, l’esclusione del conosciuto. Questa storia ha offerto al senso di colpa comunitario l’illusione che basti dispiacersi, finanche indignarsi, per sgravarsi da ogni peso. Ma questo atteggiamento può essere un abuso, perché esclude la reciprocità. La linea perfetta tracciata da un hashtag non basta a dilavare la responsabilità di una comunità che ora si oppone a quattro ragazzi che erano dietro la porta di casa nostra. Le comunità piccole come Pisticci, o come Colleferro, dove è stato barbaramente ucciso Willy Monteiro, funzionano alla stregua di un sistema solare: i corpi celesti girano attorno a un unico sole e non c’è modo che una cosa sia nascosta per sempre. Per quei quattro giovani violenti l’inferno era già in quell’essere l’unica misura di se stessi. Ma l’inferno in cui uno è protagonista ed esecutore è lo stesso che l’altro guarda come spettatore. Chi si è macchiato di un atto così vile deve pagare e la giustizia contribuirà a farlo. Ma equivarrebbe fare un torto alla comunità non ammettere anche la nostra responsabilità. Come adulti, incapaci di accogliere il disagio dei più giovani. Come cittadini, spinti dal costante scollamento dalle nostre responsabilità, tanto da diventare sordi e ciechi al disagio quotidiano. Dov’era ieri l’atteggiamento accogliente di oggi? Dov’era la ricerca di comprensione davanti alla solitudine di tanti giovani? Se ci voleva l’urlo tragico di due minorenni inglesi per strappare il velo, questa è una domanda che tutti abbiamo il dovere di porci. Domandiamocelo. Altrimenti, schieriamoci ancora “contro di loro”. Facciamolo in nome di una comunità, o una patria che ora decliniamo al femminile, rincorriamoli questi carnefici con le collane cheap e il mito dei soldi. Ma non parliamo contro il loro nome quando reiteriamo quegli stessi, infidi atteggiamenti del patriarcato fra le mura di scuola o di casa, anche solo girandoci dall’altra parte, magari nascondendo la realtà dietro l’ennesimo hashtag.

Flaminia Savelli per il Messaggero il 14 settembre 2020. «Stavamo camminando sulla spiaggia e mi hanno offerto del vino bianco che ho rifiutato. Sembrava tutto tranquillo ma non appena siamo rimasti soli ero in trappola: mi hanno steso sulla sabbia, hanno iniziato a palpeggiarmi e a turno mi hanno violentata». È questo uno dei drammatici passaggi su cui gli investigatori si stanno concentrando per ricostruire la violenza sessuale di gruppo che si è consumata la notte di Ferragosto sulla spiaggia libera del Circeo, il comune del litorale in provincia di Latina. La vittima, 19anni, residente a Casal de' Pazzi, una volta rientrata a Roma ha trovato il coraggio di denunciare. Tre giorni dopo quella terribile notte si è fatta accompagnare al commissariato di zona, a San Basilio. Rilasciando una lunga e dettagliata testimonianza ora nel fascicolo di inchiesta della procura di Latina. Il sostituto procuratore, Martina Taglione, da venerdì ha indagato a piede libero con l' accusa di violenza sessuale, i suoi aggressori: due amici 24enni, neolaureati e residenti a Spinaceto. Secondo gli investigatori la vittima sarebbe finita in una trappola. Una violenza sessuale premeditata con un piano ben organizzato. Come ha raccontato: durante il falò insieme ad alcuni ragazzi aveva deciso di fare una passeggiata. Al gruppo si sarebbero subito accodati i due che, con la scusa di dividersi una bottiglia di vino bianco e facendo leva sull' attrazione che la vittima aveva dimostrato nei confronti di uno di loro, l' avrebbero isolata dal resto della compagnia. «Poco prima stavo ridendo e scherzando con tutti e due. Poi senza dire nulla, come se fossero già d' accordo, mi hanno aggredita», ha spiegato agli investigatori. La giovane che è stata brutalizzata per mezz' ora ha inoltre più volte sottolineato: «Non ho gridato. Ero spaventata e sconvolta, era come se non fossi più lì. Volevo solo che finissero». Li avrebbe poi implorati di aiutarla e di riaccompagnarla dagli altri. I due invece hanno infierito con un' altra umiliazione: «Non piangere le hanno risposto - vedrai che qualcuno meno stronzo di noi con cui stare lo trovi». Intanto in procura - a Latina - sono stati chiamati e interrogati gli amici che hanno partecipato alla festa. Tutti diventati testimoni: «Stiamo vagliando numerose testimonianze», conferma il procuratore capo, Giuseppe De Falco. Gli inquirenti stanno incrociando le diverse testimonianze anche per escludere che qualcuno possa aver visto qualcosa di determinante ma che stia tacendo, forse per paura. Nel fascicolo d' inchiesta sono stati depositati pure i referti medici. La ragazza poche ore dopo essere stata violentata è stata al pronto soccorso dell' ospedale San Giovanni di Dio di Fondi. Ai medici ha riferito di accusare dolori pelvici ma ha taciuto, perché ancora sconvolta per quanto accaduto. Rientrata nella Capitale, si è sottoposta a una seconda visita al policlinico Casilino. I referti medici e le testimonianze del personale che l' ha assistita sarà un ulteriore tassello per ricostruire il quadro di quella drammatica notte. Infine gli agenti della squadra Mobile sono stati incaricati di procedere con ulteriori accertamenti sulla spiaggia dove si è consumata l' aggressione e sui cellulari del gruppo di ragazzi presente alla festa.

"Sono stata aggredita alle spalle": lo stupro tra i grattacieli di Milano. La 34enne è stata aggredita in zona Porta Nuova mentre stava rientrando a casa dopo una serata trascorsa con gli amici. Rosa Scognamiglio, Sabato 12/09/2020 su Il Giornale.  "Forse sono stata stuprata". Poche parole, pronunciate con un filo di voce e lo sguardo perso nel vuoto agli agenti della volante di passaggio nella zona di Porta Nuova, a Milano. Sotto choc per la violenza subita, la donna, una 34enne di origine polacca residente nella città meneghina, cammina barcollante lungo via della Liberazione, lo stradone che affaccia sul nuovo polo finanziario del capoluogo lombardo tra i grattacieli di piazza Gae Aulenti. "Non mi ricordo niente''', poi dice stringendosi le braccia attorno al corpo.

Un incubo. È l'alba del 26 agosto scorso. Gli agenti della Polizia di Porta Nuova s'imbattono nella ragazza verso le ore 6 del mattino. Ha un'andatura incerta, lenta e sul corpo porta i segni dell'abuso appena subito. I poliziotti la affiancano con l'auto per chiederle se abbia bisogno d'aiuto: la 34enne abbassa lo sguardo, tace. "Sono stata violentata, forse. Non lo so, non ricordo nulla'', dice con la voce tremula qualche attimo dopo. Appurato lo stato confunsionale della donna, viene subito disposto il trasporto presso la clinica Mangiagalli, punto di riferimento per le vittime di violenza sessuale. I medici del pronto soccorso che la visitano riscontrano ecchimosi e lividi compatibili con un'aggressione ma, per averne conferma, bisogna attendere l'esito degli esami clinici. La 34enne, ancora in stato di choc, racconta di aver trascorso una serata con amici, di aver bevuto, ma poi non aggiunge altro. Sopraffatta dalla paura, probabilmente incredula per quanto le è accaduto, decide di non sporgere denuncia e lascia la struttura. Più tardi arrivano i risultati degli esami: si tratta di violenza sessuale.

Lo stupro in Gae Aulenti. Accertata l'entità della circostanza, viene avvertito il procuratore aggiunto Letizia Mannella, il magistrato afferente al dipartimento della Procura che si occupa di soggetti deboli. Gli investigatori iniziano a ricostruire quella notte di orrore, passaggio dopo passaggio, nel tentativo di risalire all'identità dell'aggressore. All'inizio, la 34enne stenta a collaborare ma poi, col supporto degli psicologi, vuota il sacco. Spiega di essere stata aggredita mentre tornava a casa e camminava nel cuore di piazza Gae Aulenti. Proprio lì, tra i grattacieli del nuovo polo finanziario milanese, una persona l'avrebbe sorpresa alle spalle, afferrata per un braccio e trascinata lungo le scalinate che circondano lo spiazzo. Nessuno avrebbe visto nulla, nessuno ha dato l'allarme.

Le indagini. Sono ancora in corso accertamenti sui fatti. Gli agenti della polizia di Porta Nuova stanno tentando con ogni mezzo a loro disposizione di indentificare lo stupratore. Stando a quanto si apprende dal Corriere della Sera, si tratterebbe di uno straniero ma, al momento, non vi sono conferme. Intanto, qualche giorno fa, è stato catturato un senegalese di 24 anni per il reato di violenza sessuale. Lo scorso 15 luglio aggredì e abusò di una 45enne al parco del Monte Stella.

Marco Nepi per tpi.it il 5 settembre 2020. Vanesa Gesto, 36 anni, ha accusato l’ex fidanzato Ivan Rico, 36, di averla rapita e di averla abbandonata seminuda nella città di Bembimbre, vicino a Leon, in Spagna. La donna si era chiusa la vagina con la colla accusando l’ex compagno di torture. La 36enne è stata arrestata e condannata a 10 anni di carcere. La verità sul crimine è emersa quando gli investigatori hanno scoperto filmati registrati dalle telecamere di sicurezza di un supermercato gestito da cinesi che mostravano la donna intenta a comprare la colla che poi avrebbe utilizzato per le parti intime e un “kit di rapimento” che includeva coltelli. La polizia ha anche scoperto che l’unico veicolo filmato mentre passava nel punto in cui ha affermato di essere stata aggredita e poi torturata era un camion della spazzatura comunale, non l’auto nera in cui ha detto di essere stata rapita. L’uomo ha trascorso diversi giorni in prigione prima che venisse fuori la verità. Il tribunale della città di Leon, nel nord della Spagna, ha condannato la donna e l’ha incarcerata per 10 anni. Le è stato anche ordinato di pagare al suo ex 25mila euro di risarcimento. L’avvocato della donna, Emilia Esteban, ha tagliato i rapporti con la sua ex cliente dopo che ha scoperto il tentativo della donna di incastrare l’ex fidanzato. Il legale ha dichiarato: “Ho sempre creduto a Vanesa ed è per questo che l’ho difesa. Mi sento umiliata e ingannata”.

Antonio Riello per Dagospia il 7 settembre 2020. Saul Fletcher (nato a nel Lincolnshire nel 1967) era un artista britannico che aveva acquisito una certa fama con le sue opere fotografiche. Ma era noto soprattutto per le sue collaborazioni con il gruppo musicale Placebo e per una sbandierata amicizia con l’attore Brad Pitt. Il 22 Luglio 2020, a Berlino, dopo aver ucciso a pugnalate la compagna, Rebeccah Blum, si è tolto la vita. Una brutta storia. Uno dei tanti femminicidi-suicidi (le ragioni scatenanti sembrano tutt’ora ignote agli investigatori tedeschi) di cui la “cronaca nera” è sempre purtroppo prodiga. Questa tragedia ha una particolarità che la rende “speciale”. La (ex) gallerista di Fletcher, Alison Jacques, ha rimosso, dopo l’accaduto, ogni possibile traccia della sua collaborazione professionale con l’omicida dal sito della propria galleria. Sostiene semplicemente che vada ricordata solo la vittima, la Signora Blum (una curatrice di Arte Contemporanea di origine Americana) e che venga drasticamente istituita una “Damnatio Memoriae” digitale verso l’assassino-artista. La Collezione Pinault di Venezia ha rimosso, per le stesse ragioni, una grande opera di Fletcher in esposizione. Art Newspaper (nota rivista di settore) scrive, senza mezzi termini, che il mercato dell’Arte dovrebbe punire gli artisti “eticamente riprovevoli” facendone letteralmente svanire i lavori. Ovvero togliendoli da mostre, musei e aste. Ovvero annullandone, almeno nei desiderata, il valore di mercato. Una tesi interessante, con dei punti a favore e degli altri che lasciano inevitabilmente perplessi. Di certo il femminicidio è un reato particolarmente odioso che dovrebbe essere sempre sanzionato in maniera esemplare. E anche il ricordare (e comunque, in qualche modo, celebrare) più il nome delle vittime che quelle degli assassini ha una sua stringente ed onorevole logica. Amara considerazione: da sempre sono i nomi dei delinquenti quelli di cui ci si ricorda, i nomi degli uccisi invece vengono spesso cancellati dalla memoria collettiva (uno scandaloso paradosso). Difficile non essere completamente d’accordo su questi due punti. Il problemi nascono, come al solito del resto, quando la vita privata e la carriera si mescolano (o vengono mescolati da qualcun altro). Diversi artisti del passato non hanno avuto una esistenza propriamente specchiata, almeno per gli standard attuali. The Guardian, saccente ma autorevole quotidiano britannico, ha addirittura stilato un “lista nera” di 10 artisti con accertate tendenze criminali. Filippo Lippi non era uno stinco di santo. Mise in cinta una giovane suorina (che, ad onore del vero, comunque poi sposò). Un Michelangelo Buonarroti giovane, nel 1496, vendette un angelo al mercante Baldassarre del Milanese. Era stato appena fatto da lui, ma fece credere al compratore fosse un’antichità romana ritrovata in uno scavo. E, secondo il professor Rab Hatfield, che nel suo libro “The Wealth of Michelangelo” si occupa approfonditamente di questi aspetti della vita del grande genio del Rinascimento, in più di una occasione avrebbe fatto abbondantemente la cresta sui costi dei materiali. Insomma era un po’ imbroglione. Il Caravaggio! Il sublime pittore dell’età barocca, a Roma, nel 1606, assassinò in una rissa, un certo Ranuccio Tommasoni e dovette di conseguenza fuggire dalla capitale. Benvenuto Cellini, scultore di grande ed imperitura fama, fu addirittura un pluriomicida confesso. E non erano, i suoi, solo omicidi dettati dalla collera. La storia dell’Impressionismo è anche quella degli abusi perpetrati a danno di giovanissime modelle da parte di artisti regolarmente sposati…..una mostra alla Gare d’Orsay nel 2015 l’ha ampliamente evidenziato. E le prostitute erano una compagnia abituale degli stessi artisti. Egon Schiele, il venerato pittore austriaco, fu processato dalle autorità asburgiche per avere avuto rapporti sessuali con minori (risultò colpevole). Quello che fece passare Auguste Rodin a Camille Claudel, non gli fa certo onore, nè come artista nè come uomo. E Paul Gauguin a Tahiti si accompagnava abitualmente con adolescenti quasi-bambine….onestamente disgustoso. Il “mostro sacro” dell’Arte Contemporanea, Pablo Picasso, non ha risparmiato al gentil sesso attenzioni che oggi porterebbero, nel migliore dei casi, ad una pubblica censura. Ebbe parecchie amanti minorenni. Rubò anche delle statuette antiche al Louvre, non era uno scherzo (come qualcuno scrisse…) e se le tenne per sempre nel suo studio. Lucien Freud, eminente pittore britannico, in una recente (e mai smentita) biografia di William Feaver viene dipinto come un vero e proprio “Sexual Predator”, una sorta di Weinstein del tempo. Per non parlare (nel corso dei secoli, e comunque anche oggi) del diffuso sfruttamento di aiutanti ed assistenti (sempre sottopagati). E diversi sono stati gli artisti con rapporti piuttosto “problematici” (per usare un eufemismo) con i rispettivi apparti fiscali. Spesso sfruttatori e qualche volta evasori, non proprio un bel ritratto. Ma gli standard etici fino a che punto sono assoluti? Quanto ci entra il “politicamente corretto”? Insomma, secondo certi parametri attuali, sono tanti gli artisti, significativi o meno, che potrebbero essere valutati come “eticamente scorretti”. Li togliamo tutti dai musei? Una seria e dettagliata “Damnatio Memoriae” finirebbe per lasciare molte pagine bianche nelle Storie dell’Arte. Rimarrebbero forse solo il Beato Angelico e pochi altri….E il mercato? Investitori, aste, etc. etc.? Che conseguenze pratiche potrebbe affrontare? Esiste, tra l’altro, un’altra ambigua questione sul campo: il lato oscuro del compratore d’arte è sempre in agguato e la curiosità morbosa non dorme mai. Il mostro cattivo ha, dopo tutto, per molti un suo (ovviamente discutibile) fascino. Ad esempio esiste costante una richiesta, non disprezzabile da un punto di vista dei prezzi, degli acquerelli di Adolf Hitler. Sicuramente non sono apprezzati per la loro performance artistica, ma proprio perchè realizzati da un criminale. Etica e Mercato non hanno mai convissuto facilmente assieme e questo è, comunque lo si voglia vedere, un fatto storicamente accertato.

Stupro dell'orrore in spiaggia: tre immigrati minorenni su una 15enne. Valentina Dardari per ilgiornale.it il 17 agosto 2020. Terribile avventura quella accaduta a una ragazzina di 15 anni in spiaggia a Lignano. La giovane era sola e stava aspettando alcuni amici quando è stata avvicinata da un gruppetto di tre coetanei. Sembra si tratti di due albanesi e un egiziano. I tre avevano lasciato la struttura di accoglienza di Milano per trascorrere la notte di Ferragosto al mare, a Lignano Sabbiadoro, nota località balneare in provincia di Udine. I tre extracomunitari sono alla fine stati portati in Questura a Udine e la giovane ha terminato la nottata in ospedale per accertamenti antiviolenza.

Due la violentavano e il terzo stava a guardare. Il gruppetto di stranieri è sospettato di aver commesso violenza sessuale di gruppo. Sono soprattutto due i sospettati di aver stuprato la 15enne, mentre il terzo, un loro coetaneo, si sarebbe limitato a guardare cosa stavano facendo i suoi amici, senza però cercare di fermarli o avvertire qualcuno. L’ipotesi nei suoi confronti è quindi quella di concorso morale nel reato. Massimiliano Ortolan, dirigente della Squadra mobile di Udine, ha spiegato che “deve essere estremamente chiaro chi ha fatto cosa”. Per tutta la giornata di ieri, domenica 16 agosto, le indagini sono proseguite per accertare chi abbia commesso cosa. È intervenuta anche la Procura per i minorenni di Trieste.

Ragazzina violentata in spiaggia. Tutto è cominciato dopo che la giovane ha chiamato il 113 per chiedere aiuto. Una volta giunta sul luogo la volante della polizia, la ragazzina, originaria di Padova ma residente a Venezia con i genitori, ha raccontato agli agenti cosa le era successo. Era arrivata a Lignano nel pomeriggio di venerdì 14 agosto per incontrare sul litorale alcuni amici con i quali trascorrere la serata. Poco dopo però sarebbe stata lasciata sola per qualche minuto, con l’intenzione di ritrovarsi tutti insieme più tardi. La ragazza veneta è quindi rimasta in spiaggia ed è stata avvicinata dai tre extracomunitari. La 15enne ha raccontato di essere stata violentata. Purtroppo gli esami medici eseguiti in ospedale avrebbero confermato quanto da lei sostenuto. La vittima è stata dimessa dalla struttura ospedaliera con 15 giorni di prognosi. Subito è partita la caccia ai tre sospettati. I poliziotti, coordinati dall’ispettore superiore Omar Di Ronco, aiutati dai vigili urbani e dai carabinieri hanno scandagliato tutta la zona. Importanti sono stati i video filmati dalle telecamere di sicurezza presenti nell’area, che hanno permesso alle forze dell’ordine di trovare e identificare il trio. Due avrebbero stuprato la ragazzina e il terzo sarebbe stato a guardare la violenza senza parteciparvi in modo attivo. L'assessore leghista alla Sicurezza della Regione Friuli Venezia Giulia, Pierpaolo Roberti, ha subito commentato quanto avvenuto: “Maggiori controlli e misure più severe, fino alla castrazione chimica per chi si macchia di reati di natura sessuale”. Ha poi aggiunto che “il preoccupante clima culturale in cui certi fenomeni si verificano è segno di una mancanza totale di ogni genere di valori

Lo stupro da incubo a Lignano: la telefonata dell'immigrato. Poi l'inferno. Uno di loro ha fatto da palo agli altri. Adesso verranno ancora affidati a una comunità. Valentina Dardari, Martedì 18/08/2020 su Il Giornale. Ci sono novità per quanto riguarda lo stupro ai danni di una ragazzina di soli 15 anni avvenuto sulla spiaggia di Lignano Sabbiadoro la notte di Ferragosto. Per il crimine sotto stati fermati tre immigrati minorenni, due albanesi e uno egiziano. La ragazza ne ha riconosciuti solo due, come ha spiegato il dirigente della Squadra Mobile Di Udine Massimiliano Ortolan.

In due hanno stuprato la ragazza in spiaggia. Secondo quanto emerso uno di loro invitò gli altri due ad abusare sessualmente della giovane vittima. Il terzo ragazzo, albanese, quello che non è stato riconosciuto dalla 15enne, è stato comunque denunciato a piede libero e affidato nuovamente agli educatori della stessa comunità dalla quale il gruppetto si era allontanato per trascorrere la serata al mare. Il minorenne non risulterebbe aver partecipato attivamente alla violenza ma, come sottolineato da Ortolan, “se non ha assistito, comunque sapeva quali erano le intenzioni degli amici”. Secondo quanto riporta La Verità, sarebbe stato il 17enne egiziano, con a suo carico precedenti per reati contro il patrimonio e contro la persona, ad allontanarsi con la 15enne sulla spiaggia. I due si sarebbero conosciuti durante una festa. Il minorenne si sarebbe poi offerto di accompagnare la ragazzina a casa e, quando hanno raggiunto un posto appartato e buio, ha approfittato della situazione per abusare di lei. Subito dopo avrebbe chiamato con il telefono un suo amico albanese che l’ha raggiunto accompagnato da un altro connazionale. Il terzo avrebbe fatto da palo agli altri due. La vittima ha urlato tanto da attirare gli amici che aveva lasciato alla festa prima di allontanarsi con lo straniero. I tre aggressori si sono quindi dati alla fuga. L’identikit fornito dalla ragazzina e dai suoi amici ha permesso alle forze dell’ordine di ottenere una descrizione parziale dei tre fuggiaschi, corredata da particolari importanti, quali piercing e taglio di capelli. L’acquisizione dei filmati registrati da alcuni negozi presenti nella zona hanno permesso di individuare i tre aggressori. Da quanto ricostruito i minorenni provenivano dalla Lombardia ed erano arrivati a Lignano il giorno precedente alla violenza. Una volta fermato, l’egiziano si è detto estraneo ai fatti, ma corrispondeva perfettamente alla descrizione fornita dai testimoni agli investigatori. I suoi amici hanno preferito non parlare e rimanere in silenzio. Durante la conferenza stampa di ieri, il vicario della Questura di Udine, Luca Carocci, ha sottolineato che “la tempestività d'intervento è stata fondamentale per non consentire agli autori del reato di elaborare strategie di difesa o di tentare la fuga”.

I commenti. La Procura sta valutando se sia il caso di fissare un incidente probatorio. Massimiliano Fedriga, governatore della Regione Friuli Venezia Giulia, ha espresso “profondo dispiacere per la gravità inaudita dell'episodio e totale solidarietà alla vittima. Ii colpevoli paghino senza sconti la loro inumanità di fronte alla giustizia”. L’assessore lombardo alla Sicurezza, Riccardo De Corato, ha chiesto alle autorità di dare il nome della struttura che stava ospitando i tre aggressori. “È giusto che i milanesi lo sappiano, vista la pericolosità di questi minorenni, anche a tutela dei loro coetanei residenti in città che rischiano di diventare le prossime vittime”.

Pierpaolo Roberti, il collega friulano, ha promesso una battaglia legislativa: “Occorre fermare e regolamentare flussi e accoglienza dei minori stranieri mettendo mano a una legislazione che, colpevolmente, offre maggiori tutele agli aggressori che le vittime”. Su Twitter, il leader della Lega Matteo Salvini, ha postato un commento chiaro e lapidario: “Tre minorenni stranieri, ospiti (a nostre spese) di un centro di Milano e in vacanza (a nostre spese) a Lignano per Ferragosto. Fermati per violenza sessuale su una ragazzina. Viva gli sbarchi e l'integrazione... Roba da matti”.

Migranti, i due profughi dello stupro a Lignano in casa famiglia. La Lega: "Chi li manteneva?" Tommaso Montesano su Libero Quotidiano il 18 agosto 2020. Minorenni sì, ma richidenti asilo affidati a una onlus lombarda che accoglie migranti non accompagnati. Si delineano i contorni della violenza sessuale compiuta su una 15enne veneta la notte di Ferragosto sulla spiaggia di Lignano Sabbiadoro (Udine). Per quanto accaduto nella località balneare, domenica sera sono stati bloccati tre giovani: uno di 16 anni; gli altri due di 17. I primi due sono in stato di fermo; il terzo è stato denunciato in stato di libertà e riaffidato agli educatori della comunità con cui era giunto a Lignano. Si tratta di due albanesi e un egiziano, di cui sono ancora in corso le ricerche delle esatte generalità, ospiti di una struttura di Milano che segue minori stranieri non accompagnati e ragazzi con problemi giudiziari. I tre adolescenti erano in vacanza a Lignano insieme alla comunità che li segue. I particolari di quanto accaduto nella notte di Ferragosto sono stati resi noti nel corso di una conferenza stampa cui ha partecipato il dirigente della Squadra mobile di Udine, Massimiliano Ortolan. Dalle indagini, coordinate dal procuratore capo del Tribunale per i minorenni di Trieste, Leonardo Tamborini, è emerso che i tre giovani - dopo essere usciti dalla custodia degli educatori - avrebbero conosciuto la vittima, e il gruppo di amici di cui faceva parte, sul lungomare di Lignano durante una festa. Uno di loro avrebbe chiesto alla ragazzina di accompagnarlo a fare due passi e, approfittando della condizione di inferiorità, avrebbe abusato di lei. Una volta conclusa la violenza, il giovane avrebbe chiamato uno dei ragazzi che era con lui, che avrebbe abusato a sua volta della ragazza. «È stata accertata la violenza di due giovani, sia da referti medici, sia dal riconoscimento che è stato fatto dalla ragazza che ha subìto la violenza e dalle testimonianze di chi era con lei», ha spiegato ai microfoni di Udinese Tv l'ispettore del Commissariato di Polizia di Lignano Sabbiadoro, Omar Di Ronco. «Il terzo ragazzo è stato denunciato perchè al momento non abbiamo certezza di un suo comportamento diretto nella partecipazione del fatto», ha aggiunto il poliziotto. Uno dei due minorenni fermati - il primo che avrebbe abusato della ragazza - si è dichiarato estraneo ai fatti. Gli altri due minorenni, il secondo fermato e il giovane denunciato al momento in stato di libertà, sono invece rimasti in silenzio e non hanno dato la loro versione dei fatti. Per Massimiliano Fedriga, governatore del Friuli, ci sono «troppi interrogativi sulle responsabilità di chi era chiamato a vigilare su di loro e su chi ha pagato le vacanze in Friuli Venezia Giulia a queste persone». Ed è polemica anche sul nome della onlus, non rivelato dagli inquirenti.

Donna scomparsa da tre giorni a Crema, la sua auto ritrovata bruciata. Pubblicato lunedì, 17 agosto 2020 da La Repubblica.it. Sono in corso a Crema le ricerche di una donna di 39 anni della quale non si hanno notizie da ormai oltre 48 ore e la cui auto, una Fiat Panda, è stata trovata bruciata, non si sa ancora se per un guasto o perché data alle fiamme. La donna si chiama Sabrina Beccalli: prima di sparire ha lasciato il figlio 15enne (è separata dal marito) da alcuni amici. Nelle ricerche sono impegnati carabinieri, vigili del fuoco e volontari della Protezione civile. "Allo stato attuale non viene esclusa alcuna ipotesi", ha spiegato  il tenente colonnello Lorenzo Carlo Maria Repetto, comandante del Nucleo operativo del comando provinciale dei carabinieri di Cremona. Protezione civile, carabinieri e vigili del fuoco sono mobilitati in tutta la zona. Le ricerche della donna sono partite dopo che, nella notte di Ferragosto, alcuni abitanti di Vergonzana, una frazione di Crema, hanno chiamato i vigili del fuoco per quell'auto in fiamme. Le forze dell'ordine sono a quel punto risalite alla proprietaria, Sabrina Beccalli, che però non era raggiungibile e ieri, sentendo i suoi parenti, si è capito che da sabato non dava sue notizie. Quella mattina, infatti, aveva portato il figlio da alcuni amici per una gita in piscina, assicurando che li avrebbe raggiunti a mezzogiorno, ma da allora non ha più dato notizie. La preoccupazione è diventata paura quando, appunto, le forze dell'ordine hanno cercato i parenti della donna per avvisare dell'auto bruciata. Un'auto che contiene un altro mistero: sul sedile posteriore della vettura è stato trovato carbonizzato un cane, che non sembra essere però di proprietà della donna.

Chiara Baldi per "La Stampa" il 18 agosto 2020. «Siamo tutti preoccupati per te, ti prego torna a casa!». «Non ti conosco ma prego affinché tu possa tornare a casa da chi ti vuole bene». I commenti sul profilo Facebook di Sabrina Beccalli sono centinaia e da giorni, ormai, hanno tutti lo stesso tono preoccupato per la donna che da oltre 72 ore è scomparsa. Sabato mattina la 39 enne di Crema aveva portato il figlio a casa di amici per una gita in piscina, assicurando che li avrebbe raggiunti intorno a mezzogiorno. Ma da allora di lei non si sono più avute tracce. Beccalli, 39 anni, di Crema, separata e con un figlio - Omar - di 15, da oltre 72 ore è scomparsa da casa: non un messaggio, né un biglietto, neanche una telefonata al ragazzo adolescente a cui era molto legata, nulla. La sua auto, una Fiat Panda, è stata trovata bruciata sabato sera nella zona di Vergonzana: gli inquirenti però non sanno ancora dire se la vettura sia stata data alle fiamme o se a causarne l'incendio sia stato un guasto. Al suo interno, nel sedile posteriore, i vigili del fuoco intervenuti per spegnere l'incendio, hanno però trovato un cane, che però non sarebbe di proprietà della donna. La cui scomparsa è un mistero sempre più fitto anche per gli inquirenti: come ha spiegato il tenente colonnello Lorenzo Carlo Maria Repetto, comandante del Nucleo operativo del comando provinciale dei carabinieri di Cremona, «allo stato attuale non viene esclusa alcuna ipotesi». Ma la sparizione della donna - nelle cui ricerche sono impegnati tra vigili del fuoco, Carabinieri di Crema e Protezione Civile, oltre cinquanta persone - preoccupa in particolar modo la sorella. Che ora teme il peggio: «Ci siamo fatti l'idea che l'abbiano uccisa», ha detto ieri ai giornalisti mentre si trovava sul luogo del ritrovamento dell'auto. «Era felice e aveva appena trovato un nuovo lavoro», ha raccontato, invitando chiunque abbia notizie di Sabrina a farsi vivo. «Contattate i Carabinieri se l'avete vista, anche venerdì sera o notte». Un timore che trova voce anche tra gli abitanti del quartiere San Bernardino di Crema. Qualcuno infatti collega la scomparsa di Beccalli con una rissa avvenuta proprio in quella zona, in via Martini, il 15 luglio scorso e che ha avuto per protagonisti due uomini: un 46 enne pregiudicato e un 54 enne, che è stato accoltellato dal primo, poi finito in carcere. Da ieri in paese le voci si rincorrono perché - raccontano in più di uno - «Sabrina li conosceva entrambi e litigavano per lei, sempre per lei». Anche se sul suo profilo Facebook Beccalli parla di «un solo uomo della mia vita, Omar», cioè il figlio adolescente. Di lei, il parroco di San Bernardino, don Lorenzo Roncali, che l'ha vista per l'ultima volta una settimana fa, dice che è «sempre stata una donna un po' carica di problemi ma anche molto attiva e dinamica». Nella sua parrocchia Beccalli andava spesso, l'ultima volta giovedì, due giorni prima di sparire nel nulla, per parlare con un collaboratore di don Roncali: «Cerchiamo di essere d'aiuto alle persone in difficoltà, e so che Sabrina era venuta pochi giorni fa a parlare. Ma aveva trovato lavoro da poco e questo la rendeva molto più tranquilla e felice».

Sabrina Beccalli, svolta nel giallo di Vergonzana: fermato un sospetto, omicidio e distruzione di cadavere. Libero Quotidiano il 19 agosto 2020. Possibile svolta nel caso di Sabrina Beccalli: c'è un uomo fermato con l'accusa di omicidio e distruzione di cadavere. La donna di 39 anni, con un figlio di 14, era sparita dalla mattina di Ferragosto a Vergonzana, alle porte di Crema e la cui auto era stata trovata bruciata in campagna e dentro la vettura era stato trovato un cane carbonizzato, non appartenente alla vittima. "Nella tarda serata di ieri, sulla base di elementi investigativi prodotti dal Nucleo Investigativo del Comando provinciale carabinieri di Cremona e del Norn - Aliquota operativa di Crema, il procuratore capo di Cremona Roberto Pellicano ha disposto il fermo di un uomo che è stato associata alla casa circondariale di Cremona", rendono noto i militari. Martedì sera Chi l'ha visto? aveva fornito una pista: due uomini nei mesi scorsi erano stati protagonisti di una rissa, pare per motivi sentimentali legati alla vittima. Uno di loro era stato accoltellato e l'altro era finito in prigione. Stando a quanto riporta il quotidiano locale la Provincia di Cremona, alla guida della Panda di Sabrina era stato visto un uomo la notte in cui la vettura è stata trovata. Quella persona, ripresa dalle telecamere di sorveglianza, è stata quindi rintracciata e ascoltata dai carabinieri.

Donna scomparsa a Crema: un fermo per omicidio e distruzione di cadavere nel caso di Sabrina Beccalli. Pubblicato mercoledì, 19 agosto 2020 da La Repubblica.it. C'è un fermo per omicidio e distruzione di cadavere nella vicenda di Sabrina Beccalli, la donna di 39 anni scomparsa da Crema la mattina di Ferragosto e la cui auto era stata trovata bruciata in una frazione della città. "Nella tarda serata di ieri, sulla base di elementi investigativi prodotti dal Nucleo Investigativo del Comando provinciale carabinieri di Cremona e del Norn - Aliquota operativa di Crema, il procuratore capo di Cremona Roberto Pellicano ha disposto il fermo di un uomo che è stato associata alla casa circondariale di Cremona", rendono noto i militari. L'uomo si sarebbe avvalso finora della facoltà di non rispondere. Dalle ultime indagini era emerso, come riporta la Provincia di Cremona, che alla guida della sua Panda era stato visto attraverso le immagini di alcune telecamere di sorveglianza un uomo la notte in cui la vettura è stata trovata carbonizzata alle porte di Vergonzana, con il corpo di un cane all'interno. Quella persona, ripresa dalle telecamere di sorveglianza, è stata rintracciata nel pomeriggio di ieri e ascoltata dai carabinieri del Reparto investigativo di Cremona. La scomparsa della donna era stata da subito associata dai suoi familiari a un evento tragico: "L'hanno uccisa", aveva detto sua sorella già lunedì. Sabrina Beccalli, separata e con un figlio di 15 anni, non dava più sue notizie da sabato mattina, quando aveva lasciato suo figlio da alcuni amici per una giornata in piscina, assicurando che li avrebbe raggiunti a pranzo. Il giorno prima, aveva poi raccontato un parroco, la donna aveva raccontato di aver forse trovato un lavoro: una notizia positiva, dopo il dolore per la madre, colpita dal coronavirus. Ma al pranzo di Ferragosto Sabrina non si era più presentata e i parenti l'avevano cercata inutilmente, denunciandone anche la scomparsa. All'una di notte aveva mandato un messaggio al figlio per augurargli la buona notte, poi il telefono era stato spento. Una sparizione incrociata lunedì mattina con quella del ritrovamento della sua auto, una Panda, nella frazione di Vergonzana: l'auto era completamente bruciata e all'interno c'era un cane carbonizzato, che non apparteneva alla donna. Le indagini a quel punto avevano provato a ricostruire tutti gli ultimi movimenti di Sabrina Beccalli: celle telefoniche, controlli ai varchi elettronici di strade e autostrade, testimonianze, il sequestro del suo appartamento con i rilievi della Scientifica. Tra le persone sentite anche un ex fidanzato che inizialmente non si riusciva a trovare, ma che poi aveva contattato i carabinieri.

"Ha bruciato la sua macchina". L'orrore: così è morta Sabrina. Sabrina Beccalli era scomparsa da quattro giorni. Un uomo è stato fermato per omicidio e distruzione del cadavere. Valentina Dardari, Mercoledì 19/08/2020 su Il Giornale. Svolta nelle indagini sulla scomparsa di Sabrina Beccalli, la 39enne di cui non si hanno più notizie da quattro giorni. Nella serata di ieri forse la svolta. C’è il fermo di un uomo per omicidio e distruzione del cadavere. I militari hanno spiegato che “nella tarda serata di ieri, sulla base di elementi investigativi prodotti dal Nucleo Investigativo del Comando provinciale carabinieri di Cremona e del Norn - Aliquota operativa di Crema, il procuratore capo di Cremona Roberto Pellicano ha disposto il fermo di un uomo che è stato associata alla casa circondariale di Cremona".

