Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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ANNO 2020

 

LA SOCIETA’

 

QUARTA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

       

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

GLI ANNIVERSARI DEL 2019.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

 

LA SOCIETA’

INDICE PRIMA PARTE

 

GLI ANNIVERSARI DEL 2020.

Cosa resta dell’anno passato. I Festeggiamenti.

Cosa resta dell’anno passato. La Politica.

Cosa resta dell’anno passato. La Cultura. 

Cosa resta dell’anno passato. L’Immigrazione.

Cosa resta dell’anno passato. Le Notizie.  

Cosa resta dell’anno passato. I Fatti.

Cosa resta dell’anno passato. I Personaggi.

Cosa resta dell’anno passato. Le Parole.

Cosa resta dell’anno passato. Le cose.

Cosa resta dell’anno passato. Lo Sport.

Cosa resta dell’anno passato. Gli Eventi.

Cosa resta dell’anno passato. I Disastri.  

Cosa resta dell’anno passato. I Morti sul Lavoro.

Le Previsioni e le Profezie.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

GLI ANNIVERSARI DEL 2020.

Gli anniversari.  

500 anni dalla morte di Raffaello Sanzio.

400 anni dalla nascita di Masaniello.

250 anni dalla morte di Giambattista Tiepolo.

250 anni dalla nascita di Ludwig van Beethoven.

200 anni dalla nascita di Pellegrino Artusi.

200 anni dalla nascita di Vittorio Emanuele II.

150 anni dalla nascita di Maria Montessori.

150 anni dalla morte di Alexandre Dumas.

150 anni dalla nascita di Lenin.

150 anni dalla morte di Charles Dickens.

150 anni dalla nascita di Rosa Luxemburg.

130 anni dalla morte di Carlo Collodi.

120 anni dalla nascita di Eduardo De Filippo.

120 anni dalla nascita di Antoine de Saint Exupery.

120 anni dalla nascita di Ignazio Silone.

100 anni dalla morte di Amedeo Modigliani.

100 anni dalla nascita di Papa Giovanni Paolo II.

100 anni dalla nascita di Carlo Alberto Dalla Chiesa.

100 anni dalla nascita di Emilio Colombo.

100 anni dalla nascita di Carlo Azeglio Ciampi.

100 anni dalla nascita di Salvo D’Acquisto.

100 anni dalla nascita di Charlie Parker.

100 anni dalla nascita di Gianni Rodari.

100 anni dalla nascita di Charles Bukowski.

100 anni dalla nascita di Nilde Iotti.

100 anni dalla nascita di Gesualdo Bufalino.

100 anni dalla nascita di Enzo Biagi.

100 anni dalla nascita di Ray Bradbury.

100 anni dalla nascita di Franco Lucentini.

100 anni dalla nascita di Giorgio Bocca.

100 anni dalla nascita di Federico Fellini.

100 anni dalla nascita di Alberto Sordi.

100 anni dalla nascita di Isaac Asimov.

100 anni dalla nascita di Tonino Guerra.

100 anni dalla nascita e 20 dalla morte di Walter Matthau.

100 anni dalla nascita di Bruno Maderna.

100 anni dalla nascita di Renato Carosone.

100 anni dalla nascita di Helmut Newton.

83 anni dalla nascita dell’Ikea.

75 anni da Hiroshima.

66 anni dalla morte di Eddie Sanders.

60 anni dall'impresa del batiscafo “Trieste”.

60 anni dalla morte di Albert Camus.

60 anni dalla morte di Fausto Coppi.

60 anni dalla morte di Fred Buscaglione.

58 anni dalla morte di Marylin Monroe.

60 anni dalla nascita morte di “Tutto il calcio minuto per minuto”.

60 anni dall’Olimpiade di Roma.

50 anni dalla Woodstock italiana.

50 anni dalla morte di Janis Joplin.

50 anni dalla morte di  Jimi Hendrix.

50 anni dalla separazione dei Beatles.

50 anni dalla morte di Angelo Rizzoli “il Vecchio”.

47 anni dalla morte di Renzo Pasolini.

46 anni dalla morte di Pietro Germi.

43 anni dalla morte di Maria Callas.

43 anni dalla morte di Elizabeth «Lee» Miller.

41 anni dall’uscita di Apocalypse Now.

41 anni dalla morte di Bob Marley.

40 anni dalla morte di Peter Sellers.

40 anni dalla morte di James Cleveland Owens.

40 anni dalla morte di Alfred Hitchcock.

40 anni dalla morte di Steve McQueen.

40 anni dalla morte di Romain Gary.

40 anni dalla morte di Peppino De Filippo.

40 anni dalla morte di Mario Amato, il giudice tradito dallo Stato.

40 anni dall’uscita di “The Blues Brothers”.

38 anni dalla morte di Giuseppe Prezzolini.

38 anni dalla morte di Gilles Villeneuve.

34 anni dalla morte di Elio De Angelis.

33 anni dalla morte di Giovanni Arpino.

32 anni dalla morte di Nico (Christa Päffgen).

32 anni dalla morte di John Holmes.

31 anni dalla morte di Sergio Leone.

31 anni dalla morte di Silvana Mangano.

30 anni dalla morte di Rocky Graziano.

30 anni dalla morte di Keith Haring.

30 anni dalla morte di Ugo Tognazzi.

30 anni dalla morte di Stefano Casiraghi.

29 anni dalla morte di Freddie Mercury.

29 anni dalla morte di Miles Davis.

29 anni dalla morte di Maria Zambrano. la filosofa eversiva.

28 anni dalla morte di John Cage.

27 anni dalla morte di Frank Zappa.

26 anni dalla morte di Massimo Troisi.

26 anni dalla morte di Ayrton Senna.

26 anni dalla morte di Kurt Cobain.

26 anni dalla morte di Aldo Braibanti.

26 anni dalla morte di Moana Pozzi.

25 anni dalla morte di Carlos Monzon.

25 anni dalla morte di Goliarda Sapienza.

25 anni dalla morte di Arturo Benedetti Michelangeli.

25 anni dalla morte di Mia Martini.

24 anni dalla morte di Ivan Graziani.

23 anni dalla morte di Gianni Versace.

23 anni dalla morte di William Burroughs: lo scrittore del Rock.

23 anni dalla morte di Ian Curtis.

22 anni dalla morte di Marcello Geppetti.

22 anni dalla morte di Lucio Battisti.

21 anni dalla morte di Franco Gasparri.

21 anni dalla morte di Stanley Kubrick.

21 anni dalla morte di Robert Bresson.

21 anni dalla morte di Fabrizio De Andrè.

20 anni dalla morte di Vittorio Gassman.

20 anni dalla morte di Enrico Cuccia.

20 anni dalla morte di Attilio Bertolucci.

20 anni dalla morte di Gino Bartali.

20 anni dalla morte di Victor Cavallo.

19 anni dalla morte di Indro Montanelli.

18 anni dalla morte di Francisco Ramón Lojácono.

18 anni dalla morte di Carmelo Bene.

18 anni dalla morte di Joe Strummer.

17 anni dalla morte di Giorgio Gaber.

15 anni dalla morte di Sergio Endrigo.

13 anni dalla morte di Luciano Pavarotti.

12 anni dalla morte di Ruslana Korshunova.

12 anni dalla morte di Tony Rolt.

10 anni dalla morte di Joe Sarno.

10 anni dalla morte di Raimondo Vianello.

10 anni dalla morte di Sandra Mondaini.

10 anni dalla morte di Pietro Taricone.

10 anni dalla morte di Edmondo Berselli.

10 anni dalla morte di Franz-Hermann Bruener.

10 anni dalla morte di Maurizio Mosca.

9 anni dalla morte di Giuseppe D'Avanzo.

9 anni dalla morte di Elizabeth Taylor.

9 anni dalla morte di Leda Colombini.

8 anni dalla morte di Whitney Houston.

7 anni dalla morte di Alberto Bevilacqua.

7 anni dalla morte di Franco Califano.

7 anni dalla morte di Enzo Jannacci.

6 anni dalla morte di Robin Williams.

6 anni dalla morte di Philip Seymour Hoffman.

6 anni dalla morte di Giorgio Faletti.

5 anni dalla morte di Francesco Rosi.

5 anni dalla morte di Pino Daniele.

4 anni dalla morte di Anna Marchesini.

4 anni dalla morte di Bud Spencer.

4 anni dalla morte di Marta Marzotto.

4 anni dalla morte di David Bowie.

4 anni dalla morte di Ettore Bernabei.

4 anni dalla morte di Marco Pannella.

4 anni dalla morte di George Michael.

3 anni dalla morte di Tomas Milian.

3 anni dalla morte di Nicky Hayden.

3 anni dalla morte di Paolo Villaggio.

3 anni dalla morte di Charles Manson.

3 anni dalla morte di Tullio De Mauro.

2 anni dalla morte di Stephen Hawking.

2 anni dalla morte di Sergio Marchionne.

2 anni dalla morte di Bernardo Bertolucci.

2 anni dalla morte di Marco Garofalo.

1 anno dalla morte di Karl Lagerfeld.

1 anno dalla morte di Jeffrey Epstein.

1 anno dalla morte di Massimo Bordin.

1 anno dalla morte di Franco Zeffirelli.

1 anno dalla morte di Luke Perry.

1 anno dalla morte di Nadia Toffa.

In memoria de Bee Gees.

I Compleanni.

I 60 anni di Snoopy.

Lada-VAZ 2101: storia e foto della Fiat 124 sovietica. I suoi primi quarant'anni.  

Fiat Panda: i suoi primi quarant'anni.  

Le auto più brutte.

50 anni fa nasceva lo Statuto dei lavoratori.

L'Sos di 50 anni fa: così Danilo Dolci inventò la radio libera.

25 anni di Ruggito del Coniglio.

Vent’anni di Grande Fratello.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI? (Ho scritto un saggio dedicato)

Le Famiglie influenti.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Le Famiglie Reali.

 

INDICE TERZA PARTE

 

I MORTI FAMOSI.

La sfiga.

Le “Pulizie della Morte”.

La Morte Libera.

Il cervello è l’ultimo a morire.

Effimeri. Dimmi come muori e ti dirò chi sei.

Parlare con i morti.

I complottisti della morte.

La maledizione del "club 27".

E’ morto il musicista Claude Bolling.

È morto lo stilista Pierre Cardin.

È morto Giorgio Galli, professore di Storia delle dottrine politiche.

È morto il wrestler Brody Lee.

E’ morto George Blake, la spia rinnegata.

È morta la modella Stella Tennant.

E’ morto l’attore Claude Brasseur.

E’ morto il Serial Killer Donato Bilancia.

È morto l’ex ministro Enrico Ferri.

Morto lo scrittore John le Carré.

E’ morto il regista Kim Ki-duk.

E’ morto Paolo Rossi. Il Pablito Mundial.

E’ morto Maradona. E’ morto il calcio.

E’ morto Valéry Giscard d’Estaing.

E’ morto Alfredo Pigna.

E’ morto Vincent «Vince» Reffet. Paracadutista jetman.

E’ morta Daria Nicolodi, attrice e sceneggiatrice.

E’ morto Andrea Merloni. 

E’ morta Joan Moncada di Paternò, nata Whelan, vedova del fotografo di moda Johnny Moncada.

E’ morto Dino Da Costa. 

E’ morto Ro Marcenaro.

E’ morto Sergio Matteucci, storico telecronista dei match di Holly & Benji e Mila & Shiro.

E’ Morto Stefano D’Orazio dei Pooh.

E' morto l'ex presidente della Corte dei conti Luigi Giampaolino.

E' morto Gigi Proietti.

È morto Sean Connery.

E' morto Pino Scaccia, storico inviato della Rai.

Morta Diane Di Prima, poetessa e attivista Beat.

E’ morto Lee Kun-hee, presidente di Samsung Electronics.

Morto Frank Horvat, l’ultimo grande fotografo classico del ‘900.

È morto l’attore e cantante Gianni Dei.

E’ morto Enzo Mari: artista e disigner.

E’ morto Alfredo Cerruti, fondatore e voce degli Squallor.

E' morto l'ex bassista degli AC/DC Paul Matters.

È morta la presidente della Regione Calabria, Jole Santelli.

Morto il giornalista Gianfranco De Laurentiis.

È morto il principe Giuseppe Lanza di Scalea.

E’ morto il cantante Anthony Galindo Ibarra.

E' morto Marco Diana, militare in lotta contro lo Stato per l'uranio impoverito.

È morto Johnny Nash.

E’ Morto Eddie van Halen.

E’ morto l’attore Thomas Jefferson Byrd.

Morto lo stilista Kenzo Takada.

È morto Quino, il disegnatore di Mafalda.

Addio a Juliette Greco.

È morto il direttore della fotografia Michael Chapman.

Ron Cobb rip.

Michael Lonsdale rip.

E’ morto il compagno Peppino Caldarola.

E’ morta la compagna femminista  Rossana Rossanda.

Addio a Ruth Bader Ginsburg, icona femminista della Corte suprema.

Addio Enzo Golino, giornalista e critico letterario.

E' morto lo scrittore Winston Groom, autore di "Forrest Gump".

È morta la sessuologa Shere Hite.

E’ morto il regista Marco Vicario.

Morto Toots Hibbert, pioniere del reggae.

E’ morta l’attrice Diana Rigg.

E’ morta l’architetto Maria Cristina Mariani Dameno, coniugata Boeri.

E’ morto Franco Maria Ricci.

Addio a Ronald Bell, fu uno dei fondatori dei Kool & the Gang.

Addio al «re del grano» Pasquale Casillo.

È morto il dj Erick Morillo.

E’ morto Philippe Daverio.

E’ morto l’attore Chadwick Boseman.

È morto il giornalista Arrigo Levi.

E’ morto Sandro Mazzinghi, mito della Boxe.

E’ morto il brigatista Mario Marano.

E’ morto il regista Augusto Caminito.

È morto Ben Cross, l’attore di Momenti di Gloria.

Addio all'attrice barese Mariolina De Fano.

E’ morto il giornalista Stefano Malatesta.

L’attrice Linda Manz rip.

E' morto Cesare Romiti.

Addio a Trini Lopez, il musicista e attore.

E’ morto Stefano Pernigotti.

E’ morto Alberto Bauli.

E’ morto il wrestler James Harris, conosciuto come Kamala.

E’ morta Franca Valeri.

E’ morto Ivo Galletti, il papà della mortadella.

E’ morto Sergio Zavoli.

E’ morto l’attore Reni Santoni.

Addio a John Hume, il Nobel che portò la pace in Irlanda del Nord.

E’ morto l’ingegnere William "Bill" English, l'inventore del mouse.

E’ morta l’attrice hard Alessandra Bregoli in arte Alexy Brey.

E’ morto l’attore Wilford Brimley reso celebre da «Cocoon».

E’ Morta la principessa Giorgiana Corsini.

E’ morto Giulio Maceratini, esponente storico del Msi e di An.

E’ morta Luisa Mandelli, moglie di Guido Crepax.

E' morta Valentina Crepax, nipote di Guido.

Addio a Tataw, capitano del Camerun a Italia '90.

È morto a 76 anni il regista Alan Parker.

E' morta Diana Russell, la sociologa e criminologa che coniò il concetto di femminicidio.

E’ morto Maurizio Calvesi, Storico dell’Arte.

Addio al rapper Malik B, tra i fondatori dei The Roots.

E’ Morto Kansai Yamamoto, lo stilista che ha vestito il rock.

E’ morto l’attore Gianrico Tedeschi.

E’ morto l’attore John Saxon.

È morta Olivia de Havilland, diva di Hollywood.

È morto Regis Philbin, leggendario conduttore della tv Usa.

E’ morto Peter Green: fondatore dei Fleetwood Mac.

Morto Paolo Finzi, l'avvocato anarchico della Milano degli Anni di Piombo.

Morto Massimo Signoretti, voce storica di Radio Rai.

E’ morto a 104 anni Giuseppe Ottaviani: recordman tra i masters di atletica.

E' morto Oreste Casalini, artista e scultore.

È morta Giulia Maria Crespi, la fondatrice del Fai.

E’ morta Zizi Jeanmaire. La regina del music-hall parigino.

È morto John Lewis, icona dei diritti civili negli Stati Uniti.

Addio a Mario Scotti Galletta, baffo d’oro della pallanuoto italiana.

E’ morta Naya Rivera, attrice di «Glee».

E’ Morta Kelly Preston, la moglie di John Travolta.

Addio a Paolo Giovagnoli, Pm delle nuove Br e del caso Pantani.

E’ morto Emanuele Ferrario, presidente di Radio Maria.

E’ morto il norvegese Jagge, sconfisse Tomba ad Albertville '92. 

Addio all'attore canadese Nick Cordero.

Morto l’avvocato Mauro Mellini: il radicale che denunciò il “partito dei magistrati”.

Ennio Morricone è morto.

 

INDICE           QUARTA PARTE

 

I MORTI FAMOSI.

Addio a Carlo Flamigni il guru il fecondazione assistita.

E’ morta la ciclista Roberta Agosti.

È morta Ida Haendel, leggenda del violino.

E’ morto il campione di poker Matteo Mutti.

E' morto Loris Meliconi, l'inventore del guscio per il telecomando.

Addio a Carl Reiner, comico da record di Emmy e amico di Mel Brooks.

È morto Freddy Cole, grande jazzista e fratello di Nat King.

È morta Linda Cristal, star dei western e della serie tv "Ai confini dell'Arizona".

E’ morta L'attrice Vittoria De Paoli. Recitò con la Capotondi.

E’ morta Taryn Power, sorella di Romina.

E’ morto il grafico Milton Glaser.

E’ morto “l’immortale” Marc Fumaroli.

E’ morto Alfredo Biondi, storico leader del Partito liberale.

È morto il regista Joel Schumacher.

È morto Charles Webb, l'autore ribelle del Laureato.

E' morto Pierino Prati.

E' morto Mario Corso.

Addio allo scrittore Carlos Ruiz Zafon.

È morto Ian Holm, Bilbo Baggins del "Signore degli anelli".

E’ Morta Jean Kennedy, era l’ultima dei fratelli di Jfk.

È morto Tibor Benedek: lutto nel mondo della Pallanuoto.

E’ morto l’avvocato Gianfranco Dosi, fondatore di Aiaf.

È morto Giulio Giorello.

E’ morto Stefano Bertacco, senatore di FdI.

È morto Luigi Spagnol: scoprì per primo Harry Potter.

E’ morto il cantante Pau Donés dei Jarabe de Palo.

E’ morto Rademacher, il recordman della boxe.

Addio al maestro Marcello Abbado, fratello maggiore di Claudio.

Addio a Chris Trousdale, voce della boyband Dream Street.

E’ morto il semiologo Paolo Fabbri.

E' morto Carlo Ubbiali, leggenda del motociclismo italiano.

È morto Roberto Gervaso.

È morto Tinin Mantegazza, creatore del pupazzo Dodò dell'Albero azzurro.

E’ morto Morrow: fu il primo a eguagliare la leggenda Owens.

È morto l'artista Christo.

Morto Beppe Barletti: volto storico di “90° minuto”. 

È morto il chitarrista Bob Kulick, "quinto" membro dei Kiss.

E’ morto l’attore Anthony James.

E’ morto Franco Raselli, uno degli orafi più importanti nel mondo.

E’ morta Alice Severi: ex bimba prodigio del piano.

È morto Larry Kramer, sceneggiatore.

Addio all'attore Richard Herd, comandante supremo dei "Visitors".

E’ morto Prahlad Jani, l’indiano che sosteneva di non mangiare e bere dal 1940.

E’ Morto Stanley Ho. Addio al re dell'azzardo.

E' morto Bruno Bernardi, storica firma de La Stampa.

È morto Jimmy Cobb, tra i più grandi batteristi della storia del jazz.

È morto John Peter Sloan, il comico insegnante d'inglese più famoso d'Italia.

È morto Alberto Alesina, economista italiano che ha conquistato Harward.

Addio a Sergio Siglienti, ex presidente di Banca Commerciale Italiana.

Morto Carlo Durante, ex campione paralimpico di maratona.

Morta Cristina Pezzoli, la regista che amava la sperimentazione.

E’ Morto Antonello Riva: regista e chef.

È morta Anna Bulgari.

Addio all'editore Piero Manni.

Morto Wilson Roosevelt Jerman, maggiordomo di undici presidenti Usa. 

Addio a Claudio Ferretti, voce storica di "Tutto il calcio minuto per minuto".

È morto padre Adolfo Nicolas, era stato «papa nero» dei Gesuiti.

E’ morto Shad Gaspard ex lottatore di wrestling.

Morta Hana Kimura, la lottatrice di wrestling.

Morto Gigi Simoni.

Tennis: è morto Ashley Cooper, leggenda della racchetta anni '50.

Basket, Nba in lutto: è morto Jerry Sloan, leggenda di Utah.

Morto il giornalista Stefano Carrer.

È morto Mory Kanté: cantante guineano celebre per «Yeke Yeke».

E’ morto l’attore Hagen Mills.

E’ morto il giornalista Cesare Barbieri.

Giorgio Stegani rip.

È morto Gregory Tyree Boyce, attore di Twilight.

E’ morta Ann Mitchell,  la scienziata che decriptò Enigma.

È morto l’attore Michel Piccoli.

E’ morta la fotografa tedesca Astrid Kirchherr.

Addio a Mauro Sentinelli,  il pioniere dei cellulari. Inventò la ricaricabile.

Morta Lynn Shelton, regista di «Little Fires Everywhere» e «Glow».

E’ morto l’attore Fred Willard, da Beautiful a Modern family.

E’ morta Norma Doggett, ballerina di "Sette spose per sette fratelli".

È morto Phil May, frontman e cofondatore dei Pretty Things.

È morto Sandro Petrone, storico conduttore del Tg2.

E’ morto Ezio Bosso.

È morto Giulio Savelli, editore di "Porci con le ali".

Addio a Jerry Stiller.

E’ morta Costanza Rossi in Ichino.

Morta Betty Wright, regina del soul.

È morto Little Richard, principe trasgressivo del rock'n'roll.

E’ morto Piero Gelli, il risvolto snob dell'editoria.

Morto Franco Cordero, il giurista che inventò il "Caimano".

E' morto "El Trinche" Carlovich: idolo di Maradona.

Morto Luca Nicolini, il libraio che inventò il Festivaletteratura di Mantova.

Morto il rapper Ty.

E' morto Bob Krieger, il fotografo di Agnelli e Armani.

E’ morto Vincenzo Abbagnale.

È morto Florian Schneider, fondatore dei Kraftwerk.

Addio a Michael McClure, principe della Beat Generation.

Morto l’attore Mimmo Sepe.

Addio al barese Matteo De Cosmo, art director della «Marvel» a New York.

Morto McNamara: campione Nba di basket.

E’ Samantha Fox, la porno attrice.

È morto Sam Lloyd, l'avvocato di Scrubs.

È morto l'attore BJ Hogg.

È morto il batterista Tony Allen.

Morto Fra' Giacomo Dalla Torre: Gran Maestro del Sovrano Ordine di Malta.

E’ morto l’attore Irrfan Khan.

Addio a Germano Celant.

È morto Giulietto Chiesa, giornalista e politico.

Claudio Risi rip.

Addio al giornalista Nicola Caracciolo.

Addio al regista Luca De Mata.

E’ morto il filosofo Aldo Masullo.

Morto Giuseppe Gazzoni Frascara: Ex presidente del Bologna Calcio.

È morta Shirley Knight, attrice di cinema e serie tv. 

E’ morto Sirio Maccioni: re della cucina italiana in America.

E’ morto a 82 anni Peter Beard, fotografo naturalista.

E’ morto il bassista Henry Grimes.

E’ morto l'attore francese Philippe Nahon.

Se ne va Gene Deitch, 95 anni, regista, disegnatore, produttore di cartoon.

È morto Sergio Fantoni.

Morto l’attore Brian Dennehy: lo sceriffo di "Rambo". 

Addio a Lee Konitz, uno degli ultimi grandi del jazz mondiale.

E’ morto Luis Sepulveda.

E’ Mario Donatone, uno dei cattivi del cinema italiano.

E' morto Franco Lauro, volto noto di Rai sport.

E’ morto Mirko Bertuccioli, detto "Zagor", cantante dei Camillas.

Morta Patricia Millardet, la giudice della "Piovra".

Morto il giornalista Giuseppe Zaccaria.

E’ morto Stirling Moss leggenda dell'automobilismo.

E’ morto Luciano Pellicani.

E' morto il fotografo Victor Skrebneski.

È morto Enzo Carrella, cantautore romano.

E’ morto Armando Francioli.

E’ morto l’architetto Massimo Terzi.

Rip la costumista Brunetta Parmesan.

E’ morto Donato Sabia, fu due volte finalista olimpico.

E’ morta Linda Tripp, la talpa dello scandalo Lewinsky.

Allen Garfield rip.

Morta l'astrofisica Margaret Burbidge.

Morta Susanna Vianello, figlia di Edoardo e Wilma Goich.

Coronavirus: è morta Cinzia Ferraroni, storica attivista del M5s. 

È morto Alessandro Rialti, voce storica della Fiorentina. 

Morta Honor Blackman, la Pussy Galore di James Bond. 

Morto l'ex premier libico Mahmoud Jibril. 

Morto Lorenzo Sanz, ex presidente del Real Madrid.

Morto Bernard Gonzalez, calcio francese in lutto.

Addio ad Ezio Vendrame, il George Best italiano.

Morto Bill Withers, voce di "Ain't No Sunshine".

È morto Sergio Rossi: ucciso dal Coronavirus il maestro della calzatura.

Coronavirus, morto Mario Bresciani, capitano d’industria delle calze.

Turchia, morta Helin Bolek: attivista e cantante.

Addio Gerald Freedman, regista del primo Hair a Broadway.

Addio a Bill Withers, rappresentante della black music.

Morto Piero Gratton, papà del Lupetto della Roma.

Morto Gaetano Rebecchini, fu tra i fondatori di Alleanza nazionale.

Morto Ellis Marsalis, un gigante del jazz.

Morto Goyo Benito: stella del Real Madrid negli anni ’70.    

Morto Andrew Jack della saga di Star Wars.

 Coronavirus, addio al musicista Adam Schlesinger, celebre leader dei Fourtains of Wayne.

E' morta Maria Antonietta Muccioli.

Addio a Franco Crepax.

È morto Filippo Mantovani, il figlio del presidente della Sampdoria.

Morto Attilio Bignasca, leghista ticinese.

Morto Angelo Rottoli, ex campione europeo dei massimi leggeri.

È morto Krzysztof Penderecki, compositore polacco.

E’ morto Luigi Roni: il cantante lirico.

E se n'è andata anche Annunziata Chiarelli, per tutti Mirna Doris.

Morto Michel Hidalgo: c.t. campione d'Europa nell'84 con la Francia.

Morto Massimo Vincenzi de La Repubblica.

Addio a Flavio Campo di Avanguardia.

Morto a Parma Massimo Zannoni, docente e uomo di cultura.

Morto Mark Blum, recitò anche in "Mr. Crocodile Dundee".

Morto il principe Raimondo Orsini d’Aragona.

Perdiamo anche Detto Mariano.

Morto Corrado Sfogli.

È morto Joe Amoruso, il pianista del gruppo di Pino Daniele.

E’ morto Paolo Micai, giornalista e cineoperatore.

Se ne va anche Alfio Contini.  

Bepi Covre è morto: era conosciuto come il “leghista eretico”.

Coronavirus, morto Terrence McNally: scrisse “Paura d’amare”.

Morto il regista americano Stuart Gordon.

E’ morto il sassofonista Manu Dibango.

Fumetti, addio ad Albert Uderzo: era il "padre" di Asterix.

Morto Luigi Pallaro, "el senador" che affondò Prodi II.

E' morto Carlo Casini, fondatore del Movimento per la Vita.

E’ morto Alberto Arbasino.

E’ morta Lucia Bosè.

E' morto il regista Tonino Conte.

É morto Kenny Rogers.

Nazareno (Neno) Zamperla rip.

Morto Gianni Mura, raccontò il calcio e il ciclismo.

Joaquin Peiró è morto.

Addio Eduard Limonov.

Se ne va Stuart Whitman.

E' morto l'architetto Vittorio Gregotti.

Atletica, morta Dana Zatopek.

Bruno Armando è morto.

Morto Max von Sydow.

Morta Suor Germana.

Francesca Milani è morta.

Morto l’attore e culturista David Paul.

E’ morto Perez de Cuellar ex segretario generale dell’Onu.

Morto Ulay. L’artista storico compagno di Marina Abramovic.

Elisabetta Imelio è morta a 44 anni: Prozac+ e Sick Tamburo in lutto.

Addio al fisico e matematico visionario Freeman Dyson.

Egitto, morto l'ex presidente Hosni Mubarak.

Addio a Katherine Johnson, la scienziata della Nasa che portò l'uomo nello spazio.

Lego, morto Nygaard Knudsen inventore degli omini del colosso dei giochi.

Addio a Nando Ceccarini, maestro della cronaca per 20 anni.

Morto a 99 anni Jean Daniel, il fondatore dell'Obs.

Amaretto Disaronno, è morto il patron Augusto Reina.

Napoli, è morto l’ex campione Mario Occhiello. 

È morto lo scrittore Clive Cussler, maestro dell'avventura.

Metropolitana di New York, è morto il padre della mappa iconica.

Si è spenta Claire Bretécher, una delle prime donne ad affermarsi nel mondo dei fumetti.

E’ morta Caroline Flack, uno dei volti più noti della televisione britannica.

È morto José Mojica Marins. Il maestro dell'orrore.

Morto Flavio Bucci, fu Ligabue nella fiction tv.

Addio a Barry Hulshoff, il pilastro dell’Ajax di Cruyff.

Usa, si schianta col suo missile: muore Mike Hughes, sostenitore della Terra piatta.

E’ morta Nikita Pearl Waligwa, l'attrice ugandese vista nel film «Queen of Katwe».

Morto Max Conteddu,  il poeta dei social.

È morto Larry Tesler, il “padre” dei comandi copia-incolla-taglia.

Si è spento Gianni Rotondo, decano dei giornalisti di Taranto.

Addio a Stanley Cohen, Nobel per la Medicina con Levi Montalcini.

Addio a Poeti Norac, astro nascente del surf.

Se ne va anche Dyanne Thorne, cioè Ilsa la belva delle SS.

Addio alla scultrice Beverly Pepper, regina della Land Art.

È morto Luciano Capelli, storica voce di Radio Alice.

La scomparsa di Emanuele Severino.

Morta il soprano Mirella Freni.

Addio a George Steiner, maestro della critica. 

Morto a 100 anni Mike Hoare, il mercenario più famoso del mondo.

Morto il produttore Gianni Minervini.

Luciano Gaucci, morto ex presidente del Perugia.

Morta Germana Giacomelli, la super mamma che curava i bambini.

Addio a Giancarlo Morbidelli, papà di leggendarie moto da corsa.

Morto Benito Sarti, addio allo storico terzino della Juventus.

Morto Giovanni Cattaneo, è stato il primo «Capitan Findus».

Morto Kirk Douglas, aveva 103 anni.

Morto Paolo Guerra, storico agente e produttore.

Harriet Frank Jr rip.

Kobe Bryant è morto.

E' morto Robbie Rensenbrink: fu uno dei fuoriclasse della grande Olanda di Cruyff.

Morto Narciso Parigi.

Addio a Stefano Scipioni, voce di Radio Radio.

È morto Terry Jones, fondatore e regista dei Monty Python.

Morto Gianluigi Patrini, ex calciatore.

È morto Jimmy Heath, in arte Little Bird.

Addio ad Emanuele Severino, gigante della filosofia italiana.

E' morto Pietro Anastasi.

Morto Pietro Antonio Migliaccio, il nutrizionista dei salotti tv.

Morto Christopher Tolkien, figlio dell’autore del «Signore degli Anelli».

Morto Stan Kirsch.

E’ morto il giornalista e scrittore Giampaolo Pansa.

E’ morto il filosofo Roger Scruton.

Morto Giovanni Custodero, l’ex calciatore malato di cancro.

Morto Capuozzo, 40 anni, campione d’Italia nel calcio a cinque.

Dakar 2020: morto il motociclista Edwin Straver.

Dakar, morto Paulo Gonçalves.

Morto Giovanni Paolo Martelli, addio al maestro che scoprì la Xylella.

Addio a Neil Peart, uno dei più grandi batteristi di sempre.

Morto Edd Byrnes, l’attore interpretò Vince Fontaine in «Grease».

Aveva soltanto 27 anni, Harry Hains. 

Lorenza Mazzetti, che se ne è andata a 92 anni.

Se ne va Buck Henry, 89 anni.

Morta Elizabeth Wurtzel.

Musica, è morto a 67 anni Neil Peart: storico batterista dei Rush.

Morto Qaboos bin Said al-Said, sultano dell’Oman.

Morto Francesco Claudio Averna: il suo amaro è famoso in tutto il mondo.

Commissario Montalbano, morta l'attrice Nellina Laganà.

Morto a 86 anni Italo Moretti, storico giornalista Rai.

Morto Alessandro Cocco, il re gentile dei presenzialisti della tv.

Franco Ciani morto suicida.

Addio a Georges Duboeuf «Papa del Beaujolais».

È morto Vittorio Fusari, rinomato chef.

Basket, è morto David Stern: l'uomo che ha reso planetaria l'Nba.

 

 

 

LA SOCIETA’

 

INDICE QUARTA PARTE

 

·        Addio a Carlo Flamigni il guru il fecondazione assistita.

La fecondazione assistita perde il guru. Addio a Carlo Flamigni, maestro di bioetica e paladino della medicina militante. Stefano Zurlo, Lunedì 06/07/2020 su Il Giornale. Definirlo solo un ginecologo sarebbe riduttivo. Forse, sarebbe più corretto parlare di un maestro se il vocabolo non fosse divisivo sulle frontiere dei cosiddetti nuovi diritti: dall'aborto alla fecondazione eterologa. Carlo Flamigni, morto all'età di 87 anni, era più compiutamente uno scienziato da prima linea. Innovatore & divulgatore: studiava, firmava pubblicazioni su pubblicazioni affrontando questo o quel tema, poi distillava in una frase pillole di saggezza progressista, oggi si direbbe liberal, destinate a suscitare standing ovation da una parte e anatemi dall'altra. Un giorno, nel 2014, osservando lo scontro davanti al Policlinico Sant'Orsola di Bologna fra un gruppetto di cattolici che pregavano contro l'aborto e le femministe che intonavano Bella ciao, il professore se ne uscì con un giudizio molto acuminato e offensivo per la sensibilità di chi non la pensava come lui: «Quelle preghiere sono espressione di una chiesa medioevale. Le femministe reagiscono a una provocazione cattiva che umilia le donne». Così. Tranchant. Come il profeta di un nuovo ordine imbevuto nel fonte battesimale di un neopositivismo tutto ottimismo. «Dietro a un aborto - aggiunse a Repubblica - c'è sofferenza. É una scelta complicata. Ricordo le donne a testa bassa che non vogliono essere viste. Chiedo a chi recita le preghiere dove è la loro compassione, di considerare queste donne, vittime di fidanzati imprudenti, di mancanza di educazione. Dietro c'è l'egoismo, l'ignoranza, l'indolenza degli uomini». Questo era Flamigni: il bisturi era la bacchetta magica di una nuova era che faceva a pezzi millenni di tradizione, di morale, di religione. E prospettava un'epoca in cui le donne, affrancate dalla condizione subalterna, avrebbero potuto scegliere quale strada prendere ai confini della vita. Esattamente come poi è avvenuto, nel nome del femminismo e della contemporaneità, anche se non è affatto detto che tutto sia andato per il meglio. Anzi. L'aborto è diventato nei fatti quasi uno strumento di contraccezione, la sofferenza si è mischiata ad altri stati d'animo, non sempre così drammatici, soprattutto la natalità, non più difesa come prima, è crollata aprendo un buco nella società e generando problemi giganteschi. Più grandi di quelli che dovevano essere risolti. Come è successo anche ad altri generosi pionieri, Flamigni ha coltivato il mito di un nuovo umanesimo, senza accorgersi che così, pur collezionando vittorie su vittorie, la società sarebbe andata a sbattere. Ma lui è andato avanti imperterrito. Fino alla fine. «Che rabbia» esclamó davanti alle titubanze della Regione Emilia nell'imboccare la via dell'eterologa, suo cavallo di battaglia. Nessun dubbio etico scuoteva queste certezze: «Non conta la genetica, conta chi cresce il bambino». E ancora, convinto di vedere più in là, affermava con una certa temerarietà: «Le regole morali di oggi non sono uguali a quelle di ieri. E in futuro saranno ancora diverse. Non c'è una morale scritta. Ma è dettata dal senso comune. Che si modifica come la scienza. Oggi sta arrivando l'utero artificiale». Insomma, per tutta la vita, Flamigni non ha mai perso quell'immagine di camice bianco militante, immerso nella sua missione e poi nei libri, nella docenza, nelle battaglie civili che hanno segnato più di una generazione. Il ginecologo, in realtà un intellettuale, lascia uno stuolo di ammiratori. Ma anche una serie di previsioni stonate. Perché il perimetro dell'uomo è più grande di quello che aveva identificato e circoscritto. Operando una riduzione, quella sì dalle conseguenze disastrose.

Da "La Stampa" il 5 luglio 2020. È morto a 87 anni Carlo Flamigni, medico, ginecologo, scrittore, padre della fecondazione assistita, già membro del Comitato nazionale di Bioetica. Una vita spesa per i diritti delle donne, per la libertà di scelta, per la difesa di leggi come quella sull'aborto. Viveva a Forlì nella sua casa di famiglia. E proprio nella città romagnola verrà allestita la camera mortuaria: lunedì dalle 14 alle 19 e martedì dalle 7 alle 14. Flamigni, fra i massimi esperti mondiali di fecondazione assistita, ha preso parte in modo attivo al dibattito che si era sviluppato in Italia ai tempi dell'approvazione della legge 40 del 2004 che ha introdotto l'uso di queste tecniche nel nostro paese, e nel successivo lavoro per modificarla. Nato a Forlì il 4 febbraio 1933, Flamigni si era laureato in Medicina e Chirurgia presso l'Università degli Studi di Bologna nel luglio del 1959, con successivo diploma di specialista in Ostetricia e Ginecologia. Docente di diversi insegnamenti presso l'Alma Mater, è stato direttore della Clinica Ostetrica e Ginecologica dell'Università degli Studi di Bologna dal novembre 1994 al dicembre 2001. Imponente la sua produzione scientifica, con oltre mille memorie originali, numerose monografie e alcuni libri di divulgazione. Ha pubblicato numerosi articoli su vari problemi di bioetica. Dal 1990 al 1994 e dal 1999 al 2004 è stato Presidente della SIFES - Società Italiana di Fertilità e Sterilità e Medicina della Riproduzione. Già membro anche del Comitato Nazionale per la Bioetica. Da dicembre 2015 era anche membro del Comitato Etico Università Statale di Milano. Esperto esterno della Fondazione Veronesi. Temi di ricerca degli ultimi anni: la contraccezione maschile; le tecniche di fecondazione assistita; i problemi della bioetica e dell'etica medica. 

Morto Carlo Flamigni: una vita per la libertà di scelta delle donne. Il Dubbio il 5 luglio 2020. Carlo Flamigni è morto a 87 anni: era medico, ginecologo e padre della fecondazione assistita e difensore dei diritti delle donne e della legge sull’aborto. L’annuncio della morte del professor Carlo Flamigni è arrivata dal figlio che ha scritto un post su facebook: “Ciao papà , speravo che questo momento non arrivasse mai, il dolore è grande almeno quanto il bene che ti ho voluto…ma un giorno ci rivedremo prof..ne sono sicuro…sempre nel mio cuore…sempre…sempre…”. Carlo Flamigni aveva 87 anni Carlo Flamigni ed era medico, ginecologo e padre della fecondazione assistita, membro del Comitato nazionale di Bioetica. Ha passato la sua vita di medico a difendere la libertà di scelta delle donne e in difesa della legge sull’aborto. Nato a Forlì il 4 febbraio 1933, Flamigni si era laureato in medicina con la specializzazione in ostetricia e ginecologia presso l’Università di Bologna dove ha intrapreso la carriera universitaria. E’ stato docente di endocrinologia ginecologica, direttore del servizio di Fisiopatologia della riproduzione e poi direttore clinica ostetrica e ginecologica dell’Università degli Studi di Bologna. Fu componente del Comitato Nazionale di Bioetica dal 1990 al 2017 e poi componente del Comitato etica dell’università di Milano.

E’ stato presidente della Società Italiana di Fertilità e Sterilità. Ha ricoperto la carica di presidente onorario dell’Aied, associazione italiana per l’educazione demografica, dell’Unione degli Atei e Agnostici Razionalisti, e socio onorario della Consulta di Bioetica. E’ stato autore di numerose pubblicazioni riguardanti la tutela della salute della donna, aventi come tema la riproduzione e la fecondazione assistita. Ha scritto anche libri per l’infanzia, e nel 2011 ha vinto il premio letterario Serantini per il suo “Un tranquillo Paese di Romagna”. Alle elezioni europee del 2009 si e’ candidato nella lista “Sinistra e Libertà” per il collegio dell’Italia nord-orientale. Carlo Flamigni fu “un maestro a tutto tondo. Un profilo scientifico altissimo”. E’ il ricordo che affida ad AGI il suo allievo, Carlo Bulletti, specialista in ginecologia e ostetricia, ora professore incaricato alla Yale University.  “Compassionevole e Persona con la P maiuscola, capace di studi scientifici rilevanti e di offrire un cuscino con un sussurro allo orecchio a chi si svegliava dalla anestesia di una 194”, aggiunge Bulletti che si dice “onorato di esserne stato allievo e grato per essergli stato vicino fino alla fine”.

È morto Carlo Flamigni, una vita per i diritti per le donne. Pubblicato domenica, 05 luglio 2020 da La Repubblica.it. È morto a 87 anni Carlo Flamigni, medico, ginecologo, scrittore, padre della fecondazione assistita, già membro del Comitato nazionale di Bioetica e direttore della clinica ostetrica dell'Università di Bologna. Una vita spesa per i diritti delle donne, per la libertà di scelta, per la difesa di leggi come quella sull'aborto. Viveva a Forlì nella sua casa di famiglia. E proprio nella città romagnola verrà allestita la camera mortuaria: domani, lunedì 6 luglio, dalle 14 alle 19 e martedì dalle 7 alle 14. Alle 15 ci sarà un breve saluto. Il figlio, Carlo Andrea, su Facebook lo ricorda così: "Ciao papà, speravo che questo momento non arrivasse mai, il dolore è grande almeno quanto il bene che ti ho voluto... ma un giorno ci rivedremo prof". "Ero con lui ieri sera, è una perdita da molti punti di vista incommensurabile, è uno degli ultimi veri maestri sia sul piano scientifico che personale ed umano: sapeva insegnare cose di mestiere e saggezza di vita, un uomo di spessore raro”, lo ricorda l'allievo Carlo Bulletti, specialista in ginecologia e ostetricia, ora professore incaricato alla Yale University.Eterologa, Flamigni: "Non conta la genetica, ma chi cresce il bambino" in riproduzione.... Condividi   Anche Corrado Melega, ex direttore della maternità dell'ospedale Maggiore di Bologna, già consigliere comunale del Pd, era un suo discepolo. Lo ricorda così: “Se n'è andato un pezzo della mia vita e della storia della medicina bolognese e italiana. Un uomo importante, innovativo, polemista, di rottura. Lavorava ancora, non tanto come ginecologo ma era diventato esperto di bioetica, si interessava di problemi che riguardavano l'etica della riproduzione, della genitorialità. Si è battuto per i diritti delle donne, era un grande paladino della laicità. Sono rimaste famose le sue battaglie contro il conservatorismo, il conformismo, un certo tipo di cattolicesimo di retroguardia. O ancora la sua attività a difesa della 194 e per la fecondazione assistita. Inseriva questi temi in un orizzonte più generale di tolleranza, di libertà d'espressione e di scelta: tutte quelle cose che in Italia, in questo momento, sono in pericolo”.

Le battaglie. "Quelle preghiere sono espressione di una chiesa medievale. Le femministe reagiscono a una provocazione cattiva che umilia le donne", disse a Repubblica nel 2014, commentando lo scontro davanti al policlinico Sant'Orsola tra i cattolici che pregavano contro l'aborto e le femministe che rispondevano intonando “Bella Ciao”. Perché dietro a un aborto, disse, c'è “sofferenza. È una scelta complicata. Ricordo le donne a testa bassa, che non vogliono essere viste. Chiedo a chi recita le preghiere dove è la loro compassione, di considerare queste donne, vittime di fidanzati imprudenti, di mancanza di educazione. Dietro c'è l'egoismo, l'ignoranza, l'indolenza degli uomini, c'è la responsabilità sociale di come educhiamo i nostri figli maschi a non rispettare le bambine, sorelle, compagne". "Che rabbia", esclamò, sempre quell'anno, quando l'Emilia tentennava sulla fecondazione eterologa. Criticava "scelte senza coraggio" mentre le coppie "sono costrette ad andare all'estero". Imputava alla politica di mettersi di traverso, e di non garantire, dunque, un diritto. Professava la laicità, perché "le regole morali di oggi non sono uguali a quelle di ieri. E in futuro saranno ancora diverse. Non c'è una morale scritta. Ma è dettata dal senso comune. Che si modifica, come la scienza. Oggi sta arrivando l'utero artificiale, si congelano gli ovociti da giovani quando i difetti genetici non sono ancora espressi per poter fare i figli più tardi. Sono questioni che vanno al di là della morale scritta in alto da chissà chi".

Una vita per i diritti. Gli stessi che la moglie del medico, la sociologa Marina Mengarelli Flamigni, ha raccontato in un libro uscito da poco in libreria per Pendragon, "Diritti che camminano. Uno sguardo sui diritti civili in Italia dal 1968 ad oggi attraverso gli occhi di Carlo Flamigni". La narrazione delle battaglie da lui vissute in prima persona in Italia: la rivoluzione della sessualità, la contraccezione, la riproduzione, l’inizio e la fine della vita. "Una vera e propria storia delle lotte per i diritti civili nel nostro Paese".

·        E’ morta la ciclista Roberta Agosti.

L'anno nero dei ciclisti: morta contro un camion. Travolta Roberta Agosti, moglie dell'ex pro Marco Velo: "La bici ci aveva uniti, ora ci ha divisi". Pier Augusto Stagi, Domenica 05/07/2020 su Il Giornale. Ancora una volta un camion, ancora una volta una tragica fatalità. Mentre Alex Zanardi sta lottando in un letto d'ospedale di Siena da quindici giorni, Roberta Agosti ha perso la vita ieri mattina sulle strade del bresciano in seguito all'impatto violento con un camion-cisterna adibito al trasporto del latte. Uno scontro frontale, avvenuto attorno a mezzogiorno, quando la Agosti, ciclista appassionata, compagna di vita dell'ex professionista Marco Velo (è stato anche compagno di squadra di Marco Pantani alla Mercatone Uno, ndr) e oggi collaboratore di Davide Cassani per le squadre azzurre, ha perso il controllo della bicicletta ed è andata a sbattere violentemente contro il mezzo che proveniva in senso contrario. Roberta Agosti aveva 51 anni, insegnava yoga ed educazione teatrale ai bambini e amava la bicicletta in tutte le sue espressioni, dalle passeggiate alle gran fondo agonistiche. È morta sul colpo, a nulla sono serviti gli immediati soccorsi e l'arrivo dell'elisoccorso. Era tesserata per il Team Millenium di Brescia e a Castel Venzago, tra il Santuario della Madonna della Scoperta e Lonato, la sua vita è stata in un attimo spezzata. Dalle prime testimonianze, il gruppo di amici di Velo e dell'Agosti stava pedalando in tutta sicurezza in un tratto di strada tranquillo nella campagna bresciana, su un rettilineo che puntava leggermente all'insù. «Sono a pezzi, non ho parole ha spiegato a il Giornale Marco Velo, che è anche l'uomo della sicurezza al Giro d'Italia, il regulator del gruppo -. Eravamo in mezzo alla campagna, dove il traffico in pratica non c'è. Avevamo proprio scelto quelle strade isolate per pedalare in tutta sicurezza. Eravamo un gruppetto di amici che procedeva pian pianino senza forzare, al momento dell'incidente non andavamo più di 23 chilometri all'ora. Salivamo su una strada all'1%, ad un certo punto sono caduti in 3 o 4, Roberta per evitarli si è allargata, ha sbandato e si è portata verso sinistra dove stava sopraggiungendo esattamente in quel momento il camion cisterna che le ha tolto la vita. È stata una tragica fatalità. Il camionista, poveretto, non c'entra assolutamente niente, ma per me da quel momento è in cominciato un incubo. Sono devastato. Il ciclismo ci aveva fatto conoscere e il ciclismo ci ha separato. Io e Roberta stavamo bene assieme, era un anno e mezzo che ci frequentavamo, entrambi venivamo da due matrimoni finiti. Adesso mi trovo a piangere una donna che amavo e dentro di me ho solo un profondo e incontenibile senso di fine». Una nuova tragedia sulle nostre strade, ancora una volta a farne le spese un ciclista. Strade periferiche, lontane dal traffico caotico della città, ma l'appuntamento con quel camion-cisterna era segnato. «Credo che il destino sia davvero scritto nelle stelle ci dice Velo con la voce rotta dall'emozione -. Penso che se fossimo andati a giocare a golf le sarebbe successo ugualmente qualcosa. È stata una tragica fatalità, ma questo non mi dà pace. Niente e nessuno può lenire il mio dolore».

Davide Romani per la Gazzetta dello Sport il 5 luglio 2020. «Due anni fa ho conosciuto Roberta andando in bicicletta. Entrambi uscivamo da storie importanti. Stavamo insieme da un anno e mezzo. Ora la bicicletta me l' ha portata via». Straziato dal dolore Marco Velo racconta così l' incidente mortale che ha coinvolto la sua compagna, Roberta Agosti. La donna insieme al compagno - ex professionista e oggi assistente del c.t. azzurro Davide Cassani - e a un gruppo di amici, stava svolgendo un allenamento mattutino. Da Madonna della Scoperta il gruppo pedalava verso Lonato, lungo una stretta strada di campagna nel bresciano. «La strada saliva all' 1%, andavamo piano, intorno ai 25 km/h. Eravamo su un lungo rettilineo senza buche. Davanti a Roberta sono caduti 3-4 compagni di allenamento e lei per evitarli ha scartato a sinistra. In quel momento è arrivato in direzione opposta il camion». Roberta, è stata investiva frontalmente dal mezzo che trasportava latte. Inutile l' intervento di un elicottero del 118. «Di solito non lasciava mai la mia ruota mentre in questo caso io mi trovavo davanti al gruppetto mentre lei era nelle retrovie. Ho provato a rianimarla ma non c' è stato nulla da fare». La donna era un punto di riferimento delle bike academy di Cassani (stage sportivi organizzati a Gran Canarie, in Spagna). E proprio durante questi eventi raccoglievano grande successo le sue lezioni di yoga al tramonto. Yoga che insieme all' educazione teatrale, Roberta insegnava anche ai bambini. «Eravamo in una situazione di massima sicurezza - continua il 46enne professionista dal 1996 al 2010 e compagno di squadra di Pantani alla Mercatone Uno -. Avevamo scelto quella strada in mezzo ai vigneti, in 50 km avremo incontrato 5 macchine. In questo caso non si può parlare di scarsa sicurezza stradale». Lo stesso concetto ribadito dal c.t. della Nazionale Davide Cassani. «Credo si possa parlare di una fatalità. Non stavano andando forte, la strada saliva leggermente e non c' erano curve». L' incidente di Roberta segue a meno di 24 ore quello che ha coinvolto Nicolas Chiola. Il 19enne di Cepagatti (Pescara), è stato investito a Chieti Scalo da un fuoristrada guidato da una donna mentre si stava allenando. Nicolas ha battuto violentemente la testa sull' asfalto. Al momento si trova ricoverato in prognosi riservata all' ospedale Santo Spirito di Pescara per un trauma cranico. Anche se quello di Roberta Agosti al momento viene catalogata come una fatalità, i due incidenti riportano d' attualità il tema della sicurezza stradale per i ciclisti. Nel 2019 sono stati 300 i morti con lo stesso Davide Cassani e Alex Zanardi che si sono spesi più volte in richiami alla sicurezza stradale e ad una maggiore prudenza per chi è alla guida. Un triste gioco del destino per Velo. Terminata la carriera da professionista si è proprio dedicato alla sicurezza in gara diventando il "regolatore di corsa" del Giro d' Italia e delle altre gare organizzate da Rcs. A lui il compito, insieme al direttore di corsa, di stabilire chi passa e chi no nella carovana di mezzi al seguito della corsa nei punti più delicati del percorso, dove si fermano anche i fotografi e le telecamere per provare a ridurre al massimo i pericoli per i ciclisti in gara.

·        È morta Ida Haendel, leggenda del violino.

È morta Ida Haendel, leggenda del violino del Ventesimo secolo. Pubblicato giovedì, 02 luglio 2020 da La Repubblica.it. La musicista polacca naturalizzata britannica Ida Haendel, leggendaria enfant prodige del violino negli anni Trenta, considerata una delle più grandi violiniste del Ventesimo secolo, è morta nella sua casa di Miami, in Florida. Aveva 91 anni. L'annuncio della scomparsa è stato pubblicato dalla stampa inglese. Nata il 15 dicembre 1928 a Chelm, in Polonia, da una famiglia ebrea, autentica bambina prodigio, a 5 anni Ida Haendel, il cui talento è stato paragonato a quello di brillanti esecutori come Yehudi Menuhin e Isaac Stern, vinse la medaglia d'oro del Conservatorio di Varsavia, suonando il Concerto di Beethoven, e la prima edizione del Premio Hubermann. A soli 7 anni, duellò con virtuosi del calibro di David Oistrakh e Ginette Neveu per aggiudicarsi il Concorso Henryk Wienawski del 1935. Ammessa a soli 7 anni al Conservatorio di Varsavia, fu allieva a Parigi di Carl Flesch e George Enescu. Arrivata a Londra nel 1937, Ida Haendel debuttò alla Queen's Hall con sir Henry Wood sul podio. Durante la seconda guerra mondiale suonò nelle fabbriche e per le truppe inglesi e americane. La sua carriera decollò dopo la guerra. Quando Jean Sibelius ascoltò l'esecuzione del suo Violin Concerto alla radio, inviò a Ida un biglietto di congratulazioni, lodando il suo lavoro. Nel 1992 la Società Sibelius la insignì della Medaglia Sibelius come riconoscimento per sua raffinata interpretazione. L'anno precedente, nel 1991, la regina Elisabetta l'aveva nominata Comandante dell'Ordine dell'Impero Britannico. Per le sue interpretazioni, Haendel aveva una predilezione per la musica tedesca: nel 1948-49 registrò il Concerto per violino di Beethoven con la Philarmonia Orchestra diretta da Rafael Kubelik. In seguito altri grandi successi discografici sono state le escuzioni del Concerto per violino di Brahms con la London Symphony Orchestra diretta da Sergiu Celibidache e il Concerto per violino di Tchaikovsky con la National Symphony Orchestra diretta Basil Cameron. Tra le sue ultime incisioni, le Sonate e Partite per violino solo di Johann Sebastian Bach. Per oltre 20 anni ha collaborato con il Festival Internazionale di Pianoforte di Miami. Nel 1993 ha debuttato in concerto con i Berliner Philharmoniker. Nel 2006 si esibì per Papa Benedetto XVI nell'ex campo di concentramento nazista di Auschwitz-Birkenau. Suonava su uno Stradivari del 1699. Nel 1970 scrisse l'autobiografia intitolata "Donna con il violino". Alla sua carriera sono stati dedicati libri e il documentario "Io sono il violino" del 2004.

·        E’ morto il campione di poker Matteo Mutti.

Il campione di poker Matteo Mutti morto per Coronavirus. Notizie.it il 02/07/2020. A soli 29 anni aveva sconfitto la leucemia, ma Matteo Mutti è morto a causa delle complicanze da Coronavirus. Il destino a volte è davvero beffardo e ti sfida come in una partita a poker. Lì dove Matteo Mutti era un grandissimo campione: con la sua forza aveva sconfitto la leucemia, che lo aveva colpito in giovane età. Ma nulla ha potuto contro il Coronavirus. È morto a soli 29 anni il campione di poker italiano. A un anno di distanza dalla terribile diagnosi sulla leucemia arriva l’ennesima doccia fredda in casa Mutti. Matteo è morto a causa delle complicanze da Coronavirus lunedì 29 giugno. Lo scorso aprile il ricovero in terapia intensiva a causa dei danni ai polmoni per le complicanze dell’infezione. Ma anche qui sembrava aver avuto lui la meglio: l’ultimo tampone era negativo. Poi le complicanze e il tracollo dei suoi parametri. I funerali si sono svolti a Tirano, sua città natale dove viveva con mamma Franca e papà Francesco. I fratelli più grandi piangono la dipartita del giovane 29enne, così come i nipotini. Ma è un lutto che colpisce anche il mondo del poker. Matteo era un vero e proprio asso: il suo curriculum parla chiaro. Vittoria nel Main Event del Wsop international circuit del 2016 a Campione d’Italia, il Main event dell’Italian poker tour conquistato a Nova Gorica nel 2015, un titolo Ipt e un side Ept con 40 bandierine in carriera: 300 mila dollari portati a casa dal vivo, senza contare i successi online. Poi gli ultimi mesi strazianti di vita: “Per 70 giorni i genitori non hanno potuto vederlo a causa delle rigide regole imposte dall’emergenza Covid, che non consentivano di entrare in ospedale. Matteo era solare, altruista, un campione che amava la vita”, è il ricordo dello zio Marco. “Papà quando mi porti a casa? È stata l’ultima frase che mi ha detto. Gli tenevo la mano, era intubato, eppure si sforzava di parlarmi”, altro non riesce ad aggiungere il padre Francesco alle cronache locali.

·        E' morto Loris Meliconi, l'inventore del guscio per il telecomando.

E' morto Loris Meliconi, l'inventore del guscio per il telecomando. Pubblicato martedì, 30 giugno 2020  La Repubblica.it. E' morto a 90 anni l'imprenditore Loris Meliconi, patron dell'omonima azienda di Granarolo Emilia (Bologna) che ha inventato, tra l'altro, il guscio salva-telecomando reso celebre da uno spot televisivo in cui veniva fatto rimbalzare. La Meliconi, nata nel 1967, aveva come missione trovare soluzioni e idee innovative per la vita casalinga quotidiana, come ad esempio la 'scopa-gomma', arrivando negli ultimi anni alle smart tv, agli accessori audio-video come cuffie e auricolari di design studiati per il mobile. Loris Meliconi, classe 1930, faceva il portiere della Pistoiese in serie C fino a 32 anni quando smise di giocare e iniziò con le invenzioni per la casa. L'azienda ora è guidata dai figli Patrizia e Riccardo.

·        Addio a Carl Reiner, comico da record di Emmy e amico di Mel Brooks.

Addio a Carl Reiner, comico da record di Emmy e amico di Mel Brooks. Pubblicato martedì, 30 giugno 2020 da La Repubblica.it. Carl Reiner, attore, regista, produttore, padre del regista Rob Reiner, è morto per cause naturali lunedì sera nella sua casa di Beverly Hills, a 98 anni. Era stato il vincitore del più alto numero di Emmy, di cui cinque per The Dick Van Dyke Show. I suoi film più famosi come regista includevano Bentornato dio, con George Burns, nel 1977, Lo straccione con Steve Martin, nel 1979, Ho sposato un fantasma con Martin e Lily Tomlin, nel 1984. L'ultimo film da regista lo aveva firmato nel 1997, Questo pazzo sentimento con Bette Midler. Da attore aveva continuato a lavorare  lungo, partecipando alla trilogia Ocean’s Eleven  e in televisione con ruoli ricorrenti nelle sitcom Due uomini e mezzo e The Cleveland show. Nato nel Bronx, si era diplomato al liceo a 16 anni e aveva lavorato come macchinista mentre studiava recitazione. Dopo brevi periodi di lavoro estivo era entrato nell'esercito durante la Seconda guerra mondiale. Le sue doti di attore lo avevano portato nell'unità dei servizi speciali di Maurice Evans, dove Reiner ha incontrato per la prima volta Howard Morris. È diventato famoso come membro del cast regolare di Your Show of Shows di Sid Caesar, per il quale ha vinto due Emmy nel 1956 e 1957 nella categoria di supporto. In quel periodo consoce Mel Brooks con il quale è nata un'amicizia di lunga data e una commedia fatta di sketch di The 2000 Year Old Man.

Carl Reiner rip. Marco Giusti per Dagospia il 30 giugno 2020. “Qualcuno mi disse: Se non sei nei necrologi, fai colazione. Così controllo i necrologi ogni mattina. Per prima cosa. Un sacco di gente lo fa. Ma io osservo. Controllo la loro età per vedere esattamente se li ho superati. Ti ho battuto io… Ti ho battuto io… Mi hai battuto te…”. Se ne va una leggenda della comicità americana. Carl Reiner, 98 anni, newyorkese eccellente, almeno 200 show in tv, una marea di film da attore, una ventina da regista. Un totale di 9 Emmy, tre da attore, quattro da scrittore, due da produttore. 1 Grammy per il disco concepito assieme a Mel Brooks “The 2.000 years Old Man”. Lo avevamo appena visto esibire proprio assieme a Mel Brooks, suo vecchio amico e socio, le magliette Black Lives Matter. Da buon democratico e da veterano della Seconda Guerra Mondiale, non si era mai arreso. L’ultimo tweet, poco prima di spegnersi serenamente, è stato ancora una volta per Trump. “Quando mi sono alzato alle 7:30 di questa mattina, mi sono rattristato per rivivere il giorno che ha portato all'elezione di un uomo d'affari bancarottiere e corrotto che non aveva le qualifiche per essere il leader di qualsiasi paese del mondo civile ...”.E tra tanti ricordi eccellenti di oggi, Alan Alda, Rosanna Arquette, Edgar Wright, Andrew Cuomo, vedo che la scrittrice newyorkese Joyce Carol Oates glielo ha proprio scritto: “Sono proprio dispiaciuta che questo grande commediante non sia riuscito a vedere la caduta di Txxxp”. Carl Reiner, nato nel Bronx nel 1922, era figlio di un orologiaio ebreo-austriaco e di una mamma rumena-ebrea. Appena finita la guerra, assieme a Mel Brooks, Nel Simon, Woody Allen, Imogen Coca, Sid Caesar, Larry Gelbart si dedica anima e corpo alla costruzione dei grandi show televisivi americani. Lavora come autore e attore al leggendario “Your Show of the Shows” dal 1950, al “Caesar’s Hour” con Sid Caesar dal 1954, al “The Steve Allen Show” dal 1956, al “The Dick Van Dyke Show” dal 1961, che seguirà per tutti gli anni ’70. Per il mondo dello spettacolo americano è una vera e propria rivoluzione. Molto presto Hollywood cercherà di riproporre la comicità newyorkese di Carl Reiner e quella più parodistica di Mel Brooks al cinema. Non sarà facilissimo. Anche se Reiner è in grado di recitare da comico e di scrivere per i comici con la stessa grazia. Lo vediamo attore in “Questo pazzo, pazzo, pazzo mondo” di Stanley Kramer, anzi era uno dei due comici rimasti in vita, “L’arte di amare” di Norman Jewison, “Arrivano i Russi, arrivano i Russi” di Norman Jewison con Alan Arkin. Da regista debutta con “Enter Laughing” nel 1967 con José Ferrer, Shelley Winters e Elaine May, prosegue con “The Comic” con Dick Van Dyke che non fu il successo sperato, ma andò benissimo, invece, “Senza un filo di classe” con George Segal che vive nel Bronx con la vecchia mamma ebrea, Ruth Gordon. Un capolavoro di comicità, seguito da “Bentornato Dio” con George Burns, “Un tipo straordinario” con Henry Winkler e da “Lo straccione” con Steve Martin. Proprio con Steve Martin troverà il suo interprete ideale. Lo dirigerà in “Il mistero del cadavere scomparso”, “Ho perso la testa per un cervello”, “Ho sposato un fantasma”. Ma la gag che ricordo con più piacere di “Lo straccione” è quella iniziale, con Steve Martin, bianco, figlio adottivo di neri poveri del sud, che pensa di essere nero. “È una delle mie persone preferite al mondo”, ha detto Reiner di Steve Martin, “perché è cool cat. Un gatto morto. Sembra un ragioniere, ma è uno dei pensatori più acuti. Pensa in un modo che nessun altro pensa. Ha una mente brillante, mette insieme cose che non vanno insieme e ti fa ridere”. Ma Reiner diresse anche “Vacanze in florida” con John Candy, il parodistico “Fatal Instinct” con Armand Assante, "Questo pazzo sentimento” con Bette Midler. Grazie anche alla fortuna da regista del figlio, Rob Reiner, Carl non si è mai fermato, né come attore né come autore. Lo troviamo nel ruolo di Saul Bloom nella serie di grande successo “Ocean’s Eleven”, ma è attivo anche come voce in film come “Toy Story 4”, dove è Carl Reineroceros, “I pinguini di Madagscar”, “I Griffin”, “Hot in Cleveland”. Deve ancora uscire un suo ultimo film, animato, “Saddle up!”. Dalla moglie, Estelle Reiner, attrice e cantante, scomparsa nel 2008, ebbe tre figli, Rob, Anne e Lucas, tutti nello spettacolo. Oggi lo saluta tutto il mondo dello spettacolo americano. Tranne Trump…

·        È morto Freddy Cole, grande jazzista e fratello di Nat King.

È morto Freddy Cole, grande jazzista e fratello di Nat King. Pubblicato lunedì, 29 giugno 2020 da La Repubblica.it. Il grande pianista e cantante jazzFreddy Cole, fratello minore di Nat "King" Cole, è morto sabato ad Atlanta, all'età di 88 anni. La causa della morte è legata a complicazioni di disturbi cardiovascolari di cui soffriva, ha spiegato al Washington Post la sua manager, Suzi Reynolds. Freddy Cole, aveva iniziato la sua carriera all'ombra del suo famoso fratello, figura imponente nel jazz e nella musica popolare, con cui si era esibito a lungo. Ma ha poi guadagnato un successo individuale - comprese diverse nomination ai Grammy - con la sua carriera solista, spesa tra jazz tradizionale, swing e blues. L'anno scorso aveva ottenuto una nomination ai Grammy per il miglior album jazz vocale con My Mood Is You. "Adoro suonare ovunque possa suonare", aveva detto Cole all'Atlanta Journal-Constitution in un'intervista del 2014. Freddy Cole, nome d'arte di Lionel Frederick Cole, era nato a Chicago il 15 ottobre 1931, fratello dei musicisti Nat King Cole e Ike Cole, nonché il padre di Lionel Cole e zio di Natalie Cole. Ha inciso prevalentemente dischi jazz insieme alla sua formazione Freddy Cole Quartet, con cui ancora oggi si esibisce. I tour di Cole hanno toccato gli Stati Uniti, l'Europa, l' Estremo Oriente e il Sudamerica. La sua carriera ha superato il mezzo secolo. Cole è nato da Edward e Paulina Cole, ed è cresciuto con i fratelli Eddie, Ike e Nat King Cole. Ha iniziato a suonare il pianoforte all'età di sei anni, a Chicago, proseguendo poi gli studi musicali presso la Juilliard School of Music a New York. Cole è considerato uno dei migliori interpreti dell'American Songbook ed una vera icona della canzone afroamericana. Oltre ad essere considerato, insieme a Tony Bennett, uno dei più grandi interpreti vocali del jazz contemporaneo. Nei suoi spettacolI era in grado di spaziare da Broadway al Blues, dai classici di Jermone Kern, Cole Porter, George Gershwin e Duke Ellington, a Lionel Ritchie e Stevie Wonder.

·        È morta Linda Cristal, star dei western e della serie tv "Ai confini dell'Arizona".

È morta Linda Cristal, star dei western e della serie tv "Ai confini dell'Arizona". Pubblicato lunedì, 29 giugno 2020 da La Repubblica.it. L'attrice argentina Linda Cristal, stella di di Hollywood, di film western e protagonista della serie tv Ai confini dell'Arizona, è morta sabato scorso nella sua casa di Beverly Hills, nella contea di Los Angeles, all'età di 89 anni per cause naturali. L'annuncio della scomparsa è stato dato dal figlio Jordan Wesxler al New York Times. Era nata come Marta Victoria Moya Burges a Buenos Aires il 23 febbraio 1931 da padre francese e madre italiana, entrambi deceduti in un incidente automobilistico nella capitale argentina (dal quale solo lei, 13enne, si salvò miracolosamente), da molti considerato un doppio suicidio. Dopo una carriera sfolgorante, soprattutto negli anni Cinquanta e Sessanta, si era ritirata dalle scene nel 1985. Linda Cristal inizia la carriera recitando in spettacoli itineranti, dove è scoperta dal regista messicano Miguelito Aleman che la fa esordire, senza essere menzionata Cuando levanta la niebla (1952). In quattro anni gira nove film, tutti di scarsa rilevanza, ma il suo modo di agire sulle scene è notato da emissari della Universal, i quali senza esitazioni la convincono a trasferirsi a Hollywood, dove firma un contratto con lo studios e debutta nel film La saga dei Comanches (1956) del regista George Sherman. Due anni dopo è già nota al pubblico americano per la recitazione offerta in Una storia del West, sempre diretto da Sherman, e nel 1959 si fa apprezzare ancor più nel noir Il portoricano di Paul Stanley. Nel frattempo In licenza a Parigi (1958) di Blake Edwards le permette di vincere il premio Golden Globe per la migliore attrice debuttante. Con permessi speciali Linda Cristal raggiunge l'Italia, ed è protagonista a Cinecittà in tre kolossal storico-mitologici, Le legioni di Cleopatra (1959, di Vittorio Cottafavi), La donna dei faraoni (1960, diretto dal russo Viktor Tourjansky) e, più tardi, in Le verdi bandiere di Allah (1963, di Giacomo Gentiluomo e Guido Zurli). Linda Cristal ha recitato nel western di grande successo La battaglia di Alamo (1960) di John Wayne e l'anno successivo è nel cast di un altro grande classico western, Cavalcarono insieme di John Ford. Negli anni '60 Linda Cristal passa alla televisione: famoso il suo ruolo nelle 97 puntate della serie Ai confini dell'Arizona (1967-71), dove veste i panni della protagonista, Victoria Cannon. I Cannon vivono nel ranch The High Chaparral, e il capofamiglia, Big John, è sposato con la figlia dei Montoya, Victoria. I Montoya vivono invece nel Montoya Ranch, sotto l'egida di Don Sebastian, padre di Victoria. Questo ruolo le farà vincere il premio Golden Globe per la miglior attrice in una serie drammatica. In tv ha poi recitato in episodi dei telefilm Bonanza, Sulle strade della California e Fantasilandia. Sempre più sporadici saranno per Linda Cristal i ritorni al cinema, come testimoniano i film Panico nella città (1968) e, soprattutto, A muso duro (1974), al fianco di Charles Bronson. Nel 1985 torna in Argentina, protagonista della telenovela Rossé. Poi il definitivo addio alla professione artistica interrotto solo nel 1988 per una piccola parte per la serie tv General Hospital, dove aveva recitato nel 1963. Per oltre 30 anni Linda Cristal ha vissuto da pensionata di lusso nella sua residenza di Palm Springs, tornando spesso nella sua villa di Buenos Aires. L'attrice è stata amante dell'attore Adam West e di due uomini d'affari, Arthur Symington e Marshall Shellhardt. È stata sposata tre volte con due divorzi e un annullamento: primo matrimonio con Charles Collins (annullato), poi con l'industriale Robert W. Champion, infine con Yale Wexler (si era separata nel 1966), da cui ha avuto due figli, Gregory e Jordan.

·        E’ morta L'attrice Vittoria De Paoli. Recitò con la Capotondi.

Vittoria De Paoli morta in un incidente in Vespa: aveva 14 anni, recitò con la Capotondi su Rai1. Stefania Piras Domenica 28 Giugno 2020 su Il Messaggero. Aveva 14 anni Vittoria De Paoli e un futuro davanti non solo come teenager ma anche come attrice eclettica, la ragazzina di Maser (Treviso) morta nella notte a Farra di Soligo dopo essere uscita di strada, assieme ad un amico, a bordo di uno scooter. Capelli lunghi, biondissimi, il sorriso di Vittoria se lo ricordano bene i telespettatori di Raiuno nella fiction di "Di padre in figlia" con Cristiana Capotondi,  Alessio Boni e Stefania Rocca andata in onda nel 2016. La tragica dinamica. Vittoria De Paoli era andata ad una festa di coetanei e ad un certo punto, con un suo amico 17enne, si è allontanata dicendo che sarebbero tornati subito. I due sono saliti su una Vespa 125, guidata dal ragazzo, e all'altezza di una curva sono usciti di strada andando a sbattere contro un lampione. Un botto terribile che ha svegliato chi abitava in zona, ed è stato subito allarme. Sul posto sono giunte un'auto medica e due ambulanze con i sanitari del Suem 118. Immediata la corsa verso gli ospedali vicini. Vittoria, giunta a quello di Conegliano in condizioni disperate, è morta poco dopo, il suo amico è ora al Cà Foncello di Treviso in terapia intensiva in gravissime condizioni. Sul posto, poco dopo lo schianto, sono giunti anche gli amici con cui erano alla festa ed è stata una scena di strazio, dolore e pianto di fronte all'incredulità per l'accaduto. Il gruppo ha trovato i loro amici vicini, sull'asfalto, privi di sensi e coperti di sangue. Vittoria, appassionata di equitazione, era diventata famosa prima per aver partecipato ad una pubblicità di una nota marca di scarpe da ginnastica e poi, seguita dalla mamma manager Paola, per aver fatto parte del cast della serie Tv «Di padre in figlia» girato anche nella vicina Bassano del Grappa recitando a fianco di Cristina Capotondi, Alessio Boni e Stefania Rocca. In mente tanti progetti che oltre a farla eccellere al liceo classico "Levi" di Montebelluna, dove era segnalata come studentessa modello, c'era l'impegno per crescere come attrice dedicandosi con sacrificio ai corsi di canto, recitazione, danza (Hip hop su tutti) ed imparando a suonare la batteria per un futuro che si stava costruendo da professionista dello spettacolo. Il padre Moreno, bancario mentre la mamma fa la parrucchiera, ha detto che «ora non ha alcun senso vivere, voglio morire». Il sindaco Claudio Benedos ha immediatamente inviato un messaggio di cordoglio a nome della cittadinanza. Intanto i Carabinieri di Vittorio Veneto cui sono affidate le indagini indagano sulle cause dell'incidente e non è escluso che sia sul ragazzo che sul corpo della 14enne vengano fatti gli esami tossicologici per stabilire se avessero bevuto alcolici in modo eccessivo. 

L'attrice Vittoria De Paoli muore in incidente stradale, recitò in una fiction con la Capotondi. La 14enne aveva partecipato a diverse produzioni Rai, l'ultima "Di padre in figlia". L'incidente stradale la scorsa notte durante un giro in Vespa con un amico di 17 anni, adesso ricoverato in gravissime condizioni. La Repubblica il 28 giugno 2020. Aveva un futuro da star, l'ha uccisa nella notte uno schianto in Vespa a Farra di Soligo, in provincia di Treviso. Così è morta Vittoria De Paoli, attrice di 14 anni. Vittoria, nel 2016, aveva partecipato ad una fiction Rai "Di padre in figlia" girata nel Bassanese e che vedeva nel cast anche l'attrice Cristiana Capotondi. Il 17enne che era alla guida della Vespa è ricoverato in terapia intensiva dell'ospedale Cà Foncello di Treviso. La ragazza, invece, è spirata poco dopo essere giunta all'ospedale di Conegliano con un ambulanza del Suem 118. I due giovani erano ad una festa a Farra di Soligo e avevano detto che si sarebbero allontanati per pochi minuti. Sul posto, poco dopo l'incidente, sono giunti anche gli amici con cui erano alla festa ed è stata una scena di strazio, dolore e pianto di fronte all'incredulità per l'accaduto. Il gruppo ha trovato i loro amici vicini, sull'asfalto, privi di sensi e coperti di sangue. Vittoria, nata a Maser (Treviso), appassionata di equitazione, era diventata famosa prima per aver partecipato a una pubblicità di una nota marca di scarpe da ginnastica e poi, seguita dalla mamma manager Paola, per aver fatto parte del cast della serie Tv "Di padre in figlia" girato anche nella vicina Bassano del Grappa recitando a fianco di Cristina Capotondi, Alessio Boni e Stefania Rocca. In mente tanti progetti che oltre a farla eccellere al liceo classico 'Levi' di Montebelluna, dove era segnalata come studentessa modello, c'era l'impegno per 'crescere' come attrice dedicandosi con sacrificio ai corsi di canto, recitazione, danza (Hip hop su tutti) ed imparando a suonare la batteria per un futuro che si stava costruendo da professionista dello spettacolo. Il padre Moreno, bancario mentre la mamma fa la parrucchiera, ha detto che "ora non ha alcun senso vivere, voglio morire". Il sindaco Claudio Benedos ha immediatamente inviato un messaggio di cordoglio a nome della cittadinanza. Intanto i Carabinieri di Vittorio Veneto cui sono affidate le indagini indagano sulle cause dell'incidente e non è escluso che sia sul ragazzo che sul corpo della 14enne vengano fatti gli esami tossicologici per stabilire se avessero bevuto alcolici in modo eccessivo.

Da "ilmessaggero.it" il 29 giugno 2020. Una festa tra ragazzini, il desiderio di concluderla con un giro in Vespa e la tragedia, complice il fatto che nessuna delle due coppie che ha partecipato alla scampagnata a due ruote per le stradine di Farra nella prima sera davvero estiva della stagione, indossava il casco. Una leggerezza imperdonabile anche se il gruppetto si era allontanato solo di poche centinaia di metri dal luogo del ritrovo. Ora le indagini cercheranno di stabilire cosa è successo, ricostruendo lo schianto mortale da tutte le angolazioni possibili. Sulla dinamica c’è poco da dire: la Vespa di A.S. è andata dritta, senza frenare, schiantandosi contro un lampione. Restano da accertare le cause della fatale perdita di controllo del mezzo, compito che spetterà ai carabinieri che hanno eseguito i rilievi sul posto fino all’alba. Fondamentali saranno le testimonianze degli amici che hanno assistito all’incidente  e alla morte di Vittoria De Paoli e del gruppo più ampio che, pochi minuti dopo, ha raggiunto in massa in luogo della tragedia chiamato dai superstiti. Lo scooter si trova ora in un’autorimessa a Moriago, sotto sequestro: anche le analisi sul mezzo potranno contribuire a ricostruire l’accaduto e il motivo per il quale i giovani viaggiassero senza casco. A ieri non erano state formalizzate accuse con rilevanza penale. Sabato sera Vittoria era arrivata a Farra accompagnata dai genitori Moreno e Paola Salvador per partecipare a una festa organizzata da amici. Sarebbero tornati a prenderla a mezzanotte. Alle 22.45 invece un boato ha squarciato il silenzio. All’incrocio tra via Rialto, via Cal Nova e via Borgata Grotta, dove si dipartono le strade verso le vigne, uno scooter è piombato con violenza su un palo della luce e una ringhiera. Il mezzo, una Vespa Piaggio 125, proveniva da via Rialto ed era diretto in via Cal Nova, perciò avrebbe dovuto affrontare una leggera svolta a destra. Esattamente dal lato opposto è invece andato a infilarsi, come avesse allargato troppo la curva. Sull’asfalto nessun accenno di frenata, ma i corpi esanimi di due ragazzi. Hanno appena trent’anni in due: sono Vittoria, 14 anni di Maser, e un amico di Valdobbiadene, A.S. 17 anni ancora da compiere. Alla guida della Vespa c’era il ragazzo, che a bordo di quello scooter di proprietà del padre si muoveva abitualmente e che aveva usato per raggiungere la festa. Sul sellino posteriore, stretta a lui, Vittoria. Nessuno dei due aveva il casco. E non lo indossavano nemmeno i due amici che a quel tremendo incidente hanno assistito in prima persona. Quattro erano infatti i ragazzi che si erano allontanati dalla festa. I due maschi avevano inforcato i rispettivi scooter e caricato le ragazze. In questo, nessuna violazione: compiuti i 16 anni è possibile guidare motocicli con cilindrata fino a 125 cc e, dal 2015, anche trasportare un passeggero (a patto che il mezzo sia omologato).

Vittoria si è alzata e ha parlato. A trovarli pochi istanti dopo sono stati alcuni residenti, richiamati dal fragore, che hanno prestato loro i primi soccorsi e chiamato il 118. Nei confronti di Vittoria e del 16enne sono state praticate le manovre di rianimazione e, una volta stabilizzati, sono stati e trasferiti rispettivamente al Ca’ Foncello di Treviso e all’ospedale di Conegliano. Fin da subito le loro condizioni sono parse gravissime. Il ragazzo per l’intera durata delle operazioni è rimasto incosciente. Aveva una gamba rotta e respirava a fatica, mentre Vittoria dopo i primi minuti priva di sensi si è parzialmente ripresa tanto da mettersi a sedere contro la ringhiera e da scambiare qualche parola. Aveva riportato pesanti ferite al viso e al collo, ma tra i due è stato inizialmente il giovane amico a far temere maggiormente per la sua vita. Invece, due ore dopo, il cuore della 14enne ha smesso di battere. All’1.10 il tragico verdetto: Vittoria è morta.

·        E’ morta Taryn Power, sorella di Romina.

Da leggo.it il 28 giugno 2020. Un giorno di grande dolore per Romina Power. La sorella Taryn è morta dopo un anno e mezzo di battaglia contro la Leucemia. Ad annunciarlo è la stessa Romina dal suo profilo Instagram. «Mia sorella Taryn - scrive la Power allegando un video in cui canta in auto insieme alla amata sorella - ha raggiunto i nostri genitori alle 9:53 ieri a casa sua nel Wisconsin circondata da i suoi quattro figli e quattro nipoti dopo aver combattuto una dura battaglia di un anno e mezzo contro la Leucemia. Lascerà un vuoto immenso poichè era una creatura di luce, una madre eccezionale, nonna amorevole e sorella unica per via del suo humour, generosità e amore per gli animali , la natura e per i meno fortunati. La migliore sorella che abbia potuto avere in questa vita!». Taryn Power, sorella minore della cantante, aveva 66 anni. Attrice, era una figura importante nella vita di Romina, con la quale aveva condiviso le gioie e i dolori senza voler apparire a tutti i costi. Nel 1993 rifiutò anche la proposta di Al Bano di trasferirsi in Italia.

In ricordo di Taryn, Romina Power sta pubblicando su Instagram una serie di foto e video che ritraggono la sorella o che le vedono insieme negli anni. Ancora bambine, in bianco e nero, o che duettano insieme solo pochi anni fa. E poi video in cui cantano in auto, felici e spensierate.

Marco Giusti per Dagospia il 28 giugno 2020. Non è stata fortunata Taryn Power. Né come attrice, né come cantante. Sempre all’ombra di un padre famoso morto troppo presto, di una madre possessiva, di una sorella più grande ma anche più scandalosa e più nota di lei. Nata a Los Angeles nel 1953, dalla coppia allora celebre Tyrone Power e Linda Christian, che si erano sposati con grande sfarzo a Roma nel 1949, si ritrova figlia di divorziati neanche due anni dopo, col padre che per vedere lei e Romina deve atterrare con l’aereo proveniente dai set di mezzo mondo. Orfana a soli cinque anni, dopo la morte improvvisa di Tyrone Power sul set di “Salomone e la Regina di Saba”  in Spagna, si ritrova presto al centro dei gossip testamentari. Perché il padre ha diviso sì i suoi beni tra la nuova moglie, Debora Minardos, che aspetta un figlio maschio, la sorella Anne e le sue due bambine, che riceveranno un sussidio mensile, ma non ha lasciato nulla all’ex moglie Linda Christian, “ho provveduto abbastanza generosamente per Linda in tempi recenti, ossia sino a quando sono stato in vita”, lascia scritto sul testamento, come leggiamo sui giornali del tempo. L’ex-moglie non ci sta. E inizia una serie di cause e richieste legali per avere più soldi per le bambine. Avrà presto anche altri mariti, come l’attore americano Edmund Purdom, arrivato in Italia dopo il flop del kolossal “Sinuhe l’egiziano”. Mentre Romina inizia una carriera con apparizioni piuttosto audaci in film come “Come imparai ad amare le donne” di Luciano Salce e “Justine” di Jesus Franco, dove si mostrerà completamente nuda, ma Franco non la riteneva giusta per la parte, per poi diventare compagna e partner di Al Bano, Taryn è tentata dalla stessa carriera. Ma, non ancor a ventenne, rifiuta i ruoli che avevano offerto alla sorella e alle belle ragazze del tempo. “Non ho mai accettato i compromessi e non mi sono mai spogliati” dirà anni dopo. E’ vero. Rifiuto un ruolo da protagonista in una ricca produzione di Carlo Ponti, “Cugini carnali”, diretta da Sergio Martino, ritenendola “una storia disgustosa con situazioni volgari, viscide. Perfino mia madre che pure non si scandalizza facilmente, mi ha sconsigliato di accettare”. Insomma, niente nudo, come accadde a Romina. Preferisce rimanere nel suo appartamento in affitto, si legge, alla periferia di Roma ad aspettare buone proposte. Ponti ci rimane malissimo. Il suo ruolo andrà a una americanina bionda che non farà carriera, Susy Player. Fioccano però, sui giornali, le notizie die suoi primi amori. Si parla di un operatore, tal Dario Semeraro, di un regista francese, Jean-Pail Gibon, del figlio di Silvana Mangano e Dino De Laurentiis, che morirà tragicamente qualche anno dopo. Non volendosi spogliare finisce in una produzione melodrammatica messico-colombiana, “Una vita un amore” diretta da Tito Davison dove è la protagonista, Maria. E’ il suo primo film, seguito due anni dopo da una commedia giovanile argentina, “Un viaje de locos” di Rafael Cohen, mai visto da nessuno. Intanto, in Italia, si tenta di costruirle una nuova carriera da cantante come partner, magari compagna, di Kocis, fratello di Al Bano. Cantano anche in quattro. La vediamo in qualche programma della Rai, come “Una canzone un sorriso”, presentato da Romina e Gianfranco funari nel maggio del 1972. Con Kocis non si capisce bene. Sarà stata lei a lasciare lui o lui a lasciare lei? O, forse, non sono mai stati insieme. Irrequieta, Taryn torna al cinema. Sarà Valentine de Villefort in una grande produzione televisiva americana, “Il conte di Montecristo” con Richard Chamberlain, Trevor Howard, Louis Jordan, Tony Curtis, Angelo Infanti. Si dice che si sia fidanzata con il pritagonista, il bellissimo Chamberlain. Lei dice che sono solo buoni amici, che con lui si confida. Dopo il coming out dell’attore, adorato da tutte le spettatrici del tempo, pensiamo che Taryn dicesse la verità. Gira anche, stavolta in Italia, “Bordella”, curioso film di Pupi Avati con Christian De Sica, e poi parte per Hollywood dove girerà un buon film di Vietnam e pazzia, “Tracks”, diretto dal giovane Henry Jaglom, grande amico di Orson Welles, prodotto da Beet Schneider, lo stesso di “Easy Rider”, interpretato da Dennis Hopper e Dean Stockwell. Dirà che è “un film abbastanza importante, di qualità, ma che non mi ha soddisfatto completamente…”. Ormai lanciata si ritrova come bellezza esotica nel divertente fantasy “Simbad e l’occhio della tigre” di Sam Wanamaker con Patrick Wayne, figlio di John, Jane Seymour, Donald Pleasance. La sua carriera sembrerebbe partita, ma Taryn si sposa. Prima con lo strampalato regista Norman Seef, dal quale avrà dal quale avrà una figlia, Tai Dawn (1978), poi con l’attore e cantante Tony Fox Sales, dal quale avrà due figli, Anthony Tyrone (1982) e Valentina (1983), infine con William Greendeer, dal quale avrà la sua quarta figlia, Stella Bianca (1993). Con tutti questi figli non sarà facile seguire il cinema. Farà qualcosa, come il Godzilla spagnola “Serpiente de ma” diretto da Amando De Ossorio nel 1985 con Timothy Bottoms e Ray Milland. Poi tornerà a recitare con Henry Jaglom nel 1990 in “Eating”. Leggo che avrebbe finito un film proprio quest’anno, già malata di leucemia, in Italia, “Sulle mie spalle” di Antonello Belluco, dove è protagonista. Chissà se uscirà mai..

·         E’ morto il grafico Milton Glaser.

Marco Belpoliti per “la Repubblica” il 28 giugno 2020. Era seduto in un taxi, secondo la leggenda, quando gli venne in mente la possibile soluzione e schizzò su un foglio quello che sarebbe diventato il più famoso marchio di città dalla fondazione di Roma a oggi. Era il 1978 e New York, la città dove era nato durante la grande crisi del 1929, stava toccando il suo punto più basso: crisi fiscale, fuga dei ceti abbienti, disoccupazione, rapine per le strade, e l'anno precedente il black out aveva lasciato senza luce per due giorni il centro. Così quando il sindaco chiese all'agenzia pubblicitaria Wells Rich Greene e Milton Glaser d'inventarsi uno slogan, un manifesto, un logo, per rendere interessante NY, e ridare un po' di fiducia a tutti, Milton cominciò subito a pensarci. Aveva in mente l'icona pop di Robert Indiana del 1964, diventata nove anni dopo una cartolina natalizia del MOMA, a suo modo già un brand. Se una cosa Glaser ha sempre manifestato è quella di possedere una mente rapida e veloce, capace d'afferrare quello che è nell'aria, e che nessuno ancora vede. Qualche minuto prima che appaia a tutti, l'idea è già nella sua mente e diventa un'immagine. Glaser pensa per immagini. Indiana aveva già impaginato in senso verticale la parola LOVE. Si trattava di fare un passo in più. Non facile, ma Glaser è sempre stato un maestro nell'unire emozione ed icona: emoticon. La parola non c'era, ma il cuore rosso, così evidente e palese per dire "amore", è esattamente un emoticon. Bastava aggiungere quel I, parola chiave nell'età del narcisismo - il libro di Christopher Lasch è del 1979 - e New York in acronimo, scrivere col font Typewriter, e il gioco era fatto. Facile dirlo dopo, ma provateci voi. La rapidità è probabilmente una dote che Milton aveva affinato nel Bronx, dove era nato da una famiglia ebraica d'immigrati ungheresi; lì per sopravvivere erano richieste qualità simili: attenzione desta, occhio svelto, fiuto. Il tutto non disgiunto da quella passione per il narrare storie, che è proprio dell'ambiente yiddish. Di quella educazione ricevuta nella comunità immigrata del caseggiato gli è rimasto anche un senso di leggerezza, il piacere del vivere e l'allegria. Se si sfoglia il libro Posters , composto da lui stesso e uscito pochi anni fa, dove ha raccolto 427 manifesti realizzati nel corso della sua carriera, si capisce che non c'è nessun poster triste o cupo, anche quello che sintetizza l'argomento più grave e pesante vola sempre, si solleva leggero per aria come per grazia ricevuta, tanto da far pensare a una lievità alla Chagall, un tocco che è prima di tutto coloristico, come nel resto della sua opera. Sembra che nel suo archivio avesse qualcosa come 200-300 mila manifesti, tutti usciti dal suo studio, il mitico Pushpin Studio, forse non tutti di mano sua, sicuramente da lui rivisti e licenziati. Un lavoro immenso, per cui non si dava arie, perché per lui l'importante era lavorare ogni giorno: pensare e inventare, creare e più spesso ricreare. Del mondo yiddish recava anche quel senso degli affari, che fa parte delle strategie di sopravvivenza degli immigrati nel Nuovo Mondo approdati dalle sponde del Vecchio, così che ora, che non c'è più, oltre a lodare il suo stile inconfondibile di graphic designer, bisogna dire che è stato colui che per primo ha brandizzato la cultura, ovvero ha sposato pubblicità e arte, commercio e invenzione grafica. Non un pubblicitario, perché questo Glaser non lo è stato, ovvero un creatore d'immagini atte a rendere interessante qualcosa o qualcuno, piuttosto d'immagini che diventavano con semplicità icone, come nel caso eclatante di NY. Creare dei brand non è un'arte facile, perché i brand si consumano rapidamente, oppure non funzionano, per quanto sostenuti da campagne martellanti. Poi spesso non sono belli. Il ragazzo nato nel Bronx li ha sempre fatti belli, non solo i manifesti, ma anche i loghi. Il suo karma funziona là dove dipinge, perché, per quanto tendesse alla stilizzazione, e usasse il colore come un campo magico, Glaser è prima di tutto un pittore. Era anche colto; conosceva l'arte in generale, e quella italiana in particolare, perché da giovane dopo aver studiato alla Cooper Union di New York nel 1951 era stato in Italia a Bologna con una borsa di studio, lì dove insegnava uno dei grandi pittori del Novecento, Giorgio Morandi. Nei manifesti che ha poi realizzato in seguito si sente sempre la presenza della pittura rinascimentale, soprattutto nei dettagli, perché Milton Glaser era un grande divoratore di dettagli, come si capisce dal suo lavoro, in particolare in quello degli anni Sessanta e Settanta. In Italia tornerà poi a lavorare per alcune industrie importanti e graficamente significative: Olivetti e Campari; e si occuperà anche della promozione di città come Rimini, e in Italia esporrà varie volte i suoi lavori. Nel 1967 disegna il poster infilato nel vinile Greatest Hits, il ritratto più veritiero di Bob Dylan. Cosa sono quei capelli ricci che si levano dalla testa del cantante se non pensieri scomposti, e impertinenti, e tracce della rivoluzione psichedelica iniziata da poco, e poi resti fluttuanti della Pop Art, che sta celebrando il suo trionfo e anche la sua repentina fine? Glaser afferra tutto al volo e trasposta dalle gallerie d'arte alle camerette dei fans il segno carismatico di quell'epoca dedita agli Acid test. La contestazione studentesca è già cominciata nelle università americane e il graphic designer la registra con la sua lievità. Tutto in quel periodo vola per aria e nell'aria Glaser è a suo agio. Nella sua carriera d'inventore di immagini e brand c'è anche quella di creatore della prima rivista cittadina, quel New York Magazine, che realizza nel 1968 con altri, e su cui tiene per vari anni una rubrica molto cool senza esserlo, "The Undergrond Gourmet", dedicata ai ristoranti economici della città. La più letta dell'intero foglio; ancora una volta una trovata linguisticamente perfetta: due parole ossimoriche tra loro. Il fantasioso designer le ha messe insieme. C'è tuttavia un tratto che segna il suo lavoro, come quello di moltissimi grafici e designer: creare immagini che tutti conoscono, ma che quasi nessuno, salvo i cultori o gli addetti ai lavori, sa chi le ha prodotte. Lavoro umile quello del grafico e dell'illustratore, perché, se va bene, tutti conosceranno il marchio, ma il nome e cognome dell'autore, quello no. A Glaser, figlio della umile cultura yiddish americana, questo importava poco. La stessa invenzione del logo di New York è stata da parte sua un gesto di generosità, dal momento che l'ha regalato alla sua città che amava enormemente, e dove è morto ieri. Il logo di città più imitato al mondo, come è capitato a un altro disegnatore e artista, anche lui ebreo, Saul Steinberg, per cui il suo più famoso disegno, dedicato alla medesima città, è stato copiato e riprodotto moltissime volte. Del resto le idee migliori, salvo per il copyright, appartengono a tutti.

·        E’ morto “l’immortale” Marc Fumaroli.

Stefano Montefiori per corriere.it il 25 giugno 2020. A dare la notizia è l’Académie française che lo accolse tra gli «Immortali» venticinque anni fa: «Il segretario perpetuo (Hélène Carrère d’Encausse, ndr) e i membri dell’Accademia hanno la tristezza di comunicare la scomparsa del loro collega Marc Fumaroli, deceduto il 24 giugno a Parigi. Aveva 88 anni. Era stato eletto nel marzo 1995 sulla poltrona già di Eugène Ionesco». Con Marc Fumaroli scompare uno specialista del Seicento di fama mondiale, un grande storico della letteratura, e il più erudito interprete di quel filone di pensiero insofferente verso la modernità che in Francia ha da sempre enorme successo. Uomo di straordinaria gentilezza, Fumaroli era comunque capace di annichilire con poche e feroci parole celebrità come Damien Hirst o Jeff Koons, da lui definiti «i recenti industriali americani e inglesi della segnaletica scambiata per opera d’arte». Coltissimo, aveva di buona parte dell’arte contemporanea la stessa opinione che si può raccogliere presso il pubblico meno avvertito, realizzando così, alla fine, una specie di comune sentire tra il grande aristocratico delle lettere e il popolo. È la massa, che a Fumaroli non piaceva, e ancora meno la «cultura di massa», pop, di stampo anglosassone. «L’Europa, magari a cominciare dall’ Italia, potrebbe riprendere coscienza della sua identità, senza lasciarsi americanizzare ancora di più», aveva detto in un’intervista al «Corriere» di qualche anno fa. E a chi gli ricordava i capolavori contemporanei, nel cinema e nella letteratura, di autori come Robert Altman o Philip Roth rispondeva sorridendo «ma loro sono d’accordo con me! L’Europa aveva la tradizione di numerose culture popolari. Artigianali e genuine tanto quanto la cultura di massa è industriale e prefabbricata. La cultura popolare riposa su un’adesione spontanea del suo pubblico; la cultura di massa utilizza il bombardamento pubblicitario, dalla nascita alla morte, per imporsi. L’Europa aveva le sue canzoni, e non piccoli selvaggi che montano in scena urlando fino a rischiare di rompersi la vena della tempia, prendendosi per Dioniso o Rimbaud. La pretesa dei Rolling Stones di essere geni fino a cent’anni non mi pare nella tradizione di Rimbaud». Nato l’8 giugno 1932 a Marsiglia in una famiglia di origini corse, Marc Fumaroli è cresciuto in Marocco, a Fès, dove suo padre era funzionario dell’amministrazione francese e sua madre istitutrice, prima di tornare in Francia, terminare il liceo a Marsiglia, studiare alle università di Aix en Provence e Parigi e poi insegnare letteratura a Lille, alla Sorbona e al Collège de France dove aveva la cattedra di «Retorica e società in Europa nei secoli XVI e XVII». Fumaroli ottenne quella cattedra grazie al fondamentale saggio del 1980 L’età dell’eloquenza: retorica e res literaria dal Rinascimento alle soglie dell’epoca classica (edito in Italia da Adelphi come quasi tutta la sua opera), ripercorrendo l’arte di dire e di convincere riscoperta dagli umanisti nel Rinascimento e portata allo splendore nel Grand Siècle, il Seicento tanto amato da Fumaroli. In Il salotto, l’accademia, la lingua: tre istituzioni letterarie, Fumaroli ha analizzato l’importanza dell’arte della conversazione privata, dell’Académie française fondata nel 1634 per volere di Richelieu, e della lingua francese, considerata non uno strumento di espressione accanto ad altri ma un universo unico e incomparabile. Con Le api e i ragni Fumaroli ha indagato sulla disputa degli Antichi e dei Moderni ricorrendo a un’immagine di Jonathan Swift: mentre gli Antichi come le api sanno ricavare dai fiori il miele e le sostanze necessarie alla felicità, i Moderni come i ragni secernono escrementi che diventano tele e tranelli mortali. Nella Repubblica delle lettere l’autore ha dato espressione al suo particolare europeismo, quello legato alla cultura e alle lettere, descrivendo una comunità autonoma dagli Stati nazionali, unita dalle biblioteche e dalla conversazione. L’opera forse più conosciuta al di fuori dell’ambito accademico, quella dalle conseguenze più importanti nel dibattito contemporaneo, è Lo Stato culturale pubblicato nel 1991, un grande schiaffo al potentissimo ministro dell’epoca Jack Lang e al presidente François Mitterrand. «Mai stato ostile all’intervento dello Stato in questo campo, tutt’altro — aveva spiegato Fumaroli nell’intervista al «Corriere» —. Ho solo denunciato che lo Stato francese allargava la sua responsabilità patrimoniale a rock, rap, graffiti e altri prodotti commerciali. Lo Stato deve a mio parere preoccuparsi della Comédie Française e di restaurare le cattedrali, invece di rincorrere l’hip-hop e simili pericolosi giocattoli. Si diffondono anche troppo da soli». Marc Fumaroli poi non sopportava l’altro tormentone contemporaneo di «avvicinare il mondo della scuola a quello del lavoro» e citava a questo proposito Giambattista Vico, «che nel 1708 pronunciò la celebre conferenza che ogni europeo dovrebbe conoscere a memoria, “Sul metodo negli studi del nostro tempo”. Dopo i successi della nuova scienza di Galileo e Cartesio, protestava Vico, ormai insegniamo ai bambini la matematica prima ancora della poesia e dell’arte. Un errore allora, ma ancora più grave oggi. Chi si occupa adesso di formare la sensibilità, l’immaginazione, i sentimenti dei giovani? Più che la scuola, o la famiglia, spesso impotenti, temo che siano i videogiochi, i reality show, l’iPhone e l’iPad». Grande amante dell’Italia come molti francesi colti e non, Fumaroli individuava nel patrimonio artistico italiano un’occasione sprecata, «non occupa il rango che gli spetta, non è capito come una forza spirituale per l’oggi... Quando invece potrebbe allontanare dalla cultura pop molti europei».

Marc Fumaroli è morto. Storico della letteratura, saggista e intellettuale di piano internazionale, ha sempre puntato il dito contro gli eventi culturali di massa. Carlo Franza il 26 giugno 2020 su Il Giornale. Lo storico della letteratura Marc Fumaroli è morto il 24 giugno, a Parigi, all’età di 88 anni, compiuti lo scorso 10 giugno 2020. Professore, accademico, saggista e ricercatore di fama internazionale, aveva denunciato le minacce che riteneva gravassero sulla cultura causate dalla dissoluzione dell’elitarismo. Lo avevo incontrato l’ultima volta nel marzo 2019 a Parigi,  e devo dire che dialogare con lui era sempre un fattore importante, perché gran signore e vulcano di sapere. Fumaroli era stato eletto al Collège de France nel 1986 e all’Académie française nel 1995, dove era succeduto a Eugène Ionesco, e all’Académie des inscriptions et belles lettere nel 1998. Aveva accumulato molti onori, tra cui la presidenza della Società degli amici del Louvre nel 1996, e in Italia aveva ricevuto la laurea Honoris causa dalle università di Napoli nel 1994, Bologna nel 1999 e Genova nel 2004. Nato a Marsiglia il 10 giugno 1932 da una famiglia corsa, Fumaroli era cresciuto a Fez, in Marocco, dove suo padre, Jean, era un funzionario pubblico e sua madre, un’insegnante, la quale gli insegnò a leggere e scrivere e gli trasmise l’amore per il libro che circoscriverà il suo universo per tutta la vita. Il saggio «Lo Stato culturale, una religione moderna» pubblicato nel 1991 da Fallois in Francia e in Italia da Adelphi, lo aveva fatto conoscere ad un vasto pubblico: una feroce denuncia contro gli eventi culturali di massa promossi dai ministri André Malraux prima e Jack Lang poi, che riteneva una deviazione disonorevole dalla nozione di cultura e un abbassamento dello spirito a scapito della conoscenza. Quando si è costretti a scrivere tra virgolette la parola “cultura”, vuol dire che la cultura è davvero mal ridotta. Quando la differenza fra la promozione turistica, mediatica, celebrativa e la cultura non viene più chiaramente percepita, vuol dire che la “cultura” trionfa. Quando di un libro, di una mostra, di un concerto non si parla più per dire ciò che rispettivamente sono, ma solo per discutere su quanto pubblico hanno attirato e con quali modalità, vuol dire che il senso dei libri, dell’arte e della musica si allontana in una nebbia indefinita. Tutto questo succede ogni giorno sotto i nostri occhi. E talvolta accade – come oggi in Francia – che sia lo Stato stesso a fomentarlo e amministrarlo, trasformandosi in imprenditore che gareggia in sontuosità e inventiva con l’imprenditore privato, con un gesto di apparente devozione alla cultura e una celata volontà di manomissione della stessa, per utilizzarla ai propri fini. In breve, tutto sembra congiurare perché venga dimenticata l’impeccabile intuizione di Jacob Burckhardt secondo cui lo Stato e la cultura sono potenze naturalmente nemiche e tali devono rimanere, per il bene di entrambe. Per valutare questo fenomeno, che è planetario ma assume forme diverse in ciascun paese (e ovviamente ben diverse da quelle francesi in Italia, dove lo Stato si è rivelato incapace perfino di garantire la sopravvivenza fisica delle testimonianze della cultura), occorre uno sguardo capace di abbracciare vasti insiemi, di riconoscere sia che cos’è la cultura sia che cos’è la «cultura». Marc Fumaroli ci è riuscito, con appassionata verve polemica, con solidissimo giudizio storico, con felice insofferenza. La sua analisi si concentra sulla Francia, risalendo alle origini di un fenomeno che si è manifestato platealmente negli anni di Mitterrand pur essendo già predisposto negli anni di Malraux. Ma il discorso va molto più in là e si applica a tutto quel sottile e onnipresente involucro di plastica che ci avvolge e tenta di soffocarci con le migliori intenzioni. Quell’involucro si chiama “cultura”. Il libro  “Lo Stato culturale”  è apparso per la prima volta nel 1991. È stato uno dei maggiori storici e interpreti della letteratura e della civiltà, ma soprattutto il più grande esperto di retorica del ‘600. Di più: è a lui che si deve la rinascita di questa disciplina nella sensibilità e nella cultura di oggi. Docente al Collège de France per quasi un ventennio, membro dell’Académie française dal 1995, al posto che fu di Eugène Ionesco, era anche socio straniero dei Lincei, amando – come non si stancava di ripetere – l’Italia come sua seconda patria, della quale riconosceva il ruolo preponderante nella formazione della civiltà europea. Fumaroli era nato a Marsiglia nel 1932, ma cresciuto nel Marocco coloniale dove i suoi genitori si erano trasferiti. Tornato in Francia si dedica alla ricerca e poi diventa docente universitario, consacrando la propria opera allo studio della tradizione letteraria europea. Con “L’età dell’eloquenza”, apparsa nel 1980, restituisce alla retorica la sua centralità non solo nell’epoca rinascimentale, ma ne fa un rimedio contro l’impoverimento della parola che costituisce uno dei mali più insidiosi del mondo attuale. Fumaroli è stato il primo infatti a rilanciare gli studi di retorica in Francia, ripristinandone l’insegnamento al Collège de France. È di un decennio dopo l’altra sua opera fondamentale: “Lo stato culturale”, dove con appassionata verve polemica, unita però a un solidissimo giudizio storico, prendendo le mosse dalla spettacolarizzazione della produzione artistica Fumaroli ci mette davanti a un’analisi puntuale di quell’onnipresente “involucro”, che ci avvolge costantemente – rischiando talvolta di soffocarci pur con le migliori intenzioni – e che si chiama “cultura”. Tra le altre opere da ricordare, “La scuola del silenzio” (1994),  testo che mi ha accompagnato per diversi mesi,  dove riflette sulla diffusione delle immagini nel diciassettesimo secolo e soprattutto sul ruolo di alcuni grandi – da Guido Reni a Caravaggio a Poussin – e, il suo ultimo lavoro, “La Repubblica delle Lettere”, tradotto in Italia nel 2018. Per anni collaboratore di Repubblica, nel 2001 Marc Fumaroli ha ricevuto il premio Balzan per la storia e la critica letteraria del XVI secolo. Eccezion fatta per Eroi e oratori, pubblicato dal Mulino nel 1990, tutte le sue opere sono state tradotte da Adelphi. Carlo Franza

·        E’ morto Alfredo Biondi, storico leader del Partito liberale.

Claudio Del Frate per corriere.it il 24 giugno 2020. E’ morto Alfredo Biondi, storico leader del Partito liberale e poi tra gli esponenti di punta di Forza Italia. Era nato il 29 giugno del 1928, quindi avrebbe compiuto 92 anni lunedì prossimo. Vicepresidente della Camera, era stato ministro della Giustizia del primo governo Berlusconi. Pisano di nascita, genovese d’adozioni , Biondi è stato una figura «ponte» tra la prima e la seconda repubblica. Debutto come deputato alla camera nel 1968 sui banchi del Partito liberale, di cui fu anche segretario tra il 1985 e il 1986. Fu anche ministro in uno dei governi di Amintore Fanfani (politiche comunitarie) e nel primo governo Craxi (ecologia). Il salto di qualità avviene però con la seconda repubblica: Biondi è tra i primi ad aderire al progetto politico di Silvio Berlusconi del Polo delle libertà ed entra in Parlamento nel 1994 . Diventerà ministro ricoprendo il ruolo chiave di ministro della giustizia. Verrà sempre rieletto fino al 2008, passando al Senato nell’ultima legislatura. Il nome del defunto ministro è legato al decreto che porta il suo nome e che, in piena stagione di Mani Pulite, interveniva cancellando la custodia cautela in carcere per il reato di corruzione e rendeva segreta l’informazione di garanzia fino all’atto di conclusione delle indagini. Il 13 luglio in consiglio dei ministri approda il cosiddetto «decreto Biondi». Il guardasigilli distribuì a tutti i presenti il testo e Berlusconi, secondo le ricostruzioni giornalistiche disse «O passa all’unanimità o lo ritiro». Il provvedimento passò senza opposizioni, complice - secondo un malizioso retroscena - il fatto che proprio quella sera era in programma la semifinale Italia-Bulgaria ai Mondiali di calcio Usa. Il decreto Biondi ha come primo effetto la scarcerazione di circa 2000 persone che erano in custodia cautelare in carcere (tra cui l’ex ministro De Lorenzo, ex collega di partito del guardasigilli). Il provvedimento è all’origine anche del primo scontro tra Forza Italia e Lega: Roberto Maroni, allora ministro dell’interno sconfessa il decreto sostenendo che a lui era stata fornita una versione differente al testo poi approvato. La bufera esplode: il pool Mani Pulite di Milano minaccia di dimettersi leggendo un comunicato in diretta tv, emergono forti perplessità all’interno della stessa maggioranza e alla fine il decreto Biondi avrà vita breve: il 21 luglio viene bocciato alla Camera a larghissima maggioranza (418 no, 33 sì e 41 astenuti).

Morto Alfredo Biondi, fu ministro della Giustizia durante il primo governo Berlusconi. Avrebbe compiuto 92 anni fra pochi giorni. Prima di aderire a Forza Italia fece parte del Partito liberale. Durante la sua carriera politica ha ricoperto anche l'incarico di vicepresidente della Camera. Fi: "Fu una colonna del liberismo e del garantismo autentico". Il Pd: ha speso la sua carriera politica a difesa delle istituzioni e della democrazia. La Repubblica il 24 giugno 2020. Lutto nel mondo della politica. È morto Alfredo Biondi, storico leader del Partito liberale e poi tra gli esponenti di punta di Forza Italia. Avrebbe compiuto 92 anni fra pochi giorni. Infatti Biondi era nato il 29 giugno del 1928 e nel corso della sua carriera ha ricoperto il ruolo di vicepresidente della Camera e, durante il primo governo presieduto dall'allora premier Silvio Berlusconi, era stato ministro della Giustizia.

La carriera politica. Nel 1968 fu eletto, per la prima volta, alla Camera nelle fila del Partito liberarale e tornò a Montecitorio nel 1979,per essre poi riconfermato ininterrottamente come deputato dall'ottava alla quattordicesima legislatura. Nel 1994 aderì a Forza Italia. A Montecitorio per quattro legislature ricoprì l'incarico di vicepresidente dell'Assemblea: dal 1987 al 1994, e poi dal 1996 al 2006. Nell'82 fu ministro delle Politiche comunitarie nel quinto governo Fanfani e durante il primo esecutivo dell'allora premier Bettino Craxi guidò il dicastero dell'Ambiente dal 1983 all'85. Fu nominato ministro della Giustizia nel primo gabinetto presieduto da Silvio Berlusconi e in quegli anni Alfredo Biondi fu al centro di numerose politiche per il  il decreto legge che prese il suo nome. Dal 2006 al 2008 fu eletto senatore, mentre la decisione di tornare nelle fila del Partito liberare risale al 2011.

Le reazioni. "Biondi è stato una colonna del liberalismo, un garantista autentico e un galantuomo che ha illuminato per decenni la politica italiana", scrivono in una nota i senatori di Forza Italia. "È stato - proseguono - un grande esempio di coerenza con i valori della civilta' giuridica, e il suo insegnamento resta un'ereditàpreziosa da coltivare in questi tempi di giustizialismo senza limiti e senza regole. Noi siamo in campo per continuare le sue battaglie". E il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, aggiunge: "Piango un grande amico. Le sue idee sulla giustizia sono attualissime". Per Andrea Marcucci, capogruppo del Pd al Senato. "Con la morte di Alfredo Biondi se ne va uno degli ultimi grandi liberali, un combattente nato che ha speso la sua lunga carriera politica a difesa delle istituzioni e della democrazia". E Ettore Rosato, presidente di Italia Viva, parla di Biondi sottolineando che fu "un vero liberale, apprezzato in maniera trasversale".

Ricordo di Alfredo Biondi, che nostalgia! Andrea Apollonio su Il Riformista il 26 Giugno 2020. Ho incontrato Alfredo Biondi per l’ultima volta nel febbraio di tre anni fa, nella sua splendida casa di Genova: una casa piena di ricordi, di tracce di un percorso politico orientato esclusivamente al liberalismo. Mi ero recato lì armato di registratore, perché avevamo in mente di scrivere a quattro mani (o meglio: mie le mani, suoi i pensieri) un libretto sulla “giustizia penale liberale”. Un’astrazione impalpabile, un ossimoro forse: un concetto che poteva essere solo ragionato e non applicato. Eppure lui riusciva ad esercitare – nella professione forense, come nella politica – questa forma di liberalismo, lente attraverso la quale lui vedeva e interpretava il mondo. Dopo quella lunga chiacchierata, sui temi appunto della “giustizia liberale”, avevo steso una dozzina di cartelle fitte fitte: il resoconto di quel pomeriggio. Gliele avevo inviate (per posta ordinaria) subito dopo, con l’accordo che ci saremmo ritrovati il mese successivo; non siamo mai riusciti a terminare quel lavoro, per le sue via via più frequenti indisposizioni ed anche perché il mese successivo – inaspettatamente – ero già alle prese con i temibili orali del concorso in magistratura. Quando poi gli comunicai (prima per telefono, poi scrivendogli una lettera) che avevo superato quel concorso, lui mi spedì un biglietto, scritto con il suo tratto ormai incerto su di una raffinata carta intestata, in cui si diceva convinto che avrei esercitato le mie funzioni ossequiando i principi del diritto penale liberale; né cambiò idea, quando gli dissi che avevo scelto di fare il pubblico ministero, anzi ribadì le sue certezze con maggior vigore. Non posso negare di essermi chiesto più d’una volta, se la fiducia che Alfredo Biondi riponeva sulla mia persona, e sull’esercizio di quelle particolari funzioni inquirenti, fosse ben riposta. Non l’ho più visto, e lo sentivo sempre meno, con crescente rimpianto per i pranzi e le cene in cui raccontava, senza alcun ordine, quarant’anni di politica e giustizia, col suo fare eccentrico e autorevole al tempo stesso, con la sua galanteria, la sua coerenza nelle idee liberali coltivate fin da giovanissimo, e fino alla fine. Credo di aver imparato molto da lui. Per un po’ ho continuato a cercarlo, chissà che non fossimo riusciti a chiudere il nostro (recte: “suo”) libretto: ma il suo è stato un graduale congedo da un mondo in cui non si riconosceva più. E rileggendo le cartelle di un progetto editoriale abortito sul nascere, mi rendo conto, oggi, che il suo attaccamento all’ideologia liberale, declinata nella politica e nella giustizia, l’attaccamento ai principi di libertà di cui mi parlava sempre, ed in quel pomeriggio a Genova, era in realtà il distacco di chi non voleva finire nel calderone dell’ideologia qualunquista, e del populismo a qualunque costo. Ricordare Alfredo Biondi vuol dire dare corso alla nostalgia del tempo in cui la politica, pur con tutti i difetti dei fenomeni umani, si occupava delle complessità sociali, e cercava di inquadrare i problemi in una cornice teorica, in cui venivano affermati e trattati principi di natura ideologica; di ideologie che non hanno più maestri e di cui oggi, sfortunatamente, abbiamo perso le tracce. Quel libretto mai pubblicato voleva dare ossigeno – nel chiuso della sua casa vicino al mare ligure – al suo modo di pensare, anacronistico forse, e sarebbe cominciato così, perché così egli aveva introdotto il tema: «Con giustizia liberale non intendiamo soltanto una concezione progressista e garantista del diritto, ma qualcosa di più ampio. È vero che, nel pensiero comune, la parola garantismo designa la dottrina liberale del diritto penale, ma è vero anche che ben poche sono state le elaborazioni a tutto tondo della giustizia liberale. D’altronde, il liberalismo è sempre stato connesso, principalmente, ai fenomeni dell’economia, mentre ai fenomeni del diritto, e del diritto penale in particolare, ci si riferisce evocando indistintamente concetti come quelli di garantismo, illuminismo o, appunto, liberalismo. Il discorso che ci apprestiamo a svolgere tenterà dunque di chiarire quale può – o dovrebbe – essere lo spirito del giurista liberale, e i principi che lo muovono». È davvero anacronistico pensare, oggi, a quali debbano essere i principi su cui deve improntarsi lo spirito del giurista liberale? E, in definitiva, ad un modo diverso di esercitare la giustizia? Forse, Alfredo Biondi, nonostante il suo ritiro dalle scene, lontano dai riflettori, continuava ad essere più attuale di quanto si immaginasse; e, per la granitica coerenza che ha sempre contraddistinto il suo pensiero, continuerà ad esserlo.

Addio ad Alfredo Biondi, l’ultimo guardasigilli garantista. Il Dubbio il 24 giugno 2020. Alfredo Biondi aveva 92 anni. Era stato ministro della giustizia del primo governo Berlusconi e avvocato. Storico leader del Partito Liberale nella prima repubblica, per poi diventare uno degli elementi portanti di Forza Italia con l’avvento alla politica di Silvio Berlusconi.  Alfredo Biondi è morto alla vigilia del suo 92esimo compleanno. Pisano di nascita ma genovese di adozione, Biondi aveva mosso i suoi primi passi politici tra le file del PLI (di cui divenne segretario tra il 1985 e il 1986), entrando in Parlamento nel 1968 tra i banchi della Camera. Fu ministro alle politiche Comunitarie in uno dei governi Fanfani e responsabile dell’eco ligia nel primo governo Craxi, ma il salto di qualità li fece nella Seconda Repubblica come ministro della Giustizia nel governo Berlusconi. La sua opera in qualità di Guardasigilli è legata soprattutto alla cancellazione della custodia cautelare in carcere, il cosiddetto decreto Biondi. “Oggi piango la scomparsa del grande amico, prima che del politico Alfredo Biondi. Un autentico liberale, che dopo un brillante percorso ai vertici del Partito Liberale, ha aderito sin dalla sua nascita a Forza Italia, condividendone lo spirito e portandovi il suo bagaglio di idee, valori e l’autorevolezza che lo ha sempre contraddistinto”, commenta su Facebook il presidente di Forza Italia Silvio Berlusconi.

Alfredo Biondi morto a 92 anni, il cordoglio della politica. L’ho voluto alla guida del ministero della Giustizia dove svolse coraggiose battaglie di matrice garantista; negli anni non ho mai smesso di confrontarmi con lui sui temi di attualità e in particolare sulle anomalie del sistema giudiziario italiano – aggiunge -. Alla luce delle recenti notizie di cronaca, le sue idee in fatto di diritti e di Giustizia appaiono ancora attualissime. Mancherà molto a me e a tutta la comunità di Forza Italia che lui stesso ha contribuito a far nascere. Ciao Alfredo”. “Desidero esprimere profondo cordoglio per la scomparsa di Alfredo Biondi, storico esponente liberale del nostro Paese. Avvocato, più volte ministro, vicepresidente della Camera, Senatore e Deputato, spese gran parte della sua vita al servizio del Paese, contribuendo alla sua crescita sociale ed economica. Ai familiari esprimo la mia vicinanza”, dice il presidente del Senato Elisabetta Casellati. “Lascia un vuoto in tutti coloro che credono nei valori liberali. E’ stato un esempio unico di attaccamento ai valori della civiltà giuridica. Il suo insegnamento resta un’eredità preziosa, specie in questi tempi di giustizialismo senza controllo”, ha scritto il capogruppo al Senato di Forza Italia Anna Maria Bernini sui suoi profili social. Un apprezzamento, quello per Biondi, che ha superato anche le barriere politiche, visto che anche il capogruppo del Pd al Senato Andrea Marcucci ha sottolineato: “Con la morte di Biondi se ne va uno degli ultimi grandi liberali, un combattente nato che ha speso la sua lunga carriera politica a difesa delle istituzioni e della democrazia”.

Luigi Bisignani, il ricordo di Alfredo Biondi: "Quell'incontro con Giulio Andreotti..." Luigi Bisignani su Libero Quotidiano il 26 giugno 2020. Caro direttore, c'è un episodio inedito degli anni '80 nella vita di Alfredo Biondi, l'ultimo grande liberale che è scomparso ieri a 91 anni, che merita di essere ricordato. Ne esalta, infatti, le qualità non solo di parlamentare e ministro di lungo corso ma soprattutto di avvocato garantista. Quando era vicepresidente della Camera, chiese un appuntamento urgente al premier Giulio Andreotti che glielo diede subito per le 6.45 a piazza in Lucina. Un'ora andreottiana ma un po' insolita per Biondi, che amava la sera cantare fino a tardi al Tartarughino assieme a colleghi come Altissimo, De Michelis e Martelli. Arrivò un po' strattonato ma puntuale, il Paese era in piena emergenza terrorismo e si parlava molto delle leggi sui pentiti. Biondi non ne fece cenno con nessuno. Il colloquio durò pochi minuti. Solo molti anni dopo, un pomeriggio Andreotti si lasciò andare ad una confidenza: «Forse avrei dovuto dare più peso a quello che una mattina mi disse Biondi, ma con Cossiga decidemmo che non si poteva fare perché l'emergenza era drammatica». Ma che cosa gli aveva detto Alfredo Biondi? Che non ci poteva essere lo stesso avvocato per più pentiti perché altrimenti la prova non sarebbe stata più genuina. E cosa d'altro? Che le spese che lo Stato elargiva per i pentiti e le loro famiglie dovevano avere una forma di controllo, magari attraverso la figura garante di un alto magistrato. Entrambi i suggerimenti di Biondi non vennero ascoltati e la stagione dei pentiti forse, a parte gli straordinari risultati ottenuti, ha fatto mettere in un angolo lo stato di diritto per una giustizia premiale a volte troppo allegra. Ne sentiremo la mancanza. 

Ritratto di Alfredo Biondi, il liberale che sfidò le toghe e fu sconfitto. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 25 Giugno 2020. Un amico. Un fratello. Un maestro. Il dispiacere per non averti potuto vedere novantenne, caro Alfredo, quando adducevi dolore alle ginocchia. Eravamo pronti a partire per Genova Memmo e io, che con te avevamo formato il primo “gruppo giustizia” del governo Berlusconi del 1994. Ci hai dissuaso e non ti abbiamo voluto forzare. Peccato. Rimane dentro di me il rimorso, insieme all’altro, quello più antico, per non aver saputo asciugare le tue lacrime quando soffrivi per la sorte di quel decreto che portava il tuo nome e che ai tuoi occhi rappresentava la distruzione di un’onorata e brillante carriera di parlamentare, di ministro, di dirigente del Partito liberale, di famoso avvocato penalista. Quel che non avresti mai voluto vedere, sono i titoli con cui vieni ricordato oggi, da chi ti ha stimato e da chi non ha condiviso quel provvedimento sulla custodia cautelare, che non fu affatto una soluzione per tangentopoli, ma un tentativo di risolvere, per tutti, il problema degli eccessi del carcere preventivo. Ti ci eri impegnato, nonostante fosse chiaro che, se c’era un ruolo che nella vita non avresti mai voluto svolgere, era quello di Ministro della giustizia. Avresti gradito la Difesa, in quel 1994.  “Mi piacciono i generaloni”, dicevi ridacchiando con la consueta verve. Poi più seriamente: “gli uomini dell’esercito sono leali”. Quasi a dire che nel mondo dei processi, che lui frequentava con la sua toga di avvocato, i colpi alla schiena erano più frequenti delle sciabolate a viso aperto. Il destino avverso ebbe le sembianze del Presidente della repubblica Oscar Luigi Scalfaro, il Grande Miracolato degli ultimi mesi della Prima repubblica, rotolato dal nulla alla presidenza della Camera e subito dopo al Quirinale. Scalfaro interloquì parecchio nella formazione del primo governo Berlusconi (anche io fui una sua vittima, quando mi cancellò dalla lista dei sottosegretari alla giustizia e mi preferì Borghezio) e sancì che il Premier non potesse designare il proprio avvocato, cioè Cesare Previti, a fare il Guardasigilli. L’argomento non era del tutto infondato, e Biondi dovette sacrificarsi. Fu attuato lo scambio tra i due: Biondi alla giustizia e Previti alla difesa. Memmo Contestabile, che poi divenne sottosegretario, e io, che fui eletta Presidente della Commissione giustizia della Camera, eravamo entusiasti. Era il nostro Ministro. Alfredo no, non era proprio contento. Perché, al contrario di Silvio Berlusconi, che esibiva ancora la baldanza un po’ ingenua del neofita, e l’illusione che la vecchia casta politica si sarebbe arresa alla forza elettorale della “società civile”, Biondi aveva già annusato l’aria e non aveva sottovalutato le nubi nere che cominciavano a colorare l’orizzonte. Ma soprattutto l’avvocato Alfredo Biondi conosceva i magistrati. Non si era illuso di essere intoccabile, nonostante la sua reputazione -che comunque non fu mai scalfita – di persona integerrima. E dovrà sopportare le battutine del potente procuratore milanese Saverio Borrelli, che, non riuscendo a inviargli un’informazione di garanzia, insinuava che lui non fosse lucido “a una certa ora della sera”. Piccoli uomini, piccoli magistrati. Proprio perché era lucidissimo a tutte le ore, Biondi era preoccupato. E non si fidava. Aveva alle spalle l’undicesima legislatura, l’ultima della prima repubblica, e ancora negli occhi come era andata e come era finita. Era stata la stagione in cui avevano comandato sulla politica i pubblici ministeri di Milano, i più puri tra i puri, che si proclamarono Mani Pulite senza tener conto che quarantun suicidi, quanti furono quelli di tangentopoli, forse qualche macchia possono averla lasciata. Ma era stata la stagione in cui, insieme agli arresti e alle conseguenti fiaccolate di entusiasmo di quella famosa “società civile” che tanto era piaciuta a Berlusconi, il Parlamento rispondeva chinando il capo, togliendo dal proprio corpo ogni giorno un nuovo pezzetto di sé. Un pezzetto dei propri diritti, della propria autonomia, delle proprie libertà. Nel 1993 tre importanti eventi seppellirono sotto terra il Parlamento e sua dignità. Così si presentava la galleria dei ministri che avevano amministrato la giustizia quando arrivò Alfredo Biondi, fresco di elezione con Forza Italia nell’inizio della seconda repubblica. Una voce telefonica aveva svolto il ruolo di cecchino e licenziato con un’informazione di garanzia il ministro di giustizia Claudio Martelli, il socialista che aveva voluto al suo fianco il magistrato Giovanni Falcone e che aveva messo al primo punto della sua politica sulla giustizia la lotta alla mafia. Forse aveva sbagliato tema, fatto sta che Borrelli lo mandò a casa. Era poi arrivato il ministro “tecnico”, quel galantuomo di Giovanni Conso, voluto personalmente da Scalfaro e in seguito da lui medesimo gettato nel circo in pasto ai leoni. Era stato lo stesso Presidente della repubblica, con una regia neanche troppo occulta, insieme al Presidente del consiglio Giuliano Amato, a proporre un’uscita politica da tangentopoli. Ma aveva sbagliato i tempi, perché in contemporanea anche i pubblici ministeri di Milano, accolti come principi in quel salotto buono dello Studio Ambrosetti che ogni anno si riunisce a Cernobbio, luogo pensoso sulle rive del lago, avevano presentato la propria proposta. Che comportava la gogna e l’umiliazione dei politici. Al contrario del “decreto Conso”, che depenalizzava il reato di finanziamento pubblico e prevedeva una sorta di patteggiamento allargato per gli altri reati contro la Pubblica Amministrazione. Ma i pubblici ministeri volevano la gogna, non l’uscita dignitosa delle politica. Bastò che il procuratore di Milano Borrelli andasse in tv a dichiarare sdegnato che il decreto Conso era un “colpo di spugna” perché tutti i giornali in coro scrivessero “colpo di spugna”, e riprendessero le fiaccolate. E gli avvisi di garanzia e i suicidi. Ma i suicidi non furono solo quarantuno, in quell’anno, ma quarantuno più novecentoquarantacinque, il numero dei parlamentari che, voto più voto meno, uccisero se stessi, la propria dignità, la propria autonomia dagli altri poteri dello Stato, insieme all’immunità prevista dalla Costituzione. Andammo al patibolo, vittime della furia giacobina che invadeva il Paese, ma anche della nostra debolezza. Ecco perché il mio amico Alfredo, pur non avendo voluto mai andare a occupare quel posto dove erano già stati ghigliottinati Martelli e Conso, rialzò la testa quando, da avvocato e da liberale, decise di affrontare il problema della custodia cautelare. Chi dice che il “decreto Biondi” (in realtà era “decreto Biondi-Maroni”, prima che il ministro della Lega facesse il suo “disconoscimento di paternità”, come lo definì lo stesso Guardasigilli) fu scritto per favorire la politica, mente spudoratamente. Lo dicono i numeri: dei 2750 detenuti che furono scarcerati in quei giorni, solo 43 erano stati arrestati per fatti legati a tangentopoli. Ma il dato più eclatante è il seguente: quando il governo fu costretto a ritirare il decreto, meno del 10% delle persone che erano state scarcerate fu di nuovo ammanettato. Tanto era indispensabile la custodia cautelare di massa. Alfredo ha sofferto molto, per quella vicenda. Memmo Contestabile, che ha un senso dello humor simile a quello del nostro amico che da ieri ci ha lasciati, ricorda episodi esilaranti. «Nel breve tragitto che eravamo costretti a fare dalla Camera al Senato, dovevamo subire insulti continui. I cittadini si insinuavano tra noi e le nostre scorte e ci riempivano di sputi. Arrivavamo in Parlamento tutti bagnati di saliva». Ma c’era poco da ridere. E fu di nuovo la regia perfetta dei pubblici ministeri di Milano a far scattare la mannaia. Se ai tempi del decreto Conso era stata la figura un po’ ieratica del procuratore Borrelli, con occhialini d’oro e foglietto in mano, a uccidere il ministro e la sua legge, a Biondi fu elargita un’immagine selvaggia di quattro giovanotti scarmigliati e con la barba lunga. I pm Di Pietro, Colombo, Greco e Davigo dissero che senza manette loro non potevano lavorare, quindi erano costretti a chiedere il trasferimento. La regia televisiva comportò anche che, mentre i quattro parlavano, scorressero alle loro spalle le immagini di persone famose come l’ex ministro De Lorenzo (che comunque non fu più riarrestato) che lasciavano il carcere. La gogna andava in onda su ogni rete. Il “decreto Biondi” visse sei giorni. Nacque di mercoledì, il 13 luglio 1994. Morì il 19, quando Giuliano Ferrara, ministro per i rapporti con il Parlamento, lo ritirò ufficialmente. Ma molti di noi di Forza Italia lo votammo lo stesso. Avevamo preso coraggio, rispetto ai tempi (un anno prima) della prima repubblica. E lo dobbiamo alla forza di un uomo come Alfredo Biondi. È vero, aveva un nodo in gola e non riusciva a parlare, la notte precedente la bruciante sconfitta, quando Berlusconi lo chiamò a Palazzo Chigi per prendere la decisione. Ma era il nodo in gola di una persona dignitosa e sempre attenta alle garanzie di tutti. Che aveva dedicato la vita a realizzare i principi liberali con cui era cresciuto, dall’economia alla giustizia, e che vedeva la sua vita improvvisamente ristretta e vincolata a un solo episodio. A qualcosa in cui credeva, a un processo giusto in cui accusa e difesa potessero avere lo stesso peso e in cui non si sbattesse la gente in galera prima di esser stata giudicata. Tutte cose difficili da capire sia da quella sinistra di allora che sosteneva le campagne di moralizzazione dei pubblici ministeri ma poi prendeva i soldi da Mosca, che da quattro giovanotti con la barba lunga che in fondo avevano solo vinto un concorso. E che non avevano nella propria cultura giuridica – neanche quello che si fa chiamare “dottor Sottile” – neanche un grammo di quei principi che hanno caratterizzato la vita intera di questo grande novantaduenne che ci ha lasciato. E che vogliamo ricordare anche scrivendo ogni giorno un giornale che è anche un po’ il frutto di quel che Alfredo Biondi ci ha lasciato.

·        È morto il regista Joel Schumacher.

Gloria Satta per “il Messaggero” il 23 giugno 2020. È morto Joel Schumacher, regista di film di culto come St. Elmo's Fire, Un giorno di ordinaria follia, Batman Forever, Batman & Robin. Originario di New York, aveva 80 anni e da alcune stagioni combatteva contro il cancro. Entrato nel cinema come costumista (lavorò a Il dormiglione e Interiors di Woody Allen), diventato poi sceneggiatore, approdò alla regia nel 1981 dirigendo The Incredible Shrinking Woman. Ma la notorietà doveva venire nel 1985 grazie a St. Elmo's Fire, storia corale sullo stile del Grande freddo, in cui recitavano un manipolo di giovani attori del cosiddetto Brat Pack tra cui le future star Demi Moore e Rob Lowe. Nel 1993, fa scalpore e accende il dibattito nel mondo intero Un giorno di ordinaria follia, forse il suo film migliore in cui un uomo esasperato dalle avversità, interpretato da un drammatico Michael Douglas, reagisce scegliendo la violenza. Ma il successo globale arriva quando Schumacher sostituisce Tim Burton alla regia di due episodi della saga di Batman: il primo è Batman Forever che, interpretato da Val Kilmer, Tommy Lee Jones, Jim Carrey e Nicole Kidman, nel 1995 incassa 300 milioni di dollari. Segue due anni dopo Batman & Robin in cui George Clooney interpreta il Cavaliere oscuro: ma le polemiche si sprecano perché il regista, gay dichiarato, ha immaginato che tra Batman e Robin (Chris O' Donnel) ci fosse un legame omosessuale. «Effettivamente ho interpretato il mio personaggio come se fosse gay», confermò lo stesso Clooney alla giornalista tv Barbara Walters. In Flowless-senza difetti (1999), Schumacher affida a Robert DeNiro il ruolo di un uomo devastato da un ictus e destinato a trovare sostegno nel vicino di casa, un travestito (Philip Seymour-Hoffman) che aveva sempre disprezzato. Il fantasma dell'Opera, adattamento del musical di Lloyd-Webber, nel 2004 ottiene tre nomination all'Oscar. Sono horror The Lost Boys e Flatliners. E Colin Farrell è protagonista di due film: Tigerland, sul Vietnam, e il thirller Phone Boots - In linea con l'assassino ambientato tutto in una cabina telefonica. Nel 2011 il regista dirige l'ultimo film, Trespass, e tra i suoi impegni recenti figurano due episodi della serie Netflix House of Cards.

Marco Giusti per Dagospia il 24 giugno 2020. Ha diretto grandi successi internazionali, grazie ai suoi due Batman supergay definiti “spudoratamente camp e insolitamente queer”, “Batman Forever”, “Batman & Robin”, all’operistico “Il fantasma del palcoscenico”, ai grandi thriller anche complessi, “Un giorno di ordinaria follia”, “8 mm”, “In linea con l’assassino”, “Il cliente”, ai film generazionali, “St. Elmo’s Fire”, “Ragazzi perduti”, “Linea di confine”, che raccontarono i ragazzi cresciuti malamente negli anni ’80 tra i video e Ronald Reagan e le voglie di liberazione gay. Ha scoperto o valorizzato attori come Julia Roberts, Kiefer Sutherland, Colin Farrell, Jim Carrey, Matthew McConaughey. Joel Schumacher, che se ne è andato nella sua New York dove era nato 80 anni fa, può vantare di aver fatto un cinema spesso commerciale, anche molto commerciale per colpa delle majors, ma sempre anche molto autoriale proprio come messa in scena, costruzione delle scene, dei costumi, uso dello schermo panoramico, direzione degli attori. Sforando spesso nel camp proprio con i personaggi di Batman, se si pensa all’Enigmista di Jim Carrey e alla Poison Ivy di Uma Thurman, disegnata in una prima versione come dominatrice bisessuale dalla pelle di spinosa di cactus. Non banale, insomma. Come dimostrano appunto sia i suoi due clamorosi Batman, con i quali subentrò a un maestro del fantasy come Tim Burton, sia i suoi tanti thriller sempre un po’ fuori dagli schemi classici, sempre originali. Per non parlare dei suoi video per gli Smashing Pumpkins, per gli Innx, per Lenny Kravitz. Newyorkese, figlio di genitori di origini tedesche, da parte di padre, e russo-ebree, da parte di madre, si interessa da subito di moda e design. Studia alla Parson’s School of Manhattan e lavora nella moda, allestendo anche vetrine dei negozi newyorkesi. Entra nel cinema nei primi anni ’70, diventando presto costumista per registi come Frank Perry (“Play It As It Lays”), Paul Mazursky (“Blume in Love”), Herbert Ross (il fondamentale “The Last of Sheila”), Woody Allen (“Il dormiglione”), scenografo per Curtis Harrington (“Killer Bees”) e sceneggiatore per film anche importanti come “Car Wash” e “The Wiz” di Sidney Lumet , ad esempio, versione musicale nera de “Il mondo di Oz” con Michael Jackson protagonista. Passa alla regia molto presto, nel 1974 con “Virginia Hall”, con Harvey Keitel come il gangster Bugsy Siegel e Dyan Cannon come la sua amante Virginia Hall, seguito da “Amateur Night at the Dixie Bar” con Don Johnson. E’ già un film importante “The Incredible Shrinking Woman” con Lily Tomlin nel 1981, versione femminile di un celebre film di fantascienza anni ’50 tratto da un racconto di Richard Matheson con un uomo che ogni giorno diventa più piccolo di cinquanta centimetri, poi “D.C.Cabb” con Max Gail e Mister T. Il primo vero successo è “St. Elmo’s Fire” con Demi Moore, Rob Lowe, Andie MacDowell, Andrew McCarthy, ritratto della generazione americana degli anni ’80. “Loro si aspettavano di realizzarsi e di avere enormi carriere davanti. Erano gli anni della Reaganomics”. Ma non andò così. Anche se parla di vampiri, per Schumacher “gli unici mostri hot del cinema”, grazie al cast giovanile, Jason Patric e Kiefer Sutherlannd, è un film generazionale anche il successivo “Ragazzi perduti”, per non parlare di “Linea mortale”, con Kiefer Sutherland e Kevin Bacon che civettano con la morte. E’ lì che scopre e lancia Julia Roberts. “Quando Julia entrò in casa mia con questi jeans tagliati, senza trucco, a piedi nudi, i capelli raccolti in testa, sapevo una cosa: sapevo di non aver mai incontrato nessuno come lei. Ho pensato: "Come ho vissuto senza conoscere questa ragazza". La ritroveremo nel mélo  “Scelta d’amore” l’anno dopo. “La domanda che mi fanno sempre”, diceva Schumacher, “è: Come fai a sapere che questi giovani diventeranno delle stelle? Non lo sai. Sai solo che non c'è nessuno come loro. Se Julia Roberts entra nel tuo ufficio a 20 anni e tu non la assumi, non devi far parte del mondo del cinema”. E’ un remake un po’ piatto di un film francese “Cugini” con Ted Danson, Isabella Rossellini, Sean Young, ma è un gran film dedicato al  cittadino medio che esce fuori di capoccia “Un giorno di ordinaria follia” con Michael Douglas nel ruolo della sua vita. Lo seguirà “Il cliente” con Susan Sarandon e Tommy Lee Jones, bella trasposizione cinematografica di un giallo di John Grisham. Con “Batman Forever” e “Batman & Robin” si trova a prendere il posto di Tim Burton, che aveva diretto due capolavori. Non era un compito facile. La sua idea, dice, è già quella di un Batman più dark alla Frank Miller, e, da gay dichiarato,  puntare esplicitamente a una componente omo nel rapporto con Robin, e a fare di certi personaggi delle regine del queer, ma la produzione glielo permette fino a un certo punto, spingendo invece nella linea di un supereroe per tutta la famiglia. Nei due Batman, però, Schumacher realizza una piena fusione tra la sua idea di cinema e quella di scenografo-costumista, sviluppando una grande visione ultracamp e ultragay come dimostrano gli apprezzamenti dei suoi fan sui social. “Le immagini surreali in alcuni dei miei film”, dirà “sono state spesso attribuite alle mie esperienze di droga, l'ho sentito dire da varie parti. Non so... quel mondo è abbastanza lontano rispetto a me adesso. Quello era il mio percorso e quando fai i conti con l'essere un tossicodipendente e un alcolizzato, ti rendi conto che tutto quello che fai dipende solo da te”. La componente gay e quella del film sui diritti civili torna in un bel thriller sudista tratto dal primo romanzo di John Grisham, “Il momento di uccidere”, girato tra i due Batman, dove Matthew McConaughey, avvocato gay con assistente nero, torna a casa nel profondo sud, a Canton nel Mississipi, e difende un nero accusato di aver ucciso due bianchi che gli avevano stuprato la figlia. Con lui troviamo anche Sandra Bullock, Samuel L. Jackson, Kevin Spacey, Donald e Kiefer Sutherland. Un film sicuramente maggiore è il thriller dedicato al mondo degli snuff movie, quelli dove si film un vero omicidio, “8mm – Delitto a luci rosse” con Nicholas Cage, Joaquin Phoenix e James Gandolfini. Un film, dirà più tardi Scumacher che “non verrebbe mai realizzato oggi. Penso che sia un film davvero audace, molto controverso, come molti dei miei film”. Schumacher dirigerà poi “Flawless” con Robert De Niro e Philip Seymour Hoffman, “Tigerland” con Colin Farrell, “Veronica Guerin” con Cate Blanchett, l’operistico “Il fantasma del palcoscenico” con Gerald Butler, l’ottino thriller “Number 23” con Jim Carrey ossessionato dal numero 23. “Blood Creek”,  dove Michael Fassbender è uno scienziato nazista zombi che combatte con Henry Cavill, “Twelve”, fino a “Trespass”, che è il suo ultimo film. Dirigerà poi due episodi della celebre serie “House of Cards”, prima di ammalarsi qualche anno fa. “Penso di essere una delle persone più fortunate che siano mai vissute”, dirà commentando la sua carriera. “Ho il mio sogno. L'ho ottenuto molto più grande di quanto avrei potuto nemmeno immaginarlo. In fondo, sono solo un bambino i cui genitori sono morti molto giovani, che era da solo ed è cresciuto dietro un cinema prima della TV, e volevo raccontare quelle storie e guardare cosa succedeva”. Su twitter leggo quello che ha scritto Jim Carrey, che lo ebbe come regista in “Batman” e in “Number 23”: “Joel Schumacher se ne è andato. Lui ha visto cose molto più profonde in me di quante ne vedesse la gente e ha vissuto una vita meravigliosamente creativa e eroica. Sono grato di averlo avuto come amico”.

·        È morto Charles Webb, l'autore ribelle del Laureato.

È morto Charles Webb, l'autore ribelle del Laureato. Lo scrittore americano è scomparso a 81 anni. Divenuto famoso per il romanzo, poi film celebre con Dustin Hofmann, regalò tutte le sue ricchezze per vivere in povertà e nell'anonimato. Antonello Guerrera il 22 giugno 2020 su La Repubblica. Come nella “Solitudine del maratoneta” di Alan Sillitoe, Charles Webb è l’icona del ribelle irriducibile, anche quando il successo, il denaro e una placida vita sembrano scontati. Come in tutti i rimpianti esistenziali, dopo esser caduto nella miseria, nell’anonimato anti-borghese e nell’anticonformismo più carnale, ci mancherà molto questo inimitabile scrittore americano, l’autore del romanzo e poi film mondiale Il Laureato, scomparso a 81 anni il 16 giugno - ma si è venuto a sapere oggi - nel Sussex, in Inghilterra, per cause ignote. Molti conoscono Webb proprio per quel romanzo, il suo capolavoro, successivamente diventato la ricchissima pellicola di una generazione americana grazie al regista Mike Nichols, agli attori Dustin Hoffman, Anne Bancroft, Katharine Ross e allo sceneggiatore Buck Henry, morto lo scorso gennaio. Non tutti, però, sanno cosa accadde dietro le quinte di quel blockbuster che macinò 100 milioni di dollari al cinema. Perché l’incredibile vita di Webb, dietro quel suo disinteressato ennui (noia), è una storia di privazioni volontarie, di follie familiari, di affamato disagio. Ma bisogna partire dall’inizio per essere - e capire - Charles Webb. Che nasce il 9 giugno 1939, a San Francisco, per poi trasferirsi presto a Los Angeles. Famiglia benestante, alta borghesia, padre celebre cardiologo, madre abbonata ai salotti buoni. La sua vita è già scritta: progressismo radical chic, studi in un’eccellente università “Ivy League”, la laurea. Ecco, no grazie. Perché a Webb tutti questi privilegi non stanno bene. “Mi veniva la depressione”, raccontò in una rara intervista al quotidiano inglese Daily Telegraph nel 2005, “ogni cosa per me era stata decisa. “Il laureato” parla anche di questo casino: un ragazzo nevrotico, maniaco, depresso”. Webb si laurea presto anche lui, in letteratura al Williams College, in Massachusetts. Ottiene una borsa di studio di scrittura creativa. E nel 1963 dà alla luce “The Graduated”, il “Laureato”. Descrizione della casa editrice: “Un romanzo sulla gioventù di oggi, come non l’avete mai letta”. Dove Benjamin Braddock - alias Dustin Hoffman - è evidentemente un suo alter ego, sebbene Webb abbia sempre tenuto a precisare di non aver mai avuto una storia con “Mrs Robinson” (nel film Anne Bancroft): una donna molto più grande di lui, immortalata nella storia della musica da Simon & Garfunkel, nella fiction moglie del socio del padre e madre di Elaine, cioè Katharine Ross, protagonista con Benjamin della fuga finale, in un bus al tramonto. “No, mi sono ispirato alla moglie di un collega di mio padre che giocava a bridge”, racconterà poi Webb, oltre a sua suocera che non voleva fargli vedere la figlia, avatar letterario di Elaine, e sua futura compagna di una vita. Ma il padre di Charles non la prende affatto bene, teme che l’opera getti discredito e vergogna a tutta la rispettata famiglia. Allora prende una copia del “Laureato” che gli ha dato il figlio Charles, la scaglia a terra e urla: “È una merda!”. Non proprio, visto il successo che avrà il romanzo, pervaso da quella vacuità emotiva, dai dialoghi tediosi come nel “Guardiano” di Harold Pinter e dalle incertezze generazionali in un contesto destabilizzante come la Guerra del Vietnam. Il libro ottiene recensioni e vendite dignitose per un esordio. Ma Webb vende i diritti cinematografici ai produttori legati al celebre Larry Turman per soli 20mila dollari. Non solo: si lega le mani pure per un eventuale seguito, che dovrà essere revisionato e approvato da quella che poi sarà Canal+ in Francia, che ne avrà gli introiti maggiori. Al produttore di Hollywood Turman, che decide di finanziare il film del Laureato dopo aver comprato quel romanzo in aeroporto, Webb fa così pena che, dopo i 100 milioni incassati al botteghino, gli regala 10mila dollari. Lo scrittore li rifiuta, come tutte le successive royalties, donate all’ong ebraica “Anti-Defamation League”. Webb rifiuta persino di andare alla premiere del film e regala i biglietti a uno sconosciuto. È solo l’inizio del suo anti-materialismo cosmico e del pauperismo antagonista che segneranno la sua vita: “Quando finisci il denaro è un’esperienza purificatoria”, dirà Webb, “perché fa bene alla mente come nient’altro. A volte rimpiangi non avere in banca titoli di Stato o altri beni materiali. Ma poi raggiungi un livello per cui riesci a vedere dentro le cose”. Difatti, Webb rinuncia all’eredità del padre. Si sbarazza della sua casa al mare fuori Los Angeles. Lo stesso fa di almeno altre tre “oppressive” proprietà di sua moglie Eve Rudd, artista, discendente di pellegrini della Mayflower e eccentrica ereditiera della East Coast, conosciuta all’università dove entrambi amano lo sceneggiatore censurato Ring Lardner. Primo appuntamento della coppia: in un cimitero. I Webb si disfano anche di opere d’arte di Warhol e Rauschenberg, ereditate dalle loro famiglie. Tutto regalato a terzi, associazioni o a sconosciuti, pur di sbarazzarsi di qualsiasi bene o avere. Persino i regali del matrimonio vengono restituiti agli invitati. Charles e Eve Webb iniziano a vivere in motel, in luoghi di fortuna, nell’indigenza o in comuni nudiste (anche in Francia). Fanno gli accattoni e i lavori più umili - dagli operai alla raccolta nei campi. Hanno presto i due figli, John e David. Non chiamatela Eve, però. Perché sua moglie cambia presto nome in Fred, in primis contro la “dittatura femminile” cui era sottoposta, e poi in onore di un gruppo di “self-help” per uomini con bassa autostima. I Webb, sempre uniti fino all’ultimo giorno dello scrittore, si sposano nel 1962, nello stesso anno in cui Charles scrive “Il Laureato”. Anche se l’anno prima hanno organizzato un altro matrimonio lampo all'improvviso causa gravidanza di lei, poi annullato dopo un aborto spontaneo. Alla fine, i due divorziano, ma solo formalmente, nel 1981. Il motivo non è chiaro, ma sono due le principali e contrastanti versioni che i due hanno fornito: per protestare contro la legittimità dell’istituzione matrimonio e, seconda ipotesi, per invocare gli stessi diritti anche per le persone dello stesso sesso. Subito dopo “Il laureato”, i Webb si trasferiscono vicino New York e in Massachusetts, perché vogliono educare in casa i figli e ciò in California non è permesso. Uno di loro, un “performance artist”, un giorno mangerà letteralmente una copia del romanzo capolavoro di suo padre con la salsa di mirtilli. È l’inizio di una vita povera e peripatetica, di un nomadismo operaio e situazionista. Più tard, il trasferimento in Francia, il ritorno in America e infine, dal 1999, l’Inghilterra. “Perché ci sembrava un bel posto, anche se non conoscevamo nessuno”. Prima Brighton in un monolocale sopra un negozio di cibo per animali, poi in una casetta misera nella vicina Eastbourne, nell’East Sussex. E le altre opere di Charles Webb? Il suo stile distaccato e idiosincratico mal si adegua ai romanzi successivi: “Affettuosamente, Roger” (1969), “Il matrimonio di un giovane agente di cambio” (1970), “Orphans and Other Children” (1975), “The Abolitionist of Clark Gable Place” (1976), “Elsinor” (1977), “Il grande slam” (1979). I libri vanno male, anche perché Webb rinuncia alle promozioni (“sarebbe come cibare mucche con carcasse di mucche pazze, il mondo editoriale vuole sempre, sempre di più!”) e addirittura rifiuta di far scrivere sulle copertine “dall’autore del Laureato”: “Sarebbe stato sfruttamento”, spiegherà in seguito. Curiosamente, però, gli ultimi due romanzi lo fanno riemergere dalla palude editoriale. Nel 2002 è il turno di “Volare via”, amato da Nick Hornby, che sarà il film “Hope Springs” con Colin Firth. I soldi ricavati, però, Webb li regala per l’istituzione di un nuovo premio per le “minoranze creative” che andrà all’artista inglese Dan Shelton: il quale, come opera d’arte vincente, spedirà se stesso Tate Britain sigillato in un pacco. Infine, nel 2007, l’attesissimo sequel del Laureato, e cioè “Home School” (in italiano “Bentornata, Mrs. Robinson”) che il Times serializza, aiutandone la pubblicazione e finanziando la causa legale con Canal+ per i diritti ceduti negli anni Sessanta. Webb racimola 30mila sterline con cui paga i debiti ed evita lo sfratto. Il resto, lo regala ancora una volta al primo che passa. Rimpianti? “No”, spiegò sempre al Telegraph, "se avessi avuto 100 milioni di dollari li avrei buttati via con la stessa velocità di 20mila”. God bless you, please, Mr. Webb.