Scomparsa dopo aver accompagnato il figlio. La donna, residente a Crema, in provincia di Cremona, era scomparsa senza spiegazioni dopo aver affidato il figlio di 15 anni a un’amica. Dopo due giorni, la notte di Ferragosto, la sua auto era stata ritrovata carbonizzata. Le fiamme del rogo avevano allarmato gli abitanti della zona di Vergonzana, frazione di Crema, che avevano immediatamente chiamato le forze dell’ordine. All’interno della vettura, sul sedile posteriore, era stato ritrovato il cadavere di un cane carbonizzato, che sembra non appartenesse però alla donna proprietaria della macchina. L’auto, una Fiat Panda, era sta poi presa in consegna dalla Scientifica per eseguire tutti i rilevamenti del caso. Alcuni parenti interrogati dai militari avevano riferito di non aver avuto più sue notizie da sabato scorso e che non erano riusciti neanche a raggiungerla telefonicamente. La mattina della sua scomparsa, stando a quanto emerso, la donna aveva accompagnato il figlio adolescente a casa di alcuni amici per una gita in piscina. La Beccalli avrebbe dovuto poi raggiungere la comitiva verso mezzogiorno. Ma così non è stato. Da allora di lei non si è saputo più nulla.

Ieri la svolta. Nella giornata di ieri forse la svolta. Sembra che le immagini riprese dalle telecamere di sicurezza abbiano mostrato che alla guida dell'auto c'era un uomo, del quale ancora non si conosce l’identità. Sui suoi dati e su una sua eventuale responsabilità nella scomparsa della donna, per il momento c’è ancora il massimo riserbo da parte degli investigatori. Nei giorni scorsi la sorella di Sabrina, parlando con i giornalisti durante le ricerche aveva detto: “Ci siamo fatti l'idea che l'abbiano uccisa”. Precisando anche che la 39enne “era felice e aveva appena trovato un nuovo lavoro”. Nelle prossime ore l’uomo fermato nella tarda serata di ieri verrà interrogato. La speranza è che si riesca a capire dove sia e cosa sia successo a Sabrina.

Crema, fermato un amico di Sabrina Beccalli: «L’ha uccisa e l’ha fatta a pezzi». Giovanni Gardani il 20 agosto 2020 su Il Corriere della Sera. La donna, 39 anni, era scomparsa da Ferragosto. La sua auto è stata trovata bruciata. Fermato l’amico Alessandro Pasini, 45 anni, sospettato di omicidio e distruzione di cadavere. Nessun depistaggio. La soluzione del giallo era proprio nella carcassa della Fiat Panda rossa data alle fiamme e ritrovata nelle campagne di Vergonzana, frazione della periferia di Crema. L’auto non era stata messa lì per confondere le acque, come ipotizzato all’inizio delle ricerche di Sabrina Beccalli, 39 anni, scomparsa a Ferragosto. Il procuratore capo di Cremona, Roberto Pellicano, ha posto in stato di fermo Alessandro Pasini, 45 anni, sospettato di omicidio e distruzione di cadavere. Nessuno dei residenti del posto aveva visto la Fiat Panda arrivare. Ma le telecamere dei varchi elettronici hanno filmato l’uomo a bordo della macchina di Sabrina nella notte tra il 14 e il 15 agosto.

Vicini di casa in un quartiere difficile. Così si è chiarito un passaggio fondamentale: la donna non era uscita di casa l’ultima volta la mattina di Ferragosto, bensì alcune ore prima, venerdì sera. Ha portato il figlio di 15 anni Omar da amici a Milano con la promessa di ritrovarsi in piscina ad Antegnate l’indomani. E invece, dopo un messaggio di buonanotte al figlio all’una, solo il silenzio. Le sorelle della donna scomparsa, Teresa e Simona, e il fratello Gregorio hanno detto agli inquirenti di non conoscere Pasini. Ma Sabrina lo ha incontrato poco prima di sparire: l’auto è stata spostata a notte fonda, per questo nessuno l’ha vista in movimento prima del rogo. Il cane ritrovato carbonizzato dentro l’abitacolo quasi certamente apparteneva al 45enne, impiegato con precedenti per spaccio e rapina. Anche Pasini, come Sabrina, vive nel quartiere di San Bernardino, a Crema, a un paio di chilometri dal punto in cui l’auto è stata ritrovata. I due abitano nella stessa strada, via Enrico Martini, un labirinto di case popolari. Un ambiente difficile, già teatro di un accoltellamento, il 15 luglio, di un 54enne. L’aggressore è finito in carcere.

Esclusa la pista del suicidio. Gli inquirenti ormai escludono l’ipotesi dell’allontanamento volontario di Sabrina, ma anche quella del suicidio, che i fratelli della donna — già segnati dalla morte della madre per Covid, lo scorso 22 marzo — non avevano mai considerato plausibile: «Aveva trovato un lavoro stabile e, dopo avere fatto pulizie saltuariamente e consegnato pizze per sbarcare il lunario, era felice di poter provvedere al figlio». Restano allora due ipotesi: l’omicidio volontario, per il quale Pasini è stato fermato, oppure un incidente legato al consumo di stupefacenti, in una notte sfuggita di mano.

Domani l’interrogatorio di Pasini. L’interrogatorio di convalida del fermo di Pasini, che si trova nel carcere Cà del Ferro a Cremona, è previsto per domani. Il 45enne cremasco, difeso dall’avvocato Paolo Sperolini, per il momento ha scelto di non collaborare con gli inquirenti: non ha risposto alle domande e ha negato anche il codice Pin del proprio cellulare. «Potrei perdonarlo, ma ci dica dov’è Sabrina» ha implorato Simona, sorella della scomparsa.

Scomparsa di Sabrina Beccalli, il pm di Cremona: il fermato può colpire ancora. Ricerche senza sosta per trovare la 39enne sparita la notte di Ferragosto: non sono della donna le scarpe ritrovate. Domani l'udienza per la convalida del fermo dell'amico Alessandro Pasini. Luca De Vito su La Repubblica il 20 agosto 2020. Sarà domani alle 15 l'udienza per la convalida del fermo di Alessandro Pasini, l'uomo di 45 anni accusato dell'omicidio di Sabrina Beccalli la 39enne scomparsa a Crema da Ferragosto (il cui corpo non è ancora stato trovato). La pm Lisa Saccaro e il procuratore Roberto Pellicano hanno chiesto la custodia cautelare in carcere per Pasini perché potrebbe inquinare le prove e commettere altri reati. L'uomo, difeso dall'avvocato Paolo Sperolini di Crema, si era rifiutato di rispondere alle domande di pm e carabinieri dopo il fermo che risale a martedì pomeriggio. Nel frattempo vigili del fuoco, sommozzatori e cani molecolari stanno ancora cercando il corpo di Sabrina. Viene passata al setaccio l'area intorno a Vergonzana ma gli inquirenti si stanno concentrando anche tra rogge, canali, il fiume Serio e soprattutto il canale artificiale Vacchelli, fino a Salvirola. Un paio di scarpe ritrovate in zona hanno fatto pensare che il ritrovamento fosse vicino, ma per gli investigatori non sono una buona pista: di un numero diverso rispetto a quello di Sabrina, non erano del modello che portava la sera in cui è scomparsa. I parenti hanno spiegato che Sabrina aveva un paio di scarpe del genere, ma le dimensioni sono diverse. Nel "curriculum" di Pasini - che non parla e finora ha negato il codice pin per accedere al suo cellulare - diversi precedenti (stupefacenti, resistenza, rapina) e ancora oggi è ritenuto vicino ad ambienti dello spaccio. Su di lui ci sono indizi pesanti: è stato ripreso dalle telecamere all'interno dell'auto della donna quella sera, gli sono stati trovati in casa jeans e una maglietta grigia, gli stessi indumenti immortalati nelle immagini. E gli inquirenti non hanno dubbi che sia stato lui ad appiccare il fuoco alla panda rossa di Sabrina. I residenti del quartiere di via Martini, dove vivevano sia Beccalli che Pasini, parlano di una persona vicina ai giri dello spaccio. Chiuso nel suo mutismo davanti al procuratore di Cremona Roberto Pellicano, Pasini ha molte cose da spiegare. Primo, dove è il corpo di Sabrina (che ormai anche i parenti più stretti non sperano più di ritrovare viva)? Se è morta, cosa è successo nella notte tra venerdì 14 e sabato 15 agosto? Ha fatto tutto da solo o c'era qualcuno con lui? La pista della droga è quella che convince di più gli investigatori. Si indaga sul giro di amicizie problematiche: di un mese fa la lite fra due pregiudicati per amore di Sabrina. Non c'entrerebbero nulla, ma uno di loro ha parlato molto. E "l'amico" Pasini è dello stesso giro.

Giovanni Gardani per "corriere.it" il 21 agosto 2020. Dopo un’ora di interrogatorio per la convalida del fermo, il 45enne Alessandro Pasini, accusato di omicidio e distruzione di cadavere, avrebbe indicato il luogo in cui si trova il corpo di Sabrina Beccalli, la 39enne di Crema, scomparsa dalla notte tra venerdì e sabato scorso. Gli inquirenti erano riusciti a trovare nuovi elementi per mettere alle strette l’uomo indagato per omicidio e distruzione di cadavere. Pasini, mercoledì scorso, quando è stato fermato, non aveva voluto collaborare con i magistrati, era rimasto in silenzio, negando persino il codice pin del proprio cellulare. Venerdì, invece, ha deciso di cambiare strategia: ha cominciato a parlare. Il corpo di Sabrina si troverebbe in una roggia non distante dal luogo in cui la sua Fiat Panda era stata trovata carbonizzata la sera di Ferragosto nelle campagne di Vergonzana, frazione di Crema a due chilometri dal quartiere San Bernardino. In corso le operazioni di recupero. Sul posto sono arrivati anche i familiari, che non hanno mai abbandonato il campo base delle ricerche, sospese nella serata di giovedì in attesa proprio della confessione di Pasini. I Ris di Parma, intanto, venerdì mattina hanno perquisito e cercato prove anche nella casa della storica ex fidanzata del 45enne, che sembrerebbe estranea alla tragedia. Inizialmente si pensava che le uniche due abitazioni sottoposte all’attenzione dei militari fossero quella di Sabrina e dello stesso Pasini: resta da capire se questa decisione, inattesa, sia servita a scoprire un dettaglio o un particolare che possa avere messo alle strette l’uomo accusato del delitto.

Giallo sulla morte di Sabrina, ora parla una vicina di casa: "Quel giorno urlava aiuto". Il gip di Modena ha disposto la custodia cautelare in carcere per il sospettato a seguito dell'interrogatorio di garanzia avvenuto durante la giornata di ieri. Federico Garau, Sabato 22/08/2020 su Il Giornale. Alessandro Pasini, il 45enne arrestato ed accusato di omicidio ed occultamento di cadavere di Sabrina Beccalli, resta in carcere anche dopo l'interrogatorio di garanzia che si è svolto durante la giornata di ieri, come disposto dalla gip di Modena Giulia Masci. Nel frattempo proseguono alacremente le ricerche del corpo della vittima, 39enne di Crema di cui si erano perse le tracce dallo scorso Ferragosto.

La ricostruzione. Secondo la versione fornita agli inquirenti, Sabrina Beccalli sarebbe deceduta a seguito di un malore causato dall'assunzione di sostanze stupefacenti. Questo, in sostanza, il racconto di Pasini, che avrebbe ammesso le proprie responsabilità solo in modo parziale, sostenendo di aver soltanto bruciato l'auto contenente il cadavere della 39enne ma non di averla uccisa. Una versione che non ha tuttavia convinto i carabinieri del nucleo operativo di Crema, il cui lavoro si svolge sotto le direttive del tenente colonnello Carlo Maria Repetto. Dopo aver interrogato il sospettato, la gip di Modena ha determinato la custodia cautelare in carcere per Pasini, il quale "ha dimostrato di essere un soggetto disposto a tutto pur di modificare lo stato dei luoghi e delle persone considerato che ha occultato il cadavere della Beccalli e dato alle fiamme la sua auto". Questo, riportato da Agi, è il parere del giudice, che ha anche parlato nella sua ordinanza della "negativa personalità" del soggetto, tra l'altro"gravato da numerosi precedenti penali". Un "temperamento violento" emerso anche dalla testimonianza rilasciata dalla sua ex convivente, S.L., che ha rivelato di essere stata "aggredita e malmenata più volte" dal 45enne, da lei denunciato per violenza sessuale.

Le testimonianze. "Pasini era un ragazzo che si vedeva con Sabrina per questioni legate alla droga, non c'era nessuna relazione tra loro. Lei spesso andava a casa di Ale per fare uso di stupefacenti", avrebbe invece raccontato un amico del sospettato, sentito dagli inquirenti durante le indagini. Stando a quanto rivelato parzialmente da Pasini, ipotesi corroborata dal racconto di un'altra donna, Sabrina sarebbe morta nell'appartamento in cui viveva la ex convivente e compagna S.L.. La testimone M.C. Avrebbe infatti raccontato che "il 15 agosto alle 5 del mattino aveva chiamato il 112 per informare i carabinieri di avere sentito provenire dalla zona di Porto Franco (dove era a conoscenza che vivesse la convivente di Pasini, S.L., in quei giorni in Sicilia per trascorrere le vacanze estive) delle urla sofferenti di una donna che con voce strozzata gridava più volte 'Aiuto, aiuto, no'". La stessa M.C. Avrebbe anche aggiunto un ulteriore importante dettaglio spiegando che verso le 14:30 "affacciandosi alla finestra del balcone posto proprio di fronte all'appartamento della S.L. notava Pasini transitare in via Porto Franco col suo monopattino". Come anticipato, S.L. durante l'interrogatorio avrebbe confermato sia la relazione con Pasini (conclusasi il 3 agosto) che le violenze subite. Ciò nonostante, e questo è un aspetto di fondamentale importanza, il 45enne "aveva a disposizione le chiavi del suo appartamento in quanto lei stessa gliele aveva lasciate, su richiesta di Pasini, sotto la sella dello scoter di quest'ultimo". I Ris stanno effettuando i rilievi anche nell'abitazione. Secondo le ultime informazioni rilasciate, la casa si era ormai riempita di gas, in quanto Pasini aveva tagliato il tubo della caldaia prima di abbandonare la struttura: il rischio per i cittadini e per le forze dell'ordine era dunque altissimo."Solo per il fatto che per entrare abbiamo dovuto chiamare i vigili del fuoco, che sono entrati dalla finestra e il gas è uscito, non è successo un disastro", ha dichiarato il colonnello Repetto.  Le ricerche del cadavere vanno avanti nel territorio di Vergonzana, frazione di Crema dove è stata rinvenuta l'auto della vittima, divorata dalle fiamme. La presenza del sospettato in zona sarebbe confermata tra l'altro dalle immagini riprese da alcune videocamere di sorveglianza. Le autorità si sono concentrate soprattutti sui canali di irrigazione, visto il ritrovamento in prossimità di uno di essi dei sandali indossati dalla 39enne. Proprio stamani, inoltre, è stata posta sotto sequestro una cisterna di liquami, nella quale gli inquirenti sperano di ritrovare il corpo della vittima: saranno necessari almeno due giorni per svuotarla parzialmente e permettere ai carabinieri di dare il via alle ricerche. Secondo le ultime ipotesi formulate dagli inquirenti e riportate da "Tgcom24", Sabrina sarebbe stata uccisa dopo aver rifiutato le avances sessuali di Pasini, divenuto furioso una volta respinto. "Nell'ordinanza si trovano alcuni elementi, come il fatto che una signora ha sentito grida di aiuto provenire da quella zona da parte di una donna. È poco credibile che una persona in overdose chieda aiuto, e nel caso lo farebbe rivolgendosi a una persona che conosce chiamandola per nome e non dicendo genericamente 'aiuto'", spiega infatti il tenente colonnello dei carabinieri Lorenzo Carlo Maria Repetto. "Un'ipotesi è che la motivazione possa essere un rifiuto a un'avance sessuale. L'incontro era dovuto al fatto che entrambi consumavano stupefacenti. Le dichiarazioni del Pasini fanno presumere che lui avesse anche altre intenzioni e non è detto che la donna fosse d'accordo", continua il colonnello. Il sospettato, dunque, avrebbe inizialmente dichiarato di aver dato fuoco all'auto con all'interno il corpo della 39enne nel tentativo di sviare le indagini (i resti rinvenuti all'interno dell'abitacolo erano quelli di un cane). "Ha pensato evidentemente di sviare le indagini in questo modo pensando che i resti non potessero essere identificabili. Evidentemente ha occultato il corpo da altre parti, per far sì che noi non avessimo tracce di atti violenti, che noi pensiamo invece siano accaduti", conclude Repetto.

Giovanni Gardani per il “Corriere della Sera” il 23 agosto 2020. L'idea di Alessandro Pasini, 45 anni, secondo gli inquirenti, era chiara dall'inizio. Trascorrere una serata con Sabrina Beccalli, 39 anni, sballarsi con cocaina ed eroina e poi provarci con la donna. Lei però ha mandato a monte il piano, non ha ceduto alle avances dell'uomo, noto a Crema per i suoi precedenti, e già denunciato per molestie sessuali anche da parte della sua ultima ex, che con lui ha rotto lo scorso 3 agosto. Al rifiuto di Sabrina, Pasini avrebbe reagito uccidendola. È stata una giornata intensa, ieri, nell'inchiesta per la scomparsa all'alba di Ferragosto della donna, residente nel quartiere San Bernardino di Crema, dove abita anche il presunto omicida. Per ragioni tecniche, il gip di Cremona Giulia Masci non ha convalidato il fermo ma ha comunque stabilito la custodia cautelare in carcere per Pasini. E per la prima volta ha parlato alla stampa il colonnello dei Carabinieri Lorenzo Carlo Maria Repetto, alle 13.30, di fianco alla chiesa di Vergonzana, base delle ricerche: «Pasini ha raccontato che la donna è morta per overdose, ma non gli crediamo: la sua personalità violenta è emersa in più circostanze. Parliamo, come spiega l'ordinanza del giudice, di una persona lucida e spregiudicata, capace dopo avere ucciso Sabrina di ammazzare un cane e disposta a provocare una strage». Proprio così: nella cassetta della posta della palazzina al civico 12 di via Porto Franco - il luogo in cui Sabrina sarebbe stata uccisa e dove risiede la ex di Pasini, in questi giorni in Sicilia - si nota un avviso di una ditta locale che informa di avere chiuso il gas su richiesta dei Carabinieri e dei Vigili del fuoco. Un'azione necessaria per consentire il sopralluogo dei Ris: il tubo del gas, infatti, è stato tagliato dal 45enne nella speranza che un'esplosione cancellasse ogni prova di quanto accaduto tra venerdì e sabato di Ferragosto. Il gas ha continuato a uscire lentamente, fino al 19 agosto, mettendo a repentaglio la vita di una famiglia che vive nella palazzina, e quella di Vigili del fuoco e Carabinieri entrati per primi nell'immobile. Sentendo l'odore, i militari si sono fermati chiedendo la messa in sicurezza ed evitando un dramma più grande: la tentata strage può diventare un terzo capo d'imputazione per il 45enne, dopo l'omicidio e la distruzione del cadavere. «Pasini ha ammesso di voler fare saltare la casa - spiega il colonnello Repetto - e si è chiarito poi il mistero del cane, morto a bordo della Fiat Panda di Sabrina data alle fiamme da Pasini. L'uomo ha detto che quelli carbonizzati erano i resti della donna. Invece i veterinari hanno confermato che si trattava di un cane». L'animale era senza microchip, forse un randagio trovato per strada e sacrificato per confondere gli investigatori. Pasini è stato così denunciato anche da un'associazione animalista. Sin qui l'ipotesi di un'overdose di Sabrina - che configurerebbe il reato di omicidio colposo, perché la droga sarebbe stata fornita dal pusher 45enne, e non di omicidio volontario - potrebbe ancora reggere. A smentirla c'è però una testimone, che abita in via Porto Franco e alle 5 di mattina di Ferragosto ha sentito una donna chiedere aiuto, con voce strozzata, dall'appartamento. «Chi va in overdose perde i sensi - continua Repetto - e non ha la forza di parlare. Se ci riesce, chiama per nome la persona più vicina». La testimone ha visto Pasini ricomparire alle 14.30 di Ferragosto con un monopattino. Lo stesso mezzo utilizzato per tornare, probabilmente con il cane, a Vergonzana, dove aveva parcheggiato la Panda di Sabrina, per darle fuoco con l'animale dentro. Non è tutto: i Ris avrebbero infatti trovato tracce di sangue sul luogo del delitto. «Occultare il cadavere, che stiamo cercando nell'ampia cisterna di Vergonzana, per il cui svuotamento serviranno 24 ore - spiega Repetto - è un modo per nascondere segni di violenza sul corpo di Sabrina». Un mese fa, il 26 luglio, il presunto omicida scriveva sui social: «La vita restituisce tutto... a tutti».

"Ecco perché ha bruciato un cane", macabra ipotesi sul caso Sabrina. La carcassa rinvenuta carbonizzata a bordo della Panda di Sabrina è stata esaminata dal dirigente veterinario dell'Ats di Cremona. Resta forte l'ipotesi che Pasini si sia servito dell'animale per depistare gli inquirenti. Federico Garau, Lunedì 24/08/2020 su Il Giornale. Gli inquirenti continuano ad indagare per ricostruire gli ultimi istanti di Sabrina Beccalli, la donna scomparsa nella notte di Ferragosto e della quale si stanno ancora cercando i resti. Tratto in arresto con l'accusa di omicidio e di occultamento di cadavere, il 45enne Alessandro Pasini continua a fornire risposte poco soddisfacenti, motivo per cui gli investigatori non possono permettersi di trascurare alcun dettaglio. Ecco così che l'attenzione delle autorità si è concentrata anche sull'altra vittima di quella notte, ossia il cane trovato carbonizzato all'interno della Fiat Panda di Sabrina e inizialmente spacciato da Pasini come la 39enne. Una menzogna smascherata praticamente subito. Secondo il tenente colonnello Carlo Maria Repetto, incaricato di guidare l'attività investigativa dei carabinieri del nucleo operativo di Crema, servendosi della bestiola Pasini aveva cercato di sviare senza riuscirci le indagini."Ha pensato evidentemente di sviare le indagini in questo modo pensando che i resti non potessero essere identificabili. Evidentemente ha occultato il corpo da altre parti, per far sì che noi non avessimo tracce di atti violenti, che noi pensiamo invece siano accaduti", ha infatti dichiarato Repetto, come riportato da "Tgcom24". Ci si interroga adesso su come sia stato coinvolto il cane, trovato carbonizzato fra il sedile posteriore e la seduta a lato del guidatore. Secondo Giulia Masci, giudice per le indagini preliminari di Cremona, potrebbero esserci due versioni, riportate da "Il Giorno". In un caso, l'animale potrebbe essere stato un cane randagio che aveva precedentemente trovato riparo all'interno dell'autovettura di Sabrina. Sarebbe quindi "rimasto carbonizzato quando il Pasini ha dato fuoco al veicolo". Un'altra ipotesi possibile è che il cane sia stato preso ed intenzionalmente collocato a bordo del veicolo "dal Pasini stesso per far credere agli inquirenti che fossero i resti della Beccalli sui quali però - trattandosi di carcassa carbonizzata - non sarebbe stato possibile effettuare accertamenti utili per stabilire le vere cause del decesso". Del resto Pasini doveva sapere che il cane si trovava nella vettura, dato che inizialmente, nel corso dell'udienza di convalida, si era servito di ciò per raccontare agli inquirenti che i resti sull'auto erano quelli di Sabrina, deceduta dopo aver assunto sostanze stupefacenti. È stato il dirigente veterinario dell'Ats di Cremona, in collaborazione con un altro esperto, a svolgere gli esami del caso sulla carcassa. È stato confermato che si tratta di un"animale della famiglia dei canidi e del genere canis, di media taglia, non giovane, privo di microchip". Smentito, dunque, il racconto di Pasini. Intanto proseguono senza sosta le ricerche del corpo di Sabrina. Neppure lo svuotamento della cisterna di Vergonzana ha purtroppo dato dei risultati.

Fabio Poletti per “la Stampa” il 29 agosto 2020. Dov'è finito il corpo di Sabrina Beccalli, la 39 enne cremasca scomparsa da Ferragosto? Quel frammento di osso, trovato nella Fiat Panda nera data alle fiamme dall'uomo in carcere per omicidio, è davvero suo? Per rispondere agli ultimi interrogativi sulla fine della giovane, la Procura di Cremona ha deciso di affidare le analisi dei resti trovati sulla Panda nera della donna all'anatomopatologa milanese Cristina Cattaneo, che in passato si era già occupata tra gli altri del caso di Yara Gambirasio. La decisione è stata presa dopo le diverse valutazioni sulla tipologia di ossa trovata nel veicolo dato alle fiamme da Alessandro Pasini, che si trova in carcere accusato di omicidio e soppressione di cadavere, nonché di distruzione di edifici, per aver cercato di far saltare in aria con il gas la palazzina dove è morta la giovane cremasca. Secondo il vicino di casa, che con Sabrina Beccalli aveva passato la notte di Ferragosto consumando cocaina ed eroina, la donna sarebbe morta di overdose e lui, per sbarazzarsi del cadavere l'avrebbe caricata nell'auto per poi bruciarla. Una tesi che non convince i magistrati che pensano invece che a scatenare la furia dell'uomo possa essere stato il rifiuto della donna davanti a un'avance sessuale di Alessandro Pasini. Rimane il mistero di dove sia finito il corpo. Un anatomapatologo della Procura e due medici veterinari coinvolti nelle indagini dai magistrati, avevano concluso che si trattava di resti animali, precisamente di un cane. Di diverso parere il medico legale di Codogno Angelo Grecchi, perito di parte per l'imputato, che solo sulla base di un esame fotografico sarebbe arrivato alle conclusioni che quell'osso è compatibile con il frammento di una clavicola di essere umano. Il procuratore di Crema Roberto Pellicano non si sbilancia: «Alla luce delle ricerche condotte fino ad oggi e visto che non è tanto plausibile la speranza di trovare il corpo, riteniamo utile sottoporre a perizia i resti trovati nell'auto». A rendere difficili le ricerche è la fitta rete di canali e di rogge che va da Crema fino Vergonzana, dove è stata abbandonata l'auto. Nell'appartamento dove Sabrina Beccalli è morta i Ris hanno trovato numerose tracce di sangue. Così come sulle ciabatte di Alessandro Pasini. Spiega il Procuratore di Crema Roberto Pellicano: «Se anche quei resti trovati in auto fossero veramente di Sabrina Beccalli, non cambierebbe di una virgola la nostra ricostruzione». 

E' morta Diana Russell, la sociologa e criminologa che coniò il concetto di femminicidio. Pubblicato giovedì, 30 luglio 2020 da La Repubblica.it. Diana E. H. Russell, attivista, studiosa e scrittrice femminista di fama mondiale, è morta il 28 luglio a Oakland, in California. Aveva 81 anni. A lei, sociologa e criminologa, si deve l'invenzione e la diffusione del termine femminicidio, diventato di uso comune negli ultimi anni per identificare chiaramente i crimini contro le donne - una battaglia a cui Russell ha dedicato la sua vita - ma da lei coniato già a metà degli anni Settanta. Nata il 6 novembre 1938 a Città del Capo, in Sudafrica, Russell è cresciuta in una famiglia di sei figli, con padre sudafricano e madre britannica. Dopo la laurea all'Università di Città del Capo e la specializzazione in sociologia alla London School of Economics di Londra, nel 1961 diventò ricercatrice alla Harvard university dove prima studiò la nozione di rivoluzione, in particolare ispirata dalla sua partecipazione alla lotta contro l'apartheid in Sudafrica, e poi si dedicò alle indagini sociologiche sui crimini sessuali commessi contro le donne. Dal 1970 ha insegnato sociologia delle donne al Mills College di Oakland. Russell nel 1993 ha fondato Women United Against Incest, un'associazione che sostiene le vittime dell'incesto. Ha anche ideato il primo programma televisivo in Sudafrica dove le donne vittime di abusi raccontano le loro esperienze e condotto battaglie contro la pornografia. E' stato nel 1976 che Russell ha definito per la prima volta "l'uccisione di femmine da parte dei maschi in quanto femmine" come "femminicidio", mettendo in luce la valenza 'politicà della parola che voleva attirare l'attenzione sulla misoginia alla base dei crimini contro le donne. II termine si affermò all'interno nella campagna per la costruzione di un Tribunale internazionale sui crimini contro le donne, che culminò con un meeting a Bruxelles per la denuncia di tutte le forme di discriminazione e oppressione subite dalle donne nel mondo. E' del 1992 la sua antologia "Femicide: The Politics of Woman Killing". Su Facebook e Twitter sono tanti i gruppi femministi e le singole donne a ricordare il suo impegno civile. La ricorda su Facebook anche Valeria Valente, senatrice Pd e presidente della commissione parlamentare d'inchiesta sul femminicidio: "Diana E. H. Russell, la sociologa femminista che ha coniato la parola "femminicidio", ci ha lasciati martedì all'età di 81 anni, dopo aver dedicato la sua vita intera allo studio dei crimini contro le donne. E' stata la prima donna a identificare un termine preciso per un fenomeno che era (ed è) così radicato nella nostra società, da essere quasi irriconoscibile. Dare un nome, ha significato riconoscerne l'esistenza. È stato il punto di partenza per iniziare a lottare. E noi, anche con la Commissione di inchiesta del Senato sul fenomeno del femminicidio e della violenza di genere, continueremo la nostra battaglia. Grazie Diana E. H. Russell. Che la terra ti sia lieve".

I morti chiedono giustizia, anche se non possono sporgere denuncia. In Italia per il reato di abuso sessuale è previsto l’obbligo della querela di parte. Ma Pamela, essendo stata uccisa brutalmente, non ha di certo potuto presentare denuncia. Così la Procura di Macerata ha chiesto l’archiviazione per il crimine che ha preceduto l’orripilante delitto. Michel Emi Maritato il 5 luglio 2020 su Il Quotidiano del Sud. Pamela Mastropietro, una sorte spietata. L’omicidio della diciottenne nella casa degli orrori di Macerata, culminato con la condanna all’ergastolo di Innocent Oseghale, confermata in corte d’appello, oltre ad aver suscitato la commozione – unita alla riprovazione – di tutto il Paese, pone inquietanti interrogativi. Una ragazza fragile, in difficoltà, della cui debolezza hanno approfittato in molti. Dagli uomini comuni che ha incontrato sulla propria accidentata strada, che non hanno saputo che regalarle denaro al posto di aiuto e comprensione, fino ai violenti spacciatori che ne hanno decretato il supplizio e la morte. Pensiamo al 50enne di Mogliano che le aveva dato un passaggio, intercettandola dopo che si era allontanata dalla comunità di recupero di Corridonia. Oppure al tassista di origine argentina che l’avrebbe ospitata a casa la sera prima del delitto. Nessuno di questi ha pensato alle condizioni di Pamela, sopraffatti dal proprio egoismo di maschi predatori. Se fossero intervenuti per tempo forse la ragazza avrebbe potuto salvarsi dalla furia degli aguzzini nigeriani che su di lei hanno sperimentato quanto di più aberrante possibile: violenza sessuale, omicidio e vilipendio di cadavere. Più di questo non si può. E qui arriviamo ai motivi di sconcerto: nel nostro Paese, per il delitto di abuso sessuale è prevista l’obbligatorietà della querela di parte. Ma Pamela, essendo stata trucidata e rinchiusa in due valigie, ovviamente non ha potuto denunciare i mostri. Perché esattamente il giorno dopo un mostro l’ha uccisa in un modo orribile. Così la Procura di Macerata ha chiesto l’archiviazione per questo crimine che ha preceduto l’orripilante delitto. Questa, in sintesi la storia di una ragazza dalla psiche debole, sopraffatta da qualcosa più grande di lei. Non si può tacere, notizie simili non possono passare sotto silenzio. La normativa deve essere adeguata. Se i predatori sessuali di Pamela non sono responsabili per la legge, lo sono per la coscienza morale e la politica sembra sorda e cieca di fronte a tale aberrazione. È evidente come tali previsioni legislative mantengano ancora un’impronta patriarcale ma occorre subito intervenire per colmare il vuoto normativo. Un reato detestabile come l’abuso e la violenza sessuale è punito con pene non commisurate alla gravità dell’evento. Basti pensare allo choc che impedisce alla maggior parte delle donne di denunciare, alla destabilizzazione conseguente a una violenza, che spinge molte di loro in una condizione psicologica devastante. Così, si spiega l’impunità di molti reati, una violenza ulteriore per il genere femminile. E il caso di Pamela, nel novembre 2019 è finito al Parlamento europeo, grazie a un convegno promosso dal gruppo “Identità e Democrazia” in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Proprio in tale circostanza, in cui sono stati sviscerati tutti i retroscena di questo orrendo crimine, si è stabilito un legame tra l’assassinio, l’accanimento sul cadavere della povera diciottenne e la mafia nigeriana, presente ormai in vari paesi del mondo e in Italia, con i suoi delitti e i suoi riti. “Ciò che ha subito Pamela va oltre la violenza contro una donna: è una violenza contro l’umanità intera”, è la convinzione dell’avvocato Marco Valerio Verni, legale della famiglia Mastropietro e zio della ragazza. Per questo il parlamento europeo, così sensibile al rispetto dei diritti umani, dovrebbe battere un colpo, manifestare il proprio disappunto di fronte a tale lacuna legislativa. Basterebbe una direttiva, una raccomandazione, la “moral suasion” (persuasione morale autorevole, ndr) dei rappresentanti Ue perché i Paesi aderenti si adeguino. A condanna comminata, non si può dimenticare la posizione dell’affollato pool di legali del nigeriano, che voleva “difendere l’indifendibile”, secondo quanto dichiarato da Luisa Regimenti, che non ha risparmiato sforzi per smontare tali tesi. Una linea difensiva che, come dichiarò la dottoressa in un’intervista al Secolo D’Italia, era basata “sul nulla, parlando di un quadro probatorio incerto, di destabilizzazione mediatica, di un rapporto intimo consensuale”, arrivando a fornire, nel corso delle udienze, “dati errati e fuorvianti”. Queste, le distorsioni cui si va incontro in un processo che implichi la violenza sessuale. Ne abbiamo avuto fulgidi esempi ma il sacrificio di Pamela non deve restare vano. Deve esserci uno sforzo collettivo da più parti. La politica non può più ignorare tale emergenza.

Brindisi, ustiona il marito con l'acido: arrestata. Pubblicato martedì, 04 agosto 2020 da La Repubblica.it. E' stata arrestata ed è piantonata in ospedale la donna di 51 anni che avrebbe aggredito il marito versandogli dell'acido muriatico addosso. È accusata di lesioni gravissime. L'uomo è in pericolo di vita, ha ustioni sull'80% del corpo. Non sono chiare le ragioni del gesto. La donna non ha fornito al momento elementi ai poliziotti della Squadra mobile di Brindisi. A quanto ricostruito dalla polizia, sarebbe stato aggredito dalla donna al culmine di una lite avvenuta per strada, nel rione Commenda di Brindisi. Le sue condizioni sono gravissime: è ricoverato in prognosi riservata al Perrino. Anche la donna è stata medicata per ustioni alle mani. I fatti si sono verificati poco dopo le 19. La scena è stata ripresa dalle telecamere delle attività commerciali della zona. I due si trovavano in un'auto. L'uomo è corso fuori dalla vettura per chiedere aiuto in un negozio di casalinghi. È stato inizialmente soccorso da passanti. La donna è stata raggiunta in auto dalla polizia. Per la donna sono scattate per lei le procedure anti covid perché le è stata rilevata una temperatura corporea elevata.

Simona Pletto per "Libero Quotidiano" il 5 agosto 2020. Ha comprato giorni prima il micidiale acido, un disgorgante per scarichi e tubature. Lo ha tenuto lì, in un flacone nascosto nella sua borsetta. Lunedì sera, poco dopo le 19, al culmine di una lite scoppiata con il marito all'interno dell'auto parcheggiata in via Pace Brindisina, di fronte a negozi e passanti, la donna è scesa dalla vettura, mentre il coniuge è rimasto ad attenderla nella loro Fiat 500. Poi è tornata, si è affacciata dal finestrino al lato del guidatore, ha estratto il prodotto e lo ha gettato sul corpo del coniuge, provocandogli ustioni all'80%. L'uomo, R.A., 52enne, in preda a dolori lancinanti, ha cercato riparo all'interno di un negozio di casalinghi che si trovava di fronte all'automobile, invocando aiuto: «Aiutatemi sto bruciando», «datemi l'acqua», avrebbe urlato stando ad alcune testimonianze raccolte dalla polizia. Lo stesso, inoltre, in presenza di numerose persone, fra i clienti del negozio di casalinghi, avventori e dipendenti di un supermercato limitrofo, avrebbe accusato la moglie. Lei, nel frattempo, senza opporre resistenza, era stata bloccata, a pochi passi dall'auto, da un ispettore fuori servizio della Digos di Brindisi.

DELICATO INTERVENTO. Sono stati in molti a soccorrerlo, gettandogli acqua minerale per cercare di lenire il dolore delle ustioni. La vittima, rimasta cosciente, si è seduta su un marciapiede prima dell'arrivo dell'ambulanza. Ieri mattina l'uomo è stato sottoposto a un delicato intervento chirurgico. La moglie, una paziente con problemi psichiatrici in cura in un centro di Brindisi, pochi minuti dopo l'aggressione è rimasta quasi immobile, non ha detto una parola. All'arrivo degli agenti, ha riferito che avrebbe parlato solo in presenza del suo avvocato. Il 52enne, responsabile della sicurezza in una ditta di Bari che si occupa di manutenzioni industriali, ora lotta tra la vita e la morte nel reparto di rianimazione dell'ospedale Perrino di Brindisi. Le sue condizioni sono stazionarie ma gravissime. La moglie, C.L., 53enne brindisina come il marito, senza una occupazione stabile, è stata arrestata per il reato di lesioni gravissime. È piantonata nella stanza numero 100 dello stesso ospedale, per curare le ustioni alle mani che si è procurata durante l'aggressione. Tutta la scena dell'aggressione è stata ripresa dalle telecamere di sorveglianza. Secondo una prima ricostruzione affidata agli agenti della Squadra mobile di Brindisi sotto la guida del vice questore Rita Sverdigliozzi, la coppia era uscita per andare a fare la spesa quando è scoppiato il litigio in auto. Non è ancora chiara la causa scatenante dell'aggressione. I familiari, sentiti dagli inquirenti, descrivono la vittima come una persona tranquilla, un bravo padre, un uomo che non ha mai mostrato atteggiamenti violenti contro la moglie e tantomeno contro i figli. Anche se i due non andavano d'accordo. Lo stato mentale della donna, affetta da turbe psichiche da tempo, evidentemente ha inciso sulla reazione violenta. Nonostante il disagio, nel passato della coppia non ci sono episodi gravi. Lo testimonia il fatto che alle stesse forze dell'ordine non risultano vicende di maltrattamenti o episodi di violenza nei trascorsi dei coniugi. Anche se non sono mancate testimonianze che descrivono disaccordi all'interno della famiglia. condizioni di salute Dalla loro unione sono nati due figli oggi maggiorenni, uno di loro è già stato ascoltato dagli investigatori impegnati in queste ore a ricostruire l'humus in cui è salita la rabbia della donna e a focalizzare dunque il contesto in cui è maturata questa aggressione. Ieri mattina gli atti sono stati depositati in Procura. Il fascicolo è stato affidato al pubblico ministero Francesco Carluccio, che dunque procede per il reato di lesioni gravissime. Non è da escludere che l'accusa nei confronti della donna possa alleggerirsi. La difesa potrebbe avvalersi di una perizia psichiatrica per dimostrare la sua infermità mentale al momento dell'aggressione.

Finge malore, poi pesta e stupra 95enne: pregiudicato in manette. Determinanti la testimonianza della vittima e le immagini riprese da alcune videocamere di sorveglianza presenti nelle vicinanze della sua abitazione. Federico Garau, Lunedì 03/08/2020 su Il Giornale. Aveva stuprato una donna 95enne a Grottaglie (Taranto), dopo essere riuscito ad entrare in casa sua fingendo un malore, per questo motivo è finito finalmente in manette il responsabile, un uomo di 33 anni pluripregiudicato di cui al momento non sono state rese note le generalità. L'arresto, eseguito dagli uomini del commissariato di Grottaglie, che hanno dato esecuzione all'ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip del tribunale di Taranto su richiesta della procura della Repubblica, è arrivato dopo alcuni giorni di indagine anche grazie alle immagini riprese dalle videocamere di sorveglianza presenti nelle vicinanze dell'abitazione della vittima. L'uomo, che si trova già dietro le sbarre della locale casa circondariale, dovrà ora rispondere dell'accusa di violenza sessuale e violenza privata ai danni dell'anziana. In quel terribile giorno, la 95enne aveva contattato le forze dell'ordine all'alba, dopo che il suo aggressore si era allontanato a causa del sopraggiungere di una vicina di casa. Sul posto gli agenti del commissariato di Grottaglie, ai quali la donna aveva raccontato tutto l'incubo appena vissuto. Erano all'incirca le 5 del mattino, quando qualcuno l'aveva svegliata di soprassalto bussando con forza ed insistenza alla porta della sua abitazione. Il primo pensiero era che potesse trattarsi del figlio, per cui l'anziana aveva recuperato il suo deambulatore nei pressi del letto e si era diretta verso l'uscio di casa. Non si trattava, tuttavia, del congiunto, bensì di uno sconosciuto. L'uomo, che indossava un paio di jeans ed una maglietta di colore bianco, aveva simulato un malore, chiedendo all'anziana di poter ricevere un bicchiere d'acqua. Una strategia studiata ad hoc per poter accedere all'interno dell'abitazione: fatto ritorno con quanto richiesto dall'estraneo, la 95enne si era vista respingere il bicchiere d'acqua. Sempre più aggressivo, l'uomo l'aveva inoltre spinta con forza per entrare in casa, facendola rovinare a terra. Non pago, il 33enne si era quindi denudato e l'aveva stuprata, nonostante la resistenza opposta dalla vittima. Le grida disperate della donna, che invocava aiuto e per questo era stata pure pestata dal violento aggressore, erano tuttavia riuscite a richiamare l'attenzione di una vicina di casa. L'arrivo della stessa, che si era precipitata in soccorso della 95enne sorprendendo sul posto il responsabile, aveva comportato l'immediata fuga di quest'ultimo. Dopo essersi rivestito rapidamente, l'uomo si era infatti allontanato dal posto, riuscendo a far perdere le proprie tracce. Grazie alla descrizione della vittima ed alle immagini tratte da alcuni sistemi di videosorveglianza, il 33enne, già noto alle forze dell'ordine, è stato finalmente arrestato.

Aggredisce e stupra una 90enne. L'orrore del 17enne marocchino. L'irruzione in casa per rapinarla, poi la violenza sessuale e la fuga. Lo stupratore è un 17enne di origini marocchine. Giuseppe De Lorenzo, Mercoledì 09/09/2020 su Il Giornale. Si è introdotto in casa sua. Ha tentato di rapinarla. Poi l’ha aggredita, spinta a terra e stuprata. La donna, di quasi 90 anni, è ancora sotto choc. Ha versato molte lacrime. E mai, forse, avrebbe anche solo pensato che un 17enne di origine marocchina potesse farle questo. Senza un vero perché. Siamo a Salsomaggiore Terme, in provincia di Parma. È sabato 5 settembre quando la 90enne cammina tranquilla in giardino senza sospettare nulla. Il giovane approfitta della breve distrazione ed entra nell’appartamento per arraffare qualcosa. Forse doveva essere solo una "semplice" rapina, niente di più. Quando però la signora rientra in casa si consuma la tragedia. Lei lo coglie sul fatto, grida spaventata e lui la violenta. Un stupro orribile che dura lunghi istanti di inferno. Le urla della donna attirano un vicino che si precipita ad aiutarla e la trova sconvolta mentre l’aggressore si dà alla fuga. L’uomo scorge il ragazzo, non lo riconosce, ma ha la prontezza di spirito di scattargli una fotografia prima di chiamare il 112. Sul posto si fiondano i carabinieri della compagnia di Salsomaggiore che subito fanno scattare le indagini. La traccia è segnata da quella foto che immortala un fuggitivo di spalle. Il giovane è noto alle forze dell’ordine e non ci vuole molto per riconoscerlo in una città in cui le persone attenzionate non sono molte e chi ha qualche precedente è ben conosciuto. La caccia scatta all’istante. Le ricerche partono dalla casa dei genitori, ma non c’è. L’analisi delle celle telefoniche (Salsomaggiore è coperta da una sola) assicura che il 17enne è ancora in città, non può essere andato lontano. Così gli investigatori stringono il cerchio attorno alle sue conoscenze. Il minorenne viene trovato il giorno dopo in compagnia di alcuni amici, estranei ai fatti. Non è la prima volta che si assenta da casa per qualche giorno, dunque i coetanei non sospettano nulla. I carabinieri lo sottopongono a fermo come indiziato di reato. Le accuse sono violenza sessuale e tentata rapina aggravata. Gli indizi e i riscontri appaiono schiaccianti. In caserma il 17enne prima nega i fatti, poi inizia a fare qualche ammissione parziale confessando il furto ma non lo stupro. Infine cede e ammette le sue responsabilità. Tra gli indizi i militari raccolgono una bicicletta abbandonata sul cui manubrio vengono trovate le impronte dell’aggressore e poi c’è quella foto scattata dal testimone. Quando i carabinieri lo fermano, il 17enne ha ancora addosso gli stessi abiti con cui ha stuprato la 90enne. Dopo la confessione il giovane è stato trasportato al centro di permanenza di Bologna. Oggi si è svolta l’udienza e, secondo quanto risulta al Giornale.it, l’arresto è stato già convalidato. Classe 2002, per pochi mesi ancora minorenne, ha precedenti per reati contro il patrimonio e ora si trova al carcere minorile del Pratello a Bologna. La vittima, invece, è ancora sotto choc. Portata in ospedale dopo la violenza, faticava a parlare e a raccontare quanto le era successo. Un giorno orribile che vorrà solo dimenticare.

Una 90enne stuprata e rapinata, arrestati due minori a Messina. La donna ha resistito all’aggressione di un 17enne e un 14enne. E’ stata salvata dalla figlia che ha avvertito la polizia. I due giovani sono stati condotti in un centro di accoglienza del Tribunale per i minori di Messina. La Stampa il 17 settembre 2019. Erano partiti per compiere una rapina e alla fine hanno anche abusato di una donna di 90 anni che aveva tentato di resistere all'aggressione di due minorenni. Ridotta in gravi condizioni, la donna è stata salvata dalla polizia avvertita dalla figlia e ora è ricoverata in ospedale in prognosi riservata con fratture multiple e contusioni in diverse parti del corpo. La violenza sessuale ai danni dell’anziana è emersa dagli esami clinici. I due ragazzi, uno di 17 anni e l'altro di 14, sono stati individuati e condotti in un centro di prima accoglienza presso il Tribunale per i minorenni di Messina. Le ricerche serrate hanno consentito di stringere il cerchio sui due minorenni arrestati domenica notte e rintracciati con gli abiti ancora sporchi di sangue e in evidente stato di agitazione. Sequestrati un coltello a serramanico e oggetti appartenenti alla vittima. Sui ragazzi pesano accuse pesantissime: rapina aggravata, tentato omicidio e violenza sessuale. E anche possesso di oggetti «atti a offendere». L'anziana signora aveva aperto la porta ai due ragazzi senza alcun problema, conoscendo uno dei due come amico del nipote. Ma, una volta varcata la soglia, i due hanno cominciato a rovistare nei cassetti alla ricerca di denaro e oggetti preziosi. Quelli che poi la polizia ha recuperato insieme con un coltello che però non è stato usato. Non ce n'era bisogno per la fragilità della vittima che comunque ha cercato di resistere con tutte le sue forze e per questo è stata violentemente aggredita, scaraventata a terra e abusata. I poliziotti l'hanno trovata piena di lividi e sangue. Sarebbe stata lei stessa a indirizzare i poliziotti verso i due aggressori che sono stati subito dopo rintracciati.

Fulvio Ventura per "Il Messaggero" l'8 agosto 2020. Aggredita e violentata sul treno, una sessantasettenne salvata dal personale in servizio sul treno che aveva sentito le grida di aiuto. La violenza è avvenuta ieri mattina, dopo le 9, su una corsa della Roma - Avezzano. Mentre la vittima veniva soccorsa e trasportata all'ospedale di Tivoli, l'aggressore in fuga nelle campagne di Marcellina è stato arrestato dopo poco. Lui, 28 anni straniero regolarmente in Italia da cinque anni e senza precedenti penali alle spalle, è finito in manette con l'accusa di violenza sessuale aggravata. La donna, sotto shock, è stata medicata ed aiutata dal personale del Centro antiviolenza tiburtino. L'aggressione e la violenza sono accadute nel giro di pochi attimi. Secondo le prime ricostruzioni dei militari, coordinati dalla procura di Tivoli, I due erano da soli nel vagone e già da un po' avevano iniziato a chiacchierare. Poi il treno è entrato in stazione, a Marcellina, e l'uomo all'improvviso si scaglia contro la poveretta, abusando di lei. La donna ha cercato di difendersi, gridando e chiedendo aiuto. Le sue urla, fortunatamente, hanno richiamato l'attenzione del personale del treno e di altri passeggeri che sono accorsi. Il violentatore, alla viste delle persone che stavano arrivando, è fuggito, scendendo dal treno e lasciando sul convoglio il suo bagaglio con gli effetti personali.

LA CACCIA. Una volta sulla banchina si è diretto nei campi adiacenti la stazione. Gli addetti delle Ferrovie hanno chiamato il 112 ed i carabinieri della compagnia tiburtina sono subito intervenuti. Mentre la donna veniva soccorsa, cominciava una caccia all'uomo. Tra i frutteti della zona i militari hanno presto rintracciato e fermato l'uomo tra uliveti, piante da frutto ed orti. Lo hanno sorpreso mentre camminava lungo un vialetto. Quando i carabinieri hanno fatto scattare le manette ai suoi polsi non avrebbe neanche tentato di giustificarsi. Il violentatore è stato poi portato in cella. «La differenza d'età tra l'arrestato e la vittima - commenta il procuratore di Tivoli, Francesco Menditto - dimostra ancora una volta un dato di esperienza acquisito dalla Procura negli ultimi anni, attraverso l'analisi dei numerosi casi di violenza sessuale: questo crimine può colpire qualsiasi donna, in qualsiasi contesto ed è mosso esclusivamente dalla mera volontà dell'uomo di esercitare violenza». Per la vittima sono scattate le misure previste dal protocollo attivato da tempo tra Procura, Asl, forse dell'ordine, centro antiviolenza. «Ancora una volta - prosegue il procuratore Menditto - le forze dell'ordine del circondario di Tivoli, specializzate e formate dalla Procura con specifici corsi per l'efficace e tempestivo contrasto alla violenza contro le donne, hanno assicurato alla giustizia l'autore del reato e tutelato immediatamente la vittima sulla base delle indicazioni della Procura. La rete dell'assistenza, con il personale presso il pronto soccorso dell'ospedale tiburtino e le assistenti del centro antiviolenza istituito dal comune di Tivoli, hanno aiutato la poveretta in quel momento.

Da leggo.it il 25 giugno 2020. Un commerciante di 47 anni, titolare di un bar, è stato accoltellato a Castiglione Torinese, in provincia di Torino, nel suo locale in via San Donato 82. A ferirlo sarebbe stata una ragazza russa di 25 anni, Elis Gonn, residente a Torino ma residente nello stesso paese: dopo il suo arresto, ieri, avrebbe detto di averlo fatto perché il 47enne, con il quale aveva avuto un colloquio di lavoro, ci aveva provato con lei. Ma le presunte avances, racconta TorinoToday, sarebbero in realtà un pretesto: la giovane infatti poco meno di due anni fa aveva un precedente di aggressione nei confronti di un uomo. Accadde a Managua (Nicaragua), dove Elis aveva lanciato acido contro un prete, Mario Guevara, vicario della cattedrale: il religioso era rimasto sfregiato in volto e la russa aveva detto di averlo fatto perché «indotta dal diavolo». Per quella storia era stata condannata a otto anni di carcere nel maggio 2019, ma scarcerata per scontare la pena ai domiciliari era scappata arrivando in Italia. Qui aveva ottenuto lo status di rifugiata perché perseguitata in Russia, per la sua appartenenza ai movimenti femministi. La 25enne, che dovrà affrontare il processo per tentato omicidio ai danni del barista, potrebbe dunque essere estradata in Nicaragua dove deve scontare la pena.

I legali dell’ex carabiniere: «Quel giudice va ricusato». Valentina Stella su Il Dubbio il 22 giugno 2020. La Cassazione si pronuncerà in merito alla richiesta di ricusazione del giudice Marco Bouchard, presidente del collegio che il 21 febbraio scorso ha condannato l’ex carabiniere Pietro Costa per violenza sessuale nei confronti di una studentessa americana. Il giudice è “accusato” di aver fondato “Rete Dafne”, si tratta di una associazione per aiuto alle vittime di violenze sostenuta dal comune di Firenze. Il 24 giugno, salvo ulteriori rinvii dovuti all’emergenza epidemiologica, la Cassazione si pronuncerà in merito alla richiesta di ricusazione del giudice Marco Bouchard, presidente del collegio che il 21 febbraio scorso ha condannato a 5 anni e 6 mesi di reclusione l’ex carabiniere Pietro Costa per violenza sessuale nei confronti di una studentessa americana. Secondo l’accusa, nella notte tra il 6 e il 7 settembre 2017, Costa e il suo collega Marco Camuffo avrebbero agito abusando della loro qualità di carabiniere in servizio e violato gli ordini impartiti dai superiori facendo salire illegittimamente due ragazze statunitensi sull’auto di servizio. Avrebbero poi accompagnato le due nella loro abitazione di Firenze per poi abusare di loro. Marco Camuffo è stato condannato nell’ottobre del 2018 a 4 anni e 8 mesi con rito abbreviato. Per Costa la sentenza è arrivata a febbraio con rito ordinario. Il carabiniere avrebbe avuto un rapporto sessuale con la studentesse malgrado il dissenso espresso di quest’ultima. Per la difesa dell’imputato, diversamente, la persona offesa avrebbe ammesso di non aver mai manifestato il proprio “non gradimento” al rapporto sessuale. Ma veniamo al tema del giorno: secondo i legali di Costa, gli avvocati Daniele Fabrizi e Serena Gasperini, l’obiettività del magistrato Bouchard sarebbe in discussione per il fatto di aver ricoperto prima l’incarico di presidente e poi quello di presidente onorario di “Rete Dafne”; si tratta di una associazione per aiuto alle vittime di violenze sostenuta dal comune di Firenze e della cui articolazione sul territorio fiorentino è uno dei partner promotori ed è parte civile nel procedimento contro Costa. Per questo, il 23 ottobre 2019, i due legali hanno presentato istanza di ricusazione evidenziando, come ci spiega l’avvocato Daniele Fabrizi, che «il giudice sembra avere un interesse personale in questo processo poiché, tramite l’associazione “Rete Dafne” di cui è fondatore e attuale presidente onorario, risulta fortemente legato al comune di Firenze che è una delle parti in causa e che appunto ha creato “Rete Dafne” Firenze e la sostiene anche mettendogli a disposizione i locali in cui operare. In altre parole, il fatto che l’associazione di cui il giudice è fondatore e presidente onorario sia in qualche modo finanziata da una delle parti del processo espone il giudice a un forte sospetto di parzialità; è un po’ come se, a decidere di una lite tra due società, fosse l’amministratore delegato di una terza società collegata all’una o all’altra delle parti in causa». Il Procuratore Generale di Firenze, il 20 novembre 2019, ha espresso parere favorevole alla dichiarazione di ricusazione. Il dottor Bouchard, invece, ha considerato inesistenti i presupposti per una sua astensione in quanto ‘ insussistenti un interesse nel procedimento e ragioni di convenienza tali da determinare un’incompatibilità tra il suo ruolo di giudice penale e l’impegno nella materia delle vittime di reato’. Il giudice, infatti, era stato designato dal presidente del Tribunale di Firenze come referente nei rapporti con il ministero della Giustizia in materia di “vittime di reato”. Il 16 dicembre 2019, la Corte di Appello di Firenze – presidente Margherita Cassano, consigliere estensore Daniela Lococo – ha rigettato l’istanza di ricusazione. Tra i motivi addotti il fatto che l’attuale posizione di Bouchard non implica, alla luce del contenuto della costituzione di parte civile del comune di Firenze, la configurabilità di un interesse nel procedimento. La Corte inoltre ha escluso un inserimento organico del magistrato nell’associazione, pur riconoscendone la funzione istituzionale. La difesa di Costa, tra il diverso materiale allegato alla richiesta di ricusazione, aveva prodotto una intervista al dottor Bouchard mandata in onda dal Tg3 Toscana, in cui il magistrato, in occasione del convegno ‘ Due anni di Rete a Firenze’, rendeva dichiarazioni sulle prospettive di espansione della Rete stessa. Tuttavia la Corte di Appello, nel rigettare l’istanza, scrive: "attesa la peculiarità della fattispecie, fondata su questione interpretativa complessa, il Collegio non ritiene opportuno far seguire la condanna del ricusante al versamento di una somma alla cassa delle ammende". Una anomalia forse che così commenta l’avvocato Fabrizi: «Abbiamo dimostrato che il dott. Bouchard è stato il fondatore e il presidente dell’associazione “Rete Dafne Italia” e che, ancora oggi, ne è il volto e la voce, considerato che continua ad esprimersi pubblicamente a nome della stessa. Lo stesso giudice ha prodotto alla Corte d’Appello un verbale assembleare di “Rete Dafne” da cui risulta la deliberazione con cui è stato nominato presidente onorario con poteri di rappresentanza, in particolare al tavolo interistituzionale. Abbiamo sollevato quindi la questione: come si fa a dire che non vi sia un rapporto organico tra l’associazione e il giudice che la rappresenta?». Sta di fatto che la difesa di Costa è ricorsa in Cassazione contro questa decisione; la Procura Generale non poteva farlo ma continuerà ad essere parte del procedimento. L’avvocato Fabrizi si aspetta che «la Corte di Cassazione dica con chiarezza che il giudice appare portatore di un interesse, quantomeno di tipo morale, all’esito del procedimento e che, pertanto, non avrebbe dovuto far parte del collegio giudicante; una decisione che contribuirebbe a rafforzare la fiducia dei cittadini nella magistratura e nella giustizia più in generale. Per citare la più autorevole Dottrina: “affinché lo ius dicere assolva il suo compito di fondamentale elemento di coesione sociale, infatti, non è soltanto necessario che il giudice sia imparziale ma anche che tale appaia”.

Anticipazione da “Oggi” il 18 giugno 2020. «È un bel risultato e ne sono contenta ma finché non vedrò la fine di questo calvario non avrò pace. Dopo quello che ho subito mi trovo indagata. È un’altra violenza dopo una violenza». Valentina Pitzalis commenta, in esclusiva con OGGI, la decisione della Procura di Cagliari, che ha chiesto l’archiviazione per le accuse che dal 2017 la perseguitano. Valentina è vittima di tentato femminicidio. Nel 2011 suo marito, Manuel Piredda, l’ha cosparsa di benzina e le ha dato fuoco sfigurandola e rendendola invalida al 100%. Mentre cercava di ucciderla, è morto lui. Così da anni, nonostante già due volte il Tribunale abbia disposto l’archiviazione di ogni imputazione, la Pitzalis è perseguitata dalla famiglia del suo ex che la accusa di omicidio volontario, di incendio doloso e di istigazione al suicidio. Dopo una trentina di interventi chirurgici, dice Valentina, «esco poco di casa e sempre accompagnata per via delle minacce e delle mie condizioni fisiche. Ogni volta che parlo vengo bersagliata da insulti e minacce, ma per fortuna ho anche tante persone che mi vogliono bene e mi stanno vicino. Il mio impegno contro la violenza mi dà molta forza: vado nelle scuole a raccontare la mia storia, a spiegare ai ragazzi com’è fatto l’amore vero, come non scambiare mai per passione il possesso e anche come riconoscere un rapporto malato». E a proposito dell’amore dichiara: «Ci credo ancora. Ho l’esempio dei miei genitori sotto gli occhi e anch’io, come tutti, spero di incontrarlo».

Dagoreport il 18 giugno 2020. C’è la notizia (assai dubbia, in generale), che i tribunali non darebbero voce alle vittime di stupro; la difesa di Deborah Sciacquatori che ha ucciso il padre, “un uomo violento che da anni terrorizzava la madre e la nonna”; il “nuovo femminismo africano si diffonde grazie ai social network”… ma c’è un articolo che manca tra quelli della “27ma ora”, il blog femminista del “Corriere della Sera”. Ma come, le paladine del neofemminismo politically e “lingustically” correct,  quelle che in via Solferino hanno cambiato la lingua italiana (niente articoli determinativi davanti alle donne, niente magistrato ma magistrata), le organizzatrici de “Il tempo delle donne”, le attiviste Lgbt, quelle che scovano che Trump “vorrebbe” discriminare i trans negli ospedali, quelle che vedono differenze di genere dovunque, quelle che vogliono abbattere il soffitto di cristallo perché le donne manager guadagnano meno, quelle prescrivevano di scrivere “Mondiale femminile di calcio” e non “Mondiale di calcio femminile” perché sarebbe discriminatorio…Sì, loro, quelle che hanno pubblicato il libro “Questo non è amore, venti storie di violenza domestica sulle donne”, che il 14 gennaio 2016 si lamentavano in una articolo di Cristina Obber che non si parla della violenza sui e dei minori, che il 22 novembre 2013 attaccavano gli uomini che pagano le minorenni con Giorgia Serughetti e una inchiesta di Sara Gandolfi ecc. ecc. ecc…. Loro, le paladine della “27ma ora” capitanate dalla vicedirettrice Stefanelli, loro non hanno proprio nulla da dire, nemmeno una riga sulla statua imbrattata del “collega” Montanelli? Nemmeno una riga sullo “stupratore” di dodicenni in Africa? Nulla sul loro illustre collega e la sua sposa bambina che gli portava la cesta dei panni puliti ogni settimana? Ma come? Da che parte stanno? Si arrestano nella crociata solo perché è coinvolto “uno di loro”? Si sono messe la museruola o sono state zittite? Oppure, come sempre, c’è qualcuno che si può attaccare e qualcun altro che, invece… va lasciato stare? (… adesso ci spiegheranno, arrampicandosi sui vetri che sì, ma, la storia, però, un caso particolare bla bla bla…).

"Colpa delle donne che non mollano il marito al primo ceffone". Bufera per le parole di Franca Leosini. L'ultima puntata di Storie Maledette ha scatenato una brutta polemica per le parole rivolte dalla conduttrice a Sonia Bracciale, condannata a 21 anni di reclusione come mandante dell’omicidio dell’ex marito violento. Novella Toloni, Martedì 16/06/2020 su Il Giornale. L'ultima puntata di Storie Maledette ha lasciato non pochi strascichi. A far letteralmente infuriare le associazioni contro le violenze sulle donne è stata l'insospettabile Franca Leosini. La popolare conduttrice di Storie Maledette, volto apprezzato e amato dal pubblico, è finita al centro di una polemica per alcune affermazioni fatte durante l'ultima puntata della sua trasmissione. Durante l'intervista con Sonia Bracciale, condannata a 21 anni di carcere come mandante dell’omicidio del marito violento, la Leosini si sarebbe fatta sfuggire una pesante affermazione: "La responsabilità ce l’ha anche lei come tutte le donne che non mollano il marito al primo schiaffone". Parole che hanno scatenato una durissima reazione. A puntare il dito contro Franca Leosini è stata Antonella Veltri, presidente dell’associazione D.i.Re - Donne in rete contro la violenza che - attraverso un comunicato stampa - ha ammonito la giornalista, parlando di un dialogo pieno di insinuazioni, colpevolizzazioni e giudizi moralistici. Secondo Antonella Veltri, Franca Leosini con le sue parole avrebbe cercato di far sentire in colpa Sonia Bracciale che per anni ha subito le violenze fisiche e psicologiche del compagno: "Si chiama vittimizzazione secondaria, succede ancora continuamente nelle aule dei tribunali, dove le donne che denunciano la violenza non sono credute. Ieri questo trattamento è stato imposto a Sonia Bracciale da Franca Leosini nel suo programma Storie maledette su Rai Tre". Le parole pronunciate da Franca Leosini - che durante l'intervista andata in onda su Rai Tre si è lascia scappare anche un sarcastico: "Ma lei una padellata in testa a suo marito non gliel'ha mai data?'"- hanno toccato profondamente i vertici dell'associazione che nella nota, ci sono andati giù pesanti dando a Franca Leosini dell'incompetente: "Al di là dell’incompetenza con cui una giornalista si permette di parlare a una donna che ha subito violenza senza avere una formazione e gli strumenti di base per affrontare un discorso tanto delicato, quanto complesso ciò che emerge prepotente e insopportabile è l’eterno giudizio verso le donne che non se ne sono andate per tempo dalla figura violenta. Neppure quando vengono ammazzate, si smette di giudicarle".

Andrea Galli per il “Corriere della Sera” il 16 giugno 2020. Fuori verbale. Il Corriere ha parlato con l'imprenditrice di 56 anni vittima del giornalista Mediaset ed ex assessore comunale di centrodestra Paolo Massari, 54 anni. L'ha fatto mentre la donna andava prima nell'ospedale che l'ha curata dopo i quaranta minuti di pestaggi e di stupro sabato sera, per incontrare la psicologa, e poi negli uffici della questura che indaga sulle violenze nei cinquanta metri quadrati di seminterrato in Porta Venezia, abitazione di Massari, separato e due figli (la famiglia era al mare), dalla notte di domenica nel carcere di San Vittore, controllato a vista nel timore di gesti estremi. Massari, che oggi sarà interrogato, si è da subito professato, con decisione, innocente. Questo è il racconto dell'imprenditrice, la quale conferma in ogni singolo dettaglio il resoconto rilasciato agli agenti che l'hanno soccorsa mentre correva completamente nuda in strada, invocando aiuto. Partiamo proprio da qui. «Ho sentito e mi hanno riferito strane voci che stanno circolando negli ambienti mediatici e non soltanto in quelli.  Voci secondo le quali mi starei inventando tutto, poiché il rapporto sarebbe stato consenziente, starei esagerando in relazione a chissà quale perfida macchinazione... Ma scusate un po', il tutto a quale vantaggio? Quale? Io tremo all'idea che possa uscire il mio nome, che i miei genitori vengano a saperlo, che la mia famiglia...Certo, ero così consenziente che avanzavo senza vestiti alle dieci di sera, non a notte fonda, cioè senza nessuno in giro, e la cosa neanche mi interessava... Ero terrorizzata, volevo soltanto scappare... C'erano passanti, automobilisti, e io me ne fregavo, di essere nuda, capisce? Proprio non me ne vergognavo, non ci badavo affatto... Dovevo andarmene il più lontano possibile da lui e da quel posto orribile. Non era un appartamento, era un bunker. Ho avuto questa sensazione, quando ci sono entrata: un bunker. Una prigione dove anche se avessi urlato non mi avrebbero sentita. Dove sarei morta ammazzata. Sì, venire uccisa: è stato questo il pensiero che avevo, non tanto e non soltanto - e mi fanno enormemente paura, queste parole che le dico - per la violenza in sé, quanto per eventuali peggiori conseguenze... I minuti trascorrevano lentamente, e nella mia testa hanno cominciato a formarsi gli incubi: "Mi fa fuori". Non era suggestione, era una presa d'atto... Ero prigioniera, non scorgevo una minima via di uscita». Le 20 di sabato, bar Basso di viale Abruzzi. Il luogo dell'incontro, il punto d'origine. «Sono imprenditrice e Paolo aveva proposto un articolo di approfondimento sul mio mondo. Come molti, come moltissimi, sto pagando un prezzo alto alla pandemia, il lavoro non c'è, si fa fatica, le prospettive sono preoccupanti... Ci conosciamo da quand'eravamo adolescenti, con Paolo, abbiamo frequentato il liceo Parini. Un tipo di conoscenza che rimane, nella vita, non ti vedi e non ti senti per anni poi capita che ci si ritrovi. Ho accettato l'invito all'aperitivo e, l'ammetto, è stato un bell'aperitivo. Un momento piacevole. Il mio primo aperitivo dopo tutti questi mesi di isolamento in casa. Non c'è stato niente, in quei momenti al bar, che mi facesse immaginare un finale del genere... Ad ambedue andava di proseguire con una cena al ristorante. Paolo ha detto che siccome il tempo non era buono, era meglio prendere la macchina lasciando lo scooter a casa sua, lì vicino. Ci siamo andati, e una volta nel seminterrato è sceso il buio. Qualcuno pensa che abbia commesso un errore, che in un certo senso me la sia andata a cercare... A me, che una donna debba difendersi come se fosse lei la colpevole, che debba giustificarsi, fa schifo». Le risultanze della polizia e le convinzioni della Procura basano l'accusa sulla testimonianza della donna, sui referti medici, sulle evidenti tracce di sangue sul divano, il luogo delle violenze, e intorno allo stesso, sul pavimento del seminterrato. «Sono una persona diretta, pratica. Ho l'età che ho, sono abituata alle frasi e alle mosse degli uomini... Sono sempre riuscita a fermarli subito...Quando un uomo supera i cinquant' anni, entra in una dimensione nuova, quasi che ogni donna gli tocchi per diritto, poveretto, il fisico gli cede, la moglie l'annoia, i figli non li sopporta, e soprattutto non riesce più a corteggiare e avere, diciamo così, riscontri... Paolo ha avuto una velocissima metamorfosi, ha iniziato a dare ordini e pretendere che li eseguissi, mi ha umiliata, voleva che fossi la sua schiava... Aveva quel ghigno, quel ghigno... Ero da un lato bloccata, paralizzata, e dall'altro ho deciso di gestire la situazione, di cercare di controllarla per quanto potessi, avevo quel pensiero fisso, sempre lo stesso: "Mi ammazza". All'improvviso, forse appagato, si è fermato e ha acceso una sigaretta. La saracinesca del box, adiacente il seminterrato, aveva un pertugio alla base, non so neanche come sia riuscita a passarci, ma ci sono riuscita, ho percorso un vialetto, sono sbucata in strada... Lui era alle mie spalle, sullo sfondo. Calmo, rilassato. Ripeteva: "Rientra, non far la matta". Non mi stupirei se ci fossero state altre donne. Che non hanno denunciato».

Dal “Corriere della Sera” il 16 giugno 2020. L'interrogatorio di garanzia è in programma per oggi. Il 54enne Paolo Massari, dalla notte tra sabato e domenica detenuto nel carcere di San Vittore, avrà la possibilità di difendersi e fornire la sua versione dei fatti. Già nei momenti dell'arresto, avvenuto nella sua abitazione, un seminterrato in via Nino Bixio, nella zona di Porta Venezia, l'ex assessore all'Ambiente del Comune di Milano aveva professato la propria innocenza, parlando di un rapporto consenziente con la donna 56enne che invece sostiene di essere stata picchiata e violentata, e aveva ribadito che l'imprenditrice aveva deciso di sua volontà di seguirlo all'interno di quell'appartamento. L'incontro era cominciato alle 20 nel bar Basso di viale Abruzzi, ed era proseguito nei locali dove Massari vive. I poliziotti e i magistrati sono convinti della colpevolezza del giornalista in considerazione sia del racconto circostanziato e preciso della donna, sia dei referti medici dell'ospedale dove l'imprenditrice è stata trasportata, referti che evidenziano la presenza di ferite in più parti del corpo. Nelle ultime ore, sui social, amici di Massari hanno pubblicamente preso posizione dicendosi convinti che la verità emergerà in tutti i suoi contorni. Dieci anni fa, il 54enne era finito nei guai in seguito alla denuncia di una donna che nel corso di una cena organizzata dal consolato norvegese aveva subìto, a suo dire, molestie da parte di Massari, il quale, nel corso dell'iter giudiziario, era uscito con la sua posizione notevolmente alleggerita. Da allora, il giornalista andava ripetendo d'esser stato lui la vittima, e che quei fatti gli hanno rovinato l'esistenza. Massari, che ha due figli, è separato dalla moglie.

Monica Serra per “la Stampa” l'11 luglio 2020. Tutte hanno raccontato la stessa terribile storia. Alcune violenze sono vecchie, risalgono a più di dieci anni fa, ma sempre fresche nella memoria di chi le ha subite e non ha avuto il coraggio di denunciare. Di sopportare il peso di un processo. Di accusare un «uomo importante», un «noto giornalista», ex assessore del Comune di Milano, che si muoveva con facilità nella Milano bene. Dopo che le prime due si erano fatte avanti nella trasmissione tv «Chi l' ha visto», dieci donne sono state già individuate e sette interrogate dai magistrati. Tutte hanno ripetuto di essere state vittime di Paolo Massari, il giornalista Mediaset ora sospeso, finito nel carcere di San Vittore con l' accusa di violenza sessuale. Abusi brutali e indicibili, almeno in due casi anche più «pesanti» per gli investigatori di quelli subiti dalla ex compagna del liceo Parini che, sabato 13 giugno, è stata costretta a fuggire in strada nuda per salvarsi dalla sua furia. Un «seduttore seriale» per il procuratore aggiunto Letizia Mannella e il pm Alessia Menegazzo, certe che le vittime già individuate non siano tutte. E che altre donne si faranno avanti. Più di una ha già contattato l' imprenditrice di 56 anni che un mese fa Massari avrebbe picchiato e stuprato nel suo appartamento al piano interrato di un palazzo in zona Porta Venezia. Lo ha dichiarato lei, nel corso dell' incidente probatorio voluto ieri pomeriggio dai magistrati per blindare la sua testimonianza. Anche davanti alle domande del difensore del giornalista, Luigi Isolabella, la 56enne ha ripetuto il suo racconto. Non si è contraddetta, non ha tentennato. Ha detto che le donne che le hanno scritto per portarle la loro solidarietà, per raccontarle la loro storia, «non si conoscono, vengono da mondi molto diversi tra loro». Colleghe di lavoro, vecchie conoscenze ritrovate per caso, qualcuna conosciuta da poco. Il «modus operandi» di Massari, secondo gli investigatori della Squadra Mobile diretta da Marco Calì, è sempre stato lo stesso: adescava le sue vittime per un aperitivo o una cena, qualche volta con messaggi insistenti, le invitava a casa con una scusa, le aggrediva con ferocia. Una sequenza uguale negli anni. Anche nel linguaggio: «Io sono il padrone, tu la mia schiava». Tutte le donne hanno descritto un Massari che si trasforma, che diventa «cattivo», «spietato». Qualcuna di loro è riuscita a fuggire in tempo, altre sono state costrette a subire. Nessuna delle donne che si sono già fatte avanti potrà formalizzare una denuncia contro il giornalista: gli episodi venuti a galla finora sono tutti datati nel tempo. E, nei casi di violenza sessuale, le indagini possono essere avviate solo se la vittima presenta una querela entro sei mesi dal giorno in cui ha subito lo stupro. Ma le loro parole, le lacrime, la paura che hanno rivissuto davanti agli investigatori rafforzano le accuse contro Massari che, già nel 2010, fu costretto ad abbandonare la poltrona da assessore nella giunta di Letizia Moratti, travolto dallo scandalo. Una dipendente comunale e una diplomatica norvegese lo denunciarono, infatti, di averle molestate sessualmente. Accuse che Massari ha sempre respinto, allora come ora, ma che lo costrinsero ad abbandonare la carriera politica. Per questo il gip ritiene «attuale il pericolo di reiterazione del reato». E Massari resta chiuso in una cella del carcere di San Vittore.