·        E' morto Pierino Prati.

Da gazzetta.it il 22 giugno 2020. Dopo Mario Corso, il calcio italiano perde in pochi giorni un altro grande giocatore degli Anni '60 e '70. Se ne è andato, a 73 anni, Pierino Prati, ex attaccante di Milan, Roma e Fiorentina, campione d'Europa con la Nazionale nel 1968 e primo giocatore italiano capace di realizzare una tripletta in una finale di Coppa nel Campioni (con i rossoneri, nel 1969). Nato a Cinisello Balsamo nel 1946, Prati cresce nelle giovanili del Milan e, dopo un debutto fugace e due prestiti formativi a Salernitana e Savona in Serie B, si afferma in rossonero, sotto la guida del "Paròn" Rocco, nella stagione 1967-68. Con i suoi 22 gol in 38 partite, Pierino trascina il Milan alla vittoria dello scudetto e della Coppa delle Coppe. Guadagnatosi sul campo la convocazione in Nazionale per l'Europeo casalingo, Prati si laurea Campione con gli azzurri, anche se trova poco spazio, essendo considerato la riserva di Gigi Riva. La sua stagione di grazia, però, è quella successiva: nel 1968-69 Prati realizza 6 gol in 7 partite nella vittoriosa Coppa dei Campioni rossonera, diventando il primo giocatore italiano a realizzare una tripletta in finale contro l'Ajax (4-1 il finale). A seguire arriva anche la Coppa Intercontinentale e, nel 1970, il secondo posto al Mondiale con la Nazionale. Pierino Prati resta al Milan fino alla stagione 1972-73 e aggiunge nella sua bacheca due Coppe Italia e un'altra Coppa delle Coppe. La sua avventura in rossonero si chiude con 102 gol in 209 partite. Passato alla Roma, gioca 4 stagioni nella Capitale, non riuscendo a ripetere le prestazioni ottenute in rossonero: chiuderà, comunque, con 41 gol in 101 gare. Il declino, poi, è repentino: passa alla Fiorentina, quindi chiude al Savona, in Serie C2, con un breve inframezzo nel campionato americano coi Rochester Lancers. Anche da allenatore, Prati non riesce a replicare quanto di buono aveva fatto in area di rigore: le sue esperienze sono tutte nelle serie minori. Rimasto sempre molto legato al Milan, Prati ha continuato a seguire e commentare le prestazioni dei rossoneri fino ai suoi ultimi giorni di vita. Nonostante una lunga malattia che oggi se l'è portato via.

Milan e calcio italiano in lutto: è morto Pierino Prati, il bomber di Nereo Rocco. Libero Quotidiano il 22 giugno 2020. Calcio italiano in lutto: è morto a 73 anni Pierino Prati, storico attaccante del Milan di Nereo Rocco a cavallo degli anni Sessanta e Settanta. Pierino "La peste" era nato a Cinisello Balsamo nel 1946 e da tempo era malato. Cresciuto nelle giovanili rossonere, dopo essersi fatto le ossa nel Savona è tornato al Milan nel 1967, risultando subito decisivo per la vittoria dello scudetto e diventando grande protagonista in tandem con Sormani e Hamrin, davanti a Rivera. Fino al 1973 ha giocato 141 partite e segnato 72 reti, vincendo, tra l'altro la Coppa Campioni 1969 (suoi 3 dei 4 gol all'Ajax di un giovanissimo Cruyff nella finale di Madrid), l'Intercontinentale nel 1970 e la Coppa delle Coppe nel 1973, mancando però la conquista della "Stella", anche a causa della celebre Fatal Verona. Passato poi alla Roma, Prati nella Capitale gioca fino al '77 totalizzando 82 presenze e 28 gol. È stato anche campione d'Europa con la Nazionale nel 1968 e finalista mondiale nel 1970. Il cordoglio di Bruno Conti su Instagram: "Riposa in pace". Da allenatore aveva guidato Lecco, Solbiatese, Sporting Bellinzago e Pro Patria.

Aveva 73 anni. E’ morto il bomber Pierino Prati, “la peste” di Milan e Roma. Redazione su Il Riformista il 22 Giugno 2020. Si è spento all’età di 73 anni Pierino Prati, ex attaccante, tra gli anni ’60 e ’70, di Milan, Roma e della nazionale italiana. L’annuncio della sua morte lo rende noto Bruno Conti, ex giocatore e dirigente della Roma, attraverso il suo profilo Instagram accompagnato dalla frase “Riposa in pace grande Pierino”. Nato a Cinisello Balsamo (Milano), il 13 dicembre 1946, soprannominato "Pierino la peste", debutta in Serie A con la maglia del Milan nella stagione 1966-1967. Dopo una stagione in prestito al Savona, torna in rossonero nel 1967. E’ il periodo d’oro del Milan di Nereo Rocco, di cui Prati è il centravanti titolare fino al 1973. In questo periodo colleziona 143 presenze segnando 72 reti: con la maglia rossonera vince 1 Scudetto, 2 coppe Italia, 2 Coppe dei Campioni, 1 Coppa delle Coppe e 1 Coppa Intercontinentale. La sua carriera verrà condizionata da una serie di infortuni che gli impediranno di giocare con continuità. Nel 1967/68 è capocannoniere della Serie A con 15 reti. Ceduto alla Roma, gioca 82 partite con 28 reti fino al 1977. Poi un passaggio alla Fiorentina, il ritorno al Savona per due parentesi di fine carriera con in mezzo una esperienza negli Stati Uniti con i Rochester Lancers. Con la maglia della nazionale, causa anche la concomitanza di Gigi Riva, Prati colleziona 14 presenze con 7 reti: è campione d’Europa nel 1968 e finalista ai Mondiali del 1970. “VITTORIA DEDICATA A LUI” – “Prati? Voglio ricordarlo a nome di tutto il club, dedichiamo questa vittoria a lui, siamo vicini ai suoi familiari”. Così Stefano Pioli intervenuto a Sky Sport nel postpartita di Lecce-Milan.

E' morto Pierino Prati: bomber del Milan mondiale e della Roma. È stato anche campione d’Europa con la Nazionale italiana nel 1968, fece parte della spedizione in Messico nel 1970 ma senza mai giocare. Luigi Panella il 22 giugno 2020 su La Repubblica. Pochi giorni dopo Mario Corso, il calcio italiano perde un altro dei suoi miti. All'età di 73 anni dopo una lunga malattia è morto Pierino Prati. Milan e Roma le squadre simbolo di una carriera che ha avuto parentesi con Fiorentina, Salernitana, Savona e, sia pure solamente per qualche partita, con i nordamericani dei Rochester Lancers. Spazi importanti anche in Nazionale: campione d’Europa nel 1968, fu tra i 22 della spedizione al mondiale in Messico nel 1970. Il nome di 'Pierino la peste' (il suo alias) è legato a tanti gol e, fondamentalmente, a due allenatori: Nils Liedholm e Nereo Rocco. Nel Milan fu lo svedese a prenderlo quando era responsabile del settore giovanile. Ma fu Rocco, dopo una bonaria perplessità iniziale ("Pensavo di aver preso un giocatore e non un cantante", disse quando lo vide arrivare con i pantaloni a zanna d'elefante ed i capelli lunghi) a valorizzarne le qualità di bomber. Gianni Rivera era, non ci sarebbe bisogno di dirlo, il faro di quella squadra. Prati, nonostante partisse decentrato, il finalizzatore insieme a Sormani: 102 gol in 209 partite, le più importanti nella finale di Coppa dei Campioni del 1969 a Madrid, quando con una tripletta occupò quasi interamente il tabellino dei marcatori contro l'Ajax di un giovanissimo talento di nome Johan Cruyff. Emblematica la rete del 4-1 che sigillò il trionfo: un colpo di testa dopo un ricamo infinito del Golden Boy nel tempio del Santiago Bernabeu. Ma Prati non sapeva solo trasformare in oro solo le trovate degli altri, il gol infatti sapeva anche costruirselo, ed in tutte le salse. L'esempio sempre nella stessa notte spagnola: ne inventò uno con una bomba da fuori area che non concesse il tempo di un amen al portiere olandese Bals. Oltre al titolo di campione d'Europa, in rossonero arrivò uno scudetto (nel 1968, insieme alla classifica dei cannonieri con 15 reti), due coppe Italia, due Coppe delle Coppe, una Coppa Intercontinentale. Era in campo alla Bombonera di Buenos Aires nella finale di ritorno con l'Estudiantes, quando la sfide tra le più forti di Europa e Sudamerica erano più una guerra di culture che partite di calcio. Il Milan aveva vinto 3-0 all'andata e dovette subire una caccia all'uomo degli argentini, che non riuscirono a prendersi il trofeo ma causarono danni a parecchi giocatori milanisti. Combin quello maggiormente brutalizzato, ma anche Prati subì un violento colpo alla testa. Quando alcuni problemi fisici sembravano avergli fatto iniziare la fase discendente della carriera, ecco rispuntare Nils Liedholm, che gli regalò una seconda giovinezza con la Roma. Erano anni in cui nella Capitale andava più di moda la Lazio, campione d'Italia nel 1974. Nella stagione successiva però, nonostante una partenza difficile, proprio le reti di Prati, che vicino a sè vedeva crescere stelle del calibro di Di Bartolomei e Bruno Conti, consentirono ai giallorossi di conquistare un insperato terzo posto alle spalle di Juventus e Napoli. Era la Roma che cercava di scrollarsi di dosso l'etichetta di 'Rometta', delle sgroppate 'olandesi' di Rocca sulla fascia e delle intuizioni di Picchio De Sisti a centrocampo. Una squadra ancora adesso amatissima dai tifosi giallorossi dai cinquanta in su: nella mente soprattutto frammenti delle due vittorie nei derby, la seconda proprio con una rete di Prati, una delle 41 in 110 gare. In Nazionale dovette confrontarsi con la presenza a dir poco ingombrante di Gigi Riva. Esordì però in maniera eclatante, decisivo nel doppio confronto dei quarti di finale con la Bulgaria, che consentì all'Italia di passare alla fase a quattro da giocare in casa. Segnò a Sofia la rete che rese ribaltabile la sconfitta (3-2), quindi nella gara di ritorno aprì le marcature. Prati giocò la prima finale contro la Jugoslavia, ma dopo lo scialbo pareggio (1-1 targato Domenghini in extremis), Valcareggi ne cambiò cinque e non lo confermò nella gara replay dando spazio, nonostante le incerte condizioni fisiche, a Riva che lo ripagò con una delle due reti del trionfo. Inizialmente non selezionato per il Mondiale del Messico del 1970 dopo una stagione con più ombre che luci, venne chiamato da Valcareggi all'ultimo momento per sostituire Anastasi, che si era banalmente infortunato dopo un gioco con il massaggiatore Tresoldi. La cosa curiosa è che insieme a Prati fu chiamato anche a Boninsegna, cosa che per evidenti ragioni di sovrannumero, costò la celebre esclusione di Lodetti. Prati comunque la partita del secolo con la Germania Ovest ed in generale tutte le gare degli azzurri in quella Coppa Rimet le assaporò solo da spettatore: Valcareggi, che in precedenza lo aveva sempre preferito a Boninsegna, scelse diversamente.

Stefano Mancini per “la Stampa” il 23 giugno 2020. Pochi giorni dopo Mariolino Corso, ci ha lasciato anche Pierino Prati. Il derby dei numeri 11, la Milano del calcio che negli Anni Sessanta domina in Italia e in Europa, ha perso due protagonisti particolarmente amati dalle due metà del tifo, che a entrambi avevano attribuito il diminutivo. Prati è morto a 73 anni dopo una lunga malattia. Nato a Cinisello Balsamo nel 1946, con la maglia della Nazionale vinse gli Europei del 1968 e visse dalla panchina la finale ai Mondiali di Messico 1970 contro il Brasile. In azzurro non ebbe mai molto spazio, chiuso com’era da un certo Gigi Riva a sinistra e Boninsegna in centro, ma riuscì comunque a ritagliarsi quattordici presenze impreziosite da sette reti. È con la maglia rossonera che ha lasciato un segno indimenticabile. Fu preso che era un ragazzino e poi mandato in prestito prima alla Salernitana e poi al Savona. Di ritorno al Milan nel 1967, ancora ventenne, fu presentato dai dirigenti a Nereo Rocco, che chiedeva rinforzi in attacco ma non c’erano i soldi per fare grandi acquisti. Prati si presentò in stile figlio dei fiori, con una sgargiante camicia hawaiana. Il Paron lo fulminò così: «Go domanda’ un attaccante, non un cantante». Come andò è storia. Il giovanotto scese in campo e cominciò a segnare a raffica, 15 reti in 23 partite, capocannoniere nella stagione del debutto in Serie A. Quell’anno il Milan mise in bacheca campionato e Coppa Italia, nella stagione successiva arrivò la Coppa dei Campioni: celebre la finale al Santiago Bernabeu, tre gol all’Ajax di Crujiff (altro giovincello che farà la storia del calcio), l’ultimo di testa su assist telecomandato di Rivera. Poi arrivò anche l’Intercontinentale nella doppia, drammatica finale contro gli argentini dell’Estudiantes, per un en plein che non sarà più ripetuto fino all’era Berlusconi. Nel Milan, Pierino vinse ancora Coppa Italia e Coppa delle Coppe nel 1973, fallendo il triplete nella fatal Verona: la sconfitta 5-3 che regalò in extremis lo scudetto in volata alla Juve, e una delusione che brucia ancora in casa rossonera. Prati lasciò Milano alla fine di quella stagione per lui tormentata da una serie di infortuni. Ma non furono né la delusione né la sensazione che il suo talento stesse entrando nella parabola discendente a indurre la società a liberarsene dopo 209 partite e 102 gol. Albino Buticchi, presidente rossonero oltre che petroliere, era stato investito dalla crisi del petrolio. Andreotti gli promise il suo aiuto, ma volle in cambio Prati alla Roma. Affare fatto. Pierino si trasferì nella Capitale, dove in giallorosso segnò 28 reti in 82 partite di campionato, senza però vincere più nulla. Nella serata sono arrivati messaggi di cordoglio. «Dal Bernabeu alla Bombonera: Piero Prati ha dato lustro in tutto il mondo ai colori rossoneri. Ciao Piero». Con questo tweet il Milan ha salutato il suo grande attaccante, mentre Stefano Pioli gli ha dedicato il successo per 4-1 a Lecce, alla ripresa del campionato dopo la lunga sosta. «Riposa in Pace Grande Pierino» ha scritto invece Bruno Conti sul proprio profilo Instagram, postando una foto che lo ritrae con Prati ai tempi della Roma, due generazioni di campioni.

Addio Pierino, quella peste del Diavolo. Prati aveva 73 anni. Col Milan aveva vinto tutto. Poi la Roma. Nel '68 l'Europeo. Elia Pagnoni, Martedì 23/06/2020 su Il Giornale. L'amaro destino dei numeri 11. A tre giorni da Mariolino Corso, piange anche l'altra metà di Milano, un'altra ala sinistra completamente diversa ma altrettanto intimamente legata al cuore e ai trionfi di una squadra. Se n'è andato Pierino Prati, sei anni meno di Corso, ma rivale di tanti derby, e come l'interista protagonista dei successi europei e mondiali di Milano. Non solo, ma unito all'interista anche dalla moda dei calzettoni abbassati oltre che nel poco spazio trovato in Nazionale, l'uno per le scelte dei ct, l'altro perché davanti si è trovato un monumento azzurro come Gigi Riva. Eppure Pierino Prati per almeno una decina d'anni è stato un bomber inarrestabile, dal Pierino la Peste del Milan di Rocco, al Prati di fine carriera che comunque ha regalato gol e soddisfazioni anche alla Roma. Poco azzurro, dicevamo, solo 14 presenze ma con ben 7 gol e soprattutto la conquista del titolo europeo nel '68, quando giocò la prima finale con la Jugoslavia e segnò due reti decisive nei quarti con la Bulgaria, e la partecipazione a Messico '70 pur senza essere mai utilizzato da Valcareggi. La sua apoteosi calcistica resta però la finale di coppa Campioni del '69, la magica notte del Bernabeu quando il Milan travolge l'Ajax di Cruijff per 4-1 con una tripletta proprio di Pierino. La notte magica di quel Milan era la consacrazione di un modulo che in quegli anni funzionava a occhi chiusi, i lanci di Gianni Rivera, l'esplosività di Prati. Una coppia affiatatissima come se ne sono viste poche nella storia rossonera, una coppia che faceva sognare la gente del Diavolo e che si completava alla perfezione con Hamrin e Sormani. Se Corso era il re delle foglie morte, un undici atipico, Prati era un undici vero, un'ala in grado di travolgere le difese in potenza e velocità, di segnare di testa e in acrobazia ma soprattutto con un tiro fulminante che non si allontanava molto da quello di Riva. Centodue gol in 209 partite con la maglia rossonera lo pongono di diritto nel pantheon dei bomber milanisti. Ma a Prati restano legate anche quelle epiche battaglie con l'Estudiantes per la coppa Intercontinentale, il leggendario gol di Glasgow in contropiede nella vittoria sul Celtic che spianò la strada verso la conquista della coppa del '69, lo scudetto dell'anno precedente, ma anche due coppe delle Coppe fino alla fatal Verona in cui non giocò ma che segnò il suo addio al Milan.

·        E' morto Mario Corso.

E' morto Mario Corso, il fenomenale mancino della Grande Inter. Avrebbe compiuto 79 anni il prossimo 25 agosto. Una vita in nerazzurro. Franco Vanni il 20 giugno 2020 su la Repubblica. Lo disse Gyula Mándi, commissario tecnico della nazionale israeliana, dopo avere perso contro l'Italia: "Siamo stati bravi, ma ci ha battuti il piede sinistro di Dio". Era il 15 ottobre 1961, il piede divino che aveva castigato Israele era quello Mario Corso. Il veronese, che il prossimo 25 agosto avrebbe compiuo 79 anni - è morto ieri, dopo giorni di ricovero in ospedale. E se ne va così un altro dei campioni della Grande Inter, che negli anni Sessanta vinsero tutto. É scomparso Mario Corso, interista, campione eterno dotato di infinita classe. Con il suo sinistro ha incantato il mondo in una squadra che ha segnato un’epoca. I pensieri e l’affetto di tutti noi vanno alla famiglia in questo momento difficile #FCIM. Trequartista, prima che il termine esistesse, Corso fu definito da Gianni Brera con un gioco di parole "il participio passato del verbo correre": non gli serviva sgroppare in fascia (quella dei numeri 11 era per tradizione la sinistra) per fare la differenza in campo. Più che girare per il campo come una trottola, faceva girare il pallone, quasi sempre di sinistro. Specialista nei calci da fermo, perfezionò quel tiro a "foglia morta" che sarebbe divenuto non solo il suo marchio di fabbrica, ma anche una delle armi più temute dagli avversari dell'Inter di Herrera. Con l'Inter giocò sedici stagioni consecutive, dal 1957 al '73, per poi finire la carriera con la maglia del Genoa. In nerazzurro ha segnato 95 reti in 509 partite, vincendo quattro campionati, due Coppe dei Campioni e due Coppe Intercontinentali. All'Inter è tornato anche come allenatore, per una stagione appena, nel 1985-1986.

Addio a Mario Corso, poeta del grande calcio italiano. Il Corriere del Giorno il 20 Giugno 2020. Dal 1957 al 1973 indossò la maglia nerazzurra vincendo quattro scudetti, due Coppe dei Campioni e due Coppe Intercontinentali. Avrebbe compiuto 79 anni il prossimo 25 agosto. Grave lutto nel mondo del calcio: è morto all’età di 78 anni  l’ex calciatore dell’ Inter, Mario Corso per tutti “Mariolino”, che era ricoverato in ospedale da giorni, ma purtroppo non ce l’ha fatta. Era nato a Verona il 25 agosto 1941 ed avrebbe compiuto 79 anni . Mariolino ha raggiunto Sarti, Picchi, Facchetti, Peirò, Tagnin, Milani, Landini… i suoi vecchi compagni di squadra protagonisti di quella Grande Inter del “patron” Angelo Moratti, che ha caratterizzato gli anni Sessanta con i suoi successi in Italia, in Europa e in Sudamerica.  Uno squadrone di campioni, certo, ma Mario era il più dotato per la sua innata classe: dal soprannome “il mancino di Dio” si capisce già tutto. Corso è stata la stella più luminosa del firmamento nerazzurro. Corso fu protagonista assoluto della Grande Inter di Helenio Herrera  degli anni ’60, con la maglia nerazzurra 4 quattro scudetti (1963, 1965, 1966, 1971), due Coppe dei Campioni (1964, 1965), 2 Coppe Intercontinentali (1964, 1965). Il campione nerazzurro ha praticamente segnato la sua carriera: ha infatti indossato la casacca dell’Inter dal 1957 al 1973 prima di trasferirsi al Genoa dove ha chiuso la carriera nel 1975. Divenne celebre una sua invenzione: la punizione “a foglia morta“. Non era un atleta “fisico”. Da Mario Corso non potevi aspettarti che rincorresse il suo avversario anche perché all’epoca il terzino destro, cioè il suo marcatore diretto, non varcava mai la metà campo. Il mister Helenio Herrera, che pure esigeva molto dai suoi ragazzi sul piano della corsa, era indulgente con lui. Ed i suoi compagni accettavano senza fiatare l’ordine di scuderia: “Mariolino” andava lasciato libero di giocare il calcio a modo suo. Che non era fatica. Era arte pura. Corso non ebbe molta fortuna e gloria con la Nazionale perché era un giocatore atipico e non tutti erano disposti a correre per lui. Il dopo calcio è l’attività di allenatore-insegnante per i giovani. Soprattutto col Napoli, la sua prima esperienza durata quattro stagioni, riuscendo a trasmettere ai Primavera la sua tecnica raffinata. Siede anche sulla panchina della sua Inter durante la presidenza di Ernesto Pellegrini, ma gli riesce complicato guidare i calciatori già affermati per via del suo carattere schivo e sopratutto troppo “signorile”. “É scomparso Mario Corso, interista, campione eterno dotato di infinita classe. Con il suo sinistro ha incantato il mondo in una squadra che ha segnato un’epoca. I pensieri e l’affetto di tutti noi vanno alla famiglia in questo momento difficile. Ci sono delle persone destinate a rimanere nella leggenda, campioni eterni e talenti unici di cui è impossibile non innamorarsi. Ciao Mario, ci mancherà tutto di te”. Così l’Inter ha reso omaggio e ricordato sul proprio profilo  la stella della Grande Inter. Anche l’ex capitano nerazzurro, ora vicepresidente, Javier Zanetti ha voluto omaggiare Corso: “Un pensiero di vero cuore per una splendida persona, un mito della nostra Inter. Ricorderò sempre tanti bellissimi momenti insieme. Ciao Mario”. l’inventore della punizione a “foglia morta” e stella della Grande Inter. Anche l’ex capitano nerazzurro, ora vicepresidente, Javier Zanetti ha voluto rendere omaggio Corso: “Un pensiero di vero cuore per una splendida persona, un mito della nostra Inter. Ricorderò sempre tanti bellissimi momenti insieme. Ciao Mario”. Corso chiuse la carriera a Genova, sponda rossoblù. Due stagioni (1973-74 e 1974-75) che sono però bastate per essere inserito nella Hall of Fame del club. Il Genoa, nel giorno della sua morte, lo ha voluto omaggiare su Twitter: “Addio a Mario Corso, campione meraviglioso che indossò la maglia del Genoa”. La Figc e il presidente federale Gabriele Gravina si sono uniti al cordoglio dei familiari di Mario Corso, : “Se ne è andato un grande campione – dichiara Gravina – la sua classe, il suo stile e il suo sinistro magico rimarranno per sempre dei simboli straordinari del nostro calcio”. “Mario Corso se ne è andato. È stato un calciatore che ha fatto sognare la mia generazione. Ma oggi io ho perso un amico, una delle più belle persone che la vita mi ha fatto incontrare”, ricorda il sindaco di Milano Beppe Sala in un tweet. Omaggio anche da parte della Lega Serie A: “Ci ha lasciati uno dei grandi protagonisti del calcio, Mario Corso, fantasista della grande Inter che dominò gli anni sessanta vincendo due Coppe dei Campioni. Oltre ai successi in Europa in nerazzurro Corso conquistò due Coppe Intercontinentali e 4 Scudetti, guadagnandosi il soprannome di ‘piede sinistro di Dio’ per l’abilità nel disegnare col mancino le sue famose punizioni a foglia morta e per la capacità di trovare corridoi per i compagni che solo lui riusciva a vedere”. Lo si legge in una nota della Lega Serie A, che “porge ai familiari le più sentite condoglianze per la perdita di Mario, poeta del calcio”. Corso vincendo la sua nota timidezza e riservatezza, ha calcato la scena dei salotti televisivi, facendo l’opinionista in varie emittenti lombarde. È un ruolo che gli piace e nel quale si cala sempre meglio: mai una parola gridata o un giudizio troppo severo. Mario Corso è stato raffinato anche nella vita di tutti i giorni: un vero signore, il cui stile mancherà al calcio ed a tutto lo sport italiano. I nerazzurri lo omaggeranno domani sera portando il lutto al braccio nella gara contro la Sampdoria e con un minuto di raccoglimento.

Giampiero Mughini per Dagospia il 20 giugno 2020. Caro Dago, e a parte il magnifico libro/emblema che su di lui scrisse Edmondo Berselli, la memoria che io ho di Mariolino Corso è straziante. Era successo nei miei vent’anni che io avessi assorbito alcune porcate del modo di ragionare “impegnato” in voga nella mia generazione. Uno di questi teoremi cialtroneschi era che lo sport fosse un affare non talmente degno di attenzione, qualcosa che allontanava dai pensieri validi e corretti, quelli di cambiare la società a forza di scioperi operai eccetera. Uno che avesse a cuore questi cambiamenti non poteva perder tempo a guardare e appassionarsi di quel che succedeva su un campo da gioco. E dunque io – che pure nello sport avevo avuto l’esperienza la più fondante della mia adolescenza, e che di sport agonistico ne avevo praticato molto – smisi di leggere le pagine sportive. Per tre o quattro anni non ne lessi più una riga, non sapevo più nulla di quel che succedeva nel nostro campionato di calcio. Finché un pomeriggio non mi accadde di affrontare un esame universitario e di averne un voto che io giudicavo inferiore a quel che avevo dimostrato e me ne sentivo terribilmente frustrato. La pativo come un’ingiustizia. E dunque nel tornarmene a casa passai dalla libreria di Ciccio D. e Carmelo Volpe, la libreria dove noi ventenni catanesi “de sinistra” passavamo almeno una volta al giorno. Erano le sei o le sette di sera, e Ciccio D. mi disse che sarebbero andati a casa sua a vedere in tv una partita di ritorno della Champions a Milano, una partita in cui la Grande Inter di Helenio Herrera (una squadra di cui non sapevo nulla di nulla) avrebbe cercato di riscattare contro una squadra inglese (il Liverpool) un sonante 1-3 subito a casa loro. Ripeto, erano tre o quattro anni che non vedevo più una partita di calcio. E comunque dissi di sì, perché stare assieme a degli amici a vedere una partita di calcio mi avrebbe aiutato a placare il magone che avevo dentro. Andammo. La partita cominciò. Ovvio che io tifassi per l’Inter, e benché juventino dall’età di dieci anni. Ci mancava altro che non tifassi per la squadra italiana. Ripeto, non sapevo nulla di Mariolino Corso, di Giacinto Facchetti, di Armando Picchi e degli altri campioni di quella squadra/monstre. Erano passati pochi minuti dall’inizio, e accadde che l’Inter dovesse battere una punizione da pochi metri di distanza della linea dell’area avversaria. Accadde in un attimo. Quel giocatore di cui non sapevo nulla e che aveva un’andatura un tantino ciancicante colpì la palla di sinistro, la palla si alzò, curvò, scese in picchiata, affondò all’incrocio della porta difesa dal portiere del Liverpool. Una meraviglia, un capolavoro, una visione da estasi. Così come da estasi fu tutto quello che seguì, il secondo e il terzo gol dell’Inter, una squadra di cui tutto funzionava come in un orologio svizzero. 3-0, e dunque l’Inter passava il turno. Dio, la gioia mia e nostra. M’ero dimenticato di quel voto che ancor oggi mi brucia da quanto lo considero ingiusto. Addio, Mariolino. E grazie ancora della malìa con cui hai curato quel mio dolore di mezzo secolo fa.

·        Addio allo scrittore Carlos Ruiz Zafon.

Addio allo scrittore Carlos Ruiz Zafon. L'autore del bestseller L'ombra del vento, tra gli autori spagnoli più letti al mondo, è morto a Los Angeles dopo una lunga malattia. Aveva 55 anni. Lara Crinò il 19 giugno 2020 su La Repubblica. Si è spento a Los Angeles, a 55 anni, dopo una lunga malattia, lo scrittore catalano Carlos Ruiz Zafón, famoso in tutto il mondo per il suo romanzo L'ombra del vento. La notizia è stata data dal suo editore spagnolo, Planeta: "Oggi è un giorno molto triste per tutta la casa editrice: nei vent'anni in cui ci siamo conosciuti e abbiamo lavorato insieme, si è creata un'amicizia che trascende il rapporto professionale".  Sul profilo Twitter dello scrittore la notizia della morte è accompagnata da una sua frase: "Ogni libro, ogni tomo che vedi ha un'anima. L'anima di chi l'ha scritto e l'anima di chi l'ha letto, vissuto e sognato". L'ombra del vento è stato il primo best seller spagnolo della sua generazione ad avere un successo commerciale mondiale, insieme alla Cattedrale del mare di Ildefonso Falcones. In questi vent'anni (il romanzo fu pubblicato nel 2001), il libro ha venduto oltre 15 milioni di copie nel mondo, oltre un milione soltanto in Italia, ed ha avuto un centinaio di edizioni estere. Dal romanzo è nata una quadrilogia intitolata Il Cimitero dei libri dimenticati, che dopo L'ombra del vento è proseguita con Il gioco dell'angelo (2008), Il prigioniero del cielo (2012), concludendosi con Il labirinto degli spiriti (2016), tutti editi da Mondadori e tradotti da Bruno Arpaia.

Gli ingredienti del successo. Cresciuto negli anni Sessanta a Barcellona, non lontano dalla Sagrada Familia, aveva sempre mantenuto un legame fortissimo con la città, nonostante negli ultimi anni si fosse trasferito in California per lavorare per il cinema, altra sua grande passione, come sceneggiatore. La sua città, trasfigurata da elementi fantastici ma anche raccontata nelle sue vicende più tragiche, è rimasta come elemento forte delle sue trame. Insieme ad un altro autore spagnolo, l'Arturo Pérez-Reverte del Club Dumas, Zafón può essere considerato tra gli artefici di un intero sottogenere, quello dei romanzi incentrati sul potere quasi magico della letteratura e dei libri, che ha visto numerosissimi epigoni cercare negli ultimi due decenni di replicare la notorietà dei suoi romanzi. Nel primo tomo della quadrilogia già lo scrittore metteva in scena gli ingredienti che avrebbero reso così popolare la sua scrittura: utilizzando l'espediente narrativo del libro ritrovato, la trama mescolava fantasy, realismo ed elementi gialli. Il giovane protagonista Daniel, che vive nella Barcellona del 1945 provata dalla guerra civile, dal franchismo e dalla povertà, viene infatti portato dal padre, proprietario di una bottega di libri usati, alla scoperta del Cimitero dei Libri Dimenticati, il luogo in cui sono conservati centinaia di volumi destinati all'oblio. Quello che Daniel sceglierà, L'ombra del vento del misterioso scrittore Julián Carax lo accompagnerà fino all'età adulta, spingendolo in un vortice di scoperte e pericoli.

L'esperienza nella pubblicità, l'amore per il cinema. Lo scrittore si era dedicato anche alla narrativa per ragazzi; anzi, era proprio con un romanzo per ragazzi che aveva esordito, nel 1993, Il principe della nebbia, cui erano seguiti Il palazzo della mezzanotte e Le luci di settembre. La narrativa era stata il punto di approdo dopo una bella carriera nel mondo della pubblicità, prima come copywriter e poi come direttore creativo. Sul quotidiano spagnolo El País, in un'intervista del 2008, aveva lui stesso tracciato un legame tra queste esperienze: "La pubblicità è stata il mio primo lavoro, avevo 19 o 20 anni: ho iniziato come una copy e sono finito come direttore creativo; Ho imparato molto e ho fatto una buona vita ... Molti scrittori, come Don Delillo, hanno lavorato nella pubblicità, perché tocca la letteratura. Impari a vedere la lingua, le parole come immagini. È lo stesso per i romanzieri che sono stati giornalisti. Michael Connelly, un autore che mi interessa molto, era un cronista prima di diventare scrittore di gialli, e senza quella formazione la sua letteratura sarebbe stata molto diversa, senza dubbio. Ma ciò che influisce sul mio lavoro e non si dice mai è il mio interesse per il cinema". All'amore per il cinema era tornato, trasferendosi a Malibù per lavorare a Hollywood. Non ha avuto il tempo di far immaginare al suo pubblico la porta di un altro mondo fantastico.

Da corriere.it il 19 giugno 2020. È morto lo scrittore Carlos Ruiz Zafón nella sua residenza a Los Angeles — dove viveva dal 1993 —, a causa del cancro, come riportato dai media spagnoli. «Oggi è una giornata molto triste per l’intero team Planeta che lo conosceva e ha lavorato con lui per vent’anni, durante i quali è stata forgiata un’amicizia che trascende la professionalità», ha dichiarato l’editore Planeta che ha dato la notizia. Ruiz Zafón, che aveva 55 anni, a Los Angeles lavorava in veste di sceneggiatore per l’industria di Hollywood. Aveva raggiunto la notorietà internazionale con il suo romanzo L’ombra del vento, vincitore di numerosi premi e selezionato nella lista fatta nel 2007 da 81 scrittori e critici latinoamericani e spagnoli con i migliori 100 libri in lingua spagnola degli ultimi 25 anni. Le sue opere sono state tradotte in oltre quaranta lingue. In Italia i suoi libri sono pubblicati da Mondadori. La sua carriera ebbe inizio nel 1993 con una serie di libri per bambini e ragazzi, fra i quali soprattutto Il principe della nebbia (l’ispirazione pare gli venne dal suo lavoro precedente come insegnante di asilo). Alla narrativa per adulti arriva soltanto otto anni dopo, nel 2001 quando pubblica L’ombra del vento. Otto milioni di copie vendute e un successo internazionale raggiunto con il passaparola, perché il lancio all’uscita non fu di quelli a cinque colonne. Nel 2005 (nel frattempo era stato tradotto in 35 lingue) ha vinto il Premio internazionale Barry, per il miglior romanzo di esordio. Planeta nel 2008 pubblica il secondo romanzo, El juego del angel, che viene tradotto alcuni mesi dopo da Mondadori con il titolo Il gioco dell’angelo. L’anno dopo esce il suo Marina. Nel 2010 Mondadori decide di ripescare un vecchio lavoro: è El palacio de la mediano che e risale a 1994, che esce in Italia come Il palazzo della mezzanotte. Nel 2011 Planeta porta sugli scaffali delle librerie Il prigioniero del cielo. Passano cinque anni per arrivare al titolo successivo Il labirinto degli spiriti (Mondadori, 2016) che è l’ultimo volume di una tetralogia dedicata al Cimitero dei libri dimenticati.

Morto lo scrittore spagnolo Carlos Ruiz Zafon. Autore del best seller "L'Ombra del Vento" lo scrittore catalano Carlos Ruiz Zafon si è spento all'età di 55 anni a Los Angeles dopo una lunga malattia che da tempo stava combattendo. Nicola De Angelis, Venerdì 19/06/2020 su Il Giornale. È morto all'età di 55 anni dopo una lunga battaglia contro il cancro, lo scrittore catalano Carlos Ruiz Zafon si è spento a Los Angeles. Erano anni che era malato. Il suo libro più famoso "L'Ombra del Vento" è stato un best seller mondiale che aveva venduto milioni di copie e aveva posto Zafon sull'Olimpo degli autori più letti della nostra epoca. La notizia della sua dipartita è stata annunciata da El Paìs che riporta, riprendendo le parole della casa editrice dello scrittore: "Oggi è una giornata molto triste per l'intero team Planeta che lo conosceva e ha lavorato con lui per vent'anni, in cui è stata forgiata un'amicizia che trascende la professionalità". Zafon ha fatto la sua fortuna e quella della casa editrice con la pubblicazione de "L'Ombra del Vento", libro che nel 2001 ebbe un successo clamoroso in tutto il mondo tanto che lo stesso scrittore decise di realizzarne successivamente una tetralogia dal titolo Il Cimitero dei Libri Dimenticati. L'autore era entrato nel mondo della letteratura dopo aver militato per un periodo in quelli cinematografico e pubblicitario, mondo al quale era tornato successivamente. Si trovava a Los Angeles proprio per ragioni lavorative, avendo intrattenuto per anni rapporti con il mondo di Hollywood per la scrittura di alcune sceneggiature: "Ho iniziato la mia carriera come pubblicitario. Avevo circa 19 o 20 anni. Dopo pochissimo tempo mi sono ritrovato come direttore creativo dell'azienda dove lavoravo. Successivamente ho cambiato, mi sono buttato sul cinema. Ho scritto molte sceneggiature. È stata molto importante per me l'esperienza nel mondo pubblicitario", si legge in una sua vecchia intervista per El Paìs, "Moltissimi scrittori hanno lavorato in questo campo prima di iniziare a scrivere. Come per esempio Don Delillo. La pubblicità serve a vedere la lingua, le parole, come immagini. Stessa situazione per i giornalisti che successivamente diventano scrittori. Prendiamo Michael Connelly. Era giornalista di cronaca a Los Angeles". Poche ore fa l'annuncio anche sul profilo Twitter ufficiale di Carlos Ruiz Zafon. Era molto riservato avendo rilasciato, durante la sua carriera letteraria, pochissime interviste sostenendo che: "Il mondo letterario è per l'1% letterario e per il 99% mondiale". In Italia il suo editore era la Mondadori che ha scritto sui principali canali social: "Una notizia che ci spezza il cuore".

·        È morto Ian Holm, Bilbo Baggins del "Signore degli anelli".

È morto Ian Holm, Bilbo Baggins del "Signore degli anelli". Il grande attore aveva 88 anni. Tra i suoi film Alien, Brazil e La pazzia di re Giorgio. Fu candidato agli Oscar per Momenti di gloria, ma il suo volto è legato allo hobbit protagonista della prima trilogia di Peter Jackson. Silvia Fumarola il 19 giugno 2020 su La Repubblica. È morto l'attore britannico Ian Holm, noto per il ruolo dello hobbit Bilbo Baggins nella prima trilogia Il Signore degli anelli, apparso anche nella seconda, Lo Hobbit. Holm, 88 anni, è stato uno straordinario protagonista a teatro e al cinema, con la saga tratta da J. R. R. Tolkien era diventato popolarissimo. Era malato di Parkinson. All'inizio di questo mese, racconta il Guardian, aveva espresso il suo rammarico per non poter partecipare a una riunione virtuale per il film: "Mi dispiace non vedervi di persona, mi mancate tutti e spero che le vostre avventure vi abbiano portato in molti luoghi, sono in lockdown nella mia casa di hobbit". Il ruolo di Bilbo lo aveva trasformato in divo, ma era il primo a stupirsi del successo. "Sono completamente stupito dalla reazione" spiega in un'intervista all'Independent. "Ricevo molta posta dei fan indirizzata a Bilbo e talvolta a Sir Bilbo - in realtà non è quasi mai indirizzata a Ian Holm. Il mio direttore commerciale redige le risposte, quindi faccio un salto in ufficio e firmo 'Bilbo'. Ma, naturalmente, non ha cambiato la mia vita. Niente potrebbe cambiare la mia vita". Tra i tanti film che ha interpretato Alien (1979), Brazil (1985), Ballando con uno sconosciuto (1985), Enrico V (1989) e Frankenstein di Mary Shelley (1994), Amleto (1990), Il pasto nudo (1990), La pazzia di Re Giorgio (1994), Il quinto elemento (1997), Il dolce domani (1997). Nel 1981 interpreta Sam Mussabini nel film Momenti di gloria di Hugh Hudson, interpretazione che gli vale una candidatura agli Oscar come miglior attore non protagonista. Nel 1998 la regina Elisabetta II gli conferisce il titolo di baronetto per meriti artistici. Padre psichiatra, Holm cresce nell'Essex, nella clinica dove lavorava il papà. Ha definito la sua infanzia "idilliaca", ma la sua passione è il teatro: quando si trasferisce a Londra si iscrive alla London's Royal Academy of Dramatic Art, dove si diploma nel 1954. Debutta nello stesso anno a teatro con la Royal Shakespeare Company, che seguirà per oltre dieci anni. È la star dei palcoscenici più importanti nel Regno Unito e negli Stati Uniti; grande interprete dei lavori di Harold Pinter, si aggiudica il Tony Award. Nel 1970 abbandona le scene (torna in teatro nel 1990 con Re Lear), per dedicarsi al cinema e alla televisione. Vita privata intensa - ha avuto quattro mogli - è passato dai classici ai film di denuncia alle commedie. È stato diretto da Zeffirelli, Soderbergh, Branagh, Attenborough, Terry Gilliam, Atom Egoyan, Mike Newell, Woody Allen, Cronenberg, Luc Besson. Talento straordinario, anche nei piccoli ruoli lascia il segno: come in Greystoke - La leggenda di Tarzan in cui interpreta il ruolo dell'esploratore belga che trova il giovane aristocratico John Clayton cresciuto dalle scimmie. Indimenticabile nel film Il dolce domani di Egoyan, in cui veste i panni di un avvocato che cerca di convincere i genitori dei bambini morti in un incidente - l'autobus della scuola su cui viaggiavano è precipitato in un lago ghiacciato - a fare causa per ottenere un risarcimento. Sulla recitazione aveva le idee chiare: "Guardo Brando e De Niro, ma non sono 'la mia tazza di tè'. Sono più della vecchia scuola, riassunto dal famoso commento di Laurence Olivier a Dustin Hoffman mentre giravano Il maratoneta: 'Prova a recitare, caro ragazzo'. Dopotutto, si deve solo fingere. La recitazione del metodo può anche richiedere molto tempo. Se tutti sono pronti per l'inizio di una ripresa, tranne un attore che è intenzionato a raggiungere il fondo della propria anima, può essere un po' fastidioso".

Morto Ian Holm, fu Bilbo Baggins nella saga del Signore degli anelli. Ian Holm si è spento all'età di 88 anni. L'attore inglese era diventato famoso in tutto il mondo per aver interpretato l'hobbit Bilbo Baggins nella trilogia de Il Signore degli Anelli. Novella Toloni, Venerdì 19/06/2020 su Il Giornale. "È morto pacificamente in ospedale, con la sua famiglia accanto. Affascinante, gentile e di grande talento, ci mancherà moltissimo", con queste parole è stata annunciata la morte dell'attore Ian Holm. A pronunciarle il suo agente, che ha reso noto il decesso dell'interprete inglese, divenuto celebre per l'interpretazione dell'hobbit Bilbo Baggins nella popolare saga fantasy Il Signore degli Anelli e in seguito de "Lo Hobbit". Nato a Goodmayes nel settembre del 1931, Ian Holm scopre di avere una profonda passione per il teatro, che lo spinge a iscriversi alla London's Royal Academy of Dramatic Art, una delle scuole di recitazione più illustri e longeve di Londra. Grazie ai suoi studi esordisce ben presto sul palco, dove conquista il pubblico e la critica, ottenendo addirittura un Tony Award come migliore attore protagonista. Negli anni '70, però, decide di cambiare strada ed entra nel mondo della cinematografia dove interpreterà, nel corso della sua carriera, svariati ruoli da protagonista. Attore carismatico e versatile, in grado di passare da ruoli drammatici a quelli di personaggi della fantascienza, Ian Holm diventa celebre impersonando l'androide Ash nel film Alien del 1979, per poi impegnarsi in pellicole come Enrico V del 1989, Amleto del 1990, Il quindo elemento del 1997 e ancora Momenti di Gloria, nel 1981, che gli valse la candidatura al premio Oscar come miglior attore. È però l'ingresso nel cast della trilogia de Il Signore degli Anelli che lo consacra al grande pubblico mondiale, per l'interpretazione dell'hobbit Bilbo Baggins. Ruolo poi confermato nel film Lo Hobbit, prequel di successo della saga della compagnia dell'Anello. L'attore britannico, morto a 88 anni a causa delle complicazioni dovute al morbo di Parkinson, si era ritirato dalla scena cinematografica nel 2001. Dopo aver interpretato Sir William Gull, il famoso serial killer della Londra antica, nel film La vera storia di Jack lo squartatore, Ian Holm aveva scoperto di avere un tumore alla prostata e per curarlo aveva scelto di abbandonare la carriera per dedicarsi alla guarigione. Nel 1998 la regina Elisabetta II gli conferisce il titolo di baronetto per meriti artistici.

Marco Giusti per Dagospia il 20 giugno 2020. Non era bello, non era alto, non era neanche particolarmente inglese. Ma in ogni ruolo che ha interpretato, a teatro o al cinema, fosse Napoleone o Bilbo Baggins, Puck o l’Ash di Alien, Ian Holm, scomparso oggi a 89 anni, non era solo perfetto. Era profondamente umano.” Sono sempre stato un minimalista” , diceva, “rispetto la massima di Humphrey Bogart, se stai pensando la cosa giusta, la macchina da presa lo prenderà”. Baronetto, membro storico della Royal Shakespeare Company, star a teatro prima che al cinema, nominato all’Oscar per il ruolo di Sam Mussabini di “Momenti di gloria”,  vincitore di una serie di BAFTA, gli Oscar inglesi, Holm resterà nella storia del cinema soprattutto per essere stato Bilbo Baggins, con quei piedoni impossibili, nella grande saga de “Il Signore degli anelli” di Peter Jackson. Ma è lui che trasmette al personaggio quella incredibile carica umana che avrà il suo Bilbo. Ma lo avevamo già visto in tanti film di successo, e ogni volta era come se lo scoprissimo di nuovo. Penso a “Brazil” di Terry Gilliam, a “Alien” di Ridley Scott dove si rivela un meraviglioso non-umano, in “The Aviator” di Martin Scorsese, in “Un’altra donna” di Woody Allen, stretto tra Gena Rowlands e Mia Farrow, in “Ballando con uno sconosciuto” di Mike Newell, ne “Il quinto elemento” di Luc Besson, nello sfortunato “Kafka” di Steven Soderbergh, nel tristissimo “Il dolce domani” di Atom Egoyan, dove è finalmente protagonista. Negli ultimi anni, grazie a “Alien” e al “Quinto elemento”, si era specializzato nel fantasy, ma avrebbe potuto interpretare qualsiasi ruolo. Del resto a teatro aveva fatto qualcosa come cento personaggi shakespeariani diversi. Non poteva fare il protagonista bello, è vero, ma è stato un Napoleone perfetto in ben quattro film, il più celebre era “I vestiti nuovi dell’imperatore” di Alan Taylor, e Stanley Kubrick avrebbe voluto solo lui per il suo Napoleone mai realizzato. Quattro mogli, anzi quasi cinque, una era l’attrice Penelope Wilton con la quale fece “The Borrowers- I Graffignoli”, cinque figli, Ian Holm era nato a Goodmayes nell’Essex nel 1931, da un padre psicanalista e da una mamma infermiera. A sette anni si trasferisce coi suoi a Londra e scopre il teatro. Alla fine degli anni ’50 riesce a tener testa a qualsiasi attore della Royal Shakespeare Company e nel “Coriolanus” si ferisce a un dito duellando sulla scena con Laurence Olivier. Nel 1965 è Riccardo III in una versione tv di “Thge War of Roses”, mentre vince il suo primo BAFTA nel 1969 con “The Boforo Guns”. Al cinema lo troviamo in film come “Oh, che bella guerra!” e “Gli anni dell’avventura” di Richard Attemborough, in “Robin e Marian” e “Huggernaut” di Richard Lester, nel “Sogno di una notta di mezza estate” di Peter Hall. Mentre recita a teatro “The Iceman Cometh” viene colpito da una sorta di panico da palcoscenico e farà solo cinema. Ritornerà sulle scene solo tre volte, per un memorabile “Zio Vanya” nel 1979, per “Moonlight” di Harold Pinter nel 1993 e per un “King Lear” per il quale verrà premiato col premio Laurence Olivier. Una consacrazione. Ma è nel cinema, ripresa con grande vigore dopo l’addio al teatro, che otterrà i suoi più grandi successi. La candidatura all’Oscar per “Momenti di gloria” di Hugh Hudson nel 1981 gli apre tutte le porte. Lo troviamo nell’”Henry V” di Kenneth Branagh, nell’”Amleto” di Franco Zeffirelli, che già lo aveva voluto nel “Ges§” televisivo, per Terry Gilliam in “Brazil”. Fino ai grandi successi di “Alien”, “Il pasto nudo”, “The Aviator”, “La pazzia di Re Giorgio”. Poi arriverà Bilbo Baggins e la nomina a Baronetto. Se ne va colpito da un Parkinson che lo aveva da un po’ allontanato dalle scene. Buon viaggio, Bilbo Baggins.

·        E’ Morta Jean Kennedy, era l’ultima dei fratelli di Jfk.

Morta Jean Kennedy, era l’ultima dei fratelli di Jfk ancora in vita. Notizie.it il 19/06/2020. È morta a Manhattan all'età di 92 anni Jean Kennedy, l'ultima dei fratelli dell'ex presidente Usa John Fitzgerald Kennedy ad essere ancora in vita. Nella giornata del 18 giugno è morta all’età di 92 anni Jean Kennedy: ultima superstite dei fratelli dell’ex presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy. Jean Kennedy, anch’essa figura di spicco della politica americana malgrado la sua proverbiale riservatezza, fu nel corso dei decenni fidata consigliera dei fratelli John, Bob e Ted e negli anni 90 venne scelta dal presidente Bill Clinton come ambasciatrice degli Usa in Irlanda, terra d’origine del clan dei Kennedy. Nata il 20 febbraio del 1928 con il nome di Jean Ann Kennedy, la donna era l’ottava dei nove figli di Joseph P. Kennedy e di Rose Fitzgerald Kennedy e per tutta la sua vita contribuì allo sviluppo delle brillanti carriere politiche dei fratelli, pur operando da dietro le quinte. Fu tra le altre cose proprio Jean a presentare al fratello John una sua amica, Jacqueline Bouvier, che quest’ultimo poi sposò nel 1953 portandola in seguito alla Casa Bianca come First Lady quando venne eletto presidente nel 1960.Successivamente alla morte di John Kennedy nel 1963, Jean seguì personalmente la campagna elettorale del fratello Robert, conclusasi tragicamente con l’assassinio di questi nel 1968 presso l’Ambassador Hotel di Los Angeles. Sotto la presidenza del democratico Bill Clinton, Jean Kennedy ebbe l’opportunità di svolgere un incarico di primo piano per il proprio paese, servendo come ambasciatrice in Irlanda dal 1993 al 1998. Fu proprio durante questi anni che grazie al suo intervento si rese possibile la firma di un trattato di pace tra i governi irlandese, britannico e dell’Irlanda del Nord per la fine di ogni tipo di ostilità tra gli unionisti nordirlandesi e i nazionalisti dell’Ira, noto come Accordo del Venerdì Santo. Ritiratasi dalla politica attiva con la fine dell’esperienza come ambasciatrice, nel 2011 il presidente Barack Obama la insignì della Medaglia Presidenziale per la Libertà, la più alta onorificenza civile americana.

·        È morto Tibor Benedek: lutto nel mondo della Pallanuoto.

È morto Tibor Benedek: lutto nel mondo della Pallanuoto. Notizie.it il 18/06/2020. La pallanuoto piange il fuoriclasse che fu della Pro Recco: è morto Tibor Benedek. Lutto nel mondo della pallanuoto: è morto il fuoriclasse ungherese Tibor Benedek. Di ruolo attaccante, aveva soli 47 anni: era malato di cancro e nelle ultime settimane le sue condizioni sono peggiorate in modo repentino. Figlio d’arte, il papà recitava con Enrico Montesano, fu il primo sportivo di famiglia con due fratelli attori cinematografici. Tibor Benedek ha mosso le sue prime bracciate in vasca, nel Bel Paese, nel 1996 quando è diventato l’attaccante della Roma: qui ha vinto uno scudetto nel 1999, battendo in finale il Posillipo. Ma la carriera del fuoriclasse ungherese diventa memorabile con la Pro Recco, a Genova. In terra ligure Benedek, in otto stagioni, vince praticamente tutto quello che c’è da mettere in bacheca. Nel palmarés del fuoriclasse dell’Ungheria si contano ben quattro Champions League, sei Scudetti, quattro Coppe Italia, quattro Supercoppe Europee e una Lega Adriatica. Come se non bastasse, Tibor Benedek è stato anche capace di trascinare la propria nazionale al trionfo in tre rassegne a cinque cerchi consecutive (Olimpiadi di Sydney 2000, Atene 2004 e Pechino 2008). E la Pro Recco vuole ricordare così il compianto attaccante: “Tibor era un uomo straordinario anche fuori dall’acqua, un professionista umile e carismatico che ha dimostrato nei fatti la partecipazione e il coinvolgimento alla causa recchelina – è la nota di cordoglio della Pro Recco –. Le più sentite condoglianze da parte di tutta la società a familiari e amici. Addio grande Tibor, hai scritto un pezzo della nostra storia: non ti dimenticheremo mai!”.

·        E’ morto l’avvocato Gianfranco Dosi, fondatore di Aiaf.

E’ morto l’avvocato Gianfranco Dosi, fondatore di Aiaf. Il Dubbio il 14 giugno 2020. Magistrato e legale, è stato un punto di riferimento per il diritto di famiglia. E’ mancato prematuramente l’ex magistrato e poi avvocato Gianfranco Dosi, fondatore dell’Associazione italiana degli avvocati per la famiglia e per i minori e notissimo familiarista. Entrato in magistratura nel 1978, vi è rimasto fino al 1992, quando si è iscritto all’ordine degli avvocati di Roma. Si è sempre occupato esclusivamente di diritto di famiglia e nel 1993 ha fondato insieme ad altri colleghi Aiaf, che ha presieduto fino al 2001. E’ stato presidente dal 2003 al 2016 dell’Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia associazione forense di ricerca e documentazione sul diritto di famiglia ed è autore di moltissimi studi e pubblicazioni in materia di diritto di famiglia e minorile. Il presidente dell’Ordine di Roma, Antonino Galletti: “La famiglia forense romana piange per la prematura scomparsa del Collega Avv. Gianfranco Dosi. Punto di riferimento per tutti gli Avvocati della Famiglia e operatore di un forte cambiamento nel settore. Le più sentite condoglianze di tutto il Consiglio e della Commissione Famiglia ai suoi familiari e ai collaboratori del suo studio”.

Autentico, appassionato e fuori dal comune: addio Gianfranco Dosi. Donato Di Campli su Il Dubbio il 15 giugno 2020. Gianfranco Dosi è stato un uomo fuori dal comune, che ha scelto la professione forense per vocazione, valorizzando anche nel suo lavoro le esperienze personali da educatore di giovani e le esperienze professionali da giudice minorile, con l’obiettivo di garantire la piena affermazione dei diritti dei minori e dei soggetti deboli in ambito familiare. Ci lascia Gianfranco Dosi, un uomo autentico, mai banale e sempre proiettato nel futuro, affascinante da ascoltare in ogni occasione. Una perdita per la comunità dei giuristi e una perdita soprattutto per l’Avvocatura. Non avremo più occasione di incontrarlo fisicamente, ma la sua opera rimarrà nel patrimonio culturale di tutti quelli che hanno avuto l’opportunità di leggere i suoi scritti o di assistere alle sue conferenze. Gianfranco Dosi è stato un uomo fuori dal comune, che ha scelto la professione forense per vocazione, valorizzando anche nel suo lavoro le esperienze personali da educatore di giovani e le esperienze professionali da giudice minorile, con l’obiettivo di garantire la piena affermazione dei diritti dei minori e dei soggetti deboli in ambito familiare. Tutta la sua vita è stata dedicata alla innovazione del diritto di famiglia, grazie ad una non comune capacità di prevedere il futuro con sguardo lungimirante. Gianfranco Dosi è stato nei primi anni duemila un precursore della mediazione in ambito familiare, nella piena consapevolezza che solo attraverso l’incontro delle parti e la soluzione condivisa della controversia è possibile il recupero del rapporto tra le persone e la pacificazione sociale. Gianfranco Dosi è stato anche un precursore dell’approccio partecipativo all’amministrazione della giustizia. E’ stato tra i primi in Italia ad introdurre il metodo concertativo, con l’adozione dei protocolli per consentire un migliore esercizio della funzione giudiziaria, tramite la partecipazione attiva dell’Avvocatura. Gianfranco Dosi ha avuto sempre uno sguardo di particolare attenzione verso i giovani avvocati, spendendosi molto per la loro formazione, con la felice intuizione che solo attraverso la competenza e la specializzazione i giovani professionistiavrebbero avuto una prospettiva. Perdiamo in un momento particolare, nel quale si andranno a delineare i futuri scenari della giustizia in Italia, un punto di riferimento importante che avrebbe sicuramente saputo indicare la retta via.

·        È morto Giulio Giorello.

È morto il filosofo Giulio Giorello. Era stato ricoverato e poi dimesso per il Covid. A 75 anni è morto Giulio Giorello, filosofo della scienza con la passione per Tex Willer. Si è spento dopo due mesi di ricovero per Covid-19. Francesca Galici, Lunedì 15/06/2020 su Il Giornale.  È morto oggi, a 75 anni, Giulio Giorello, docente presso l'Università Statale di Milano. È morto per le conseguenze del coronavirus, dopo un ricovero di due mesi per l'infezione da Covid-19, che sembrava fosse riuscito a superare, seppure con qualche fatica. È stato uno dei filosofi più acuti che la scuola italiana contemporanea abbia conosciuto ed era un difensore delle libertà umane in qualunque forma. Giulio Giorello ha conseguito due lauree presso l'Università Statale di Milano, una in filosofia e una in matematica. Già da questa sua estrosità nel percorso di studi si capisce come il pensiero e l'opera di Giorello non fossero mai banali o scontati. Chi lo ha conosciuto ama definirlo come un filosofo della scienza e forse non esiste una definizione più giusta per un uomo che ha saputo coniugare in maniera così armonica il suo sapere in due campi così diversi, contaminando l'uno con l'altro per dare vita a un pensiero totalmente nuovo e innovativo. Alle sue spalle ha avuto una lunga carriera come insegnante di materie scientifiche presso le facoltà di Scienze e di Ingegneria e ha ottenuto in seguito la cattedra in filosofia della scienza nella sua amata Statale di Milano. È stato sempre molto attivo nel panorama intellettuale e scientifico italiano, senza mai sottrarsi al confronto. I più direbbero che era spinto da una vena polemica, che non è cert un difetto in questi ambienti, anzi. Tuttavia, seppure nella sua costante critica e polemica, Giulio Giorello non perdeva mai il suo noto garbo ed educazione. Così lo ricordano tutti quelli che hanno avuto il piacere di confrontarsi, e talvolta scontrarsi con lui, che a lungo è stato Presidente della SILFS (Società Italiana di Logica e Filosofia della Scienza). Oltre ad avere il sapere, Giulio Giorello aveva il dono della divulgazione e lo dimostrava sulle pagine del Corriere della sera, dove ha collaborato per la redazione delle pagine di cultura. Era convinto che qualunque argomento, anche quello più complicato e ostico, avesse una chiave di lettura semplice e popolare che potesse coinvolgere anche il lettore non specialista. Una delle grandi doti di Giulio Giorello era quella di non prendersi mai troppo sul serio e lo dimostra la sua sconfinata passione per i fumetti, soprattutto per Tex Willer, nonostante fosse un appassionato fruitore dei prodotti Disney. Giorello era anche un grande viaggiatore ma se c'era un Paese che amava più di tutti era l'Irlanda, per il suo fascino e le sue leggende. Era una personalità poliedrica capace di adattarsi a qualunque contesto, sempre pronto al dialogo su qualunque argomento, alto o basso che fosse. Giorello amava confrontarsi con i giovani sui temi di stretta attualità e anche sullo spettacolo, per continuare a nutrire la sua anima che non aveva mai smesso di essere curiosa sul mondo intorno a lui.

È morto il filosofo Giulio Giorello. Pubblicato lunedì, 15 giugno 2020 da La Repubblica.it. E' scomparso a Milano, per le conseguenze del coronavirus che aveva contratto nei mesi scorsi, il filosofo Giulio Giorello. Aveva 75 anni e tre giorni fa aveva sposato la compagna, Roberta Pelachin. Allievo del marxista Ludovico Geymonat, è stato il suo successore nella cattedra di Filosofia della Scienza all'Università Statale milanese. Ex presidente della Società italiana di logica e filosofia della scienza, responsabile per l’editore Cortina della collana Scienza e Idee, laureato in Filosofia prima e poi in Matematica, aveva fatto del superamento della barriera tra discipline umanistiche e scientifiche il tratto saliente della sua personalità accademica, con un curriculum di insegnamenti variegato e unico: dapprima Meccanica Razionale presso la Facoltà di Ingegneria dell'Università degli studi di Pavia, seguita dalla Facoltà di Scienze presso l'Università di Catania, fino a quella di Scienze naturali presso l'università dell'Insubria e al Politecnico di Milano. Interessato alle neuroscienze, alla psicologia evolutiva, alla bioetica ma anche alla mitologia e all’antropologia, era però capace di mescolare all’interesse rigoroso per le discipline “alte” la curiosità  per la cultura popolare, dalla musica ai fumetti, in particolare il mondo Disney a cui aveva dedicato qualche anno fa il suo Filosofia di Topolino (Guanda). Attraverso il suo sguardo divertito e colto, Mickey Mouse si tramutava, attraverso le sue molteplici avventure nel corso di un Novecento imprevedibile, tragico e farsesco, in un filosofo involontario ma efficace. Lontano da ogni ortodossia, amante e studioso di figure filosofiche “eretiche” come Baruch Spinoza, , aveva espresso la sua visione e il suo credo nel massimo rispetto per le libertà individuali in Di nessuna chiesa, rifiutando la contrapposizione tra laici e credenti e mettendo in guardia contro il dogmatismo che può viziare anche una visione laica. Nel 1981 ha curato con Marco Mondadori l'edizione italiana di Sulla libertà di John Stuart Mill. Sulle ragioni dell'ateismo e di una laicità non dogmatica Giorello ha scritto, tra gli altri, Senza Dio. Del buon uso dell'ateismo (Longanesi, 2010); Libertà. Un manifesto per credenti e non credenti (con Dario Antiseri), edito da Bompiani e Di nessuna chiesa. La libertà del laico (Cortina).

È morto Giulio Giorello, filosofo tra scienza e Topolino. Aveva 75 anni. Si è spento a Milano per le conseguenze del coronavirus che aveva contratto nei mesi scorsi. Erede di Geymonat, sapeva tenere insieme epistemologia, antropologia e cultura pop. Lara Crinò il 15 giugno 2020 su La Repubblica. È scomparso a Milano, per le conseguenze del coronavirus che aveva contratto nei mesi scorsi, il filosofo Giulio Giorello. Aveva 75 anni e tre giorni fa aveva sposato la compagna, Roberta Pelachin. Allievo di Ludovico Geymonat, era stato il suo successore nella cattedra di Filosofia della Scienza all'Università Statale milanese. Ex presidente della Società italiana di logica e filosofia della scienza, collaboratore del Corriere della Sera, responsabile per l'editore Cortina della collana Scienza e Idee, si era laureato in Filosofia nel 1968 e successivamente in Matematica, nel 1978. Raccoglieva così il testimone della Scuola di Milano e del maestro Ludovico Geymonat, con la sua tradizione antifascista e marxista, e faceva del superamento della barriera tra discipline umanistiche e scientifiche il tratto saliente della sua personalità accademica. Un tratto rispecchiato da un curriculum di insegnamenti variegato e unico: dapprima Meccanica razionale presso la facoltà di Ingegneria dell'Università degli studi di Pavia, seguita dalla facoltà di Scienze presso l'Università di Catania, fino a quella di Scienze naturali presso l'università dell'Insubria e al Politecnico di Milano. Interessato alle neuroscienze, alla psicologia evolutiva, alla bioetica ma anche alla mitologia e all'antropologia, era però capace di mescolare all'interesse rigoroso per le discipline "alte" la curiosità  per la cultura popolare, dalla musica ai fumetti, in particolare il mondo Disney a cui aveva dedicato qualche anno fa il suo Filosofia di Topolino (Guanda). Attraverso il suo sguardo divertito e colto, Mickey Mouse si tramutava, con le sue molteplici avventure nel corso di un Novecento imprevedibile, tragico e farsesco, in un filosofo involontario ma efficace. Lontano da ogni ortodossia, appassionato di poesia inglese, amante e studioso di figure filosofiche "eretiche" come Baruch Spinoza, nel 1981 ha curato con Marco Mondadori l'edizione italiana di Sulla libertà di John Stuart Mill. Sulle ragioni dell'ateismo e di una laicità non dogmatica Giorello ha scritto, tra gli altri, Senza Dio. Del buon uso dell'ateismo (Longanesi, 2010); Libertà. Un manifesto per credenti e non credenti (con Dario Antiseri), edito da Bompiani e Di nessuna chiesa. La libertà del laico (Cortina). Giulio Giorello è deceduto. Filosofo raffinato, epistemologo, grande appassionato delle questioni riguardanti il “metodo” della scienza. Ha riflettuto intensamente anche su etica, politica, religione. L’Italia perde un grande pensatore, mai banale. Ci restano le sue dense pagine. Anche il premier Giuseppe Conte si è unito al lutto per la sua scomparsa, scrivendo su Twitter definendolo "filosofo raffinato, epistemologo, grande appassionato delle questioni riguardanti il "metodo" della scienza. Ha riflettuto intensamente anche su etica, politica, religione. L'Italia perde un grande pensatore, mai banale. Ci restano le sue dense pagine".

Dagoreport il 16 giugno 2020. Non si poteva non amare Giulio Giorello, Peter Pan dell’epistemologia, professore libero e fuori linea, libero pensatore come un inglese del Settecento in parrucca (ma i suoi folti capelli bianchi erano veri) e, diciamolo con il cuore colmo di sentimento, talento sprecato. Due lauree (matematica e filosofia) e già questo, oggi, dai Commissari dei concorsi a cattedra sarebbe visto con sospetto (è della nostra confraternita o dell’altrui?). Fu allievo di Geymonat, che prese a ironizzare su di lui molto presto. Giorello si iscrisse, come tutti allora, al Pci (ci si poteva iscrive al Pci oppure al Partito Comunista italiano) ma Geymonat divenne maoista e prese le distanze dall’ortodossia e con l’allievo andò in fredda. A quei tempi Giorello faceva coppia con Simona Morini, docente oggi di "Teoria delle decisioni razionali e dei giochi" allo Iuav di Venezia… e qui apriamo una parentesi: settimana scorsa, Angela Vettese (Iuav) è stata bocciata perché la sua produzione è stata giudicata “divulgativa” e rea di scrivere per “Il Sole 24 ore”. Nel curriculum pubblicato dalla Morini su se stessa si legge: “Si occupa di divulgazione della cultura scientifica organizzando mostre ed eventi culturali e collabora con il quotidiano Il sole 24 Ore” (quindi se devi diventare ordinario non vanno bene divulgazione e “Sole 24 ore”; ma se sei ordinario metti in evidenza divulgazione e “Sole 24 ore”). Ma torniamo a Giorello. Il bravo Giulio assecondò la carriera academica della Morini che, una volta strutturata, lasciò questo epistemologo per un altro, il più giovane collega Marco Mondadori, figlio di Alberto fondatore del Saggiatore, prematuramente scomparso. Giorello non deve essersela presa molto perché collaborò lungamente con Il Saggiatore. La Postmodernità trasformò Giorello in un Umberto Eco senza il successo pop del “Nome della rosa”. Sparirono gli studi e le pubblicazioni che in università si definiscono “scientifiche” e Giulio si tuffò nella Gaia scienza di un Pensiero debole, fatto di alto cazzeggio intellettuale, gioco colto e libero (libero anche dal Pci). Divenne presidente della Società italiana di logica e filosofia della scienza, direttore di collane di libri, curatore di altre, commentatore e giornalista per il “Corriere della Sera”, soprattutto, appassionato di fumetti, di Topolino (“Filosofia di Topolino”, 2013), di Tex Willer (l’amico degli indiani), turista nella verde Irlanda negli anni in cui le Isole Aran (quelle cantate dalla Mannoia) divennero una specie di Mecca cultural chic. Il suo libro di riferimento divenne il Book of Kells. E poi i Rolling Stones, Cromwell…Non dico che si sprecò, ma una volta che hai sdoganato Feyerabend come epistemologo di riferimento (il motto di Feyerabend è “anything goes”) tutto era lecito. La divulgazione soppiantò lo studio anche metodologico e scientifico – se mai ci sia stato –: pubblicò mille libri e mai una monografia che segni la storia dell’Epistemologia. Così eterodosso, trovò in John Stuart Mill, in Popper e nei liberi pensatori anglosassoni la sua misura di essere Filosofo. Nel 2005 pubblicò il libro “Di nessuna chiesa”, rivendicazione al laicismo contro le tendenze neoconfessionali, sebbene anche lui fosse appartenuto, da giovane, alla Chiesa rossa. Il suo libro “Lussuria”, del 2010, rivelò un’anima anche libertina, tipica dei poligrafi settecenteschi, ma non Bon vivant perché Giulio viveva dell’essenziale, dei suoi sogni e chimere e passò gran parte della sua vita a casa con la madre, figura mitica che gli fece da segretaria sino a quando scomparve. Quando cercavi Giorello chiamavi la mamma. “Solo per colpa di cristiani impostori la lussuria è stata classificata tra i crimini” ricorda Giorello in ripresa dal marchese De Sade, “quando i lumi della ragione hanno già ceduto il passo alle lanterne del terrore” (p.149). La lussuria sadiana è vista da Giorello come sviluppo radicale della “Etica” di Spinoza e il pensiero “politico” del divin marchese viene collegato alla nascita della teoria liberale dello Stato minimo (p.151). Sempre amico degli studenti, pronto ad offrirti una birra, sempre di corsa a parlare di libertà, difesa di Darwin e Galileo… si trasformò nel portabandiera della libera Scienza e del Libero pensiero. Preso da Covid, era stato ricoverato per un mese al Policlinico, da dove era stato dimesso (andiamo bene). Ne approfittò per scrivere un articolo sul Covid per il “Corriere della Sera” e per sposare (il 12 giugno) la compagna di lungo corso Roberta Pelachin, poetessa e scrittrice ma laureata in Filosofia della Scienza, ovviamente. Giulio è rimasto sempre un ragazzo, credo che non avrebbe mai voluto invecchiare e a 75 anni non era invecchiato né nell’aspetto e neppure nelle idee. Le sue pagine non sono “dense” (come scrive in un suo tweet il Presidente del Consiglio) ma leggere, a volte troppo leggere, sino a volare via, volare in alto, nei cieli liberi, là, dove tu ora sei.

Paolo Parente per lanostratv.it il 16 giugno 2020. Chiunque stesse seguendo la puntata di oggi, martedì 16 giugno, di Io e Te, siamo sicuri a un certo punto non abbia potuto fare a meno di alzare il volume e sgranare gli occhi davanti alla scena inedita di Vittorio Sgarbi in lacrime. E’ morto Giulio Giorello, filosofo, matematico ed epistemologo tra i più autorevoli e il critico d’arte più celebre della televisione italiana, ospite di Pierluigi Diaco, si è trascinato dietro una copia de La Repubblica in cui un altro filosofo, da Sgarbi definito molto sensibile, lo ha ricordato con parole che lui stesso non avrebbe saputo trovare. Dopo averle lette, mentre raccontava l’animo rimasto sempre giovane di Giorello, Vittorio Sgarbi non ha potuto trattenere le lacrime. La sua voce si è rotta mentre pronunciava: E’ vero che anche io appartengo a quelle persone mature che si comportano sempre come ragazzi, ma in lui era veramente una dimensione quasi… insomma, non doveva morire.

Pierluigi Diaco ha invitato i pochi presenti in studio a far partire un applauso e Vittorio Sgarbi ha commentato: Non ho pianto molte volte e forse non sto piangendo neanche adesso.

Vittorio Sgarbi e Pierluigi Diaco non mantengono le distanze a Io e Te. Il conduttore: “Ci saranno polemiche”. Trascinati dall’appassionante interpretazione de il Cenacolo di Leonardo Da Vinci che il critico d’arte stava concedendo al pubblico di Rai Uno, Vittorio Sgarbi e Pierluigi Diaco, durante la puntata di oggi di Io e Te, si sono alzati e hanno raggiunto i maxi schermi che stavano mostrando l’opera, dimenticandosi completamente di rispettare la distanza di sicurezza imposta dalle norme anti Covid. Tornati a sedere, Pierluigi Diaco si è rivolto a Vittorio Sgarbi e gli ha detto:

Poco fa tu ti sei avvicinato a me, ci siamo sfiorati, ci saranno tantissime polemiche perché non abbiamo rispettato le misure di sicurezza. Come ci giustifichiamo col pubblico?

Questa la risposta di Vittorio Sgarbi: Il medico di Berlusconi, Zangrillo, ha detto “il virus è clinicamente estinto”. Io cito Zangrillo. Io e Te, Vittorio Sgarbi sul suo amore con Sabrina Colle: “Una scelta che va oltre i sensi”.

Di recente Vittorio Sgarbi aveva smentito Barbara d’Urso. Non ha avuto niente da ridire, invece, quando Pierluigi Diaco, distraendolo dalle disquisizioni artistiche, lo ha richiamato sul tema del suo grande amore. Ha trovato quindi anche un po’ di tempo per parlare di Sabrina Colle, Vittorio Sgarbi nel suo intervento a Io e Te. Un amore che a un certo punto, sulla fine degli anni ’90, è diventato puramente spirituale, quando lei gli ha chiesto di non avere più rapporti sessuali, ma non per questo ha perso la sua forza: E’ una scelta che va oltre i sensi, oltre le passioni e diventa un rapporto della ragione.

L'inizio dell'articolo di Maurizio Ferraris per ''la Repubblica'', citato da Sgarbi: Giulio Giorello è per me indissociabilmente associato all' idea di giovinezza, di libertà e di libertarismo. Non avrebbe mai dovuto morire, lui che era rimasto eternamente giovane, nel vestire, nel pensare, nei gusti e nei comportamenti. Ma evidentemente, ogni umano e ogni filosofo lo sa, la libertà ha un limite, la morte, che è insieme una possibilità, un dovere di espressione, una fretta di agire. Non sono sicuro che Giulio avrebbe voluto vivere in eterno, e il suo laicismo ne è una prova. È stato un grande intellettuale e un grande amico, capace di comprendere che nulla è così alto da sfuggire all' esame razionale della filosofia, e nulla così basso da esserne escluso.

Giorello ci lascia in eredità la filosofia western di Tex. Gli ultimi scritti del professore si muovono tra pensiero alto e fumetto. E danno largo spazio al ranger solitario. Luca Gallesi, Sabato 25/07/2020 su Il Giornale. Che Tex, l'eroe arcitaliano creato da Gianluigi Bonelli e disegnato da Aurelio Galeppini, fosse diventato un mito era da tempo chiaro a tutti i suoi lettori, ma che potesse anche trasformarsi in un filosofo, non era certamente prevedibile, come ha invece, ora, dimostrato Giulio Giorello. Lo studioso e accademico recentemente scomparso ha, infatti, lasciato, parzialmente incompiuto, un volume dedicato proprio alla Filosofia di Tex, e altri saggi (Mimesis, pagg. 142, euro 14), che uscirà in tutte le librerie dal 30 luglio e di cui il giornale anticipa in questa pagina uno stralcio per gentile concessione dell'editore. Com'è noto, il docente di Filosofia della Scienza era anche, tra l'altro, un appassionato lettore di fumetti, ospite fisso a Luccacomics e autore, con Ilaria Cozzaglio, di un originale La filosofia di Topolino, pubblicato anni fa da Guanda. Volenteroso testimonial soprattutto della produzione made in Italy, Giorello è riuscito a coniugare il suo amore per la filosofia e la passione per la scienza con il mondo degli eroi di carta, ritrovando nelle strisce dei suoi beniamini conferme delle sue idee e spunti per riflessioni letterarie e filosofiche. Nelle storie di Aquila della notte, nome navaho del ranger giustiziere, Giorello trova echi shakespiriani, dalla Tempesta rievocata dal personaggio femminile di Estrella Miranda ai sortilegi del mago nero Mefisto che convalidano il celebre passo dell'Amleto secondo il quale «Vi sono in cielo e in terra assai più cose di quante ne sogna la tua filosofia». Anche davanti al sovrannaturale, però, Tex non rinuncia alla sua inscalfibile fede positivista: ogni spettro che incrocia la strada al nostro eroe non deve «commettere l'errore di capitare a tiro delle nostre Colt: nessuna magia al mondo potrebbe impedirgli di trasformarsi in cibo per vermi», parole che concludono la saga di Yama, che ha preso il posto del padre Mefisto come arcinemico di Tex. L'amore per la giustizia, la passione per la libertà e, soprattutto, una sovrana indifferenza verso la censura del politicamente corretto sono le ragioni della passione nutrita da Giorello per Tex, un eroe che, nel corso di più di settant'anni, ha mantenuto nitidamente costante la sua identità di eroe rude, senza macchia e senza paura, nato fuorilegge e diventato, grazie alla sua implacabile mira, il difensore della giustizia e il riparatore dei torti. Emblematico, a questo proposito, il confronto con un altro eroe bonelliano, Dylan Dog, che pur avendo in passato surclassato il successo del nostro pistolero, ha visto decimate le vendite dopo la sua trasformazione in icona per i diritti delle minoranze, con grande delusione del suo non più vasto pubblico. Tex Willer, nomen omen, è un uomo dai modi spicci e dalla forte volontà, incisa in volto dalla mascella squadrata e confermata dalle mani serrate a menare pugni imbattibili quando non sono impegnate a impugnare pistole. Di poche parole e di molte imprecazioni, Tex, dice Giorello, è un «filosofo pratico», seguace, come afferma lui stesso, di «Un grand'uomo, il signor Colt: una delle più grandi menti del suo paese: Samuel Colt», che, ça va sans dire, è il geniale inventore del celebre revolver a sei colpi, inseparabile compagno del ranger. Questo libro è il modo migliore di ricordare Giorello, che, al di là dei suoi meriti intellettuali e titoli accademici, è stato un filosofo senza spocchia, un intellettuale refrattario a ogni censura, un personaggio libero e generoso, proprio come il suo eroe preferito, che ha, purtroppo per noi, preceduto nelle praterie celesti.

Giulio Giorello per la Lettura – Corriere della Sera il 16 giugno 2020. Sono stato ricoverato per coronavirus il 27 marzo 2020, più precisamente alle 11.43. All'inizio mi è sembrato un brutto colpo; ma poi, fin dai primi giorni, mi è sembrato giusto prenderlo come l'inizio di una battaglia, una resistenza sempre più decisa alle insidie di questo nuovo male così sconosciuto. Sotto questo profilo la degenza al Policlinico di Milano, e una sua breve prosecuzione all'Istituto Maugeri, sono state anche un pretesto per conoscersi meglio. La mia degenza è terminata il 17 maggio. Adesso sono a casa mia, e guardo compiaciuto i miei libri come una presenza famigliare di cui continuamente mi rallegro. Ma non c'è solo questo: pur in una giornata climaticamente piuttosto triste come quella di oggi, continuo a provare un senso di liberazione. Sono infatti a casa mia e quella che contemplo è la mia libreria, ricca dei tanti volumi che ora ho l'occasione di riprendere in mano. Sotto questo profilo è una gioia e un'occasione. Peraltro, abito a non più di trecento metri dal Policlinico, e mi torna alla mente il mio sguardo verso l'ingresso dell'edificio, via Francesco Sforza 28. Ora so che anche questo è stato (e a lungo!) un oggetto del desiderio. E non c'era solo questo. La vita d'ospedale comporta tutta una serie di restrizioni che talvolta possono sembrare, anche se magari giustificate, forme di oppressione. La lontananza dai propri cari, l'isolamento, l'impossibilità di parlare «con chi è fuori» hanno finito per costituire una sorta di alienazione, certo temperata dalla attenzione del personale infermieristico e medico; ma sempre più di difficile sopportazione. Quello che io temo maggiormente oggi è una sorta di «stato medico» che vada, in nome della necessità, ben oltre il rispetto del paziente. Per carità, non come se questo fosse un disegno prestabilito ma una conseguenza magari perversa e non voluta di uno stato di necessità. Ed è questo il banco di prova non solo delle autorità mediche, ma anche dei nostri politici. Pensando ai quali non mi sento troppo ottimista.

Milano, giovedì 4 giugno. Eccome se ho combattuto. Contro un nemico invisibile e insidioso come il coronavirus. Mi sento un reduce che non ha indossato né uniforme né camice. Eppure, se devo dire la verità, io questo nemico lo continuo a vedere in forma metaforica. Perché con un nemico tradizionale tu puoi trattare, cambiare strategia, attendere. Con la malattia non puoi fare niente del genere. Non scendi mai a patti. Quindi, per certi versi, la guerra al Covid, come a qualsiasi altra malattia, resta una bella metafora. Questa idea di guerra contro nemici globali e «simbolici» si è fatta strada dopo il secondo conflitto mondiale. Perché non indirizzare le grandi risorse, anche umane, per nuove «guerre» contro i mali che affliggono i vari popoli del mondo?

Giulio Giorello per fondazioneleonardo-cdm.com.

Paperi e bombe. 6 agosto 1945: il presidente degli Stati Uniti Truman si rivolge al mondo intero con le parole che seguono. «Sedici ore fa un aeroplano ha sganciato una bomba su Hiroshima […]. Questa bomba utilizzava la potenza fondamentale dell’universo. La forza dalla quale il Sole deriva la sua potenza è stata scaricata contro coloro che hanno portato la guerra in Estremo Oriente». Tre giorni dopo che Little Boy è stata sganciata su Hiroshima, viene fatta esplodere su Nagasaki una seconda bomba, detta in codice Fatman (grassone). Così termina per il Giappone il secondo conflitto mondiale. Poco dopo, il 29 agosto Enrico Fermi in una lettera all’amico e collega Edoardo Amaldi auspica che le macchine «per produrre una reazione a catena con uranio e grafite», note come “pile atomiche”, possano venir impiegate a più pacifici scopi sul piano scientifico e applicativo; ma sottolinea pure che «l’aver contribuito a troncare una guerra che minacciava di tirar avanti per mesi o per anni è stato indubbiamente motivo di una certa soddisfazione». Anche al grande pubblico (americano) deve toccare qualche soddisfazione! Nasce in tale contesto un “genere atomico” del fumetto. Ad esempio, nel 1947 non è raro trovare nelle confezioni di cereali per la colazione dei ragazzi un albetto “by Walt Disney” intitolato “Donald Duck’s Atom Bomb”. La copertina è di Carl Buettner; la storia è, però, scritta e disegnata da Carl Barks. In Italia il titolo del tascabile suona “Paperino e la bomba”. Paperino ha costruito un’atomica casalinga mescolando un pizzico di meteore macerate, due cucchiai di polvere di cometa e succo di saetta per ottenere un esplosivo ultrapotente che detona facendo «Fut» (e non «Boom»). Un professore dall’accento tipicamente straniero gli ruba l’ordigno, e accidentalmente la bomba esplode. I suoi raggi fanno cadere i capelli alla popolazione della zona (effetto, peraltro, terrificantemente realistico). Ma la vicenda si conclude insolitamente bene per Paperino, che escogita una lozione, anch’essa atomica, che fa ricrescere le chiome, sicché il nostro eroe, mentre rifiuta qualsiasi uso militare, guadagna pacificamente un bel po’ di dollari. In ristampe più recenti, il finale è stato riadattato alla correttezza politica: Paperino diventa un benefattore che generosamente elargisce la portentosa lozione senza volere alcuna mercede.

Chimica e follia. Attorno alla Luna. Da quando era un semplice aiutante di Topolino che vendeva giornali per difesa della libertà di stampa contro delinquenti e profittatori (nell’epico “Topolino giornalista”, 1935) il nostro Papero ne ha fatta di strada. Ma non sempre è baciato dalla buona sorte. Come mostra un’altra ormai classica storia di Carl Barks, “Paperino chimico pazzo” (“Donald Duck Mad Chemist”, 1944). Se nel caso della bomba atomica gli ingredienti erano piuttosto fantasiosi, il Paperino che si dedica a un settore scientifico più tradizionale dà prova di notevole competenza. Per ironia della sorte, è un bernoccolo a causare «una febbre cerebrale» che rende il cervello del Papero «in grado di inventare qualsiasi cosa». E lui si sente ormai «il più grande chimico dell’universo! ». Così Barks si sta facendo beffa di una pretesa disciplina scientifica, la frenologia (e non la chimica), che era una mistura di spirito positivistico e di arbitraria speculazione; quella stessa cui faceva riferimento Charles Darwin nella sua “Autobiografia” quando raccontava che, stando appunto ai frenologi della sua epoca, da giovane pareva adatto «a fare il pastore» della Chiesa d’Inghilterra: un esperto aveva individuato nel cranio di chi sarebbe diventato l’autore de “L’origine delle specie” «un bernoccolo della religione così sviluppato che sarebbe stato sufficiente per dieci preti»! Ma torniamo a Paperino che si è autonominato “Prof. De Paperi”. Il suo primo risultato pare eccezionale: «Ho inventato la paperite! L’esplosivo più potente che sia stato creato», annuncia trionfante. Si badi che, inizialmente dimenticata, l’intuizione del papero verrà ripresa nel 1964, quando in un libro sulla chimica dei carbeni2 gli viene riconosciuto il merito non solo di aver ipotizzato vent’anni prima l’esistenza del metilene CH2, ma anche di averlo utilizzato in una sintesi chimica: «Se io mescolo CH2 con NH4 […] dovrei ottenere azoto spaccatutto». Da allora “Donald Duck Mad chemist” è menzionato in non poche autorevoli riviste di chimica.3 Le ambizioni del Papero tramutato in chimico geniale crescono. La sua paperite dovrebbe diventare un possente carburante per auto e velivoli; anzi, pure per un razzo destinato «a volare sulla Luna». Paperino programma questo audace viaggio in tutti i dettagli. Quando scocca l’ora zero, con un leonino ruggito parte il «Razzo a paperite». L’improvvisato astronauta se ne compiace. «Evviva! Mi sto allontanando dalla Terra alla velocità di mille chilometri al secondo!». Novello Ulisse dei cieli, Paperino si accorge via via che, però, anche il suo è un folle volo, non meno di quello dell’Ulisse dantesco. Il bernoccolo è sparito, l’ebollizione del cervello da inventore è cessata; e come Darwin non fu mai pastore della Chiesa d’Inghilterra, così Paperino non sarà mai il «più grande chimico dell’universo». E un medico ha fatto notare ai nipotini Qui, Quo e Qua che appena andato via il bernoccolo, il loro zio è ritornato «scem… volevo dire proprio com’era prima». Eppure, l’orbita intorno alla Luna era stata programmata con tale precisione che Paperino ritornerà esattamente là da dove era partito, dopo aver goduto della vista dell’altro emisfero del nostro satellite – quello che uomini come Giordano Bruno, Galileo, Keplero e molti altri dopo di loro si erano limitati a sognare. Ma il volo di Paperino – che intanto ha scordato tutto il suo sapere, e perfino cosa sia mai la paperite – non gli offre qualche vantaggio. Anzi, «tutti pensano che Paperino e i nipotini siano pazzi, e che il razzo e la paperite non siano mai esistiti». I nipotini: «Zio Paperino, davvero non ricordi come si fabbrica la paperite?». Paperino: «Chiudete il becco o vi farò vedere come si fabbricano le sculacciate!». Dall’alto del cielo la Luna – e a qualsiasi bambino qui sulla Terra il nostro satellite ricorda una faccia – sembra contemplare la scena, impassibile. Come nel “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” di Leopardi, essa non risponde agli interrogativi degli umani. Non è più una dea – celeste o infernale – ma una congerie di rocce senza vita, proprio come Paperino l’ha scorta dal vetro dell’abitacolo del suo razzo.

Recuperi sottomarini e brevetti mancati. Carl Barks ha cercato di rendere le proprie storie “paperesche”, oltre che divertenti e avvincenti, anche plausibili sotto il profilo scientifico e tecnologico – come dimostra la citata vicenda di Paperino chimico pazzo ma geniale. Un’altra avventura, nota come “L’eredità di Paperino” nella prima apparizione italiana (1949) negli “Albi tascabili di Topolino” n. 56 (l’originale era comparso nel maggio di quell’anno, senza titolo), presenta il Papero come capo di un’impresa di recuperi sottomarini; tuttavia gli affari non vanno affatto bene. Un giorno, però, sul fondo dell’oceano vengono avvistati i resti di uno yacht affondato. Come farà Paperino a tirarlo su, dal momento che non possiede un centesimo e il suo ricchissimo ma avarissimo zio (Paperon de’ Paperoni) si guarda bene dal finanziarlo? La soluzione viene in mente ai nipotini: «possiamo farlo riemergere con delle palline da ping pong!». Paperino con Qui, Quo e Qua si mette all’opera: riempie la stiva dello yacht con migliaia e migliaia di tali palline, e queste piano piano fanno risalire l’imbarcazione sommersa alla superficie. Era stato sufficiente sfruttare il fatto che le palline da ping pong sono cave e galleggiano! Nel 1964 il danese Karl Krøyer recupera dal fondale del porto di Kuwait City una nave carica di pecore, che dopo l’affondamento rischiava di scatenare un’epidemia, seguendo un procedimento per certi versi analogo a quello di Paperino: mediante una pompa ha riempito l’imbarcazione di schiuma di polistirolo espanso. Krøyer cercherà poi di brevettare il suo metodo; ma la richiesta verrà respinta, in quanto quel sistema era stato pubblicato su una rivista a fumetti quindici anni prima!

Parabole e catastrofi.Poincaré e Thom. Uno dei maggiori matematici di fine Ottocento, il francese Jules-Henri Poincaré si segnala (tra l’altro) per i suoi contributi allo studio delle situazioni che sono caratterizzate dalla cosiddetta «forte sensibilità alle condizioni iniziali» e che si riscontrano nei contesti più vari, dalla meteorologia alla finanza. Con le parole di Poincaré nel capitolo quarto del suo “Scienza e metodo” (1908): talvolta «può succedere che piccole differenze nelle condizioni iniziali [di un sistema] generino differenze grandissime nei fenomeni finali». A farne le spese è proprio il personaggio più interessante creato da Carl Barks, il celeberrimo Paperon de’ Paperoni (che abbiamo brevemente menzionato a proposito dell’avventura “L’eredità di Paperino”). Questo Uncle Scrooge McDuck, ispirato a un famoso personaggio di Charles Dickens, è un impetuoso e audace capitalista, che ha accumulato «tre ettari cubici di dollari» in un gigantesco deposito su una collina che sovrasta la sua città, Paperopoli. In “A Christmas for Shacktown” (1952; nello stesso anno è uscita la versione italiana, ovvero “Paperino e il ventino fatale”) il nostro sfortunato Papero è impegnato in una colletta per la sua fidanzata Paperina (Daisy Duck) che prepara una festa di Natale per i bambini poveri del quartiere Agonia, ove si concentrano abitualmente gli emarginati della città. Si rivolge persino al fortunato cugino Gastone (Gladstone Gander), il quale per una volta lo ha aiutato servendosi come talismano di un «ventino» (ma nell’originale è un dime, cioè una moneta da dieci centesimi) «riscaldato al calor rosso». Paperino tiene quella monetina per farsi beffa dello zio Paperone, che si è spinto a scimmiottare un mendicante col cappello rovesciato al suolo per raccogliere le offerte (senza tanto successo). «Un piccolo obolo» dice Paperino al parente, gettando nel cappello la monetina. Paperone la colloca nel già stracolmo deposito, sfruttando uno spiraglio del lucernario. Ma l’aggiunta di quella piccola moneta ha un grandissimo effetto! Il peso complessivo del denaro di Paperone aumentato di quel leggerissimo dime produce il crollo dello strato di roccia sottostante al deposito, e tutta la fortuna del magnate di Paperopoli viene inghiottita nelle viscere della Terra. Per recuperarla Paperone convoca vari cervelloni… solo per constatare lo scarto tra spiegazione scientifica (la meccanica del disastro è evidente) e intervento tecnologico (i mezzi abituali di recupero potrebbero solo peggiorare la situazione, facendo ulteriormente sprofondare il denaro). Ma dove la predizione scientifica riesce solo a giustificare l’impotenza, l’intuizione cerca vie non ortodosse. È la genialità di Qui, Quo e Qua a risolvere il problema: in situazioni sensibili ci vuole tecnologia delicata. I nipotini recuperano un poco alla volta il denaro utilizzando un trenino giocattolo (quello che Paperone aveva definito «stupido, scemo e inutile»). E Barks ha così reso omaggio a Poincaré, anticipando un tema che un altro grande matematico, René Thom, ha modulato nella sua teoria matematica delle catastrofi: non sempre eventi disastrosi (ma quello della storia di Barks lo era sia per Paperone che per il nipotame); però, sempre bruschi, in cui la minima variazione può, per l’appunto, rivelarsi «fatale».

Solventi e magneti. Un omaggio a Democrito. La nostra Critica della Ragion Papera non può non tener conto del fatto che il rapporto tra i Paperi e l’impresa tecnico-scientifica è proseguito rinnovandosi con i vari sceneggiatori e disegnatori che hanno raccolto l’eredità di Barks. Il suo più costante continuatore è stato Keno Don Hugo Rosa, nativo di Louisville nel Kentucky (1951) e di chiare origini italiche. Appassionato di fumetti e in particolare del mondo dei Paperi, dal 1987 Don Rosa ha articolato un lungo sodalizio, in particolare con Paperon de’ Paperoni, ripercorrendo le tappe di una vita che va dalla fanciullezza in Scozia alle avventure nel Klondike rese celebri da Barks, fino alla seconda metà del Novecento. Si badi: fin dall’inizio Don Rosa rifiuta la definizione di funny animals per i suoi personaggi; per lui «They are people!», cioè persone, non buffi animaletti. E le loro vicende devono essere realistiche anche sotto il profilo scientifico. Gli esempi non mancano. Dall’eruzione del Krakatoa, descritta con grande verosimiglianza ne “Il capitano cowboy del Cutty Sark”, episodio della vita di Paperone capitato nella zona dove tre isolotti dello Stretto della Sonda – tra Giava e Sumatra – sono tutto quel che resta di un’unica isola, squassata dall’eruzione vulcanica del 26-28 agosto 1883, alle conseguenze di una invenzione che annulla la forza d’inerzia in “Zio Paperone e un fiume di soldi” (1987, “Uncle Scrooge in «Cash Flow»”). Per non dire del “Solvente universale” (1995, “The Universal Solvent”), vero e proprio paradigma del riferimento a scienza e tecnologia in una storia a fumetti. Qui – come è ormai tradizione – Paperone entra nel laboratorio di Archimede Pitagorico (Gyro Gearloose) per farsi mostrare l’ultima invenzione: il solvente universale in grado di sciogliere qualsiasi sostanza (capace di resistergli è solo la polvere di carbonio che Archimede ottiene triturando diamanti). Spalmando la superficie di un ombrello con quel solvente, per la dimostrazione pratica l’inventore fa calare una congerie di incudini e rottami di ferro, che vengono inghiottiti dalla nera superficie e ridotti a un mucchietto di polvere. Quando Paperone si appresta a spazzar via il tutto, constata che la polvere è estremamente pesante. Solo allora Archimede spiega che il suo solvente si limita a sottrarre agli atomi il vuoto: paradossale omaggio al grande Democrito di Abdera! Il magnate di Paperopoli decide di eseguire una prova pubblica. Ma da perfetto irresponsabile lascia cadere il solvente, che scava una profonda fossa nel prato. Quella sostanza, come rivela Archimede, proseguirà la sua corsa fino al centro della Terra, con le inevitabili conseguenze. «Il nucleo della Terra è fatto di liquido fuso! Il solvente si fermerà laggiù, e lo dissolverà!» dichiara l’inventore. E uno dei nipotini: «Il nucleo fuso è responsabile del campo magnetico terrestre! Se scompare le bussole andranno in tilt!» E poi: «Quando il campo magnetico sarà definitivamente scomparso, saremo bombardati dai venti solari radioattivi!». Però, Archimede ha già escogitato una via di salvezza, che i Paperi realizzeranno con un’audacissima discesa verso il centro del nostro Globo.

Versi perversi. «La tecnica contro il romanticismo»: è il nuovo motto di Paperino quando consulta un potente cervello elettronico per meglio procedere contro un non meglio identificato «Poeta» di foggia anatrina che sembra essersi abilmente insinuato nella dimora – e nel cuore – di Paperina. Così racconta la storia intitolata “Paperino e il poeta sopraffino”, comparsa su “Topolino” libretto n. 570 del 30 ottobre 1966, soggetto e sceneggiatura di Rodolfo Cimino, matite di Romano Scarpa, chine di Giorgio Cavazzano. Queste 22 tavole si prestano a esemplificare come la Ragion Papera cerchi di districarsi nell’aggrovigliato nodo del rapporto tra le «due culture», quella tecnico-scientifica e quella più tipicamente umanistica. Sorpresa! Il congegno elettromeccanico consiglia al nostro buon Papero di «combattere il nemico con le sue stesse armi». E poiché quel cervello artificiale «non sbaglia», Paperino intraprenderà la carriera di poeta amatoriale. «Paperina! Paperina! / Io t’invoco stamattina, / porgi a me la tua manina!». Disgustati, Qui, Quo e Qua gli suggeriscono di dedicarsi «alla meccanica pesante»; ma il loro zio non demorde. Non ha tutti i torti, poiché i versi del «poetuncolo» non sono così diversi dai suoi. «Paperina… Paperina…/ alla sera e alla mattina / sei la dolce piccioncina!». Ma la sensibile Papera loda questa galanteria. Sarà solo dopo alcune traversie che Paperino, assistito dai nipotini, individua l’occasione per rovesciare a suo favore la contesa tra tecnica e poesia. All’annuale picnic di Paperopoli il poeta precede Paperino nell’invitare Paperina; ma questa volta il Papero ha il suo asso nella manica. Il poeta ha portato seco un borsone pieno di provviste; ma sono «provviste dello spirito» cioè «liriche, ballate, sonetti». La delusissima (e affamata) Papera annusa nell’aria il profumo dei «meravigliosi panini al pepe nero» che poco distante Paperino ha portato al picnic. Invano il poeta cerca di frenarla coi suoi versi: «È un poeta derelitto / chi suol cedere al soffritto». Paperina gli scaglia sulla testa il borsone colmo di capolavori letterari, trattandolo da «affamatore di fanciulle inesperte» e torna dal suo Papero, al fine vincitore.

Turisti del tempo. Come in un disegno di Escher. «Gli esseri umani sono vincolati al tempo come a qualcosa che scorre come un fiume. Disorienta pensare come un viaggiatore nel tempo possa raggiungere il passato. […] La prospettiva di viaggiare in circolo lungo la corrente del tempo ci sconvolge come un disegno di Escher». Così il fisico e cosmologo Paul Davies, nel suo “About Time”.4 E ancora: «L’indagine intorno a forme di spazio-tempo bizzarre che sembrano permettere di viaggiare nel passato rimane un attivo campo di ricerca. Fino a oggi la via d’uscita dalle leggi note dalla fisica che permetta un viaggio nel tempo sembra essere davvero molto stretta. Nel momento in cui sto scrivendo [1995] non sono noti scenari realistici di viaggi temporali. Ma […], in assenza di una buona prova di non esistenza, la possibilità deve rimanere presente alla nostra attenzione. Finché tale possibilità rimarrà valida, dovremo convivere con i suoi paradossi».5 Vediamo come lo fanno i nostri Paperi. In una raccolta di storie a fumetti, “Quel Tesoro dello Zione” (Topostorie n. 70, Editore Panini, Modena, dicembre 2016), trovo un’affascinante vicenda, “Paperino e il tesoro dal passato… presente” (testo di Sergio Tulipano, disegni di Lucio Leoni), che incomincia nel modo tradizionale (Zio Paperone spedisce in missione l’indebitato Paperino e i tre nipotini) per poi immergere Paperi e lettori in un contesto degno appunto di Escher. Paperon de’ Paperoni incarica il nipotame di rintracciare una sua bananiera scomparsa in una zona oceanica che ricorda non poco il famigerato Triangolo delle Bermude. I Paperi affrontano tempeste e onde agitate da fortissimi venti, per imbattersi infine in una «nave pirata» in cui il capitano e la ciurma indossano abiti «obsoleti». Scampati al loro assalto e a una violenta burrasca, tornano a Paperopoli per riferire il tutto a Paperone, non privo di un forte scetticismo. Gli ribattono Qui, Quo e Qua: «Devi crederci! Ci siamo imbattuti in una banda di pirati appartenenti a un’altra epoca». Paperone consulta come «esperto» Archimede Pitagorico che – un po’ come Paul Davies – non esclude la possibilità di «un varco temporale». I Paperi – questa volta accompagnati dallo zio multimiliardario – tornano in quella zona pericolosa, recuperano l’equipaggio della bananiera e apprendono per telefono da Archimede che quel varco è con tutta probabilità intermittente, poiché si formerebbe «di tanto in tanto per brevi intervalli di tempo». Per raggiungerlo i Paperi sono costretti ad andare «avanti e indietro» nella zona critica, in mezzo a «svariati fortunali», finché in un’isola, abitata «da gente poco raccomandabile» riscoprono quegli obsoleti tipacci che avevano incontrato nella prima crociera. Provvisto della più moderna tecnologia, Paperone riesce a sconfiggere la masnada, abile nella pirateria ma del tutto impreparata al nuovo tipo di conflitto; e si fa consegnare il loro tesoro. Rientrato a Paperopoli, riponendo quel che ha acquistato nel suo deposito, scorge improvvisamente «un angolo vuoto». Sono ancora una volta i nipotini a svelare l’arcano allo zio: «viaggiando a ritroso nel tempo» questi ha modificato «il corso della sua storia personale». Probabilmente Paperone aveva già recuperato a suo tempo quello stesso tesoro; e aggiungono i nipotini, «adesso che l’hai preso di nuovo tornando indietro nei secoli, hai vanificato il precedente ritrovamento». Meno accademicamente compassato di Paul Davies, lo zio Paperone commenta con un laconico sberequack. E con qualcosa di analogo ci congediamo anche noi (per ora!) dalla schiatta dei Paperi. Sapendo, però, che la Critica della Ragion Papera non si conclude mai, e c’è sempre la possibilità di un nuovo capitolo, capace di farci rimettere in gioco qualsiasi aspetto della realtà in cui viviamo. Per quanto tranquillo e sonnolento possa sembrare.

Glosse. L’intuizione del Prof. De Paperi, inizialmente dimenticata, verrà ripresa nel 1964, quando in un libro sulla chimica dei carbeni gli viene riconosciuto il merito non solo di aver ipotizzato vent’anni prima l’esistenza del metilene CH2, ma anche di averlo utilizzato in una sintesi chimica “Paperino e il poeta sopraffino” si presta a esemplificare come la Ragion Papera cerchi di districarsi nell’aggrovigliato nodo del rapporto tra le «due culture», quella tecnicoscientifica e quella più tipicamente umanistica.

Ritratto di Giulio Giorello, scettico spensierato che amava la libertà. Corrado Ocone su Il Riformista il 17 Giugno 2020. Non era una persona comune Giulio Giorello e te ne accorgevi ascoltandolo, frequentandolo, discutendo con lui, casomai andandoci a cena. La convivialità e la socialità erano, infatti, il tratto peculiare del suo carattere. La cosa che più ti colpiva era la capacità che egli aveva di rendere interessanti intellettualmente anche gli argomenti più semplici, però senza che tu potessi minimamente giudicare fuori luogo o noiosa la profondità culturale che sapeva profondere nella “civile conversazione”. Era per molti versi, forse quasi tutti, agli antipodi del maestro con cui si era formato e che, pur nella diversità, sempre onorò: quel Ludovico Geymonat che aveva ottenuto a Milano nel 1956 la prima cattedra italiana di Filosofia della scienza, a cui Giorello poi successe nel 1978. Tanto marxista ortodosso nel senso del materialismo dialettico (il famigerato Diamat) da Accademia delle Scienze l’uno, tanto aperto ai più disparati e “anarchici” esiti dell’epistemologia contemporanea l’altro; tanto chiuso nei recinti della filosofia e delle scienze sociali “forti” il maestro, tanto liberamente scorrazzante sulle vaste praterie della letteratura, dell’arte (la musica di ogni genere soprattutto) e persino delle forme di intrattenimento pop (i fumetti) l’allievo (gustosissimo e coltissimo è La filosofia di Topolino, che scrisse con Ilaria Cozzaglio nel 2013). D’altronde, come Giorello stesso scrisse in una autopresentazione filosofica, sin da piccolo aveva amato il mondo delle fiabe, degli eroi e delle leggende: «la mitologia e la sua controparte scientifica, la cosmologia» non avevano mai smesso di attrarlo (Prometeo, Ulisse, Gilgamesh. Figure del mito è un suo coltissimo libro del 2004). Sarà per questo che amava tanto la verde Irlanda, terra di elfi e gnomi, o anche forse perché lì fecero le loro prove tanti di quegli spiriti eretici e persino eccentrici, liberi pensatori, che tanto vicini erano al suo spirito. L’alchimia e la magia rappresentavano per lui un po’ questo, la rottura delle barriere erette dai dogmi delle Chiese di ogni tipo, la base di quel metodo scientifico che per lui doveva divenire il cardine della stessa libertà politica, civile, e soprattutto individuale (Di nessuna chiesa: la libertà del laico, 2005). Fu per questo che il marrano Baruch Spinoza, con la sua Ethica more geometrica demonstrata, in fuga dai poteri costituiti di mezza Europa, divenne per lui il simbolo dell’unione indissolubile della scienza e della filosofia con la libertà (Libertà. Un manifesto per credenti e non credenti, con Dario Antiseri, 2008) E fu così che, finiti gli anni del liceo Berchet a Milano, si avvicinò alla filosofia, sempre seguendo la linea dei “pensatori irregolari” della modernità: gli illuministi ribelli e federalisti nordamericani come Thomas Paine e Thomas Jefferson, i libertini francesi prerivoluzionari fino all’“eversivo” Marchese De Sade; gli utilitaristi anticonformisti alla Jeremy Bentham e soprattutto alla John Stuart Mill, l’autore del libro Sulla libertà che era un altro dei suoi riferimenti costanti; il logico e matematico ma anche anarchico e pacifista Bertrand Russell, che studiò in maniera non banale; i letterati filosofi come il nostro Italo Svevo e soprattutto il suo maestro dublinese James Joyce; fino al “fascista” Ezra Pound, il suo poeta preferito. Si può dire che, pur appartenendo per ambiente e istinto all’alta borghesia progressista milanese, Giulio Giorello fosse quanto di più lontano si possa immaginare dal “politicamente corretto” (oltre che dallo “scientificamente corretto”, ovviamente). Era però troppo scettico e disincantato per fare anche della “scorrettezza” un dogma o un habitus. Il risultato era quella colta e ironica, nonché raffinatissima, “leggerezza” che pure contraddistingueva la sua personalità. Anche lui era uno “scettico spensierato”, come ebbe a definire un altro dei suoi Maestri, lo scozzese David Hume: amante della vita e non disperato e pessimista come il Leopardi che pure apprezzava come filosofo naturalista. Dopo quella in Filosofia nel 1968, prese, su suggerimento di Geymonat, anche la laurea in Matematica tre anni dopo. Insegnò Geometria a Pavia, Matematiche complementari a Catania e nel 1978 successe appunto a Geymonat sulla cattedra di Filosofia della scienza a Milano. Pubblicò in quegli anni libri che gli valsero nella sua disciplina, e in quelle affini, una supremazia di fatto in Italia: Il pensiero matematico e l’infinito, 1982; Lo spettro e il libertino. Teologia, matematica, libero pensiero, 1985; Filosofia della scienza, 1992; Introduzione alla filosofia della scienza, 1994; La filosofia della scienza nel XX secolo, con Donald Gilies, 1995. Intanto, nei suoi frequenti viaggi in Gran Bretagna, soprattutto a Oxford, aveva preso familiarità con il razionalismo critico di Karl Raymund Popper e con le varie epistemologie postpopperiane, soprattutto l’“anarchismo metodologico” di Paul Feyerabend, della cui spregiudicatezza intellettuale era a dir poco affascinato. Il metodo scientifico a cui Giorello fa rifermento si precisò allora sempre più, in una direzione lontana dal newtonianesimo e dalla scienza protomodena, come fabbilista. La fantasia, la creatività eccentrica, l’innovazione spiazzante, il dubbio, l’errore, l’imperfezione, il caos (che aveva appreso direttamente da Réné Thom), l’errore (a cui è dedicato anche l’ultimo libro, scritto con Pino Donghi e uscito qualche mese fa) diventano sempre più i perni attorno a cui ruota ormai la sua visione del mondo. Il suo naturalismo ed evoluzionismo lo portava a essere ateo e relativista, ma era troppo amante della libertà e attento alle sfumature per non rendersi conto che anche l’ateismo poteva diventare, in mano poco accorte, un dogmatismo più intollerante di quelli clericali. Fu forse per questo che divenne amico e dialogo con il cristiano (anch’egli liberale e relativista) Antiseri e con il grande teologo monsignor Bruno Forte con cui scrisse nel 2006 Dove fede e ragione si incontrano?. Quanto al relativismo, egli lo faceva proprio ma distinguendo nettamente il relativismo culturale da quello etico. Credeva, infatti, fermamente nel valore assoluto e interculturale dei diritti civili e delle libertà occidentali, a cominciare da quelle di pensiero ed espressione. Lo stesso rischio poteva, d’altro canto, per lui assumere un’altra delle idee centrali del suo universo di pensiero: quella di laicità. In ogni caso, Giorello era un liberale nel preciso senso che aveva un gusto innato per la libertà, che non banalizzava mai. In qualche modo, essa, per lui, coincideva con l’idea di amore. Non a caso, il passo filosofico che teneva più caro, come ebbe a dire, è quell’aforisma di Umano, troppo umano in cui Friedrich Nietzsche definiva l’amore il «capire e rallegrarsi che un altro viva, opera e senta in modo diverso e contrario al nostro». Come dire: tutto il contrario del fanatismo. E questo è il lascito più importante che Giorello ci lascia.

Giulio Giorello: "Vivo accanto a filosofia e matematica e non mi sono mai sentito solo". Intervista al filosofo, matematico ed epistemologo tra i più autorevoli in Italia. È stato inoltre presidente della Silfs, la Società Italiana di Logica e Filosofia della Scienza. Antonio Gnoli il 25 settembre 2016 su La Repubblica. Il giorno in cui Marco Mondadori si inabissò con la repentinità di un colpo duro e inaspettato, Giulio Giorello era lontano dall'amico fraterno. "La morte distante degli altri", oggi dice, "manca spesso di chiaroscuro: un neon lontano che brilla in modo uniforme e opaco. Non è la propria morte con la quale siamo prossimi. Ho vissuto quella di Marco nella scansione secca di un click: prima era vivo, poi non c'era più. E ora che ci penso so che quella fine mi ha sfiorato, toccato, reso per un attimo il più inebetito tra gli uomini". Solo qualche mese fa Giulio ha rischiato di morire per un accidente al cuore. Ci conosciamo da anni. Ammiro la sua versatilità. Il suo essere sulle barricate dell'infanzia, come un ragazzo della via Pal e un attimo dopo diventare il serio professore che anima i discorsi di logica e di filosofia, che sguiscia con compunta leggerezza tra i classici della letteratura e quelli del fumetto.

Cos'è per te la versatilità?

"Se fossi stato uno sportivo avrei praticato il decathlon. È un modo di stare tra le discipline e la vita. Nella mia niente è stato inaccessibile. Come se tutto fosse a portata di mano".

È il privilegio delle persone intelligenti.

"Ma anche fortunate, trovare i giusti maestri, sfruttando le occasioni in qualche modo irripetibili".

Chi sono stati i tuoi maestri?

"In primis Ludovico Geymonat. A lui devo tutto: il gusto per la curiosità che non è solo scientifica, l'apertura anche a quelli con cui non si è d'accordo. Mi laureai con lui nel 1968, con una tesi di filosofia matematica. Era l'autunno. C'erano state agitazioni studentesche a Roma e a Milano. Cortei in Francia, manifestazioni negli Stati Uniti. Il mondo sembrava che stesse cambiando".

Mentre tu studiavi matematica.

"Feci una tesi sull'ipotesi del continuo avanzata da Georg Cantor. Approfittai degli ultimi anni di filosofia per occuparmi anche di geometria e algebra. Dopo la laurea in filosofia passai a studiare matematica a Pavia. E lì c'era un'altra figura eccezionale: Enrico Magenes, matematico ed ex partigiano cattolico. Magenes aveva relazioni strettissime con i più grandi matematici francesi, russi e americani".

Hai conosciuto André Weil?

"Purtroppo no, ma ho divorato i suoi testi sulla teoria dei numeri. Sono di una bellezza e nitore straordinari".

Tra l'altro era fratello di Simone Weil.

"Di tre anni più grande. Nato nel 1906, morì negli anni Novanta a Princeton dove si era trasferito. Sono state due figure straordinarie per il talento con cui nei rispettivi campi hanno pensato. Di lui mi parlò a lungo il suo amico Jean Dieudonné, che fondò insieme ad altri matematici il gruppo Bourbaki. Gran personaggio. Per un certo periodo gli fui accanto all'università di Nizza. Era un uomo collerico e geniale".

Mi ha sempre incuriosito la formazione di questo gruppo di matematici che si firmava Nicolas Bourbaki.

"I primi approcci risalgono alla metà degli anni Trenta. Anche Simone Weil partecipò a qualche riunione. Poi negli anni Cinquanta il gruppo cominciò ad avere influenza sul mondo matematico. Provò a darne un nuovo impianto".

Nuovo in che senso?

"Maggiore chiarezza nelle dimostrazioni e dunque maggiore formalismo. Il loro obiettivo era presentare i ragionamenti matematici in forma assiomatica".

Ti senti un matematico?

"Non credo di esserlo. Dieudonné sosteneva che la matematica è una pratica di vita. Non sono mai stato un matematico a tempo pieno che risolve problemi e dimostra teoremi. L'ho fatto sporadicamente, nella consapevolezza che comunque il primo amore restava la filosofia".

E la matematica era un tradimento?

"No, affatto. Non mi sentivo un bigamo delle due culture. Ho utilizzato la matematica come fosse una cassetta di attrezzi per trattare in modo nuovo vecchi problemi della filosofia".

Colpisce una certa solitudine del matematico.

"Cosa intendi?"

Numeri e forme, così perfetti, sembrano imprigionarlo.

"È un mondo chiuso e aperto contemporaneamente. È vero che i matematici godono di un certo isolamento. Ma poi condividono le passioni di tutti, hanno le medesime curiosità intellettuali, mi viene in mente il mio amico René Thom".

L'uomo delle catastrofi.

"Ma sai, l'espressione "Teoria delle Catastrofi" non l'ha inventata lui. Mi pare che fu Pieter Zeeman a coniarla".

Però "bucava".

"Ah certo! Ci sono locuzioni che colpiscono la fantasia e sconfinano dal loro ambito specialistico. Pensa a espressioni come "Neuroni Specchio", "Teoria delle stringhe", o il più gettonato "Bosone di Dio", immediatamente comprendi che un contenuto complicatissimo può involontariamente attrarre la gente comune".

Dicevamo di René Thom.

"Seguii per un certo periodo le sue lezioni in una università non distante da Parigi. Andai a trovarlo in Alsazia dove viveva. Ricordo un certo impaccio iniziale, una timidezza che poteva essere scambiata per freddezza. In realtà si dimostrò un uomo generoso, oltreché studioso di talento. Mi chiese con chi avevo lavorato in precedenza. Gli dissi che uno dei miei riferimenti era stato Dieudonné. Ah! Esclamò, raccontandomi di una feroce polemica che aveva avuto con il grande matematico".

Cos'è che non gli andava?

"L'eccesso di formalismo che considerava vuoto e rigido. Aggiunse che il gruppo Bourbaki aveva imbalsamato la matematica riducendola a una mummia. Curiosamente si interessò alle teorie di Thomas Kuhn e gli sembrava oltremodo utile la considerazione che ci sono momenti in cui la scienza ripensa radicalmente se stessa".

A questo proposito tu sei stato uno degli artefici del dibattito epistemologico degli anni Settanta.

"Invitai Thom a Spoleto per un confronto pubblico con Paul Feyerabend che aveva da poco pubblicato in italiano Contro il metodo".

Feyerabend si definì un epistemologo anarchico, il che non faceva che aumentare la confusione.

"Tu dici? Ho l'impressione che "epistemologia anarchica" sia un'altra di quelle locuzioni particolarmente efficaci per arrivare al grande pubblico. Mi confessò che l'aveva inventata apposta. E che conteneva un senso polemico contro l'affermazione che la scienza fosse lo strumento indispensabile per trovare un ordine del mondo. Molto banalmente Paul rivendicava la necessità di non farsi condizionare dalle regole scientifiche. Contro il metodo fu un libro importante nel dibattito di quegli anni. Rifiutato da Einaudi e pubblicato da Feltrinelli".

Sai perché fu respinto?

"Boh, i misteri dei mercoledì einaudiani quando il sinedrio si riuniva e decideva la politica culturale. Temo che nei riguardi di Feyerabend ci fosse il sospetto che avesse flirtato con i nazisti".

Ed era vero?

"Penso sia una sciocchezza. Si arruolò come soldato austriaco nell'esercito tedesco e durante un incursione aerea fu ferito perdendo l'uso delle gambe. Fu anche consulente di Bertolt Brecht per il dramma su Galileo. Mi raccontò che amava Wittgenstein e che avrebbe volentieri studiato con lui se non fosse morto. "Mi toccò andare con Popper!" commentò ironico. Alla fine divenne molto amico di Imre Lakatos, che fu un grandissimo filosofo della scienza".

Ricordo un episodio piuttosto oscuro nel quale Lakatos fu coinvolto.

"Ti riferisci probabilmente alla tragica storia di una ragazza diciannovenne che si avvelenò con una pasticca di cianuro. Il suo nome era Eva Iszàk".

Sì, è lei.

"Non ne so molto, ma la sorella tirò fuori il vero motivo di un suicidio apparentemente incomprensibile. Sia Imre che Eva erano ungheresi. Ed entrambi facevano parte di un gruppo anticomunista. Lei venne scoperta e fu deciso, affinché non rivelasse i nomi degli altri componenti, che ingerisse del cianuro. Una scelta terribile".

Forse anche indecente visto che furono gli amici a indurcela.

"Sono d'accordo. Comunque Lakatos andò via dall'Ungheria nel 1956 per rifugiarsi a Londra. Con Feyerabend avrebbe dovuto scrivere Pro e contro il metodo. Ma non fece in tempo: morì nel 1974, dopo avere insegnato a lungo alla London School of Economics".

A parte i tuoi interessi scientifici hai rivendicato l'importanza di John Stuart Mill. Negli anni in cui cerchi di occupartene la cultura di sinistra va in tutt'altra direzione.

"Con Marco Mondadori scoprimmo il saggio Sulla libertà di Mill e lo pubblicammo nel 1981. Ci attaccarono da tutte le parti. Il Pci e i suoi intellettuali spararono a palle incatenate. Il più rissoso fu il fisico Carlo Bernardini, col quale in seguito saremmo diventati amici".

Cosa li aizzava?

"Mill era un liberale, utilitarista. A noi piaceva molto l'idea della "sovranità del consumatore", per cui ciascuno è arbitro di ciò che gli piace o non gli piace. Unico giudice della propria vita. È il principio della società aperta. Ma spiegare questa cosa alla fine degli anni Settanta, nel fumo delle ideologie sinistrorse, fu impossibile".

Accennavi alla presenza di Marco Mondadori.

"Fu come un fratello. Ci conoscemmo al liceo Berchet. Ricordo che il nostro professore di religione era Don Giussani. L'antipatia nei suoi riguardi rinsaldò la nostra amicizia".

Antipatia dovuta a cosa?

"Era una figura a suo modo carismatica e intollerante. Metteva molto entusiasmo nelle cose che faceva e ho l'impressione che riuscisse a fare breccia soprattutto negli animi più fragili. Con lui sia Marco che io avemmo ripetuti scontri".

Andare al Berchet di Milano era da ragazzi molto privilegiati.

"Il padre di Marco era Alberto Mondadori che creò il Saggiatore, mio padre era un semplice assicuratore che poi sarebbe diventato dirigente. Non è che godessi di tutti questi privilegi".

Marco Mondadori morì in che anno?

"Nel 1999. Fu una morte improvvisa. Si afflosciò mentre sistemava dei volumi in una libreria. Erano i giorni di Pasqua. Dal luogo di vacanza dov'ero ricevetti la telefonata. La linea era disturbata. Non capivo se era morto o no. Alla fine compresi. Allo stupore subentrò un dolore indicibile. La sua vita è stata breve, intensa e schiva".

Pensi mai alla morte?

"A volte sì. Per cavarmela con una battuta suggerirei di imparare a giocare a scacchi molto bene, prima di incontrarla. Fuori di metafora continuo a cercare piacere nel vivere. Soprattutto ora che ho avuto un incidente di percorso".

Ti va di parlarne?

"Non c'è nulla di segreto. Qualche mese fa ho avuto una trombosi alla gamba sinistra e un doppio principio di infarto. Mi sono salvato grazie alla prontezza e abilità dei medici".

Che cosa ricordi di quel momento?

"Nulla, proprio nulla. Buio prima e dopo. È strano. Ma è come se una forma di vuoto mi protegga da quel trauma. Le conseguenze sono state un po' pesanti. Ho cercato di recuperare le mie attività: scrivere, leggere, fare lezione, partecipare a qualche seminario, viaggiare. Mi piace ancora molto viaggiare. Sono stato recentemente in Portogallo e a Dublino".

Ti sei occupato di un sacco di cose. Sei dispersivo?

"In me ha funzionato lo stimolo della curiosità e il bisogno di non lasciarsi intrappolare dalle cose".

Al punto da mettere insieme Milton, Gilgamesh e Topolino?

"Perché no? Milton è stato uno dei due grandi fari del seicento inglese. L'altro era Shakespeare. Mi piace Milton: non fa sconti ai reazionari. Gilgamesh è un mito sumerico che ci sta alle spalle. Me ne parlava mia madre e non ho mai capito da dove avesse tirato fuori le sue conoscenze accadico sumeriche. Topolino è la mia infanzia. Pensa, che attraverso la grande parodia dell'inferno di Topolino, scoprii per la prima volta l'esistenza di Dante".

Cosa leggevi a scuola?

"Al liceo invece di leggere Manzoni leggevo l'Ulisse di Joyce e a Pascoli preferivo i Canti pisani di Pound".

Ti tuffavi nel difficile.

"Sono due opere profondamente architettoniche, solo che è un'architettura volutamente rovesciata, quindi hai questa impressione a labirinto. Non a caso uno dei protagonisti del romanzo di Joyce si chiama Dedalus, l'artista che costruisce il suo labirinto intellettuale. Lo stesso accade con Pound che mi dà l'impressione di cantare come una cicala su una specie di ammasso di rifiuti che è l'Europa con le sue crisi. Pound gioca con l'arte del frammento, Joyce con il labirinto, ma in entrambi scorgi un grande disegno unitario".

Come definiresti la tua vita?

"Non sono un'isola, ma un arcipelago. Non mi sento mai solo, né autonomo. A volte penso che avrei voluto un figlio. Da giovane non mi interessava. Credo di avere avuto molto dalla vita. E sarebbe stato interessante trasmettere qualcosa a un figlio. Ma è tardi. Ogni tanto mi visita questo strano sentimento. Non è desiderio. È soltanto nostalgia".

L'intervista del 2011. Ricordo di Giulio Giorello e la sua intervista su Dylan Dog. Lucrezia Ercoli su Il Riformista il 28 Giugno 2020. Scoprii casualmente, dopo averlo conosciuto in un’occasione accademica durante i miei studi universitari, che quello che per me era il prof. Giulio Giorello – blasonato filosofo della scienza e stimato docente universitario – era un appassionato e onnivoro lettore dei fumetti, oltre che una persona di rara umanità e di straordinaria cultura. Nel 2011, in occasione della prima edizione del mio festival Popsophia, lo chiamai – non senza un po’ del timore reverenziale che si ha per i veri Maestri – per invitarlo a cimentarsi in un’operazione squisitamente antiaccademica: tratteggiare un ritratto pop filosofico di quello che, per me, era il vero “pensatore del sospetto” del mondo dei fumetti nostrani, Dylan Dog. Pensavo storcesse il naso all’idea di intervenire sulla filosofia dell’indagatore dell’incubo. Ma non ci fu bisogno di convincerlo: accettò subito con entusiasmo. Venne fuori questa bellissima intervista, ancora oggi cliccatissima su YouTube, in cui Giulio utilizza le battute icastiche di Groucho, i comportamenti anarchici di Dylan e le provocazioni di Xabaras per riflettere, con l’acume e la profondità che lo caratterizzavano, sul senso stesso della filosofia e della sua passione per la libertà.

Dylan Dog attraversa una Londra misteriosa popolata da bizzarri personaggi e si trova a risolvere enigmi che sfidano il buon senso. L’antieroe inventato da Tiziano Scavi riflette continuamente su se stesso, s’interroga ossessivamente sul senso dei casi che tenta di risolvere. Tuttavia, il suo approccio è “strano”, tutt’altro che convenzionale. Per ragionare Dylan utilizza il suo “quinto senso e mezzo”, va oltre la logica lineare del linguaggio. Potremmo dire che, a suo modo, Dylan Dog è un filosofo pop?

«Credo di sì. Anzitutto diamo un esempio di come ragiona Dylan Dog. Partiamo dal primo incontro con uno dei nemici storici, Xabaras, personificazione di Satana e forse vero padre naturale di Dylan (o comunque possessore della chiave del suo destino). I due, seduti su delle comuni sedie, stanno discutendo: a un certo punto, Xabaras fa la mossa tipica del filosofo idealista e dice: “Guarda che tutto quello che ci circonda, comprese queste sedie, è una produzione della mia mente, una creazione del mio pensiero”. A questo scatenato idealismo Dylan ribatte: “Beh, visto che le hai pensate tu stesso, potevi anche pensarle un po’ meno dure”. Dylan Dog lavora, così, dentro le pieghe della filosofia, e ironizza su quella che abbiamo imparato dai manuali, la filosofia delle formule scontate. Queste formule, svuotate e rigirate, diventano nuove, interessanti, perfino provocatorie. Per esempio, quante volte abbiamo visto l’immagine del cavaliere solitario che, sulla riva del mare, gioca a scacchi con la morte? Basta pensare alle memorabili inquadrature del Settimo sigillo di Ingmar Bergman. Anche Dylan Dog fa la sua partita con la morte e ci ricorda che il mondo è una scacchiera, come ci ha insegnato Wittgenstein. In un fumetto ci sono anche i disegni. È questo il bello: il fumetto mette insieme parole e figure in sequenze temporali. È proprio questo ci fa riflettere. Aristotele direbbe che la contemplazione delle forme “ci fa imparare e ci fa ragionare”. Anche Dylan ci fa imparare e ci fa ragionare, in aggiunta con un grande piacere: il piacere dell’ironia».

L’ironia è arma filosofica molto antica. Da Socrate in poi è stata usata per smascherare la retorica su cui si fonda ogni discorso che pretende di dire la Verità. In che modo particolare vi ricorrono Dylan e i suoi compagni di viaggio?

«Per primo bisogna capire su che cosa Dylan e la sua banda facciano dell’ironia. La risposta è abbastanza semplice: su cose pericolose. E non c’è niente di più pericoloso di ciò in cui non si crede. (Detto per inciso, io, essendo ateo, ho una matta paura di Dio). Talvolta temiamo di più proprio ciò che non c’è. E cosa teme Dylan nelle sue battaglie? La morte. Ma come diceva Epicuro, “quando ci siamo noi, la morte non c’è; quando ci sarà la morte, non ci saremo noi”. La presenza della morte è una cosa che la logica dovrebbe eliminare; eppure, la paura resta. Dylan ci insegna allora che il lavoro filosofico è essenzialmente il lavoro sulla nostra incompletezza, sulla nostra finitezza, sul nostro essere sempre condizionati da qualcosa. Come il galeone che lui costruisce nei momenti di tempo libero, è un lavoro interminabile nel vero senso della parola. Completarlo richiederebbe una perfezione infinita, e noi l’infinito non possiamo raggiungerlo. Al contrario, è l’infinito che può raggiungere noi; può coglierci di sorpresa, qualunque nome noi gli diamo: Assoluto, Dio, Perfezione o magari Nulla, come pensano molte filosofie orientali. Il tentativo di Dylan, invece, è di ridere dentro la nostra finitezza, di ironizzare sul fatto che appena si nasce si comincia a morire. La bellezza di questo fumetto è, dunque, nel suo umorismo intelligente, a proposito dei limiti della nostra condizione esistenziale. Ma ironizzare su tali limiti non vuol dire negarli. Al contrario, vuol dire capirli meglio: vuol dire entrare meglio nel gioco della vita».

La filosofia è spesso imprigionata nell’ossessione di definire l’identità dei suoi oggetti. Al contrario, uno dei temi ricorrenti in Dylan Dog è la duplicità dell’identità. Il fumetto sembra mettere in scena un inquietante “pluriverso del sé”. In che senso, allora, l’identità dei personaggi è costitutivamente ambigua e duplice?

«La questione dell’identità è una sorta di cappio che ci prende dentro. Per capirlo prendiamo un esempio tratto da Dylan Dog n. 298, intitolato “La testa del killer”. A prima vita, la storia pare abbastanza banale. Lenny è perseguitato dalla sua metà oscura: la parte di male che ha espulso diventa un nemico che lo vuole annientare. Insomma, una storia che abbiamo vista mille volte al cinema: dai film tratti dai racconti di Stephen King ai B-movies dell’orrore. Il doppio torna come un’ombra, e ci perseguita. Ma in quel numero di Dylan Dog c’è un colpo di scena. Alla fine si scopre che non è la persona buona che ha sognato quella cattiva e gli ha dato sostanza, ma è la metà cattiva che ha sognato quella buona e che, alla fine, si trova schiacciata da quello strano doppio. La storia mostra come l’identità personale sia simile a quello che i matematici chiamiamo nastro di Möbius, una superficie chiusa piuttosto particolare. Se si parte dall’interno, percorrendola tutta, ci si ritrova all’esterno. Lo stesso capita con l’identità. Che è qualcosa di cangiante: soltanto localmente, pezzettino per pezzettino del nastro di Möbius, noi manteniamo la distinzione tra interno ed esterno. Buono e cattivo sono percepiti come distinti. Ma globalmente sono la stessa persona. Quello che noi abbiamo identificato con il buono in realtà era il cattivo e quello che era il cattivo, sarà la vittima del buono. La distinzione tra buono e cattivo, morale e immorale, domestico o straniero, è sempre una questione locale. Dipende, cioè, da dove ti collochi nel nastro di Möbius. Globalmente è difficile tracciare la linea di demarcazione. Il confine, come l’orizzonte, ci sfugge continuamente. Le identità sono importanti e interessanti modalità di parlare, sono costruzioni della lingua, ma possono diventare anche delle prigioni. Quando uno vuole evadere, deve sottoporre a tensione il linguaggio e rompere la tradizione consolidata. Può abbandonare l’identità precedente».

In quasi tutte le storie di Dylan Dog, fino all’ultima vignetta, anche il confine tra realtà e finzione è incerto. L’intera vicenda potrebbe essere soltanto un lungo sogno del protagonista. Qual è il significato di tale realtà onirica nel fumetto?

«Anche qui ci viene in soccorso il nastro di Möbius: cominciamo a pensare che questa sia la realtà e che quell’altra sia il sogno, poi scopriamo che i due lati si sono scambiati i ruoli. Come capita in una della commedie/tragedie più inquietanti che Shakespeare abbia mai scritto, La tempesta. Siamo fatti della stessa fabric, cioè della stessa “stoffa” di cui sono fatti i sogni. E in Dylan c’è un continuo scambio tra sogno e realtà. E ha una funzione narrativa essenziale. Nelle ultime battute di quasi ogni numero quella che sembrava la versione di common sense viene rovesciata. Il finale è sempre un non finale. Magari il “cattivo” risorge, magari l’anima inquieta torna a vagare nella zona del crepuscolo, magari il bravo bambino insidiato dalle ombre mostrerà di essere un tipo pestifero da cui le ombre hanno tutto il diritto di scappare».

Insomma, i confini cambiano sotto il naso del lettore, che rimane sorpreso da questi finali che non sono finali. Se potesse esserci una conclusione della storia, allora sarebbe compiuto anche il galeone. Invece, il galeone è sempre lì che viaggia. Ma verso dove?

«Potremmo rispondere con una battuta di un grandissimo matematico che con i sogni ci sapeva fare, Keplero. In una missiva a Galileo dice: “Prendiamo i nostri galeoni, andiamo avanti nel cielo, oltre la Luna”. E nel Dylan n. 250 dal titolo Ascensore per l’inferno, il meraviglioso galeone si deforma: da modellino diventa una vera nave e avanza, con la Luna sullo sfondo nel cielo stellato. Anche la nostra nave non arriverà mai in un porto definitivo, fuori dai flutti e dalle tempeste. Non c’è mai un punto di partenza stabile e un punto di arrivo altrettanto stabile; siamo sempre condannati a navigare in eterno. E allora, come facciamo se la nostra imbarcazione subisce un qualche guaio? La rattoppiamo prendendo un pezzo di qui e uno di là. Questa perpetua navigazione è la nostra storia. E tale storia – ci racconta un inquieto filosofo dublinese che gira da un pub all’altro e si chiama Stephen Dedalus – “è l’incubo dal quale noi cerchiamo di destarci”. Il problema è che, una volta svegli, la realtà potrebbe essere ancora un incubo…»

In questo viaggio alla deriva Dylan Dog incontra una serie sterminata di personaggi femminili. Oltre che un inquieto spirito libero, Dylan si dimostra un impenitente Don Giovanni. Ma qual è il senso di questa sua incessante ricerca della donna giusta?

«Dylan non conquista le donne per il “piacer di porle in lista”. È una sorta di Don Giovanni sprovveduto, e questa mancanza di astuzia lo rende così innocente, da farlo diventare piacevole nella ripetizione. Le sue donne cambiano in continuazione: belle, sensuali, secchione, assassine, vampire, prostitute, ecc… Così, Dylan Dog è un fumetto che esalta di continuo la figura femminile, anzi le figure femminili nella loro differenza. Non ce n’è una uguale all’altra! Dylan è un tipo fragile, come moltissimi di noi. Per questo è così simpatico a noi filosofi che ci sentiamo particolarmente fragili. E lo siamo, perché la parola, il ragionamento, la narrazione si rompono spesso contro la durezza della realtà, contro “l’incubo da cui vorrei svegliarmi”».

Dylan Dog è una rassegna di varia umanità. Possiamo definirlo una vera e propria un’apologia degli ultimi, dei mostri, anzi, degli straordinari nell’ordinario?

«Di più. Dylan Dog è un’apologia dello straniero. Ma il primo straniero siamo noi stessi. Siamo stranieri a noi stessi. Non c’è cosa più difficile che mettere in pratica il motto dell’oracolo di Delfi, che ironicamente Socrate faceva suo: “Conosci te stesso”. Socrate lo opponeva a tutti quelli che proclamavano con sicurezza “questo è il giusto, questo è il santo, questa è la virtù militare, questa è l’arte politica”. E il filosofo ribatte: “Comincia col conoscere te stesso, perché non ti conosci abbastanza”. Dylan ci dice di non avere troppa paura degli altri, che risultano essere solo maschere del proprio sé. Come si legge ancora in Joyce: “Noi siamo tenebre che splendono nella luce”, e la luce non ci ha compresi».

L’ultima intervista di Giulio Giorello al Dubbio: “Le mascherine ci tolgono identità e umanità…” Carlo Fusi su Il dubbio il 16 giugno 2020. Il filosofo della scienza allievo di Geymonat è morto a Milano. Aveva 75 anni. Era stato ricoverato per il coronavirus circa un mese fa al Policlinico da cui era stato dimesso da una decina di giorni. Negli ultimi giorni la sua situazione era peggiorata. E’ morto a Milano a 75 anni il filosofo Giulio Giorello: era nato nel capoluogo lombardo il 14 maggio del 1945. Era allievo di Ludovico Geymonat ed è stato il suo successore nella cattedra di Filosofia della Scienza all’Università Statale milanese. Da quanto si è appreso, era stato ricoverato per il coronavirus circa un mese fa al Policlinico da cui era stato dimesso da una decina di giorni. Negli ultimi giorni la sua situazione era peggiorata. Si era sposato tre giorni fa con la sua compagna Roberta Pelachin. 

Pubblichiamo l’ultima intervista concessa al Dubbio poche settimane fa. Siamo tutti mascherine. Ne facciamo uso, ce le portiamo appresso, le personalizziamo. Le usiamo come barriera contro il male oscuro e invisibile del Coronavirus. E come protezione verso gli altri. Le indossiamo quando pensiamo di essere in pericolo, le togliamo quando ci rilassiamo. C’è un uso pubblico: quando siamo in mezzo agli altri. E un altro privato: quando siamo in famiglia o in ambiti ristretti. Le mascherine sono diventate parte di noi, sono un pezzo della nostra identità. Ma, appunto, quale identità? Con le mascherine siamo noi, ma lo siamo anche senza. Qual è dunque l’identità vera: quella dove nascondiamo il viso o quella dove trasmettiamo – col pianto, col sorriso, digrignando i denti, schiudendo le labbra – le nostre emozioni, il nostro linguaggio non verbale? Giulio Giorello, filosofo della scienza, epistemologo, matematico, rimugina qualche secondo. Poi spiega: «Se la questione della mascherina viene presa in modo ossessivo, effettivamente può nascere un problema di identità. La nostra persona una volta era particolarmente caratterizzata dal volto e dalle sue espressioni. E la mascherina invece queste espressioni le cela. Dunque parliamo di una perdita. Se questa perdita viene mantenuta nell’ambito del ragionevole, non è un disastro. Ma se invece diventa una difficoltà, una perturbazione, se il mascheramento diventa una sorta di ossessione allora è chiaro che la mascherina produce un colpo alla nostra identità personale».

E a quel punto, professore, che succede: ci sdoppiamo, diventiamo schizofrenici?

«Succede che non ci ritroviamo più nelle modalità che abitualmente usavamo per riconoscerci».

Il tratto somatico e la sua manifestazione è ciò che da sempre contraddistingue le relazioni umane. La riconoscibilità è sintomo di sicurezza: sui documenti c’è la nostra fotografia, ed è una conquista. Ora invece la sicurezza passa attraverso il nascondersi, la negazione almeno parziale della riconoscibilità. Cosa significa e cosa comporta nella socialità?

«Non è facile rispondere. Io penso che se la cosa rimane in ambiti contenuti, se l’uso della mascherina è ragionevole e non è vissuta come una ossessione, allora noi rimaniamo sempre noi. Se al contrario diventa un atteggiamento che cambia il nostro modo di porci per le strade, diciamo così, allora può sorgere una sorta di doppia identità con aspetti fortemente destabilizzanti».

Ma in cosa può consistere questo sdoppiamento, questa doppia identità che rischiamo di subire?

«Beh, la difficoltà principale è che accanto alla fisionomia cui siamo abituati, alla riconoscibilità reciproca che determina, all’immagine di noi che lo specchio di casa ci rimanda, si affianca un altro noi, un noi mascherato che offriamo al mondo che ci circonda e che modifica negli altri la percezione di come siamo. Un cambiamento inimmaginabile anche solo fino a pochi mesi fa. E se questo cambiamento finisce per essere vissuto in modo drammatico, può provocare una sorta di scissione interiore. Mi sembra un punto molto delicato».

Però professore noi siamo obbligati a portare questa mascherina, non è una scelta. È lo Stato che ci obbliga a scinderci?

«Diciamo che anche questa faccenda dell’obbligo è una cosa curiosa. Tanta gente andando in giro non la porta. Si tratta di un obbligo per così dire diversificato. Io per esempio che sono guarito non sarei tenuto a portarla. Io comunque la porto lo stesso volentieri perché so benissimo che si tratta di un momentaneo episodio del mio modo di uscire, di entrare i contatto con gli altri. Tuttavia sé questa modalità, questo momentaneo episodio, diventa una costante vissuta drammaticamente nel senso che io non riconosco più me stesso, allora si possono produrre conseguenze anche gravi sulla psiche delle persone, sul loro equilibrio psicologico».

Esiste anche un altro aspetto riguardo l’uso delle mascherine, che finora abbiamo solo sfiorato. Nel corso della evoluzione umana, abbiamo dato sempre maggiore risalto alla parola, al cosiddetto “secondo sistema di segnalazione”. Il primo, cioè il linguaggio non verbale, l’espressività del volto che trasmette informazioni sui nostri sentimenti, è sempre più rimasto sullo sfondo. Se io mi maschero, nascondo in parte il mi volto, chi ho di fronte non sa più se sorrido, se condividilo, se sono arrabbiato e così via. Non può comprendere il non detto, il non verbale. Questo non crea un corto circuito nelle relazioni?

«Direi proprio di sì. Può creare un corto circuito con forme quasi patologiche di diffidenza nei confronti dell’altro. Vede, io questa cosa la percepivo quando ero in ospedale. Non riuscivo a distinguere un infermiere dall’altro. Poi ho trovato modi per riconoscere le persone e i loro atteggiamenti, ho stretto legami che ad un certo punto sono diventati di amicizia. Ma sono state costruzioni limite. Ci sono invece persone, come il filosofo Cartesio, che amavano dire di se’ stessi larvatus prodeo, ossia “procedo mascherato”. In questo senso era nota la quasi patologica diffidenza di questo grandissimo protagonista della modernità. Ma il suo impatto sulla modernità non sta nel fatto che girava mascherato, bensì nel fatto “pubblico” che riuscì a produrre alcuni grandissimi saggi scientifici ai quali fu poi premesso il famoso Discorso del metodo».

Dunque c’è del metodo nel mascherarsi?

«Direi meglio: l’aspetto pubblico è quello privato giocano continuamente tra di loro. Talvolta c’è perfino una sorta di contrapposizione tra pubblico e privato. Nelle grandi personalità questa dicotomia è stata risolta dalla produzione scientifica. Ma per quanto riguarda l’amico che incontravamo uscendo di casa per andare a comprare il giornale, questo universo relazionale è assai più difficile da ricostruire. Si può anche dire che in parte l’abbiamo perduto. La mia speranza è che non sia stato perduto per sempre e che il più rapidamente possibile si ritorni a forme di espressione più consone a ciò che è umano».

Ecco. Dal punto di vista “umano” noi riusciamo a metabolizzare le cose, anche quelle più difficili. Le mascherine sono un esempio. Adesso ci sono quelle personalizzate, con le iniziali, i colori e così via. Come le giudica, professore?

«Lo vedo come un meccanismo di compensazione. Siccome non posso più farmi riconoscere dell’espressione del volto allora ricorro alla “personalizzazione” della mascherina per far sapere chi sono e che sono io. È un palliativo. Noi siamo abili a trovare sostitutivi. Che poi tuttavia creano nuovi problemi. Chi mi dice che non ci sia qualcun altro una mascherina personalizzata uguale alla mia, che so con la bandiera tricolore o con qualche alto simbolo, nera piuttosto che bianca e così via.

Sono forme, come ho detto, sostitutive della identità personale. Torniamo sempre al punto. La mascherina, anche simbolicamente, è un modo per celare l’identità. È anche il primo passo per avviarsi sulla strada della non responsabilità. Se non mi si riconosce, non sono responsabile di ciò che faccio. Le conseguenze “morali” nei casi di mascheramento più patologico, possono essere a mio avviso molto gravi».

Professore, c’è anche un altro aspetto levato alla pandemia e che interseca le relazioni sociali. Parlo del “remoto” come modalità di rapporto interpersonale e sociale. È una salvaguardia sanitaria, ma stravolge il modo di relazionarsi. Che ne pensa?

«Sono d’accordo. Pensi al caso dell’insegnamento universitario a distanza, come viene definito. Da remoto come espressione è ancora peggio. Questa modalità mi pare ci faccia perdere una delle componenti più interessanti dell’insegnamento: il faccia a faccia tra docente e studente. Si tratta di uno strumento enorme di controllo e di valutazione nel corso della lezione stessa. Tutto questo viene perduto e onestamente non capisco bene con cosa si possa recuperare. Stiamo diventando tutti delle università telematiche? Mi viene male solo a pensarci».

Professore, questo distanziamento da remoto è salvavita ma scardina il rapporto interpersonale. Quale aspetto, nel bene e nel male, è più difficile da gestire?

«È tutte e due le cose. Si salva la vita? Certo. Ma tenga presente un aspetto. Se uno esce di casa può essere colpito in testa da una tegola che cade da un tetto. Allora dovremmo vietarci di uscire di casa per evitare tegole vaganti? Certo stando chiusi in casa ci sentiamo più al sicuro. Ma si tratta di una sicurezza ben miserabile».

Il discorso vale anche per la giustizia, asset fondamentale di un sistema democratico. I tribunali sono chiusi, alcune udienze si fanno a distanza…

«L’esercizio della legge era la prova di un grande teatro. Adesso il grande teatro non più, è sostituito da palliativi. Prima o poi si dovrà tornare alle forme di espressioni classiche della giustizia. Sia nelle aule giudiziarie come in quelle universitarie. Questo tipo di palliativi sono portato a giustificarli soltanto se hanno una durata temporale assai limitata. Questo è il punto di fondo. Se così non fosse, rischiamo di perdere molte componenti rilevanti sotto il profilo umano del nostro vivere sociale».

·        E’ morto Stefano Bertacco, senatore di FdI.

Stefano Bertacco, si è spento all’età di 57 anni il

senatore di FdI. Veronica Caliandro il 14/06/2020 su Notizie.it. Stefano Bertacco è morto all'età di 57 anni presso l'ospedale di Borgo Trento.  Si è spento a Verona, all’età di 57 anni, Stefano Bertacco, senatore di Fratelli d’Italia e assessore ai Servizi sociali del Comune. Numerosi i messaggi di cordoglio, tra cui quello di Giorgia Meloni attraverso un post su Facebook. Stefano Bertacco è morto all’età di 57 anni presso l’ospedale di Borgo Trento, dove era stato ricoverato d’urgenza in seguito all’aggravarsi della malattia che lo aveva colpito l’anno scorso. Cresciuto politicamente nel Movimento Sociale Italiano, Bertacco era in seguito passato ad Alleanza Nazionale e di recente a Fratelli d’Italia. Numerosi i messaggi di cordoglio per la scomparsa del senatore, con il coordinatore veneto della Lega, Lorenzo Fontana, che attraverso una nota ha fatto sapere: “Lo ricordiamo come un uomo, un amico e un esponente delle istituzioni che si è sempre speso per Verona, per i Veronesi, soprattutto per le persone con fragilità”. Messaggio di cordoglio anche da parte di Giorgia Meloni, che su Facebook ha scritto: “Non ce l’ha fatta il senatore Stefano Bertacco, tra i migliori combattenti che la Destra italiana abbia potuto vantare. Quando l’ho visto l’ultima volta, dieci giorni fa, ho pensato che la vera forza non ha bisogno di essere aggressiva. La vera forza ha esattamente il volto di Stefano: gentile, sorridente, rassicurante. Era sicuro che avrebbe vinto lui sulla malattia, e forse in fondo l’ha fatto. Stefano, tutti noi siamo stati fieri di averti al nostro fianco, e combatteremo anche nel tuo nome, per l’Italia fiera e giusta che tu sognavi. Addio, fratello. Ti voglio bene”.

·        È morto Luigi Spagnol: scoprì per primo Harry Potter.

È morto Luigi Spagnol: scoprì per primo Harry Potter. Antonino Paviglianiti il 15/06/2020 su Notizie.it. Luigi Spagnol è morto a 59 anni: brillante editore, fu lo scopritore di Harry Potter in Italia. Lutto nel mondo dell’editoria italiana: è morto Luigi Spagnol, brillante editore e letterato che nel corso della sua carriera ebbe intuizioni vincenti. Come la scoperta, per primo in Italia, del celebre ‘maghetto’ che conquistò tutti negli anni Duemila: Harry Potter. Luigi Spagnol è venuto a mancare all’età di 59 anni nella giornata di domenica 14 giugno, dopo una lunga e sofferta malattia. Lascia la moglie Hanne e due figli, Lara e Antonio. Era nato a Milano il 21 marzo del 1961, 59 anni fa e lo porta via quella che il suo gruppo, la Gems, in una nota definisce giustamente ”una prematura scomparsa”. Spagnol era editore col vero fiuto da besteller, considerato che non solo Harry Potter è stato il suo grande successo. Con la Salani fu lui a scegliere tanti titoli che hanno venduto più di un milione di copie: la “Gabbianella e il gatto” di Luis Sepúlveda nel 1996, il bestseller di Giobbe Covatta “Parola di Giobbe” nel lontano 1991. E ancora “Come smettere di farsi le seghe mentali” di Giulio Cesare Giacobbe nel 2003 a “Cotto e mangiato” di Benedetta Parodi nel 2009. In particolare, Vallardi, da editore noto per il proprio catalogo di linguistica, sotto la sua guida diventa una casa editrice protagonista di questo settore, creando, con la spinta dei suoi successi. Ha portato in Italia autori di grande valore letterario come Philip Pullman e Margaret Atwood, e saputo riproporre e far affermare con grande passione veri e propri classici contemporanei come David Almond. Ora però voglio che sia chiaro a tutti chi è scomparso. È scomparsa la persona che con i suoi successi editoriali ha dimostrato più volte negli ultimi trent’anni di sapere meglio di chiunque altro che cosa è un libro, cosa può fare un libro per i lettori e fino a dove può arrivare. Vorrei tentare di spiegarlo con le sue parole: ‘I libri sono scritti da persone, letti da persone, venduti da persone, e parlano di persone. È dunque fondamentale che siano anche pubblicati da persone, libere di seguire le proprie idee, le proprie strategie e le proprie passioni'”. è il ricordo commosso Stefano Mauri, presidente e amministratore delegato del gruppo Gems.

·        E’ morto il cantante Pau Donés dei Jarabe de Palo.

Jarabe de Palo, è morto il cantante Pau Donés. Aveva 53 anni. Aveva scoperto di avere un tumore al colon nel 2015 ma non ha mai smesso di girare il mondo per fare concerti. Ernesto Assante il 9 giugno 2020 su La Repubblica. Ci sono canzoni semplici e imbattibili, hit che in teoria sono destinati a illuminare una sola stagione della nostra vita e che invece durano per una vita. È questo il caso de La flaca, canzone degli Jarabe de Palo (anzi, Jarabedepalo, come andrebbe più correttamente scritto) che poco più di venti anni fa ebbe un grandissimo successo in tutto il mondo e rese famoso anche in Italia Pau Donés, il cantante e leader della band. Donés è morto oggi, all’età di 53 anni, dopo una lunga battaglia contro il cancro. Donés era malato dal 2015, quando aveva scoperto di avere un cancro al colon: solo tre anni fa aveva celebrato i venti anni di carriera pubblicando un doppio album, 50 Palos, con tutti i grandi successi della band (oltre a La Flaca la band ha prodotto hit come Depende, Bonito, Grita, Agua e tanti brani in italiano, molti altri in Spagna e nel mondo latinoamericano) con nuovi arrangiamenti e tanti duetti, al quale aveva fatto seguito un tour mondiale e un’autobiografia. La malattia l’aveva costretto ad interrompere il tour, ma Donés, armato di una vitalità straordinaria, aveva deciso di condividere il suo percorso con tutti quelli che negli anni lo avevano seguito ed amato, sia attraverso i social con i quali ha documentato tutti i momenti della sua lotta, sia con un documentario, intitolato Jarabe Contra El Cancer. Legatissimo all’Italia, dove era diventato una star non solo con la sua band ma anche per le molte e belle collaborazioni, come quelle con Jovanotti, Niccolò Fabi, Kekko Silvestre, Noemi, Fabrizio Moro e Ermal Meta, Donés è stato in concerto e in tour molte volte in quella che per molti versi considerava una seconda casa. La prima, quella che lo ha ospitato in questi ultimi anni, è stata Formentera, dove dallo scorso anno si era ritirato, per stare vicino alla famiglia. “Il cancro, quando è arrivato, si è dovuto abituare alla mia vita da musicista, non sono stato io ad essermi adeguato a lui. Io ho messo le cose in chiaro fin da subito: ‘Se vieni con me, allora tu devi fare la mia vita’. E questo significa fare il musicista, registrare dischi, fare concerti, viaggiare e via dicendo”, aveva detto in un’intervista per Supereva. La musica di Donés e della sua band era profondamente latina, melodica, ma ricca di moltissime influenze, dal rock alla musica cubana, dal reggae alla salsa, dal flamenco ai cantautori catalani, e questa apertura a suoni e culture differenti lo aveva portato naturalmente ad essere un “cittadino del mondo”, in grado di confrontarsi con realtà differenti da quella spagnola con grande rispetto e intelligenza. La band era nata agli inizi degli anni Novanta ma è stato con La Flaca, scritta dopo un viaggio a Cuba e animata dalle sonorità e dai ritmi dell’isola, nel 1996 a portare il gruppo al successo in patria e all’estero. Da quel momento la sua musica latina gentile e raffinata, è entrata nella colonna sonora delle nostre vite, assieme al suo messaggio positivo di unità e di pace, di allegria e di amore. Un messaggio che resterà con noi, assieme alle sue canzoni, per molto tempo ancora.

La sua "La Flaca" portò gli Jarabe de Palo al successo mondiale. Palo Pau Donés è morto a 53 anni. Il cantante lottava da anni contro il cancro. La forza delle sue "hit" era la semplicità. Roberto Pellegrino, Mercoledì 10/06/2020 su Il Giornale. Non lo credeva nemmeno lui di poter fare il grande botto già con il disco d'esordio. E per colpa di una pubblicità di una marca di sigarette spagnole che girava in tv. Estate 1996, nelle classifiche europee dominavano con prepotenza Don't look back in anger degli Oasis, Cosmic Girl di Jamiroquei e Don't speak dei No doubt. In Italia si faceva spazio anche Più bella cosa di Eros Ramazzotti. Poi, le radio di casa nostra iniziarono a passare La Flaca, «una canción de amable simplicidad», come la recensì El País, che avvicinò, poi nel tempo, il suo sconosciuto autore trentenne a Cole Porter, per quel modo di scrivere canzoni, pure e orecchiabili, ancorate a brevi frasi che suonavano come uno slogan. Pau Donés, all'epoca 33 anni, ex pubblicitario, era il papà di quel fortunatissimo brano. Lo cantava con la sua band, i Jarabe de Palo. Motivetto semplice e amabile che entrò, gentilmente, nelle teste di tutti. Quella canzone, pochi accordi, un timbro di voce originale, parlava di una misteriosa «flaca», una ragazza magra. Il singolo sfiorò i cinque milioni in Europa e cambiò, da subito, la vita di Pau Donés, autore apprezzato anche Italia, non solo per quel gentile tormentone estivo del 1996, ma anche per le collaborazioni coi Nomadi, Jovanotti e Kekko dei Modá. Ora che se n'è andato, all'età di 53 anni - era nato a Montanuy, in Aragona nel 1966 - , la Spagna piange e rivaluta Pau Donés, ucciso da cinque anni di cancro. Un periodo in cui mai si è lamentato sotto ai riflettori, mai aveva fatto parlare a vanvera di sé, mai si era creduto un eroe. Aveva, semplicemente, accettato il suo destino, pur continuando a curarsi con la chemio che gli scavava il viso e gli annebbiava la mente. E continuando a fare ciò che voleva fare, il cantante. Nel 2015, quando aveva già inciso otto album in studio, scoprì la bestia che lo avrebbe fermato. Lo disse soltanto ai suoi cari e alla band. Ma la notizia si diffuse. E lui sui social ne parlò con l'ottimismo di chi ce l'avrebbe fatta. Due anni dopo, pubblicò il suo nono lavoro 50 Palos, 22 brani in cui si accenna alla malattia nelle liriche. Un anno prima sembrava uccisa la malattia, poi era tornata più violenta. Nel disco Pau canta anche in italiano, duettando con Kekko dei Modá nel brano Fumo, con Francesco Renga in Dipende, versione italica del suo successo spagnolo Depende, con Noemi in Mi piace come sei e con Jovanotti in Bonito: un'esplosione di world music, ritmi, latini e africani e tanto rumore. Con video annesso girato a Cortona. Una collaborazione da cui è nata una grande amicizia tra lo spagnolo e l'italiano. Lorenzo-Jovanotti ieri, al momento della «notizia tremenda», ha scritto un commosso tweet per lui: «Mi mancherai, amico e maestro». Il 26 maggio scorso, con un ultimo colpo di reni per il suo pubblico, in videoconferenza aveva presentato il decimo disco, LP testamento: Tragas o escupes. L'uscita era concordata per settembre. Pau non ce l'avrebbe fatta a superare l'estate, così il 25 maggio suonava già il singolo Eso que tú me das con il videoclip in cui canta e balla assieme alla figlia sedicenne Sara. Un regalo inaspettato, perché nel gennaio del 2019 aveva annunciato lo stop alla musica. «Il dolore della carne è troppo forte aveva scritto ma ciò che fa più male è privarmi della musica». Un anno di silenzio abbondante, poi, a sorpresa, l'8 aprile su YouTube compare un video in cui Pau, solo voce e chitarra acustica, canta Vuelvo, ritorno, per annunciare che ha ancora voglia di cantare. E il 13 aprile un altro video ufficiale: Volvemos, ritorniamo, un puzzle di filmati con la band in studio per registrare il nuovo album dei Jarabedepalo, tornati scritti così. Un'iniezione potente di vita, di entusiasmo. Alla faccia del cancro. Nel 2017, assieme all'album, aveva pubblicato anche una sua biografia 50 palos e continuo a sognare, edita in Italia dalla De Agostini. Nelle pagine spiegò chi era questa misteriosa «flaca». «Una donna cubana, magra, di una bellezza impressionante, con un abito in chiffon rosso semitrasparente, e due occhi così lucenti che parlavano da soli». Pau nel 2015 l'aveva incontrata per caso in un discobar de La Havana. Si chiamava Alsoris Guzmán. Fu un colpo di fulmine. Un idillio impossibile. Vedendola nuda nel letto, al mattino, le sussurrò «smilza» baciandola, prese un foglio e in dieci minuti scrisse la canzone della sua vita. E disse addio alla flaca addormentata nel suo letto d'hotel.

Dal profilo facebook di Lorenzo Jovanotti Cherubini il 9 giugno 2020. ho appena saputo della morte di Pau Dones, e una notizia tremenda, ci eravamo scritti 3 giorni fa e come al solito era lui a rassicurare me. Mi mancherai tantissimo amico e maestro Pau, niente cancellera i momenti bellissimi vissuti insieme, la bella musica, le mangiate e le bevute, le chiacchierate infinite, la forza che ci siamo dati reciprocamente. Conoscerti ed esserti amico e stato un grande regalo. Dove sei ora? Mi e difficile crederci.

Francesco Raiola per music.fanpage.it il 9 giugno 2020. Il cantante Pau Dones degli Jarabe de Palo è morto, come riportano i giornali spagnoli e il sito della band. Sul sito della band si legge il messaggio della famiglia: La famiglia Dones Cirera comunica che Pau Dones è morto il giorno 9 giugno a seguito del cancro che gli era stato diagnosticato nell'agosto del 2015. Vogliamo ringraziare l'equipe medica e tutto il personale dell'Osedale de la Vall di Hébron, l'ospedale  Sant Joan Despí Moisès Broggi, l'Istituto Catalano di Oncologia e tutti per il lavoro e la dedizione in tutto questo tempo. Chiediamo il massimo rispetto della privacy in questo momento difficile". Il cantante si era ammalato nell'agosto del 2015 e aveva avvisato i fan con un video emozionante postato sui suoi social. Così aveva tenuto aggiornato il suo pubblico sulla cura continua a cui si era sottoposto, raccontando paure e anche vittorie di quello che è senza dubbio uno dei cantanti spagnoli più conosciuti e amati anche nel nostro Paese. Pau Dones, con gli Jarabedepalo, aveva trovato il successo nel nostro Paese grazie a hit come "Depende" e "La Flaca" e aveva collaborato con artisti italiani come Jovanotti, Modà e Niccolò Fabi".

·        E’ morto Rademacher, il recordman della boxe.

Boxe, è morto Rademacher: l'uomo dal record che non può essere battuto. Pubblicato sabato, 06 giugno 2020 da Luigi Panella su La Repubblica.it Campione olimpico, nel primo match da professionista combatte subito per il titolo mondiale dei massimi, ma fu sconfitto da Floyd Patterson. Quando il 22 agosto del 1957 scagliò un gancio destro che mise al tappeto il campione del mondo dei pesi massimi Floyd Patterson, Pete Rademacher pensò di essere ad un appuntamento con la storia. Era il secondo round, ma Patterson si rialzò e gli inflisse una lezione di pugilato, giustiziandolo al sesto round con una serie infinita di atterramenti. In realtà Pete Rademacher,  morto all'età di 91 anni, nella storia ci era già entrato nel momento in cui mise piede sul ring a Seattle. Incrociando i guantoni con Patterson infatti conquistò un record che non potrà mai essere battuto: campione olimpico nel 1956 a Melbourne, al primo match da professionista subito un match per il titolo mondiale. Un esperimento tecnicamente 'folle', che fu replicato - anche se non al primo match - nel 2014 da Lomachenko che però era già al secondo match da prof ma nonostante le stimmate del fuoriclasse fallì la conquista del mondiale: gli riuscì al terzo, ed il record del thailandese Seanseak Muangsurin (stabilito nel 1975), fu solamente eguagliato. Quello con Patterson fu l'unico match con il titolo in palio per Rademacher, che continuò a combattere fino al 1962, affrontando anche pugili di notevole levatura come il leggendario Archie Moore. Ha chiuso con un ruolino di 23 incontri, con 15 vittorie e 7 sconfitte. Nessuno però potrà mai toglierli quel record.

·        Addio al maestro Marcello Abbado, fratello maggiore di Claudio.

Addio al maestro Marcello Abbado, fratello maggiore di Claudio. Pubblicato giovedì, 04 giugno 2020 da La Repubblica.it Il musicista è morto nella sua casa di Stresa a 93 anni. Una lunga carriera come pianista e compositore, ma anche come direttore di grandi istituzioni musicali. Nel 1993 fondò, insieme a Vladimir Delman, l'Orchestra Sinfonica di Milano "Giuseppe Verdi". E' morto a 93 anni nella sua casa di Stresa Marcello Abbado, fratello maggiore del grande direttore d'orchestra Claudio, scomparso 6 anni fa. Compositore, pianista e docente, Marcello Abbado aveva affiancato molto presto la sua attività di musicista a quella di docente e di direttore di istituzioni musicali: tra il '58 e il '66 aveva diretto il Conservatorio di Musica "Giuseppe Nicolini" di Piacenza, tra il '66 e il '72 il Conservatorio "Gioachino Rossini" di Pesaro e poi, tra il '72 e il '96, il Conservatorio "Giuseppe Verdi" di Milano. A lui si deve la creazione nel 1993, insieme a Vladimir Delman, dell'Orchestra Sinfonica di Milano "Giuseppe Verdi", di cui è stato il direttore artistico dal '93 al '96. Negli Stati Uniti Abbado senior faceva parte del "Texas Piano Institute" ed era l'unico pianista italiano membro d'onore della Japan Piano Teachers Association di Tokyo. Nato a Milano il 7 ottobre 1926 da una famiglia di musicisti, Marcello Abbado si era diplomato in pianoforte nel 1944 e poi in composizione nel 1947, iniziando subito una intensa carriera concertistica nei teatri di tutto il mondo. Ugualmente noto come pianista e compositore, ha tenuto centinaia di recital e di concerti con orchestre sinfoniche in quasi tutte le nazioni d’Europa, America, Africa, Asia e Australia. Ha suonato come solista con molti grandi direttori d’orchestra, fra i quali Guido Cantelli, e con il compositore Paul Hindemith. Con i Wiener Philharmoniker ha più volte interpretato Mozart, ha eseguito l’intera opera pianistica di Debussy e tenuto master class in tutto il mondo. Ha scritto i balletti "Scena senza storia" e "Hawai 2000", e la musica di scena per "La voix humaine" di Jean Cocteau (2003) e per "Il buio negli occhi" (2003). Per orchestra ha composto tra l'altro la cantata "La strage degli innocenti" per voci soliste, coro di voci bianche, coro misto e orchestra; le "Variazioni sopra un tema di Mozart"; l'"Hommage à Debussy". Tra le sue ultime opere il "Concerto per quattro violini e orchestra d'archi" e il ''Für Gloria und Andrea'' per pianoforte e violino, entrambi del 2008.

·        Addio a Chris Trousdale, voce della boyband Dream Street.

Coronavirus, addio a Chris Trousdale, voce della boyband Dream Street. Pubblicato giovedì, 04 giugno 2020 da La Repubblica.it. L'artista, attore e discografico aveva appena 34 anni ed è morto in seguito alle complicazioni causate dal Covid-19, come affermano alcuni amici. Il cantante Chris Trousdale, ex componente della boyband Dream Street, è scomparso all'età di 34 anni. L'annuncio della scomparsa è stato dato dalla sua manager, Amanda Stephan: "È con il cuore pesante che confermiamo la scomparsa di Chris Trousdale avvenuta il 2 giugno 2020 per una malattia non precisata. È stato una luce per tanti e mancherà moltissimo alla sua famiglia, agli amici e ai fan in tutto il mondo". Il cantante, nonostante le indicazioni vaghe della manager legate al suo decesso, era ricoverato in un ospedale di Burbank, in California, dove è morto per complicazioni legate al coronavirus, come hanno scritto sui social alcuni amici, sebbene anche la famiglia dell'artista non abbia confermato questo dettaglio. Trousdale aveva solo 8 anni quando iniziò a esibirsi a Broadway in spettacoli come Les Misérables e The Sound of Music, come si legge nella biografia sulla sua pagina Facebook ufficiale. È stato uno dei componenti originali dei Dream Street ai quale si unì, appena 13enne, nel 1999, esibendosi fino a quando la band non si sciolse, nel 2002. Gli altri ragazzini del gruppo erano Jesse McCartney, Greg Raposo, Matt Ballinger e Frankie Galasso. Durante quel periodo la boyband intraprese tournée affiancando artisti come Britney Spears e Aaron Carter, portando sui palchi statunitensi le loro hit It Happens Every Time e I Say Yeah. Dopo il singolo del 2000 t Happens Every Time e i due album Dream Street (2001) e The Biggest Fan (2002) la loro fortuna del gruppo finì in modo inaspettato a causa di denunce giudiziarie avviate dai loro genitori contro i due manager del gruppo. Trousdale tentò la strada solista ma con scarso successo. Nel 2010 partecipò a un episodio della serie tv Shake It Up e nel 2012 partecipò al talent show The Voice ma non superò le audizioni. Ha comunque continuato a incidere e l'anno scorso ha lanciato la canzone Summer.

·        E’ morto il semiologo Paolo Fabbri.

Addio al semiologo Paolo Fabbri, ha svelato i meccanismi del linguaggio e dell'arte. Pubblicato martedì, 02 giugno 2020 da Lara Crinò su La Repubblica.it. Il semiologo Paolo Fabbri Riminese, insieme ad Umberto Eco è stato tra i pionieri della disciplina. Ha insegnato in tutto il mondo. Importanti i suoi studi di semiotica delle arti. Dopo Umberto Eco, scomparso il 19 febbraio del 2016, la semiotica perde un altro nome importante, sebbene meno noto ai non specialisti: Paolo Fabbri, riminese, è morto a 81 anni. Il messaggio della AISS, l'associazione italiana di studi semiotici, mette insieme la ricchezza culturale della sua figura e il carattere, nelle parole diffuse stamattina per ricordarlo: "la parola addio segna una distanza incolmabile, una rottura dolorosa. Porta il senso della perdita, della solitudine e dell'abbandono. La semiotica e l'intero mondo della cultura perdono oggi una delle intelligenze più vivaci, brillanti e inarrestabili. Un pensiero sempre lucido, capace di segnare una direzione, rompere i confini fra le discipline, raccogliere le sfide, animare dibattiti, centri culturali, riviste, collane". Nato a Rimini nel 1939, aveva studiato a Firenze e poi a Parigi, in quegli anni Sessanta che sono stati il periodo d'oro della Semiotica, scienza dei segni nata dagli studi linguistici di Saussure e destinata, nel Novecento della comunicazione di massa, ad aver fortuna per la sua capacità di demistificarli, di vedere tutto sotto forma di costruzione linguistica aiutando così gli studiosi a "smontare" i discorsi: del potere, della pubblicità, della propaganda. Paolo Fabbri aveva studiato in Francia, all'École Pratique des Hautes Études, con i grandi: Roland Barthes, Lucien Goldmann, Algirdas Julien Greimas. Poi era tornato in Italia, dedicando la sua vita all'insegnamento universitario. Con Umberto Eco (che nel Nome della Rosa lo trasformerà nel personaggio di Paolo da Rimini) terrà corsi all'università di Firenze, alla facoltà di Architettura, poi diventerà professore incaricato di Filosofia del linguaggio ad Urbino, dove fonderà, con Carlo Bo e Giuseppe Paioni nel 1970 il Centro Internazionale di Semiotica e di Linguistica, tra le prime scuole di semiotica europee. Presidente del DAMS di Bologna, docente di Semiotica delle Arti quando, sempre a Bologna, nacque una dei primi corsi di laurea in Scienze della Comunicazione, è stato docente in molte università estere, dalla Sorbona alla UC Berkeley, alla UCLA di Los Angeles. Ha diretto numerose collane editoriali; tra i suoi libri ricordiamo La svolta semiotica (Laterza), L'Efficacia semiotica (Mimesis, 2017); Vedere ad arte. Iconico e icastico (Mimesis, 2020). Nel 2019 è uscito per Marietti, Sul racconto. Una conversazione inedita con Paolo Fabbri di Roland Barthes.

Marco Belpoliti per “la Repubblica” il 3 giugno 2020. Umberto Eco l' aveva battezzato Doctor agraficus per la sua scarsa propensione alla scrittura e l' aveva ficcato nel suo Nome della rosa come Paolo da Rimini, la città dove Paolo Fabbri era nato ottantun anni fa e dove si è spento ieri. Dello stesso Eco era stato probabilmente il primo assistente a metà degli anni Sessanta, quando il semiologo insegnava a Firenze nella facoltà di Architettura agli inizi della sua carriera accademica. Una strana carriera è stata invece quella di Fabbri, uno degli uomini più colti che ci siano stati nell' Italia degli ultimi cinquant'anni: aveva letto tutto ed era informato su tutto, curioso e vorace, rapidissimo nel pensare e nel parlare. Dopo una laurea in Legge a Firenze nel 1962, era approdato a Parigi per studiare con Lucien Goldmann, lo specialista di Pascal e Racine, per via dei suoi interessi di filosofia del diritto, e lì aveva conosciuto Algirdas Julien Greimas, un lituano i cui studi avrebbe poi cambiato la semiologia, anche lui, forse non a caso, laureato in Legge. Il corso che Fabbri seguì era dedicato proprio alla semiologia del diritto e così il laureato in giurisprudenza diventò il principale assistente di Greimas. Con lui conobbe tutto il gruppo degli strutturalisti parigini, Roland Barthes in testa, che iniziò a frequentare assiduamente, e negli anni successivi: Lyotard, Virilio, Latour e Baudrillard; con quest' ultimo, poi, ci passava le vacanze. A un certo punto avrebbe dovuto succedere al suo maestro, ma sino a quel punto aveva scritto ben poco: nessun libro, solo alcuni articoli, e l' accademia francese gli preferì un altro. Forse per questa spiccata vocazione all' insegnamento orale il suo libro più efficace è una ampia raccolta d' interviste uscite nel 2017 da Mimesis, L' efficacia semiotica. Oltre che da una curiosità onnivora - Greimas, diceva, gli indicava i libri da non leggere -, Fabbri possedeva una spiccata inquietudine, così che è stato una sorta di chierico vagante, passato in tanti luoghi di studio e d' insegnamento, in molte università in giro per il mondo, da Palermo a Madrid, da Venezia a Lima. Una cosa importante è stata la fondazione del Centro internazionale di Semiotica e Linguistica a Urbino, che ha diretto, in particolare i seminari estivi cui partecipano scrittori come Italo Calvino e Gianni Celati. Proprio lì, alle lezioni di Fabbri, sono nate alcune idee del Calvino combinatorio negli anni Settanta, di cui Fabbri fu amico e suggeritore. Non c' è solo questo incontro importante. Negli anni Settanta Fabbri è andato a insegnare a San Diego, e lì ha collaborato con Erving Goffman, il grande sociologo, studioso dei comportamenti in pubblico. Da quel periodo deriva l' attenzione di Fabbri per la microsociologia, per gli aspetti minuti della vita quotidiana, su cui ha scritto brevi ma fulminanti articoli sui giornali. La vocazione più profonda di questo intellettuale di taglio enciclopedista, quasi un collaboratore postumo dell' impresa di Diderot e D' Alambert, era proprio per un sapere ibrido e per lo scambio delle lingue, come ha spiegato in un suo libro, Elogio di Babele. La semiotica deve molto a Fabbri che, pur non essendo un personaggio noto al grande pubblico, ha rifondato sulla scia di Greimas quella disciplina: La svolta semiotica del 1998 ne è un efficace esempio. Parigi è stata la sua patria di elezione; lì è stato anche uno straordinario direttore dell' Istituto italiano di cultura negli anni Novanta. Senza dimenticare poi l' insegnamento al Dams di Bologna, dove lo aveva voluto Eco, negli anni Settanta durato oltre vent' anni con Semiotica delle arti; proprio lo scorso anno è uscito il grosso volume dedicato ai suoi scritti sull' arte contemporanea, Vedere ad arte (Mimesis). La sua scrittura non è per nulla facile, e tuttavia mai oscura, scrittura densa dove ogni parola è soppesata e incastonata in frasi a tratti imprevedibili ed ironiche, come è consueto nello spirito romagnolo, di cui è stato un autentico interprete. Il 2 giugno è morto a Rimini il grande semiologo Paolo Fabbri. Lo ricordiamo con l'intervento al Festival della Comunicazione di Camogli 2016 in cui risponde alla domanda pro o contro il web posta da Umberto Eco. L'idea di Eco era che bisogna fare una critica della società informatica come c'è stata una critica della società industriale. Ci preoccupiamo troppo della comunicazione esplicita ma non ci preoccupiamo del segreto nella comunicazione. L'informazione oggi è enorme, abnorme, c'è un'esorbitazione comunicativa. Il deep web è il sommerso del web; il web in chiaro rappresenta forse il 4% della totalità del web. Fabbri conduce qui nei meandri del deep web. All'interno del mondo nero esistono trappole, siti civetta, finti profili. In Siria hanno costruito un falso sito che è servito per catturare gli oppositori di Hassad.

·        E' morto Carlo Ubbiali, leggenda del motociclismo italiano.

E' morto Carlo Ubbiali, leggenda del motociclismo italiano. Pubblicato martedì, 02 giugno 2020 da La Repubblica.it Il leggendario pilota degli anni '50, vincitore di 9 titoli mondiali, è scomparso nella sua Bergamo a 90 anni. A dicembre era stato insignito del Collare d'Oro al merito sportivo dal Coni. E' morto a Bergamo all'età di 90 anni Carlo Ubbiali, leggendario pilota del motociclismo degli anni '50 che per numero di vittoria può essere accostato a Giacomo Agostini e Valentino Rossi. Era ricoverato da inizio maggio per problemi respiratori. Ubbiali ha vinto in carriera nove titoli mondiali (sei nella 125 e tre nella 250) e otto titoli italiani, aggiudicandosi 39 corse iridate sulle 74 disputate. Nato nel 1929, bergamasco come Agostini, nella sua carriera ha duellato per lo più con Tarquinio Provini in un dualismo tutto italiano simile a quello tra Fausto Coppi e Gino Bartali nel ciclismo. A dicembre era stato insignito del Collare d'Oro al merito sportivo dal Coni, la più alta onorificenza conferita dal Comitato olimpico nazionale italiano.

Agostini: "Sognavo di diventare come lui". "Ho un grande ricordo di Ubbiali, avevo 10 anni quando vinceva tutto e sognavo di diventare come lui un giorno. E' stato per me un esempio, un incentivo e una fonte d'ispirazione. Un vero e proprio punto di riferimento" ricorda all'Ansa Giacomo Agostini. "Lui correva con la testa, da grande campione, con intelligenza e furbizia - aggiunge l'x campione -. All'epoca si vedeva poco in tv, leggevo le sue imprese sui giornali. Lo descrivevano con fosse un tutt'uno con la moto. Siamo accomunati dalla MV Agusta: quando ingaggiarono me chiesero informazioni sul mio conto a lui".

Addio "Volpe" Ubbiali. Sul podio del motomondo con Agostini e Rossi. Carlo Ubbiali si è spento a 90 anni. Era un calcolatore e il soprannome diceva tutto. Tra 125 e 250 ha vinto 9 titoli come Valentino. Ivan Scelsa, Mercoledì 03/06/2020 su Il Giornale. La sua caratteristica era quella di studiare i punti deboli dell'avversario durante le prime fasi di gara per poi attaccarlo nella seconda parte della corsa. Intelligente ed attento più alla classifica generale che alla singola vittoria, anche dopo aver lasciato le competizioni non aveva mai abbandonato il circo motociclistico in cui gli addetti ai lavori solevano indicarlo con quel nomignolo che per anni lo aveva accompagnato in pista come in strada. Se ne è andata così La volpe, per molti Il cinesino, altro simpatico soprannome attribuitogli dai numerosi sostenitori per le sue caratteristiche fisiche. Amava parlare delle sue avventure, Ubbiali. Lo faceva volentieri, snocciolando dalla valigia dei ricordi gli aneddoti legati agli episodi più celebri di quelle ardite e lunghe corse disputate tutte d'un fiato, con l'ago della lancetta del contachilometri sempre al limite. Dalla Coppa di Bergamo del 46 al Gran Premio delle Mura dell'anno dopo dove, in sella ad una motocicletta prestatagli dall'allora comandante della Squadra Mobile, ottenne il suo primo grande successo e che - ancora oggi - lo legava a quella rievocazione che si svolge sul circuito cittadino di cui, fatalità, proprio il 2 giugno 2019, fu per l'ultima volta applauditissimo ospite. Per i sostenitori che ogni anno attendevano il suo arrivo all'Historic Gran Prix, il vincitore restava comunque lui, nonostante quella sopraggiunta squalifica per aver corso da minorenne. Talento precoce, negli anni Cinquanta disputò importantissime gare, non solo nazionali. Seppe sempre mettere in mostra il suo innato talento, conquistando gli spettatori anche all'estero, sul durissimo circuito della Sei giorni del Galles, così come nel Gran premio dell'Ulster ed al Tourist Trophy, sull'Isola di Man. Alla Milano-Taranto del 1950, fu protagonista di una corsa rocambolesca intervallata da noie meccaniche ed altrettante, entusiasmanti, rimonte in classifica che lo portarono al traguardo della Città dei due mari stremato e sospinto dalla folla a causa dell'ennesima ed imprevedibile rottura. Sebbene quell'aiuto fosse giunto contro la sua volontà, anche in quel caso arrivò una squalifica. Il destino sembrava davvero essergli contro, ma dall'anno seguente invertì radicalmente quell'infausta tendenza, lanciandolo verso la conquista di nove campionati mondiali di velocità in sole dieci stagioni (otto i titoli nazionali) per un totale di 39 vittorie in 74 Gran premi disputati. Numeri da brivido, ottenuti in un decennio in cui le tragedie nelle competizioni su strada erano all'ordine del giorno. Passato dalla Mondial alla MV Agusta - a cui rimase legato fino al termine della carriera - decise di ritirarsi dopo la morte del fratello Maurizio, suo consigliere e tecnico personale. Lo fece anche per la voglia di sposarsi e tornare nella sua città e per la consapevolezza dell'inconciliabilità tra la vita di un pilota e quella del buon padre di famiglia. Insignito il 16 dicembre scorso della massima onorificenza sportiva rilasciata dal Coni, si è spento nella sua Bergamo, dove era ricoverato dallo scorso mese per problemi respiratori. Verrà certamente ricordato tra i piloti più vittoriosi di sempre, sul podio con Valentino Rossi e quel Giacomo Agostini che lui stesso introdusse alla corte del conte Agusta e che oggi lo ricorda commosso.

·        È morto Roberto Gervaso.

È morto Roberto Gervaso. A 82 anni dopo una lunga malattia si è spento Roberto Gervaso, co-autore della Storia d'Italia, giornalista e divulgatore. Francesca Galici, Martedì 02/06/2020 su Il Giornale. A 82 anni si è spento Roberto Gervaso. Lo scrittore e giornalista è stato per lungo tempo al fianco di Indro Montanelli, che lo portò al Corriere della Sera nel 1960. Dagli anni Settanta fino a oggi ha lasciato la sua firma su tutti i più importanti quotidiani nazionali, anche su IlGiornale, per il quale ha curato la rubrica Il Gervaso di Pandora. Si è spento a Milano dopo una lunga malattia. Ha tramandato la sua passione per il giornalismo e per il racconto a sua figlia Veronica, giornalista del Tg5. Ha legato il suo nome a una lunga fila di biografie di personaggi illustri ed è stato uno dei primi divulgatori storici del nostro Paese. Proprio insieme a Indro Montanelli i primi sei volumi della Storia d'Italia, una grandiosa opera in 22 volumi che racconta l'evoluzione del nostro Paese dalla caduta dell'Impero Romano d'Occidente in poi. A Roberto Gervaso si deve la lettura approfondita e la scansione dei fatti, con dovizia di particolari e maniacale precisione, dell'Italia dal Medioevo al Settecento illuminista. Proprio grazie a uno di questi volumi, che negli anni sono diventati un logseller che costituisce la spina dorsale della cultura storica italiana, Roberto Gervaso e Indro Montanelli hanno vinto il Premio Bancarella nel 1967. Il secondo Premio Bancarella, Roberto Gervaso l'ha vinto come solista per la sua biografia Cagliostro, nel 1973. Si è fatto conoscere al grande pubblico televisivo, che ha imparato ad amarlo per il suo garbo e la sconfinata cultura ma anche per il suo look sempre impeccabile, arricchito di volta in volta da un diverso papillon. Roberto Gervaso è stato un uomo di cultura e di parola, i cui aforismi hanno lasciato il segno in generazioni di lettori e appassionati, che ora si sentono un po' più soli senza il suo verbo. 300 diversi papillon e 100 cappelli Borsalino nell'armadio, oltre 200 donne amate e 25mila aforismi pubblicati. La vita di Roberto Gervaso in numeri è grandiosa, così come è stata la sua lunghissima carriera. Per sessant'anni ha raccontato l'Italia nelle sue sfumature come solo chi sa coniugare sapere e passione può fare. Il mondo del giornalismo è in lutto per la sua scomparsa, ma i ricordi per Gervaso giungono da più parti per il giornalista che, con ironia e sagacia, in punta di penna, è stato il Grillo Parlante d'Italia. Commosso ed elegante il saluto di sua figlia Veronica, che ha voluto ricordare suo padre con un tweet: "Sei stato il più grande, colto e ironico scrittore che abbia mai conosciuto. E io ho avuto la fortuna di essere tua figlia. Sono sicura che racconterai i tuoi splendidi aforismi anche lassù. Io ti porterò sempre con me. Addio". Tanti i messaggi di cordoglio che in queste ore si stanno susseguendo sui social e non solo. "Un grande giornalista, un uomo pieno di ironia. I suoi scritti con Indro Montanelli sono stati di insegnamento per tutti noi giovani redattori di allora. Riposa in pace, Roberto. Un abbraccio alla famiglia", così ha commentato Antonio Tajani la morte di Roberto Gervaso. Un messaggio di cordoglio anche da parte di Silvio Belrusconi che ha voluto ricordare l'"amico Roberto": "Quella di Roberto Gervaso è una grave perdita per me, per il giornalismo, per l'Italia. Roberto era un amico sincero e generoso, un grande scrittore ma soprattutto un uomo libero. Un uomo con il coraggio delle sue opinioni controcorrente, sempre garbato e signorile, colto e documentato. Mi mancherà, mancherà a tutti gli italiani liberi".

È morto Roberto Gervaso. Lo scrittore aveva 82 anni. Pubblicato martedì, 02 giugno 2020 da Annarita Briganti su La Repubblica.it. Si è spento a Milano dopo una lunga malattia. Aveva 82 anni. Celebre volto anche televisivo, firmò col fondatore del "Giornale" i primi sei volumi della popolarissima "Storia d'Italia". È morto a Milano a 82 anni, dopo una lunga malattia, lo scrittore e giornalista Roberto Gervaso. Autore di numerosi libri di successo, in particolare biografie di celebri personaggi, è stato tra i primi protagonisti della grande divulgazione storica in Italia. Lascia la moglie Vittoria e la figlia Veronica, giornalista del Tg5. E' stato anche un popolare personaggio della tv dove appariva sempre con il suo immancabile papillon ed era noto per i suoi aforismi. #robertogervaso Sei stato il più grande, colto e ironico scrittore che abbia mai conosciuto. E io ho avuto la fortuna di essere tua figlia. Sono sicura che racconterai i tuoi splendidi aforismi anche lassù. Io ti porterò sempre con me. Addio.— Veronica Gervaso. Roberto Gervaso era nato a Roma il 9 luglio 1937. Aveva studiato in Italia e negli Stati Uniti e si era laureato in lettere moderne, con una tesi sul filosofo Tommaso Campanella. Aveva collaborato a quotidiani e periodici, alla radio e alla televisione, e per decenni si è dedicato alla divulgazione storica, sua grande passione, come testimoniano decine di libri pubblicati da Rizzoli, Bompiani e Mondadori. Gervaso aveva iniziato l'attività giornalistica nel 1960 al "Corriere della Sera", presentato da Montanelli. Tra il 1965 e il 1970 ha firmato, insieme a Montanelli, i primi sei volumi della "Storia d'Italia" edita da Rizzoli, acquisendo grande notorietà. E' Gervaso ad aver curato con dettagliata precisione la scansione cronologica dell'Italia "dai secoli bui" del Medioevo a quella del Settecento illuminista e riformatore. Nel 1967, per uno di quei volumi, "L'Italia dei Comuni. Il Medio Evo dal 1000 al 1250", Gervaso e Montanelli vinsero il Premio Bancarella. Gervaso è poi tornato a vincere da solo il suo secondo Premio Bancarella nel 1973 con la biografia "Cagliostro" (Rizzoli; nuova edizione con il titolo "Il grande mago. Vita, morte e miracoli del conte di Cagliostro", Rizzoli, 2002).

Da repubblica.it il 2 giugno 2020. È morto a Milano a 82 anni, dopo una lunga malattia, lo scrittore e giornalista Roberto Gervaso. Autore di numerosi libri di successo, in particolare biografie di celebri personaggi, è stato tra i primi protagonisti della grande divulgazione storica in Italia. Lascia la moglie Vittoria e la figlia Veronica, giornalista del Tg5. E' stato anche un popolare personaggio della tv dove appariva sempre con il suo immancabile papillon ed è noto per i suoi aforismi. Roberto Gervaso era nato a Roma il 9 luglio 1937. Aveva studiato in Italia e negli Stati Uniti e si era laureato in lettere moderne, con una tesi sul filosofo Tommaso Campanella. Aveva collaborato a quotidiani e periodici, alla radio e alla televisione, e per decenni si è dedicato alla divulgazione storica, sua grande passione, come testimoniano decine di libri pubblicati da Rizzoli, Bompiani e Mondadori. Gervaso aveva iniziato l'attività giornalistica nel 1960 al "Corriere della Sera", presentato da Montanelli. Tra il 1965 e il 1970 ha firmato, insieme a Montanelli, i primi sei volumi della "Storia d'Italia" edita da Rizzoli, acquisendo grande notorietà. E' Gervaso che cura con dettagliata precisione la scansione cronologica dell'Italia "dai secoli bui" del Medioevo a quella del Settecento illuminista e riformatore. Nel 1967, per uno di quei volumi, "L'Italia dei Comuni. Il Medio Evo dal 1000 al 1250", Gervaso e Montanelli vinceranno il Premio Bancarella. Gervaso è poi tornato a vincere da solo il suo secondo Premio Bancarella nel 1973 con la biografia "Cagliostro" (Rizzoli; nuova edizione con il titolo "Il grande mago. Vita, morte e miracoli del conte di Cagliostro", Rizzoli, 2002).

«Io e il mio amico Roberto Gervaso». Francesco Damato su Il Dubbio il 5 giugno 2020. Lo attiravano le donne, le medicine e la sua macchina da scrivere. Ai politici, come Andreotti, faceva venire il fiatone: all’attico senza ascensore. A farmi conoscere Roberto Gervaso, che sino ad allora avevo soltanto letto soprattutto per i libri sulla storia d’Italia scritti con Indro Montanelli, fu la madre dello stesso Montanelli, l’indimenticabile Maddalena. Che gli voleva bene come a un secondo figlio. Dopo avermelo presentato mi volle incontrare di nuovo per chiedermi di tentare col figlio, di cui conosceva il rapporto stretto che si era creato fra di noi al Giornale fondato poco più di un anno prima, ciò che non era riuscito a lei: convincerlo ad assumere Roberto. Che moriva dalla voglia di seguirlo in quell’avventura con i fuoriusciti dal Corriere della Sera diretto da Piero Ottone, dei quali peraltro io non facevo parte, provenendo dal Giornale d’Italia. Ma non riuscii nella missione. E ciò non perché a Montanelli non piacesse il modo di scrivere di Gervaso, che d’altronde egli aveva praticamente portato al successo associandolo come autore dei suoi libri di divulgazione storica. Semplicemente non gradiva che Gervaso accreditasse in qualche modo, secondo lui, la voce che fosse un suo figlio segreto, tanto gli assomigliava nel fisico e nello stile. Quando, nel 1981, scoppiò quello che fu subito definito “lo scandalo della P2”- con la scoperta e la diffusione prima a singhiozzo e poi integrale, almeno nelle apparenze, delle liste della loggia massonica segreta di Licio Gelli, che comprendeva Gervaso non solo come affiliato ma anche come arruolatore- Montanelli liquidò la faccenda come una mezza pagliacciata. E, nel tentativo di rafforzare questa sua rappresentazione, presentò tutti quelli che ne furono coinvolti come gente sprovveduta più o meno in grembiulino,, a dispetto dei gradi che portavano da militari, delle funzioni che rivestivano nell’alta burocrazia o nella politica, e del successo nelle loro professioni di giornalisti, medici e altro ancora. Lo stesso trattamento toccò a Gervaso, che ne rimase molto amareggiato. E mi toccò ancora una volta, su sua diretta richiesta questa volta, di parlarne con Montanelli. Che però era già in difficoltà di suo perché con Gelli si era una volta incontrato – tanto segretamente che non se n’era mai saputo nulla per chiedergli una mano nell’apertura di una linea di credito al Giornale presso il Banco Ambrosiano, prima che Berlusconi ne diventasse editore risolvendo i problemi provocati dalla rottura dei rapporti con Eugenio Cefis. Grazie al quale il Giornale era potuto uscire. Pertanto solo a sentir parlare della delusione di Gervaso e del modo di rimediarvi Montanelli mi mandò quasi a quel paese. Gervaso, pur rimanendone un adoratore, si sentì quella volta davvero tradito, come un figlio dal padre. E mi toccò consolarlo in più di un incontro, finendo spesso anche per scherzarci sopra. Era accaduto che Roberto, di formazione orgogliosamente liberale, era stato colpito dall’anticomunismo professatogli da Gelli e, in un periodo in cui molti sembravano rassegnati a cedere al Pci, avesse involontariamente inguaiato un bel po’ di amici, fra i quali il direttore del Gr2 della Rai Gustavo Selva e Silvio Berlusconi. I quali, o convinti a iscriversi da lui o a loro insaputa, si trovarono in quelle maledette liste, con quali complicazioni vi lascio immaginare, visto che la P2 divenne sui giornali, prima ancora o diversamente dai tribunali, o nella commissione parlamentare d’inchiesta presieduta dalla ex ministra democristiana Tina Anselmi, la sentina della Repubblica: un’accolita di affaristi e carrieristi nella migliore delle ipotesi, di golpisti o aspiranti tali nella peggiore. Francamente, solo l’idea di un Gervaso golpista mi faceva ridere conoscendone le abitudini e le debolezze. Ad attirarlo, però più nelle parole che nei fatti, bastandogli ed avanzandogli la sua Vittoria, erano solo le donne, le farmacie per le malattie che immaginava di avere, la macchina da scrivere con cui sfornava pezzi e libri in quantità quasi industriale e le letture, particolarmente quelle di Seneca. Che egli consigliava a tutti gli amici, come ha appena testimoniato sul Messaggero anche il buon Enrico Vanzina. Non appena ebbi l’occasione di dimostrargli la considerazione e la simpatia che avevo per lui, non cambiando né l’una né l’altra nel frastuono della P2, lo feci ben volentieri. Lo associai, per esempio, ai commenti politici nella trasmissione televisiva dell’allora Fininvest “Parlamento in”, facendogli fare “il contrappunto” al mio “punto”. E, arrivato alla direzione del Giorno, nel 1989, gli affidai una rubrica nella pagina della cultura procurandomi però una giornata di sciopero della redazione, peraltro proclamato proprio la sera in cui ero a cena nel Varesotto col presidente dell’Eni Franco Reviglio, che era il mio editore. Pur di togliermi dall’imbarazzo, sapendo che ero pronto a dimettermi se fosse continuato il braccio di ferro col comitato di redazione, Gervaso affidò alle agenzie una lettera di rinuncia alla collaborazione. «Così avrebbe fatto Seneca», mi spiegò per telefono esprimendomi tutta la solidarietà “umana e professionale” per dover dirigere quella redazione, che certamente avevo solo ereditato. E che aveva scambiato i papillon di Roberto per armi improprie. Poi – ma troppo tardi ormai per convincerlo a ripensarci, e forse neppure abbastanza per far cambiare idea al comitato di redazione- il ministro in persona delle Partecipazioni Statali, il democristiano Carlo Fracanzani, definito “il conte rosso” nel suo collegio elettorale veneto, rispose alle interrogazioni parlamentari provocate dallo sciopero al Giorno riconoscendo, bontà sua, il diritto di Gervaso di collaborare ad un giornale di proprietà pubblica. L’ultima passione politica che ricordi di Roberto fu più passiva che attiva. Dei suoi aforismi, raccolti in articoli e libri sempre di grande successo, s’invaghì negli anni del primo centrodestra al governo Gianfranco Fini. Ciò aggravò in qualche modo il contenzioso con Berlusconi, che considerava Roberto un uomo suo. Ne aveva frequentato la casa molto prima di entrare in politica e di assumerlo nelle sue televisioni, arrivando anche lui col fiatone alle sue cene, come Giulio Andreotti, Antonio Bisaglia, Renato Altissimo e tanti altri. La casa romana di Gervaso, a pochi passi da Piazza del Popolo, era all’ultimo piano di un palazzo maledettamente privo di ascensore. E in una strada intitolata, malgrado il suo ostentato laicismo, a Gesù e Maria: cosa invece che Andreotti considerava provvidenziale anche per l’amico.

BIOGRAFIA DI ROBERTO GERVASO. Da cinquantamila.it – la storia raccontata da Giorgio Dell’Arti.

Roma 9 luglio 1937. Scrittore. Giornalista. Laurea in Lettere moderne. Collabora con Mattino e Messaggero. Iniziò al Corriere della Sera. Da anni conduce su Retequattro Peste e corna & gocce di storia, breve editoriale su fatti di costume o di attualità. Moltissimi libri tradotti anche all’estero. Grande intervistatore (domande e risposte brevissime). Divulgatore di biografie storiche (Cagliostro, Casanova, Claretta, Nerone ecc.). Celebre per i suoi aforismi.

«Vivevo a Torino con i miei genitori e con mia sorella e ho conosciuto, non dico la fame, ma il bisogno, gli stenti, che mi sono stati di grande insegnamento e hanno contribuito a plasmare il mio carattere. A scuola me la sono sempre cavata, ma la mia pagella era più irta di sei e di sette che di otto, di nove, di dieci. Un po’ meglio sono andato all’università, ma mi sono laureato a ventotto anni. E non perché battessi la fiacca, ma perché, a ventitré, con il viatico di Montanelli, entrai al Corriere della Sera. Ero reduce da un infelice viaggio negli Stati Uniti dove, con una borsa di studio Fulbright, avrei dovuto fermarmi due anni. Ma dopo soli tre mesi mi buscai un devastante esaurimento nervoso e dovetti rientrare in Italia. Al Corriere della Sera feci per un anno e mezzo il cronista di nera. Avevo i nervi a pezzi e atroci coliche renali, ma strinsi i denti e i pugni e mai cedetti alla tentazione di piantare tutto, di dire addio al giornalismo. Montanelli che – come me – ciclicamente soffriva di depressione, mi fu molto vicino. Quando si rese conto che non ce la facevo, ottenne il mio trasferimento a Roma, dove lui viveva con la moglie Colette. Io mi acquartierai a casa di mio nonno e delle mie quattro zie finché non mi emancipai e con i diritti d’autore del primo libro, L’Italia dei secoli bui, scritto a quattro mani con il grande Maestro, affittai una bellissima mansarda dietro piazza Navona. Più tardi conobbi Vittoria e ci sposammo. Lasciai il Corriere della Sera e scrissi su molti altri giornali, feci tanta radio e tanta televisione. Erano gli anni Settanta, la contestazione aveva lasciato nella società rovinosi strascichi di permissivismo e, insieme, d’intolleranza. Chi non militava a sinistra, era, ipso facto, di destra. E chi era di destra, non era un liberale, un conservatore, un moderato. Chi era di destra, era un fascista. Io, e non per eroismo, ma per temperamento, non abiurai la mia fede politica e questo mi valse le censure e gli anatemi di molti colleghi».

Con Montanelli ha scritto i primi sei volumi della Storia d’Italia (Rizzoli). Da ultimo per Mondadori Lo stivale zoppo. Una storia d’Italia irriverente dal fascismo a oggi (2013).

Presidente onorario dell’Esda (European sexual dysfunction alliance).

Il suo nome era nella lista della P2 e Berlusconi sostiene che fu proprio lui a presentargli Licio Gelli.

Indossa sempre e solo il papillon.

Vegetariano per anni («perché lo era mamma»): «Fosse libero (da dieta e medicine), Gervaso un cucchiaio lo affonderebbe nella nutella, l’altro nel gorgonzola “o nello squacquerone, ha presente?”. E invece i piaceri quotidiani sono “una bella mela renetta, però matura, una banana per il potassio, del radicchio o della cappuccina, riso o pasta integrale, formaggio poco, spesso uova, ceci, lenticchie”. Si pregia però della compagnia risorgimentale: “Mazzini era vegetariano certo, sempre pallido, però suonava la chitarra, Garibaldi non credo proprio. Sono frugale come Montanelli che, magari pochi bocconi, apprezzava pure la fiorentina”» (Giovanna Cavalli) [Cds 12/2/2009].

Dalla moglie Vittoria ha avuto una figlia, Veronica (Roma 13 gennaio 1974), giornalista a Mediaset.

Giampiero Mughini per Dagospia il 3 marzo 2020. Caro Dago, leggo le (numerose) commemorazioni di Roberto Gervaso, tutte intinte nel brodo della commozione e dell’ammirazione per questo specialissimo personaggio, e allibisco. Dio come cambia il mondo, e come nessuno si ricorda più com’era e chi era vent’anni fa. Quando avevo sfiorato per la prima volta Roberto e la sua squisitissima moglie Vittoria. Pur così distanti i nostri rispettivi trascorsi umani e professionali, avevo per lui nient’altro che simpatia e a parte i bellissimi Borsalino che lui sfoggiava. Avevo letto solo un paio dei libri scritti da Gervaso in accoppiata con Montanelli (libri scritti da lui al 90 per cento), perché quelli non erano il mio genere. Avevo invece apprezzato il libro sacrosanto su Claretta Petacci, una donna che seguì il proprio uomo sino al fondo dell’abisso. Quanto alle sue interviste pubblicate sui giornali – quelle interviste pungenti, incalzanti, tutto sugo – andavano giù come un bicchiere di seltz al limone. Ma soprattutto c’era che me ne strafottevo altamente che lui fosse stato iscritto alla P2, per la carriera si fa questo e altro e tutti del resto hanno fatto e fanno questo e ben altro. (Lo dice uno che smise di andare a giocare a ping-pong all’Ymca perché mi avevano chiesto di iscrivermi, e io non mi sono mai iscritto a nulla.) E questo è il punto cruciale. Perché vent’anni fa Roberto era schivato come fosse un lebbroso, e del resto un giorno andrà fatta la storia del cannibalismo con cui alcuni giornalisti “politicamente corretti” divorarono alcuni giornalisti rivali, e ne furono drammaticamente stroncati i destini professionali di alcuni galantuomini, da Roberto Ciuni all’ex direttore del Corsera Franco Di Bella. Gente su cui venne tatuata l’ombra dello spregio, del rifiuto umano e professionale. Roberto uno di questi. Ripeto, io me ne strafottevo che lui fosse uno di quegli iscritti e i nostri rapporti non ne furono condizionati neppure un po’. Tanto che Roberto aveva un suo libro in uscita e mi chiese di andare in non ricordo quale circolo romano a presentarlo. Cosa che feci senza esitare, io che di solito scanso le presentazioni dei libri a cominciare dai miei. Me lo ricordo come se fossi ora. Mi alzai a dire che avevo stima e simpatia umana per Roberto. Non so quanti altri lo avrebbero fatto in quel momento. Non credo tanti quante sono le dita di una mano. Vent’anni fa, ahimè quanto diversi da oggi. Addio, Roberto.

Valeria Arnaldi per ''Il Messaggero'' il 7 giugno 2020. La piazza assolata. Il dolore coperto - non nascosto - dalle mascherine. I molti amici di una vita, anche noti, in fila in attesa di entrare per l' ultimo saluto. Poi, all' uscita, l' applauso, tra sguardi evidentemente commossi, ma senza lacrime per omaggiare il suo gusto per il sorriso, alimentato da ironia, intelligenza, cultura.

LE REGOLE. Roma ha salutato così ieri lo scrittore e giornalista Roberto Gervaso, scomparso martedì scorso. I funerali, alla basilica di Santa Maria in Montesanto, Chiesa degli Artisti, in piazza del Popolo, si sono tenuti secondo le regole dettate dall' emergenza sanitaria: ingresso contingentato, distanziamento, misurazione della temperatura. Misure imposte e rispettate che, paradossalmente, hanno reso ancora più visibile il desiderio di essere insieme, vicini seppure fisicamente distanti. A far sentire il loro affetto alla moglie Vittoria, alla figlia Veronica e ai nipoti sono stati numerosi volti noti di politica, spettacolo, informazione.

GLI AMICI. «Era un fuoriclasse assoluto - ha commentato Enrico Vanzina - coltissimo, intelligentissimo, rispettoso, spiritosissimo, mai maligno, aveva un atteggiamento da filosofo. Quando mio fratello stava morendo, mi citava aforismi di Seneca». Era «Un intellettuale vero e un amico» per Renzo Arbore: «Mi stupiva ogni volta con i suoi aforismi straordinari. E ha scritto dei libri bellissimi e interessantissimi che divoravo. E stato uno storico che con Indro Montanelli ha divulgato la storia d' Italia». Pier Francesco Pingitore ha raccontato le molte risate fatte insieme: «Prendevamo sempre in giro tutti per scherzare, mi mancherà molto». Intenso anche il ricordo della politica. «Per noi giovani giornalisti - ha detto l' europarlamentare Antonio Tajani - Gervaso era, un esempio. Era un uomo libero come dovrebbero essere tutti gli uomini e soprattutto tutti gli uomini di cultura». Era «un vulcano di amicizia, di generosità e di cultura», per il senatore Maurizio Gasparri.

LA SCRITTURA. «Un genio anarchico, aveva una capacità di scrittura straordinaria, è sempre stato un battitore libero», secondo l' ex deputato Fabrizio Cicchitto. In chiesa pure Simonetta Matone, Aurelio Regina, Corrado Calabrò, Andrea Monorchio. Presenti Franco Bechis, Roberto Napoletano, Pierluigi Diaco. Senza dimenticare Francesco Romeo, Francesco Cognetti, Antonio Garcovich. E Giucas Casella. Il rettore della Basilica, don Walter Insero, che ha celebrato la messa, ha ritratto l' uomo oltre il personaggio noto, soffermandosi sull' amore per la moglie, «edificante», sulla sua capacità di essere un «padre presente», sull' affetto per gli animali, in particolare per la sua cagnolina Lola, portata dai familiari in chiesa. «L' amore è eterno finché dura affermava Gervaso», ha ricordato Insero, sottolineando come, con la sua vita, lo scrittore abbia dimostrato che in realtà il sentimento va ben oltre.

L' USCITA. Ad accompagnare il feretro all' uscita, un lungo applauso. Dopo la funzione, alcuni amici si sono attardati in piazza, quasi a voler prolungare l' addio. Un volo di passeri tra le colonne della basilica si è fatto sollecito per la memoria: «M' accorgo del cielo infinito - diceva Gervaso - solo se una rondine ne percorre un tratto».

Intervista di Luigi Mascheroni per il Giornale pubblicata da Dagospia il 9-7-2017. Roberto Gervaso. Trecento papillon, cento cappelli («tutti Borsalino, li porto sempre. Un po’ per proteggermi, un po’ per vezzo»), duecento donne amate («tu selezioni molto? Io per niente: ho preso di tutto nella vita, duchesse e commesse, miss e bruttine, anche una teologa, anche una zoppa, anche una balbuziente che ritrovava la parola solo a letto...»), una moglie bellissima («che in un momento di distrazione si è invaghita di me»), una figlia («fa la giornalista...»), tre nipoti («è come avere l’Isis in casa»), quattro case tra Milano, Palermo, Roma e la campagna romana - dove passa l’estate e lo incontro - un domestico filippino che canta magnificamente i Platters, un formidabile elenco di malattie («ne ho avute tante, ora ne ho ancora di più»), un Himalaya di medicine sparse per la villa («vuoi qualche goccia di Lexotan?»), tre depressioni devastanti («a 23, 34 e 70 anni, in tutto mi hanno portato via dieci anni di vita»), una vita vissuta «in uno stato di inquietudine perenne», sessant’anni di carriera tra quotidiani, settimanali, radio e tv, duemila interviste entrate nella storia del giornalismo, 25mila aforismi usciti dalla sua intelligenza, 52 libri pubblicati («più uno in arrivo, a ottobre, un pamphlet sulla storia d’Italia dell’ultimo mezzo secolo, titolo: Che palle!») e ottant’anni compiuti oggi.

Auguri, Robertino. «Robertino mi chiamava Montanelli. Gli devo tutto: andai apposta a Roma per conoscerlo, il mio regalo della "maturità", era il ’56, quando leggevo e ritagliavo tutti i suoi pezzi. Mi prese a ben volere: mi fece entrare al Corriere d’informazione, poi al Corriere della sera, mi fece scrivere con lui sei volumi della Storia d’Italia, per la quale mi associò - per i diritti d’autore - al 50 per cento, quando al massimo avrei dovuto avere il 15...

A proposito: sai quanto abbiamo venduto? Diciotto milioni di copie... Comunque. Mi ha aiutato a diventare inviato, per anni mi ha ospitato a casa sua o al ristorante a colazione, mi ha insegnato tantissimo in questo mestiere. Mi voleva così bene...».

Che a un certo punto iniziò a girare la voce che tu fossi suo figlio.

«Aveva 28 anni più di me, ero magro come lui. Ci stava... Io l’ho sempre trovata una cosa divertente».

E lui?

«Con lui non ne abbiamo mai parlato. Però una sera mia moglie fece una cena, a Palazzo Visconti, a Milano. Una cosa sontuosa. C’erano tutti quelli che contavano, per capirci. A un certo punto si avvicina al mio tavolo Maria Gabriella, la figlia di Maria José, l’ultima regina d’Italia, con la quale Montanelli ebbe una relazione, si conobbero a Cortina... Insomma, guardando mia moglie, mi abbraccia e dice: “Ecco Roberto, mio fratello...”. Ci scherzava anche lei sul fatto di essere figlia di Indro. Nel suo caso può essere. Nel mio, una cosa su cui ridere. Come ho sempre fatto: su tutto».

La vita è una commedia?

«Che finisce in tragedia. Ma che ha momenti farseschi e altri drammatici».

Hai avuto tanto dalla vita.

«Ma ho dato tutto. Ho voluto fortissimamente il successo, per ambizione e per vanità, però ho pagato fino all’ultimo centesimo. E con la moneta più pesante: la salute. Forse è giusto così. Se dovessi scegliere una religione...».

Ma se sei ateo...

«No. Deista, agnostico, laico, scettico, un po’ cinico. Ma non ateo».

Continua. Se dovessi scegliere una religione...

«Sceglierei il buddismo. Dalla vita riceviamo tutto ciò che le diamo. Il paradiso non lo so. Ma l’inferno lo scontiamo in terra. Lo sapevano bene il dottor Schweitzer o madre Teresa di Calcutta... Ecco. Tornando indietro, farei il missionario. Ma lo dico oggi, a ottant’anni. Quando ero giovane mi mancava la vocazione.Meglio così. Avrebbe contrastato la mia ambizione».

Se quando si è giovani non si sa cosa fare nella vita, si finisce per fare o il politico o il giornalista. L’hai detto tu.

«Sì, perché sono due dilettantismi. Il giornalismo ha il merito di farti approfondire la superficialità degli altri, la politica il demerito di corrompere la tua onestà». Tu hai scelto il giornalismo. «Io volevo arrivare. E sono arrivato».

Dove?

«All’ultima fase della vita. Nella prima devi guardare avanti. Nella seconda in alto. Poi, a un certo punto, devi guardarti dentro. Io sono arrivato qui».

Sei partito ottant’anni fa. Nato a Roma, 9 luglio 1937, sotto il segno del Cancro.

«E dell’improvvisazione».

Hai studiato in Italia e negli Stati Uniti.

«Con molta svogliatezza e poco profitto».

Ti sei laureato in Lettere moderne.

«Immeritatamente».

Hai fatto: cronista, inviato, intervistatore, editorialista, commentatore, conduttore radiofonico e televisivo... Cos’è il giornalismo?

«Quello di ieri era una forte inclinazione, forse addirittura una vocazione. Con un suo codice morale, un’etica civile, un rispetto per il lettore ma anche per il fattorino. Ed eleganza: io andavo in redazione in blazer grigio, dando del lei ai superiori e accettando le critiche. Una missione. Una vita da certosino, come mi aveva detto Indro all’inizio. Scrivere e leggere, leggere e scrivere. Mai fatto parte di un sindacato, mai votato, mai lanciato proclami, mai firmato appelli. Solo i miei pezzi».

E il giornalismo di oggi?

«È diventato un lavoro che tendenzialmente esclude la cultura. I giornalisti di oggi, a parte quelli culturali, non leggono nulla. Un mestiere che ti fa sentire molto più importante di quello che sei in realtà, che tifa guardare continuamente l’orologio, che ti fa cercare ciecamente quel colossale imbroglio che è lo scoop... È un giornalismo che è stato soggiogato alle ideologie. Non nel senso che i giornalisti abbiano delle ideologie, ma nel senso che le hanno sdoganate per fare carriera, perdendo il bene più prezioso: l’indipendenza. Da qui, l’omologazione dei giornali e dei giornalisti. Tutti uguali».

Tu, per distinguerti, hai inventato un genere. Domande fulminati, risposte rapidissime. Hai intervistato mezzo mondo. E nei ritagli di tempo, non senza irriverente indulgenza, anche te stesso.

«Tutti dicono che la cifra delle mie interviste sia la brevità, che è figlia della chiarezza. Vero. Ma l’essenza è la volontà di non annoiare. L’intervistatore non deve mai annoiare l’intervistato, e l’intervistato deve divertire l’intervistatore. Se le due cose accadono, escono delle belle interviste».

La tua più bella?

«A Georges Simenon. Andai a trovarlo a Losanna, dopo che gli era morta la figlia, la quale aveva per lui una devozione passionale che rasentava l’erotismo. Aveva abbandonato un borgo tutto suo - dove viveva con uno stuolo di cameriere, segretarie, governanti, tutte donne, tutte che avevano sottoscritto un contratto in cui accettavano di avere rapporti sessuali con lui in qualsiasi momento della giornata - per trasferirsi, con la terza moglie, in una casetta a schiera. Non faceva più nulla, se non dettare le sue memorie. Mi fece vedere il passaporto. C’era scritto: “Georges Simenon. Pensionato”. Gli chiesi perché questa scelta. Mi rispose: “Perché nella vita, con gli anni e i dolori, ti accorgi che le cose importanti sono poche. E le superflue ti distraggono da quelle essenziali”. Detto da uno che ebbe novemila donne in vita sua... Comunque, bella intervista».

La più brutta?

«A Coretta King, vedova di Martin Luther King. Maleducata, insolente, razzista. Essendo io bianco, mi trattò come un negro. Mi girò le spalle per tutto il tempo del nostro incontro, sbocconcellando arance. La minoranza che si era emancipata, ora doveva dimostrare la propria superiorità. Patetico».

La più inutile?

«Ad Anastasio Somoza, dittatore del Nicaragua. Fui l’ultimo a intervistarlo prima che fosse cacciato, e poi ucciso. Mi offrì l’ananasso più buono che abbia mai mangiato. Ma mi raccontò solo bugie. Propaganda e nient’altro. Mi diceva che il Nicaragua era felice sotto di lui...»

L’intervista che avresti voluto fare e non hai fatto?

«A Nixon, il migliore presidente che l’America abbia mai avuto, e a Deng Xiaoping, senza il quale la Cina moderna non sarebbe mai nata. Due statisti giganteschi. Ma che non mi hanno dato l’intervista».

Un’altra a che faceva grandi interviste era Oriana Fallaci.

«Giornalista più passionale che appassionata. Più spericolata che coraggiosa. Più ambiziosa che imparziale. E comunque aveva il difetto di intervistare prima se stessa, poi il suo interlocutore. Le sue domande era lunghissime, anche più della risposta. Molto furba. Una volta incontrai William Colby, già direttore della Cia negli anni Settanta. Era furente con la Fallaci: diceva che lei gli aveva mandato delle domande, lui aveva risposto, e poi lei aveva pubblicato l’intervista con delle domande diverse, cambiate all’ultimo. Lui ne usciva massacrato».

Litigaste, tu e la Fallaci.

«La intervistai per un libro. Ma il Corriere della sera, per cui lavoravo, prima che uscisse in volume fece un’anticipazione dell’intervista sulla Terza pagina. Lei fece la matta. Telefonò a Tassan Din, il direttore generale di Rcs, urlò, sbraitò, minacciò di querelarmi...».

E perché?

«Che ne so? Forse una paginata non le bastava. Voleva un’edizione speciale».

L’unica giornalista più egocentrica di te.

«Sì, ma lei non aveva il sense of humour».

Il sense of humour è la tua più grande virtù?

«Insieme al senso del dovere. Almeno credo. Ah: e il rispetto per il lettore. Mai farlo sentire ignorante. Bisogna raccontargli le cose che non sa, e spiegargliele senza spocchia. Me l’ha insegnato Montanelli. Prima lezione, e anche l’ultima che mi ha dato, e non era neanche sua perché la rubò a un formidabile premio Pulitzer, Webb Miller: “Robertino, ricordati: scrivere facile è difficilissimo. Scrivere difficile, quello sì è molto facile. Stai attento”».

Montanelli è stato il più grande giornalista italiano?

«No. Il più grande giornalista del secolo è stato Longanesi. Lo diceva Indro stesso. Leo Longanesi è stato colui che ha influenzato maggiormente il nostro giornalismo nel Novecento, così come Prezzolini colui che ha segnato maggiormente la cultura, anche più di Benedetto Croce».

E il giornalista più insopportabile?

«Eugenio Scalfari. Il principe dei moralisti, cioè coloro che condannano negli altri, per meglio nasconderli, i propri vizi. E poi ha fatto la cosa peggiore che può fare un giornalista. Ideologizzare il proprio mestiere».

Il giornalista più simpatico?

«Giancarlo Fusco. Una sera eravamo a cena. Anni ’60. Un ristorante in via Doria, a Roma. Iniziò a discutere con la sua compagna, della quale era gelosissimo, su Rodolfo Valentino. Lei diceva fosse un grande amatore, lui un frocio. Litigarono così violentemente che si dovette chiamare la polizia. Era matto, ma irresistibile. Andava sempre in giro con la pistola. Una notte credette di vedere la sua donna baciare un altro di nascosto. Sparò in aria. Poi si scoprì che l’altro era il direttore della Fao, a Roma, e la donna la sua amante, probabilmente... Raccontava un sacco di balle, ma le raccontava così bene che se ti avesse raccontato la verità non sarebbe stato così divertente».

E i politici? Il più divertente che hai incontrato?

«Almirante. Ma il più simpatico Andreotti».

E il più antipatico?

«Marco Pannella, ma non perché insopportabile. Perché logorroico. Era un amico, ma quando dovevo intervistarlo tremavo. Era incontenibile, un divagatore continuo, parlava parlava e io non concludevo niente...».

Differenze fra la politica di ieri e quella di oggi?

«Ieri era una professione, oggi una carriera. Fanfani quando era presidente del Senato aveva sempre a portata di mano 5 o 6 cravatte da prestare ai colleghi prima di entrare in aula, quando vedeva degli abbinamenti che non riteneva abbastanza eleganti. Oggi, tu la vedi la gente che va in Parlamento? È una classe politica sbracata, volgare, ignorante, impresentabile. La politica è sempre stata un affare da puttane. Ma ieri almeno era una casa di appuntamenti di lusso, oggi un bordello da suburra».

E gli italiani che stanno in mezzo?

«Hanno le stesse colpe dei politici. Sono loro a sceglierli. E sono uguali a loro. Trovami un italiano in mezzo a centomila che, se non fosse al loro posto, non si comporterebbe allo stesso modo, tra privilegi, ruberie, impunità. La politica italiana è questa, perché questi sono gli italiani. È un Paese che sta in piedi solo perché non sa da che parte cadere».

A destra o a sinistra?

«La sinistra è finita con Mussolini, e la destra anche. Quando diresse l’Avanti! era la vera sinistra, e quando fondò i fasci di combattimento la vera destra».

Dopo?

«Togliatti e De Gasperi, per breve tempo, hanno illuminato la sinistra e la destra. Dopo di loro ci sono stati solo professionisti della politica, alcuni abilissimi, come Andreotti, Craxi e Almirante. E per il resto arruffoni e arraffoni. I politici della prima Repubblica non erano santi, ma avevano decoro. Questi di oggi neanche la decenza».

E Silvio Berlusconi?

«Cosa c’entra Berlusconi. Lui è un imprenditore, e anche diverso dagli altri: ogni imprenditore vende l’arrosto. Ma lui lo vende anche ai vegetariani. Però non è un politico. Semmai un uomo di potere, che è diverso. Ha sempre rifiutato i tatticismi, le astuzie, le meschinerie della politica. Lui non esclude nessuno per principio. Perché i suoi prodotti, come le sue idee, li vuole vendere a tutti. In questo è un liberale modello».

E tu, cosa sei?

«Un conservatore anarchico. Conservatore perché voglio conservare quello che c’è di buono. Anarchico perché non accetto imposizioni. Ma rispetto le leggi e le istituzioni. Sono un ribelle, ma preciso».

Ribelle, preciso, pignolo, libertino, sarcastico, primadonna anche a riflettori spenti - sulla scena come in camerino -, Roberto Gervaso tiene in esercizio la propria intelligenza pensando il contrario di quello che dice. E a volte, viceversa. L’anticonformismo è il suo habitus, l’aforisma la sua complessità, il paradosso la sua logica, la battuta il suo asso nella manica. Rigorosamente di camicie Brooks Brothers. Ha passato una vita a parlare della sua paura della morte. E ora i discorsi sulla morte sono la sua ragione di vita. Intervistatore princeps che adora farsi intervistare - interviste modello confluite editorialmente in una trilogia otorino-laringo-oftalmica:Il dito nell’occhio (1977), La pulce nell’orecchio (1979), La mosca al naso (1980) – Gervaso offre risposte che con il punto interrogativo sarebbero meravigliose domande. Botta e ripensa: a domanda, risponde.

Lo sventurato, domanda: e la P2?

«Nessuno mi chiese niente e io non ho chiesto niente a nessuno. Presentai io Berlusconi a Licio Gelli: non accadde niente. Non mi sono neanche pentito, perché non c’è niente di cui pentirsi. Sono stato uno dei pochissimi ad ammettere l’iscrizione, e dissi che non avevo nulla contro la massoneria. Mi hanno demonizzato. E in malafede».

Per anni, al Corriere della sera, ancora sotto la direzione De Bortoli...

«Un coniglio azzimato. No: scrivi “volpe azzimata”, non vorrei querelasse».

... ancora sotto la direzione De Bortoli al Corriere non si potevano recensire i tuoi libri...

«Ipocriti. Proprio loro, che avevano un direttore iscritto alla loggia».

L’occhiuto Raffaele Fiengo, membro del comitato di redazione, proibì che fosse anche solo citato il tuo nome sulle pagine del Corriere. Me l’ha detto un vecchio redattore.

«Fiengo. Il mastino della Lubjanka di via Solferino».

Perché il Corriere precipitò così a sinistra?

«Chiedilo all’editore di allora, Giulia Maria Crespi. Fu lei la regista di quella operazione suicida. Magari ti risponde. O forse no. Non ha abbastanza intelligenza per capire quanta gliene manca».

I tuoi aforismi. Tutti copiati dai peggiori luoghi comuni degli italiani. Quanti nei hai scritti?

«Venticinquemila».

Il più bello?

«L’amore senile comincia col matrimonio».

Hai amato molto?

«Amato-amato, poco. Desiderato tanto».

Cosa desideri, adesso?

«Leggere le uniche cose che vale la pena leggere: Seneca, Ovidio e Voltaire. E scrivere le uniche cose che vale la pena scrivere: i miei articoli di giornale».

Montanelli sognava di morire avvolto nell’edizione straordinaria del giornale. Tu?

«Mi basta quella quotidiana».

Ho fatto una ricerca d’archivio. La domanda che hai posto più volte ai tuoi intervistati è stata: «Cos’è per lei la morte?». Risposta?

«O un ponte o un abisso. Cioè: un passaggio verso qualcosa d’altro oppure un precipizio nel nulla. Spero la prima. Ma temo la seconda».

·        È morto Tinin Mantegazza, creatore del pupazzo Dodò dell'Albero azzurro.

È morto Tinin Mantegazza, creatore del pupazzo Dodò dell'Albero azzurro. Pubblicato lunedì, 01 giugno 2020 da La Repubblica.it. Scrittore, pittore e scenografo, protagonista di spicco del teatro per ragazzi, illustratore e autore di libri per l'infanzia, nonchè inventore delle "telefiabe". È morto a 89 anni a Cesenatico Tinin Mantegazza, celebre per aver creato l'uccello Dodò, pupazzo protagonista della storica trasmissione per bambini della Rai L'albero azzurro, che quest'anno festeggia il trentennale. Mantegazza, di origini milanesi, ma che dagli anni '90 abitava nella cittadina della costa romagnola, in una casa-studio con vista sul porto, era stato ricoverato per un malore all'ospedale Bufalini di Cesena. Un anno fa il Comune di Bagnacavallo (Ravenna) gli aveva dedicato una mostra, Le sette vite di un creativo irriverente, in collaborazione con la Fondazione Tito Balestra onlus e Accademia Perduta/Romagna Teatri, per ripercorrere la sua carriera artistica e le invenzioni con cui ha segnato la cultura italiana dal secondo dopoguerra ad oggi. Dagli anni ’50 aveva iniziato la sua collaborazione come illustratore con le redazioni de La Notte e del Corriere dei Piccoli e sempre in quegli anni aveva aperto una piccola galleria d’arte, La Muffola, dove accanto alle mostre di artisti come Luzzati, Pericoli, Rossello, Ceretti ed altri si esibivano giovani attori e cantanti quali Enzo Jannacci, Giorgio Gaber, Paolo Poli, Cochi e Renato e Bruno Lauzi, fino all'esperienza dello storico Cab '64. Con la moglie Velia ha iniziato a costruire pupazzi e ad animarli in forme originali per spettacoli teatrali e televisivi, fondando anche il Teatro del Buratto. Mantegazza, instancabile mente creativa, ha saputo spaziare con capacità e disinvoltura dal giornalismo alla regia, dalla tv all'animazione culturale, all'organizzazione teatrale, fra le sue realizzazioni più note al grande pubblico c'è anche il celebre "sig.Toto" delle schede di approfondimento di Enzo Biagi. Nel febbraio dello scorso anno era stato festeggiato al Museo della Marineria di Cesenatico per il suo compleanno e aveva presentato l'ultimo libro di racconti, Restituiamo Roma al Vaticano (con tante scuse), edito da Corsiero.

Marco Giusti per Dagospia l'1 giugno 2020. Milano, la Milano perbene e meravigliosa degli anni ’60, quella di Enzo Jannacci, di Cochi e Renato, della prima Rai e del Derby Club, di giornali mitici come “La Notte” e “Il Giorno”, perde uno dei suoi più creativi e fantasiosi abitanti. Scrittore, cabarettista, pittore, disegnatore, pupazzaro, creatore di qualcosa come 2000 personaggi per la tv dei ragazzi con la moglie Velia, tra cui il popolarissimo Dodò, volatile dal becco giallo e corpo a pois dell’Albero Azzurro, se ne va in quel di Cesenatico, dove era andato a vivere da anni, Tinin Mantegazza, ligure, nato a Varazze, ma milanese da quando aveva sei anni. Tanto milanese da poter ricordarsi di aver visto gli anni più bui di Milano, tra bombardamenti, angoscia e fame. “Con la paura che la gente potesse tradirti”, dirà recentemente. “Il mio maestro elementare fu uno dei 15 martiri fucilati a piazzale Loreto. Avevo 12 anni, un vero trauma». Una mattina presto il padre sente un frastuono per la strada, scende, col cappotto sul pigiama, portandolo con sé e così vede la testa della Petacci morta sul grembo del Duce. Suo padre morirà nel 1947 quando ha solo 15 anni. Nella Milano del dopoguerra, il suo primo lavoro fu “decorare gli stand della fiera campionaria che cominciava a rinascere. Nel dopoguerra, quando aprirono locali come il Santa Tecla o l' Aretusa dove si suonava jazz, andai a decorare le pareti con dei giovani pittori: Enrico Baj, Joe Colombo, Sergio d'Angelo. Fondammo un gruppo, Pittura Nucleare, e in seguito diventammo amici di Fontana e Sassu». Contemporaneamente disegna per “La Notte” di Nino Nutrizio. “Riempivo gli spazi vuoti con disegni. Poi venni assunto al Giorno, dove facevo di tutto”. Disegnatore e scenografo, apre a Milano con la moglie Velia una piccola galleria d’arte in via Lentasio, chiamata “La Muffola”. “Esponevamo disegni e ceramiche con scarso senso degli affari, ma con un certo successo di pubblico, soprattutto perché la sera ospitavamo artisti dello spettacolo più o meno noti e si consumava grappa delle Cinque Terre». E’ lì che arrivano musicisti e artisti comici come Bruno Lauzi, Cochi e Renato, Giorgio Gaber, Enzo Jannacci… Così nel 1964, a 33 anni, dopo essere stato cacciato dall’Osteria del Pomé, fonda il Cab 64, in via Santa Sofia, che definisce non più di uno scantinato di un bar. “Non avevamo una lira”, dirà “bisognava farci il bagno e Bruno Lauzi anticipò il denaro per il gabinetto. Così potemmo aprire. Io, mia moglie Velia, Lauzi, Cochi e Renato, Gino Negri, grande compositore, in cooperativa. Si faceva cabaret tutte le sere, Paolo Poli si esibì con il suo Santa Rita da Cascia.” Troviamo gli stessi artisti che saranno poi lanciati dal Derby. E’ lì che si presentano per la prima volta Cochie Renato, 2.500 lire a testa di paga. Ma presto Jannacci se li portò al Derby (“he pagava di più”). O Felice Andreasi, che arriva a Milano nel 1965. O Jacques Perrotin con le sue favole sonore. Qualcosa dell’atmosfera del Cab 64 ritroviamo nelle serie di caroselli “Club 18” dell’Amaro Isolabella tra il 64 e il 66, dove vediamo esibirsi proprio Jannacci e Toffolo presentati da Alberto Lupo e Marilù Tolo. Lavora moltissimo per la Rai, assieme a Velia, fin dagli anni ’60, con registi come Guido Stagnaro e Beppe Recchia. Tinin inventa personaggi e storie e Velia li costruisce e anima. Ricordiamo “Il bosco degli Animatti”, “Il giro del mondo in 80 giorni” o “Cappuccetto a pois” per la tv svizzera. Ci sono intere generazioni che hanno passato l’infanzia coi pupazzi dei Mantegazza. Si inventa assieme al cantante Franco Franchi nel 1969 un famoso “La filibusta”, dove troviamo Elio Crovetto, Donatello Falchi, Sergio Renda, Gianni Magni, tutto girato negli studi di Milano. In ogni puntata compariva un cantante celebre: Bobby Solo, Fred Bongusto, Leonardo, Herbert Pagani, Arturo Corso, Nino Ferrer, Enrico Maria Papes e il complesso dei New Trolls. Per “I viaggi di Gulliver”, 1969, scritto da Umberto Simonetta e Vaime, Tinin e Velia si inventano i pupazzi, e contemporaneamente fanno teatro militante a Milano, “La Duceide”, cioè il fascismo spiegato ai bambini. Nel 1970 si butta in una nuova impresa, fondando il Teatro Verdi. «Era una sala da biliardo. Cercavamo un posto per fare teatro per le scuole, e la sera ospitavamo i teatranti che non avevano casa. L' Elfo ha cominciato al Verdi, Salvatores ha debuttato lì». Nello stesso anno fonda con Velia anche “La compagnia del Buratto”, per portare avanti il teatro per i più piccoli. Ma seguita col teatro militante con lo spettacolo “Stretta la foglia, larga la via, dite la vostra con l’autopsia”, 1972, con testi di Tinin e Gino Negri e attori come Edmondo Aldini e Duilio Del Prete. La Milano dei primi anni ’70 è piena di teatri e compagnie alternative, il Pier Lombardo, l’Elfo, il CRT, Il Teatro Officina. Al Teatro Verdi, Tinin portò avanti coraggiosamente l’idea di uno nuovo tipo di Teatro per ragazzi. Tra gli spettacoli più importanti ricordiamo “Il gran buffone”. “Pierino e il lupo”, “Histoire du soldat”, che finì addirittura alla Scala. Scrive, assieme a Guido Davico Bonino, la riduzione per un “Nel mondo di Alice” diretto per la Rai da Guido Stagnaro nel 1974 con le musiche dei fratelli Reverberi, pupazzi e animazioni di Velia e un cast prestigioso che va da Milena Vukotich a Duilio Del Prete, da Franca Valeri a Bruno Lauzi, da Ave Ninchi a Ricky Gianco. E’ a metà degli anni ’80 che inventa il suo personaggio più famoso, il cucciolo di volatile Dodò per la trasmissione per ragazzi “L’Albero azzurro” che verrà in gran parte diretta i primi anni dalla moglie Velia negli studi Rai di Torino. Dentro a Dodò, realizzato da Natale Panaro, è l’attrice Francesca Paganini. Nello stesso periodo, più o meno, lo chiama Enzo Biagi e disegnerà per lui le schede del suo programma, “Il fatto”, seguendolo fino al suo esilio politico. Se ne va da Milano, che ha visto stravolta nel corso degli anni, preferendo una vecchiaia a Cesenatico, anche perché, diceva nelle interviste, «Non avverto segnali di rinascita. Milano è stata fregata, c'è più vita in provincia». Lì continuerà a scrivere, anche libri per bambini, “Il mistero dei bisonti scomparsi”, “La storia di Rosanna detta Cappuccetto Rosso”. Infaticabile. Di lui, del suo lavoro, dei suoi 2000 personaggi non troviamo traccia nel fondamentale dizionario della tv di Aldo Grasso.

·        E’ morto Morrow: fu il primo a eguagliare la leggenda Owens.

Atletica, è morto Morrow: fu il primo a eguagliare la leggenda Owens. Pubblicato domenica, 31 maggio 2020 da La Repubblica.it Vinse nel 1956 all'Olimpiade di Melbourne l'oro nei 100, 200 e 4x100. Dopo di lui ci sono riusciti solo Carl Lewis (che come la leggenda di Berlino '36 si impose anche nel lungo) e Usain Bolt. Fu il primo ad eguagliare le leggenda Jesse Owens. Bobby Joe Morrow,  morto a 84 anni nella sua casa di San Benito, in Texas, alle Olimpiadi di Melbourne del 1956 conquistò la medaglia d'oro nei 100, 200 e 4x100 metri, impresa fino ad allora riuscirà solo al leggendario velocista ai Giochi del 1936 a Berlino.  Un exploit successivamente compiuto da un altro americano, Carl Lewis (medaglia d'oro anche nel salto in lungo, come Owens, a Los Angeles nel 1984), e dal giamaicano Usain Bolt. Morrow fu nominato sportivo dell'anno dalla rivista Sports Illustrated per il 1956, davanti al giocatore di baseball Mickey Mantle e al pugile Floyd Patterson. Si ritirò dall'atletica leggera nel 1958, prima di fare un breve ritorno nel 1960 per tentare invano di qualificarsi per le Olimpiadi di Roma. Nell'ottobre 2006 gli fu dedicato il Bobby Morrow Stadium a San Benito, con 11.000 posti.

·        È morto l'artista Christo.

È morto l'artista Christo. L'artista è scomparso a New York all'età di 84 anni per cause naturali. Sua l'opera The Floating Piers sul Lago d'Iseo. Francesca Galici, Domenica 31/05/2020 su Il Giornale. A 84 anni è morto Christo, l'artista diventato famoso nel nostro Paese per aver realizzato l'installazione galleggiante sul Lago d'Iseo. A darne l'annuncio è stata la pagina Christo and Jeanne-Claude Official, che rappresentava l'artista sul popolare socoal-network. Non sono state rese note particolari patologie per l'artista, che domenica 31 maggio sarebbe morto per cause naturali nella sua casa di New York. Nacque in Bulgaria nel 1935 ma poco più che ventenne decise di lasciare il suo Paese Natale per seguire la sua ispirazione artistica. Prima Praga, poi Vienna e Ginevra, Christo ha perseguito la sua arte fino a raggiungere Parigi, dove ha conosciuto Jeanne-Claude Denat de Guillebon, la donna che sarebbe diventata la sua donna per la vita. Uniti nel lavoro e nella vita privata, i due crearono un legame indissolubile, che ha dato vita a tantissime opere d'arte diventate famose in tutto il mondo in oltre mezzo secolo di attività. Jeanne-Claude Denat de Guillebon è morta nel 2009 ma Christo ha continuato a portare avanti la sua opera e il suo lavoro, realizzando ancora nuove installazioni che hanno fatto parlare il mondo. L'ultima tappa del suo viaggio itinerante nel mondo è stata New York, dove Christo si trasferì 56 anni fa e dove decise di vivere la sua vita. La Grande Mela era il luogo perfetto per stimolare la sua creatività, qui Christo ha trovato la sua dimensione ideale, fino all'ultimo giorno della sua vita. "Christo ha vissuto al massimo la sua vita, non solo sognando ciò che sembrava impossibile ma realizzandolo - si legge nell'annuncio - Le opere d'arte di Christo e Jeanne-Claude hanno riunito le persone nelle esperienze condivise in tutto il mondo, e il loro lavoro continua a vivere nei nostri cuori e nei nostri ricordi", si legge nel post in cui si annuncia la morte dell'artista. La notizia si è diffusa rapidamente, in linea con l'eco che le sue opere hanno sempre avuto. The Floating Piers è stata un'installazione monumentale che ha avuto un grande successo nel nostro Paese.. La passerella gialla sul Lago d'Iseo ha incrementato esponenzialmente il flusso turistico di quell'area, attirando milioni di persone incuriosite da quella particolare concezione di passeggiata sull'acqua. "In una lettera del 1958 Christo scrisse: 'La bellezza, la scienza e l'arte trionfo sempre.' Teniamo presenti queste parole oggi", conclude il post della pagina Facebook, che in pochi minuti ha raggiunto centinaia di migliaia di persone.

E' morto l'artista Christo, aveva 84 anni. Pubblicato domenica, 31 maggio 2020 da Raffaella De Santis su La Repubblica.it. Scomparso per cause naturali a New York. È morto a New York all'età di 84 anni Christo Vladimirov Javacheff, noto con il solo nome Christo. Il decesso è avvenuto per "cause naturali". L'annuncio è arrivato attraverso i canali social dell'artista, che nel 2016 aveva realizzato l’opera The Floating Piers sul Lago d’Iseo. Nato a Gabrovo, in Bulgaria, il 13 giugno 1935, è stato tra i più grandi esponenti della Land Art. Con la sua arte modificava e ridisegnava il paesaggio. In più di cinquant'anni di carriera, trascorsi per gran parte con la compagna della vita Jeanne-Claude, scomparsa nel 2009, ha imballato e impacchettato il mondo. Da Porta Pinciana a Roma, nel 1974, al Reichstag di Berlino (1995), passando per il Pont Neuf di Parigi (1985). Il primo edificio imballato, nel 1968, è la Kunsthalle di Berna. Da allora il suo stile diventa inconfondibile. Il suo vero obiettivo era realizzare le visioni che aveva in testa. Cambiare l'immagine del mondo, anche solo per il tempo della durata della sua installazione.  Della sua opera diceva "Non voglio usare chiavi politiche, letterarie o religiose per parlare del mio lavoro. Il mio lavoro è la cosa in sé. Se vogliamo, è politica in sé. Avete idea di cosa può voler dire ottenere i permessi per impacchettare il Reichstag? Convincere Mister Kohl e tutto il Bundestag? Costringerli a votare qualcosa che non esiste ancora, se non nell’immaginazione? Questa è vera dimensione politica, non illustrazione della politica, ma pura visione politica". Quest'anno avrebbe dovuto impacchettare l'Arco di Trionfo a Parigi. Il progetto è stato rinviato per la pandemia e riprogrammato all'autunno 2021. Sarà la sua opera definitiva. La storia di Christo è strettamente legata a quella della moglie Jeanne-Claude. Senza di lei, diceva, non ce l'avrebbe fatta a realizzare opere tanto folli, che richiedevano una lunga preparazione e soprattutto molti permessi e autorizzazioni. Si erano conosciuti a Parigi, lui in fuga dal mondo comunista, lei cresciuta in una famiglia francese a Casablanca. Erano nati lo stesso giorno, se gli astri hanno un senso: il 13 giugno 1935. Insieme hanno impacchettato monumenti in tutto il mondo e pensato opere che hanno ridisegnato l'architettura urbana. Progetti incredibili come il nastro di nylon bianco che nel 1976 attraversò la California  per 40 chilometri o Umbrellas, migliaia di ombrelli con i quali avevano invaso una valle del Giappone e prima della California (1991): 1340 ombrelli blu alti sei metri  comparsi a nord di Tokyo. Quattro anni dopo avevano impacchettato il Reichstag tedesco (Wrapped Reichstag): l'opera fu visitata da 5 milioni persone. Per noi italiani è stato il ponte sul Lago d'Iseo il ricordo recente più forte di Christo, una lunghissima passerella gialla sull'acqua del lago lombardo che realizzava il miracolo di camminare sull'acqua: The Floating Pears è stata attraversata da 1 milione e 300 mila persone in sole tre settimane. Più popolare di un concerto rock. Anni prima, nel 1968, insieme a Jeanne-Claude Christo aveva impacchettato una torre medioevale a Spoleto. Poi aveva avvolto di spaghi e nastri il monumento a Leonardo da Vinci a Milano e nel 1973 era stata la volta delle mura aureliane di Roma (Wrapped Roman Wall). Ad aiutarlo allora c'era anche Guttuso. Per realizzare i suoi progetti Christo lottava con l'impossibile e con le difficoltà della burocrazia. Diceva di essere fuggito dal mondo comunista per essere un uomo libero. La libertà era anche sognare in grande, ridisegnare il mondo anche solo per qualche giorno. 

Fabio Isman per “il Messaggero” l'1 giugno 2020. È morto a 84 anni a New York, negli Stati Uniti, dove viveva il re della Land Art, arte e paesaggio. Forse non tutti si ricordano che Christo in realtà si chiamava Christo Yavachev, era bulgaro e ha avuto una vita assai curiosa, non soltanto perché ha «impacchettato» monumenti famosi: a Roma, ad esempio, le Mura aureliane in cima a via Veneto. Nel 1958 a Parigi, Jeanne-Claude Denat de Guillebon, nata a Casablanca, gli commissiona un ritratto della madre. Così, scoprono che sono nati entrambi il 13 giugno 1935, e le affinità, evidentemente, non si fermano a questo punto. Da allora, saranno una coppia: nel lavoro, e nella vita. Jeanne se n'è andata 11 anni fa, lui ha proseguito da solo. Tra le opere più recenti, il «Molo flottante» sul lago d'Iseo: tre chilometri di passerelle galleggianti larghe 16 metri, di libero transito, colori sgargianti. E il sito della coppia, che ne annuncia il decesso, precisa che la loro opera continuerà anche dopo che lui se ne è andato: come Christo ha voluto, a Parigi «l'Arco di Trionfo impacchettato» resta in programma dal 18 settembre al 3 ottobre dell'anno prossimo. Due vite interessanti, le loro. Lui, studia a Sofia; dal 1956 si trasferisce a Praga, e l'anno dopo riesce a fuggire dal regime. Apolide a Parigi, non se la passava affatto bene: campava eseguendo ritratti. Uno, appunto, gli riesce fatale. Jeanne-Claude, la cui madre era nella Resistenza e moglie di un generale, vive a Berna e poi a Tunisi, dove si laurea; approda a Parigi in quel fatale 1958. L'anno dopo, lascia il fidanzato, e marito, Philippe Planchon, dopo la luna di miele: era incinta di Christo, che peraltro frequentava sua sorella, Joyce. La loro prima collaborazione, a Colonia, nel 1961; la prima opera monumentale a Parigi l'anno dopo: «Cortina di ferro», un muro di barili d'olio che blocca rue Visconti, presso la Senna, come protesta per il muro di Berlino. Dal 1964, si trasferiscono negli Stati Uniti. La loro arte, firmata soltanto con il nome di lui, non ha emuli: è inconfondibile. E si dipana in tutto il mondo. A Spoleto, nel 1968, «imballano» la Fontana di piazza del Mercato e il Fortilizio dei Mulini; nel 1968 a Berna, alla Kunstalle, il primo edificio intero; sempre lo stesso anno, a Kassel, una struttura di di 5.600 metri cubi sollevati da gru e visibili da 25 chilometri lontano. Ed è subito una grande affermazione. L'Italia ne è un palcoscenico privilegiato: a Milano, nel 1970, tocca al monumento a Vittorio Emanuele II in piazza del Duomo; nel 1974, è la volta di Porta Pinciana. Tra il tanto d'altro, seguiranno il Pont Neuf a Parigi; le isole della baia di Miami del tutto circondate; il Reichstag, a Berlino; un percorso di 30 chilometri nel Central Park a New York. Un trapezio da 7.506 barili colorati messi in modo orizzontale su una piattaforma galleggiante a Hyde Park di Londra, sul Serpentine Lake, resta l'ultima loro prodezza, due anni fa: loro, anche se lei non c'era già più. Leggiamo il sito ufficiale della coppia: «Ha vissuto una vita piena, in cui non solo ha sognato ciò che sembrava impossibile, ma lo ha realizzato. Il lavoro di Christo e Jeanne-Claude ha unito le persone facendo condividere loro esperienze in tutto il mondo. La loro opera vive nei nostri cuori e nei nostri ricordi». Infine, una citazione, proprio di quel 1958 che li ha uniti: «La bellezza, la scienza e l'arte trionferanno sempre». E la foto sul lago d'Iseo, che lo ritrae con le mani sui fianchi, i bianchi capelli lunghi sulla nuca, di profilo, a guardare lontano, chissà dove. Cordoglio di Franceschini, che ne ricorda l'amore per il nostro Paese. Non tutto gli è sempre riuscito: dopo anni di battaglie, nel 2011, era stato autorizzato a un'opera faraonica nelle montagne del Colorado: la copertura del fiume Arkansas, con cavi e pali a sostenere una struttura di tende argentate, lunga 62 chilometri; il lavoro era previsto per il 2014. È rimasta in lui la voglia di questo ennesimo progetto: il più grande esponente di un'arte già originale di per sé, se n'è andato senza averla mai vista. Lo ricordano i milioni di visitatori che hanno camminato sulle acque del Lago d'Iseo.

Stefano Ciavatta per esquire.com il 6 giugno 2020. Nel freddo gennaio del 1974 la coppia di artisti Christo e Jeanne-Claude impacchettarono di nylon bianco con delle grosse corde arancioni i quattro archi di Porta Pinciana alla fine di Via Veneto e davanti a Villa Borghese. Siamo lungo il tracciato delle bimillenarie Mura aureliane, il monumento più grande di Roma, il sogno più ambito, il segno più duraturo della città. Nata senza fastosità, per gli storici Porta Pinciana funzionò agli inizi come porta di servizio per le ville retrostanti, senza far capo a una strada principale. Il collegamento remoto con via Salaria vecchia lo scoprirà il fondatore dell’archeologia cristiana, Antonio Bosio, ma nel XVII secolo. Quando divenne monumentale nelle dimensioni non bastarono comunque a reggere l’urto del sacco di Alarico. La gloria arrivò dopo: Porta Pinciana divenne il campo strategico del generale bizantino Belisario che respinse dopo un anno l’assedio dei goti di Vitige, il barbaro che tagliò il rifornimento d’acqua degli acquedotti, in gran parte mai più riattivati. Poi venne inglobata nella magnificenza e nell’oscuro destino di villa Ludovisi, finì murata e ci stesero i panni, poi rottamata nel DNA con Porta Pia e riaperta solo a fine 800 a reggere da sola per decenni il suo passato devitalizzato. Nella Roma modernissima e pacifica del triumvirato Fellini, Flaiano, Pinelli, la Porta divenne il termine ultimo delle vasche della Dolce Vita. Da metà anni 90 lo slargo ai suoi piedi è intitolato a Fellini e suona un po’ kitsch. Al di là sta il dolce assillo di Villa Borghese e i motori sempre accesi del Muro Torto, passaggio a nord-ovest del traffico centrale capitolino. L’installazione esposta per quaranta giorni faceva parte della mostra Contemporanea per gli Incontri Internazionali d’Arte (30/11/73 - 28/02/74), a cura di Achille Bonito Oliva, all’epoca 35enne, che però si svolse nel garage sotterraneo di Villa Borghese progettato da Luigi Moretti. Una catacomba moderna, mentre a Roma si salivano le scale al Palazzo delle Esposizioni e della Gnam, che il warholiano Gregory Battock raccontava così a Domus: "non c'è posto dove ci si possa sedere, non c'è un bar, grandi spazi vuoti, un freddo pavimento che stanca i piedi. Si pensa a come sarebbe bello poter girare in macchina dentro la mostra, il primo museo-drive in del mondo". Alla luce del sole arrivano invece Christo e Jeanne-Claude pronti per l’exploit, e trova il giovane Massimo Piersanti, fotografo ufficiale di Contemporanea, che racconta a Esquire quei giorni mitici. "Christo aveva presentato un provino anche per Ponte Sant’Angelo ma poi Contemporanea scelse le Mura. Già prima di Natale mandai allo studio di New York delle polaroid scattate a Porta Pinciana, che poi Christo riutilizzò cucendole sopra una tela. Dell’allestimento se ne occupò lo studio specializzato di Maurizio Puolo. Christo arrivò col suo gallerista Guido Le Noci e montò il lavoro. Via via arrivarono altri fotografi, compreso Harry Shunk, il fotografo personale di Christo, a cui l’artista pagava la vita. Mica solo l’affitto, persino il dentista! C’era anche Vittorio Biffani che documentò dal 26 al 29 gennaio i quattro giorni di realizzazione. Tutti scattavano dalla strada e da in fondo a via Veneto. Ma così l’impacchettamento risultava un enorme muro di ghiaccio. Invece volevo che si vedesse che si trattava di Roma e delle Mura aureliane: e così salii sulle terrazze del Grand Hotel Flora e poi del Jolly che oggi è l’NH, perché almeno c’erano i pini sullo sfondo. Il lavoro fu premiato e Christo scelse le mie foto per le tirature ufficiali". Labili le tracce di polemiche politiche contro il permesso dato ai due artisti dal Comune di Roma. Il dc Nistri presentò in consiglio regionale un'interrogazione nella quale criticava "la stravagante iniziativa" e "lo scempio di buon senso" nell’imballare le Mura. Sempre Piersanti racconta: "Ci fu qualcosa, ma insignificante come protesta, si spense subito". L’opera non venne bocciata dai romani, pur diffidenti all’insegna del "tanto dura poco". A volte Roma è preparata, a volte no, ma respinge senza vere motivazioni. Continua Piersanti: "Le reazioni dal basso furono invece immediate, c’era anche gente che passava e gridava ma che state a fa? che è ‘sta buffonata? Anche gli operai erano scettici all’inizio, poi però divennero i primi difensori dell’impacchettamento. Ci furono battibecchi storici tra gli operai in piedi sulle Mura e gli avventori di Doney e Harry’s Bar che venivano sotto a criticare". Come fece Christo a ottenere i permessi nella Roma democristiana del sindaco Clelio Darida? "Fu grazie ai buoni uffici della Lonardi, che era legata al principe Aldrombrandini - racconta Piersanti- ne rimanemmo tutti stupiti. Neanche Bonito Oliva saprebbe rispondere a questa domanda. Il garage era di proprietà del Vaticano e ci diedero un intero piano!". Nel colophon della mostra alla voce "promozione, organizzazione e coordinamento culturale" compare infatti il nome di Graziella Lonardi Buontempo, mecenate, collezionista, fondatrice degli Incontri Internazionali d'Arte, una figura fondamentale nel mondo dell’arte senza mai rivestire ruoli istituzionali (l’editore Iacobelli ha pubblicato un’antologia di interviste e interventi sul lavoro della Lonardi). Il critico e curatore Costantino D’Orazio la descrive a Esquire come "una promotrice trasversale, una grande mediatrice. Parlava la lingua degli artisti e dei politici, quando la politica era più forte e l’opinione pubblica contava meno. Era irresistibile: si mise al servizio del mondo dell’arte e rese possibili sogni per molti irrealizzabili: riaprì le porte del Palazzo delle Esposizioni per una mostra ormai storica, Vitalità del negativo, ottenne il via libera per l’impacchettamento di Christo e per l’appuntamento tra il Papa e Andy Warhol. Amava le sfide. Quella follia degli anni 70 con lei diventava sempre realtà". Gino Barioli, direttore del museo civico di Vicenza, mandò una lettera al Corriere della sera commentando la foto-notizia dell’avvio dell’impacchettamento: "Perfetto era l'imbarazzo della didascalia. Penso che il Corriere abbia voluto suggerire al lettore mediamente provveduto qualche considerazione sullo stato attuale delle arti, sul modo in cui vengono tutelati i monumenti e sulla maniera con cui in tempi di austerity viene usato del danaro che si presume pubblico per operazioni destinate a recuperare non bistecche o petrolio o quadri o documentazioni del nostro sul serio passato, ma brividi di intensa metafisica per il piacere di pochi". Un’obiezione replicabile a oltranza. In realtà l’empaquetage da 7mila metri di tela seal e 2000 metri di corda fu finanziato con la vendita degli studi preparatori di Christo: disegni, collage, modelli in scala, oltre che da precedenti opere e litografie. Gli artisti poi non accettarono sponsorizzazioni. Il rimpianto della Lonardi fu piuttosto per i cinquanta disegni preparatori di Christo, "lo Stato non volle intervenire e non rimasero a Roma". A parte il vento e il freddo durante i lavori, andò tutto liscio. Tranne la notte tra il 5 e il 6 febbraio quando venne versata della benzina su uno dei teloni che prese fuoco. "Incendiato l’art imballo" titolò L’Unità in un boxino. Motivo? Probabilmente semplice vandalismo. Ma il telo era stato scelto volutamente ignifugo e la tremenda umidità della notte romana fece il resto. Una foto del fotografo romano Gianni Termorshuizen immortalò il commento "IMMANE CAZZATA!" lasciato a sfregio sul telone. Le foto di Biffani raccontano invece la cura di Christo e della sua squadra, sempre col naso all’insù, ottimisti non solo che il coniglio esca perfettamente dal cilindro ma che non si rovini il cilindro stesso. I lavori di entrambi i fotografi (non più viventi) sono state esposti nel 2017 nella mostra The Wall, Wrapped Roman Wall curata dalla Libreria-Galleria di Giuseppe Casetti. L’opera di Christo e Jeanne-Claude divenne con mesi di ritardo la vera porta della mostra ma non ebbe mai un richiamo in prima pagina sulla grande stampa romana. Piuttosto ci andava l’austerity per la crisi petrolifera e il carovita, i rincari della benzina e le domeniche a piedi, tanto che in alcune foto dell’impacchettamento non ci sono macchine, la lotta sul prezzo del pane, la stangata su rosette e ciriole, con serrate dei fornai e arresti dei leader. L’ultima notte di Porta Pinciana impacchettata fu quella tra sabato 9 e domenica 10 marzo. Dopo 40 giorni, Christo e una commissione di tecnici sciolsero l'imballaggio, la struttura venne smontata e riciclata. Nei desiderata romani di Christo c’erano ancora il Pantheon, il Colosseo, la cupola di San Pietro, ma rimasero inevasi. L’amministrazione sentenziò: "la ripartizione comunale delle Belle Arti esclude che siano previsti almeno per il prossimo futuro altri interventi di Christo sui monumenti della capitale". E così fu. Addio, signor Christo Yavachev.

È morto Christo: "Io, un uomo libero". L'artista di origine bulgara è scomparso all'età di 84 anni. Ripubblichiamo l'intervista che ci rilasciò nel 2017 e in cui spiegava il suo lavoro: "Ho conquistato la mia libertà millimetro per millimetro e non la cedo di certo per denaro". Alessandro Mammì il 14 settembre 2017 su L'Espresso. Il segno del successo arrivò subito, fin dal primo giorno: il 18 luglio 2016. Ma al quinto, quando 270mila persone raggiunsero il lago d’Iseo perché un artista di nome Christo era riuscito nel miracolo di far camminare tutti sulle acque, ci si cominciò a preoccupare. Vigili urbani e vigili del fuoco, poliziotti e carabinieri, volontari e militari furono coinvolti nel difendere le fragili istituzioni e la limitata capienza del piccolo specchio d’acqua e nel tenere a bada la folla di uomini, donne, bambini, anziani e ragazzi determinati ad affrontare infinite code e complicati sistemi di accesso pur di poggiare i piedi sulle passerelle gialle dei “Floating piers” di Christo. Oltre un milione di persone, una media di 72mila al giorno per 18 giorni. Questo fu alla fine il calcolo. Ma per molti fu stima per difetto. Ora, a poco più di anno di distanza, Christo torna in Italia. E torna per parlare: il 16 settembre, in un dialogo con Andrea Montanari (direttore del Tg1) nella Basilica Superiore di Assisi, per la terza edizione del Meeting Internazionale del Cortile di Francesco, luogo di incontro e dialogo fra culture religiose e non, tra uomini d’arte e di pensiero raccolti intorno a un tema: “Il cammino”. Il suo tema, in fondo. Quello che ha segnato la sua vita professionale e personale, da quando sul finire degli anni Cinquanta, giovane, minuto, spettinato e ispirato fuggì dalla Bulgaria sovietica per arrivare a Parigi senza parlare una parola di francese. Quel cammino che nel 1958 gli fece incontrare Jeanne-Claude, la compagna di strada e anima gemella, figlia di un militare francese, nata in Marocco il suo stesso identico giorno, nello stesso identico anno: 13 giugno 1935. Quel cammino che insieme li portò in tutto il mondo a immaginare grandiosi progetti e realizzarne anche i più impossibili e più incredibili. “Running fence”: un nastro di nylon bianco alto cinque metri e mezzo che nel 1976 attraversò la California del nord per quaranta chilometri, rimosso dopo 14 giorni. “Umbrellas”, del 1991: migliaia di ombrelli che invadono contemporaneamente una valle in California e una in Giappone, distinti da un diverso colore - giallo per gli Stati Uniti, blu per il Giappone. “Gates”: 7503 portici di stoffa color zafferano, alti cinque metri, che spuntano nel 2005 su tutti i sentieri di Central Park a New York. “Wrapped Reichstag”, del 1995: spettacolare impacchettamento visitato da cinque milioni di persone, che richiese agli artisti anni di pazienza e 662 lettere, per convincere uno ad uno i membri del Parlamento; al Bundestag 70 minuti di dibattito sull’autorizzazione; all’opera 15 chilometri di corda e 100mila metri quadri di tessuto. Forse nulla, però, colpisce più l’immaginazione di quell’evangelico camminare sulle acque di un lago lombardo. Ma non chiamatelo miracolo, perché Christo si indispettisce, e spiega che di miracoloso nella sua opera c’è solo un duro e ostinato lavoro. Un evento d’arte più popolare di un concerto rock, un lago poco frequentato che improvvisamente viene preso d’assalto, fino a diventare un vero e proprio pellegrinaggio.

Signor Christo, non trova che ci sia qualcosa di mistico e rituale in tutto questo?

«Non mi chiamo signor, ma solo Christo. E non voglio usare chiavi politiche, letterarie o religiose per parlare del mio lavoro. Il mio lavoro è la cosa in sé. Se vogliamo, è politica in sé. Avete idea di cosa può voler dire ottenere i permessi per impacchettare il Reichstag? Convincere Mister Kohl e tutto il Bundestag? Costringerli a votare qualcosa che non esiste ancora, se non nell’immaginazione? Questa è vera dimensione politica, non illustrazione della politica, ma pura visione politica. Così come “camminare sull’acqua” non è l’immagine di un evento miracoloso, ma è il procedere passo dopo passo, galleggiando, bagnandosi, esponendosi al vento e all’umidità del lago. È una vera esperienza».

È questa la chiave del successo dell’opera? Quella che ha attirato oltre un milione di visitatori?

«Numeri approssimativi. Difficile sapere esattamente quante persone siano venute o quante persone siano entrate in contatto con ogni nostro progetto che è sempre e comunque immersivo. Una pittura è una superficie, può essere astratta, figurativa, molto piccola, molto grande, ma occupa sempre uno spazio piatto. Una scultura o un’installazione conquista la terza dimensione, ma anche se include video o movimento come i “mobile” di Calder, vive in uno spazio controllato e connotato: il museo, la galleria, la collezione. Ma quando esci dal tuo guscio, attraversi la strada, ti esponi al mondo e vedi alberi impacchettati o chilometri di tessuto che si snodano per la California, sei in uno spazio che include ogni cosa: il vento, le macchine, gli uomini, gli animali. Non sei preparato, non hai deciso di entrare in una galleria, c’è stato un incontro. Questa è la nostra arte: non illustrazione, ma pura esistenza».

Lei usa sempre il plurale e nonostante la scomparsa della sua compagna i progetti continuano ad apparire firmati a quattro mani. È ancora vivo il contributo di Jeanne-Claude?

«Certo. Dei 46 progetti che abbiamo preparato chiedendo permessi e lottando con la burocrazia ne sono stati realizzati solo 23. Ma in ognuno c’è il suo perfezionismo, la sua attitudine ipercritica, l’attenzione maniacale ad ogni particolare, l’incredibile capacità organizzativa. Ci sono le nostre discussioni anche accese, la sua determinazione a trovare una soluzione anche dove sembrava impossibile. Ogni progetto presenta problemi imprevisti e dobbiamo calcolarli tutti prima: la forza dei venti, le previsioni climatiche, le perizie statiche. Insieme abbiamo impacchettato ponti, alberi, chilometri di coste. È stato un enorme piacere passare la vita insieme in questo progettare, una vera spedizione nell’esistenza. Abbiamo incontrato migliaia di persone che non appartenevano al mondo dell’arte, abbiamo conosciuto sindaci e ingegneri, operai e addetti all’ordine pubblico, primi ministri e artigiani. E ognuno ci ha dato qualcosa. Fanno tutti parte della mia vita e della mia memoria. Grazie a tutto questo e a Jeanne-Claude sono diventato ricco, e non di denaro né cose materiali».

Lei ha più volte detto che la vostra idea di arte è fatta per essere vissuta e non posseduta. Inoltre non avete mai voluto una galleria, né un mercante. Finanziate in gran parte i lavori vendendo disegni preparatori e immagini dei progetti. Insomma una posizione in netto contrasto con l’attuale sistema dell’arte.

«Sono nato in un paese comunista, da lì sono scappato perché era tale il bisogno di diventare artista ed essere un uomo libero, da spingermi a Parigi completamente solo, senza amici né parenti e senza sapere una parola di francese. Ho conquistato la mia libertà millimetro per millimetro e non la cedo di certo per denaro. Ho finanziato i miei progetti con i miei soldi e sono arrivato a realizzarne di molto costosi. Ma ogni cosa è stata una mia/nostra decisione libera, assoluta, che arrivava dal cuore. Solo così i progetti prendono forza al punto di convincere parlamenti interi a dare permessi per qualcosa di completamente inutile e irrazionale. Immaginate cosa può voler dire spiegare a quattrocento giapponesi - che peraltro a causa del mio nome sono convinti di trovarsi di fronte un eccentrico missionario - che io non voglio convertire nessuno, ma installare in una valle di Ibaraki, a nord di Tokyo, 1340 ombrelli blu alti 6 metri e larghi 8,66. Il tutto senza avere una lingua in comune».

Ci siete riusciti. Così come siete riusciti a impacchettare le coste dell’Australia, a vestire di rosa isolotti in Florida o di tessuto dorato il Pont Neuf a Parigi. Eppure è cronaca recente che lei ha deciso di far cadere il monumento, il progetto a cui lavora da venticinque anni: “Over The River”, un soffice e brillante tetto d’argento che dovrebbe accompagnare per sei miglia il fiume Colorado in Arizona e su cui lei ha già investito 15 milioni di dollari. Si dice che sia stato anche un gesto polemico contro l’amministrazione Trump, anzi per il New York Times il più visibile e costoso gesto di protesta finora visto!

«In realtà è l’amministrazione Trump ad essere polemica con me, perché come sempre una parte importante dell’opera è la richiesta dei permessi. Dai proprietari privati erano stati ottenuti e quando cominciai, in tempi di amministrazione Clinton, anche la pubblica burocrazia, che richiede tempi molto complessi, si dimostrò favorevole. Più critica poi, ma non ostile, al tempo di Bush, mentre trovai un supporter in Obama. Ma ora sono partite anche battaglie legali che mi accusano di essere una minaccia alla fauna e alla flora: ogni piacere di lottare per questo progetto è sparito e non intendo spendere altro tempo e altri soldi per cercare di convincere questa amministrazione. L’ho detto: sono un uomo libero. Libero anche di cambiare strada».

C’è un’altra persona che da tempo vi ha seguito: Wolfgang Volz, il fotografo a cui avete affidato una gran parte della documentazione e le immagini della vostra storia. Lo vedremo in mostra ad Assisi. Che ruolo ha la foto nell’opera di Christo?

«Un ruolo importante di documentazione. Wolfgang non si limita a fotografare le opere, è con noi fin dall’inizio. Rende visibile il work in progress, dai disegni ai modellini fino ai carteggi burocratici. Poi ogni fase della messa in opera dalla costruzione alla demolizione. È un materiale che viene acquisito da archivi e fondazioni, è stato oggetto di mostre molto visitate come quella al secondo piano del Reichstag, ma è un documento e basta. E in nessun modo sostituisce l’opera».

Dopo “Floating piers” tornerà a lavorare in Italia?

«Ho un grande progetto, ma è ancora segreto. E ho un grande amore per questo paese fin dagli anni Settanta quando rivestii Porta Pinciana a Roma (“Wrapped Roman Wall”, 1973, ndr). Una difficile opera di diplomazia per superare diffidenze di politici e sovrintendenti che vedevano in me solo un giovane visionario bulgaro. Ma fui molto aiutato da un artista potente che capì l’opera, nonostante il suo lavoro fosse molto lontano dal mio. Era un comunista e si chiamava Guttuso, lo conosce?».

"Così Christo mi convinse a far finire la passerella nella mia isola sul lago". L'imprenditrice-mecenate ricorda come nacque lo straordinario evento del 2016 "Floating Piers". Luca Beatrice, Martedì 02/06/2020 su Il Giornale. Raggiunta telefonicamente nella sua casa di Brescia, Umberta Gnutti Beretta ricorda con affetto Christo, il primo incontro, le settimane che anticiparono l'apertura di The Floating Piers sul lago di Iseo, l'entusiasmo di vedere coinvolte così tante persone. Era l'estate del 2016 e quel meraviglioso pezzo d'Italia sembrava davvero il centro del mondo. Imprenditrice, mecenate, collezionista, unisce la passione per l'arte ad attività di charity. Un curriculum di studi e formazione internazionale, tra la Svizzera e Londra, che mai cela un forte bisogno di tornare alle radici della sua terra.

Signora Beretta, una primavera triste per l'arte. Se ne sono andati Germano Celant e Christo, ovvero i due protagonisti principali dell'impresa Floating Piers. Come ricorda il primo vostro incontro?

«Ricevetti la telefonata di Celant che mi chiese di andare a casa sua per incontrare un artista e parlare di un progetto, senza svelarmi altro. E lì conobbi Christo. Senza indugiare mi raccontò la sua idea di costruire il camminamento dalla terra al lago, che inizialmente mi sembrò folle. Era il 2014, due anni dopo, invece, accadde...»

Come fu l'impatto con uno dei più grandi artisti del nostro tempo?

«Christo era molto concentrato sul progetto che mi illustrò tecnicamente nei minimi particolari. Sull'iPad del nipote Vladimir mostrò i disegni e i progetti della lunga passerella sul lago di Iseo che si concludeva all'Isola di San Paolo, di proprietà della nostra famiglia. Abbiamo bisogno di voi, mi disse. Sapeva di essere anziano e di avere ancora diversi progetti in testa da realizzare in una lotta contro il tempo, ad esempio la Mastaba (installazione di oltre 7.500 barili di petrolio colorati nel lago di Hyde Park a Londra aperta nel giugno 2018, ndr). Non ci fu bisogno d'altro per convincermi».

E poi è nata un'amicizia...

«In un progetto così ambizioso si viene completamente assorbiti al punto da accantonare la normale quotidianità. Mio marito Franco e io abbiamo accompagnato Christo a incontrare amministratori, politici, tecnici, aziende, personale, ci siamo occupati insieme a lui di arrivare alla realizzazione di un'opera che, come di consueto, l'artista finanzia interamente da sé con la vendita dei propri lavori. E poi ho seguito da vicino la mostra Water Project al Museo di Santa Giulia a Brescia, che anticipò in aprile l'evento per poi chiudersi in settembre».

Dopo il 2016, vi siete rivisti?

«Sì, alcune volte, proprio a Londra per Mastaba, quindi a Miami. Da circa un anno non ci incontravamo».

Di norma l'arte contemporanea è considerata un linguaggio specialistico che non riesce ad attrarre un pubblico molto vasto, e invece in Franciacorta in due settimane arrivarono oltre 1 milione e 200 mila persone. Che spiegazione si è data di quell'incredibile e imprevisto successo?

«Christo, con sano ottimismo, pensava a 30/40 mila presenze al giorno, che a me sembravano già tantissime. E invece furono più di 100mila, con lunghe code, tempi di attesa sotto il sole, Instagram che si apriva sul giallo delle passerelle e proprio i social sono stati fondamentali nel creare l'effetto moltiplicatore. Bisognava esserci, insomma».

A pensarla oggi, un'impresa del genere appare davvero impossibile...

«Nel breve purtroppo sì. Quel desiderio di condivisione per cui ciascuno aveva il proprio motivo per passeggiare su Floating Piers sembra lontanissimo. Molta gente stava attraversando un'opera d'arte contemporanea senza saperlo e in tanti aveva prevalso la sensazione di vivere un'esperienza. Christo teneva molto che il suo fosse un evento anche popolare».

Lei non è nuova a interventi finanziari a fianco dell'arte, dal classico il restauro di opere del Museo Poldi Pezzoli - al contemporaneo. Si considera una nuova mecenate?

«Mi piace partecipare ai progetti nel momento in cui si vanno costruendo, non finanziare a cose fatte. Per Christo non c'era bisogno di economia, ho comprato un'opera per la mia collezione ma non è rilevante. In altri casi, ad esempio per il Padiglione Italia 2017 curato da Cecilia Alemani, ho sostento il suo lavoro mentre si costruiva e non a giochi fatti, insomma mi interessa soprattutto il backstage».

Brescia, la sua città, è stata tra le più colpite dalla pandemia. Ora ci sarà bisogno di grandi forze per rialzarsi e intanto la società risponde con la candidatura a capitale della cultura condivisa con Bergamo nel 2023. Quali sono i suoi pensieri a proposito, anche nel ruolo di membro del consiglio direttivo della Fondazione Brescia Musei?

«È davvero difficile pensare oggi a un modo efficace di fare arte dopo il lockdown. C'è il rischio che molte regole cambino, a cominciare dall'affluenza del pubblico che sarà contenuto nei numeri, e allora può valer la pena di pensare a un'arte diffusa sul territorio, che incontri per strada, un'arte che esca dai musei e dalle fondazioni per espandersi in altri luoghi fisici della comunità».

·        Morto Beppe Barletti: volto storico di “90° minuto”. 

Morto Beppe Barletti: addio al volto storico di “90° minuto”. Marco Alborghetti il 31/05/2020 su Notizie.it. All'età di 91 è morto Beppe Barletti, volto storico della Rai. Fu il primo ad intervistare il chirurgo del trapianto di cuore. Sabato 30 maggio è morto all’età di 91 anni Beppe Barletti, storico volto torinese del programma “90° minuto”. Barletti per anni è stato il punto di riferimento per la Rai sui campi della Juventus e del Torino. In seguito si è occupato di automobilismo, atletica e basket. Significativa la sua prima intervista al primo chirurgo del mondo che effettuò un trapianto di cuore. Un grave lutto ha colpito il mondo del giornalismo sportivo: nella giornata di sabato 30 maggio è venuto a mancare Beppe Barletti, giornalista che è diventato una vera e propria pietra miliare del programma Rai “90° minuto“, morto all’età di 91 anni. Barletti per tutti gli appassionati di calcio degli anni ’60-’70 è stato il punto di riferimento del celebre programma per quanto riguardava la cronaca dai campi di Torino, dove ha raccontato con equilibrio e tanta passione le gesta della Juventus.

Calcio nel sangue. Nel 1993 è arrivato il suo congedo dalle cronache e dal mondo del giornalismo, ma da quel momento non ha comunque smesso di parlare della sua passione, e non era insolito ritrovarlo a parlare di calcio con gli amici. Barletti fin da piccolo sapeva che prima o poi avrebbe fatto parte di quel mondo: ha giocato inizialmente nelle giovanili del Lecce (suo padre infatti era leccese), e poi a Torino, più precisamente nel Vanchiglia e nel Bertolla. Ad un certo punto sembrava che la sua carriera calcistica fosse indirizzata verso il grande salto tra i professionisti della Pro Vercelli, ma i genitori lo costrinsero a continuare gli studi.

Oltre lo sport. Nei suoi quarant’anni di giornalismo, si era occupato anche di altri sport, come automobilismo, atletica e basket. Tra i suoi servizi più significativi però rimane un’intervista storica concessa da Chris Bernard, il primo chirurgo al mondo che ha avuto il coraggio di effettuare un trapianto di cuore. Per la Rai aveva seguito anche la famosa vicenda di cronaca nera di Doretta Ganeris, l’omicida di Vercelli. Qualche anno fa, in un’intervista Barletti aveva ricordato quella vicenda con il suo solito umorismo: “Ricordo il momento in cui entrai in quella casa dove erano stati uccisi marito, moglie, figlio e nonna, e la ragazza dallo sguardo perso nel vuoto. Le prime parole che mi aveva rivolto il tenente Fornasier erano state: “Non si faccia prendere dalla compassione, Barletti, l’assassina è lei”.

Addio a Beppe Barletti, volto storico di "Novantesimo minuto" e "Domenica Sprint": aveva 92 anni. Pubblicato sabato, 30 maggio 2020 da Fabrizio Turco su La Repubblica.it Non solo sport nel curriculum dell'ex giornalista torinese della Rai: dal reportage sul lago Nasser in Egitto alla strage dei Graneris a Vercelli, all'intervista al celebre chirurgo Barnard, autore del primo trapianto di cuore. Il giornalismo sportivo è in lutto: è scomparso Beppe Barletti, storico volto di un calcio ormai datato, protagonista in video in programmi seguitissimi come Novantesimo Minuto e Domenica Sprint. Nato a Torino nel settembre del 1928, Barletti aveva iniziato a scrivere da ragazzo sul “Piccolo Commercio”, il giornale rivolto ai venditori ambulanti che lavoravano al mercato di Porta Palazzo: “Avevo iniziato così perché mio padre era uno di loro, era un mercatale” diceva con fierezza. Dopo la gavetta e la collaborazione a Stampa sera, Barletti era entrato in Rai diventando un personaggio notissimo agli appassionati di calcio per i resoconti delle partite di Juventus e Torino. Non soltanto sport, però, nella sua lunga carriera che si era poi chiusa nel 1993 quando era andato in pensione. Oltre a occuparsi di basket, atletica e automobilismo, Barletti aveva seguito anche tanti eventi cittadini realizzando anche servizi di rilievo: dal reportage sul lago Nasser in Egitto alla strage dei Graneris a Vercelli, all'intervista al celebre chirurgo Christiaan Barnard, il grande chirurgo sudafricano diventato famoso nello scorso secolo per aver realizzato il primo trapianto di cuore nella storia della medicina.

·        È morto il chitarrista Bob Kulick, "quinto" membro dei Kiss.

È morto il chitarrista Bob Kulick, "quinto" membro dei Kiss. Pubblicato sabato, 30 maggio 2020 da La Repubblica.it Era fratello del chitarrista solista della band Bruce Kulick che ne ha dato l'annuncio. Aveva 70 anni. Il chitarrista statunitense Bob Kulick, conosciuto soprattutto per aver collaborato con i Kiss, considerato il "quinto" membro della band newyorchese, lavorando soprattutto in studio, è morto all'età di 70 anni. Era il fratello maggiore di Bruce Kulick, che è stato chitarrista solista dei Kiss dal 1984 al 1996. E proprio il fratello minore Bruce ha dato la notizia della scomparsa sui social: "Ho il cuore spezzato di dover condividere la notizia della scomparsa di mio fratello Bob Kulick. Il suo amore per la musica e il suo talento di musicista e produttore dovrebbero sempre essere celebrati. So che ora è in pace, accanto ai nostri genitori, e me lo vedo lassù che suona la sua chitarra più forte che mai". Anche la band dei Kiss sui social ha espresso le condoglianze per la scomparsa del rocker: "Abbiamo il cuore spezzato. Le nostre più sentite condoglianze alla famiglia Kulick in questo momento difficile". Membro d’onore della KISS family, non solo in quanto fratello maggiore di Bruce (che lui stesso aveva “raccomandato” ai Kiss come sostituto di Mark St John nel 1984), ma anche come collaboratore stretto di Paul Stanley, Bob è stato impegnato “in incognito” con il quartetto newyorchese del Bacio specialmente in studio, per fare le veci di Ace Frehley allora troppo distratto dalla fama, su alcuni dischi a cavallo tra fine anni ’70 e primi ’80 (di sicuro sugli inediti di “Alive II” e “Killers”, e sugli album “Unmasked” e “Creatures Of The Night”). All'infuori dei Kiss, Bob Kulick ha suonato la chitarra in alcuni dischi di Meat Loaf e con i W.A.S.P. negli album The Crimson Idol e Still Not Black Enough, senza però mai esibirsi in pubblico con il gruppo. Bob suonò poi la chitarra per il disco omonimo Michael Bolton (1983) del musicista Michael Bolton e per Lou Reed in Coney Island Baby (1976). Nato a New York il 16 gennaio 1950, Bob Kulick esordì nei primi anni Settanta come chitarrista con la band Hookfoot. Nel 1973 tenne un'audizione per entrare nei Kiss come chitarrista solista ma gli fu preferito Ace Frehley. Ciononostante i Kiss decisero di tenere da conto Bob impiegandolo nel caso in cui Frehley non fosse stato nelle condizioni di lavorare. Con i Kiss Bob ha suonato in alcune tracce degli album Alive II (1978), Killers (1982) e Creatures of the Night (1982). Bob Kulick ha inoltre collaborato con il frontman dei Kiss Paul Stanley per il suo album solista Paul Stanley (1978), sia nel suo tour del 1989, sempre da solista. Bob Kulick negli anni Ottanta formò il gruppo Balance con Peppy Castro e Doug Katsaros.

Da ilmessaggero.it il 30 maggio 2020. Kiss, è morto il chitarrista Bob Kulick, considerato il quinto membro della band di New York. Bob Kulick, conosciuto soprattutto per aver collaborato con i Kiss, lavorando soprattutto in studio, è morto all'età di 70 anni. Era il fratello maggiore di Bruce Kulick, che è stato chitarrista solista dei Kiss dal 1984 al 1996. E proprio il fratello minore Bruce ha dato la notizia della scomparsa sui social: «Ho il cuore spezzato di dover condividere la notizia della scomparsa di mio fratello Bob Kulick. Il suo amore per la musica e il suo talento di musicista e produttore dovrebbero sempre essere celebrati. So che ora è in pace, accanto ai nostri genitori, e me lo vedo lassù che suona la sua chitarra più forte che mai». Anche la band dei Kiss sui social ha espresso le condoglianze per la scomparsa del rocker: «Abbiamo il cuore spezzato. Le nostre più sentite condoglianze alla famiglia Kulick in questo momento difficile». All'infuori dei Kiss, Bob Kulick ha suonato la chitarra in alcuni dischi di Meat Loaf e con i W.A.S.P. negli album «The Crimson Idol» e «Still Not Black Enough», senza però mai esibirsi in pubblico con il gruppo. Bob suonò poi la chitarra per il disco omonimo «Michael Bolton» (1983) del musicista Michael Bolton e per Lou Reed.Lou Reed in «Coney Island Baby» (1976) Nato a New York il 16 gennaio 1950, Bob Kulick esordì nei primi anni Settanta come chitarrista con la band Hookfoot. Nel 1973 tenne un'audizione per entrare nei Kiss come chitarrista solista ma gli fu preferito Ace Frehley. Ciononostante i Kiss decisero di tenere da conto Bob impiegandolo nel caso in cui Frehley non fosse stato nelle condizioni di lavorare. Con i Kiss Bob ha suonato in alcune tracce degli album «Alive II» (1978), «Killers» (1982) e «Creatures of the Night» (1982). Bob Kulick ha inoltre collaborato con il frontman dei Kiss Paul Stanley per il suo album solista «Paul Stanley» (1978), sia nel suo tour del 1989, sempre da solista. Bob Kulick negli anni Ottanta formò il gruppo Balance con Peppy Castro e Doug Katsaros.

·        E’ morto l’attore Anthony James.

Marco Giusti per Dagospia il 29 maggio 2020. Anche i cattivi muoiono. Se ne va uno dei cattivi più tenebrosi e riconoscibili di Hollywood, Anthony James, 77 anni, nato a Myrtle Beach, South Caroline e morto a Cambridge, Massachussets. Lo abbiamo visto tutti, ma proprio tutti, nel suo primo film, “La calda notte dell’Ispettore Tibbs”, dove è Ralph Henshaw, il pessimo padrone della fetente bettola con faccia un po’ a teschio, occhi in fuori, barba incolta, che sa molto più di quel che dichiara in un sud razzista del dopo Dallas. Figlio di due immigrati greci arrivati in America negli anni ’40, si ritrovò a soli otto anni orfano di padre, così la mamma decise di spostare la famiglia a Los Angeles. Lì, per pagarsi gli studi di recitazione, fece di tutto, anche pulire i bagni. Molto lo aiutò il fisico curioso, alto due metri con questa faccia spettrale, ma era anche un ottimo attore. Così entrò facilmente nel mondo della tv e poi del cinema. Grazie al ruolo di cattivo in “La calda notte dell’Ispettore Tibbs”, diventò popolarissimo negli anni ’70 e ’80 e gli toccò interpretare qualsiasi ruolo di razzista, maniaco, losco figuro pronto a dare il peggio di sé in una marea di telefilm e di film anche molto popolari come “Facce per l’inferno” di John Guillermin, il western “Sam Whiskey” di Arnold Laven, il drammatico “Tick… Tick…Tick… esplode la violenza” di Ralph Nelson. Ma è notevole anche come autostoppista gay nel cultissimo e generazionale “Punto zero” di Richard Sarafian, o come prete nello stilosissimo western “Fango, sudore, polvere da sparo” di Dick Richards. Con “Lo straniero senza nome”, dove faceva il bandito, si legò molto a Clint Eastwood e la sua carriera fece un ulteriore passo avanti. Lo troviamo poi nella commedia western “Pazzo pazzo west” di Howard Zieff, nell’horror di Dan Curtis “Ballata macabra” come pauroso chaffeur, in “Tuono blu” di John Badham, o nel curioso “Gli angeli dell’odio” di Lee H. Katzin dove fa il cannibale buono. Fa il verso a se stesso nel parodistico “La pallottola spuntata”, mentre incontra per la seconda volta sullo schermo Clint Eastwood nel bellissimo “Gli spietati”, dove interpreta il padrone del bordello. Dopo questo film, siamo ormai verso la metà degli anni ’90, decise di lasciare per sempre il cinema. Assieme alla mamma adorata, non si è mai sposato, si ritirò a Cambridge, Massachussets, dove insegnò recitazione, ma soprattutto sviluppò una carriera di pittore astratto che gli dette molte soddisfazioni, con mostre per le grandi città americane. Scrisse anche un libro di memorie, ovviamente dedicato alla mamma.

·        E’ morto Franco Raselli, uno degli orafi più importanti nel mondo.

Il coronavirus uccide Franco Raselli, uno degli orafi più importanti nel mondo. Pubblicato venerdì, 29 maggio 2020 da La Repubblica.it. E' morto ucciso dal coronavirus Franco Raselli, 73 anni, una delle figure più importanti nel mondo orafo. Nel 1969 aveva fondato la società per azioni omonima, presente in cinque Paesi nel mondo, che era arrivata a fatturare oltre sessanta milioni. Nel 2018 aveva fatto causa a Ivanka Trump, la figlia del presidente Usa, perché non si erano finiti di pagare i gioielli richiesti da una gioielleria newyorkese e portati dall'ereditiera. "Oggi è un giornata particolarmente triste - commenta il sindaco di Valenza (Alessandria), Gianluca Barbero - Ogni volta che ti sembra di uscire dal tunnel di questo virus, ci ricadi di nuovo. Perdiamo un grande imprenditore, rimasto in azienda fino all'ultimo giorno prima di ammalarsi. Lungimirante, vicino alla sua città e alle associazioni in modo sempre discreto. Un grande uomo dalla grande visione di prospettiva". "Con lui - ricorda Massimo Barbadoro, assessore a Industria, Commercio, Artigianato - sono stato spesso in Cina, dove è stato capace di muoversi in maniera creativa anche quando il Paese asiatico non era certo una potenza economica come adesso. Un anticipatore dei tempi". "Non faceva parte del nostro gruppo, però tutti lo conoscevamo - conclude Francesco Barberis, presidente Gruppo Aziende Orafe di Confindustria - La Rasellì resta la maggiore esperienza di trasformazione da attività artigianale a multinazionale".

·        E’ morta Alice Severi: ex bimba prodigio del piano.

Floriana Rullo per "corriere.it" il 28 maggio 2020. «Aveva un talento fuori dal comune». Era un talento naturale al pianoforte, riconosciuto da tutti i colleghi, quello di Alice Severi, morta a 32 anni nella sua casa di Domodossola per cause ancora da accertare. Fin da quando era bambina, ad appena sette anni, aveva messo in mostra il suo talento vincendo il premio internazionale Stresa, dedicato ai giovani pianisti. Era il 1992 e, in quell’occasione, aveva superato ragazzi più grandi di lei, arrivati da tutta Europa. È stata trovata senza vita nell’appartamento in centro città, dove viveva con la madre. Per le vie del paese la si poteva incontrare insieme ai due alani di cui si prendeva cura. Fino a qualche anno fa anche con un corvo nero, che portava in giro sulla spalla come fosse un cagnolino. Conosciuta nel mondo della musica, era la bambina prodigio, ormai diventata donna, che aveva imparato a suonare Beethoven, Chopin, Mozart sui tasti bianchi e neri del pianoforte prima ancora dell’alfabeto. A Domodossola aveva frequentato i primi anni alle scuole elementari Milani, poi aveva proseguito da privatista per poter continuare gli studi di piano con l’insegnante Michela Casalini. Le sue mani volavano sul pianoforte. Diplomata al Conservatorio di Cremona nel 2007, si era esibita in numerosi concerti che l’avevano portata sui più prestigiosi palchi del mondo. E lei, bellissima e biondissima, incantava il pubblico ogni volta che si sedeva al piano. Esibizioni sempre impeccabili con la tecnica che fino da piccola aveva stupito la critica. Alice aveva un talento naturale. Una capacità di eseguire e interpretare brani di qualsiasi difficoltà con una scioltezza unica. Ogni spartito da lei suonato diventava semplice. Da bambina si era esibita negli Stati Uniti e in Canada; un recital a Detroit è stato anche trasmesso dalla televisione Nbc. Doti musicali apprezzate da celebri pianisti come Paul Badura Skoda e Marta Algerich. Numerosi i premi in concorsi nazionali e internazionali ricevuti. Una lunga lista tra cui spicca nel 2006 il primo posto al concorso «Chopin» di Racconigi e il terzo posto al concorso pianistico «Premio Venezia» ricevendo anche un’onorificenza dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che l’aveva invitata al Quirinale. Negli ultimi anni la carriera da pianista era stata un po’ messa da parte, dietro un aspetto che poteva sembrare appariscente si celava una donna fragile. Aveva tentato di rilanciarsi sul web, senza mai riuscirci sul serio. Spesso condivideva video di esibizioni e lezioni per avvicinare i più piccoli alla musica. Arte che non aveva mai abbandonato. Da un paio di anni insegnava all’accademia musicale Mozzati di Mezzago, in provincia di Milano.

Floriana Rullo per il “Corriere della Sera” il 29 maggio 2020. Quando si sedeva al pianoforte Alice Severi tirava fuori il suo talento naturale per la musica. Una dote straordinaria quella che possedeva la 32enne, capace di conquistare chiunque la stesse ascoltando. Se ne erano accorti molto presto in Piemonte quando, bambina di appena sette anni, aveva messo in mostra il suo talento vincendo il premio internazionale Stresa, dedicato ai giovani pianisti. Era il 1992 e, in quell'occasione, aveva sbaragliato la concorrenza fatta di decine di partecipanti più grandi di lei, arrivati da tutta Europa. Alice è stata trovata senza vita nell' appartamento di Domodossola dove viveva con la madre. Una morte ancora da chiarire, che ha lasciato senza parole l' intera città centro principale della val d' Ossola. Da giorni, per le strade dove risiedono appena 18 mila abitanti e in cui Alice è cresciuta, non si parla d' altro. Da bimba prodigio aveva frequentato i primi anni alle scuole elementari Milani, continuando poi da privatista. Fino a qualche giorno fa la si poteva incontrare mentre portava a spasso i suoi cani, due alani, di cui si prendeva cura. Fino a qualche anno fa aveva anche un corvo nero. Conosciuta nel mondo della musica, era l' enfant prodige ossolana, ormai diventata donna, che aveva imparato a suonare Beethoven, Chopin, Mozart sui tasti bianchi e neri del pianoforte prima ancora di conoscere l' alfabeto. Il pianoforte era stato sempre il suo unico grande interesse. E le sue mani volavano sui tasti ogni volta che seguiva uno spartito. Diplomata al Conservatorio di Cremona nel 2007, seguita dall' insegnante Michela Casalini, si era esibita in numerosi concerti che l' avevano portata a salire sui più prestigiosi palchi del mondo. E lei incantava il pubblico ogni volta che si sedeva al piano. Le sue esibizioni erano sempre impeccabili. Non potevano non esserlo visto il suo pretendere sempre molto da se stessa e la tecnica che fin da piccola aveva imparato. Una perfezione capace di sorprendere e lasciare a bocca aperta la critica. Mai scontata, mai banale, aveva una capacità naturale di eseguire e interpretare brani di qualsiasi difficoltà con una scioltezza unica. Ogni spartito da lei suonato diventava semplice per chi lo ascoltava. Da bambina si era esibita negli Stati Uniti e in Canada; un recital a Detroit è stato anche trasmesso dalla televisione Nbc. Doti apprezzate da celebri pianisti come Paul Badura Skoda e Martha Argerich, che l' aveva voluta ascoltare in privato alla fine di un concerto. Numerosi i premi in concorsi nazionali e internazionali ricevuti. Una lunga lista tra cui spicca nel 2006 il primo posto al concorso «Chopin» di Racconigi e il terzo posto al concorso pianistico «Premio Venezia» ricevendo anche un' onorificenza dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che l' aveva invitata al Quirinale. Negli ultimi anni la carriera da pianista era stata un po' messa da parte. Aveva tentato di rilanciarsi sul web, senza mai riuscirci sul serio, postando video anche fuori dal contesto musicale. Dietro un aspetto che poteva sembrare appariscente, si celava una donna fragile. Spesso Alice condivideva anche video di esibizioni e lezioni dedicati ai più piccoli con l' obiettivo di avvicinarli alla musica. Arte che non aveva mai abbandonato. Da un paio di anni insegnava all' accademia musicale Mozzati di Mezzago, in provincia di Milano, dove tutti ora la ricordano con affetto.

Alice Severi, ex bimba prodigio del piano trovata morta in casa. Il giallo sulla morte di Alice Severi, ex bambina prodigio del pianoforte, trovata morta nella sua casa di Domodossola all'età di 32 anni. Rosa Scognamiglio, Venerdì 29/05/2020 su Il Giornale. È un giallo la morte di Alice Severi, 32 anni, ex bambina prodigio del pianoforte, trovata morta nella casa in cui viveva con la madre, Caterina Sgro, infermiera all'ospedale San Biagio di Domodossola. Una vita costellata di successi Oltreoceano e prestigiosi riconoscimenti come musicista, Alice Severi era una indiscussa fuoriclasse al pianoforte. Aveva cominciato a suonare, prima ancora che a leggere o scrivere, vicendo il premio internazionale di Stresa, dedicato ai musicisti di tutta Europa, all'età di appena 7 anni. Un talento davvero raro e prezioso, unico nel suo genere. Apprezzatissima dai suoi colleghi, era stata tra le poche bambine al mondo a saper suonare in scioltezza le note di Chopin, Mozart e Beethoven: il pianoforte era la sua unica, grande passione. E le sue mani volavano su quei tasti neri e bianchi quando leggeva uno spartito. Nata e cresciuta in Val d'Ossola, nella provincia del Verbano-Cusio-Ossola, aveva frequentato le elementari all'Istituto Milani continuando poi le medie da privatista. Nel 2006 vinse il primo posto al concorso «Chopin» di Racconigi; a 21 anni era arrivata terza al concorso pianistico «Premio Venezia» ricevendo anche un’onorificenza dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Diplomata al Conservatorio di Cremona nel 2007, seguita dall’insegnante Michela Casalini, si era esibita in numerosi concerti che l’avevano portata calcare i palcoscenici più prestigiosi del mondo. E lei incantava il pubblico ogni volta che si sedeva al piano. Le sue esibizioni erano sempre ineccepibili, melodiose e in grado di far sognare ad occhi aperti chi l'ascoltava.Una perfezione capace di sorprendere e lasciare a bocca aperta la critica: mai scontata, mai banale, aveva una capacità naturale di eseguire e interpretare brani di qualsiasi difficoltà con una scioltezza unica. Ogni spartito da lei suonato diventava semplice per chi lo ascoltava. Da bambina si era esibita negli Stati Uniti e in Canada; un recital a Detroit è stato anche trasmesso dalla televisione Nbc. Doti apprezzate da celebri pianisti come Paul Badura Skoda e Martha Argerich, che l’aveva voluta ascoltare in privato alla fine di un concerto. Ma dietro quella corazza da professionista impeccabile, forse, si celava l'animo di una donna fragile. Alice è stata trovata senza vita nel suo appartamento di Domodossola, casa che condivideva con la madre, qualche giorno fa. Una morte inattesa che ha gettato nello sconforto tutti gli abitanti della piccola Val d'Ossola: nessuno riesce a capire cosa possa essere accaduto. Da qualche tempo, la 32enne aveva accantonato il piano lanciandosi nel mondo del web. Aveva aperto un profilo social attraverso il quale condivideva stralci della sua quotidianità che c'entravano poco o nulla con il mondo della musica. Di tanto in tanto, la si incrociava in giro con i suoi due amatissimi alani, ma non sembrava più la stessa. Quella bimba prodigio era cresciuta e, probabilmente, qualcosa in lei si era spezzato. "Era geniale. Mi ricordo che la prima volta che l’ho sentita suonare aveva 8 anni ed era alla Fabbrica - dice il pianista ossolano Roberto Olzer a La Stampa -. Ha avuto una carriera importante, era una professionista molto valutata e ricercata non solo in Italia ma anche all’estero. e si riconosceva capacità e tecnica incredibili. Raramente si ascoltava un talento così spiccato e naturale". Ma adesso, di Alice non resta che il ricordo di un talento raro e il dolore inconsolabile dei suoi genitori.

·        È morto Larry Kramer, sceneggiatore.

È morto Larry Kramer, sceneggiatore tra i più influenti attivisti anti-Aids. Pubblicato mercoledì, 27 maggio 2020 da La Repubblica.it. Larry Kramer, drammaturgo e sceneggiatore statunitense, è morto a Manhattan per una polmonite all'età di 84 anni. L'annuncio della scomparsa è stato dato da suo marito, l'architetto David Webster. Attivista anti-Aids, Kramer è noto per la premiata commedia The Normal Heart che portò per la prima volta il virus Hiv sul palcoscenico di Broadway vincendo un Tony Award. Larry Kramer visse a Londra dal 1961 al 1970 lavorando come sceneggiatore. Il suo successo maggiore dell'epoca è stata la sceneggiatura per il film Donne in amore (1969) di Ken Russell, basato sul romanzo Donne innamorate di D. H. Lawrence, per cui è stato nominato agli Oscar. Ha poi scritto il soggetto di Orizzonte perduto (1973) di Charles Jarrott. Kramer fu un sostenitore dei diritti gay fin dai primi anni 70 ma il suo modo eterodosso di sostenere la comunità omosessuale suscitò scalpore. Il suo romanzo del 1978 Faggots è stato un bestseller tra i romanzi a tema gay ma si è attirato addosso addirittura l'accusa di omofobia per l'aperta critica agli eccessi promiscui del mondo omosessuale newyorkese. Divenuto fin dal 1981 attivista anti-Aids, ha scritto l'opera teatrale The Normal Heart (1985), che resta una delle risposte culturali più importanti alla devastazione causata dall'Aids agli inizi dell'epidemia. Considerata l'autobiografia teatrale di Kramer, trent'anni dopo è diventata un film diretto da Ryan Murphy, con Brad Pitt tra i produttori. Trasmesso in tv negli Usa, ha ottenuto 16 nomination agli Emmy, ed è stato osannato dal presidente Obama. Tra gli interpreti Mark Ruffalo, Matt Boomer e Julia Roberts. Kramer è stato uno dei fondatori del Gay Men's Health Crisis, un'organizzazione di lotta contro l'Aids con sede a New York. Nel 1987 ha contribuito a fondare la Aids Coalition to Unleash Power, un'organizzazione di lotta e protesta spesso coinvolta in azioni di disobbedienza civile. Negli anni 90 gli è stata diagnosticata l'infezione da virus Hiv. Nel dicembre 2001 Kramer si è sottoposto a un trapianto di fegato al Medical Center dell'Università di Pittsburgh. Nel 2013 ha sposato il suo compagno, David Webster.