Da ansa.it il 27 ottobre 2020. Paolo Massari, l'ex assessore del Comune di Milano all'epoca della giunta Moratti per aver stuprato, lo scorso 13 giugno, un'amica imprenditrice e in passato sua compagna di scuola, ha patteggiato 2 anni di carcere, pena sospesa, e altrettanti di trattamento terapeutico come prevede il cosiddetto "Codice Rosso". Ad accogliere la richiesta di patteggiamento con contestuale risarcimento di 30 mila euro alla vittima è stato il gup Tiziana Gueli. Massari, che fin da subito ha accettato di sottoporsi a un percorso terapeutico, ha ammesso i fatti e ha chiesto scusa alla donna che aveva aggredito nel garage del palazzo dove vive. Il giornalista di Mediaset, ora sospeso in via cautelare dall'azienda e dall'Albo, a suo tempo arrestato, è in libertà. La pena a due anni, patteggiata oggi, da Massari a cui si aggiungono altri due anni di trattamento "è adeguata al fatto concreto - ha spiegato il procuratore aggiunto Maria Letizia Mannella, responsabile del dipartimento fasce deboli - e anche al comportamento processuale dell'imputato che è stato corretto". Immediatamente dopo l'aggressione, Massari ha intrapreso un percorso terapeutico mirato, con colloqui cadenzati con un psicologo, che ha finalità di sostegno e recupero come previsto dal pacchetto contro la violenza sulle donne dell'anno scorso. E inoltre ha ammesso gli addebiti e ha chiesto scusa. Stando alle indagini il 13 giugno scorso, sabato sera, Massari si era dato appuntamento con l'amica. Lei aveva bisogno di aiuto e consigli per via del delicato momento professionale che stava attraversando a causa dell'epidemia da Coronavirus: era preoccupata di non riprendersi più. I due dopo un aperitivo in locale della movida vicino a Porta Venezia decisero di andare a cena. A quel punto, secondo la ricostruzione di inquirenti e investigatori, lui propose a lei di lasciare lo scooter nel suo box per poi recarsi al ristorante. Una volta arrivati nel garage, dal quale si accede direttamente al loft del giornalista, lui avrebbe cambiato registro trasformando la serata in un incubo. Dopo l' aggressione e la violenza l'imprenditrice, in un momento di calo di tensione, riuscì a scappare e in mezzo alla strada disperata e praticamente senza abiti, attorno alle 22, venne soccorsa dalle Volanti. Subito la denuncia e l'arresto del giornalista. Inoltre, altre donne, almeno sette, nei mesi scorsi hanno raccontato al pm milanese Alessia Menegazzo, che ha svolto approfondimenti di indagine, di essere state vittime delle violenze da parte di Massari, ma nessuna ha sporto formalmente denuncia. Come non avevano sporto denuncia la funzionaria del Consolato Norvegese e una impiegata che nel 2010 inviarono una lettera per raccontare quanto avevano subito all'allora sindaco Letizia Moratti, la quale rimosse l'ex assessore dal suo incarico sebbene lui sostenesse di non essere "un molestatore sessuale".

Frank Cimini per giustiziami.it il 28 ottobre 2020. È una sentenza di cui dovremo ricordarci non appena per un fatto analogo un immigrato extracomunitario sarà condannato a 8 anni di carcere. Succede al Tribunale di Milano. Il  giornalista ed ex assessore di Milano Paolo Massari ha patteggiato due anni per la violenza sessuale nei confronti di un’amica, perpetrata il 14 giugno scorso. La donna, una 56enne sua ex compagna di scuola, era stata stuprata in casa dopo una cena con lui, poi era uscita nuda in strada pur di allontanarsi dal suo aguzzino; quindi era stata soccorsa e aveva denunciato. L’ex assessore era stato portato in carcere. Da quanto si è saputo, ha ammesso i fatti e ha chiesto scusa alla vittima, risarcendola di una cifra attorno ai 50mila euro. In base alla norma prevista dal “codice rosso” per i profili per cui sulla “pericolosità” prevale la “fragilità” psicologica del soggetto, è prevista la pena sospesa e il trattamento terapeutico di due anni. Qualora l’imputato non si presenti anche ad una sola seduta il percorso si interrompe e si torna alla pena afflittiva. Già in passato Massari si era autosospeso dalla giunta Moratti per una vicenda relativa a molestie sessuali. “La pena è adeguata al fatto concreto – spiega il procuratore aggiunto Maria Letizia Mannella – il comportamento processuale dell’imputat è stato corretto. L’imputato ha intrapreso una terapia”. Chi scrive queste poche e povere righe è contrario all’esistenza stessa del carcere ma ha l’impressione che la sentenza del caso Massari sia un unicum o quasi. La pena appare anzi è assolutamente ridicola rispetto a quanto avviene regolarmente nei palazzi di giustizia. Massari, ricco, belloccio, famoso e colto come suggerisce un collega della cronaca giudiziaria ha beneficiato di una sorta di perdono di fatto. Aveva anche una decina di precedenti prescritti fuori dalle indagini ma va detto anche che a difenderlo c’era e c’è un avvocato bravissimo come Luigi Isolabella erede di un principe del foro milanese. E fatto non secondario con i giornali che non infieriscono come fanno di solito con i  comuni mortali e i poveri cristi. Questa vicenda appare sicuramente illuminante perché dimostra che la legge non è uguale per tutti. Si, così sta scritto nei tribunali ma non è vero. anzi. Una volta si parlava di giustizia di classe ed è il caso di recuperare quel termine perché assolutamente rispondente alla realtà.

Anticipazione da “Oggi” il 4 novembre 2020. «“Siediti”, mi ha ordinato con voce brusca. “Fai come ti dico o guarda che si mette molto, molto male”, ripeteva, guardandomi come se fosse in trance. Questo voleva: vedermi sottomessa, dominata». A pochi giorni dalla notizia di patteggiamento di Paolo Massari, il giornalista di Mediaset che il 13 giugno scorso ha usato violenza sessuale su una ex compagna di liceo attirata a casa sua con una scusa, la vittima si confida con OGGI in un’intervista esclusiva. «Le ho provate tutte. Ho cercato di spingerlo via, di supplicarlo, di fingermi gentile. Ma più mi opponevo, più mi schiaffeggiava e mi spingeva dentro», dice la cinquantenne milanese, rivelando i dettagli di una serata da incubo: ordini di tipo sessuale, intimidazioni, ceffoni se non obbediva. «Non posso dire che Massari fosse un amico, ma ci conoscevamo da 40 anni. Mi fidavo di lui. E subire violenza da una persona di cui ti fidi fa ancora più male. Perché non te l’aspetti». A OGGI, la donna spiega anche il perché ha acconsentito al patteggiamento: «Paolo è chiaramente malato e ha bisogno di cure. A cosa serve che stia anni in galera se non segue una terapia? Ha due figli ancora piccoli, che hanno il diritto di ritrovare loro padre. E poi, nonostante tutto, io non riesco a cancellare dalla mente il ricordo di quel ragazzino sorridente e gentile che veniva a scuola con me». Un ragazzino che non c’è più: «Quella notte mi sono trovata davanti un uomo smunto, pallido, con i denti sciupati. Il perché? Forse l’uscita dalla politica, il divorzio, un grave incidente stradale avuto anni fa e che credo che gli abbia lasciato problemi di vista… Io credo che l’immagine perfetta di sé che Paolo tanto ha coltivato gli si sia sbriciolata davanti. Pezzo a pezzo».

Maria Novella De Luca per ''la Repubblica'' il 7 giugno 2020. «Mi gridava: "muori, muori" il mio ex marito, mentre mi incendiava con la benzina. Ero impazzita dal dolore, il fuoco mi mangiava la carne, ma dentro di me c' era una voce che urlava: non muoio, no, vado dai miei figli. Correvo con le fiamme addosso, c' era una pozzanghera, ricordo di aver messo la faccia in quell' acqua sporca cercando di spegnere le ustioni che mi laceravano, correvo con la volontà disperata di restare viva». Maria Antonietta Rositani parla con voce affaticata dal suo letto nel reparto di chirurgia generale agli Ospedali Riuniti di Reggio Calabria. Infermiera, quarantadue anni, due figli, Anny e William, un matrimonio lungo vent' anni fatto di sevizie quotidiane, l' ex marito, Ciro Russo, che evade dai domiciliari, la bracca, le dà fuoco, Antonietta è una vittima "viva" di femminicidio. Sopravvissuta a una giustizia sorda che aveva "dimenticato" le sue denunce, sopravvissuta a oltre quattrocento giorni di ospedale e a cento interventi chirurgici, Antonietta oggi dice di essere diventata un fantasma per lo stato italiano.

Un fantasma, perché?

«Se fossi morta i miei figli di 19 e 10 anni sarebbero "orfani speciali" e avrebbero diritto almeno a un fondo per studiare. Sono sopravvissuta, per fortuna, ma per noi, morte a metà, questa è la beffa, non esistono né aiuti né sostegni. Sarò disabile a vita, non potrò più lavorare. Ma se oggi oltre il 50 per cento del mio corpo è coperto di ustioni è perché nessuno ha fermato il mio ex marito".

Chi poteva fermarlo?

«Le forze dell' ordine. Ciro Russo era agli arresti domiciliari a casa dei suoi genitori a Ercolano. Il 12 marzo del 2019 è evaso. Ha preso la macchina e si è messo in viaggio per Reggio Calabria. Suo padre ha denunciato l' evasione. Ma i carabinieri di Ercolano non hanno mai avvertito i carabinieri di Reggio. E nessuno ha avvertito me. Perché? Mi sarei salvata».

Racconti.

«Avevo accompagnato a scuola i ragazzi. La sua auto ha speronato la mia. Sono scesa, cercando di fuggire, mi ha raggiunta, mi ha cosparsa di benzina e mi ha dato fuoco, gridandomi: muori. Poi è scappato. Il giorno dopo era nel centro di Reggio a mangiare una pizza, spavaldo».

Un passo indietro Antonietta. Com' è cominciata?

«Per anni, come molte donne che scambiano la violenza per amore, ho sopportato ogni tipo di sopruso. Ci eravamo sposati da giovanissimi, ma lui era un uomo arrabbiato con il mondo. Tossicodipendente, ho scoperto poi. Mi pedinava, mi sequestrava il telefono, venivo picchiata, insultata, mi sbatteva la testa contro il muro, poi sputi, pugni».

Un calvario. Un giorno però lei reagisce.

«Quando ha alzato le mani contro Anny e ho visto la sua faccia piena di sangue ho trovato la forza di denunciare. Era il 19 dicembre del 2017. Tutto inutile. Ricordo le parole del carabiniere: "Signora, cosa vuole che sia uno schiaffo?"».

E la denuncia?

«Sepolta nel cassetto di quella caserma, come scoprì in seguito mio padre. Non mi avevano creduta. Intanto lui diventava un carnefice sempre più spietato».

Fino al 4 gennaio del 2018.

«La polizia mi trovò accasciata a terra. Non so più quante volte aveva sbattuto la mia testa contro il muro. Finalmente l' hanno portato in carcere. Ma nessuno mi ha avvertito, poi, del trasferimento ai domiciliari. Ci ha chiamato lui. Iniziando di nuovo a perseguitarci».

Quanto è dura la battaglia per tornare vivere?

«Sono in ospedale dal 12 marzo del 2019. Ho fatto trapianti, innesti di pelle. Il mio corpo è bruciato ovunque. A volte il dolore è insopportabile, ma i medici sono meravigliosi. Sto imparando di nuovo a camminare. Voglio giustizia. Tra poche settimane ci sarà la sentenza contro il mio ex marito. E lo Stato che ha armato la sua mano lasciandolo evadere, adesso deve aiutare la mia famiglia».

Il fidanzato di Gessica Notaro è stato condannato in appello a 15 anni e 5 mesi, quello di Lucia Annibali a 20 anni. Mentre la sfregiatrice di William Pezzullo, dopo una condanna ridotta a 8 anni, si è fatta pochi giorni di carcere poi subito ai domiciliari. Simona Pletto per “Libero quotidiano” l'1 giugno 2020. «Non c' è giustizia per chi come me, come Jessica Notaro, Lucia Annibali o Willy Pezzullo, viene sfigurato con l' acido da un ex. Sette anni e dieci mesi sono una condanna davvero lieve. Io sono amareggiato, deluso, mi sento sfregiato per la seconda volta. Se fossi stato il figlio di un magistrato, a lei avrebbero dato almeno trent' anni». Scuote la testa Giuseppe Morgante, mentre commenta la sentenza letta alcuni giorni fa nel Tribunale di Busto Arsizio (Varese). Imputata a processo in rito abbreviato e grande assente in aula era lei, Sara Del Mastro, la 38enne con cui il giovane aveva avuto una breve storia e che un anno fa lo aggredì e lo sfregiò con l' acido solforico.

La donna è stata condannata a 7 anni e 10 mesi di carcere. Sentenza che è stata più clemente rispetto all' accusa che aveva chiesto una condanna di 10 anni.

«Ha scritto e depositato una lettera di scuse che io non voglio assolutamente leggere», spiega il giovane sfregiato, «considero quella donna un mostro che mi ha rovinato la vita», aggiunge. E continua: «La mia pelle tra qualche anno magari guarirà, non sarò più costretto a medicarla ogni due ore. Ma il mio occhio forse non si riprenderà mai. Di certo, io non tornerò mai più come prima, né dentro né fuori. Lei, invece, magari farà appello e tra un paio di anni sarà libera per come va la giustizia in Italia».

Morgante, che il prossimo 7 giugno compirà 31 anni, porta ancora sul corpo (occhio, volto, torace e una mano) le bruciature dell' acido. Si è già dovuto sottoporre a una decina di interventi, e altrettanti ne dovrà subire in futuro. La Del Mastro, dopo averlo chiamato a un appuntamento con la scusa di chiarimenti, aveva aggredito il giovane con cui aveva avuto una breve relazione e che si era conclusa con pedinamenti e telefonate ossessive messe in atto per settimane. Si parla di centinaia di messaggi, gomme dell' auto forate, minacce. L' ex l' aveva denunciata per stalking due settimane prima dell' aggressione, ma questo non aveva impedito alla donna di incontrarlo sotto casa e di rovesciargli addosso un bicchiere colmo di acido. Si era poi costituita in caserma a Legnano ed era stata arrestata la sera stessa della violenza.

 «Quando lunedì ho sentito la sentenza», spiega Giuseppe, «mi sono sentito così deluso, depresso. L' ho presa malissimo. Mi ha dato fastidio quella lettera, che è stata un chiaro tentativo di impietosire il giudice. Sì perché era datata 9 gennaio e se proprio ci teneva a chiedermi scusa, avrebbe potuto spedirla al mio indirizzo di casa visto che la conosce bene, con tutti i pedinamenti che mi ha fatto prima di sfregiarmi...». «Ho sbagliato, non mi crederai, ma ogni giorno mi sento uno schifo perché ho rovinato per sempre la vita di un ragazzo di trent' anni anni», ha scritto nella lettera l' imputata. Il documento è stato depositato in aula, poco prima che il gup emettesse la sentenza. «Il gesto che ho fatto è imperdonabile, ma è stato a seguito di alcune tue promesse che avevi fatto per tenermi tranquilla», si legge nella missiva. «Non credo al suo pentimento», precisa la vittima che, nonostante le ferite aperte, prova a uscire anche da se stesso. «Il giorno dopo», aggiunge, «ho saputo della sentenza minima inflitta all' autista ubriaco che ha ucciso i due fratellini. La vita di due angioletti per la giustizia valeva nove anni appena. Mi sono detto: io almeno sono vivo, loro invece no. Ma l' interrogativo resta: è giustizia questa?».

L' avvocato di parte civile Domenico Musicco puntava a 12 anni di reclusione con l' aggravante della premeditazione, che non è stata riconosciuta. «È una cosa che trovo inconcepibile», ha dichiarato Musicco. «Del Mastro ha confessato di aver comperato l' acido il giorno prima, ditemi chi va in giro in auto con l' acido sotto il sedile», ha commentato il difensore del ragazzo, «ci aspettavamo il massimo della pena previsto per questo reato».

E ancora: «Nel corso del processo i periti hanno certificato che la donna era capace di intendere e di volere al momento dell' aggressione, una circostanza che ci soddisfa. Lei aveva anche chiesto di patteggiare (cinque anni), ma la richiesta le è stata negata dal giudice», ricorda il legale che si prepara ad affrontare anche la causa civile. Sara Del Mastro, che si trova chiusa in carcere a San Vittore, è stata condannata per lesioni gravissime e stalking. «Io mi aspettavo una pena di almeno quindici anni», confessa Morgante, «non solo per me, ma per tutte le persone che sono state e che in futuro saranno fregiate con l' acido. Questo è un reato gravissimo, un terribile trauma che ti rovina per sempre la vita. A te e a tutti i familiari che ti stanno vicino. Sono convinto che servirebbero condanne esemplari, per far sentire che lo Stato c' è, che ci protegge da certi crimini. Come accade in Germania, in Belgio. Invece tra poco la vedrò uscire dal carcere, con tutte le paure che questo comporterà non solo per me, ma per i miei familiari. Una donna che fa una cosa come questa, è socialmente pericolosa e nessuno mi garantisce che abbia domato la sua violenza».

Sfregiò l'ex, la compagna di carcere: “Fece prove con l'acido”. Le Iene News il 09 giugno 2020. Sara Del Mastro è stata condannata in primo grado a 7 anni e 10 mesi per aver sfregiato con l’acido l’ex. Un anno fa abbiamo seguito il dramma di Giuseppe Morgante praticamente in diretta e continuiamo a farlo. Ora una compagna di cella della donna fa a Veronica Ruggeri delle rivelazioni che se confermate sarebbero davvero preoccupanti: “Ha un innamoramento epistolare con un detenuto di cui è gelosa. Lei è diabolica”. “Mi aspettavo una pena esemplare per far capire che questi atti non vanno più ripetuti” dice Giuseppe Morgante, sfigurato un anno fa con l’acido gettato dall’ex Sara Del Mastro. La donna di Legnano, in provincia di Milano, è stata condannata in primo grado a 7 anni e 10 mesi di reclusione. “Una cosa del genere non l’avrei fatta neanche a un cane. Significa che volevi sfigurare una persona”, commenta Giuseppe che oggi chiede solo giustizia. Ma per i giudici non c’è stata premeditazione e per questo hanno dato una pena ridotta. “Questo è un omicidio di identità che non ti porta a non avere più una tua vita sociale. Praticamente sei morto”, dice Giuseppe. “Nessuno va in giro con un bicchiere d’acido in macchina che lei stessa dice di essersi procurata il giorno prima”, sostiene Domenico Musicco, l’avvocato che difende Giuseppe. Oltre a pedinamenti, chiamate e messaggi, Del Mastro sarebbe arrivata a creare profili social falsi. Con nomi davvero inquietanti come Peppemorto91, Peppemorto79 da cui partivano messaggi con minacce: “Devi morire viscido”, “Non sei ancora morto? Peccato”, “Boom. E lo farai presto”. Di segnali preoccupanti ce ne sono stati tanti ma nessuno si sarebbe mosso per proteggerlo. Neanche quando la sera dell’aggressione ha chiamato i carabinieri senza che nessuno gli rispondesse. “Lei vuole concludere qualcosa che ha iniziato”, dice Giuseppe che vive nella paura, nonostante Del Mastro si trovi in carcere. E durante il processo settimana scorsa, gli ha mandato un messaggio. “Ho sbagliato anche se non crederai. Non c’è giorno in cui non mi sento uno schifo. Il gesto che ho fatto è imperdonabile, ma è stato a seguito di alcune tue promesse…”, scrive Sara che sembra quasi voglia incolpare Giuseppe. “Capisci che quando esce può succedere ancora qualcosa. Una che ti scrive così, fa paura”, dice lui. E lei ne è consapevole. “Puoi dormire sonni tranquilli, quando dici che hai paura e che io possa ritornare a importunarti no. Ti auguro il meglio anche se non mi crederai”. Nella lettera dice di avere dei progetti per quando uscirà dal carcere. “Mi hanno fatto arrabbiare le scuse”, dice Giuseppe. “Sono convinto sia una cosa dettata dal suo avvocato”. Nei mesi scorsi lei ha provato a difendersi in tutti modi. Ha chiesto anche una perizia psichiatrica per non stare in carcere. Quel giorno in tribunale c’eravamo anche noi. “Hanno chiesto la consulenza psichiatrica”, ci ha detto Giuseppe. E in più sono emersi nuovi indizi per capire meglio se Sara sia stata in grado di intendere e di volere oppure no. Ma soprattutto è emersa una testimonianza clamorosa. “Ho vissuto con lei in carcere. Mi ha raccontato dello stalking, dei profili falsi su Facebook… Era premeditato perché te lo confermo”, sostiene la testimone. “Lei è andata a comprare l’acido due giorni prima dicendo che aveva otturato un lavandino. Poi è tornata a casa e ha fatto delle prove su dei petti di pollo e su della carne. È stato un gesto calcolato, lei era irritata perché probabilmente Giuseppe aveva un’altra. Lei quando uscirà potrebbe fare qualcosa. È diabolica”. Questa donna però ha chiesto di non partecipare al processo. Che lei fosse consapevole di quello che faceva emerge da un’altra registrazione fatta dallo stesso Giuseppe. “Ti ho fatto il mondo, non lo nego. Volevo che passavi un quarto del male che avevo io dentro”, le dice. Un dettaglio che ha confermato anche a noi, quando l’abbiamo incontrata la prima volta qualche tempo prima dell’aggressione.  “Nel momento in cui mi sono ritrovato solo c’eravate voi. Tutto questo si poteva evitare”, dice Giuseppe. Ora lui non può più fare nulla per cambiare la sentenza. Chi può chiedere di rifare il processo è proprio Sara. Ma c’è un altro dettaglio. “Sono fortemente preoccupata. Sara sta facendo le stesse cose che ha fatto con Giuseppe nei confronti di un ragazzo”, sostiene la compagna di cella di Sara. Si tratterebbe di un detenuto del carcere di Opera, i due si sarebbero innamorati per corrispondenza. “In carcere non si è molto ricchi, quindi si riciclano i francobolli”, racconta la donna. Secondo questo racconto, sembra che Sara per rispondere alle lettere utilizzerebbe più volte lo stesso francobollo. “Lei un paio di volte ha notato che quel francobollo era già stato usato. Così è andata su tutte le furie. Credeva avesse usato quel francobollo per un’altra donna”. Insomma, sembra che in lei sia tornato il chiodo fisso della gelosia. “Un’incazzatura spropositata per una cazzata”, dice la compagna di cella. “Questa persona è fortunata che lei si trova a San Vittore”. 

Sopravvissuta alla benzina del marito: dov'era lo Stato? Le Iene News il 09 giugno 2020. Nina Palmieri ci racconta l’orrore passato da questa donna e il suo coraggio. Il marito, nonostante le sue tante denunce cadute nel vuoto, le ha dato fuoco con la benzina dopo anni di violenze. Lei, dopo 500 giorni d’ospedale e più di 20 operazioni, riesce a sorridere. Ma ha ancora paura. “Ho visto la sua faccia, una faccia tranquillissima fiera di sé come per dire: finalmente ora te la faccio pagare. Mi ha detto: ‘muori’ e mi ha buttato la benzina, in faccia soprattutto e poi dappertutto. Sentivo il calore, il fuoco, ero una palla di fuoco”. Nina Palmieri ci racconta una storia che mette a nudo fin dove può spingersi l’odio di un essere umano, la storia di Maria Antonietta che parla, dopo più di 20 operazioni, dal letto di un ospedale e ha ancora paura del suo ex marito. Aveva 19 anni quando perse la testa per Ciro Russo, un aspirante carabiniere che conquista la fiducia anche dei parenti. Lei resta incinta dopo pochi mesi e papà Carlo la accompagna felice all’altare. Nel sogno iniziano ad affacciarsi però ombre inquietanti. “Un giorno ci bisticciammo, ero al nono mese e lui mi diede un calcio”, racconta Maria Antonietta. “Ero sconvolta, ma provai a dimenticare, ero innamoratissima”. Purtroppo è l’inizio di una vita fatta di urla, schiaffi e spintoni. La figlia Annie ricorda a Nina quei 15 anni di violenze sulla madre da parte di quell’omone di due metri e più di centro chili che minacciava tutti, anche lei. Intanto arriva anche un altro figlio, il piccolo William. Nel 2016, al 17° anno di violenze e soprusi, Maria Antonietta racconta di aver chiamato polizia e carabinieri per sette volte. Dopo l’ennesima lite violenta, Annie affronta il padre: “Basta, devi andartene”. Lui le dà uno schiaffo che le fa perdere tantissimo sangue. La madre, che aveva appena ricevuto una prognosi di dieci giorni per policontusioni, chiama la polizia davanti a Ciro. Le due donne ci dicono che l’arrivo di due agenti non le rassicura. Maria Antonietta ha paura anche per i figli e denuncia per la prima volta il marito in caserma: “Ho chiesto aiuto ma i carabinieri non sono mai venuti”. Ciro picchia più forte sentendosi impunito: la casa diventa un inferno. Annie una volta sente “Adesso io ti ammazzo”: avverte il padre Carlo che va da carabinieri. L’uomo racconta che i militari si sarebbero dimenticati in un cassetto la denuncia della donna. Arriva nella stanza lo zio Danilo: “Papà, corriamo, che Ciro sta ammazzando Maria Antonietta”. “Chiesi al maresciallo: andiamo subito?”, dice Carlo. “Mi disse: non possiamo venire noi, lei deve telefonare”. A casa il padre trova la polizia che ha arrestato Ciro per maltrattamenti in presenza del bambino. A Ciro viene dato un divieto di avvicinamento, lui però si fa vedere lo stesso. Viene condannato a tre anni ma si fa soltanto qualche mese di carcere e finisce ai domiciliari dai genitori. Inizia a chiamare a madre e figlia: vuole tornare. Il 12 marzo 2019: Ciro Russo fugge dai domiciliari a Ercolano (Napoli). Il padre se ne accorge la mattina e lo denuncia ai carabinieri temendo per Maria Antonietta maa nessuno avrebbe avvertito le forze dell’ordine a Reggio Calabria, dove Ciro è già arrivato alle 6. La telecamera automatica di un distributore lo riprende mentre riempie tre bottiglie di benzina. Chiama per 13 volte la moglie. Il suocero riesce a far arrivare comunque la notizia dell’evasione del figlio. Maria Antonietta chiama subito la polizia, passano tre minuti al telefono mentre lei è terrorizzata in auto fuori di casa. Ciro la trova e le taglia la strada e dà fuoco alla sua macchina. Maria Antonietta esce, lui le lancia benzina addosso e dà fuoco anche a lei, come vedete dalle terribili immagini del servizio. Lei si butta un po’ d’acqua in faccia da una pozzanghera. Fugge in un locale, si vede in uno specchio “viva, con il volto deformato”. E Ciro? Scappa in auto e, secondo le indagini, va poi dai familiari del suo migliore amico Davide, che sarebbe arrivato dopo un quarto d’ora e poi lo avrebbe accompagnato in un “covo”, una casa abbandonata in cui resterà latitante per quasi due giorni. La notte del 13 marzo Ciro se ne va tranquillamente in pizzeria, un cittadino lo riconosce: chiama la polizia, che lo arresta. Per Maria Antonietta intanto è iniziato un lungo calvario in ospedale di giorni, settimane, mesi, operazioni su operazioni. Per 5 volte ha rischiato la vita, ma ora può tornare a sorridere grazie ai medici di Bari e Reggio Calabria. Dopo 500 giorni è ancora sul letto di un ospedale, il sogno è quello di potere di ritornare a casa. La famiglia si è pure indebitata per alcune cure, anche perché alla figlia non spetta niente come risarcimento. Non esistono fondi appositi per aiutare queste vittime. Mentre la paura resta: e quando Ciro tornerà libero?

Elisa Messina per "corriere.it" l'8 luglio 2020. Mary Kay Letourneau, l’ex insegnante americana al centro di scandalo per la relazione proibita con un suo allievo 13enne, è morta di cancro a 58 anni. Al suo fianco c’erano i figli avuti tra il 1997 e il 1998 con Vili Fualaau, l’ex studente ”vittima” di violenza, diventato poi suo marito nel 2005, dopo che lei era uscita di prigione. Della loro vicenda parlarono per anni i media di tutto il mondo.

La prima condanna. Maria Kay Leterneau aveva 34 anni, è sposata con quattro figli e insegnava in una scuola media in un sobborgo di Seattle quando inizia la relazione con il 13enne di origine polinesiana Vili Fualaau. Rimane incinta, scoppia lo scandalo e lei viene incriminata per violenza sessuale a un minore. La prof si dichiara colpevole ma afferma che il loro è un rapporto consensuale, “un amore incontrollabile”.

Una famiglia di ultra-conservatori. Lo scandalo è amplificato dal fatto che lei viene da una famiglia di ultra conservatori cattolici e con posizioni di rilievo dentro il partito repubblicano: il padre, John G. Schmitz, è stato senatore e, nel 1972, era addirittura in corsa per la candidatura alla Casa Bianca alle primarie del partito. il fratello, Joseph E. Schmitz, è stato un alto funzionario del dipartimento della Difesa e uno dei consiglieri di politica estera del presidente Trump. Il figlio di Mary Kay e Vili nasce nel 1997 mentre lei sta aspettando la sentenza di condannata per violenza sessuale che puntualmente arriva, ma se la cava con tre mesi di carcere perché la pena le viene ridotta. Una volta uscita, però, non rispetta l’ordinanza del tribunale che le vieta di avvicinarsi al ragazzo e viene sorpresa dalla polizia in automobile con Vili. Torna in carcere e stavolta ci resta per sette anni. A pochi mesi dal suo arrivo in prigione dà alla luce una bambina.

Un libro e poi le nozze. Nel frattempo la loro vicenda passa dalle pagine di cronaca nera a quelle di rosa e fa il giro del mondo anche perché Mary Kay e Vili scrivono un libro: Un solo crimine, l’amore, pubblicato prima in Francia, poi, l’anno dopo negli Stati Uniti. L’opinione pubblica si divide tra chi li difende e chi non fa sconti all’ex insegnante. Latorneau esce di prigione nel 2004, intanto Fualaau è diventato maggiorenne ed entrambi chiedono che venga eliminato l’ordine di distanziamento tra loro. Ci vorrà qualche mese, lei viene iscritta in un “programma per il reinserimento sociale”, ma alla fine ci riescono e si sposano il 20 maggio del 2005. E a lei fu anche permesso di tornare all’insegnamento nelle scuole private. All’epoca del loro matrimonio i due concessero interviste a i media di tutto il mondo, difendendo l’autenticità della loro storia. I dettagli di quella “passione incontrollabile”, degli incontri in palestra della scuola o sul sedile dell’auto di lei, vengono raccontati in tv e sui magazine. “Devo scusarmi perché lui è il padre dei miei figli e l’uomo della mia vita? No, non lo faccio” dirà lei in un documentario del 2018.

Divorzio e pentimento. Latorneau e Fualaau divorziano nell’agosto 2019. Dopo la rottura lui continuò a difendere l’autenticità della loro storia d’amore ma dichiarò che la loro relazione all’inizio era stata “insana”. Il caso Leterneau fu il primo a ottenere un certo clamore internazionale anche per via della durata della relazione, ma nel giro di pochi anni molte vicende analoghe finirono in cronaca. Sandra Geisel fu condannata per aver avuto rapporti con un 16enne nel 2002. Tra il 2003 e il 2004 Hannah Grice, in Gran Bretagna, sposata e madre di due figli, fece sesso per due anni con un suo studente 15 enne che poi la denunciò. Nel 2005 la 24enne Debra Lafavre, in Florida, viene condannata per aver attirato due ragazzini 15enni: aveva fatto sesso con uno dei due in auto mentre l’altro era al volante. Nello stesso anno ci fu il caso di Pamela Turner, l’insegnante di ginnastica che aveva intrapreso una relazione con un 13enne finché i due non furono sorpresi a scuola.

Marco Gasperetti per il “Corriere della Sera” il 2 giugno 2020. Non era una storia d' amore proibita tra un'insegnante (improvvisata) e il suo allievo poco più che bambino. E di romantico non c' era proprio niente in quegli incontri torbidi iniziati tre anni fa e che si consumavano dopo le lezioni d' inglese in una casa nell' immediata periferia di Prato. Era solo violenza sessuale che una donna di 32 anni, operatrice sanitaria in una Rsa, sposata con un figlio, perpetrava ai danni di un tredicenne, da cui poi ha avuto un bambino. Così almeno ha stabilito il tribunale di Prato che dopo mesi di indagini della Procura ha condannato a 6 anni e mezzo quella donna il cui nome resta un segreto solo per tutelare le vittime minori di questa storia. Anche il marito della signora è stato condannato a un anno e mezzo di detenzione per essersi attribuito in un atto ufficiale la paternità del bambino pur sapendo che non era suo. È una sentenza di primo grado, si andrà in appello e poi quasi certamente in Cassazione, ma al di là di come si concluderà l' iter giudiziario resta la disperazione di una mamma (quella del ragazzino vittima delle violenze) diventata improvvisamente una nonna biologica, che sta vivendo le sofferenze interiori del figlio abusato, troppo giovane per diventare padre. Al termine della requisitoria l' accusa (pubblici ministeri Lorenzo Gestri e Lorenzo Boscagli) aveva chiesto sette anni di carcere per la donna e due per il marito. Lo «sconto» di pena è stato minimo e il tribunale, presieduto da Daniela Migliorati, non ha applicato le attenuanti condannando l' imputata per «atti sessuali e violenza sessuale per induzione su minore». Eppure l'operatrice sanitaria (rimasta per un anno agli arresti ai domiciliari e poi seguita da uno psicologo), mamma anche di un altro figlio avuto dal marito, sembrava sincera quando al pm raccontava di essersi davvero innamorata di quel ragazzino. «Ho perso la testa, ma non l' ho sfiorato sino a quando non ha compiuto quattordici anni», aveva detto. E al giudice aveva giurato che per lei quella non era una storia soltanto di sesso e che a quell' allievo a cui impartiva lezioni di inglese, figlio di amici di famiglia che frequentava la sua stessa palestra, voleva bene davvero. I magistrati inquirenti avevano però accertato un' altra verità. Secondo l' accusa, infatti, la donna avrebbe costretto il ragazzino ad avere una relazione minacciando di raccontare il loro segreto e di mostrare a tutti quel bambino che gli somigliava moltissimo. Dopo la sentenza l' operatrice sanitaria, visibilmente provata, ha parlato di un' altra verità. «Che spero venga fuori in appello», ha detto. Poi, a chi le ha chiesto che cosa avrebbe fatto adesso, ha risposto di avere un solo desiderio: «Dedicarmi a mio marito e ai miei due figli, cosa che ora posso fare con più distacco e tranquillità». La difesa, sostenuta dagli avvocati Mattia Alfano e Massimo Nistri, si è battuta per l' assoluzione della donna sostenendo che non solo il rapporto era consenziente, ma era avvenuto quando il ragazzino aveva compiuto quattordici anni e dunque era già, per la legge, personalità giuridica. Il giovane allievo però in una testimonianza l'aveva smentita dicendo che i primi abusi erano iniziati quando ancora aveva tredici anni. Dichiarazioni che i legali della donna hanno giudicato contraddittorie e prive di riscontri oggettivi. «Il nostro compito era quello di reagire e portare fuori dalle vicende processuali la velata accusa di pedofilia, la reiterazione e il sospetto adescamento di altri minori - hanno commentato i due legali -. Al di là della sentenza siamo soddisfatti per aver ricondotto nel giusto alveo tutta la vicenda e non avere una persona che patisce provvedimenti basati su accuse poi risultate prive di fondamento».

Laura Montanari per “la Repubblica” il 2 giugno 2020. La denuncia è partita da lei, ma per un anno lei ha taciuto e solo ieri, dopo la sentenza, ha rotto il silenzio: «Quella donna non si è vergognata di niente, ha abusato di mio figlio e in casa ne aveva uno suo, appena più piccolo». È uscita dall' aula del tribunale di Prato, ha abbassato la mascherina che le copriva la bocca e si arresa agli obiettivi dei fotografi e delle telecamere. «Credo nella giustizia, per questo non ho mai voluto dire niente prima. Di certe cose non si parla in piazza, ma nelle aule del tribunale». Le parole si sono interrotte subito per l' emozione e le lacrime. Con le mani toccava un foglio con degli appunti scritti al computer, «Non vorrei dimenticarmi di dire delle cose. Grazie alla mia avvocata Roberta Roviello e allo psicologo che ci hanno seguito in tutto questo tempo non facendoci mai sentire soli».

La sentenza riconosce la colpevolezza dell' insegnante che dava ripetizioni di inglese a suo figlio. ..

«Sì ma non finisce qui, quella donna gli ha rovinato la vita e per noi la strada sarà ancora lunga, oggi si è chiusa una parentesi. Mi ci vuole forza e coraggio per andare avanti, ho tre figli da crescere».

Come ha scoperto la relazione dell' insegnante con suo figlio?