·        E’ morto Prahlad Jani, l’indiano che sosteneva di non mangiare e bere dal 1940.

DAGONEWS il 27 maggio 2020. Prahlad Jani, l’indiano che sosteneva di non mangiare e bere dal 1940, è morto all’età di 90 anni. L’uomo, che aveva un piccolo stuolo di seguaci, viveva a Charada nello stato occidentale del Gujarat, dove ha trascorso la sua vita tra yoga e mediazione . «È morto martedì mattina nella sua residenza per vecchiaia - ha detto a AFP Sheetal Chaudhary, che viveva accanto a Jani - È stato portato di corsa in ospedale dopo mezzanotte, ma è stato dichiarato morto all'arrivo dai medici». Il corpo di Jani è stato portato ad Ambaji, una città famosa per i suoi templi, dove sarà esposto per due giorni in modo tale che i seguaci possano rendergli omaggio. Jani raccontava di essere stato benedetto da una dea quando era un bambino e questo gli permetteva di vivere senza acqua o cibo. Un’affermazione che ha sempre fatto storcere il naso ai medici. Nel 2003 aveva dichiarato di aver scoperto: «l'elisir di lunga  vita e di nutrirsi attraverso un buco nel palato dal quale la dea gli forniva nutrimento». Nel 2010 un team di medici militari lo ha studiato per due settimane in un ospedale di Ahmedabad, la più grande città del Gujarat. Jani è stato osservato 24 ore su 24 con telecamere a circuito chiuso. I medici hanno eseguito esami ai suoi organi, al cervello e ai vasi sanguigni e hanno condotto test su cuore, polmoni e memoria. Secondo quanto riscontrato all’epoca pare che l’uomo effettivamente non avesse contatti con l’acqua se non durante i gargarismi e il bagno. «Non sappiamo come sopravvive – aveva detto il neurologo Sudhir Shah - È ancora un mistero che tipo di fenomeno sia». I risultati dello studio, avviato dall'Organizzazione per la ricerca e lo sviluppo della difesa dell'India, non sono mai stati pubblicati o sottoposti a revisione.

·        Addio all'attore Richard Herd, comandante supremo dei "Visitors".

Addio all'attore Richard Herd, comandante supremo dei "Visitors". Pubblicato mercoledì, 27 maggio 2020 da La Repubblica.it. Addio a Richard Herd, attore americano amato dagli appassionati di fantascienza per aver interpretato il Comandante Supremo John nella serie televisiva Visitors e per i cinefili per l'exa agente James McCord di Tutti gli uomini del presidente. Era apparso anche in numerosi episodi di Star Trek e tra i protagonisti della sitcom Seinfeld. E' morto ieri nella sua casa di Los Angeles, per le complicazioni legate ad un tumore, aveva 87 anni. L'annuncio della scomparsa è stato dato dalla moglie, l'attrice Patricia Crowder Herd. Nella carriera lunga cinquant'anni, ha spesso interpretato personaggi forti e dominatori. Ha debuttato in Ercole a New York nel 1970, al fianco di Arnold Schwarzenegger. Interpreto il personaggio chiave dello scandalo Watergate, James McCord, ex agente della Cia e coordinatore per la sicurezza del Comitato per la Rielezione del presidente degli Stati Uniti Richard Nixon, in Tutti gli uomini del presidente, nel 1976. Tra gli altri film Sindrome cinese (1976), Soldato Giulia agli ordini (1980), L'affare del secolo (1983), Un biglietto in due (1987) e Sergente Bilko (1996). Ma il ruolo che gli ha consegnato l'amore dei fan è stato quello del Comandante Supremo John nella miniserie fantascientifica V- Visitors del 1983 e nel seguito dell'anno successivo. E sempre nel mondo della fantascienza ha vestito i panni di Klingon L'Kor in Star Trek: The Next Generation (1993), dell'Ammiraglio William Noyce in SeaQuest 2032 (1993-94) e dell'Ammiraglio Owen Paris in Star Trek: Voyage (1999-2001) e Star Trek: Renegades (2015). Dal 1982 al 1985 Richard Herd ha interpretato il capitano di polizia Dennis Sheridan nella serie televisiva T.J.Hooker. L'attore ha recitato in numerosi episodi delle più popolari serie tv tra gli anni '70 e '80, tra cui Il tenente Kojak, Agenzia Rockford, Le strade di San Francisco, La famiglia Bradford, Starsky & Hutch.

·        E’ Morto Stanley Ho. Addio al re dell'azzardo.

Mafie, donne e guerre. Addio al re dell'azzardo. Cominciò con 10 dollari, ha fatto di Macao la regina dei casinò. Senza scommettere mai. Roberto Fabbri, Mercoledì 27/05/2020 su Il Giornale. Il gioco d'azzardo ne aveva fatto uno degli uomini più ricchi dell'Asia, ma lui si guardava bene dal puntare anche un solo dollaro al casinò. Arrivato a quasi cent'anni di età, Stanley Ho, l'uomo che aveva trasformato Macao nella Las Vegas d'Oriente, non si stancava di ripetere ai suoi figli e ai suoi amici migliori di evitare di giocare forte, e anzi insisteva «se potete, non scommettete affatto». Evidentemente conosceva le regole del gioco, e doveva aver assistito a troppe tragedie. La storia di Ho, morto ieri in un ospedale dell'ex colonia portoghese sulla costa meridionale della Cina, è quella di un imprenditore che univa logica e sregolatezza in un mix che aveva fatto di lui un personaggio da film. Quasi sessant'anni fa, nel 1961, Ho era stato il primo a ottenere una licenza per aprire una casa da gioco a Macao, e seppe in breve tempo trasformare la decadente città coloniale in una capitale mondiale dell'azzardo. Se ancor oggi Macao (tornata sotto la sovranità cinese nel 1999) ricava quasi il 90 per cento delle sue entrate fiscali dal gioco lo deve a lui, il fondatore dello spettacolare casinò «Gran Lisboa», che per quarant'anni aveva mantenuto il monopolio del settore arricchendosi spropositatamente. Solo nel 2002, le nuove autorità locali aprirono il settore agli investitori stranieri, che fecero all'ormai ottantenne Ho una concorrenza spietata. Non tale, però, da metterlo in ginocchio: il vecchio re dei casinò aveva da tempo diversificato i suoi interessi, e la sua Sociedade de Turismo e Diversoes de Macau si occupava ormai anche di corse di cavalli, di alberghi di lusso e perfino di elicotteri. Abbastanza per mantenere senza problemi i diciassette figli che aveva avuto da quattro donne diverse. Milionario già a 24 anni, Stanley Ho era in realtà originario di Hong Kong: era nato in una famiglia mista euro-asiatica, una delle quattro più ricche di Hong Kong. A soli 13 anni, però, suo padre si era rovinato ed era scappato in Vietnam, lasciando la famiglia nell'indigenza. Le disgrazie non erano finite: quando i giapponesi invasero la Cina e attaccarono Hong Kong, il giovane Ho dovette trovare rifugio a Macao, che grazie alla neutralità del Portogallo conservava almeno in parte la propria autonomia. In quel piccolo mondo perfetto per il contrabbando, il figlio spiantato del tycoon di Hong Kong cominciò la sua scalata, partendo quasi come in un fumetto di Paperon de' Paperoni con soli dieci dollari guadagnati prima di scappare davanti all'esercito del Sol Levante. Ho lavorò in una società che contrabbandava alimentari e generi di lusso, poi investì nel mattone e nel carburante, infine scoprì la sua vera vocazione: le case da gioco. Ridiventato ricchissimo, si fece amare per la filantropia e l'eleganza, e detestare da molti per i suoi (mai provati) legami con le Triadi, la mafia cinese, e per i rapporti poco limpidi con la Corea del Nord. Amava il tango e le stravaganze (tentò perfino di mediare con Saddam Hussein per evitare la guerra del Golfo), ma soprattutto il suo lavoro: non mollò la presidenza del suo gruppo fino all'età di 96 anni.

·        E' morto Bruno Bernardi, storica firma de La Stampa.

E' morto Bruno Bernardi, storica firma de La Stampa. Giornalista e scrittore (tra i suoi libri la biografia di Gigi Riva), la Juventus era la sua grande passione. La Repubblica il 19 maggio 2020. E' morto Bruno Bernardi, storica firma di calcio del quotidiano La Stampa per il quale ha lavorato per decenni raccontando partite, personaggi, aneddoti e retroscena della Juventus di cui era grande tifoso. Aveva 79 anni e da qualche giorno era ricoverato all'ospedale Mauriziano. Da ragazzo aveva giocato a calcio in una società dilettantistica torinese, il Pino Maina. Andato in pensione, è stato opinionista in alcuni programmi televisivi tra cui "Il processo di Biscardi". Ha scritto una quindicina di libri: il più apprezzato è probabilmente 'Rombo di tuono', la biografia di Gigi Riva, al quale era legato da stima e amicizia. "Bruno Bernardi 'è' la cronaca, la incarna - scriveva nella prefazione del libro lo scrittore Giovanni Arpino - Lui, che ha giocato a football, si ferma sul tocco di esterno, sullo strappo, sul debito di ossigeno, sul taglio, sullo stacco, insomma su quei fondamentali elementi che costituiscono l'umile scienza della cronaca".

Bruno Bernardi raccontava la Juve chiedendo permesso. Luca Momblano il 19 maggio 2020 su  juventibus.com. Bruno Bernardi lo leggevo quando era già giornalista professionista da più di 20 anni. Poi lo ascoltavo e sembrava di un altro mondo, ma si adattava senza perdere il proprio stile. E la partita, che comunque era al centro di tutto. Da Bernardi – il grande Bernardi, senza per forza un volto su La Stampa e con l’oculatezza di chi sa quanto siano importanti le parole – è poi per me gradualmente, e fatalmente, diventato soltanto Bruno. Sono stato fortunato.

Fortunato perché Bruno mi ha prestato (anzi, l’ho presa in prestito senza chiedergliela, scusami Bruno) quella forza di voler raccontare la Juventus come una cosa che ti appartiene, ma che in realtà non ti appartiene perché appartiene soltanto a chi ne fa parte. Pubblico incluso, ancor più se pubblico pagante. In televisione poi – se sei stato almeno una volta al fianco di Bruno – quel pubblico era “generalista” cioé di due colori ma anche di tutti i colori, era “ascoltatore”, era “testimone di un testimone” ed era da rispettarsi a prescindere. I fatti prima di tutto, gli aneddoti soltanto dopo, preferibilmente in privato. Amava soffermarsi su singole scelte tecniche di formazione, sulle vigilie, sulle rocambolesche storie di quelle vigilie, sul fatto che ogni tanto suggeriva e ci prendeva, col buon occhio dell’ex bomber dello Spartanova Torino che fu. La Juve e la Nazionale, un certo rispetto e una certa ammirazione per il Torino. Era un esteta, Bruno. Era vero e cortese. Dolce. Michel Platini il suo dessert preferito, e in pochi sanno quanto Bruno fosse goloso. Negli studi tv era l’Anastasi – fa un certo effetto scriverlo – dei giornalisti legati a doppia mandata alla parabola della Vecchia Signora: Bruno non voleva spiegare, voleva condividere. E nessuno per lui – come per Anastasi, per tutti quelli come loro di cui infatti ci si dimenticherà troppo in fretta – era mai l’ultimo arrivato. Bruno (come Pietro) non riteneva di avere qualcosa da far pesare. Da buon giornalista, ogni giorno era ora e adesso. Bruno, come uomo, dava la sensazione di non riuscir mai a disprezzare. Una persona, un pensiero, una provocazione, un’offesa non scalfivano il suo livello di persona semplice e di (ex) professionista irreprensibile, vecchio stampo, forse perfino un po’ dileggiato dai più giovani. Era più forte di lui, faceva fatica perfino a borbottare o a sollevare la minima protesta. O forse era “soltanto” nella sua più grande interpretazione di un ruolo che come il centromediano metodista – direbbe lui – è stato poi superato (e guastato?) dall’esuberanza delle nuove generazioni. Era forte Bruno, forte anche delle sue enciclopediche memorie monografiche su ogni componente delle tante Juventus che ha attraversato. Per Bruno avevano sempre qualcosa in comune l’una con l’altra. Lui dava valore anche alle Juve che non vincevano, agli eroi minori, alle fragilità umane di questo sport divenuto disumano. E lo faceva senza mai uscire dal campo. Dal seminato. Dal dovere. Dal mestiere. E quando lo faceva, chiedeva permesso. Fai pure Bruno. E salutaci l’Avvocato.

E’ morto Bruno Bernardi, storica firma de La Stampa. Salvino Cavallaro de Redazione di siciliaoggi.com il 21 Maggio 2020. Ci ha raccontato di Juventus, di calcio mondiale, di campioni del pallone e di uomini veri per oltre mezzo secolo, esattamente dall’inizio degli anni ’60. Per chi non l’avesse capito, stiamo parlando di Bruno Bernardi firma storica de “La Stampa”. Il nostro incontro avviene proprio lì, ai piedi della collina di Torino nel tratto che divide il Ponte Isabella da quello di Corso Bramante, in zona Molinette. Prospiciente alla redazione de “La Stampa”, ci sono dei giardinetti e, con il “maestro”, decidiamo di comune accordo di accomodarci in una panchina. Abbiamo voglia di stare all’aria aperta e non è un caso avere scelto questa soluzione per l’intervista. Infatti, sarà la dolce aria di primavera o puramente il desiderio di rendere l’incontro meno ufficiale, fatto è che entrambi, in quel luogo, ci siamo subito sentiti a nostro agio. La gente passa incuriosita e, qualche volta, tergiversa volutamente nel vano tentativo di carpire una parola, una frase detta dall’illustre interlocutore. Il paesaggio, l’aria dolce di primavera, i colori variopinti dei fiori appena sbocciati e il lento fluire del Po, ci introduce in un conversare cordiale, fatto di ricordi e di commozione legata al tempo che fugge via velocemente. Bruno Bernardi è in pensione da diversi anni, tuttavia, continua caparbiamente a interessarsi di calcio e a frequentare quella storica redazione de La Stampa (che per lui è diventata una seconda casa), con il desiderio di stare al passo dei tempi, di non perdere la notizia, di cavalcare l’attualità sportiva inerente soprattutto la “sua” Juve, per poterla riferire come opinionista negli studi di Juventus Channel piuttosto che al Processo di Biscardi o altre televisioni private con le quali collabora proprio come se lavorasse ancora. Un piacevole impegno di presenza quotidiana che s’interseca al desiderio di recuperare quelle lunghe assenze dalla sede di via Marenco, dovute al suo impegno d’inviato speciale al seguito della Juventus. Un lavoro bellissimo che gli ha dato modo di conoscere il mondo in lungo e in largo. Bernardi nasce a Torino da mamma Margherita, ultranovantenne che adora, e papà Eligio tifoso granata DOC, amico di Ossola e Gabetto. Ci rimase un po’ male papà Eligio, quando il figlio Bruno, all’età di sette anni, nel negozio di articoli sportivi di Parola, scelse la maglia della Juventus e non quella granata del Toro che, peraltro, gli era già stata regalata da papà nel periodo natalizio. Ricordi lontani nel tempo che s’intrecciano tra figure affettuose e momenti che fanno parte della sua sfera intima di uomo sensibile. Oggi, Bruno Bernardi è legato sentimentalmente a sua moglie Giovanna che egli definisce “La mia luce”. Nel periodo della guerra abitava a Torino, in Corso Valdocco e poi, a causa di un bombardamento, dovette trasferirsi con mamma e papà in Via Garibaldi. Barriera di Milano e Regio Parco sono i suoi quartieri preferiti, per avervi vissuto lunghi anni della sua vita. Era un bravo calciatore. Giocava con il Pino Maina e si atteggiava a Omar Sivori, il suo idolo, non solo nell’emulazione tecnica ma anche nel portare giù i calzettoni arrotolati alla caviglia, proprio come faceva il campione argentino. Giocò una volta sola contro la sua Juve al campo Combi nella categoria Juniores, segnando un memorabile gol e regalando la vittoria per 1 a 0 al Pino Maina, la sua squadra. E, tra tanto passato, ecco il riferimento alla Juventus di oggi che gli ricorda quella di Heriberto Herrera. Quella Juve vinse uno scudetto di misura davanti all’Inter, nonostante i nerazzurri di allora fossero superiori ai bianconeri dal punto di vista tecnico. Il Milan è avvertito. Ma, la squadra di Conte, per la sua cattiveria agonistica, per la continuità e per il modo di pressare a tutto campo l’avversario, Bernardi la paragona alla prima Juve di Marcello Lippi e la ritiene da podio, cioè classificabile nei primi tre posti del campionato. A maggio, ci sarà anche la finale di Coppa Italia contro il Napoli, un’occasione da non perdere. Poi, il riferimento a Del Piero è d’obbligo:“Un grande campione cui ho dedicato un libro, grande classe, grande educazione in campo e fuori; purtroppo la carta d’identità lo penalizza e le logiche aziendali vanno oltre il rispetto per i giocatori considerati “simbolo”. Oggi il calcio è prevalentemente atletico e bisogna stare al passo con la vigoria fisica. Penso che Alex giocherà ancora un anno in America e, in futuro, farà parte del gruppo dirigente della Juventus”. Il “maestro” è instancabile nel suo dire, ma è piacevole ascoltarlo come quando tiene a precisare che dal punto di vista professionale e personale, la Juventus gli ha dato tante soddisfazioni, avendola vista vincere per ben 19 volte, così come ha raccontato nel suo libro “La Juventus, regina di Coppe”. Poi, un ricordo speciale del suo amico e maestro Giovanni Arpino, scrittore, poeta e giornalista di grande qualità che gli attribuì affettuosamente il nome di Bibì: “Con Giovanni nacque un feeling naturale; io avevo 33 anni e lui era un maestro, mai distante da nessuno. L’ho visto scrivere una colonna in otto minuti che, cronometrati, sono più o meno settanta righe scritte senza neppure una sbavatura. Abbiamo girato il mondo insieme per dieci anni, da Cruijff alla lattina in testa a Bordon. Arpino aveva vinto il premio Strega e il Campiello; per questo non dettava mai a braccio”. Poi, come in un film, rivede i grandi campioni da Di Stefano a Sivori, Pelè, Maradona, Baggio, Paolo Rossi, Gigi Riva, Rivera, Mazzola, Platini, Scirea, Zidane, fino ad arrivare a Buffon, Del Piero, Giovinco, Marchisio, De Ceglie. Una carrellata di atleti e di uomini che s’identificano nel calcio di ieri e di oggi e del quale si fregia di essere amico. Tanti sono i suoi racconti legati al mondo del calcio e tutti di notevole interesse e qualità. E intanto, sul calar della sera, l’umidità provocata dalle acque del Po s’impone sul fievole tepore del sole di primavera. L’intervista con il “maestro” Bernardi volge al termine. E’ stato bello incontrarsi, il tempo è volato via velocemente, quasi come il suo mezzo secolo di giornalismo. Ma il nostro è un arrivederci perché ci rivedremo a Milazzo in provincia di Messina il 13 luglio prossimo, in occasione di una conferenza stampa organizzata dai colleghi giornalisti siciliani. Sarà interessante e piacevole per noi giornalisti e per coloro i quali amano il calcio da sempre, ascoltare e rivivere attraverso le parole del “maestro” i trascorsi di un’esperienza professionale e umana di straordinaria intensità culturale. Salvino Cavallaro

·        È morto Jimmy Cobb, tra i più grandi batteristi della storia del jazz.

È morto Jimmy Cobb, tra i più grandi batteristi della storia del jazz. Pubblicato lunedì, 25 maggio 2020 da La Repubblica.it. Jimmy Cobb, uno dei più grandi batteristi della storia del jazz, è morto all'età di 91 anni. È stato il produttore e manager Todd Barkan a dare la notizia sui social. Nel corso di una carriera lunga oltre 70 anni ha collaborato con mostri sacri come Dizzy Gillespie, John Coltrane, Stan Getz e soprattutto Miles Davis. Nato a Washington il 20 gennaio 1929, Cobb è celebre per aver collaborato al capolavoro di Miles Davis, Kind of Blue (1959), il disco più famoso e più venduto della storia del jazz, una pietra miliare del genere registrato nel 1959. Con Cobb alla batteria, c'erano Davis alla tromba, Julian Adderley al sassofono contralto, John Coltrane al sassofono tenore, Bill Evans e Wynton Kelly al pianoforte e Paul Chambers al contrabbasso. Cobb rimase nel gruppo di Miles Davis per cinque anni, con il quale partecipò ad altre storiche registrazioni come Sketches of Spain, Someday My Prince Will Come, Live at Carnegie Hall, Live at the Blackhawk, Porgy and Bess e Sorcerer. Grande innovatore, Jimmy Cobb ha continuato a collaborare con star del jazz come Dizzy Gillespie, Stan Getz e Sarah Vaughan, artisti stilisticamente votati agli incroci con l'hard bop, il funk e la soul music. Per oltre trent'anni Jimmy Cobb è stato attivo a New York con il suo gruppo Jimmy Cobb's Mob. Ha tenuto concerti in tutto il mondo ed è stato spesso ospite in Italia, insegnando anche ai seminari di vari festival. Cobb ha collaborato con i più grandi del mondo del jazz, tra cui Dinah Washington, Billie Holiday, Clark Terry, Wynton Kelly, Wes Montgomery, Gil Evans, Kenny Burrell, J. J. Johnson, Sonny Stitt, George Coleman e molti altri.

Jazz, addio a Jimmy Cobb, leggenda della batteria. La Gazzetta del Mezzogiorno il 26 Maggio 2020. Insieme con Roy Haynes, di quattro anni più anziano, Jimmy Cobb - morto l’altro ieri a 91 anni - era rimasto tra gli ultimi batteristi che potevano vantare di aver suonato con alcuni tra i più grandi musicisti della storia del jazz. E sebbene non avesse mai raggiunto la fama - e forse anche il magistero tecnico - di colleghi quali Max Roach o Art Blakey, era considerato a buon diritto uno dei grandi maestri del suo strumento. Tuttavia, a far entrare il suo nome nella leggenda, era stata una fortunata, preziosa collaborazione, che nel corso degli Anni ‘50 e ‘60 lo aveva imposto sulle scene internazionali. Non ancora trentenne, era stato infatti cooptato da Miles Davis nel suo gruppo e questo gli aveva consentito di prendere parte ad alcune registrazioni poi diventate leggendarie: aveva cominciato con Porgie and Bess, licenziato nel 1958 dalla Columbia a nome della coppia Miles Davis - Gil Evans, ma soprattutto, un anno più tardi, aveva preso parte alla registrazione del leggendario Kind of Blue, l’album di Davis tra i più celebrati di tutta la storia del jazz moderno. La loro collaborazione sarebbe proseguita sino al 1963, con altri titoli ben noti ai «davisiani» e contemporaneamente quella militanza gli consentì di collaborare discograficamente anche con John Coltrane, che rimase al fianco del trombettista fino al 1959. Non a caso, Cobb registrò con lui in alcuni album della Prestige e anche nei primi della Atlantic, prima che il sassofonista chiamasse con sè Elvin Jones. Si può dire, in altre parole, che Cobb - le cui colleborazioni sono lunghe e prestigiose - abbia «capitalizzato» quel periodo per tutto il resto della propria vita, accettando di buon grado di collaborare anche con i giovani solisti europei, spesso per cifre ben al di sotto di un musicista della sua reputazione. Lo ricordiamo in Puglia a Ostuni per Nicky Maffei e a Bari, nelle indimenticate notti dello Strange Fruit e anche al Fez con Nat Adderley. Preciso, swingante, fantasioso eppure sempre attento a non «coprire» i giovani colleghi che lo trattavano con il rispetto dovuto a un maestro dal nome leggendario. E ai quali insegnava innanzitutto l’importanza di non montarsi la testa.

·        È morto John Peter Sloan, il comico insegnante d'inglese più famoso d'Italia.

Da repubblica.it il 26 maggio 2020. Maurizio Colombi scrive: "Oggi ci ha lasciato un grande personaggio italiano importato da Birmingham. John Peter Sloan, un grande cantante, un creatore, un attore, un comico, un insegnante unico, una persona difficile e discutibile fra le più intelligenti che abbia mai conosciuto ma soprattutto un grande amico che adesso mi manca molto. Tvb". Bellissime le parole di Herbert Pacton: "Hai saputo tirare fuori il meglio di me, come persona e come attore, abbiamo riso cosi tanto lavorando fianco a fianco. Ho sempre avuto una grandissima ammirazione per le tue idee geniali, mi hai preso sotto la tua ala e mi hai fatto planare e sono stati momenti incredibili. Ora mi risuona la tua voce in testa, con gli occhi pieni di lacrime mentre accenno ad un sorriso perché sento la tua voce che mi dice una cazzata. Ti ho voluto sempre sempre sempre un gran bene amico mio ed ora ti devo dire addio. Ti porterò per sempre nel mio cuore Mate".

È morto John Peter Sloan, il comico insegnante d'inglese più famoso d'Italia. Pubblicato martedì, 26 maggio 2020 su La Repubblica.it. È morto all'improvviso John Peter Sloan, aveva 51 anni. La notizia è stata data su Facebook da due suoi colleghi. Arrivato in Italia nel 1990, cantante, attore teatrale e scrittore di libri, è diventato uno dei volti più amati di Zelig. Le sue lezioni di inglese sono diventate un cult. È morto a Menfi, dove viveva dal 2016 quando aveva deciso di trasferirsi in Sicilia e di aprire la "Sloan scuola di inglese", un luogo di apprendimento della lingua rivolto ai bambini, agli adulti e ai docenti. Un luogo che amava molto, e da qui soltanto tre giorni fa postava fotografie del mare siciliano e del suo ritorno in studio di registrazione per nuovi cicli di corsi di inglese.John Peter Sloan a Menfi: "Amate i vostri cani" in riproduzione.... Condividi   Morto John Peter Sloan, il ricordo dei colleghi. Maurizio Colombi scrive: "Oggi ci ha lasciato un grande personaggio italiano importato da Birmingam. John Peter Sloan, un grande cantante, un creatore, un attore, un comico, un insegnante unico, una persona difficile e discutibile fra le più intelligenti che abbia mai conosciuto ma soprattutto un grande amico che adesso mi manca molto. Tvb". Bellissime le parole di Herbert Pacton: "Hai saputo tirare fuori il meglio di me, come persona e come attore, abbiamo riso cosi tanto lavorando fianco a fianco. Ho sempre avuto una grandissima ammirazione per le tue idee geniali, mi hai preso sotto la tua ala e mi hai fatto planare e sono stati momenti incredibili. Ora mi risuona la tua voce in testa, con gli occhi pieni di lacrime mentre accenno ad un sorriso perché sento la tua voce che mi dice una cazzata. Ti ho voluto sempre sempre sempre un gran bene amico mio ed ora ti devo dire addio. Ti porterò per sempre nel mio cuore Mate".

Addio a Sloan, l’insegnante di inglese più famoso d’Italia. Il 51enne John Peter Sloan aveva inventato un metodo d'insegnamento della lingua inglese divertente con il quale si era guadagnato l’affetto del pubblico. Gabriele Laganà, Martedì 26/05/2020 su Il Giornale. È morto all'improvviso John Peter Sloan, il 51enne insegnante d'inglese più famoso d'Italia. Sloan, attore, cantante, scrittore di libri e comico, era diventato noto al grande pubblico grazie al suo rivoluzionario e divertente metodo d'insegnamento della lingua tanto che le sue lezioni sono divenute in breve tempo un vero e proprio cult. Inoltre era divenuto anche uno dei volti più amati di Zelig. La drammatica notizia è stata pubblicata su Facebook da alcuni suoi colleghi. Sloan arrivò a Milano nell’ormai lontano 1990 per una serie di concerti con il suo gruppo rock di allora. Il legame con la città non si era mai interrotto. Nel 2011 decise di aprire, in zona Loreto, la sua prima scuola. Visto l’enorme successo, Sloan espande questa attività a Roma e Melfi, in provincia di Agrigento, dove viveva dal 2016 insieme alla sua compagna. Nella città siciliana aveva aperto la ''Sloan scuola di inglese'', un luogo di apprendimento della lingua rivolto ai bambini, agli adulti e ai docenti. Il celebre insegnante amava molto Melfi: solo tre giorni fa postava fotografie del mare e del suo ritorno in studio di registrazione per nuovi cicli di corsi di inglese. Maurizio Colombi su Facebook ha scritto: "Oggi ci ha lasciato un grande personaggio italiano importato da Birmingam. John Peter Sloan, un grande cantante, un creatore, un attore, un comico, un insegnante unico, una persona difficile e discutibile fra le più intelligenti che abbia mai conosciuto ma soprattutto un grande amico che adesso mi manca molto. Tvb". Dolore è stato espresso anche dall'attore Herbert Pacton che sullo stesso social ha rivolto una dedica a Sloan: "Hai saputo tirare fuori il meglio di me, come persona e come attore…. abbiamo riso cosi tanto lavorando fianco a fianco…. ho sempre avuto una grandissima ammirazione per le tue idee geniali…. mi hai preso sotto la tua ala e mi hai fatto planare e sono stati momenti incredibili…… Ora mi risuona la tua voce in testa…. con gli occhi pieni di lacrime mentre accenno ad un sorriso perché sento la tua voce che mi dice una cazzata….Ti ho voluto sempre sempre sempre un gran Bene Amico Mio ed ora ti devo dire addio….. Ti porterò per sempre nel mio cuore Mate. Ciao John Peter Sloan…..". 

Morto John Peter Sloan a 51 anni, dramma improvviso: solo 3 giorni fa, le foto al mare. Libero Quotidiano il 26 maggio 2020. Addio a John Peter Sloan. Una morte improvvisa, ad appena 51 anni: il maestro d'inglese più famoso d'Italia si è spento a Menfi, dove viveva dal 2016, quando aveva scelto di trasferirsi in Sicilia e di aprire la Sloan scuola di inglese, un luogo in cui si rivolgeva a tutti, dai bambini e fino agli insegnanti. Soltanto tre giorni fa, John Peter Sloan postava sui social immagini che lo ritraevano al mare o in studio di registrazione per nuovi cicli di corsi di inglese. John Peter Sloan era in Italia dal 1990: cantante, attore teatrale e scrittore, divenne un volto di Zelig. Le sue lezioni di inglese era un piccolo cult. Celebri anche alcuni suoi litigi televisivi, in particolare uno con Vittorio Sgarbi, che fu davvero violentissimo. A dare la notizia della sua morte due suoi colleghi. Il primo è Maurizio Combi: "Oggi ci ha lasciato un grande personaggio italiano importato da Birmingam. John Peter Sloan, un grande cantante, un creatore, un attore, un comico, un insegnante unico, una persona difficile e discutibile fra le più intelligenti che abbia mai conosciuto ma soprattutto un grande amico che adesso mi manca molto. Tvb". Quindi le parole di Herbert Pacton: "Hai saputo tirare fuori il meglio di me, come persona e come attore, abbiamo riso cosi tanto lavorando fianco a fianco. Ho sempre avuto una grandissima ammirazione per le tue idee geniali, mi hai preso sotto la tua ala e mi hai fatto planare e sono stati momenti incredibili. Ora mi risuona la tua voce in testa, con gli occhi pieni di lacrime mentre accenno ad un sorriso perché sento la tua voce che mi dice una cazzata. Ti ho voluto sempre sempre sempre un gran bene amico mio ed ora ti devo dire addio. Ti porterò per sempre nel mio cuore Mate", ha concluso.

Giancarlo Dotto per Diva e Donna il 26 maggio 2020. Mi piace John Peter Sloan, l’uomo che sussurra l’inglese a vecchi e bambini, a giovani in carriera e casalinghe più o meno disperate, ma anche a detenuti modello quando il destino lo impone. Mi piace perché mi parla in mutande dalla terrazza di casa, a Menfi, dalle parti di Agrigento, mentre guarda i cani che dormono sotto gli ulivi. Perché è un uomo generoso che tracanna la vita a grandi sorsi, senza troppi calcoli e troppe strategie, con il suo vecchio cuore rocker sempre acceso. E quando gli capita di cadere, come capita a tutti gli uomini generosi, si lecca le ferite, si rialza e riparte più forte di prima, avendo l’assillo di trasferire ai tanti che lo seguono nella vita e nei social la lezione che ha imparato sulla sua pelle. Un comunicatore nato John, tra pedagogia, didattica e intrattenimento. L’anima definitivamente latina, ma le sintesi fulminanti degli anglosassoni. E un senso dell’umorismo che trasmette grazia e leggerezza anche quando parla di disastri esistenziali. Ti avevo lasciato, l’ultima volta, milanese al cento per cento dentro lo “Sloan Square”, il tuo pub inglese dove cantavi e recitavi, e mille progetti per la testa.

“Ora vivo in Sicilia. Sono fisso qua… A Milano e a Roma ci vado quando proprio devo, una, due volte al mese, ma scappo appena posso.”

Tiro a indovinare. Fu l’amore, galeotto?

“È vero. Asia, la mia fidanzata, è qua vicino che mi sente e dice “no, no, no…”, ma è così che è andata. Lei faceva l’insegnante a Milano e voleva apprendere il mio metodo per portarlo in Sicilia.”

Che ne è stato del tuo amato pub?

“Non voglio nemmeno sentirlo nominare. Sono in causa con i soci. Una brutta storia.”

Era il tuo orgoglio, la tua allegria.

“Mi son fidato delle persone sbagliate. Ti dico solo che non mi arriva un euro da lì. Sai la storia del gatto che quando non c’è i topi ballano. Ecco, hanno ballato parecchio.”

Raccontami della tua nuova terra d’adozione.

“A Menfi sono rinato. A Milano stavo andando in pazzia. Troppi progetti e questo pub che non aiutava le cose…”

In che senso non aiutava?

“Stavo bevendo un po’ troppo. Sai, la mia vita è completamente cambiata con il successo arrivato tardi, a quarant’anni. Prima ero un cantante come tanti, senza una lira. Da allora, soldi, proposte di lavoro, io che non riesco a dire di no. Stavo andando fuori di testa.”

Il concetto è chiaro.

“Quando sono sceso in Sicilia ho avuto un’epifania. Toccare un albero, prendere un limone da un albero, sentire la sabbia sotto i piedi. Qua sono sempre in mutande e metto le scarpe tre volte al mese. A Milano sarei arrivato alla tomba senza aver mai raccolto un limone da un albero…”

Sei un altro uomo.

“Lo puoi dire. Quando stavo a Milano avevo questi amici siciliani e li salutavo normale “ciao”. Adesso, quando sono a Milano e li incontro, li abbraccio come fossero eroi: “Minchia, come fai a stare qui?”

Racconti le tue “parentesi” alcoliche e fai ridere nei tuoi spettacoli.

“In un mio spettacolo racconto di quando, anni fa, mi hanno fermato mentre guidavo in stato di felicità.”

Stato di felicità? Magnifico modo di tradurre l’ebbrezza da alcol.

“Mi hanno chiesto di soffiare dentro un palloncino. Ho provato con una battuta. “Potete almeno impostare la macchinetta sui parametri inglesi?”. Non hanno riso molto…”

Conseguenze?

“E’ risultato che ero felicissimo. Mi hanno mandato a San Vittore a insegnare l’inglese ai detenuti.”

Hai avuto altri incontri ravvicinati con le forze dell’ordine?

“Qui a Menfi, in due anni, la polizia l’ho vista una volta sola. Non succede niente qua. I vigili, invece, li vedo più spesso perché abbiamo quattordici cani. A volte sono loro che ci portano i cuccioli abbandonati che trovano in giro.”

Chi è John Sloan oggi, in attesa che venga domani?

“Sono tornato in me. Lavoro poco, ma bene. Non bevo più. Ho imparato a dire no. Ho imparato, soprattutto, a dare un prezzo al mio tempo. Milano ti fa pensare che quando non lavori stai perdendo soldi. Dimentichi di dare un prezzo e dunque un valore al tuo tempo libero.”

Errore madornale. Come vive John il siciliano?

“La mia ragazza mi ha detto: “Metti un giorno alla settimana tutto per te”. A Milano non riesci. Andavo ogni sera ai “Gucci party”, così li chiamavo, e si parlava solo di lavoro. Tornavo a casa con un mazzo di biglietti da visita. In Sicilia esco e torno con melanzane e vino rosso.”

Ora che hai sconfitto la dipendenza da alcol, lo stress da agenda e la bulimia da lavoro, raccontami di quando hai toccato il fondo.

“Uno spettacolo a San Patrignano, che sponsorizziamo con la mia scuola di Milano (ne ho persi tanti di amici per droga e per alcol), sedute in prima fila Letizia Moratti e mia figlia. Una volta sul palco, guardo questi ragazzi e dico: “Non posso mettermi davanti a voi e far finta di essere quello che non sono, perché anche io sto lottando con l’alcol….”

Reazioni?

“Qualche secondo  di silenzio e poi una reazione incredibile. Credo e spero che pensassero: vedi cos’è riuscito a fare lui, nonostante il problema con l’alcol, tutti questi libri, il corso d’inglese più venduto nella storia. Abbiamo scherzato e riso insieme.”

Tua figlia sapeva di te?

“Lo sapeva, ma non da me. Non ne parlavo in famiglia. Avevo paura. C’è ignoranza in Italia sul tema. Non sanno che è una cosa genetica. Che una persona su venti non può bere, e io sono uno di questi. In Italia, se hai un tumore ti abbracciano e ti mandano fiori. Se hai problemi di alcol, ti abbandonano.”

In Inghilterra non è così?

“Per niente. In Inghilterra non conosco una famiglia che non abbia questo problema, ma da voi è diverso. Qui a Menfi gira un alcolista, schifato da tutti, e io invece ci parlo. Di solito, chi diventa schiavo dell’alcol ha storie interessanti da raccontare, sono artisti, persone sensibili.”

La storia di Patrignano non è a toccare il fondo, ma vedere la luce.

“Ho ripreso il controllo, prima che succedesse il peggio. A Milano andavo a mille e avevo sotto mano tutto la birra che volevo. Ho cominciato a toccare il fondo quando non mi presentavo a teatro o consegnavo tardi i miei lavori.”

Ne parli senza falsi pudori sulla tua pagina facebook.

“Dovevo farlo. Anche per diffondere una cura che nessuno conosce in Italia ma funziona. A me mi ha salvato. Il metodo Sinclair. Una pastiglia che ti blocca le endorfine. Bevi un’ora dopo averla presa e scopri che l’alcol non ti fa più effetto. Prima gridi al miracolo, poi smetti di bere.”

Ti scrivono?

“Migliaia di messaggi di ammirazione, ma in privato solo quattro persone con il problema. Tutti inglesi. In Italia è vergogna. Io ero un alcolista emotivo. Usavo la birra come medicina quando ero un po’ depresso. Era come andare in farmacia.”

Se ti capita oggi?

“L’alcol è il peggior modo per riempire il vuoto. Passa l’effetto e stai peggio di prima. Oggi io non posso bere neanche se voglio. Se capita che mi sento giù aspetto che passi, male che va prenderò una medicina vera. Magari scopro che sono bipolare. Mia mamma lo è ma, grazie a quel farmaco, non beve più.”

La tua fidanzata Asia?

“Assolutamente fondamentale. Mi è stata molto vicina, ma senza quella pastiglia non ce l’avrei fatta. Mi hanno aiutato molto anche i cani”.

I cani?

“L’unica pecca qui in Sicilia sono tutti questi randagi abbandonati. Ho avuto più di cento cani in casa. Prendo questi randagi, gli faccio fare le punture e poi, quelli che non posso tenere, li porto a famiglie a Milano e Roma, sfruttando la mia visibilità.”

E’ diventata virale la storia di Rocky.

“Un cucciolo di cinquanta giorni, grosso come un topo, pieno di zecche. Aveva la faccia spezzata in due da un calcio, la bocca in cancrena, era in fin di vita. Ora sta qua con me e sta bene. È l’unico che non darò mai in adozione. Non voglio dargli altri traumi.”

Avrà un grande amore per te.

“Minchia! Mi segue ovunque, adesso è qua attaccato al piede.”

Dicevi che i cani ti hanno aiutato.

“Si chiama dog therapy. Danno tantissimo, i cani. Io giro per le scuole della Sicilia portando i miei spettacoli sull’inglese. Li faccio gratis ma, alla fine, mi devono lasciare 15 minuti per parlare dei cani. Qui sono invisibili. Sono come i topi. Li lasciano morire per strada.”

Una cosa è certa, ovunque vai lasci tracce forti.

“Mia mamma dice sempre “Porca puttana, ti fai conoscere ovunque!”. La mia ragazza sta annuendo.”

Hai imparato a parlare il siciliano?

“Come no? Senti qua. “Minchia, la tua è una minchiata fatta da un minchione.”

Tutto qua?

“Il dialetto non m’interessa. Trovo assurdo che in Galles dedicano un giorno al gallese. Imparalo dalla mamma a casa, non a scuola. Come quando studiano Shakespeare nei corsi d’inglese, una lingua morta. Sai quanto ti ridono dietro se lo parli a Londra.”

La rete abbonda di proposte miracolistiche, imparare l’inglese e qualunque lingua in una settimana.

“Tutte cazzate. Sai quanto mi offrono per mettere il mio nome su queste truffe? Ogni studente è diverso e ha i suoi tempi. In molti hanno copiato il mio corso. Se dovessi litigare con tutti quelli che mi plagiano non ne uscirei più. Diceva Oscar Wilde che “il plagio è il miglior complimento.”

Ci sono quelli negati per le lingue, che proprio non ce la fanno?

“Ci sono e tu puoi stare lì anche una vita. Il problema in Italia è che l’inglese è insegnato molto male e molto tardi. Non è colpa degli insegnanti. Nessuno li aiuta. Prendono un diploma e gli danno un’aula. Il segreto è buttarsi, fregarsene degli errori. Voi italiani siete nazisti con la grammatica.”

Vengono a trovarti i tuoi figli in Sicilia?

“Certo. Li vedo più adesso di quando stavo a Milano. Non sono mica stupidi.”

La tua Inghilterra?

“Ha preso una bruttissima strada con il “brexit”. I razzisti stanno venendo fuori come i vermi dal legno.”

Salvini lo sa l’inglese?

“Non lo so, ma so una cosa. Minchia, ma se sei siciliano come fai a votare Lega con tutto quello che hanno detto sui terroni…”

E tu?

“Sto diventando sempre più italiano. Ho imparato a usare il bidet, non guardo la tivù e passo il tempo con la fidanzata a guardare i cani come fosse una telenovela. Ho capito che la vita è corta, me la devo godere. E poi sono un uomo fortunato. Vivo in Sicilia con uno stipendio milanese.”

·        È morto Alberto Alesina, economista italiano che ha conquistato Harward.

È morto Alberto Alesina, economista italiano che ha conquistato Harward. Pubblicato domenica, 24 maggio 2020 da La Repubblica.it. È morto l'economista Alberto Alesina. Aveva 63 anni e insegnava alla Harvard University. La notizia è stata diffusa su Twitter da David Wessel e poi confermata dall'Istituto Bruno Leoni. A quanto riportato da Wessel, stava facendo una camminata in montagna con la moglie quando ha avuto un attacco cardiaco.

Morto Alberto Alesina, l'economista che aveva "conquistato" l'America. Alesina è scomparso improvvisamente il 23 maggio, all'età di 63 anni, a causa di un attacco cardiaco. Aveva da poco vinto lo Hayek Prize ed era professore di economia politica ad Harvard. Federico Giuliani, Domenica 24/05/2020 su Il Giornale. Alberto Alesina è scomparso improvvisamente il 23 maggio, all'età di 63 anni, a causa di un attacco cardiaco che lo ha stroncato mentre faceva hiking, una forma di trekking, negli Stati Uniti. A darne il triste annuncio il giornalista e scrittore David Wessel su Twitter: "Cari amici economisti. Sono molto triste nel riferire che Alberto Alesina è morto oggi. Stava facendo un'escursione con la sua amata moglie Susan e ha avuto un infarto. Ci mancherà molto". Poco dopo arriva anche la conferma dell'Istituto Bruno Leoni: "È scomparso Alberto Alesina. Un grande economista che l’IBL ricorda con stima e affetto. Ci uniamo al dolore della famiglia". Accademico ed economista, Alesina aveva conquistato l'America diventando per tre anni, dal 2003 al 2006, direttore del dipartimento economico dell'Università di Harvard, nella quale era professore di Economia Politica. Era anche visiting professor presso l'università Bocconi di Milano nonché editorialista per giornali come Il Corriere della Sera e Il Sole 24 Ore. Nel 1990 la prestigiosa rivista Economist lo aveva descritto come uno dei migliori otto economisti al mondo under 40.

Una carriera ricca di soddisfazioni. La sua carriera è stata ricca di soddisfazioni, l'ultima dei quali arrivata pochi giorni fa con la vittoria di un nuovo premio, lo Hayek Prize, ottenuto grazie al libro "Austerità, quando funziona e quando no", scritto insieme a Francesco Giavazzi e a Carlo Favero.

Nato a Broni (Pavia) nel 1957, Alesina si laurea alla Bocconi nel 1981 e ottiene, nel 1986, un dottorato di ricerca in economia (Phd) ad Harward. Nel corso degli anni ottiene l'affiliazione a National Bureau of Economic Research e al Center for Economic Policy Research. Diventa poi membro della Econometric Society e dell'American Academy of Art and Sciences. Nel 2006 è direttore del programma di politica economica Nber. Marco Mazzucchelli, amico di vecchia data di Alesina, consigliere della Kredietbank Luxembourg e senior advisor di Bain&Co, lo ha voluto ricordare così, come riportato da Il Corriere della Sera: "Lo ricordo l’ultima volta in Bocconi, l’anno scorso, per presentare il suo libro sull’austerità, poi premiato. Volle parlare per primo giustificandosi: ''Così dico le poche cose semplici che so, poi lascio quelle difficili a Favero e Giavazz''. Tipico di Alesina: sapeva dire le cose complesse in modo semplice e sempre con un sense of humor che lo rendeva immediatamente simpatico, soprattutto agli studenti, anche se diceva cose difficili o scomode. A Harvard gli studenti lo adoravano perché sapeva rendersi uno di loro grazie al suo atteggiamento da gregario e alla mano".

Addio ad Alberto Alesina, teorizzò “l’austerità espansiva”. Il Dubbio il 25 maggio 2020. Noto e seguito in Italia soprattutto per i suoi editoriali a quattro mani con Francesco Giavazzi, Alberto Alesina era stato uno dei primi laureati del Des, quel corso di Discipline Economiche e Sociali nato nel 1974 che ha reso famosa l’Universita’ Bocconi nel mondo intero. Noto e seguito in Italia soprattutto per i suoi editoriali a quattro mani con Francesco Giavazzi, Alberto Alesina era stato uno dei primi laureati del Des, quel corso di Discipline Economiche e Sociali nato nel 1974 che ha reso famosa l’Universita’ Bocconi nel mondo intero. Nato a Broni (Pavia) il 29 aprile del 1957, era professore di Economia Politica all’Universita’ di Harvard ma continuava a collaborare anche con l’ateneo milanese di via Sarfatti. Alesina e’ morto nelle scorse ore per un attacco di cuore mentre passeggiava in montagna negli Stati Uniti, sua patria adottiva. Il libro scritto a sei mani con Giavazzi e Carlo Favero, “Austerita’, quando funziona e quando no”, pubblicato l’anno scorso da Rizzoli, ha da poco ottenuto il premio Hayek, intitolato all’economista liberale premio Nobel nel 1974, l’austriaco-britannico Friedrich August von Hayek. Quello dell'”autorita’ espansiva” era uno dei cavalli di battaglia dell’economista di Harvard, che gia’ nel 2009 l’aveva teorizzata in uno studio, poi criticato dai nemici dell’austerita’ come il premio Nobel Paul Krugman. La teoria espressa negli ultimi lavori, sintetizzata da Favero, uno dei coautori di Alesina nell’ultimo libro, e’ che “l’austerita’ puo’ essere capita paragonandola a una medicina necessaria che da’ effetti collaterali, che vanno minimizzati. Per l’economia, la malattia è l’alto debito pubblico. Si tratta di un male che viene ereditato dalle generazioni future, su cui manifesta i propri effetti piu’ perniciosi. L’austerità basata sulla riduzione della spesa pubblica è meno costosa in termini di crescita ed e’ piu’ efficace nella stabilizzazione del rapporto debito/Pil rispetto all’austerità basata sull’aumento delle entrate del settore pubblico”. Moltissimi i messaggi di cordoglio e rimpianto diffusi sui social network fin dal momento in cui si e’ diffusa la notizia della scomparsa dell’economista, molto apprezzato anche per i modi gentili e l’empatia. Lo ricordano colleghi e ex allievi in Italia e Stati Uniti ma anche nel resto del mondo, oltre che le numerosissime istituzioni con le quali ha collaborato nel corso dei decenni della sua attività.

Morto Alberto Alesina, l’economista di Harvard. Il Giorno 24 maggio 2020. L’economista Alberto Alesina, morto negli Stati Uniti in un’escursione in montagna. È morto Alberto Alesina, uno dei più famosi economisti ed editorialisti italiani. Aveva 63 anni. Alesina è morto a causa di un attacco cardiaco durante un’escursione in montagna negli Stati Uniti. Alesina era nato nel 1957 a Broni, vicino a Pavia, e aveva studiato all’università Bocconi di Milano e in seguito ad Harvard, negli Stati Uniti, l’università in cui era anche diventato professore. A partire dagli anni Novanta Alesina è stato anche ospite in diversi programmi televisivi italiani e ha collaborato come editorialista per giornali come il Corriere della Sera e il Sole 24 Ore. In più di un’occasione aveva collaborato a libri o articoli con l’economista Francesco Giavazzi, con cui scriveva spesso parlando frequentemente dei vantaggi del libero mercato e della riduzione delle tasse per aziende e cittadini. "Per ripartire l’Europa ha bisogno di meno tasse, meno spese inutili e di riforme strutturali che liberalizzino i mercati. Era il pensiero di Alberto Alesina che, a qualche anno di distanza, è ancora attualissimo". Così il vice ministro dell’Economia e delle Finanze Laura Castelli ricorda l’economista. "Nitido e lungimirante scienziato economico", lo piangono i vertici dell’Abi, l’associazione bancaria italiana.

È morto Alberto Alesina, economista italiano che ha conquistato Harvard. Colpito da un attacco cardiaco durante un’escursione in montagna negli Usa, aveva 63 anni. Professore nella celebre università americana ha scritto saggi molto influenti. La Repubblica il 24 Maggio 2020. È morto l'economista Alberto Alesina. Aveva 63 anni e insegnava alla Harvard University. Lo ha reso noto in un tweet l'economista David Wessel, direttore del Centro Hutchin sulla politica fiscale e monetaria, il quale precisa nel suo messaggio di avere appreso la notizia da un altro economista, David Cutler. A quanto riportato da Wessel, Alesina con la moglie stava facendo una camminata in montagna negli Usa, sua patria adottiva, quando ha avuto un attacco cardiaco. La morte di Alesina è stata confermata dall'Istituto Bruno Leoni. "È scomparso Alberto Alesina - si legge nel messaggio - Un grande economista che l'IBL ricorda con stima e affetto. Ci uniamo al dolore della famiglia". Nato a Broni in provincia di Pavia nell'aprile del 1957, nel 1981 era stato uno dei primi laureati del Des, quel corso di Discipline Economiche e Sociali nato nel 1974 che ha reso famosa l'Università Bocconi nel mondo intero. Cinque anni più tardi ottenne il dottorato di ricerca in economia (PhD) ad Harvard, dove ha trascorso gran parte della sua vita professionale costruendo l'intera carriera. Dal 2003 al 2006 è stato il direttore del dipartimento economico della celebre università americana. Nel suo curriculum spiccano l'affiliazione a National Bureau of Economic Research e al Center for Economic Policy Research; è inoltre membro della Econometric Society e dell'American Academy of Art and Sciences. Era considerato uno dei maggiori esperti mondiali di politica economica, tanto che L'Economist nel 1990 lo aveva inserito tra i migliori otto economisti under 40 e papabile per un futuro premio Nobel.

In Italia era "visiting professor" all'Università Bocconi. In più di un'occasione aveva collaborato a libri o articoli con l'economista Francesco Giavazzi, che considerava il suo migliore amico, con cui scriveva spesso sul Corriere della Sera parlando frequentemente dei vantaggi del libero mercato e della riduzione delle tasse per aziende e cittadini. Il libro scritto con Giavazzi e Carlo Favero, "Austerità, quando funziona e quando no", pubblicato l'anno scorso da Rizzoli, ha da poco ottenuto il premio Hayek, intitolato all'economista liberale premio Nobel nel 1974, l'austriaco-britannico Friedrich August von Hayek. Quello dell'"austerità espansiva" era uno dei cavalli di battaglia dell'economista di Harvard, che già nel 2009 l'aveva teorizzata in uno studio, poi criticato dai nemici dell'austerità come il premio Nobel Paul Krugman. La teoria espressa negli ultimi lavori, sintetizzata da Favero, uno dei coautori di Alesina nell'ultimo libro, è che "l'austerità può essere capita paragonandola a una medicina necessaria che dà effetti collaterali, che vanno minimizzati. Per l'economia, la malattia è l'alto debito pubblico. Si tratta di un male che viene ereditato dalle generazioni future, su cui manifesta i propri effetti più perniciosi. L'austerità basata sulla riduzione della spesa pubblica è meno costosa in termini di crescita ed è più efficace nella stabilizzazione del rapporto debito/Pil rispetto all'austerità basata sull'aumento delle entrate del settore pubblico". Tra gli altri lavori di Alesina, da citare anche The Size of Nations, Fighting Poverty in the US and Europe: A World of Difference, Goodbye Europa, un saggio scritto a quattro mani con l'amico Giavazzi, e Il liberismo è di sinistra. E ancora, un articolo scritto con Andrea Ichino, dove ha avanzato la proposta provocatoria di tassare le donne in maniera inferiore rispetto agli uomini (Gender Based Taxation). Si tratterebbe, secondo gli autori, di un provvedimento privo di costi per lo Stato e che dovrebbe contribuire al raggiungimento di effettive pari opportunità tra uomini e donne. Nel novembre 2009 ha pubblicato, sempre con Andrea Ichino, il libro L'Italia fatta in casa, nel testo gli autori si soffermano sull'importanza che riveste, per il benessere del sistema Paese, il lavoro fatto in casa dalle mamme, dai nonni, dai papà, un lavoro spesso invisibile nelle statiche sulla ricchezza del Paese ma che contribuisce, in maniera significativa, in Italia più che in altri Paesi, al benessere generale della popolazione. Moltissimi i messaggi di cordoglio e rimpianto diffusi sui social network fin dal momento in cui si è diffusa la notizia della scomparsa dell'economista, molto apprezzato anche per i modi gentili e l'empatia. Lo ricordano colleghi e ex allievi in Italia e Stati Uniti ma anche nel resto del mondo, oltre che le numerosissime istituzioni con le quali ha collaborato nel corso dei decenni della sua attività.

·        Addio a Sergio Siglienti, ex presidente di Banca Commerciale Italiana.

Addio a Sergio Siglienti, ex presidente di Banca Commerciale Italiana. Pubblicato domenica, 24 maggio 2020 su Corriere.it da Nicola Saldutti. Più tardi, dieci anni dopo romperà il silenzio per raccontare la sua storia nel libro «Comit, una privatizzazione molto privata». E fotograferà una situazione che spesso si è verificata nell’incrocio pericoloso tra banche e imprese: la figura del debitore di riferimento. Imprenditori con ruoli di primo piano nelle stesse banche che li finanziano. Spiegherà: Mediobanca ha spesso dovuto svolgere un ruolo di supplenza. Il suo modello era la public company, ma dirà : Comit è stata scalata ancora prima di nascere. Qualche tempo prima si era opposto al progetto di fondere le ex banche di interesse nazionale, Commerciale, Credit e Banco di Roma. È un banchiere riservato, ma combattivo. Coerente nelle sue battaglie nel tentativo di far crescere questo mercato italiano. Il presidente della Repubblica, Cossiga, siamo nel 1979, gli aveva proposto di diventare direttore generale della Banca d’Italia quando Carlo Azeglio Ciampi ne diventò governatore. A scorrere la sua biografia, è piena di battaglie. Come per la madre Ines. L’ultima, quando il ministero del Tesoro lo chiama a guidare l’Ina. Ne fa una società talmente competitiva, che le Generali lanceranno un’offerta ostile da 24 mila miliardi (in lire). Siamo nel ’99. Il fronte dei soci si rompe e alla fine si trova l’accordo. Con quel misto di ironia e rigore commenterà, citando Tacito: fanno un deserto e la chiamano pace. Ha guidato l’Istituto superiore di Studi Storici, fondato da Benedetto Croce. Per descrivere se stesso, diceva: «Sassari è la più vecchia colonia pisana della Sardegna. Ecco perché i sassaresi sono un po’ litigiosi: si sono sempre considerati con altezzosità e superbia». Nel suo caso, coerenza.

·        Morto Carlo Durante, ex campione paralimpico di maratona.

Morto Carlo Durante, ex campione paralimpico di maratona. Pubblicato domenica, 24 maggio 2020 da Corriere.it. Domenica è morto Carlo Durante, ex campione paralimpico non vedente, tre volte Medaglia d’oro al Merito Sportivo e Leone d’Argento del Coni Veneto. Nella maratona ha scritto pagine memorabili della storia dello sport paralimpico. Medaglia d’oro alle Paralimpiadi di Barcellona nel 1992, argento alle Paralimpiadi di Atlanta nel 1996 e bronzo a Sidney, nel 2000, poi a 58 anni partecipò anche ai Giochi di Atene. Avrebbe compiuto 74 anni alla fine di giugno, ha avuto un malore in bicicletta mentre si trovava in compagnia di un amico, nel Trevigiano. Fra i tanti titoli conquistati anche un Campionato del mondo nel 1994. È stato campione europeo per tre volte (1991, 1993, 1997). Si è affermato come campione italiano non vedenti dal 1990 al 2004, su tutte le distanze. Un palmares ricchissimo che gli è valso numerosi anche riconoscimenti istituzionali (anche 4 medaglie d’argento al Merito Sportivo e 5 medaglie di bronzo al Merito Sportivo). Può vantare più di 70 maratone in tutto il mondo con ben tre edizioni di quella di New York, oltre a quelle di Boston, Monaco, Londra, Venezia, Bologna, Firenze, Milano, Padova, Brescia, Carpi, Torino, Roma, Cesano Boscone, Treviso e quasi la metà delle edizioni della Duerocche. Pioniere del movimento paralimpico in Veneto, ha dedicato la sua vita anche all’attività di promozione dello sport per i disabili. «Sono addolorato per la scomparsa di Carlo Durante. Se ne va un gigante dello sport italiano, una stella del firmamento paralimpico» ha dichiarato il presidente del Comitato italiano paralimpico Luca Pancalli. «Carlo oltre ad essere un campione è stato un punto di riferimento per il nostro movimento anche per l’attività di promozione dello sport per tutti. Colgo l’occasione per esprimere la mia vicinanza e quella del Cip alla sua famiglia e alle persone a lui care».

Addio a Carlo Durante, campione paralimpico di maratona. Pubblicato domenica, 24 maggio 2020 da La Repubblica.it. Un improvviso malore mentre pedalava in tandem con un amico sul Montello, a Nervesa della Battaglia. È morto così Carlo Durante, 73 anni, campione paralimpico di maratona. Lascia la moglie e le due figlie Chiara e Daniela. Non vedente, appassionato di sport fin dall'adolescenza, Durante ha partecipato a più di 70 maratone in tutto il mondo con ben tre edizioni di quella di New York, oltre a quelle di Boston, Monaco, Londra, Venezia, Bologna, Firenze, Milano, Padova, Brescia, Carpi, Torino, Roma, Cesano Boscone, Treviso. Affetto da retinite pigmentosa, malattia che porta alla cecità, ha interrotto la sua attività sportiva fino all'età di quarant'anni quando, ritrovatosi totalmente cieco, è tornato alla maratona  grazie al G.P. Montebelluna e alla società sportiva G.S. Non Vedenti di Padova. Pioniere del movimento paralimpico in Veneto, aveva dedicato la sua vita anche all’attività di promozione dello sport per i disabili. Il suo successo più prestigioso resta la maratona alla paralimpiade estiva di Barcellona del 1992 (in 2h50'00 a 46 anni). Sempre nella maratona è stato poi medaglia d'argento nelle paralimpiade estiva del 1996 di Atlanta (in 2h53'31) e di bronzo nella paralimpiade estiva del 2000 a Sidney (in 2h48'45 a 54 anni), oltre che settimo in quella del 2004 ad Atene. Inoltre, è stato medaglia d'oro nella maratona ai Campionati del Mondo a Berlino nel 1994 (in 2h47'26) e quarto ai Campionati Mondiali in Giappone nel 1998. E ancora, è stato vincitore ai Campionati Europei di Maratona per Non Vedenti a Caen nel 1991, a Dublino nel 1993 (in 2h46'39), a Riccione nel 1997 (in  2h57'47) e secondo a Lisbona nel 1999 (in 2h53'12) e a Francoforte nel 2001 nella mezza maratona. Durante, infine, è stato anche Campione italiano dal 1990 al 2004 su tutte le distanze, dai 10.000 metri alla maratona (e detiene anche un record mondiale nella sua categoria stabilito mentre gareggiava nella maratona di Venezia del ‘95 segnando il tempo di 2h29'49) e, grazie ai suoi risultati sportivi, è stato insignito più volte della Medaglia d'oro al merito sportivo (e di quelle di argento e bronzo), oltre che del Leone d'argento conferito dal CONI Regionale Veneto e del Collare d'oro al merito sportivo nel 2015. Così il Governatore del Veneto, Luca Zaia: «Con Carlo Durante se ne va una figura storica dello sport paralimpico. Non ha potuto vederle perché era affetto da cecità, ma ha vinto medaglie d’oro, d’argento e di bronzo in tutte le più grandi manifestazioni internazionali, a cominciare dalle Paralimpiadi di Barcellona 92, Atlanta 96 e Sidney 2000. Il primo pensiero, e il cordoglio, vanno alla moglie e alle figlie. Avesse compiuto oggi le gesta sportive di allora sarebbe stato un personaggio famoso, come giustamente sono oggi atleti del calibro di Bebe Vio e Alex Zanardi, ma in quegli anni la grandezza dello sport paralimpico non era ancora stata riconosciuta come avrebbe meritato e come è adesso. Rimarrà ugualmente indimenticabile – conclude Zaia – come quei 14 anni filati, dal 1990 al 2004 in cui è stato ininterrottamente campione italiano di tutte le distanze lunghe, dai 10.000 metri alla maratona».

·        Morta Cristina Pezzoli, la regista che amava la sperimentazione.

Morta Cristina Pezzoli, la regista che amava la sperimentazione. Pubblicato domenica, 24 maggio 2020 su Corriere.it da Franco Cordelli. La regista Cristina Pezzoli è morta a Pistoia, dove viveva e lavorava, e dove aveva diretto dal 2002 il Teatro Manzoni. Aveva 57 anni. Il primo spettacolo suo che io ricordi è «Come le foglie di Giacosa». Non mi aspettavo che Giacosa fosse così accogliente, non mi aspettavo una regia come quella: veniva prima o veniva dopo le regie di Valerio Binasco? Erano contemporanei ma il realismo, la cura dei dettagli, il colore erano solo suoi, di quella giovane regista sconosciuta. Cristina Pezzoli si era formata alla Paolo Grassi, poi divenendo aiuto registadi Massimo Castri e assistente di Nanni Garella. Ne ho seguito il lavoro soprattutto nella prima fase della carriera. Meravigliosa la regia de «La scuola delle mogli» di Molière; indimenticabile «L’annaspo» di Raffaele Orlando, che nessuno aveva avuto il coraggio di mettere in scena ed era lì, pubblicato da anni; commovente «L’ultimo nastro di Krapp» di Beckett. Me ne ha raccontato la genesi Sara Bertelà, con Isa Danieli e Bruna Rossi, tra le sue attrici preferite. Sergio Fantoni si sarebbe dovuto operare alle corde vocali. Lei gli chiese di registrare il testo. Poi, in teatro, si sarebbe ascoltata la sua voce di prima e quanto gli rimaneva di quella successiva all’operazione. Ma queste erano le doti di Cristina, la determinazione e la voglia di sperimentare. Dopo gli inizi si potrebbero distinguere tre fasi. Sempre alternando testi classici («Il principe travestito» di Marivaux o «Antigone» a Siracusa) e autori contemporanei (Tarantino, Letizia Russo), lavorò con la compagnia di Fantoni e con il Teatro Due di Parma; poi al Capannone di Prato: la si ricorda per i suoi lavori con i cinesi, un suo «Arle Chino: traditore traduttore di due padroni» arrivò fino in Cina; infine e in specie con attrici come Laura Curino, Veronica Pivetti e Angela Finocchiaro che, era il suo pensiero costante, voleva portare da sé stesse, dal loro teatro, al teatro di tutti, il teatro classico. Amaramente, rimpiango di non averla conosciuta.

·        E’ Morto Antonello Riva: regista e chef.

Morto Antonello Riva, regista e chef, figlio del volto del «Musichiere». Pubblicato sabato, 23 maggio 2020 su Corriere.it da Fabrizio Peronaci. Addio al super-cuoco che amava il cinema e il teatro. È morto all’età di 69 anni Antonello Riva, chef raffinato e uomo di spettacolo, autore teatrale e televisivo, regista di prosa a lungo collaboratore di Maurizio Scaparro al Teatro Argentina (dal 1990 al ‘95), nonché figlio di Mario, il leggendario conduttore de «Il musichiere», la trasmissione Rai lanciata nel 1957 (ideata da Giovannini e Garinei) che calamitò il grande pubblico negli anni del boom. A dare l’annuncio della scomparsa di Antonello, il cui nome in ambito enogastronomico era legato all’esperienza della Palatium-Enoteca della Regione Lazio, per molti anni elegante location in via Frattina, e ai piatti poveri della cucina regionale di sua invenzione, sono stati i familiari, con un messaggio pubblicato sulla pagina Facebook dello chef. «I funerali si terranno lunedì 25 maggio 2020 alle ore 10 presso la Basilica del Sacro Cuore Immacolato di Maria, a Piazza Euclide. Ci si disporrà uno per banco e vista la grande capienza della navata principale sarà possibile rispettare il distanziamento sociale». La fama di Riva junior ai fornelli in tempi non troppo remoti si era consolidata per le ricette spiegate in Rete, per la gestione di due ristoranti («L’Elefantino» a Roma e «L’Elefantino a Mare» a Orbetello) e per le apparizioni con il cappello da cuoco in tv: dal 2002 al 2004 ogni sabato e domenica condusse per “Mattina Due” la rubrica di gastronomia, curando personalmente l’acquisto di prodotti nei mercati rionali e cucinando in diretta – il giorno successivo – il piatto con gli ingredienti acquistati. Poi, nel 2005, «tradì» mamma Rai, che suo papà aveva concorso a lanciare, conducendo assieme a Iva Zanicchi , su Canale 5, «Il piatto forte», gara in diretta tra aspiranti cuochi. Nella capitale aveva però lasciato il segno maggiore sul versante artistico: fu lui a fondare assieme alla madre, l’attrice Diana Dei, la «Scuola di Teatro Mario Riva» di via Archimede, ai Parioli, nella quale insegnò recitazione e storia del teatro. Oltre 10 anni di corsi di formazione professionale sostenuti dagli enti locali, per attori di prosa, che videro alternarsi come docenti Michele Mirabella, Patrick Rossi Gastaldi e altri professionisti dello spettacolo e della comunicazione. Solo pochi anni fa l’ultima battaglia, animata da senso civico: fu Antonello Riva, nel 2016, a esporsi in prima linea in una campagna per il rispetto della memoria dei defunti e la cura del cimitero monumentale Verano, dove l’intero settore che ospita la tomba del celebre genitore era (ed è ancora) in condizioni penose, a rischio crollo.

·        È morta Anna Bulgari.

È morta Anna Bulgari, rapita insieme al figlio Giorgio  nel 1983. Aveva 93 anni. Pubblicato sabato, 23 maggio 2020 su Corriere.it da Paolo Conti. È morta a 93 anni Anna Calissoni Bulgari, erede della grande dinastia di gioiellieri originari dell’Epiro, eccellenti conoscitori di gemme per generazioni, e trapiantati a Roma dove fondarono il prestigioso marchio internazionale. Ma Anna Calissoni Bulgari, moglie del generale Franco, eroe di El Alamein (scomparso nel 2001) resterà nella storia giudiziaria italiana, soprattutto romana, per il clamoroso rapimento suo e di suo figlio Giorgio la sera del 19 novembre 1983. Anna ai tempi ha 57 anni, Giorgio (oggi affermato notaio) 17. Anna sta rientrando con suo marito Franco nella grande tenuta di famiglia ad Aprilia: due uomini con passamontagna e fucili lasciano da parte il generale, prendono Anna e la chiudono nel portabagagli della 132 della famiglia, Giorgio viene messo su un sedile. Seguono trattative serrate e complesse: non esistendo ai tempi i cellulari, le trattative avvengono per telefono, sotto la minaccia del sequestro dei beni da parte della Procura. La richiesta è altissima: quattro miliardi di lire. Otto anni prima, per il rapimento del fratello di Anna Bulgari, Gianni, era stato pagato un miliardo e 300 milioni di lire. Dall’accento, la figlia di Anna che segue le trattative- Laura (ai tempi avvocato internazionale)- capisce subito che si tratta di rapitori sardi, anche politicizzati (durante la prima conversazione c’è un rapido confronto sul capitalismo). In una riunione di famiglia si decide di pagare il riscatto. Il 17 dicembre, due giorni dopo la scadenza del primo ultimatum, arriva una busta che contiene un pezzo dell’orecchio di Giorgio. La famiglia accelera le trattative, i soldi vengono messi in due grandi buste nere dell’immondizia seguendo le indicazioni dei rapitori: la consegna avviene il 21 dicembre sulla via Aurelia, in uno slargo tra gli alberi all’altezza di Sarzana. Un uomo con la torcia li aspetta. La sera del 24 dicembre Anna e Giorgio Calissoni vengono liberati a nemmeno un chilometro di distanza da dove erano stati sequestrati. Stanno complessivamente bene: la ferita all’orecchio di Giorgio (l’amputazione era avvenuta con un semplice coltello da cucina senza precauzioni di alcun tipo) è infetta e viene curato subito, Anna ha i piedi piagati: erano stati tenuti sempre all’aperto e costretti a continui spostamenti. Giorgio dovrà poi subire cinque interventi di ricostruzione per l’orecchio negli Stati Uniti. In un’intervista rilasciata a Fabrizio Roncone per il nostro giornale, nelle ore del rilascio delle due volontarie Greta Ramelli e Vanessa Marzullo nel gennaio 2015, Laura Calissoni dichiarò: «Negoziai in totale solitudine. Non ricevetti alcuna telefonata né dal presidente del Consiglio, Bettino Craxi, né dal ministro dell’Interno, che era Oscar Luigi Scalfaro. Solo i carabinieri si dimostrarono molto competenti e anche dotati di grande umanità. Quando sento che per la liberazione di quelle due ragazze, Greta e Vanessa, a trattare sono stati i nostri servizi segreti e a pagare sarebbe stato addirittura lo Stato, sono assalita da rabbia mista a disgusto. Noi fummo lasciati soli. E da subito». E la stessa Anna Calissoni Bulgari scrisse all’allora presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni: «Perché lo Stato non intervenne all’epoca per tutelare l’incolumità e la vita di suoi cittadini pacifici che non avevano preso alcun rischio, rispettosi delle regole nazionali ed internazionali?». Gentiloni rispose spiegando le ragioni dell’impegno dell’Intelligence per il rilascio di Greta e Vanessa ma ammettendo: «So di non rispondere al suo angoscioso interrogativo sulle scelte del 1983, ho provato a spiegare, per quanto possibile, quelle di oggi» Anna Calissoni Bulgari per lunghi anni sparì da qualsiasi cronaca mondana ufficiale, occupandosi esclusivamente dei tre figli e dei numerosi, amatissimi nipoti. Otto banditi vennero arrestati per il sequestro e, alla fine dei vari gradi di giudizio, condannati complessivamente a 140 anni di carcere. Anna Calissoni Bulgari assistette a diversi dibattimenti con una calma che stupì molti. Oggi l’azienda familiare di Aprilia, guidata da Laura Colnaghi Calissoni e Francesca Feroldi Calissoni, è una straordinaria oasi faunistica di 60 ettari protetta dalla Guardia Forestale, ricca di aironi, volpi, cinghiali ma anche di ulivi, meta delle visite di tante scolaresche.

«La prigionia con mia madre, senza di lei non ce l’avrei fatta». Pubblicato sabato, 23 maggio 2020 su Corriere.it da Flavia Fiorentino. «Mi manca la terra sotto i piedi, ho un senso di vuoto incolmabile, non posso immaginare che mamma non c’è più. Da quando ci rapirono insieme, avevo solo 17 anni, con lei ho sempre avuto un legame speciale». Il nome è importante, ma nel parlare di Anna Bulgari Calissoni, scomparsa a 93 anni venerdì pomeriggio all’Ospedale Santo Spirito di Roma dopo un breve malore, il figlio Giorgio è semplicemente un uomo (oggi affermato notaio della capitale) che ha profondamente amato sua madre. Una donna coltissima, amante della musica classica, appassionata di argenteria antica, erede della grande dinastia di gioiellieri originari dell’Epiro, eccellenti conoscitori di gemme per generazioni e trapiantati a Roma dove fondarono il prestigioso marchio internazionale, oggi di proprietà del gruppo francese Lwmh.

Vi capitava di ricordare quel terribile momento in cui i vostri carcerieri le amputarono anche il lobo di un orecchio per ottenere il riscatto che fu poi pagato, 4 miliardi di lire?

«Sono riuscito a superare quella situazione solo perché mamma mi dava coraggio. Da quando ci presero, il 19 novembre del 1983, fino alla liberazione alla vigilia di Natale, ho avuto la fortuna che non ci separassero mai e abbiamo vissuto sempre in tenda insieme. Se lei non ci fosse stata, non so se ce l’avrei fatta. Con il tempo non le piaceva tornare sull’argomento. Con gli altri lo aveva cancellato. Tra noi era diverso, anche se non ne parlavamo si era creata un’intesa così speciale, che solo noi sapevamo che alcune parole o certe situazioni ci colpivano perché riportavano la mente a quei giorni lontani ma ancora così vivi. Sui giornali se ne scrisse tanto. Quei fatti sono diventati un pezzo di storia del nostro Paese. Oggi per fortuna i sequestri non sono più di attualità».

Quando l’ha vista l’ultima volta?

«Sono andato a trovarla giovedì, come quasi ogni giorno, nella sua casa in via Condotti. Sempre elegante, lucidissima, curiosa. Parlavamo di tutto, lei era molto ironica e divertente. Poi ci siamo risentiti al telefono in serata e mi ha detto che le mancavano le sue amiche che non vedeva da un po’ perché, come tutti, per paura del Coronavirus l’avevamo “chiusa in casa”. Dai controlli, nessun contagio, due tamponi, entrambi negativi. Ma il medico mi ha detto: “ Guardi che se sua madre non muore per il Covid, muore di depressione. Così, mi sono imposto di andarla a trovare regolarmente. E tutti i giorni, alle 18 e 30 ero lì».

Poi cosa è successo?

«All’una di notte la badante ha chiamato un’ambulanza perché la mamma si lamentava. Poi, arrivata all’ospedale Santo Spirito, la situazione è precipitata. All’alba di venerdì i medici ci hanno detto che era gravissima facendo questo esempio: “Le persone così anziane camminano su un burrone, basta un po’ di brecciolino per farle precipitare”. Sono un uomo maturo, ho 54 anni e due figlie, ma in questo momento provo un senso di vuoto che mi dà le vertigini. Ho perso mio padre nel 2001, con lui avevo un ottimo rapporto e ho ereditato molti aspetti caratteriali. Ma lo spaesamento, il senso di abbandono che sto vivendo in queste ore è più profondo. I funerali, per l’ultimo saluto alla mamma si terranno domani a Roma nella chiesa di Santa Croce in Gerusalemme».

·        Addio all'editore Piero Manni.

Addio all'editore Piero Manni. Pubblicato venerdì, 22 maggio 2020 su La Repubblica.it da Ilaria Zaffino. Fondatore della casa editrice che porta il suo nome aveva 76 anni ed era un punto di riferimento per tutto il Sud Italia e non solo. Ha pubblicato, tra gli altri, Edoardo Sanguineti, Giorgio Caproni, Mario Luzi e Alda Merini. Aveva fatto delle sue due grandi passioni, i libri e la politica, un progetto di vita confluito nella casa editrice che porta il suo nome, punto di riferimento per tutto il Sud Italia e non solo. È scomparso a 76 anni Piero Manni: protagonista della storia dell’editoria locale, era nato nel 1944 a Soleto, in provincia di Lecce, e prima di dedicarsi a tempo pieno ai libri aveva insegnato nella scuola media e per vent’anni anche in un’aula dietro le sbarre, ai detenuti nelle carceri di Lecce. Fondata nel 1984 insieme alla moglie Anna Grazia, la Manni Editori si caratterizza da subito per le sue pubblicazioni di poesia, narrativa e saggistica politica, sin dal primo libro, un’antologia sulla pace con poesie - tra gli altri - di Giorgio Caproni, Mario Luzi, Edoardo Sanguineti, Paolo Volponi e Andrea Zanzotto: tutti autori che negli anni successivi continueranno a pubblicare per Manni. Insieme alla casa editrice, nel gennaio 1984 Piero e Anna Grazia Manni avevano dato vita anche a una rivista di letteratura, chiamata "L'immaginazione", ancora oggi attiva, che aveva una visione della cultura vissuta in maniera militante e guardava il mondo da sinistra. Nonostante sia sempre rimasta una piccola casa editrice indipendente, la Manni resta il simbolo di un’avventura editoriale di successo, soprattutto per le pubblicazioni di importanti autori e per la capacità di reggere alle difficoltà del mercato: una realtà riconosciuta e rispettata anche a livello nazionale per l’autorevolezza e la qualità del proprio catalogo. Tra gli autori pubblicati negli anni, figurano infatti anche Alda Merini e scrittori all’epoca poco noti come Giancarlo De Cataldo e Wanda Marasco all’inizio degli anni duemila. Lo stesso Manni aveva pubblicato alcuni suoi scritti, romanzi e saggi e, nel 2005, era stato eletto consigliere regionale per Rifondazione Comunista, mentre oggi era presidente emerito di Anpi Salento.

Morto Piero Manni, passione civile e titoli scelti. Pubblicato venerdì, 22 maggio 2020 su Corriere.it da Cristina Taglietti. I libri, la politica e l’impegno sociale erano le passioni di Piero Manni, l’editore salentino scomparso il 22 maggio a 76 anni. Nato a Soleto (Lecce) nel 1944, già consigliere regionale di Rifondazione comunista, presidente emerito dell’Anpi Salento, era stato a lungo insegnante, nelle scuole medie e nelle carceri, prima di fondare, a metà degli anni Ottanta a Lecce, con la moglie Anna Grazia D’Oria, la casa editrice omonima. Pubblicò, come prima opera, un’antologia poetica intitolata Segni di poesia lingua di pace, con le voci di alcuni tra i i maggiori poeti italiani, da Giorgio Caproni a Mario Luzi, da Andrea Zanzotto a Edoardo Sanguineti, da Elio Pagliarani a Paolo Volponi. «Sei in ogni nostro libro — quelli fatti, quelli immaginati e mai realizzati, quelli che hai scritto e tradotto e curato, e in quelli che hai inventato negli ultimi giorni e su cui hai scocciato fino all’ultimo perché ci lavorassimo! — che ti ritroveremo per sempre dappertutto», è l’annuncio, sui social, della casa editrice che era anche la sua famiglia. La figlia Agnese in particolare, oggi direttore editoriale, ne aveva raccolto l’eredità. Tutto era iniziato nel gennaio 1984 con la rivista di letteratura «L’immaginazione», che ancora oggi si occupa di ricerca letteraria, e intorno alla quale si è creata una rete di relazioni e di interessi culturali. Il marchio si sviluppa inizialmente con la letteratura; la prima collana di saggistica, «La scrittura e la storia», che apre con Cina Cina di Luigi Malerba, è promossa da Romano Luperini, che ancora oggi la dirige. L’attenzione per i protagonisti della neoavanguardia si fondeva con quella per un padre della sinistra eretica come Franco Fortini, per i maestri della filologia come Maria Corti e Cesare Segre. Oltre ad autori come Massimo Bray e Alda Merini, Manni ha pubblicato negli anni anche scrittori che poi sarebbero approdati a marchi più grandi, come Giancarlo De Cataldo o Wanda Marasco. Nel 2017 con Un’educazione milanese di Alberto Rollo la casa editrice era entrata nella cinquina del premio Strega. Oggi con circa 50 volumi all’anno, si occupa di letteratura, sociologia, filosofia, antropologia, teatro e cinema senza dimenticare i grandi temi di politica nazionale ed internazionale. Dello scorso anno è il libro dell’ex presidente della Commissione P2, Tina AnselmiGabriella in bicicletta. La mia Resistenza raccontata ai ragazzi; mentre, del 2016 la raccolta Che dice la pioggerillina di marzo:nella prefazione Manni scrisse di aver dovuto convincere i redattori più giovani, restii a quella vena un po’ nostalgica di versi degli anni Cinquanta che una volta si studiavano a memoria. Il titolo ebbe successo e uscì la seconda raccolta: una selezione di poesie degli anni Sessanta, Cloffete cloppete clocchete.

·        Morto Wilson Roosevelt Jerman, maggiordomo di undici presidenti Usa. 

Morto Wilson Roosevelt Jerman, maggiordomo di undici presidenti Usa. Jacopo Bongini il 22/05/2020 su Notizie.it. Deceduto a 92 anni a causa del coronavirus, Wilson Roosevelt Jerman fu maggiordomo alla Casa Bianca servendo ben undici presidenti degli Stati Uniti. Dopo oltre cinque decadi passate all’ombra degli uomini più potenti del mondo si è spento all’età di 91 anni Wilson Roosevelt Jerman, maggiordomo ufficiale della Casa Bianca che nel corso della sua lunga carriera lavorò per ben undici presidenti degli Stati Uniti, da Dwight Eisenhower fino a Barack Obama. Jerman, nato in un’umile famiglia afroamericana come il collega Eugene Allen, la cui storia ispirò il noto film The Butler, è morto a causa del coronavirus lo scorso 16 maggio ma la notizia del decesso è stata resa pubblica dai nipoti soltanto nelle ultime ore. Assunto alla Casa Bianca nel 1957 come addetto alle pulizie durante la presidenza di Dwight Eisenhower, Jerman si fece in breve tempo notare per le sue doti di riservatezza e professionalità che indussero pochi anni dopo il suo successore John Fitzgerald Kennedy, si dice dietro consiglio della moglie Jacqueline, a promuoverlo maggiordomo.

Una circostanza confermata anche da una delle nipoti dell’uomo che citando proprio il rapporto con la first lady ha dichiarato: “Con lei aveva ottimi rapporti e fu lei a sostenerlo e a imprimere una svolta nella sua carriera”.

Jerman divenne uno degli uomini più fidati dello staff della Casa Bianca anche per il presidente Ronald Reagan, al quale lasciava sempre preparare le sue valigie, ma il rapporto più stretto lo ebbe senza dubbio con George W. Bush, il quale proprio in occasione della sua scomparsa ha voluto così ricordarlo: “Era una persona deliziosa e amabile e si faceva voler bene”. Fu proprio nel 2003, durante la presidenza di Bush Junior, che Jerman tornò a lavorare per la Casa Bianca dopo aver lasciato il posto nel 1997 e rimanendo al 1600 di Pennsylvania Avenue fino al pensionamento definitivo nel 2012, sotto Barack Obama. Una delle ultime soddisfazioni dell’uomo fu proprio quelle di essere menzionato nell’autobiografia dell’ex first lady Michelle Obama dal titolo “Becoming”, in cui viene ritratto in una celebre foto in ascensore con la coppia presidenziale. Nel 2011, lo stesso Barack Obama conferì a Jerman una medaglia presidenziale per il suo lungo servizio.

Anna Lombardi per “la Repubblica” il 23 maggio 2020. Lucidò stoviglie d' argento per Dwight Eisenhower: era il 1957. Servì il caffé a John Fitzgerald Kennedy, promosso al rango di butler, maggiordomo, grazie all' aiuto di Jackie che lo aveva preso in simpatia. Poi divenne il cameriere più fidato di George W. Bush: aiutando il presidente insonne a ritrovare il sonno con aneddoti della sua gioventù. Fino a quell' ultima immagine. Dove Wilson Roosevelt Jerman, il più longevo membro dello staff della Casa Bianca, ucciso dal coronavirus martedì, a 91 anni, sorride, in ascensore, al fianco degli Obama. Uno scatto così simbolico - il cameriere nero in livrea con alle spalle la prima coppia presidenziale afroamericana - da essere stato inserito da Michelle Obama carrellata di immagini che illustrano la sua autobiografia, Becoming. «Era un uomo gentile. La prima persona che vedevamo al mattino, l' ultima prima di coricarci. Per noi aveva sempre un sorriso e una leccornia »: George W. Bush lo ricorda così nel messaggio di cordoglio firmato con la moglie Laura, recapitato a Nbc News . Perché Jerman, 55 anni trascorsi alla Casa Bianca al servizio di 11 presidenti, era davvero amato da tutti. E peccato che, in tempi di coronavirus, il fedelissimo di così tanti leader non avrà nemmeno un funerale. Nato in Virginia nel 1929, l' anno della grande crisi, sposatosi a 19 anni e padre di cinque figli, nonno di 12 nipoti e 18 bis nipoti, Jerman si accontenterà di un addio virtuale. Con forse più di un presidente ad asciugarsi le lacrime, in diretta su Zoom. A ricordarlo al mondo, oggi, ci pensa la nipote Jamila Garrett, intervistata da Fox: «Era un uomo sincero, sempre al servizio degli altri. Non contava chi si rivolgesse a lui. Si prodigava per tutti, in ogni modo possibile ». Un nonno straordinario quello evocato da Jamila: «Ci ha insegnato che per riuscire nella vita bisogna essere autentici. E trovare la forza di superare gli ostacoli. Il suo insegnamento, è la nostra eredità più preziosa». Insieme a quegli indimenticabili aneddoti. Perché, pure se Wilson Roosevelt Jerman non è il maggiordomo della Casa Bianca immortalato da Hollywood nel film di Lee Daniels The Butler , con Forest Whitaker - ispirato alla vita di Eugene Allen, collega e per un certo periodo superiore di Jerman - i suoi aneddoti non furono certo da meno. Una lunga storia d' amicizia con i potenti della Terra, la sua: fino all' onore, ormai già molto anziano, di servire gli Obama, sia pure part-time. «Di lui mi colpì la grande dignità», scrive Michelle nell' autobiografia. «La stessa che rende speciali tutto coloro che lavorano alla residenza privata del presidente». Da Eisenhower a Obama: Jerman ha contribuito, a suo modo, alla Storia. Lustrando argenteria e servendo il caffè.

·        Addio a Claudio Ferretti, voce storica di "Tutto il calcio minuto per minuto".

Addio a Claudio Ferretti, voce storica di "Tutto il calcio minuto per minuto". Pubblicato giovedì, 21 maggio 2020 su La Repubblica.it da Marco Bonarrigo. Il mondo dello sport piange Claudio Ferretti. Dopo Ameri, Ciotti e Provenziali, se ne va un'altra voce storica di "Tutto il calcio minuto per minuto". Giornalista romano, 77 anni, figlio di Mario Ferretti che nel 1949 durante una tappa del Giro d'Italia coniò la frase "un uomo solo al comando, la sua maglia è biancoceleste, il suo nome è Fausto Coppi", iniziò il suo percorso in Rai nel 1963. Una vita dedicata allo sport

Tre anni dopo era già parte integrante della storica trasmissione radiofonica. Negli anni '80 iniziò a collaborare con la televisione dove ebbe modo di condurre diverse trasmissioni sportive, quali "E' quasi goal", "Anni azzurri", "Telesogni" e "L'una italiana". Nella sua carriera seguì il calcio, la boxe (sua la radiocronaca del primo match tra Benvenuti e Monzon) e il ciclismo. Proprio le due ruote gli regalarono le emozioni più belle. Dal 1998 al 2000 condusse il Processo alla Tappa. Condusse anche il tg3 di cui è stato capo della redazione sportiva.

Da repubblica.it il 22 maggio 2020. Il mondo dello sport piange Claudio Ferretti. Dopo Ameri, Ciotti e Provenziali, se ne va un'altra voce storica di "Tutto il calcio minuto per minuto". Giornalista romano, 77 anni, figlio di Mario Ferretti che nel 1949 durante una tappa del Giro d'Italia coniò la frase "un uomo solo al comando, la sua maglia è biancoceleste, il suo nome è Fausto Coppi", iniziò il suo percorso in Rai nel 1963.

Una vita dedicata allo sport. Tre anni dopo era già parte integrante della storica trasmissione radiofonica. Negli anni '80 iniziò a collaborare con la televisione dove ebbe modo di condurre diverse trasmissioni sportive, quali "E' quasi goal", "Anni azzurri", "Telesogni" e "L'una italiana". Nella sua carriera seguì il calcio, la boxe (sua la radiocronaca del primo match tra Benvenuti e Monzon) e il ciclismo. Proprio le due ruote gli regalarono le emozioni più belle. Dal 1998 al 2000 condusse il Processo alla Tappa. Condusse anche il tg3 di cui è stato capo della redazione sportiva.

Addio a Claudio Ferretti, la voce più bella di Tutto il calcio. Pubblicato venerdì, 22 maggio 2020 su La Repubblica.it da Antonio Dipollina. Figlio d'arte, se n'è andato da Roma e dal mondo giovedì, a 77 anni. Ha raccontato il calcio e i grandi eventi sportivi alla radio e in tv. La terza voce era la più bella. La prima (Ameri), era a sostegno di un ritmo impareggiabile ma con aspri finali di frase, la seconda – Ciotti – era quella ideale al servizio del funambolo che era. La terza era quella di Claudio Ferretti, terzo campo in ordine di importanza: ed era perfetta, sembrava il podcast di un grande attore che ti raccontava live la partita. Per qualche motivo il terzo campo era molto spesso l’Olimpico di Roma e quando entrava il gol della squadra di casa si ricordano i toni epici e un boato diverso, nitido, con voce appunto perfetta a sostegno. Claudio Ferretti se n’è andato da Roma e dal mondo ieri, a 77 anni. Nato col marchio del figlio d’arte, non era una paternità qualsiasi: il padre Mario era passato dalle strade della Cuneo-Pinerolo (anno 1949) direttamente alla leggenda di sempre dello sport con quella frase dell’uomo solo al comando della corsa, poi il colore della maglia e poi il nome. Claudio il figlio si ritrovò a navigare alla grande dentro quella leggenda settimanale che era Tutto il calcio minuto per minuto. Ma la leggenda la ebbe a praticare anche lui, maggio 1975, la sfida decisiva verso lo Stelvio, al Giro: e in un giorno in cui per uno sciopero salta la diretta televisiva. Ma Ferretti era al suo posto, ovvero sulla moto che seguiva Fausto Bertoglio e Francisco Galdos, in un Giro falcidiato dalle assenze, diventano protagonisti del sogno e lui, Ferretti, a scandire i tornanti per milioni di radioline (“Ne mancano 27 al traguardo”). Fece anche la radiocronaca del primo Benvenuti-Monzon, Ferretti era multiuso e aveva un orizzonte ampio in testa (negli anni Ottanta ideò un folle, per allora, Giro al computer trasmesso alla radio, con i corridori virtuali ed ebbe grande successo). Quell’orizzonte che lo condusse a fine anni 80 a traslocare in tv e vivere da protagonista gli anni d’oro del Servizio pubblico rinnovato e con una rete, la 3, gioiellino da alimentare. Conduttore di tv, capo dello sport, autore e protagonista di programmi (Telesogni e molti altri), aveva anche ereditato il Processo alla Tappa. Ma oggi tocca soprattutto chiudere, forse per l’ennesima volta, un’epoca, registrando che di quelli del Tutto il calcio da venti milioni di ascoltatori, quello delle radioline al parco con la mano nella mano della fidanzata e l’altra all’orecchio, dei risultati appesi sul tabellone verde fuori dal bar, non rimane più nessuno: e tutto sfuma nella storia, anzi leggenda, chiamando le cose col loro nome.

Claudio Ferretti è morto a 77 anni: era la storica voce di «Tutto il calcio minuto per minuto» e del «Processo alla tappa». Pubblicato venerdì, 22 maggio 2020 da Corriere.it. Claudio Ferretti, storico giornalista della Rai, è morto a Roma la sera di giovedì 21 maggio a Roma. Aveva 77 anni. Lo rende noto la Rai che ne ricorda la competenza, la passione e la grande professionalità che lo hanno contraddistinto come grande esempio di giornalista del servizio pubblico. Figlio d’arte di Mario — commentatore delle leggendarie pedalate di Fausto Coppi (sua la famosa frase: «Un uomo solo al comando, la sua maglia è biancoceleste, il suo nome è Fausto Coppi») — iniziò il suo percorso in Rai nel 1963. Voce storica di «Tutto il calcio minuto per minuto», è stato poi tra i conduttori del Tg3 di Sandro Curzi, di cui è stato capo della redazione sportiva. Tra le sue altre rubriche e trasmissioni di successo, «Anni Azzurri» e «Telesogni». Poliedrico e curioso, è stato anche autore con Barbara Scaramucci di un apprezzato libro sulla storia della Rai. Nella sua carriera seguì soprattutto il calcio, la boxe (sua la radiocronaca del primo match tra Benvenuti e Monzon) e il ciclismo. Proprio le due ruote gli regalarono le emozioni più belle. Dal 1998 al 2000 condusse il «Processo alla Tappa».

·        È morto padre Adolfo Nicolas, era stato «papa nero» dei Gesuiti.

È morto padre Adolfo Nicolas, era stato «papa nero» dei Gesuiti. Pubblicato mercoledì, 20 maggio 2020 su Corriere.it da Gian Guido Vecchi. «Vede, sant’Ignazio era un uomo libero, la libertà che viene quando si sente lo Spirito». La sera del 3 settembre 2012 era arrivato in Duomo per i funerali del cardinale Carlo Maria Martini, l’omaggio del padre generale della Compagnia di Gesù al grande confratello per ventitré anni arcivescovo di Milano. Ed il ritratto che padre Adolfo Nicolás ne aveva fatto al Corriere era insieme una riflessione su ciò che significa essere gesuita, «un figlio di sant’Ignazio fino alla fine», sulla sua stessa vocazione: «C’è un principio di Ignazio molto chiaro: trovare Dio in tutte le cose. Il cardinale Martini aveva un approccio così positivo verso la realtà perché aveva quello sguardo, la visione nella quale Dio lavora in tutto: e ha trovato Dio in tutte le cose, in tutte le persone. Di qui il grande rispetto che aveva per credenti e non credenti, di qualunque origine fossero. Tutti hanno una scintilla di Dio che bisogna trovare». Padre Adolfo Nicolás è morto a Tokyo, dov’era stato a lungo studente e poi docente universitario, la città più amata nella quale si era infine ritirato dopo essersi dimesso da generale dei gesuiti. Era malato da tempo, l’ultima imagine pubblica risale al viaggio di Francesco in Giappone, il 12 novembre dell’anno scorso, la carezza di Francesco al volto soffrente del suo vecchio superiore durante la visita alla Sophia University. Spagnolo di Villamuriel de Cerrato, aveva 84 anni e dal 2008 al 2016 era stato il ventinovesimo successore di Ignazio di Loyola. Aveva annunciato le sue dimissioni due anni prima di lasciare, nel 2014, con una lettera ai diciassettemila gesuiti sparsi in 112 nazioni nel mondo. Un evento straordinario, perché la Compagnia di Gesù è l’unico ordine religioso della Chiesa nel quale il superiore viene eletto a vita, come il pontefice, e per questo viene popolarmente definito il «Papa nero». Prima di lui solo due volte era capitato che un padre generale lasciasse in vita: il primo fu padre Pedro Arrupe, nel 1980, in un momento di tensione con la Santa Sede, presentò le sue dimissioni a Giovanni Paolo II, che le respinse: un anno più tardi, però, Arrupe fu colpito da un ictus e Wojtyla inviò un suo «delegato personale» commissariando di fatto la Compagnia; il secondo era stato Peter-Hans Kolvenbach, eletto nell’83, che decise di dimettersi nel 2008, a ottant’anni, proprio come avrebbe fatto padre Nicolás. L’annuncio della morte di padre Nicolás è stato dato mercoledì mattina dalla Curia generale dei gesuiti e dal suo successore, padre Arturo Sosa. I funerali saranno celebrati sabato a Tokyo, nella chiesa di Sant’Ignazio. Nelle sue parole su Martini, sei mesi prima del conclave che avrebbe eletto Francesco, c’era già la svolta del futuro pontificato, la Chiesa in uscita: «Ho vissuto 48 anni in Asia e credo che forse siamo stati deboli, noi missionari. Non abbiamo cercato abbastanza di trovare Dio e il lavoro di Dio nelle altre culture e nelle altre genti. Portare questa ricchezza di Dio alla Chiesa universale continua ad essere una sfida. Credenti di altre fedi, non credenti: Dio sta lavorando nella gente prima che noi missionari andiamo. Sta già lavorando».

·        E’ morto Shad Gaspard ex lottatore di wrestling.

Morto Shad Gaspard, l’ex lottatore di wrestling è annegato per salvare la vita del figlio di dieci anni. Pubblicato mercoledì, 20 maggio 2020 su Corriere.it da Salvatore Riggio. Dopo tre giorni di ricerche è stato trovato il corpo di Shad Gaspard, ex stella di wrestling e attore. Aveva 39 anni, domenica era andato a nuotare insieme al figlio di dieci anni, a Marina del Rey, accanto alla famosissima Venice Beach di Los Angeles. E proprio a Venice mercoledì mattina è stato notato da un bagnante il cadavere e segnalato alla Guardia Costiera che lo ha recuperato. Solo la settimana scorsa la contea di Los Angeles aveva riaperto le spiagge per l’attività fisica, includendo anche il nuoto, dopo il blocco totale per il coronavirus. Secondo le ricostruzioni Gaspard prima di essere trascinato via dalle onde ha salvato la vita del piccolo spingendolo verso i soccorritori. Che hanno provato a recuperare in acqua tutti e due, ma senza riuscirci, a causa delle condizioni del mare che si era alzato improvvisamente: «Le onde erano alte due metri, sembrava di stare dentro a una lavatrice, la prima decisione è stata mettere al sicuro il ragazzino, è la scelta naturale ma ce l’ho ha detto anche lui di farlo. Quando siamo tornati indietro per recuperare anche lui è arrivata un’altra onda enorme» hanno raccontano i bagnini intervenuti alle tv americane. Anche «The Rock», il popolarissimo attore Dwayn Johnson, anche lui un ex wrestler aveva lanciato un appello e pregato per l’amico scomparso. Per Gaspard sono stati, quindi, fatali le forti correnti dell’Oceano Pacifico. Fin dalle prime ore dell’incidente, da quando l’ex wrestler era disperso in mare appunto, elicotteri e sub si sono messi alla ricerca del 39enne. Ritrovato il corpo, la prassi prevede che qualche familiare lo riconosca e così è stato. Era soprannominato «The Beast», la bestia. In coppia con JTG aveva formato il tag team Cryme Time. Infine, una volta che si era dedicato al cinema, aveva avuto un ruolo pure nel film della Marvel, «Black Panther».

Shad Gaspard muore annegato per salvare il figlio. The Rock: "Ho pregato fino alla fine". Il corpo senza vita del wrestler è stato ritrovato dopo aver salvato dall'annegamento il figlio. Lo straziante messaggio dell'attore Dwayne Johnson, "The Rock", amico e collega. Novella Toloni, Mercoledì 20/05/2020 su Il Giornale. Lutto nel mondo del wrestling americano. Il cadavere di Shad Gaspard è stato ritrovato questa mattina a Venice Beach da un bagnante. Il wrestler era scomparso da due giorni, dopo aver salvato dall'annegamento il figlio di 10 anni, ma il suo corpo non era ancora stato ritrovato. Devastato dal dolore l'amico e collega Dwayne Johnson, meglio conosciuto come The Rock, star di Hollywood che fino all'ultimo ha sperato in un miracolo. La tragedia si è consumata nel pomeriggio di domenica scorsa, quando il wrestler si trovava sulla spiaggia di Venice a Los Angeles insieme ad un gruppo di persone. Con lui anche il figlio Aryen di 10 anni che, proprio mentre si trovava in acqua, è stato travolto dalle onde. Gaspard si è tuffato in mare per salvare il figlio, ma quando i soccorritori sono giunti sul luogo dell'incidente hanno potuto recuperare solo il bambino, ancora in vita, spinto da un gesto estremo del padre. La forza del mare avrebbe invece sopraffatto il lottatore, il cui corpo è scomparso tra le onde agitate. Come ha riportato poche ore fa il sito Tmz il cadavere di Shad è stato ritrovato solo questa mattina, riverso senza vita sulla spiaggia. La tragica scomparsa dello sportivo, molto conosciuto tra gli appassionati della WWE, ha gettato nello sconforto colleghi e amici non solo dell'ambiente del wrestling. Tra tutti The Rock, l'attore ed ex lottatore, che proprio con Gaspard aveva combattuto in passato. Su Twitter The Rock ha scritto un accorato messaggio di speranza, quando ancora i soccorritori stavano cercando il corpo di Shad: "Le mie preghiere e speranze per la moglie, il figlio e la famiglia di Shad Gaspard durante questo periodo impensabile. Amico, lo so che è difficile. Davvero difficile. Grande uomo". A nulla sono valse, però, le sue preghiere visto il ritrovamento del corpo senza vita del wrestler. Shad Gaspard e The Rock erano legati da un destino comune oltre a essere amici di vecchia data. The Rock, infatti, aveva supportato l'esordio nel mondo del cinema di Shad, che dal ring sognava un futuro davanti alla cinepresa. Un passo verso il nuovo ruolo di attore lo aveva già compiuto, recitando come stuntman nel blockbuster Marvel "Black Panther". Solo due settimane fa, Gaspard aveva pubblicato sul suo profilo Instagram uno scatto al fianco di The Rock per augurargli buon compleanno: "Grazie per essere la motivazione, l'ispirazione e l'esempio per tutti noi".

·        Morta Hana Kimura, la lottatrice di wrestling. 

Hana Kimura, la wrestler giapponese di 22 anni morta per cyber bullismo. Aveva partecipato a Terrace House. Pubblicato sabato, 23 maggio 2020 da Corriere.it. Una giovanissima «wrestler» giapponese, la ventiduenne Hana Kimura, è morta in Giappone. Nota anche per aver partecipato al reality show di Netflix, Terrace House, Hana Kimura aveva denunciato negli ultimi giorni di essere vittima di cyber-bullismo, dimostrando con i suoi ultimi messaggi sui «social» di essere molto provata («Volevo essere amata. Non voglio più essere un essere umano», si leggeva fra l’altro) dai continui attacchi degli hater. La notizia della morte, per ragioni ancora non chiarite, è stata data dall’organizzazione Stardom Wrestling di cui la giovane faceva parte, che chiede ai fan di avere rispetto. Sul suo profilo Instagram, l’ultima immagine la mostra con il suo gatto e una sola inquietante parola come didascalia: addio, in giapponese. Una scelta che molti dei suoi fans hanno interpretato come chiara prova a favore dell’ipotesi di un suicidio. Negli ultimi giorni attraverso i suoi profili social aveva condiviso pensieri tristi e ossessioni: «Mi arrivano addosso quasi cento opinioni al giorno Grazie a tutti coloro che mi hanno sostenuta, È stato bello, adesso sono debole. Mi dispiace. Non voglio più essere umana, Grazie a tutti, vi amo. Ciao». Kimura era molto popolare in Giappone anche grazie alle apparizioni tv, figlia d'arte, anche sua madre Kyoko Kimura era stata una lottatrice. Nel 2019 Hana aveva vinto il premio Fighting Spirit Award.

Morta Hana Kimura, la lottatrice di wrestling aveva 22 anni. Riccardo Castrichini il 23/05/2020 su Notizie.it. Hana Kimura muore a soli 22 anni, la lottatrice di wrestling era da tempo vittima del cyberbullismo. È morta a soli 22 anni Hana Kimura, lottatrice professionista di wrestling giapponese. A darne notizia è stata la Stardom, la federazione per cui la giovane lottava che ha invitato i suoi fan a rispettare il drammatico momento: “Siate rispettosi e lasciate che passi qualche giorno per processare il tutto”. Il riferimento in questo caso è a quanto era avvenuto nei giorni precedenti alla scomparsa della ragazza, quando la stessa aveva postato su Twitter delle foto di automutilazione personale che lasciavano intuire che avesse tentato il suicidio. Anche il testo che accompagnava la foto non lasciava spazio a diverse interpretazioni: “Quasi 100 opinioni franche ogni giorno. Non posso negare di star male. Sono morta. Grazie per avermi dato una madre. Era una vita che volevo essere amata. Grazie a tutti quelli che mi hanno supportato. Vi adoro. Sono debole, mi dispiace. Non voglio più essere un umano. Era una vita che volevo essere amata. Grazie a tutti, vi amo. Ciao”. La Kimura era vittima di un pressante e quotidiano cyberbullismo, tipico purtroppo nel mondo del wrestling, che pare abbia fortemente turbato la sua esistenza. Al momento, comunque, non sono state ancora svelate le modalità del decesso. La madre di Hana Kimura è Kyoko Kimura, anch’essa wrestler professionista molto popolare in Giappone. La carriera della giovane Hana era in grande ascesa, tanto che era diventata uno tra i volti più popolari della Stardom e aveva preso parte anche alla serie Netflix Terrace House: Tokyo 2019-2020. Si tratta tra l’altro della seconda morte di un lottatore di wrestling in una sola settima. Pochi giorni prima della scomparsa della Kymura è infatti venuto a mancare anche Shad Gaspard, lottatore americano morto annegato per salvare il figlio durante un bagno nel mare della California.

·        Morto Gigi Simoni.

Gigi Simoni, il ricordo del club nerazzurro: "Un signore, se n'è andato nel giorno più interista di tutti". Libero Quotidiano il 22 maggio 2020. “Ci ha lasciati oggi, 22 maggio. Una data non casuale, la data più interista di tutte”. Così l’Inter nella nota in cui ricorda Gigi Simoni, scomparso all’età di 81 anni. “Di lui ricordiamo e ci mancherà tutto - prosegue il club nerazzurro - il suo essere signore, innanzitutto. Un modo di vivere, la vita e il calcio, mai sopra le righe. Anche il suo calcio era così: umile ma funzionale, capace di far fruttare al meglio ciò che aveva a disposizione”. Simoni ha incarnato “l’interismo più genuino” ed a lui è legato il ricordo di Ronaldo: “Sulla panchina nerazzurra arrivò nel 1997, assieme al Fenomeno. Un binomio, quello Simoni-Ronaldo, che resterà per sempre nel cuore di tutti. Un rapporto paterno, la benevolenza nei confronti di un calciatore speciale”. “Noi lo ricordiamo così - conclude l’Inter - coi suoi capelli bianchi, sulla nostra panchina, mentre con un sorriso si godeva le magie di Ronaldo, circondato dall’orgoglio e dall’affetto dei tifosi dell’Inter. Ciao Gigi, ci mancherai”. 

Morto Gigi Simoni nel giorno del 10° anniversario del Triplete: calcio italiano in lutto.  Libero Quotidiano il 22 maggio 2020. Calcio in lutto: a 81 anni è morto Gigi Simoni. Un simbolo del nostro pallone, un cuore interista che si spegne nel decimo anniversario del Triplete, una coincidenza che lascia senza fiato. Il 22 maggio 2010, infatti, l'Inter di Mourinho vinse tutto, una stagione pazzesca e irripetibile. Gigi Simoni alla guida dell'Inter di Ronaldo e di Moratti presidente, vinse la Coppa Uefa battendo 3-0 la Lazio in finale. Gigi Simoni era in gravi condizioni da circa un anno, dopo che era stato colpito da un ictus. Durante la sua lunga carriera anche tre promozioni in Serie A, una Coppa Anglo-italiana con la Cremonese e la vittoria della Panchina d'Oro nello stesso anno della Coppa Uefa. Tra i primi commenti, proprio quello di Massimo Moratti: "Gli è stato impedito di vincere un campionato che avrebbe assolutamente meritato", ha premesso riferendosi all'annosa vicenda Iuliano-Ronaldo e allo scudetto vinto dalla Juventus. E ancora: "Era un tecnico gentiluomo verso il quale - aggiunge l’ex presidente nerazzurro - , provavo grande stima e affetto. La telefonata con la quale poco fa la moglie mi ha avvisato della morte mi ha provocato un dolore immenso", ha concluso Moratti.

Addio a Gigi Simoni, un allenatore fuori dal coro. Le Iene News il 22 maggio 2020. L’ex allenatore dell’Inter, con cui vinse una Coppa Uefa, è morto all’età di 81 anni. "E' stato un grande protagonista della storia del nostro club”, ha detto Massimo Moratti. Noi de Le Iene lo avevamo conosciuto nel 2005, nell’intervista che potete rivedere qui sopra. Gigi Simoni se n’è andato. L’ex allenatore, bandiera dell’Inter con cui vinse una Coppa Uefa nel 1998, si è spento all’età di 81 anni. Era malato da tempo, aveva accusato un malore il 22 giugno scorso. Oltre ai nerazzurri, nella sua lunga carriera ha allenato tra le altre anche Lazio, Napoli e Torino. "E' stato un grande protagonista della storia dell'Inter: ha vinto una coppa europea molto importante, gli è stato impedito di vincere un campionato che avrebbe assolutamente meritato”. L’ha ricordato così Massimo Moratti, storico presidente nerazzurro. “Un tecnico gentiluomo verso il quale provavo grande stima e affetto”. Noi de Le Iene avevamo conosciuto Gigi Simoni qualche anno fa, nell’intervista che potete rivedere qui sopra. Con lui avevamo parlato della situazione del calcio pochi mesi prima dell’esplosione dello scandalo di Calciopoli e della sua Inter del 1998: “Avevo un bellissimo rapporto con Ronaldo, era il migliore di tutti i tempi”. E senza dimenticare il famoso contatto con Iuliano. Un allenatore fuori dal coro, di cui potete riascoltare le parole qui sopra: buon viaggio mister!

Morto Gigi Simoni, aveva 81 anni. Allenò il Napoli, la Lazio e l’Inter di Baggio e Ronaldo. Pubblicato venerdì, 22 maggio 2020 su Corriere.it da Mario Sconcerti. Lutto nel mondo del calcio: è morto Gigi Simoni. L’ex allenatore dell’Inter aveva 81 anni e un anno fa era stato colpito da un grave malore. L’ex tecnico di Genoa e Inter è stato sulle panchine di decine di club in Italia e anche all’estero dopo una discreta carriera di calciatore. Gli ultimi incarichi sono stati da dirigente con il Gubbio e da tempo pur continuando a seguire il calcio si era di fatto ritirato a vita privata. Da giocatore ha vinto una coppa Italia con il Napoli nella stagione 1961-62 e il campionato italiano di serie B con il Genoa nella stagione 1967-68. Più ricco il palmares in panchina dove ha vinto con la Cremonese la coppa Anglo italiana nel 1993, una coppa Uefa con l’Inter nella stagione 1997/98, anno nel quale gli fu assegnata anche la Panchina d’oro come migliore allenatore italiano, e cinque campionati di serie B (tre con il Genoa e due con il Pisa). Tecnico simbolo dell’Inter di Ronaldo, è stato il primo a vincere un titolo (la Uefa già citata) nel club presieduto da Massimo Moratti prima dell’avvento di José Mourinho. Era l’anno del controverso episodio, in campionato, del presunto fallo da rigore dello juventino Mark Iuliano proprio sul centravanti brasiliano, un intervento che non fu sanzionato e che impedì la rimonta scudetto ai nerazzurri proprio a vantaggio dei bianconeri. Simoni però ha sempre mantenuto l’aplomb che gli è valso il rispetto di tutto l’ambiente in tutta la sua carriera: mai una parola fuori posto, mai uno sgarbo a colleghi e avversari. Ci pensa, allora, il suo presidentissimo Massimo Moratti che, alla notizia del decesso, ha commentato: «Gli è stato impedito di vincere un campionato che avrebbe assolutamente meritato. Era un tecnico gentiluomo verso il quale - aggiunge l’ex presidente nerazzurro - , provavo grande stima e affetto. La telefonata con la quale poco fa la moglie mi ha avvisato della morte mi ha provocato un dolore immenso».Tra i primi a esprimere cordoglio anche il Genoa: Simoni aveva vestito la maglia rossoblù da calciatore dal 1971 al 1974 (88 presenze e 13 gol) e iniziato la carriera in panchina proprio sotto la Lanterna ('74-'78) per poi tornarci nella stagione 1987-1988. «Uomo e allenatore meraviglioso, indimenticabile giocatore e tecnico del Genoa. Riposa in pace», è il ricordo del club.

Claudio De Carli per “il Giornale” il 23 maggio 2020. Gigi? Un uomo buono, troppo buono, gli parlavi assieme ed era la prima cosa che ti arrivava, e uno così doveva essere anche molto signore per non finire nelle centrifughe del calcio, facile scaricare sui teneri. All' Inter ce l' ha portato Sandro Mazzola: «Presidente è uno come noi, educato, mai una parola in più, sincero. E ci sa fare». Massimo Moratti lo conosce ma quando lo frequenta rimane sorpreso dalla persona. Corrado Ferlaino lo esonera dopo dieci partite senza vittorie, troppo, ma è dispiaciuto, alla stampa dice che non aveva scelta. Il Gigi il 22 aprile lascia Napoli, tre mesi dopo, a luglio 1997, firma per l' Inter di Ronaldo e tocca il cielo. Ha già girato l' Italia, ha iniziato nelle giovanili della Fiorentina sulla fascia a fare la sua parte, una sessantina di reti, Mantova, Napoli, Torino, Juventus, Brescia, Genoa, e quando va via lascia solo nei ricordi. Nel '74 subentra a Guido Vincenzi sulla panchina del Genoa e inizia la sua seconda vita nel calcio, conquista la serie A, ci riesce anche a Brescia, ha il record nazionale delle promozioni, firma solo contratti per una stagione, da come gira il calcio, scende in C, nessun problema, con la Cremonese vince un Anglo-italiano a Wembley e a Milano ci sta con le pantofole. Ma poi, Gigi cosa è successo? «La stampa, le televisioni, le radio. I giornalisti fanno il loro lavoro per carità ma scrivevano che la mia Inter non aveva un schema, niente spettacolo, palla a Pagliuca e rinvio per Ronaldo. Il presidente voleva il bel gioco. Stop». E quindi? «Mi ha dato il benservito proprio nel giorno che a Coverciano ricevevo la Panchina d' Oro, esonerato, proprio non me lo aspettavo. Avevo risposto alle domande dei colleghi, mi chiedevano di Roberto Baggio e Ronaldo, avevo spiegato che i problemi si stavano risolvendo, e giù applausi. Poi mi squilla il telefono e Mazzola mi gira la bella notizia. Quel giorno credo di aver fatto la figura del deficiente». Inter in corsa su tre fronti, battuto il Real Madrid, in campionato è a un solo punto dalla Juventus, sui quotidiani si legge che è la squadra da battere. E tutto così strano. Massimo Moratti sembra più dispiaciuto del Gigi: «Mi ha fatto vincere il primo trofeo internazionale a Parigi, non lo scordo, ma ci sono momenti cui ti sembra giusto agire in un certo modo. Cosa penso? Penso che gli abbiano impedito di vincere uno scudetto che strameritava».

E poi c' è una voce che gira e fa male.

«Ronaldo? - chiede Gigi mentre spalanca gli occhi -. Ronaldo era un bambino meraviglioso, io ho avuto quell' oro, quello che ti faceva vincere e abbiamo vinto. Con il resto della squadra ero stato sincero, per me erano tutti uguali tranne uno. Ironie a quei tempi poteva fare quello che voleva, non credo proprio che si mise contro di me. E non credo neanche che qualcuno della squadra si fosse sentito offeso e abbia spinto il presidente ad allontanarmi. La conferma l' ho avuta poi. Mi chiamavano tutti. Quando ho saputo dell' esonero di Mircea Lucescu ho capito che la squadra era rimasta legata a me, quella era ancora la mia squadra. Il giorno che West gli ha tirato la maglia addosso, «l' ho perdonato, dopo la storia di Ceccarini, tutto era imploso dentro di noi, eravamo un gruppo straordinario, quell' episodio ci ha condizionato per anni».

Si vergogni. «Si, certo, quel giorno gli ho detto che doveva vergognarsi». Quasi consiglio a Ceccarini che non vede il fallo di Iuliano su Ronaldo perché stava guardando Birindelli. Con Ronaldo palla al piede in area. E non ha mai fatto un passo indietro, addirittura ha ipotizzato un fallo di sfondamento del Fenomeno. Nessun commento, l' arbitro giudica quel che vede, mai schiacciare la buona fede in un angolo. «Quanta gente perde tante buone occasioni per tacere. Lui sempre poco intelligente». L' ultima uscita. Ha messo su casa a San Piero a Grado, di quelle che chiamano coloniche, giardino a volte, Taribo che ti salta sulle spalle appena oltrepassi il cancello, è il labrador che gli ha regalato Sartor. Dentro sulla parete della sala c' era un poster enorme di Ronaldo. E l' Inter è rimasta under skin, ha sempre parlato di tutti come se fossero ancora lì nello spogliatoio ad ascoltarlo: «Ganz veniva da me e mi chiedeva perché Ronaldo era un titolare fisso e lui no. Poi quando lo mettevo in campo dava l' anima. Taribo mi chiamava tutti i giorni, voleva venire con me a Piacenza. Ma sei sempre fuori dal mondo gli ho detto, con il tuo ingaggio qui si paga tutta la rosa e poi il Piacenza è l' unica squadra di A che gioca senza stranieri! Ma è normale, alla fine il calcio è questo e io ho sempre giustificato tutti, anche quelli che non mi andavano. Tanti. Ne bastano pochi, un paio o un rigore non dato e i tuoi detrattori ti fucilano. A Milano devi vincere, altrimenti passi le settimane a leggere la lista dei tuoi successori».

Eppure San Siro, ogni volta che c' è tornato, gli ha riservato standing ovation di minuti interi, tutto lo stadio a battere le mani, anche i tifosi della squadra ospite. Potresti farci notte con il tenero Gigi: «Ma con il presidente Moratti mai avuto una discussione, mi ha portato all' Inter, devo solo essergli grato». E quel giorno? «Quel giorno ricordo che ho pianto». Non stava bene da giugno scorso, ha tirato ancora un anno, un solo anno come i contratti che firmava. L' ultimo con la viltà. Se ne è andato nel giorno del Triplete, gli ha messo sopra la firma, quasi un contrappasso. In occasione del centenario della Cremonese è stato nominato allenatore del secolo, il Genoa lo ha inserito nella sua Hall of Fame. L' Inter può ancora rimediare.

Eh già, altro che Oronzo, siamo davanti a un membro dell’Unesco..

«E non ho ancora cominciato a dire la mia. Voglio che venga convalidato il ruolo del “nonno d’Italia” come patrimonio dell’Unesco perchè un nonno vale più di un museo. E’ una esperienza familiare che voglio rivalutare».

Ma quando sarà completamente finita la pandemia che farà, come festeggerà?

«Vorrei che tutti gli italiani, dopo aver cantato l’Inno di Mameli, escano sui balconi a cantare “E’ finita la quarantena , porca puttena”». 

Gigi Simoni e il fallo di Iuliano: era rigore netto, c’eravamo abituati, ma in più c’era lo sgarbo a un signore. Pubblicato venerdì, 22 maggio 2020 su Corriere.it da Carlo Baroni. Arriva il giorno che anche un interista non ce la fa più a confondere alibi e ragioni. E le ragioni con i torti. Perché per un interista i soprusi (degli altri) vincono sempre. Come quella volta che. L’avevamo visto tutti. Era rigore. Netto, sacrosanto. Che neanche mille Var. Quando mai Ronaldo va a sbattere a tre metri dalla porta? E davanti a un Iuliano qualunque, per giunta. Era rigore. Indiscutibile, da manuale dell’arbitro. Negarlo fece più male che un cinque maggio. Lo sapevamo. C’eravamo abituati. Ma rispetto alle altre diecimila volte (esagero in difetto) c’era uno sgarbo più grave da sopportare. L’umiliazione a Gigi Simoni. Ci fosse stato un Mourinho l’avremmo metabolizzato. Lo Special One ci avrebbe campato per anni su quell’ingiustizia. Gliele avrebbe cantate e suonate a Federazione, arbitri e zebre furbastre. Farla in quel modo a Simoni sapeva di cattiveria. Lui che, tra l’altro, nella Juve ci aveva persino giocato (nessuno è perfetto). Un interista ricorda le vittorie. Il decennale del Triplete, in questi giorni. Gigi non vinse quasi niente. Arrivato troppo tardi. Quasi un ripiego. Una brava persona sulla panchina che scotta. Eppure nessuno fece valere le ragioni nerazzurre come lui in quel pomeriggio di una vita fa. La sua corsa in campo, le sue proteste a Ceccarini (sempre dandogli del lei), gli applausi alla panchina. Sarebbe bastato questo per capire che era stata commessa l’ingiustizia del secolo. Gigi Simoni che non faceva polemiche. Non alzava la voce. E quasi chiedeva scusa se doveva togliere un giocatore. Gigi Simoni che non dava titoli ai giornali e lo spogliatoio era come il bar dell’oratorio. Gigi Simoni che ci pensava prima di parlare e sapeva di calcio senza bisogno di dirlo. Gigi Simoni e quel pomeriggio al Delle Alpi. Passerà alla storia per un pareggio. Anche per questo è unico e speciale per chi palpita di nerazzurro. 

È morto Gigi Simoni, volto gentile del calcio italiano. Pubblicato venerdì, 22 maggio 2020 su La Repubblica.it da Franco Vanni. Aveva 81 anni ed era da tempo malato. Con l'Inter conquistò la Coppa Uefa. Moratti: "Non ha vinto lo scudetto per episodi strani". Ronaldo: "Come un direttore d'orchestra". Bergomi: "Per lui eravamo tutti uguali, tranne il Fenomeno". Mondo del calcio in lutto. Si è spento a 81 anni Gigi Simoni. Allenatore dell'Inter che nella stagione 1997/1998 conquistò la Coppa Uefa nella notte di Parigi, da tempo era malato. L'allenatore aveva accusato un malore il 22 giugno scorso. Simoni scompare proprio nel giorno del decennale della vittoria interista del Triplete, quel 22 maggio che aveva consacrato il suo operato con l'Inter un decennio prima. Come giocatore ha militato nel Torino, Brescia e Genoa principalmente, nella sua lunga carriera da allenatore, ha guidato Lazio, Napoli, Inter e Torino.

Moratti: "Gli impedirono di vincere lo scudetto". "E' stato un grande protagonista della storia dell'Inter: ha vinto una coppa europea molto importante, gli è stato impedito di vincere un campionato che avrebbe assolutamente meritato", è il ricordo di Massimo Moratti all'Ansa. "Tecnico gentiluomo verso il quale - aggiunge l'ex presidente nerazzurro -, provavo grande stima e affetto. La telefonata con la quale poco fa la moglie mi ha avvisato della morte mi ha provocato un dolore immenso". Luigi Simoni, per amici e avversari era semplicemente 'Gigi'. Il tecnico di Crevalcore è stato uno degli allenatori più amati e rispettati in Italia per il suo stile misurato e mai sopra le righe che ha caratterizzato la sua lunga carriera, dalla sua prima esperienza in panchina al Genoa (1975 al 1978 dove tornerà in altre due occasioni) passando per Brescia, Pisa, Empoli, Cosenza, Carrarese, Cremonese, Napoli, Inter, Piacenza, Torino, Cska Sofia, Ancona, e nuovamente Napoli, Siena, Lucchese, Gubbio per finire con la Cremonese nella stagione 2013-2014.

Classe 1939, Simoni prima della panchina ha avuto una discreta carriera da calciatore: giovanili della Fiorentina e poi Mantova, Napoli, Torino, Juventus, Brescia e Genoa dove chiuse nel 1974. L'impatto da allenatore fu subito vincente. Arrivato alla guida del Genoa nell'estate del '75 l'anno dopo il suo primo incarico ottenne la promozione in Serie A. Passaggio di categoria che ripeterà altre volte portando agli onori della massima divisione squadre come il Pisa, il Brescia, la Cremonese (di cui fu artefice del periodo d'oro assieme al presidente Luzzara) e l'Ancona, oltre ad ottenere una promozione in C1 con la Carrarese. Profondo conoscitore del mondo del calcio, Simoni oltre alle doti tattiche ha avuto tra le sue migliori qualità la capacità di parlare con i giocatori e motivarli. Il momento più alto della sua carriera probabilmente l'approdo all'Inter nella stagione 1997-98. I nerazzurri, spinti da Ronaldo contendono il titolo alla Juve perso tra le polemiche nello scontro diretto a Torino caratterizzato dall'ormai famoso contatto in area tra Iuliano e Ronaldo. I veleni per il mancato scudetto trovano consolazione nella vittoria della Coppa Uefa a Parigi contro la Lazio. L'anno seguente, coi nerazzurri rafforzati dall'arrivo di Baggio, non sarà fortunato per Simoni, esonerato a novembre ma per sempre nei cuori dei tifosi. Una carriera in panchina lunga quasi 40 anni per il tecnico emiliano che ha visto alti e bassi. Per lui oltre a promozioni, un successo europeo con l'Inter e il riconoscimento della Panchina d'oro 1997-1998, ma anche qualche delusione con 3 retrocessioni (due col Genoa e una con la Cremonese) e 8 esoneri.

Alberto Cerruti per gazzetta.it pubblicato da dagospia.com il 22.01.2019. Dalla prima partita con la Fiorentina di Bernardini all’ultima come presidente della Cremonese. Gigi Simoni ha attraversato più di sessant’anni di calcio, da giocatore, allenatore e presidente, tra i pochi protagonisti in quattro derby – a Genova, Torino, Roma e Milano –: l’unico ad avere festeggiato dodici promozioni, ma soprattutto l’unico capace di farsi voler bene da tutti, da San Siro a Sanremo. Da Moratti a Baglioni, che non ha aspettato il compleanno numero 80 di oggi per fargli un regalo dal quale non si è mai separato. “Vede questa medaglietta d’oro? La tengo sempre sotto la camicia, perché me l’ha donata Baglioni quando ho lasciato la Lazio. C’è la data, 12-6-1986, con la dedica: “Per un amico che partendo non se ne va, un ricordo di una bella amicizia nata a Roma e mai interrotta”. 

Prima e dopo la Lazio, è stato in altre 20 squadre: a quale è rimasto più affezionato? 

“Il primo amore è stato il Grande Torino che ho visto da bambino con mio papà. Poi ho giocato nel Toro con Meroni, quando ci chiamavano “i Luigi d’oro” e per questo seguo con simpatia il Torino, anche perché Cairo è sempre stato molto affettuoso con me. E poi nel Torino c’è Petrachi, mio ex giocatore, che è bravissimo. Il vero tifo, però, è per l’Inter, il grande amore professionale. E per tutti i tifosi io sono sempre l’allenatore dell’Inter”. 

Ma con l’Inter era finita male… 

“Non mi aspettavo di essere esonerato. Moratti, però, ha riconosciuto di avere sbagliato e adesso abbiamo un ottimo rapporto, perché è davvero una persona splendida. A Natale mi ha mandato un panettone enorme, con gli auguri”.

Il ricordo più bello è la coppa Uefa? 

“Solo a livello sportivo, perché io scappai negli spogliatoi amareggiato per le voci che circolavano sul possibile arrivo di Zaccheroni. E infatti non ci sono nelle foto dei festeggiamenti. A livello personale, invece, il ricordo più bello è l’ovazione ricevuta dai tifosi di San Siro, tutti in piedi ad applaudirmi, quando sono tornato la prima volta sulla panchina del Piacenza. Moratti mi ha detto che nessun altro è stato accolto così”. 

Come mai poi è passato al Piacenza? 

“Mi avevano chiamato Del Sol per il Siviglia, Eriksson per il Benfica. Magari sarei diventato il capo di Mourinho che incominciava allora, ma rifiutai per motivi personali, preferendo ricominciare da Piacenza”. 

Ha smaltito la rabbia per quel rigore non fischiato da Ceccarini a Ronaldo? 

“È una ferita che rimarrà sempre, anche perché Ceccarini ripete che aveva visto giusto”. 

Non ha più riparlato con lui? 

“No, anche perché quando ci siamo trovati a qualche cerimonia io l’ho salutato e lui ha fatto finta di non riconoscermi”. 

Chi ricorda più volentieri tra i tanti giocatori allenati? 

“Il mio preferito, a livello umano, è Bruno Conti. L’ho scoperto a 20 anni, l’ho lanciato titolare nel Genoa. Un ragazzo d’oro, campione in campo e fuori”. 

A livello tecnico, invece, il primo è Ronaldo… 

“Il più forte che ho allenato. Conservo ancora la sua maglia sporca di fango, dopo la doppietta a Mosca. Ma non dimentico West, che mi manda ancora tartarughine in legno”. 

Chi vorrebbe rivedere tra i suoi tanti compagni d’avventura? 

“Rocco, grande allenatore e uomo unico. Mi portò al Torino e poi mi anticipò la convocazione in Nazionale, grattandosi la pancia nello spogliatoio”. 

Come visse il successivo trasferimento dal Torino alla Juve? 

“Andai alla Juve perché fu bloccato il trasferimento di Meroni e perché mi voleva Heriberto Herrera, però giocai poco. La Juve aveva quelle strane maglie che si allargavano sulla schiena. Se davvero lì è nata la storia dei gobbi, io sono stato uno dei primi gobbi”. 

Oggi c’è un’altra Juve: ricorda squadre più forti? 

“La Juve è la squadra più forte, ma la più forte che ricordo è la Fiorentina di Bernardini, che vinse lo scudetto nel 1956”. 

Quanto ci vorrà per rivedere un’Inter da scudetto? 

“Spero poco, perché per adesso è ancora una squadra che può vincere con chiunque, perdere con chiunque e fare solo un punto in due partite contro il Sassuolo”. 

Le piace Spalletti? 

“È un buon allenatore, ma a volte faccio fatica a capirlo”. 

Chi vorrebbe vedere, in futuro, al suo posto? 

“Simeone sarebbe l’ideale, è di un’altra categoria. L’ho avuto come giocatore e in un quaderno aveva già gli appunti sui metodi di lavoro di tutti i suoi allenatori. Mai visto uno così”. 

Icardi non segna più: è condizionato dal contratto? 

“Non credo perché è forte in campo e fuori. Come attaccante non ha rivali e merita di rimanere all’Inter, anche se la trattativa mi sembra un po’ complicata”. 

C’è un allenatore nel quale si rivede? 

“Giampaolo, che avevo portato a Cremona. Non so se sia un bene o un male, ma mi assomiglia molto”. 

A 80 anni è stanco di guardare il calcio? 

“No, perché il calcio è la mia vita. Mi manca il campo ed è un peccato che non si possa fermare il tempo. Ma ho la fortuna di avere vicino mia moglie Monica e mio figlio Leonardo, che per colpa di Shevchenko è diventato milanista. Così, quando c’è il derby, sono contento in ogni caso: per me o per lui”. 

·        Tennis: è morto Ashley Cooper, leggenda della racchetta anni '50.

Tennis: è morto Ashley Cooper, leggenda della racchetta anni '50. Pubblicato venerdì, 22 maggio 2020 da La Repubblica.it. MELBOURNE (Australia)   - Il mondo del tennis piange Ashley Cooper, leggenda australiana che ha scritto pagine indelebili nella storia della racchetta. Il re degli Slam degli anni 50 si è spento a 83 anni dopo una lunga malattia. Grande Slam sfiorato nel 1958. Nato a Melbourne il 15 settembre 1936, Cooper vince nel 1957 il suo primo titolo in singolare dello Slam all'Australian Open contro Neale Fraser e insieme a quest'ultimo si aggiudica il doppio maschile agli US Open dello stesso anno. Il 1958 è il suo anno migliore, entrando a far parte di quel gruppo ristretto di tennisti (dieci) che sono riusciti a vincere tre titoli dello Slam in una stagione. Cooper trionfa infatti in Australia, a Wimbledon e agli Us Open, ma al Roland Garros si ferma in semifinale contro Luis Ayala, perdendo così l'occasione di completare il Grande Slam. Cooper, che ha messo in bacheca con l'Australia due Coppe Davis (1956 e 1957), è stato in testa alla classifica nel 1957 e nel 1958 prima di passare tra i professionisti nel 1959. Nel 2007 è stato insignito dell'Officer of the Order of Australia (AO) per il suo impegno nel tennis e nel 1991 è stato inserito nella International Tennis Hall of Fame.

·        Basket, Nba in lutto: è morto Jerry Sloan, leggenda di Utah.

Basket, Nba in lutto: è morto Jerry Sloan, leggenda di Utah. Pubblicato venerdì, 22 maggio 2020 da La Repubblica.it. SALT LAKE CITY - La Nba è in lutto. Si è spento a 78 anni Jerry Sloan, ex giocatore dei Chicago Bulls e storico allenatore degli Utah Jazz. Fatali le complicazioni legate al Parkinson e alla demenza a corpi di Lewy, che gli erano state diagnosticate nell'aprile 2016. Nella Hall of Fame dal 2009, sfidò i Bulls di Jordan. Entrato nella Hall of Fame nel 2009, Sloan ha allenato i Jazz per 23 anni (dal 1988 al 2011), centrando i play-off per 15 stagioni di fila. Il massimo a fine anni Novanta quando Utah, trascinata da Malone e Stockton, vince la Western Conference nel 1997 e nel 1998, salvo poi cedere nella finale per l'Anello ai Chicago Bulls di Michael Jordan, sfide recentemente raccontate nel documentario "The Last Dance". Icona da giocatore di Chicago (la sua maglia numero 4 è stata ritirata), ai Bulls ha mosso i primi passi da coach, carriera conclusa con l'addio ai Jazz durante la stagione 2010-11. In tutto ha conquistato 1.221 vittorie in regular season, dietro i soli Don Nelson, Lenny Wilkens e Gregg Popovich. Sloan inoltre è al secondo posto nella classifica di tutti i tempi per le partite consecutive allenate con la stessa franchigia (1.809), e possiede anche il secondo maggior numero di vittorie con una squadra (1.127). E' uno dei sette allenatori nella storia del campionato ad aver vinto almeno 50 partite in 10 stagioni diverse (Rick Adelman, Don Nelson, Pat Riley, Phil Jackson, Gregg Popovich e George Karl gli altri). Con lui in panchina Utah ha avuto un record vincente per 16 stagioni consecutive (1988-2004), quarta miglior serie di sempre dietro Popovich (22), Jackson (20) e Riley (19). Sloan è stato inoltre il primo allenatore a vincere 1.000 partite con un club ed è stato il quinto allenatore nella storia della Nba a registrare 1.000 vittorie in carriera. Utah Jazz: "Farà per sempre parte di noi". "Jerry Sloan sarà sempre sinonimo di Utah Jazz. Farà per sempre parte dell'organizzazione degli Utah Jazz e ci uniremo alla sua famiglia, agli amici e ai fan per piangere la sua perdita - recita un comunicato della franchigia di Utah -. Siamo grati per quello che ha realizzato qui e per i decenni di dedizione, lealtà e tenacia che ha portato alla nostra franchigia. Jerry ha avuto un impatto enorme sui Jazz, come dimostrato dal suo stendardo appeso alle travi dell'Arena. Le sue 1.223 vittorie di allenatore dei Jazz, 20 playoff e due presenze alle finali della Nba sono risultati incredibili. Il suo approccio a muso duro lo rese solo più amato. Anche dopo essere andato in pensione, la sua presenza alle gare degli Jazz ha sempre suscitato una risposta fragorosa da parte dei tifosi. Come Stockton e Malone come giocatori, Jerry Sloan incarna l'organizzazione. Ci mancherà molto. Estendiamo le nostre più sentite condoglianze a sua moglie, Tammy, a tutta la famiglia Sloan e a tutti coloro che lo hanno conosciuto e amato".

·        Morto il giornalista Stefano Carrer.

Trovato morto in montagna sopra Como il giornalista Stefano Carrer. Pubblicato venerdì, 22 maggio 2020 su Corriere.it da Anna Campaniello. È stato individuato in un dirupo sui monti della Valle Intelvi, nel Comasco, il corpo senza vita del giornalista Stefano Carrer, 59 anni, disperso da mercoledì pomeriggio nella zona di Pigra, dove era andato a fare un’escursione. Carrer lavorava nella redazione Esteri del Sole 24 Ore e si occupava in particolare di Asia e Giappone. Mercoledì scorso era arrivato sul Lario per un’escursione. Aveva parcheggiato l’auto nella zona della funivia di Pigra e poi era partito da solo per una camminata. Non vedendolo tornare e non riuscendo a mettersi in contatto con lui, in serata i familiari avevano dato l’allarme, facendo scattare le ricerche che hanno impegnato i vigili del fuoco, il Soccorso Alpino e le forze dell’ordine. Le ricerche sono proseguite ininterrottamente fino al primo pomeriggio di venerdì, quando il corpo del giornalista è stato individuato in un dirupo. Sarebbe precipitato dal sentiero che stava percorrendo, cadendo nel vuoto per decine di metri. Complesse le operazioni di recupero, perché la zona è particolarmente impervia. Diplomato al liceo Volta di Como, laureato in giurisprudenza, Carrer aveva frequentato l’Istituto per la Formazione al Giornalismo di Milano. Poi, dopo un’esperienza nel settore periodici del gruppo Monti, aveva iniziato a collaborare con il Sole 24 Ore da New York, era passato alla Rizzoli-De Agostini e nel 1993 era stato assunto al Sole 4 Ore. Dal 2008 al 2011 aveva lavorato per lo più in Asia e dal 2013 al 2018 era stato corrispondente a Tokyo. «Fu il primo giornalista italiano ad arrivare a Fukushima» dopo l’incidente nucleare del marzo 2011, ha ricordato un amico su Facebook. «Stefano aveva una grande passione per il suo lavoro e una grande curiosità per la cultura e per la società del Giappone - dove aveva vissuto per anni come corrispondente del Sole 24 Ore - e più in generale per l’estremo Oriente». È il ricordo del presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia Alessandro Galimberti e collega a Il Sole 24ore del giornalista trovato morto sulle montagne del Comasco. «Nonostante la sua competenza e la considerazione di cui godeva negli ambienti diplomatici, teneva per indole un profilo molto basso ed era estremamente educato nei rapporti con i colleghi - spiega Galimberti -. Mai sopra le righe, schivo e riservato, Stefano era però sempre dentro la notizia con la capacità di analisi e di lettura degli eventi di chi ha saputo vivere il proprio lavoro con passione e coinvolgimento».

·        È morto Mory Kanté: cantante guineano celebre per «Yeke Yeke».

È morto Mory Kanté: cantante guineano celebre per «Yeke Yeke». Pubblicato venerdì, 22 maggio 2020 su Corriere.it. Il cantante della Guinea Mory Kante è morto nella capitale Conakry, all’età di 70 anni. Lo ha reso noto suo figlio, Balla Kante. Kante divenne uno dei più celebri cantanti del continente, scalando le classifiche musicali europee nel 1988 con la canzone `Yeke Yeke´, grande successo prima in Africa e poi anche nel Vecchio Continente. Kante è morto in ospedale per problemi di salute. «Aveva malattie croniche e spesso andava in Francia per curarsi, ma con il coronavirus non è stato più possibile», ha affermato il figlio. «Abbiamo visto le sue condizioni di salute peggiorare rapidamente», ha aggiunto. Il presidente della Guinea Alpha Conde’ ha espresso via Twitter le proprie condoglianze e ha ringraziato Kante per la sua musica, dicendo che «la cultura africana è in lutto». Mory Sanda Kamissoko detto «Sanda», questo il suo nome completo, nacque a Kissidougou, in Guinea, il 29 marzo 1950: èra il più giovane di ben 38 fratelli. Nel 1971 entrò a far parte del gruppo Rail Band di cui divenné cantante nel 1973 per poi rimanerci fino al 1978. Nel frattempo imparò da autodidatta a suonare la kora, strumento tradizionale, divenuto indispensabile in tutti i suoi concerti. Nel 1981 pubblicò il suo primo disco «Courougnegne»; nel 1984 si recò in Francia dove, dopo alcune difficoltà dovute al suo status di immigrato privo di cittadinanza, tenne molti concerti suonando la kora elettrica. Il 1987 fu dunque l’anno del successo internazionale: il singolo «Yéké yéké» vendette oltre un milione di copie in tutto il mondo mentre il successivo album, «Akwaba beach» oltre mezzo milione. Dopo di allora non sarebbe più riuscito ad ottenere successi analoghi, ma quella canzone rimane nell’immaginario collettivo degli anni’80.

E' morto Mory Kanté, l'artista che ha portato l'Africa nel mondo. Pubblicato venerdì, 22 maggio 2020 su La Repubblica.it da Carlo Moretti. Il musicista guineiano aveva 70 anni. Lo chiamavano "il griot elettrico": con la sua hit "Yeke Yeke" negli anni Ottanta fu tra i primi artisti internazionali della nascente world music. Il cordoglio di Youssou N'Dour: "Addio fratello". E' morto a 70 anni, dopo lunga malattia Mory Kanté, cantante e musicista originario della Guinea, conosciuto in tutto il mondo soprattutto per la hit Yeké Yeké lanciata nel 1987. E proprio a quel brano, che portava elementi etnici nel mezzo dell'accelerazione elettronica tipica della musica negli anni Ottanta, viene fatto riferimento quando si parla della nascita della world music. Non a caso per tutti Kantè era "il griot elettrico". Kanté aveva iniziato come griot, suonando la kora (la tipica arpa dei paesi dell'Africa occidentale) che aveva appreso ancora bambino quando i suoi genitori lo avevano inviato a studiare lo strumento in Mali. Tutta la sua famiglia si dedicava a quest'arte musicale da cantastorie, che nella cultura africana travalica i confini della musica per diventare racconto storico della propria famiglia e della propria etnia di appartenenza, quindi memoria collettiva. Nato nel 1951 a Kissidougou, in Guinea, a 15 anni Kanté si trasferì a Bamako e nella capitale si unì al gruppo all'epoca più famoso del paese, la Rail Band. Per sette anni restò con loro fino a quando la rivalità con il maestro orchestratore della band, Salif Keita, lo costrinse ad abbandonarli per unirsi prima ai Les Ambassadeurs e poi, arrivato in Costa d'Avorio, per guidare un'orchestra di 35 elementi chiamata Les Milieus Branches. Con loro, siamo ormai alla fine degli anni Settanta, Kanté comincia a innestare nella musica tradizionale elementi anglosassoni, soprattutto soul, anche grazie all'incontro con Abdoulaye Soumare, un produttore che aveva collaborato a lungo con Stevie Wonder. Fu grazie al successo dell'album Courougnegne pubblicato nel 1981 che Kanté cominciò ad essere considerato il padre fondatore della moderna musica Mandinga, quello speciale mix tra musica etnica e musica occidentale ed elettronica che si sarebbe affermata prima in Africa e poi in Europa portandolo nel 1982 in Francia. E' a Parigi che Kanté registra l'album A Paris contenente una prima versione molto più acustica di Yekè Yekè. E' l'album che, con appena sei brani, lo conferma come uno degli artisti di punta della nuova scena africana. E' però nel 1987, nella versione molto più ritmata e con sonorità quasi house, che Yekè Yekè si impone come un successo a livello internazionale. Kanté diventa così famoso in tutto il mondo: il singolo vende oltre un milione di copie, l'album che lo contiene, Akwaba Beach, supera il mezzo milione di copie. Con l'album Touma pubblicato nel 1990 Kanté conferma il suo stile di griot elettrico, spingendo ancora di più sulle componenti elettroniche sostenute da grandi fiati e dalla sua voce sempre esplosiva; sulla stessa linea si posizionano i lavori lungo il decennio Nongo Village,Un Amour de Prix e Tatebola. Bisognerà attendere l'inizio degli anni Duemila per un ritorno ai suoni acustici ed etnici con Sabou pubblicato nel 2004 e con con Tamala nel 2009. Nel 2012 con La Guinéenne il griot elettrico tornava a balafon e al flauto fulani per rendere omaggio alle donne africane che riteneva ancora troppo svantaggiate nonostante i passi avanti compiuti. Il figlio di Mory Kanté, Balla, ha spiegato alla France Presse che il padre soffriva di una malattia cronica che in passato aveva potuto curare a Parigi, grazie a frequenti viaggi in Francia. Il coronavirus ha però reso impossibili gli spostamenti all'estero e le condizioni di Kante sono velocemente peggiorate. E' morto venerdì in Guinea, in un ospedale della capitale Conakry. Molti gli artisti che hanno voluto rendergli omaggio, a cominciare dal senegalese Youssou N'Dour. Che su Twitter scrive: "Apprendo con dolore del ritorno a Dio del mio fratello maggiore e punto di riferimento, il Maestro Mory Kanté. Oggi sento un grande vuoto per la scomparsa di questo baobab della cultura africana. Riposa in pace. Dal tuo fratello addolorato, Youssou N'Dour". Condoglianze espresse anche dal Presidente della Guinea, Alpha Condé, che su Twitter pubblica la foto di un recente incontro e scrive: "La cultura africana è in lutto. Le mie più sentite condoiglianze... Ringrazio l'artista. Un percorso eccezionale. Esemplare. Un orgoglio".

·        E’ morto l’attore Hagen Mills.

Hagen Mills morto suicida: l’attore ha tentato di uccidere la compagna. Linda il 21/05/2020 su Notizie.it. Morto in condizioni drammatiche Hagen Mills, attore di “Baskets”: ha sparato prima alla compagna e poi si è suicidato. Hagen Mills, noto interprete di “Baskets”, “Justified” e “Swedish Dicks”, è morto in condizioni a dir poco drammatiche. Dapprima ha infatti tentato di uccidere la sua compagna, che aveva tra le braccia la figlia di 4 anni, poi si è suicidato. La tragedia è accaduta nella casa della suocera a Mayfield, nello stato del Kentucky. Secondo la ricostruzione dei fatti, l’attore avrebbe sparato alla compagna Erica Price senza ucciderla, per poi rivolgere contro di sé la pistola togliendosi la vita. Al momento la donna si trova fuori pericolo, in ospedale per accertamenti. La madre di lei e la bambina non sono invece fortunatamente rimaste coinvolte nella sparatoria. Gli agenti accorsi sul posto hanno dichiarato che nonna e nipote erano state trattenute in casa dallo stesso Mills fino al ritorno della compagna. Hagen Mills ha iniziato la sua carriera nel mondo nel cinema nel 2011. Nel 2016 ha quindi impersonato Lucky in “Renoir”, per poi ottenere una parte nel primo episodio di “Baskets”, serie tv molto popolare con Zach Galifianakis. Nel 2013 ha avuto il ruolo di Buck nel film “Bonnie & Clyde: Justified”. Aveva inoltre avuto una parte nell’horror “Starlight”, di prossima uscita nelle sale ad agosto. Stando ai primi rumors, da tempo Hagen Mills non godeva di buona salute né era stato particolarmente fortunato sul lavoro. Inoltre risulta che sia rimasto lontano dai social media per diverso tempo. Il canale Instagram è infatti tutto impostato su privato, mentre gli altri suoi account non sarebbero attivi da un po’.

·        E’ morto il giornalista Cesare Barbieri.

Pubblicato martedì, 19 maggio 2020  La Repubblica.it. Un grave lutto ha colpito il mondo del giornalismo sportivo italiano A soli 55 anni è morto Cesare Barbieri, originario di Vigevano (Pavia), da alcune settimane ricoverato in una struttura sanitaria a Milano dopo esser stato recentemente colpito da un ictus che aveva aggravato le sue condizioni di salute aggiungendosi alla malattia contro la quale combatteva da tempo. Ancora da stabilire la data dei funerali (ora si possono celebrare sia pure nel rispetto delle misure di distanziamento). Dagli inizi a Pavia fino alle tv nazionali.  Barbieri nella sua vita era riuscito ad unire due grandi passioni, quella per lo sport e quella per il giornalismo. Aveva cominciato la professione sin da giovanissimo a Radio Pavia e al settimanale locale "il Lunedì", soprattutto occupandosi del basket, primo grande amore, poi di calcio e di cronaca. Dalle televisioni locali e il lavoro alla rivista Nuovo calcio, è passato a canali nazionali come 7 Gold, poi Mediaset Premium, Sky e la piattaforma Tim. Attualmente lavorava per Infront e il magazine sulla serie B per la Lega Calcio. Professionalmente molto preparato, si è sempre fatto apprezzare anche per il suo carattere aperto e gioviale. Gli amici e colleghi ricordano, in particolare, anche la sua passione per il campione Roberto Boninsegna. Il ricordo di Katia Serra e Mauro Suma. Lo ricorda con affetto Katia Serra, opinionista su Sky Sport per quanto concerne il calcio femminile: "Un amico, un uomo a cui voler bene, un anima dal grande cuore che amava il calcio femminile". Commosso anche il saluto di Mauro Suma, già direttore di Milan Channel e voce delle telecronache rossonere: "Ci siamo conosciuti da ragazzi, avevamo tanti sogni e poi ci siamo persi di vista nei percorsi della vita. Mi spiace davvero tanto Cesare. Riposa nella pace più assoluta".

·        Giorgio Stegani rip.

Marco Giusti per Dagospia il 19 maggio 2020. Bang! Bang! Il cinema italiano, quello antico, di genere, perde un altro dei suoi vecchi, gloriosi registi. Giorgio Stegani Casorati, noto anche come George Finely nei suoi spaghetti western, nato a Milano nel 1928, fu attivissimo prima come soggettista, sceneggiatore, assistente alla regia e poi come regista per una decina di titoli tra gli anni ’60 e ’70. Fu lui a scrivere per Giuliano Gemma il soggetto e la sceneggiatura di “Un dollaro bucato”, poi a dirigerlo nella seconda unità di “Wanted” e poi col proprio nome in “Adios Gringo”. Quando l’ho conosciuto, un po’ confuso per l’arrivo dell’Alzheimer, sosteneva di essere stato lui a lanciare nel western Giuliano Gemma, piuttosto che il vecchio regista Giorgio Ferroni. Probabilmente era vero, visto che Stegani è presente come sceneggiatore e regista della seconda unità di quasi tutti i film di Ferroni dal documentario sulle Olimpiadi Invernali “Vertigine bianca” nel 1956 a “Il mulino delle donne di pietra”, “Le baccanti”, Il colosso di Roma”, “La guerra di Troia”, fino appunto a “Un dollaro bucato” e “Wanted”. Aveva lavorato anche per altri registi, sia come sceneggiatore, “Il campanile d’oro” di Giorgio Simonelli, “La celestina P.. R..” di Carlo Lizzani, “Amore e guai” di Angelo Dorigo, e anche come assistente, “Colpo grosso ma non troppo” di gerard Oury con Louis De Funes, “Caccia alla volpe” di Vittorio de Sica con peter Sellers, ma certo il rapporto con Ferroni fu per lui qualcosa di speciale, visto che diventano una specie di fabbrica di cinema. Bello, signorile, di buona famiglia, nipote del pittore Casorati, come mi disse lui stesso, sposato con Delfina Metz, figlia del celebre umorista e sceneggiatore, Stegani era stato presentato a Ferroni addirittura dal grande regista Jean Renoir. Il legame con Ferroni da una parte gli aprì le porte del cinema, ma da un’altra lo limitò, visto che la sua collaborazioni ai film del vecchio maestro dimostrano un impegno maggiore di un semplice assistente regista. Quando Ferroni si ammalò sul set di “Wanted”, Stegani lo sostituì, riuscendo a firmare il suo primo film da regista, appunto “Adios Gringo” con Giuliano Gemma, che per la prima volta si presentava col suo vero nome, e Evelyn Stewart alias Ida Galli. In realtà aveva già firmato un film, “Da 077: criminali a Hong Kong”, ma solo per doveri di coproduzione, visto che il vero regista era il tedesco Helmut Ashley. Negli anni’60 Stegani girerà altri due western, l’elegante “Gentleman Jo… uccidi” con l’italo-brasiliano Anthony Steffen alias Antonio De Teffé, e il più ricco “Al di là della legge”, prodotto da Sansone e Croscicki, con Lee Van Cleef e Antonio Sabato protagonisti e Bud Spencer che esordiva nel suo primo western. Gira anche nel 1967 il divertente “Colpo doppio al Camaleonte d’oro” con Mark Damon e la bella Magda Konopka. Finita o quasi la stagione dello spaghetti western, Stegani si lancia nell’erotico d’autore scrivendo, dirigende e producendo il notevole “Il sole nella pelle” con una giovanissima e nudissima Ornella Muti al suo secondo film assieme al suo compagno di allora Alessio Orano. Rivisto oggi il film è un incredibile documento della bellezza della Muti. Dirige poi nel 1974 il poliziottesco “Milano: Il clan dei calabresi” con Antonio Sabato e Silvia Monti, poi signora De Benedetti. E torna all’erotico con lo scandaloso “Disposta a tutto” con una giovanissima Eleonora Giorgi fra le braccia di Bekim Femiu, l’Ulisse televisivo. Sarà il suo ultimo film da regista. Lo ritroviamo poi tra gli sceneggiatori di “Cannibal Holocaust”, di “La maschera del demonio” nella versione di Lamberto Bava del 1990, della serie tv “Alta tensione”. 

·        È morto Gregory Tyree Boyce, attore di Twilight.

È morto Gregory Tyree Boyce, attore di Twilight. Alice il 19/05/2020 su Notizie.it. Si indaga sulla morte di Gregory Tyree Boyce: l'attore aveva solamente 30 anni, e con lui è scomparsa anche la fidanzata Natalie. È scomparso a soli 30 anni l’attore Gregory Tyree Boyce, che aveva ricoperto un piccolo ruolo nella saga di film di successo Twilight. Insieme a lui è scomparsa anche la compagna Natalie Adepoju, ma ancora non sono chiari i motivi del decesso. Il mondo del cinema piange Gregory Tyree Boyce, giovanissimo attore che aveva ricoperto un ruolo per i film sulla saga dei vampiri Twilight. Il decesso sarebbe avvenuto il 13 maggio ma i corpi sarebbero stati trovati da una persona vicina alla coppia solo qualche giorno più tardi. Ancora non è stato svelato il motivo del decesso di Gregory e della sua fidanzata Natalie, che si trovava con lui nel suo appartamento di Las Vegas. Sembra che a scoprire la tragedia sia stata una parente dell’attore, allarmata dal fatto che la sua macchina fosse ancora parcheggiata difronte all’appartamento mentre l’attore avrebbe dovuto spostarsi quello stesso giorno a Los Angeles, dove spesso si recava per impegni di lavoro e per far visita a sua figlia Alaya (10 anni, nata da una sua precedente relazione). Anche la sua compagna, Natalie, era madre di un bambino avuto da un’altra relazione. Per il momento i familiari dei due giovani non hanno svelato i motivi del decesso ma sui social sono già in tanti a piangere la triste scomparsa di Tyree Boyce e della sua Natalie. Boyce aveva raggiunto la popolarità nel 2008 quando aveva preso parte alle riprese di Twilight interpretando Tyler Crowley, uno degli studenti della Forks High School.

Da "lastampa.it" il 20 maggio 2020. E' giallo sulla morte dell'attore statunitense Gregory Tyree Boyce, noto per aver interpretato il ruolo di Tyler Crowley nel film "Twilight" (2008), tratto dall'omonima saga della scrittrice Stephenie Meyer. I corpi senza vita di Boyce, 30 anni, e della fidanzata Natalie Adepoju, 27 anni, sono stati trovati all'interno del loro appartamento in un condominio di Las Vegas. La causa della morte di entrambi non è stata ancora precisata e sono in corso le indagini da parte della polizia: nell'abitazione sarebbe stata trovata "polvere bianca". L'attore lascia la madre, Lysa Wayne, e la figlia Alaya, 10 anni, avuta da un precedente matrimonio; Natalie Adepoju lascia il figlio Egypt. Il decesso della coppia risale a mercoledì 13 maggio ma la notizia è stata pubblicata dalla stampa americana solo oggi. A dare l'allarme è stata una cugina dell'attore che, sapendo che Boyce doveva andare a Los Angeles, si è insospettita quando ha visto la sua auto parcheggiata davanti a casa. Dopo aver chiamato più volte Boyce e senza ricevere risposta, ha avvisato i soccorsi e la polizia, che hanno fatto la macabra scoperta. Gregory Tyree Boyce, pur essendo apparso al cinema solo in un paio di film, aveva conquistato notorietà per aver recitato in "Twilight" nel ruolo di Tyler Crowley, il giovane al volante di un furgone che rischia di investire Bella (Kristen Stewart), salvata da Edward (Robert Pattinson) che svela così la sua natura vampiresca.

·        E’ Morta Ann Mitchell,  la scienziata che decriptò Enigma.

Morta a 97 anni Ann Mitchell,  la scienziata che decriptò Enigma. Pubblicato lunedì, 18 maggio 2020 su Corriere.it da Paola De Carolis. La laurea in matematica e poi Bletchley Park, i codici dei tedeschi, la macchina Enigma, i turni massacranti, un solo pomeriggio di riposo a settimana: dietro il sorriso tranquillo, Ann Mitchell nascondeva una vita avvincente che sino agli anni 70 aveva celato a tutti, anche al marito Angus, e che solo nel 2009 le aveva portato un riconoscimento ufficiale dai servizi segreti britannici con l’assegnazione di «una medaglia piccola ma significativa». E’ morta a 97 anni di Covid nella casa di riposo di Edinburgo dove risiedeva dal 2018. Il figlio Andy, 61 anni, ha voluto ricordare una madre brillante e affettuosa che solo negli ultimi tempi aveva cominciato ad accusare i problemi dell’età, ma stando agli studiosi della seconda guerra mondiale, e in particolare delle attività della Scuola governativa di codici e cifrazioni di Bletchley, Mitchell ebbe un ruolo fondamentale nell’ultima fase del conflitto. James Turing, pronipote del genio matematico Alan, ha sottolineato che i diari di Mitchell nonché la poca documentazione che è rimasta sulle attività di Bletchley mostrano che le mansioni di Ann e le sue esperienze durante la guerra furono molto simili a quelle del prozio. In più, precisa, il suo ruolo e la sua bravura «aiutarono a superare i pregiudizi tipici di quei tempi e a permettere a tutti, donne e uomini, di raggiungere ciò di cui erano capaci». Tessa Dunlop, autrice del libro «The Bletchley Girls», parte di una lunga serie di opere letterarie, cinematografiche e televisive realizzate sul gruppo di menti brillanti cui venne affidato il compito di decifrare le comunicazioni dei tedeschi, ha sottolineato che mentre la maggior parte delle donne assunte a Bletchley venivano assegnate a mansioni amministrative, Ann era passata immediatamente alla «baracca sei», ovvero alla squadra che si occupava dei messaggi dell’aeronautica e dell’esercito tedeschi (la marina, invece, veniva ascoltata nella «baracca 8»). «Il suo era un talento raro», ha precisato Dunlop, che per il libro aveva intervistato diverse crittoanaliste. «Era dotata di grande empatia e allo stesso tempo di straordinaria acutezza». Se quest’ultima qualità le permise di ottenere grandi risultati a Bletchley – così come all’università di Oxford, dove conseguì la laurea in tempo record ed era una di cinque donne matematiche nel suo anno - la prima dote è quella che ricordano i quattro figli e che le portò grandi successo e soddisfazione nella seconda incarnazione professionale, come consulente matrimoniale in Scozia. I suoi due libri sull’effetto della separazione sui bambini hanno plasmato la legge scozzese sul divorzio, consigliando dove possibile la mediazione piuttosto che il ricorso ai tribunali.

·        È morto l’attore Michel Piccoli.

È morto Michel Piccoli: aveva 94 anni, da Ferreri a Moretti, ha lavorato con tutti i più grandi. Pubblicato lunedì, 18 maggio 2020 su Corriere.it da Paolo Mereghetti. E’ scomparso a 94 anni il grande attore francese Michel Piccoli. Lo ha reso noto lunedì 18 maggio la famiglia, ma la sua morte risale al 12 maggio. Il film che lo fece conoscere al grande pubblico fu Il disprezzo (1963) di Jean-Luc Godard, cui seguirono, tra i titoli più noti, Salto nel vuoto, per la regia di Marco Bellocchio, con vinse al Festival di Cannes come miglior attore protagonista. O Habemus Papam (2011) di Nanni Moretti , per il quale l’anno successivo vinse il David di Donatello. Considerato l’attore feticcio di Claude Sautet, ha girato dunque film con i maggiori registi internazionali: da Jean Renoir a Agnès Varda, da Alfred Hitchcock a Costa-Gavras Ma Piccoli non è stato solo grande attore: è stato anche produttore, regista e sceneggiatore. Con più di 70 anni di carriera è stato protagonista di più di 200 produzioni sia al cinema che in televisione e ha preso parte anche a una cinquantina di pièce a teatro. E è dunque lunghissima la lista di film con cui ha lavorato: Il diario di una cameriera (1964), Dillinger è morto (1969) , Life Size (Grandezza naturale) (1974), Tre simpatiche carogne (1976), La signora è di passaggio (1981), Passion (1982), L’armata ritorna (1983), Viva la vita (1984), La bella scontrosa (1991), Compagna di viaggio (1995), Genealogia di un crimine (1997), Libero Burro (1998), La petite Lili (2003), Specchio magico (2005), Belle toujours e Giardini in autunno (2006), La duchessa di Langeais (2007) e infine Habemus Papam (2011) di Nanni Moretti.

È morto Michel Piccoli, attore europeo per Godard, Buñuel e Nanni Moretti. Pubblicato lunedì, 18 maggio 2020 su La Repubblica.it da Rita Celi. È morto all'età di 94 anni Michel Piccoli. Attore, regista, sceneggiatore e produttore, è stato uno dei mostri sacri del cinema francese. Adorato in patria, ha lavorato con i più grandi registi europei ed è stato tra gli interpreti favoriti di Buñuel, con cui ha iniziato a collaborare dal '56, Marco Ferreri che l'ha scelto per il suo Dillinger è morto e La grande abbuffata. Nel 2011 è stato protagonista di Habemus Papam di Nanni Moretti, ruolo che gli è valso il David di Donatello. Nato a Parigi il 27 dicembre del 1925 in una famiglia d’artisti, padre violonista e madre pianista, decide presto che la sua via sarà la recitazione. La sua prima prova sul grande schermo arriva a vent'anni con il film Sortilèges di Christian-Jaque. Si sposa con l'attrice svizzera Eléonore Hirt, dalla quale avrà l'unica figlia Anne-Cordélia. Ancora poco conosciuto dal grande pubblico, frequenta i grandi del cinema francese ottenendo piccole parti, da Jean Renoir (French Cancan) a René Clair (Grandi manovre). Poi l'incontro con Luis Buñuel, con il quale collabora fra il '56 e il '74, nella fase più surrealista del maestro ispano-messicano. Arrivano in seguito personaggi indimenticabili delineati da Jean Luc Godard (Il disprezzo), Alain Resnais (La guerra è finita), Agnès Varda (Les Créatures e Josephine), lavorando con tutti gli autori della Nouvelle vague, da Chabrol a Lelouch e Sautet. Sul finire degli anni Sessanta sposa l'attrice e cantante francese Juliette Gréco, dalla quale divorzierà nel 1977, proprio quando Sautet lo sceglierà come interprete della sua Parigi borghese. È morto Michel Piccoli, una vita per il cinema. Amato dai maestri italiani da Ferreri a Moretti. Il riconoscimento più grande lo ottiene con Marco Bellocchio, grazie al quale si aggiudica la Palma d’oro di Cannes quale migliore attore per il film Salto nel vuoto nel 1980. La carriera non ha un attimo di sosta, nemmeno con l’avanzare dell’età, ed è proprio il più grande vecchio del cinema d’autore mondiale, il portoghese Manoel de Oliveira, a regalargli nuove parti e nuovi onori con i film Ritorno a casa, Lo specchio magico e Belle toujours (2006), sequel ideale a decenni di distanza del capolavoro del suo primo grande maestro, Luis Buñuel in versione Bella di giorno. Nel 2011 Nanni Moretti lo sceglie per il ruolo del Pontefice in crisi in Habemus Papam. Presentato in concorso al Festival di Cannes, viene eletto miglior film dell'anno dai Cahiers du cinéma, vince un European Film Award, sette Nastri d'argento e tre David di Donatello, tra cui quello al miglior attore protagonista.

Addio Michel Piccoli, libertino fedele. Da Bunuel a Godard, da De Oliveira a Ferreri, da Sautet a Moretti ha lavorato con tutti i più grandi. Senza mai smettere di cercare. Fabio Ferzetti il 18 maggio 2020 su L'espresso. Se n’è andato il 12 maggio ma la famiglia lo ha rivelato solo oggi. A dicembre avrebbe compiuto 95 anni, tutti spesi molto intensamente. È stato uno dei più grandi attori del cinema europeo, e anche se l’espressione “cinema europeo” non ha molto senso è l’unica che può raccogliere una carriera come la sua, 233 film grandi e piccoli (piccoli solo negli anni 50) girati fra il 1945 e il 2014, e diretti da registi non solo francesi e italiani (da Petri a Bellocchio, da Scola alla Cavani, da De Seta al Moretti di Habemus Papam), ma spagnoli, portoghesi, inglesi, georgiani...Nato a Parigi il 27 dicembre 1925 in una famiglia di musicisti, madre pianista francese, padre violinista di origini italiane, Michel Piccoli era infatti un libertino, nel senso filosofico del termine, sempre avido di nuove prove e nuove esperienze. Ma era anche un uomo fedele, come dimostrano i tanti film fatti con un pugno di registi ricorrenti e fondamentali nella sua sterminata filmografia (e che registi: Luis Bunuel, Marco Ferreri, Claude Sautet, Manoel De Oliveira, perfino con l’impossibile Jean-Luc Godard fece altri due film dopo Il disprezzo, 1963, il capolavoro che peraltro segnò il suo lancio definitivo dopo tanti ruoli di contorno). Ma soprattutto Piccoli era un grande, grandissimo attore. E come tutti i più grandi poteva fare tutto e il contrario di tutto, senza lasciarsi incasellare in nessuno di quegli schemi in cui spesso si adagiano non solo i critici ma, cosa più grave, i registi e i produttori. La ragione di tanta versatilità del resto era semplicissima. Come molti dei più grandi, Piccoli non aveva minimamente bisogno di recitare. Gli bastava essere. Anche perché “essere” Piccoli significava esporre alla macchina da presa un volto e un corpo capaci di essere attraversati dal dubbio o dal pensiero, dal desiderio, dal ricordo, dalla follia, in qualsiasi momento. Per questo molti registi ne fecero (più o meno tortuosamente) il loro alter ego. In testa naturalmente il Godard del Disprezzo, ma è impossibile non citare almeno Claude Sautet, Manoel De Oliveira (il vecchio attore colpito da un lutto improvviso in Torno a casa, personaggio memorabile) e il Ferreri di Dillinger è morto e de La grande abbuffata, altri due capolavori che oggi troppo pochi conoscono. Il che ovviamente non significa che Piccoli non recitasse, al contrario. Nato in palcoscenico, una passione che non avrebbe mai abbandonato, conosceva ogni finezza, ogni trucco del mestiere. Ma mai e poi mai avrebbe dato a vederlo (Godard, sempre dal set del Disprezzo: «Ho preso Piccoli - allora tutt’altro che un divo - perché mi serviva un attore davvero eccellente. Ha un ruolo difficile e lo interpreta benissimo, nessuno si accorge di quanto è bravo perché la sua recitazione è tutta nei dettagli»). Così come mai avrebbe smesso di cercare e quando poteva aiutare nuovi registi, nuovi talenti, facendosi anche produttore all’occorrenza, perdendo anche parecchi soldi negli anni 70, ma senza rimpianti. Come sempre, come in tutto ciò che fece in una vita davvero lunga e ricca, più ricca di quella di tanti divi suoi contemporanei perché costantemente abitata dalla dote più rara e preziosa. L’immaginazione.

Michel Piccoli rip. Marco Giusti per Dagospia il 18 maggio 2020. Non ricordo, davvero, un film con Michel Piccoli giovane. Neppure nel curioso peplum che venne a girare in Italia, “Le vergini di Roma” di Vittorio Cottafavi, inseguendo, lo diceva lui, una sua giovane fiamma (che fosse Nicole Courcel? chissà? era abbotonatissimo). Allora non era nessuno, anche se aveva girato già una quindicina di film, perfino uno da protagonista, “Le schiave bianche” con Françoise Arnoul. Eppure solo due anni dopo, grazie a Jean-Luc Godard, che lo riportò a Roma ne “Il disprezzo”, per fare il giovane sceneggiatore in crisi Paul Javal che si vede soffiare l’anima e la bellissima moglie Camille, Brigitte Bardot, dal produttore americano Jeremy Prokosch, cioè Jack Palance, che vuole girare un nuovo peplum con Fritz Lang regista, è già Piccoli. In grado di muoversi con la propria identità tra star come Lang-Godard-Bardot-Palance. E così sarà per sempre. Brizzolato, o con radi capelli bianchi, col cappello anche quando si fa il bagno. Mai giovane. A fianco delle più belle attrici del tempo, Romy Schneider, Jeanne Moreau, Jane Fonda, Catherine Deneuve, Lea Massari, Claudia Cardinale. Di amici attori meravigliosi come Marcello Mastroianni, Serge Reggiani, Yves Montand, Ugo Tognazzi, Gerard Depardieu. O di registi incredibili come Marco Ferreri, Luis Bunuel, Claude Sautet, Claude Chabrol, Marco Bellocchio, Agnes Varda, Alain Resnais, Yussef Chahine, Léos Carax. Piccoli, che abbiamo perso oggi a 94 anni, è sempre stato Piccoli, da allora in avanti. Non ha mai perso la sua identità, credo conquistata su quel set di Godard e poi riconfermata da qualcosa come 200 film in una carriera che parte con “French Cancan” di Jean Renoir e finisce, diciamo, col papa che non sa più cosa fare nel profetico “Habemus Papam” di Nanni Moretti. Ma in mezzo c’è un rapporto stretto, di amicizia e di grande professionalità, con tutti i grandi registi, attori, attrici, sceneggiatori del cinema francese e italiano. Grandi amori, una grande attrazione per le donne, tre mogli, Eleonore Hirt, Juliette Greco, Ludivine Clerc. Quando lo intervistai, una quindicina d’anni fa, doveva inaugurare la sala cinematografica a lui dedicata a Villa Medici a Roma, gli mancava già così tanto il grande cinema che aveva vissuto. Soprattutto quello italiano, gli amici storici Ferreri-Mastroianni-Tognazzi, scomparsi così presto. Piccoli ha girato in italia alcuni dei suoi film più belli, penso a “Dillinger è morto”, alla follia di “La grande abbuffata” e di “Non toccate la donna bainca”, tutti di Ferreri, ma anche a “Salto nel vuoto” di Marco Bellocchio, col quale vinse il suo unico premio a Cannes come protagonista maschile nel 1980. Il cinema francese, chissà perché, non lo ha mai celebrato davvero. Non ha mai vinto un Cèsar, ad esempio, anche se è stato nominato quattro volte, per “Une étrange affair” di Pierre Granier-Deferre, “La diagonale de feu” di richard dembo, “Milou en mai” di Louis Malle e “La belle noiseuse” di Jacques Rivette. Ma ha vinto un Orso d’Argento a Berlino, con “Un étrange affair”, e un David in Italia, con “Habemus Papam”. Quando era giovane, non era bello come Belmondo, Montand, Delon, Sorel. E quindi non aveva grandi ruoli. “Il disprezzo” lo riposiziona e gli lancia una carriera di film favolosi, ma le parti non sono mai di primissimo piano. Anche se Luis Bunuel lo vuole in tutti o quasi i suoi ultimi film, “Diario una cameriera”, “Bella di giorno”, “La via lattea”, “Il fascino discreto della borghesia”. E lo chiamano davvero tutti, da Jean Aurel, “La calda pelle”, a Alain Resnais, “La guerra è finita”. Nei triangoli amorosi, allora andavano forte, non è mai il bello, anche se sta benissimo a fianco di qualsiasi attrici. Di solito è il marito, come in “La calda pelle” di Roger Vadim con Jane Fonda e Peter McEnery, che ebbe un grande successo, mentre ai belli e dannati, penso a Pierre Clementi sia in “Bella di giorno” che in “Benjamin” di Michel Deville, andavano i ruoli più forti. Ma il legame d’amicizia con Romy Schneider, nato sul primo dei loro tanti film, “La voleuse” di Jean Chapot, e proseguito poi con un film di culto per i francesi, “L’amante/Les choses de la vie” di Claude Sautet, e proseguito poi “Il commissario Pelissier” e “Mado” sempre di Sautet, “Trio infernale” di Francis Girod, lo aprì a ruoli più popolari. Lo troviamo così in grandi produzioni, da “Parigi brucia?” di René Clement a “Topaz” di Alfred Hitchcock, da “Dieci incredibili giorni” e “L’amico di famiglia” di Claude Chabrol a “La femme en bleu” di Michel Deville con Lea Massari. Non particolarmente adatto alle produzioni anglofone, ebbe da subito invece un grande legame con l’Italia, anche perché figlio di un italiano. Lo troviamo così sul set di “Diabolik” con la regia di Mario Bava nel ruolo dell’ispettore Ginko, sia nella primissima versione con Jean Sorel e Catherine Deneuve coppia protagonista e poi in quella definitiva con John Philip Law e Marisa Mell. Ironia della sorte, ritroviamo i tre attori francesi, Sorel-Deneuve-Piccoli poco dopo sul set di “Bella di giorno” di Bunuel. Anche con la Deneuve girò parecchi film, anche di autori improtanti, come “Le creature” di Agnes Varda, “La chamade” di Alain Cavalier. Dopo aver incontrato Ferreri come protagonista di un film scandaloso come “Dillinger è morto”, dove divide la scena con Anita Pallemberg e Annie Girardot, nel 1969, lavorò con altri registi italiani, penso a Vittorio De Seta nel raro e sottile “L’invitata” con la canadese Joanna Shimkus, o su altri set romani, come quello dello scombinato “L’invasione” di Yves Allegret a fianco di Lisa Gastoni. Ma certo Ferreri e il ruolo da protagonista di “Dillinger è morto” ne fecero un attore di culto pronto ai progetti più strani e sperimentali, come “Themroc” di Claude Faraldo, o “Life Size” di Luis Garcia Berlanga, dove si innamora di una bambola gonfiabile. Mentre il cinema francese lo spingeva verso prodotti di successo un po’ facili, “Darsela a gambe” di Philippe De Broca o il quasi Amici miei di “Tre amici, le mogli e (affettuosamente) le altre” di Sautet con Montand, Reggiani e Depardieu, il cinema italiano lo cerca per ruoli complessi in film importanti. Come furono appunto lo scandaloso “La grande abbuffata”, lo strampalato “Todo modo” di Elio Petri, dove interpreta l’ominomo ministro democristiano Piccoli, o “Salto nel buio” di bellocchio, che lo porterà al giusto premio di Cannes nel 1980, seguito da “Gli occhi, la bocca”, presentato a Venezia. Per amicizia di Marcello Mastroianni lo troviamo anche nel divertente “Giallo napoletano” di Sergio Corbucci e nel più serio “Il generale dell’armata morta” di Luciano Tovoli. Nel 1981 “Une étrange affair” di Pierre Granier-Deferre lo porta a vincere il premio come protagonista al Festival di Berlino, mentre recita per l’ultima volta con Romy Schneider in “La signora è di passaggio” di Jacques Rouffio e gira con Lino Ventura un bel noir, “Alzati, spia” di Yves Boisset. Torna da Godard in “Passion” nel 1982, mentre è richiesto da registi più giovani, Léos Carax in “Rosso sangue”, Jacques Doillon in “La puritana”, trattato ormai da monumento nazionale. Generoso, disponibile, aperto a qualsiasi innovazione intelligente, gira molti film sia negli anni ’90 che nel decennio successivo. Personalmente mi ricordo il caloroso saluto del pubblico e la sua commozione in sala a Cannes alla fine del lunghissimo “La belle noiseuse” di Jacques Rivette dove, da pittore, divide la scena con la giovanissima Emmanuelle Béart, modella sempre nuda sulla scena. Una sorta di tour de force magari eccessivo, ma che grazie all’umanità di Piccoli diventa davvero qualcosa di emozionante. La stessa cosa si può dire del suo papa in terapia, con un passato di attore di teatro, quindi molto autobiografico, in “Habemus Papam”, forse il suo ultimo grande ruolo da protagonista, anche se mi piace ricordarlo anche in “Holy Motors” di Carax e in “Linhas de Wellington” di Valeria Sarmiento. Da anni si era perso come il suo papa, sempre più confuso…

·        E’ morta la fotografa tedesca Astrid Kirchherr.

Da repubblica.it il 17 maggio 2020. La fotografa tedesca Astrid Kirchherr, i cui primi scatti dei giovanissimi Beatles hanno contribuito a trasformarli in icone, curando il loro stile visivo e ideando per loro il taglio dei capelli a caschetto, è morta ad Amburgo, sua città natale, alla vigilia dell'82esimo compleanno. La scomparsa è stata annunciata dallo storico dei Beatles Mark Lewisohn, che ha precisato che Kirchherr si è spenta mercoledì scorso dopo una breve malattia. "Il suo dono ai Beatles è stato incommensurabile", ha scritto Lewisohn su Twitter. Era nata nella città anseatica il 20 maggio 1938. Astrid Kirchherr, allieva e assistente del grande fotografo tedesco Reinhart Wolf (1930-1988), è stata la 'musa esistenzialista' durante gli 'Hamburg Days', gli anni formativi dei Beatles nell'Amburgo del dopoguerra e tappa fondamentale della cultura pop: non solo immortalò il gruppo quando ancora si stava formando ma ne influenzò profondamente l'immagine esteriore trasformandola in quella che tutti oggi conosciamo. Ha avuto il privilegio per quasi un decennio di fotografare i Beatles in giro per il mondo, in immagini private ed intime ed anche di metterli in posa per la prima volta. Kirchherr incontrò per la prima volta i Beatles nel 1960 al Kiserkeller di Amburgo, uno dei molti locali sulla Reeperbahn in cui le giovani band inglesi venivano messe sotto contratto a pochi marchi per suonare rock' n' roll tutta la notte ed intrattenere i molti soldati americani di stanza nella città dopo la fine della seconda guerra mondiale. La band era allora composta da John Lennon (voce e chitarra), Paul McCartney (voce e chitarra), George Harrison (chitarra), Pete Best (batteria) e Stuart Sutcliffe (basso) cinque ragazzini di Liverpool - Harrison all'epoca non era neanche maggiorenne - conosciutisi a scuola e in cerca di un po' di denaro e un po' di esperienza oltremanica. Kirchherr all'epoca era studentessa al politecnico e assistente del celebre fotografo Reinhard Wolf, da cui stava imparando la fotografia, e venne a sapere della band grazie all'amico e allora fidanzato Klaus Voormann - che avrebbe in seguito disegnato la copertina del settimo album dei Beatles, "Revolver" - e da subito rimase affascinata dalla presenza scenica e dalla qualità del gruppo che allora alternava cover dei grandi classici del rock alle proprie primissime canzoni. I Beatles dal canto loro furono ovviamente attirati da una delle poche coetanee che tentava di parlare inglese ad Amburgo, ma che presto si rivelò anche grande fonte di ispirazione ed esempio di apertura verso una cultura europea ancora del tutto sconosciuta ai ragazzi cresciuti nella periferia inglese. L'amicizia tra Astrid e i Beatles crebbe in fretta e salda. Kirchherr introdusse il gruppo all'arte e alla letteratura esistenzialista, portando in loro un drastico cambiamento nello stile: le giacche di pelle, gli stivali alla texana e i capelli con la banana lasciarono presto posto a completi, camice e al più minimale taglio dei capelli a caschetto che anche la fotografa sfoggiava e che sarebbe diventato presto uno dei simboli della band (in alcune interviste rigettò tuttavia questa attribuzione). Sutcliffe, in seguito, si legò anche sentimentalmente alla Kirchherr al punto da chiederle di sposarla e lasciare la band per rimanere con lei ad Amburgo, e seguire una carriera nel mondo della pittura. Da allora i Beatles rimasero in quattro e presto Best venne sostituito da Ringo Starr. Sutcliffe sarebbe morto dopo appena due anni a causa di un'emorragia cerebrale, nel 1962, appena ventiduenne, mentre i Beatles stavano diventano un fenomeno di massa. I Beatles e la Kirchherr però rimasero legati da profonda amicizia e la fotografa fu una delle poche che poté seguire la band anche negli anni successivi quando ormai erano all'apice della carriera, realizzando scatti memorabili ma anche intimi e privati, tra vacanze rubate, e week end in giro per l'Europa. I Beatles dal canto loro, cercarono sempre di ricreare quei primi anni di Amburgo, sia stilisticamente che visivamente, per molto del tempo a venire. Kirchherr fu la prima ad immortalare i Beatles in un vero e proprio servizio fotografico posato, regalando scatti oramai entrati nella storia ma che erano pressoché sconosciuti fino agli anni Novanta; inoltre fu l'unica fotografa ammessa sul set di Hard Day's Night, il primo film della band. La storia di Astrid Kirchherr e Sutcliffe e i Beatles è raccontata dal film Backbeat - Tutti hanno bisogno di amore (1993) di Iain Softley, nel quale la fotografa è interpretata dall'attrice Sheryl Lee. Si passa dall'incontro con i cinque di Liverpool, per scandire passo a passo l'innamoramento e la comunione di idee con la band. La fotografa compare anche nel docufilm La nascita dei Beatles (1979) e nel film per la tv La vera storia di John Lennon.

·        Addio a Mauro Sentinelli,  il pioniere dei cellulari. Inventò la ricaricabile.

Addio a Mauro Sentinelli,  il pioniere dei cellulari. Inventò la ricaricabile. Pubblicato sabato, 16 maggio 2020 su Corriere.it da Federico De Rosa. Il contributo di Sentinelli alla diffusione della telefonia mobile in Italia è stato fondamentale. Negli anni 90 l’Italia era prima al mondo per numero di cellulari e nel 93 Tim raggiunse il primo milione di abbonati. Da lì in avanti la crescita sarà inarrestabile e ad accelerarla sarà soprattutto il lancio della TimCard, il primo abbonamento telefonico ricaricabile al mondo, inventato da Sentinelli all’epoca dirigente della Tim guidata da Vito Gamberale, di cui nel ‘99 diventerà direttore generale. E’stato tra i fondatori del Global System for Mobile Communications (GSM) ed era presidente del gruppo che scelse il sistema Gsm come standard mondiale per i primi cellulari. Sentinelli diede l’addio alla telefonia nel 2005 lasciando Tim quando sotto la gestione di Marco Tronchetti Provera quando la società venne ritirata dal listino. Sentinelli è stato affiliate member della University California Los Angeles (Ucla) – Computer Science Department e membro del board della GSMA, il ramo industriale della GSM Association, e di Barthi Airtel, il primo gestore mobile indiano. Tanti i riconoscimenti ottenuti dal manager durante la sue carriera: nel gennaio 2000 viene nominato “Uomo marketing dell’anno 1999“. Nel febbraio 2002 riceve dalla Gsm Association il premio “Roll of Honour for lifetime Achievement Award“ e prima l’”Outstanding Marketing Award” per l’invenzione dell’abbonamento ricaricabile. Sentinelli è finito più volte nel mirino in passato per la sua maxipensione – era il pensionato più pagato d’Italia -, salvo accertare che solo negli ultimi quattro anni di carriera il manager aveva versato oltre 7 milioni di contributi all’Inps.

Addio a Mauro Sentinelli, il padre della telefonia mobile di Tim. Pubblicato domenica, 17 maggio 2020 da Sara Bennewitz su La Repubblica.it. MILANO - Non c'è più Mauro Sentinelli, 74 anni, ingegnere di Telecom Italia, genio visionario e manager che ha reso grande la telefonia mobile con il lancio su larga scala delle tessere prepagate. Si narra che ai tempi della formula commerciale, che serviva a bypassare la tassa di concessione governativa, Tim avesse più abbonati di tante altre rivali europee. E che gli ingegneri di tutto il mondo, dagli Usa alla Cina, si recassero a Roma per ascoltare Sentinelli, che in quegli anni brevettò diverse innovazioni per l'ex monopolista delle tlc. Pare che l'invenzione della prepagata fosse in realtà di un operatore portoghese, ma nessuno come Sentinelli è riuscito a esportare il modello di abbonamento ricaricabile e a farne un business su larga scala, che ha permesso la diffusione del cellulare a tutti e che poi si è propagato in tutto il mondo. Ancora oggi la maggior parte dei clienti della divisione consumer di tutti gli operatori mobili è fatta di tessere prepagate, perché ancora oggi la tassa governativa è un onere spropositato rispetto al costo del servizio telefonico. Sentinelli in Tim è stato una leggenda, era un carismatico e un trascinatore, molto amato dalla sua squadra e dai rivenditori. In azienda era entrato dopo la laurea nel 1974, in quella che allora si chiamava Sip e se n'era andato nel 1998, subito dopo la privatizzazione per inseguire un altro sogno: lanciare la telefonia mobile via satellite con una start up, Iridium, che non ha avuto il successo sperato. Ma nel 1999, Marco De Benedetti che dalla Omnitel passava in Tim dopo l'Opa di Roberto Colaninno, lo convinse a rientrare in Tim a capo delle strategie della telefonia mobile. Erano gli anni in cui Tim lanciava il claim "vivere senza confini", perché i telefonini iniziavano a entrare nelle case di tutti gli italiani, ma non solo. "L'ho voluto al mio fianco quando arrivai in Tim, furono sei anni fantastici - ricorda Marco De Benedetti, ad di Tim dal 1999 al 2005 - Abbiamo combattuto tante battaglie fianco a fianco, molte le abbiamo vinte, alcune le abbiamo perse, inclusa quella decisiva nel 2005. Lasciammo tutti e due a pochi mesi di distanza: Mauro era un lavoratore instancabile, una mente brillante e un amico". Tra le Battaglie che l'abbinata Sentinelli-De Benedetti è riuscita a vincere, c'è quella per evitare la vendita di Tim Brasil, la divisione carioca che era diventato l'avamposto più grande e promettente delle partecipate estere di Telecom e l'ultimo che rimane. Pare che Sentinelli non sapesse nemmeno il portoghese, ma quando andava a Rio riusciva lo stesso a farsi capire da tutti i dipendenti di Tim Brasil."Fu Sentinelli a convincere tutti, compreso De Benedetti, che il Brasile era una risorsa che Telecom non poteva perdere - ricorda Stefano De Angelis, ex amministratore delegato di Tim Brasil fino al 2018 - Ricordo una volta in una delle convention con i dealer a Roma che Sentinelli per spiegare ai venditori la nuova offerta estiva disse: "Voi non avete capito, la gente al mare si toglierà il costume, ma avrà sempre il cellulare in mano". Aveva ragione". Lui che era tra i padri fondatori dello standard Gsm, con l'avvento dell'Umts, continuava a sognare nuove tecnologie e nuove applicazioni. Telecom cavalcò la prima di una serie di rivoluzioni legate al 3g, puntando tutto sulla video chiamata, che non prese mai piede fino al 4g e all'utilizzo dei dati e della connessione a Internet. Sentinelli se ne andò da Telecom nel 2005, due mesi dopo che Marco De Benedetti aveva lasciato la guida di Tim ( incorporata dentro una costola di Telecom Italia) sbattendo la porta. Ci ritornò nel 2011, ma questa volta come consigliere indipendente di Telecom Italia su indicazione nella lista Telco (Telefonica, Mediobanca, Generali, Intesa Sanpaolo). "Era un ingegnere che oltre a padroneggiare la tecnologia sapeva tradurla in un'idea di marketing: è stato il primo a intuire l'importanza del fatto che il cellulare, che era nato come un oggetto per un'élite, doveva essere appannaggio di tutti  - ricorda Marco Patuano, ad di Telecom Italia ai tempi in cui Sentinelli era un consigliere indipendente - Ricordo che in consiglio quando dovevamo votare su un progetto o su un'idea, tutti gli occhi si spostavano verso Sentinelli per capire cosa ne pensava lui, e la sua opinione faceva la differenza. Non si è mai fatto spaventare dalla finanza, sosteneva che gli investimenti nelle reti e nelle nuove tecnologie andavano fatti, e poi si sarebbe trovata una soluzione per commercializzarli: il suo carisma ha resto Telecom un'azienda innovativa. Era un genio e un leader naturale, un uomo eccezionale che annullava le distanze avvicinando le persone". Dello stesso avviso anche Roberto Colaninno, presidente e ad di Piaggio, e ad di Telecom tra il 1999 e il 2001: "La scomparsa di Mauro Sentinelli per me è due volte dolorosa perché è la scomparsa di un personaggio straordinario e di  uno straordinario amico, con una sensibilità umana senza limiti. I miei ricordi sono legati alle avventure visionarie  della telefonia mobile del futuro che abbiamo fatto assieme. La scienza e la tecnica perdono un campione che inventò la carta prepagata, e che ha reso possibile l'utilizzo del telefono mobile su tutti i mercati e su tutti i segmenti di clienti". Nel 1999 è stato nominato Cavaliere della Repubblica, nel 2002 Commendatore, nel 2006 Grand'ufficiale ma nel 2012 è tornato a essere famoso sui giornali per avere una pensione dorata (90.246 euro al mese), frutto degli stipendi e delle tante tasse pagate all'Inps sulle sue buonuscite (tra cui 7 milioni di contributi solo negli ultimi anni di carriera). Romanista sfegatato, lascia un vuoto dentro a tutti quelli che hanno avuto il privilegio di lavorare con lui in Telecom.

·        Morta Lynn Shelton, regista di «Little Fires Everywhere» e «Glow».

Morta Lynn Shelton, regista di «Little Fires Everywhere» e «Glow». Pubblicato domenica, 17 maggio 2020 su Corriere.it da Laura Zangarini. È morta Lynn Shelton, regista «indie» che ha diretto «Humpday - Un mercoledì da sballo» e della serie tv «Little Fires Everywhere», in arrivo venerdì prossimo su Amazon Prime Video. Aveva 54 anni. Il suo agente, Adam Kersh, ha comunicato che la regista è morta venerdì 15 maggio a Los Angeles per una malattia del sangue non meglio specificata. A confermare la morte della regista anche il compagno, il comico Mark Maron. Shelton era diventata la voce principale del nuovo movimento cinematografico indipendente americano. Molto apprezzati dagli spettatori dei festival i suoi film a basso budget, mentre per la televisione aveva diretto episodi di «Mad Men», «Fresh Off the Boat», « The Mindy Project» e «Glow» oltre al recente «Little Fires Everywhere», con Reese Witherspoon e Kerry Washington. «Abbiamo fatto tantissime cose insieme», ha dichiarato Mark Duplass su Twitter. Era l’attore feticcio di Shelton, co-protagonista nel suo film del 2009 «Humpday - Un mercoledì da sballo», un divertente racconto della sessualità maschile vista attraverso uno sguardo femminile. L’attore ha dichiarato di aver perso una « cara amica» e di aver ammirato la sua creatività. «Vorrei che avessimo fatto di più — ha detto Duplass —. La sua illimitata energia creativa e il suo spirito contagioso non avevano rivali. Mi ha reso migliore. Che perdita tragica». Shelton aveva iniziato la sua carriera cinematografica intorno ai 30 anni, dopo aver lavorato inizialmente come attrice e fotografa. Ha scritto e diretto otto lungometraggi nel giro di 14 anni. Ava DuVernay ha ricordato invece Shelton per averle «cambiato la vita» dopo la consegna di un premio al Sundance Film Festival nel 2012. «Ha annunciato il mio nome con orgoglio — ha detto la regista di «Selma» e «Nelle pieghe del tempo», che ha pubblicato una foto su Twitter che le ritrae insieme —. Me lo ha consegnato con amore. Un momento che si è radicato in me per molto tempo dopo. Non riesco a credere che sia morta. Riposa in pace, bellezza. Grazie per i tuoi film. E per la tua gentilezza».

·        E’ morto l’attore Fred Willard, da Beautiful a Modern family.

Addio al brillante Fred Willard, da Beautiful a Modern family. Pubblicato domenica, 17 maggio 2020 su La Repubblica.it. Addio Frederic Willard brillante, e imprevedibile attore comico, da Tutti amano Raymond, a Beautiful, fino a Modern Family. E' morto per cause naturali, a 86 anni. A dare l'annuncio è stata la figlia Hope: "Mio padre è morto in pace la scorsa notte alla fantastica età di 86 anni. Ha continuato a muoversi, lavorare e renderci felici tutti fino alla fine. lo abbiamo amato così tanto, ci mancherà sempre". Aveva partecipato a 250 produzioni, tra cinema e televisione, spesso minori ma tanto irresistibili da rubare ogni volta la scena ai protagonisti. Era stato sposato per cinquant'anni a Mary Willard, sceneggiatrice e co-autrice del marito, morta nel 2018 a 71 anni. Era figlio di un banchiere, che lo aveva lasciato orfano a soli 12 anni. Nei primi anni della sua carriera, dopo aver prestato servizio nell'esercito, ha iniziato a lavorare in una compagnia di improvvisazione  teatrale, ha poi fondato un  gruppo comico,  Ace Trucking Company  che con i loro sketch sono stati parte di trasmissioni televisive come il Tonight Show. Era stato protagonista di vari programmi televisivi satirici tra gli anni 1980 e 2000, e per aver preso parte a vari film mockumentary, quali This Is Spinal Tap di Rob Reiner, Campioni di razza, A Mighty Wind - Amici per la musica e For Your Consideration. Nella filmografia anche Austin Power, nel 2008 era l'unico personaggio umano nel film WALL•E. Tra il 2003 e il 2005 per il suo ruolo ricorrente in Tutti amano Raymond ha ricevuto per tre volte consecutive una candidatura per il premio Emmy al miglior attore guest star in una serie commedia, grazie al ruolo di Hank McDougal, suocero del protagonista. Nel 2010 è stato candidato nuovamente per tale premio grazie al ruolo del padre del protagonista Phil Dunphy nella serie Modern Family. Dal 2010 ha partecipato ad alcuni episodi della serie Modern Family, interpretando Frank Dunphy, il padre del protagonista Phil, ruolo che gli vale una nuova candidatura ai Primetime Emmy Award. Nel 2014 e nel 2015 interpreta entra nel cast di Beautiful interpretando John Forrester, fratello di Eric e padre di Ivy e lascia la soap un anno dopo. Lo vedremo nella sua ultima interpretazione, nella serie Space Force, in uscita su Netflix a fine maggio… 

·        E’ morta Norma Doggett, ballerina di "Sette spose per sette fratelli".

Addio a Norma Doggett, ballerina di "Sette spose per sette fratelli". Pubblicato sabato, 16 maggio 2020 su La Repubblica.it. Addio a Norma Doggett.  La ballerina di Broadway che ha interpretato Martha, una delle adorabili fanciulle del classico film musical Sette spose per sette fratelli firmato del regista Stanley Donen nel 1954, è morta nella sua casa di New York all'età di 94 anni. L'annuncio della scomparsa è stato riferito dall'edizione online di "The Hollywood Reporter". Sul palcoscenico di Broadway Doggett è apparsa in sei musical tra il 1948 e il 1959, lavorando per Irving Berlin, Jerome Robbins, Moss Hart e Joshua Logan. La ballerina ha fatto solo un'apparizione cinematografica ad Hollywood quando fu selezionata per il cast di Sette spose per sette fratelli: le fu affidata la parte di Martha, che sposa Daniel (Marc Platt), uno dei sette fratelli Pontipee che vivevano nelle montagne dell'Oregon nel 1850. Le altre spose nell'amato film furono interpretate da Jane Powell, la protagonista Milly, Julie Newmar (Dorcas), Ruta Lee (Ruth), Nancy Kilgas (Alice), Virginia Gibson (Liza) e Betty Carr (Sarah). Il film ottenne quattro nomination all'Oscar, tra cui quella per il miglior film, e fu poi premiato dall'Academy Award con la statuetta per la migliore colonna sonora. Il musical è uno dei film culto che vengono riproposti in televisione  ogni anno nei giorni delle festività natalizie. Dopo il ritiro dal mondo dello spettacolo Norma Doggett ha lavorato come segretaria per la Mobil Oil. È stata sposata con Jack Bezwick dal 1970 fino alla sua morte nel 1985. 

·        È morto Phil May, frontman e cofondatore dei Pretty Things.

È morto Phil May, frontman e cofondatore dei Pretty Things. Pubblicato sabato, 16 maggio 2020 da La Repubblica.it. Il cantante inglese Phil May, frontman dei Pretty Things, band di grande successo negli anni Sessanta e una delle più influenti della storia della musica leggera e del rock britannico, è morto, ieri, al Queen Elizabeth Hospital di King's Lynn, nel Norfolk, per le complicazioni insorte a seguito di un intervento chirurgico all'anca. Aveva 75 anni e, all'inizio di questa settimana, aveva avuto un incidente con la bicicletta, cadendo rovinosamente. Phil May aveva fondato i Pretty Things nel 1963 insieme al chitarrista Dick Taylor, che aveva da poco lasciato i nascenti Rolling Stones: i due nuovi amici arruolano John Stax al basso, Brian Pendleton alla chitarra ritmica e Pete Kitley alla batteria (quest'ultimo, dopo meno di un anno, venne sostituito da Viv Andrews). Il nome per il nuovo gruppo, The Pretty Things, fu scelto in onore del titolo di una canzone composta nel 1955 da Willie Dixon. Il loro suono caratterizzato da una certa frenesia fu subito apprezzato dal pubblico, tanto che nel biennio 1964-1965 ben tre dischi entrarono nelle classifiche: Rosalyn / Big Boss Man; Don'T Bring Me Down / We'll Be Together; Honey I Need / I Can Never Say. La band si caratterizzò anche per l'aspetto trasandato dei suoi componenti, con il frontman Phil May che si presentava con i capelli più lunghi mai visti fino ad allora. Nel marzo del 1965 venne dato alle stampe il primo album, The Pretty Things. La band raggiunse il culmine del successo tra la fine del 1965 e il 1966 con una serie di singoli come Midnight To Six Man e Come See Me, oltre al disco Film, contenente richiami sonori e tematici alla psichedelia nei brani Can't Stand The Pain e Lsd. Lo straordinario successo fece però implodere la band: Pendleton abbandonò il gruppo nel dicembre 1966, seguito due mesi dopo da John Stax. Si chiudeva così un capitolo della storia musicale dei  Pretty Things. Tuttavia, la band mantenne la propria line-up al numero di cinque elementi, reclutando Jon Povey e Wally Waller, entrambi ex membri dei "Bern Eliott and the Fenmen", con May sempre frontman. Nel 1968 venne pubblicato l'album più importante della discografia dei Pretty Things, S.F. Sorrow, riconosciuto come la prima opera rock, particolarmente amato da Pete Townsend e fonte di ispirazione per il più celebre Tommy degli Who. Tra alti e bassi il gruppo ha continuato a esibirsi e a incidere sotto la guida di May per 50 anni. La band di May ha tenuto uno dei suoi ultimi concerti il 13 dicembre 2018 a Londra, con la partecipazione di amici come David Gilmour e Van Morrison. L'ex cantautore dei Pink Floyd, Gilmour, per l'occasione eseguì con i Pretty Things diversi brani, tra cui She Says Good Morning.

·        È morto Sandro Petrone, storico conduttore del Tg2.

Sandro Petrone è morto: era inviato di guerra e conduttore del TG2. Debora Faravelli il 15/05/2020 su Notizie.it. Lutto nel mondo del giornalismo: il noto volto del TG2 e inviato di guerra Sandro Petrone è morto all'età di 66 anni. Addio a Sandro Petrone, storico inviato di guerra e conduttore del TG2, morto venerdì 15 maggio 2020 all’età di 66 anni. A dare la tragica notizia è stato il segretario Usigrai Vittorio di Trapani che lo ha comunicato con un post sui suoi canali social. “Non ha mai nascosto la malattia. Anzi, l’ha combattuta tornando a dedicarsi alla passione di sempre: la musica. Per me è stato anche un docente. Sandro Petrone non lavorava in tv, conosceva e sapeva fare televisione“, si legge nel post in questione. Come raccontato da lui stesso, in passato il giornalista aveva avuto a che fare con un tumore molto aggressivo, in particolare un microcitoma che nel 95% dei casi colpisce i fumatori. Si era poi sottoposto ad una cura sperimentale, l’immunoterapia, al Pascale di Napoli.A causa della malattia aveva dovuto abbandonare la sua attività di sempre dedicandosi alla sua più grande passione, la musica. Tra i tanti lavori da lui svolti si ricordano in particolare i reportage sulla Guerra del Golfo e quello sul conflitto nei Balcani. Petrone è poi stato uno dei primi inviati di guerra ad utilizzare una propria telecamera per riprendere e documentare i grandi eventi di fama internazionale. Oltre ad essere inviato ha svolto anche l’incarico di docente di giornalismo nonché di autore e conduttore televisivo. Si menziona a tal proposito la sua partecipazione nel 1982 alla realizzazione di Radiosoftware di RadioTre. Si trattò della prima trasmissione d’Europa che comunicava con i computer via etere stabilendo un circuito interattivo con gli ascoltatori.

Addio a Sandro Petrone, il giornalista con la passione per la musica: "Così è nata la mia canzone Solo fumo". Repubblicatv il 15 maggio 2020. "La giornata di registrazioni è già terminata quando decidiamo di provare Solo fumo, nel tramonto di una Bari ancora tiepida a fine ottobre. Umore positivo subito palpabile nel nuovo studio di Massimo Stano, appena trasferito da Santeramo in Colle al capoluogo pugliese. Sistemati nelle diverse sale, in contatto visivo uno con l’altro, suoniamo in diretta. Tranne il sax di Ada Rovatti che arriverà più tardi da New York. Arrangiamento collettivo, in un’oretta di consultazioni e sfottò incrociati. Poi, si registra. Buona la seconda, come raccontano le immagini di Francesca Fiorito e Luca Pastore", così il giornalista Sandro Petrone, scomparso all'età di 66 anni, raccontava come è nata la sua canzone Solo fumo che diede il titolo all'omonimo album.

Da ilmessaggero.it il 16 maggio 2020. Lutto nel mondo del giornalismo televisivo. È scomparso nella notte il giornalista napoletano Sandro Petrone, storico volto del Tg2. Aveva compiuto 66 anni nel febbraio scorso. Non è riuscito a sconfiggere la sua lunga battaglia con un tumore che lo aveva colpito ai polmoni subito dopo la sua lunga attività con la Rai da inviato speciale di guerra in tutto il mondo. Aveva iniziato la sua attività professionale con esperienze nelle primissime radio private. Fu assunto come praticante nel 1985 dal Giornale di Napoli di Orazio Mazzoni nella redazione spettacoli. «Una grave perdita per il giornalismo, un esempio per tutti», commenta il direttore del Tg2, Gennaro Sangiuliano. «Io ricordo Petrone come un grandissimo professionista, una persona puntuale, innamorata di questo mestiere che in ogni cosa che faceva metteva entusiasmo della prima ora. Per lui il giornalismo non è mai stato una routine - osserva Sangiuliano - ma una ricerca attenta e un'indagine permanente della realtà». Dal 1987 sviluppa la sua esperienza nella Telemontecarlo dei brasiliani (Rede Globo) come reporter di guerra. Dal 1993 viene assunto in Rai dove si fa valere per le sue qualità di inviato e successivamente di conduttore del Tg2. Ha insegnato sin dal 1989 comunicazioni di massa e giornalismo in scuole e università, anche all'estero. Scrisse il libro "Il linguaggio delle news" edito da Rizzoli. Ma la sua grande passione coltivata sin da ragazzo è stata la musica. Fu esponente della corrente culturale musicale partenopea cosiddetta Vesu-wave, legato al movimento dei cantautori italiani. Ha pubblicato anche un album "Last call - note di un inviato". Come inviato è stato il primo italiano a trasmettere dal Kuwait liberato, dalla ex Jugoslavia, dal Kosovo, dall'Iraq. Suoi i servizi del Tg2 dagli Usa sugli attentati dell'11 settembre e da Madrid su quelli dell'11 marzo. Autore di programmi televisivi, di documentari e di interessanti inchieste e reportage. Dopo aver lasciato in gioventù la sua attività di cantautore affianco a Edoardo Bennato, Enzo Gragnaniello, Pino Daniele e del suo amico di sempre Tony Cercola, ha continuato a scrivere canzoni, quasi sempre ispirate a fatti di cronaca. Ha raccolto canzoni in un cd intitolato "Blues in blu" legandosi alle avanguardie e promuovendo glie sperimenti dei giovani musicisti italiani. Sandro Petrone lascia un ricordo indelebile di grande giornalista e di un professionista con tanta umanità. «Era orgoglioso e appassionato del suo lavoro. Sempre gentile. Pronto a partire. Un professionista che amava la tv, amava la Rai, credeva nel Servizio Pubblico». Così in una nota il ricordo dell'Esecutivo Usigrai. «Voglio esprimere le mie più sincere condoglianze a tutti i colleghi del TG2 per la scomparsa di Sandro Petrone. Inviato Speciale ha raccontato le Guerre e il Mondo a tutti noi. Ecco un suo raro sorriso. Voglio ricordarlo così». Così la giornalista Paola Ferrari su Twitter ricorda il collega e posta una foto che lo ritrae sorridente con sullo sfondo la grande Sfinge di Giza.

È morto Sandro Petrone, storico conduttore del Tg2. A 66 anni è morto Sandro Petrone, volto storico del Tg2 e inviato di guerra negli scenari più pericolosi. Da anni combatteva contro un tumore aggressivo ai polmoni. Francesca Galici, Venerdì 15/05/2020 su Il Giornale. Grave lutto in Viale Mazzini. Questa notte è morto il giornalista Sandro Petrone, storico volto del telegiornale di Rai2. Aveva compiuto 66 anni lo scorso febbraio ma purtroppo non è riuscito a sconfiggere il tumore che da anni lo affliggeva. Nella sua lunga carriera è stato inviato di guerra negli scenari più critici dei conflitti internazionali e con la sua voce ha raccontato il cambiamento geopolitico del pianeta dagli anni Ottanta ai Duemila. Con lui il giornalismo italiano ha perso un altro pilastro. Sandro Petrone è stato un pioniere del giornalismo d'assalto in tempo di guerra. Con la sua telecamera è stato il primo giornalista a dare copertura ai grandi eventi della storia contemporanea. Ha raccontato la Guerra del Golfo e quella in Jugoslavia, è stato il primo giornalista italiano a trasmettere dal Kuwait liberato. Ha dato voce agli eventi bellici in Kosovo, Iraq e Libano ma ha raccontato anche la grande stagione degli attentati terroristici fin dall'11 settembre 2001, passando per gli attacchi di Madrid e Londra. Negli anni si era specializzato nella politica USA ed era uno dei massimi esperti di elezioni americane della Rai, tanto da garantire la copertura delle presidenziali fin dal 1992, con lunghissimi mesi di permanenza nella redazione di corrispondenza di New York. Ha vissuto anche a Parigi, Londra e Mosca, da dove lavorava come corrispondente Rai, realizzando spesso interessanti reportage. Per oltre un decennio, dal 1997 al 2012, è stato un volto ancor più familiare per gli italiani, perché era stato incaricato di condurre l'edizione delle 13 del Tg2. La scoperta del tumore ai polmoni è avvenuto nel corso della sua lunga attività come inviato in zone di guerra. Sandro Petrone raccontò la scoperta della malattia ad Onconline, uno dei portali web specializzati in patologie oncologiche. La diagnosi è avvenuta nel 2016, durante uno dei tanti screening ai quali il giornalista si è sempre sottoposto in veste di inviato di guerra. "Ero tenuto a effettuare controlli medici semestrali per accertarmi che non avessi malattie infettive o altri problemi di salute", aveva raccontato il giornalista che, quella volta, decise di chiedere anche una lastra ai polmoni a causa di un certo affaticamento. Un problema che non lo impensieriva più di tanto ma che, probabilmente, accese in lui un primo campanello d'allarme. In quel momento iniziò il suo calvario, con un addensamento nei polmoni che si scoprì essere un microcitoma, tumore, anche piuttosto aggressivo. I medici gli diedero 6, massimo 8 mesi di vita ma lui, con la determinazione che caratterizza un inviato di guerra, si è messo alla ricerca di una cura qualunque, anche sperimentale, che potesse allungare la sua aspettativa di vita. Per questa ragione abbandonò la strada della chemioterapia, contro il parere dei suoi medici di riferimento, e iniziò l'immunoterapia all'ospedale Pascale di Napoli, sua città natale. Per anni ha alternato le cure chemioterapiche a quelle immunologiche sperimentali e i risultati ottenuti, dopo tutto, gli hanno dato ragione. Sandro Petrone non è stato solo uno dei più bravi giornalisti e inviati di guerra della Rai, ma era anche un cantante. La musica è stato il suo primo amore, è cresciuto nella Napoli degli anni Settanta con amici come Edoardo Bennato, Pino Daniele, Enzo Gragnaniello e Tony Cercola. Una passione per la musica mai abbandonata ma solo accantonata per seguire la strada del giornalismo, che non gli ha però impedito di scrivere e comporre pezzi anche durante la carriera da inviato di guerra. "Io che ho accarezzato la morte so raccontarvi cos'è combattere", recita l'intro della canzone Sono un guerriero e non temo la morte, scritta e interpretata da Sandro Petrone, contenuta nell'album Solo fumo, uscito negli anni di lotta al tumore. "Era orgoglioso e appassionato del suo lavoro. Sempre gentile. Pronto a partire. Un professionista che amava la tv, amava la Rai, credeva nel Servizio Pubblico", scrive oggi l'esecutivo Usigrai per ricordare il collega Sandro Petrone, volto amato da tutti in azienda: "Sandro Petrone è stato un volto, è stato una firma. Ed è stato anche un docente per decine di giovani professionisti alla Scuola di Giornalismo di Perugia." Parole di vicinanza e commozione anche per Gennaro Sangiuliano, direttore del Tg2: "Petrone esempio per tutti, grave perdita per il giornalismo."

·        E’ morto Ezio Bosso.

Morto Ezio Bosso a 48 anni: addio al maestro e pianista che ha emozionato l'Italia intera. Libero Quotidiano il 15 maggio 2020. Addio a Ezio Bosso: il pianista è morto a 48 anni. Nato a Torino il 13 settembre 1971, direttore d'orchestra, compositore e pianista, Bosso nel 2011 fu operato per un tumore al cervello. Subito dopo gli fu diagnosticata una malattia neurodegenerativa. Musicista di fama internazionale, commosse l'Italia intera con la splendida e indimenticabile esibizione a Sanremo 2016, con Following a Bird, un brano estratto dal suo album. 

DA ILMESSAGGERO.IT il 16 maggio 2020. «Se mi volete bene, smettete di chiedermi di mettermi al pianoforte e suonare. Non sapete la sofferenza che mi provoca questo, perché non posso, ho due dita che non rispondono più bene e non posso dare alla musica abbastanza». Era l'autunno del 2019 quando il musicista, compositore e direttore d’orchestra torinese Ezio Bosso confessava questo dolore. «Nessun pietismo», chiedeva al pubblico, l'artista che soffriva di una malattia neurologica degenerativa. «La bacchetta è il mio potere forte. La maschera che nasconde il dolore. Quando la poggio, tutto mi piace un po’ meno», amava dire. Non sappiamo bene nel dettaglio il nome della malattia che affliggeva il Maestro. Era una malattia terribile, di quelle che possono imprigionare il talento e l’anima nel corpo. Tante le ipotesi. Inizialmente si è parlato di Sclerosi laterale amiotrofica (SLA), ipotesi poi smentita. Quello che sappiamo del musicista torinese è che la diagnosi è arrivata nel 2011 dopo un intervento per tumore al cervello. Questa malattia oggi ha compromesso l’uso delle sue mani. C’è chi ha ipotizzato una malattia autoimmune, come la neuropatia motoria multifocale che colpisce i nervi motori, quelli che trasmettono i segnali dal sistema nervoso centrale ai muscoli. 

Aldo Cazzullo per il Corriere della Sera il 16 maggio 2020. «Il sorriso è uno strumento musicale senza tempo e senza età, che tutti, giovani e vecchi, possono suonare». Detta così, la frase che ancora oggi si legge sui profili social di Ezio Bosso sarebbe solo una bella frase. Ezio però l' aveva vestita di carne e di nervi, l' aveva fatta sua. Aveva dato corpo al sorriso, era diventato quel sorriso. A dispetto degli odiatori - persino lui ne aveva -, Ezio Bosso non era un malato che si era messo a fare il pianista. Era un pianista che si era ammalato. Eppure non aveva smesso di suonare, era diventato più celebre e apprezzato di prima, forse anche più bravo. Aveva portato la sua musica al festival di Sanremo (bravissimo anche Carlo Conti). E ci aveva commossi e travolti con quel sorriso contagioso. Rideva con gli occhi, con le braccia lunghissime, con tutto il fisico, e soprattutto con la sua musica. Era diventato un simbolo di resilienza: parola abusata che lui rendeva fresca e viva. Negli ultimi tempi la malattia stava per avere il sopravvento, l' aveva costretto a smettere di esibirsi; ma nel chiuso della casa, con la sua compagna e i suoi tre cani, aveva continuato a suonare, a provare, a comporre. Ora pare impossibile che non ci sia più. Sembrava una di quelle persone fortissime nella loro apparente fragilità. Talmente piegate e sofferenti da diventare immortali. L' orribile notizia di ieri arriva nel momento più drammatico delle nostre vite. Abbiamo perso il decano dei nostri architetti, Vittorio Gregotti, e il più importante dei nostri critici d' arte, Germano Celant. In molte famiglie, in quasi tutte le comunità si è aperto un vuoto. La morte ha sfiorato le nostre vite. Di solito esorcizzata e nascosta, ora sembra diventata una consuetudine. Eppure la morte di Ezio Bosso sta emozionando l' Italia come non mai. Perché dice una cosa chiarissima: il mondo perde un talento della musica e dell' umanità; ma noi non possiamo arrenderci. Non dobbiamo, non vogliamo. Ce lo impedisce quel sorriso che Ezio ha saputo incarnare, e tornerà ogni volta che sentiremo la sua musica. La storia di Ezio Bosso non finisce. Ricomincerà ogni volta che qualcuno - giovane o vecchio, sano o malato - suonerà un pianoforte.

Dal corriere della Sera il 16 maggio 2020. Anche il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha voluto condividere il suo ricordo su Ezio Bosso. «Sono rimasto molto colpito dalla prematura scomparsa del maestro. Desidero ricordarne l' estro e la passione intensa che metteva nella musica, missione della sua vita, e la sua indomabile carica umana». Ma sono moltissimi i politici che hanno reso omaggio al musicista. Elisabetta Casellati, presidente del Senato, ha ricordato che Bosso ci ha lasciato «il patrimonio di una sinfonia suonata con gli strumenti dell' umanità, della poesia, della quotidiana invenzione della vita» mentre quello della Camera, Roberto Fico, ha sottolineato come la «musica ci insegna la cosa più importante che esista: ascoltare». E sono stati moltissimi anche i musicisti che hanno voluto condividere il loro saluto a Bosso. «Che dispiacere - ha scritto Jovanotti -. Il silenzio di stamattina è un vuoto improvviso, come se la musica avesse perso un suo figlio prediletto». Per Vasco Rossi «è stato una prova vivente di quanto la musica possa rivoluzionare l' esperienza, di quanto la musica possa essere arma potente per affrontare qualsiasi situazione, anche peggiore delle malattie». Mengoni ha invece ricordato come la sua sia stata «una vita contro il pregiudizio», mentre Fiorello ha scritto: «Il tuo sorriso rimarrà per sempre scolpito nelle nostre menti. Ci hai insegnato ad affrontare la vita e le sue difficoltà».

Alba Parietti per “Chi”. Testo raccolto da Valerio Palmieri su Dagospia il 21 maggio 2020. Ho avuto il privilegio di conoscere Ezio Bosso, un uomo di grande carisma e fascino. Un artista talmente intrigante che avrebbe potuto essere il più bel romanzo di Oscar Wilde. Non ho mai creduto che la sua vita potesse finire così presto e non ho mai visto in lui una persona fragile o malata: dopo cinque minuti trascorsi in sua compagnia ti accorgevi che i malati erano tutti gli altri. Perché sapeva sdrammatizzare a sapeva portarti immediatamente lontano dal pensiero della sua condizione. Non amava farsi commiserare, aveva alcune durezze nel carattere che oggi suonano come una forma di difesa, per sé e per gli altri. Sapeva che, chi si fosse affezionato a lui, avrebbe sofferto. Bosso era fragile fisicamente, ma fortissimo di carattere, era un uomo che metteva in dubbio ogni tua certezza, conoscerlo è stato un dono raro. Perché parlo di lui? Perché sono abituata a manifestare con grande sincerità i miei stati d'animo e voglio rendere omaggio a una persona che ha lasciato un segno nella mia vita e anche in quella di chi non lo conosceva. E, chi lo ha incontrato, conserva una parte di lui. Io ho la mia, ma voglio che questo sia un omaggio trasparente, scevro da qualunque lettura maliziosa. Avevo conosciuto Ezio Bosso molti anni fa e l'ho rivisto a Sanremo nel 2016, anno in cui è stato ospite di Carlo Conti e, come tutti gli italiani, sono rimasta folgorata dalle sue parole e dalla sua musica, è stata come un'apparizione. Da allora ho avuto l'occasione di frequentarlo, conoscerlo meglio, di andare ai suoi concerti. Di lui ho amato la sua anima geniale, il suo carattere deciso e la sua intelligenza raffinata, la sua capacità di decidere la trama dei propri rapporti, di condurre le danze. Ezio non era in balia degli altri, casomai, purtroppo, era in balia della sua malattia e per questo non voleva sentirsi compatito o suscitare tenerezza. Aveva grande fascino e qual-siasi donna, ma direi qualsiasi essere umano, conoscendolo, non poteva che innamorarsi della sua personalità istrionica. Mi ha sempre dato fastidio quando lo descrivevano come uno che "commuove" perché in questo termine c'è anche un sentimento legato alla sua condizione, mentre lui sapeva ammaliarti, portarti in un altro mondo con le proprie armi. Ho riascoltato in questi giorni le sue composizioni, che passeranno alla storia. Rain, in your black eyes è uno dei pezzi più potenti che abbia mai sentito: impetuoso, dolce e toccante, come Ezio. Quando ascoltavi la sua musica dal vivo venivi rapito, assistere a un suo concerto era una cosa che ti faceva volare e, quando uscivi dal teatro, non eri più la persona di prima. Era come il pifferaio magico, attraverso le note sapeva raccontarsi anche con sarcasmo e senso dell'umorismo, riusciva a ridere della tragedia della sua malattia e portarti nel profondo della sua anima, sconvolgeva ogni tua struttura, li trascinava e ti metteva in una bolla. Avevo imparato a conoscerlo e non era facile, non era facile essergli amico, non era facile amarlo, con lui non ho mai potuto decidere niente e ho sempre e solo accettato le regole che lui stabiliva. Dirigeva la vita come dirigeva un'opera. Eravamo veramente amici e solamente amici. Era spiritosissimo, coltissimo, misteriosissimo, il mistero fatto a persona. Ci ha lasciato senza avvisarci, senza farci presagire il destino che forse conosceva, ma che avrei scommesso non si sarebbe mai presentato alla porta, non credevo nemmeno all'evidenza della sua malattia perché la trovavo inaccettabile. Per questo ho trattato Ezio come trattavo tutti, e questa è la mia più grande colpa e il più grande sollievo. Perché non avevo filtri, mi piaceva provo-care le sue reazioni, avevamo un rapporto schietto e questa è stata la cosa più bella. Ho sempre volato sopra gli stereotipi, la banalità, le condizioni fisiche, sopra qualsiasi cosa. Certo, a volte abbiamo anche discusso, perché Ezio era -inafferrabile", sfuggente. Lo trattavo come una persona sane lui diceva che, quando non sbroccavo, ero una persona meravigliosa. Ammetto di aver sbloccato, e forse lui si divertiva perché era uno che aveva una sua vanità, e vorrei che la gente non lo dipingesse come un povero ragazzo sfortunato perché era un uomo pieno di charme, di donne che avrebbero fatto qualsiasi cosa per stare con lui, consapevole dei suoi poteri. Era tante cose, tutto e il contra-rio di tutto, impossibile non innamorarsi della sua persona. Ci siamo detti tante cose, ho passato giornate intere a piangere guardando il soffino pensando a quanto fosse tragico il suo destino e volevo convincermi che non fosse così. Di lui amavo più i difetti che i pregi perché erano la sua forza, come quella capacità che molti avranno sperimentato su piani diversi di sedurti e lasciarti senza fiato e senza speranza. Questa era la sua magia, con un tocco di bacchetta ti faceva avvicina-re e con un altro ti teneva lontano, era anche il suo modo di proteggere i rapporti, di tenerli sospesi, di non definirli. Gli ultimi concerti li faceva quasi solo dirigendo, ma ricordo la stagione in cui ancora suonava, come in The 12th roorn tour, dove raccontava il rapporto fra la vita e la morte. Diceva che, secondo una teoria antica, la vita di ogni uomo è composta di do-dici stanze, in ciascuna lasciamo qualcosa di noi e di tutte ci ricorderemo quando entreremo nell'ultima. La prima, quella in cui siamo nati, non possiamo ricordarla, la rivedremo solo quando entreremo nell'ultima, dove tutto finisce e tutto ricomincia. E allora mi piace immaginare Ezio come un eterno ragazzo, con quel sorriso e gli occhi curiosi di un bambino, che ci ha lasciato troppo presto, senza avvisarci, lasciando solo "pioggia nei nostri occhi scuri".

Carlo Conti con Ezio Bosso a Sanremo: «Il suo amore per la vita fu un esempio per tutti». Pubblicato venerdì, 15 maggio 2020 su Corriere.it da Renato Franco. «È stato uno degli incontri più emozionanti della mia carriera». Carlo Conti — tre Festival di Sanremo e svariate decine di programmi — di artisti ne ha incrociati parecchi. Ma quella volta sul palco (era il Sanremo 2016) non è stata una delle tante. «Ezio Bosso (morto oggi a Bologna all’eta di 48 anni, ndr) ha illuminato quell’edizione del Festival con le sue parole, il suo talento, la sua energia. Ci ha regalato emozioni fortissime e forse anche inaspettate per chi non lo conosceva».

Bosso all’epoca non era ancora famoso. Come arrivò a lui?

«Quando lavori al Festival cerchi di trovare proposte diverse, cerchi qualcosa che si vede poco o si conosce meno. Quando ci imbattemmo in Bosso, non avemmo nessun dubbio: ci conquistò subito».

Come fu il primo incontro in vista del Festival?

«In realtà fu direttamente sul palco. Sanremo ti assorbe, tra mille cose da fare. Ezio arrivò il pomeriggio stesso per provare e non avemmo modo di incontrarci. Ci trovammo direttamente sul palco. Fu tutto vero, naturale, spontaneo. E questo forse è il segreto di quel momento perché non c’era niente di preparato. Tutta la nostra chiacchierata, tutto quello che è successo sul palco, tutto quello che ci ha regalato, tutto quello che ci ha fatto sentire, tutte quelle emozioni sono venute di getto, al momento. Per questo credo abbiano avuto una forza unica. In quel momento ero appoggiato al suo pianoforte, eravamo io e lui e basta. Come se intorno non ci fosse nulla. Mi sono trovato di fronte a una saggezza e una forza incredibile, tutto il resto era sparito».

Fu una delle poche volte che ha sforato sulla scaletta...

«Non era prevista una chiacchierata così lunga, ma quei minuti meritavano di essere prolungati e vissuti da tutti».

Con quel Sanremo davanti a milioni di spettatori Bosso raggiunse la popolarità e il suo messaggio fu di una forza dirompente.

«All’epoca Bosso era più conosciuto all’estero che in Italia, il Festival gli diede la ribalta che meritava. Ezio ci ha lasciato un messaggio unico di forza, energia, amore per la vita. Aveva ancora tanto da raccontare, da insegnarci, musicalmente e umanamente».

La scomparsa. E’ morto Ezio Bosso, il pianista e compositore aveva 48 anni. Redazione de Il Riformista il 15 Maggio 2020. Ezio Bosso ha perso la sua battaglia, portata avanti da anni con coraggio. Il pianista e direttore d’orchestra, torinese di nascita, è scomparso all’età di 48 anni: dal 2011 conviveva con una malattia neurodegenerativa che gli fu diagnosticata dopo aver subito un intervento per un tumore al cervello. La patologia non gli aveva impedito di continuare a suonare, dirigere e comporre musica, tanto da emozionare il pubblico del Teatro Ariston nel 2016, esibendosi al Festival di Sanremo. Nel settembre del 2019 il progressivo manifestarsi della malattia l’aveva quindi costretto a fermare l’attività di pianista, con la patologia che gli aveva compromesso l’uso delle mani. Bosso ha vinto alcuni tra i più importanti riconoscimenti, come il Room Award in Australia (unico non australiano a vincerlo) o il Syracuse NY Award in America. Dall’ottobre 2017 al giugno 2018 è stato direttore stabile residente del Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste, mentre a Londra, dove ha vissuto, ha diretto l’unica orchestra d’archi di grande numero inglese, The London Strings.

Ezio Bosso, il Socrate della musica. Alberto Veronesi, Direttore d'orchestra, su Il Riformista il 16 Maggio 2020. Non possiamo sapere come siano stati gli ultimi istanti della vita del Maestro Bosso, ma possiamo immaginarli sicuramente sempre pieni di quella musica che, come diceva lui, non si smette mai di ricercare, di perfezionare, sapendo che la felicità del musicista non è trovare una verità, ma cercarla. Fu nostro ospite già nel 2016, al Festival Puccini di Torre del Lago, si presentò con un quartetto d’archi e un gruppo di fiati, mi stupì perché suonava il pianoforte quasi in piedi, su uno sgabello altissimo. Era una persona difficile da non amare immediatamente. L’uomo come il musicista si presentava con delle caratteristiche di immediata comunicativa, e anche le sue stesse idee musicali lo erano, sempre chiare, limpide, immediatamente comprensibili. Mai una involuzione, mai un pensiero nascosto, mai un retro pensiero. Colpiva la sua frase tipica “la musica la facciamo insieme, la musica è una cosa che si fa insieme”, ma fare insieme la musica non voleva dire semplicemente che ci si vuole bene, che c’è il calore del volersi bene, dell’abbracciarsi. C’era in quelle parole anche qualcosa di più profondo: la musica è la metafora della ricerca della verità, e la verità è frutto di un dialogo; è nel dialogo che Socrate trova la verità, partendo sempre dal dubbio, dal togliere le certezze, dal punto zero, dal sapere di non sapere. “La musica è il fatto di non essere mai contenti, ma di essere felici di non esserlo”, il filosofo musicista, per Bosso, è un ricercatore, mai soddisfatto dei propri risultati, ma felice di continuare a ricercare. Dentro queste semplici parole c’è tutta la nostra storia, non solo musicale, qui sta l’orgoglio di tutta la storia della scienza, di tutta la storia del sapere occidentale: non c’è nulla di rivelato e di assoluto, e questo vale per i compositori, per gli esecutori, per i direttori, ma anche per tutti gli altri: politici, filosofi, scienziati, sportivi, artigiani, artisti. Torno ancora a “La musica si fa insieme” : parrebbe di vedere però anche il musicista-filosofo che, come il Socrate di Platone (ne “la Repubblica”), ritorna nella caverna a condividere con gli altri uomini la verità che ha trovato fuori; c’era in Bosso anche questo desiderio di condivisione, questo entusiasmo nel raccontare ciò che si è trovato, ciò che si è intravisto nella luce meravigliosa che sta fuori della caverna, quella luce meravigliosa che sicuramente Bosso identificava con la musica. Bosso dice “la musica non finisce con l’ultima nota, continua, anche nel silenzio”, è la verità dell’essere, chi intravede la verità, ne rimane toccato, porta una esperienza che non finisce con la fine della musica…..veramente sembra ancora di ascoltare Socrate nel “Fedone” e ancora: “la musica ci fa ritrovare parti di noi che non sapevamo di avere”, e questa è la teoria dell’anima, l’anima che è immortale e che attraverso la reminiscenza ci fa sapere delle verità che non sapevamo di sapere (…è sempre il Fedone). “Eseguiamola come fosse la prima volta, ma anche come se fosse l’ultima”, dice all’inizio del quarto movimento della settima di Beethoven, qualche mese fa, per Rai tre. Sentito oggi quel dire “come se fosse l’ultima” ci commuove, ma nel dirigere il suo sguardo è sempre pieno di gioia. Condannato da una malattia implacabile, quello sguardo è come volesse dirci, come disse Socrate di fronte ai suoi discepoli piangenti, “sono condannato ma non scappo dal mio destino, non mi dispero, bevo con serenità la cicuta, non è giusto che debba morire, perché la condanna è ingiusta, ma la accetto serenamente perché così è stato deciso”. Bosso era un grande uomo.

È morto il pianista Ezio Bosso, Mattarella: “Un’indomabile carica umana”. Redazione de Il Riformista il 15 Maggio 2020. Ezio Bosso ha perso la sua battaglia, portata avanti da anni con coraggio. Il pianista e direttore d’orchestra, torinese di nascita, è scomparso all’età di 48 anni: dal 2011 conviveva con una malattia neurodegenerativa che gli fu diagnosticata dopo aver subito un intervento per un tumore al cervello. Il musicista è scomparso nella sua casa di Bologna. La patologia non gli aveva impedito di continuare a suonare, dirigere e comporre musica, tanto da emozionare il pubblico del Teatro Ariston nel 2016, esibendosi al Festival di Sanremo. La sua magnifica esecuzione di “Following a bird“, composizione inserita nel suo album “The 12th Room”, aveva colpito il pubblico sanremese e televisivo, col suo nome che da allora non è rimasto più riservato ad una ‘nicchia’ di cultori della musica colta. Nel settembre del 2019 il progressivo manifestarsi della malattia l’aveva quindi costretto a fermare l’attività di pianista, con la patologia che gli aveva compromesso l’uso delle mani. “Se mi volete bene, non chiedetemi più di sedermi al pianoforte e di suonare. Tra i miei acciacchi adesso ho anche due dita fuori uso. Se non posso dare abbastanza al pianoforte, è meglio lasciar perdere”, aveva detto in quell’occasione il compositore. Bosso ha vinto alcuni tra i più importanti riconoscimenti, come il Room Award in Australia (unico non australiano a vincerlo) o il Syracuse NY Award in America. Dall’ottobre 2017 al giugno 2018 è stato direttore stabile residente del Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste, mentre a Londra, dove ha vissuto, ha diretto l’unica orchestra d’archi di grande numero inglese, The London Strings. Il 20 giugno dello scorso anno era stato anche nominato cittadino onorario di Roma. “Sono rimasto molto colpito dalla prematura scomparsa del maestro Ezio Bosso. Desidero ricordarne l’estro e la passione intensa che metteva nella musica, missione della sua vita, e la sua indomabile carica umana”, ha scritto su Twitter il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. A esprimere dolore per la scomparsa del compositore molti esponenti del mondo della politica e dell’arte. Così Lorenzo Jovanotti: “Che dispiacere, il silenzio di stamattina è un vuoto improvviso, come se la musica avesse perso un suo figlio prediletto”.

Morto Ezio Bosso, pianista e direttore d’orchestra: aveva 48 anni. Linda il 15/05/2020 su Notizie.it. Ezio Bosso, famoso pianista, direttore d'orchestra e compositore, è morto a soli 48 anni: combatteva contro una malattia neurodegenerativa. Si è spento a soli 48 anni Ezio Bosso: il pianista e direttore d’orchestra combatteva dal 2011 con una malattia neurodegenerativa. Nel 2011, il grande musicista era stato sottoposto a un intervento chirurgico per l’asportazione di una neoplasia. Inoltre era stato colpito da una sindrome autoimmune, tutte patologie che inizialmente non gli avevano impedito tuttavia di continuare a comporre, suonare e dirigere. Purtroppo, però, il peggioramento della malattia neurodegenerativa, all’inizio inesattamente indicata dai media come SLA, l’aveva costretto a fermarsi del tutto lo scorso anno. I gravi problemi di salute avevano infatti compromesso l’uso delle mani del grande compositore torinese, portandolo a dover necessariamente smettere di suonare. Come amava definirsi lui stesso, Ezio Bosso era un pianista per caso. Trovò grande popolarità quando nel 2016 venne invitato da Carlo Conti come ospite d’onore a Sanremo. Sul palco dell’Ariston eseguì una composizione contenuta nell’album “The 12th Room”, uscito qualche mese prima. Il brano “Following a Bird” finì così subito in classifica e da quel momento il suo nome è diventato noto al grande pubblico, che lo ha sempre seguito con grande affetto negli anni a seguire. Il musicista si esibiva sul palco senza spartiti, suonando o dirigendo tutto a memoria. “Quando dirigo è come se avessi tutti i suoni scritti, […], io li ho davanti, per me è un contatto visivo. Dirigo con gli occhi, con il sorriso, mando anche baci quando qualcuno ha fatto bene”. Proprio questa solarità e la grande voglia di vivere di Ezio Bosso resteranno nel cuore di tutti.

“Sei in ogni nota suonata”. Il saluto della sua orchestra ad Ezio Bosso. Diletta Capissi su Il Dubbio il 15 maggio 2020. Vogliamo ricordarlo con questa frase: «Noi cambieremo il mondo a colpi di musica». L’addio di Ezio Bosso squarcia il greve silenzio di questi difficili mesi. “E’ andato via con le sue braccia da ali di corvo con le quali dirigeva – scrive Patrizia de Mennato, raffinata signora della cultura e proprietaria della dimora antica napoletana Villa Di Donato – perdiamo un esempio di forza morale e di umanità che solo lui sapeva esprimere”. Bosso riusciva a tratteggiare nell’aria il disegno della sua musica volteggiando con vigore la bacchetta di direttore d’orchestra così da accarezzare e catalizzare sia i musicisti che il pubblico che lo ha tanto amato.  Così è stato la sera di Natale 2019, gli ascolti lo hanno confermato, con il suo concerto su Rai3 dal titolo «Che storia è la musica», dedicato a Cajkovskij, al compositore russo e al suo più struggente capolavoro, la Patetica.  «Una musica che è dolore ma anche consolazione. Nell’ultimo movimento Cajkovskij annota di suo pugno la parola “lenezza”, che non sta per lentezza ma per carezza. La musica lenisce il dolore. Se credi in lei e ti lasci guidare, ti cambia la vita». Così è stato per lui, da anni sofferente per una malattia neurodegenerativa, così per Cajkovskij. (Dichiarava nell’intervista a Giuseppina Manin, pubblicata su Corriere.it). Il peggioramento della sua condizione fisica ci aveva privato del suo tocco delicato di pianista. “Se mi volete bene, smettete di chiedermi di mettermi al pianoforte e suonare –  l’avvertimento durante la Fiera del Levante di Bari – Non sapete la sofferenza che mi provoca questo, perché non posso, ho due dita che non rispondono più bene e non posso dare alla musica abbastanza. E quando saprò di non riuscire più a gestire un’orchestra, smetterò anche di dirigere”. Enfant prodige della musica, si era avvicinato all’età di quattro anni, grazie ad una prozia pianista e al fratello musicista. Ha debuttato in Francia a 16 anni come solista ed ha partecipato a prestigiose orchestre europee in qualità di compositore, esecutore e direttore d’orchestra. Una breve ma intensa vita da artista che inizia presto ma che non termina con la sua morte perché ci lascia un prezioso testamento musicale e di vita, e quella passione che aveva verso i giovani musicisti.  “L’abbiamo visto provare senza risparmiarsi con i giovanissimi – scrive ancora Patrizia de Mennato – per insegnare loro non solo a suonare ma a sentire lo stare insieme. L’abbiamo visto dirigere una epica Settima Sinfonia di Beethoven, il genio che ha amato di più, con l’Accademia di Santa Cecilia”. Il concerto su Rai3 «Che storia è la musica», in onda a Natale l’aveva registrato al Teatro dell’Unione di Viterbo con la sua Orchestra Europa Filarmonica, arricchita dai giovani della Filarmonica di Benevento e il Coro Rossini di Pesaro. Dal 2017, è stato testimone e ambasciatore internazionale dell’Associazione Mozart14 – si legge sul suo sito – eredità ufficiale dei principi sociali ed educativi del Maestro Claudio Abbado, diretta dalla figlia Alessandra. A conferma della sua attenzione, “impegno didattico e sociale”, Bosso si è profuso nell’attività svolta con “Opera Pia Barolo” e “Medicina a Misura di Donna a Torino”. Indimenticabile sarà per tutti il toccante e memorabile intervento sullo stato della cultura europea, nel 2018, al Parlamento Europeo, dove fu invitato come testimone ufficiale alla Festa Europea della Musica.  Il 30 agosto scorso, Ezio Bosso ha incantato il pubblico di Santa Maria di Castellabate, nell’ambito dell’evento “Camera in Tour”, dove ha diretto l’Orchestra Filarmonica Salernitana nello scenario dei giardini di Villa Matarazzo. Forte è il cordoglio del nostro Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: “Sono rimasto colpito dalla prematura scomparsa del maestro Ezio Bosso. Desidero ricordarne l’estro e la passione intenza che metteva nella musica, missione della sua vita, e la sua indomabile carica umana”.  Ci piace ricordarlo con questa sua frase: «Noi cambieremo il mondo a colpi di musica». Grazie Ezio Bosso, vola leggero e continua a disegnare nell’aria la musica con la tua bacchetta. Le nostre porte saranno sempre aperte.

È morto Ezio Bosso, il pianista che non ha mai smesso di sorridere. Compositore e direttore d'orchestra aveva 48 anni. Da tempo malato, ha continuato a suonare, comporre e dirigere. La sua ultima apparizione in tv a Natale con la serata "Che storia è la musica". Silvia Fumarola il 15 maggio 2020 su La Repubblica. Ezio Bosso era una persona molto speciale. Intelligentissima, sensibile, sapeva trasmettere la passione per la musica e per la vita. Se n'è andato a 48 anni, e lascia un grande vuoto. "La musica ci cambia la vita e ci salva. Le persone che vengono ospiti da me, entrano da personaggi e escono da persone. La bacchetta mi aiuta a mascherare il dolore e non è una cosa da poco" spiegava dopo la serata evento di Che storia è la musica, andata in onda a giugno, incentrata sulla Quinta e la Settima Sinfonia di Beethoven, vista da oltre un milione di spettatori. La sera di Natale Bosso era tornato su Rai 3  con Cajkovskij  e Mozart. Il Teatro dell'Unione di Viterbo aveva ospitato il maestro con l'Orchestra Filarmonica, da lui fondata, arricchita per l'occasione dai giovani dell'Orchestra Filarmonica di Benevento e il Coro Filarmonico Rossini di Pesaro. "Ascoltate a tutto volume il nostro concerto, dobbiamo disturbare i vicini e riempire l'Italia di questa musica meravigliosa. La nostra forza sarà la televisione, ma non in casa, deve uscire dalle case. L'arte e la bellezza sono contagiose: così cambieremo il mondo". Aveva un entusiasmo contagioso. Il direttore d'orchestra, compositore e pianista torinese soffriva di una malattia neurodegenerativa da anni ma non si era mai fermato. Era diventato popolarissimo quando nel 2016 fu invitato da Carlo Conti come ospite d'onore al Festival di Sanremo. Sul palco dell'Ariston Bosso eseguì Following a Bird, composizione contenuta nell'album The 12th Room, che dopo quell'esibizione, applauditissima, finì subito in classifica. "Sul palco sono senza spartito, faccio tutto a memoria. Quando dirigo è come se avessi tutti i suoni scritto, primi e secondi violini, violoncelli, bassi, flauti, oboi, clarinetti, fagotti, corni, trombe, tromboni, percussioni, io li ho davanti, per me è un contatto visivo, dirigere con gli occhi, con i sorrisi, mando anche baci quando qualcuno ha fatto bene". Spiegava come fosse stato difficile essere accettato nel mondo della musica classica e dei pregiudizi "perché guardavano la malattia: è evidente, non è che posso negarlo. Ho combattuto il pregiudizio. Fin da bambino ho lottato col fatto che un povero non può fare il direttore d'orchestra, perché il figlio di un operaio deve fare l'operaio, così è stato detto a mio padre". Lo studio come riscatto, la passione che lo guida e gli fa vincere anche il dolore. "Ho avuto paura anche delle 'mazzate' che mi sono preso, ho preso schiaffoni perché sono una persona normale. Il nostro entusiasmo, la nostra voglia di fare, però, alla fine, diventa un contagio. Mi auguro una pandemia di voglia di fare. Dirigere la Patetica è una delle direzioni più difficili che esistono. Credere nella musica non è unicamente un processo di allegria ma è un processo faticoso che, a volte, ti consuma. Lasciarsi guidare dalla musica è anche un gesto di umiltà, riconosci la grandezza dell'altro e diventi grande insieme a lui". Bosso parlava davvero a tutti, ci faceva emozionare, arrivava dritto al cuore. Tra gli eventi che lo hanno visto grande protagonista, Grazie Claudio, l'omaggio a Claudio Abbado. Fu lui a dirigere il concerto evento di Mozart14 per i cinque anni dalla scomparsa del maestro. Bosso mise insieme cinquanta musicisti delle migliori orchestre del mondo per unirsi all'European Union Youth Orchestra e agli amici della Europa Philharmonic Orchestra fondata da lui stesso. Nella sua vita, piena, diceva che gli mancavano " i viaggi lunghi che facevo una volta", ma non aveva paura. "Le paure servono. Non è utile scacciarle. Ho paura che la paura un giorno mi paralizzi. Questo sì. Ma non vale solo per me. Mi spaventa che possa accadere a chiunque". Era rigoroso ma anche ironico, su Twitter aveva risposto al blog satirico Spinoza che prendeva in giro la sua capigliatura 'da coglione'. "Non mi sono offeso" spiegava. "Spinoza mi piace un casino. Potrei mai prendermi sul serio? Io sono già così, come mi vedete. Se facessi il tronfio, sai che noia. Solo la musica merita tutto l'impegno. Gli esempi veri non si vedono quasi mai. Ho messo in pubblico le mie mani e la mia faccia, così come ascolto le storie degli altri, ogni tanto provo a raccontare un pezzetto della mia. Sono un essere umano, uno solo, se vi girate a guardare ne trovate tanti". "Essere leggeri, prendersi in giro", osservava Bosso "è una cosa seria. Se non ci si prende in giro, non si può essere seri. Quando non mi ricordo il nome di un musicista e faccio una figuraccia è una cosa bella. Ascoltatelo a tutto volume il nostro concerto, dobbiamo disturbare i vicini e riempire l'Italia di questa musica meravigliosa. La nostra forza sarà la tv, non dentro casa, ma fuori dalle mura. Cambieremo il mondo". Lui l'ha cambiato, l'ha reso davvero più bello.

L’ultima intervista a Ezio Bosso: “Un sorriso al giorno, facciamo la rivoluzione con atti di gentilezza militante”. Rossella Grasso de Il Riformista il 15 Maggio 2020. Ezio Bosso non lascia in eredità all’umanità intera solo la sua musica ma anche una vera e propria filosofia di vita che non ha smesso di emozionare fino all’ultimo. È stato un vero lottatore, non solo contro la sua malattia, ma anche contro le difficoltà di riuscire a suonare, a muovere gli arti nonostante la patologia gli assottigliasse sempre di più gli arti. E lotta anche contro le malelingue che gli attribuivano successo solo per essere il personaggio che era diventato. Ma lui a queste rispondeva con ironia e con il suo modo sempre delicato di raccontare qualsiasi cosa, con gli occhioni pieni di emozioni e i gesti di chi ama la musica. L’ultima volta che Ezio Bosso ha suonato in Campania è stato in occasione di “Estate da Re. La Grande Musica alla Reggia di Caserta”, iniziativa estiva finanziata dalla Regione Campania e organizzata e promossa dalla Scabec, la società inhouse della Regione. Era la fine di Agosto 2019 e il maestro diresse l’Orchestra Filarmonica del Teatro Giuseppe Verdi di Salerno, nel parco allestito nel meraviglioso emiciclo sotto le stelle dell’Aperia, situato nella parte alta del parco reale della Reggia di Caserta, incastonato nel Giardino Inglese e restaurato anno dopo anno proprio grazie al festival. La sua esibizione fu una emozione enorme, cavalcando le note di Bolero di Ravel, Sinfonia di Dvoràk e le Danze Ungheresi di Johannes Brahms. “La musica ci serve a questo – disse Bosso in conferenza stampa con pantalone di pelle, chiodo e borchie – portarci a quell’ascolto neutro, dolce e gentile. Per questo motivo ho deciso di iniziare questa campagna di atti di gentilezza militante. Mettiamoci tutti, un sorriso al giorno, una mano tenuta a chi ne ha bisogno. Perchè la musica è così, è fatta di atti di gentilezza”.

Leonetta Bentivoglio per “la Repubblica” – 29/08/2016. «La musica salva il mondo, induce a stare insieme, illumina gli spazi, fa sì che gli esseri umani si ascoltino», dice con amichevole grazia Ezio Bosso accomodato su un sofà della sua dimora bolognese, col grande soffitto dalle volte antiche e lo spazio centrale dominato dalla bellezza sinuosa e lucida di un pianoforte a coda. Per la maggior parte dell’umanità esistono un tempo per la musica e altri tempi per il resto. Per Ezio Bosso no, la musica è “sempre”. È il tempo della vita, della guarigione, del comunicare, del sentire amore, vitalità e piacere. «La musica è magia e non a caso i direttori d’orchestra hanno la bacchetta», dichiarò Bosso quest’anno all’Ariston di Sanremo, davanti alla sterminata platea televisiva del Festival, dopo aver fatto il suo ingresso sul palco in sedia a rotelle. Poi si mise a suonare con un’intensità che avvolse come un’onda di emozioni il pubblico nella sala, compatto nel tributargli un abbraccio in forma di standing ovation. Bosso è un combattente fertile per creatività e per lo slancio nella diffusione della propria arte, «di cui sono solo un tramite», afferma sorridente. «La musica è una sfera empatica e io cerco di dare agli altri stimoli per trovare in ogni brano i rispettivi racconti». Nato a Torino nel ’71, ma ormai da decenni cittadino del pianeta («le due case in cui torno fra i vari viaggi sono a Londra e a Bologna, dove ritrovo la meravigliosa famiglia disfunzionale dei miei amici»), Ezio abita nella musica come in una dimensione «a cui devo tutto, anche il mio respiro». Formatosi principalmente a Vienna come pianista, compositore, direttore d’orchestra e contrabbassista, si applica alla esecuzione dei classici («il vecchiaccio Bach non manca mai nelle mie giornate, e Beethoven lo sento come un padre») e alla scrittura di pezzi sinfonici, cameristici e solistici, oltre che di musiche destinate al teatro, alla danza e al cinema. Non è riuscita a distoglierlo dalla sua totalizzante vocazione nemmeno la malattia neurologica degenerativa con cui convive dal 2011, anzi. La vede addirittura come una modalità che può fargli esplorare nuove strade: «Suono ogni giorno finché il corpo lo permette, anche otto ore. Imparo a riconoscere ciò che può fare il mio fisico e ad assecondarlo nonostante gli ostacoli, perché è impossibile rinunciare alla gioia della musica. Ho dovuto adattarmi alla disabilità: mi serve uno sgabello alto e i miei tasti sono più leggeri del normale. A volte non controllo una mano ma la musica svela sempre altre opportunità. Quando un dito non funziona ne uso un altro e magari esce un suono più bello; se la mano s’inceppa rallento il tempo, forse scoprendo che in tal modo mi piace di più. Allora lo rifaccio e mi diverto: in me non c’è frustrazione». Il pianoforte è un compagno amato e fidato lungo il cammino nelle “stanze” che fungono da filo conduttore del suo doppio album, The 12th Room. Lo formano un primo cd con dodici brani, sia suoi che di compositori storici, e un secondo che include una sua Sonata. The 12th Room Tour è anche il titolo dell’acclamato tour di concerti di cui è stato protagonista quest’estate in giro per l’Italia. cui appartengo o che appartengono alla mia esperienza o alla storia delle stanze stesse», spiega. «Alcuni di questi brani mi hanno aiutato a tornare a suonare, cioè a uscire dalla stanza in cui mi aveva relegato la malattia. Altri sono pezzi che autori come Bach e Chopin hanno dedicato a storie di stanze, dato che tra le funzioni della musica c’è quella di farci vivere storie». Secondo un’antica teoria, sostiene Bosso, la vita è composta da dodici stanze: «Nessuno può ricordare la prima perché quando nasciamo non vediamo, ma pare che questo si realizzi nell’ultima stanza che raggiungeremo. Costruiamo stanze quando troviamo posti dove fermarci, attribuendo loro nomi e significati: la stanza dei giochi, della musica, dei sogni. La stanza della luce o quella cieca. Le stanze della memoria e quelle abbandonate. Le stanze del potere, dette “dei bottoni”. In certi momenti entro in una stanza priva di musica e vi resto bloccato a lungo, pensando di non uscirne più», racconta riferendosi al periodo in cui venne operato al cervello e la malattia gli impedì di suonare. «Comunque la mia stanza preferita è quella del pianoforte ». Bosso è stato molto amico del direttore d’orchestra Claudio Abbado, che ha sempre promosso la musica in quanto inesauribile fonte di dialogo, terapia e salvezza. Come Claudio, scomparso due anni fa, Ezio crede nell’idea del “Zusammenmusizieren”, cioè del fare musica insieme, e ha dato quest’appellativo a un progetto in cui accoglie periodicamente, nella sede di Palazzo Barolo a Torino, musicisti di ogni età e livello per farli suonare con lui e per parlare di suono, di sicurezza di sé, di memoria e d’importanza dell’ascolto: «Non pontifico né faccio il santone: semplicemente condivido. Sono incontri aperti, anzi spalancati, dove arriva di tutto, dal quartetto che vuol provare un brano al bambino che suona Piva l’olio d’oliva». Lo stesso spirito anima i concerti di Bosso, rilassati e anti-accademici. Ogni pezzo è introdotto dai suoi discorsi fluidi e caldi, e gli spettatori sono persino invitati a non spegnere i cellulari, se lo desiderano: «Non bisogna porre la musica su un piedistallo. I cellulari non mi piacciono ma è più fastidioso un colpo di tosse che s’inserisce in un “pianissimo”». Non gli piace il termine “musica classica”: «Preferisco parlare di musica libera da costrizioni e forme di ego. La musica di cui mi occupo è universale: Beethoven puoi suonarlo anche in Africa e arriva a chiunque. Ciò che scrivono Bach o Beethoven non ha regole di mercato né di nicchie o d’intellettualismo. E poi non c’è la mia musica: esiste la nostra». La musica è salvezza non solo per chi suona, ma per chi ascolta assimilandola naturalmente: «Spaventano certi busti di compositori, tutti severi e antipatici. Io cerco di descriverne al pubblico l’umanità. Mi piace, ad esempio, parlare di Chopin anche con ironia, mostrando un uomo che dal punto di vista della salute era un bel po’ sfigato come me. Col mio amico Mario Brunello ho fatto molta musica da camera, e insieme proviamo a dare un senso narrativo a ciò che suoniamo, per far capire che le note derivano da una persona, dal suo contesto, dalle sue esperienze». Quanto al clamore ottenuto a Sanremo, Bosso non ne minimizza gli effetti, ma specifica che al festival ha parlato solo «di quel che dico continuamente nei miei concerti così come chiacchierando con gli amici e al bar. Sanremo è stato un vettore enorme, però non ci sono andato per me stesso, ma per la musica, che è di tutti. La cosa bella è quando sento l’ovazione dopo Bach e comprendo di aver incuriosito i giovani, i quali vorranno sentirne ancora». Tornerà in televisione Bosso? «Dopo Sanremo mi sono arrivati gli inviti televisivi più assurdi. Mi hanno chiesto persino di partecipare a programmi sul calcio. Ma io non so niente di calcio! In tivù tornerò solo quando trasmetteranno un concerto in prima serata».

Da corriere.it il 15 maggio 2020. «La prima cosa che farò è mettermi al sole. La seconda sarà abbracciare un albero». Dalla sua casa di Bologna, Ezio Bosso stila i propositi per quando «si apriranno le gabbie». Purtroppo non sarà così. Ezio Bosso è morto. Direttore d’orchestra, compositore e pianista, Ezio Bosso era nato a Torino il 13 settembre 1971. Aveva 48 anni. Bosso conviveva ormai dal 2011 con una malattia neurodegenerativa che gli fu diagnosticata subito l’intervento per un tumore al cervello a cui fu sottoposto lo stesso anno. Inizialmente la sua malattia venne identificata dai media come la Sla, la sclerosi laterale amiotrofica, patologia in cui i primi sintomi, episodi di atrofia muscolare, si trasformano in pochi anni nella compromissione totale delle funzioni vitali.

Giuseppina Manin per il "Corriere della Sera" - 21 aprile 2020 (da cinquantamila.it - di Giorgio dell'Arti)

«La prima cosa che farò è mettermi al sole. La seconda sarà abbracciare un albero». Dalla sua casa di Bologna, Ezio Bosso stila i propositi per quando «si apriranno le gabbie». 

Da quanti giorni non vede il sole? 

«Sono ai domiciliari dal 24 febbraio. Se poi calcolo il periodo delle cure, dal 9 per le solite terapie, i mesi di clausura sono ormai più di due» considera il 48enne maestro torinese, da nove sofferente per una malattia degenerativa.

Una condizione che implica la massima prudenza. 

«Se non metto il naso fuori non è per paura ma per sconforto. Bologna deserta, quattro pietre, due persone dall’aria triste… Che esco a fare? C’è più vita a casa mia». 

Una casa peraltro grande e bella. 

«Con un solo difetto, non ci entra mai il sole… Ma non mi lamento. Vivo bene la solitudine, la divido con la mia compagna Annamaria e i nostri cani, due basset hound e un bassotto. I più felici sono loro. Non gli par vero di averci vicini giorno e notte». 

Come sono cambiati i suoi ritmi di vita? 

«La malattia mi ha allenato a soste forzate ben peggiori. Stavolta però non è il mio corpo a trattenermi ma qualcosa di esterno, collettivo, misterioso. Sono giorni strani, il tempo e lo spazio si sono fatti elastici, a volte le ore sono eterne, a volte volano. A volte ti senti in prigione, a volte scopri la Dodicesima stanza, quella che ti libera. Era il titolo di un mio vecchio album».

Cosa l’aiuta a far fronte a questa nuova situazione? 

«La disciplina della musica. Le note lunghe, le scale, ti educano all’ordine interiore. Non ho cambiato le mie regole; anche se non esco, mi alzo presto, faccio la barba, mi vesto. E studio. Approfondisco e metto in dubbio ciò che ho fatto, affronto partiture che forse non dirigerò mai perché non me le faranno fare. E poi singole parti, processi tecnici e storici necessari… Esercizi che praticavo all’aperto, per costringermi alla concentrazione. Ora ci provo in casa». 

Le giornate sono tutte uguali? 

«Solo in apparenza. Variano in funzione di come ci sentiamo. È un tempo senza scansione. A me manca il tempo della musica fatta. Ma si può approfittare di questa sospensione per provare a migliorarci pensando agli errori commessi. Cosa che non vedo molto in giro».

Sarà così? 

«Diventare migliori è una scelta non una conseguenza, richiede un impegno forte con se stessi. Star chiusi in casa non basta. Questa retorica vuota che ci circonda è insopportabile. Così come tanta cattiveria sparsa nel web, l’ottuso complottismo di chi vuole un colpevole a ogni costo». 

Cosa le manca di più? 

«Fare musica. E ritrovarmi con i musicisti della mia Europe Philharmonic Orchestra, loro sono i miei fratelli, i miei figli. Ci sentiamo moltissimo ma non è lo stesso. Alcuni di loro stanno vivendo un periodo di grande sofferenza, non possono più suonare, non hanno più un reddito». 

Come sarà la musica «dopo»? 

«Ci stiamo ragionando insieme. Le nuove regole sulla distanza incideranno sul repertorio. Forse per un po’ il mio amato Beethoven lo coltiveremo più nella parte cameristica che nelle Sinfonie, strumentalmente troppo affollate. Dobbiamo ridisegnare delle mappe, sto lavorando con tecnici del suono e architetti. Mi piacerebbe parlarne con Renzo Piano. Ripartiremo, ma in altro modo. La classica deve diventare un elemento di crescita del Paese, può insegnare a stare insieme con ordine e disciplina». 

Cosa ascolta in questi giorni? 

«Ascoltare solo per piacere per me è complicato, visto che sento ogni parte dell’orchestra separatamente. Mentre quello che studio mi risuona in testa con più forza. Adesso mi succede con la Quinta di Mahler». 

Cosa legge? 

«Testi di storia antica, su come si ascoltava la musica mille anni fa. Ho la fortuna di avere amici colti. Professori universitari con cui parlo di diritto canonico o storia medioevale…» 

Guarda la tv? 

«Il meno possibile. E basta con questo lessico bellico, il virus non è un nemico, non c’è una guerra in corso. Non lo sconfiggeremo, come per altre malattie, da l’Aids al cancro, ci dovremo convivere». 

Si trasmettono concerti e opere, mai così tanta musica in tv. 

«Se esiste è perché l’abbiamo fatta, ma le teche si stanno esaurendo. È un patrimonio che va alimentato. La musica in tv ci tiene compagnia, ci fa sperare di risentirla presto in sala. Come il teatro, la classica ha senso solo dal vivo».  

La sua voglia matta? 

«Abbracciare gli amici. Di natura sono timido, riservato, e con il corpo ho un approccio particolare. Non abbraccio chiunque, solo chi amo. Sempre avvolgendo l’altro totalmente. Questa astinenza forzata mi pesa. Sarà interessante ritrovare un rapporto fisico. Magari ci sarà un po’ di imbarazzo, magari un po’ di paura. Ci metteremo a ridere o ci spunteranno le lacrime. Non so come sarà. Ma qualsiasi cosa sia sorrideremo. Felici di essere vivi».

·        È morto Giulio Savelli, editore di "Porci con le ali".

È morto Giulio Savelli, editore di "Porci con le ali". Pubblicò anche la controinchiesta che svelò la pista nera della strage di piazza Fontana. La Repubblica il 12 maggio 2020. È morto a Roma, all'età di 78 anni, Giulio Savelli, l'editore che con i suoi titoli aveva rappresentato più di altri la "nuova sinistra" italiana negli anni Sessanta e Settanta. Tra i 1.200 libri pubblicati dalla sua casa editrice restano nella memoria collettiva "La strage di Stato" (1970), controinchiesta sulla strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969, e, soprattutto, "Porci con le ali" (1976). Con la pubblicazione nel 1970 della controinchiesta sulla strage di piazza Fontana, "La strage di stato", la casa editrice Savelli si afferma come uno dei maggiori punti di riferimento per la sinistra extraparlamentare. Nell'ottica della ricerca di nuovi linguaggi editoriali la casa editrice intraprende alcune iniziative volte ad esempio alla promozione del fumetto, che nel contesto culturale italiano è ritenuto un genere letterario secondario, e alla diffusione delle canzoni popolari di protesta, attraverso la pubblicazione di numerosi canzonieri: i titoli in questo senso più rilevanti sono certamente l'edizione italiana del volume svedese "Il libro di storia" nel 1974, una controstoria del mondo raccontata a fumetti e dedicata a bambini rivoluzionari e adulti, e "L'ammazzapreti. Canti satirici e anticlericali" del 1973, probabilmente il primo libro accompagnato da un disco sonoro che sia stato venduto in Italia. Ma L'impresa che consacra la casa editrice come una delle più rilevanti nel panorama controculturale è tuttavia il lancio nel 1975 della collana "Il pane e le rose", ideata da Audino in collaborazione con i redattori dell'eponima rivista torinese, Lidia Ravera e Marco Lombardo Radice. La collana è dedicata in particolare al tema della libertà dei costumi e degli orientamenti sessuali nelle diverse prospettive di genere, specie quella femminile e quella omosessuale, con una particolare attenzione alla condizione degli adolescenti e con l'intento di approfondire il nesso tra quotidiano, personale e politico. Tra i titoli della collana, il più noto è il romanzo "Porci con le ali" del 1976, scritto da Ravera e Lombardo Radice con la copertina disegnata da Pablo Echaurren. E' il diario politico-sessuale di due giovani, Rocco e Antonia, due adolescenti romani iscritti al liceo classico Mamiani di Roma. Il linguaggio aderente alla realtà e la verosimiglianza delle esperienze narrate contribuiscono a farne un bestseller. La casa editrice chiude nel 1982. Savelli, che era sposato con la giornalista Pialuisa Bianco, approderà poi in Parlamento negli anni Novanta con Forza Italia. Un altro segmento molto importante e quasi pionieristico è stato quello della pubblicazione di libri dedicati alla musica in un periodo storico in cui è difficilissimo reperire informazioni a riguardo. Nel 1978 nasce così la collana "La chitarra, il pianoforte e il potere" che andrà avanti fino al 1982, caratterizzandosi già a partire dal nome per uno sguardo fortemente politicizzato sulla musica del periodo, cantautori in primis come Luigi Tenco e Lucio Dalla ("Cercando un altro Egitto", una guida per le nuove generazioni ai cantautori),  allargandosi anche ad alcuni dei personaggi più interessanti e "ribelli" della scena internazionale come Lou Reed, Bob Marley, Patti Smith, Bob Dylan, Jim Morrison o gli stessi Beatles di cui vengono tradotti i testi e viene analizzata l'opera degli artisti in rapporto al contesto sociale e culturale in costante trasformazione tipico del periodo storico. Non a caso il tema musicale viene anche ripreso nella collana "Controcultura" in modi fortemente polemici nei confronti della gestione delle multinazionali del disco e degli organizzatori di concerti con titoli come "I padroni della musica". Anche questo lavoro così fuori dagli schemi dell'editoria del tempo (insieme a quello di altre case editrici come Lato Side e Arcana) lascerà un'importante traccia sul modo di trattare il tema musicale di riviste come "Gong" e "Muzak" che sarà critico e militante e non accondiscendente come avverrà in futuro nei confronti delle rockstar. Un altro elemento importante e caratterizzante sta nella cura della veste grafica delle copertine che utilizza molto spesso i disegni di Pablo Echaurren su sfondo bianco in maniera molto simile a quella della compagna-concorrente Lato Side che, sempre su fondo bianco, utilizza per la sua collana musicale illustratori che vanno da Guido Crepax a Emanuele Luzzati. Si tratta insomma di un tipo di editoria nuova che, oltre a trattare temi inusuali e spesso scomodi va a pescare tra i migliori nuovi talenti della cultura, della musica, del giornalismo d'inchiesta. La casa editrice non riuscirà però a sopravvivere a lungo e dopo un periodo a metà anni '70 in cui viene in qualche modo autogestita dai redattori finirà per chiudere definitivamente le pubblicazioni agli inizi degli anni '80. Il mondo era cambiato di nuovo. 

Giampiero Mughini per Dagospia il 13 maggio 2020. Caro Dago, è nell’ordine naturale delle cose che la mia generazione sia sottoposta a una sorta di decimazione. Il nostro tempo giunge al capolinea. Giulio Savelli era nato nel 1941, il mio stesso anno di nascita. Stiamo tutti avvicinandoci agli ottant’anni, qualcuno li ha superati. Avevo avuto pochi rapporti professionali con Savelli, ma è un fatto che il suo brand editoriale - la casa editrice Samonà e Savelli - è stato fra quelli iconici della mia giovinezza. Nella libreria che portava il nome della casa editrice, lassù a 80 metri dal Quirinale, c’ero stato a metà dei Sessanta e ricordo di avere comprato un libro di Paul Nizan. Quando mi trasferii a Roma nel gennaio 1970, se ricordo bene la casa editrice s’era già trasferita in un ufficio dirimpetto a Castel Sant’Angelo, presieduto da Dino Audino e dove sedeva Luigi Manconi che divenne subito un mio amico e di cui mi dispiacque quando mi querelò per un mio libro del 2006 dedicato all’omicidio Calabresi, una querela che il giudice istruttore giudicò priva di qualsiasi fondamento. Mi dispiacque perché nella mia scala sentimentale (che è cento volte più importante di qualsiasi altra), Luigi resta il ragazzo che sedeva nella redazione della casa editrice Savelli (Samonà s’era congedato). Più ancora, quello al quale nel 1987 confidai che stavo attraversando un periodo di grave insonnia e lui mi fece telefonare da Marco Lombardo Radice (il coautore di “Porci con le ali” edito dalla Savelli) che di mestiere faceva il medico e da lui ebbi preziosi consigli a combattere il malanno. Ve li sto via via facendo i nomi di quella costellazione che per tutti gli anni Sessanta ruotò attorno alla Savelli. L’autore del più importante libro che ne portava il marchio, il libro di Alberto Asor Rosa sulla letteratura italiana “populista”, sarebbe stato correlatore della mia tesi di laurea in Lingua e letteratura francese. Fu Dino Audino a chiedermi per la loro casa editrice una prefazione al saggio di Pierre Chaulieu, il direttore/fondatore di “Socialisme ou Barbarie” - la rivista madre di tutto il gruppettarismo di estrema sinistra -, e ne venne fuori il mio primissimo librino in un collana diretta da Lucio Colletti. Sarebbe stato Colletti a metà degli anni Sessanta il direttore di quella rivista mensile un tantino à la Trotski, “La Sinistra”, di cui Savelli fu il redattore capo e probabilmente quello che la faceva da cima a fondo. Era un ambiente da cui le riviste venivano fuori come funghi, nel senso che ogni gruppetto di cinque amici ne fondava una, poi quel gruppo si scindeva e in tre ne formavano una seconda, poi quei tre si scindevano nuovamente e ne nasceva una terza. Una di quelle riviste la dirigeva Paolo Flores d’Arcais, al cui fianco lavoravano Ernesto Galli della Loggia e Franco Moretti, entrambi miei grandissimi amici. Era l’ambiente che il giovanissimo Nanni Moretti scrutava con occhio geniale a farne il teatro dei suoi film del debutto. Paolo Flores e Franco Moretti vivevano nella stessa casa, e la loro era per me una casa la più familiare possibile. Alla Savelli lavorava un fratello più giovane di Paolo, Maurizio, un ventiquattrenne che sprizzava qualità da tutti i pori. Quando si tolse la vita, al suo funerale c’eravamo tutti in fila l’uno dietro l’altro, Manconi, Veltroni, Gianni Borgna, i due fratelli Moretti, Ernesto Galli della Loggia e ne sto dimenticando. Era esattamente una scena alla “Ecce bombo”. Qualche anno dopo Colletti e Savelli fecero combutta nello strapparsi di dosso i panni del marxismo o trotskismo che fosse, ed è stato uno degli episodi chiave della nostra storia politico culturale. Loro due e Saverio Vertone (altro comunista d’antan) e Piero Melograni vennero eletti al Parlamento nelle liste della Forza Italia berlusconiana. S’erano tutti spostati su posizioni di centro-destra come leggo in qualche ragguaglio da due soldi? Ma nemmeno per idea. Tutti loro avevano creduto nella “rivoluzione liberale” annunciata dal fondatore di Mediaset. Una illusione che durò pochissimo. Colletti mi disse una volta che era arrivato al punto di dover volgere via lo sguardo se vedeva per strada affisso ai muri un manifesto elettorale di Forza Italia. Dopo meno di un anno dalla sua elezione Savelli passò al Gruppo Misto. Da allora si era ritirato dalla prima linea, e lo aveva fatto con eleganza. Del resto era uno che amava la vita e che a darsi un’identità non aveva bisogno a tutti i costi della politica. “Era un principe non solo di nascita”, ha scritto nel ricordo funebre sua moglie, Pialuisa Bianco, anche lei un’allieva di Colletti.

·        Addio a Jerry Stiller.

Addio a Jerry Stiller, commediografo di successo e papà di Ben Stiller. É venuto a mancare Jerry Stiller, attore, comico e papà di Ben Stiller. In un tweet il cordoglio di tutta la famiglia. Carlo Lanna, Lunedì 11/05/2020 su Il Giornale. La notizia è trapela in rete come un fulmine a ciel sereno. Il mondo del cinema americano saluta per l’ultimo volta il celebre Jerry Stiller. L’attore aveva 92 anni ed è morto nel corso della giornata di domenica, 10 maggio, per cause naturali. È stato il figlio Ben Stiller, celebre attore anche a lui, a confermare la scomparsa del padre, pubblicando un lungo e accorato tweet sul suo profilo. Una notizia che, di fatto, sconvolge tutto il mondo del cinema e della tv. Jerry Stiller, infatti, nel corso del tempo, si era imposto come uno tra i commediografi più apprezzati del piccolo schermo, trovando successo in "Seinfeld". "Sono rattristato nel confermare che mio padre, Jerry Stiller, è morto per cause naturali ma circondato dall’affetto della sua famiglia – recita il post su Twitter -. È stato un grande uomo, un padre meraviglioso e un nonno eccezionale. Per Anne è stato un marito encomiabile. Mi mancherai tantissimo. Ti voglio bene, papà". Nato a New York l’8 giugno del 1927, fin da giovane ha sempre avuto una grande passione per la recitazione che ha poi trasformato in un lavoro. Jerry Stiller dopo diverse esperienze, ha trovato successo tra gli anni ’60 e ’70. E dopo aver sposato la sua amata Anne Meara, con lei formò un duo comico noto a tutti con il nome di "Stiller e Meara". Divennero molto popolari tanto è vero che, nel 1986, debuttarono insieme in tv in una sit-com che portava il loro stesso nome. Ebbe successo solo per qualche episodio, infatti andò in onda solo per una stagione. Ma questo passo falso non ha di certo impedito all’attore di esplorare nuovi lidi. La sua comicità ha trovato enorme popolarità nel corso degli anni ’90, periodo in cui in tv diverse sit-com hanno trovato grande consensi. Come "Seinfeld", dove ha interpretato il padre di una delle protagoniste dello show, rimanendo nel cast dal 1993 fino al 1998. Poi ha preso parte anche a "The Kings of Queens" nel ruolo di Arthur Spooner. Una passione per la recitazione che Jerry Stiller ha trasmesso a suo figlio, ora attore e commediografo di successo. Con l’avanzare dell’età ha accettato meno ruoli in tv, ma non ha lasciato il suo lavoro. Ha preso parte, infatti, a diversi film di successo e ha recitato insieme a suo figlio. È stato visto in "Lo spaccacuori", "Zoolander" e "Zoolander 2".

·        E’ morta Costanza  Rossi in Ichino.

L'addio di Pietro Ichino alla moglie: "Cara Costanza, nella tua malattia abbiamo vissuto l'intensità del matrimonio". La struggente lettera del giuslavorista alla compagna morta due giorni fa. Una riflessione sulla sofferenza, ma anche sulla gioia degli ultimi anni insieme. La Repubblica il 10 maggio 2020. Pietro Ichino è uno dei più famosi giuslavoristi italiani. Due giorni fa, dopo una lunga malattia, ha detto addio a sua moglie Costanza, sposata nel 1973 e madre delle sue due figlie. E nell’ultima notte trascorsa accanto alla moglie (quelle notti senza sonno di quando si sta accanto a una persona amata che sta per lasciarci) Ichino ha scritto una sorta di lettera-riflessione sul senso degli ultimi anni della vita di Costanza, quelli in cui la malattia “ha infierito più duramente”, solcati sì al dolore, ma rispetto ai quali, annota Ichino, “non ho solo una memoria di sofferenza: è stato forse il periodo più ricco e intenso di tutto il nostro matrimonio”. Una lettera d'amore che Ichino ha pubblicato sul suo blog. "Costanza ha sofferto per circa otto anni di una PSP-Paralisi Sopranucleare Progressiva (o sindrome di Richardson), che ne ha lentamente menomato, fino ad azzerarle, tutte le facoltà vitali. In questi due ultimi anni nei quali la mia vita è stata legata a quella di Costanza ancor più di quanto non fosse stata nei precedenti, per tutte le svariate necessità dell’assistenza diurna e soprattutto notturna, in molti mi hanno chiesto come facessi a sopportare questo grande sacrificio. All’inizio confesso che anch’io ne fui spaventato. Mi parve un caso in cui non si poteva applicare la grande regola secondo cui a cercare il bene nascosto in ogni situazione difficile, lo si trova sempre. Provai a impegnarmi in questa prova con uno spirito sportivo: “vediamo quanto tempo resisto”. Poi, pian piano, mi sono accorto dei tesori che questa situazione nascondeva". Scrive Ichino: "Mi ero impegnato a essere per Costanza le gambe che aveva perduto, gli occhi al posto dei suoi che non funzionavano più, e nell’ultimo periodo anche le braccia e le mani per lavarsi, pettinarsi, vestirsi, portare il cibo alla bocca; questo ben presto ha creato tra me e lei, dopo 45 anni di matrimonio, un’intimità che non avevamo mai vissuto. Ogni volta – e potevano essere decine in una giornata – che lei mi chiedeva di spostarsi dal letto o dalla poltrona alla carrozzella e viceversa era un abbraccio stretto, e qualche volta ci fermavamo a metà strada abbracciati così, indugiando a dondolarci come in un ballo cheek to cheek". "Abbiamo scoperto la delizia nuova, mai sperimentata prima, del leggere insieme ad alta voce per lunghe ore serali libri stupendi, che letti insieme diventano ancora più belli.  Ma l’intimità maggiore era quella delle sveglie notturne per una delle tante necessità, anche solo per aiutarla a cambiare posizione nel letto: accadeva che non ci riaddormentassimo subito, ma restassimo a lungo abbracciati nel letto parlando sottovoce di tutto quello che più ci stava a cuore, dai problemi di figlie e nipoti a quello che sarebbe stato di noi nelle prossime settimane e mesi". "E, a differenza di quel che accade di giorno – perché di giorno non si riesce a parlare della morte – nel buio della notte riuscivamo a parlare serenamente del tempo che ci era lasciato da vivere insieme e di quello che sarebbe seguito, nel quale lei non sarebbe stata più qui, ma che lei provava a immaginare con me, così in qualche modo lasciando in esso un segno della sua presenza. Riguardando indietro a questi ultimi due anni nei quali la malattia ha infierito più duramente su Costanza, e di riflesso su chi la assisteva, non ho solo una memoria di sofferenza: è stato forse il periodo più ricco e intenso di tutto il nostro matrimonio, che pure, nell’arco dei quasi cinquant’anni della sua durata, è stato straordinariamente ricco di vita e di lavoro comune".

"La lezione d'amore dei nostri genitori. Così hanno affrontato la malattia". Pietro e Costanza Ichino, al centro sulla sedia a rotelle. A destra le figlie Giulia ed Anna, attorno i cugini Caterina Lorenzo e Federico e i loro figli. Il racconto di Giulia e Anna, figlie di Costanza  e Pietro Ichino, il grande giuslavorista per anni "occhi e  gambe"   della moglie colpita dalla sindrome di Richardson. Caterina Pasolini su La Repubblica l'11 maggio 2020. “In questi giorni in cui tanti piangono i genitori senza neppure averli potuti salutare, noi siamo stati dei privilegiati. Mamma è morta a casa, tra le nostre braccia come aveva scelto, sedata.  I nipoti in giardino, papà sempre accanto giorno e notte. Abbiamo vissuto tutta la sua malattia insieme, col corpo giorno dopo giorno sempre più imprigionato dalla paralisi sopranucleare, e i ruoli che cambiavano, si  alternavano tra di noi: un giorno figlie e l’altro madri, ma senza che lei perdesse mai la sua straordinaria capacità di farci sentire accolte, accettate”. Giulia e Anna Ichino. Gruppo di famiglia in un interno per raccontare la  costruzione di un amore,  la storia di una malattia e di una famiglia intrecciata, nutrita da impegno e condivisione, ascolto e passioni. “Non ho solo una memoria di sofferenza: è stato forse il periodo più ricco e intenso di tutto il nostro matrimonio” ha scritto nel suo sito il loro papà, Pietro Ichino, uno dei più grandi giuslavoristi italiani, parlando degli ultimi difficili anni accanto alla sua Costanza.

La malattia ha cambiato tutto?

“Ha rinsaldato il loro legame già così speciale. Papà è stato straordinario, ha cambiato le priorità della sua vita, tanto dedicata al lavoro prima, e  ha deciso di restituire con gesti di quotidiana tenerezza e le notti accanto alla  mamma, tutto quello che aveva ricevuto in 45 anni di matrimonio. E stato capace di tenere vivo il mondo” dicono Giulia, 42 anni, editor da Giunti/Bompiani e la sorella Anna, 37, ricercatrice di filosofia alla Statale di Milano.

Come teneva vivo il mondo?

“E' stato capace di non trasformare la malattia in rancore e chiusura verso l’esterno, quando invece è facile pensare che nessuno ‘fuori’ capisca la sofferenza. Papà è rimasto vivo, aperto, anche per noi”.

Una vera lunga storia d’amore?

“Erano una coppia nata da un colpo di fulmine ma cresciuta su un’idea laboriosa dell’amore: per loro bisognava non solo voler bene ma voler, volersi bene. E ne sono stati capaci fino all’ultimo istante. Capaci di perdersi e ritrovarsi, di rispettare la vocazione dell’altro, di accogliere. È questa la loro lezione, e anche il modo in cui ci ha fatto sentire nostra madre Costanza: ascoltate e accolte, per quello che eravamo, non per come avremmo dovuto essere. Ci ha insegnato che la vera forza non è quella di chi ha energie e risorse illimitate, ma quella di chi sa accettarsi con i propri limiti e accettare gli altri”.

Com’era vostra madre?

“È stata ricercatrice in Storia, sulla Lombardia di Verri e Beccaria, poi per oltre 20 anni responsabile della redazione della Rivista italiana di diritto del lavoro e infine la nonna a tempo pieno. Una donna delicata e discreta, eppure capace di esserci sempre accanto a papà anche negli anni duri delle minacce brigatiste. Ma pure capace di cambiare, convinta – grazie ad anni di psicoanalisi da adulta – che è sempre possibile modificarsi e andare avanti, accettarsi”.

Com’è cambiato il vostro rapporto?

“È stato faticoso, anche perché all’inizio non si capiva cosa avesse, poi ci siamo ritrovate a volte ad esserle madri e ad accudirla nelle cose più intime. Senza  imbarazzi perché a casa si è sempre vissuto il corpo, nella sua gioia come nella sua sofferenza, come una parte della vita di cui non vergognarsi. Noi siamo state malate da bambine, ora toccava a noi renderle le cure.”

È diventata come una figlia?

“L’abbiamo accudita nel fisico, forse, ma in tutto lei è rimasta madre sino in fondo. Faceva piccole spese per noi, aveva in mente i nostri appuntamenti, palpitava per noi anche quando non poteva più muoversi o vedere. Capace di rispettare la nostra diversità, il nostro disordine, lei così ordinata che quando passava dalle nostre case sembrava la fata turchina. Capace di scrutarci dentro e dire: ‘togli gli occhiali neri con cui guardi te stessa’, quando eravamo ipercritiche su di noi.”

Com’erano le notti?

“Quelle le voleva fare tutte papà, pochissime volte ha accettato di lasciarsi sostituire da noi, o dalle badanti, che sono state comunque straordinarie. Noi siamo stati sostenuti anche dalla grande famiglia di cui siamo parte, non ci siamo mai sentiti soli. Il nostro pensiero corre sempre alle altre famiglie che vivono il percorso della malattia prive degli aiuti che noi abbiamo avuto: trovare la forza di compierlo senza lasciarsene annientare è difficilissimo. Comunque il papà era capace di alzare la mamma, rischiando il colpo della strega, anche cinque volte per notte se lei lo chiedeva. Restavano abbracciati o leggeva quando lei, lettrice accanita e raffinata, non ci vedeva più. Per lui le notti erano qualcosa di irrinunciabile, un momento prezioso, tutto loro. Come le poesie”.

Vostro padre le scriveva poesie?

“Ogni anno il papà regalava alla mamma l’agenda e sulla prima pagina le scriveva una poesia che era la sintesi, il punto del loro rapporto, della loro relazione. La costruzione di un amore.”

Cosa aveva chiesto Costanza?

“Di non accanirsi, di non alimentarla quando non sarebbe stata più in grado di deglutire e di comunicare. E così è stato, anche se è difficile farlo quando ami una persona. Ma mio padre si ricordava la morte del nonno, il dolore che non era stato possibile evitargli negli ultimi giorni e quindi lui e la mamma hanno fatto le Dat, il testamento biologico. Non era una donna disperata, fino all’ultimo ha sperato e progettato un futuro con noi anche se spesso il suo sconforto era profondo. Ma era appassionata della vita e profondamente spirituale.”

La religione l’ha aiutata?

“I nostri genitori sono stati cattolici un po’ eterodossi, del dissenso, per molti aspetti vicini al cristianesimo valdese: con una profonda fede nel Dio nelle mani degli uomini di cui parla Etty Hillesum, autrice amatissima da nostra madre”.

E adesso?

“Papà si è buttato nel lavoro, è un uomo dal grande senso del dovere. Ha detto che ora ‘può anche permettersi’ di prendere il Covid. Prima no, non sarebbe potuto stare lontano dalla mamma e lei senza di lui non avrebbe mai retto. Adesso torniamo a guardare avanti, forti dell’amore della nostra mamma e del pensiero della nostra nonna Francesca che diceva: La morte fa parte della nostra vita. Chi non accetta la morte non può vivere bene.”

·        Morta Betty Wright, regina del soul.

Morta Betty Wright, regina del soul e interprete di Clean up woman. A 66 anni si è spenta Betty Wright, regina del soul insieme ad Aretha Franklin; ha raggiunto il successo con Clean up woman e ha collaborato con le più grandi voci della musica internazionale. Francesca Galici, Domenica 10/05/2020 su Il Giornale. A soli 66 anni è morta la leggenda del soul Betty Wright, una delle più belle voci della musica statunitense. A darne l'annuncio su Twitter è stata la nipote, che non ha però specificato quali possano essere state le cause del decesso in un'età così giovane. Non si hanno notizie di gravi malattie che possano aver colpito la cantante. Solo lo scorso 3 maggio, sempre sui social, la sorella informò i fan che Betty Wright versava in gravi condizioni di salute, invitandoli a pregare per lei. Una delle regine del soul nacque a Miami nel 1953 e la sua carriera, così come quella di tante altre stelle della musica soul e r&b, iniziò con il gospel. La sua famiglia aveva un coro e così, fin da piccola. Betty Wright è cresciuta circondata dalla bellezza del canto. La decisione di intraprendere questa strada è avvenuta a soli 13 anni, quando è stata inserita in un coro professionista. Una gavetta necessaria per poi intraprendere la carriera da solista, che nel 1968 la porta in classifica Top 40 con il brano Girls can't do what the guys do. Tuttavia il vero successo per lei doveva ancora arrivare. Era il 1971 quando Betty Wright incide l'iconica Clean up woman. Da qui in poi la sua carriera è in continua ascesa, fino alla conquista due anni dopo di un Grammy per il brano Where is the love? Nella sua carriera si contano innumerevoli collaborazioni, compresa quella con l'immenso Stevie Wonder per la canzone What are you gonna do whit it? Ci sono anche collaborazioni più recenti per la regina della musica soul, come quella con Jennifer Lopez o con Michael Jackson. Ha scritto per loro ma ha collaborato anche per Gwen Estefan, laciando la sua firma indelebile nei brani di alcune delle più grandi icone del pop moderno e contemporaneo. La sua arte è destinata a rimanere indelebile nella storia della musica mondiale per il grande apporto artistico che ha regalato negli oltre 40 anni di carriera. Betty Wright ha avuto 5 figli ma uno di questi, Patrick, è stato brutalmente ucciso con un colpo di arma da fuoco nel 2005, all'età di 21 anni. Mai nessun colpevole è stato individuato e arrestato per quel crimine ma sua madre non ha mai smesso di cercare giustizia per il figlio. Ha sostenuto diverse cause affini negli ultimi anni, "perché quando mio figlio è morto sono riuscita a superarlo attraverso il potere della famiglia e della preghiera."

Addio a Betty Wright, icona del soul. Betty Wright, icona del soul, interprete di canzoni di grande successo come Clean up woman, Tonight is the night e No pain (no gain), è morta a Miami, in Florida, ieri all'età di 66 anni. La Repubblica l' 11 maggio 2020. Addio alla cantautrice Betty Wright, icona del soul e R&B americana, interprete di canzoni di grande successo come Clean up woman, Tonight is the night e No pain (no gain), è morta a Miami, in Florida, all'età di 66 anni. La scomparsa è stata confermata dalla famiglia, dopo che la notizia era circolata sui social.La donna era malata da tempo, la cantte Chaka Khan aveva chiesto preghiere per Betty il 2 maggio scorso scorso con un tweet: "La mia amata sorella ora ha bisogno di tutte le nostre preghiere.  In Gesù preghiamo per la sorella Betty. All My Love Chaka". Nata il 21 dicembre 1953 a Miami, in Florida, Bessie Regina Norris, meglio conosciuta col nome d'arte Betty Wright, inizia a cantare da bambina nel coro gospel della sua famiglia, gli Echoes of Joy, e a 13 anni è già solista in un coro. Nel 1968, a 15 anni, raggiunge la Top 40 con il brano GLirls can't do what the guys do e realizza il disco di debutto, My first time around. Nel 1971, a 18 anni, arriva il grande successo con Clean up woman che raggiunge il secondo posto nella classifica Rythm & Blues. Nel 1973 conquista il Grammy Award per la canzone Where is the love?. Seguono altri dischi di successo come Danger high voltage (1975) e Betty Wright Live (1978). Nel 1981 collabora con Steve Wonder per What are you gonna do with it? altro grande successo. Per tutti gli anni '80 ha continuato a incidere fino a conquistare di nuovo popolarità con No pain (No gain) del 1988. Nel corso della carriera ha collaborato con tanti artisti, tra i quali Erykah Badu, Regina Belle, David Byrne, Jennifer Lopez, Joss Stone, Angie Stone e Lil Wayne. Tra gli anni '90 e il duemila ha continuato a incidere e a esibirsi sebbene non abbia più raggiunto risultati significativi nelle classifiche. Tra i suoi ultimi album Fit for A King (2001), Betty Wright: The Movie - with the Roots (2011) e l'ultimo Living...Love...Lies (2014). 

·        È morto Little Richard, principe trasgressivo del rock'n'roll.

È morto Little Richard, principe trasgressivo del rock'n'roll. Aveva 87 anni. Travolgente, omosessuale, clownesco, esplosivo, nell'America degli anni Cinquanta incarnava l'anima più ribelle e meno addolcita. Tra le sue canzoni passate alla storia Tutti Frutti, Long Tall Sally, Lucille, Good Golly Miss Molly. Ernesto Assante il 09 maggio 2020 su la Repubblica. Elvis è stato senza dubbio il "re del rock'n'roll", ma nella famiglia reale della grande rivoluzione americana degli anni Cinquanta, il principe trasgressivo, quello che fece saltare in aria il banco delle buone maniere e delle sane abitudini, fu lui, Richard Wayne Penniman, meglio noto come Little Richard, scomparso oggi all'età di 87 anni. Fu il primo dei grandi padri del rock'n'roll a trasformare l'eccesso in una forma d'arte: travolgente, omosessuale, clownesco, esplosivo, Little Richard incarnava l'anima più ribelle e meno addolcita del rock'n'roll, il suo stile sguaiato e urlante, i suoi testi deliberatamente nonsense, scardivanano tutte le regole di comunicazione che la musica aveva vissuto fino ad allora, i suoi live show, narcisisti e grandiosi, non temevano il confronto con nessuno se non con quelli di Jerry Lee Lewis. Richard è stato, con Chuck Berry e Fats Domino, l'anima del rock'n'roll nero, animato da una fisicità travolgente, vicino al boogie e al rhythm'n'blues ma molto meno rigoroso. Decisamente poco incline alle buone maniere, in scena Richard suonava il pianoforte con i piedi, si presentava truccato in maniera eccessiva, alternava le canzoni con lunghi monologhi al limite della mitomania, era insomma il tipico esempio di "corruttore d'anime" inviso ai benpensanti. La sua teatralità era in realtà figlia della tradizione nera, gli artisti neri avevano uno stile scenico ricco di richiami sessuali e non avevano mai avuto il problema della "rispettabilità" che era proprio dei cantanti pop bianchi. Il rock'n'roll era la terra promessa di una intera generazione che cominciava a pensare alla vita in maniera diversa da quella dei genitori. Non più lavoro fisso, bella casa, famiglia numerosa, televisore in sala da pranzo, ma feste e parties tutta la notte, corse in macchina senza scopo, non più un futuro programmato dai genitori, ma la scoperta quotidiana di una vita tutta da immaginare. Il tutto racchiuso nella frase più esplosiva e chiara, per qualsiasi ragazzo dell'epoca, "Wop-bop-a-loo-mop-alop-bam-boom" o come diavolo fosse in realtà lo slogan urlato da Little Richard in apertura della sua Tutti Frutti nel 1955. Richard era nato da una famiglia canterina, terzo di ben dodici figli, tutti, assieme ai genitori, impegnati nei Penniman Singers, che si esibivano nelle chiese di Macon, Georgia, dove era nato nel dicembre del 1932. Appassionato di musica, imparò subito a suonare il pianoforte e il sassofono e iniziò la sua carriera musicale a diciannove anni, con una band di rhythm'n'blues con la quale incise diversi singoli senza particolare successo. Ma è nel 1955, con Tutti frutti e con l'esplosione del rock'n'roll che le cose per lui cambiarono radicalmente: il brano ebbe una forte programmazione dalle radio, valicò i confini del pubblico afroamericano coinvolgendo i giovani bianchi e scalò le classifiche portando Richard alla fama nazionale. La sua formula era semplice: molto ritmo, una vocalità che metteva insieme lo stile degli "shouter" con quello del pop, testi facilmente memorizzabili e spesso senza un tema particolare che non fosse l'amore o il sesso, e un'immagine decisamente diversa da quella dei "bravi ragazzi" del pop, con abiti molto colorati e vistosi, un lungo ciuffo imbrillantinato, gli occhi truccati. L'elenco delle sue canzoni passate alla storia conta, oltre alla già citata Tutti Frutti, anche Long Tall Sally, Lucille, Good Golly Miss Molly, Slippin' and slidin', mattoni solidissimi di un edificio musicale grande e duraturo, brani essenziali del repertorio di ogni buon rocker fino a oggi (dai Beatles a Springsteen, per intenderci). Nella sua band, negli anni Sessanta, militò un giovanissimo Jimi Hendrix, suo chitarrista fu anche Johnny Guitar Watson, persino Bob Dylan, giovanissimo, sognava di poter suonare con lui, e il suo stile ha influenzato generazioni intere di musicisti bianchi e neri. La sua vita è stata assai avventurosa, alla fine degli anni Cinquanta diventò un predicatore cristiano, ma già dieci anni dopo il suo universo era stato travolto da droga e sesso, e fino alla fine degli anni Settanta, tra eccessi e successi, il suo stile di vita non cambiò. Tornato a un regime più salutare, e anche all'attività di predicatore, Richard per buona parte degli anni Ottanta si limitò a frequentare comunità cristiane, fino a quando non trovò un punto di equilibro nella sua ricerca spirituale e musicale, iniziando a "servire Dio attraverso la musica" e ritornando sulle scene, suonando in tutto il mondo con una nuova band e partecipando, come attore, a film e programmi televisivi. Era un uomo gentile e di buone maniere, amatissimo dai colleghi di lavoro, mitizzato addirittura da Jagger, McCartney, James Brown, Otis Redding, David Bowie, Freddie Mercury, Prince, persino da molti esponenti del rap odierno, ognuno dei quali ha preso qualcosa dello stile di Little Richard per creare il proprio.

Marco Molendini per Dagospia il 10 maggio 2020. «A whop ba-baluma a whop bam bum»: il verso più selvaggio, carico di ritmo, erotico del rock aveva la pelle nera, il ciuffo impomatato a bomboniera, l'ambiguità sessuale di Little Richard. "Tutti frutti" faceva l'effetto di uno choc: pescata da un successo degli anni Trenta di un fantastico duo, Slim & Slam, jazzisti virtuosi e spettacolari, Richard Penniman l'aveva rilanciata in una lettura scatenata e libidinosa: «Tutti frutti, good booty/If it don't fit, don't force it/You can grease it, make it easy». Una frase troppo esplicita per l'America puritana degli anni 50, con il codice Hays che imperava e imponeva al cinema di far dormire le coppie sposate in letti separati. "Tutti frutti" diventò una canzoncina leggera, racconto di un amore giovanile, senza rinunciare a allusioni «I got a girl, her name 's Sue/She knows just what to do», sempre densa di sensualità e condita da un gridolino orgasmico destinato a far da scuola a una lunga lista di allievi, generazioni di rockers bianchi e neri (James Brown il più esplicito, macho seguace). "Tutti frutti" scalò le classifiche di vendita, arrivò al secondo posto delle chart di rhytm'n'blues americane ma, nell'apartheid, sempre confinata al pubblico nero. Per scalare la classifica generale ci sarebbe voluto Elvis Presley. Il rock era una faccenda razziale: nato nero, aveva successo in bianco. Prima si chiamava rhythm 'n'blues, versione scatenata dello swing riservato al pubblico nero (che aveva anche un suo circuito discografico separato, i race records), ora veniva scoperto dall'industria della musica. Il posto per quelli come Little Richard, ma anche Chuck Berry, Fats Domino e Bo Diddley era in seconda fila nell'America profondamente razzista della segregazione: i successi degli artisti coloured venivano ripresi, rilanciati e soprattutto venduti dai bravi ragazzi wasp con il ciuffo ala Elvis. Non solo "Tutti frutti", ma anche Rip it up, Long Tall Sally, Lucille e via dicendo. Agli autori solo spiccioli: Little Richard riceveva mezzo centesimo per ogni disco venduto, mentre aveva ceduto i diritti di "Tutti frutti" per soli 50 dollari. Gli spettava un posto di rincalzo, ma il suo talento strabordante ha varcato i confini del razzismo, sia pure pagando pegno pesante sul piano personale. Il suo personaggio esuberante, allusivo, con gli occhi bistrati, gli abiti luccicanti, i movimenti ambigui ha lasciato una lunga scia nella storia della musica, influenzando non solo il primo rock 'n'roll ma la seconda generazione del rock, i vari Elton John, David Bowie, ma anche la terza con l'evidente debito che verso il suo talento aveva Prince. Un'ammirazione mai nascosta. Anche in Italia c'è stato un tributo diretto al suo personaggio, quando Antonio Ciacci scelse come nome d'arte Little Tony (un nome che gli rimase cucito addosso anche in famiglia: ricordo una festa a casa sua sull'Appia Antica con lo zio che lo cercava: «Aho, ma andò sta Little?). Una notte, nel '59, mentre è in viaggio su un aereo durante l’ennesimo tour, sogna l’Apocalisse e vede la sua anima sprofondare tra le fiamme dell’inferno per tutti i peccati che compie in nome dell’arte e del piacere carnale. Un angelo durante il sonno gli suggerisce cosa deve fare. E così Little Richard, tormentato dal suo carattere sospeso fra diavolo e acqua santa, senso di colpa per la sua omosessualità e profondo senso religioso (da ragazzino avrebbe voluto farsi prete), decide di smettere con il rock and roll. Nel '62 il diavolo tornò alla carica e si fece convincere a fare un tour in Europa dove i suoi dischi avevano venduto benissimo ("Tutti frutti" era entrata in hit parade anche in Italia nel '59, con tre anni di ritardo). Brian Epstein, il manager dei Beatles in quel momento ancora in via di affermazione, offrì i suoi quattro ragazzi come apertura dei concerti. Nella band di Richard, in quel momento, c'era un chitarrista ritmico che si chiamava Jimi Hendrix (ma sarebbe durato poco, perché il leader non amava la sua esuberanza in scena). Fra i musicisti che lo accompagnavano c'era anche un organista sedicenne, Billy Preston (pare avesse una storia con il boss, ai tempi), destinato a diventare il quinto Beatles. L'anno seguente ad accompagnarlo in tour c'era un'altra formazione in ascesa, i Rolling Stones. La storia di Little Richard è una storia di abbandoni e ritorni, di lotta con se stesso e con la sua sessualità: «Sono omni-sessuale» dichiarò una volta. Confessò di amare il voyeurismo e di pagare per vedere coppie che facevano sesso. Una volta venne anche arrestato perchè sorpreso in una stazione di rifornimento a Macon in Georgia, la sua città, gli agenti lo sorpresero dentro una macchina mentre guardava una coppia eterossessuale che faceva all'amore. Ma non c'è dubbio, è giusto riconoscerlo ora che se ne è andato a 87 anni, a sessant'anni dalla sua prima sparizione, ma anche dalla sua fase fulminante creativa: oltre alla sua voce stridula e potente, al suo senso del ritmo travolgente, alla sua esuberanza e spettacolarità (quanti hanno copiato le sue evoluzioni sul pianoforte), buona parte del suo talento pagava pegno proprio a quell'anima sofferente, a quell'ambiguità, a quell'emotività repressa capace di esplodere in un grido profondo e incontrollabile: «A whop ba-baluma a whop bam bum».

Dagonews il 10 maggio 2020. Il tweet di Bob Dylan su Little Richard: Ho appena saputo di Little Richard e sono così in lutto. Era la mia stella brillante e la mia luce guida quando ero solo un ragazzino. Il suo è stato lo spirito originale che mi ha spinto a fare tutto quello che poi ho fatto. Sono stato in tour con lui in Europa nei primi anni Novanta e ho potuto passare parecchio tempo insieme nel suo camerino. Era sempre generoso, gentile e umile. E ancora dinamite pura come performer e musicista, potevi ancora imparare tantissimo da lui. In quei momenti, lui era sempre lo stesso Little Richard che avevo sentito la prima volta e mi aveva sbalordito, e io ero sempre lo stesso ragazzino. Certo che vivrà per sempre. Ma è come se una parte della tua vita non ci fosse più. Bob Dylan nella dedica del suo annuario scolastico, l'ultimo anno di liceo (1959) scrisse che la sua ambizione era ''unirsi a Little Richard''. E avrebbe emulato il suo modo di esibirsi nella sua primissima esibizione pubblica, a un talent show della Hibbing High School, due anni prima.