«Nel 2018 ero stata operata all' anca e stavo a casa. Osservavo i miei ragazzi, lui aveva sbalzi di umore, mi faceva domande su quella donna. "L' hai vista?" Frequentavamo la stessa palestra. "Ti ha detto qualcosa?" Ho cominciato a insospettirmi. Ho messo in fila un sospetto, un altro, un altro ancora. Ho capito che voleva allontanarsi da lei e ho cominciato a chiedermi perché. Un giorno sono andata con l' istruttrice della palestra e lui ha voluto venire con me: lì ci ha fatto leggere i messaggi sul cellulare e abbiamo capito. Vorrei dire una cosa». Che cosa? «Non abbiamo mai cercato vendetta. Ma quella donna non si è vergognata di niente, anche in aula ha avuto un atteggiamento sprezzante. Ha detto che la verità è un' altra come se non si rendesse conto di quello che aveva fatto. Quale altra? La verità è questa: ha abusato di mio figlio quando lui non aveva nemmeno 14 anni, lo ha ricattato e minacciato. I bambini e le bambine non si toccano, mio figlio l' ha rovinato e nessuna sentenza mi risarcirà».

Come sta adesso suo figlio?

«Ha un carattere forte, fa sport a livello agonistico, sogna le Olimpiadi, si allena e studia».

Cosa le ha detto dopo averle raccontato quello che era accaduto?

«Grazie mamma mi hai liberato da un peso, ricomincio a vivere».

Le ha chiesto qualcosa in questi giorni?

«No. Ha isolato questa vicenda dalla sua vita, è come un cassetto che tiene chiuso. Quando lo psicologo le ha domandato del bambino lui ha risposto: io non ho chiesto niente, quello è il figlio di (segue il nome dell' insegnante di inglese, ndr)».

E lei a quel bambino, che adesso ha due anni, ci pensa?

«Sono nonna lo so, ma in questo momento mi interessa la vita di mio figlio, è lui che devo proteggere. Ci penso, certo che ci penso. Quel bambino è frutto di un abuso e ora non riesco a sentirlo come mio nipote. Ci vorrà tempo o forse no, non so» . 

Simona Bertuzzi per ''Libero Quotidiano'' il 7 giugno 2020. È sempre stato nell'ombra. Anche quando il mondo gli rotolava addosso e delle sue certezze di ragazzo saldo e perbene, con una vita tranquilla e un lavoro sicuro in un' azienda che produce altoparlanti, restavano solo cenere e chiacchiere. Lui per tutti era solo il marito della prof 32enne di Prato che aveva avuto una relazione e un figlio da un ragazzino 14enne. E in quella veste scomoda e vischiosa provava a ricucire la sua esistenza stravolta. Svegliarsi la mattina. Guardare in faccia la moglie che ti ha tradito, il figlio avuto con lei quando erano giovanissimi e quello più piccolo e vispo nato da una relazione clandestina ma non meno amato. E poi uscire di casa, andare a lavorare, prendere il caffè nel bar della piazza dove tutti ammiccavano e più di uno - si sa come funziona la vita nelle città piccole come Prato - sussurrava malevolo è lui il povero marito della pedofila?. Una sentenza di qualche giorno fa ha condannato la donna a sei anni e sei mesi per atti sessuali con minore e violenza sessuale per induzione. A un anno e otto mesi lui per essersi attribuito la paternità del bambino pur sapendo che non era suo, tecnicamente il reato è "falsa attestazione di stato". Sono cadute invece le accuse più infamanti di pedofilia e adescamento di minore, le stesse che hanno imposto alla donna per oltre un anno gli arresti domiciliari in luogo di un semplice divieto di avvicinamento (come è stato deciso un mese fa). Il marito non entra nel merito della vicenda processuale «non voglio dire nulla della sentenza, leggeremo le motivazioni e poi ci sarà l' appello» e quando risponde al telefono sorprende per fermezza e lucidità. Il dolore certo non si cancella, «ci sono stati momenti difficili, tanti svarioni», ma poi tocca andare avanti. E capovolgere il senso comune e i pregiudizi della vulgata. Il 99% delle persone, anzi diciamolo dei maschi italiani, se ne sarebbe andato su due piedi, avrebbe sbattuto la porta in faccia alla vita passata, alla moglie fedifraga e a quel ragazzino che ha nel suo visino l' impronta indelebile di un amore extra coniugale. Lui no, lui è andato avanti semplice e saldo nei suoi giudizi e nelle sue responsabilità di padre. Non nasconde le voragini e il buio di certi giorni cupi.

PADRE FIGLIO. «È stato un momento durissimo scoprire il tradimento, una botta pazzesca, ma non ho mai pensato che il figlio non fosse mio. L' ho scoperto a marzo con l' esame del Dna. E anche allora non è cambiato nulla nella mia vita di padre, ho continuato ad amare quel bambino come il primo giorno. Le dico di più. Mi sarei vergognato di mettere davanti a tutto l' orgoglio personale. E mollare un figlio solo perché avevo scoperto che era di un altro. Sarebbe stato un gesto egoista che non mi apparteneva». In fondo, dice, ci sono bimbi «che vengono scambiati in culla alla nascita. Altri che sono figli dell' eterologa. Non tutti hanno una nascita lineare. Eppure crescono felici e sereni». La stessa società è più complessa di quel che era un tempo. Esistono le famiglie allargate e sono tanti i padri che subentrano in una situazione già in essere. In fondo «un padre è chi lo fa non chi lo è». Chi si alza la notte per cullare i pianti. Chi accompagna i primi passetti titubanti. Chi fotografa le pappe e ruba i sorrisi. Certo verrà il giorno in cui i figli della coppia dovranno sapere «e spero che prevarrà la lezione d' amore della nostra famiglia. Il senso di responsabilità che credo di aver trasmesso ai miei due figli».

GIOVANE E BELLA. Non abbiamo ancora parlato di lei in tutto questo. Della moglie giovane e bella che per un anno ha smesso di essere donna e madre agli occhi dell' opinione pubblica ed è diventata semplicemente la prof di Prato vogliosa e peccaminosa, additata e condannata (prima dai social forse che dai giudici) per essersi concessa a un ragazzino di 14 anni e averci fatto un figlio. «Non l' ho violentato... mi sono innamorata ho perso la testa», si è sempre difesa la donna. E all' uscita del tribunale ha detto: «Il mio unico desiderio è dedicarmi alla famiglia». Tanto diversa dalla presunta ammaliatrice che tempestava di messaggi un adolescente inconsapevole. Gli avvocati Mattia Alfano e Massimo Nistri hanno lavorato duramente per far cadere l' accusa di pedofilia e adescamento di minore («erano sospetti talmente avulsi dal profilo psicologico della nostra assistita») e hanno sollevato un dubbio di costituzionalità sulla legge che punisce il sesso con minori di 14 anni (il ragazzino all' inizio della relazione ne aveva 13) visto che i 14enni di oggi sono spesso giovani adulti e maturi. Ma ormai questa donna oggi 35enne, operatrice sanitaria e insegnante di ripetizioni di inglese nel tempo libero (l' ha conosciuto così il 14enne con cui ha avuto la relazione, era il figlio di un' amica e doveva dargli ripetizioni), era solo la sexy prof. Buttata in fondo al fosso insieme al macigno della pubblica reprimenda. Il marito descrive invece tutta un' altra persona: «Non è stato semplice per lei. Ma ci siamo sostenuti a vicenda. Si sta facendo seguire da uno psichiatra. Se dovessi descriverla? Beh è una grande mamma. E una donna molto forte. Mi sono innamorato di lei da ragazzo», si sa come vanno certe storie semplici, al cuor non si comanda. «Eravamo così giovani e lei mi sembrava diversa da tutte le altre, così solare e solida. Poi è arrivato il primo bambino». E il secondo, ma figlio di un tradimento. Tanti uomini non perdonerebbero, lui forse sì. Anche se non parla di perdono. «Non si smette di amare per un errore e il perdono è relativo. Io penso a noi come a una famiglia rafforzata. Siamo maturati entrambi». Neanche per la rabbia c' è posto in questo giovane cuore. Insomma una relazione con un 14enne non capita tutti i giorni. Farebbe incazzare un santo. «Io penso che l' età non conti nulla. Bisogna guardare alla causa che ha generato il tradimento non al fatto in sé. Non mi sento di arrabbiarmi o dare colpe. E poi la colpa non è mai da una parte sola quando una coppia va in crisi».

IL 14ENNE. Impossibile parlare del ragazzo che adesso ha 16 anni e in un certo senso è stato il suo rivale. Più facile appellarsi a parole di circostanza. «Ho grande rispetto per la situazione che questa famiglia sta vivendo al pari della nostra». La madre del ragazzino ha detto dopo la sentenza «i bambini non si toccano che siano maschi o femmine». Rispetto anche per lei, ci mancherebbe. Intanto in questa famiglia stravolta da uno sbandamento del cuore e forse della mente si intravede un po' di sereno: «La pressione è allentata e guardiamo avanti». E avanti c' è una coppia che nel dolore e con la giravolta più torbida e strana della vita è cresciuta e si è rafforzata: «Lasciare Prato? Vedremo, è una città che amiamo entrambi». E poi si sa, i pettegolezzi scemeranno, la pressione mediatica si allenterà, «le famiglie hanno fatto scudo ai nostri ragazzi per fortuna». Dunque cosa resta: «I miei due figli che giocano a calcio, il grande ha trasmesso la sua passione al fratello piccolo io li guardo giocare e non chiedo altro. Sono un papà felice». Già, non si può chiedere di più per adesso. Sarà la verità processuale a stabilire il resto. E il tempo a ricucire le ferite. Ma sarà un fatto privatissimo. E non spetterà a noi sciogliere i dubbi dell' animo umano.

Uccise il padre a Monterotondo, archiviate accuse contro Deborah Sciacquatori: "Legittima difesa". Pubblicato mercoledì, 27 maggio 2020 da Paolo G. Brera su La Repubblica.it. Fu una coltellata data per legittima difesa, dopo l'ennesima lite in famiglia, quella che Deborah Sciacquatori, 20 anni, sferrò contro suo padre, morto a seguito di quella ferita, il 19 maggio del 2019, a Monterotondo Scalo. Lo ha stabilito il gip di Tivoli che ha archiviato l'indagine a carico di della 20enne che colpì a morte il padre Lorenzo nel corso di una colluttazione dopo che l'uomo, ubriaco, si era scagliato contro la ragazza, la madre e la nonna. Il giudice, concordando con l'impostazione della procura guidata da Francesco Menditto, ha ritenuto applicabile la causa di giustificazione della legittima difesa. "Non vi è dubbio alcuno - si legge in una nota della procura di Tivoli - dunque, sulla base dell'inequivoca costruzione dei fatti, che la ragazza si sia trovata di fronte a un pericolo imminente e attuale per la sua vita, per quella della madre e della nonna. Un pericolo derivante dall'escalation violenta della vittima, iniziata all'interno dell'appartamento e proseguita dopo aver interrotto la fuga delle donne e averle affrontate e aggredite". In base a quanto ricostruito dagli inquirenti, "la ragazza, terrorizzata per le aggressioni e sui danni e a quella di parenti, comprensibilmente e istintivamente ha prelevato il pugnale, di certo non immaginando di usarlo o tentando piuttosto di scappare di casa. Solo successivamente, cioè nel momento in cui vede in pericolo imminente la vita della madre di se stessa compie il gesto solo per minacciare. Siamo, quindi, in presenza si una difesa proporzionata all'offesa", conclude la procura ricostruendo le fasi della vicenda.

Camilla Mozzetti per “il Messaggero” il 28 maggio 2020. È stata «legittima difesa» ma non può «essere un giorno di festa» perché quella coltellata che Deborah sferrò per difendere se stessa, la madre e la nonna dagli schiaffi, dai pugni, dalle spintonate sulle scale, in una palazzina popolare di Monterotondo - hinterland di Roma Nord - uccise il padre la notte del 19 maggio dello scorso anno. Rimane lucida Deborah Sciacquatori, dice che ora può «andare avanti». Anche se quell'equilibrio fragile inseguito per più di 12 mesi nasconderà, senza mai sradicarlo completamente, un dolore profondo. Ciononostante, ieri è arrivata comunque una certezza, un punto da cui ripartire. Quando in mattinata il suo avvocato Sarah Proietti ha chiamato la ragazza e la madre Antonia per comunicare loro la decisione del gip Sabrina Lencioni che ha accolto la richiesta della Procura di Tivoli di procedere con l'archiviazione dell'indagine a carico della giovane - accusata in un primo momento di omicidio volontario derubricato poi in eccesso colposo di legittima difesa - Deborah è rimasta in silenzio per qualche istante: «Non posso gioire» ma solo essere «sollevata». Perché quella notte uccise il padre e allo stesso tempo pose fine ad anni di vessazioni perpetrate tra le mura domestiche fin da quando lei stessa era una bambina, che aveva taciuto per anni agli amici di scuola e a professori. Deborah oggi è una ventenne che lontano da quel teatro dell'orrore porta avanti la sua esistenza, dopo essersi diplomata a pieni voti per iscriversi all'università in una città lontana. «In questa vicenda non ci sono né vinti né vincitori - spiega l'avvocato Proietti - perché ovviamente si tratta di una triste vicenda familiare che ha avuto un epilogo tragico, Deborah e la sua mamma sono sollevate, ma il dolore non è attutito dalla decisione dei giudici; non hanno manifestato gioia nel termine vero della parola, ora devono metabolizzare il loro lutto, la ragazza è una persona che nonostante le vicissitudini familiari ha sempre mostrato forza e voglia di andare avanti». Tutto cominciò la notte di un anno fa quando il padre di Deborah, Lorenzo Sciacquatori, tornò a casa ubriaco e iniziò a inveire contro la compagna, l'anziana madre di lei e la figlia. Prese a calci la porta pur di farsi aprire e una volta entrato, iniziò ad alzare le mani, ad urlare minacciando di ucciderle. Deborah gli si scagliò contro con un coltello, lo ferì mortalmente e subito dopo vedendolo cadere a terra sanguinante lo prese tra le braccia e si disperò: «Papà scusami, ti prego non morire ti voglio bene». Ai carabinieri di Monterotondo e poi al pm la ragazza raccontò tutto: il ritorno a casa del padre a notte fonda, le urla, l'inseguimento per le scale quando Deborah con la madre e la nonna erano riuscite a scappare, e poi le botte in strada fino a quel colpo sferrato con un coltello nascosto nella tasca del pigiama e recuperato da una mensola della camera prima della fuga, per difendersi. Il Procuratore di Tivoli Francesco Menditto nella chiusura delle indagine scrisse: «L'uomo per anni ha imposto il terrore negli animi di tutte le figure femminili della sua famiglia; deve necessariamente concludersi che la reazione esercitata dalla figlia - sia nella forma della minaccia o comunque nella forma dell'aggressione volontaria a mezzo di colpo sferrato all'orecchio - sia stata del tutto proporzionata all'offesa, dovendosi assolutamente escludere l'ipotesi di un eccesso colposo». E il giudice per le indagini preliminari ieri ha accolto la sua richiesta. «Non vi è dubbio alcuno - è quanto afferma il gip - sulla base dell'inequivocabile costruzione dei fatti, che la ragazza si sia trovata di fronte a un pericolo imminente e attuale per la sua vita, per quella della madre e della nonna. Un pericolo derivante dall'escalation violenta della vittima, iniziata all'interno dell'appartamento e proseguita dopo aver interrotto la fuga delle donne e averle affrontate e aggredite». Una decisione che non richiude affatto le ferite.

Dà carne di maiale al bambino: magrebino tenta di strangolare la moglie. Lo straniero non esitava a pestare la moglie anche davanti al figlio. Per sfamare il piccolo, la donna si era rivolta alla chiesa, tornando a casa con degli omogenizzati. E il magrebino aveva tentato di strangolarla. Federico Garau, Domenica 23/02/2020 su Il Giornale. È stato finalmente condannato il cittadino straniero, residente in provincia di Salerno, accusato di aver commesso violenze e ripetute vessazioni nei confronti della consorte. L'uomo, stando alle dichiarazioni della vittima, aveva assunto il totale controllo all'interno del nucleo familiare, e non esitava a punire la donna, picchiandola anche dinanzi agli occhi del loro bambino, spesso motivo di scontro. I fatti contestati, secondo quanto riferito dai quotidiani locali che hanno riportato la notizia, si sono verificati nel comune di San Valentino Torio (Salerno), dove viveva la famiglia. Protagonista in negativo della vicenda un marocchino di 39 anni, ora dichiarato colpevole del reato di maltrattamenti. Dal racconto della donna è emerso che le violenze avevano avuto inizio nel lontano 2011, per poi peggiorare durante il corso degli anni. Tanti gli abusi subiti dalla vittima, una cittadina straniera di nazionalità bulgara. Spesso ubriaco o sotto l'effetto di sostanze stupefacenti, il magrebino non esitava a sfogare su di lei tutta la propria rabbia. Ai maltrattamenti continui, si aggiungeva inoltre anche la totale noncuranza del nordafricano nei confronti della famiglia. Il 39enne non si preoccupava infatti neppure di portare il denaro a casa, così la consorte si era più volte vista costretta a rivolgersi a delle strutture di carità per trovare qualcosa da dare da mangiare al loro figlio. Proprio a causa di ciò si sarebbe verificata una delle aggressioni più violente. Chiedendo aiuto ad un uomo di chiesa, la straniera sarebbe tornata a casa con dei vasetti di omogenizzati con i quali sfamare il bambino. Accortosi che all'interno dell'alimento si trovava anche del maiale, il magrebino aveva dato completamente di matto, avventandosi come una furia contro la moglie. “Il bambino non deve mangiare il maiale”, avrebbe gridato il nordafricano, come raccontato dalla vittima e riferito da “SalernoToday”. Dopo averla gettata a terra, l'uomo aveva continuato ad infierire su di lei, lanciandole addosso bottiglie ed oggetti di vario genere, sino ad arrivare a stringerle le mani attorno al collo nel chiaro tentativo di strangolarla. Soltanto la presenza del figlio, terrorizzato da quanto stava avvenendo davanti ai suoi occhi, aveva impedito al marocchino di commettere qualcosa di irreparabile. Gli attacchi e gli scatti d'ira erano poi proseguiti. Interrogata dagli inquirenti, la moglie del nordafricano ha ricordato un episodio in particolare, avvenuto durante la festa islamica del sacrificio. “Un giorno c’era la festa di loro che ammazzano le pecore, perché è la loro festa di marocchini, e lui davanti al mio bambino ha tagliato la gola alla pecora, e il bambino si è spaventato molto, si è messo a nascondersi sotto la tavola, e diceva il Padre Nostro. E lui si è spaventato: ha detto che non doveva dirla, quella preghiera; doveva dire che non ci sta Gesù”, ha raccontato la vittima. La svolta arriva quando la donna, stanca dei continui soprusi, decide di rivolgersi ai carabinieri della stazione locale, che avviano subito le indagini del caso ed interpellano i servizi sociali. Incastrato dalle prove a suo carico, il 39enne è stato condannato 2 anni e 4 mesi di reclusione dal giudice del tribunale di Nocera (Salerno), che ha disposto ulteriori indagini.

Da "ilmessaggero.it" il 27 maggio 2020. Una ragazza iraniana di 13 anni è stata decapitata nel sonno, con un'ascia, dal padre che si opponeva alla sua relazione con un uomo molto più grande. Si chiamava Romina Ashrafi ed è una delle vittime del delitto d’onore che è ancora in vigore in Iran.  È successo ad Haviq, capitale del distretto di Haviq, nella contea di Talesh, nella provincia di Gilan. Romina si era innamorata di un uomo di 35 anni,  Bahman Khavari, ed era fuggita con lui dopo che il padre le aveva ordinato di interrompere la relazionw. Dopo la fuga i familiari avevano presentato la denuncia. La ragazza era stata convocata dalla polizia locale e il giudice aveva deciso di rimandarla a casa anche se Romina aveva spiegato i rischi che correva tornando in famiglia per via del padre violento. La notte dello scorso 21 maggio 2020, racconta sul Fatto Tiziana Ciavardini, antropologa ed esperta di Iran che ha rilanciato in Italia la notizia, il padre con una falce ha tagliato la testa alla figlia. Prima ho provato a strangolarla e poi l'ha uccisa con un'ascia.  Il giorno ha confessato tutto alla polizia mostrando anche l'arma del delitto. Il caso ha suscitato l'indignazione social. Il padre di Romina non verrà incriminato per omicidio perché in Iran esiste il delitto d'onore. Per il deputato dell’organizzazione assistenziale per gli affari sociali della provincia di Gilan, Reza Jafari, l’omicidio  è «un esempio di palesi violazioni dei diritti dei bambini»,   il suo dipartimento assicura farà di tutto per garantire i diritti dei bambini. «Ai sensi dell’articolo 220 del codice penale islamico, il padre di Romina non potrà essere punito con la pena di morte, come previsto per tutti i casi di omicidio in Iran, perché questo rientra nel reato di delitto d’onore», spiega Ciavardini. «Se avviene l’omicidio di un membro di una famiglia, a causa della credenza da parte degli autori che la vittima abbia arrecato vergogna o disonore alla famiglia o abbia violato i principi della comunità, il delitto viene valutato in maniera diversa da tutti gli altri crimini della stessa entità». In Iran, dove vige la Sharia, la legge islamica, la relazione tra una ragazza di 13 anni e un uomo di 35 è consentita: per il codice civile iraniano l’età minima prevista dalla legge per il matrimonio di una ragazza è di 13 anni. Il vice presidente della Repubblica islamica, Masoumeh Ebtekar, ha emesso un “ordine speciale” per indagare sull’omicidio. 

Iran, decapitata a 13 anni dal padre. Il delitto d'onore che scuote il Paese. Pubblicato mercoledì, 27 maggio 2020 da Gabriella Colarusso su La Repubblica.it. Iran, decapitata a 13 anni dal padre. Il delitto d'onore che scuote il Paese. Romina Ashrafi si era innamorata di un ragazzo più grande di lei. L'uomo l'ha uccisa tagliandole la testa con un machete mentre dormiva. Il presidente Rouhani emetterà un "ordine speciale". L'omicidio brutale di Romina Ashrafi per mano di suo padre ha scosso l'Iran, riaprendo le polemiche intorno al delitto d'onore che è ancora "protetto" dal codice islamico. Romina Ashrafi aveva 13 anni. Si era innamorata di un uomo più grande di lei, un 35enne della sua stessa città, Hovigh, nella contea di Talesh, nel nord del Paese, e con lui aveva tentato la fuga dalla casa di famiglia. Fermata dalla polizia, è stata costretta a tornare dai suoi genitori nonostante avesse chiesto di essere protetta perché temeva la reazione di suo padre, contrario al matrimonio con il ragazzo. Poco dopo il rientro a casa della ragazza, approfittando dell'assenza della madre, il papà di Romina l'ha uccisa tagliandole la testa con un machete mentre dormiva. L'uomo è stato arrestato. Secondo alcuni giornali locali si sarebbe consegnato alla polizia dopo l'assassinio con in mano ancora l'arma del delitto. Il governatore del distretto di Hovigh, Kazem Razmi, ha confermato all'agenzia di stampa Irna che l'assassino è in custodia e che sul caso è stata aperta un'indagine: "Il sospettato, accusato di omicidio, è attualmente in prigione e le autorità stanno lavorando per completare il caso e affrontare le sue varie dimensioni", ha spiegato Razmi. L'omicidio ha sollevato un'ondata di indignazione e proteste in Iran, la storia è stata ripresa da molti iraniani della diaspora, spingendo anche le autorità centrali a intervenire. Secondo l'agenzia di stampa Rokna la vicepresidente della repubblica Islamica, una delle (poche) figure femminili di rilievo nel sistema di potere del Paese, Masoumeh Ebtekar, ha assicurato che il presidente Hassan Rouhani emetterà un "ordine speciale" per indagare sull'omicidio. L'avviso dei funerali di Romina ha contribuito a far salire la tensione e le proteste. Nell'immagine si vede Romina sorridente con un velo verde che le scende morbido sulla testa e accanto vengono elencati gli uomini della famiglia di appartenenza: il primo nella lista è il padre di Romina, il suo assassino. La ragazza viene identificata come "figlia di" cui segue il nome del padre, "nipote di" con il nome del nonno, "sorella di" con il nome del fratello maschio, e "nipote di" con i nomi dei due zii, materno e paterno. L'omicidio ha riaperto il dibattito sui cosiddetti "delitti d'onore" in Iran, che sono in parte tutelati dal codice penale islamico, e contemporaneamente sul fenomeno delle spose bambine. Secondo l'articolo 220 del codice penale islamico, in quanto "guardiano" della ragazza il padre di Romina non verrà punito con la pena di morte, prevista per gli omicidi, e potrebbe andare incontro a una sentenza lieve. Il codice infatti non criminalizza i crimini cosiddetti "d'onore", che possono essere perseguiti come omicidi, ma prevedono alcune forme di mitigazioni legale, per esempio un indennizzo. Il giornale online Khabar raccontando il caso di Romina ha ricordato che nel 2014 un funzionario della polizia di Teheran disse che il 20 per cento degli omicidi in Iran erano omicidi d'onore. Eppure, paradosso, per la legge islamica Romina alla sua giovane età avrebbe già potuto sposarsi: il codice fissa a 13 anni per le donne e a 15 per gli uomini l'età per poter accedere al matrimonio, un'altra norma molto criticata perché consente il fenomeno delle spose bambine. 

Il marito tentò di bruciarla viva: «Mia figlia nelle scuole ora parla di me». Pubblicato venerdì, 06 marzo 2020 su Corriere.it da Giusi Fasano. Una videocamera di sorveglianza ha ripreso tutto. Si vede lei che corre via ma la sagoma è indefinita, completamente avvolta dalle fiamme. «Muori» le aveva detto suo marito rovesciandole addosso odio e benzina e dandole fuoco. Maria Antonietta fece in tempo a sentire i guaiti del cagnolino di suo figlio, anche lui diventato torcia, e fece in tempo a scappare per pochi passi finché con la coda dell’occhio non vide una pozzanghera. «Mi ci sono buttata, ho bevuto quell’acqua e l’ho usata per spegnere un po’ i vestiti che bruciavano» racconta. È stato un anno fa, il 12 marzo 2019. Lui aveva scelto la violenza da molto tempo ma da quando lei lo aveva lasciato, denunciato e fatto arrestare per i maltrattamenti, aveva giurato a se stesso e al mondo che gliel’avrebbe fatta pagare. Così quella mattina di marzo evase dai domiciliari che stava passando a casa dei genitori, in Campania, e si fece 500 chilometri per andare da lei. «Era il giorno della sentenza per l’affido del figlio più piccolo» ricorda Maria Antonietta Rositani, 42 anni, ricoverata da allora al Policlinico di Bari. «Lui mi speronò, mi costrinse a fermarmi, io chiamai la polizia, urlai che il mio ex stava per ammazzarmi, dissi il nome della via in cui ero. Non sono arrivati in tempo... è andata com è andata». È andata che «sono ancora qui, devo imparare daccapo a stare in piedi e a camminare e poi forse finalmente potrò tornare a casa. Se lei sapesse quante volte ci ho pensato... Mi mancano molto i miei figli, la mia famiglia, mi manca fare la mamma e quel bell’odore di casa, di pulito». Ustioni gravissime sul 50% del corpo, un numero di interventi «che ormai non conto più», il dolore inenarrabile con cui imparare a convivere, eppure lei non ha pensato nemmeno un momento di arrendersi: «Questo mai» conferma. «Qui dentro è durissima, i giorni sono fatti di sofferenza e sono l’uno uguale all’altro, ma penso ai miei figli e sopporto ogni cosa pur di tornare a riabbracciarli». I suoi figli vivono a Reggio Calabria (dove anche lei ha vissuto fino a un anno fa) e sono William — 11enne e umano di riferimento per il cagnolino che suo padre ha bruciato vivo — e una ragazza di vent’anni che si chiama Annie. Lei, Annie, da un anno è in prima linea nella guerra contro la violenza di genere. Offre la sua testimonianza, i suoi sentimenti e le sue fragilità, nelle scuole, in conferenze o incontri pubblici. Racconta ai ragazzi come lei quanto sia importante non chiudere gli occhi davanti a nessun sopruso. Lei lo sa, lo ha vissuto: sa quanta violenza si può nascondere nelle mura di una casa e quanto sia rischioso abbassare la testa e sopportare. «È sempre stata uno dei miei angeli e ora è diventata anche una guerriera. Se non fosse stato per lei non avrei mai firmato la prima denuncia contro il mio ex marito» racconta Maria Antonietta. Ne sono successe, di cose, da quando Maria Antonietta è in ospedale. Suo padre Carlo — per dire — ha ricevuto una telefonata da Mattarella al quale aveva scritto una lunga lettera per dirgli che «sono un padre disperato» e per mettere a fuoco ritardi e omissioni nella protezione di sua figlia: per esempio la prima denuncia rimasta nel cassetto oppure la concessione dei domiciliari senza sufficienti controlli e dopo che già una volta, in passato, lui aveva violato l’obbligo di tenersi a distanza ordinato dal giudice. Di lui (Ciro Russo, in carcere in attesa di processo) Maria Antonietta non vuole parlare. Parla però del «male che ha fatto a tante persone oltre che a me. La più cara era mia nonna. Io sono cresciuta con lei, la consideravo una mamma. Quando ha saputo di quel che mi era successo non ha più voluto mangiare, si è lasciata morire». Maria Antonietta dice «io sono molto cattolica, adesso anche di più perché so di essere un miracolo. Sono un miracolo per essere sopravvissuta e perché resistere ha fatto di me un esempio per le tante donne che mi scrivono, che mi chiedono di non mollare. Io non mollo, ho accanto a me una famiglia speciale, medici e infermieri eccezionali. Prego ogni giorno di tornare a casa in fretta. Voglio respirare l’aria fresca, voglio abbracciare i miei figli e dirgli che non li lascerò più».

Incendia la villa dell’ex marito. La maga le aveva detto: «Tornerà l’amore». Pubblicato mercoledì, 04 marzo 2020 su Corriere.it da Felice Cavallaro. Sembra una storia di streghe e fattucchiere recuperata da un vecchio feuilleton su merletti e veleni. Perché a due passi dalla vecchia Milano del Sud, come si diceva un tempo, sul pendio dell’Etna, il malocchio si scaccia non solo leggendo i tarocchi e attivando malefici sortilegi, ma perfino col fuoco. Appiccando alle porte di Catania un incendio nella villetta di campagna dell’ex marito fedifrago. «Perché dalle ceneri torni l’amore e il traditore», invocava la maga alla moglie disperata per l’abbandono. C’è questo impasto di credenze e imposture popolari dietro l’incendio domato un paio di mesi fa dai vigili del fuoco tra querce e faggi di Trecastagni, rischiando la vita. Con i carabinieri subito caccia dei malfattori grazie alla registrazione di una telecamera piazzata all’esterno della villa. Immagini eloquenti che hanno lasciato di sasso per primo l’ex marito della donna arrestata insieme con i due complici che si dileguavano correndo dopo avere appiccato il fuoco: «Ma è mia moglie...». È stata lei, una cinquantenne titolare di un negozio nel centro di Catania, a confessare in lacrime quanto non avrebbe potuto negare. Pronta a indicare nome e indirizzo della fattucchiera alla quale si era rivolta. Una donna di 59 anni, con casa nella vicina Motta Sant’Anastasia dove a sua volta continua a frequentare il suo ex marito, suo coetaneo. Un pluripregiudicato che in questa storia diventa il protagonista del raid immortalato dalla telecamera di Trecastagni. Le sequenze, diffuse dal comando provinciale dei carabinieri di Catania, inquadrano infatti le due donne e l’uomo mentre arrivano nella villetta in quel momento senza nessuno dentro. L’ex moglie apre il portoncino e fa entrare fattucchiera e complice. Pochi istanti e tutti ricompaiono nella registrazione, allontanandosi. Ma un minuto dopo l’uomo rientra con una tanica di benzina. E dopo averla cosparsa su mobili e divani esce fuori correndo. Un attimo dopo le fiamme. Con lingue di fuoco che fanno esplodere anche i vetri del primo piano. Una disastro che aveva fatto pensare a minacce di ben diverso stampo, a una estorsione. Ma le immagini hanno spazzato via ogni altra ipotesi. E a nulla è valso che l’ex moglie, entrando in quella villetta ben conosciuta, abbia steso un panno su un’altra telecamera. Il patto con la donna che aveva trasformato stregoneria e impostura in una fonte di reddito prevedeva che la «cliente» avrebbe dovuto rispettare il massimo silenzio su quanto accaduto, «anche dopo la riparazione del matrimonio», data per certa. Ha invece ammesso tutto, guadagnando dopo qualche giorno di arresti domiciliari, il permesso dei magistrati di tornare mattina e pomeriggio nel suo negozio. A differenza della fattucchiera e del suo compagno piromane, rintracciati a Capizzi, in provincia di Messina, dove si erano rifugiati. Adesso agli arresti in casa. In attesa di un processo che riaccende l’attenzione su ingenuità e truffe maturate roteando i tarocchi, ovviamente sequestrati nel laboratorio della maga.

Alessia Strinati per leggo.it il 26 febbraio 2020. Ha fatto sesso per mesi con un ragazzo di 13 anni e ha partorito suo figlio. Leah Cordice, un'infermiera di 20 anni di di Windsor, nel Berkshire, sposata, avrebbe abusato per mesi di un 13enne fino ad arrivare a farsi mettere incinta e a partorire il suo bambino credendo fosse invece figlio del legittimo marito. Tutto è inziato quando la donna si è introdotta di nascosto nella camera dell'adolescente, che stava giocando con i videogiochi e si è spogliata davanti a lui e costringendolo a un rapporto sessuale. I loro incontri sono andati avanti a lungo due volte al mese, tutti i mesi. La 20enne nel frattempo si è sposata con il ragazzo con cui stava insieme da tempo, pur continuando ad incontrarsi con il minore. Quando ha scoperto di essere incinta ha creduto che il figlio fosse del marito, ma il test del DNA l'ha smentita, come riporta anche Metro. A far scattare le indagini è stata una denuncia da parte della mamam del ragazzo, che aveva notato degli atteggiamenti insoliti da parte della donna. Il test del DNA sul bambino è stata la prova degli abusi, così alla fine il 13enne ha parlato ammettendo di aver avuto rapporti con lei perché innamorato, ma si è sentito usato dalla 20enne che in realtà non aveva intenzione di lasciare il marito o costruire una vita con lui.

Luigi Ippolito per il “Corriere della Sera” il 27 febbraio 2020. È stato detto che tutto ruota attorno al sesso: tranne il sesso, che è questione di potere. Ed è per affrontare questa insidia che lo University College London (UCL), il più importante ateneo della capitale britannica, ha messo al bando le relazioni fra docenti e allievi. Mai più sguardi complici tra cattedra e banchi, bando ai convegni d' amore tra le mura del campus: il rischio è il provvedimento disciplinare, o addirittura il licenziamento dei professori. La nuova policy adottata da UCL proibisce le «relazioni strette, personali e intime fra docenti e studenti quando c' è una supervisione diretta», ossia quando si tratta dei propri allievi di corso; nel caso di studenti di altri corsi, non c' è il divieto, ma bisogna dichiarare la relazione alle autorità accademiche. Sono proibiti in ogni caso i rapporti intimi con studenti minorenni o con quelli «a rischio», ad esempio se portatori di disabilità. Il provvedimento intima ai docenti di «mantenere una appropriata distanza fisica ed emotiva dagli studenti» e di «evitare di creare amicizie speciali con gli allievi»: i contatti devono avvenire solo attraverso i canali universitari ufficiali, i docenti non devono dare il proprio numero di cellulare ai ragazzi e devono altresì astenersi da incontri al di fuori del campus. La manager per il «comportamento e il cambiamento culturale» dell' ateneo, Kelsey Paske, ha spiegato che il bando è stato ispirato «dalla necessità di riconoscere le posizioni di potere e gli squilibri di potere nell' ambiente universitario: e per prevenire gli abusi di potere». «La nuova policy di UCL è la più rigorosa nel Regno Unito - ha commentato al Guardian la dottoressa Anna Bull, del Gruppo 1752, che si batte contro i comportamenti sessuali scorretti da parte dello staff universitario -. Se applicata, aiuterà a creare un ambiente di insegnamento e apprendimento più sicuro e più orientato all' eguaglianza di genere». Mentre il fatto che in altre università manchino policy di questo tipo significa che «non prendono seriamente i rischi associati con gli squilibri di potere fra docenti e studenti». Il mese scorso una docente dell' Università per le Arti Creative di Londra si era addirittura dimessa di fronte all' andazzo di relazioni inappropriate al suo college: «C' è una ricca storia - aveva affermato - di accademici maschi che hanno "amicizie speciali" con le studentesse». Finora solo due college minori, quelli di Greenwich e di Roehampton, avevano adottato provvedimenti simili: UCL è la prima grande università del Russell Group, la «lega» degli atenei d' élite inglesi, a essersi messa in scia dei college americani, da Harvard a Yale, che avevano già vietato le relazioni sessuali nei campus. Un sondaggio condotto nel 2018 dall' associazione nazionale degli studenti britannici aveva rivelato che l' 80 per cento dei giovani si sentiva a disagio all' idea di relazioni professori-studenti, descritte come «predatorie». Ma il provvedimento adottato da UCL ha lanciato una discussione fra gli allievi dell' ateneo, che è approdata anche sulle pagine di Pi Media, la rivista del college gestita dagli stessi ragazzi. E se uno studente trova che «sia una buona idea, perché c' è un intrinseco squilibrio di potere fra docenti e studenti», un altro non nasconde il suo scetticismo, affermando che la policy «viola i diritti di adulti consenzienti» e finisce per sottoporre le vite private delle persone allo scrutinio delle autorità accademiche.