Ilmattino.it il 9 maggio 2020. Con Jerry Lee Lewis era rimasto l'ultimo padre fondatore del rock and roll vivo: con la scomparsa  a 87 anni di Little Richard, nome d'arte di Richard Wayne Penniman (Macon, 5 dicembre 1932) si chiude quasi definitivamente una delle pagine musicali, e di costume, del Novecento. The original king of rock and roll, come lui amava farsi chiamare non riconoscendo il reame del «bianco» Elvis Presley, negli anni Cinquanta imposte il suo sound sound ritmato e veloce unito a una interpretazione vocale innovativa e a un look decadente. Trasgressivo e oltraggioso per i tempi, ha attraversato la seconda metà del secolo scorso tra crisi religiose, ritiri e ritorni in scena, mentre generazioni di nuovi musicisti (soul, funk, rap) veniva influenzati dal suo stile e i suoi successi, a partire dal suo cavallo di battaglia «Tutti frutti» sino a «Long tall Sally», «Slippin' and slidin'», rip it up, «Lucille», «Good golly miss Molly». James Brown lo riteneva il suo idolo perché, spiegava, era stato il primo a mischiare il funk con il rock and roll negli anni cinquanta. Otis Redding gli riconosceva un ruolo da padrino del soul, per Ray Charles era «un uomo che diede inizio a un genere di musica che gettò le basi per molto di quello che venne in seguito», per Bob Diddley «un genio dello show business unico nel suo genere». Idolatrato anche da Paul McCartney e Mick Jagger, come da Bob Dylan che negli anni scolastici dichiarò di sognare di entrare nel suo gruppo, e da Jimi Hendrix, che dichiarò: «Voglio riuscire a fare con la mia chitarra quello che Little Richard fa con la sua voce».

ESISTE UN PERFORMER PIÙ “QUEER” DI LITTLE RICHARD? Claudia Perry per “Medium”, articolo del 27 luglio 2017. La presenza “queer” nella musica pop è stata massiccia, anche se il pubblico etero non è stato in grado di coglierla sempre. Da Little Richard alla “sissy bounce” di New Orleans, il “queer” continua a esistere, sia in classifica che nell’underground. Se scorrete queermusicheritage.com  scoprirete una sottocultura di uomini gay che fanno cover di canzoni che negli anni Sessanta erano cantate da gruppi di donne. La nascita del rock ‘n’ roll ha coinciso con la liberazione “queer”. Le due prime organizzazioni di genere (“Mattachine Society” e “Daughters of Bilitis”), risalgono proprio agli anni Cinquanta, e, all’epoca, la polizia era solita fare blitz nei bar e nei locali in cui si ballava. A New York era vietato danzare con una persona dello stesso sesso, e quando uscirono Little Richard e Chuck Berry, i genitori cominciarono a preoccuparsi per i loro ragazzi. Esiste un performer più “queer” di Little Richard? Usava trucchi, parrucche, ammiccava, si dimenava. Le parole originali di “Tutti Frutti” erano esplicite, si riferivano a sesso anale e “fruity” (si traduce “cosa da checca”) era un termine slang con cui al tempo ci si riferiva ai gay. Lesley Gore era lesbica e le sue famose “crying songs” scaturivano dall’impossibilità di esprimere il proprio orientamento sessuale. Fu la prima ad usare l’espressione femminista “You Don’t Own me”, ma le sue ascoltatrici erano convinte che lei cantasse di amori maschili. Brian Epstein, manager dei Beatles, era “queer” e “You’ve Got to Hide Your Love Away” fu per molti un inno di genere. Nella compilation di Jon Savage “From the Closet to the Charts: Queer Music 1961–1978”, c’è tutto ciò che è sfuggito all’audience disattento, da “Do you come here often” dei Tornados a “See My Friends” dei Kinks. Savage ha anche scoperto una etichetta gay californiana di nome “Camp” che aveva per slogan: “Più selvaggi, più pazzi e più gay dell’acconciatura dei Beatles!”. Gli artisti sono rimasti anonimi ma le canzoni parlavano di rimorchio, di incontri sessuali e di arresti. Se si facevano simili dischi, significa che c’erano degli acquirenti. Nello stesso periodo i dischi della drag queen Jose venivano spacciati agli etero come materiale da “party”. Dopo i moti di Stonewall, i queer erano ovunque. David Bowie si era dichiarato bisessuale e così aveva fatto Elton John, prima di identificarsi come totalmente omosessuale. Il Glam rock era un paradiso, Marc Bolan era un’ispirazione sul palco e “The Rocky Horror Picture Show” una rivelazione. Anche se non potevi vestirti come loro a casa o a scuola, era di conforto vedere qualcuno che ti rappresentava e che aveva successo. C’erano già state artiste donne “queer” (le folk singers Holly Near e Ferron per esempio), ma furono le incredibili Fanny, band tutta al femminile, a tirare fuori l’energia sessuale che il rock richiedeva. Senza loro, non sarebbero seguite le altre che conosciamo (vedi Beth Ditto dei Gossip). Anche la disco era multirazziale e pansessuale. Sylvester era imbattibile, mentre i Village People, con “YMCA” funzionavano più con il pubblico etero che con la vera cultura disco-queer. Nei Settanta, Savage segnalava due pezzi R&B assolutamente pro-queer: “Closet Queen” di Chairmen of the Board e “Ain’t Nobody Straight in L.A.” dei Miracles. Il punk era altrettanto pro-queer, basti pensare ai travestimenti e all’ambiguità sessuale dei New York Dolls, a brani come “Oh bondage Up Yours!” di X-Ray Spex o “Sing If You’re Glad to be gay” della Tom Robinson Band. Il punk rock è un altro ambito seguito dagli etero che non si erano accorti di nulla. Il post-punk? Trucco per tutti: Culture Club, Frankie Goes to Hollywood, Bronski Beat, The Smiths. Il punk americano era un po’ più mascolino con i  Ramones e misterioso coi Velvet Underground. Intanto i Queen stavano per diventare la più grande band del pianeta. Che Freddie Mercury fosse “queer” si vedeva lontano un miglio, anche se lui si dichiarò solo il giorno prima di morire di AIDS, nel 1991. Molti etero rimasero sorpresi. Poi, ovviamente, c’era Prince che si presentava sessualmente ambiguo e, negli anni Ottanta, Melissa Etheridge divenne una star. Nessuno si chiedeva come mai le sue canzoni d’amore non avessero mai un pronome specifico. I “queer” se lo chiedevano. Negli anni duemila, qualcuno ha fatto coming out per reinventarsi, altri non lo hanno fatto. Non avevano la spada di Damocle dell’AIDS che gli pendeva sulla testa come era capitato agli artisti degli anni ’80. E in genere, che lo dichiarino o lo lascino intuire, si tratta di bianchi esponenti del mondo pop-rock. Che succede se sei nero e fai hip-hop? Avrai qualche problema con gente sessista e razzista come Eminem. Frank Ocean ha fatto del suo meglio, pubblicando nel 2013 “Channel Orange”, un disco che raccontava il suo amore per un uomo. E non è un artista underground.

·        E’ morto Piero Gelli, il risvolto snob dell'editoria.

Firenze, addio a Piero Gelli, testimone della grande editoria del secondo dopoguerra. Si è spento a 81 anni a Firenze; fu direttore di Garzanti, Einaudi e amico di tanti scrittori, da Gadda a Caproni. Fulvio Paloscia il 09 maggio 2020 su La Repubblica. E' morto nella mattinata di sabato 9 maggio a Firenze, all'età di 81 anni,Piero Gelli, silenzioso e lucidissimo protagonista della letteratura e dell'editoria del secondo dopoguerra italiano, nato a Sesto Fiorentino nel 1939. Il suo nome, infatti, è legato alla direzione di Garzanti, dove approdò subito dopo la laurea in storia della lingua conseguita all'ateneo fiorentino sotto la prestigiosa docenza di Giovanni Nencioni, e dove rimase per una ventina d'anni, per poi passare ad Einaudi. Persona di cultura sterminata e per niente esibizionistica, grande amante della lirica - passione che aveva nutrtito frequentando le edizioni storiche del Maggio Musicale Fiorentino - si era avvicinato alla lettura divorando i libri della biblioteca circolante di Sesto. Poi gli studi universitari, la tesi su Carlo Emilio Gadda (che avrebbe in seguito conosciuto) contribuirono  fare di lui un intellettuale finissimo, dotato di un'ironia proverbiale negli ambienti letterari - è ormai storia la leggera maestria con cui riusciva a mitigare il carattere burbero e irascibile di Livio Garzanti, e la giocosità con cui scherzava sull'omonimia imbarazzante con un altro Gelli, Licio - e di una grande gentilezza e umiltà, nonostante la storia illustre e le esperienze che aveva accumulato. E fu proprio grazie all'autore del Pasticciaccio che Gelli intraprese la strada  dell'editoria: chiamato da Garzanti nel 1968 a studiare alcuni inediti dello scrittore (tra i quali scovò il manoscritto de La meccanica), non abbandonò mai quel mondo; dal 1980 al 1983  lavorò a Rizzoli, fianco a fianco con Oriana Fallaci; poi, dopo un breve ritorno a Garzanti - fu testimone dell'abbandono, da parte di Pasolini, della casa editrice che lo aveva "lanciato" - il passaggio a Einaudi dove, con Oreste Del Buono, inaugurò la collana dei tascabili e dove, tra l'altro, lavorò alla pubblicazione del romanzo postumo di Pasolini, Petrolio; al nome di Piero Gelli infine è legata la stagione più florida di Baldini e Castoldi: quella dei best seller di Susanna Tamaro e Giorgio Faletti. E proprio per la casa editrice milanese aveva curato, nel 1997, il Dizionario dell'Opera, opera di riferimento per cultori e neofiti. Amico di tanti grandi della letteratura italiana - da Giorgio Caproni a Attilio Bertolucci, da Sandro Penna a Arbasino - Gelli ha scritto per l'Unità, per Alias, e ha curato opere di Gide per Bompiani e la monografia di Massimo Mila su Verdi per Rizzoli.

 Piero Gelli, il risvolto snob dell'editoria. Ai vertici di Garzanti, Rizzoli e Einaudi, segnò una stagione culturale. Luigi Mascheroni, Domenica 10/05/2020 su Il Giornale. Molto sofisticato, appassionato di cinema e di opera (suo un famoso Dizionario), lettore formidabile armato del tipico snobismo culturale di chi, lavorando ai massimi livelli editoriali quando l'editoria era nella sua epoca d'oro, poteva dialogare alla pari con Pier Paolo Pasolini (cosa che in effetti faceva), Piero Gelli è stata una figura di peso del mondo intellettuale italiano, soprattutto fra gli anni Settanta e Ottanta. È morto ieri, nella sua casa di Firenze. Aveva 81 anni. Per la bio-bibliografia definitiva si veda l'intervista che gli fece Antonio Gnoli su Repubblica cinque anni fa, nel marzo 2015. Comunque, Gelli aveva lavorato per molto tempo come direttore editoriale in Garzanti quando c'era Livio, dai primi anni Settanta, e poi - ricoprendo lo stesso incarico - per un breve e non felicissimo periodo in Rizzoli, dal 1980 all'83 (quando direttore generale era Bruno Tassan Din, legato a doppio filo con il suo scomodo omologo, Licio...), quindi di nuovo in Garzanti, poi dal 1989 al '93 in Einaudi, in un momento particolarmente confuso per lo Struzzo (ma lì Gelli curò personalmente la pubblicazione di Petrolio di Pasolini), e infine nella Baldini e Castoldi dei successi di Faletti e della Tamaro... Lui che si era laureato in Filologia su Carlo Emilio Gadda, che poi conobbe, frequentò e studiò (fece anche pubblicare l'inedito La Meccanica), lui che aveva un'ammirazione per Sandro Penna e adorava André Gide...Grande uomo dei libri che non ha mai ceduto alla vanagloria di scriverne uno, magari addirittura un romanzo, e magari farsi candidare allo Strega - come invece accade oggi per vanità senile a qualche altro grande direttore editoriale del tempo che fu - Piero Gelli era non solo un editor di fiuto, un critico raffinato, alfiere dello scrivere pulito, musicofilo (per molti anni presentò i programmi musicali di Raitre e fece parte del cda del Teatro alla Scala), traduttore e curatore (di antologie di poesia, per esempio) e amabilissimo conversatore, come testimonia chi gli fu amico (...c'era qualcosa di arbasinesco e di diverso in lui...) ma fu anche in qualche modo un simbolo di quella gloriosa editoria fatta da persone colte che avendo letto i grandi autori potevano anche pubblicare spazzatura, per giustificate ragioni editoriali, ma sapendo che lo era. Mentre oggi, non sapendo la differenza, si giustifica la spazzatura facendo finta di pubblicare grandi autori, come quelli che non si sono neppure letti.

Piero Gelli: "Quando Livio Garzanti zittì Pasolini capii che il divorzio era consumato". Il direttore editoriale: "Fu una specie di chiarimento. Tutto ebbe origine da un telegramma nel quale l'intellettuale chiedeva spiegazioni su uno scrittore che la casa editrice aveva deciso di pubblicare. Il tono sembrava ultimativo: mi dica se è vero che ha preso un autore a me inviso". Antonio Gnoli il 09 marzo 2015 su La Repubblica. Credo che Piero Gelli fosse rimasto il solo, al di fuori della famiglia, a vedere ancora in vita Livio Garzanti: "Capitava che mi affacciassi. Vede questo galletto nel piatto? Si era ridotto così. Ristretto. Stranamente mitopoietico nel suo modo di volgersi al passato. Sospettavo che fosse perfino diventato buono. L'ultima volta che lo incontrai con la voce ormai spenta disse: ma lei perché ha tanti amici e io nessuno? E ho ripensato alla sua vita. Al suo carattere sgradevole, asociale, dissonante. Mi veniva in mente André Gide, un uomo animato da pulsioni contrarie". Nel ristorante romano dove sediamo le voci e i rumori creano un sottofondo di distrazione. Gelli socchiude gli occhi e la voce, intimamente fiorentina, lancia qualche amo nel passato: "Non distante da qui c'era un tempo l'Augustea. Un giorno con Garzanti vi incontrammo Pasolini. Nessuno poteva immaginare che di lì a poco sarebbe morto".

Perché vi vedeste?

"Fu una specie di chiarimento. Tutto ebbe origine da un telegramma nel quale Pasolini chiedeva spiegazioni su uno scrittore che la casa editrice aveva deciso di pubblicare. Il tono sembrava ultimativo: mi dica se è vero che ha preso un autore a me inviso".

Chi era?

"Alberto Bevilacqua. Organizzai il pranzo all'Augustea per smussare le posizioni. Per nulla preoccupato Garzanti sembrava un felino pronto ad attaccare. Pasolini parlò dello stile di una casa editrice, delle scelte coerenti e degli autori che la compongono. Garzanti ascoltava. Poi, improvvisamente lo interruppe: "Lei ora è diventato soprattutto un cineasta. Non faccio film, ma libri. Ci lasci l'opportunità di pubblicare anche altro. Anche ciò che non le piace". Poi restò in silenzio. Capii che il divorzio si stava consumando. Era consumato. E a quel punto avrebbero parlato le carte, i documenti, i contratti. Ma c'era una cosa che non potevamo prevedere".

La morte di Pasolini?

"Sì, sarebbe avvenuta due mesi dopo quell'incontro. Era il 1975. Chi poteva immaginare che da quella morte violenta la casa editrice avrebbe ristampato non so quante volte i suoi libri. Ricavandone profitti impensabili. Le racconto questo non per qualche forma di cinismo. Ma perché sono sempre più convinto che la nostra vita è governata dal caso. Fin dalle origini, dal posto in cui nasci".

Dove è nato?

"A Sesto Fiorentino. L'ottanta per cento della popolazione era composta di comunisti tosti. Mio padre apparteneva al rimanente venti per cento. Era segretario della Democrazia cristiana di Sesto. Nel 1948 ci fu l'attentato a Togliatti. Vennero a centinaia sotto casa nostra. Minacciosi. Urlanti. Non ho mai visto mio padre così terrorizzato".

A parte occuparsi di politica cosa faceva?

"Avevamo una piccola industria. Erano gli anni a ridosso del boom. Le fabbrichette crescevano tutte intorno alla Richard-Ginori e all'Arrigoni. C'era un teatro ottocentesco e una biblioteca circolante che apriva il giovedì e la domenica. Qui, fino a quindici anni, ho sperimentato le prime passioni: Dostoevskij, Tolstoj, ovvio, il Proust telato dell'Einaudi, Pirandello, Moravia, e tutti gli altri, ma soprattutto Gide. Questa biblioteca esiste ancor oggi, è bellissima rinnovata e intitolata a Ernesto Ragionieri che fu mio professore di Storia contemporanea alla facoltà di lettere".

Si respirava ancora l'aria pratoliniana?

"Pratolini, in quegli anni, era diventato demodé, Metello suonava già barlaccio anche presso i più irriducibili neorealisti-marxisti".

"Barlaccio"?

"Sì, stantio, marcio, alterato nella forma come nella sostanza ".

I romanzi degenerano rapidamente?

"Dipende. Se sono protetti dallo scudo ideologico è facile coglierne i limiti. La grande letteratura non ammette scorciatoie".

Lei ha studiato filologia?

"Ho fatto l'università a Firenze. Fu una stagione forse irripetibile. Vi insegnavano Cantimori, Contini, Garin. Ma devo dire che il terreno fu fecondato già prima. Quando ormai quindicenne le mie giornate e nottate divennero fiorentine. Fu la scoperta del cinema e della musica a segnare quel periodo".

Cosa vedeva?

"Tanti film, quasi tutti i giorni: i primi Fellini, i Visconcui ti, Hitchcock, i francesi, Clouzot, Autant-Lara, Clement. E poi l'opera, la Callas ancora grassa, ne I Puritani, diretta da Tullio Serafin. La fanciulla del West diretta da Mitropoulos e regia di Curzio Malaparte, spettacoli memorabili sul duro marmo delle gradinate del Comunale. Molti pomeriggi al Gabinetto Vieusseux, accogliente, piacevole tra la riservatezza e l'umanità di Alessandro Bonsanti: lì capitavano sempre Luzi, Betocchi, Dallapiccola, Bilenchi, prima ancora dell'Università".

E poi una laurea in filologia?

"Mi sono laureato con Giovanni Nencioni su Carlo Emilio Gadda, che poi ho conosciuto grazie all'amicizia di Giuseppe Bertolucci, ma soprattutto di suo padre Attilio. Furono anni intensi. Ricordo Giacomo Devoto con la sua faccia orientale. Un giorno da una porta della biblioteca di facoltà, allora in piazza San Marco, uscì un vecchietto azzimato con tanto di farfallino; e io: "Ma lei è Umberto D!" E infatti era il glottologo Carlo Battisti, ormai pensionato anche lì come nel film, ma felicissimo che l'avessi riconosciuto. Andavo a trovarlo spesso, in quel primo anno di università. Mi era talmente grato che mi regalò i cinque volumi del suo Dizionario Etimologico Italiano che conservo ancora adesso. Da qui è nato il mio interesse per la glottologia e filologia, poi lo strutturalismo, e anche il mio amore per Gadda".

Che ha conosciuto bene?

"Direi di sì. Venni a Roma, abitava in via Blumenstihl. Mi fermai alcuni giorni. Discutemmo di tutto. A pranzo si andava in una trattoria non lontano dall'abitazione. Gadda era visibilmente preoccupato che io mi accollassi le spese del soggiorno. Pretese di passarmi del contante con mi sarei pagato il soggiorno di quella straordinaria settimana".

Si è molto insistito sulla sua timidezza, al limite del patologico.

"Era imbranato e profondamente convinto che un gesto poco convenzionale avrebbe prodotto catastrofi ingovernabili. Esigeva che il suo ordine mentale fosse al riparo dall'imprevisto. Tanto la sua lingua era ricca di invenzione e vitalità quanto la sua vita doveva essere povera di eventi".

In fondo non gli si riconoscono passioni e storie.

"Si è molto malignato sulla sessualità di Gadda. Sandro Penna si spinse a dire che insieme si appostavano nei vespasiani in attesa dei militari. Falso. Semmai era Penna aduso a queste pratiche. Sono convinto che Gadda per tutta la vita restò vergine. Non mi chieda perché. Ma non lo vedo lasciarsi coinvolgere da una donna né tanto meno da un uomo. Fu un personaggio straordinario dotato di una disciplina nevrotica e divorato dai limiti mentali che seppe imporsi".

In che misura questi limiti agirono sulla sua scrittura?

"La grandezza di Gadda è stata di aggirare in letteratura quei limiti. O servirsene come fondo oscuro di ne vrosi capace di alimentare la sua creatività. Ma a un certo punto la vena si inaridì".

Ossia?

"L'ultima grande cosa fu la riscrittura del Pasticciaccio . Il suo dramma, secondo me, è che quando divenne famoso esaurì la sua forza creativa".

Si è chiesto perché accade?

"È una questione irrisolvibile. Perché Verdi a ottant'anni scrive il Falstaff e Rossini a 35 è un artista finito, un sopravvissuto? Non ho risposte convincenti".

Fu Gadda ad aprirle le porte della Garzanti?

"Sì, gli devo anche questo: aver orientato la mia vita nell'editoria. Come giovane esperto di Gadda fui convocato in casa editrice a studiare alcuni inediti dello scrittore. Per tre giorni, era il 14 dicembre del 1969, mi chiusi negli archivi di via Spiga. E scoprii tra le varie cose l'inedito de La Meccanica. Garzanti mi assunse e con qualche intervallo sono rimasto per circa vent'anni al suo fianco".

Quando dice intervallo a cosa allude?

"Ho trascorso un periodo alla Rizzoli. Tutt'altro che glorioso. Si era in piena P2. Tassan Din ero il vero capo, il referente di Licio Gelli. Con il cognome che avevo molti pensavano a una parentela. Ovviamente inesistente. Ricordo che all'Excelsior il barman mi serviva un intruglio dentro una flute: lo beva, piace molto a suo zio! Stetti alla Rizzoli dal 1980 all'83. Pubblicavo Ortese, Manganelli. Libri belli che non vendevano. Alla fine mi misero al fianco di Oriana Fallaci".

Come fu il rapporto?

"Ero un po' a mezzo servizio. La seguivo nei suoi spostamenti. Andai con lei a Mosca. Voleva assolutamente intervistare Breznev. Non ci riuscì. E per tutto il viaggio di ritorno fu insopportabile. Era odiatissima. A volte da Roma l'accompagnavo nella sua casa in Chianti. Dove c'era il padre ad attenderla. "Babbino caro, come stai?", chiedeva. Ma anche il padre non la sopportava. Però era una donna straordinaria. Tenace come poche. L'ho amata nonostante la sua villania. Ma non avrei mai più potuto lavorare con lei".

Perché?

"Troppo stress, troppi ripensamenti, troppi insulti. Quando a un certo punto tornai in Garzanti mi fu, dopo un po' di tempo, offerta la possibilità di andare a lavorare da Einaudi o tornare alla Rizzoli. Oriana mi telefonò chiedendomi di tornare. Stava scrivendo Insciallah. Non avevo alcuna voglia di seguirla in questa nuova e faticosa avventura. Scelsi Einaudi".

Chi l'aveva chiamata?

"Alessandro Dalai che era il direttore amministrativo e nipote di Oreste Del Buono".

Che clima trovò?

"Non buono. C'era in atto uno scontro tra Giulio Einaudi e Dalai. Tra due concezioni. Una ancora legata al passato, al suo editore e alla figura di Roberto Cerati e l'altra che tentava il fatidico svecchiamento. Da direttore editoriale il mio ruolo divenne sempre più marginale. Compresi due cose: l'inutilità dei cosiddetti mercoledì; e il fatto che tutte le vere decisioni venivano prese durante le cene. Alle quali non andavo. Sono stato a Torino dal 1989 al 1993. Realizzai Petrolio di Pasolini. Mi sembrava che quell'autore così importante negli anni di Garzanti tornasse a nuova vita con un romanzo misterioso e incompiuto ".

Che ricordo ha di Sandro Penna?

"Un grande poeta. Lamentoso e malevolo. Si nutriva delle confezioni della Nipiol. Pensavo: ecco un modo curioso di tornare all'infanzia".

Nel suo mondo tra Firenze e Milano una figura di rilievo fu Franco Fortini. Cosa le fa venire in mente?

"Era coltissimo, vanaglorioso, sospettoso, maldicente, anche divertente per tante sue ubbie. In realtà un uomo insopportabile. Ricordo che una volta gli ho proposto la prefazione, sempre per i grandi libri Garzanti, di un romanzo di Solgenitsyn appena tradotto dalla Olsufieva (che viveva a Firenze), Divisione Cancro. Lui sospettò un tiro mancino politico e al telefono inveì contro la mia ipocrisia. Non ho mai capito però in che cosa sarebbe consistito questo tiro mancino. Una volta mi disse che solo al cattivo gusto dei fiorentini, come Baldacci e me, si deve la fama immeritata di un pessimo scrittore come Tozzi".

Ha mai pensato di essere scrittore in proprio?

"Mai, soprattutto da quando ho cominciato a lavorare in casa editrice e a leggere inediti o novità estere. Ho pensato talvolta di scrivere sotto pseudonimo un thriller, ma non ne sarei stato capace, non so mantenere un segreto. Forse, se mi resta qualche anno da vivere, prima che la memoria svanisca nella demenza senile, scriverò delle memorie, di persone che vorrei ricordare come le ho conosciute, stimate, amate, come mi sono divertito con loro, un cimitero di nomi ormai, a Firenze, Roma, Milano. Evitando tante sbrodolature vanitose e sentimentaloidi di certi miei colleghi".

È possibile oggi una definizione dello scrittore?

"Per me, dico per me, uno scrittore vero, non un bellettrista, un autore di narrativa di genere, sta a metà strada tra un profeta o un missionario e un matto".

Cos'è un intellettuale?

"Nonostante il discredito odierno del termine, un professionista irrequieto, curioso e vago, anzi vagolo o vagotonico ".

Quanto ha pesato in lei la vanità?

"Abbastanza ma non troppo; sono stato per lungo tempo un partigiano delle cose futili".

Cosa le piace e cosa rifiuta del suo carattere?

"Mi piace di aver scelto la mia strada da solo e di aver trovato in ogni situazione di lavoro e di carriera, anche la più rognosa, la capacità di divertirmi, di vedere anche il lato comico di ciò che accadeva. Di me detesto la trascuratezza, la vaghezza, l'incostanza. Negli altri, tante cose, il rumore, lo sporco, la musica dovunque. Nei colleghi, negli scrittori, nei giornalisti, nei politici, insomma nei cosiddetti intellettuali: la presunzione e l'ignoranza".

Sono i nostri tempi più veloci o mediocri?

"Più veloci senz'altro, vorrei dirle anche più mediocri se non avessi il sospetto della laudatio temporis acti, tipica di chi sa di essere un sopravvivente".

·        Morto Franco Cordero, il giurista che inventò il "Caimano".

Morto Franco Cordero, il giurista che inventò il "Caimano". Raffinato uomo di legge, anticlericale, intellettuale militante si è spento a 92 anni. Indimenticabili le sue polemiche contro Berlusconi al quale dedicò il soprannome. Roberto Esposito l'08 maggio 2020  su La Repubblica. Con Franco Cordero scompare una delle figure più raffinate e poliedriche della cultura italiana contemporanea. Ma anche un intellettuale militante, impegnato in battaglie civili contro il lato oscuro del potere politico ed ecclesiastico italiano. Nato a Cuneo nel 1928, ha attraversato l'ultimo secolo, lasciando una traccia indelebile non solo nel campo del diritto di cui è stato riconosciuto maestro, ma anche in quelli della riflessione filosofica, teologica, antropologica. E infine nella letteratura con una serie di romanzi - tra i quali Opus, Bellum civile, L'armatura - di lettura non semplice, ma scritti con uno stile personalissimo che gli assegna un ruolo non secondario nella letteratura degli ultimi decenni. Allievo di Giuseppe Greco, ha insegnato in diverse Università italiane, tra cui Trieste, Torino, Roma, dove ha chiuso nel 2002 la propria brillante carriera accademica. Ma certamente l'esperienza che più lo ha segnato, diffondendo il suo nome anche all'estero, è stato l'insegnamento alla Cattolica di Milano, allora diretta da Agostino Gemelli, iniziato nel 1960. Entrato in conflitto per la sua posizione di intransigente polemica nei confronti della parte più retriva della gerarchia ecclesiastica, è stato espulso dalla Cattolica, scatenando quello che, sulle pagine dei quotidiani italiani e stranieri, ha assunto il nome di "caso Cordero". L'occasione dello scontro, non cercato ma neanche evitato da Cordero, è stata la pubblicazione del testo intitolato Gli osservanti (1967) ma soprattutto il successivo romanzo Genus che nel 1969 gli costerà l’allontanamento dalla cattedra. Accusato di eterodossia e attaccato frontalmente dalla destra cattolica, Cordero ha risposto con altrettanta nettezza, scatenando una polemica arrivata perfino alla Corte Costituzionale. Da allora la sua persona è diventata occasione di continue controversie. Attaccato dagli ambienti confessionali, è diventato per altri una bandiera di indipendenza e di libero pensiero. I suoi scritti, alcuni memorabili, vanno dalla tecnica giuridica - il suo manuale di procedura penale, ristampato più volte, costituisce ancora riferimento essenziale per gli studi di diritto - alla filosofia, alla teologia, all'antropologia. Ciò che di essi colpisce è la straordinaria miscela di erudizione e originalità, di filologia e di spregiudicatezza ermeneutica. Se la sua monumentale biografia di Savonarola in quattro volumi contiene ancora una miniera di informazioni per gli studiosi, il suo Commento alla Lettera ai Romani di Paolo di Tarso continua a sorprenderci per la radicalità della sua interpretazione, allo stesso tempo fedele ed estrema. Oggi, in una cultura accademica sempre più proclive a uno specialismo senza nerbo, la vastità e la poliedricità del suo sapere restano una sorta di unicum con cui è difficile stabilire confronti. Ma questa molteplicità di interessi e di linguaggi non sfocia mai in una sorta di vacuo eclettismo, tanto meno in divulgazione. Al contrario il suo stile di scrittura, a volte denso fino all'ermetismo, costituisce per il lettore una sfida che non può lasciare indifferenti. Si può anzi dire che, nonostante l'ampiezza di orizzonti della sua cultura, tutti i suoi testi sembrano convergere verso un fuoco centrale, al contempo teoretico ed etico-politico. La forza - nel senso pieno del termine - di Cordero stava nel rifiutare ogni compromesso, ogni risposta troppo facile a questioni complesse, come quella del rapporto tra sacro e profano, teologia e politica, eternità e tempo. Tra di essi, per Cordero, non c'è possibilità di sintesi dialettica. Ma continua tensione tra poli irriducibili, necessari l'uno ad illuminare l'altro non per analogia, ma per contrasto. Egli c'insegna che le grandi contraddizioni, nella vita e nel pensiero, non hanno mai soluzioni facili. Il suo - potremmo dire - è un pensiero teologico-politico consapevole del rischio di ogni sovrapposizione tra teologia e politica. Come è impossibile fondare razionalmente il sacro, così va evitato ogni sacralizzazione del potere. Che anzi è ciò che Cordero ha combattuto per tutta la vita. Alla fine dell'insegnamento universitario Cordero ha potenziato il proprio impegno politico attraverso una serie di interventi, articoli, polemiche rimaste insuperate per la loro radicalità e anche fantasia semantica. Come dimenticare le vere e proprie invenzioni lessicali, come quelle indirizzate contro Berlusconi, identificato ora con il "Caimano", ora con un Mackie Messer contemporaneo? Le sue polemiche nei confronti del collasso della cultura politica italiana dei due ultimi decenni hanno avuto un tono aspro e duro, come era il suo carattere. Oggi forse non sono più di moda. Ma basta rileggere alcuni suoi titoli - da Nere lune d'Italia a Morbo italico - per accorgersi che quei libri parlano ancora di noi. La sua etica, lucida e disperata, è una luce della quale c'è ancora bisogno. Il suo discorso, leopardiano, sopra lo stato presente dei costumi italiani non ha smesso di interpellarci. Esso attende ancora una risposta e una promessa di riscatto all'altezza delle sue domande.

Ezio Mauro per ''la Repubblica'' il 9 maggio 2020. «Qui posso studiare», diceva Franco Cordero mostrando con un gesto della mano i libri che lo circondavano nello studio, fuori casa, dove si ritirava ogni giorno dal mattino presto tra prime edizioni, volumi rari, codici antichi. Dopo una vita passata a insegnare, il professore voleva soltanto studiare, continuare a imparare, sapere. Il rigore piemontese, quasi ascetico, dava un ritmo metodico alle sue giornate, interrotto soltanto dall' ora fissa in piscina, pure questa imposta come esercizio: anche se in acqua, probabilmente, continuava a pensare diritto. Nel suo pensiero c' è l' impronta costante della filosofia del diritto, che coltiva dopo aver seguito Giuseppe Grosso nella storia del diritto romano. Qui cresce il culto per Dike, figlia di Zeus e di Temi, costretta a lasciare la terra per la vergogna della corruzione umana, trasformata in dea della giustizia e - come Astrea - stella nella costellazione della Vergine. Dike, nel disegno di Cordero, continua a lottare per stabilire il suo ordine nell'uguaglianza degli uomini, che in ogni epoca le professano devozione mentre la tradiscono quando salgono al potere. Il potere compare davanti al professore quando l' Università Cattolica gli toglie la cattedra, nel 1969,escludendolo dall' insegnamento, perché il libro Gli osservanti viene accusato di non essere conforme all' ortodossia. Un reato di pensiero, negli anni in cui la contestazione spalanca le università e mette in crisi l' autoritarismo accademico. Cordero replicherà con la Risposta a monsignore, raccontando l' ultima ora sul rogo di un eretico a cui i monaci strappano una conversione, per poi mandare comunque avanti il carnefice, che lo strozza: «Ogni particolare della messinscena traspira amore del prossimo - scrive il professore -, servizio disinteressato di Dio. Pensi, Monsignore, queste cose capitavano ancora quando era già nato quel mostro di Voltaire». Con l' incarico alla Sapienza, nella cattedra di Giuseppe Sabatini, c' è l' incontro della vita con la procedura penale. Cordero scriverà (e riscriverà dopo la riforma del codice nel 1988) un manuale che resta fondamentale, e continuerà a studiare la procedura fino alla fine. È questo rigore scientifico che lo porterà ad occuparsi della vicenda politica italiana, proprio negli anni del potere berlusconiano più forte e nello stesso tempo più esposto alle debolezze della tentazione costante di deformare il diritto a vantaggio personale, abusando del potere legislativo a vantaggio dell' esecutivo. Furono anni di dialogo e confronto con Giuseppe D' Avanzo, il reporter-editorialista di Repubblica che indagava l' uso degli strumenti giuridici nella presa del potere della destra italiana. Dike veniva offesa. Cordero avviò una lunga collaborazione con Repubblica che districava implacabilmente gli inganni e i sotterfugi della manomissione della procedura, mentre risvegliava la sua personale passione civile, rendendola pubblica e manifesta. Senza nemmeno volerlo, il professore diventava un attore della vicenda politica più controversa e incandescente degli ultimi decenni. Poco alla volta l' affresco politico lo cattura, suscitando il suo estro narrativo, l' invenzione linguistica, le metafore coltissime, le raffigurazioni grottesche, i giudizi ironici e definitivi, in un quadro ricorrente in cui tornavano con Berlusconi Verdini, Renzi, Dell' Utri, Napolitano. «Leggi ordinate à la carte, in un gaudioso marasma », «figure d' atlante antropologico», «ingordi boy scout», «Gran Visir e insostituibile alchimista», «mirabilia quotidianamente annunciati» per nascondere «lo scempio dei giudizi, che manda in fumo processi e delitti, con la procedura che diventa fuga dall' equazione penale». Restano le immagini fantasiose, dilatate e pertinenti dell'"Egoarca", dell'"Egolatra", del "Re Lanterna", e infine il fantasma grandioso e terribile del "Caimano": evocato da Cordero e poi diventato così perfetto nell' allegoria e così riconoscibile da camminare da solo nella lunga penombra italiana di quegli anni.

Addio a Franco Cordero: grande giurista e opinionista fulminante. Il Dubbio il 9 maggio 2020. Aveva 92 anni. Celebre il suo manuale di procedura penale, almeno quanto la sua battuta su Berlusconi: “E’ un Caimano”. Aveva 92 anni ed è stato un intellettuale a tutto tondo: giurista, scrittore, opinionista. La morte di Franco Cordero è stata annunciata ieri da Elisabetta Sgarbi, fondatrice della casa Editrice, La Nave di Teseo. Professore emerito di procedura penale presso l’Università La Sapienza, Cordero è stato tra i più insigni giuristi italiani del secondo Novecento: il suo manuale di “Procedura penale” (pubblicato per la prima volta da Giuffrè nel 1966, poi riscritto ex novo sul codice del 1988), è arrivato nel 2006 alla diciassettesima edizione. Nato a Cuneo il 6 agosto 1928, Cordero vince il concorso per la cattedra di procedura penale alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Trieste (1960). È poi chiamato dall’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove gli viene affidato anche l’incarico di insegnamento della filosofia del diritto (1960-1974). E proprio mentre insegna all’Ateneo fondato da padre Agostino Gemelli, il giurista è protagonista, suo malgrado, del clamoroso “caso Cordero”. Per l’insegnamento della filosofia del diritto scrive il libro di testo “Gli osservanti” (Giuffrè, 1967), un’analisi di come nascono i sistemi penali, rispettoso della sensibilità religiosa ma anche fedele alle verità storiche. Nel 1970 il testo vene accusato di “eterodossia” dal teologo monsignor Carlo Colombo: così l’Università Cattolica decide di escluderlo dall’insegnamento. Profondamente amareggiato, Cordero riepiloga la vicenda in un pamphlet, “Risposta a monsignore”, e al tempo stesso si rivolge anche alla giustizia amministrativa, la quale a sua volta investe la Corte Costituzionale di una questione di legittimità. Con la sentenza 195 del 1972 la Consulta si pronuncerà per la non fondatezza della questione di legittimità. In seguito all’esclusione dall’insegnamento dalla Cattolica per motivi ideologici, Cordero è chiamato alla cattedra di procedura penale della Facoltà di Giurisprudenza dall’Università di Torino e infine nel 1977 dell’Università ‘La Sapienza’ di Roma, succedendo a Giuseppe Sabatini. Dal 2003 era professore emerito. Con pamphlet e saggi ha attraversato i territori del diritto e i labirinti teologali, coniugando idee e fantasie in alcuni romanzi. Tra i suoi libri che hanno accompagnato gli anni dell’attività accademica: ”Trattato di decomposizione” (De Donato, 1970), ”L’Epistola ai Romani” (Einaudi, 1972), “La fabbrica della peste” (Einaudi, 1972), “Riti e sapienza del diritto” (Laterza, 1981), ”Savonarola” (quattro volumi, Laterza, 1986-88), “Criminalia. Nascita dei sistemi penali” (Laterza, 1986). CORDERO interrompe un lungo silenzio pubblico nel 2002 iniziando a collaborare con editoriali e commenti su ”La Repubblica”. Con una corrosiva vena satirica e un peculiare talento stilistico da pamphlet Cordero prende di mira i vari provvedimenti in materia di giustizia varati dal governo Berlusconi e dalla maggioranza di centrodestra. Cordero si sofferma sulle conseguenze dei provvedimenti legislativi sia dal punto di vista dei loro effetti immediati sia da quello dell’ordinamento complessivo del sistema penale: esamina così le leggi sulle rogatorie dall’estero e sul falso in bilancio, fino alla legge Cirami attraverso le varie forme del confitto d’interessi. Raccoglie questi suoi scritti nel libro ”Le strane regole del signor B.” (Garzanti), con cui nel 2003, tra le polemiche, vince la 68esima edizione del Premio Bagutta. E’ proprio in uno dei suoi editoriali, per la prima volta nel 2002, che Cordero paragonò con disprezzo Silvio Berlusconi a “un caimano”, fornendo poi l’ispirazione al regista Nanni Moretti per il film “Il Caimano” (2006), la cui trama ruota intorno alla figura del leader di Forza Italia. Cordero ha spesso riproposto la metafora Berlusconi-Caimano, non mancando di equipararlo a un Mackie Messer della contemporaneità, ossia il criminale senza scrupoli protagonista de “L’Opera da tre soldi” di Bertolt Brecht. Riprendendo l’antica passione per la narrativa, che lo aveva visto esordire con il romanzo “Genus” (De Donato, 1969), con cui vinse il Premio Viareggio Opera Prima di Narrativa, Cordero si è dedicato alla scrittura a tempo pieno, pubblicando negli ultimi vent’anni numerosi libri: “Nere lune d’Italia. Segnali da un anno difficile” (2004), “Fiabe d’entropia. L’uomo, Dio, il diavolo” (2005, Premio Brancati), “L’armatura” (2007) per Garzanti; “Che cos’è la giustizia?” (con cd audio, Luca Sossella Editore, 2007); “Aspettando la cometa. Notizie e ipotesi sul climaterio d’Italia” (2008), “Savonarola” (2009), “Il brodo delle undici. L’Italia nel nodo scorsoio” (2010), “Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani. Seguito dai pensieri di un italiano di oggi (G. Leopardi)” (2011), “L’opera italiana da due soldi. Regnava Berlusconi” (2012) per Bollati Boringhieri. E ancora: “Morbo italico” (Laterza, 2013), “Rutulia” (Quodlibet, 2017), “Bellum civile” (Quodlibet, 2017).

·        E' morto "El Trinche" Carlovich: idolo di Maradona.

Federico Buffa per sport.sky.it il 9 maggio 2020. L’ex calciatore, ammirato da César Luis Menotti, José Pekerman e Marcelo Bielsa, e addirittura idolatrato da Maradona, è morto oggi a Rosario, la città argentina in cui era nato 74 anni fa, a causa di un forte trauma alla testa subito alcuni giorni fa, dopo essere stato aggredito da due giovani che gli hanno rubato la bicicletta, non molto distante dalla casa in cui era cresciuto e viveva da sempre. La città di Rosario, ribattezzata città del calcio, per via degli innumerevoli campioni a cui ha dato i natali, ricorda commossa quel suo figlio, considerato "il miglior giocatore della storia" da quelli che lo avevano visto in campo. Figlio di un idraulico croato, viveva ancora nella casa in cui era cresciuto come più giovane di sette fratelli, perché da quella città non voleva proprio andarsene. Pur essendo un tipo schivo e riluttante alle telecamere, Tomás Carlovich era adorato da tutti perché la sua figura da tempo occupava un ruolo leggendario nella mitologia collettiva. Non esistono immagini delle sue prodigiose giocate col numero 5 sulla schiena, eppure di lui si narrano aneddoti incredibili e soprattutto si ricorda una partita amichevole tra una squadra di giocatori di Rosario e la Selección argentina in partenza per i Mondiali del 1974, durante la quale si narra che qualcuno implorò di rimuovere quell'uomo “dai capelli lunghi e magro” che stava demolendo il morale dell’Albiceleste. Anni dopo, Cesar Luis Menotti, campione del mondo del ‘78, memore delle sue giocate, lo convocò nella sua selezione nazionale, ma il “Trinche” non si presentò e a chi gli chiese, rispose che non aveva tempo: doveva andare a pescare. Della sua leggenda e del suo mito, si era occupato nel 2016 Federico Buffa, nel suo racconto dedicato a Rosario, la Città del Calcio, che vi riproponiamo qui integralmente. Federico alcuni mesi fa aveva avuto il piacere di riproporre la sua storia in uno spettacolo teatrale in tre date. La storia del Trinche Carlovich è una di quelle che ti restano dentro e non è più possibile dimenticare. E’ una di quelle storie che ti fanno amare questo gioco, te lo fanno studiare nel profondo e ti spingono a volerlo raccontare. La sua storia s'avventa su di noi perché non è univoca, come se sul fiume , il fiume di Rosario, il grande Paraná, ci fossero rivoli e affluenti, ma soprattutto, perché è totalmente rosarina e poi, solo poi,  in subordine argentina. Profuma di polvere, resa spirale dall’eterno e onnipresente vento delle pianure santafecine. E profuma di zurda, che in Argentina è molto di più che dire piede sinistro, è dire artista del futbol. Indolente, slavo, volto da caratterista dei western di Sergio Leone, ma soprattutto zurdo. La drammaturgia della sua vita scavalca qualsiasi tentativo letterario. La scorsa estate , con la regia di Pierluigi Iorio e la consulenza del suo principale biografo, assieme a tanti appassionati d'argentina , 3 uomini e 2 donne, abbiamo provato a portarla in scena. Ogni sera tornando in camerino sembravamo pieni di polvere anche noi. Che la terra ti sia lieve, Trinche.”

Questo epilogo è il finale più struggente che una leggenda di quel calibro potesse avere. E’ stato un privilegio visitare la sua Rosario, camminare sul suo campo e in qualche modo poterlo immaginare. E’ stato il piccolo contributo di Sky Sport affinché la sua storia continui ad essere ricordata e non si possa dimenticare. Altri non l'hanno mai dimenticato. Come Maradona. Lo scorso 10 febbraio il Diez era a Rosario per accompagnare la sua squadra, il Gimnasia y Esgrima La Plata, contro il Rosario Central nella Super League. Il Trinche, convinto dai dirigenti della squadra locale, si presentò al suo hotel per poterlo incontrare. La sicurezza stava per cacciarlo, quando Maradona, apparso di fronte a lui, li fermò per abbracciarlo forte. Gli parlò all’orecchio per 10 minuti, senza sosta. Poi gli firmò una maglietta e gli disse: "Trinche, eri migliore di me." E Tomás, che non passava mai la palla a nessuno non poté che aggiungere: “L'unica cosa a cui potrei rispondere è: Diego, sei stata la cosa più grande che ho visto nella mia vita. Adesso posso andarmene con calma ”. Esta noche juega “El Trinche”. Questa notte, per sempre.

El Trinche. Post parzialmente non Covid. Gianfrancesco Turano su l'Espresso il 12 maggio 2020. Senza calcio, senza sport in diretta, le tv rimandano vecchie partite, sintesi di Olimpiadi trascorse e programmi con Auro Bulbarelli. Si guardano i campioni della nostra età migliore e ci si rimbecillisce un po' di più. Qualche giorno fa nell'attualità è finito, per via di paradosso, uno sportivo che nessuna telecamera ha mai inquadrato. È morto in Argentina Tomás Carlovich “el Trinche”, a 74 anni. È morto dopo essere stato picchiato da due delinquenti che gli hanno portato via la bicicletta e che, si è scritto, non sapevano chi stavano picchiando. Ammesso e non concesso che gliene importasse qualcosa, stavano picchiando il calciatore più forte della Storia, secondo Diego Armando Maradona che solo a lui si è dichiarato secondo. C'è una battuta indimenticabile del film The man who killed Liberty Valance (John Ford, 1962): “This the West, sir. When the legend becomes fact, print the legend”. Morto el Trinche, si stampa o si pubblica la sua leggenda. Non esistono sue immagini in partita perché ha sempre giocato a livello semiprofessionistico e negli anni Settanta la televisione era una cosa seria, riservata agli eventi nazionali e internazionali maggiori. Rimane qualche foto di campo in cui Carlovich assomiglia in modo impressionante a un Felice Centofanti più robusto o viceversa. Si ricorda la sua passione per i tunnel e si favoleggia che una volta lo si pregò di non rientrare in campo nel secondo tempo durante un'amichevole pre-Mondiale dell'Argentina contro una rappresentativa di Rosario (la città del Che e del Messi-a, fra parentesi) perché stava facendo fare pessima figura ai nazionali, fra i quali il ventenne Mario Kempes, che avrebbero incontrato l'Italia disastrosa del 1974. El Trinche è il tema perfetto del racconto decadentista sul football nella direzione tracciata da Osvaldo Soriano che il fulbito lo conosceva bene da dentro, avendo giocato da centravanti a buon livello fra i dilettanti finché, come disse con la sua frase più bella, “mi si restrinse la porta”. La leggenda del Trinche è la leggenda universale dell'uomo di talento che non ce l'ha fatta. Non perché vorrebbe ma non riesce, quello è il brocchus communis, ma perché fama, denaro, popolarità lo lasciano totalmente indifferente. El Trinche è un caso di ars gratia artis. Due sole partite in serie A, zero allenamenti, licenziato in tronco. Segue una vita di stenti e il suo coronamento finale, la morte tragica. Una volta il gioco dell'antitesi si faceva fra fuoriclasse acclamati. Per esempio, nella contrapposizione tra Pelè – avido, interessato, anemotivo – e Garrincha – zoppo per la polio, generoso, disposto a farsi derubare dal primo falso amico -. In breve, l'antagonismo razzista di sinistra fra nero calcolatore rinnegato che tenta di evolversi e nero che si immerge nella sua negritudine e pensa solo a danzare col pallone, ubriacando l'avversario in campo e se stesso fuori. Per chi è interessato al fatto più che alla leggenda - gente noiosa, gente invidiosa - proviamo a dare qualche indicazione. È fortemente improbabile che Maradona abbia mai visto giocare El Trinche Carlovich. Il rosarino di origine croata aveva già trent'anni nel 1976 quando il sedicenne Diego, nato a Lanús nella provincia di Buenos Aires (oltre 300 km da Rosario), debuttava in serie A con il club porteño degli Argentinos Juniors. È abbastanza ovvio che la battuta del Pibe, pronunciata durante la sua conferenza stampa di presentazione dopo l'ingaggio nel Newell's Old Boys, fosse destinata a guadagnare ulteriore adorazione dalla afición rosarina dove el Trinche aveva una sua popolarità di nicchia ma super partes rispetto alla feroce separazione derbistica tra fan del Rosario Central e tifosi del Newell's. Anche se Maradona avesse visto giocare Carlovich e il suo parere fosse meditato, sarebbe uno dei non pochi giudizi sballati di Diego che non dovrebbe nemmeno per scherzo paragonare il suo genio a quello di un saltimbanco di periferia. O magari di un fuoriclasse svogliato. Ma fare il fenomeno con i semipro di Rosario e, una tantum, con la nazionale argentina del '74, imballata, fuori forma ed essenzialmente modesta, non è come vincere un Mondiale e due (due!) scudetti a Napoli, per tacere del resto. Ognuno ha la sua idea del calcio e ognuno è il calcio che gioca. Ma il calcio non è uno sport decadentista. Il calcio è epica e tragedia. Lo dimostra Maradona come pochi altri. Lui però, nei suoi momenti migliori ha prevalso sulla parte decadente di se stesso. Per citare la battuta di Charlie Parker in un altro film Usa (Bird, Clint Eastwood, 1988): «Io non sono Bird grazie all'eroina. Sono Bird nonostante l'eroina». In nome di tutti i brocchi, avere ricevuto il carisma e disprezzarlo è la bestemmia assoluta. Con ciò, descanse en paz El Trinche e tutti quelli che si sono venduti la primogenitura per un piatto di lenticchie. Se sono stati più lazzaroni o più coraggiosi, non sta a noi brocchi dirlo.

Addio a Trinche Carlovich, leggenda argentina e idolo di Maradona. Alberto Pastori il 09/05/2020 su Notizie.it. Giocate leggendarie e rifiuto ad ogni tipo di schema: il calcio argentino piange Tomas 'El Trinche' Carlovich, idolatrato anche da Maradona. L’Argentina si stringe e piange una delle sua leggende, genio calcistico e perfetta incarnazione del “ribelle”. Tomas Carlovich, detto ‘El Trinche’, è morto a 71 anni. Si trovava in coma dopo aver battuto la testa con violenza mentre cercava di impedire che alcuni malviventi gli rubassero la bici. Il padre era emigrato in Argentina negli anni 30. Tomas, capelli lunghi e giganteschi baffoni, pur non avendo mai giocato in grandi squadre o vinto trofei, aveva conquistato una certa popolarità grazia alle sua giocate ricche di genio e il suo completo rifiuto degli schemi. Un talento, quello del Trinche, riconosciuto anche da colui che secondo molti è il più forte di sempre: Diego Armando Maradona. Nel 1993 Maradona, in vista dei Mondiali di USA ’94, andò a giocare nel Newell’s Old Boys di Rosario. Ovviamente fu venerato da tutti. Quando un giornalista lo definì il più grande giocatore della storia della città, Maradona rispose: non è vero, nessuno è come El Trinche. Carlovich infatti fu legato a due squadre, il Rosario Central e il Central Cordoba. Nonostante la possibilità di andare a giocare in altri paesi (Francia o USA) lui preferì sempre rimanere a casa. “Non mi è mai piaciuto stare lontano dal mio quartiere, dalla casa dei miei genitori, dal bar dove vado di solito, dai miei amici e dal “Vasco” Artola, che mi ha insegnato come colpire la palla quando ero un ragazzo.” disse. Il marchio di fabbrica del Tinche era il doppio tunnel. Le persone prendevano dall’assalto le tribune solo per vederlo e i dirigenti del Central gli davano un premio per ogni volta che lo eseguiva. Da oggi il calcio è meno poesia.

E' morto "El Trinche" Carlovich: genio senza schemi, era l'idolo di Maradona. Aveva 71 anni, era in coma dopo aver battuto la testa per evitare il furto della bicicletta. Ribelle alla tattica, innamorato della giocata. Persino Diego in lui vedeva un mito. Luigi Panella l'08 maggio 2020 su La Repubblica. L'Argentina perde il suo genio calcistico ribelle per antonomasia. Pochi giorni dopo aver compiuto 71 anni è morto Tomas Carlovich, detto 'El Trinche': era in coma dopo aver urtato violentemente il capo mentre cercava di impedire a dei malviventi di rubargli la bicicletta. Non ha mai giocato con la maglia della nazionale, non ha mai militato in Boca o River, non ha mai vinto grandi trofei. Ma era un personaggio letterario, nel gioco e nell'aspetto cinematografico, con i capelli lunghissimi e i baffoni spioventi. E le sue storie di calcio, velate dal tempo, sono spesso state sospese tra verità e leggenda. Non a caso neanche l'origine del suo alias è chiara: potrebbe derivare da Trinchador, intagliatore, un tributo all'arte delle sue giocate. E sempre non a caso, l'inchiostro speso per lui nel corso degli anni è paragonabile a quello dedicato ad alcuni grandissimi del calcio. Un dna balcanico (lo dice anche il cognome, il papà era emigrato dalla Croazia negli anni 30) miscelato alla tecnica argentina, il gusto per la giocata (addirittura meglio se fine a se stessa), una innata indolenza e il rifiuto degli schemi. Per descrivere la popolarità di Carlovich in Argentina, è sufficiente citare due episodi. Il primo risale a 27 anni fa, quando un Diego Armando Maradona ancora motivatissimo (l'anno dopo c'era il Mondiale negli Stati Uniti a cui teneva molto) andò a giocare nel Newell's Old Boys di Rosario. Ad un giornalista che, prima ancora che toccasse un pallone, lo aveva già eletto come il più grande giocatore della storia della città, Maradona replicò contestando l'affermazione: sbagliato, nessuno è come El Trinche. Il secondo bisogna andarlo a cercare nella marcia di avvicinamento al Mondiale del 1974 in Germania. L'Argentina, che si era qualificata dopo la deludente eliminazione patita dal Perù verso Messico 1970, non aveva una squadra grandissima ma stava gettando le basi per vincere in casa quattro anni dopo. Ai dirigenti federali venne l'idea di organizzare una amichevole contro una selezione rosarina, idea sempre rischiosa perché in molti considerano la tradizione di Rosario come vera e propria culla del calcio argentino. Tra i rosarini anche Carlovich che, trovata la classica serata in cui gli riusciva tutto, stava mandando ai matti quella della albiceleste. Tre a zero alla fine del primo tempo, e per evitare crisi di identità all'interno del gruppo che doveva fare il mondiale,  il ct dell'epoca, Vladislao Cap, chiese di togliere il 5 avversario. Quel 5, manco a dirlo, era El Trinche...Le sue squadre più importanti furono il Rosario Central e il Central Cordoba. Niente a che vedere con ingaggi stellari, ma i suoi guadagni comunque si accrescevano quando faceva il doppio tunnel (immaginare l'avversario come ci restava), il suo marchio tecnico di fabbrica. I dirigenti del Central, esaltati dal pubblico che per vedere quel gesto riempiva le tribune, gli davano infatti un premio per ogni volta che lo eseguiva. Avrebbe potuto guadagnare di più se avesse accettato la corte dell'Europa (fu cercato in Francia) e degli Usa, ma non si volle mai muovere dall'Argentina. Una scelta racchiusa in una frase: "Non mi è mai piaciuto stare lontano dal mio quartiere, dalla casa dei miei genitori, dal bar dove vado di solito, dai miei amici e dal "Vasco" Artola, che mi ha insegnato come colpire la palla quando ero un ragazzo..".

·        Morto Luca Nicolini, il libraio che inventò il Festivaletteratura di Mantova.

Morto Luca Nicolini, il libraio che inventò il Festivaletteratura di Mantova. È mancato all'età di 66 anni l'uomo che aveva creato, insieme alla moglie e altri sei pionieri, il primo happening di letteratura di massa italiano. Nicolini aveva scoperto di essere gravemente malato lo scorso settembre. Raffaella De Santis l'08 maggio 2020 su La Repubblica. È morto Luca Nicolini, il fondatore appassionato dall’aria mite del Festivaletteratura di Mantova. Nicolini aveva 66 anni e dallo scorso  settembre aveva scoperto di avere un tumore. Lo aveva saputo proprio nei giorni del festival ma ciò non gli aveva impedito di partecipare con il sorriso, di girare tra gli incontri, mescolarsi con il pubblico, il cartellino appeso al collo come fosse uno dei tanti. Invece lui quel festival lo aveva fondato nel 1997, quando con la moglie Carla Bernini avevano pensato di trasformare l'amore per i libri in una festa per tutti.  Erano partiti subito in grande con Salman Rushdie a inaugurare la prima edizione. Il destino ha voluto che se ne andasse proprio nell'anno dei festival cancellati, degli incontri online e dei viaggi negati. Lui che amava mescolarsi alla gente, girare in bicicletta di incontro in incontro. Marzia Corraini, insieme a lui nel comitato organizzatore della rassegna fin dall'inizio, ne ricorda il lavoro appassionato: "Anche in questo ultimo periodo di malattia era sempre con noi a ragionare sul prossimo Festival, che sarà diverso, ma ci sarà". La prossima edizione è prevista tra il 9 e il 13 settembre, in qualunque forma si riesca a immaginare. 

L’idea del Festival. Festivaletteraura è un festival speciale, chi ci è stato lo sa. Non solo perché vive tra le strade di Mantova, città bellissima, ma perché è un esperimento di manifestazione culturale creata dal basso, un happening culturale che parte dall’idea di un libraio per coinvolgere tutti, un esercito di ragazzi volontari con le magliette blu che sono diventati insieme agli organizzatori l’anima della rassegna. A crearlo con Nicolini e la moglie un comitato organizzativo di altri sei pionieri: Laura Boccaglioni, Annarosa Buttarelli, Francesco Caprini, Marzia Corraini, Paolo Polettini, Gianni Tonelli.  

Dalla libreria al Festivaletteratura. Nicolini per tanti anni ha fatto il libraio. La sua libreria, fondata nel 1979, si chiamava Nautilus ed era un posto in cui si andava per chiacchierare di letteratura e navigare tra le parole degli scrittori.  In tasca una laurea in storia, con la moglie Carla, laureata in filosofia, un giorno  ha avuto l’idea di inventarsi un festival di letteratura dopo essere stato colpito da quello di Hye-on-Wye, dopo un viaggio in Galles. Scommessa vinta, alla prima edizione del Festivaletteratura a Mantova c’erano 12 mila persone (lo scorso anno erano 122 mila, dieci volte tante). Nicolini era riuscito a mettere su una macchina perfetta, all’inizio coinvolgendo prevalentemente scrittori italiani e poi nel tempo sempre più internazionali, star e autori meno noti nel nostro paese da far conoscere ai lettori comuni. Tra i big lo scorso anno c’erano stati Ian McEwan, Jonathan Safran Foer e Margaret Atwood, seguita da uno stuolo di lettrici groupie vestite da ancella.  Nicolini aveva da poco lasciato la libreria Nautilus, ora nel gruppo delle librerie Coop, nelle mani di un’altra navigante Ilaria Beccari. "Eravamo un gruppo coeso pur nelle diversità delle rispettive formazioni", dice Corraini, "ci mancherà".

L'abbraccio del mondo della cultura. "Uomo visionario e al contempo fattivo, innamorato del libro e della lettura, capace di creare con il suo entusiasmo un festival pioneristico, divenuto da oltre vent'anni un'autentica eccellenza, grazie alla perseveranza e alla capacità che gli erano proprie e di tutti quelli che hanno collaborato con lui. La scomparsa di Luca Nicolini colpisce duramente Mantova e l'Italia intera". Così il ministro per i Beni e le attività culturali Dario Franceschini ricorda il fondatore del Festivaletteratura di Mantova. Il ricordo di Ricardo Franco Levi, presidente dell'Associazione italiana editori (Aie): "Siamo profondamente colpiti per questa perdita. Tutto il mondo del libro gli è grato per averci regalato il Festival di Mantova, 'capostipite' di tutti i festival del libro che tanto hanno da allora segnato la vita culturale dell'Italia". Tra i ricordi su Twitter quello di Marco Cassini, editore di Sur, un piccolo tenero esempio dell'alleanza amorosa e lavorativa tra Luca Nicolini e sua moglie Carla Bernini: "E poi ho sempre trovato una delle cose più romantiche al mondo il che condividessero un unico indirizzo email in cui i nomi di luca e carla si sono fusi in un meraviglioso 'lucarla', che gli ho sempre affettuosamente invidiato. So long, Luca, and thanks for all the fish!". E le edizioni Feltrinelli hanno postato questo Tweet: "Il @festletteratura è sempre un momento di festa, oggi però è un giorno triste. Oggi ricordiamo commossi la passione, la gentilezza e l'amicizia di Luca Nicolini e siamo vicini a tutto il comitato organizzativo, lo staff, i volontari e i partecipanti del Festival". Sui social l'abbraccio dell'editore Sellerio: "Luca Nicolini è stato un grande libraio. Attento, premuroso, sapiente, ha acceso il mondo del libro con un'idea luminosa come il @festletteratura, segnando la strada verso un modo diverso di diffondere la passione per il libro". E Guanda: "Lo ricordiamo per la sua infaticabile attività culturale e per le generose doti umane". Tra gli scrittori c'è Michela Murgia, a ricordarne la passione civica: "Il @festletteratura non è una kermesse: da 23 anni è soprattutto una grande assemblea civica e per immaginare la cultura in questo modo ci vogliono profeti, non organizzatori. Grazie, Luca. Niente andrà perso". E naturalmente il ricordo del Festivaletteratura: "Luca se n'è andato. Era il presidente del comitato organizzatore del Festival, ma per tutti noi - un noi allargatissimo - era anche molto di più". Elena Loewenthal, direttore della Fondazione Circolo dei lettori di Torino, ha così commentato la scomparsa di Nicolini: "Grazie a lui la cultura ha imboccato una strada nuova e ricca di bei frutti: è diventata qualcosa di condiviso, allegro e variopinto quale non era mai stata prima. Il Festivaletteratura era e resta per me il suo sorriso, la sua bicicletta. Il modo che aveva di accogliere gli ospiti, il pubblico, le parole. Tornare a Mantova, in quella atmosfera unica che Luca Nicolini ha saputo creare, sarà diverso d'ora in poi, seppure nella certezza che la sua comunità gli resterà fedele come e più di sempre". 

·        Morto il rapper Ty.

Morto il rapper Ty: il 47enne era positivo al Coronavirus. Antonino Paviglianiti il 09/05/2020 su Notizie.it. È morto a causa del Coronavirus il rapper Ty, nome d'arte di Ben Chijioke, è venuto a mancare all'età di 47 anni. Era ricoverato da giorni e alla fine non ce l’ha fatta: è morto il rapper Ty, nome d’arte di Ben Chijioke, venuto a mancare all’età di 47 anni a causa delle complicanze da Coronavirus. Lutto nel mondo della musica britannica per la dipartita di una delle star del palcoscenico hip-hop inglese: nominato ai Mercury Prize per l’album Upwards, il rapper 47enne era stato ricoverato in ospedale ad inizio aprile e poco dopo sotto indotto al coma farmacologico per aiutare il suo corpo a ricevere il trattamento appropriato. Dopo un miglioramento delle sue condizioni, Ty aveva lasciato la terapia intensiva a metà a aprile ma aveva contratto la polmonite. Diane Laidlay, stretta collaboratrice del rapper Ty, ha raccontato sui social le ultime ore di vita: “Le sue condizioni erano migliorate ma la scorsa settimana mentre era in ospedale aveva contratto la polmonite che ha peggiorato la sua guarigione e alla fine non è riuscito più a combattere. Siamo tutti devastati per la sua morte”. Nato a Londra nel 1972, figlio di immigrati nigeriani, Ty ha pubblicato il suo album di debutto Awkward nel 2001, presentando una versione britannica dello stile hip-hop americano. Era molto amato dal pubblico. Dopo il grande successo di “Upwards”, Ty ha pubblicato altri tre album da solista, l’ultimo “A Work of Heart” è uscito nel 2018. Membro del The Hip-Hop Shakespeare Company, fondato nel 2009 dal rapper Akala, nel 2019 è stato anche l’artefice della nascita di un supergruppo hip-hop britannico chiamato Kingdem con i rapper Blak Twang e Rodney P. Nel corso degli anni ha anche collaborato con De La Soul, Soweto Kinch e Roots Manuva.

·        E' morto Bob Krieger, il fotografo di Agnelli e Armani.

E' morto Bob Krieger, il fotografo di Agnelli e Armani. Il celebre ritrattista ha documentato il boom della moda italiana degli anni '80. Davanti al suo obiettivo ha sfilato anche tutto il Who’s Who degli ultimi decenni di vita nazionale italiana. Michele Smargiassi il 07 maggio 2020 su La Repubblica. Grazie a lui, il Made in Italy non è stata un’etichetta cucita sul collo del vestito, ma una storia di persone.  O meglio di personaggi, e di personalità. Se n’è andato ieri a 84 anni Bob Krieger, insospettabilmente italianissimo fotografo di moda e di grandi ritratti. Era rimasto bloccato da due mesi a Santo Domingo, in casa di amici, per l’interruzione dei voli causa pandemia: avrebbe dovuto rientrare a Milano proprio oggi. Italianissimo,  per scelta e vocazione, nonostante l’anagrafe e la genealogia: era nato ad Alessandria d’Egitto (dove la sua istitutrice fu nientemeno che la principessa Margherita di Savoia in esilio), da madre siciliana nipote d’arte e padre di ascendenze nobiliari prussiane, portava quel nome metà anglofono e metà tedesco, ma è stato l’artefice dell’immagine della moda italiana nel mondo, non solo con le sue foto di moda ma soprattutto attraverso i ritratti dei grandi protagonisti dello stile, da Armani a Valentino a Versace, Prada, Missoni; e più in generale dell’Italian Way fra gli anni Sessanta e i Novanta. Cominciò ad accompagnare l’ascesa del successo italiano nel mondo negli anni in cui Vogue America titolava, non si sa se con più eccitazione o apprensione “Italians are coming!”, l’ha seguita fino ai trionfi degli anni d’oro, smettendo solo all’avvento delle tecnologie digitali, che non amava. Davanti al suo obiettivo ha sfilato tutto il Who’s Who degli ultimi decenni di vita nazionale italiana, da Agnelli (di cui divenne di fatto il ritrattista ufficiale) a Montanelli a Ciampi, da Berlusconi a Baggio a Carla Fracci a Olmi, Arbasino, Zucchero… Pagine di riguardo non solo sui patinati ma anche sul New York Times, tre copertine di Time, per i media Usa fotografò anche Bill Gates. Il suo segreto: uno stile piacevolmente anacronistico, con citazioni formali da anni Cinquanta, soprattutto nei ritratti in bianco e nero, ma con tagli ed espressioni del volto non formali e spesso movimentate dall’intervento espressivo e ironico delle mani: Agnelli se ne porta una all’occhio come sorpreso, don Mazzi si stringe il mento fissando il cielo, Montanelli sembra volersi cucire la bocca…Artista, preferiva essere definito, forse ricordando il pianto della madre quando le annunciò che sarebbe vissuto di fotografie. Amante della musica. Negli ultimi anni si prese la libertà di dedicarsi a una ricerca creativa più personale, come in Anima nuda, un libro di corpi in posa senza veli, come a voler rincorrere l’essenza fragilissima che sta dietro la maschera sociale a cui, per decenni, è stato un sapiente edificatore. 

Gianluigi Colin per il “Corriere della Sera” l'8 maggio 2020. La fotografia italiana perde uno dei suoi più grandi autori. Bob Krieger, tra i più affermati ritrattisti di respiro internazionale è morto, improvvisamente all' età di 84 anni mentre si trovava in vacanza a Santo Domingo, ospite di amici. A dare la notizia della scomparsa è stata Maria Grazia Vernuccio, amica e curatrice della sua ultima grande mostra e che lo aveva sentito telefonicamente alla vigilia della partenza in aereo per rientrare a Milano, dove viveva. Krieger era stato «costretto» a prolungare di due mesi il soggiorno a Santo Domingo a causa delle restrizioni per la pandemia da coronavirus. La figura appassionata e instancabile di Bob Krieger è legata in modo particolare alla storia della moda italiana, a una personalissima e riconoscibile idea di ritratto, ma soprattutto incarna l' idea di rinascita di un' Italia capace di esprimere, quella feconda stagione di successi dell' Italian Style nel mondo, che va dagli anni Sessanta sino agli anni Novanta. In fondo, Krieger ha raccontato attraverso il suo sguardo rigoroso e non incline a compiacimenti estetici, il grande boom del Made in Italy, e i suoi protagonisti. Indimenticabili le sue foto in bianco e nero di personaggi che fanno parte della storia del nostro Paese: da Giorgio Armani a Indro Montanelli, da Bill Gates a Silvio Berlusconi, da Carla Fracci a Valentino, Carlo Azeglio Ciampi, Charlotte Rampling, da Miuccia Prada a Gianni Agnelli, di cui è stato il ritrattista ufficiale negli ultimi anni della sua vita. Il suo sguardo oltre a raccontare la poliedricità dei protagonisti della cultura, dello spettacolo, dell' economia, italiana, tracciandone una rigorosa idea di rappresentazione, ha letteralmente conquistato anche il difficile e complesso sistema dell' immagine americana: sue alcune copertine iconiche di «Time», a partire da quella storica di Giorgio Armani che lo incoronò definitivamente come il re della moda mondiale. Ed è stata proprio la moda a segnare in modo assoluto la sua avventura professionale. Krieger ha lavorato per tutti gli stilisti più importanti di quel periodo in cui la moda stava esplorando nuovi territori espressivi intorno ai modelli di rappresentazione. Con Armani ha avuto un rapporto strettissimo ma ha lavorato intensamente anche con Valentino, Versace, Krizia, Gianfranco Ferrè, Mila Schon, Moschino, Emilio Pucci. Intensa la sua attività editoriale: per circa otto anni è stato corrispondente del «New York Times Magazine», ha collaborato poi con «Vogue», «Esquire» e «Harper' s Bazaar», ma la sua avventura nel cuore dell' immagine lo ha portato anche ad assumere, dal 1970 al 1975, anche il ruolo di art director di «Bazaar Italia». Krieger era un uomo schivo, cordialissimo, a suo modo discreto, ma amava con simpatia raccontare della sua vita che appariva come un romanzo. Era un intellettuale dell' immagine e questa sua visione, in qualche modo «aristocratica», veniva dalla storia familiare abituata a superare confini di ogni tipo, territoriali e linguistici: nato ad Alessandria d' Egitto nel 1936, è come se avesse ereditato il rigore del suo carattere dal padre prussiano. Ma per fortuna aveva compensato la vena artistica dalla madre, appartenente alla famiglia di pittori, librettisti, attori, artisti. Per «la Lettura» aveva realizzato una copertina che si presentava come la sintesi potente di tutta la sua esistenza: il dettaglio di un occhio, metafora di tutta la sua vita dedicata a vedere, amare e scrivere con la luce.

·        E’ morto Vincenzo Abbagnale.

Lutto nel mondo del canottaggio: è morto Vincenzo Abbagnale. Addio al padre dei leggendari fratelli campioni olimpici. Mauro De Riso su La Repubblica il 02 maggio 2020. Lutto nel mondo del canottaggio per la morte di Vincenzo Abbagnale, padre dei leggendari fratelli Giuseppe, Carmine e Agostino, pluricampioni olimpici originari di Castellammare di Stabia. Il decesso è avvenuto all’alba a seguito dei postumi di un intervento chirurgico effettuato all’ospedale Cardarelli di Napoli. Vincenzo Abbagnale avrebbe compiuto 88 anni a giugno ed è stato fondamentale per i successi dei figli, avviati al mondo del canottaggio nel Circolo Nautico Stabiese, fucina di talenti che hanno scritto pagine di storia del canottaggio italiano. Giuseppe e Carmine sono stati per due volte campioni olimpici nel leggendario due con insieme al timoniere Peppiniello Di Capua, nel 1984 a Los Angeles e nel 1988 a Seul, e hanno conquistato un argento a Barcellona nel 1992, vantando nel palmares anche sette ori ai mondiali.Agostino, a sua volta, ha vinto tre medaglie d’oro alle Olimpiadi e due ori e due argenti ai mondiali. Vincenzo, figlio di Giuseppe, ha già vinto tre mondiali ed è pronto a portare avanti la tradizione di famiglia. Ad esprimere cordoglio per la morte di Vincenzo Abbagnale è stata la Federazione Italiana Canottaggio, di cui Giuseppe è il presidente. “Al presidente, ai suoi fratelli e sorelle, e a tutta la famiglia, - si legge nella nota della Fic - sono giunte immediate le più sentite condoglianze da parte dei vice presidenti e di tutto il Consiglio Federale, del segretario generale, di tutte le componenti della Federazione Italiana Canottaggio e dell’Italia del canottaggio”. Parole d’affetto arrivano anche da Giada Gervasi, sindaco di Sabaudia, città a cui i fratelli sono molto legati. “È con grande dolore che apprendo la notizia della scomparsa di Vincenzo Abbagnale, primo grande tifoso dei figli Giuseppe, Carmine e Agostino, campioni di canottaggio che hanno senza dubbio contribuito a scrivere la storia del mondo remiero italiano e internazionale. - sottolinea il primo cittadino di Sabaudia - Un particolare abbraccio voglio indirizzarlo al figlio Giuseppe, presidente della Federazione Italiana Canottaggio, da sempre legato alla nostra comunità e primo sostenitore di Sabaudia quale location d’eccellenza per le diverse manifestazioni remiere internazionali”.

·        È morto Florian Schneider, fondatore dei Kraftwerk.

È morto Florian Schneider, fondatore dei Kraftwerk. Il musicista tedesco aveva 73 anni. Insieme all'amico Ralf Hütter aveva creato nel 1970 il gruppo di musica elettronica realizzando album di successo tra cui Autobahn, Radio-Activity e Trans-Europe Express. Era uscito dalla formazione nel 2008. Gianni Santoro su La Repubblica il 6 maggio 2020. È morto Florian Schneider, membro fondatore dei Kraftwerk. Aveva 73 anni. Ad annunciare la sua scomparsa è stato il dj e produttore musicale Mark Reeder su Facebook, senza fornire dettagli, per poi cancellare il post che conteneva la notizia. Solo dopo varie ore la morte è stata confermata da Billboard. "Il cofondatore dei Kraftwerk Ralf Hütter ha dato la triste notizia: l'amico e socio per molti decenni Florian Schneider è morto dopo una breve battaglia contro il cancro pochi giorni dopo il suo 73esimo compleanno", ha annunciato poi la band in un comunicato. Schneider, precisa il Guardian, sarebbe morto già una settimana fa e ci sarebbe stato un funerale privato. Schneider, nato il 7 aprile 1947 a Düsseldorf, era diventato famoso in tutto il mondo come fondatore dei Kraftwerk, storica formazione tedesca di musica elettronica. Aveva creato il gruppo (il cui nome significa "centrale elettrica") insieme all'amico Ralf Hütter nel 1970, conosciuto durante gli studi presso la Academy of Arts di Remscheid, poi insieme studiarono a Düsseldorf. Prima come flautista e poi dedito agli strumenti elettronici, Schneider veniva dall'esperienza con la formazione dei Pissoff e poi con Hütter si dedicò all'ensemble di musica sperimentale e krautrock Organisation, fino all'inizio della storia dei Kraftwerk. In 50 anni di carriera, dopo gli esordi con il produttore Conny Plank (Il terzo album dei Kraftwerk portava come titolo semplicemente i nomi dei due fondatori: Ralf und Florian), la band ha pubblicato album fondamentali per la storia della musica come Autobahn, Radio-Activity e Trans-Europe Express, raggiungendo anche un grande successo di pubblico con il brano di electro-pop The model, che raggiunse il primo posto della classifica inglese nel 1982, e con The robots. L'influenza dei Kraftwerk nel mondo della musica è stata di grande portata, spaziando dal pop al rock, all'hip-hop, all'electro e alla techno (uno dei suoi pionieri, Derrick May, la definiva come "George Clinton e i Kraftwerk chiusi in ascensore"): tra i tanti musicisti che si sono detti influenzati dalla band ci sono David Bowie, che dedicò a Florian la traccia V-2 Schneider contenuta nel suo album del periodo berlinese Heroes, i Joy Division e la loro evoluzione New Order e l'electro-pop degli anni Ottanta, Depeche Mode, Soft Cell, Human League, quindi Afrika Bambaataa (che omaggiò la band con la sua Planet rock) per arrivare fino al nuovo Millennio: per la canzone Talk del 2005 i Coldplay presero la melodia di Computer love dei Kraftwerk. I testi dei brani alternavano spesso versioni in tedesco con versioni in inglese, per poi avventurarsi a volte anche in altre lingue: esiste anche una versione in italiano di Pocket calculator - singolo del 1981 tratto dall'album Computer world - per l'occasione diventato Minicalcolatore. Tre i Grammy vinti in mezzo secolo: quello alla carriera nel 2014, nella categoria dance-elettronica per l'album antologico 3-D The catalogue e nel 2015 Autobahn è entrato nella Hall of Fame dei premi. L'ultimo album uffciale dei Kraftwerk fu Tour de France Soundtracks del 2003 in occasione del centenario della gara ciclistica francese: il primo lavoro dopo 17 anni conteneva anche versioni alternative di composizioni note, come appunto Tour de France del 1983. Schneider fu insieme a Hütter l'unico componente fisso della band, che nell'immaginario artistico si presentava come un collettivo robotico in cui le macchine avevano più importanza delle persone che le manovravano (utilizzavano manichini per foto promozionali e in alcuni casi per le esibizioni). Fino al 2008, quando decise di lasciare la formazione, che continuò a esibirsi in giro per il mondo con nuovi componenti, spesso per concerti in cui al pubblico erano consegnati occhiali per le proiezioni in 3D. Altri due componenti storici, Wolfgang Flur e Karl Bartos, si erano allontanati durante gli anni Ottanta e Novanta. Ad accompagnare Hütter nei tour da alcuni anni erano Fritz Hilpert, Henning Schmitz e Falk Grieffenhagen. Nel 2015 Schneider pubblicò una nuova traccia senza la band, Stop Plastic Pollution, per la causa ambientalista. I Kraftwerk erano attesi in Italia per quattro date: il 21 maggio al Gran Teatro Geox di Padova, il 23 al Teatro Regio di Parma e il 25 e il 26 al Teatro degli Arcimboldi di Milano, appuntamenti ovviamente cancellati a causa dell'emergenza coronavirus.

Massimo Cotto per “il Messaggero” l'8 maggio 2020. Il mondo del rock piange un pioniere, uno dei più grandi. Se ne va a 73 anni il tedesco Florian Schneider, fondatore dei Kraftwerk, una delle band più importanti nella storia della musica popolare. Difficile raccontare la loro parabola ai più giovani, difficile spiegare che senza di loro tutto sarebbe stato diverso, più lento, più buio. Perché erano altri anni, altri tempi. Erano nati a Düsseldorf nel 1970, all'alba di un decennio che avrebbe rivoluzionato il mondo del rock e loro diedero a quel mondo una robusta spallata. Facevano musica elettronica, ma detto così non dice nulla. Non furono nemmeno i primi a sonorizzare la società industriale e nemmeno i primi a utilizzare le tastiere elettroniche, ma furono i migliori, perché riuscirono a riverberare ogni invenzione, a spargere il seme in tutte le direzioni. Florian Schneider era il grande architetto, il feticista del suono, come lo definì Ralf Hütter, artefice con lui della favola chiamata Kraftwerk. Le loro canzoni si sistemavano a metà strada fra l'ossimoro del dolce rumorismo e l'elettropop e per questa ragione possiamo affermare che tanto la musica industriale che la dance discendono dai Kraftwerk. Senza di loro la new wave avrebbe preso una piega differente, i Blondie non sarebbero esistiti e nemmeno Devo, Ultravox, Gary Numan, gli OMD. Senza di loro i Simple Minds non avrebbero conosciuto la loro prima fase, quella più disimpegnata, e i Depeche Mode avrebbero faticato a trovare una strada. Senza i Kraftwerk, Giorgio Moroder non avrebbe infilato l'elettronica nella disco e Donna Summer sarebbe rimasta una bellissima sconosciuta. Se non vi basta, sappiate che i pionieri dell'hip-hop hanno consumato i dischi del gruppo tedesco. Afrika Bambaataa scrisse uno dei primi classici del genere, Planet Rock dopo aver mandato a memoria Trans-Europe Express. Di conseguenza non esisterebbero Chemical Brothers e Daft Punk. Mi fermo qui. Potrei raccontare ancora della geniale invenzione di Schneider, l'e-flute, il flauto elettronico. O l'uso stratosferico, dopo l'avvento dei computer, dei sequencer virtuali, primo fra tutti il Cubabase. Ma, alla fine, quello che rende grande un artista non è solo il lascito, l'influenza sui posteri, il solco tracciato. È anche l'emozione. Ed è qui il capolavoro assoluto di Schneider. Perché è difficile davvero toccare le corde emotive quando suoni musica elettronica. Loro ci riuscirono, in album fenomenali come Autobhan, Trans-Europe Express e The Man-Machine, oltre che nel folgorante esordio. Le loro suite erano puro dadaismo elettronico, mai prima di loro la poesia si era avvicinata così tanto alla freddezza del suono. Fra i tanti a rimanere folgorati dall'avventura dei Kraftwerk, ci fu David Bowie, che inserì nella trilogia berlinese, insieme a Brian Eno, elementi introdotti o suggeriti da Florian Schneider. Non solo. Bowie volle che l'omaggio fosse chiaro, evidente a tutti. Per questo intitolò V-2 Schneider un brano di Heroes. Se n'è andato non di coronavirus, ma di tumore. Una settimana fa, anche se la notizia è stata data solo ieri, a funerali avvenuti. In forma privata. Come la sua musica, che è avanzata in punta di piedi, ma che ha fatto strada. Così tanta, che a raccontarla per intero nemmeno si può.

Bruno Ruffilli per "lastampa.it" il 7 maggio 2020. La voce circolava da qualche ora, ma la conferma è arrivata dopo che già su Twitter si moltiplicavano gli omaggi: Florian Schneider, uno dei due fondatori dei Kraftwerk è morto. Aveva 73 anni. La loro storia inizia nel 1970, quando Florian Schneider e Ralf Hütter, musicisti di formazione classica, debuttano col nome di Kraftwerk. Avevano già sperimentato col nome Organisation per qualche anno, citando Stockhausen e Pierre Schaeffer. Ma con la loro “centrale elettrica” influenzeranno la musica dei decenni successivi come forse solo i Beatles, pur partendo da Düsseldorf, alla periferia di tutto ciò che è rock e pop. Dai new romantic alla techno, passando per l'ambient, l’house, l’hip hop e mille altri generi, in tanti hanno ripreso da loro l'idea che le macchine potessero diventare strumenti musicali. Anche David Bowie aveva omaggiato Schneider, nell'album Heroes (1977): un brano quasi totalmente strumentale è intitolato V-2 Schneider, come il musicista tedesco. La loro Computer Love è stata campionata dai Coldplay in un singolo di qualche anno fa, da Trans Europe Express sono nati insieme gli Einstürzende Neubauten e Afrika Bambaataa, e i Daft Punk si sono coperti nipoti di Philip Glass. In Tour de France i rumori diventano musica, si intrecciano con le percussioni, si scompongono e si moltiplicano, si alternano con linee melodiche che rimandano alla tradizione sinfonica tedesca. Uno dei loro brani più noti, Radioactivity, è un delirio lucidissimo di suoni e rumori. Nel 1975, quando fu pubblicato, sembrava una dichiarazione d’amore per l’energia nucleare, oggi è un manifesto ecologista, con una strofa cantata in giapponese per ricordare Fukushima; per capovolgerne il senso è bastato aggiungere una parola al ritornello (“Stop radioactivity”). Schneider suonava il sintetizzatore, il vocoder, il flauto, il sax e molto altro, oltre a essere una delle due voci dei Kraftwerk: ha lasciato la band nel 2008. Durante il suo periodo con il gruppo, i Kraftwerk hanno pubblicato 10 album in studio, tra cui l'acclamato Autobahn del 1974. Hanno anche vinto il Grammy per il miglior album dance/elettronico nel 2017 per il 3D The Catalogue, e sono stati insigniti del premio alla carriera nel 2014. I Kraftwerk hanno scardinato i concetti tradizionali di artista e di ispirazione: si dichiarano “musik-arbeiter”, lavoratori della  musica, passano otto ore al giorno nei Kling Klang Studios come impiegati qualsiasi. Della formazione originale rimane oggi solo Ralf Hütter, dopo che nel 2008  Florian Schneider aveva lasciato la band. Sul palco però erano sempre in quattro, oltre a Hütter, Henning Schmitz e Fritz Hilpert c’era Falk Grieffenhagen, che non suona ma controlla gli effetti video. Dal vivo, quello dei Kraftwerk è uno show multimediale di teutonica precisione e complessità, il sogno dell’opera d’arte totale wagneriana costruito con computer e tecnologie digitali. Erano stati a Torino l’ultima volta nel 2017, proponendo dal vivo per Club To Club l’intero catalogo, con tutti e otto gli album. Avevano annunciato anche un tour per celebrare il 50° anniversario, che avrebbe toccato anche l’Italia, cancellato poi per il coronavirus. Nei bis le postazioni dei musicisti erano occupate da quattro automi con le loro sembianze, che si producevano in una danza surreale sulle note di The Robots, anno 1978. L’audio era a livelli di qualità mai sperimentato prima in un concerto, gli effetti visivi in 3D raffinati e nitidissimi, riproponevano l’immaginario estetico della band, una sorta di futurismo retrò, fatto di abiti antracite, camicie rosse e cravatte nere, dove il cielo è sempre azzurro e il progresso arriva sulle rotaie di un treno. Un ideale di futuro in cui le macchine e gli uomini convivono, in cui l’Europa non ha confini e i computer possono essere perfino divertenti: quanto pare lontano tutto questo dalla distopia dei tempi che stiamo vivendo. 

Gino Castaldo per “La Repubblica” - 16 luglio 2014 il 7 maggio 2020. Spinta in 3D la loro musica è ancora più aliena, un film sonoro di robotiche geometrie non euclidee. Un gioco cosmopolita dove le lingue parlate sono tante, compreso l’italiano, e quando sull’onda dei loro scheletrici e raggelanti ritmi sintetici un disco volante (che grazie al 3D sembra passare sulle nostre teste) arriva sulla Terra, sbarca proprio davanti al Colosseo. L’omaggio è al pubblico della capitale, ma ovviamente cambia in ogni città. «Alla gente piace» spiega Ralf Hütter che guida ancora dopo più di quarant’anni la band che più di ogni altra ha influenzato l’immaginario elettronico della musica contemporanea, «e tecnicamente non è molto complicato cambiare a ogni tappa. E’ anche questa una forma di pop art». Il pubblico, con gli occhialini 3D, è in visibilio, riconosce a ogni incipit i gioielli dei Kraftwerk: Radioactivity, Trans Europe Express, The robots , un trionfo di estrema tecnologia che però oggi lascia una strana sensazione. Se un tempo questi pezzi sembravano un’audace visione del futuro, oggi sembra tutto più normale, come se la realtà si fosse avvicinata sempre di più a queste visioni. «E’ vero» conferma Hütter, dopo il concerto, «è come un sogno diventato realtà, o meglio una storia di fantascienza diventata realtà. La realtà ci assomiglia di più, oggi, e del resto quando abbiamo incominciato la gente ci definiva pazzi, idioti, non capivano bene quello che cercavamo di fare, per non dire del fatto che negli anni Settanta era molto difficile riprodurre dal vivo le nostre ricerche sonore. Oggi è molto semplice, ci sono piccoli equipaggiamenti elettronici che permettono di comporre dovunque ci troviamo, fare video in 3D, sincronizzare la musica, ma tutto questo è molto energetico». Allo stesso tempo sembra di vivere attraverso di loro una sorta di futuro vintage, come quando arriva Autobahn, il loro pezzo più celebre, quello in cui riuscirono a dare voce all’essenza sonora di un’autostrada. Il video tridimensionale utilizza la grafica del 1974, quella della copertina del disco, così che sembra un vecchio videogioco verde e azzurro, con un maggiolino Volkswagen che sfreccia orgoglioso sul suo artificiale percorso. Come se oggi fosse diventato impossibile pensare in termini di futuro e l’idea di futuro fosse rimasta sostanzialmente quella. «Non è impossibile pensare al futuro. Sono cicli, ci sono stati momenti in cui la corsa creativa era veloce, oggi molte cose sembrano dinosauri, ma la storia ci ha insegnato che anche i dinosauri non sono eterni. La tecnologia ci ha messo in condizioni che prima non avremmo neanche saputo immaginare, e noi continuiamo a guardare avanti ». Sì, ma verso dove, come si può spostare ancora in avanti l’asticella dell’orizzonte immaginario? Su questo Hutter è sfuggente: «Ci stiamo lavorando, quando ci troviamo insieme improvvisiamo, e cerchiamo di capire dove ci porterà il futuro». Certo, vedendo il loro concerto viene da pensare che una possibile evoluzione della musica possa essere quella di una unione sempre più stretta tra suoni ed effetti visivi. «Per noi è sempre stato così, fin da quando abbiamo cominciato ci siamo connessi alla scena artistica visiva che c’era a Düsseldorf, ed è sicuramente la strada giusta, anche perché oggi è possibile unire tutti i linguaggi, immaginare una musica pittorica, prima tutte le arti erano separate, oggi è molto più semplice unire tutto. E del resto voi italiani lo sapete bene, c’era un artista di nome Leonardo che si occupava di tutto, scienza, anatomia, pittura, scultura. Lo specialismo è idiota». Altro merito dei Kraftwerk è quello di essere stati la prima voce esterna al monopolio anglosassone del rock, e questo ci fa pensare a una connessione più frivola, ai Mondiali appena terminati col trionfo della Germania. Ma Hütter è molto freddo su questo: «Oh sì, è bello aver vinto, ma il fatto è che non amo molto il calcio, non amo la brutalità e il calcio ne è pieno. Nello sport preferisco la fantasia, la costruzione, per questo abbiamo reso omaggio al ciclismo». Ma alla fine, signor Hütter, non è che la relazione tra artificiale e naturale, da lei a lungo esplorata, sta diventando troppo sbilanciata in favore dell’artificiale? «Oh no, non deve essere una guerra tra uomo e macchine. E’ vero dipendiamo dalle macchine molto più che in passato, è pericoloso ma dobbiamo cercare un equilibrio. Per l’arte è una possibilità meravigliosa. Siamo entrati nell’era dell’arte tecnologica

·        Addio a Michael McClure, principe della Beat Generation.

Addio a Michael McClure, principe della Beat Generation. Simbolo del movimento hippie di San Francisco, lo scrittore aveva 87 anni. Amico di Kerouac era una figura leggendaria della cultura alternativa californiana, autore di opere di poesia e teatro fuori dagli schemi amate da critici e lettori comuni. Enrico Franceschini su La Repubblica il 6 maggio 2020. Se qualche editore italiano è alla ricerca di autori americani da riscoprire, o in questo caso, per il pubblico di casa nostra, praticamente da scoprire da zero, la scomparsa di Michael McClure, leggendaria figura della Beat Generation, morto ieri a San Francisco all’età di 87 anni, potrebbe servire ad attirare su di lui l’attenzione che da noi sfortunatamente non ha avuto da vivo. Poeta, drammaturgo, scrittore, immortalato da Jack Kerouac in due romanzi, I vagabondi del Dharma e Big Sur, autore della canzone Mercedes Benz per Janis Joplin, amico di Bob Dylan e promotore di Jim Morrison dei Doors, McClure era soprannominato in America “il principe della scena di San Francisco”, la città in cui ha abitato per la maggior parte del tempo e di cui è stato a lungo il cantore. Proprio lì, nel 1955, fu uno dei cinque poeti, tra cui Allen Ginsberg, che parteciparono a un famoso reading di poesia, passato alla storia come il “San Francisco Six Gallery reading”, considerato la fonte da cui è sbocciata la Beat Generation. La sua produzione letteraria è stata estremamente prolifica: otto libri di poesia, cinque di saggistica, un’autobiografia romanzata, la sceneggiatura di mezza dozzina di documentari, più innumerevoli articoli per riviste come Rolling Stone e Vanity Fair, oltre che per il Los Angeles Times e il San Francisco Chronicle. In più ha scritto molto per il teatro: la sua opera più celebre e anticonvenzionale, The Beard, in cui immagina una relazione fra il bandito del Far-West Billy the Kid e l’attrice americana degli anni ’30 Jean Harlow, ha avuto repliche per un decennio al Magic Theatre di San Francisco. È apparso anche nei panni di sé stesso in vari film, tra i quali L’ultimo valzer, il film-concerto diretto da Martin Scorsese sull’ultima apparizione del gruppo The Band a cui presero parte tanti artisti famosi, compreso Dylan. Recipiente di numerosi premi, fra cui una Guggenheim Felllowship e un Obie Award per il teatro, McClure è rimasto tuttavia sempre un outsider, un simbolo della contestazione, del movimento hippie e della Beat Generation insieme a Kerouac, Ginsberg e Ferlinghetti. Uno scrittore alternativo e provocatorio, come quando andò a leggere le sue poesie ai leoni in gabbia nello zoo di San Francisco. Era anche un popolarissimo docente di letteratura inglese al California College of Arts and Crafts di Oakland.  “Michael è stato uno dei più significativi poeti americani della seconda metà del ventesimo secolo”, commenta Garrett Caples, direttore della casa editrice City Lights e suo amico, “e ha avuto un posto nella cultura popolare, in aggiunta alla cultura letteraria, che non molti autori hanno potuto occupare”.

·        Morto l’attore Mimmo Sepe.

Morto l’attore Mimmo Sepe, lutto nel mondo del teatro napoletano. Redazione su Il Riformista il 5 Maggio 2020. Napoli piange la scomparsa di Mimmo Sepe, attore e caratterista teatrale che negli anni era stato grande protagonista della scena teatrale. A darne l’annuncio è stato l’amico Corrado Taranto, suo compagno di scena per decenni: Sepe, 65 anni, era malato da tempo. Per Sepe la carriera teatrale iniziò nel lontano 1973, a soli 18 anni, recitando in “I giovani del Vomero”. Ma per l’attore diverse anche le partecipazioni in film come “Natale col boss”, “Sotto il vestito niente” o “No grazie, il caffè mi rende nervoso”, suo debutto al cinema nel 1983 nella pellicola di Lello Arena. La notorietà nazionale arriva grazie a “Seven show”, mentre dal 1995 fonda una propria compagnia teatrale.

·        Addio al barese Matteo De Cosmo, art director della «Marvel» a New York.

Coronavirus: addio al barese Matteo De Cosmo, art director della «Marvel» a New York. Si è spento il 21 aprile scorso a 52 anni, sconfitto dal Coronavirus nella stanza di una clinica del New Jersey. Marco Seclì il 4 Maggio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Ha combattuto per un mese, come uno dei supereroi forgiati sulle scene dalla sua creatività smisurata, dal suo talento cristallino di artista. Si è spento il 21 aprile scorso a 52 anni, sconfitto dal coronavirus nella stanza di una clinica del New Jersey, Matteo De Cosmo, direttore artistico di numerose serie televisive di successo targate Marvel-Netflix. Barese doc, anzi barivecchiano doc, aveva sfondato nello showbiz a stelle e strisce, diventando uno degli scenografi più apprezzati della Grande Mela, epicentro delle produzioni che finiscono nei cinema e sulle Tv di tutto il mondo. Diploma al liceo artistico «De Nittis», poi l’Accademia delle belle arti, matita e penna sempre in mano, pronta per i bozzetti di ogni genere, una bravura riconosciuta dai prof, le borse di studio. Quindi, nel ’94, il grande salto in America, con una valigia di sogni. C’è da fare la gavetta e Matteo non si tira indietro. Iniziano le piccole collaborazioni sui set, ma anche nell’allestimento scenografico dei palchi delle star della musica, come Michael Jackson. E, così, passo dopo passo, quell’italiano affascinante, gentile e sensibile, grande creativo, viene sempre più apprezzato, si fa strada. Iniziano le collaborazioni per il grande schermo in film come «21 Bridges», «Mai così vicini» di Rob Reiner, «Precious» e molti altri. Per la Tv lavora a The Affair e Madam Secretary. Fino alla consacrazione definitiva. C’è la mano di Matteo De Cosmo in serie tv popolarissime Marvel-Netflix come «Luke Cage», il supereroe nero di Harlem impegnato nella lotta tra il bene e il male. O nell’altro serial di successo planetario, «The Punisher». Manager ormai affermato, era impegnato nelle lavorazioni della nuova serie «Harlem’s Kitchen», bloccate a marzo dallo scoppio dell’epidemia di Covid-19. La stessa che ha spezzato la vita di Matteo. Dopo due anni di assenza, a Natale era tornato nella sua Bari per stare vicino all’adorata sorella Lucia, per trovare papà Nicola, operaio in pensione, e il fratello minore Michele. Mamma Rosaria, sarta e modellista, anch’essa di talento, era scomparsa prematuramente nel ‘95, 25 giorni dopo la partenza di Matteo per gli Stati Uniti. Quella di fine dicembre è stata la sua ultima passeggiata tra i vicoli che lo hanno visto crescere. Il 23 marzo chiede il ricovero in una clinica privata dopo qualche giorno di febbre: esami, problemi respiratori che si accentuano. Sembra riprendersi ma non è così. La sua scomparsa viene comunicata ufficialmente il primo maggio, ripresa dai principali giornali americani e non solo specializzati in cinema e tv. Getta nello sconforto la moglie Aris Mejer, attrice di origine portoricana, il figlio Marcello, 15 anni, che vive in Australia con la seconda moglie. Lascia di stucco i tanti colleghi e amici che gli volevano bene. Zahir McGee, regista di Harlem’s Kitchen, ha commentato: «Fare televisione è difficile, ma ci sono persone che ti rassicurano ogni giorno con il loro talento, la loro passione e il loro sorriso, convincendoti che tutto sia possibile. Matteo era una di queste persone. Mancherà a tutti». E Il produttore Gail Barringer, con cui aveva lavorato a lungo, ha sottolineato: «La nostra comunità cinematografica di New York è piccola. Siamo sconvolti per la morte di Matteo. Era un vero artista, collaborativo, che ha portato felicità a ogni spettacolo cui ha lavorato. Ci mancherà molto». E quando la notizia ha varcato l’oceano ed è giunta in città, anche i tanti baresi che lo hanno conosciuto non hanno trattenuto le lacrime. Compagni di liceo e di Accademia, professori, amici, ragazzi di Bari vecchia conosciuti in quella giovinezza felice protetta da una famiglia per bene. Lucia De Cosmo è ancora distrutta dal dolore: «L’ho visto per l’ultima volta in una videochiamata che mi ha fatto prima del ricovero, non riesco ancora a capacitarmi che sia finita così...era venuto a Bari per me, perché ero alle prese con problemi di salute. Matteo era una persona incredibile. A parte il talento che ha mostrato fin da ragazzino, aveva un cuore grande, immenso. Sì, era l’uomo della mia vita...». Una dichiarazione d’amore che lui, uomo dalle relazioni sentimentali un po’ turbolente come lo sono quelle di molti artisti, sposato tre volte, avrebbe ricambiato. Lucia, in questi giorni difficili, è stata confortata dall’affetto che ha percepito intorno a sé, dal sapere quante persone hanno voluto bene al fratello. «Mi hanno chiamata in tanti, anche qualche docente di Matteo, come il professor Michele Di Pinto, che lo aveva sempre apprezzato». Ora Lucia, mentre elabora un lutto così devastante, pensa a un modo per ricordare la personalità e il talento puro di Matteo. «Non lo so, magari un premio che porta il suo nome per i giovani studenti del De Nittis o dell’Accademia. Vorrei anche contattare il sindaco Decaro per chiedergli, quando sarà possibile, di intitolare a Matteo una via della città vecchia, cui era ancora così legato nonostante i tanti anni vissuti lontano». Sì, Matteo De Cosmo aveva conquistato New York, ma non aveva mai dimenticato le stradine da cui era partito. 

·        Morto McNamara: campione Nba di basket.

Morto McNamara: addio al campione Nba di basket. Marco Alborghetti il 02/05/2020 su Notizie.it. L'ex cestista americano è venuto a mancare a causa di un infarto fulminante all'età di 60 anni. Ennesimo lutto nel mondo dello sport: il basket piange la scomparsa di Mark McNamara, ex cestista di Livorno e Nba morto all’età di 60 anni a causa di un infarto. Una carriera di alti e bassi particolari: dall’anello conquistato coi 76ers in Nba, alla promozione in A1 con Livorno, fino alla sua comparsa in Star Wars.

Morto Mcnamara, il basket piange il suo Chewbecca. Ennesima tragedia nel mondo dello sport: Mark McNamara, ex campione NBA con un passato in Italia, è morto all’età di 60 anni a causa di un infarto fatale. L’ex cestista da tempo soffriva di cuore, ma dopo il suo ritiro avvenuto nel 1993 aveva deciso di vivere con la famiglia in Alaska, dove allenava in una High School.

La carriera da cestista. Alto 2.11 metri, ex stella di California University, centro di ruolo e con un tiro libero niente male, fu scelto nel 1982 dai 76ers come rookie vincendo subito l’anello di campione facendo la riserva della star Moses Malone. Nonostante la vittoria all’esordio con i 76ers, non riuscì a sfondare come stella del basket americano: in seguito a San Antonio, Kansas City, Los Angeles (Lakers) e Orlando, per poi fare presenza anche in Europa: nel 1985-86 ha giocato alla Cortan Livorno centrando la promozione dalla A2 alla A1, per terminare la sua carriera in Spagna nel Murcia e poi nel Real Madrid.

Chewbecca per caso. Molti appassionati del cinema lo hanno potuto vedere all’opera anche fuori dal campo di gioco. McNamara, infatti, nell’estate in cui passo dal college all’NBA fu scritturato nel ruolo di controfigura di Peter Mayhew, alias Chewbecca sul set de “Il ritorno dello Jedi“, della famosa saga di Star Wars. Ha raccontato infatti che suo era uno degli assistenti di Carrie Fisher (la Principessa Leila), e non appena seppe che cercavano un attore alto per il ruolo, fece il nome del cugino Mark. 

·        E’ Samantha Fox, la porno attrice.

Marco Giusti per Dagospia il 3 maggio 2020. Vecchi fan del porno, piangete. Il Covid-19 si porta via anche una delle prime e più amate star dell’industria dell’hard in America, Samantha Fox, da non confondere con la cantate, il vero nome era Stacia Micula, 69 anni, essendo nata a New York nel 1950, di origine polacche e scozzesi. Assieme a divinità del porno come Vanessa Del Rio, Gloria Leonard, Veronica Hart, Jamie Gillis, Marlene Willoughby, Samantha Fox dette vita e soprattutto corpo a una serie di hard, una novantina!, girati in pellicola da buoni registi, Henri Pachard, Robert McCallum, Chuck Vincent, che fecero il giro del mondo e imposero un tipo di racconto erotico dove non si trattava solo di vedere scopate su scopate. Diciamo che c’era ancora del sentimento. I fan lo sanno bene. Newyorkese, studia balletto e danza. Diventa ballerina professionista. Ma Gerard Damiano, maestro del genere, le fa fare il suo primo hard, “Odyssex” nel 1977, con Robert Kerman, anche lui morto per Covid neanche un mese fa, e un anno dopo il regista Chuck Vincent la nota in una tv cavo e le propone il ruolo da protagonista nel suo “Bad Penny”, che diventa il suo vero primo film di successo. Diventa popolarissima nei primissimi anni ’80 con film come “Tiffany Minx” (“Intrighi proibiti di mia moglie”) di Robert Walters con Marlene Willougby, Crystal Synk, che alterna situazioni di stupro e violenza a altre solo erotiche, “Mistique”, “October Sylk” (“Mogli morbose”) di Henri Pachard con Candida Royalle e Gloria Leonard, “Jack’n Jill” (“I superporno fallocrati”) di Mark Ubell con Jack Wrangler e Vanessa Del Rio, col quale vince il suo primo Erotica Award, l’altro è “This Lady Is a Tramp”, “Her Name Was Lisa” di Richard Mahler, “Amanda By Night” di Robert McCallum con Veronica Hart e Jamie Gillis, “Pink Ladies” con Vanessa Del Rio, “Foxtrot” di Cecil Howard, “Roonmates” di Chuck Vincent, “Dracula Exotica”. “Outlaw Ladies” di Henri Pachard venne segnalato dalla rivista “Hustler” come il miglior porno del 1981. Fece anche dei  B-movie soft, una particina in “Io sono la legge” di Robert T. Heffron, in “Violenza” nel 1988, fino a quando Doris Wishman la volle protagonista del suo “A Night to Desmeber” nel 1989. Dal porno si era già ritirata a metà degli anni ’80 col suo compagno Bobby Astyr, anche lui nel settore. Ebbe qualche guaio in Utah per una sua linea erotica telefonica nel 1984. Cercò di tornare al cinema, soft, con Doris Wishman, ma la cosa finì lì. Si adattò, sia nel mercato del porno sia nel mondo della fisioterapia. E non se ne sentì più molto parlare, oltre tutto soffocata dal successo della Samantha Fox cantante. Hanno dato notizia della sua morte, che dovrebbe essere il 22 aprile, sia la sorella che la pornostar e collega Anne Sprinkle, che ha twittato “Fox è stata speciale nella mia vita, e il suo amore con Bobby fu per tutta la vita. Lei è finalmente libera! Sarà ricordata. Sebbene amasse, amasse, amasse il suo corpo. Dannato #covid 19. Lei rimane viva attraverso il suo lavoro leggendario”.

·        È morto Sam Lloyd, l'avvocato di Scrubs.

È morto Sam Lloyd, l'avvocato di Scrubs. Aveva 56 anni, era malato di tumore. La Repubblica il 02 maggio 2020. Era l'avvocato Ted Buckland nella serie medica Scrubs - Medici ai primi ferri, nove stagioni andate in onda in Italia su MTV. La serie americana deve il titolo al gioco di parole in inglese tra due termini "scrubs" e "to scrub", la prima indica la divisa indossata da medici e infermieri, la seconda la pratica così fondamentale di questi tempi di lavarsi accuratamente le mani prima di un intervento, ma "scrub" è anche una persona insignificante (è stato tradotto con ai primi ferri per indicare principianti). L'attore statunitense Sam Lloyd è morto ieri sera a Los Angeles a causa di un tumore. Aveva 56 anni. L'annuncio della scomparsa è stato dato dal suo agente, Kevin Turner, all'Hollywood Reporter. Nel febbraio 2019 gli fu diagnosticato un cancro ai polmoni inoperabile, lentamente diffusosi ad altri organi del corpo quali il cervello, il fegato, la colonna vertebrale e l'osso della mascella. Di recente era stata lanciata una campagna su GoFundMe, promossa dal produttore di Scrubs, Tom Hobert, e sua moglie Jill, per raccogliere fondi per curare l'attore, che ha incassato circa 160.000 dollari. Lloyd ha interpretato tutti e 95 gli episodi di Scrubs andati in onda nella serie originale dal 2001 al 2009. La star della serie, Zach Braff, ha reso omaggio a Lloyd su Twitter, scrivendo: "Addio a uno degli attori più divertenti con cui abbia mai avuto la gioia di lavorare. Ricorderò per sempre il tempo che abbiamo passato insieme". Il creatore di Scrubs, Bill Lawrence, ha twittato: "Sto pensando molto oggi a Sam Lloyd oggi. Eri davvero un ragazzo gentile e dolce. Mancherà a molti".

·        È morto l'attore BJ Hogg.

È morto l'attore BJ Hogg, Ser Addam Marbrand de "Il trono di spade". Aveva compiuto ieri 65 anni. Ha recitato anche in una ventina di film. La Repubblica l'1 maggio 2020. L'attore nordirlandese BJ Hogg, celebre per aver vestito i panni di Ser Addam Marbrand nella serie dei record Game of Thrones - Il trono di spade, è morto ieri a Lisburn, città dell'Irlanda del Nord dove era nato, nel giorno del suo 65esimo compleanno. Hogg, dopo una lunga carriera televisiva, nel 2011 ha preso parte alla prima stagione della la serie tv prodotta da Hbo e ispirata alla saga dello scrittore George R.R. Martin. L'attore ha interpretato il ruolo di un cavaliere al servizio di Lord Tywin Lannister, Ser Addam Marbrand, leader carismatico che sa facilmente trascinare gli uomini ed è considerato il più tenace degli alfieri Lannister. Da giovane ha servito a Castel Granito come paggio, dove ha stretto amicizia con lo sterminatore di re, Jaime Lannister. A dare la notizia della scomparsa di Hogg alla Bbc è stato Geoff Stanton, l'agente dell'attore: "Non ci sono parole per esprimere il dolore in questo momento. Era un grande uomo, una grande personalità e un attore eccezionale. La sua famiglia sarà devastata e il mio cuore è vicino a loro. È stata una delle persone più gentili che io abbia mai conosciuto, è una grande perdita per tutti". Interprete di molte serie tv e telefilm del piccolo schermo britannico, Hogg ha recitato anche in una ventina di film, tra cui Niente di personale (1995), Resurrection Man (1998), Titanic Town (1998), Ember - Il mistero della città di luce (2008), Sua Maestà (2012). 

·        È morto il batterista Tony Allen.

È morto il batterista Tony Allen. Con Fela Kuti creatore dell'afrobeat. Aveva 79 anni. Con il gruppo 'Africa 70' ha registrato una quarantina di album. La Repubblica l'1 maggio 2020. Il musicista nigeriano Tony Allen, batterista e creatore dell'afrobeat insieme al suo connazionale Fela Kuti, è morto ieri a Parigi all'età di 79 anni. Lo rende noto oggi il suo manager. "Non conosciamo esattamente la causa della morte", ha detto Eric Trosset, precisando però che Allen non sarebbe stato ucciso dal virus Covid-19. Il suo saluto sui social: "Addio Tony! I tuoi occhi hanno visto ciò che la maggior parte di noi non poteva vedere. Sei la persona più cool della terra! E come dicevi sempre 'Non c'è fine'". Il musicista britannico Brian Eno ha definito Tony Allen "il miglior batterista di sempre". Autodidatta, Allen inizia a suonare all'età di 18 anni nutrendosi della musica di Dizzy Gillespie e Charlie Parker e di quella contemporanea africana. Con Fela Kuti, che lui definiva "un intransigente che usava la musica come arma", e il gruppo 'Africa 70' registrerà una quarantina di album. Dei tanti artisti che in qualche modo guardavano all'afrobeat diceva in un'intervista del 2017: "Prima che lo suonassimo noi, l'afrobeat non esisteva, c'è stata una creazione e di quella creazione mi sento parte e motore, nessuno suonava la batteria in quel modo prima di me, oggi sì ma sono solo copie. Per tanti anni abbiamo copiato lo stile dei batteristi americani, lasciamo ora che siano loro a copiare noi". In un concerto a Bari nel 2017, aveva sfidato le intemperie e il vento ottenendo un grande successo. Tra i suoi tanti estimatori anche Jovanotti, che lo aveva voluto nel suo Jova Beach Party e con il quale aveva suonato Oh Vita che lo ha salutato così: "Ciao maestro, genio del ritmo". Nato a Lagos, Allen è stato uno dei grandi innovatori della musica africana. Dopo la morte di Fela Kuti si era trasferito a Londra e successivamente a Parigi, dove aveva collaborato con artisti come King Sunny Ade e Manu Dibango. Negli anni Allen aveva elaborato i concetti dell'afrobeat mescolandoli con generi contemporanei come il dub, l'elettronica e il rap: attraverso quel mix riuscì a creare un nuovo stile, ribattezzato afrofunk. Negli ultimi anni le richieste di collaborazione erano diventate sempre più numerose e in ambiti differenti: aveva lavorato con Air, Susheela Raman, Sebastian Tellier,, Charlotte Gainsbourg e Jeff Mills. Era stato il batterista del gruppo The Good, The Bad e The Queen, fondato da Damon Albarn dei Blur insieme all'ex Clash Paul Simonon e all'ex Verve Peter Tong. Solo poche settimane fa era uscito l'album Rejoice, realizzato con Hugh Masekela prima della morte del grande trombettista sudafricano.

·        Morto Fra' Giacomo Dalla Torre: Gran Maestro del Sovrano Ordine di Malta.

Da adnkronos.com il 29 aprile 2020. Il Gran Magistero annuncia, con profondo dolore, la scomparsa di Sua Altezza Eminentissima il Principe e 80° Gran Maestro, Fra’ Giacomo Dalla Torre del Tempio di Sanguinetto, avvenuta a Roma poco dopo la mezzanotte, in seguito ad una malattia incurabile diagnosticata pochi mesi fa. Lo rende noto una nota dello Smom. Secondo l’articolo 17 della Costituzione del Sovrano Ordine di Malta, il Gran Commendatore, Fra’ Ruy Gonçalo do Valle Peixoto de Villas Boas, ha assunto le funzioni di Luogotenente Interinale e rimarrà a capo del Sovrano Ordine di Malta fino all’elezione del nuovo Gran Maestro. Uomo di grande spiritualità e calore umano, Fra' Giacomo Dalla Torre del Tempio di Sanguinetto si è sempre personalmente impegnato nell'assistere i bisognosi, servendo i pasti ai senzatetto nelle stazioni ferroviarie di Termini e Tiburtina a Roma. Ha partecipato a numerosissimi pellegrinaggi internazionali dell'Ordine di Malta a Lourdes e ai pellegrinaggi nazionali a Loreto e ad Assisi. Grande gioia dimostrava nel partecipare ai Campi estivi internazionali dell'Ordine per giovani disabili nei quali grande affetto riceveva dai giovani volontari e ospiti. Nella sua carica di Gran Maestro, Fra' Giacomo Dalla Torre ha intrapreso numerosi viaggi ufficiali e di Stato. Solo lo scorso gennaio si era recato in visita di Stato in Benin e lo scorso luglio in Cameroon e più recentemente si era recato in Germania, Slovenia e Bulgaria per incontrare i rispettivi capi di Stato. Nel corso di queste visite, era sempre suo desiderio quello di poter visitare le strutture medico-sociali dell'Ordine di Malta per poter salutare personalmente sia lo staff che i pazienti. Una spiccata umanità e una profonda dedizione alla vita caritatevole hanno animato l'operato dell'80esimo Gran Maestro del Sovrano Ordine di Malta, il quale verrà ricordato da tutti coloro che lo hanno conosciuto per le sue doti umane e i suoi modi sempre cordiali e affettuosi. 

Morto il Gran Maestro del Sovrano Ordine di Malta. Fra' Giacomo Dalla Torre aveva 76 anni, era malato da alcuni mesi. La Repubblica il 29 aprile 2020. E' morto a Roma, per una malattia diagnostica mesi fa, il Gran Maestro del Sovrano Ordine di Malta, Fra Giacomo Dalla Torre del Tempio di Sanguinetto. A darne la notizia, "con profondo dolore", il Gran Magistero del Sovrano Ordine di Malta. Fra' Giacomo Dalla Torre, '80/o Gran Maestro, era nato a Roma nel 1944. Secondo la Costituzione del Sovrano Ordine di Malta, il Gran Commendatore, Fra' Ruy Gonçalo do Valle Peixoto de Villas Boas, ha assunto le funzioni di Luogotenente interinale e rimarrà a capo del Sovrano Ordine di Malta fino all'elezione del nuovo Gran Maestro. Fra' Giacomo Dalla Torre si era laureato in Lettere e Filosofia, specializzandosi in Archeologia Cristiana e Storia dell'Arte. Ha ricoperto incarichi accademici nella Pontificia Università Urbaniana, insegnando greco classico. È stato anche bibliotecario e archivista capo. Nel corso degli anni ha pubblicato saggi accademici e articoli su aspetti della storia dell'arte medievale. Ammesso nel Sovrano Ordine di Malta nel 1985, Fra' Giacomo Dalla Torre del Tempio di Sanguinetto ha emesso i voti solenni nel 1993. Da allora ha ricoperto una serie di incarichi, tra cui per nove anni quello di Gran Priore di Roma, fino all'elezione a Gran Maestro, il 2 maggio 2018. Molto impegnato nel sociale e nell'assistenza dei più bisognosi - era solito servire i pasti ai senzatetto delle stazioni Termini e Tiburtina, a Roma - Fra' Giacomo Dalla Torre ha compiuto diversi viaggi internazionali nella sua carica di Gran Maestro: solo negli ultimi mesi si era recato in Benin, Camerun, Germania, Slovenia e Bulgaria per incontrare i rispettivi capi di Stato. Il Sovrano Militare Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Gerusalemme di Rodi e di Malta, fondato a Gerusalemme intorno all'anno 1048, è ente di diritto internazionale ed Ordine religioso cattolico laicale. La missione dell'Ordine è di testimoniare la fede e servire i poveri e gli ammalati. Oggi l'Ordine di Malta opera principalmente nell'ambito dell'assistenza medico sociale e degli interventi umanitari, svolgendo la propria attività in oltre 120 paesi. Insieme ai suoi 13.500 membri, operano 80.000 volontari, coadiuvati da oltre 42.000 tra medici, infermieri e ausiliari paramedici. L'Ordine gestisce ospedali, centri medici, ambulatori, istituti per anziani e disabili, centri per i malati terminali, corpi di volontari. L'Ordine di Malta è neutrale, imparziale e apolitico. Ha rapporti diplomatici bilaterali con 110 Stati, relazioni ufficiali con 6 altri Stati, relazioni a livello di ambasciatore con l'Unione Europea. È Osservatore permanente presso le Nazioni Unite e le sue agenzie specializzate e ha rappresentanze presso le principali Organizzazioni internazionali. Dal 1834 la sede del Governo del Sovrano Ordine di Malta è a Roma, dove ha garanzie di extraterritorialità.

·        E’ morto l’attore Irrfan Khan.

Grave lutto nel cinema: è morto Irrfan Khan. All'età di 53 anni si è spento per un tumore l'attore Irrfan Khan che da Bollywood ha conquistato il mondo del cinema occidentale.Carlo Lanna, Mercoledì 29/04/2020 su Il Giornale. La notizia è stata battuta dalle agenzie poco fa. A 53 anni è venuto a mancare Irrfan Khan. Celebre attore di Bollywood e star indiscussa di 100 film, è molto conosciuto anche tra il pubblico occidentale per aver preso parte a diverse produzioni americane di grande successo. Da due anni stava combattendo contro una grave forma di tumore al cervello. La malattia era sotto controllo, almeno come avevano confermato le news sullo stato di salute di Irrfan. Invece a causa di un’infezione, l’attore è corso in un ospedale di Mumbai dove purtroppo è spirato. I medici hanno sapere che non è morto per il coronavirus ma per un aggravamento delle sue condizioni di salute e a causa del tumore al cervello. La notizia ha scosso il mondo del cinema ed è stata diramata solo qualche ora fa. E il primo a farlo è stato il suo agente, il quale in poche e semplici parole, fa sapere che Irrfan Khan è morto "circondato dall’amore della sua famiglia alla quale teneva più di tutto. Ora preghiamo tutti che sia in pace, finalmente". L’annuncio della sua malattia è arrivata sui social, nel 2018. L’attore ha raccontato ai suoi fan che avrebbe iniziato una battaglia contro il tumore. Irrfan Khan è stato colpito da una malattia rara che colpisce le ghiandole che rilasciano gli ormoni nel sangue. In altri post aveva rivelato che le cure erano intese e molto dolorose, ma era convinto che avrebbe superato il brutto momento. Infatti le sue condizioni erano migliorate, ma si sono aggravate all’improvviso. È arrivato al successo, al di fuori dell’India, grazie al film "The Millionaire", diretto da Danny Boyle che ha vinto 8 premi Oscar. Senza dimenticare la sua partecipazione a "La vita di Pi", diretto da Ang Lee. È nato a Jaipur nel gennaio del 1967 e fin da ragazzo ha sempre seguito il sogno di diventare un attore. Si è diplomato alla National School of Drama di Nuova Delhi ed ha debuttato al cinema a fine anni ’80 in una commedia romantica. Da lì in poi si sono susseguite una serie di apparizioni più o meno importanti. Nel 2006 inizia la scalata ad Hollywood, dato che molto registi americani riconoscono il suo talento. Il resto è già storia. Oltre ai film già citati, ha perso parte anche a "Inferno", "The Amazing Spiderman" e "Jurassic Worl".

Paolo Martini per adnkronos.com il 29 aprile 2020. L'attore indiano Irrfan Khan, star di Bollywood di fama internazionale che ha conquistato Hollywood, consacrato al successo da film come "The Millionaire" (2008) di Danny Boyle e "Vita di Pi" (2012) di Ang Lee, è morto oggi nel Kokilaben Dhirubhai Ambani Hospital di Mumbai, all'età di 53 anni, in seguito a un tumore. L'annuncio è stato dato dal suo agente con una dichiarazione: "Circondato dall'amore della sua famiglia, alla quale teneva più di tutto, è partito per la dimora del Paradiso lasciandosi alle spalle un'eredità di arte e bellezza. Tutti preghiamo e speriamo che sia in pace". Nel 2018 Khan aveva annunciato sui social che gli era stato diagnosticato un tumore neuroendocrino, malattia rara che colpisce le ghiandole che rilasciano ormoni nel sangue. E sempre sui social aveva raccontato la sua sofferenza durante le cure e parlato dell'incertezza della vita. Nel 2019 era stato ricoverato per un ciclo di terapie in un ospedale a Londra. Irrfan Khan, all'anagrafe Sahabzade Irrfan Ali Khan, era nato a Jaipur il 7 gennaio 1967. Dopo essersi laureato alla National School of Drama di Nuova Delhi, è apparso per la prima volta al cinema in una breve ma intensa scena nell'acclamato esordio alla regia di Mira Nair, "Salaam Bombay!" (1988). Da allora ha recitato in decine di film girati a Bollywood. Nel 2003 lo sguardo inconsueto di Khan e i suoi occhi intensi gli sono valsi l'ambito ruolo del protagonista nella pellicola "Maqbool", una versione hindi del Macbeth, ambientata nei quartieri malfamati di Bombay. Quello stesso anno ha fornito un'altra interpretazione notevole nella storia d'amore "Haasil". Sempre nel 2003 è stato il protagonista di "The Warrior" del regista britannico Asif Kapadia, la pellicola in lingua hindi si è aggiudicata il Bafta come miglior film britannico. Nel 2006 Khan ha iniziato la scalata ad Hollywood ed ha ottenuto subito consensi internazionali nel ruolo dell'emigrante indiano negli Stati Uniti nella pellicola di Mira Nair "Il destino nel nome - The namesake" e poi interpretando il capitano che è alla caccia dei rapitori di Daniel Pearl nel film di Michael Winterbottom "Un cuore grande" (2007), con protagonista Angelina Jolie. Il pluripremiato film "The Millionaire - (Slumdog Millionaire)", che lo vede nel ruolo dell'ispettore di polizia, consente all'attore indiano tante altre importanti partecipazioni. Khan recita così in "Hisss" (2010) di di Jennifer Lynch, "Thank You" (2010) di Anees Bazmee, "The Amazing Spider-Man" (2012) di Marc Webb, "Vita di Pi" (2012) di Ang Lee, "Lunchbox" (2013) di Ritesh Batra (2013), "Jurassic World" (2015) di Colin Trevorrow, "Piku" (2015) di Shoojit Sircar (2015), "Inferno" (2016) di Ron Howard. Ha recitato anche nella mini serie tv "Il processo di Tokyo" (2016) di Rob W. King e Pieter Verhoeff. Nel 2017 gli ultimi due film "Hindi Medium", per la regia di Saket Chaudhary, e "The Song of Scorpions" di Anup Singh.

·        Addio a Germano Celant.

Addio a Germano Celant, protagonista dell'arte e firma dell'Espresso. Scompare a Milano il padre dell' "Arte povera", che ha raccontato per moltissimi anni sulle nostre pagine tutte le novità e gli interpreti più interessanti dell'arte contemporanea. Sabina Minardi il 29 aprile 2020 su L'Espresso. Un universo d'arte, nello spazio di una cartella. Con una rubrica fissa sulle pagine dell'Espresso, per moltissimi anni Germano Celant ha sintetizzato, con i suoi fulminei colpi d'occhio, le novità e le contraddizioni, i passaggi, gli strappi, gli interpreti più significativi dell'arte contemporanea. Curatore, critico, teorico e aggregatore di talenti, consapevole dell'importanza della comunicazione, ha inventato slogan, definizioni. E anche quando gli stavano stretti, come ha più volte detto riguardo a quella di “Arte povera”, ha mantenuto e ribadito la consapevolezza di quanto le etichette siano la strada migliore per portare all'attenzione la complessità. A partire da quella di Alighiero Boetti, Jannis Kounellis, Giulio Paolini, Pino Pascali, Luciano Fabri, Emilio Prini, appunto: entrati nella comunicazione e negli immaginari proprio grazie a quell'efficace e fortunata espressione di “arte povera”, prima ancora di essere studiati come movimento artistico, riuniti nei musei, catalogati (“Arte povera. Storia- Storie”, Electa) e scandagliati in tutto il mondo. Per questo i suoi testi erano facili da titolare: immagini fatte di parole, che si imponevano da sole, esattamente come le foto da lui puntualmente suggerite per illustrare con efficacia gli argomenti. Caustico e tagliente, non disdegnava le sfide intellettuali e la difesa delle sue posizioni, come quando scendeva in campo, anche sul nostro giornale, contro altre visioni su una mostra, un'artista, una tendenza. Davvero lungo l'elenco delle esposizioni da lui curate, in tutti gli spazi più prestigiosi del mondo: dal Centre Pompidou di Parigi a Palazzo Grassi a Venezia, da Londra al Museo Guggenheim di New York, dove è stato senior curator: fu lì che nel 1994 allestì  la famosa mostra “Italian Metamorphosis 1943-1968”, con l'obiettivo di mettere in dialogo l’arte italiana con la cultura americana. Nel 1997 è stato direttore della Biennale d'Arte di Venezia. Ha diretto la Fondazione Prada a Milano; tra le mostre curate più di recente quella dedicata alla carriera del fotografo Paolo Pellegrin al Maxxi di Roma. Celant ha segnalato ai nostri lettori, prima di molti altri, i nomi più sorprendenti dell'arte destinata a durare. Come in queste rubriche che vi riproponiamo, tra le tante che chiunque può rileggere on line: u na dedicata a Marina Abramovic  su una performance, “The Artist is present”, diventata virale sui social network in tempi recenti, da lui recensita nel 2010;  una forte critica alla valanga di denaro  che, travolgendo il mondo dell'arte, lo trasforma in un mercato qualunque, uscita nel 2006; e “ Quelle banalità solidali alla Biennale ”, del 2017: controcorrente giudizio su alcune proposte della rassegna.

Pierluigi Panza per il “Corriere della Sera” il 30 aprile 2020. In When Attitudes Become Form , curata da Harald Szeemann alla Kunsthalle di Berna nel' 69, Io che prendo il sole a Torino il 19 gennaio 1969 di Alighiero Boetti stava sdraiato sul pavimento con opere di Bruce Nauman; in fianco, Mario Merz aveva piantato un igloo di stracci e sulle scale Jannis Kounellis aveva sparso sacchi di grano. Germano Celant, scomparso ieri a seguito del coronavirus (era ricoverato al San Raffaele di Milano e aveva manifestato i primi sintomi un mese fa, di ritorno dell' Armory Show negli Usa), aveva allora trent' anni e da due aveva capito che quel cemento a presa rapida di Boetti, quegli stracci di Merz e Pistoletto, quella rottameria messa insieme da Mario Ceroli, Pino Pascali, Giulio Paolini, Luciano Fabro, Pier Paolo Calzolari e altri costituivano il detonante bric-à-brac che l' arte italiana poteva offrire all' estetica del '68. Tanto che ieri il ministro Dario Franceschini ha parlato di «un' Italia impoverita per la perdita del talento di Celant». L' Arte Povera era nata nel '67 alla Galleria La Bertesca di Genova, città nella quale Celant era nato nel 1940. Ma quella tappa a Berna fu per alcuni «poveristi» come uno sbarco sulla luna. Celant aveva già scritto il manifesto del gruppo: Arte Povera. Appunti per una guerriglia nel quale, riprendendo Marx, scriveva: «L' arte povera è impegnata con la contingenza, con l' evento, con l' astorico, col presente, con la concezione antropologica, con l' uomo reale». Arte Povera significa, ci disse un giorno, «usare quello che vuoi». Lui, esistenzialista nerovestito tutta la vita, incarnò la metafora di Oscar Wilde del «critico come artista»: lui ci metteva lo slogan, gli artisti creavano forme e gesti basati sulla riappropriazione del rapporto Uomo-Natura. Fu Eugenio Battisti, docente a Genova, a lasciare al suo protégé la conduzione del Museo Sperimentale e della rivista «Marcatré», della quale avrebbero fatto parte Umberto Eco ed Edoardo Sanguineti. La qualità di Celant come curatore emerse subito e si riassume nel lasciare massima libertà nella selezione e presentazione delle opere all'artista. In breve mise a punto anche un' altra qualità: quella di coltivare contatti internazionali. Questo aspetto lo portò a infiniti viaggi e a comprendere e accettare la trasformazione dell' arte in gioioso bene di consumo delle élite . Rispetto alle ideologie del Futurismo o dell' Arte impegnata, Celant privilegiò una libertà antiprogrammatica, una «pratica aperta» accompagnata dalle prime forme di costruzione del consenso. Prese a curare le sue grandi mostre: Identité italienne al Centre Pompidou nel 1981, Italian Metamorphosis, 1943-1968 al Guggenheim nel 1994 e altre alla Royal Academy di Londra e a Palazzo Grassi a Venezia. Diventa un monumento curatoriale, sempre disponibile sotto la nera divisa e il fluente capello bianco: direttore della prima Biennale di Firenze, della Biennale di Venezia nel 1997 ( Futuro, presente, passato con 67 artisti internazionali), senior curator al Guggenheim di New York, direttore della Fondazione Vedova di Venezia, supervisore di Genova Capitale della Cultura (2004), curatore della sezione «Food and Art» dell' Expo 2015. Scrive per «Artforum» e l'«Espresso» e realizza una cinquantina di monografie e scritti teorici su Conceptual Art, Land Art e l' Inespressionismo (1988). Miuccia Prada è il munifico committente che tutti i curatori vorrebbero avere: nel 1995 lo chiama a dirigere e sovrintendere la gioiosa e concettuale macchina estetica della maison . Concepisce una quarantina di mostre, dalla personale di Michael Heizer all' ultima retrospettiva su Kounellis. Ieri, insieme al marito Patrizio Bertelli, Miuccia lo ha ricordato come «un compagno di viaggio che ha contribuito a farci ripensare il significato della cultura nel nostro presente». Per la mostra When Attitudes Become Form , svoltasi nella sede veneziana di Prada, Ca' Corner della Regina, nel 2013 Celant riceve il The Agnes Gund Curatorial Award accanto a Miuccia, che ottiene il The Leo Award (riconoscimenti dell' Independent Curators International). Le sedi Prada di Ca' Corner a Venezia, Osservatorio e Fondazione (firmata da Rem Koolhaas) a Milano diventano come quella «scatola magica» dipinta nel Mondo nuovo da Tiepolo. In quest' affresco a Ca' Rezzonico, a due passi da Ca' Corner, Tiepolo dipinse una folla che si precipita a guardare cosa si vede traguardando una scatola ottica mentre un Celant del Settecento, con la bacchetta in mano, invita a osservare. Nell' affresco di Tiepolo accorrono popolani; da Prada griffati radical chic . Ma analoga è la voglia di osservare dentro una scatola-osservatorio per vedere un mondo nuovo. Grazie a Celant si è sognato di trovarlo: ci si metteva lì, in coda, dentro una fantasia «povera» ma ricca, quasi esotica, possibile.

Francesco Bonami per “la Repubblica” il 30 aprile 2020. Alla notizia, improvvisa, della morte di Germano Celant a ottant' anni, vittima del coronavirus (era ricoverato al San Raffaele di Milano), mi è venuta in mente la poesia Il Cinque Maggio di Manzoni scritta per la morte di Napoleone. Il mondo dell' arte è infatti attonito. Germano Celant è stato e rimane una delle pietre angolari della storia dell' arte contemporanea mondiale. Un Napoleone, un po' rock e un po' punk, della cultura contemporanea capace di anticiparne la storia, qualità che solo pochi hanno avuto. Chi mi conosce sa che non nutrivo simpatia professionale per Celant. Apparteneva ad una generazione culturale e politica che ritengo abbia prodotto a volte danni per il sistema dell' arte italiano. Ma la realtà spazza via ogni dubbio. I grandi personaggi, uscendo dal tempo, fanno scomparire difetti, imperfezioni e dettagli, obbligandoci a guardare esclusivamente alla loro genialità e capacità d' interpretare il mondo. È geniale Celant nel 1967, qualche mese prima che arrivi lo tsunami del '68 ad intuire prima di ogni altro che i linguaggi dell' arte così come sono non resisteranno all' impatto dell' onda di una rivoluzione culturale che cambierà tutto. L' artista-individuo non ce la farà a galleggiare nel maremoto che sta per travolgerlo. Con una lucidità che non lo abbandonerà mai nel corso della sua carriera Celant inventa l' Arte Povera, che diventerà uno dei più importanti movimenti artistici della storia dell' arte di tutti i tempi. Nel novembre del 1967 sul numero 5 della neonata rivista Flash Art il giovane curatore genovese pubblica il manifesto Arte Povera. Appunti per una Guerriglia. Il testo inizia in questo modo: «Prima viene l' uomo poi il sistema, anticamente era così». Una frase che osservando il mondo in questo momento acquista un' attualità che son certo Celant stesso avrebbe preferito non avesse. Il manifesto diventerà un punto di riferimento assoluto per tutti coloro che abbiano poi intrapreso il mestiere di curatore o gli storici dell' arte del presente. La genialità dell' intuizione di Celant consiste nel mettere dentro o sotto il cappello dell' Arte Povera un gruppo di artisti che da un punto di vista biografico e stilistico avevano poco in comune e che senza la capacità di sintesi di Celant difficilmente sarebbero riusciti ad affermare in quel particolare momento storico la propria identità individuale. Per questo forse nessuno, compreso il più anarchico fra loro, Alighiero Boetti, ha mai rinnegato l' appartenenza al gruppo. Pur avendo Celant nel 1972 sciolto le righe del movimento per poi ricompattarlo nel 1985 con una mostra a New York al P.S. 1, Jannis Kounellis, Luciano Fabro, Marisa e Mario Merz, Giulio Paolini, Michelangelo Pistoletto, Piero Gilardi, Pino Pascali, Giovanni Anselmo, Giuseppe Penone, Emilio Prini, Pier Paolo Calzolari, hanno sempre viaggiato nelle loro rispettive carriere con l' ombra rassicurante dell' Arte Povera alle spalle. Lo stesso Celant, pur curando un numero di mostre strabiliante, non abbandonerà o forse non si libererà mai della sua eccezionale creatura. Ma oltre all' Arte Povera un trittico di mostre curate da Celant rimangono fondamentali per il racconto della eccezionalità italiana attraverso l' arte, Identité Italienne nel 1981 al Centro Pompidou di Parigi, The Italian Metamorphosis nel 1994 al Guggenheim Museum di New York e la più recente Post Zang Tumb Tuuum. Art, Life, Politics: Italia 1918-1943, nel 2018 alla Fondazione Prada di Milano. Ma non si può dimenticare la Biennale di Firenze curata nel 1996 assieme ad Ingrid Sischy e Luigi Settembrini. Un' anticipazione sul rapporto fra moda e arte che in seguito si sarebbe sviluppato in modo quasi morboso. Come La settimana enigmistica questa Biennale vanterà numerosi tentativi d' imitazione ma nessuno riuscirà mai a rimettere assieme una mostra di quel genere. Lo stesso Celant vanta fra le generazioni di giovani curatori numerosi tentativi di imitazione senza che nessuno di loro sia mai riuscito nell' impresa di replicare il "metodo Celant", rigoroso e visionario al tempo stesso. Se un difetto Celant ha avuto, è stato quello di essere stato un padre padrone dell' Arte Povera e un po' del sistema dell' arte italiano in generale. Appassionato e possessivo è stato un dio che non è riuscito o non ha voluto fare quello che la Kabbalah dice abbia saputo fare il Dio ebraico, Tzimtzum, ovvero un passo indietro, lasciando alle sue intuizioni e creazioni la possibilità di esprimersi liberamente. Poco importa. Con Celant se ne va una delle ultime carismatiche figure di un mondo dell' arte che non esiste più, completando assieme ad Harald Szeemann e Jan Hoet quella "trinità" di curatori che hanno trasformato l' arte contemporanea, la sua percezione e i suoi linguaggi. Nel manifesto del '67 un passaggio riflette e lo celebra con definitiva e commovente precisione: «Un' imprevedibile coesistenza tra forza e precarietà esistenziale (...) pone in crisi ogni affermazione, per ricordarci che ogni cosa è precaria, basta infrangere il punto di rottura ed essa salterà. Perché non proviamo con il mondo?».

Morto Germano Celant. Addio al critico d’arte padre dell’Arte Povera, ucciso dal Coronavirus. Carlo Franza il 29 aprile 2020 su Il Giornale. E’ morto Germano Celant, critico dell’Arte Povera, oggi 29 aprile 2020  ucciso dal Coronavirus. Ho perso un grande amico. Aveva 80 anni, era ricoverato a Milano per Covid-19. Il collega era  uno dei più celebri storici dell’arte contemporanea,  italiano,  alla fine degli anni Sessanta aveva dato vita al movimento di Arte povera, poi diventato il più rilevante fenomeno artistico in Italia nella seconda metà del Novecento. Germano Celant era nato a Genova nel 1940, si è spento all’Ospedale San Raffaele di Milano, dove era ricoverato  da circa due mesi nella terapia intensiva e non ce l’ha fatta nella sua lotta contro le complicazioni dovute al Coronavirus. Aveva manifestato i primi sintomi di ritorno in Europa dagli Stati Uniti, dove era stato per l’Armory Show; ad aggravare la situazione, erano state le complicazioni consequenziali anche dovute al diabete. Lascia la moglie Paris Murray e il figlio Argento Celant. Scompare con lui una pagina basilare  della storia dell’arte italiana contemporanea.Teorico di uno dei più noti movimenti d’arte italiana dal secondo dopoguerra, grazie alla sua vocazione internazionale aveva fatto conoscere gli artisti nostrani al mondo.  La notizia  ha destato sorpresa  nel campo dell’arte internazionale, nelle sedi museali e negli amici e colleghi  – ad iniziare da me- con i quali ha condiviso segmenti importanti dell’arte mondiale.   Di famiglia modesta,  si era laureato in Lettere (contro la volontà del padre, che l’avrebbe voluto ingegnere). Alla fine degli anni Sessanta ha dato vita al movimento di  “Arte povera” coniandone la definizione e raccogliendo a sé un gruppo di artisti italiani illustri, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Jannis Kounellis, Giulio Paolini, Pino Pascali ed Emilio Prini, esposti nella prima mostra alla Galleria La Bertesca di Genova. “Là un’arte complessa, qui un’arte povera, impegnata con la contingenza, con l’evento, con l’astorico, col presente, con la concezione antropologica, con l’uomo ‘reale’ (Marx), la speranza, diventata sicurezza, di gettare alle ortiche ogni discorso visualmente unico e coerente (la coerenza è un dogma che bisogna infrangere!), l’univocità appartiene all’individuo e non alla ‘sua’ immagine e ai suoi prodotti”, ha scritto Germano Celant in Appunti per una guerriglia, testo teorico fondamentale stilato nel 1967.  E ancora: “Un nuovo atteggiamento per ripossedere un ‘reale’ dominio del nostro esserci, che conduce l’artista a continui spostamenti dal suo luogo deputato, dal cliché che la società gli ha stampato sul polso. L’artista da sfruttato diventa guerrigliero, vuole scegliere il luogo del combattimento, possedere i vantaggi della mobilità, sorprendere e colpire, non l’opposto”. Germano Celant era noto per essere il fondatore di Arte Povera, movimento artistico basato sulla riappropriazione del rapporto Uomo-Natura, sull’immanenza, sull’importanza del gesto artistico, in opposizione a un’arte piacevole  e consumista che stava prendendo piede alla fine degli anni ’60, quando si affermò. Gli artisti che vi presero parte sono tutt’oggi gli italiani tra i più conosciuti e presenti sul mercato internazionale. È stato  autore di oltre cinquanta pubblicazioni, tra cataloghi, approfondimenti sul lavoro di singoli artisti o scritti teorici come Conceptual Art, Arte Povera, Land Art del 1970. L’impegno di Germano Celant di presentare al mondo l’arte italiana si era manifestato attraverso il suo incarico come curatore al Guggenheim di New York e numerose mostre nei musei esteri. È stato direttore della prima Biennale di Firenze Arte e Moda e della Biennale di Venezia nel 1997. Tra i critici italiani più conosciuti, la sua carriera dal 2015 aveva raggiunto l’apice con la direzione artistica di Fondazione Prada. Germano Celant è stato  tra i maggiori protagonisti dell’arte contemporanea italiana e del suo rinnovamento, voce seguitissima della critica internazionale. Molti lo conoscevano come il “critico faraone” per i lautissimi compensi, per il suo stile, per la sua verve, per il suo vestire sempre di nero, per un modario in cui ha lasciato su tanti progetti il suo nome. Un collega il cui nome  era  segnale di serietà e garanzia, e soprattutto professionalità,  certo costosissima. Con lui si chiude così, in maniera drammatica, una grande epoca per l’arte contemporanea in Italia. Mi rimangono le sue telefonate che  spesso mi faceva da New York, e lo scambio di prospettive che ci scambiavamo.

Germano Celant. Nato a Genova nel 1940, da padre impiegato in una ditta di import-export e madre casalinga, Germano Celant da giovanissimo iniziò a frequentare il vivace ambiente culturale che si stava sviluppando in quegli anni nella città ligure. Conobbe il gruppo dei cantautori, Gino Paoli, Umberto Bindi e Luigi Tenco e frequentò lo stesso Liceo di Fabrizio De Andrè. Nella metà degli anni ’60, iniziò a scrivere per riviste di cultura, nel 1964 lavorò alla progettazione di un libro sul design della Olivetti e, viaggiando tra Milano e Torino, conobbe Arturo Schwarz e Gian Enzo Sperone – qui ebbe modo di vedere la mostra di Andy Warhol, con Leo Castelli e Ileana Sonnabend tra gli invitati – oltre al gruppo di quelli che sarebbero poi diventati gli alfieri dell’Arte Povera. Celant coniò la definizione di Arte Povera nel 1967, inquadrando un nutrito gruppo di artisti italiani che comprendeva Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Jannis Kounellis, Giulio Paolini, Pino Pascali ed Emilio Prini, le cui opere furono esposte nella mostra leggendaria alla Galleria La Bertesca di Genova. Nel 1968 la consacrazione con la mostra “Arte Povera più azioni povere”, nell’ambito della Rassegna Internazionale di Pittura agli Arsenali di Amalfi, organizzata da Marcello Rumma e recentemente ricordata in una mostra al Madre di Napoli, a cui parteciparono Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Jannis Kounellis, Mario Merz, Marisa Merz, Giulio Paolini, Pino Pascali, Michelangelo Pistoletto, Emilio Prini, Gilberto Zorio, Ableo, Paolo Icaro, Pietro Lista, Gino Marotta, Gianni Piacentino, Richard Long, Jan Dibbets, Ger van Elk. Piero Gilardi, invece, non espose ma partecipò al convegno successivo, considerato uno degli atti fondativi dell’Arte Povera e, in generale, del rinnovamento dell’arte italiana, durante il quale intervennero anche  i colleghi storici e critici  Achille Bonito Oliva, Gillo Dorfles, Filiberto Menna, Angelo Trimarco. Successivamente precisò la direzione teorica del gruppo, attraverso scritti ancora oggi attualissimi, come Conceptual Art, Arte Povera, Land Art del 1970. Nel 1977, iniziò a collaborare con il museo Guggenheim di New York, di cui diventò in seguito senior curator.  Sempre al Guggenheim allestì nel 1994 la mostra “Italian Metamorphosis 1943-1968”, nel tentativo di avvicinare l’arte italiana alla cultura americana, un obiettivo costantemente ricercato da Celant, attraverso una serie di mostre dal forte taglio innovativo, nei musei più importanti al mondo, dal Centre Pompidou di Parigi, nel 1981, a Palazzo Grassi, a Venezia, nel 1989. Nel 1997 fu nominato direttore della 47ma Biennale d’Arte di Venezia. «Non vorrei essere presuntuoso, ma credo che il compito che mi sono posto, appena venuto a conoscenza dell’incarico, sia stato quello di “mostrare” che la Biennale è potenzialmente uno strumento ad alto funzionamento qualitativo. A parte le infinite difficoltà politiche e burocratiche, la Biennale è un meccanismo espositivo unico al mondo, con potenzialità infinite sia sul piano dell’informazione che della didattica, sia della ricerca che del funzionamento. Gestita al massimo della sua potenza – che non è potere – potrebbe diventare un meccanismo a tempo pieno per la cultura contemporanea, e questo senza gravare molto sulla città e sullo stato. Lavorando a una sua ottimizzazione procedurale e funzionale, i risultati sarebbero sorprendenti. Infine, un altro traguardo che mi sono imposto è stato quello di riportare a Venezia i grandi protagonisti dell’arte mondiale, in tutte le loro manifestazioni linguistiche e di diverse generazioni», scriveva a commento della sua nomina. “Futuro, Presente, Passato” era il titolo della sua mostra, che presentava opere di artisti come, tra gli altri, Maurizio Cattelan, Enzo Cucchi, Ettore Spalletti, Marina Abramovic, John Baldessari, Vanessa Beecroft, Daniel Buren, Cai Guo Qiang, Dinos e Jake Chapman, Francesco Clemente, Gino De Dominicis, Jan Dibbets, Jim Dine, Jan Fabre, Luciano Fabro, Rebecca Horn, Ilya e Emilia Kabakov, Anselm Kiefer, Jeff Koons, Sol LeWitt, Roy Lichtenstein, Mario Merz, Annette Messager, Mariko Mori, Maria Nordman, Claes Oldenburg, Dennis Oppenheim, Giulio Paolini, Gerhard Richter, Pipilotti Rist, Edward Ruscha, Haim Steinbach, Luc Tuymans, Emilio Vedova, Franz West, Gilberto Zorio. Celant non abbandonò mai il piacere della scrittura e ha continuato a collaborare per importanti riviste e giornali. Dal 2015, Celant è stato soprintendente artistico e scientifico della Fondazione Prada, per la quale, fin dalla metà degli anni ’90, ha curato mostre memorabili. Dalla prima personale in Italia di Walter De Maria, nel 1999, a “Post Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics: Italia 1918–1943“, grande collettiva, presentata nel 2018, con più di 600 lavori, fino alla prima retrospettiva dedicata a Jannis Kounellis dopo la sua scomparsa, presentata nel 2019 nella sede di Venezia della Fondazione. Nel 2001 è stato commissario del Padiglione Brasiliano alla 49ma Biennale Internazionale d’arte di Venezia, nel 2004 supervisore artistico della programmazione dei cento eventi culturali di “Genova 2004, Capitale Europea della Cultura”. Dal 2005 è curatore della Fondazione Aldo Rossi, Milano e, dal 2008, è stato curatore artistico e scientifico della Fondazione Annabianca e Emilio Vedova, Venezia. In occasione di Expo 2015, ha curato la mostra “Art & Food” alla Triennale di Milano.  Figura  e intellettuale  da sempre in relazione con le avanguardie, le neoavanguardie, i collettivi e  le tendenze. L’Italia perde un intellettuale di chiara fama. Carlo Franza  

Giulia Ronchi per Artribune.com il 29 aprile 2020. Muore a all’età di 80 anni Germano Celant, nato a Genova nel 1940. Era da circa mese ricoverato a Milano e non ce l’ha fatta nella sua lotta contro le complicazioni dovute al Coronavirus, anche se qualche settimana fa si erano visti spiragli di un miglioramento. Aveva manifestato i primi sintomi di ritorno in Europa dagli Stati Uniti, dove era stato per l’Armory Show. A un tratto pareva “guarito” dal virus e un po’ migliorato, ma era stato trattenuto in ospedale per le complicazioni consequenziali anche dovute al diabete. Scompare con lui una pagina imprescindibile della storia dell’arte italiana. Il critico d’arte genovese è noto come fondatore di Arte Povera, movimento artistico basato sulla riappropriazione del rapporto Uomo-Natura, sull’immanenza, sull’importanza del gesto artistico, in opposizione a un’arte patinata e consumista che stava prendendo piede alla fine degli anni ’60, quando si affermò. Gli artisti che vi presero parte sono tutt’oggi gli italiani tra i più conosciuti e presenti sul mercato internazionale. È autore di oltre cinquanta pubblicazioni, tra cataloghi, approfondimenti sul lavoro di singoli artisti o scritti teorici come Conceptual Art, Arte Povera, Land Art del 1970. L’impegno di Germano Celant di presentare al mondo l’arte italiana si era manifestato attraverso il suo incarico come curatore al Guggenheim di New York e numerose mostre nei musei esteri. È stato direttore della prima Biennale di Firenze Arte e Moda e della Biennale di Venezia nel 1997. Tra i critici italiani più conosciuti, la sua carriera dal 2015 aveva raggiunto l’apice con la direzione artistica di Fondazione Prada. Germano Celant è nato a Genova nel 1940 da una famiglia di origini modeste. Laureatosi in Lettere (contro la volontà del padre, che l’avrebbe voluto ingegnere), alla fine degli anni Sessanta ha dato vita al movimento di Arte povera, coniandone la definizione e raccogliendo a sé un gruppo di artisti italiani del calibro di Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Jannis Kounellis, Giulio Paolini, Pino Pascali ed Emilio Prini, esposti nella prima mostra alla Galleria La Bertesca di Genova. “Là un’arte complessa, qui un’arte povera, impegnata con la contingenza, con l’evento, con l’astorico, col presente, con la concezione antropologica, con l’uomo ‘reale’ (Marx), la speranza, diventata sicurezza, di gettare alle ortiche ogni discorso visualmente unico e coerente (la coerenza è un dogma che bisogna infrangere!), l’univocità appartiene all’individuo e non alla ‘sua’ immagine e ai suoi prodotti”, ha scritto Germano Celant in Appunti per una guerriglia, testo teorico fondamentale stilato nel 1967. “Un nuovo atteggiamento per ripossedere un ‘reale’ dominio del nostro esserci, che conduce l’artista a continui spostamenti dal suo luogo deputato, dal cliché che la società gli ha stampato sul polso. L’artista da sfruttato diventa guerrigliero, vuole scegliere il luogo del combattimento, possedere i vantaggi della mobilità, sorprendere e colpire, non l’opposto”. Il movimento da lui fondato si basa su una riappropriazione del rapporto Uomo-Natura non in senso ascetico, bensì in contrapposizione con la imperante cultura dei consumi. La mercificazione dell’artista e della sua opera fu una minaccia contro la quale Arte povera si scagliò, utilizzando materiali poveri appunto, ossia organici, deperibili, privi di valore intrinseco. Alla galleria Bertesca di Genova presentò anche un’altra mostra: Im-Spazio, con i lavori di Umberto Bignardi, Mario Ceroli, Paolo Icaro, Renato Mambor, Eliseo Mattiacci e Cesare Tacchi. “Non invento niente”, diceva, intervistato da Antonio Gnoli per Repubblica, “’Arte Povera’ è un’espressione così ampia da non significare nulla. Non definisce un linguaggio pittorico, ma un’attitudine. La possibilità di usare tutto quello che hai in natura e nel mondo animale. Non c’è una definizione iconografica dell’Arte Povera”. Arte povera resta tutt’oggi tra i movimenti artistici italiani più conosciuti in ambito internazionale dal secondo dopoguerra. Dopo la realizzazione nel 1977 a Bari della mostra Off media, viene chiamato a collaborare con il Museo Salomon R. Guggenheim Museum di New York, dov’è senior curator of Twentieth-Century Art. Durante gli anni Ottanta cura mostre nei musei più importanti: al Centre Pompidou di Parigi (1981), alla Royal Academy of Arts di Londra (1989) e a Palazzo Grassi a Venezia (1986 e 1989). In questa fase, la sua attività è tesa a creare un ponte tra l’arte italiana e l’ambiente statunitense e internazionale: proprio per questo, ancora al Guggenheim di New York cura nel 1994 la mostra Italian Metamorphosis 1943-1968.  Nel 1996 realizza la prima Biennale di Firenze Arte e Moda, sviluppando la sua concezione dell’arte come intreccio linguistico connesso all’ambiente, di arte in continua evoluzione, strettamente connessa con la cultura contemporanea intesa come espressione dinamica di una creatività globale. Celant è stato anche direttore artistico, nel 1997, della 47esima Biennale d’Arte di Venezia. L’esposizione da lui curata, Futuro, Presente, Passato, si sviluppa alle Corderie, con la partecipazione di 67 artisti internazionali, tra i più in vista. “La scelta degli artisti dipende dal metro che si decide di usare. Nella mostra internazionale ho cercato di rappresentare tutte le stratificazioni dell’arte contemporanea, a partire dalla pop art e dalla minimal art”, spiega Celant ancora a Repubblica in un articolo del ‘97. “Insomma, da metà degli anni Sessanta in avanti. Prima cosa il taglio storico dunque, ma ho dovuto metterlo insieme con il presente: lavorando con la contemporaneità avevo bisogno di incontrare artisti viventi. Con questi due parametri ho cominciato una lettura per strati arrivando al concettuale, all’ arte povera… A guardare, c’è una campionatura molto forte dei vari movimenti: Lichtenstein per il pop, Jim Dine per una certa radicalità figurativa, Oldenburg per il contributo alla sensualità dell’oggetto, erano fondamentali. E poi Agnes Martin, Brice Marden sul senso della pittura, Heizer… Ho cercato un’esemplificazione dei vari movimenti, in modo che ci fosse un attraversamento sia in senso verticale sia in senso orizzontale, perché ognuno degli artisti ha contribuito con dei lavori nuovi”. Collaboratore di note riviste fra le quali L’Espresso con la rubrica Arte, Celant, dopo aver realizzato a Genova nel 2004 la grande mostra Arti & Architettura, diventa curatore della Fondazione Vedova a Venezia e direttore artistico di Fondazione Prada a Milano. Una carica prestigiosa, che lo porta a organizzare mostre con personaggi importantissimi dell’arte, ma anche del cinema, dell’architettura e del mondo accademico. Nel 2013, riceve il The Agnes Gund Curatorial Award, accanto a Miuccia Prada che ottiene il The Leo Award, due premi promossi dall’Independent Curators International (ICI) di New York. I riconoscimenti giungono “per i loro contributi al mondo dell’arte contemporanea, per l’attività a livello internazionale della Fondazione Prada e per la mostra When Attitudes Become Form: Bern 1969/Venice 2013”, svoltasi nella sede veneziana di Fondazione Prada Ca’ Corner della Regina, in dialogo con Thomas Demand e Rem Koolhaas. In occasione di Expo 2015 ha curato la mostra Art & Food alla Triennale di Milano, organizzando un lunghissimo percorso focalizzato sulla commistione tra arte e cibo, dal 1851 (anno della prima Esposizione Universale, tenutasi a Londra) fino ai nostri giorni, con allestimenti progettati dall’architetto Italo Rota.

·        È morto Giulietto Chiesa, giornalista e politico.

È morto Giulietto Chiesa, giornalista e politico. Redazione de Il Riformista il 26 Aprile 2020. Giulietto Chiesa, noto giornalista con alla spalle una lunga carriera all’Unità, La Stampa, Manifesto e Micromega, è morto oggi all’età di 79 anni. A darne notizia è stato il vignettista Vauro Senesi su Facebook: “Giulietto Chiesa è morto”. Il disegnatore ha aggiunto nel post di “ricordare i suoi occhi lucidi di lacrime, a Kabul, davanti ad un bambino ferito dallo scoppio di una mina. È morto un uomo ancora capace di piangere per l’orrore della guerra. I suoi occhi sono un po’ anche i miei”. Chiesa è stato per anni uno dei più importanti osservatori del mondo sovietico, raccontandone anche la disgregazione dopo il crollo dell’URSS. Da sempre attivista comunista, era stato dirigente nazionale della Federazione Giovanile Comunista Italiana. Nel 1980 entra a L’Unità, il giornale del PCI che lo manda come inviato a Mosca per le Olimpiadi. Nel 2004 Chiesa viene candidato ed eletto da indipendente alle Europee per la lista “Di Pietro – Occhetto, società civile”, raccogliendo più di 14mila preferenze nella circoscrizione Nord Ovest, 8mila al Nord Est e 12mila al Centro. Nel 2017 il suo impegno politico si sposa con quello del magistrato Antonio Ingroia nella “Lista del Popolo per la Costituzione”, che alle politiche del 2018 raccoglie soltanto lo 0.03% a livello nazionale. Negli ultimi anni il suo nome è stato sempre più accostato al mondo del complottismo, con interventi rilasciati in particolare sulla televisione online Pandoratv.it, fondata da Chiesa nel 2014. Il giornalista era diventato un forte sostenitore di teorie come scie chimiche, la matrice americana dietro l’attentato dell’11 settembre alle Torri Gemelle, così come la ‘cabina di regia’ dietro gli attentati del 2016 a Bruxelles. Nel corso degli anni le sue posizioni filo-Putin si erano fatte sempre più forti, in particolare sulla guerra in Siria e sull’uso di armi chimiche da parte del presidente Bashar al-Assad, alleato proprio di Putin.

Addio a Giulietto Chiesa, ultimo vero giornalista militante. Il Dubbio il 26 aprile 2020. Si è spento a 79 anni. Era nato in Piemonte, aveva militato nel Pci ed era stato eletto europarlamentare nel 2004 con la Lista Di Pietro-Occhetto. È stato uno storico corrispondente da Mosca per l’Unità e poi per la Stampa. Un giornalista militante. Uno degli ultimi, se l’espressione è intesa nella sua forma pura. Giulietto Chiesa ci ha lasciati a 79 anni. Se ne va una firma storica della sinistra italiana, corrispondente da Mosca innanzitutto per l’Unità e poi per La Stampa, ma anche per la tv, dal Tg5 alla Rai. Nato il 4 settembre del 1940 ad Acqui Terme, in Piemonte, come altri intellettuali impegnati a sinistra Giulietto Chiesa ha unito all’attività professionale la presenza diretta nella politica. In particolare con la propria militanza nella Fgci, la Federazione giovani comunisti italiani, di cui è stato dirigente nazionale negli anni Settanta, e con le battaglie nelle amministrazioni locali, come nel consiglio provinciale di Genova, nel quale è stato capogruppo del Pci fino al 1979. Fino al ritorno nella politica attiva del 2004, quando viene eletto al Parlamento europeo nella Lista Di Pietro-Occhetto-Società civile, per poi aderire come indipendente al gruppo del Pse. Ma Giulietto Chiesa merita di essere ricordato innanzitutto come figura storica dell’informazione nella seconda fase della guerra fredda e per gli interi ultimi due decenni del secolo scorso. Nel 1980 viene inviato infatti dall’Unità a Mosca per seguire le Olimpiadi. Quei giochi sono uno snodo essenziale nella geopolitica, visto il clamoroso boicottaggio dell’intero Occidente, con la sola partecipazione di alcuni Paesi dell’area Nato, Italia in testa, limitata però alla “volontaria” presenza di singoli atleti. Il rigore con cui Chiesa testimonia sul giornale del Pci un evento olimpico dai risvolti tanto delicati ed extrasportivi gli vale la conferma come corrispondente per l’Unione Sovietica del quotidiano, fino al 1990. Si integra in pieno nella capitale dell’Urss, insieme con la compagna Fiammetta Cucurnia, giornalista di Repubblica. Passa quindi alla Stampa e continua a lavorare da Mosca fino al 2020, intraprende le collaborazioni con il Tg5, il Tg3 e il Tg1. Nell’ultimo periodo è notista politico per il manifesto, fino dal ritorno in Italia, quando torna a dedicarsi alla politica attiva.

È morto Giulietto Chiesa, raccontò la fine dell'Unione Sovietica. Profondo conoscitore della Russia e dei Paesi ex sovietici, Giulietto Chiesa è stato a lungo corrispondente da Mosca prima per L'Unità e poi per La Stampa. Aveva 79 anni. Roberto Vivaldelli, Domenica 26/04/2020 su Il Giornale. "Giulietto Chiesa è morto. Non riesco ancora a salutarlo. Ricordo i suoi occhi lucidi di lacrime, a Kabul, davanti ad un bambino ferito dallo scoppio di una mina. È morto un uomo ancora capace di piangere per l’orrore della guerra. I suoi occhi sono un po’ anche i miei". Con queste poche righe il vignettista Vauro ha diffuso sui social la triste notizia della scomparsa del giornalista Giulietto Chiesa. Aveva 79 anni. Per tanti anni corrispondente de l’Unità da Mosca e poi a lungo alla Stampa, ha raccontato dalla capitale moscovita la perestrojka dell'amico Michail Gorbaciov, il crollo dell'Unione sovietica, ed è stato, in generale, un grande esperto e osservatore di tutto ciò che accadeva nei Paesi ex sovietici. Come racconta il suo sito web, diventa giornalista nel 1979, quando entra a L’Unità come redattore ordinario. In precedenza aveva compiuto una lunga esperienza politica nel Partito Comunista, prima come dirigente studentesco universitario, a Genova e in campo nazionale (Vice-presidente dell’Unione Goliardica Italiana), poi come dirigente nazionale della Federazione Giovanile Comunista Italiana (Fgci), infine come dirigente della Federazione genovese del Pci negli anni 1970-1979. Capogruppo per il Pci nel Consiglio Provinciale di Genova dal 1975 al 1979, quando lascia il funzionariato di partito e viene assunto da L’Unità, a Roma. Dal 1° ottobre 1980 al 1° settembre 1990 è corrispondente da Mosca per l’Unità. Nel 1990 entra a La Stampa, sempre come corrispondente da Mosca, e rimane in Russia fino alla fine del 2000. Nel 2003 è stato eletto al Parlamento europeo. Giulietto Chiesa ha raccontato la Russia anche attraverso alcuni saggi, tra cui il recente Putinofobia (2016), nel quale scriveva: "La Russia è quel nemico. Lo è stato in passato, e oggi quell'ossessione ritorna in versione aggiornata. La Russia e il suo uomo forte Vladimir Putin sono il nuovo "nemico numero 1". Rispolverando gli slogan della Guerra Fredda, sono tornati a essere l'Impero del Male e Putin è un mostro da dare in pasto alle masse, opportunamente dipinto come tiranno psicopatico, responsabile di stragi o cinico tessitore di trame imperialiste". Negli ultimi mesi del 2008 Giulietto Chiesa, insieme a un nutrito gruppo di giornalisti, scrittori, intellettuali, riuniti attorno a Megachip, ha dato vita a Pandora Tv, esperimento breve di una televisione indipendente, autofinanziata dai suoi spettatori, su più piattaforme. Ha raccontato, nel 2008, la seconda guerra in Ossezia del Sud fra Georgia e Russia: "Nel 1991 - spiegò in un'intervista -contemporaneamente alla dichiarazione di indipendenza della Georgia da Mosca, l'Ossezia del Sud e l'Abkhazia si erano a loro volta dichiarate indipendenti, cosa che scatenò la guerra di allora. Inoltre, la Georgia ha dimostrato, con la sua ultima brutale aggressione, di non considerare gli osseti come suoi cittadini. Ha messo in opera una vera pulizia etnica e ha voluto la fuga, che è stata massiccia, degli osseti dal loro Paese". Il gironalismo piange un grande esperto di Russia e di politica internazionale.

Giulietto Chiesa e la Georgia: «Europa imprudente». Viola Fiore su cafebabel.com il 20 agosto 2008. Intervista al giornalista e deputato europeo sul conflitto nel Caucaso. Le responsabilità dell’Ue, la reazione “dovuta” della Russia e il trattamento mediatico “vergognoso”. Il 12 agosto la Russia ha affermato di aver cessato le operazioni militari nel Caucaso, accettando l'accordo di pace proposto dall'Unione europea per il tramite del Presidente francese Nicolas Sarkozy. Abbiamorivolto per l’occasione alcune domande a Giulietto Chiesa, giornalista, saggista e deputato europeo, che è stato a Tzkhinvali, capitale dell'Ossezia del Sud, la scorsa primavera. La vita di Giulietto Chiesa è segnata dalla storia recente della Russia e di quelle che, un tempo, erano le Repubbliche Sovietiche. Dopo aver ricoperto incarichi dirigenziali nel Pci (Partito comunista italiano, scioltosi nel 1991, ndr) durante gli anni Settanta, ha lavorato come corrispondente da Mosca per i quotidiani l'Unità e La Stampa e scritto numerosi libri sulla transizione all'era post-sovietica, rimanendo in Russia fino al 2000. Nel 2004 è stato eletto deputato al Parlamento europeo, prima nel gruppo dei Liberali e Democratici, poi nel Pse. Attualmente continua a collaborare con giornali e riviste italiani, europei, russi e americani.

Quali erano gli orientamenti politici prevalenti tra gli osseti, prima della guerra?

«Durante il mio recente viaggio in Ossezia del Sud, ho parlato in russo con decine e decine di persone, giovani e anziane, e posso assicurarle che non ne ho trovata una che desiderasse tornare sotto la Georgia. Il motivo è semplice: in ogni famiglia si conta almeno un morto nella guerra combattuta nel 1992 contro i georgiani. Nel 1991, infatti, contemporaneamente alla dichiarazione di indipendenza della Georgia da Mosca, l'Ossezia del Sud e l'Abkhazia si erano a loro volta dichiarate indipendenti, cosa che scatenò la guerra di allora. Inoltre, la Georgia ha dimostrato, con la sua ultima brutale aggressione, di non considerare gli osseti come suoi cittadini. Ha messo in opera una vera pulizia etnica e ha voluto la fuga, che è stata massiccia, degli osseti dal loro Paese».

Come giudica la reazione della Russia all'aggressione della Georgia?

«La Russia ha fatto con assoluta precisione quello che non poteva non fare. La Georgia lasciava alla Russia due alternative: o ritirarsi, dopo aver avuto dei morti nei suoi contingenti, che sono in Ossezia, ricordiamolo, legalmente, in base agli accordi di Dagomys del 1992, autorizzati quindi anche dalla Georgia. Ritirarsi avrebbe inoltre significato lasciare senza protezione la popolazione osseta, circa 100.000 persone che hanno, in maggioranza, passaporto russo. Oppure respingere le truppe di invasione georgiane dal territorio della Repubblica autonoma dell'Ossezia del Sud, che è ciò che è stato fatto».

Quale è il ruolo dell'Unione europea nella crisi del Caucaso?

«L'incontro di Nicolas Sarkozy con il Presidente russo Medvedev e la proposta europea di accordo di pace mi è sembrata un'iniziativa giusta e utile, arrivata con un po' di ritardo, per cercare di tornare alla normalità. Ritengo però che l'Europa abbia avuto delle responsabilità nello scoppio della guerra: sostenendo incondizionatamente il Presidente Saakashvili e le sue rivendicazioni su Ossezia del Sud e Abkhazia gli ha, di fatto, fornito un alibi. Non si dichiara una guerra per caso, e se Saakashvili lo ha fatto è perché si è ritenuto coperto dagli Stati Uniti, innanzi tutto, ma anche dall'Unione europea, della quale aspira a far parte in un futuro non troppo lontano. Non deve stupire se, quando annunciò in televisione che le sue truppe avrebbero aggredito l'Ossezia del Sud, Saakashvili si fece riprendere con la bandiera dell'Unione europea. Cosa ci faceva quella bandiera dietro le spalle del Presidente della Georgia, Paese che non fa parte dell'Unione? Ecco, credo che l'Europa avrebbe dovuto mantenere un atteggiamento più prudente nei confronti della Georgia. Ed è per verificare lo stato delle relazioni tra Unione europea e Georgia che andai personalmente in Ossezia del Sud, in primavera».

Cosa ne pensa della copertura di questa guerra da parte dei media?

«Considero in generale l'informazione che è stata fornita dalla maggior parte dei media una vergogna dell'Occidente. I telegiornali occidentali hanno mandato in onda immagini e titoli viziati dalla tendenziosità. Si è detto che la Russia volesse conquistare la Georgia, quando non è possibile dimostrare questa affermazione in alcun modo. Si è poi presentato Saakashvili come una specie di povera vittima del cattivissimo Putin, tralasciando, il più delle volte, di mostrare Tzkhinvali rasa al suolo dai bombardamenti georgiani. Credo che si sia arrivati a toccare il punto più basso dalla guerra all'Irak in poi».

BIOGRAFIA DI GIULIETTO CHIESA. Da cinquantamila.it - di Giorgio Dell'Arti.

• Acqui Terme (Alessandria) 4 settembre 1940. Giornalista. Funzionario del Pci di Genova fino al 1979, quando entrò all’Unità. L’anno successivo fu nominato corrispondente da Mosca, incarico che mantenne anche alla Stampa, dal 1990 al 2000. Rimase poi al quotidiano torinese come editorialista, mentre collaborava con numerose testate italiane, russe e americane. Ha lavorato anche per Tg5, Tg1 e Tg3 e per diverse emittenti straniere. Eletto come indipendente nella lista Di Pietro-Occhetto alle europee del 2004, la separazione dall’ex pm fu condita da insulti e accuse («non ho mai dubitato che il signor Antonio Di Pietro volesse tenersi il malloppo» ecc.). Esperto di globalizzazione e informazione, è autore di numerosi saggi, tra cui Cronache Marxziane (Fazi), Afghanistan anno zero (Guerini & Associati), G8-Genova (Einaudi), Russia addio (Editori Riuniti), Cronaca del golpe rosso (Baldini & Castoldi), La rivoluzione di Gorbaciov (Garzanti), Barack Obush (Ponte alle Grazie). Da ultimo Invece della catastrofe (Piemme 2013). [Giulietochiesa.it]. Cura un blog sul Fatto e uno sul Globalist oltre al suo sito Giuliettochiesa.it.

• Tra i più convinti sostenitori della teoria del complotto riguardo agli eventi dell’11 settembre 2001 (in particolare per quanto riguarda l’aereo caduto sul Pentagono), è autore dell’inchiesta Zero da cui Francesco Trento e Franco Fracassi hanno tratto un documentario presentato nel 2007 alla Festa del Cinema di Roma: «La gente crede di aver visto tutto con i propri occhi, in realtà non ha visto niente, da quel momento è dimostrato che siamo a pieno titolo nell’epoca della falsificazione delle immagini». Attaccatissimo per questo dal Foglio secondo il quale è un inviato «in ghingheri» che «gira per gli studi televisivi a raccontarci che la realtà sotto i nostri occhi non è quella giusta, che c’è una surrealtà di cui solo lui, l’esperto, è in possesso».

• Alle Europee del 2009 tentò di farsi eleggere in Lettonia. Andò male. Nel 2010 ha fondato il movimento politico culturale Alternativa politica.   

• Nel 2012 sostiene la candidatura di Giancarlo Cancelleri, del Movimento 5 Stelle, alla presidenza della Regione Sicilia.

• Sposato, un figlio, Lorenzo. Nel tempo libero gioca a tennis.

·        Claudio Risi rip.

Marco Giusti per Dagospia il 26 aprile 2020. Ecco. In questi brutti giorni perdiamo anche Claudio Risi, 71 anni, regista, sceneggiatore, fratello di Marco, figlio di Dino, nipote di Nelo. Simpatico, intelligente, allegro, sempre disponibile, è morto per le complicazioni di un brutto infarto che lo aveva colpito ormai due mesi fa. Ha diretto una delle serie di maggior successo e culto della tv italiana, “I ragazzi della 3a C”, 1987-89, il nostro “Happy Days”, ben 33 episodi che lasciarono il segno tra i ragazzi cresciuti negli anni ’80, dove unì a un gruppo di fresche presenze, Fabio Ferrari, Fabrizio Bracconeri, Claudia Vegliante, Stefania Dadda, Sharon Gusberti, vecchi e gloriosi caratteristi del cinema vanziniano più bello, da Guido Nicheli a Nicoletta Elmi a Ennio Antonelli, con apparizioni strepitose di Dagmar Lassander, Max Turilli, Sabrina Ferilli, Jimmy il Fenomeno, Martine Brochard, Paolo Panelli. La serie venne anche premiata con due Telegatti. Nato a Berna nel 1948, Claudio entrò giovanissimo nel cinema, seguendo il padre come assistente per tutti gli anni ’70 e ’80, in film come “Sono fotogenico”, “Sesso e volentieri”, “Fantasma d’amore”, “Dagobert”, lavorando anche con Mario Monicelli (“Vogliamo i colonnelli”), Carlo Di Palma (“Teresa la ladra”) e Franco Giraldi. Esordì nel cinema giovanil-vacanziero con il divertente e riuscito “Windsurf – IL vento nelle mani”, 1984, girato nella costa vicino a Sabaudia, con Pierre Cosso, Lara Lamberti, che si firmava Lara Nazinski, Urbano Barberini, un giovanissimo Alessandro Gassman, Paola Onofri, seguito da un primo tv movie, “Yesterday” con Jackie Basehart e dal giustamente celebre “I ragazzi della 3 C”. Lontano dal cinema più impegnato del fratello Marco, provò con “Pugni di rabbia” con Ricky Memphis e Johara Farley, qualcosa di più duro, ma tornò presto a occuparsi di commedia con la serie tv “S.P.Q.R”, 1998, nata dopo il successo dell’omonimo film di Carlo Vanzina. Nelle 11 puntate della serie troviamo però un cast diverso rispetto al film, Antonello Fassari, Nino Frassica, Nadia Rinaldi, Cristiana Capotondi, con apparizioni di Alvaro Vitali, Gigi Marzullo, Guido Nicheli e di Elenoire Casalegno come Poppea. Girò poi il film tv “A caro prezzo”, 1999, con Cesare Bocci e, assieme al padre Dino, il documentario “Rudolf Nureyev alla Scala”, 2005, con interventi di Roberto Bolle. Negli ultimi anni, dopo la fine della coppia Boldi-De Sica, protagonisti dei cinepanettoni classici di Aurelio De Laurentiis, era stato chiamato a dirigere Massimo Boldi e un bel gruppo di comici in due film di un certo successo, “Matrimonio alle Bahamas” e “Matrimonio a Parigi”. Film molto liberi, pieni di energie, e molto divertenti.  

·        Addio al giornalista Nicola Caracciolo.

Addio al giornalista Nicola Caracciolo, aveva 88 anni. Fratello di Marella Agnelli e di Carlo, primo editore di Repubblica, era stato corrispondente negli Stati Uniti per la Stampa. Per la Rai aveva realizzato importanti inchieste sulla Shoah degli ebrei italiani, sulla Seconda guerra mondiale e sull'immediato dopoguerra. Lara Crinò il 25 aprile 2020 su La Repubblica. È scomparso a 88 anni Nicola Caracciolo, giornalista, corrispondente dagli Stati Uniti per La Stampa e autore, negli anni Ottanta, di importanti inchieste televisive per la Rai sulla seconda guerra mondiale e il dopoguerra, e sulla Shoah degli ebrei italiani. Nato a Firenze il 19 maggio 1931, era fratello di Marella Caracciolo Agnelli e di Carlo, editore di Repubblica alla sua fondazione nel 1976. Alla morte della sorella, lo scorso anno, aveva dichiarato: “Spero che in in altri luoghi il nostro rapporto possa rimanere vivo”. Ambientalista convinto, si era speso in particolare per la conservazione dell’ambiente naturale e contro la realizzazione dell’autostrada in Maremma, dove era di casa, tanto da essere chiamato dalla gente “il principe di Capalbio”. Nella cittadina aveva guidato il premio letterario di piazza Magenta e la sezione Maremma Tuscia di Italia Nostra, associazione di cui era presidente onorario. La moglie Rossella Sleiter ha lavorato per molti anni come giornalista a Repubblica e ancora oggi cura sul Venerdì la rubrica "Natura". Tra le sue inchieste televisive, che oggi si possono recuperare su Rai Play, è particolarmente significativa la serie Il coraggio e la pietà, realizzata da Caracciolo con la consulenza dello storico Renzo De Felice, che analizzava in particolare, con interviste ai testimoni e ai sopravvissuti - tra cui il rabbino capo di Roma, Elio Toaff  - la storia degli ebrei italiani dopo la promulgazione delle leggi razziali del 1938, prendendo in esame sia il ruolo di chi, dopo l'invasione nazista, denunciò i propri concittadini ebrei, sia di chi, invece, si adoperò per proteggerli. Allo stesso tema aveva dedicato anche il saggio Gli ebrei e l'Italia durante la guerra 1940-45. Negli anni Novanta aveva firmato con Valerio Emanuele Marino il documentario Succede un Quarantotto sull'immediato dopoguerra italiano.

·        Addio al regista Luca De Mata.

Addio a Luca De Mata, il regista che promosse il dialogo tra religioni. Paolo Guzzanti de Il Riformista il 24 Aprile 2020. Mi chiama Cristian e capisco subito, visto che è l’amico e tuttofare di Luca e non mi sbagliavo: «Luca è morto ieri sera. Aveva superato l’ultima chemio abbastanza bene, poi però l’aggeggio che misura l’ossigenazione ha indicato un abbassamento, di corsa in ambulanza, l’ospedale con le porte che si chiudono per tutti, nessuna notizia, e adesso è morto».  Luca De Mata e io eravamo amici da pochi anni, ma per la pelle. Lui guidava questo palazzo magnifico e unico al mondo a cinquanta passi da casa mia e che è su Largo Argentina, dove presiedeva dopo Orsa, sua moglie nipote di Marco Besso, la Fondazione che dallo stato quasi decrepito lui aveva riportato a scintillare nella sua originaria bellezza di sede culturale laica e geniale. Marco Besso era stato un grande intellettuale ebreo e uomo d’affari che fece una buona parte del Risorgimento e che era amico di Mazzini e del sindaco Nathan, di tutta quella magnifica generazione che ebbe la sua onda lunga con Lanciani e con Giacomo Boni che riportò a galla le rovine del Foro andando a recuperare in India la pianta allora estinta dell’acanto insieme a mio nonno con cui scavava rovine e che era redattore capo della Nuova Antologia e che fu ammazzato con una revolverata nel 1921. Era una bella Roma quella nostra Roma, molto giudìa, patriottica e di ghetto, come eravamo giudii di complemento lui ed io e le nostre infanzie e amicizie ed è così che sono caduto con mia sorpresa nell’imboscata del pianto. Non mi capita mai di piangere una morte. Non sono riuscito a versare una lacrima, e me ne vergogno, per mia madre che ogni settimana quando ero bambino andava alla Fondazione Besso per i Martedì Letterari, né per mio padre che era ingegnere ma anche archeologo e mi portava a scoprire gli stili dei capitelli e dei rosoni delle chiese. Sono caduto nell’imboscata del pianto soltanto alla notizia della morte di Philip Roth con cui mi ero troppo tessuto nelle fibre e fu un pianto veramente disperato e l’altro ieri sera perché Luca se ne era andato, dopo avermi assicurato che saremmo ripartiti dopo il lockdown con il teatro della Fondazione, mancavano solo i permessi dei Vigili del Fuoco. Lui era un uomo di genio scomposto ed esagerato, ci ritrovavamo nell’eccessività dei segni, nella disperazione del turpiloquio del più osceno e delicato Belli, tanto più disperatamente genitale quanto più porta l’impronta della disperazione umana. E lui, Luca, figlio di un mangiapreti che scendeva da un aereo se c’erano a bordo troppe monache e di una madre partigiana nei Gap che non ha mai conosciuto e che l’aveva concepito a vent’anni, stranamente aveva passato tutta la vita o almeno buona parte dedicandosi alle imprese del papa polacco Karol Wojtyla che era anche da me molto amato per via della sua personale resistenza ai nazisti prima e ai comunisti dopo. Perché scrivere della morte di Luca De Mata? Perché farne un motivo di pubblico dolore? Lo conoscevano a migliaia e non sarò certo io a scoprire la sua cruda e crudele magnificenza, ma ne scrivo e ne piango perché con lui è morto un altro pezzo di una generazione che la tenaglia della morte in arrivo rende sempre più serrata e ne andiamo perdendo i pezzi non tanto o soltanto per l’amicizia, ma perché siamo gli ultimi testimoni di un’epoca di gatti preti comunisti suore rovine magnificenze palazzi arazzi papi colonne documentari, oh! i suoi documentari per la Rai, le sua partecipazioni teatrali con tutti i grandi, la divertita spinta alla competizione che io provavo nel ricordare insieme il poemetto risorgimentale e giovane di un’Italia pronta al colpo di mano nella Roma repubblicana e garibaldina che è La Scoperta dell’America di Cesare Pascarella, una geniale narrazione piena di strafalcioni all’osteria del come realmente fu che Cristoforo Colombo, uni’itajano, approfittando che «in quei tempi lì d’allora, regnava un re de Spagna portoghese, agnede in Portogallo e lì je chiese de poteje parlà p’un quarto d’ora». Fu così che cominciò. E ci scambiavamo le parti e le battute. Io facevo il monarca munifico e sospettoso: «Sì, p’aiutavve, v’aiuto, fece il re: ma st’America, c’è? ne sète certo?». Era roba per pochi. Laica, ma anche laicamente papale perché ci ricordavamo dei sonetti giudaico-romaneschi di una letteratura di Ghetto e del patriottismo immediato degli italiani ebrei. Luca De Mata aveva prodotto documentari, aveva vinto premi, aveva prodotto e fabbricato programmi per la Rai lavorando con Luca Ronconi, Franco Enriquez, Lina Wertmuller, Luigi Proietti, Michele Placido e Pippo Franco oltre a essere stato regista di una quantità straordinaria di documentari e analisi pubblicitarie, di studi sulla comunicazione anche negli Stati Uniti. Aveva scritto un libro, Il Pollo, che è un’opera di sue figure e parole e astrazioni e simboli in cui rendeva omaggio alla donna, ma più che altro a sua madre della cui assenza era invaghito. Ci incontrammo nella nuova Fondazione Besso da lui rimodernata e tirata a lucido, perfetta per conferenze e per fare cultura e avevamo una montagna di programmi insieme, ma erano tutti legati e collegati con il suo entusiasmo travolgente e amarissimo. E l’amarezza ci univa ed eravamo due compagni della stessa generazione che si erano finalmente incontrati e che avevano insieme goduto momenti bellissimi nelle sale eleganti e tripudianti della Besso, di cui è stato l’ultimo regista e di cui ora si occuperà la figlia Caterina, che era la sua testimone, quella che lui voleva che salisse sulle sue spalle per aiutarla a vedere più lontano di dove fossero arrivati i suoi occhi.

·        E’ morto il filosofo Aldo Masullo.

E’ morto il filosofo Aldo Masullo, pochi giorni fa aveva compiuto 97 anni. Redazione de Il Riformista il 24 Aprile 2020. E’ morto Aldo Masullo, filosofo e politico originario di Avellino. Pochi giorni fa, il 12 aprile scorso, aveva compiuto 97 anni. Laureato in Filosofia e in Giurisprudenza, è stato dal 1955 libero docente e dal 1967 professore ordinario di filosofia teoretica. Successivamente, ha insegnato filosofia morale presso l’Università di Napoli. È stato insignito della medaglia d’oro del Ministero per la Pubblica Istruzione. Candidato nelle liste del Partito Comunista Italiano prima e in quelle dei Democratici di Sinistra poi, dal 1972 al 1976 ha ricoperto la carica di Deputato, mentre dal 1976 al 1979 e dal 1994 al 2001 è stato Senatore della Repubblica. L’8 giugno del 2018 Napoli gli ha conferito la cittadinanza onoraria.

L’ULTIMA INTERVISTA – Lo scorso 30 marzo in una intervista rilasciata a Repubblica, il filosofo campano aveva analizzato con la consueta lucidità l’emergenza coronavirus: “Il mio stato d’animo? Sto lavorando, scrivo, cerco di essere il più tranquillo possibile”. Quando sarà finita la pandemia “sarà come uscire dalla guerra” ma adesso “ci sembra che fuori ci sia il buio: non sappiamo se le provviste basteranno, viviamo nella sospensione di un tempo fermatosi ed emergono i difetti”.

Scompare Aldo Masullo, il filosofo della passione civile. Si è spento a 97 anni nella sua casa napoletana, fu anche parlamentare del Pci e dei Ds. Collaborava con  "Repubblica Napoli". Nel libro sui 30 anni dell'edizione napoletana la sua poesia per i migranti. Stella Cervasio il 25 aprile 2020 su La Repubblica. Filosofo, uomo politico, maestro di etica per più di una generazione di allievi. Alla vigilia del 25 aprile, a pochi giorni dal suo novantasettesimo compleanno, nella sua casa napoletana è morto Aldo Masullo, professore emerito nella Federico II. La fine, nella sua casa napoletana, per un cancro alla prostata con cui aveva convissuto dieci anni. Ha lavorato fino alla fine, il filosofo che lascia la moglie e tre figli, Paolo, Lorenzo e Carlo, neurologo alla Cattolica di Roma. Tra gli ultimi scritti, la poesia, pubblicata nel libro per i 30 anni di Repubblica Napoli (di cui era collaboratore) che celebra il giovanissimo immigrato del Mali annegato nel Mediterraneo con in tasca la pagella: “T’è rimasta stretta sopra il cuore/fedele come il cane di famiglia/a custodir del tuo abbandono l’onta/ e finalmente sbatterne l’orrore/ in faccia all’impunita indifferenza/ della presente umanità d’automi”. Il sindaco Luigi de Magistris, che gli consegnò nel giugno 2018 la cittadinanza onoraria con Nino Daniele, assessore e suo allievo, ricorda «uno dei più grandi filosofi del secondo Novecento, di altissimo profilo etico, di profondo rigore intellettuale» e le sue «lucide analisi politiche sino ai giorni scorsi. Un faro per tanti, un solidissimo punto di riferimento della cultura partenopea». Per il ministro delle Affari europei Enzo Amendola Masullo era «un intellettuale brillante e coraggioso. Il suo pensiero e le sue opere restano ad indicarci un cammino razionale. Un punto di riferimento politico e culturale che ci ha insegnato che Nessuno di noi si salva da solo".  Nato nel 1923 ad Avellino, si era laureato in Filosofia e in Giurisprudenza; dal 1955 ha insegnato alla Federico II prima filosofia teoretica e poi morale, alternando periodi ricerca in Germania. Ha diretto dall’84 al ‘90 il Dipartimento di Filosofia; Accademico pontaniano, Masullo ha fatto anche parte della Società nazionale di scienze lettere ed arti e ha ricevuto la medaglia d’oro del ministero per la Pubblica istruzione. Lunga anche sua carriera politica, che correva in parallelo con la docenza: Masullo è stato deputato dal ‘72 al ‘76 e senatore fino al ‘79 e poi dal ‘94 al 2001, candidato prima nelle liste del Pci e poi in quelle dei Ds, lavorando sui temi dell’istruzione e poi, come parlamentare europeo, al fianco di Nilde Jotti. Si era laureato, dopo aver vissuto un periodo a Torino e poi a Nola, con Emilia Nobile, discutendo una tesi sul filosofo francese Julien Benda. Pur in presenza del prevalere del pensiero crociano, si formò con lo sperimentalismo di Antonio Aliotta. Nel ‘47 la seconda laurea con tesi in filosofia del diritto. Esistenzialismo, spiritualismo, autori come Gentile spingono il filosofo a formulare il proprio pensiero originale tenendo conto anche della fenomenologia di Husserl. Dal ‘63 scrive “Lezioni sull’intersoggettività. Fichte e Husserl” e “Antimetafisica del fondamento” (1971); “Il fondamento perduto” (1984) e “Metafisica. Storia di un’idea”. Con i successivi studi su tempo, senso e “paticità” si arriva sino al 2003. Nel 2005 Masullo scrive ancora il volume “Filosofia morale” per una collana di importanti testi di filosofia, sottolineando il ruolo di morale ed etica. Due anni fa, per Quodlibet Studio esce "L'Arcisenso. Dialettica della solitudine" dove il maestro dimostra che "assolutismo e fondamentalismo sono nemici dell'uomo" e che si può condividere e confrontarsi anche nelle rispettive diversità: la più attuale delle lezioni di Masullo, che in questo libro ha sostenuto che "il relativo è la salvezza".  Generoso anche nei periodi in cui i problemi di salute si acuivano, Masullo ha animato gli incontri del “Manifesto per salvare Napoli”. Nel 2011 è stato autore di “La libertà e le occasioni”, tema del suo ultimo seminario all’Istituto italiano per gli studi filosofici. Per nessuna ragione avrebbe lasciato l’impegno civile: nel ‘91 ha presieduto le Assise di Palazzo Marigliano contro NeoNapoli, ed è poi stato capolista del Pds alle amministrative del giugno 1992 e ancora protagonista nel marzo 1993, agli albori della stagione dei sindaci. Dal ‘94 al 2001 nuovamente al senato in Commissione vigilanza Rai e all’Istruzione e beni culturali, dove il suo apporto è stato fondamentale. I funerali si terranno in forma privata in attesa di una celebrazione pubblica al termine dell’emergenza Covid.

·        Morto Giuseppe Gazzoni Frascara: Ex presidente del Bologna Calcio.

Morto Giuseppe Gazzoni Frascara: aveva 85 anni. Antonino Paviglianiti il 24/04/2020 su Notizie.it. È morto Giuseppe Gazzoni Frascara: lutto nel mondo del calcio per la scomparsa dell'ex presidente del Bologna. È morto Giuseppe Gazzoni Frascara. Ex presidente del Bologna e attuale presidente onorario, l’imprenditore è venuto a mancare all’età di 84 anni. A lui si deve la rinascita del Bologna Fc 1909 a metà anni novanta con la risalita dalla C alla A, diventando presidente nel 1993 ed evitando il fallimento del club. Fu una grande cavalcata fino ai primi anni duemila quando la retrocessione post Calciopoli non gli consentì di proseguire, lui che già a metà anni ottanta si era avvicinato al calcio con la propria azienda Idrolitina. Sotto la sua gestione sono arrivati grandi campioni come Roberto Baggio e Beppe Signori e ha anche riportato un trofeo europeo, ovvero l’Intertoto 1998, propedeutica a quella grande cavalcata Uefa nel 1998/1999 che portò il Bologna fino alla semifinale. Grande protagonista della lotta a Calciopoli, Gazzoni ha continuato a lottare in sede giudiziaria dopo la retrocessione del 2005 sperando in un risarcimento. Nel 2006, da patron del Bologna, è stato uno dei principali accusatori di Calciopoli e delle pratiche, note come doping amministrativo, di cui si sarebbero serviti alcuni club di Serie A per posticipare i pagamenti di debiti verso l’erario o per abbellire i bilanci. Alla conclusione del campionato di Serie A 2004-2005, infatti, la squadra rossoblù retrocesse in Serie B dopo aver perso lo spareggio contro il Parma, giunto a pari punti in classifica al termine della stagione regolare. Nel corso di quel torneo, alcune partite del Bologna furono oggetto delle inchieste che portarono alle penalizzazioni di diversi club: in alcuni casi i felsinei furono coinvolto in maniera diretta, come nelle sconfitte interne contro Juventus e Lazio; in altre occasioni, invece, le indagini si incentrarono su ammonizioni nei confronti di calciatori diffidati al fine di favorire le avversarie della giornata seguente — fatto, quest’ultimo, mai provato. Nonostante le penalizzazioni inflitte a diverse società di quel campionato, la formazione emiliana non fu ripescata. 

Bologna, addio a Giuseppe Gazzoni: da Baggio a Signori fu il presidente del calcio con le bollicine. E' morto a 84 anni: rilevò il club dal fallimento nel 1993 e lo portò dalla serie C alla semifinale Uefa del 1999 persa contro l'Olympique Marsiglia. Giovanni Egidio il 25 aprile 2020 su La Repubblica. Prima che tutta Italia conoscesse Giuseppe Gazzoni Frascara, scomparso ieri all'età di 84 anni, come presidente del Bologna calcio, moltissimi conoscevano già il principale prodotto di famiglia, le bustine di Idrolitina, polverina ben presente nelle tavole italiane degli anni 60 e 70, col potere quasi magico di rendere l'acqua frizzante. Una geniale idea imprenditoriale del nonno, su cui era stato costruito un piccolo impero, irrorato in seguito da altri prodotti fortunatissimi, dalla pasticca del Re Sole alle Dietorelle. Meno fortunata, sebbene altrettanto vistosa, fu l'avventura di Gazzoni nel calcio. Rilevato il club dal fallimento nel 1993, ci investì un sacco di soldi per risollevarlo dalla Serie C fino alla semifinale Uefa del 1999, giocata (e persa) contro l'Olympique Marsiglia. Sei anni per ribaltare e riabilitare i destini di un club, senza che questo bastasse a farlo mai amare fino in fondo dai tifosi. Quando nel 2000 acquistò l'argentino Cruz dal Psv e il fantasista Locatelli dall'Udinese, spendendo 40 miliardi di lire, finì la stagione trovando scritto sui muri della città "Gazzoni plumone". Che in bolognese sta per tirchio. Non era vero. La verità è che il calcio lo aveva perfino impoverito. Perché ci si era buttato dentro proprio senza risparmiarsi, arrivando a portare Baggio in città, e poi Signori, e poi Pagliuca. Cercando campioni in momenti di difficoltà da rimettere a nuovo. E riuscendoci sempre. Partito come detto dalla C, si ritrovò del tutto inopinatamente in B nel 2005, con una squadra che a Pasqua era in zona Uefa. Erano gli anni di Calciopoli, Gazzoni diventò uno dei grandi accusatori dell'inchiesta, reclamava danni collaterali subiti in favore della Juventus e ruppe uno storico rapporto con la famiglia Agnelli. Chiese giustizia e risarcimenti, senza mai ottenere nulla. Un altro tribunale, anni dopo, sentenziò invece il fallimento per bancarotta della Victoria 2000, la società che deteneva le azioni del Bologna. Ma come Gazzoni lo fu per tutta la vita, anche il tempo nei suoi confronti infine è stato galantuomo. Già da anni la città lo aveva ampiamente riabilitato, davanti all'evidenza. Prima e dopo di lui, risultati alla mano, nessuno è infatti mai stato alla sua altezza. Ma il suo stile austero, forgiato nei college londinesi, il suo snobismo innato, il suo rifiuto aprioristico di ogni forma di populismo, non riuscirono mai a renderlo popolare. Nemmeno quando nel '95, appena iniziata l'avventura nel calcio, provò a candidarsi sindaco per sfidare il Pds. Rifiutato l'accordo con An ("Con gli ex fascisti no, grazie"), limitò la già striminzita platea di possibili elettori, raccogliendo un ininfluente 16%. Lui del resto non faceva davvero nulla per piacere. Perché se da un lato non lisciava mai il pelo alle folle, dall'altro non perdeva nemmeno occasione di prendersela con i bolognesi della tribuna, bollati a lungo come "milordini". Di tante altre avventure aperte e chiuse in città - l'acquisto del centro studi di Nomisma, dell'emittente cittadina Rete 7, delle Officine Rizzoli per le riabilitazioni - non trasse mai vantaggi. Riuscì però a risalire dal dissesto e a far pace con la sua parte più burbera. A spegnerlo non è stato il Covid 19, ma una malattia che ne aveva minato le difese immunitarie. Nell'ultima intervista prima di Natale, a Repubblica disse: "Ora sono un po' debole. Ci rivedremo allo stadio, a primavera". Ci fossero ancora le partite, il minuto di silenzio per Gazzoni si riempirebbe con 60 secondi di applausi. Il tuo contributo è fondamentale per avere un’informazione di qualità. Sostieni il giornalismo di Repubblica.

·        È morta Shirley Knight, attrice di cinema e serie tv. 

È morta Shirley Knight, attrice di cinema e serie tv. Aveva 83 anni. Ha avuto due nomination agli Oscar per "Il buio in cima alle scale" e "La dolce ala della giovinezza" in cui recitava accanto a Paul Newman. È apparsa anche sul piccolo schermo in "E.R.", "Dr. House", "Desperate Housewifes" La Repubblica il 22 aprile 2020. L'attrice statunitense Shirley Knight è morta oggi per cause naturali nella casa della figlia, l'attrice Kaitlin Hopkins, a San Marcos, nel Texas, all'età di 83 anni. Attrice teatrale affermata fin dagli anni 60, premiata con un Tony, ha lavorato al cinema in ruoli di supporto sfiorando due volte l'Oscar ed è stata interprete di numerose serie televisive americane per cui ha ricevuto diverse nomination agli Emmy e ne ha vinti due come madre di una vittima in Nypd Blue. Dal 1993 è apparsa in serie di successo tra cui Angel Falls, Ally McBeal, E.R. Medici in prima linea, Law & Order, Crossing Jordan e Desperate Housewives. La prima candidatura agli Oscar come miglior attrice non protagonista la ottiene nel ruolo della ragazza dell'Oklahoma innamorata di un ragazzo ebreo in Il buio in cima alle scale di Delbert Mann (1960). Due anni dopo riceve la sua seconda nomination interpretando la donna innamorata e abbandonata da Paul Newman in La dolce ala della giovinezza di Richard Brooks (1962), ispirato al dramma di Tennessee Williams. Shirley Knight ha lavorato anche con Sidney Lumet in Il gruppo (1966) e nel dramma razziale Intolleranza: il treno fantasma (1967) di Anthony Harvey, ruolo che le è valso la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile alla Mostra di Venezia. Per Francis Ford Coppola recita in Non torno a casa stasera (1969). Dopo il divorzio dal primo marito, l'attore Eugene Persson, si trasferisce in Inghilterra con il nuovo marito, lo sceneggiatore inglese John Hopkins, sparisce dal grande schermo per cinque anni, per poi tornare in scena con Juggernaut nel 1974. Ottiene poi essenzialmente dei ruoli materni in Amore senza fine (1981) di Franco Zeffirelli, Il colore della notte (1994) e in Qualcosa è cambiato (1997) accanto a Jack Nicholson. Tra gli ultimi film in cui è apparsa figurano Angel Eyes - Occhi d'angelo (2001), Salton Sea - Incubi e menzogne (2002) e Cocco di nonna (2006). Infine è tornata nel ruolo a lei congeniale della mamma nel 2009 nella commedia Il superpoliziotto del supermercato con Kevin James. 

Shirley Knight rip. Marco Giusti per Dagospia il 23 aprile 2020. Chi l’ha vista in “Non torno a casa stasera”, il film che Francis Coppola aveva scritto per lei, ne “La dolce ala della giovinezza” di Richard Brooks, alle prese con il testo dell’adorato Tennesse Willimas, ne “Il buio in cima alle scale” di Delbert Mann, nel ruolo che le dette la sua prima Nomination all’Oscar, o in “Dutchman” di Anthony Harvey dove venne premiata con la Coppa Volpi a Venezia, difficilmente l’ha scordata. Anche se non può essere considerata proprio una star, Shirley Knight, che se ne è andata a 83 anni, lunghi capelli biondi, occhi chiari e pelle bianchissima, è stata un’attrice indimenticabile dei primi anni ’60. Perché ha saputo dare vita alla complessità dell’insoddisfazione delle donne bianche, a un passo dalla nevrosi, un filo prima della grande rivolta femminista. Penso a Lula, la ragazza bianca che nella metropolitana di New York provoca sessualmente col corpo e a parole un ragazzo nero nel bellissimo “Dutchman”, commedia scritta da LeRoy Jones che aveva già interpretato a teatro e che riprende al cinema con Al Freeman jr. O a Natalie, la protagonista di “Non torno a casa stasera” di Coppola, dove, incinta, lascia la casa e il marito e inizia un viaggio per l’America assieme a un malato di mente, James Caan, che sembra specchiare perfettamente la sua condizione di persona frustrata. Nata a Goessel, nel Kansas, nel 1936, figlia di un funzionario di una compagnia petrolifera, appare da bambina come extra in “Picnic” di Joshua Logan. Come sbarca a Los Angeles giovanissima, studia all’Ucla e prende lezioni di recitazioni da Jeff Corey assieme a giovani talenti come Dean Stockwell, Jack Nicholson, Robert Blake, Sally Kellerman. Viene scelta da un’agenzia importante, che la spinge da subito in tv e al cinema. “Avevo una specie di talento naturale”, dirà, “ a 19 anni riuscivo a sembrare una ragazza di 15”. Gira da subito tanta tv, poi esordisce al cinema con un film anticomunista, “Cinque vie per l’inferno” di James Clavell, poi “Lo zar dell’Alaska” di Vincent Sherman con Richard Burton. Col suo primo vero ruolo importante al cinema, “Il buio in cima alle scale”, dalla commedia di William Inge, diretta da Delbert Mann, dove è la figlia di Robert Preston e Dorothy MacGuire, ottiene la sua prima Nomination agli Oscar e la prima grande popolarità. Non vincerà, come non vincerà due anni dopo con “La dolce ala della giovinezza” di Richard Brooks a fianco di Paul Newman e Geraldine Page, tratto dal romanzo di Tennesse Williams, dove è la figlia di Ed Begley. Ma otterrà dalla Warner Bros il via libera per poter iscriversi all’Actor’s e studiare con Lee Strasberg e Elia Kazan. E’ in questo periodo che viene salutata da Tennesse Williams al grido di “Finalmente ho trovato la mia Blanche Du Bois, ma mia Blanche perfetta!”. Williams scrive appositamente per lei la commedia “A Lovely Sunday of Creve Coeur”. Lo stesso Williams dirà a proposito di lei: "La gente parla di talento, ma tutti hanno un certo talento. Tutti hanno anche un cuore. Ma il talento, come il cuore, è quasi sempre usato male o raramente. Non puoi fare uscire il talento o il cuore all’esterno senza avere molto coraggio e io cerco il coraggio. Ci sono persone di talento - persone brillanti - che hanno coraggio e sono quelle che vuoi avere vicino a te ... Shirley Knight ha un coraggio incredibile: porterà il suo talento ovunque debba andare per fare bene il lsuo avoro, e non ha paura di condividerlo con chiunque sia pronto. Mi piacciono le persone audaci, le persone davvero audaci. Shirley è audace, è audace." E’ in questo periodo che, oltre a apparire in film di genere, il carcerario “Rivolta al braccio D” di Walter Doniger e “I tre di Ashiya” con Yul Brynner, appare nel grande dramma corale al femminile “Il gruppo” che Sidney Lumet mette in scena dal romanzo di Mary McCarthy, e dove divide la scena con Candice Bergen e Elizabeth hartman, recita sia a tetaro che al cinema “Dutchman”, tratto dalla commedia di LeRoy Jones, che la porta prima a Cannes, dove il film vince il premio della critica, e a Venezia, dove è lei a vincere la Coppa Volpi. E proprio a Cannes la ferma il giovane Coppola e le promette di scrivere un film per lei. Cosa che spesso si dice alle attrici, ma quasi mai si fa davvero. Invece Coppola, che allora era più noto come sceneggiatore che come regista, scrisse davvero per lei “The Rain People”, da noi “Non torno a casa stasera”, che diresse nel 1969. La troviamo anche in molti altri film del tempo, come il bellissima “Petulia” di Richard Lester, dove la protagonista è però Julie Christie, l’inglese “Sensi proibiti” di Philip Saville con Jacqueline Bisset, il catastrofico “Juggernaut”. Seguitò a recitare moltissimo, forse più in tv che al cinema, ritornando poi nei primi anni ’80 come madre non troppo in forma, in “Amore senza fine” di Franco Zeffirelli, in “Qualcona è cambiato”, ma anche in “Diabolique”, “Le ya ya Sisters”. Alla fine ha girato qualcosa come 184 titoli tra tv e cinema, che le hanno fatto vincere 2 Tony Award (per “Kennedy’s Children”, 1976, e “The Youngman From Atlanta”, 1997), 3 Emmys, 1 Golden Globe e 2 Nomination agli Oscar. In tutto questo ha avuto due mariti, il produttore teatrale Eugene Persson, 59-69,  e il commediografo inglese John R. Hopkins, 69-98. Negli ultimi vent’anni ha molto lavorato per la tv andando a vivere da una delle sue due figlie, Kaitlin, in Texas, a San Marcos, dove è morta. 

·        E’ morto Sirio Maccioni: re della cucina italiana in America.

ELEONORA COZZELLA per repubblica.it il 20 aprile 2020. La lezione che ci lascia: impegno, forza di volontà, e soprattutto l'uso intelligente di un fascino naturale. Il seme del successo per Sirio Maccioni, classe 1932, vero mito della ristorazione che ha conquistato prima New York poi tutti gli States e il mondo, è stato piantato a Montecatini. Qui ha frequentato l’istituto alberghiero “F. Martini” dove arriva alla fine della guerra, con l’obiettivo di affermarsi nel mondo della ristorazione. “In quel periodo, a Montecatini e forse in tutta Italia funzionavano solo le scuole alberghiere – mi raccontò il maître che negli anni ’60 era considerato l’uomo più sexy di New York – e l’istituto cittadino era anche una preziosa fonte di lavoro, perché anche durante l’anno scolastico, specie in alta stagione, venivamo chiamati dagli hotel per integrare il personale. Se eri in gamba potevi sperare di entrare al Grand Hotel La Pace, il cui apprendistato apriva le porte anche agli hotel all’estero”. E così accadde. Tanta gavetta e soprattutto tanta passione e costanza, perché "quello del ristorante - diceva - è un lavoro da cui gli scansafatiche devono tenersi molto lontano". E poi un mantra che non si stancava di ripetere: migliorare sempre, studiare, curare la preparazione: “Imparare le lingue è indispensabile e conoscere tutto della gastronomia e studiare la sua storia. Poi conoscere e riconoscere i gusti dei clienti”. Il segreto per accontentare gli ospiti? "I camerieri devono – se non proprio cucinare – sapere anche come funziona la cucina, i suoi ritmi, i suoi tempi. Nessun bravo cameriere o maître può ignorare cosa succede nella stanza dei cuochi. “Quando ero giovane, noi sapevano sfilettare e servire il pesce in sala, preparare una pasta alla lampada di fronte ai commensali, affettare e condire a puntino funghi freschi per un’insalata”.

Dagospia il 21 aprile 2020. Nel periodo di massimo splendore, Le Cirque e il suo re, Sirio Maccioni, erano New York, New York. Sulla East 65th St. un ristorante francese di proprietà di un italiano era diventato un covo esclusivo che esplodeva ogni giorno di cibo eccellente e di ricchi & famosi, Yver Montand, Diana Ross, Henry Kissinger, Roy Cohn, Gianni Agnelli, Woody Allen.

Isabella  Gherardi per il Corriere fiorentino – articolo del 2009. E’ una gelida giornata di sole a New York, illuminata dalla tipica cristallina luce atlantica. Incontro Alle 12 Sirio Maccioni a “Le Cirque”, il mitico ristorante riaperto nel nuovo Bloomberg Building, alla 58th tra la Lexington e la 3rd Avenue. Appena entrata lo riconosco, alto e sorridente, è la quintessenza dello stile italiano, elegante ma non formale. Ci sediamo ad un piccolo tavolo al bar e davanti ad un delicato flute di champagne millesimato, cominciamo a parlare. Sarà un lungo colloquio. Sirio è loquace, preciso nella scelta delle parole, parla di tutto, rievoca gli anni della gavetta, la partenza dalla Toscana degli anni postbellici, povera ma bella e ricca di volontà e di entusiasmo. Gli chiedo se ha un oggetto del cuore e lui dice no, che i suoi ricordi sono legati non agli oggetti ma alle persone. Innanzitutto a sua nonna Annunciata, figlia della dura Toscana dell’800 che ritrovi nei quadri di Fattori con i suoi cavalli bradi e i suoi buoi bianchi che tirano instancabili l’aratro. Il lungo Addio alla stazione con i fazzoletti sventolanti, le tre valigie, la promessa di un lavoro a Parigi e una lettera di presentazione a Ivo Livi (nonna Annunciata ne conosceva gli zii), un italiano che in paese si favoleggiava avesse fatto fortuna a Parigi. Ma l’impatto con la “Ville Lumière” è duro, il Plaza Athènèe non lo assume poiché non parla francese. Riesce a trovare fortunosamente un lavoro  presso il ristorante  “Florence” gestito da una famiglia italiana, i Fiore. Questo ristorante era frequentato da tutti gli italiani famosi a Parigi come Serge Reggiani e Lino Ventura, le loro foto sono appese alle pareti del ristorante. Fra queste c’era la foto di un certo Yves Montand, un attore che Sirio aveva visto al cinema nel film “Vite Vendute”. Una sera Montand venne al ristorante con la sua fidanzata di allora, Edith Piaf. “Sentii Montand parlare con il proprietario del ristorante in italiano, anzi con l’accento tipico di Monsummano. Quando il proprietario tornò in cucina gli chiesi come mai Montand parlasse cosi bene il toscano. Solo allora capii che Ivo Livi era Yves Montand. Dopo anni venni a sapere che il nome d’arte veniva da sua madre che, pur vivendo a Parigi da lungo tempo, non aveva mai imparato il francese. Quando Ivo andava a trovarla , lei diceva “Ivo, monta!” che era un misto di francese e italiano per dirgli di salire.  Fra me e lui si stabilì subito una forte simpatia. Mi diceva : “Su andiamo, sei giovane e sei a Parigi e sei con me”. Yves voleva fare di me un uomo di spettacolo, fece molti tentativi e si accaniva a farmi provare a ballare e cantare con il suo pianista che un giorno tagliò corto: “Credi che poiché viene dalla tua terra sappia cantare…”. Allora Montand rassegnato mi accompagno al Plaza Athènè dove non ero più il misero stagista italiano mangiaspaghetti  ma il protégé del celebre Yves Montand. Lì iniziò il mio duro apprendistato. La gente mi chiedeva come mai parlassi sempre di Montand. “A meno che non si provenga da dove veniamo io e Yves, questo discorso non si può capire. La cosa che ammiravo di lui era la sua schiettezza e il ricordarsi delle origini. Lo sentivo come un fratello”. Sirio sta un attimo in silenzio e poi dice: “Sapete perché sono bravo, se posso essere tanto presuntuoso da dirlo? È perché ho sempre qualcosa di amaro dentro che mi tormenta lo stomaco, anche Montand ce l’aveva”. L’ultima volta che l’ho visto fu a Monsummano dove aveva portato la giovane moglie Carol e il figlio piccolo. In quella occasione mi disse : “Sirio, il faut retouner aux racines.” Dopo pochi mesi appresi con grande dolore che era morto. Poi Sirio passa a parlare dei suoi trionfi e delle sue traversie, dell’amore per la moglie Egidiana E l’orgoglio per i suoi tre figli maschi e di tutti i personaggi che ha conosciuto. Ma questo ve lo racconterò un’altra volta. 

·        E’ morto a 82 anni Peter Beard, fotografo naturalista.

Da "lastampa.it" il 20 aprile 2020. E’ morto a 82 anni Peter Beard, uno dei più grandi fotografi naturalisti del secondo Novecento, colui che ha visto con i propri occhi l'inizio della fine dell'Africa della savana vissuta ed evocata dalla sua amica Karen Blixen, la scrittrice danese celebre per La mia Africa, raccontandola in straordinari reportage in bianco e nero. E' stato anche un affermato fotografo di moda, firma della rivista Vogue e autore degli scatti del Calendario Pirelli nel 2009. Misteriosamente scomparso da casa da 19 giorni, il corpo senza vita di Beard, che da tempo soffriva di demenza senile, è stato trovato in un bosco del Camp Hero State Park a Montauk, nello stato di New York. La notizia della morte, così come quella della scomparsa, è stata data dalla famiglia sulla pagina Instagram. Del grande fotografo statunitense si erano perse le tracce il 31 marzo scorso, quando era stato visto per l'ultima volta nella sua tenuta sulla scogliera a Long Island. Per tre giorni la polizia del dipartimento di East Hampton ha condotto le ricerche ma alla fine nessuna traccia è stata trovata e Beard è stato dichiarato ufficialmente scomparso. Il cadavere è stato rinvenuto ieri, domenica 19 aprile, casualmente da un passante, che ha avvisato la polizia; i familiari hanno effettuato il riconoscimento. La sua famiglia, la moglie Nejma e la figlia Zara, in un comunicato affidato al New York Times, hanno dichiarato: «Abbiamo tutti il cuore spezzato dalla conferma della morte del nostro amato Peter. È morto dove è vissuto: nella natura. Vogliamo esprimere la nostra profonda gratitudine alla polizia dell'East Hampton e a tutti quelli che l'hanno aiutata a cercarlo».

La sua vita. Nato a New York il 22 gennaio 1938, dopo la laurea in storia dell'arte all'Università di Yale, nel 1961 Peter Beard conosce in Danimarca Karen Blixen con cui collabora fino al 1962, trasferendosi a vivere nell'Hog Ranch in Kenya, ranch vicino a quello della scrittrice danese. Durante questo periodo Beard studia la fauna africana e nel 1965 pubblica il libro The End of the Game, una raccolta di fotografie, testi, documenti, che documentano la scomparsa degli elefanti in Kenya. Negli anni '70 collabora con Andy Warhol, Francis Bacon e Truman Capote e nel 1975 organizza la sua prima mostra fotografica presso la Blum Helman Gallery di New York, a cui segue un'alta mostra, ancora più importante, nel 1977 presso l'International Center of Photography di New York, in cui vengono messe in esposizione fotografie, giornali, oggetti africani e cimeli personali. A New York frequentava lo Studio 54 e aveva accompagnato in tour anche i Rolling Stones. Per Vogue ha portato in Africa star come Veruschka e lì aveva scoperto e lanciato nuove modelle, tra cui Iman. E' stato sposato con la nota protagonista della mondanità newyorchese Minnie Cushing negli anni '60, poi con la top model Cheryl Tiegs fino al 1982 e dal 1986 con l'attuale moglie Nejma Khanum. Nel 1996 una retrospettiva del suo lavoro si è tenuta al Centre National de la Photographie di Parigi, poi esposta anche a Berlino, Londra, Toronto, Madrid, Milano, Tokyo e Vienna. Nel 2004 ha scritto un libro per bambini, dedicato alla figlia, Zara, "Zara's Tales: From Hog Ranch". Nel 2009 era stato scelto come fotografo per il calendario Pirelli in Botswana, immortalando le top model Mariacarla Boscono, Daria Werbowy, Isabeli Fontana, Lara Stone e Malgosia Bela. Le foto di Peter Beard sono oggetti ricercati dai collezionisti e vendute all'asta: nel 2017 un collage stampato in gelatina d'argento raffigurante cuccioli di ghepardo orfani vicino a Nyeri, in Kenya, è stato venduto per 672.500 dollari. Per la famiglia di Beard, è «importante che Peter sia considerato la persona che è e ricordato per il modo in cui ha sempre vissuto: un artista straordinario, un viaggiatore insaziabile, un eroe del movimento per la conservazione dell'ambiente, un amante della vita, dell'Africa, dell'avventura, della sua famiglia e dei suoi amici». 

·        E’ morto il bassista Henry Grimes.

Marco Molendini per Dagospia il 20 aprile 2020. Henry Grimes era già morto almeno un paio di volte, tanti anni fa, prima di morire davvero, due giorni fa, anche lui travolto dal corona virus a 84 anni. Bassista dal suono gigantesco, dalla tecnica sopraffina e dal forte temperamento, presente in tante registrazioni accanto ai nomi grandi del jazz, da Thelonious Monk (in uno dei più bei documentari su questa musica Jazz on a summer day, registrato nel 1958 a Newport, è accanto al pianista e a Roy Haynes mentre suonano Blue Monk), a Sonny Rollins, a Gerry Mulligan, ai campioni dell'avanguardia free, Archie Shepp, Albert Ayler, Cecil Taylor (nel suo album più bello, Conquistador) a un certo punto è letteralmente scomparso dalle scene. Non si sapeva più nulla di lui e dove fosse finito. Venne dato per morto: chissà dove, chissà quando. La prima notizia della sua scomparsa l'aveva lanciata Valerie Kilmer, fotografa e scrittrice molto addentro al mondo del jazz. Era il 1971. Un'altra volta nell'84, fu un giornale ad annunciarla. Ma Henry non era morto. Aveva semplicemente smesso di suonare. E per anni ha vissuto nel silenzio finchè un appassionato di jazz, un assistente sociale non è riuscito a scovarlo. Era il 2002, più di trent'anni dopo. Marshall Marrotte si era appassionato a Henry Grimes un pomeriggio del 1986, entrato in un negozio di dischi di New Orleans gli era capitato di ascoltare The Call, l’unico album da leader mai inciso fino ad allora dal bassista: «Le note del suo strumento mi hanno messo letteralmente al tappeto. Mi è venuto un capogiro» il suo racconto. Fatto sta che da quel giorno ha cominciato a raccogliere informazioni su Grimes. «Ho sentito le cose più strane – ha raccontato -: che era morto, che aveva abbandonato la musica e si era fatto prete, che aveva seri disturbi mentali, che viveva in mezzo a una strada, che s’era fatto i capelli verdi, che si era messo a suonare il basso elettrico in una rock band... ». L'assistente sociale si intestardisce, vuole capire cosa è successo per davvero e comincia a indagare approfonditamente: testimonianze di musicisti e amici, della famiglia, archivi di giornali, di preture, certificati di morte. Alla fine ce la fa: rintraccia Grimes in un pidocchioso albergo di South Central, Los Angeles. Quando gli chiede perché sia sparito per tanti anni il bassista gli risponde con la più semplice delle constatazioni: «Con il jazz non ce la facevo a vivere». Aveva provato con il teatro. A un certo punto aveva venduto il suo contrabbasso, infine si era arrangiato come poteva, fra lavoretti, aveva fatto il guardiano alla sinagoga di LA, e i soccorsi della social security, combattendo anche con problemi mentali, una sindrome maniaco-depressiva. Come un redivivo Grimes è tornato a suonare, con la leggenda della sua storia, del suo passato di jazzista di prima fila e un contrabbasso regalato da un giovane collega William Parker. Ha ripreso il cammino dove l'aveva lasciato, conservando il suono potente dello strumento, ritrovando antichi colleghi come il batterista Andrew Cyrille, collaboratore per anni di Cecil Taylor. Ha girato il mondo, è sbarcato anche in Italia, ha fatto più dischi a suo nome di quanti non ne avesse fatti nella sua prima vita, ha suonato con Marc Ribot. E' stato festeggiato come un Robinson Crusoe del jazz. La sua morte segue quella di una pattuglia di jazzisti longevi, una rarità per questa musica, e di poche ore quella di un altro protagonista eccentrico del jazz degli anni 60, il sassofonista Giuseppi Logan.

·        E’ morto l'attore francese Philippe Nahon.

Coronavirus, morto l'attore francese Philippe Nahon. A dare la notizia della scomparsa del celebre interprete di film horror è stato il collega Alexandre Astier, che con Nahon aveva lavorato in più occasioni. Novella Toloni, Domenica 19/04/2020 su Il Giornale. Si è spento all’età di 81 anni Philippe Nahon, l’attore di origini francesi celebre per aver interpretato numerosi film horror e thriller. L’interprete è morto dopo una lunga malattia che lo aveva colpito anni fa, aggravatasi dopo il contagio da coronavirus, che gli aveva provocato una grave infezione respiratoria che non gli ha dato scampo. L’annuncio ufficiale della sua morte è arrivato poche ore fa dal collega e sceneggiatore francese Alexandre Astier, che sulla sua pagina Twitter ha salutato l’amico con un messaggio di cordoglio. Proprio con quest’ultimo Nahon aveva lavorato nella serie televisiva ambientata nel passato "Kaamelott", dove vestiva i panni di "Goustan de Carmélide". Philippe Nahon, era un attore molto conosciuto del cinema francese e internazionale, tanto che era stato fortemente voluto da registi come l'attore francese che lavorò con Steven Spielberg e Mathieu Kassovitz.

L’attore nato a Parigi, classe 1938, esordì sul grande schermo negli anni ’60 con il film "Lo spione" di Jean-Pierre Melville per poi proseguire negli anni ’70 con pellicole come "Un marito è sempre un marito" di Serge Friedman e "La prima comunione di Julien" del regista René Feret. Negli anni ’80 arrivano i film importanti nel genere che lo consacrerà, l’horror: "L’Odio" per la regia di Mathieu Kassovitz (dove vestì i panni del capo poliziotto nel cult-movie) e "Carne" di Gaspar Noé. Con quest’ultimo Phillipe Nahon instaurò un’importante collaborazione, recitando nei film "Seul contre tous" (1998), "Irréversible" (2002), e "Sodomites". Nel 2011 Steven Spielberg gli offrì un ruolo in "War Horse" e nello stesso anno apparì in "Kill me please" celebre film di Olias Barco vincitore al Festival del cinema di Roma e poi ancora in "Adele e l’enigma del faraone" di Luc Besson. La sua carriera cinematografica si fermò nel 2013 con il suo ultimo film "I nostri eroi sono morti stasera". Philippe Nahon, che era sposato con l'attrice e scrittrice Elisabeth Weissman conosciuta proprio sul set di un film, era anche un grande appassionato di musica, tanto che nel 2000 incise due album - per la casa discografica Sony - insieme agli Ars Nova, un gruppo rock progressivo americano.

 Se ne va Gene Deitch, 95 anni, regista, disegnatore, produttore di cartoon.

Marco Giusti per Dagospia il 19 aprile 2020. Il cinema animato internazionale perde una delle sue leggende e uno dei più grandi innovatori grafici del dopoguerra. Se ne va Gene Deitch, 95 anni, regista, disegnatore, produttore di cartoon che nel 1959, dopo anni di esperienza e di successi alla UPA, ai Terrytoons e una nomination agli Oscar, se ne andò a lavorare a Praga e lì ci rimase per sempre. Continuando però a produrre film corti e lunghi, a dar vita dall’Europa dell’Est a serie e personaggi celebri come “Tom e Jerry”, “Popeye” e “Krazy Kat”, e vincendo perfino un Oscar, anzi, il primo Oscar di un corto animato non americano, con il bellissimo film anti-militarista, “Munro”, 1961, su idea e disegni di Jules Feiffer. Deitch, che nella sua autobiografia si considera “il solo americano che ha vissuto e lavorato a Praga durante trent’anni di dittatura del Partito Comunista”, senza peraltro essere mai stato censurato nel suo lavoro, scelse di vivere lì per amore di una ragazza, Zdenka Najmanová, la sua produttrice esecutiva, per la quale lasciò una moglie, tre figli e il suo paese. Nato a Chicago nel 1924, si muove con la famiglia a Los Angeles. Dopo la guerra e dopo essersi sposato, lavora alla CBS radio e nella grafica, sue sono le illustrazioni del giornale di jazz “The Record Changer” del periodo. Entra alla fine del 1940 nella celebre UPA, la società di cartoon più libera e antidsneyana di sempre, come assistente del regista e animatore Bill Hurtz. Lì conosce i grandi registi animati del momento, come John Hubley o Robert Cannon, che cercavano uno stile più libero e meno zuccheroso, legato alle avanguardie musicali e visive. Deitch si vantava di essere stato il primo animatore di Los Angeles che si potesse vantare di non aver mai lavorato o avuto contatti con la Disney. Porta questo spirito innovativo, fuori dalla UPA, nei celebri spot della serie “Bert and Harry Piel” per la birra Piel, che ebbero un successo clamoroso negli anni ’50. E’ grazie al successo nella pubblicità Piel che Deitch viene chiamato nel 1956 come direttore creativo dei Terrytoons, la società di Paul Terry che produceva cartoon abbastanza tradizionali come il topo Mighty Mouse e i corvi Heckle and Jeckle. La CBS, che aveva appena comprato lo studio da Paul Terry, si voleva rinnovare e gli mise come direttroe creativo un ragazzo di 31 anni come Deitch. Infatti rivoluzionò totalmente i Terrytoons inserendo nuovi elementi, come il poi celebre cartoonist Jules Feiffer, animatori come Ernest Pintoff, che realizzerà per Deitch “Flebus”, Al Kouzel, Len Glasser. Deitch e il suo gruppo daranno vita a personaggi totalmente nuovi , come John Doormat, Clint Clobber, Gaston Le Crayon, Foofie, Tom Terrific e l’elefante Sidney, che troveremo protagonista di “Sidney’s Family Tree”, 1958, il solo Terrytoons a ricevere una nomination agli Oscar, o “The Juggler of our Lady” con i disegni di R.O. Blechman e la voce narrante di Boris Karloff. Blechman, famosissimo disegnatore newyorkese, sue sono le pubblicità a inchiostro su fondo bianco, allora era del tutto sconosciuto. In barba al successo e agli Oscar il produttore Bill Weiss licenzierà dopo due anni Gene Deicth, che si ritroverà a ricominciare tutto da capo. Seguita con la pubblicità e si lega al produttore William Snyder, col quale inizia “Munro”, che completerà però a Praga. Arrivato lì per rimanerci dieci giorni, si innamorerà e rimarrà a lavorare lì mantendo però più di un piede in America. Dopo l’Oscar per “Munro” nel 1961, che nelle sale americane precedeva “Colazione da Tiffany”, riceve molte offerte di lavoro. Darà vita a una serie di cartoon, “Nudnik”. Per la MGM, ad esempio, realizzerà dodici cartoon della serie “Tom and Jerry”, la stessa cosa farà per la Kings Feature Syndacate con “Popeye” e “Krazy Kat” intorno alla metà degli anni’60. Nessuna di queste serie ha la grazia e lo spirito di innovazione che Deitch aveva dimostrato negli anni precedenti. Ma di certo non questo gli era stato chiesto. Erano animazioni, povere e veloci che dovevano mandare avanti le serie. Alcuni erano realizzati anche da animatori italiani, come Gibba. Va detto che nemmeno Deicth le amava. Suoi lavori più personali sono cartoon come “Alice of Wonderland in Paris”, 1966, quasi un lungometraggio dove mette in scena una serie di racconti di grandi illustratori del tempo, da Ludwig Bemelmans a Crocket Johnson. Collaborerà con celebri registi cechi legati all’animazione e al passo uno. Con Jiry Brdeka realizzerà “The Frozen Logger”, mentre con Jiri Trnka, maestro del passo uno, progetterà una versione dell “Hobbit” della quale rimarrà solamente una sorta di etaser recentemente ritrovato. Dal 1969 al 2008 realizzerà ben 37 cartoon, assolutamente deliziosi, per la Weston Woods tratti da altrettanti celebri racconti illustrati per l’infanzia, da Maurice Sendak a William Steig, da Tomi Ungerer allo stesso Jules Feiffer. Realizza anche una serie di cartoon per i più piccoli tratti dai librini di Dick Bruna. Ha lavorato in libertà e tranquillità fino al 2008 per poi ritirarsi e è morto pochi giorni fa a Praga. 

·        È morto Sergio Fantoni.

È morto Sergio Fantoni, una vita per cinema e sceneggiati. Attore, doppiatore e regista aveva 89 anni. Nella sua lunghissima carriera ha lavorato con i più grandi registi da Luchino Visconti a Blake Edwards, suo ultimo ruolo tv nel Commissario Montalbano. La Repubblica il 17 aprile 2020. È morto Sergio Fantoni, attore, doppiatore e regista avrebbe compiuto 90 anni ad agosto. Nella sua lunghissima carriera ha lavorato con i più grandi registi, da Luchino Visconti a Blake Edwards, ha avuto una parentesi hollywoodiana, ma la popolarità la deve agli sceneggiati degli anni Settanta e Ottanta come Anna Karenina, La Piovra e La coscienza di Zeno. Il suo ultimo ruolo tv nel Commissario Montalbano di Sironi per l'episodio La voce del violino. Nato in una famiglia d'arte, a Roma il 7 agosto 1930, in un primo tempo pensava di diventare ingegnere o architetto ma la passione per il teatro prevalse e cominciò a frequentare compagnie teatrali sperimentali fino a creare negli anni Settanta, insieme a Luca Ronconi e alla moglie Valentina Fortunato, una delle prime compagnie indipendenti. Prima però c'era stato il cinema a partire dalla fine degli anni Quaranta e poi nel tempo con registi del calibro di Luchino Visconti (Senso), Francesco Maselli (I delfini, accanto a Claudia Cardinale), Giuliano Montaldo (Tiro al piccione e poi Sacco e Vanzetti), ma anche peplum come Esther e il re. Negli anni Sessanta aveva vissuto una parentesi hollywoodiana (che era durata tre anni, dal 1963 al 1966) con partecipazioni a film come Intrigo a Stoccolma di Mark Robson e Il colonnello von Ryan accanto a Frank Sinatra, e poi Papà, ma che cosa hai fatto in guerra? di Blake Edwards. Negli anni Ottanta aveva recitato nel film di culto Il ventre dell'architetto del regista britannico Peter Greenaway. Fantoni ha lavorato in numerose riduzioni televisive di importanti lavori letterari e a sceneggiati televisivi che, particolarmente negli anni Sessanta e anni Settanta, hanno avuto un particolare successo di critica e di pubblico. Il nudo integrale frontale di Sergio Fantoni in Delitto di Stato, trasmesso su RaiDue nell'82, fece scandalo. Nella sua lunga carriera di doppiatore ha prestato la voce a star americane come  Marlon Brando (in Apocalypse Now), Henry Fonda (in Meteor), Rock Hudson (ne Il gigante) e Ben Kingsley (in Gandhi). Dopo un intervento alla laringe nel 1997 si è dedicato alla regia teatrale. Insieme al drammaturgo e regista Ivo Chiesa e alla collega  Bianca Toccafondi ha ricevuto nel 2002 il Premio alla carriera intitolato a Ennio Flaiano.

Da ilmessaggero.it il 18 aprile 2020. Addio a Sergio Fantoni, uno dei grandi della scena italiana tra Cinecittà e Hollywood: attore di teatro, cinema e tv, regista e doppiatore. Aveva 89 anni. È scomparso ieri sera dopo una carriera di interprete durata mezzo secolo, che lo ha visto diretto al cinema dai più grandi registi, da Roberto Rossellini a Luchino Visconti fino a Blake Edwards, protagonista dei teleromanzi in bianco e nero della Rai, mattatore sui maggiori palcoscenici teatrali e infine doppiatore, prestando la sua voce, tra gli altri, a un memorabile Marlon Brando nei panni del colonello Kurtz nel film «Apocalypse Now» (1979) di Francis Ford Coppola. Nato a Roma il 7 agosto 1930, Sergio Fantoni era figlio d'arte: anche il padre Cesare e la madre Afra Arrigoni sono stati interpreti teatrali. È stato sposato con l'attrice Valentina Fortunato (1928-2019). Cominciò a lavorare giovanissimo nel teatro di prosa con la compagnia Rina Morelli - Paolo Stoppa e con Vittorio Gassman. Nel 1955 è approdato in televisione con «Il mercante di Venezia» di William Shakespeare, ottenendo un lusinghiero successo di critica e di pubblico. Negli anni successivi, Fantoni continuò a dividersi fra televisione e cinema, interpretando una lunga serie di film storico-avventurosi e poi apparendo in film di grandi registi come «Era notte a Roma» (1960) e «Viva l'Italia» (1961), entrambi di Roberto Rossellini, «Il sicario» (1961) di Damiano Damiani, «Tiro al piccione» (1961) di Giuliano Montaldo, «Il gattopardo» (1963) di Luchino Visconti. Come attore cinematografico Fantoni ha lavorato anche all'estero, vivendo un'intensa stagione professionale a Hollywood in special modo negli anni '60: «Intrigo a Stoccolma» (1963) e «Il colonnello Von Ryan» (1965), entrambi di Mark Robson, «Non disturbate» (1965) di Ralph Levy e «Papà, ma che cosa hai fatto in guerra?» (1966) di Blake Edwards. In coppia con il drammaturgo Diego Fabbri Fantoni ha condotto per la radio - a Rai Radio Uno - il programma «Voi ed io». Fantoni ha legato il suo nome di attore a numerose interpretazioni in riduzioni televisive di importanti lavori letterari e a sceneggiati televisivi che, particolarmente negli anni '60 e '70: «Oliver Cromwell: Ritratto di un dittatore», «Con rabbia e con dolore», «Lungo il fiume e sull'acqua», «Anna Karenina», «Il consigliere imperiale», «La traccia verde», «Diario di un giudice». In «Delitto di stato», trasmesso da Rai Due nel 1982, per la regia di Gianfranco De Bosio, porta in scena sul piccolo schermo il primo nudo integrale frontale maschile della televisione italiana. Intensa l'attività teatrale di Fantoni. Assieme a Luca Ronconi e Valentina Fortunato (sposata negli anni '60) e poi a Giancarlo Sbragia, Ivo Garrani, Luigi Vannucchi e Mattia Sbragia ha dato vita negli anni '70 alla prima cooperativa teatrale italiana, Gli Associati. Il suo repertorio teatrale è stato vasto e comprende titoli dei principali drammaturghi del XIX e XX secolo.

·        Morto l’attore Brian Dennehy: lo sceriffo di "Rambo". 

Morto Brian Dennehy, l'attore che interpretò lo sceriffo di Rambo. È morto ad 81 anni l'attore che ha dato il volto all'ostinato sceriffo di Rambo (1982) e che è comparso in vari episodi della sitcom televisiva Dallas. Nicola De Angelis,  Giovedì 16/04/2020 su Il Giornale. Morto Brian Dennehy, l'attore che diede il volto all'ostinato sceriffo di Rambo (1982). Si è spento ad 81 anni nella sua casa del Connecticut, a darne il triste annuncio la figlia Elizabeth arrivata dal matrimonio del 1959 con l'attrice Judith Scheff. Matrimonio terminato nel '74. La figlia, come riporta l'Hollywood Reporter, ci ha tenuto a precisare che il padre non è morto di coronavirus ma di morte naturale. "È con i cuori straziati che annunciamo che nostro padre è morto stanotte di cause natuali, non dovute alla diffusione del coronavirus. Persona generos, padre e nonnno devoto. Egli mancherà a sua moglie Jennifer, la sua famiglia tutta e tantissimi altri amici". La carriera di Dennehy è partita molto tardi. Infatti l'attore, prima di essere consacrato sul grande schermo ha dovuto fare anni e anni di gavetta teatrale per poi ottenere un ruolo nel film del 1977 "In cerca di Mr. Goodbar con Richard Gere e Diane Keaton al raggiungimento del suo trentesimo anno di età. Poi è passato alle serie tv, comparendo in molti episodi di Dallas, Serpico, Lou Grant e Kojac. Nel 1988, dopo alcuni anni dal fallimento del primo matrimonio con Scheff si è risposato con Jennifer Arnott. La coppia decise di adottare due bambini. Il grande ruolo arriva nel 1982, quando viene chiamato ad interpretare Will Teasle, lo sceriffo di Rambo con Sylvester Stallone. Ruolo che lo consacrerà e lo farà conoscere al grande pubblico. L'ostinato Teasle che inseguirà il veterano del Vietnam nella prima pellicola dedicata all'eroe militare più famoso del grande schermo. La regia era stata affidata a Ted Kotcheff. L'attore alla fine della sua carriera era tornato a recitare a teatro. Aveva una lunga tournée davanti, stava partecipando a Morte di un Commesso Viaggiatore, opera teatrale che avrebbe calcato il palco di Broadway nelle prossime settimane pandemia permettendo. Dennehy aveva già da tempo annunciato che si sarebbe però preso un periodo di riposo, sfruttando proprio il lockdown in modo da riprendersi e ripartire con i tour teatrali durante l'autunno.

È morto Brian Dennehy, lo sceriffo di "Rambo". L'attore americano aveva 81 anni. Ha recitato in "Il ventre dell'architetto" e "Cocoon". La figlia: "Il coronavirus non c'entra". La Repubblica il 16 aprile 2020. L'attore statunitense Brian Dennehy, protagonista nel 1977 del clamoroso debutto sul grande schermo con il film di Richard Brooks In cerca di Mr. Goodbar e consacrato con il successo interpretando lo sceriffo Will Teasle nel film Rambo del 1982 che insegue il veterano del Vietnam John Rambo (Sylvester Stallone), è morto la scorsa notte nella sua casa nel Connecticut all'età di 81 anni. L'annuncio della scomparsa, come riferisce Hollywood Reporter, è stato dato dalla figlia Elizabeth la quale ha precisato che Dennehy è morto "per cause naturali, non legate al Covid 19". Dopo una lunga gavetta a teatro, Dennehy esordì trentenne in televisione interpretando uomini duri, ruoli da cattivo, personaggi di potere o corrotti. Ha recitato in telefilm come Kojak al fianco di Telly Savalas e F. Murray Abraham, Serpico, Mash e Lou Grant. Dopo l’esordio cinematografico con In cerca di Mr. Goodbar, con Diane Keaton, Richard Gere, William Atherton, Tom Berenger e Tuesday Weld, Dennehy si divide tra piccolo e grande schermo, passa da fiction come Terrore a Lakewood a serial come Dallas e Dinasty a film come Gioco sleale (1978) con Goldie Hawn e F.I.S.T. con Rod Steiger e Sylvester Stallone. Dopo il successo nel ruolo dello sceriffo Will Teasle in Rambo (1982) interpreta l’alieno nel film di fantascienza Cocoon - L'energia dell'Universo" (1985) e nel suo sequel Cocoon - Il ritorno (1988). Pochi i ruoli da protagonista nella sua carriera: è l'architetto americano nel film di Peter Greenaway Il ventre dell'architetto (1987), il poliziotto con velleità da scrittore in Best Seller (1987) di John Flynn, il padre fattore di Richard Gere e Kevin Anderson in Gli irriducibili (1988). Ha recitato con Harrison Ford in Presunto innocente (1990) e I gladiatori della strada (1992). Sul grande schermo appare in Romeo + Juliet (1996) con Leonardo DiCaprio e Claire Daines, e Codice di sicurezza (1999). Tra i suoi ultimi ruoli quello di Padre Joseph in Knight of Cups, il film diretto nel 2015 da Terrence Malick con Christian Bale, Cate Blanchett e Natalie Portman, candidato all'Orso d'oro al Festival di Berlino. Dennehy è stato sposato dal 1959 al 1974 con Judith Scheff da cui ha avuto tre figlie: Elizabeth e Kathleen, entrambi attrici, e Deidre. Nel 1988 si è risposato con Jennifer Arnott con la quale ha adottato due bambini, Cormack e Sarah. 

Brian Dennehy rip. Marco Giusti per Dagospia il 17 aprile 2020. Perdiamo anche Brian Dennehy, 81 anni, gigante del cinema, del teatro e della tv americana. “Era semplicemente un grande attore”, scrive oggi Sylvester Stallone, che lo ebbe come antagonista in “Rambo”, “Era anche un reduce del Vietman che mi aiutò moltissimo nel costruire il personaggio di Rambo”. Mentre Russell Crowe, che più recentemente lo incontrò  in “The Next three Days” di Paul Haggis, ricorda che è stato un privilegio lavorarci insieme. Grazie al suo fisico imponente, alto 1, 90, grosso e con sguardo fulimnante, fu un duro da grande film avventuroso, come appunto lo sceriffo Will Teasle da contrapporre a Stallone in “Rambo”, l’antagonista di Kevin Costner in “Mai gridare al lupo”, il Ted Montague di “Romeo+ Juliet”, ma anche lo sceriffo o il cattivo di tanti e tvmovie americani, da “Cocoon” a “Silverado” a “Gorky Park”. Ma dimostrò anche di avere finissime doti da attore in ruoli più complessi, come  fu il suo Stourley Krackite, l’architetto malato di cancro allo stomaco nel celebre “Il ventre dell’architetto” di Peter Greenaway, interamente girato a Roma. Del resto ha diviso per tanti anni il cinema con il teatro, dove fu uno straordinario interprete dei drammi di Eugene O’Neil e di Arthur Miller. Celebri sono le sue interpretrazioni in “Desideri sotto gli olmi”, “The Iceman Cometh”, “Morte di un commesso viaggiatore”. Vinse 2 Tony Awards, 6 Emmy e 1 Golden Globe. Nato a Bridgeport, nel Connecticutt, nel 1938, con padre giornalista per la Associtaed Press, studiò alla Columbia University di new York, poi teatro e spettacolo a Yale. Dopo aver fatto il marinaio, iniziò nel 1977 a muoversi sia nel cinema che nelle serie tv. Lo troviamo in piccoli ruoli nelle serie “Il tenente Kojack”, “Serpico”, “Mash”, e in film cone “In cerca di Mr. Goodbar” di Richard Brooks con Diane Keaton, “Semi-Tough” di Michael Ritchie con Burt Reynolds, in “F.I.S.T.” di Norman Jewison con Sylvester Stallone, in “Gioco sleale” di Colin Higgins con Goldie Hawn, “Il ritorno di Butch Cassidy e Kid” di Richard Lester fino ad arrivare a “Rambo” con Stallone che lo imporrà davvero a Hollyood e all’attenzione internazionale. Eccolo quindi in “Mai gridare al lupo” di e con kevin Costner, in “Gorky Poark” di Michael Apted, “Cocoon” di Ron Howard, “Silverado” di Lawrence Kasdan. Con “Il ventre dell’architetto”, dove ebbe uno dei suoi rari ruoli da protagonista, dimostrà di essere il grande attore che sapeva chi lo aveva visto a teatro, ma non riuscì negli anni ’90 e nel ventennio successivo, anche se lavorò sempre moltissimo, serie e piccoli film, a ripetere il successo che aveva raggiunto a cavalla dei ’70 e dei primi ’80. Ebbe ancora buoni ruoli, penso a “L’orologiaio” di Klaus Maria Branduer, “Punto d’impatto”, “Presunto innocente” di Alan J. Pakula, “Tommy Boy” di Peter Segal, fino a “Romeo+Juliet”, ma niente che lo riportasse davvero all’attenzione  internazionale. Negli ultimi anni ricordiamo tra le sue partecipazioni più interessanti la versione cinematografica di Michael Mayers de “Il gabbiano” in mezzo a un ricco cast, Annette Bening, Elizabeth Moss, Saorsie Ronan, dove fu Sorin, e la serie “The Blacklist” (2016-19). Se ne è andato per cause naturali nell’ospedale di New Haven, Connecticutt.  

·        Addio a Lee Konitz, uno degli ultimi grandi del jazz mondiale.

Coronavirus, addio a Lee Konitz, uno degli ultimi grandi del jazz mondiale: suonò con Miles Davis. Il sassofonista, geniale improvvisatore di uno degli strumenti protagonisti del genere, è morto a causa del Covid-19. Aveva 92 anni. Con Davis aveva registrato "Birth of the Cool". La Repubblica il 16 aprile 2020. Ha suonato per più di 70 anni, fino agli ultimi giorni, quando è rimasto vittima, come tanti altri, del coronavirus. Il prolifico Lee Konitz, uno dei più geniali sassofonisti jazz, stile inconfondibile e capacità geniale d'improvvisare, si è spento ieri, mercoledì 15 aprile al Lenox Hill Hospital di New York. Aveva 92 anni. Il figlio, Josh Konitz, ha confermato la notizia riportando che le cause del decesso sono da attribuirsi al Covid-19. Lee Konitz era uno degli ultimi colossi del jazz, stile al quale si era avvicinato quando era appena un bambino. Nato a Chicago il 13 ottobre 1927 iniziò infatti a incidere agli inizi degli anni Quaranta, prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale, e durante la prolifica e lunghissima carriera - oltre settant'anni di storia - aveva suonato con altri giganti come Miles Davis (nel 1949-50 nelle session che si sarebbero poi trasformate, anni dopo, nel capolavoro Birth of the Cool), Michel Petrucciani (in Toot Sweet), e poi insieme a Charles Mingus e Bill Evans, e ancora Ornette Coleman, Dave Brubeck, Gerry Mulligan, Max Roach e Bill Frisell, solo per citarne alcuni. In particolare, Konitz era rimasto l'unico sopravvissuto ad aver lavorato con Davis in quel disco-pietra miliare. Comincia con il clarinetto e, ad appena 11 anni, passa al sassofono, lo strumento della vita. Konitz era musicalmente quello che si può definire un onnivoro: per lui la musica era universale, passava da nomi importanti a progetti di seconda scelta, dalle big band ai duetti, sempre e solo per il gusto e il piacere di suonare. Infatti, non è mai diventato ricco con la musica. A quanto sembra, non ha mai avuto un ufficio stampa che promuovesse il suo lavoro, non aveva né un manager e neppure un indirizzo email dove contattarlo. Viveva di jazz perché bastava il jazz a dargli la vita. In Italia, passava spesso, soprattutto a Umbria Jazz ma anche al Barga Jazz, suonando con nomi della nostra scena come Enrico Rava, Glauco Venier, Enrico Pieranunzi e Ornella Vanoni. Nel 2001, insieme a Franco D'Andrea incide l'album Inside Rodgers, con Stefano Bollani, nel 2003, Suite for Paolo e, infine, The Soprano Sax Albums: Standards nel 2007 con il pianista Riccardo Arrighini. A 82 anni era pronto a gettare la spugna, pensando di aver fatto abbastanza: "Ho ottenuto quella sorta di rispetto, sono un 'vecchietto', anche se non ho mai fatto grossi soldi o venduto tanti dischi. Però ho l'opportunità di suonare e questo è grandioso". "Improvvisazione' significa 'imprevisto'", spiegava, "e questa è una domanda che faccio sempre a coloro che si definiscono improvvisatori: quanto di ciò che 'improvvisate' è davvero pianificato? L'idea che la musica è piena di sorprese".

·        E’ morto Luis Sepulveda.

Coronavirus, morto Luis Sepulveda: aveva 70 anni. Lisa Pendezza il 16/04/2020 su Notizie.it.  Lo scrittore cileno Luis Sepulveda è morto a 70 anni dopo essere stato ricoverato per coronavirus alla fine di febbraio. Non ce l’ha fatta Luis Sepulveda, morto dopo aver lottato per settimane contro il coronavirus. Lo scrittore cileno è morto a 70 anni. La notizia è stata diffusa dal quotidiano spagnolo El Pais. È lutto in tutto il mondo per la scomparsa dell’autore del celeberrimo romanzo Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare. A fine febbraio, Sepulveda era risultato positivo al coronavirus ed era stato ricoverato in ospedale a Oviedo. Nelle scorse settimane erano circolate diverse fake news sulle sue condizioni di salute, fino alla bufala (inizialmente confermata e poi smentita) secondo cui l’autore sarebbe stato in coma.

Morto lo scrittore Luis Sepúlveda. Il Dubbio il 16 aprile 2020. Lo scrittore cileno non ce l’ha fatta. Era ricoverato da più di un mese all’Ospedale di Oviedo dopo essere stato contagiato dal Coronavirus. Non ce l’ha fatta Luis Sepúlveda: lo scrittore è morto oggi presso l’Ospedale dell’Università Centrale delle Asturie (Oviedo) dove era stato ricoverato alla fine di febbraio dopo aver contratto il coronavirus. A riportarlo è l’agenzia Efe. Sepúlveda si era ammalato al rientro nelle Asturie, dove viveva dal anni, dal festival letterario Correntes dÉscritas, tenutosi a Póvoa de Varzim, in Portogallo. Lo scrittore ha iniziato a sentirsi male il 25 febbraio e subito gli è stata diagnosticata una polmonite acuta. Una volta confermata la positività al virus, il paziente è stato trasferito al Central University Hospital of Asturias (Huca). Autore di oltre venti romanzi, libri di viaggio, sceneggiature e saggi, Sepúlveda lasciò il Cile nel 1977 dopo essere stato oggetto di ritorsioni dalla dittatura di Augusto Pinochet per raggiungere in aereo la Svezia, dove avrebbe dovuto insegnare lo spagnolo e dove il governo di Thorbjörn Fälldin gli aveva concesso l’asilo politico. Ma al primo scalo, a Buenos Aires, Sepulveda scappò con l’intenzione di recarsi in Uruguay. Molti dei suoi amici argentini e uruguaiani erano in prigione o erano stati uccisi dai governi dittatoriali di quei Paesi, perciò si diresse prima verso il Brasile, a San Paolo, e poi in Paraguay, Paese che dovette in seguito lasciare per problemi con il regime locale. Si stabilì infine a Quito, in Ecuador, ospite del suo amico Jorge Enrique Adoum. Qui riprese a fare teatro e prese parte a una spedizione dell’Unesco dedicata allo studio dell’impatto della civiltà sugli indios Shuar. Nel 1978 raggiunse le Brigate Internazionali Simon Bolivar che stavano combattendo in Nicaragua. Dopo la vittoria nella rivoluzione iniziò a lavorare come giornalista e l’anno successivo si trasferì in Europa. Si stabilì ad Amburgo per la sua ammirazione nei confronti della letteratura tedesca (aveva imparato la lingua in carcere), specialmente per i romantici come Novalis e Hölderlin. Lavorò come giornalista facendo molti viaggi tra Sud America e Africa. Visse poi in Francia per un lungo periodo e prese la cittadinanza francese. Nel 1982 venne in contatto con Greenpeace e lavorò fino al 1987 come membro di equipaggio su una delle loro navi; successivamente agì come coordinatore tra i vari settori dell’organizzazione. Nel 1989 poté ritornare in Cile, ma dal 1996 visse in Spagna a Gijón fino alla sua morte nell’ospedale di Oviedo.

È morto Luis Sepúlveda, lo scrittore cileno aveva contratto il coronavirus. Era ricoverato da fine febbraio a Oviedo. Aveva 70 anni. Stefania Parmeggiani il 16 aprile 2020 su La Repubblica. Era ricoverato in Spagna da fine febbraio. Contagiato al rientro da un festival letterario in Portogallo. Addio a Luis Sepúlveda: la sua incredibile voce, sospesa tra l’America latina a cui apparteneva e l’Europa dove si era rifugiato, si è spenta in un ospedale delle Asturie. Covid-19 ha ucciso anche lui, l’ultimo dei combattenti. Aveva 70 anni. Esule politico, guerrigliero, ecologista, viaggiatore dal passo ostinato e contrario, esordì con un racconto bollato come pornografia dal preside del suo liceo, a Santiago del Cile.  “Era il ’63. Ci innamorammo tutti della nuova professoressa di storia. La signora Camacho, una pioniera della minigonna”. Un compagno di classe gli chiese di scrivere una storia su di lei. Quindici-diciotto pagine. Finirono nelle mani del preside: “Questa è pornografia”, gli disse. Provò a replicare: “Letteratura erotica”. “Pornografia - tagliò corto - ma scritta molto bene”. Raccontava così Sepúlveda, pescando dal cilindro l’ennesimo saporito aneddoto quando di lui i lettori pensavano di conoscere già tutto: i lineamenti forti da guerriero stanco, gli occhi scuri che si accendevano di passioni, l’odore delle tante sigarette fumate. E lo faceva con quel talento da affabulatore che lo rendeva prima ancora che un abile scrittore, un inguaribile cantastorie. Scriveva favole Sepúlveda – e non ci riferiamo solo alla deliziosa Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare – ma ai tanti romanzi al cui centro c’era l’eterna lotta tra il bene e il male. Non amava la cronaca puntigliosa, credeva che la letteratura fosse finzione e intrecciava i fili della narrativa per dare vita a personaggi picareschi e trame avventurose inzuppate di passioni e ideali. I suoi ovviamente, quelli per cui aveva lottato, viaggiato e infine scritto. Con il suo esordio – Il vecchio che leggeva romanzi d’amore, dedicato a Chico Mendes - regalò ai lettori un primo pezzo della sua intensa vita: sette mesi trascorsi nella foresta amazzonica con gli indios Shuar. Nel 1977, espulso dal Cile dopo due anni e mezzo di carcere, si era unito a una missione dell’Unesco per studiare l’impatto della civiltà sulle popolazioni native. Nacque così una storia sospesa tra due mondi, quello degli indios diffidenti nei confronti dei bianchi (cacciatori di frodo, cercatori d’oro, avanguardie dell’industria più feroce) e quei bianchi che al protagonista avevano insegnato a leggere dandogli così un rifugio per la perdita della giovane moglie. Con il secondo romanzo, Il mondo alla fine del mondo, descrisse invece ciò che gli era sembrato inevitabile dal ponte di una nave di Greenpeace, organizzazione a cui si era unito negli anni Ottanta: navi-fabbrica che trascinano a bordo balene esangui e si trasformano in mattatoi, inseguimenti tra le nebbie dell’Antartide, militanti ecologisti contro pescatori giapponesi. Vita, attivismo e letteratura nelle stesse pagine. Alla militanza politica ci pensò La frontiera scomparsa: i racconti che compongono il libro seguono le tappe di un cileno che dalle prigioni di Pinochet ritrova la libertà attraversando l’Argentina, la Bolivia, il Perù, l’Ecuador, la Colombia, in treno o su veicoli di fortuna fino a Panama dove si imbarcherà per la Spagna. A chi gli chiedeva perché mai ci avesse messo tanto a trasformare quell’esperienza in letteratura lui rispondeva con un sorriso tagliente che per l’appunto, era letteratura quella che voleva fare, non psicoletteratura. Detestava il pathos, aveva bisogno di mettere tra lui e il Cile la giusta distanza. Dal dramma si risollevava con la lingua: semplice, netta, sintetica. Tutto il contrario di Marquez: molto realismo, nessuna magia. O forse la magia della realtà. Per dirla con Hemingway, parole da venti centesimi e nessuna costruzione barocca. Era già abbastanza fantasiosa la vita con i suoi fasti e le improvvise cadute. Seguì il filo della sua biografia anche ne La lampada di Aladino: tra mercanti levantini e angeli vendicatori, due giovani condividono le lotte del movimento studentesco e si ritrovano dopo gli anni della dittatura cilena e l'espatrio. In altre parole: la sua storia d’amore con la poetessa Carmen Yáñez. La loro relazione affiorò anche nel noir Un nome da torero. Il protagonista, che si chiama Juan Belmonte come il celebre torero che si suicidò con un colpo di pistola, è un ex guerrigliero cileno di quarantaquattro anni, che accetta di dare la caccia a un tesoro nazista nella terra del fuoco solo per amore di Veronica, una donna torturata dai militari e ritrovata viva, ma in condizioni psicologiche disastrate, in una discarica di rifiuti a Santiago. Nella realtà le cose non andarono proprio in quel modo, ma per Sepulveda non poteva essere altrimenti: trasformava le sue esperienze in materia letteraria, regalava pezzetti di vita ai suoi personaggi, ma le biografie no, quelle le lasciava ad altri. Giocava coi generi: le favole per i sentimenti universali (oltre alla storia della Gabbianella, quella del gatto e del topo che diventò suo amico, della lumaca che scoprì la lentezza e del cane che insegnò a un bambino la fedeltà); la novela negra per denunciare l’arroganza dei potenti, la solitudine degli sconfitti o, come in Diario di un killer sentimentale, l’orgoglio di un uomo tradito; i racconti per mettere a nudo dopo un lento processo di maturazione le sue idee e passioni. Si legga ad esempio Incontro d’amore in un paese in guerra. A unificare le diverse forme letterarie la calviniana leggerezza della lingua. Leggere Sepúlveda non richiede sforzi, le pagine scivolano sotto gli occhi ma le passioni di cui parla, i fantasmi che evoca, i grandi amori, gli ideali irrinunciabili lasciano tracce indelebili nella memoria dei lettori. Non può essere diversamente e Sepúlveda lo sapeva. Lo aveva anche raccontato nel poliziesco L’ombra di quel che eravamo, una storia di amicizia e speranza tra assalti alle banche, vecchi giradischi, un rocambolesco omicidio e un’ultima spregiudicata azione rivoluzionaria. In una notte piovosa a Santiago, quattro uomini che si erano persi di vista per più di trent’anni si ritrovano per un’ultima avventura. L’idea gli venne durante una grigliata a casa di un amico, dirigente del Fronte Patriottico Manuel Rodriguez, il movimento armato che non diede un giorno di tregua a Pinochet. Dopo cena iniziarono i racconti, storie di lotta e di resistenza. In quel momento lo scrittore si accorse che lui e il suo vecchio amico proiettavano ancora l’ombra di ciò che erano stati. L’ombra per esistere ha bisogno di luce. Quella di Sepúlveda non si è spenta e mai lo farà: nei suoi libri, nella nostra memoria, per sempre.

Tra i suoi romanzi più amati dal pubblico Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare. 

Coronavirus, è morto il grande scrittore Luis Sepúlveda: «Fate la rivoluzione con la felicità». L'autore cileno è scomparso a causa del coronavirus a 70 anni. Lo ricordiamo con questa intervista che ci ha rilasciato nel 2014. In cui parlava della felicità e di come il potere la temesse perché è eversiva. Gigi Riva il 15 maggio 2014 su L'Espresso. Il grande scrittore cileno Luis Sepùlveda è morto il 16 aprile 2020 all'età di 70 anni a causa del Coronavirus. Lo ricordiamo con questa intervista che ci rilasciò nel 2014. Per spiegare quanto sia rivoluzionaria la felicità, Luis Sepùlveda, 64 anni, scrittore cileno, racconta con la stessa affabulazione feconda dei suoi romanzi, la trama di un film argentino degli Anni Ottanta ambientato nel periodo della dittatura. C’è un uomo, di professione inventore, che vive in un villaggio sperduto della Patagonia. Ogni volta che fa una scoperta si reca speranzoso a Buenos Aires per brevettarla e ogni volta se ne torna con la coda tra le gambe per lo sconforto dei suoi compaesani illusi di poter arrivare al benessere grazie al suo genio: ha promesso di redistribuire fra tutti l’eventuale ricchezza. Una volta il marchio è già stato depositato, un’altra non viene capito. Un giorno raduna tutta la popolazione davanti a una lavagna e si mette a scrivere quella che sembra una lunghissima formula chimica. Trionfante annuncia: «È la formula della felicità». Riparte per Buenos Aires e per diverse settimane non dà più notizie. Ce l’avrà fatta e se la starà spassando nella capitale? Niente di tutto questo. Riappare pesto e sanguinante: lo hanno torturato perché il Potere non può permettere che i sudditi siano felici, è il massimo dell’eversione. Se Sepùlveda parla di un tema apparentemente lontano dal suo profilo di autore impegnato e di sinistra e con un passato da guerrigliero (fece anche parte della guardia personale di Salvador Allende) è perché assieme a Carlo Petrini, suo coetaneo, fondatore di “Slow food”, ha scritto “Un’idea di felicità” il cui assunto fondamentale è che ciascuno ha diritto a quello stato di benessere e di piacere, a cui si arriva attraverso «piccole soddisfazioni» e che può essere perseguito attraverso scelte pubbliche. In altri tempi si sarebbe detto: il personale è politico. Sepùlveda, siamo abituati a pensare che la felicità sia questione intima, che non dipende dal contesto. Il vostro, suo e di Petrini, è un cambio di paradigma.

«Solo minimamente la felicità è uno stato d’animo individuale. Quando uno fa bene l’amore ad esempio, ma dura poco, giusto l’attimo del coito».

Tra questa e la felicità collettiva c’è relazione?

«Sono in continuo dialogo. Un individuo che ha conquistato una felicità solo personale corre sempre il rischio che sia messa in pericolo. Ad esempio se va per strada e vede qualcuno che rovista nella spazzatura alla ricerca del cibo ecco che quella felicità si interrompe. Non posso star bene se altri sono ridotti così».

Vale sono se si è empatici col resto dell’umanità. Altrimenti ci si può rifugiare nell’egoismo che pure è insito nell’uomo.

«Ma non esiste felicità senza empatia. Uno non può essere felice in modo clandestino. E vale fin dagli albori della storia. Quando ci sono stati almeno due uomini di Neanderthal hanno cominciato a comunicare per scoprire cosa potevano fare insieme. E già questo primo passo altro non è che una tensione verso la felicità, che nel loro caso era il sopravvivere nelle condizioni date. La felicità non è uno stato empirico ma una faticosa ricerca quotidiana. Sono felice quando sento che sono un uomo giusto, ho fatto una cosa giusta. In questo senso la felicità coincide con la comunità. Non è possibile una felicità senza paragone, se la mia felicità non si riflette nell’altro non è».

Estremizzando il suo pensiero il capitalismo che mette l’individuo al centro di tutto, sarebbe contro la felicità.

«L’ideologia capitalista ti dice che hai la possibilità di diventare “l’unico” individuo al centro di tutto. Il che è anche peggio. E vado oltre. Lo stesso comunismo, quando è diventato capitalismo di Stato come nel caso cinese, è pure contro la felicità perché questa non è determinata dall’accumulazione di beni ma da un piacere che parte dalle piccole cose».

Nel libro la lentezza viene usata in opposizione alla velocità e lei del resto ha scritto un racconto su una lumaca. Recuperare per sé il tempo è l’anticipo della letizia?

«Il tempo libero, che il capitalismo definisce tempo non produttivo, è quello in cui l’essere umano si proietta. Gli anarchici parlano addirittura di diritto al tempo liberato».

Il paradosso dei nostri tempi è che il capitalismo ha prodotto disoccupazione.

«E quello non è tempo liberato ma angoscia per la mancanza di lavoro. Nel posto dove siamo (al Lingotto di Torino, durante il Salone internazionale del Libro, n.d.r.) oggi passano scrittori, giornalisti, lettori, ma 30 anni fa era pieno di lavoratori del Sud che non parlavano italiano e andavano incontro a un’assimilazione culturale velocissima, dimenticavano la loro identità ed erano come il Chaplin del film “Tempi moderni”. Perdevano qualcosa, certo per permettere che si generasse qualcosa, il proletariato torinese, l’organizzazione sindacale. Poi è morta la fabbrica, è morto il partito e il sindacato ha vissuto l’interruzione traumatica di quella che si chiamava lotta di classe. Basata sullo sciopero: io non produco, tu non guadagni. Ora non vale più perché col neoliberismo è arrivata la delocalizzazione delle aziende e si va a guadagnare da un’altra parte. Ci si è dimenticati di tutto quello che è stato conquistato, ci si è dimenticati che ci vorrebbe una lotta continua per mantenere i diritti acquisiti».

La povertà non sembra entrare, per lei, nei parametri con cui definire l’infelicità.

«Il contrario della povertà non è la felicità perché la felicità ha bisogno di un grado di consapevolezza».

Però il fatto che, stando alle statistiche Onu, la povertà diminuisca è motivo di sollievo.

«Non è vero che diminuisce, aumenta. In Spagna, dove ora vivo, ci sono due milioni di persone che non guadagnano nulla, non hanno assistenza sociale e sono ridotte a cercare da mangiare tra i rifiuti».

Vale per l’Occidente non per tutto il globo.

«È significativo perché succede in Occidente, del resto del mondo che ne sappiamo? I profughi di Lampedusa non fuggono per caso dalla povertà?».

Lei voterà, in Spagna alle elezioni europee. La sinistra non sembra in grado di fornire, soprattutto ai giovani, risposte su come arrivare a quella felicità collettiva che descrive.

«La sinistra deve allontanarsi dal capitalismo. Non potrà farlo in modo traumatico, ma cominciare a costruire un’alternativa. Oggi, e per 30 anni, dovrà affrontare questioni pratiche: il salario minimo di 800 euro, la Tobin tax per evitare una nuova crisi del sistema finanziario. Stavolta si deve partire dal pratico per arrivare all’ideologia, fare il percorso inverso rispetto a quello del Novecento».

Quanto al pragmatismo di sinistra lei sembra rimpiangere, nel libro, l’esperienza tragicamente troncata di Salvador Allende.

«Perché Allende cercava la felicità. Se il suo modello si fosse imposto, per gli Stati Uniti, per il capitalismo sarebbe stato un disastro: per contrastare il nostro esperimento avrebbero dovuto postulare un’idea di società assai più intelligente. In questo senso eravamo pericolosi e da fermare Era molto più facile, per loro, combattere il sistema sovietico».

Sepùlveda, lei è ottimista per il futuro?

«Sì. Vedo una parte importante dei giovani che pensano attivamente e in un modo diverso. Vedo l’allegria del movimento degli indignados che, in Cile ad esempio, hanno portato il Parlamento Camila Vallejo, la leader degli studenti, e diversi altri suoi compagni».

Ma il Cile non è il pianeta intero.

«Può essere paradigmatico però. È un occidente in miniatura. Il Paese si unisce rapidamente, davanti a catastrofi come l’incendio di Valparaiso o un terremoto arde la fiamma della solidarietà. E poi c’è l’Uruguay del mio amico Pepe Mujica, certo ha tre milioni di abitanti ma ha scelto come parola d’ordine lo slogan che la povertà deve essere degna. E sotto quella dignità non si scende».

Restando in Sudamerica. Fra poco il Brasile ospiterà i Mondiali di calcio e ha una pesante crisi sociale. Ma, sostengono un po’ tutti, se li vincerà la felicità sarà tale da dimenticare i problemi. Che felicità è quella?

«Non è felicità. Usiamo un sinonimo per favore. Euforia può andare, dura una notte come la sbornia. Poi ci si risveglia. La felicità è una catena di elementi. Una vittoria sportiva è un bellissimo momento transitorio. Di cui si dichiareranno felici Adidas, Nike, i costruttori dei campi di calcio. E quelli degli alberghi».

·        E’ Mario Donatone, uno dei cattivi del cinema italiano.

Marco Giusti per Dagospia il 15 aprile 2020. Se ne va uno dei cattivi del cinema italiano, Mario Donatone, 87 anni, attore di cinema e teatro. Difficile scordarlo come il terribile Mosca, il killer che uccide la figlia di Michael Corleone, interpretata da Sofia Coppola, alla fine del “Padrino Parte III” di Francis Coppola. La sua partecipazione al film prevedeva 7 giorni di lavorazione, ne fece 77. Magrado Donatone avesse interpretato nella sua carriera qualcosa come 150 film, gangster ma anche prete o cardinale o poliziotto, è col “Padrino – Parte III” nel 1990 che grazie a quella faccia così particolare, come di una persona che sta male con se stessa pronto a compiere qualsiasi cosa, che lo notammo davvero tutti. Tanto che ebbe ancora buoni ruoli negli anni successivi, in film come “L’angelo con la pistola” di Damiano Damiani o “L’odore della notte” di Claudio Caligari o “Faccia di Picasso” di Massimo Ceccherini, dove è Picasso, o il recente “John Wick capitolo 2”. E credo che lo schierarsi così decisamente a fianco di Alleanza Nazionale negli anni del potere della destra non gli abbia alla fine dato molto. Anzi. Nato a Tripoli, in Libia, nel 1933, torna in Italia con la fine della guerra e entra presto nel mondo del cinema e del teatro. Lo troviamo in piccoli ruoli in “Bellissima” di Luchino Visconti e in “Risate di gioia” di Mario Monicelli. Ha un ruolo maggiore, ma col nome d’arte di “Dan Doney”  nell’esotico-erotico “Eva la venere selvaggia” di Roberto Mauri con la brasiliana Esmeralda Barros. Col nome di “Mario Donen” lo troviamo invece nell’erotico “Il diario segreto di Fanny” di Sergio Pastore. Poi col nome suo in “Kid, il monello del west” di Mario Amendola, che lo diresse anche in “Totò di notte n. 1” e “Due sul pianerottolo”. E’ grazie ai fratelli Corbucci che diventa quasi una presenza fissa nel loro cinema. Lo troviamo così in “Io non spezzo… rompo”, “Boccaccio”, “La casa stregata”, “Il figlio dello sceicco”, tutti di bruno Corbucci, in “Bluff”, “Mi faccio la barca”, “A tu per tu”, “Il conte Tacchia”, “Sono un fenomeno paranormale” di Sergio. Poi in gran parte dei film di Tomas Milian-Nico Giraldi diretti da Bruno, “Squadra antiscippo”, “Assassinio sul Tevere”, “Delitto a Porta Romana”, “Delitto sull’autostrada”, “Delitto in Formula 1”, pronto a qualsiasi ruolo, non solo il cattivo. Negli anni ’80, prima dell’incontro con Coppola, lo troviamo anche in film diversi, da “Il camorrista” di Giuseppe Tornatore, dove è un pretore, a “La signora della notte” di Piero Schivazappa al trashissimo “La croce delle sette pietre” di Marco Antonio Andolfi, dal misterioso “Haji Wshington” dell’iraniano Ali Hatami al cultissimo “Phenomena” di Dario Argento. Attivissimo anche in teatro, sia come attore, lo ricordiamo con Lando Buzzanca in un più recente “Liolà”, che come regista con sue compagnie che come professore di recitazione.

·        E' morto Franco Lauro, volto noto di Rai sport.

E' morto Franco Lauro, volto noto di Rai sport. Il giornalista è scomparso per un improvviso malore. Aveva 58 anni. Enrico Sisti La Repubblica il 14 aprile 2020. Addio a Franco Lauro. Era un giornalista sportivo che non ha mai avuto bisogno di alzare i toni, nemmeno quando intorno a lui gli argomenti s'incendiavano. Un lutto pesante dell'opinione non gridata. Lauro, romano, appassionato soprattutto di calcio e di basket, volto popolare di Rai Sport, sembra abbia avuto un infarto, a casa, solo. Aveva 58 anni. A trovare il suo corpo senza vita sono stati i carabinieri della stazione San Lorenzo in Lucina che oggi alle 15.30 si sono recati nel suo appartamento al centro di Roma, dopo la segnalazione di una donna che non aveva notizie del giornalista da due giorni. Conduttore ma anche telecronista, era entrato in azienda nel 1984. Come tanti a quell'epoca s'era fatto le ossa nei giornali locali e in alcune radio e televisioni private romane: iniziò a Radio Incontro, poi condusse "Roma e Lazio dal 1° minuto" su TeleRegione. Altri tempi. Nel corso della sua attività in Rai ha commentato otto olimpiadi estive (più Torino invernale del 2006), sei edizioni dei Mondiali di calcio, altrettante di Europei. E poi il basket. Fu lui il telecronista dello storico europeo femminile a Brno, quando le azzurre conquistarono la finale per arrendersi soltanto all'Ucraina. Sempre lui in prima linea per l'europeo maschile, con l'Italia di Tanjevic prima in Francia. Storica la sua resistenza da Atlanta, ai Giochi del '96: per l'attentato rimase in studio a fungere da collegamento tra le varie finestre d'informazione per 32 ore. Poi via via gli altri impegni, sempre a gestire opinioni, filmati, interviste. Condusse anche la "Domenica Sportiva", nell'anno del cinquantenario accanto a Giampiero Galeazzi: era il 2003. Parlando qualche giorno fa a Radio Kiss Kiss di Napoli, aveva detto del calcio nostrano: "Il calcio è il romanzo popolare più amato dagli italiano. Ci sono tanti legami che ci accompagnano negli anni. Tutelare la base del calcio è importante, significa tutelare tutto. Non si può pensare solo al vertice e alla Serie A. Se noi facciamo morire il calcio dilettantistico, la Serie C, il calcio femminile, provochiamo un danno a tutto il movimento e a perdere saranno anche i vertici, i grandi del calcio". Colto, sensibile, Lauro lascia un vuoto tra i colleghi più stretti, con cui ha condiviso avventure e inquadrature: "Non posso crederci, abbiamo condiviso così tanto...", è il commento accorato di Paola Ferrari su Twitter.

Da ilmessaggero.it il 14 aprile 2020. Franco Lauro è morto: lutto nel mondo del giornalismo sportivo. Il veterano della Rai dal lunghissimo curriculum è stato trovato morto nel pomeriggio a Roma,  colpito probabilmente da un infarto: aveva 58 anni. Da quel che si è appreso è stata un'amica a dare l'allarme al 112 perché da due giorni non aveva sue notizie. L'equipaggio del 118 e la pattuglia dei carabinieri si sono fatti aprire la porta dell'appartamento nella centrale via Croce dai vigili del fuoco. Il personale medico non ha potuto fare altro che constatare il decesso, come ha fatto pure il fratello maggiore Salvatore, oncologo di fama. Il giornalista è stato trovato morto sul letto, era ancora vestito. Tutto lascia supporre un malore fulminante che non gli ha lasciato il tempo di chiedere aiuto con il cellulare. Non è stata al momento ordinata l'autopsia. Era entrato alla Rai nel 1984: da allora ha coperto otto Olimpiadi estive e una invernale (Torino 2006), sei edizioni dei mondiali di calcio e altrettante degli europei, 12 europei e 3 mondiali di basket, i Goodwill Games del 1990 a Seattle, numerose edizioni dei Giochi del Mediterraneo e Universiadi. All'inizio della carriera ha lavorato in testate locali e radio private romane conquistando notorietà con il calciomercato. In tv debutta nel 1981 in una emittente locale ed è inoltre per due anni lo speaker ufficiale del Palasport della capitale. Nel 1982-83 cura le telecronache del campionato di calcio per la trasmissione Roma e Lazio dal 1º minuto in onda su TeleRegione. Memorabile la maratona di 32 ore consecutive in servizio a causa dell'attentato terroristico alle Olimpiadi di Atlanta: seguì tutti i collegamenti con le reti e i Tg. Nel 2003 gli venne affidata, in coppia con Giampiero Galeazzi, la Domenica Sportiva del cinquantenario, quindi nel 2004 Domenica Sprint e 90º minuto Serie B.

LE REAZIONI.

«Ho appena avuto una notizia tremenda. Un amico con cui abbiamo diviso così tante avventure. non posso crederci». Così Paola Ferrari su Twitter commenta la notizia della morte del giornalista e conduttore sportivo Rai Franco Lauro, scomparso oggi a 58 anni.

«Ho appena saputo della scomparsa di Franco Lauro sono senza parole. Esperto ed appassionato di basket, era un volto amico ed educato che entrava nelle nostre case. A lui mi legano tanti ricordi, uno su tutti: l'inizio insieme in radio nel 1985. Ciao caro Franco Rip». Così Massimo Caputi, caporedattore dello Sport al Messaggero. 

«Se n'è andato Franco Lauro, giornalista di Rai Sport, sempre sorridente, gentile. Cominciò a Radio Incontro, proprio con me. Faceva a quei tempi lo speaker del basket e lo chiamavano »la voce«. Poi una bella carriera. Ciao, amico mio». Così Roberto Renga su Twitter.

«Una brutta notizia che lascia senza parole. Un giorno davvero triste. Oggi è mancato Franco Lauro. Amico e collega di Raisport. Ciao Franco!Folded hands». Così il collega in Rai, Paolo Paganini.

Da ilsussidiario.net il 15 aprile 2020. Ivan Zazzaroni ha ricordato il compianto Franco Lauro. In collegamento con Storie Italiane, su Rai Uno, ha spiegato: “Ci sono ancora delle morti che riescono a sorprenderti, ieri quando mi è arrivata la notizia quasi non ci credevo. Lui era molto professionista, sobrio, preciso, ‘era molto Rai’, lui si preparava tantissimo”. Quindi un curioso aneddoto: “Ricordo 17 anni fa quando feci la mia prima Domenica Sportiva da opinionista, c’era Lauro e Galeazzi, il polo nord e il sud, ma lui ha sempre fatto il tutto rimanendo nel suo, sempre vestito bene, composto. Lo vedevo sempre la domenica mattina, lui arrivava con 200 giornali sotto il braccio perché voleva prepararsi”. Anche Paola Ferrari si è collegata con il programma di Eleonora Daniele: “Ivan ha descritto bene l’immagine di Franco, lui arrivava con questa cartelletta di giornali, voleva sempre essere informato, non aveva mai voglia di fermarsi, aveva sempre voglia di sapere. Franco è andato in onda fino alla sera di Pasqua. Era innamorato del basket, era un signore, incarnava nel modo perfetto l’anima del servizio pubblico. Lui voleva ricordare sempre i medici, gli infermieri, i malati, lo faceva ogni domenica, adesso lo fanno un po’ tutti, lui lo faceva già anni fa”. (aggiornamento di Davide Giancristofaro)

Continuano ad arrivare le manifestazioni di cordoglio per l’improvvisa e prematura scomparsa del giornalista Rai Franco Lauro. Su Instagram un altro collega che ha vissuto un gran pezzo di strada nella sua carriera al fianco di Lauro, Marino Bartoletti, ha dedicato all’amico scomparso un commosso pensiero: “Franco Lauro era un entusiasta della vita e del lavoro. Un collega disponibile, meticoloso, competente, appassionato e corretto. Se n’è andato a 58 anni in maniera inattesa e cattiva, quando aveva ancora tante cose da fare e da dire. Non sto neanche a raccontare quanti momenti ci hanno unito.” Non mancano ovviamente, vista la lunga militanza lavorativa in Rai e le esperienze vissute assieme anche durante i Giochi Olimpici, i ricordi di Marino Bartoletti che condivideva con Lauro anche la passione per la pallacanestro: “Veniva come me dal basket: ma sapeva e poteva parlare di tutto. Ai Giochi di Atlanta ero suo direttore e non riuscii a smuoverlo per più di un giorno e di una notte interi dalla conduzione, quando misero una bomba nel compound olimpico. Alla fine dovetti obbligarlo con la forza a riposare un po’ sul divano del mio ufficio. Franco era cosi.” (agg. di Fabio Belli)

Morto il giornalista Rai Franco Lauro per un malore improvviso. Il Corriere del Giorno. Il giornalista è stato trovato privo di vita nella sua abitazione, vittima di un improvviso malore che a quanto si apprende, a causa di un infarto. Appassionato di basket e calcio, era diventato negli ultimi tempi anche un esperto di calciomercato. Lutto nel giornalismo italiano, ed in particolare di quello sportivo: è morto Franco Lauro, volto noto e popolare di RaiSport. Il prossimo ottobre avrebbe compiuto 59 anni. A trovare il corpo senza vita di Franco Lauro sono stati i Carabinieri della stazione San Lorenzo in Lucina di Roma che oggi alle 15.30 si sono recati nel suo appartamento al centro della Capitale, dopo la segnalazione di una donna che non aveva notizie del giornalista da due giorni. Sul posto, oltre ai militari, il medico legale. Lauro era nato a Roma il 25 ottobre 1961 e prima di entrare in Rai aveva lavorato per qualche anno in alcuni giornali locali e radio private romane. In tv aveva esordito nel 1981 in un’emittente locale. Per due anni era stato anche lo speaker ufficiale del Palazzo dello Sport. Nel 1982-83 era stato impegnato nelle telecronache del campionato di calcio, per la trasmissione Roma e Lazio dal 1º minuto in onda su TeleRegione. Era entrato in Rai all’inizio del 1984: in 28 anni ha commentato 8 Olimpiadi estive ed una invernale (Torino 2006), 6 edizioni dei Mondiali di calcio, e altrettante degli Europei, 12 Europei di basket, 3 Mondiali di basket, i Goodwill Games del 1990 a Seattle, varie edizioni dei Giochi del Mediterraneo e Universiadi. Nel 1999 aveva commentato insieme a Dado Lombardi le gesta della Nazionale di pallacanestro dell’Italia di Bogdan Tanjević, campione d’Europa in Francia. Nel 1996, in occasione dell’attentato terroristico alle Olimpiadi di Atlanta, rimase in studio quasi ininterrottamente per 32 ore per curare tutti i collegamenti con le reti e i Tg. Nel 2003 aveva condotto La Domenica Sportiva insieme ad Giampiero Galeazzi , nell’ edizione del cinquantenario della popolare trasmissione, nel 2004 Domenica Sprint e dal 2005 gli è affidato 90º minuto Serie B. Lauro aveva condotto l’edizione di mezza sera del Tg2 tra il 1988 ed il 1991,in coincidenza con vari scioperi generali dei giornalisti. Nel corso della carriera ha ricevuto diversi premi, tra i quali il Premio Beppe Viola e il Premio Paolo Valenti. Nel 1995 aveva commentato la storica impresa della Nazionale femminile di pallacanestro allenata da Riccardo Sales che si aggiudicò la medaglia d’argento agli Europei di Brno. Nel febbraio 2006 aveva condotto dallo studio i collegamenti con i siti di gara di Torino 2006, mentre nel giugno 2008 è stato il conduttore delle trasmissioni pre e post partita di Euro 2008. Dal 2008 al 2014 ha poi condotto 90º minuto per la Serie A, nel giugno e luglio 2010 è stato il conduttore di Dribbling Mondiali su Rai Due. Nello stesso periodo del 2012, come nel 2008, conduceva le trasmissioni Rai pre e post partita degli Europei e conduce Stadio Europa. Nel 2016-2017 aveva condotto il pre e post partita della Coppa Italia con il collega Mario Sconcerti. Ai colleghi di RAISPORT ed alla famiglia di Franco Lauro, giornalista “gentiluomo” ed amico sincero, vanno il nostro pensiero e le nostre condoglianze più sentite.

Lutto nel giornalismo sportivo: è morto Franco Lauro. Il popolare conduttore televisivo e telecronista è stato trovato in casa senza vita, stroncato da un infarto. Antonio Prisco, Martedì 14/04/2020 su Il Giornale. Il mondo del giornalismo sportivo piange la scomparsa di Franco Lauro: il giornalista sportivo, colpito da un infarto, è stato trovato senza vita nella sua casa romana. È morto a Roma all’età di 58 anni Franco Lauro, giornalista sportivo e volto noto della Rai. Come riporta il quotidiano Il Messaggero le forze dell’ordine sono entrate nella sua casa di via della Croce nel centro della Capitale trovando il cadavere dell'uomo, poi portato via dall'ambulanza accorsa quando ormai era troppo tardi. Lauro avrebbe festeggiato 59 anni il prossimo ottobre e pare sia stato vittima di un infarto. Appassionato di calcio e basket ed esperto di calciomercato, aveva curato numerose telecronache e negli ultimi anni era stato alla conduzione e all'approfondimento del notiziario sportivo Rai.

La carriera. Romano, aveva iniziato in testate locali, occupandosi soprattutto di calciomercato. In Rai era entrato nel 1984. In 28 anni ha commentato otto Olimpiadi estive ed una invernale (Torino 2006), sei edizioni dei mondiali di calcio, e altrettante degli Europei, dodici Europei e tre mondiali di basket. Tra il 1988 ed il 1991, Lauro aveva condotto l'edizione di mezza sera del Tg2 in coincidenza con vari scioperi generali dei giornalisti. Nel corso della carriera ha ricevuto diversi premi, tra i quali il Premio Beppe Viola e il Premio Paolo Valenti. Nel 1999 aveva commentato insieme a Dado Lombardi le gesta della Nazionale di pallacanestro dell'Italia di Bogdan Tanjević, campione d'Europa in Francia. Nel 1996, in occasione dell'attentato terroristico alle Olimpiadi di Atlanta, rimase in studio quasi ininterrottamente per 32 ore per curare tutti i collegamenti con le reti e i Tg. Nel 2003 aveva condotto con Giampiero Galeazzi La Domenica Sportiva edizione del cinquantenario, nel 2004 Domenica Sprint e dal 2005 gli è affidato 90º minuto Serie B. Dal 2008 al 2014 ha poi condotto 90º minuto per la Serie A, nel giugno e luglio 2010 è stato il conduttore di Dribbling Mondiali su Rai Due. Nello stesso periodo del 2012, come nel 2008, conduceva le trasmissioni Rai pre e post partita degli Europei. Nel 2016-2017 aveva condotto il pre e post partita della Coppa Italia con Mario Sconcerti. Immenso il cordoglio tra i personaggi dello sport, i colleghi della Rai, i personaggi del calcio e del basket: una perdita davvero dura quella di Lauro, uno dei volti più amati dell'informazione sportiva, che arriva a breve distanza dalla scomparsa di un altro nome prestigioso come quello di Gianni Mura. Tra i tanti messaggi di lutto arrivati a mezzo social al tragico annuncio, sono davvero addolorate le parole di Paola Ferrari:"Ho appena avuto una notizia tremenda. Un amico con cui abbiamo diviso così tante avventure. Non posso crederci. Le parole non le trovo. Proprio non le trovo in questo momento". Un giornalista colto e sensibile, che mancherà tantissimo a tutti gli appassionati di sport.

·        E’ morto Mirko Bertuccioli, detto "Zagor", cantante dei Camillas.

Coronavirus, è morto Mirko dei Camillas: Zagor aveva 46 anni. Mirko Bertuccioli, detto "Zagor", il cantante della band indie pesarese, era ricoverato ad Ancona in terapia intensiva da oltre quattro settimane. Alessandro Zoppo, Martedì 14/04/2020 su Il Giornale. Mirko Bertuccioli, il cantante e tastierista della band pesarese I Camillas, è morto all'età di 46 anni per le complicazioni dovute al coronavirus. "Zagor", originario di Pordenone come il suo compagno d'avventure Vittorio Ondedei (ovvero "Ruben" Camillas) e poi trasferitosi da tempo nella "costa est di Pesaro", era ricoverato in terapia intensiva ad Ancona da oltre quattro settimane. Bertuccioli, come riporta Il Resto del Carlino, si è contagiato probabilmente dopo un concerto in Lombardia. Oltre che uno dei gruppi più originali della scena indie italiana, autori di un pop raffinato e dadaista, sghembo e surreale, Mirko lascia il negozio di dischi e vinili Plastic di via Passeri, un punto di riferimento per gli amanti della musica della cittadina marchigiana.

Pesaro piange Mirko dei Camillas. Matteo Ricci e Daniele Vimini, sindaco e vicesindaco di Pesaro, sono "sconvolti" dalla morte di Mirko. "Bertuccioli – hanno dichiarato – ha portato il nome di Pesaro in tutta Italia e oltre, e la sua capacità di fare rete e amicizia attraverso la musica ha portato in tanti anni decine di band e artisti incredibili a Pesaro, fino recentemente al festival From Pesaro With Love che organizzava per amore della città". I Camillas erano attivi ufficialmente dal 2007 con l'EP Everybody in the Palco! e hanno realizzato nel corso degli anni cinque album in studio (Le politiche del prato del 2009, Costa Brava del 2012, lo split X-Marillas del 2013 con gli X-Mary, Tennis d'amor del 2016 e Discoteca Rock del 2018) e il libro La rivolta dello zuccherificio, un romanzo autobiografico pubblicato da il Saggiatore.

Addio alla "concretezza italica" dei Camillas. Nel 2015 il duo aveva partecipato con successo anche a Italia's Got Talent, dove aveva portato quel miscuglio sonoro che univa "il beatpop degli anni '60, con tutto il suo sforzo di liberarsi dall'anglodominio ed aprirsi alla concretezza italica; le melodie postclassiciste, nel loro incarnarsi trasversale in tipi come Carella e nel loro perpetuarsi stabile nelle canzoni da classifica o in quelle da lampo estivo (e qui non ci sono limiti temporali, sbalzati lungo i decenni come bambini su di un bob); la musica fintorock; il minimalismo radicale o quello pop, soprattutto americano e soprattutto organo ed harmonium; il suono inglese dall'85 al '95, ma non proprio gli Smiths, proprio no; il pop apocalittico e il gioco della fine del mondo". Sui social, sono stati in tantissimi a ricordare Zagor. "Mirko dei Camillas – scrive il giornalista Matteo Bordone – era una persona dolce, generosa. Ogni volta che andavo a vederli poi si chiacchierava, si faceva gli scemi con l'accento pesarese che a me tornava su dagli anni al mare a Gabicce. Con lui se ne va un buono, matto e creativo, un pezzo bello dell'indie italiano".

·        Morta Patricia Millardet, la giudice della "Piovra".

Morta Patricia Millardet, la giudice della "Piovra". L'attrice, 63 anni, è deceduta a Roma per un attacco cardiaco. Era diventata popolarissima col ruolo di Silvia Conti nella serie interpretata da Michele Placido. Silvia Fumarola il 13 aprile 2020 La Repubblica. È morta oggi pomeriggio all'ospedale San Camillo di Roma per una crisi cardiaca l'attrice francese Patricia Millardet. Nata nel 1957 a Mont-de-Marsan, nella regione della Nuova Aquitania, Patrica Millardet aveva compiuto 63 anni lo scorso 24 marzo. In Italia, dove viveva dalla fine degli anni '80, prima sull'Appia Antica e poi a Castel Gandolfo, si era fatta conoscere al grande pubblico da quando aveva interpretato il coraggioso e incorruttibile magistrato Silvia Conti ne La piovra, la serie interpretata da Michele Placido nei panni del commissario Cattani, tra il 1989 e il 2001. Un ruolo che le aveva dato la grande popolarità. Aveva giurato che avrebbe vendicato la morte del commissario, eroe della storia, ucciso dalla mafia. E da quel momento l'eroina era diventata lei. "Perché il grande successo? Veramente non lo so", spiegava in un'intervista a Repubblica. "Penso che Silvia piaccia al pubblico perché è molto morale, pulita, disponibile. All'inizio questo ruolo mi faceva paura, ero nervosa. Quest' anno è andata meglio. Per rendere vero un personaggio bisogna crederci profondamente, e io mi sono sforzata di pensare e agire come lei. Mi sono molto divertita a interpretarla, è così sicura di sé. Rulli e Petraglia, gli sceneggiatori, hanno scritto un ruolo perfetto. Solo su un punto non ci siamo trovati d'accordo. Silvia non poteva innamorarsi di Licata. C'era un momento in cui lei avrebbe dovuto andare incontro a Davide. Mi sono ribellata. Come poteva comportarsi così una donna che ha perduto il grande amore della sua vita in quel modo violento?". Nella sua carriera aveva recitato in moltissime produzioni cinematografiche e televisive. Uno dei suoi primi ruoli era stato quello di comparsa nel film Il tempo delle mele 2 nel 1982. Aveva debuttato nel cinema italiano nel 1987, con il film tv di Carlo Lizzani Assicurazione sulla morte. Mentre nel 1990 aveva recitato in Il sole anche di notte di Paolo e Vittorio Taviani. La grande popolarità arrivò con le serie de La Piovra su Rai 1. Tra il 2001 e il 2003 era stata tra le protagoniste della fiction di Canale 5 Il bello delle donne, dove interpretava il personaggio di Angelina Brusa. Nel 2002 si era sparsa la notizia che avesse tentato il suicidio in una villa sull'Appia Antica a Roma ingerendo una massiccia dose di barbiturici. Ma era stata lei stessa a smentire: "'Non c'è stata malafede ma comunque è stata una storia romanzata. Il produttore della fiction Il bello delle donne, Alberto Tarallo, mi aveva chiesto di dimagrire per interpretare la terza serie - aveva raccontato l'attrice - invece sono tornata ingrassata di tre chili da una vacanza alle Maldive. E così ho drasticamente scelto di non mangiare niente, lo stomaco si è chiuso, ho bevuto poco, fumato molto e fatto cyclette. Un giorno sono svenuta in casa proprio mentre un amico con cui avevo un appuntamento mi stava venendo a trovare: si è preoccupato, ha chiamato polizia, carabinieri e ambulanza ed è nata la storia del tentato suicidio''.

Roma, morta per arresto cardiaco l’attrice francese Patricia Millardet. L’indimenticabile giudice de “La piovra” si è spenta all’età di 63 anni per una crisi cardiaca. Era ricoverata dallo scorso 24 marzo al San Camillo di Roma. Valentina Dardari, Martedì 14/04/2020 su Il Giornale. Patricia Millardet, la giudice incorruttibile de “La piovra”, è morta nel pomeriggio di ieri, lunedì 13 aprile, all’ospedale San Camillo di Roma, dove era ricoverata dal 24 marzo. L’attrice aveva compiuto 63 anni lo scorso marzo.

Il successo era arrivato grazie a "La piovra". Indimenticabile nel personaggio del coraggioso magistrato Silvia Conti. Il successo, che aveva conquistato il grande pubblico, era arrivato proprio grazie a quel ruolo, che aveva ricoperto dal 1989 al 2001, nella celebre serie televisiva della Rai. In una intervista, la Millardet aveva dichiarato: “Penso che Silvia piaccia al pubblico perché è molto morale, pulita, disponibile”. La sua prima apparizione era avvenuta nel film “Il tempo delle mele” del 1982, dove faceva la comparsa. Debuttò nel cinema italiano nel 1987, con il film tv del regista Carlo Rizzani “Assicurazione sulla morte”. Tre anni dopo, nel 1990, aveva recitato in “Il sole anche di notte” di Paolo e Vittorio Taviani. Era stata anche tra le protagoniste della fiction andata in onda su Canale 5, “Il bello delle donne”, dove, tra il 2001 e il 2003, interpretava il personaggio di Angelina Brusa. Aveva inoltre preso da parte a molte altre produzioni sia cinematografiche che televisive.

La fake news del suicidio. Nel 2002 la Millardet era stata vittima di una fake news: era infatti girata la voce che avesse tentato il suicidio ingerendo una potente dose di farmaci. La notizia era stata subito dopo smentita dalla stessa attrice che aveva raccontato quanto realmente accaduto: “Non c’è stata malafede ma comunque è stata una storia romanzata. Il produttore della fiction “Il bello delle donne”, Alberto Tarallo, mi aveva chiesto di dimagrire per interpretare la terza serie, invece sono tornata ingrassata di tre chili da una vacanza alle Maldive. E così ho drasticamente scelto di non mangiare niente, lo stomaco si è chiuso, ho bevuto poco, fumato molto e fatto cyclette. Un giorno sono svenuta in casa proprio mentre un amico con cui avevo un appuntamento mi stava venendo a trovare: si è preoccupato, ha chiamato polizia, carabinieri e ambulanza ed è nata la storia del tentato suicidio”. Patricia Millardet, 63 anni appena compiuti, si è spenta nella giornata di ieri presso l’ospedale San Camillo di Roma a causa di un arresto cardiaco. Viveva nel nostro Paese dalla fine degli anni ‘80, la Millardet si era infatti trasferita a Roma, prima sull’Appia Antica e in seguito a Castel Gandolfo.

·        Morto il giornalista Giuseppe Zaccaria.

Giornalismo, morto il barese Giuseppe Zaccaria: seguì le guerre dei Balcani. Era ricoverato da Belgrado. La Gazzetta del Mezzogiorno il 12 Aprile 2020. Il giornalista Giuseppe Zaccaria, per trent'anni inviato nei Balcani per il quotidiano La Stampa, è morto oggi in un ospedale di Belgrado dove era ricoverato in gravi condizioni da alcune settimane. Nato a Bari il 18 novembre 1950 e laureato in giurisprudenza, Zaccaria aveva seguito dal di dentro i drammatici conflitti che portarono alla dissoluzione della ex Jugoslavia e alla caduta di Slobodan Milosevic, da lui intervistato in esclusiva dopo la sua uscita di scena. Fu il primo giornalista europeo a descrivere gli orrori dello “stupro etnico” e nel 1993 vinse il Premio Hemingway “per aver svelato all’Italia e al mondo intero i drammi che si stavano compiendo a un passo dalle nostre frontiere”, come detto nella motivazione del riconoscimento. Grande conoscitore dei Balcani, Zaccaria era stato anche a Bucarest durante i giorni drammatici della caduta di Nicolae Ceausescu nel dicembre 1989, in Ungheria, Bulgaria, nell’allora Cecoslovacchia, in Polonia dopo la caduta del Muro di Berlino, a Gerusalemme nelle fasi critiche dell’Intifada, a Baghdad durante la Guerra del Golfo e poi per la caduta di Saddam Hussein. Seguì anche la crisi di Timor est. Nel 2000 gli fu assegnato in Italia il Premio Saint Vincent del Presidente della Repubblica. Scrisse alcuni libri, fra i quali “Noi criminali di guerra, storie vere dalla ex Jugoslavia” (1994, ed. Baldini e Castoldi, Milano), utilizzato tra l’altro dai giudici del Tribunale penale internazionale dell’Aja (Tpi), e “La strega rossa” su Mirjana Markovic, moglie di Slobodan Milosevic (2005). Negli anni scorsi fu tra l’altro addetto stampa per Fiat Serbia, mentre fino all’ultimo, prima della malattia, aveva scritto per il sito italiano Ytali.

·        E’ morto Stirling Moss leggenda dell'automobilismo.

F1 in lutto: è morto Stirling Moss, l'ultima leggenda dell'automobilismo. Aveva 90 anni e fino all'ultimo è stato presente sulle piste, alle rievocazioni storiche, guidando spesso - nonostante l'età - i bolidi che aveva dominato quando era giovane. Fu l'unico a vincere tante gare (16) senza laurearsi mai campione del mondo. Vincenzo Borgomeo il 12 aprile 2020 su La Repubblica. Addio Stirling Moss. "È morto mentre viveva, sembrava meraviglioso", ha detto sua moglie Susie. Ci lascia così, con quel sorriso e quell'allegria contagiosa, la leggenda dell'automobilismo. Aveva 90 anni e fino all'ultimo è stato presente sulle piste, alle rievocazioni storiche, guidando spesso - nonostante l'età - i bolidi che aveva dominato quando era giovane. Nella foto che vedete qui sopra aveva 80 anni e, come se nulla fosse, guidava con l'entusiasmo di un ragazzino i bolidi da competizione, proprio gli stessi che aveva a suo tempo portato in pista. Figlio di un dentista londinese, Moss ha avuto una carriera lunghissima: si è ritirato da ogni competizione solo nel 2011 quando aveva 81 anni... L'ultima gara, con una micidiale Porsche RS61 del 1961 (il soprannome, "la fabbrica delle vedove", era tutto un programma) a Le Mans, poco dopo aver portato in gara la sua Osca da 1.500 cc in occasione di eventi storici. Certo, corse di classic car, ma sempre corse. Le competizioni "vere" finirono però dopo un incidente a Goodwood nel 1962, che lo lasciò incosciente per un mese e paralizzato per sei. Nato a Londra il 17 settembre 1929, Moss ha vinto 16 Gp di formula uno senza mai laurearsi campione del mondo. E' arrivato secondo quattro volte nei mondiali del 1955, 1956, 1957 e 1958 correndo in F1 fino al 1961. E' stato al volante di Jaguar, Cooper, Lotus, Mercedes-Benz e Maserati. Nessuno ha vinto tanto senza mai avere il titolo mondiale. Ma questo, forse, non ha fatto altro che accrescere il mito, la leggenda. Tante le corse indimenticabili. Fra tutte di sicuro il Gran Premio di Monaco del 1961 ma, soprattutto, la vittoria alla Mille Miglia del 1955, dove stabilì con la Mercedes SLR il record di velocità mai più battuto, a una media, pazzesca, di 157,650 km/h, coprendo i 1600 km in 10 ore, 7 minuti e 48 secondi. Facendo gli ultimi 133 km, da Cremona a Brescia, alla media (media, attenzione) di 264 orari! Con uno così, vincere un mondiale di F1 diventa un dettaglio...  Va detto fra l'altro che Moss avrebbe potuto essere il primo campione del mondo britannico nel 1958 invece di Mike Hawthorn: perse il titolo per un solo punto quell'anno,  dopo aver chiesto ai giudici di gara di levare una sanzione al suo connazionale squalificato al Gran Premio del Portogallo. "Ovviamente gli hanno restituito i suoi punti e questo mi è costato il titolo", ha spiegato cavallerescamente Moss.  Che non ebbe mai rimpianti: "Sono nella posizione esclusiva della gente che dice che avrebbe dovuto vincere e non l'ha mai fatto", raccontò poi. Ecco spiegata la leggenda. Ma c'è dell'altro: nel suo periodo di massimo splendore, Moss ha partecipato a qualcosa come 54 gare all'anno in tutto il mondo, oltre a una serie infinita di test. Possiamo dire quindi che una delle più incredibili imprese di Stirling è quella di essere sopravvissuto fino a 90 anni, visto che all'epoca di piloti ne morivano tantissimi, una ventina l'anno solo nelle massime categorie. E ancora oggi in salotto ha appesi al muro due volanti piegati, come ricordi importanti: uno etichettato "Spa 1960" e l'altro "Goodwood 1962"...Ma lui la prendeva sempre con allegria quando gli si faceva notare la cosa: "Tutto quello che dovevo fare era arrivare, fare pratica con la macchina, correre e basta. Poi potevo andare a caccia di ragazze o qualunque cosa volessi fare ... era solo una vita favolosa". Il calvario è iniziato a Singapore alla fine del 2016 colpito da un'infezione che lo ha costretto a 134 giorni di ospedale: ma poi sopravvisse. Come fece anche nel 2010, dopo che cadde in un pozzo profondo come tre piani di un palazzo, nella sua casa di Londra. Si ruppe entrambe le caviglie e quattro ossa nei suoi piedi. Ma alla fine ce la fece ancora. Ora il mondo dell'auto piange però una leggenda. compagno di squadra della Mercedes al cinque volte campione del mondo argentino Juan Manuel Fangio. Era diventato il sinonimo stesso - e lo è ancora oggi - di velocità. Ancora oggi in Inghilterra - e in mezzo mondo, si dice "chi pensi di essere Stirling Moss"? quando qualcuno corre troppo in auto. E fu proprio questa la domanda - rivelò il pilota - che gli fece davvero un poliziotto quando lo fermò a Londra. "Ma non riuscivo a capire se mi stesse prendendo in giro o se mi avesse riconosciuto davvero...".