Mattia Feltri per “la Stampa” il 29 marzo 2020. L'Università di Londra s' adegua alle febbri perbeniste e vieta, com' è vietato in molti atenei americani, i rapporti amorosi fra docenti e allievi. I filarini sono ammessi soltanto se i due frequentano corsi diversi, purché tramite apposita modulistica ne mettano a parte i vertici universitari. La piega che stanno prendendo le cose, con norme beghine a restituire una rispettabilità all' incontinenza collettiva, ha dell' imbarazzante, e se succede in università sa di diserzione. Senza indugiare su tediose questioncine di elementare libertà, quella di amarsi fra esseri maggiorenni e consenzienti, che resta di un luogo del sapere inconsapevole della verità eterna di Pigmalione, che si perde nell' ebbrezza per la materia da lui stesso plasmata? Come la racconteranno, ai ragazzi, la storia straziante del maestro Abelardo e dell' allieva Eloisa, il cui amore scandaloso e dunque proibito ispirò il Romeo e Giulietta di Shakespeare? E del professor Martin Heidegger, trentacinquenne, e della studentessa diciottenne Hannah Arendt che si scrivono lettere in cui la filosofia e l' amore si intrecciano in un volo mozzafiato? E della piccola Camille Claudel che diventa donna nel letto e prodigiosa artista nello studio di Auguste Rodin? Come cavolo glielo spiegheranno, se lo negano a sé, che l' università, come l' amore più indomito, nasce per impulso di libertà, la libertà di infilarsi nell' ignoto, di incontrarsi, di imparare, di cambiare, di elevarsi, di prendere sul serio quello che si è e si sa e di ridiscuterlo ogni volta da capo, in definitiva la libertà di sovvertire ogni ipocrita consuetudine sociale?

Ciro Pellegrino per napoli.fanpage.it il 17 febbraio 2020. Fino ad oggi la studentessa, parliamo di una ventenne, che ha accusato di molestie sessuali un professore dell'Accademia di Belle Arti di Napoli non aveva voluto esporsi se non davanti agli investigatori che cercano di fare chiarezza su questa vicenda orribile e dalla portata ancora tutta da stabilire. Nelle ultime 24 ore è accaduto qualcosa di inatteso: il comunicato in cui gli avvocati difensori del docente, personaggio peraltro noto nel mondo dello spettacolo, respingono ogni addebito e smentiscono qualsiasi ipotesi di abuso o violenza, ha evidentemente determinato la reazione della giovane donna che con un video consegnato a Fanpage.it racconta la sua verità su tutta questa storia. Parla di imposizione, di ordini, di minacce. Di richieste di foto hard, rapporti fisici, addirittura l'imposizione di un determinato abbigliamento. A sostegno della sua tesi la giovane – che ha spiegato a Fanpage.it di essersi anche rivolta ad un legale –  porta messaggi audio Whatsapp e screenshot dal cellulare, lo stesso che sarà acquisito dal pm Cristina Curatoli e dal procuratore aggiunto Raffaello Falcone durante il cosiddetto «accertamento irripetibile» fissato il giorno 5 marzo. Il prof è in malattia, le sue lezioni sono gestite da una commissione. «Mi contatta, mi dice che vuole delle mie foto da nuda, qualcosa di esagerato, mi dice ‘se no ti boccio'» è l'esordio del durissimo racconto. La ragazza dichiara di essere in cura per problemi psicologici. E confessa: «Ho provato ad ammazzarmi». Su Facebook la giovane conferma in un lungo sfogo questa situazione: «Prendo un anti-depressivo estremo, tre volte al giorno e ansiolitici. Una cura estrema per i danni che mi avete inflitta». Il suo racconto continua: «Mi sono trovata in una trappola, voleva manipolarmi, mi ha completamente destabilizzata. Gli ho raccontato le mie fragilità e lui alternava momento in cui mi minacciava e momenti in cui si dimostrava disponibile, come se mi tenesse a me e poi momenti in cui mi mandava audio disgustosi» La conclusione tira in ballo i colleghi di Accademia Belle Arti. «Ho parlato con tante vittime, in classe mia sono state molestate tante ragazze» aggiunge, confermando come già anticipato da Fanpage.it l'esistenza di altre storie simili c0n un analogo schema iniziale che prevedeva preliminarmente conoscenza a mezzo social e in alcuni casi, un film al cinema. Il direttore dell’Accademia di Belle Arti, Giuseppe Gaeta, dopo tre mesi di articoli e proteste degli studenti ora fa sapere di aver chiesto di essere ascoltato in Procura. Ma fino ad oggi cosa come si è mossa l'istituzione universitaria per tutelare non solo la sua immagine ma anche la serenità degli studenti? Domande che stanno lentamente approdando anche a Roma: a breve la vicenda  – che, ripetiamo, è delicatissima e da riscontrare in molti punti – potrebbe approdare al ministero sotto forma di indagine conoscitiva o in Parlamento sotto forma di interrogazione.

Dagospia il 18 febbraio 2020. IL CASO DEL PROFESSORE DI NAPOLI SI INGROSSA: GIRA SU YOUTUBE UN VIDEO CON I MESSAGGI IN CUI CHIEDE FOTO DI NUDO A UNA STUDENTESSA, LA CHIAMA ''PUTTANELLA STRONZA''. SUI SOCIAL PIOVONO I COMMENTI DELLE EX ALUNNE CHE CI SONO PASSATE: ''FINALMENTE TUTTE QUELLE CHE HA PERSEGUITATO AVRANNO UNA PICCOLA SODDISFAZIONE'' - SI TRATTA DI UN NOTO REGISTA CINQUANTENNE, I CUI AVVOCATI HANNO CHIESTO DI ACCORCIARE I TEMPI PER POTERSI DIFENDERE - SARÀ FORSE LO STESSO REGISTA NAPOLETANO DI CUI PARLARONO LE ''IENE''?

Fede @prettywho_ Gira un video su YouTube di un mio professore all'accademia di belle Arti che chiede nudes alle studentesse, le ricatta e le chiama puttanelle stronze. Il tutto con audio inconfondibili della sua voce. 7:52 PM - Feb 16, 2020

Giravano voci, il direttore era stato avvertito, ma senza prove non si poteva fare nulla. Finalmente adesso la ruota gira e tutte quelle che ha perseguitato avranno una piccola soddisfazione. 7:53 PM - Feb 16, 2020

Io sono stata forte all'epoca a spegnere tutto sul nascere, ma alcune mie compagne strette ci sono cascate e hanno subito molestie. Quasi ogni giorno praticamente ne parlavamo e io le consolavo e supportavo per quanto potessi, adesso sono felicissima che sia venuto tutto a galla! 7:57 PM - Feb 16, 2020

Quando qualcuno mi chiede cosa avrei voluto fare nella vita mi intristisco sempre perché per fare quello che avrei voluto avrei dovuto avere a che fare col suddetto professore, ma ho deciso di cambiare strada. 8:57 PM - Feb 16, 2020

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IL REGISTA NAPOLETANO E PROFESSORE DELLE BELLE ARTI ACCUSATO DALLE STUDENTESSE, E' PER CASO LO STESSO DI CUI PARLAVA GIORGIA FERRERO? I MESSAGGI DEL REGISTA NAPOLETANO A GIORGIA FERRERO A LE IENE

(da ilfattoquotidiano.it del 23 ottobre 2017) “La foto del mio culo non te la do” – Giorgia Ferrero, attrice cinematografica e teatrale, ha recitato ne La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino. Racconta le molestie subite via chat da parte di un regista napoletano. Tutto succede una domenica mattina. E’ febbraio 2016. Lui la chiama e le dice di avere pensato a lei per un ruolo da protagonista. Le propone un incontro a Napoli per parlarne. Lì finisce la chiamata e inizia il dialogo in chat. Durata un’ora, dove l’attrice si trasforma nel giro di due minuti da “protagonista” a “mammoletta” perché rifiuta di dormire col regista. Prima di cambiare idea, le chiede le sue misure e scrive: Seno zero. Lei risponde: Una seconda. E lui, ancora: Sì magari. Le chiede di inviarle una foto in reggiseno, lei lo fa. Ma non è abbastanza: vuole una foto a seno nudo. “Non ho problemi a fare scene di sesso e nudo se richiesto dalla sceneggiatura”, prosegue l’attrice. Quindi gliela manda. A quel punto lui pretende una foto del fondoschiena. “La foto del mio culo non gliela mando – ricorda Ferrero -. Ero molto confusa“. Lui vuole convincerla a dormire nel letto matrimoniale quando si vedranno, lei gli dice “se ci stai provando con me stai sbagliando tutto”. Lui continua: “Voglio diventare intimo, voglio una cosa senza filtri, se ti fidi di me ti chiedo un coinvolgimento assoluto fin dall’inizio”. Lei rifiuta. E dalle 10.52 alle 10.54 cambia tutto: lei non accetta le avance del regista e da protagonista assoluta diventa “mammoletta“.

OGGI:

Leandro Del Gaudio per ilmattino.it il 18 febbraio 2020. Chiede di anticipare i tempi, di fare presto, di accorciare un’attesa pesante, insopportabile. Ha avviato indagini difensive, anche di fronte a un sospetto hackeraggio subìto sul proprio profilo facebook. Eccola la contromossa del professore, del docente all’Accademia di Belle arti, a distanza di qualche giorno dall’esplosione del caso di presunta violenza sessuale nei confronti di una sua ex alunna. Un caso che si è interamente riversato sui social e sul canale youtube dove è accaduto qualcosa di inedito fino ad oggi, a proposito di indagini e media: qualcuno ha realizzato un film usando solo messaggi audio e scritti che sarebbero riconducibili al docente, per dimostrare la presunta violenza sessuale avvenuta mesi fa. Una sorta di «film», dove compare il nome e il volto del docente, che ha ottenuto in pochi giorni oltre ottomila condivisioni, salvo poi essere reso inaccessibile solo nella serata di ieri. Un «film» montato solo con gli apprezzamenti, le avance, le provocazioni che sarebbero state trasmesse dall’uomo alla giovane studentessa, che serviva a sostenere la denuncia di stupro a carico del docente. Una riduzione su cui ora spetta alla Procura fare chiarezza. Ma torniamo alla cronaca di ieri. Lunedì mattina, prime ore di lavoro: sono i due avvocati napoletani Lucilla Longone e Maurizio Sica a depositare un’istanza in Procura, nel tentativo di tutelare il docente accusato di violenza sessuale. Cosa chiedono i due legali? Puntano ad anticipare la data del conferimento di incarico per decodificare il cellulare della ragazza, acquisito dieci giorni fa per ottenere riscontri della denuncia resa dalla studentessa. Come è noto, l’incarico per dare inizio all’analisi dei dati - con un back up in presenza delle parti - era stato fissato per il prossimo cinque marzo. Una data ritenuta troppo lontana, anche alla luce di quanto sta avvenendo sui social. È di questi giorni, infatti, la diffusione on line di un’intervista della ragazza (ripresa di spalle, con la voce adulterata, in un servizio di Fanpage), in cui vengono forniti particolari della presunta violenza subita dal professore. Per la studentessa non ci sono dubbi: «Sono stata violentata, mi ha invitato a casa sua, ero inerme, sono stata abusata». E giù altri particolari intimi da parte di chi non nasconde di essere in cura sotto il profilo psicologico. Poi, in questi giorni, è spuntato il «film» su youtube. Messaggi privati, presunte richieste di prestazioni sessuali (tra cui anche foto hot), di fronte a quella che viene spacciata come una minaccia, all’insegna del «se non lo fai, ti boccio». Ricostruzioni fortemente respinte dalla difesa del docente, che alcuni giorni fa aveva giocato un’altra carta ad effetto. Come è noto, i difensori del professore avevano depositato pochi giorni fa la trascrizione di centinaia di messaggi, tutti ricavati dalle chat intercorse (via Whastapp, Instagram e Telegram) tra il loro assistito e l’alunna. Brutta storia, qui all’Accademia di Belle arti. Da mesi circolano accuse di molestie sessuali, da parte di uno o più prof, atteggiamenti sgradevoli che sarebbero stati subiti da una o più alunne. Tanto che il caso del docente e della sua ex alunna viene indicato da qualcuno come la classica punta di un iceberg. Quanto basta a spingere la Procura ad aprire un secondo filone di indagine, che punta a fare chiarezza dopo tanto chiacchiericcio. Un fascicolo esplorativo, volto a sgomberare il campo da sospetti e suggestioni che rischiano di rendere ancora più velenoso il clima all’ombra di via Costantinopoli. Ma torniamo al caso principale, alla liaison tra il docente e la studentessa. Lui è un cinquantenne in carriera, apprezzato regista; lei è una ragazza appena ventenne. A settembre inizia la loro relazione, che va avanti per un paio di mesi, finendo in malo modo. Stando alla versione di lei, il prof l’avrebbe costretta a fare sesso, a mandargli foto hot, ad assecondarla. Secondo il racconto di lui, invece, le cose sono andate diversamente: sarebbe stata lei a cercare il primo contatto (con una emoticon a forma di faccina, alla quale lui avrebbe risposto con un punto interrogativo), dando inizio a un rapporto sempre consenziente. Discutibile moralmente, ma consenziente. Ed è in questo scenario che tocca al pm Cristina Curatoli e all’aggiunto Raffaello Falcone provare a fare chiarezza. A leggere o sentire i messaggi scritti o vocali di lui, si ha la sensazione di trovarsi di fronte a un atteggiamento molesto, insistente. Si ha invece una impressione differente, a leggere (o ascoltare) le stesse parole ricondotte al docente, ma calate in un dialogo tra due persone: intimo, clandestino ma comunque all’insegna della complicità, dell’intesa. Provocazioni spinte ma reciproche? O un rapporto verticale in cui l’uomo si impone come docente di peso sulla sua giovane alunna? Attorno all’analisi delle chat ruota l’affare esploso dentro e fuori l’Accademia.

Ciro Pellegrino per fanpage.it il 26 febbraio 2020. Molestie sessuali all'Accademia di Belle Arti Napoli, c'è una nuova testimonianza che accusa l'ex prof dell'istituzione universitaria. A parlare è una ex (da poco) studentessa dell'Accademia partenopea di via Costantinopoli. Poco più che ventenne, racconta di un periodo di pressanti messaggi sui social network, richieste di sesso a tre e una situazione costante di tensione. Il suo è un racconto circostanziato: ci sono una serie di scambi di messaggi a supporto della storia. Fanpage.it ha da tempo acceso un faro sull'operato di questo docente, dopo le accuse di una ragazza del primo anno che ha raccontato una storia gravissima di violenza sessuale. Ora l'uomo si è dimesso dal suo incarico, respingendo con forza tutte le accuse, dalla prima all'ultima. Risulta indagato. La Procura della Repubblica di Napoli ha aperto un fascicolo ed ha ascoltato 3 studentesse, disponendo l'acquisizione di messaggi nel computer nel cellulare dell'uomo e dello smartphone della prima ragazza. Nel frattempo a Fanpage.it sono arrivate altre testimonianze. Altre studentesse hanno iniziato a raccontare la loro verità rompendo un muro di silenzio di cui alcuni accusano anche i vertici dell'Accademia di Belle Arti che non avrebbe assistito adeguatamente le ragazze. A Fanpage.it un'altra studentessa, non laureata ancora, nei giorni scorsi aveva deciso di raccontare la sua verità: "Il prof mi ha distrutta", ha detto ai microfoni del nostro giornale,  spiegando di non essersi riuscita a laureare.

Sintesi dell’articolo di Matteo Leoni per “Il Tirreno” il 3 aprile 2020. Una madre aveva costretto la figlia quattordicenne a posare nuda in foto, poi si era introdotta nel suo profilo Facebook e da qui, sostituendosi a lei, aveva inviato le immagini a giovani uomini per portarseli a letto. La donna, 54 anni, è stata condannata dal tribunale di Firenze a 7 anni di reclusione per sostituzione di persona, pornografia minorile e maltrattamenti in famiglia. Avrebbe anche indotto la figlia, oggi ventenne, a uscire con un ragazzo contattato grazie alle foto nude. Per lo stress emotivo provocato da questa frequentazione la ragazza era stata anche ricoverata all’ospedale pediatrico Meyer.

Firenze, madre obbliga figlia a farsi foto nuda e si finge lei sui social. Accusata di sostituzione di persona, pornografia minorile e maltrattamenti in famiglia, la 52enne è stata condannata a 7 anni di reclusione. A causa del forte stress emotivo, la ragazzina è finita in ospedale. Federico Garau, Venerdì 28/02/2020 su Il Giornale. Caso choc a Firenze, dove una madre di famiglia ha costretto la figlia minorenne a farsi fotografare nuda per poi inviare le immagini osè a giovani uomini incontrati suoi principali social network. Non solo, stando all'accusa, la donna avrebbe finto di essere l'adolescente per poter parlare con i ragazzi conosciuti online ed intessere delle relazioni con loro. Una storia a dir poco sconcertante quella ricostruita dagli inquirenti che si sono occupati di condurre le indagini. Considerata la giovanissima età della vittima, che ha solo 14 anni, sulla vicenda viene mantenuto il massimo riserbo, ma stando a quanto riferito dai quotidiani locali, che hanno riportato le poche informazioni rilasciate sino ad ora, la madre della minorenne sarebbe già stata condannata. Ancora ignote le ragioni che hanno spinto la donna, una 52enne, ad agire in tal modo. Decisa ad attirare l'attenzione di alcuni ragazzi su Facebook, questa aveva deciso di appropriarsi dell'identità della figlia e di utilizzare il suo profilo personale per conoscere dei ragazzi e conversare con loro in chat. Non contenta, la donna aveva costretto la ragazzina a farsi fare delle foto nuda, così da inviarle ai suoi contatti, probabilmente ignari di stare conversando con una donna adulta. Tutto pur di intraprendere una relazione con uomini più giovani. La 52enne, infatti, fingeva con loro di essere la ragazza ritratta nelle immagini. Col passare del tempo, la situazione non aveva fatto che peggiorare, tanto che la 14enne, già provata dalle continue pressioni della madre, aveva cominciato ad accusare dei malesseri. Oltre a dover assecondare la 52enne e ad accettare che le fosse ormai stata rubata l'identità, la giovane era stata anche costretta a frequentare uno di quei ragazzi conosciuti su Facebook. Decisa a portare avanti la menzogna, la madre l'aveva infatti obbligata ad uscire con il 19enne, il quale a suo tempo aveva ricevuto, come molti altri uomini, le foto di nudo della minorenne. La sofferenza per quanto stava subendo ed il forte stress emotivo avevano infine provocato seri danni alla salute della ragazzina, finita quindi in ospedale, dove è rimasta del tempo ricoverata. Non sono stati ancora forniti dettagli su come siano iniziate le indagini. Ad occuparsi del caso è stato il sostituto procuratore Eligio Paolini, del foro di Firenze, che ha coordinato le indagini condotte dagli investigatori. Incastrata dagli inquirenti, la 52enne è stata quindi dichiarata in arresto con le accuse di sostituzione di persona, pornografia minorile e maltrattamenti in famiglia. Dichiarata colpevole dal giudice del tribunale di Firenze, la 52enne ha ricevuto una condanna a 7 anni di reclusione da scontare dietro le sbarre del carcere. Si attendono ulteriori dettagli sulla vicenda.

Genitori arrestati per abusi sulla figlia: "Concepita solo per violentarla". Arrestate due donne che avrebbero commesso violenze sulle figlie per produrre foto a carattere pedopornografico. In manette anche il padre di una delle piccole: "Concepita solo per violentarla". Giorgia Baroncini, Venerdì 07/02/2020, su Il Giornale. Avrebbero commesso abusi sessuali sulle figlie fin dai primi anni di età. Atti terribili al fine di produrre foto a carattere pedopornografico.

Il padre-orco "istigava" agli abusi. Con questa accusa, due madri sono state arrestate dalla polizia postale della Toscana. Le due donne, una residente a Terni e l'altra a Reggio Emilia, avrebbero commesso per diverso tempo abusi sulle bimbe che hanno meno di 10 anni. In manette, oltre alle due madri, anche un uomo di 40 anni di Grosseto, padre di una delle piccole vittime. Secondo quanto riporta TgCom24, sarebbe stato proprio l'uomo il destinatario del materiale pedopornografico realizzato dalle due donne e inviato attraverso l'app di messaggistica WhatsApp. I tre sono stati arrestati dalla polizia di Firenze nell'ambito dell'operazione 'Dark ladies' volta al contrasto della pedopornografia. In particolare, al 40enne e alla donna di Terni, che hanno una relazione sentimentale, sono stati contestati i reati di pornografia minorile, per aver divulgato notizie e informazioni finalizzate allo sfruttamento sessuale di minori, prodotto materiale pornografico realizzato con minori, nonché di violenza sessuale nei confronti della propria figlia minorenne. Alla donna di Reggio Emilia e di nuovo all'uomo, sono stati contestati i reati di violenza sessuale nei confronti della figlia minorenne della donna, per averla costretta a compiere e subire atti sessuali, reato contestato in concorso tra i due indagati, con l'aggravante per la donna di aver abusato della qualità di madre, nonché di produzione di materiale pornografico. Le due donne avrebbero violentato le loro bimbe, che hanno meno di 10 anni, sin dalla tenera età. Un orrore al solo fine di produrre immagini a carattere pedopornografico che sarebbero poi finite nelle mani del 40enne, padre di una delle bimbe. Secondo le prime indiscrezioni però, il materiale sarebbe stato diffuso anche in rete sulle pagine frequentate da pedofili. Lo scorso agosto, le indagini avevano portato a una perquisizione nella casa dell'uomo dove è stato trovato un ingente quantitativo di materiale pedopornografico. Gli sviluppi investigativi hanno consentito di scovare diversi gruppi su Telegram e WhatsApp su cui circolavano foto di minori. L'analisi forense dei contenuti dei supporti informatici sequestrati al 40enne ha fatto poi emergere la condotta delle due donne. Ora però vengono alla luce altri inquietanti particolari sulla coppia. Il 40enne e la donna di Terni avrebbero deciso di concepire la loro bimba al solo scopo di abusarne sessualmente. Da una "chat tra i due - ha scritto il gip Agnese Di Girolamo nell'ordinanza - emerge come assolutamente verosimile" che la gravidanza sia stata voluta "con il preciso intento di realizzare le fantasie sessuali condivise". Una dichiarazione choc quella del gip. Le madri sono state arrestate in esecuzione di una misura di custodia cautelare in carcere emessa dal gip del tribunale di Firenze. In manette anche il 40enne di Grosseto che avrebbe spinto le due madri agli abusi sulle figlie. Le piccole vittime sono già state affidate ai servizi sociali e condotte in luoghi sicuri.

Da "ilmessaggero.it" il 2 aprile 2020. Daniel Robbins, 21enne di Windor, in Gran Bretagna, ha adorato ogni secondo che ha trascorso con la sua bambina. Aveva grandi progetti per lei e per sua moglie, Leah Cordice, 20 anni, fino a quando il mondo non gli è crollato addosso nel momento in cui ha scoperto di non essere il padre della piccola. Ancora più devastante è stato scoprire che la compagna era rimasta incinta abusando di un ragazzino di 13 anni. In un attimo tutti i suoi progetti sono stati spazzati via: glie è stata portata via la piccola e ha perso sua moglie, che entro la fine della settimana finirà dietro le sbarre per aver compiuto atti sessuali su un minore. «Sono traumatizzato - ha raccontato Dan, apprendista meccanico, al Sun - Scoprire che la bambina non era mia e vedersela portare via. Nonostante tutto non voglio che Leah vada in prigione. Non è una cattiva persona. Stava andando tutto così bene. Avevo un lavoro sicuro, un bel posto, una bella relazione e una figlia bellissima. All'improvviso tutto ciò che amavo mi è stato portato via: mia figlia, mia moglie, la mia casa, il mio lavoro». Dan incontrò Leah nel 2015, quando erano al college, e presto tra di loro sbocciò una storia d'amore. All'inizio del 2017, però, si lasciarono per un breve periodo e Leah, all’epoca 17enne, iniziò a fare la babysitter a un 13enne. È stato in quel periodo che sono iniziati gli abusi. Leah aveva rapporti con il ragazzino tre volte al mese, anche dopo essersi rimessa insieme a Dan. Poche settimane dopo aver fatto sesso con l'adolescente, Leah raccontò al fidanzato di essere incinta. Credendo di essere il padre, Dan ha insistito per sposarsi e mettere su famiglia. «Non avevo intenzione di diventare marito e padre così presto, ma ero comunque sicuro di quello che stavo facendo, ero fiducioso. Non riuscivo a vedermi con nessun altra. Mi fidavo di Leah, lei si fidava di me ed era incinta. Perché non mettere su la nostra famiglia?». Cinque mesi prima del parto, Dan e Leah si sono sposati con una cerimonia alla quale parteciparono pochi amici e parenti. Dopo una breve luna di miele, la giovane coppia si preparò per l’arrivo della piccola. «Mi sono davvero goduto ogni momento della paternità. È stato il momento migliore della mia vita fino al test del Dna». Nel luglio 2018, però, i detective arrestarono Leah, ordinandole di sottoporsi a un test del Dna per provare che il bambino fosse del 13enne. «Il test diceva che l’adolescente aveva 14 milioni di volte più probabilità di me di essere il padre . ha concluso Dan - Questa storia mi ha completamente traumatizzato. Ho perso la mia bambina e ancora non mi sembra vero».

Da "leggo.it" il 18 febbraio 2020. È ripreso a Prato il processo alla donna di 32 anni che ha avuto un figlio da una relazione con un ragazzino a cui faceva ripetizioni: il giovane, ora sedicenne, ha testimoniato ieri in tribunale, nascosto dietro un paravento, dove ha risposto alle domande dei giudici, e ha parzialmente smentito le ricostruzioni della 32enne, attualmente ancora ai domiciliari da quasi un anno. «Il primo rapporto l'ho avuto quando avevo 13 anni, non ricordo il giorno esatto ma era il giugno del 2017», ha detto. Il ragazzo lo ha riconfermato in tribunale, dove la donna con cui ha avuto una relazione e che ha avuto un figlio da lui lo stava ascoltando. Il rapporto amoroso sbocciò durante le ore di ripetizioni che la donna impartiva al ragazzino e da cui è nato un bambino nell'agosto del 2018. La 32enne è a processo per violenza sessuale su minore e violenza sessuale per induzione insieme al marito, suo coetaneo, accusato di alterazione di stato civile per aver riconosciuto un figlio che sapeva non essere suo, come sostengono i pm Lorenzo Gestri e Lorenzo Boscagli.

LA PRIMA VOLTA NEL 2017. Il processo, ieri, riferisce «La Nazione», è ripreso con la testimonianza del baby padre. A volerlo risentire, nonostante l'incidente probatorio dell'aprile scorso, è stato il collegio dei giudici che ha voluto puntualizzare i fatti avvenuti il 21 giugno del 2017, data in cui si sarebbe consumato il primo rapporto sessuale fra i due come emergerebbe da alcune conversazioni su Whatsapp. La donna e l'adolescente non si vedevano da circa un anno, da quando la famiglia del giovane, assistita dall'avvocato Roberta Roviello, ha presentato denuncia mettendo in moto l'inchiesta. E ieri erano tutti riuniti nella stessa aula: l'imputata, il marito, il ragazzo e i suoi genitori.

LEI DICEVA CHE NE AVEVA 14. Il minorenne è stato sentito in modalità protetta nascosto dietro un paravento di fortuna e ha risposto solo alle domande dei giudici. Il 16enne ha ribadito di aver iniziato la relazione quando aveva ancora 13 anni al contrario di quello che sostiene la difesa. L'imputata ha sempre smentito questa circostanza datando l'inizio della relazione al novembre 2017, quando il ragazzo aveva appena compiuto 14 anni. Il minorenne, però, è apparso sicuro e le sue dichiarazioni sono state ritenute dettagliate e ben circostanziate anche se non ricordava il giorno preciso del primo rapporto.

LA PERIZIA PSICHIATRICA. Il dibattimento è alle battute finali. La prossima settimana sarà sentito il neuropsichiatra bolognese Renato Ariatti, incaricato dal tribunale di effettuare una valutazione sulle condizioni psichiche della donna. Nella relazione, già depositata, il professore, che in passato ha seguito il caso di Annamaria Franzoni, la mamma di Cogne, ha ritenuto l'imputata «capace di intendere e volere» sottolineando come non sia «una pedofila» ma che sia stata attratta solo dal quel ragazzino in particolare. La sua perizia sarà messa a confronto con quella del consulente della difesa. La discussione è prevista a marzo.

AI DOMICILIARI DA 11 MESI. La questione di datare con esattezza il primo rapporto sessuale è importante perché potrebbe alleggerire o aggravare la posizione dell'imputata, difesa con il marito dagli avvocati Massimo Nistri e Mattia Alfano. L'udienza è durata poco più di due ore e il ragazzo insieme ai familiari è stato fatto passare da una uscita secondaria in modo da non incontrare la donna. La coppia, invece, come sempre presente al processo, è arrivata e ha lasciato il tribunale unita. L'imputata è agli arresti domiciliari da undici mesi.

Andrea Scaglia per ''Libero Quotidiano'' il 16 febbraio 2020. È sempre così, no? Quattro o cinque giorni a straparlare di una vicenda, a sviscerare e interpretare e proiettare in favor di telecamere e di social (con il consueto tono da «signora mia, ma dove siamo arrivati...») e poi, quando i telespettatori iniziano ad averne a noia, i riflettori vengono prontamente girati in un' altra direzione e ciao, chi s' è visto s' è visto. E se da una parte, dopo che il quarantesimo sedicente esperto ha detto la sua senza peraltro saperne punto, ci si può dire sollevati, dall' altra si dimentica che, in genere, la vicenda in questione passa silenziosamente ma inesorabilmente nella dimensione più viscosa e labirintica, quella propria del nostro sistema giudiziario. E può assumere contorni surreali. La storia, emersa nel marzo dell' anno scorso, è quella della donna di Prato, oggi 35enne, che un paio di estati fa ha avuto una relazione con l' adolescente a cui dava lezioni private d' inglese, relazione da cui è nato anche un bambino. Ricordate? Tutt' Italia ne ha parlato con morbosa passione, divisa fra coloro che additavano la signora - già sposata e mamma di un altro bimbo - a stupratrice senza scrupoli, e quelli che invece si davano di gomito, «ma se il maschietto è stato in grado di coricarsi con la prof, significa che non l' ha fatto così controvoglia...». Lui si diceva sconvolto dalle pressioni di lei, pareva fosse impazzita, lo tempestava di messaggi, le scriveva «mi hai rovinato la vita». Lei che ammetteva di essersi innamorata di quel baldo giovanotto che dimostrava più della sua età, e però rimarcava come lui fosse del tutto consapevole e consenziente. In mezzo, il marito di lei, convinto di essere il papà anche di quel piccolo appena nato, rimasto al fianco della moglie anche dopo l' esplosione dello scandalo, e che continua a fare da papà a tutti e due i bambini - d' altronde, papà è chi sceglie di esserlo, non chi ci mette solo la sostanza biologica. Il processo, iniziato lo scorso settembre, è in corso - e meno male che è stato scelto il rito abbreviato. Tutto si gioca sull' età del ragazzino: l' accusa sostiene che i rapporti sessuali con la donna sono iniziati quando lui aveva ancora 13 anni, cosa che prefigurerebbe il reato di violenza sessuale per induzione su minore, poiché il codice penale stabilisce che a quell'età le persone non abbiano ancora sviluppato sufficiente consapevolezza delle proprie scelte. La difesa, invece, ribatte che invece di anni ne aveva già 14, e dunque l' atto non sarebbe punibile. E qui, se in effetti ci si rende conto di come la legge per forza debba basarsi su limiti e restrizioni che possono a volte risultare ondivaghi e arbitrari, fa pensare il fatto che - per dire - qualche settimana in più o in meno in ordine all' atto consumato può rappresentare la distanza fra un' assoluzione e una condanna durissima. Difficile prendere una posizione perentoria, in una vicenda del genere. E difficile è soprattutto il compito di chi dovrà giudicare. E però noi cronisti osserviamo piuttosto sbigottiti quelli che, evidentemente, sono passaggi obbligati. Si viene ora a sapere, per esempio, che la donna è stata sottoposta a perizia psichiatrica - peraltro da parte del neuropsichiatra che già si occupò del famoso delitto di Cogne, col bimbo massacrato e la madre condannata. Ecco: le analisi hanno stabilito che la donna era ed è capace di intendere e di volere. Ma perché, c' era qualche dubbio? Giusto sgombrare il campo da qualunque possibile ipotesi, ma davvero qualcuno credeva che la passione della signora, certo mal indirizzata, potesse configurare addirittura un disturbo mentale così grave da inibire l' uso della ragione? Riavvolgendo poi il nastro di questa storia peraltro meno inusuale di quanto si possa pensare, ci si ricorda di come sia stato sottoposto all' esame del Dna anche l' altro bambino della coppia, che oggi ha dieci anni. Ma perché? È stato accertato che lui, invece, è effettivamente pargolo naturale di colui che ha sempre chiamato papà. E dunque? Qualora non lo fosse stato, in che modo sarebbe cambiata la vicenda processuale? Boh, più che un processo pare una trasmissione di gossip. Ancora un paio di cose. Nel processo in questione è imputato anche il marito, in quanto si è intestato una paternità non sua. Ora, a parte il fatto che il malcapitato ha saputo di non esserlo parecchi mesi dopo la nascita del bimbo, ma che cosa avrebbe dovuto fare? Ripudiarlo? E poi: si viene a sapere che l' imputata, dopo quasi un anno, è ancora agli arresti domiciliari. Ma perché? Ricordiamo che, per tenere una persona in custodia cautelare durante il processo, sono necessarie tre condizione: il pericolo di fuga (figuriamoci); la possibilità di reiterazione del reato (in questo caso impossibile); il fatto che potrebbe inquinare le prove (e come?). Questa 35enne ha certamente fatto qualcosa di censurabile, e nessuno vuole sminuire i traumi che al ragazzino ne possono essere derivati, ma pare si sia davanti a una pericolosa criminale. E niente, in questa delicata vicenda della prof che ha fatto un figlio con l' alunno troppo giovane, la vera indecenza pare essere rappresentata dal nostro sistema giudiziario. Ma questa non è una notizia.

(ANSA-AFP il 18 febbraio 2020) - I Boy Scouts of America hanno presentato domanda di bancarotta, a causa delle numerose richieste di risarcimento presentate da ex membri del gruppo giovanile rimasti vittime di abusi sessuali. L'organizzazione ha dichiarato di volere istituire un fondo di compensazione. L'avvocato delle vittime Jeff Anderson lo scorso anno ha denunciato che più di 12.000 membri dei Boy Scout sarebbero stati oggetto di abusi sessuali a partire dal 1944. Lo scandalo era esploso per la prima volta in un caso giudiziario del 2012. Fondati nel 1910, i Boy Scouts of America hanno circa 2,2 milioni di membri tra i 5 e i 21 anni, secondo l'organizzazione.

Giuseppe Sarcina per il “Corriere della Sera” il 19 febbraio 2020. I boys scout d' America hanno perso da tempo l' innocenza. Ora rischiano di essere travolti nei tribunali del Paese da almeno duemila denunce per abusi sessuali. Jim Turley, il presidente della più famosa organizzazione giovanile del mondo, ha dichiarato bancarotta in Delaware: un modo per limitare i danni e pilotare le cause di risarcimento. Turley ha giustificato l' iniziativa con una lettera aperta rivolta alle vittime: «Sappiate che noi vi crediamo, vogliamo riparare e abbiamo un programma per pagare le vostre spese legali». L' organizzazione venne fondata nel 1910 da William Boyce, dal naturista Ernest Thompson Seton e da Daniel Carter Beard, che si ispirarono alle idee del generale inglese Robert Baden Powell, il padre dello scoutismo mondiale. Nel 1916 il presidente Woodrow Wilson riconobbe ufficialmente «il valore educativo» del contatto con la natura e le esperienze di vita collettiva. Da allora la divisa da boy scout diventò parte della formazione di almeno cinque-sei generazioni. Una foto da «lupetto», da «esploratore» o da «avventuriero» si trovava nell' album dei ricordi in tante case americane. Comprese quelle delle personalità più in vista: almeno quattro presidenti, Gerald Ford, Bill Clinton, George Bush, Barack Obama; Neil Armstrong, il primo uomo sulla Luna; Bill Gates e diversi attori, da John Wayne a Harrison Ford. Oggi la popolarità dell' organizzazione non è più quella dei tempi andati. Ancora negli anni Settanta gli iscritti erano circa cinque milioni, oggi sono 2,4, comprese circa 320 mila ragazze, le «girl scout», ammesse dal 2017. Ombre, accuse infamanti. Tim Kosnoff è un avvocato di Houston che da quarant' anni si occupa di pedofilia e di abusi sessuali sui minori. Dopo essersi dedicato a vicende che coinvolgevano i mormoni e la Chiesa cattolica, con altri legali ha fondato il gruppo «Abused in Scouting». È una piattaforma di assistenza che raccoglie storie vecchie e nuove: i testimoni hanno dagli otto ai 93 anni. Kosnoff ha già messo insieme circa duemila denunce, diffuse in maniera capillare in tutto il Paese. È un lavoro di ricostruzione difficile e penoso nello stesso tempo. Si è scoperto, come scrive il New York Times , che i Boy Scout hanno custodito almeno ottomila schede di animatori sospettati di aver molestato bambini e adolescenti. Sono i cosiddetti «The Perversion Files». Sul sito di Kosnoff si legge: «I leader dell' organizzazione presumibilmente crearono un sistema per mantenere riservati questi file e fecero di tutto per evitare che le informazioni fossero scoperte...I predatori sessuali approfittavano dell' innocenza dei ragazzini. Conquistavano la loro complicità consentendo loro di bere alcolici, di guidare le macchine, di guardare immagini pornografiche. Poi gradualmente entravano nella loro intimità, con attività come le docce di gruppo, nuotate senza costume, i pernottamenti in campeggio». La scoperta più sconcertante è che tra il 1970 e il 1991 il gruppo dirigente degli Scout ha coperto quasi tutti gli scandali, senza riferirne alla polizia. I molestatori sono stati semplicemente allontanati dall' associazione. Ma ora la stagione dell' omertà è finita. Le vittime escono allo scoperto, con una convinzione che ricorda la catena di denunce di donne abusate, sull' onda del movimento #MeToo. C' è qualche precedente giuridico. Una ventina di anni fa un tribunale dell' Oregon condannò i boy scout a versare 18,5 milioni di dollari a titolo di risarcimento. Ecco perché il gruppo dirigente dell' associazione ha scelto di proteggersi con la legge sulla bancarotta. I dati di bilancio pubblicati sul sito, e aggiornati al 2017, sono chiari. In cassa ci sono circa 45 milioni di dollari e il patrimonio netto si aggira sui 217 milioni. La maggior parte dei ricavi proviene da finanziamenti pubblici comunali e statali, da donazioni di imprese private. Tutte risorse che consentono di mantenere bassa la quota di iscrizione: solo 33 dollari all' anno. Sarà un problema, dunque, fare fronte alla grandinata di ricorsi e sarà ancora più difficile riprendersi da quella che è, prima di tutto, una bancarotta etico-morale.

Anticipazione da “Oggi” il 19 febbraio 2020. Michela Morellato, la showgirl di Vicenza sposata a un soldato americano che aveva fatto prepensionare il generale della base Usa di Vicenza col quale aveva avuto un flirt e dal quale sarebbe stata molestata, racconta in esclusiva sul settimanale OGGI la sua nuova impresa. La giustizia federale americana ha accettato la sua denuncia contro gli Stati Uniti d’America. «Ho chiesto un risarcimento di 5 milioni di dollari. All’inizio pensavo di chiederne solo 2, ma poi ho scoperto che mi avevano ingannata, promettendo di nascondere il mio nome nella denuncia per molestie, e invece l’hanno spifferato a tutti, ed ero stata bullizzata». E a chi gli fa notare che una causa contro gli Stati Uniti sembra impari, lei risponde: «Gli americani sono così potenti che diventano arroganti. Guardi la vicenda del Cermis, o quella di Chico Forti… Io i piedi in testa non me li faccio mettere da nessuno. E con un’amica americana stiamo portando alla luce tanti casi di molestie che l’esercito ha insabbiato. Anche il New York Times ne ha parlato».

Il boss che uccise la moglie si fingeva pazzo: incastrato dai pizzini ai genitori. Pubblicato sabato, 15 febbraio 2020 su Corriere.it da Giusi Fasano. È il 20 maggio 2019, carcere di Viterbo. Un detenuto sta parlando con sua madre nella sala colloqui. Gli agenti di guardia notano «un passaggio furtivo e repentino» di qualcosa fra i due. Quando lei esce viene perquisita ed ecco il risultato: nel reggiseno la signora nasconde «due pizzini di carta manoscritti dal detenuto, uno con inchiostro rosso e uno con inchiostro blu». Erano le istruzioni che il figlio detenuto aveva scritto per i genitori su come comportarsi per aiutarlo a sembrare matto, confidando, evidentemente, nella pronuncia dell’infermità o seminfermità mentale. E invece è andata male. Mai pizzini hanno ottenuto effetto più contrario a quello sperato. Con una sola mossa l’autore — e cioè il camorrista Salvatore Tamburrino, 41 anni, ex affiliato del clan Di Lauro e oggi collaboratore di giustizia — è riuscito a perdere credibilità, a creare i presupposti per una condanna a 30 anni nonostante il rito abbreviato e a diventare motivo di guai giudiziari per sua madre (che per la verità si è guardata bene dal negare il favore al figlio). Nel carcere di Viterbo Tamburrino c’era finito per l’omicidio di sua moglie Norina, 33 anni: la uccise a colpi di pistola il 2 marzo 2019 nella casa dei genitori di lei, a Melito (Napoli) e poi andò a costituirsi. Le cronache locali raccontarono che nell’ascensore della questura lui rivelò ad alcuni poliziotti il nascondiglio di Marco Di Lauro, rampollo del potente clan di Scampia e Secondigliano, figlio del boss Paolo Di Lauro e latitante dal 2004. «Vi dico dove si trova Marco» annunciò Tamburrino. Ma in cambio (come scrisse Il Mattino) «vorrei riabbracciare un’ultima volta i miei figli». Non è dato sapere se poi l’abbraccio ci sia stato. Di sicuro c’è stata la sua collaborazione davanti ai magistrati della procura antimafia di Napoli e ci sono stati i provvedimenti per mettere sotto protezione la sua famiglia. Lui si è ritrovato nel carcere di Viterbo, appunto, per l’omicidio di Norina e dopo nemmeno tre mesi di cella ha escogitato il piano per uscirne alla svelta. Tutto scritto nei pizzini per i genitori. Uno dei due fogliettini in particolare dice: «Allora fatemi fare a modo mio. Prossimi colloqui li rifiuto se non c’è Norina. Cioè, voi venite per un paio di volte solo che io rifiuto perché chiedo se c’è mia moglie, poi non venite più finché non ve lo dico io. State sereni, però. Ci vuole un po’ di tempo, stai al mio gioco ok? Mandami mail di conferma che stai al mio gioco. Cioè scrivimi che Norina non è possibile che viene e che venite voi. Poi io rispondo, così capisco e rifiuto, ok? Tienitelo per te papà, non dire niente a nessuno. Lo devono credere così parlano (...) Attenzione, non parlare in auto, no a casa, non con telefono addosso in strada». Missione completamente fallita. Invece di far valere in aula la sua finta seminfermità mentale Salvatore Tamburrino ha ottenuto il risultato dell’ergastolo malgrado il rito abbreviato scelto per avere lo sconto di un terzo della pena (quasi sempre accordato dal giudice dell’udienza preliminare). Ergastolo. Con l’associazione «Al posto tuo» (rappresentata in aula dall’avvocatessa Loredana Gemelli) ammessa come parte civile. E con il gup Barba Del Pizzo che ha preso atto della «scaltrezza criminale» di Tamburrino «nel cercare di rappresentare una realtà ben diversa» della quale cui si parla nelle carte delle indagini. Negli atti d’inchiesta si descrive una Norina che «solo dopo anni, finalmente aveva trovato il coraggio di liberarsi dallo stato di schiavitù che le vietava di condurre una vita serena e di curare la sua persona, come aveva sempre desiderato». Lui la maltrattava «anche in presenza dei figli che intervenivano per bloccare la sua ferocia». La figlia ha raccontato agli inquirenti di quando lui le sbatteva la testa sul tavolo, di quando provò a strangolarla, di quando la umiliava e la feriva a parole, delle volte che buttava tutto per terra e le ordinava di rimettere a posto, della sua soddisfazione nel vederla chinata a pulire come una schiava. Dice la ragazza che il suo fratellino è un ingenuo e invece «mio padre lo voleva molto più cattivo». E allora, quando i comportamenti del ragazzino non gli piacevano perché non abbastanza aggressivi «gli dava pugni nello stomaco tanto forti da farlo piangere». Pugni nello stomaco. Come quello che metaforicamente deve aver ricevuto lui qualche giorno fa sentendo quella parola: ergastolo.

Da orco a vittima per i “falsi ricordi” di moglie e figlia. Le Iene News il 21 febbraio 2020. Nina Palmieri racconta l’incredibile vicenda di violenze in famiglia, per i quali un padre è stato condannato a 5 anni di prigione. Una condanna che nasce dalle terribili deposizioni di mamma e figlia. Ma quei racconti erano reali? Se lo chiede la nostra Iena, che scopre come la mente umana possa fabbricare dal nulla un mostro, da sbattere in prima pagina e in una cella. “Non lo so quanto resisto ancora qua dentro, sono distrutto”. Sono le parole disperate di un uomo, Alessandro Irco, un padre mandato in galera dalle pesantissime accuse dell’ex moglie e della giovane figlia. Una storia drammatica, che però forse non è proprio come sembra. Nina Palmieri raccoglie infatti i ricordi di Erika, la figlia dell’uomo accusato di essere stato un orco violento, tra botte e abusi sessuali. All’inizio la memoria è quella di un padre amorevole, presente e affettuoso. “Era un bambinone, cantavamo sempre insieme”. È con l’adolescenza e le prime uscite tra amici e ragazzini che quel padre sembra cambiare nel ricordo di Erika tra botte e soprusi che non avrebbero risparmiato neanche sua madre. Quando il padre perde il lavoro, inizia un incubo fatto di alcol, violenza, soldi buttati al videopoker. “Ha cominciato a giocare tutti i soldi che avevamo e si arrivava sempre alle mani”, racconta in un primo tempo la ragazza. E così Erika finisce per attaccarsi ancora di più alla sua unica difesa, la madre. Ed è qui che la ragazza, probabilmente, inizia ad assimilare i racconti della madre e a farli propri nella sua testa. “Io ascoltavo la mia mamma che mi diceva che mio padre la obbligava anche ad avere rapporti sessuali, picchiandola e minacciandola”, dice Erika. E sempre come conseguenza dei racconti della madre, la ragazza percepisce di essere in pericolo. La paura la fa chiudere in casa. Per lei quell’uomo adesso è diventato “un mostro”. “Temevo che potesse ammazzarmi o violentarmi”, racconta Erika. La giovane vuole proteggere la sua mamma: “La vedevo sempre con gli occhi ribaltati all’indietro, quasi incosciente”. Un ricordo che la ragazza pensa che sia dovuto “a quelle botte”. O almeno è quello che ha sempre pensato per molto tempo. Si fa coraggio e porta via da quella casa la madre. Decidendo anche di denunciare il padre per le violenze che avrebbe compiuto sulle due donne. La madre mette nero su bianco tutti i suoi racconti: “Da 7 anni mio marito picchiava i nostri figli. Mi obbligava a rapporti orali, la sera prendevo una dose grande di psicofarmaci per stordirmi e per non sentire le sue violenze”. Anche Erika viene chiamata a fare la sua deposizione e conferma tutto quello che la madre ha raccontato, parlando anche di violenze subìte dal padre in prima persona: “Ero molto arrabbiata, volevo solo che sparisse in quel momento”. L’uomo va in carcere: il 18 dicembre 2019 ci entra per scontare una condanna a 5 anni per violenza e maltrattamenti in famiglia. Ma siamo davvero sicuri che tutto quello che è stato raccontato e scritto sulla denuncia sia vero? Forse no, se mamma e figlia arrivano a chiamare Le Iene per salvare in qualche modo l’uomo che hanno mandato in prigione. “In realtà non è la verità, mio padre è innocente ed è in carcere per colpa mia e di mia mamma. Se non lo tiriamo fuori rischia che si ammazzi…”, ci dice Erila. Questa consapevolezza drammatica inizia tre anni fa quando Erika diventa madre. La madre le ha sempre impedito di rivedere l’uomo ma la giovane si fa forza e decide di incontrarlo, anche per dargli l’opportunità di fare il nonno. E lì, a contatto col padre, la giovane capisce che la storia è completamente diversa. “Mio padre mi ha mostrato un telefono in cui c’erano messaggi tra mia madre e lui, messaggi che hanno smontato tutta la mia vita. Ho scoperto che mia madre dice che la denuncia l’avevo fatta io, che io mi sono inventata tutto e scopro anche che loro due avevano una relazione nascosta, dopo la denuncia”. Una scoperta che provoca nella testa di Erika una sorta di blackout della memoria. La giovane capisce che è stata vittima di tutta quell’atmosfera di tensione che si viveva in casa, dei ricordi della madre e di falsi ricordi fatti propri. E così, sbloccata la memoria di quegli anni, Erika cambia versione con Nina Palmieri: “In casa non c’era di certo la pace, ma io di fatto non ho mai visto uno stupro, un calcio, non sono mai stata ammazzata di botte. Qualche schiaffo è volato, perché me lo meritavo…”. La causa delle sue vecchie convinzioni? Lo racconta lei stessa alla Iena: “La mamma raccontava e io credevo a tutto. Quei racconti fermentavano nella mia testa, io ero convinta di quello che dicevo e facevo, pensavo di doverla proteggere da quel mostro”, racconta tra le lacrime. Nella testa di Erika c’è ancora un enorme buco nero: quando Nina le mostra le dichiarazioni contenute nelle denunce nei confronti del padre, non ricorda nulla. Decidiamo di andare a parlare con l’altra metà di questa storia, la madre di Erika. E anche lei conferma, di fatto, che si è trattato di accuse del tutto false: “Se possiamo salvare questo uomo, salviamolo. C’è un innocente in carcere!”. “Eravamo una famiglia felice. Non c’era violenza sessuale, nulla. Io lo amavo”, continua. Quando le facciamo vedere le sue denunce, le spiega in questo modo: “Io ero sotto effetto di farmaci, quando l’ho denunciato ero sotto quell’effetto”. Farmaci che, racconta la donna, sarebbero stati proprio la causa dei racconti di violenze e stupri. Racconti raccolti dalla giovane figlia Erika e poi passati ai carabinieri attraverso le denunce. “È stato un dramma per tutti, ho creato io quel caos. Mi hanno rovinato la vita quegli psicofarmaci, mi dispiace veramente tanto”, cerca di giustificarsi, disperata, la madre di Erika. La donna aggiunge poi anche un’altra circostanza, molto importante: “In seguito ho cercato di ritirare la denuncia, ho dichiarato che non c’è stata nessuna violenza sessuale”. Il processo intanto prosegue e arriva al primo grado di giudizio, che finisce con la condanna dell’uomo. Nonostante la donna in aula racconti che col marito si facesse l’amore senza alcuna costrizione, Alessandro viene condannato a 8 anni di carcere. Erika chiede di parlare ma senza fortuna: “Non mi è stata data la possibilità di farlo”, racconta a Nina Palmieri. La madre in Appello, dopo avere smontato le sue precedenti accuse, presenta un certificato medico che spiega che “quelle pastiglie avevano influenza sulle sue capacità cognitive e mentali. Gli stessi farmaci creavano una realtà diversa da quanto avvenuta con il signore Irco Alessandro”.  E se da un lato la donna chiede che non si proceda penalmente contro di lui, i giudici lo condannano a 5 anni. In Cassazione, tutta la famiglia è di nuovo unita nel desiderio di vedere riconosciuta l’innocenza di Alessandro, ma il tribunale conferma la condanna del secondo grado: l’uomo deve andare definitivamente in prigione.

La madre conferma di non voler abbandonare la sua battaglia a favore del marito: “Sono disposta a qualsiasi cosa per tirarlo fuori dal carcere, perché è innocente”. Alessandro, intanto, dalla cella grida tutta la sua disperazione: “Non ce la faccio più. Non so quanto resisto ancora qua dentro. Fai qualcosa, Erika…”.

DAGONEWS il 5 febbraio 2020. Un filmato orribile mostra la lapidazione di una donna afghana uccisa da una folla: nella clip si sente la vittima che piange mentre si rannicchia in una fossa mentre alcuni la picchiano e urlano "Allahu Akbar" e altri curiosi si accalcano per assistere all’omicidio. Un portavoce del presidente afghano Ashraf Ghani ha puntato il dito contro i talebani, accusando il gruppo di "crudeltà e atrocità". Ma i talebani hanno subìto replicato parlando di un filmato vecchio, risalente al 2015. Una giustificazione che non è bastata agli attivisti dei diritti umani che credono che la lapidazione sia recente e stanno cercando di capire perché la donna sia stata uccisa. Laila Haidari, attivista afgana, ha detto sabato che i talebani hanno lapidato la donna "pochi giorni fa" nella provincia di Ghor: «l’atrocità della violenza e ciò che possono fare contro le donne in assenza di legge è chiaramente visibile. Dobbiamo pensare a come resistere a questo orrore». Sediq Sediqqi, portavoce del presidente Ashraf Ghani, ha direttamente accusato i talebani di aver ucciso la donna: «Sono assolutamente scioccato e rattristato dopo aver visto un video su Twitter in cui un gruppo di talebani lapida una donna innocente. La crudeltà e l'atrocità dei talebani in nome dell'Islam è un crimine contro l'umanità». Cercando di scaricare le colpe, il portavoce talebano Zabiullah Mujahid ha affermato in risposta che il video aveva diversi anni, riferendosi alla lapidazione avvenuta nel 2015 di Rokhshana, una donna accusata di adulterio, la cui colpa era stata quella di fuggire con il fidanzato di 19 anni, rifiutando l’uomo a cui era stata promessa. Sebbene la lapidazione sia illegale ai sensi della costituzione afgana, è vista come una punizione legittima secondo i talebani. Quando i talebani erano al governo in Afganistan dal 1996 al 2001, le adultere venivano lapidate o uccise.

Manila Alfano per “il Giornale” il 4 febbraio 2020. Strappata dalla sua casa e violentata. Aspettavano solo il momento buono per entrare in azione e quando la bambina si è trovata sola in casa, il commando è entrato in azione. Tre uomini contro le grida e i calci di una ragazzina. Huma se n' è andata via così, a 14 anni, senza più rivedere i suoi genitori. Andava alle medie, fino al giorno in cui l' hanno presa. Uno dei tre l' ha violentata e l' ha costretta a sposarlo. «Si è convertita all' islam», ha assicurato davanti alla Corte del Pakistan. C' è anche un video, ancora più assurdo di Huma che in una stanzetta ammette senza convinzione di «aver fatto volontariamente queste scelte». Ma chi può far finta di crederci? I giudici dell' Alta corte del Sindh a Karachi, hanno stabilito che anche se Huma Younus è stata sequestrata, convertita con forza dal cristianesimo all' islam e costretta a sposarsi minorenne, il matrimonio con il suo rapitore Abdul Jabbar è valido perché secondo la sharia, la legge islamica, una volta avuto il primo ciclo mestruale una bambina di qualsiasi età può contrarre matrimonio. Di qualsiasi età. A lanciare l' appello è «Aiuto alla Chiesa che Soffre», che si è anche fatta carico delle spese processuali. «È l' ennesima sconfitta della giustizia e la riprova che lo Stato non considera i cristiani dei pachistani», ha commento Nagheena Younus, madre della bambina rapita. Il Pakistan che mostra il suo lato più ipocrita, primitivo e tribale. Spose bambine le chiamano. In realtà sono schiave, rubate o vendute dalla famiglia a uomini più grandi. Vittime fragili e abbandonate di un sistema che finge di tutelarle ma non le vede e non le sente piangere. Eppure la legge contro le spose bambine del 2014 doveva essere il progetto per garantire l' ingresso nella modernità a un Paese così intimamente arretrato. Questa poteva essere la volta buona, almeno questa era la speranza dei genitori di Huma che si sono battuti per lei. «Speravamo che il Child marriage restraint act, potesse essere applicata per la prima volta- ha affermato l' avvocata Tabassum Yousaf - ma in Pakistan queste leggi vengono formulate e approvate solo per accreditare il Paese agli occhi della comunità internazionale, chiedere fondi per lo sviluppo e commerciare gratuitamente i prodotti pachistani nel mercato europeo». La 14enne, rapita il 10 ottobre, avrebbe dovuto presentarsi in aula, come richiesto dai giudici al poliziotto incaricato delle indagini Akhtar Hussain. Ma Huma non c' era. Interrogato sull' assenza della ragazza, l' agente si è limitato a dire che la giovane era stata convocata. Sin dall' inizio della vicenda Hussain è sospettato di complicità con il marito rapitore. Ma proprio al poliziotto è stato dato mandato dai giudici di far effettuare una visita medica per attestare l' età della ragazzina. «È chiaro che c' è un' alta probabilità che i risultati vengano contraffatti. Ma la nostra speranza è di riuscire a provare la minore età così da farla almeno affidare ad un centro». La prossima udienza è fissata per il 4 marzo ma, anche fosse attestato che Huma è minorenne, la decisione dei giudici di ritenere il matrimonio valido annulla qualsiasi possibilità che Jabbar venga punito per i reati di rapimento e matrimonio forzato. Ecco. I forti restano tutelati comunque. Per Huma e per le oltre mille bambine che ogni anno vengono rapite, stuprate, convertite con la forza all' Islam e costrette a sposare il loro rapitore la strada è solo in salita.

Giampiero Mughini per Dagospia il 5 febbraio 2020. Caro Dago, ieri sera stavo leggendo un vecchio libro di Arthur Koestler – un gigante del tempo aureo della mia giovinezza – e non ho acceso il televisore ad illuminare il noto teatro sanremese. Ho poi letto sui giornali di oggi le paginate e paginate su fesserie varie e qualcosa di interessante accaduta ieri sera in quel di Sanremo. Su tutte il monologo di Rula Jebreal sulla fenomenologia della violenza di mille e mille uomini sulle donne, monologo che ho poi ascoltato con grandissimo interesse nel video che poco fa hai offerto tu, Dago. C’è però una cosa che è del tutto preliminare al mio ragionamento di essere umano di sesso maschile. Ossia che le cose dette dalla Jebreal sono per me l’abc di ogni ragionamento possibile sulla materia. Nessuno ma proprio nessuno deve insegnarmi che cosa pensare sul modo in cui erano vestite delle donne che hanno subito violenza. Nessuno ma proprio nessuno mi deve insegnare alcunché su come e quanto rispettare le donne sempre e comunque. Nessuno ma proprio nessuno mi deve fare prediche antimaschiliste perché io del maschilismo in ogni suo aspetto mi pulisco le suole delle scarpe. Nessuno deve insegnarmi nulla da uomo che si guarda tutte le mattine allo specchio e non vuole essere turbato da quello che vede. Tutto ciò energicamente premesso, comincia il gran romanzo dei rapporti possibili e dei rapporti reali tra uomini e donne. Rapporti complessi, ricchi di sfumature e mezze tinte, dove i buoni e i cattivi non sono sempre gli stessi e le stesse. Sfumature e mezze tinte di cui straborda la letteratura di ogni tempo, altro che i commenti idiotissimi di qualche idiota al cubo su come vestivano delle donne che sono state aggredite e abusate. Ecco, su tutta la realtà di questo romanzo fatto di mille colori e mille suoni e mille parole mi piacerebbe molto ascoltare qualche monologo, fregandomene un beatissimo se a pronunciarlo fosse un uomo o una donna. Dato che la distinzione essenziale non è tra uomini e donne e bensì tra esseri umani e bestie.

La Procura di Brindisi ha chiesto il processo per una donna di 37 anni accusata di atti persecutori nei confronti del marito 44enne. La Gazzetta del Mezzogiorno il 05 Febbraio 2020. La Procura di Brindisi ha chiesto nei giorni scorsi il rinvio a giudizio di una 37enne di Oria, per il reato di atti persecutori nei confronti del marito 44enne, anch’egli di Oria e appartenente alle forze dell’ordine. Quest’ultimo ha denunciato di aver dovuto cambiare il proprio stile di vita a causa dei comportamenti della moglie, essendo sprofondato «in un perdurante stato di preoccupazione e ansia per la sua stessa incolumità». In particolare, secondo l’accusa, la donna si sarebbe resa autrice di diversi danneggiamenti nella casa coniugale e avrebbe seguito e spiato il coniuge. Tra le altre cose - secondo le accuse -, avrebbe abbattuto un muro dell’abitazione, rotto una chiave nella toppa della serratura, manomesso l’antenna della tivù e gli impianti dell’allarme e delle telecamere di sorveglianza, tentato di allagare l’appartamento. In un’occasione, sempre secondo le accuse, si sarebbe scagliata per strada contro l’uomo, poi costretto a rifugiarsi in casa per evitare la colluttazione; in un’altra si sarebbe impossessata di tutti i vestiti della figlia minore per impedirle di trascorrere una vacanza col padre; in un’altra ancora avrebbe posato sul letto un mazzo di fiori finti per intimidire il coniuge. Questi, in precedenza, aveva chiesto la separazione con addebito dalla stessa, avendone scoperto e, a quanto pare, documentato, una relazione extraconiugale. Secondo il marito, le condotte della moglie potrebbero essere state provocate da una reazione alla sua scoperta ma sono vicende che saranno chiarite in ogni suo aspetto nell’eventuale processo per stalking a carico della donna o già nel corso dell’udienza preliminare. La pubblica accusa è sostenuta dal sostituto procuratore Giovanni Marino, che ha chiesto il rinvio a giudizio dell’indagata, anche sulla scorta delle indagini condotte dai carabinieri della Stazione di Oria che avevano raccolto la denuncia del marito. L’udienza preliminare sarà celebrata il 12 maggio dinanzi al Gup Tea Verderosa. L’uomo - dal canto suo - si riserva la costituzione di parte civile nell’eventuale processo. Una vicenda che in Oria ha destato un certo scalpore dal momento che i protagonisti sono persone abbastanza conosciute. Sarà il giudice, dunque, sula scorta delle indagini dei militari dell’Arma e della denuncia dell’ex marito, a decidere se rinviare a giudizio o meno la donna.

(ANSA il 3 febbraio 2020) - Era stato trovato carbonizzato nella sua auto a Roccella Jonica nel novembre scorso. E ora dalle indagini emerge una pesante accusa nei confronti della moglie, arrestata questa mattina insieme all'amante e al figlio del primo matrimonio. L'auto sarebbe stata data alle fiamme mentre era ancora vivo. I Carabinieri di Reggio Calabria, dalle prime ore di questa mattina, con il coordinamento della Procura della Repubblica di Locri, stanno dando esecuzione all' ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal gip presso il Tribunale di Locri nei confronti dei tre. I tre sono ritenuti responsabili, in concorso tra loro, dell'omicidio di Vincenzo Cordì, avvenuto nella Locride tra il 12 e il 13 novembre dello scorso anno. Le indagini dei Carabinieri di Roccella Jonica, partite dal rinvenimento del corpo carbonizzato all'interno dell'auto, hanno consentito di far luce sul delitto e sul movente, inquadrato nell'ambito familiare. Ulteriori approfondimenti saranno resi noti nella mattinata. Alle 17:00, il Procuratore della Repubblica di Locri, Luigi D'Alessio, terrà una conferenza stampa presso il Gruppo Carabinieri di Locri in cui ricostruirà l'intera vicenda e come si arrivati a scoprire gli autori dell' omicidio.

Bruciato vivo in auto, svolta nel giallo di Roccella: arrestata moglie, amante e figlio della donna. Redazione de Il Riformista il 3 Febbraio 2020. I carabinieri di Reggio Calabria, dalle prime ore di questa mattina, con il coordinamento della procura di Locri, stanno dando esecuzione ad un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal gip di Locri nei confronti di tre persone, ritenute responsabili, in concorso tra loro, del grave fatto di sangue avvenuto nella Locride a cavallo tra il 12 e il 13 novembre dello scorso anno.

Le indagini dei militari dell’Arma di Roccella Jonica, partite dalla scoperta del cadavere bruciato di Vincenzo Cordì all’interno della propria auto, hanno consentito di far luce su uno dei più efferati omicidi degli ultimi tempi: l’uomo è stato bruciato in auto ancora vivo. Tra gli arrestati c’è la moglie dell’uomo, l’amante e il figlio del primo matrimonio.  Susanna Brescia, 43 anni, moglie dell’uomo, disoccupata, con precedenti di polizia per reati contro la pubblica fede e il patrimonio, è stata arrestata così come Francesco Sfara, 22 anni, figlio di un precedente matrimonio della donna, disoccupato, con precedenti di polizia per reati contro il patrimonio, e Giuseppe Menniti, 41 anni, operaio, pregiudicato per reati in materia di stupefacenti e con precedenti di polizia per reati contro la pubblica fede, “legato da una relazione sentimentale con Susanna Brescia”. Nella tarda serata dell’11 novembre scorso, secondo quanto emerso dalle indagini, Susanna Brescia, con l’inganno, ha dapprima condotto Vincenzo Cordì in località Scialata del Comune di San Giovanni di Gerace e, successivamente, con il concorso di Francesco Sfara e Giuseppe Menniti lo ha tramortito, cosparso di benzina e gli ha dato fuoco all’interno della sua auto, una Fiat 16. Stando agli inquirenit, la donna, al fine di depistare le indagini, ha tentato di far credere agli inquirenti che il compagno si fosse suicidato a causa del periodo di depressione che stava attraversando. Gli approfondimenti svolti carabinieri hanno fatto piena luce anche sul movente, inquadrato nell’ambito familiare.

Carlo Macrì per il “Corriere della Sera” il 4 febbraio 2020. Per uccidere e bruciare, quando ancora era vivo, il suo convivente Vincenzo Cordì, cameriere in un ristorante di Marina di Gioiosa Ionica, aveva scelto una giornata piovosa. Susanna Brescia, 43 anni, anche lei di Marina di Gioiosa Ionica, casalinga con precedenti per reati contro il patrimonio, pensava che l'acqua potesse cancellare ogni traccia, allontanando da sé i sospetti sull' omicidio del compagno. La donna, già sposata e separata, avrebbe avuto due complici: il figlio Francesco Sfara, 22 anni, avuto dal precedente matrimonio, e l' amante Giuseppe Menniti, 41 anni. I tre sono stati arrestati dai carabinieri della Compagnia di Roccella con l' accusa di omicidio preterintenzionale. I tre si sono lasciati dietro una serie di tracce che hanno permesso agli inquirenti di risalire agli autori del brutale assassinio, avvenuto la notte dell' 11 novembre del 2019, in località «Scialata» del Comune di San Giovanni di Gerace. Quel giorno, nella Locride, imperversava un violento temporale. Susanna Brescia avrà pensato che quella sarebbe stata la serata buona per uccidere il convivente. Aveva già tentato di farlo due anni prima, mischiando alla minestra un flacone di barbiturici. Vincenzo Cordì all' epoca si salvò per miracolo, ma non denunciò il tentativo di omicidio. Non l'avrebbe fatto per amore dei due figli gemelli, nati dalla sua relazione con Susanna Brescia. L'11 novembre scorso, però, quando la donna gli prospettò l'idea di fare un giro in montagna, non immaginava che quella gita, con la pioggia che impediva anche la visibilità, fosse una trappola. Il cameriere e la convivente arrivarono nella località di montagna a bordo dell' auto dell' uomo, Una Fiat 16, intorno alle 10 di sera. Dietro di loro, a bordo di una Punto, li seguivano il figlio della donna e l' amante. Arrivati nella radura Vincenzo Cordì venne fatto scendere dall' auto: prima di rendersi conto di ciò che gli stava accadendo, l' uomo venne colpito con un corpo contundente, forse un grosso legno, che gli fece perdere i sensi. Venne poi caricato nella sua auto dove erano stati abbassati entrambi i sedili, messo a pancia in su. Subito dopo il corpo fu cosparso di benzina e poi appiccato il fuoco con un accendino, ritrovato dagli inquirenti a poca distanza dall' auto. Proprio dall' accendino il Ris di Messina e il Racis dei carabinieri di Roma hanno estrapolato l' impronta digitale di Susanna Brescia. Un aiuto determinante al lavoro dei carabinieri è arrivato dal cielo, grazie al bagliore di un fulmine, che la sera del delitto illuminò l' autovettura Fiat Punto del Menniti, nel momento in cui lasciava la propria abitazione per andare a prelevare con la tanica di benzina servita per dar fuoco a Cordì. Per non dare sospetti, infatti, l' uomo nell' avviare il motore non accese i fari, ma proprio in quel momento la luce del fulmine illuminò la targa della sua auto. Un flash di pochi secondi che è stato immortalato dalla telecamera di un privato che abita nei pressi della casa dell' arrestato. L' immagine dell' auto di Menniti, che presentava delle macchie bianche sul tettuccio, ha poi permesso agli inquirenti di ricostruire l' itinerario fatto quella sera, sino a individuarla nei pressi della radura dove venne commesso l' omicidio Cordì.

«Ho subito violenze fin da piccola». Così la testimonianza dura di Annamaria ha dato la forza a un’altra donna di parlare e vincere la paura. Pubblicato giovedì, 30 gennaio 2020 su Corriere.it da Amalia De Simone. La testimonianza di Anna Scarfò a Napoli. Una donna ha chiesto di incontrarla dopo essersi rinchiusa in casa per paura. La chiamavano «malanova» e cioè cattiva notizia. In Calabria, lo spiega bene anche un bel libro di Cristina Zagaria, lo si dice a chi viene percepito come un’ untrice a cui bestemmiare contro, una che va tenuta lontano. Eppure Annamaria non ha fatto niente di male. Il male invece, lo ha subito fin da quando aveva 13 anni e si innamora del ragazzo sbagliato. Fino ai 15 subisce violenze e torture da parte di un branco di uomini, poi la denuncia, una vita difficile e un lento riscatto. Alcuni giorni fa la sua testimonianza è arrivata alla periferia napoletana di San Giovanni a Teduccio dove la camorra spara e cerca di imporre la sua subcultura di sopraffazione di gretto maschilismo, di miseria umana. Proprio lì, la presidente della fondazione famiglia di Maria Anna Riccardi ha voluto che Anna Maria Scarfò portasse la sua storia tra le signore del rione napoletano perché sapeva che quello della violenza sulle donne non è un problema sconosciuto nel quartiere. La sorpresa è stata l’arrivo di una giovane mamma che solo pochi giorni prima aveva preso il coraggio a due mani e denunciato suo marito che la riempiva di botte e le usava violenza. Era tra il pubblico ad ascoltare con gli occhi lucidi quella terribile storia calabrese. «Tutto cominciò il giorno del mio compleanno - racconta Annamaria - compivo 13 anni ed ero andata in chiesa a fare le prove del coro. Domenico, si chiamava così il ragazzo che mi piaceva, venne a salutarmi e mi convinse a salire in auto. Quel ragazzo che fino ad allora era stato sempre gentile con me cambiò improvvisamente atteggiamento. Io gli chiesi dove stessimo andando e a quel punto mi arrivò il primo schiaffo. Mi portò in un casolare dove c’erano anche altre persone tra cui alcune appartenenti a cosche di ‘ndrangheta. Poi non ricordo più nulla, tranne l’odore della terra e delle arance, perché mi scaraventarono fuori dall’auto a botte. A quel punto mi fecero violenza a turno tenendomi le mani e i piedi. Mi dissero che avrebbero ucciso me e la mia famiglia si avessi raccontato a qualcuno quello che era successo. Da quel giorno cominciarono le torture mi usavano per scambiarsi favori, per sfogarsi, per divertirsi: mi sono ritrovata legata ad un albero, soffocata nell’acqua, picchiata, violentata in tutti modi ed ero solo una bambina. In paese tutti sapevano. Forse lo sapevano anche a scuola, forse lo sapeva anche la mia famiglia ma nessuno mosso un dito. Questa storia andò avanti per due anni poi a un certo punto mi dissero: “Di te non ce le facciamo più nulla, portaci tua sorella piccola”. A quel punto scattò in me un sentimento nuovo: non avrei mai permesso che facessero a mia sorella quello che avevano fatto a me e quindi presi il coraggio a due mani e andai a denunciare tutto». Fu così che Annamaria diventò la malanova, quella da emarginare, agli occhi della gente era lei la colpevole, la rovina famiglie. Da sola affrontò tutto a cominciare dai processi durati ben 17 anni e poi minacce, ingiurie, insulti, pestaggi, pericoli. Ad un certo punto fu messa sotto scorta e trasferita in località protetta. Non fu facile ma decise che non avrebbe fatto passi indietro e così si è arrivati fino alle condanne. Da un anno le è stato revocato il programma di protezione e così ha dovuto fare i conti con il fatto di non essere più una ragazzina ma di dover camminare da sola. Quando può, cerca di portare la sua testimonianza dove è necessario e lo fa senza ufficialità, senza associazioni che la supportino, senza indossare facili mantelli da eroina. E le donne di San Giovanni lo hanno capito. Quella che aveva appena denunciato il marito ha voluto parlarci a quattr’occhi, per avere un consiglio, per condividere un dolore. «L’ho fatto anche per i miei figli - ha detto – sono ferite che non si curano. Passano gli anni e il ricordo e il dolore sono sempre vivi». Anna Riccardi che ha raccolto giocattoli e vestiti per i suoi figli, come per tutti i bambini che frequentano la fondazione, le stringe le mani e le asciuga le lacrime. «L’amore ti accoglie, non ti prende in giro, non ti dà schiaffi, non ti ammazza. - dice Anna - Oggi abbiamo avuto la prova tangibile che questo posto e questa comunità hanno un senso perché sono un luogo di resistenza». 

Mazara del Vallo, picchiata e uccisa in casa: aveva  già denunciato il marito. Pubblicato giovedì, 30 gennaio 2020 su Corriere.it da Salvo Toscano. Trovata senza vita nel suo appartamento. L’allarme dei vicini, che hanno sentito le urla. Fermato il coniuge, Vincenzo Frasillo. Ammazzata di botte, picchiata selvaggiamente fino a morire. L’ultima notizia di femminicidio arriva da Mazara del Vallo, dove ieri sera è stata trovata senza vita nella sua casa di via Calipso Rosalia Garofalo, 54 anni. Il marito, Vincenzo Frasillo, un anno più giovane, è stato sottoposto a fermo, che deve essere convalidato dal gip, ed è in commissariato. È il primo sospettato del delitto. E come non di rado accade, quella di Mazara sembrerebbe essere purtroppo la cronaca di una morte annunciata. La vittima, infatti, in passato a quanto si è appreso aveva già più volte denunciato delle violenze domestiche, ritirando in due occasioni la denuncia. Sul delitto indaga la procura di Marsala. Sono stati i sanitari del 118 a intervenire sul posto nella città del Trapanese e ad avvisare la polizia. A dare l’allarme i vicini di casa che avevano sentito le grida provenienti dall’abitazione dei due coniugi. Il cadavere avrebbe riportato ecchimosi su tutto il corpo. Dalle prime testimonianze raccolte dagli investigatori emergerebbe una storia di abusi e maltrattamenti. Salvo Toscano.

R. In. Per il Messaggero il 31 gennaio 2020. Quando i sanitari del 118 e gli uomini della squadra mobile di Trapani sono entrati nell'abitazione di quell'uomo che aveva telefonato dicendo che la moglie non dava più segni di vita si sono trovati di fronte a una scena orribile. Il corpo della donna era tumefatto e ricoperto da lividi, nell'appartamento tracce di sangue dappertutto e segni evidenti di violente percosse. La vittima di questo ennesimo femminicidio, Rosalia Garofalo, 52 anni, sarebbe stata massacrata di botte per tre giorni consecutivi dal marito, Vincenzo Frasillo, di 53. Il delitto è avvenuto nell'abitazione della coppia, in via Calipso, una zona isolata a Mazara del Vallo. LA DIFESA L'uomo, subito fermato con l'accusa di omicidio, ha tentato di difendersi di fronte agli inquirenti con una dichiarazione che li ha lasciati ancora più sconcertati: «Mi tradiva con tanti uomini. Io uscivo e loro, nascosti in campagna, entravano in casa. Ma l'ho picchiata soltanto lunedì...». Il pm della procura di Marsala Marina Filangeri, che coordina le indagini, ha chiesto al gip la convalida del fermo dell'uomo. Dalle prime testimonianze raccolte dagli investigatori emerge una storia di degrado, abusi e maltrattamenti per i quali la donna aveva anche presentato alcune denunce. Tutte poi ritirate. Vincenzo Frasillo e la moglie, entrambi disoccupati, erano sposati da trent'anni; da alcuni mesi andavano avanti grazie al reddito di cittadinanza. L'uomo, fermato mercoledì sera, è stato sottoposto ad un lungo interrogatorio nella notte, alla presenza del suo avvocato difensore.

LA RICOSTRUZIONE. Il sopralluogo della polizia scientifica e l'ispezione del cadavere, eseguita dal medico legale, hanno confermato che Frasillo avrebbe picchiato selvaggiamente la donna negli ultimi tre giorni, senza prestarle alcuna assistenza o richiedere le necessarie cure mediche. Nella casa presa in affitto dalla coppia sono state trovate tracce di sangue in cucina, nel soggiorno e in bagno. Il pubblico ministero di Marsala, Marina Filangeri, ha disposto l'autopsia sul cadavere della vittima anche se i segni evidenti delle percosse lasciati sul corpo martoriato della donna non sembrano lasciare dubbi sulle cause del decesso. Per tutta la notte i poliziotti, guidati dal capo della squadra mobile di Trapani Fabrizio Mustaro, hanno analizzato prove e riscontri su quanto avvenuto. 

IL FIGLIO. Gli investigatori hanno anche cercato di rintracciare l'unico figlio della coppia, che vive all'estero, e hanno interrogato i due fratelli e la sorella della vittima. I familiari hanno confermato che negli ultimi anni il rapporto tra i due coniugi si era incrinato a causa della gelosia ossessiva del marito. In diverse occasioni la donna lo aveva denunciato per maltrattamenti, ma poi aveva deciso sempre di perdonarlo. L'ultima volta era accaduto nell'aprile scorso, quando Rosalia, ormai stanca, aveva confidato ai fratelli di volere lasciare per sempre il marito. Ed invece, ancora una volta, è tornata in quella casa dove a distanza di meno di un anno il marito l'avrebbe uccisa dopo averla massacrata di botte per tre giorni.

Davide Desario per leggo.it il 31 gennaio 2020. “Tu nun ce crederai nun ciò più visto. L’ho presa ar collo e nun me so’ fermato. Che quann’è annata a tera senza fiato... Ner cielo da ‘no squarcio er sole è uscito. E io la sotterravo co’ ‘ste mano. Attento a nun sporcamme sur vestito. Me ne so’ annato senza guarda’ ‘ndietro. Nun ciò rimorsi e mo’ ce torno pure. Ma nun ce penso a chi ce sta la’ sotto. Io ce ritorno solo a guarda’ er mare. E te lo vojo di’ che so’ stato io. E so’ quattr’anni che me tengo ‘sto segreto. E te lo vojo di’ ma nun lo fa sape’. Nun lo di’ a nessuno tiettelo pe’ te.” È un rap di Junior Cally? Macché. È il testo di Lella (RCA 1970), uno dei brani della tradizione della musica italiana. Canzone scritta da Edoardo De Angelis (autore per tanti grandi cantanti come Lucio Dalla, Francesco De Gregori, Amedeo Minghi) e cantata tra gli altri da Lando Fiorini, Antonello Venditti, i Vianella e Paola Turci. Il testo di Lella racconta di un femminicidio. L'uccisione violentissima di una donna, la moje de Proietti er cravattaro, che voleva interrompere una relazione. E tutti l'hanno sempre apprezzata. Ecco credo che oggi su Junior Cally, invece, ci sia un ipocrita pensiero comune che, infatti, compatta donne del Pd e Matteo Salvini, esponenti di Fratelli d'Italia e soubrette scartate dal cast di Sanremo, chi ce l'ha con l'ad della Rai Fabrizio Salini e chi con Amadeus, fino addirittura al Consiglio del X municipio di Roma (quello di Ostia e Acilia, in mano ai Cinque Stelle, che forse avrebbe cose ben più importanti di cui occuparsi invece di cercare la ribalta sanremese). Un mainstream senza analisi che, tra l'altro, se la prende con una canzone, Strega che nulla ha a che vedere con quella in gara a Sanremo 2020. Il pezzo presentato al Festival, infatti, si intitola No, grazie ed è un testo antipopulista, antipensiero dell'italiano medio. Appunto. Mi chiedo, ma qualcuno l'ha letto tutto il testo della canzone incriminata (pubblicata su Youtube 3 anni fa con oltre 5 milioni di views) di Junior Cally o lo attacchiamo soltanto perché è un rapper tatuato di Focene? Ora, se si decide che una rappresentazione, che sia musica, film, fotografia, teatro, debba essere per forza autobiografica, dobbiamo mettere al bando anche maestri come Stanley Kubrick per Arancia Meccanica e Lolita, Quentin Tarantino per i suoi film splatter. La canzone sotto accusa di Junior Cally non dipinge altro che i nostri tempi. Con l'escalation di violenza e sesso da parte di ragazzi (magari come le figlie e i figli di qualcuno di noi) che per un like o una story su instagram insieme a un rapper sono disposti a qualsiasi cosa. Leggete. Informatevi su cosa è il rap. Fate confronti. E soprattutto fate pensieri vostri e non ripetete quelli sentiti da altri. Qualcuno, come L'Orchestraccia (band romana composta da cantanti e attori famosi), con intelligenza ha voluto ricantare Lella facendone un provocatorio manifesto, con tanto di video interpretato da attrici come Ambra e Incontrada, contro il femminicidio. Ma ci vuole testa. Ci vuole senso critico. Ci vuole un po' più di tempo per soffermarsi sulle cose rispetto a un condividi e a un retweet che molto spesso sono più violenti di un rapper del 2020. Altrimenti... No, grazie.

Trovato il corpo di una donna sparita ad Alghero: arrestato il compagno, ergastolano in semilibertà. Pubblicato venerdì, 31 gennaio 2020 da Corriere.it. È di Speranza Ponti, la 50enne originaria di Uri (Sassari), scomparsa da metà dicembre, il corpo ritrovato dai carabinieri della compagnia di Alghero nell’area residenziale che comprende il «Resort Vista Blu», in una vasta zona di lussuose villette a schiera. L’indicazione del luogo del ritrovamento è arrivata dall’interrogatorio del fidanzato della donna, Massimiliano Farci, 53 anni, ora in stato di fermo nel carcere di Bancali, a Sassari. Sentito alla presenza del suo legale, Daniele Solians, Farci ha respinto ogni responsabilità. L’uomo è stato fermato con l’accusa di omicidio e occultamento di cadavere. Dopo il fermo, assistito dal suo avvocato, ha affermato che la donna con la quale conviveva si sarebbe tolta la vita il 6 dicembre scorso. Lui avrebbe poi nascosto il cadavere nella zona di campagna vicino alla città. Nonostante le sue dichiarazioni - spiega la procura di Sassari - è stato comunque ritenuto responsabile dei reati contestati ed è stato accompagnato in carcere in attesa della convalida del gip. L’uomo è anche accusato di aver rubato e utilizzato la carta bancomat della donna. Dopo diversi anni trascorsi a Genova, Speranza Ponti da alcuni mesi si era trasferita ad Alghero per amore. Il mese scorso la donna, la cui disponibilità economica era aumentata di recente grazie a un’operazione immobiliare, è svanita nel nulla. I familiari, preoccupati per il prolungato silenzio, si erano rivolti ai carabinieri. Dopo una fase di stallo, le indagini, partite da quella denuncia, hanno subito un’improvvisa accelerazione. I militari hanno interrogato giovedì il fidanzato. Farci, originario di Assemini (Ca), ha un passato turbolento: era stato condannato nel 1999 insieme al fratello Alessandro per il cosiddetto «delitto della Lotus Rossa». I due, infatti, erano stati ritenuti responsabili dell’uccisione di Roberto Baldussi, un ragioniere di San Sperate, col movente di impossessarsi della sua auto di lusso. Condannato all’ergastolo, dopo aver scontato una ventina d’anni di carcere, ha ottenuto la semi-liberta. La notte deve rientrare nel carcere di Alghero, ma di giorno gestisce la pizzeria «Sergio’s», che ha aperto da alcuni mesi in via XX settembre, dove lavorava da qualche tempo anche la Ponti.

A Genova donna uccisa dall’ex marito, in 24 ore quattro femminicidi in Italia. Pubblicato venerdì, 31 gennaio 2020 su Corriere.it da Claudio Del Frate. In Sicilia uccise una donna e sua figlia di 27 anni, giovedì sera era toccato a una pachistana in Alto Adige. Il cadavere di una donna è stato trovato in un appartamento della zona di Marazzi a Genova; accanto a lei c’era l’ex marito che dopo averla uccisa ha tentato a sua volta di togliersi la vita. Sono così 4, nel giro di 24 ore le donne assassinate da familiari o ex nel giro di 24 ore; questa mattina una donna e sua figlia erano state assassinate a Mussomeli, in Sicilia da un uomo che ha sua volta si è ammazzato. Giovedì sera vittima era stata una donna pachistana che viveva e lavorava in val Pusteria, in Alto Adige : era all’ottavo mese di gravidanza, il suo compagno, un connazionale, è stato arrestato. A Genova il delitto è stato commesso in una palazzina di via Furlani; la donna si trovava nell’appartamento in cui lavorava come colf; a trovarla è stato il datore di lavoro. Accanto alla vittima c’era un uomo a sua volta ferito e che è stato identificato con l’ex marito. Quest’ultimo è stato trasportato in codice rosso all’ospedale san Martino. A Mussomeli, in provincia di Caltanissetta in mattinata erano state uccise due donne; le vittime sono Rosalia Mifsud, 48 anni e la figlia Monica Diliberto, ventisettenne. Il massacro è stato compiuto da un uomo di 27 anni, Michele Noto che a sua volta si è tolto la vita sparandosi un colpo di pistola in bocca. Michele Noto aveva avuto una relazione segreta con Rosalia che lei aveva interrotto.L’ennesimo tentativo di riavvicinamento era fallito e la relazione si è risolta con un bagno di sangue. L’omicidio-suicidio è avvenuto nell’appartamento di Rosalia: i tre cadaveri sono stati trovati nella camera da letto; la figlia è stata con ogni probabilità uccisa nel tentativo di difendere la madre. Sempre in mattinata i carabinieri avevano arrestato a Varsciaco (Bolzano) un pachistano di 38 anni, accusato di aver ucciso, soffocandola e prendendola a calci la moglie Fatima Zeeshan, sua connazionale di 10 anni più giovane. Era stato lo stesso Mustafa, la sera precedente a chiamare i soccorsi raccontando di aver trovato la donna priva di vita. Le numerose ecchimosi sul corpo di Fatima non avevano però convinto gli inquirenti che hanno arrestato l’uomo per omicidio. Lei era all’ottavo di mese di gravidanza; entrambi si trovavano in Alto Adige perché Mustafa lavorava come stagionale in un albergo. Ieri sono inoltre proseguite le indagini su altri due casi di femminicidio. A Brescia è stato accertato che Francesca Fantoni, la donna trovata uccisa durante il fine settimana in un parco di Bedizzole, era stata in precedenza violentata; in carcere per il delitto si trova già un suo amico Andrea Pavarini. L’assassino ha abusato di lei e poi, probabilmente per non farla scappare e per impedirle di raccontare tutto, l’ha colpita al volto violentemente a mani nude e l’ha strangolata fino ad ucciderla. A Marsala, ancora è stato interrogato Vincenzo Frasillo arrestato per aver ucciso la moglie Rosalia Garofalo picchiandola per tre giorni. «Lei mi tradiva» ha detto l’uomo al gip. Ad Alghero, infine, Massimiliano Farci è stato arrestato per l’uccisione dell’ex compagna, Speranza Ponti, trovata cadavere a metà dicembre. Farci , ergastolano, si trovava in semilibertà dopo essere stato condannato per il cosiddetto delitto della Lotus rossa avvenuto nel 1999.

Femminicidi, 6 donne morte in una settimana. Il pg della Cassazione: "Emergenza nazionale". L'analisi del Procuratore generale Giovanni Salvi nella sua relazione all'anno giudiziario. In Italia calano complessivamente gli omicidi ma quelli che vedono vittime le donne restano stabili. E nel 28% dei casi - recita il Rapporto Eures - vengono preceduti da altri reati. la Repubblica il 31 gennaio 2020. Le cifre di una strage: 16 donne assassinate nel 2019. Cinque donne uccise in due giorni, sei in una settimana, più il cadavere di una donna ritrovato dopo mesi e il fidanzato arrestato. E' un bilancio orribile, che porta il Procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi nella sua relazione all'anno giudiziario a parlare dei femminicidi come "emergenza nazionale". A Mussomeli, Caltanissetta, un uomo ha ammazzato la compagna e la figlia 27enne della donna, poi si sparato. A Genova una donna è stata uccisa da un uomo (forse l'ex marito) che poi ha tentato il suicidio. Ieri una donna è morta dopo tre giorni di violenze fisiche subite dal marito e una 28enne incinta è stata trovata senza vita. Il marito è stato arrestato. Lunedì è stata trovata senza vita nel Bresciano Francesca Fantoni, l'uomo che l'ha uccisa ha confessato dopo due giorni. Ad Alghero, Speranza Ponti, scomparsa mesi fa è stata ritrovata cadavere: il fidanzato è in stato di fermo. Nonostante gli omicidi di ambo i sessi siano calati in Italia, rimangono percentualmente più elevati i numeri di quelli che vedono come vittime le donne. Ad accorgersene è anche l'analisi statistica condotta dal Pg della Cassazione. Il dato che riguarda l'uccisione di donne nel nostro Paese è tanto più grave, questo il ragionamento del Pg, dal momento che l'Italia è sotto la media Ue, in assoluto, per quanto riguarda gli omicidi in generale. Nel "contesto positivo" del calo degli omicidi con uomini come vittime - 297 nel 2019, dato inferiore a quelli che si registrano in media negli altri Paesi Ue - "è ancora più drammatico il fatto che permangono pressoché stabili, pur in diminuzione, i cosiddetti femminicidi", ha detto Salvi ritenendoli una "emergenza nazionale". In particolare, secondo i dati illustrati con allarme dal Pg, "le donne uccise sono state 131 nel 2017, 135 nel 2018 e 103 nel 2019. Aumenta di conseguenza il dato percentuale, rispetto agli omicidi di uomini, in maniera davvero impressionante", ha sottolineato Salvi tralasciando i dati che riguardano gli uomini. L'ultimo Rapporto Eures su 'Femminicidio e violenza di genere', ha messo in evidenza come quello familiare sia l'ambiente dove viene commessa la maggior parte di questi reati. Tra le mura domestiche, o comunque per mano di partner, mariti e fidanzati, vengono commessi oltre l'85% dei delitti con vittime femminili. La coppia si conferma come un 'luogo' ad alto rischio. Nel 28% dei casi, la violenza procede il suo corso ingravescente e sono stati riscontrati precedenti maltrattamenti come violenze fisiche, stalking e minacce. Per l'Eures, il femminicidio rappresenta "l'ultimo anello di una escalation di vessazione e violenze che la presenza di un'efficace rete di supporto potrebbe invece riuscire ad arginare". Su questo aspetto della 'rete', il Primo presidente della Cassazione Giovanni Mammone parlando del 'Codice rosso' - l'insieme di norme introdotte a luglio per dare maggiore tutela alle donne abusate - ha sottolineato che "l'intervento in favore delle vittime deve interessare non solo le strutture giudiziarie, ma anche quelle pubbliche (servizi sociali), private (associazioni di volontariato) e sanitarie, sulla base di un modello di intervento di cui dovrà necessariamente essere individuato un credibile soggetto di coordinamento".

Stupra e uccide la figlia di 5 anni: “Volevo capire se era vergine”. Laura Pellegrini il 31/01/2020 su Notizie.it. Episodio terribile in Arabia Saudita: un padre di famiglia, nonché imam, ha abusato sessualmente della figlia, l'ha picchiata e uccisa. Imam stupra e uccide la figlia di 5 anni e viene punito con una multa da 50 mila dollari (chiamata blood money): orrore in Arabia Saudita. L’episodio si è verificato il 25 dicembre 2011, giorni in cui Lamia al-Ghamdi venne ricoverata in ospedale con ferite multiple. Infatti, il padre della piccola, Fayhan al-Ghamdi, ammise di averla picchiata con una frusta e un bastone. La bimba è deceduta il 22 ottobre 2013, mentre suo padre è stato rimesso in libertà dopo il pagamento della multa.

Imam stupra e uccide figlia. Un episodio terribile: un imam stupra la figlia di 5 anni, la picchia con una frusta e un bastone e viene condannato al pagamento di una multa. In Arabia Saudita, infatti, l’omicidio di moglie o figli non può essere condannato con la pena di morte. Dunque per Fayhan Ghamdi è scattata una multa da 50 mila dollari, oltre ad alcuni mesi scontati in carcere. La piccola Lamia, invece, è stata ricoverata in ospedale il 25 dicembre 2011. Ha riportato ferite multiple, incluso lo schiacciamento del cranio, costole e un braccio rotto, estese escoriazioni e ustioni. Dopo diversi anni di agonia, nel 2013 è deceduta. La madre della bimba, divorziata dal marito, non ha potuto vedere sua figlia prima che venisse ricoverata. L’imam, infine, aveva deciso di “risarcire” il danno alla madre di Lama, immigrata egiziana nonché una delle sue mogli, con un cospicuo pagamento in denaro. Secondo alcune testimonianze raccolte dagli inquirenti, l’uomo avrebbe utilizzato un bastone e alcuni cavi per infliggere ferite alla bambina. Lui stesso si sarebbe giustificato spiegando i suoi dubbi sulla verginità della piccola. 

Spara e uccide l’ex compagna e la figlia della donna, poi si ammazza. Redazione de Il Riformista il 31 Gennaio 2020. Tragedia questa notte, poco dopo la mezzanotte, a Mussomeli (Caltanissetta), dove un giovane di 27 anni ha ucciso l’ex compagna e la figlia di lei e si è tolto la vita. Il dramma si è consumato in pochi attimi in casa, al culmine di una lite. Il giovane, Michele Noto, ha estratto una pistola legalmente detenuta e ha fatto fuoco contro l’ex fidanzata di 48 anni, Rosalia Mifsud, e subito dopo contro la figlia di lei, Monica Di Liberto, di 28 anni. Poi, resosi conto di quello che aveva fatto, ha rivolto l’arma contro se stesso sparandosi alla tempia. La tragedia probabilmente per motivi sentimentali: il giovane non accettava infatti la fine della relazione che lo legava alla donna. Sono comunque in corso accertamenti da parte dei carabinieri. A dare l’allarme i vicini di casa delle due vittime, trovate un lago di sangue in camera da letto. Noto era invece all’ingresso, accanto al suo corpo c’era la pistola utilizzata per il doppio femminicidio.

Carlo Nicolato per “Libero quotidiano” il 28 gennaio 2020. Anche parlare di calcio è una forma di molestia. E se proprio non è di tipo sessuale, lo è di tipo sociale, in quanto esclude dalla conversazione chi il calcio generalmente non lo conosce, cioè le donne. È dunque una forma di prevaricazione di genere che potrebbe anche sfociare in molestia sessuale in quanto fortifica il senso di appartenenza al genere maschile, esaltandone gli aspetti sessuali più beceri. Insomma passare dalla Var alle paccate sulle spalle per l' ultima conquista e relativa scopata del fine settimana il passo è breve, e per tale motivo sarebbe opportuno che ogni discussione calcistica, e sportiva più in generale, venisse proibita in ufficio. Se queste vi sembrano le farneticazioni di una mente contorta e problematica vi sbagliate di grosso perché invece rappresentano le ponderate opinioni di Ann Francke, una delle donne più stimate d' oltremanica, da anni presidente del Chartered Management Institute, prestigioso istituto professionale per la gestione d' impresa, e femminista pluripremiata. Lo show di miss Francke è andato in onda su Today, frequentata trasmissione della Bbc, il servizio pubblico radiotelevisivo britannico che sta diventando, rasentando il ridicolo, il megafono del politically correct più estremista, ma così estremista che di fatto è diventata l' interprete ufficiale nazionale della nuova rigorosa e bacchettona moralità di genere e di rispetto delle diversità, con una particolare attenzione all' islam. Non è infatti un caso che il femminismo di cui sembra essere estensore la Francke sia quello dell' elogio al burqa, che annulla le differenze e l' ossessione per l' immagine di sé. Le convinzioni della Francke in fondo non sono altro che una delle tante trasposizioni possibili di questa logica a livello sociale, cioè l' annullamento delle differenze attraverso un velo che le elimina alla vista. «Le battute sportive» ha detto la Francke «possono escludere le donne e portare a comportamenti rozzi come le chiacchierate sulle ultime conquiste sessuali». Il problema, ha insistito, è che «molte donne non seguono gli sport e a loro non piace parlarne, ma nemmeno esserne escluse». Le discussioni sullo sport sono il «segnale di una cultura maschilista» e andrebbero quantomeno moderate se non eliminate del tutto. Secondo l' ultima frontiera del femminismo dunque parlare di calcio, o comunque di qualcosa che teoricamente escluda dal discorso il genere femminile, è una forma di prevaricazione che può addirittura assumere connotati sessuali e quindi potenzialmente trasformarsi in una molestia. Per la verità le posizioni estreme di Ann Francke non ha ottenuto molti riscontri positivi sui social, dove al contrario sono state ricoperte di risate e sonore pernacchie. Anche durante la stessa trasmissione delle Bbc sono piovute critiche, a cominciare da quelle della giornalista sportiva di Sky Jacqui Oatley, la quale ha considerato che «se proibisci le chiacchiere sul calcio o le battute su qualsiasi cosa, tutto ciò che farai è dividere le persone che vogliono comunicare tra loro». L' ex ministro dello sport Tracey Crouch, ha definito le sparate del numero uno del Chartered Management Institute «una montagna di cazzate». Ma c' è anche chi invece si è schierato dalla parte della pasionaria, sostenendo di aver visto uffici nei quali si creavano relazioni più forti tra capi e sottoposti in funzione della comune passione sportiva. Ma questo è tutto un altro discorso: si sa, a prescindere un interista avrà sempre più simpatia per un altro interista che per uno juventino. 

Simona Pletto per “Libero quotidiano” il 29 gennaio 2020. Maschicidi, ovvero uomini vittime di omicidio, pari in numero o addirittura superiori rispetto ai femminicidi, cioè donne uccise da mariti, compagni o ex partner. Possibile? Pare una provocazione, ma la considerazione non è così campata per aria. Vediamo i dati. In Italia, secondo il report dal titolo "Violenza domestica e di prossimità: i numeri oltre il genere" a cura di Barbara Benedettelli, vicepresidente dell' Osservatorio Nazionale Sostegno delle Vittime e che ha contribuito in Commissione Giustizia alla messa a punto del cosiddetto "Codice Rosso" - le norme relative ai delitti di genere -, secondo questa ricerca, dicevamo, nel 2017 sono state uccise 355 persone. Di queste, ben 236 sono state ammazzate in famiglia, in coppia, fra amici, vicini di casa, colleghi: le vittime femminili sono state 120, le vittime maschili 116, 120 se consideriamo i quattro italiani uccisi al' estero proprio dalle loro partner. Dunque, se si prendono in considerazione gli omicidi avvenuti nell' ambito delle relazioni più significative (in termine tecnico si definiscono proprio Relazioni Interpersonali Significative, RIP), donne e uomini vengono uccisi nello stesso numero. Ormai molto spesso però, forse con il comprensibile proposito di sensibilizzare l' opinione pubblica in ordine al fenomeno indubbiamente preoccupante dei maltrattamenti e degli omicidi di cui sono vittime le donne, sono stati etichettati come "femminicidi" anche delitti compiuti non necessariamente da persone con un legame così stretto con la vittima stessa - e dunque omicidi compiuto da squilibrati, da delinquenti sotto l'effetto di stupefacenti, da rapinatori. Ecco, valutando nello stesso modo anche gli omicidi di uomini, ne emerge che - sempre nel 2017 - gli uomini uccisi sono stati più delle donne: 133 contro 128. Il problema è dunque l'omogeneità dei dati, la loro precisa catalogazione. E attenzione, non si tratta affatto di sminuire il fenomeno delle donne maltrattate e uccise, ma proprio di poterlo valutare in base a dati credibili e quindi con equilibrio. Altro esempio: parlando sempre di femminicidi, spesso questi numeri vengono mischiati inserendo magari donne uccise per mano dei figli (sono state 17 nel 2016) o a causa di psicopatici criminali che le hanno assassinate per motivi economici, oppure da un criminale che ha tentato una rapina finita nel sangue. Delitti, insomma, che hanno dinamiche ben diverse da quelle che, secondo il senso comune, sono alla base dei femminicidi. E, come detto, se si replica il conto con le vittime maschili, rilevando gli stessi parametri e i ugual modo mischiando i casi includendo lo stesso rapporto vittima-carnefice, emerge come detto che gli uomini uccisi sono più delle donne. Perché, per fare un altro esempio, a perdere la vita in casa o durante una rapina, fuori da un bar o da un locale oppure mentre camminavano in strada, sono stati 17 uomini e 5 donne. Ancora una volta, il cosiddetto "sesso forte" ha numeri più elevati. D' altro canto, le donne assassine, mandanti o complici sono 41, di queste 10 hanno ucciso altre donne o partecipato al delitto. Gli elementi su cui ragionare sono tanti. Altro esempio: i suicidi, nel senso di coloro che si tolgono la vita per motivi sentimentali: 30 persone si sono tolte la vita dopo aver ucciso, mentre ne sono state individuate 39 che si sono suicidate proprio per motivi legati a un rapporto sentimentale andato male. In Italia il tasso di omicidi maschili è di 16 per milione all' anno: vengono uccisi più di 3 uomini per ogni donna assassinata. Le donne killer uccidono nel 39% dei casi donne, nel 61% uomini. Un altro dato emerge dall' interessante rapporto: mentre gli uomini uccidono chiunque, le donne pare ammazzino soltanto chi sostengono di amare o aver amato. Eppure di loro si parla sempre pochissimo. C'è inoltre un' altra realtà spesso sconosciuta: quella dei maltrattamenti, psicologici e fisici e sessuali, subiti dai maschi. Secondo i recenti dati diffusi dall' Istat, sono addirittura 3 milioni e 574mila i maschi italiani che hanno subìto molestie o violenza domestica. Un dato inferiore rispetto a quello relativo alle donne, ma pur sempre consistente. In ogni caso, tutti i numeri sopracitati relativi ai delitti compiuti da donne e da uomini sono quasi confermati - delitto più o delitto meno -, nei due anni successivi al 2017, e certificano in questo tragico ambito una tendenza alla parità.

Per esempio: ci sono stati 40 omicidi da parte di donne e altrettanti da parte di uomini, laddove tra autore e vittima c' era un legame di sangue. Insomma, i numeri attestano una costante tendenza al crimine anche da parte del gentil sesso. Eppure solo l' ingiusta morte delle donne pare riesca a suscitare pietà e phatos, orrore, impegno civile e politico.

Per concludere: l' allarme sui femminicidi resta giustamente alto, ma anche questo fenomeno va valutato senza strumentali esagerazioni. In questo senso, già qualche anno fa Linda Laura Sabbadini, direttrice del dipartimento per le statistiche sociali e ambientali dell' Istat e già membro della Commissione Onu che definì le linee guida a livello mondiale delle indagini statistiche sulla violenza contro le donne, avvertiva: «Smettiamola di contare soltanto le donne uccise perché è un esercizio limitante». Proprio lei, che fu la prima, nel 2006, a realizzare una importante ricerca sulla violenza femminile.

Maria Rosa Tomasello per “la Stampa” il 28 gennaio 2020. Non erano le rose. Era il messaggio silenzioso che accompagnava le rose, benché non ci fosse alcun biglietto. Un mazzo che arrivava alla stessa studentessa nell' aula dell' università a ogni lezione, sotto lo sguardo sorpreso dei presenti. Un omaggio apparentemente innocuo, diventato ossessione. «È iniziata così: in principio la ragazza ha creduto che fosse il suo fidanzato a spedirle, ma quando l' invio si è ripetuto più e più volte, mentre lui continuava a negare, ha capito di essere finita nel mirino di qualcuno. Ha smesso di andare a lezione, e alla fine ha fatto denuncia contro ignoti e ha sparso la voce che la polizia era sulle tracce di chi mandava i fiori. Solo a quel punto le spedizioni sono cessate». Il racconto di Anna Campanile, operatrice del centro antiviolenza Voce Donna di Pordenone e consigliera di Dire (Donne in rete conto la violenza), definisce con precisione cos' è lo stalking: un atto persecutorio che genera nella vittima ansia e paura, costringendola a cambiare abitudini. Senza che ci sia aggressione fisica, eppure spesso altrettanto spaventoso per chi lo subisce. Soprattutto, in un caso su tre, secondo gli esperti, è l' anticamera del femminicidio. La recidiva è del 40%. «È una forma di violenza fatta di cose che sembrerebbero piccole, ma che crea in chi le subisce uno stato di tensione tale da orientare tutta la vita a difendersi. Abbiamo seguito il caso di una ragazza che aveva capovolto la sua stessa esistenza: lavorava di notte. La veglia le consentiva di essere vigile in caso di intrusioni in casa o di altro pericolo». Le donne non sono le sole vittime di stalking, ma in tre casi su quattro le vittime sono di sesso femminile e nel 50-60% dei casi l' ex partner è indicato dalla vittima come presunto autore di stalking, maltrattamenti o violenza. L'Istat stima che il 21,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni (pari a 2.151.000 persone) abbia subito comportamenti persecutori almeno una volta nella vita. Di queste, il 15,3% più volte. Dal primo agosto 2018 al 31 luglio 2019 (ultimi dati resi disponibili dal Viminale), le denunce sono state 12.733, e nel 76% dei casi a denunciare (si tratta di un reato perseguibile solo a querela di parte) sono state donne. Nello stesso periodo 2017-2018, la banca dati delle forze dell' ordine aveva registrato numeri più alti: 14.633 denunce. In un anno c' è stata una flessione del 13%. Dal 2014 al 2018 secondo dati Istat le segnalazioni per atti persecutori tuttavia sono state in costante aumento, passando da 11.096 a 14.145. A cosa è dovuto il calo di denunce dell' ultimo periodo? Nello stesso arco temporale sono aumentati del 32,5% gli ammonimenti del questore (un "avvertimento" allo stalker perché smetta di molestare la vittima), che sono passati da 1.819 a 2.411, con un aumento del 76% degli ammonimenti per violenza domestica (da 666 a 1.171 sul totale di 2.411). Da quando, nel 2009, è entrata in vigore la legge che definisce il reato, sono in forte crescita anche le condanne per stalking: 37 sentenze nel 2009, 1.827 nel 2017 (dati Istat). Ad arrivare a sentenza, tuttavia, è una percentuale limitata di casi: nel 2016 a fronte di 16.910 indagati per stalking, 9.141 casi sono stati archiviati, con l' avvio dell' azione penale per 7.769 casi. Nello stesso anno le condanne con sentenza irrevocabile (per processi che avevano preso il via negli anni precedenti) sono state 1.343, attorno al 17%. «Normalmente lo stalking non è troppo difficile da dimostrare e le denunce sono più frequenti rispetto ai maltrattamenti in famiglia, che spesso non vengono segnalati- osserva Giulia Masi, avvocata ed esponente dell' associazione GiuridicaMente Libera di Roma-. Per questo la riduzione delle denunce e il maggior ricorso all' ammonimento del questore denota sfiducia nella giustizia, con il ricorso a un metodo meno invasivo». Al contrario, la maggiore attenzione alle violenze di genere e l' introduzione, un anno fa del "Codice rosso" che innova la disciplina penale e inasprisce le sanzioni per chi commette i reati, consente spesso di arrivare a una soluzione veloce. «Il nostro centro anti-violenza ha seguito una giovane donna che, dopo aver interrotto una relazione durata due anni, ha cominciato a essere perseguitata dall' ex fidanzato, che la seguiva al lavoro, parlava con i suoi amici, mandava anche dieci mail al giorno a lei e ai suoi familiari, minacciando di allegare filmati dei loro rapporti sessuali, la intimidiva sui social. Era così sotto pressione da manifestare idee di suicidio. Finché si è rivolta al centro, che ha iniziato a collaborare con la procura, informando tempestivamente di ogni cosa: grazie al Codice rosso, in tre mesi è stato inviato l' avviso di conclusione delle indagini e lo stalker ha smesso». Non è sempre così. «Lo stalking è spesso l' anticamera del femminicidio- conferma-. Ecco perché non bisogna mai accettare quell' ultimo appuntamento chiarificatore, né mettersi in situazioni di rischio». Certo, le denunce rappresentano solo una piccola parte del fenomeno. L' Istat ha certificato che il 78% delle vittime (8 su 10) non chiede aiuto: solo il 15% si rivolge alle forze dell' ordine, il 4,5% a un avvocato e l' 1,5% a un centro specializzato. E tra queste, solo il 48,3% presenta una denuncia formale. Tuttavia qualcosa sta cambiando. «L' ammonimento è una misura di prevenzione che garantisce alle vittime una tutela rapida e anticipata rispetto ai tempi del procedimento penale- spiega Alessandra Simone, dirigente della Divisione Anticrimine della questura di Milano-. Viene svolta una sorta di attività di indagine per capire se l' istanza è fondata, e spesso, se si tratta di atti non troppo invasivi e se non ci sono state aggressioni fisiche, la donna sceglie la misura di prevenzione. È sì un provvedimento amministrativo, ma viene inserito nel sistema di indagine interforze e determina un alert sul soggetto, che ha una spada di Damocle su di sé». Del resto, è la legge stessa a prevedere che se gli atti persecutori sono commessi da una persona già ammonita, si può procedere anche d' ufficio. «L' esperienza milanese dimostra che funziona - prosegue Simone - soprattutto perché noi abbiamo associato all' ammonimento del questore l' invito a seguire un percorso di recupero comportamentale nell' ambito del protocollo Zeus, una intesa in materia di atti persecutori sottoscritta con il Centro italiano per la promozione e la mediazione (Cipm)». Avviato nell' aprile 2018 con il nome del «primo maltrattante noto della storia», Zeus sta dando risultati significativi: dal 5 aprile 2018 a novembre 2019 sono stati invitate a rivolgersi al centro 213 persone, 170 delle quali si sono presentate, ovvero il 79%. Di questi, 93 erano state ammonite per stalking e 76 per violenza domestica. «Dei 170- sottolinea Simone- solo 17 sono tornati a commettere reati e sono stati arrestati in flagranza di reato». Nei soggetti ammoniti, secondo dati parziali del Viminale sul 2019, la recidiva è pari al 13%. L' esperienza, nata a Milano, è stata estesa in tutta Italia e oggi iniziative analoghe sono in corso tra l' altro a Modena, a Viterbo, Pescara e L' Aquila. Nelle questure di Lazio e Abruzzo è impegnata l' Associazione italiana di Psicologia e Criminologia (Aipc) coordinata da Massimo Lattanzi, psicologo e psicoterapeuta, a cui fanno capo anche l' Osservatorio nazionale sullo stalking e il Centro presunti autori. «Il protocollo Offender viene applicato a presunti autori di violenza domestica, abusi, atti persecutori perché la nostra idea è di lavorare alla pari sia con la presunta vittima che con il presunto autore- afferma-. Nel 2007 abbiamo spostato il baricentro su quest' ultimo, formando il personale delle questure e offrendo un percorso di socializzazione alle persone che hanno subito un ammonimento in modo da chiudere il cerchio della violenza, altrimenti in queste persone sopravviverà sempre una zona d' ombra che, solo con l' azione giudiziaria, non si riuscirà a spazzare via. Nel 2012 abbiamo cominciato a lavorare anche nelle carceri, prima a Rebibbia e oggi, dal novembre 2018, a Velletri, dove esiste una sezione speciale per uomini maltrattanti. Facciamo colloqui di gruppo con le persone che hanno deciso di aderire». Certo, la strada del recupero è lunga: «Il nostro protocollo - conclude Lattanzi - ha fatto emergere che la maggior parte di queste persone ha traumi non elaborati, anche molto precoci, abbandoni, separazioni, lutti, che hanno segnato il loro profilo relazionale. Si trovano in grande difficoltà nelle relazioni, benché siano persone che in altri ambiti sono funzionali. E questo vale per tutte le relazioni: dal partner al vicino di casa».