Umberto Zapelloni per “il Giornale” il 14 aprile 2020. Sir Stirling Craufurd Moss ha percorso l' ultimo giro di una vita fuori dal comune nel letto della sua elegante casa di Mayfair piena zeppa di gadget che un tempo solo James Bond avrebbe potuto permettersi. In quell' appartamento teneva un armadio pieno di album neri e verdi. In quelli verdi aveva raccolto fotografie e articoli sui suoi record sportivi, in quelli neri le sue conquiste femminili. E, nonostante le 494 gare disputate e i tre matrimoni, non c' era grande differenza nel numero delle raccolte. A Sir Stirling Moss piaceva correre con qualsiasi auto avesse a tiro, ma non dispiaceva essere considerato un playboy e fino all' arrivo sulla scena di James Hunt negli anni Settanta, era decisamente il più donnaiolo tra i piloti del mondiale. «La mia qualità di vita era di gran lunga superiore a quella di Jenson Button o Lewis Hamilton», diceva scherzando. A Enzo Ferrari ricordava Tazio Nuvolari «per la sua smania di correre, per come sapeva andava forte su qualsiasi macchina, con il gran pregio di giudicare una vettura soltanto attraverso il cronometro». Eppure Moss non è mai stato un pilota ufficiale Ferrari. Ha corso e vinto con un sacco di squadre inglesi, con la Mercedes, con la Maserati di cui si era innamorato, ma mai per la casa di Maranello. Alla Ferrari sarebbe arrivato, se non si fosse schiantato a Goodwood nel 1962, quando finì fuori pista con la Lotus, rimanendo 45' imprigionato tra i rottami e in coma per 38 giorni. Lo curarono undici infermiere, ma questo è un dettaglio. Come il fatto che tra coloro che più spesso chiamavano l' ospedale di Londra per avere sue notizie ci fosse Frank Sinatra. D' altra parte tra i suoi compagni a cena c' erano spesso Grace Kelly e Steve McQueen. «Non ho vinto il mondiale, ma mi sono molto divertito», ripeteva sempre. La storia della Formula 1 lo registra come il numero uno dei numeri due. Il migliore tra quelli che non hanno mai vinto il mondiale. In realtà Moss è migliore anche di molti tra coloro che quel titolo lo hanno vinto. Non ha conquistato il Mondiale, ma ha un trofeo che nessuno dei suoi colleghi hanno raggiunto: ha tagliato in forma quasi perfetta il traguardo dei 90 anni. Tre volte terzo e quattro volte secondo (dal 1955 al 1958) nel mondiale, sedici vittorie in 66 gare, sono un curriculum abbastanza significativo a cui vanno aggiunte vittorie importantissime nelle gare di durata, prima tra tutte la Mille Miglia del 1955 con la Mercedes 300 SLR, con un tempo record rimasto imbattuto di 10 ore 07 minuti e 48 secondi. A superarlo nel Mondiale furono tre volte il suo amico Fangio e una volta Mike Hawthorn. In quell' ultima occasione, nel 1958, emerse tutta la sportività di Moss che avrebbe potuto conquistare il titolo (perso per un punto) se al Gran premio del Portogallo non fosse stato lui stesso a scagionare Mike davanti ai commissari che lo avevano punito per aver spinto la sua Ferrari durante il giro di rientro. Senza le sue parole, Hawthorn sarebbe stato squalificato e lui a fine anno sarebbe stato davanti. «Ho fatto la stessa cosa che avrebbe fatto Mike per me», raccontò sempre. Suo padre, Alfred E. Moss, un ricco dentista, arrivò 16º alla 500 Miglia di Indianapolis del 1924, sua madre Aileen era stata protagonista delle gare in salita nello stesso periodo, sua sorella Pat partecipò con successo a diversi rally: lui non poteva che darsi ai motori. «I rettilinei sono quei tratti noiosi che uniscono due curve», diceva e spingeva sull' acceleratore di qualsiasi auto gli capitasse a tiro. Ha continuato anche dopo essersi ritirato ufficialmente partecipando fino a pochi anni fa a un sacco di eventi per auto storiche. La domenica potevi incontrarlo ospite di uno sponsor al Gran premio d' Australia e il giorno dopo vederlo fotografato alla cena di un altro sponsor a New York. Instancabile. E sempre accompagnato da Suzie, l' ultima signora Mosley, sposata nel 1980 dopo aver fatto la corte a sua sorella. «Ma chi si crede di essere? Stirling Moss?», era la domanda più gettonata dai poliziotti inglesi quando fermavano qualcuno che aveva esagerato con la velocità. Per anni è stato lo sportivo inglese più famoso. Anche più di calciatori o giocatori di cricket. Era finito pure in un film di 007 (Casinò Royale) interpretando se stesso in un cameo. Fino all' arrivo di Lewis Hamilton è stato il simbolo della velocità inglese. E Lewis lo ha voluto salutare sui suoi social: «Sarà sempre qui, nei nostri ricordi». Lo stesso messaggio che ha unito Mercedes, Ferrari e Maserati.

·        E’ morto Luciano Pellicani.

Pellicani, pensatore libero e "eretico". Teorizzò la Sinistra riformista con la svolta da Marx a Proudhon. Vittorio Macioce, Domenica 12/04/2020 su Il Giornale. Il libro è lassù, consumato, sugli scaffali in alto della libreria. Non lo leggo da molti anni. La realtà è che mi sta sulla pelle e sugli occhi e influenza il modo con cui guardo il mondo. Il titolo è La genesi del capitalismo. L'autore è Luciano Pellicani, docente per anni di Sociologia alla facoltà di Scienze politiche della Luiss. È il mio professore, quello con cui mi sono laureato. È morto ieri, a 81 anni. Li aveva compiuti venerdì. Non è mai stato davvero organico a un partito, anche perché aveva un brutto carattere. Una parte di lui sognava l'anarchia. Era pugliese. Il padre Michele era un dirigente del Pci, che abbandonò nel 1956 dopo la repressione della rivolta ungherese. Il figlio su quella scelta ci ha costruito di fatto i suoi studi. Quale è il lato oscure delle rivoluzioni? Perché i «buoni» si mostrano poi come tiranni? Perché il comunismo è una promessa tradita? È ostinato e va controcorrente, e da Sinistra svela la trappola del marxismo-leninismo. Lo fa in anni in cui non era affatto scontato. È a più riprese il direttore della rivista Mondoperaio. Negli anni '80 è nel mirino delle Brigate Rosse. Si salva con un colpo di fortuna. È a lui che Craxi si ispira quando nel 1978 pubblica su L'Espresso il breve saggio con cui rivendica il ruolo della Sinistra riformista. È la svolta con cui si rinnega Marx e si riscopre il socialismo di Proudhon. Pellicani mi ha fatto conoscere Ortega y Gasset e i suoi studi sulla ribellione delle masse. Mi ha portato tra i mercanti italiani del '300 e alle origini della società aperta. Mi ha insegnato quanto sia fragile la libertà e quanto costa sceglierla come principio di vita. Mi ha fatto innamorare di Don Chisciotte. Mi ha insegnato a guardare nelle utopie degli intellettuali déraciné le strade che portano all'inferno. Mi ha detto che quelli che rubano in nome della libertà sono ladri che non hanno neppure l'alibi del bisogno. Mi ha fatto leggere I Demoni di Dostoevskij. Appena laureato mi chiese cosa volevo fare. Risposi: il giornalista. «Allora ti presento il direttore de L'Avanti». La mia risposta fu stupida e presuntuosa: «Professore, mai con un giornale di partito». Era il 1991. Quando ci penso, a posteriori, mi viene da ridere. L'ultima volta che ci siamo visti, qualche anno fa, mi ha guardato a lungo e poi ha detto: sei invecchiato e mi rendo conto di quanto troppo vecchio sono io. Un'infezione se l'è portato via. Addio prof.

Ecco perché l'Occidente è per natura più libero rispetto all'Oriente. Il capitalismo si fonda su mercato e proprietà privata. E sulla concorrenza fra i poteri. Giampietro Berti, Venerdì 29/05/2020 su Il Giornale. A pochi giorni dalla scomparsa di Luciano Pellicani, il maggior studioso italiano di sociologia politica, esce un suo breve testo che raccoglie una lectio magistralis da lui tenuta il 21 settembre 2019 al festival estivo promosso e organizzato a Sciabaca dall'editore Florindo Rubbettino. Si tratta di una sintesi che compendia il grande problema relativo alla natura della civiltà occidentale: Perché in Occidente c'è più libertà che in Oriente? Il testo è pubblicato dallo stesso Rubbettino con una sua prefazione. Perché dunque in Occidente c'è più libertà rispetto non soltanto all'Oriente, ma anche ad ogni altra civiltà? La spiegazione di Pellicani, di cui naturalmente la lectio magistralis registra solo alcuni passaggi, si può riassumere così. Per dar conto della natura dell'Occidente è necessario affrontare prima di tutto la natura del capitalismo, il quale si fonda sul mercato, che a sua volta presuppone l'esistenza della proprietà privata come struttura portante della società civile. L'economia capitalistica sorge dalla limitazione del potere dovuta al pluralismo del sistema feudale, scaturito dalla dissoluzione dell'impero romano (la sua genesi, pertanto, non è quella indicata da Max Weber). Il periodo medievale è segnato dalla guerra delle investiture fra Papato e Impero; una guerra che si risolve senza vinti né vincitori: l'Impero non riesce a creare un cesaropapismo, il Papato non realizza la teocrazia universale. L'intero periodo è caratterizzato da una pluralità molto articolata di centri potestativi, che impediscono la formazione di un monopolio unico del comando, sia questo religioso, politico o economico. Tale pluralità favorisce la presenza di interstizi di libertà perché il contrasto fra il potere spirituale e il potere temporale impedisce ad entrambi di controllare fino in fondo la società civile. Di fatto, la loro rivalità crea una situazione favorevole allo sviluppo della cultura del conflitto istituzionalmente regolato, che sfocerà molti secoli dopo nella creazione liberale dello Stato di diritto. Pellicani ricostruisce il lungo tragitto del pensiero occidentale così come esso si è svolto dai Greci ai nostri giorni. Affronta in tal modo uno dei nodi teorici più problematici del dibattito filosofico, storico e sociologico relativo alla comparazione fra le varie civiltà. Si deve constatare che solo l'Occidente presenta queste caratteristiche perché solo esso è pervaso dalla logica della secolarizzazione; processo che contempla laicamente il pluralismo dei valori e dunque la possibilità effettiva della loro convivenza. Ne è conseguito un intreccio di interessi che hanno dato vita alla civiltà dei diritti e delle libertà, grazie anche alla prodigiosa crescita della ricchezza materiale generata dalla sinergia fra sviluppo economico e conoscenza scientifica. Di qui la possibilità della manipolazione tecnica del mondo; di qui la definitiva supremazia piena e netta del libero arbitrio quale nucleo concettuale ultimo del mito dell'«avanzamento continuo» del progresso umano. Non vi è alcuna altra civiltà che abbia nel suo Dna tutte queste peculiarità, le quali a loro volta possono darsi solo in presenza del processo di secolarizzazione. Vi è modernità laddove esiste la separazione tra la società politica e la società civile, quale logica conseguenza della dialettica continua fra economia e politica, fra società e Stato. Libertà, mercato e proprietà privata sono costitutivi del capitalismo e dunque dell'Occidente: senza secolarizzazione non vi è pluralismo, senza pluralismo non vi può essere la relatività dei valori e dunque la libertà, sia essa politica, sociale, economica, religiosa. A differenza di qualsiasi altra civiltà, quella occidentale risulta attraversata dal conflitto fra Sparta e Atene, fra spirito giudaico e spirito greco, fra messianesimo e illuminismo, dualismi riassumibili nella contrapposizione tra una concezione chiusa e una concezione aperta della società; molteplici tradizioni di pensiero che hanno convissuto senza mai riuscire a prevalere l'una sull'altra in modo definitivo. Il che ha conferito alla civiltà occidentale lo statuto di una civiltà superiore. A partire dalla ricerca intellettuale di Luciano Pellicani si può quindi dare una precisa risposta alla domanda se, rispetto al problema decisivo della libertà, la civiltà occidentale sia superiore alla civiltà orientale come a qualsiasi altra civiltà. Ebbene, la risposta è affermativa, perché a fronte di quella occidentale, tutte le altre civiltà non presentano prioritariamente il valore centrale della libertà.

Addio a Pellicani, professore di riformismo. Francesco Damato su Il Dubbio il 12 aprile 2020. E’ morto a Roma il socialista Luciano Pellicani. Direttore di “Mondoperaio” e docente universitario, aveva 81 anni. Sapevo bene, per vecchia amicizia, per la nostra comune origine pugliese e per la nostra quasi coetaneità, essendo lui di soli quattro mesi meno anziano di me, che Luciano Pellicani fosse un intellettuale scomodo, troppo orgoglioso per corteggiare chicchessia e troppo geloso e convinto delle sue idee per scambiarle con un incarico o, nel nostro campo giornalistico, con una collaborazione. O con qualche riconoscimento postumo. Ma, francamente, non mi sarei mai aspettato che la sua morte, avvenuta in circostanze non so se più penose o drammatiche, il giorno dopo avere compiuto 81 anni, vittima anche lui di questo maledetto coronavirus accertato, temo, con troppo ritardo, passasse inosservata sui giornali di questa anomala e tragica Pasqua. Eppure la notizia era stata diffusa in tempo perché ciò potesse essere evitato. Di tutti i quotidiani che ho potuto consultare di prima mattina sulla più completa e tempestiva rassegna stampa di cui disponiamo, che è quella del Senato della Repubblica, nessuno ha trovato un angolino in prima pagina per darne notizia: neppure il Corriere della Sera, di cui egli fu collaboratore. E neppure la “sua” e nostra Gazzetta del Mezzogiorno. Con Luciano Pellicani è scomparso un uomo di grandissima cultura, coerenza e generosità, un Maestro, con la maiuscola, che sarà sicuramente rimpianto dalle migliaia, anzi decine di migliaia di studenti che ne frequentarono le lezioni di sociologia politica e antropologia culturale alle Università, ultima quella intestata a Guido Carli, la famosa Luiss. Dove Luciano diresse anche la scuola di giornalismo. Uomo più di studio che di palcoscenico, più riservato che vanitoso, con quei capelli sempre scomposti per la furia con la quale se li scuoteva leggendo e riflettendo, più assetato di ricerca culturale che di potere, Pellicani fu tra i protagonisti, secondo solo a Bettino Craxi, formatosi non a caso anche leggendo i suoi saggi, della stagione del riformismo socialista tra la fine degli anni Settanta e tutti gli anni Ottanta. Allora il pur organizzatissimo, miltarizzatissimo e finanziatissimo Partito Comunista, peraltro guidato da un personaggio carismatico come Enrico Berlinguer, rischiò di perdere davvero l’egemonia a sinistra un po’ furtivamente guadaganata nelle storiche elezioni politiche del 1948. All’errore del “fronte popolare” compiuto dal leader socialista Pietro Nenni in quel passaggio della storia italiana, anche a costo di spaccare il suo partito con la scissione socialdemocratica di Giuseppe Saragat, consumatasi nel 1947 a Palazzo Barberini, si aggiunse la disinvoltura del Pci di Palmiro Togliatti  di boicottare i candidati socialisti, per cui nelle Camere arrivarono più numerosi i comunisti dei loro alleati, prevalsi invece nelle elezioni precedenti. Da allora la storia della sinistra italiana prese un verso tutto favorevole alla Democrazia Cristiana, sino a quando Bettino Craxi, raccolto nel 1976 quel che restava del Psi dopo l’impegno elettorale assunto dal suo predecessore Francesco De Martino di non riportarlo mai più al governo senza i comunisti, non risventolò la bandiera dell’autonomismo. Che già aveva consentito nel 1963 la nascita del centro-sinistra. Così egli sottrasse la sinistra alla prospettiva di un’eterna e sterile opposizione, peraltro nel mondo ancora bipolare uscito dagli accordi di Yalta, in cui il comunismo aveva addirittura eretto un muro a Berlino per separare l’Europa dell’Est da quella dell’Ovest, lungo la famosa cortina di ferro già avvertita e denunciata da Winston Churchill. Appena eletto segretario, col proposito dichiarato di fare sopravvivere il Psi all’appiattimento ai comunisti voluto da chi lo aveva preceduto, Craxi citò in un intervento un saggio di Luciano Pellicani, passato in quei tempi inosservato, su Eduard Bernstein: un politico, filosofo e scrittore tedesco, già esecutore testamentario di Friederich Engels e sostenitore di una profonda revisione del marxismo, che Lenin riteneva invece di avere realizzato in Russia col sangue e la famosa dittatura del proletariato. Lusingato della citazione, Pellicani telefonò a Craxi per ringraziarlo. Ne nacque un rapporto d’amicizia e di simbiosi culturale tale che meno di due anni dopo, quando Enrico Berlinguer rilanciò imprudentemente l’attualità del leninismo pur nella cornice di quello che allora fu chiamato “eurocomunismo”, per renderlo più digeribile agli occidentali e all’elettorato moderato, Craxi incaricò proprio Pellicani di preparargli un intervento di risposta. Che con la firma del segretario socialista fu pubblicato nel 1978 dall’Espresso col titolo del “Vangelo socialista”, tutto ispirato al rivale culturale e politico di Marx, che era stato il francese Pierre Joseph Proudhon, teorizzatore del socialismo libertario e umanitario, contrapposto al dogmatismo comunista. Fu il guanto di sfida del nuovo leader socialista italiano a Berlinguer, per conto del quale rispose curiosamente, più che il segretario del Pci dall’Unità o da Rinascita, che pure era stata da lui adoperata negli anni precedenti per lanciare la proposta e prospettiva del cosiddetto compromesso storico con la Dc, Eugenio Scalfari dalle colonne della sua Repubblica di carta.  Che, sostituendosi ai giornali ufficiali del Pci, rimproverò a Craxi, sin dal titolo, di avere osato “tagliare la barba a Marx”. Da allora non ci fu più tregua a sinistra in una lotta che da una parte portò Craxi, nel 1983, a Palazzo Chigi per guidare un governo di coalizione fra democristiani, socialisti, socialdemocratici, repubblicani e liberali, e dall’altra Berlinguer in un affannoso inseguimento conclusosi tragicamente con la sua morte nel 1984, l’anno dopo. Un politico e autore insospettabile come Piero Fassino, peraltro l’ultimo segretario dei Ds-ex Pci prima della fusione con la Margherita di Francesco Rutelli nel Pd di Walter Veltroni, ebbe poi il coraggio o l’onestà, come preferite, di riconoscere che in quella rincorsa Berlinguer si era reso tanto consapevole di perdere la partita da preferire in qualche modo la morte sul campo, colto da un ictus nelle ultime battute di un comizio elettorale a Padova. Già convinto al momento della sua laurea a Roma in scienze politiche, nel 1964, con una tesi di Antonio Gramsci, che il comunismo fosse destinato solo a fare danni, Pellicani dopo l’arrivo di Craxi a Palazzo Chigi assunse nel 1985 la direzione della storica testata socialista di Mondoperaio per farne la punta di lancia dell’anticomunismo da posizioni rigorosamente di sinistra. E vi rimase talmente fedele che, costretto a chiudere la rivista con la fine del Psi, non perdonando peraltro a Craxi di avere lasciato infangare il socialismo con la pratica del finanziamento illegale del partito e della corruzione che spesso ne seguì, la riesumò personalmente nel 2000, durante la cosiddetta seconda Repubblica, senza volersi mai confondere col centrodestra. Dove l’anticomunismo aveva portato invece parecchi socialisti: in Forza Italia o addirittura in Alleanza Nazionale. Partecipe tuttavia di una manifestazione dell’Ulivo prodiano il 3 aprile del 2002, Pellicani si guadagnò coraggiosamente fischi e altri tipi di contestazione con un intervento contro i “girotondini”, allora di moda, ma soprattutto contro l’idolo della sinistra giustizialista che era diventato Antonio Di Pietro, l’ex magistrato simbolo della stagione giudiziaria e politica di “Mani pulite”. Ah, Luciano, quanto di debbo culturalmente e umanamente. E quanto mi mancherai.

Addio Luciano Pellicani, il guru liberal di Craxi che ispirò la svolta del Psi. Corrado Ocone de Il Riformista il 14 Aprile 2020. Con Luciano Pellicani, morto a Roma sabato scorso all’età di 81 anni, abbiamo perso un grande studioso, autore di opere che resteranno nella letteratura scientifica, ma anche un uomo impegnato politicamente (con scarsa fortuna) e che era, con le sue idee, un monito alla sinistra italiana per quello che avrebbe poturo essere e che non è mai stata. Gli argomenti di studio di Pellicani, che era un sociologo con forti interessi storici e comparativistici, e che sapeva unire la competenza filologica alle grandi visioni d’insieme, ruotavano, tutto sommato, attorno a pochi perni. Prima di tutto, il problema de La genesi del capitalismo e le origini della modernità (1988), che secondo lui doveva essere affrontato chiedendosi perché solo in Occidente sia avvenuta negli ultimi secoli una trasformazione sociale, economica, culturale, così profonda e rapida. In disaccordo con le tesi di Karl Marx e di Max Weber, Pellicani riconduce il nostro sviluppo economico e tecnologico a un sistema politico-istituzionale ereditato dal Medioevo, policentrico e pluralistico. La mancanza di un potere politico centralizzato ha così permesso, come aveva intuito Adam Smith, una concorrenza di idee e beni, modelli culturali e politici, che, nel clima ideale della “società aperta”, hanno permesso, attraverso una sperimentazione sul campo, di trovare le risposte migliori alle domande e alle esigenze umane (Dalla società chiusa alla società aperta, 2002). I segreti e la difesa della “società aperta”, e dell’Occidente come luogo di elezione, diventano a questo punto gli oggetti di studio e di impegno politico di Pellicani. Che si concretizza in libri che sono contemporaneamente di ricerca analitica e rigorosa e di battaglia politica: Le Modernità e secolarizzazione (1997), Le sorgenti della vita (1997), Anatomia dell’anticapitalismo (2010), L’Occidente e suoi nemici (2015), Le sorgenti della vita. Pellicani era fondamentalmente un liberale, anche se si definiva, per l’attenzione che prestava alle garanzie e alle protezioni sociali, e sicuramente anche lo era, prima di tutto un socialista. Era naturale che egli dovesse incontrarsi con Bettino Craxi, della cui “svolta” politico-culturale fu forse il massimo ispiratore con il famoso articolo che nel 1978 comparve su L’Espresso e che è passato alla storia come quello in cui il leader socialista anteponeva alla figura di Marx quella del più accanito dei suoi avversari: il socialista libertario francese Pierre-Joseph Proudhon (recentemente quell’articolo, con gli interventi più significativi nel dibattito, è stato ripubblicato da Aragno con il titolo originale di “Il vangelo socialista”). Per Pellicani si trattava infatti di far capire come il socialismo doveva estendere le libertà liberali e non rinnegarle in nome di una chimerica libertà collettiva. In più esso doveva conciliarsi con il capitalismo, che andava sì corretto ex post ma che era pure da considerarsi come il sistema più efficace per produrre ricchezza inventato dall’umanità nella sua lunga storia. Da questo punto di vista, il bolscevismo non era stato l’applicazione cattiva di un’idea buona, quella marxista, ma la messa in pratica di un’idea che, con i suoi caratteri dirigisti e totalitari, era malata sin dall’origine (Lenin e Hitler. I due volti del totalitarismo (2009), Cattivi maestri della sinistra. Gramsci, Togliatti, Lukacs, Sartre (2017). In questa visione rigorosamente anticollettivistica di Pellicani, giocava un ruolo anche la scoperta degli autori del’individualismo metodologico che fu propria di tutti quei pensatori che si ritrovarono allora, negli Ottanta e Novanta del secolo scorso, in Luiss, a cominciare da Dario Antiseri. In quell’ideale cenacolo intellettuale, senza badare a logiche di potere, poteva allora succedere che si discutesse animatamente e polemicamente e poi ci si ritrovasse amici al ristorante. L’editore Rubbettino, che ha pubblicato la più parte dei libri di Pellicani, rappresentò la perfetta sintesi di questo clima intellettuale favorevole alla cultura. La fiducia nella scienza e nel metodo scientifico, il rifiuto del cristianesimo e un certo anticlericalismo di tipo ottocentesco (Dalla città sacra alla città secolare, 2011) l’illuminismo positivistico che sfociava addirittura in una certa adesione alla prospettiva transumanistica del suo allievo Riccardo Campa, erano altri elementi non irrilevanti della sua personalità scientifica. Non meraviglia che, da difensore dell’Occidente, egli abbia interpretato l’islamismo politico come una trasposizione in ambito islamico della mentalità gnostica che secondo lui era propria dei rivoluzionari occidentali (Jihad. Le radici, 2015). Ove per gnosticismo politico è da intendersi una visione del mondo manichea e faziosa che vuole dividere il “bene” dal “male” e “depurare” il mondo dai “cattivi” (La società dei giusti. Parabola dello gnosticismo rivoluzionario (1995). Nel suo ultimo libro, I difensori della libertà (2018), troviamo una sorta di pantheon dei suoi autori di rifermento: Benedetto Croce, Guglielmo Ferrero, José Ortega y Gasset, Simone Weil, Raymond Aron, Friedrich von Hayek, Norberto Bobbio, Giovanni Sartori. La morte lo coglie nel pieno di un progetto di una storia del progresso, che lui, con dati empirici, voleva dimostrare essere avvenuto nella storia dell’umanità. Del socialista Pellicani aveva forte la fede nel futuro e in una seppur laica idea di speranza.

Giampiero Mughini per Dagospia l'11 aprile 2020. Caro Dago, e a proposito di quel che è stato davvero e quanto sia stato dimenticato quell’italosocialismo “revisionista” degli anni Sessanta/Settanta che pure è all’origine della migliore cultura riformista del nostro Paese, mi arriva adesso la notizia tristissima della morte di Luciano Pellicani, un nome che probabilmente dice poco agli odierni frequentatori dei social et similia. Poco più che ottantenne, Luciano tutta la sua vita è stato essenzialmente un professore e uno studioso che affrontava di petto a sciabola sguainata lo stradominio della cultura comunista sulla sinistra possibile in Italia. Lo ha fatto con una energia indomita fin dai suoi primi libri, apparsi a cavallo fra gli anni Sessanta e i Settanta e che non erano sfuggiti all’attenzione di un giovane e ambizioso dirigente socialista di nome Bettino Craxi di cui Pellicani divenne amico e consigliori intellettuale. E’ farina del sacco di Pellicani la gran parte del famoso saggio a firma Craxi su Joseph Proudhon, un saggio di cui era importante il fatto che tracciasse una linea culturale e politica “altra” rispetto all’ammorbante marxismo/leninismo/stalinismo di cui erano andati fieri i partiti comunisti in tutto il mondo, e seppure il Partito comunista italiano meno di altri. A scrivere quello che scriveva Pellicani a quel tempo prendevi colpi in faccia dagli intellettuali comunisti per i quali il nome di Lenin era sacro. Da amico che gli ero, conoscevo la sua solitudine intellettuale e professionale, una solitudine che si era accentuata dopo la rottura del matrimonio con una sua ex allieva. E poi c’era che Luciano dopo la metà degli anni Ottanta continuava a dirigere il “Mondoperaio” che negli anni Settanta era stato la più bella rivista politica italiana, e mentre molti di noi s’erano allontanati dalla casa socialista pur senza immigrare altrove. Le nostre rispettive strade si erano allontanate, non che questo diminuisse di un ette la stima e il rispetto che gli portavo. Pellicani aveva dato molto alla storia del socialismo “revisionista” senza mai chiedere nulla. Rarissime le sue apparizioni in televisione, salvo qualche rara volta da Giovanni Floris di cui leggo su “Wikipedia” che era stato un suo allievo all’università della Luiss. I suoi libri quando venivano riediti lo erano da editori minori o semiclandestini. Un’amica che gli è stata vicino fino all’ultimo mi ha raccontato che avevano fatto una colletta per pagare le spese della casa di cura dove Luciano era ricoverato. Addio, amico leale e coraggiosissimo.

·        E' morto il fotografo Victor Skrebneski.

E' morto Victor Skrebneski, il fotografo del glamour che scoprì Cindy Crawford. Diana Ross in uno scatto di Victor Skrebneski del 1977. Si è spento a 90 anni il maestro che negli anni Ottanta aveva fatto brillare le stelle in bianco e nero, Benedetta Perilli l'11 Aprile 2020 su La Repubblica. E'morto a Chicago all'età di 90 anni, dopo una lunga malattia, il fotografo americano di origine polacca Victor Skrebneski. Nel suo obiettivo è stato immortalato quasi mezzo secolo di moda, glamour e costume e tra le sue muse va ricordata la bellissima Cindy Crawford. Fu lui tra i primi a fotografarla negli anni Ottanta contribuendo a creare il mito della super top. "Lavorare con Victor è stato una dei grandi privilegi della mia carriera da modella - ha commentato l'americana su Instagram - è stato il mio primo ricordo e mi ha insegnato tanto sull'arte del posare e della fotografia. Gli anni trascorsi sui suoi set sotto la splendida luce di un grande artista mi hanno preparato alla mia vita nella moda. La sua eleganza e raffinatezza hanno formato la mia definizione di vero gentiluomo". Ma non solo l'amata Cindy Crawford. Sono tantissime le modelle che hanno posato per Skrebneski, da Shaun Casey a Willow Vay, da Paulina Porizkova fino a Karen Graham che il fotografo lanciò nella campagna pubblicitaria, che è poi passata alla storia, per il marchio di cosmetica Estée Lauder con il quale ha collaborato dal 1970 al 1985. Oltre alla moda, ha frequentato gli ambienti del jet set internazionale ritraendo personaggi come Audrey Hepburn, Bette Davis, Orson Welles, Diana Ross, François Truffaut, Hubert de Givenchy e star più moderne come Oprah Winfrey. Spesso amava immortalare le sue stelle con indosso un maglione nero a collo alto. Per il cinema ha firmato numerosi cartelloni del Chicago International Film festival. In Italia venne celebrato nel 1991 con una mostra a Milano dal titolo "Skrebneski. I margini della luce".

·        È morto Enzo Carrella, cantautore romano.

Da corriere.it l'11 aprile 2020. È morto il 21 febbraio Enzo Carrella, cantautore romano. È stato il sito rock.it a dare la notizia, confermata dalla famiglia: era ricoverato da mesi in terapia intensiva, ed è venuto a mancare per un arresto cardiaco. Nato a Roma nel 1952, iniziò a farsi conoscere a vent’anni grazie al brano Fosse Vero, scritto con Pasquale Panella con cui mantenne un lungo connubio artistico da cui uscì nel 1977 un primo album, Vocazione, seguito nel 1979 da Barbara e altri Carella che conteneva il singolo Barbara che lo portò sul palco di Sanremo dove arrivò secondo.

«Quella di Sanremo è stata per me un’esperienza indimenticabile. Arrivai sul palco dell’Ariston che ero poco più che un’esordiente e conquistai nientemeno che il secondo posto assoluto. Ricordo che la cosa che mi impressionò di più fu il grande nervosismo che serpeggiava dietro le quinte tra i cantanti, sembrava che si stessero giocando la vita. Io, in virtù del mio carattere giocoso e della fortuna di aver raccolto un sacco di voti dalla giuria popolare, riuscii a tenermi fuori dall’andazzo generale, conservando una certa allegria e leggerezza. La mia “Barbara” ebbe un discreto successo, infatti, piace ancora oggi, anzi, piace più oggi che allora. Sono molto orgoglioso di questo”», raccontò lui in un’intervista. Il successo fu immediato ma altrettanto repentina l’uscita di scena. Come Carella stesso raccontò: «Dopo Sanremo si passa a in una dimensione del tutto nuova, perché inizi a vendere i dischi e, di conseguenza, senti sulle spalle la responsabilità di un’industria che investe su di te, che ha certe aspettative e che per questi motivi ti mette addosso una grossa pressione. Un clima per nulla adatto a me: ho sempre suonato in tutta tranquillità per il gusto di suonare, per passione e per amore della musica. Così capii di sentirmi a disagio in quella situazione e perciò ho cominciato a disamorami, distaccandomi subito dopo». Smise anche di ascoltare musica. «Degli artisti italiani non seguo né conosco nessuno, la musica di oggi è per me inascoltabile». Il che non ha impedito che fosse riscoperto dai giovani artisti di oggi. Come il siciliano Colapesce che di recente ha inserito la sua Malamore in un suo album digitale di cover. «A lanciarlo fu Vincenzo Micocci», ha ricordato Michele Mondella, storico promoter musicale e amico personale del musicista, un assoluto outsidernella scena musicale italiana. «Per la genialità dei suoni Enzo fu paragonato musicalmente a Battisti, grazie anche ai testi di Panella che già all’epoca erano erotici, esoterici, visionari. Gli piaceva sperimentare: inventò un modo di cantare assolutamente originale per quegli anni che colpì anche Arbore, che spesso proponeva i suoi brani ad “Alto gradimento”. Era tra i numeri uno della musica». Dopo un lungo periodo di silenzio, nel 2007, era tornato a pubblicare un suo lavoro, Ahoh ye’ nanà. Autore dei testi , sempre l’amico Panella.

Camillo Langone per il Foglio l'11 aprile 2020. Le donne con le gonne perpetuamente ricordino Enzo Carella (1952-2017), Battisti minore, Gainsbourg romano. L’erotismo fatto canzone. La differenza sessuale nella sua forma ludica e incorreggibile. Lo stesso paroliere del Battisti ultimo e sommo, Pasquale Panella, e dunque un continuo sospetto di fellatio. “Barbara” (“Ho freddo al collo / in bocca a te è più bello”) e “Fosse vero” (“Mentre ti muovi la voglia di / mandarmi giù”) col senno di poi sembrano allenamenti per “L’apparenza” e il suo ariostesco pompino (“Pieghi la schiena / cali il tuo sipario di capelli / sopra l’armamentario voluttuario”). Le donne nelle canzoni di Carella non portano i pantaloni, sono felici di ricevere indecenti inviti e non denuncerebbero mai qualcuno per molestie sessuali. Le donne con le gonne perpetuamente ricordino Enzo Carella: le altre ascoltino pure Paola Turci.

·        E’ morto Armando Francioli.

Marco Giusti per Dagospia l'11 aprile 2020. Vi ricordate “Ho un debole per l’uomo in Lebole”? Se ne va anche Armando Francioli, quasi 101 anni visto che era nato nel 1919, attore di bella presenza di cinema, tv e teatro, celebre soprattutto per la sua serie di caroselli per gli abiti Lebole che girò dal 1962 al 1972. Non a caso dà notizia della sua scomparsa un altro attore della stessa serie che lo affiancò negli anni ’60, Cip Barcellini. Nato a Roma  il 21 ottobre del 1919, laureato in Scienze Economiche e Commerciali, era entrato poco più che ventenne nel cinema con un piccolo ruolo in “Un colpo di pistola” di Renato Castellani nel 1942. Diventa presto uno dei giovani attori del cinema di allora, legandosi a registi di prestigio come Riccardo Freda, con cui gira “Don Cesare di Bazan” e “Aquila nera”, Raffaello Matarazzo, “La fumeria d’oppio”, Gennaro Righelli, “Il corriere del re”. Bello, ma un po’ di secondo piano, si deve accontentare di apparire alle spalle dei protagonisti del tempo, da Gino Cervi a Rossano Brazzi, che un po’ gli assomigliava, a Vittorio Gassman. Ha la sua prima grande occasione proprio con Matarazzo in “Paolo e Francesco”, 1950, dove è Paolo Malatesta perdutamente innamorato della Francesca di Odile Versois. Negli anni ’50 gira una serie impressionante di film, alternando ruoli maggiori, ad esempio ne “I piombi di Venezia” di Gian Paolo Callegari dove è Tintoretto o in “Traviata ’53” di Vittorio Cottafavi con Barbara Laage, al solito ruolo all’ombra dei campioni del tempo, che sono ancora Gino Cervi in “Moglie per una notte”, Rossano Brazzi, in “Il boia di Lilla” ma anche Amedeo Nazzari, in “Il tradimento” di Freda. Diventa però una presenza costante negli avventurosi, soprattutto nei cappa e spada di coproduzione con la Francia. Lo troviamo così in “Il cavliere di Maison Rouge” di Vittorio Cottafavi,  “Il prigioniero del re” di Giorgio Venturini con Pierre Cressoy,  “La regina Margot” di Jean Dreville con Jeanne Moreau, dove è il Duca La Mole. E’ sicuramente meno adatto al cinema neorealista, che bazzica pochissimo, “Roma ore 11”, ma anche nella commedia, “Cani e gatti”, “Se vincessi cento milioni”. In crisi con la fine del cappa e spada, è invece perfetto per gli sceneggiati della prima tv, da “Cime tempestose” a “Il romanzo di un maestro” a “I due sergenti”, mentre non trova più nel cinema dei ruoli adatti al suo tipo di recitazione e alla sua figura. Lo vediamo un po’ imbarazzato nel suo unico peplum, “La donna dei faraoni” di Viktor Tourjanski, per non parlare, più tardi, della sua partecipazione a “Il marchio di Kriminal” di Fernando Cerchio o all’erotichello “Le dolcezze del peccato” di Franz Antel, dove si fa chiamare Frank Oliveiras. Passa dal cinema al teatro, facendo anche commedie di peso con Laura Adani, che lo chiama personalmente dopo averlo visto in tv, Ernesto Calindri, Lucilla Morlacchi, Salvo Randone, Elsa Merlini ma anche con Cesco Baseggio alle prese con Goldoni. E, quando nasce Carosello, ne diventa presto una star grazie alla lunga serie dell’Uomo in Lebole, nata nel 1962 con le produzioni di Brunetto Del Vita e le sceneggiature prima di Luisa Montagnana, che si inventò la frase “Ho un debole per l’uomo in lebole”, e poi di Umberto Simonetta, che ci lavorò fino alla fine. Nella serie d’apertura della saga è una sorta di bello rincorso dalla donna. la prima fu Alida Chelli poi sostituita da Luisella Boni. Sono loro a dire appunto la celebre frase e a puntare l’uomo. Nel corso degli anni a dirigerlo nei caroselli ci furono anche registi celebri, come Valerio Zurlini nel 1964, Gianfranco Bettettini, il professore di Aldo Grasso, nel 1965, Mauro Ivaldi, fino a Ermanno Olmi, che lo diresse assieme a Cochi e Renato per la serie “Troglo Ditik Kabaret” nel 1968. Poi fu la volta di Moraldo Rossi che lo diresse sempre assieme a Cochi e Renato e alla bella Kitty Swan. Troppo connotato dalla popolarità di Carosello, negli anni ’70 fece ancora qualche film, soprattutto di coproduzione con la Francia, “Il clan degli uomini violenti” di Pierre Granier Deferre con Jean Gabin, “Sono un marito infedele” di Jean Aurel con Jean Yanne. E fece molta tv, fino a comparire sempre più raramente al cinema. Lo ricordiamo infatti in “Tutti dentro” di Alberto Sordi nel 1984, in “Ostinato destino” di Gianfranco Albano con Monica Bellucci nel 1992, in “Berlino 39” di Sergio Sollima nel 1993. Sempre elegante, simpatico, Armando Francioli, ha avuto una vita lunga e fortunata, due figli attori, e credo sia rimasto a lungo l’uomo italiano perfetto che vedevamo nei suoi caroselli.

·        E’ morto l’architetto Massimo Terzi.

Coronavirus, morto l’architetto Massimo Terzi. Marco Alborghetti l'11/04/2020 su Notizie.it. Il noto architetto Massimo terzi è venuto a mancare venerdì 10 aprile a causa di alcune complicanze dovute al coronavirus. Il noto architetto Massimo terzi è venuto a mancare venerdì 10 aprile a causa di alcune complicanze dovute al coronavirus. Aveva 80, ma da anni si batteva come difensore della qualità urbana di Cremona. L’epidemia coronavirus continua a mietere vittime illustri. Lo scorso venerdì 10 aprile è morto Massimo Terzi, noto architetto lombardo, venuto a mancare in seguito a complicanze dovute proprio al virus. L’architetto aveva 80 anni, ma da anni si batteva strenuamente come paladino della qualità urbanistica, vista carica importante che dal 2015 rivestiva come presidente della Commissione Paesaggio, organo consultivo del Comune di Cremona.

Difensore della tradizione. “Combattemmo insieme cento battaglie civili. Fu un tenace ricercatore del bello in architettura e del giusto in urbanistica“, lo ricorda così l’amico e collega Michele Crecchio, che da anni lo accompagnava in questa battaglia a difesa della tradizione urbana. In particolare, Massimo Terzi combatteva contro le trasformazioni urbanistiche che avevano portato alla proliferazione di grandi centri di vendita e distribuzione o e i supermercati che stavano mettendo a dura prova la solidità di certi edifici antichi. Una battaglia sempre condotta con le parole, perché amava il confronto, e non solo contro, soprattutto con l’amministrazione pubblica. Inoltre, negli ultimi mesi era intervenuto aveva ipotizzato la creazione di campi fotovoltaici nel parco adiacente a Cremona solidale, avanzando però remore non tanto sulla sostenibilità ecologica, ma sull’impatto paesaggistico che i pannelli avrebbero potuto avere.

·        Rip la costumista Brunetta Parmesan.

Fernando Proietti per Dagospia il 9 aprile 2020. Caro Dago, nel lento e buio scorrere delle ultime settimane ci hanno salutato, entrambe a 87 anni e in punta di piedi, due grandi “personaggi” del mondo del cinema italiano. “Personaggi” e non solo amici per dirla con una definizione sfuggita a suo tempo dalla penna dello sceneggiatore Furio Scarpelli: la costumista Brunetta Parmesan e l’avvocatessa Giovanna Cau. “Giovanna è la Dea Cali de’ Cinecittà, ha le mani in  pasta in tutto”, aveva osservato tagliente Ruggero Mastroianni, montatore dei migliori registi e fratello minore di Marcello. Una battuta, che fotografava al meglio il ruolo dell’agente artistico che ancora aveva tra i suoi clienti anche Fellini e Moravia. Mentre per Brunetta, veneziana purosangue, la sua vita spensierata, e al tempo stesso tormentata, può essere fissata nelle parole della Mirandolina goldoniaina: “Se avessi sposato quelli che hanno detto di volermi, oh, avrei pure avuto tanti mariti”. Già, per l’alter ego di Age, “la cosa curiosa è che tutti sono personaggi”. Sia nella vita sia al cinema. Del resto, osservava - come capiterà anche a noi nel ricordare Brunetta -, quando dobbiamo parlare di un nostro “caro scomparso”, cosa facciamo? di solito ci troviamo a riferire qualcosa di parodistico, i tic, gli sfottò (detestati da Pasolini); rievochiamo “certe sue battute, certi atteggiamenti che poi, messi insieme danno un’idea della psicologia del personaggio”. Tant’è che il passato del defunto, resta alla fine quasi sfuocato all’interno delle sue pur meritevoli vicissitudini professionali. E che “personaggio” è stata nella famiglia del cinema italiano la vecia Parmesan! In tempi ormai andati e nelle mie brevi frequentazioni, la domenica accadeva d’incontrarsi nel salotto dei D’Amico in via Paisiello. O, nelle estati, a Castiglioncello dove incrocerà lo sguardo cupo di Flaiano: “però era di una simpatia irresistibile. Si offrì di riaccompagnarmi a Roma e tra noi cambiò tutto… E per tenere la storia nascosta frequentavamo con Antonello Trombadori, che aveva una insana scuffia per la Mangano, la casa di Nori e Sergio Corbucci”. Sollecitata dal Suso, la Gran Signora della sceneggiatura, sulle scorrerie amorose (il cummenda Angelo Rizzoli, il regista Mario Monicelli, lo scrittore Ennio Flaiano…) Brunetta esordiva con “pecato confessà, l’è mezzo perdonà”. La sua storia con Monicelli, scappato da casa abbandonando la moglie Gabriella – siamo all’inizio degli anni Sessanta – quella la storia fece scandalo non sulla stampa rosa, ma nelle famiglie del cinema italiano appollaiate sulla collina dei Parioli. “Brunetta era l’amica del cuore di mia madre, Maria Teresa e di mio padre Steno, ed entrambe erano legatissime a Silvana Mangano e a Dino De Laurentiis, ma mia madre non tollerava i tradimenti, finì toglierle il saluto. I tradimenti la mandavano in bestia”, rammenta Enrico Vanzina. “Tutto si ricompose - aggiunge - quando Bruna, un peperino di una simpatia inarrivabile, fu abbandonata da Mario”. Del resto, nelle famiglie del cinema e degli amori segreti c’erano “le mogli” e “le altre”, mai definite amanti o concubine dalle Penelope di Cinecittà. Ma per Bruna-Mirandolina, paragonabile alla locandiera goldoniana - “raggiante di gioventù e bellezza e di una femminilità irresistibilmente lusingatrice, così la disegna il commediografo veneziano” -, spesso val depì an ora de allegrìa que zhento de malinconia. Così non si tirava indietro nel narrare che nei giorni della bufera amorosa con Monicelli si armò di cero e rosario per sfilare - si era in processione verso il santuario del Divino Amore - al fine di chiedere la “grazia” per riavere il suo Mario, che -spaventato -, la seguiva in macchina per convincerla a desistere da quel farsesco viaggio tra lo sconcerto e lo stupore delle altre pellegrine. Certe sere, e nelle feste natalizie con tombole abbinate ai regali da riciclare, si faceva caciara nell’attico liberty di Lina Wertmuller e dello scenografo Enrico Job. E se qualcuno gli chiedeva la differenza per un costumista nel vestire Sordi o Mastroianni, che avevano casa a Castiglioncello, Brunetta emulava il satiro Flaiano: “Per vestire Marcello basta rovistare nel suo armadio di casa con risparmio per la sartoria; Alberto, invece, si fa rifare il guardaroba dalla produzione ad ogni film”. Con Alberto c’è stato un lungo feeling umano e professionale. Per vent’anni e venti film è stata la sua costumista di riferimento: da “Scusi, lei è favorevole o contrario? (1966) a “Tutti dentro” (1984). Anche lui aveva la fissa per la Mangano. “Ma era un giochino. Sordi la riempiva di buffetti sotto gli occhi divertiti di Dino. Alberto la divertiva. Del resto per Silvana soltanto le persone simpatiche potevano entrare nelle sue grazie”, tagliava corto la Parmesan che della Mangano è stata confidente fino agli ultimi giorni di vita. Lei era timidissima, enigmatica e carismatica per uomini e donne. Anche un po’ “maghetta”: qualcuno l’aveva vista mangiare i vetri di un bicchiere di cristallo appena svuotato di vodka. La Parmesan sosteneva che per far breccia su Silvana dovevi soprattutto farla ridere: “Io ci sono riuscita perché sono una gran chiacchierona, mai pettegola. E dalle mie parti c’è il detto in una dòna val più la simpatìa che la belessa”. Tra i suoi momenti professionali meno felici c’era stato il set di “Giulietta degli spiriti” di cui curava i costumi con il maestro Piero Gherardi: “Uno stronzo cattivo, che mal sopportava gli altri collaboratori. Mi consolava Fellini che con Mastroianni amava certi mie detti fino a piangere dalle risa tipo: ”Dòna nana tutta tana. E facevano a gara per imitarmi”. Prima di lasciare Roma la incrociavo in via dei Coronari nel cuore antico della città. Lei, sempre sorridente, arrivava a braccetto della sua amica Mariangela Melato compagna di viaggi e di confidenze. Mariangela, che accompagnerà nella sua dolorosa malattia incurabile, è stata l’ultima delle Grandi Amiche di Brunetta. A giudizio dello scrittore Czeslaw Milosz le biografie delle persone assomigliano alle conchiglie: “Non dicono granché del mollusco che le abitava.”. Insomma, il loro valore “consiste solo e soltanto nel fatto che consentono di ricreare grosso modo, l’epoca in cui si è dipanata una certa vita”. E’ quella di Brunetta Parmesan è stata l’epoca degli anni d’oro del cinema italiano qui e nel mondo. Fernando Proietti

Da un’intervista di Fabrizio Corallo e Alessandro Ferrucci da Il Fattoqutidiano.it il 9 aprile 2020. Era abituata al trattamento principesco che le riservava Fellini. Non avete idea delle bizze. Un giorno la porto in centro a Roma, da Lancetti, uno dei migliori atelier dell'epoca, e subito inizia a lamentarsi: non le piaceva nulla, fino a quando esasperata le ho urlato quello che pensavo di lei. […] Il silenzio sul momento, lo stupore degli altri poi. Però quando alla fine l'ho vestita, sono scattati gli applausi dei presenti: oggettivamente era di una bellezza non comune. Un po' cupo e serioso, lo era. Non era quello che ti aspettavi, non era un battutista; detto questo, lui come attore era un genio assoluto, coglieva delle sfumature e consigliava agli altri delle sfumature che diventavano sostanza. Come? In Bello, onesto, emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata è stato lui a volere i pantaloni con la vita molto alta, e proprio quei pantaloni che gli arrivavano al petto hanno caratterizzato in modo decisivo il personaggio. […] Lui e la sorella non erano abituati ai ricevimenti nonostante le cinque persone di servizio. Nella sua villa aveva una sala di proiezione nella quale amava riguardare anche i suoi film. E si divertiva. Rideva compiaciuto di se stesso, delle sue battute. […] Non era solitario, evitava inutili esibizioni. […] Una volta in America un gruppo di elettricisti e macchinisti iniziarono a lamentarsi […] Mi ricordo una pausa di lavoro, io e lui sul terrazzo dell' albergo, vediamo arrivare in piscina il capo dei macchinisti, il più vivace di tutti nelle proteste per i presunti disagi. Questo tipo si spoglia. Si tuffa. Nuota. Nel frattempo Alberto lo fissa in silenzio, io zitta con lui, sapevo cosa sarebbe avvenuto. […] Questa persona esce dall' acqua, fa schioccare le dita, arriva un cameriere con l'accappatoio. Si sdraia. Le dita schioccano di nuovo, e subito gli portano un cocktail. Improvvisamente Alberto, dopo averlo guardato a lungo, si alza in piedi, allunga un braccio e con il suo vocione gli spara un: "Stai male eh..? Ma li mortaaaa…” Era un grande scrittore e sceneggiatore, lo conoscevo di fama, frequentava Via Veneto con il gruppo del Mondo, lo avevo incontrato spesso. Però il colpo di fulmine scatta diversi anni dopo, nella villa di Suso a Castiglioncello dove eravamo entrambi ospiti: era di una simpatia rara, un' intelligenza difficile da riscontrare altrove. Finita la serata mi offre un passaggio a Roma e tra noi cambia tutto. Comunque lui era una battuta continua, un uomo che sapeva stare con gli altri, capace di ascoltare con rispetto e pazienza chiunque; un uomo in grado di sorridere nonostante il profondo dolore dovuto a una grave malattia che colpì sua figlia alla nascita. […] tutti lo veneravano. Viene ricordato soprattutto per le sue frasi fulminanti e il suo umorismo, in realtà era un intellettuale raffinatissimo. È stato fondamentale per la mia crescita e il bello era che non ostentava mai la sua infinita cultura. Litigarono a causa di un viaggio, in occasione della candidatura all' Oscar di 8 e 1/2: prendono l' aereo per Los Angeles e per sbaglio l' organizzatore piazza Fellini in prima classe col produttore Angelo Rizzoli, mentre Ennio finisce in economy. Federico non dice nulla, resta comodo e coccolato nella sua poltrona. Appena atterrati Flaiano neanche esce dall' aeroporto: va in biglietteria e torna immediatamente a Roma. Amicizia finita. "In viaggio con papà", invece Lì mi sono divertita da pazzi. Carlo Verdone era bravissimo a tenere a bada Alberto. […] Sordi aveva una personalità preponderante, si prendeva spazi non suoi, mentre Carlo era unico nell'arginarlo con garbo, nel circoscrivere e caratterizzare il suo personaggio. Si volevano bene. Una meraviglia di persona. Abbiamo viaggiato tanto e spesso e ci siamo divertite da matte. Ci siamo conosciute nel 1976, entrambe coinvolte in una delegazione del cinema italiano invitata in Egitto al Festival de Il Cairo. Oltre a noi due c' erano Giovanna Ralli, mia amica, e Renzo Arbore. Persona stupenda, così come lo era sua moglie Maria Teresa. Spiritoso come pochi. Lui e Monicelli all' inizio della carriera hanno scritto e diretto diversi film firmandoli in coppia e Mario lo considerava più bravo di lui, lo diceva sempre. […] Steno era molto rigoroso e attento nella stesura della sceneggiatura, e questo è indiscutibile.

·        E’ morto Donato Sabia, fu due volte finalista olimpico.

Coronavirus, a Potenza muore Donato Sabia, fu due volte finalista olimpico. Mezzofondista, vinse l'oro agli Europei di Goteborg. Nei giorni scorsi era venuto a mancare anche il padre.  La Gazzetta del Mezzogiorno l' 8 Aprile 2020. E’ morto stamani a Potenza, a causa del coronavirus, il mezzofondista Donato Sabia, di 56 anni, che è stato due volte finalista olimpico degli 800 metri piani, a Los Angeles 1984 e a Seul 1988, finendo quinto e settimo. Sabia, che vinse l’oro ai Europei indoor di Goteborg, negli 800, nel 1984, era presidente del comitato regionale della Basilicata della Fidal. Nei giorni scorsi, nell’ospedale di Potenza, era morto anche il padre. Sabia era ricoverato in terapia intensiva nell’ospedale «San Carlo» di Potenza da alcuni giorni, quasi contestualmente alla morte del padre, avvenuta anche in questo caso per coronavirus. Sabia era nato a Potenza l’11 settembre 1963. Deteneva la terza prestazione italiana di tutti i tempi negli 800 metri - con 1'43"88 - dietro a Marcello Fiasconaro e Andrea Longo. Aveva fatto, inoltre, l’undicesima prestazione italiana assoluta sui 400 metri, con 45"73. E’ stato primatista mondiale sui 500 metri (con il tempo di 1'00"08), rimasto imbattuto per circa 29 anni. Lo aveva stabilito a Busto Arsizio il 26 maggio 1984. Oltre alla partecipazione alle finali olimpiche di Los Angeles e Seul e alla vittoria negli Europei indoor di Goteborg, Donato Sabia fu quinto nella finale della staffetta 4x400 al Campionati mondiali di atletica leggera che si svolsero a Helsinki nel 1983.

LE PAROLE DI BARDI - «Con Donato Sabia la Basilicata e l’Italia perde uno dei più grandi protagonisti dell’atletica leggera. Con le sue denunce alla pratica del doping, Sabia rappresenta un fulgido esempio di passione sportiva senza compromessi”. Con queste parole il presidente della Regione Basilicata, Vito Bardi, commenta la scomparsa dell’atleta potentino. “Stiamo combattendo – aggiunge Bardi – contro un male oscuro che non guarda in faccia a nessuno. In questo momento molto triste per la Basilicata tutta, formulo anche a nome della Giunta regionale le condoglianze alla famiglia e rivolgo un sentito e partecipato ringraziamento ai medici e al personale tutto della terapia intensiva dell’ospedale San Carlo di Potenza. Dietro ogni professionalità ci sono persone dal cuore grande che si stanno prendendo cura dei nostri malati, con il massimo della dedizione e della partecipazione umana”.

IL CORDOGLIO DELL'USSI - L’Ussi Basilicata «piange la perdita di Donato Sabia, campione olimpico vero, dotato di grande umiltà». Nel comunicato diffuso dal presidente del gruppo lucano "Augusto Viggiani» dell’Unione stampa sportiva italiana, Antonio Massaro, è sottolineato che Sabia «nel cuore aveva Potenza e la Basilicata. La sua passione per lo sport era autentica. Forte il suo impegno per le giovani generazioni anche da presidente regionale della Fidal. Ha partecipato anche a varie iniziative dell’Unione stampa sportiva italiana volta a promuovere le attività agonistiche. Nel mondo sportivo - ha concluso Massaro - lascia un grande vuoto».

LE PAROLE DELLA FIDAL - «Una notizia drammatica scuote l'Atletica Italiana in un periodo già difficile per il Paese». Queste le parole della Fidal sul suo sito dopo che si è diffusa la notizia della scomparsa di Donato Sabia, 56enne ex campione di atletica leggera, due volte finalista olimpico alle Olimpiadi, negli 800 metri, e ora sconfitto dal coronavirus. La Fidal ricorda Sabia «atleta di talento straordinario, ma soprattutto persona d’animo gentile», e nota che l’ex atleta «è scomparso a distanza di pochi giorni dal padre, vite recise entrambe dal male che sta flagellando il mondo intero». Il presidente della FIDAL Alfio Giomi, il presidente onorario Gianni Gola, il Consiglio federale, a nome di tutta l’Atletica Italiana, esprimono profondo cordoglio e si stringono idealmente ai familiari in un abbraccio. «Una tragedia nella tragedia - le parole del presidente Giomi - Donato era una persona a cui non potevi non voler bene».

IL CONI BASILICATA - «Un fratello di sport ci ha lasciato». Così il presidente del Comitato regionale della Basilicata, Leopoldo Desiderio, ha commentato la morte a 56 anni del mezzofondista Donato Sabia (due volte finalista olimpico a Los Angeles '84 e Seul '88), scomparso oggi a Potenza, a causa del coronavirus. «La polvere rossa delle piste - ha aggiunto Desiderio ricordando l’atleta - ha accompagnato la tua vita, la tua crescita, il tuo diventare campione nonchè orgoglio della nostra terra». 

IL PRESIDENTE MALAGO' (CONI) - «Siamo in lutto per la scomparsa di un grande campione, che ha scritto pagine importanti dell’atletica azzurra». Il presidente del Coni, Giovanni Malagò, a nome personale, del Comitato Olimpico Nazionale Italiano, facendosi interprete del cordoglio dell’intero movimento sportivo, si è unito al dolore della famiglia Sabia per la perdita di Donato. «Negli ultimi giorni ero purtroppo venuto a conoscenza delle sue condizioni di salute:- le parole del n.1 del Coni - aveva perso da poco il papà e si è dovuto arrendere anche lui, giovanissimo, alla violenza del virus. È stato un fenomeno, non solo per le due finali olimpiche negli 800 metri che rendono il senso delle sue memorabili imprese, ma anche per i tanti successi conquistati, tra cui il titolo europeo indoor a Göteborg nel 1984, anno in cui ottenne anche il primato mondiale dei 500 metri». Malagò ha ricordato che «l'anno scorso l’avevamo invitato ai lavori della Giunta Nazionale del CONI a Matera, un doveroso riconoscimento per la sua straordinaria carriera che ha dato lustro allo sport italiano».

Atletica in lutto: il coronavirus stronca Donato Sabia, due volte finalista alle Olimpiadi. L'ex mezzofondista azzurro, attuale presidente del comitato regionale Fidal della Basilicata, è morto a 56 anni a Potenza dove da alcuni giorni era in terapia intensiva dopo la scomparsa del padre. Fu anche medaglia d'oro agli Europei indoor di Goteborg nel 1984 e per quasi trent'anni detentore del record mondiale sui 500 metri. La Repubblica l'8 aprile 2020. Continua a mietere vittime il coronavirus, anche nel mondo dello sport. E' morto stamani all'ospedale "San Carlo" di Potenza, a causa del Covid-19, l'ex mezzofondista azzurro Donato Sabia, 56 anni, due volte finalista olimpico negli 800 metri piani, a Los Angeles 1984 e a Seul 1988, finendo rispettivamente quinto e settimo. L'ex atleta, che nel 1984 vinse la medaglia d'oro agli Europei indoor di Goteborg negli 800, era presidente del comitato regionale Fidal della Basilicata. Giovedì scorso, sempre all'ospedale di Potenza, era morto anche il padre, anche in quel caso a causa del coronavirus.

Oro negli 800 agli Europei indoor di Goteborg 1984. Sabia, nato a Potenza l'11 settembre 1963, era ricoverato in terapia intensiva al "San Carlo" da alcuni giorni, quasi contestualmente alla scomparsa del padre. Deteneva la terza prestazione italiana di tutti i tempi negli 800 metri - con 1'43″88 - dietro a Marcello Fiasconaro e Andrea Longo. Aveva fatto segnare, inoltre, l'undicesima prestazione italiana assoluta sui 400 metri, con 45″73. E' stato primatista mondiale sui 500 metri con il tempo di 1'00″08, stabilito a Busto Arsizio il 26 maggio 1984 e rimasto imbattuto per circa 29 anni. Oltre alla partecipazione alle finali olimpiche di Los Angeles e Seul e alla vittoria negli Europei indoor di Goteborg, l'atleta lucano fu quinto nella finale della staffetta 4×400 al Campionati mondiali di atletica leggera che si svolsero a Helsinki nel 1983.

La Fidal: "Talento straordinario, animo gentile". "Atleta di talento straordinario, ma soprattutto persona d'animo gentile", così la Fidal - la federatletica italiana - ricorda Sabia "scomparso a distanza di pochi giorni dal padre, vite recise entrambe dal male che sta flagellando il mondo intero". Il presidente della FIDAL Alfio Giomi, il presidente onorario Gianni Gola, il Consiglio federale, a nome di tutta l'Atletica Italiana, esprimono profondo cordoglio e si stringono idealmente ai familiari in un abbraccio. "Una tragedia nella tragedia - le parole del presidente Giomi - Donato era una persona a cui non potevi non voler bene".

Da sport.sky.it l'8 aprile 2020. E' morto stamani a Potenza, a causa del coronavirus, il mezzofondista Donato Sabia, 56 anni, due volte finalista olimpico sugli 800 metri piani, a Los Angeles 1984 e a Seul 1988, finendo quinto e settimo. Sabia, che vinse l'oro agli Europei indoor di Goteborg 1984 sugli 800, era presidente del comitato regionale della Basilicata della Fidal. L'ex azzurro era ricoverato in terapia intensiva nell'ospedale "San Carlo" di Potenza da alcuni giorni, quasi contestualmente alla morte del padre, avvenuta anche in questo caso per coronavirus.

Chi era Donato Sabia. Sabia era nato a Potenza l'11 settembre 1963. Deteneva la terza prestazione italiana di tutti i tempi negli 800 metri con 1'43"88, dietro a Marcello Fiasconaro e Andrea Longo. Aveva fatto, inoltre, l'undicesima prestazione italiana assoluta sui 400  metri, con 45"73. E' stato primatista mondiale sui 500 metri (con il tempo di 1'00"08), rimasto imbattuto per circa 29 anni: lo aveva stabilito a Busto Arsizio il 26 maggio 1984. Oltre alla partecipazione alle finali olimpiche di Los Angeles e Seul e alla vittoria negli Europei indoor di Goteborg, Donato Sabia fu quinto nella finale della staffetta 4x400 al Campionati mondiali di atletica leggera che si svolsero a Helsinki nel 1983. Da tempo ricopriva il ruolo di presidente della Fidal Basilicata. "Una notizia drammatica scuote l'Atletica Italiana in un periodo già difficile per il Paese". Queste le parole della FIDAL sul suo sito dopo che si é diffusa la notizia della scomparsa di Donato Sabia, 56enne ex campione di atletica leggera, due volte finalista olimpico ale Olimpiadi, negli 800 metri, e ora sconfitto dal coronavirus. La Fidal ricorda Sabia "atleta di talento straordinario, ma soprattutto persona d'animo gentile", e nota che l'ex atleta  "é scomparso a distanza di pochi giorni dal padre, vite recise entrambe dal male che sta flagellando il mondo intero". Il presidente della FIDAL Alfio Giomi, il presidente onorario Gianni Gola, il Consiglio federale, a nome di tutta l'Atletica Italiana, esprimono profondo cordoglio e si stringono idealmente ai familiari in un abbraccio. "Una tragedia nella tragedia - le parole del presidente Giomi - Donato era una persona a cui non potevi non voler bene".

·        E’ morta Linda Tripp, la talpa dello scandalo Lewinsky.

Da La Stampa il 9 aprile 2020. La “talpa” dell'affaire fra Bill Clinton e Monica Lewinsky è morta. Linda Tripp aveva 70 anni ed era gravemente malata, anche se la sua scomparsa non è riconducibile al coronavirus. Una malattia grave rivelata dalla figlia di Tripp nelle ultime ore e che ha spinto anche Lewinsky a commentare: «Non importa il passato, spero che si riprenda. Non posso neanche immaginare quanto sia difficile per la sua famiglia».

Il caso del vestito. Tripp è salita alle cronache per aver registrato segretamente le sue conversazioni con l'allora stagista Lewinsky e aver poi consegnato le audiocassette a Kennenth Starr, il procuratore indipendente la cui indagine portò poi all'impeachment di Clinton. Tripp consegnò le audiocassette in cambio dell'immunità per registrazioni illegali. A Starr consegnò anche la prova schiacciante del vestito blu che Lewinsky aveva indossato durante il suo rapporto con Clinton. Proprio su suggerimento di Tripp, Lewinsky aveva tenuto il vestito senza lavarlo o portarlo in tintoria.

Le registrazioni illegali. Le conversazioni registrate da Tripp portarono alla messa in stato di accusa di Clinton, che inizialmente negò di aver avuto una relazione extramatrimoniale e poi venne accusato di falsa testimonianza sotto giuramento. Clinton venne messo in stato di accusa dalla camera nel dicembre 1998 e assolto dal Senato nel 1999. Tripp ammise più volte di aver registrato illegalmente e disse di aver agito per «dovere patriottico».

Usa: morta Linda Tripp, la talpa dello scandalo Lewinsky. Aveva 70 anni. La Repubblica il 09 aprile 2020. E' morta all'età di 70 per un tumore al pancreas Linda Tripp, la "talpa" dell'impeachment di Bill Clinton. Registrò le sue conversazioni con l'ex stagista della Casa Bianca Monica Lewinsky e poi le consegnò al procuratore indipendente Kenneth Starr, portando alla messa in stato di accusa di Clinton nel 1998. Clinton, poi assolto dal Senato, fu accusato di spergiuro per aver mentito alla nazione sulla sua relazione con Lewinsky. La morte di Linda Tripp è stata confermata al Washington Post da suo figlio, Ryan Tripp, che ha affermato che il decesso non è conseguenza del coronavirus.La Tripp era una segretaria nell'ufficio del consigliere della Casa Bianca nei primi anni della presidenza di Clinton prima di essere trasferita all'ufficio affari pubblici del Pentagono e fare amicizia con Monica Lewinsky, di 24 anni più giovane. A lei la stagista della Casa Bianca rivelò la sua precedente relazione sessuale con Clinton. La donna aveva così iniziato a registrare le loro conversazioni telefoniche private con cui successivamente Monica documentò la sua relazione con il presidente degli Stati Uniti. Tripp alla fine consegnò ore di quei nastri al consigliere indipendente Kenneth Starr, che stava indagando su possibili illeciti di Clinton, da ex governatore dell'Arkansas, derivanti dalla fallita impresa immobiliare di Whitewater negli Ozarks. Sulla base dei nastri, Starr ottenne il permesso di espandere la sua inchiesta nell'affare Clinton-Lewinsky. La donna ha anche portato alla luce una delle prove più famose dello scandalo, l'abito blu macchiato di sperma che Monica Lewinsky aveva detto di aver indossato durante un incontro sessuale alla Casa Bianca con Clinton. Tripp ha raccontato che una volta Lewinsky le aveva mostrato l'abito e che Tripp aveva convinto l'ex stagista a tenere il capo senza averlo lavato a secco. L'ufficio di Starr aveva sequestrato l'abito e l'analisi del DNA aveva costretto Clinton a ritrattare la sua famigerata negazione pubblica della sua relazione con Lewinsky: "Non avevo rapporti sessuali con quella donna". Clinton fu assolto al Senato e alla fine la supertestimone fu accusata dai sostenitori di Clinton per aver messo in piedi le accuse per motivi politici. Lei, però, ha sempre sostenuto di aver fatto la cosa giusta nel denunciare la cattiva condotta del presidente. Venne licenziata dal Pentagono nell'ultima giornata di Clinton in carica nel gennaio 2001, e successivamente si stabilì con suo marito a Middleburg, in Virginia,Venne  fuori Washington. 

·        Allen Garfield rip.

Marco Giusti per Dagospia l'8 aprile 2020. Ecco. Se ne va un altro grande attore, Allen Garfield, 80 anni, a causa del Coronavirus, amato da Francis Coppola, Wim Wenders, Robert Altman, Brian De Palma, Billy Wilder. Basterebbe vederlo in “La conversazione”, “Nashville”, “Prima pagina”, ma anche in “Taking off”, “Cotton Club”, nell’incredibile scena finale di “Lo stato delle cose” di Wim Wenders dove interpreta un produttore americano come poteva essere allora lo stesso Coppola. Un grande talento della New Hollywood, anche se una serie di infarti lo aveva ormai allontanato da ogni set da almeno vent’anni. Grosso, tarchiato, aggressivo, forte della sua esperienza di pugile professionista e di giornalista, ma anche dei suoi studi all’Actor’s con Lee Strasberg e Elia Kazan, Garfield riusciva a trasmettere a ognuno dei suoi personaggi una forza non indifferente che ce lo fece amare da subito. Non avendo un fisico da protagonista, era spesso relegato a ruoli da caratterista, così lo troviamo accanto a Robert Redford in “Il candidato” di Michael Ritchie, a James Caan in “L’inseguito” di Howard Zieff, a Gene Hackman e “La conversazione” di Coppola, ma bazzicando da sempre il teatro e il cinema indipendente lontano da Hollywood riuscì a imporsi come protagonista in piccoli film intelligenti e ultrasperimentali come “Putney Swope” di Robert Downey Sr, o “Cry Uncle” di John Avildsen, da noi tradotto come “Il pornocchio”, o “Sonny Boy” di Rob Reiner. Nato a Newark nel New Jersey nel 1939 come Allen Goorwitz, nome che curiosamente riprese a metà della sua carriera per poi alternarlo a quello più noto, dopo esperienze di ogni tipo e una solida preparazione teatrale all’Actor’s, esordì nel cinema alla fine degli anni’60. Tutti film sperimentali, per Robert Canton, “Orgy’s Girl”, “The Good, The Bad and The Beautiful”, per Brian De Palma, “Ciao America” , per Robert Downey Sr, “Putney Swope”, prima di avere ruoli in film più popolari, come “Il gufo e la gattina” di Howard Ross, “Taking Off” di Milos Forman e “Bananas” di Woody Allen, dove portò il suo tipo di recitazione non certo da grande studio. John G. Avildsen, lo stesso regista che porterà al successo Sylvester Stallone con “Rocky”, lo vuole protagonista del curioso, beffardo e molto politico “Cry Uncle”, mentre Stuart Hagmann lo vuole a fianco di Michael Sarrazin e Jacqueline Bisset in “Jackie”, 1971. Seguita a alternare piccoli ruoli da caratterista in grossi film, pensiamo a “Il candidato” di Michael Ritchie con Robert Redford o “Mani sporche sulla città” di Peter Hyams con Elliot Gould e Robert Blake, a stravaganze, come “Impara a conoscere il tuo coniglio” di Brian De Palma con Tom Smothers e Orson Welles. Incontra Francis Coppola in un film chiave degli anni ’70, “La conversazione” con Gene Hackman, Palma d’Oro a Cannes nel 1974 e fa un vero salto di qualità. Lo chiama Billy Wilder per il ruolo del giornalista Kruger in “Prima pagina” con Jack Lemmon e Walter Matthau, lo vuole Robert Altman come marito e manager padrone di Renée Blakley in “Nashville”. Ha ottimi ruoli in “Pollice da scasso” di William Friedkin con peter Falk e Peter Boyle, in “Codice 3: emergenza assoluta” di Peter Yates con Bill Cosby e Raquel Welch e in “Professione pericolo” di Richard Rush con Peter O’Toole. Coppola lo vuole di nuovo in “Un sogno lungo un giorno” e lo porta a Wim Wenders per “Lo stato delle cose” dove è il misterioso produttore americano Gordon, dove ha un monologo incredibile chiuso nella sua limousine. E’ ottimo anche in “Cotton Club”, il film che Coppola realizzò per riprendersi dal flop economico di “Un sogno lungo un giorno”, in “Beverly Hills Cops II”, in “Dick Tracy” di Warren Beatty, fino a ritrovarsi negli anni ’90 in “Fino alla fine del mondo” di Wim Wenders e “Diabolique” con Sharon Stone. Trasferitosi da tempo a Los Angeles, insegnò recitazione a un giovane Quentin Tarantino, fece qualche horror e subì il primo pesante infarto durante la lavorazione di “La nona porta” di Roman Polanski. Ne ebbe un altro nel 2004. E con questo si chiuse non solo la sua prestigiosa carriera. 

·        Morta l'astrofisica Margaret Burbidge.

Morta l'astrofisica Margaret Burbidge, la "signora della polvere di stelle". Margaret Burbidge: "Lady Stardust" aveva 100 anni, ha rivoluzionato l'astronomia con le sue intuizioni sulla natura stellare. La Repubblica il 07 aprile 2020. L'astrofisica angloamericana Margaret Burbidge, autrice di scoperte fondamentali sulla natura delle stelle e delle galassie, che ha contribuito a diffondere l'idea che gli esseri umani sono composti di polvere di stelle e che ha aiutato le scienziate in battaglie civili pionieristiche, è morta nella sua casa di San Francisco, in California, all'età di 100 ani. L'annuncio della scomparsa, avvenuta domenica scorsa, è stato dato dall'Università della California di San Diego, di cui era professoressa emerita di astronomia e fisica. "E' deceduta in pace, con la sua famiglia al suo capezzale, per le complicazioni occorse dopo una caduta accidentale in casa", ha fatto sapere l'ateneo californiano, che la ricorda come "Lady Stardust" (signora della polvere di stelle), perché ha rivoluzionato "la scienza con le sue intuizioni sulla natura e sul comportamento delle stelle". Nata Eleanor Margaret Peachey il 12 agosto 1919, a Davenport, in Inghilterra, alla fine degli anni '40 si sposò con il rinomato fisico britannico Geoffrey Burbidge e nel 1955 si era trasferita negli Usa. Nel 1957 i coniugi Burbidge, l'astronomo inglese Fred Hoyle e il fisico statunitense William Fowler pubblicarono un celebre articolo sulla nucleosintesi stellare, "Synthesis of the Elements in Stars" (Sintesi degli elementi in una stella), che divenne famoso con una sigla composta dalle iniziali dei suoi autori, quasi fosse una formula chimica, B2FH. Fred Hoyle e il marito di Margaret, Geoffrey Burbidge, sono noti per la loro teoria cosmologica non convenzionale che contraddice apertamente la teoria del Big Bang, mentre William Fowler condivise il Premio Nobel per la fisica nel 1983 per i suoi studi teorici e sperimentali sulla nucleosintesi. Margaret Burbidge è stata la prima donna ad essere nominata direttore dell'Osservatorio di Greenwich (1950-51) e ha dato contributi notevoli alla teoria dei quasar (oggetti quasi-stellari), alle misure della rotazione e delle masse di galassie e alla comprensione di come gli elementi chimici si formano nelle profondità delle stelle attraverso la fusione nucleare. Burbidge ha anche sostenuto la lotta per le pari opportunità per le donne nella scienza. Nel 1955 suo marito ottenne una borsa di studio Carnegie per ricerche astronomiche presso l'Osservatorio di Monte Palomar, negli Usa, chiese di poter lavorare con lui ma le fu negato il ruolo perché l'ambiente era "provvisto di bagni per soli uomini". Scelse così di accettare un contratto di ricerca minore al California Institute of Technology di Pasadena, nella convinzione di poter comunque dimostrare il suo talento. In breve si rivelò così brava che nel 1957 divenne professore associato presso lo Yerkes Observatory del Wisconsin. Nel 1962 fu nominata professoressa di astronomia all'Università della California a San Diego. A lei è stato dedicato l'asteroide 5490 Burbidge per i fondamentali studi condotti sulle stelle e sulle galassie accoppiando la spettrofotometria con i dati ottenuti dall'osservazione con telescopi. Quando era una bambina suo nonno le regalò libri divulgativi sull'astronomia: "Vidi nascere la mia passione per le stelle - ha scritto nella sua autobiografia pubblicata nel 1994 - unita all'altro mio diletto, i grandi numeri". La sua vita è stata piena di scoperte scientifiche e battaglie civili e non è sempre stato facile essere una scienziata donna, ma lei non ha mai ceduto: "Se incontri un ostacolo, trova un modo per aggirarlo", ha scritto nell'autobiografia. 

·        Morta Susanna Vianello, figlia di Edoardo e Wilma Goich.

Morta Susanna Vianello, figlia di Edoardo e Wilma Goich. Aveva 49 anni, era una speaker radiofonica. Il messaggio di Fiorello: "Abbiamo riso tantissimo. Non ti dimenticherò mai". Il cugino Andrea: "Un tornado di talento e di simpatia". La Repubblica il 07 aprile 2020. È morta nella notte in una clinica romana, dopo una lunga malattia, Susanna Vianello, speaker radiofonica e figlia di Edoardo Vianello e Wilma Goich. Susanna, che avrebbe compiuto 50 anni il prossimo 20 luglio, lavorava da anni in radio. Negli ultimi anni la sua voce era legata a Radio Italia anni 60 Roma ed era tra i protagonisti di Edicola Fiore accanto a Fiorello. La simpatia e l'ironia di Susanna l'avevano resa una star anche su Twitter. I suoi amici e fan la piangono increduli, tributandole un affollato e affettuosissimo funerale virtuale, nell'impossibilità di celebrare il rito canonico a causa delle direttive dei decreti legati al coronavirus. Tra i primi a dedicarle parole di cordoglio è proprio il suo caro amico Fiorello, che ha pubblicato su Twitter quattro foto che li ritraevano insieme, scrivendo: "La mia amica Susanna è volata via. Abbiamo riso tantissimo. Non ti dimenticherò mai". Tra i protagonisti di Edicola Fiore, la mattina all'alba al fianco di Fiorello, Susanna aveva una risata contagiosa e una fraterna complicità con lo showman. La mia cugina bella e forte, un tornado di talento e di simpatia, @susyvianello non c'è più. In un mese appena, un tumore cattivo e impietoso l'ha portata via. Avrebbe fatto tra poco appena 50 anni e lascia un figlio di 23. Aveva molto amici, anche qui. Ci mancherà molto.  Anche il cugino Andrea Vianello, giornalista, ex direttore di Rai 3, le dedica un pensiero: "La mia cugina bella e forte, un tornado di talento e di simpatia, non c'è più. In un mese appena, un tumore cattivo e impietoso l'ha portata via. Avrebbe fatto tra poco appena 50 anni e lascia un figlio di 23. Aveva molto amici, anche qui" conclude, "ci mancherà molto".

Da corriere.it  il 7 aprile 2020. «Abbiamo riso tantissimo. Non ti dimenticherò mai». Con queste parole Fiorello ha ricordato, in un tweet, l’amica Susanna Vianello, voce radiofonica di Radio Italia Anni 60 e amante appassionata, come raccontava lei stessa, «di tutti i generi musicali». Figlia del cantante Edoardo Vianello e dell’altrettanto nota Wilma Goich, collega sposata nel 1967, Susanna Vianello è ricordata su Twitter anche dal cugino Andrea Vianello: «La mia cugina bella e forte, un tornado di talento e di simpatia, non c’è più. In un mese appena, un tumore cattivo e impietoso l’ha portata via. Avrebbe fatto tra poco appena 50 anni e lascia un figlio di 23. Aveva molto amici, ci mancherà molto». A chi le domandava cosa fosse per lei la felicità, Susanna rispondeva senza esitazioni: «Mio figlio, la musica, l‘amore e il mare. Queste sono le cose che mi fanno felice».

Il ricordo di Jane Alexander: Da quando ho saputo che non ci sei più i colori sono più accesi. Il rosso più rosso e il verde cosi verde che sembra che io non sapessi il significato della parola verde prima di ora. Fisso il vuoto. Non me ne capacito, non mi vengono parole. Ringrazio il cielo di averti detto che ti volevo bene, di aver sentito la tua voce, di aver capito che nulla era importante. Tutto perde significato, ora. Tranne i colori. E la voglia di stringerti, guardarti negli occhi e ridere. Nessuna parola e nessuna lacrima potranno colmare questo vuoto. Ti voglio bene. @susyvianello ?

Il ricordo di Marina La Rosa: Ironica intelligente insicura sarcastica fragile sensuale cinica golosa ansiosa tenera ma anche forte e, soprattutto ‘bionda’ così come ti chiamavo. Ci siamo fatte così tante risate, ci siamo prese in giro, abbiamo riso e abbiamo pianto. Susanna stanotte è morta ma son sicura che starà ridendo anche da lì. Fai buon viaggio bionda.

·        Coronavirus: è morta Cinzia Ferraroni, storica attivista del M5s. 

Coronavirus: è morta Cinzia Ferraroni, storica attivista del M5s. Laura Pellegrini il 07/04/2020 su Notizie.it. La storica attivista del Movimento 5 stelle, Cinzia Ferraroni è morta a causa del coronavirus: la 60enne era candidata a sindaco. Il marito di Cinzia Ferraroni ha dedicato alla storica attivista del M5s un doloroso messaggio: la 60enne è morta a causa di complicazioni legate al coronavirus. “Questo subdolo virus – ha scritto il marito – è riuscito dove non erano riusciti i tumori. A sconfiggerti nel fisico, però non nello spirito“. La donna era molto conosciuta nella città di Parma non solo perché era candidata a sindaco, ma anche per il suo ruolo di agente di commercio e militante politica. Cinzia era stata anche la voce di Radio Studio Europa e di Onda Emilia. Cinzia Ferraroni è scomparsa all’età di 60 anni per coronavirus: lascia il marito Francesco e due figlie. La sua prematura morte ha gettato la città di Parma nel dolore: l’attivista, infatti, era molto conosciuta. Oltre che speaker alla radio, Cinzia si era battuta in diverse battaglie amministrative locali prima con il Partito Democratico, poi con i Verdi e infine con M5s. Era anche candidata a sindaco della città di Parma. I parlamentari M5s dell’Emilia Romagna hanno espresso il loro cordoglio e la vicinanza alla famiglia: “Ieri è venuta a mancare Cinzia Ferraroni. Una attivista storica di Parma che ha dato tanto al Movimento 5 Stelle e una combattente, nell’impegno civile così come nella vita. Ha lottato sempre; questa volta, però, purtroppo la battaglia contro questo virus maledetto non è riuscita a vincerla”. “Era una donna volitiva, molto stimata nel suo lavoro di agente di commercio nel settore della grande distribuzione. È una notizia terribile” ha commentato invece Stefano Cantoni di Confesercenti.

Il drammatico addio del marito. Francesco, marito di Cinzia è distrutto dalla perdita della sua donna e in un messaggio pubblicato su Facebook esprime tutto il suo dolore. “Questo subdolo virus è riuscito dove non erano riusciti i tumori. A sconfiggerti nel fisico, però non nello spirito. Uno spirito che si nutriva del tuo immenso amore per la famiglia, dell’orgoglio per le tue figlie e per i tuoi nipoti, della voglia di tornare a viaggiare in camper, la casa con le ruote come la chiamano loro, nella terra che più amiamo la Sardegna, della tua passione di sempre, la politica”. “Hai lottato fino all’ultimo – ricorda Francesco – combattendo non solo per te ma soprattutto per gli altri. Sempre con la schiena dritta, senza compromessi e lavorare”. E infine conclude: “Grazie all’Amore che mi hai donato in questi tanti, tanti anni ma pur sempre pochi”. 

·        È morto Alessandro Rialti, voce storica della Fiorentina. 

È morto Alessandro Rialti, voce storica della Fiorentina: aveva 69 anni. Laura Pellegrini il 06/04/2020 su Notizie.it.  Alessandro Rialti è morto all'età di 69 anni: il giornalista toscano era ricoverato all'ospedale Careggi di Firenze. Il mondo del giornalismo sportivo è in lutto: è morto all’età di 69 anni, Alessandro Rialti, giornalista storico della Fiorentina. Proprio il club viola, dopo la scomparsa avvenuta domenica 5 aprile, ha voluto ricordare la penna del Corriere dello Sport Stadio con un messaggio. “Con passione e calore, ha raccontato la sua squadra, amato da tutti: giocatori, dirigenti e tifosi”. Anche i colleghi hanno espresso vicinanza alla famiglia. La comunicazione della scomparsa di Alessandro Rialti, morto all’età di 69 anni, è arrivata dal presidente Sandro Bennucci e da tutti gli organismi dirigenti dell’Associazione Stampa Toscana. Anche Franco Morabito, presidente del Gruppo toscano giornalisti sportivi, ha voluto ricordare una penna storica. Era stato ricoverato per un malore all’ospedale di Careggi di Firenze, dove si è spento nella giornata di domenica 5 aprile. Il club viola ha voluto ricordare lo storico giornalista con un commovente comunicato: “Grande tifoso della Fiorentina, prima ancora che cronista, ha sempre raccontato la ‘sua’ squadra con passione e calore, vivendo in prima persona la storia viola e della città, confrontandosi sempre direttamente con giocatori, tecnici e dirigenti e facendolo con il suo stile”. “Il Presidente Commisso – prosegue la nota -, suo figlio Joseph, il Dg Joe Barone, il Ds Daniele Pradè, Giancarlo Antognoni, Dario Dainelli, il Mister Beppe Iachini, il Responsabile della Comunicazione Alessandro Ferrari, tutta la dirigenza, la squadra, lo staff, l’ufficio stampa e tutti i dipendenti della società sono vicini ai familiari in questo momento di profondo dolore”. Infine, anche i colleghi dell’Ussi e l’Associazione Stampa Toscana hanno manifestato cordoglio alla famiglia di Rialti: “Giornalista amato dai tifosi della Fiorentina e anche dai colleghi, molti dei quali, nemmeno più giovani, hanno imparato da lui i rudimenti di una professione, o se volete di un mestiere, che entra nel sangue e non ti abbandona più”. 

·        Morta Honor Blackman, la Pussy Galore di James Bond. 

Morta Honor Blackman, addio alla Pussy Galore di James Bond. L'attrice inglese, divenuta nota per il ruolo della Bond Girl in Missione Goldfinger, aveva 94 anni. La Repubblica il 06 aprile 2020. Una delle criminali più affascinanti del set e, in particolare, della saga di James Bond, Pussy Galore, è morta: Honor Blackman, l'attrice che interpretava il personaggio nato dalla penna di Ian Fleming e poi trasposta al cinema con enorme successo in Missione Goldfinger, diretto da Guy Hamilton nel 1964, aveva 94 anni. "Con grande dolore dobbiamo annunciare la morte di Honor Blackman avvenuta a 94 anni", si legge in una nota diffusa dai parenti. "È morta pacificamente per cause naturali nella sua casa in Lewes, Sussex, circondata dalla sua famiglia. Era molto amata e ai suoi figli Barnaby e Lotti, ai  nipoti Daisy, Oscar, Olive e Toby mancherà moltissimo. Oltre a essere una madre e una nonna molto adorata, Honor è stata un'attrice dall'immenso talento creativo prolifico. Grazie a una straordinaria combinazione di bellezza, intelligenza e abilità fisica, oltre alla sua voce unica e un'etica di lavoro determinata, ha raggiunto uno status iconico senza precedenti nel mondo del cinema e dell'intrattenimento, impegnandosi totalmente nella sua arte e, grazie alla sua professionalità in tutti i campi, ha contribuito a realizzare ad alcune delle più grandiosi produzioni cinematografiche e teatrali". Nata a Londra, nel quartiere di Plaistow, il 22 agosto 1925, Honor Blackman ha studiato dizione quand'era appena una bambina per poi frequentare corsi di musica e recitazione debuttando, nel 1947, al fianco di Michael Redgrave nel lungometraggio Fame is the Spur. Dopo alcuni piccoli ruoli accanto, però, a grandi della recitazione come Richard Burton ed Elizabeth Taylor, nel 1961 Blackman partecipa alla lavorazione della seconda stagione del telefilm di enorme successo Agente speciale. Nel corso della sua carriera ha lavorato molto per il teatro portando avanti, in contemporanea, una fitta attività televisiva.

Honor Blackman rip. Marco Giusti per Dagospia il 6 aprile 2020. Ecco. Bella, elegante, fredda, tipicamente londinese e esperta di arti marziali, se ne va Honor Blackman, 94 anni, la Pussy Galore di “Agente 007: Missione Goldfinger”, prima Bond Girl inglese della saga, e la meno giovane, aveva già 39 anni, prima Catherine Gale della serie tv “The Avengers” con Patrick Macnee e celebre attrice di teatro. Oltre cento film tra cinema e serie tv. Nata e cresciuta nell’East Eand londinese nel 1925 aveva fatto la staffetta militare durante la Seconda Guerra Mondiale e era rimasta per tutta la vita impegnata politicamente, molto attiva, decisamente democratica. Malgrado il suo ruolo di Pussy Galore le avesse dato una fama incredibile in tutto il mondo, odiava il termine Bond Girl. “Possono chiamare le altre Bond Girls, ma non mi piace per quanto mi riguarda, per la semplice ragione che quel personaggio sarebbe stato un buon personaggio in qualsiasi film, non solo in un film di Bond. Considero le Bond Girls come quelle donne che hanno dato un'occhiata a Bond e sono svenute tra le sue braccia. Mentre Pussy Galore era proprio un personaggio”. Non le mandava a dire, Honor Blackman. Non apprezzava affatto la decisione di Sean Connery di prendere la cittadinanza svizzera per non pagare le tasse, ad esempio. E aveva da dire anche di Richard Burton, che se lo ritrovò sul set di “La quinta offensiva” nei primi anni ’60. “Nessuno vuole davvero qualcuno nel suo letto che sappia citare Shakespeare. Il più delle volte Burton era ubriaco. Eravamo in questi piccoli chalet e una sera tornò a casa e si mise a letto con me. L'ho cacciato alla fine. Non era la mia idea di paradiso”. Per non parlare del megawestern “Shalako” diretto in Spagna da Terence Young nel 1968 dove ritrovò Sean Connery e un cast che andava da Brigitte Bardot a Stephen Boyd. “È stato forse il peggior film che abbia mai realizzato, dal punto di vista della piacevolezza. Edward Dmytryk era appena uscito dalla lista nera, quindi aveva molto da dimostrare ed era teso. Eric Sykes era terribilmente sordo. Brigitte Bardot non osavano lasciarla da sola per la paura che si suicidasse. Stephen Boyd stava attraversando una conversione religiosa e ci salutava ogni mattina dicendo "Pace", invece di "Buongiorno". Jack Hawkins, che interpretava mio marito, aveva da poco subito un'operazione di cancro alla laringe e aveva un buco in gola coperto da un medaglione, e avevamo il terrore di trovarci della sabbia.”. Nata in una famiglia di quattro figli nell’East End di Londra, morta invece nella sua casa del Sussex fra figli e nipoti, iniziò alla fine degli anni ’40, subito dopo la guerra, a far del cinema. La troviamo in “Daughter of Darkness”, “Passioni”, “Tragica incertezza”. Fu sotto contratto alla Rank Film, e la volle presto anche Hollywood, dove fece “Alto tradimento” con Elizabeth Taylor e Robert Taylor alla MGM. Alla fine degli anni ’50 la troviamo in Italia in una curiosa serie anglo-italiana pensata per la tv, “I tre moschettieri”, diretta da registi come Hugo Fregonese e Mauro Bolognini, assieme a Jeffrey Stone e Domenico Modugno. Recita in film importanti come “Titanic: Latitudine 41° Nord” con Kenneth More, “Io e il generale” con norman Wisdom, “Il mistero del signor Cooper” con Terry-Thomas. Diventa popolarissima con la serie tv inglese “The Avengers-Agente Segreto” con Patrick Macnee, che lascia regalando il suo ruolo, quello di Catherine, all’emergente Diana Rigg. Gira in Italia il meraviglioso fantasy “Gli Argonauti” di Don Chaffey con i trucchi di Ray Harryahausen, dove aveva il ruolo di Hera. Ovvio che il successo della sua Pussy Galore in “Goldfinger”, dove si esibiva in judo e altri arti marziali, le diede una fama internazionale che la spinse a tutta una nuova serie di film dove le chiedevano spesso di ripetere qualcosa di simile. Si mosse bene, alternando avventurosi a commedie, senza fossilizzarsi troppo come fredda Bond Girl inglese. La troviamo così in “Flagrante adulterio” di Ted Kotcheff con Laurence Harvey, “Da un momento all’altro”, ultimo film di Mervyn Leroy con jean Seberg protagonista, il già citato “Shalako” di edward Dmytryk, “Vortice di sabbia” di Don Chaffey, il peplum kolossal “La calata dei Barbari” di Robert Siodmak con Laurence Harvey e Orson Welles, il notevole “La vergine e lo zingaro” di Christopher Miles con Joanna Shimkus e Franco Nero, il thriller di Peter Collinson “L’allucinante notte di una baby sitter” con Susan George, il western americano con Dean Martin “Ti combino qualcosa di grosso”, l’horror “Una figlia per il diavolo” di Peter Sykes con Richard Widmark, Christopher Lee e Nastassia Kinski, “Il gatto e il canarino” di Radley Metzger con Michael Callan e Edward Fox, fino a decine di serie tv, anche Colombo, e un buon ruolo in “Il diario di Bridget Jones”. Ha lavorato sempre, a teatro e al cinema. Ebbe due mariti, due divorzi, due figli adottivi.

·        Morto l'ex premier libico Mahmoud Jibril. 

Morto di coronavirus l'ex premier libico Mahmoud Jibril. Jibril è deceduto ad Il Cairo a seguito delle complicazioni dovute al coronavirus: è stato il primo premier libico del dopo Gheddafi. Mauro Indelicato, Lunedì 06/04/2020 Il Giornale. Era già ricoverato da diversi giorni Mahmoud Jibril, ex premier libico che nel pomeriggio di domenica è venuto a mancare ad Il Cairo: lui, figura cardine del dopo Gheddafi in Libia, era tra le personalità più illustri del mondo arabo colpite da coronavirus. Il nome di Jibril è associabile alla primavera araba del 2011 e, in special modo, a quanto accaduto nel suo Paese a partire dal febbraio di quell’anno. Quando cioè da Bengasi sono iniziate le proteste contro il governo di Muammar Gheddafi, sulla scia delle manifestazioni che avevano già comportato la fine di Mubarack e Ben Alì rispettivamente in Egitto ed in Tunisia. Fino a quel momento Mahmoud Jibril era tra i principali collaboratori di Gheddafi, con l’incarico di presidente dell’ufficio per lo sviluppo economico. Appena però sono iniziate le proteste, è stato tra i primi a passare dalla parte dei rivoltosi. Quella scelta allora ha rappresentato una delle svolte più importanti nel contesto delle proteste: Jibril infatti, oltre a presiedere un importante ufficio economico, era appartenente alla tribù dei Warfalla, la più numerosa e politicamente di peso del Paese nordafricano. Anche per questo motivo forse il 23 marzo 2011 il Consiglio Nazionale di Transizione, formatosi dall’unione delle varie forze e dei vari gruppi anti Gheddafi, lo ha scelto come premier del governo ad interim. Un esecutivo quello, che ha sostituito le istituzioni gheddafiane anche all’Onu e che ha iniziato da più Paesi ad essere riconosciuto quale unico rappresentate della Libia. Per questo il nome ed il volto di Jibril sono diventato famosi anche in ambito internazionale. È stato il suo governo ad adottare, tra le altre cose, la nuova bandiera libica che ha ripreso quella in vigore durante la monarchia togliendo quindi il drappo verde voluto da Gheddafi. Ma la sua è anche una figura controversa, soprattutto agli occhi di molti libici: tra i suoi detrattori infatti, c’è chi lo ha più volte accusato di aver cambiato fronte soltanto per convenienza. Anche all’interno dell’allora Consiglio Nazionale di Transizione, in tanti hanno puntato il dito contro Jibril proprio per la sua organicità in seno alle istituzioni gheddafiane. Mahdmoud Jibril è rimasto al timone del governo provvisorio fino al 23 ottobre 2011, tre giorni dopo dunque la cattura e l’uccisione di Gheddafi, evento quello che ha segnato la fine della prima parte della guerra in Libia e la nascita di un nuovo esecutivo ad interim. Trasferitosi successivamente al Cairo, l’ex premier è poi uscito del tutto dal mondo politico libico. Qui in Egitto, come detto, ha contratto a fine marzo il coronavirus: dopo alcuni giorni di degenza, domenica la conferma del decesso. Jibril aveva 68 anni: dalla Libia sono arrivate le condoglianze anche dei membri dell’attuale governo guidato da Fayez Al Sarraj. In particolare, come si legge in una nota inviata da Tripoli, l’esecutivo apprende “Con grande dispiacere la notizia della morte di Mahmoud Jibril, straordinaria figura scientifica e patriota, in uno degli ospedali egiziani al Cairo”.

·        Morto Lorenzo Sanz, ex presidente del Real Madrid.

Coronavirus: morto Lorenzo Sanz, ex presidente del Real Madrid. Pubblicato sabato, 21 marzo 2020 su Corriere.it. L’ex presidente del Real Madrid Lorenzo Sanz Mancebo è morto sabato a 76 anni per complicazioni da coronavirus. L’ex numero uno dei Blancos era stato ricoverato in terapia intensiva martedì per insufficienza respiratoria dopo otto giorni con febbre alta, ed era andato via via peggiorando, riferisce As. Sanz soffriva già di insufficienza renale e di ipertensione, il contagio ha peggiorato sensibilmente il quadro. Il figlio Fernando confermato che nelle ultime ore era anche intubato e sedato. «Era malato da otto giorni, ma non voleva far collassare l’ospedale ed è rimasto in casa per solidarietà». Poi il ricovero e la diagnosi ufficiale, polmonite bilaterale per coronavirus. Sabato la morte del presidente che diresse i Blancos dal 1995 al 2000 portandoli a vincere la Settima e l’Ottava Champions League.

·        Morto Bernard Gonzalez, calcio francese in lutto.

Bernard Gonzalez morto suicida, calcio francese in lutto: era positivo al Covid-19. Laura Pellegrini il 06/04/2020 su Notizie.it. Avrebbe lasciato un biglietto con su scritte le motivazioni del tragico gesto. Bernard Gonzalez è morto suicida all’età di 61 anni: il medico dello Stade Reims, da quanto si apprende, era risultato positivo al coronavirus. Da 20 anni lavorava a fianco dello staff del club francese, ma all’improvviso di è tolto la vita. Il suo corpo è stato ritrovato nella sua abitazione dove stava trascorrendo la quarantena. Un gesto inaspettato e improvviso che ha sconvolto tutto il calcio francese: Bernard Gonzalez, il medico dello Stade Reims, è morto suicida all’età di 61 anni. Era risultato positivo al coronavirus e stava trascorrendo la quarantena obbligatoria nella sua abitazione. Proprio lì gli inquirenti avrebbero rinvenuto un biglietto con le motivazioni del suo gesto. Il quotidiano francese Le Parisien ha riferito che sarebbe proprio il contagio il vero motivo che ha spinto Bernard a togliersi la vita. A confermare quanto accaduto è stato anche il sindaco Arnaut Ribinet, che commenta i fatti con sgomento: “Il dottor Gonzalez era un grande professionista riconosciuto e apprezzato da tutti – ha ammesso il primo cittadino. In questo momento non posso fare altro che rivolgere un pensiero speciale a sua moglie e a tutta la sua famiglia. La sua morte potremmo definirla “collaterale” rispetto al Covid-19 perché era stato trovato positivo e si trovava in quarantena. So che ha lasciato un biglietto nel quale ha spiegato perché ha compiuto quel gesto ma non so di preciso cosa vi sia scritto”. “Siamo sconvolti per la notizia e per il dolore – si legge nella nota ufficiale del presidente della società, Jean-Pierre Caillot -. Lo Stade Reims piange il dottor Bernard Gonzalez. Quello del club, ma anche di centinaia di abitanti di Reims di tutte le età. Era qui da 23 anni, ha sempre lavorato con professionalità e passione.

·        Addio ad Ezio Vendrame, il George Best italiano.

Ezio Vendrame, addio al George Best italiano: dribbling, estro e anticonformismo, mito anni 70 del Vicenza.  Libero Quotidiano il 4 aprile 2020. Barba e capelli lunghi, dribbling, talento e anticonformismo: Ezio Vendrame, il George Best italiano, è morto a 72 ani a Conegliano Veneto. Giocatore-simbolo di Spal e Vicenza negli anni Settanta, nonché apprezzato scrittore una volta abbandonato il calcio, è stato ricordato sui social proprio dall'ex Lanerossi: "Considerava Vicenza la sua seconda casa e aveva sempre nel cuore i tifosi biancorossi che aveva conquistato e deliziato con le sue giocate, per tre stagioni in Serie A dal 1971 al 1974. Con la maglia biancorossa infatti registrò 46 presenze in campionato ed una rete siglata proprio in un derby contro l’Hellas Verona, nel quale fu mattatore perché oltre al gol, servì un assist e fu fermato solo dalla traversa che gli negò una storica doppietta", si legge. "Cresciuto nelle giovanili dell'Udinese, aveva militato tra le altre nel Napoli, nel Padova e nel Pordenone. La società LR Vicenza si unisce al dolore per la scomparsa di Ezio e desidera esprimere ai suoi cari le più sentite condoglianze", conclude il post. 

 Da areanapoli.it il 6 aprile 2020. Ezio Vendrame, ex calciatore del Napoli, si è spento stamane all'età di 72 anni. A tal proposito vogliamo ricordare un episodio molto particolare che riguarda l'ex calciatore azzurro, che nelle vesti di opinionista e critico al festival di Sanremo 2005, fece scoppiare una polemica criticando fortemente il cantautore napoletano Gigi D'Alessio. Alla conduzione della manifestazione canora all'epoca c'era il versatile e vulcanico showman Paolo Bonolis, che diede vita, assieme al calciatore ad uno show di grande livello. L'edizione di Repubblica del due marzo 2005, a tal proposito scrisse: "L'"opinionista" Ezio Vendrame, ex calciatore, ora poeta e scrittore, dice a Bonolis: "Mi ha commosso Tyson, chi invece ho trovato indegno è stato Gigi D'Alessio che ti ha leccato il fondoschiena". Si riferisce a un vistoso scambio di complimenti fra conduttore e cantante alla fine dell'esibizione di quest'ultimo. Dalla platea si leva il borbottìo dei sostenitori del cantante napoletano. Replica Bonolis: "Vendrame è una persona di grande purezza che non conosce un retroscena, cioè che io e Gigi siamo amici da anni. Quindi la conversazione avvenuta, durante la quale Gigi ha lodato la decisione di reintrodurre la gara, è semplicemente frutto della nostra amicizia - precisa il conduttore - e non c'è alcun altro significato. D'Alessio e Vendrame, per motivi diversi, sono due persone meravigliose".

Giancarlo Dotto per il Corriere dello Sport il 5 aprile 2020. Era fatto così Ezio Vendrame, detto il calciatore poeta, ma non è mai stato calciatore e non ha mai preteso d’essere un poeta. Lui si accontentava di lasciarsi stordire dai poeti. Farsi confondere. Fino a perdersi, che per lui era la stessa cosa di ritrovarsi. Amava gli amici, e li detestava. Ogni volta, al momento di salutarci, ci stritolava almeno cinque secondi, poi ci stampava in faccia due occhioni umidi di commozione, neri come l’inchiostro, e ci diceva ruvido: “Andatevene, non voglio più vedervi! Non sostengo lo strazio della separazione”. L’ha detto e lo ha fatto. Un giorno è sparito e buona notte a cantanti e suonatori. Come tutti quelli che spariscono, diventò una leggenda forse vivente. Con l’amico comune Marcello ci promettevamo ogni tanto di organizzare una spedizione tra Friuli e Veneto sulle sue tracce, alla caccia di Ezio. Lui, fiutato il pericolo, si è tolto di mezzo prima. A scanso di equivoci, lo ha fatto nei giorni in cui non dovrà nemmeno subire l’abbraccio equivoco di un funerale. Tempismo perfetto. Non aveva bisogno del virus, lui, per praticare la distanza sociale. Le memorie ci vengono addosso cornute, tutte insieme, come una mandria di bufali e fanno male. Non devi nemmeno metterle in ordine, devi solo lasciare che ti facciano male. E male sia. L’irrespirabile è che non partiremo mai più sulle tracce di Ezio, se non rassegnandosi a un viaggio da folli. Quel “mai più” è una mano di calce viva, una sentenza, è il suono delle budella che si ribellano mischiandosi al cuore.

I ricordi. Quando, la prima volta, ci eravamo appena trovati e subito mi porta al cimitero di Casarsa delle Delizie alla tomba di Pier Paolo Pasolini, sepolto accanto alla madre Susanna, all’ombra dello stesso alloro, la pianta dei poeti, l’orrore botanico che diventa amore, le radici che affondano e s’intrecciano, la tomba del figlio, quella della madre, la stessa tomba. Quella notte, a San Vito del Tagliamento, in una camera d’albergo, sdraiati sulla branda, scolando Cabernet e masticando carne di struzzo, a raccogliere pezzi scellerati delle nostre vite, lui che mi racconta del suo talento buttato al cesso, di Leo Ferré, di Gigi Meroni e di George Best, di canzoni al vento e di galline al guinzaglio. Dell’incontro che lo mise al tappeto con Piero Ciampi, la sua maledizione, il suo Graal. Aveva già allora l’occhio assai languido, sempre un po’ commosso, come quello di Pina, la sua cagna, che aveva la cirrosi senza aver mai bevuto un goccio di grappa. Occhio che diventava brace. “Mi sono sforzato di amarlo Pasolini, ho letto tutto di lui, ma non ci sono riuscito. Resta per me l’unico vivo in questa terra di anime morte che si è venduta al denaro”. Già allora, vent’anni fa, non sentiva più “l’esigenza del simile”. Mai avuto un cellulare, aveva cancellato anche la segreteria telefonica, l’ultimo ponte levatoio con il mondo esterno. Alle sette di sera era già disteso nel suo loculo (“l’unico posto al mondo in cui riesco a sentirmi felice”). Non dormiva. Vegliava, ricordava, scriveva e spargeva. Più un’emorragia che una creazione. Tutte le sere, ma proprio tutte le sere, faceva amicizia con l’idea d’impiccarsi. Giocava con una corda che non c’era. E tutte le sere finiva per leggere e scrivere versi (“Non ho ambizioni poetiche, scrivere mi è indispensabile a sopravvivere”). Il pomeriggio allenava i ragazzini della Sanvitese, il suo unico momento di socialità, quanto restava del suo rapporto con il calcio, la sera si chiudeva nella sua monocamera, quindici metri quadri soffocati dai libri a liberare versi che lo spedivano nella stratosfera. Non è mai più entrato in uno stadio. Non è mai più uscito da quella monocamera. Era ancora una figurina Panini, anni ’70, giocava nel Napoli di Vinicio, e Boniperti già lo aveva ribattezzato “il Kempes  italiano”, per via della chioma e del passo farabutto e indolente ma imperioso delle smisurate leve, quando gli partiva l’estro satanesco. Quando uno sconosciuto spacciatore di profumi di lusso, Marcello Micci, lo spinge nel burrone che lui aspettava da sempre. Il giorno in cui incrocia la sua ruvida e lirica impazienza con quella di Piero Ciampi, lo stramaledetto livornese che cantava Come è bello il vino. “La prima volta che mi vide, Piero, mi abbracciò forte, come nessuna donna aveva mai fatto. Smisi quel giorno di essere un calciatore. L’incontro con Piero Ciampi è stato la mia convocazione in Nazionale, ma anche il mio massacro. Massacro al quale, sia chiaro, ero votato”. Il giorno in cui diventò un ex calciatore senza esserlo mai stato. Poteva giocare a Los Angeles con Best o in Kuwait con Rivelino, ma accettò di allenare i ragazzi del Venezia (”Litigai con Zaccheroni, voleva impormi il figlio del magazziniere”) e poi quelli del San Vito. Due milioni di lire al mese, quanto bastava per pagare l’affitto, la sigaretta, la benzina. La palla non aveva misteri e spigoli per lui, ma Ezio non ha mai saputo che farsene del suo dono ai piedi, due stradivari. Un dispetto della natura. E, non potendo disfarsene, lo ha deriso e bestemmiato. Ha giocato da Dio e da clown. Come quel giorno, Padova-Cremonese. Si muore di noia. Era urgente morire di qualcos’altro. (“Con Mondonico, il capitano della Cremonese, avevamo concordato lo 0 a 0…Volevo regalare un’emozione alla mia gente tradita”). Ezio esce di senno, un cavallo pazzo, punta dritto la propria area, arriva a un metro dal portiere stupefatto, fa per tirare e, un attimo prima, sotterra il pallone sotto la suola, tutti i tifosi col fiato sospeso e uno che muore. D’infarto. A diciotto anni è già titolare nella Spal di Fabio Capello (“Un ottimo giocatore, ma mi fermo lì. Grazie a lui mi fu subito chiaro quello che non sarei mai voluto diventare”). Giovanissimo astro, disadattato totale. S’innamorò perso di Roberta, una malafemmina di mestiere (“Per tutti era una puttana, per me era la mia principessa. Accusai dolori e nausee al basso ventre. Riuscii a stare due mesi lontano dal calcio. Li passai tutti a letto con lei. Qualcuno fece la spia. Mi sbatterono nella Torres in serie C. Per aver amato una principessa, m’avevano fatto a pezzi”). Un provino da fenomeno e finisce nel Vicenza di Cinesinho e Sormani. “Passavo tutte le notti della vigilia a fare sesso e, il giorno dopo, andavo in campo, spompato ma generoso”. Per confondere i detrattori gli toccava giocare ogni tanto una partita da padreterno, su cui viveva di rendita per mesi. “Mi schifava fare qualcosa di scontato in campo, Mi piaceva stupire”. Come quella volta che stupì San Siro e vinse quasi da solo contro Mazzola, Facchetti e compagni. Lo vuole Invernizzi all’Inter, manca solo la firma, ma arriva la telefonata di Vinicio, “ti voglio al Napoli”. “Giocavo da fenomeno a Soccavo, i tifosi in delirio, ma Vinicio cominciò a odiarmi. Pretese la mia cessione”. Storie di donne, pare. Non importa. Ezio aveva altro da fare. Ascoltare Piero Ciampi e Leo Ferrè. Fenomeno era, malgrado lui, e decise allora di chiudere da fenomeno, dentro stadi che lui trasformava in baracconi e palloni che rotolavano senza senso. Quella volta di Blackpool, in Inghilterra. “Faccio il mago Silvan, nascondo la palla. Un inglese mi randella tutto il tempo. Provo una volta a entrare io duro. Lui si rialza, gli do la mano, lui rifiuta, io l’acchiappo, lo stringo a me e gli schiaffo la lingua in bocca”. Ricordi. Quella volta che ho amato Valentino Rossi. Quando nei camerini di “Controcampo”, aspettando di andare in onda, lui, sbocconcellando un’enorme pagnotta con la mortadella, mi chiede notizie del suo idolo, il mio amico Ezio Vendrame, lo stravagante semidio del pallone. “Quanto inutile cielo, sopra uno spalancato inferno”, scriveva Ezio che non aveva bisogno di cancri e di virus per avere nozione dell’inferno. Smise di allenare anche i ragazzi. Si era sforzato di parlargli, ma la sua parola non arrivava più. Diceva sempre che avrebbe voluto insegnare calcio a una squadra di orfani, ma poi capì che il problema non erano le famiglie e che i ragazzi di oggi sono orfani di tutto. Si mise a scrivere libri di successo, s’innamorò spesso, amori spesso deliranti e immaginari, come quello per la figlia meno celebre di Jane Birkin, una sua anima gemella nella morbosità del sentire, che non seppe mai d’essere stata così perdutamente amata. Ritrovò slanci, Ezio, per uscire ogni tanto dal suo loculo, ma senza mai uscirci veramente. Perché, nel suo ballo di coppia, il fantasma era sempre quello, un maglione nero e la carcassa etilica che ci sciacquava dentro. Piero Ciampi, quaranta chili scarsi, gli illuminati e biascicati sproloqui che lui ascoltava come un oracolo. Ezio lo adorava. Fino al giorno in cui si trovò a scrivere: “Farabutta vita/costretto a resisterti tra follie umane/ ed imperfetti amori, sotto squarci di nuvole/il sangue va oltre il sangue/ed incrostato di abusi/altro non so che infestarti di amaro le carni”. E i due, da allora, si presero per mano. Una cosa vi chiedo, a suo e a mio nome, astenetevi dal dire “povero Ezio”, che povero non è mai stato. Lo giuro sul mio onore. “Quello che più mi tedia non sta nel tempo che rimane, ma del non sapere che farmene”, ha scritto una delle sue tanti notti da solista spericolato e sfrontato.

LUIGI PANELLA per repubblica.it il 4 aprile 2020. Capelli lunghi, tecnica individuale notevole, scarsa attitudine per gli schemi, sia in campo che fuori. Avrebbe avuto le potenzialità per una carriera superiore a quella avuta, ma se avesse giocato con Juventus o Milan o Inter, Ezio Vendrame, morto oggi a 72 anni, probabilmente non sarebbe ricordato come genio, sregolatezza, irrequietezza del calcio italiano. Due sono gli accostamenti che ne sono stati fatti: il più gettonato, al limite dello scontato, è quello a George Best, il fuoriclasse nordirlandese tutto talento, bellezza, donne e alcolici. L'altro (più che altro per la capigliatura e la postura in campo) con l'argentino Mario Kempes. A lui in realtà piacevano tre calciatori su tutti. Della sua tarda adolescenza Gigi Meroni. Della sua epoca calcistica Gianfranco Zigoni, uno capace di andare in panchina con la pelliccia ed il cappello da cow boy in un Verona-Fiorentina perché Valcareggi non lo aveva fatto giocare. Più avanti Diego Armando Maradona. Tutta gente insomma che con le regole aveva poco a che spartire. Calciatore, poeta, scrittore, uomo insofferente alla forma. Un suo libro 'Se mi mandi in tribuna godo' è una frustata agli aspetti spesso ipocriti del mondo, del calcio e non solo. Un titolo che è tutto un programma, e che prende origine da una trasferta del Napoli a Cagliari. Mandato in tribuna dal tecnico dei partenopei Vinicio, che nel rivaleggiare con la Juventus nella corsa allo scudetto del 1975 non aveva tempo e forse voglia di inserirlo negli schemi, Vendrame ne approfittò per amoreggiare (le donne sono state una delle sue grandi passioni) nel bagno dello stadio con una ragazza conosciuta da poco...Già, perché per raccontare Vedrame più che le squadre in cui ha giocato (soprattutto Lanerossi Vicenza e Padova, con l'intermezzo fatto di 3 presenze a Napoli), è meglio citare frasi e aneddoti, sparsi qua e la come timbri durante interviste e partite. Quando era nel Padova, durante un incontro di fine stagione con la Cremonese, uno di quelli in cui il punto stava bene a tutti e si palleggiava stancamente senza fingere un accenno di agonismo, pensò bene di vivacizzare la situazione. Palla presa al limite dell'area avversaria, campo percorso al contrario puntando il proprio portiere, poi risparmiato solo all'ultimo istante quando il battito lento di qualche tifoso era già andato fuori giri. Sempre al Padova, durante una partita, lasciò il campo come se niente fosse per andare a salutare un suo grande amico, il poeta e cantautore Piero Ciampi, che aveva scorto in tribuna. E ancora, dopo aver accettato la promessa di una somma di denaro per infastidire l'Udinese, a cui servivano punti promozione, stizzito dai fischi dei friulani giunti in Veneto, giocò una delle sue più grandi partite portando la sua squadra alla vittoria. Nel rifugiarsi nella poesia, si ritirò in una frazione vicino al suo paese, Casarsa della Delizia, dove è sepolto Pier Paolo Pasolini ed il pubblico italiano dovette attendere il 2005 per ritrovarlo. Paolo Bonolis, che conduceva il Festival di Sanremo, lo chiamò in un ruolo che in campo gli era sconoscuito, quello del battitore libero.  Il palco come il campo, e Vendrame non si tirò indietro, con una entrata a gamba tesa su Gigi D'Alessio che alzò un vespaio di polemiche. Al calcio rimase legato allenando gli unici ai quali pensava di poter insegnare qualcosa, i giovani. Risultati niente male. "Ma sarebbe bello allenare una squadra di orfani", ebbe a dire. Non gli piacevano i genitori che si intromettevano, e probabilmente lui non piaceva ai genitori, specialmente a quelli perbenisti. Specialmente quando, tra le altre cose,, teorizzava l'accantonamento dei giochi elettronici per sostituirli, in attesa di qualcosa di meglio, con il sesso fai da te...

·        Morto Bill Withers, voce di "Ain't No Sunshine".

Morto Bill Withers, addio alla voce di "Ain't No Sunshine". L'artista, uno dei maestri della black music, aveva 81 anni ed era malato di cuore. La famiglia: "In questo momento difficile preghiamo affinché la sua musica offra conforto e svago ai fan che si stringono ai propri cari". Ernesto Assante il 3 aprile 2020 su La Repubblica. Ci sono canzoni che meritano un posto nel cuore, indimenticabili, perfette, sulle quali la polvere del tempo non si attacca e la ruggine non lascia segno. È a questa categoria che appartiene Ain’t no sushine, capolavoro firmato da Bill Withers, grandissimo autore e interprete afroamericano, scomparso oggi a causa di complicazioni cardiache, all’età di ottantun’anni. Ain’t No Sunshine è una delle canzoni più belle di tutti i tempi, un brano che potremmo genericamente inscrivere nell’ambito del soul ma che lo ha travalicato diventando un classico della musica di tutti i tempi, una canzone d’amore che parla dell’assenza, dell’abbandono, come poche altre canzoni sono riuscite a fare, raccontando una condizione spirituale e fisica che tutti, prima o poi, in un momento della nostra vita abbiamo attraversato. Bill Withers l’aveva inserita nel suo disco d’esordio, Just as I Am, pubblicato nel 1971, primo album al quale era arrivato dopo qualche anno di gavetta nell’area della musica californiana. La musica, però, non era stata la prima scelta della sua vita, era stato per nove anni nei Marines, e solo nel 1965, a ventisette anni, aveva abbandonato la divisa per cominciare a suonare. I primi demo, i primi concerti, non suscitano l’attenzione delle grandi etichette, fino a quando una canzone, Ain’t No Sunshine appunto, gli fa guadagnare un contratto con al Sussex Records che gli da la possibilità di registrare il suo primo album. Prodotto da Booker T Jones e con ospiti musicali del calibro di Stephen Stills, Just as I Am proietta immediatamente Whiters nell’Olimpo della musica nera, facendogli vincere un Grammy e portandolo a vendere oltre un milione di copie. Il successo di Whiters dura per tutto il decennio, l’artista americano produce in tutto sette album, dischi che hanno profondamente influenzato generazioni di autori e cantanti, in cui il perfetto equilibrio tra soul e pop, sostenuto da una vocalità profonda e personalissima, contribuisce a dar forza a melodie sempre cantabili e a testi che spaziano dai temi d’amore a quelli sociali. Oltre a Ain’t No Sunshine Whiters ha firmato molti altri capolavori che continuano ad essere suonati ogni giorno dalle radio di tutto il mondo e da artisti che le interpretano portandole avanti nel tempo, brani come Lovely Day, Lean on Me, Just the Two of Us, frutto di un’ispirazione limpidissima e di uno stile inconfondibile. La sua carriera è stata molto breve, Whiters ha pubblicato tutti i suoi lavori negli anni Settanta, producendo solo un altro album nel decennio successivo, Watching You Watching Me nel 1985, per poi ritirarsi dalle scene. Nove nomination ai Grammy, tre vittorie, milioni di album venduti, hanno fatto di Whiters una superstar, ma lui, dalla metà degli anni Ottanta, non contento di come l’industria discografica si stava orientando, aveva deciso di lasciar perdere l’attività discografica e i concerti e di tornare alla sua vita di 'regular guy' che aveva abbandonato all’inizio degli anni Settanta. Ma nonostante l’assenza dalle scene le sue canzoni hanno continuato senza sosta ad essere parte della nostra vita, reinterpretate da decine di artisti, campionate in brani contemporanei, riproposte al cinema e in televisione. Una carriera che è insomma continuata in sua assenza e che era stata celebrata una decina di anni fa, al South by Southwest di Austin, dove era stato presentato un bellissimo documentario Still Bill. Ad annunciare la sua morte è stata la famiglia, con un breve messaggio: “Siamo distrutti dalla perdita del nostro amato e devoto marito e padre. Un uomo solitario con un cuore spinto a connettersi con tutto il mondo, con la sua poesia e la sua musica ha parlato con sincerità alle persone e le ha unite tra loro”.

·        È morto Sergio Rossi: ucciso dal Coronavirus il maestro della calzatura.

È morto Sergio Rossi: ucciso dal Coronavirus il maestro della calzatura.  Aveva contratto il coronavirus ed è morto all’età di 84 anni Sergio Rossi, imprenditore fondatore del brand omonimo. la Repubblica il 03 Aprile 2020. Sergio Rossi, patron del marchio omonimo di scarpe, si è spento all’età di 84 anni all’Ospedale Bufalino di Cesena, dove era ricoverato in terapia intensiva dopo aver contratto il Covid-19 nei giorni scorsi. Se ne va così uno dei maestri del panorama calzaturiero italiano, capace di creare dal nulla un’azienda che si è imposta all’attenzione del mondo della moda internazionale grazie a scarpe eleganti, raffinate e amate dalle star di tutto il mondo. Nasce nel 1935 a San Mauro Pascoli, un paesino della Romagna dove impara il mestiere come si faceva una volta, a bottega dal padre, e a soli 14 anni è già un abile calzolaio. La sua è una storia di imprenditoria familiare, di maestria e di visione artigiana capace di portare il fascino e la qualità del Made in Italy in giro per il mondo partendo dalla voglia di fare di due ragazzini, Sergio e il fratello Franco, che in inverno fabbricano le scarpe da vendere in Riviera durante la stagione estiva. Sono gli anni Cinquanta e la costa romagnola vive da protagonista la rinascita febbrile dell’Italia del dopoguerra: il talento di Sergio Rossi non passa inosservato e nel 1968 arriva la prima collezione ufficiale del suo brand che richiama l’attenzione di star e donne comuni. Le sue scarpe fanno innamorare le donne degli anni ’60 per i motivi geometrici e l’uso dei colori diventando ben presto un simbolo di qualità e design femminile. Non passa molto tempo perché il mondo della moda di lusso bussi alla porta di Sergio Rossi: tante le collaborazioni importanti tra cui quella con un giovanissimo Gianni Versace, ma anche Dolce&Gabbana e Azadine Alaïa. Nel 1999 il marchio viene acquistato dal Gruppo Gucci, poi comprato a sua volta da Kering, ma nel 2015 torna nelle mani italiane del fondo Investindustrial di Andrea Bonomi. Nel corso degli anni le scarpe di Sergio Rossi diventano una presenza fissa sui red carpet, indossate da star come Naomi Campbell, Sarah Jessica Parker, Eva Herzigova, Lady Gaga, Rihanna e Sharon Stone a testimonianza di una maestria nel design delle calzature riconosciuta unanimemente. E questo saper fare Sergio Rossi ha cercato anche di trasmetterlo attraverso la scuola Cercal fondata insieme ad alcuni compagni e concittadini di San Mauro Pascoli. "C’è chi ha avuto la fortuna di trasformare la propria arte in un lavoro e chi lo straordinario talento di trasformare il proprio lavoro in un’opera d’arte. Sergio Rossi è stato questo uomo. Un marito, padre, nonno, e capostipite di una famiglia che ha seguito il suo esempio", si legge nel ricordo che ha diffuso la famiglia. Addio Sergio Rossi.

·        Coronavirus, morto Mario Bresciani, capitano d’industria delle calze.

Coronavirus, morto Mario Bresciani, capitano d’industria delle calze. Pubblicato venerdì, 20 marzo 2020 su Corriere.it da Maria Teresa Veneziani. Stroncato dal Covid 19, si è spento Mario Bresciani, fondatore del calzificio diventato un fiore all’occhiello del Made in Italy che ha sede a Spirano, pochi chilometri da Bergamo. L’imprenditore è morto il 18 marzo all’ospedale di Zingonia dove era stato ricoverato una settimana fa. A dare l’annuncio della scomparsa sono i figli Massimiliano e Fabio con la mamma Graziella: «Avevano appena festeggiato i 50 anni di matrimonio e lo abbiamo seppellito il giorno della festa del papà», racconta Massimiliano che con il fratello porta avanti l’azienda riconosciuta a livello internazionale per i suoi prodotti d’eccellenza. E spiega che il padre non aveva alcuna patologia pregressa. «Stava bene, ci siamo visti il 28 febbraio. Tutto è cominciato con un’influenza che non passava, fino a quando una mattina mi ha chiamato mia madre perché non si svegliava. Poi il ricovero in ospedale con 40 di febbre… E la cosa triste è che non possiamo neppure abbracciare la mamma, che deve affrontare tutto questo momento in quarantena». Orfano di padre, a soli 12 anni con due fratelli minori, Mario Bresciani s’ingegnò con diversi lavori per mantenere la famiglia, fino all’impiego al calzificio Bloch di Spirano. Nel 1970 fondò a Castiglione delle Stiviere l’omonimo calzificio che nel 2000 trasferì nella sede di Spirano in nome di una nuova avanguardia tecnologica. «Mio padre ha portato l’azienda ad esportare in 42 Paesi nel mondo e nelle migliori boutique», ricordano i figli Massimiliano e Fabio. Cavaliere e Stella al merito del Lavoro, Bresciani con il suo calzificio è stato un grande ambasciatore del Made in Italy, tenendo sempre alta la bandiera della qualità fatta di capacità tecnica e scelta di filati pregiati, dal cotone dell’Egitto al cashmere dell’Himalaya. Hermès nel 2005 gli inviò un attestato di ringraziamento per l’eccellenza delle sue calze. Mario Bresciani ha creato un piccolo «museo della calza» con calze e tirelle colori dagli anni’50 ad oggi, per mostrare l’evoluzione del prodotto nel corso degli anni. Un modo per condividere con tutti la propria passione per l’artigianato italiano. 

·        Turchia, morta Helin Bolek: attivista e cantante.

Turchia, morta Helin Bolek: attivista e cantante in sciopero della fame da 228 giorni. "Avete ucciso una donna di 28 anni", ha detto Ibrahim Gorcek, anche lui nella band e che sta continuando lo sciopero della fame. Le sue parole affidate a un video diffuso sui social dove appare magrissimo. La Repubblica il 3 aprile 2020. Dopo 288 di sciopero della fame iniziato per denunciare la persecuzione politica in Turchia e il veto posto dal governo sui concerti del gruppo musicale, 'Grup Yorum', l'attivista e cantante turca Helin Bolek è morta. "Avete ucciso una donna di 28 anni", ha detto Ibrahim Gokcek, chitarrista della band e che sta continuando lo sciopero della fame. Le sue parole affidate a un video diffuso sui social dove appare magrissimo. Accusati di appartenere a un'organizzazione terroristica, il gruppo (25 album, oltre due milioni di copie vendute) non si esibiva da anni. Dal carcere chiedevano di essere liberati, che i loro nomi fossero cancellati dalla lista dei ricercati del Ministero degli Interni turco, che venissero chiuse le cause intentate contro di loro. L'annuncio della morte della cantante è stato dato sul profilo Twitter della band. "Non erano richieste molto difficili da soddisfare. Il fascismo del partito Akp ha causato la sua morte", ha scritto la band su Twitter citando in causa il partito del presidente Recep Tayyip Erdogan. Fondato nel 1985 da 4 studenti dell'università di Marmara, Grup Yorum aveva sempre garantito il proprio sostegno e la sua presenza sia alle lotte della popolazione turca che a quelle internazionali per la giustizia e la libertà, coniugando la vena di protesta con le melodie tradizionali. Le canzoni venivanoo eseguite sia in turco che in curdo, in arabo e in circasso, sostanzialmente in tutte le lingue parlate in Anatolia. Sono stati imprigionati per il loro impegno a favore della democrazia e della libertà di stampa. L'11 marzo sia Bolek che Gokcek erano stati portati in ospedale contro la propria volontà. L'avvocato Didem Ünsal aveva affermato che entrambi non avevano accettato alcun intervento medico. Nel 2015 il concerti annuale del gruppo "Turchia indipendente", era stato vietato. La band era riuscita a tenere un concerto via internet il 1° luglio 2018. Poi erano cominciati i raid. ll centro culturale Idil di Okmeydani, a Istanbul, dove la band si esibiva, è stato preso di mira da parte della polizia "per otto volte negli ultimi due anni", denunciava da tempo la band . Spiegando che durante le incursioni, gli strumenti di tutti membri di "Grup Yorum" erano stati distrutti o requisiti e le partiture, i loro libri di musica danneggiati. Secondo la dichiarazione resa dal gruppo, in queste incursioni (ottobre e novembre 2016, in maggio e settembre 2017 e in ottobre e novembre 2018) sono state arrestate in totale 30 persone. Il 14 luglio 2018, Selma Altin e Inan Altin, erano fuggiti di prigione decidendo di proseguire la loro lotta in esilio, in Francia. Agli inizi di marzo sei membri della band agli inizi di marzo erano ancora detenuti. La band Grup Yorum aveva iniziato lo sciopero della fame nel 2019 per opporsi ai provvedimenti sempre più restrittivi, anche in campo culturale, del governo Erdogan. Come molti attivisti vicini alla piattaforma comunista si sono ritrovati nel quartiere di Armutlu, sulle alture di Istanbul. Qui ci sono le cosiddette "case della morte", che ospitano gli attivisti e in particolare le donne che intendono attuare lo sciopero della fame fino a morire. Alcune settimane fa, squadre di polizia hanno fatto irruzione ad Armutlu portando via Helin e il chitarrista mettendoli in un ospedale dove i degenti vengono nutriti a forza. E questa una misura spesso applicata anche nelle carceri turche. Ma Helin era ormai allo stremo delle forze, e non ce l'ha fatta. Diverse organizzazioni - Istanbul Medical Doctors, Artists Assembly e Artists Initiative - avevano già lanciato l'allarme lo scorso 20 gennaio, per attirare l'attenzione sullo sciopero della fame che i membri della band avevano cominciato il 16 maggio 2019. Altri due componenti del gruppo, Bahar Kurt e Baris Yüksel, l'avevano terminato dopo 190 giorni. Bahar ed Helin erano stati scarcerati alla fine del 2019 ma Helin aveva continuato anche una volta fuori. Accusato di terrorismo Gokcek era stato incarcerato sulla base di dichiarazioni di un "testimone segreto", rischia una condanna all'ergastolo. 

·        Addio Gerald Freedman, regista del primo Hair a Broadway.

Addio Gerald Freedman, regista del primo Hair a Broadway. Aveva 92 anni. È stato uno dei protagonisti assoluti della scena teatrale a New York. La Repubblica il 03 aprile 2020. Il regista teatrale americano Gerald Freedman, uno dei protagonisti assoluti della storia di Broadway e Off-Broadway, è morto nella sua casa di Winston-Salem, nella Carolina del Nord, all'età di 92 anni, per un'insufficienza renale. L'annuncio della scomparsa, che risale al 17 marzo scorso, è stato dato a funerali avvenuti dal New York Times. Nella straordinaria carriera di Freedman c'è anche il ruolo da regista della prima produzione del musical rock Hair (1967). Nato a Lorain, nello Ohio, il 25 giugno 1927, figlio di immigrati ebrei russi, Freedman cominciò a lavorare a Broadway come aiuto regista di Jerome Robbins per la prima dei musical West Side Story (1957) e poi per il debutto di Gypsy (1959). Nel 1961 fece il suo debutto a Broadway in veste di regista con il musical The Gay Life. Freedman è considerato il regista che ha dato grande notorietà all'Off Broadway grazie alla prima messa in scena di Hair e nuovamente con The Robber Bridegroom (1975). Nel 1979 tornò a Broadway per dirigere il premio Oscar Joel Grey nel musical di Jerry Herman The Grand Tour, mentre nel 1995 lavorò per l'ultima volta a Broadway come regista della commedia The School for Scandal di Richard Brinsley Sheridan. E' stato, inoltre, il primo regista americano a dirigere un'opera teatrale al rifondato Globe Theatre di Londra ed ha diretto numerose opere liriche per la New York City Opera e il Kennedy Center di Washington. E' stato direttore artistico del Delacorte Theatre dal 1960 al 1971 e del Great Lakes Theater Festival di Cleveland tra il 1985 e il 1997 e co-direttore artistico della compagnia teatrale di John Houseman 'The Acting Company' (1974-1977).

·        Addio a Bill Withers, rappresentante della black music.

Addio a Bill Withers, rappresentante della black music. Si spegne all'età di 81 Bill Withers, uno dei cantanti più celebri della musica nera. Lo annunciano i parenti in una nota alla stampa. Carlo Lanna, Venerdì 03/04/2020 su Il Giornale. Oggi la musica piange uno dei suoi artisti più amati e uno dei rappresentati più famosi della musica black. Bill Withers, cantante e autore negli anni '70 di numerosi successi tra cui "Lean On Me", "LovelyDay" e "Ain't No Sunshine", è morto qualche giorno fa per complicazioni cardiache. Lo ha riferito la famiglia ad Associated Press. Bill Withers, 81 anni e tre volte vincitore del Grammy Award, è mancato lunedì a Los Angeles, in California. La notizia della sua morte arriva in un momento in cui il pubblico ha tratto ispirazione dalla sua musica, durante la pandemia da coronavirus, con operatori sanitari, cori, artisti che pubblicano le loro interpretazioni di "Lean on Me" per aiutare a superare i momenti difficili. Devastante è la nota che la famiglia ha inviato alla stampa. "Siamo sconvolti per la perdita del nostro amato e devoto marito e padre. Un uomo solitario con un cuore spinto alla connessione con il mondo nella sua più ampia forma, con la sua poesia e la sua musica ha parlato onestamente alle persone – si legge nel comunicato- .Una vita vissuta nel privato, intimamente vicino alla propria famiglia, la sua musica appartiene per sempre al mondo. In questo momento difficile preghiamo affinché la sua musica offra conforto e svago ai fan che si stringono ai propri cari". I parenti di Bill Withers, la moglie Marcia Johnson e i loro due figli, Todd e Kori, salutano così l'artista che ha lasciato un’impronta nel mondo della musica di ieri, di oggi e del domani. Nato il 4 luglio del 1938, Bill Withlers è il sesto figlio di una numerosa famiglia. Fin da ragazzino è stato un grande appassionato di musica ma solo al compimento dei diciotto anno decide di inseguire il suo sogno più grande. Lascia i marines per trasferirsi a Los Angeles e comincia a suonare nei club. Solo negli anni ’70 ottiene il successo quando pubblica il suo primo album a cui ha collaborato anche il chitarrista Stephen Stills. Da quel momento in poi raccoglie un successo dopo l’altro, tanto da raggiungere le vette di tutte le classifiche e vincendo anche diversi riconoscimenti, tanto da essere eletto il "re" della musica black. Il suo ultimo brano è del 2016. Non ha avuto una vita sentimentale molto tormentata. Si è spostato due volte ma è con Marcia Johnson trova il vero amore.

·        Morto Piero Gratton, papà del Lupetto della Roma.

Da gazzetta.it il 4 aprile 2020. "Oggi è un giorno triste per tutti i romanisti. Ci ha lasciato Piero Gratton, papà del Lupetto e autore di pagine di storia legate alla nostra identità. Piero avrà sempre un posto speciale nel cuore di tutti noi". Così la Roma ricorda sui social l'ideatore di uno dei suoi loghi più riusciti, scomparso a 80 anni. Il Lupetto disegnato da Gratton nel 1976 si è dimostrato più forte del tempo ed è stato riproposto anche nelle maglie più recenti del club giallorosso, come nel pattern dell'attuale terza maglia, quella blu. Nato a Milano nel 1939, dopo aver studiato presso il liceo artistico di via di Ripetta a Roma, Gratton è stato per 25 anni responsabile del gruppo di grafica dei servizi giornalistici del Tg2.Oltre al Lupetto, Gratton è stato anche il padre dell’Aquila stilizzata della Lazio, utilizzata dai biancocelesti tra il 1979 e il 1982, e del Galletto del Bari, sulle maglie dei biancorossi fino al 2014. Tra i suoi lavori, anche il logo di Euro ’80 e quello della Uefa, disegnato nel 1983. Prima di Gratton, nel corso della giornata, un altro lutto aveva colpito la famiglia romanista: Marco Scisciola, tecnico da dieci anni al servizio del settore giovanile, stroncato da un malore a 59 anni. "Ai familiari va il nostro più caloroso abbraccio", il ricordo del club giallorosso.

Tonino Cagnucci per ilromanista.eu il 4 aprile 2020. Ti sei inventato la cosa che ho cercato di imitare di più. Quel lupetto io, come ognuno che ha avuto la grazia di essere ragazzino con quella Roma lì, è la cosa che più ho disegnato su un foglio insieme all'UR col fulmine. Ho tratteggiato più il tuo lupetto e quei simboli che il nome della prima ragazza, le case con le montagne dietro, il sole giallo sul cielo blu, forse solo quello di Roma o mamma ho detto e scritto di più. Hai disegnato un marchio sapendo tratteggiare un'identità. Hai dato contorni a un sogno. È diventata l'icona di un'epoca e la storia ti ha giustamente reso onore facendo sì che la Roma più bella, bella, bella di sempre ha legato il suo nome, e il suo petto, a una tua idea, a un tuo schizzo, a un tuo disegno, a un tuo concetto, al nostro cuore. Io ti voglio bene Piero e non solo per il lupetto. Forse sarebbe troppo fosse "solo", perché hai regalato un simbolo alla mia infanzia e mi hai permesso di sublimare le nevrosi su un foglio cercando di disegnarlo in ogni circostanza, dalla sala d'aspetto, al pomeriggio annoiato in una stanza, o come un ragazzino impegnato stile ricerca per le elementari nel tentativo di riuscire a fare quelle curve spigolose o a gomito prima di inciderci come un taglio l'occhio. Anche quello non veniva perfetto come lo avevi fatto una volta per tutte tu. Ce lo siamo messi sul collo, sulle catenine, sul braccialetto. Lo abbiamo fatto d'oro o tarocco. Regalato ai bambini, raccontato - oramai - ai nipotini. Ora è tornato di moda, perché non è mai stato una cosa alla moda. Ora si chiama vintage quello che per te è stata un'intuizione, una visione di una Roma futura, quasi spaziale con quella maglia Pouchain a ghiacciolo e una squadra che – entrando negli Anni 80 - stava entrando anche nella leggenda. Nel cuore e sul cuore di una città. Sei il tatuaggio del sentimento che aveva quel popolo e quel tempo. Lo zaino e tutto quello che ci mettevo dentro. Quello che non mi sono mai perso. Io ti voglio bene perché ti ho conosciuto. E lo so che quando muore qualcuno spesso si dice «era speciale o buono», e lo so che ancora di più che si scrive «quando muore qualcuno tutti dicono che era buono» ma te eri così. Chissenefrega delle mistificazioni degli altri, vero Pie', la vita è così: sono tanti i mediocri che si prendono meriti che manco sanno come si sudano, come si sognano. Tu eri speciale e buono. Elegante. Armonioso. La capacità di disegnare ce l'avevi per come ti muovevi nella vita, per la morbidezza e la gentilezza con cui "ospitavi" gli altri. Eri umile. Tu! Tu che agli occhi miei altro che Michelangelo, altro che il taglio di Fontana, altro che il Giudizio Universale, altro quello che vi pare, tu sei quello che ha disegnato il lupetto mio! Mi vergogno a dire come mi chiamavi, ma è una delle cose che più mi hanno aiutato a star bene. Tu eri un campione della discrezione, non posso andare troppo oltre. Potevi tirartela, ma hai sempre mantenuto la linea giusta, la misura umana perfetta, che è quella che conosce anche macchia ma la sa trasformare in arte. Quando "Il Romanista" smise le pubblicazioni nel 2014 un amico comune mi chiamò per un progetto e per parlarne con te; non trovammo l'editore, ma trovammo molto di più: un'amicizia. Si chiamava "ASR magazine", era ovviamente un periodico, carta ovviamente, qualcosa che mi permetteva di continuare a scrivere della Roma come volevo, che era anche come volevi te. Un onore. La grafica era tutta tua. Sarebbe piaciuto a tutti perché si capiscono prima le cose che funzionano veramente. Mi tengo a casa il numero 0 e altro che nostalgia di cose non ancora accadute: sono capitate ma lo sanno in pochi...Con la tua collaborazione sei stata la prima persona che mi permetteva di continuare a scrivere, ma non era nemmeno per quello che t'ho voluto subito tanto bene, nemmeno per il pregiudizio positivo visto quello che rappresentavi ai miei occhi. Era perché mi hai dimostrato che si può diventare grandi senza diventare cattivi o semplicemente senza dimenticare il cuore. Per me grande vuol dire chi sa sorridere pur avendo attraversato l'abisso. Forse il vero sorriso nasce per questo. Insieme ai tuoi racconti, quelli dell'amicizia con Piero Angela con cui hai girato il mondo, quella con Artemio Franchi e come passasti la notte in cui è morto mentre andava al Palio di Siena, tutti quei materiali, gli strumenti soprattutto, le cose rare e preziose come te che portavi dai viaggi come per continuarli anche a casa tua. Quella sulla Giustiniana che mi emozionava perché aveva la Pouchain davanti e dove abbiamo gufato insieme una volta la Lazio (lì scopristi il lato peggiore - o migliore? - di me), poi a Trevignano e l'impressione quando venivo a trovarti di andare in un posto sempre speciale e confortevole. Altro. Eri un balsamo. Il tuo spazio era come te. Ci sono persone che danno anima ai luoghi che vivono, è più così che viceversa secondo me, soprattutto se quelle persone creano mondi. Tu hai fatto questo. Ogni volta a casa tua ti chiedevo di farmi vedere come era nato quel lupetto, il bozzetto, il rapporto con Anzalone e Viola. Ogni volta me lo raccontavi. Io non mi stancherò mai di quella Roma. Io non smetterò mai di disegnare quel simbolo. Quando è morto Anzalone mi chiamasti per la prima pagina con il lupetto che piangeva. Oggi quella prima pagina non posso non metterla, non solo perché quel lupetto è tutto tuo, ma perché so che ti piace, che non sbaglio e non voglio sbagliare a scrivere di te. Ciao Pie', mi sento molto più solo anche se tu eri come la tua creazione: inimitabile. Oh, è da quando c'ho 6 anni che ci provo a disegnarlo, non ci sono mai riuscito nemmeno una volta a farlo. Tutt'al più mi sono avvicinato alla perfezione. Quando t'ho conosciuto. Il prossimo anno la Roma sulla seconda maglia c'avrà il tuo lupetto senza cerchio libero come non solo sei tu adesso - chissà dove - ma come sei riuscito a esserlo in questa terra. Ed è un miracolo Pie'. Maestro, amico, persona che vorrei essere. Grande, perché ancora più buono.

·        Morto Gaetano Rebecchini, fu tra i fondatori di Alleanza nazionale.

Da ilsecoloditalia.it il 2 aprile 2020. Gaetano Rebecchini, scomparso oggi all’età di 95 anni, fu tra i fondatori, nel 1994, di Alleanza nazionale. Lo ricordò lui stesso su questo giornale: Alleanza nazionale fu fondata all’hotel Ergife il 23 aprile 1993 da un gruppo di esponenti della società civile tra cui Gustavo Selva, Domenico Fisichella, Pietro Armani e lo stesso Rebecchini, anche se ufficialmente nacque nel gennaio del 1994, sempre a Roma. Rebecchini apparteneva a una importante famiglia romana di politici e ingegneri. Il padre infatti era Salvatore, sindaco democristiano di Roma dal 1947 al 1956, con i voti determinanti dei consiglieri comunali del Msi.

Rebecchini fu ingegnere, politico, ma soprattutto cattolico. Il fratello più piccolo, Francesco, è stato sottosegretario e senatore della Dc dal 1972 al 1988, e l’altro fratello, era editore televisivo nonché presidente della Federazione radio televisioni. Gaetano si laureò in ingegneria a Roma e si occupò dello studio di ingeneria della famiglia. Nel 1976 poi insieme con il fratello Filippo fondò l’emittente televisiva Tele Roma Europa, poi divenuta Super3. Cattolico osservante, dal 1991 al 2011 fu membro della Sacra Consulta e consigliere di Stato della Città del Vaticano.

Presiedeva la Consulta per i problemi etico-religiosi. Come detto, a Fiuggi nel 1995 entrò a far parte del nuovo partito, facendo inserire nelle tesi congressuali il paragrafo scritto da lui: ““Ci sentiamo eredi e siamo cultori della civiltà romana e di quella cristiana che ha il suo fondamento nel messaggio portato da Pietro a Roma e diffuso in Occidente e nel mondo intero”. In quello stesso anno gli fu affidato l’incarico di presidente della Consulta di Alleanza nazionale per i problemi etico-religiosi. Rifiutò la candidatura al Senato per occuparsi della Consulta.

Disaccordi sulla questione della procreazione assistita. Ma nel 2005 ne uscì, in quanto non condivideva la posizione del presidente di An Gianfranco Fini sul referendum abrogativo sulla procreazione assistita. Successivamente, nel 2010, rifiutò di aderire alla nuova formazione di Fini Futuro e Libertà, accusandolo di “deriva relativista”, e in seguito a questo si dimise anche dalla Fondazione FareFuturo. perché “laboratorio dottrinale della nuova formazione politica ideata da Fini”.

Rebecchini e i “valori non negoziabili”. Al 2013 risale una delle sue ultime interviste, come presidente del Centro di orientamento politico di Roma, alla rivista culturale Tradizione, sul problema molto sentito da Rebecchini dei “valori non negoziabili”. Una vita e un impegno politico, quelli di Gaetano, certamente improntati alla coerenza e all’intransigenza rigorosa su alcune questioni. Alla famiglia vadano le condoglianze più sentite della redazione della direzione del Secolo d’Italia.

Il dolore del senatore Gasparri.  “È giunto al cospetto del Signore Gaetano Rebecchini, mancato a Roma all’età di 95 anni. Gaetano Rebecchini ha meriti enormi nel campo dell’impegno sociale, imprenditoriale, culturale e politico. Lui e la sua famiglia hanno dato e danno un contributo essenziale alla vita della Capitale e non solo. A Gaetano Rebecchini la destra politica deve imperitura riconoscenza”. Lo dichiara il senatore di Forza Italia, Maurizio Gasparri. “All’inizio degli anni Novanta – ricorda – è stato protagonista del processo di crescita e maturazione della destra italiana, contribuendo in modo determinante al suo accreditamento nella realtà istituzionale, imprenditoriale e religiosa. Senza Gaetano Rebecchini il miracolo di Alleanza Nazionale non sarebbe stato possibile. E non volle mai né candidarsi alle elezioni né assumere ruoli di governo, che avrebbe ben meritato per le sue indiscutibili qualità”. “Generosità e disinteresse personale, grande spessore umano e morale, capacità di iniziativa in ogni campo, fanno di Gaetano Rebecchini un modello indimenticabile. La destra a lui deve moltissimo ed è doveroso ricordarlo in questo momento in cui Gaetano lascia la terra ma non lascia i nostri cuori e le nostre menti”, conclude il senatore azzurro.

Barbara Palombelli su Facebook: Avevo un bellissimo rapporto con Gaetano Rebecchini, figlio del sindaco e cugino lontano di mia madre Manuela. Durante la durissima campagna elettorale per il Campidoglio, una parte della mia famiglia da parte di mamma era più o meno schierata con la destra (anche se Gianfranco Fini fu corretto e perbene, memore di una amicizia antica con lui e Daniela, a differenza di altri suoi colleghi di partito), con i Rebecchini restammo sempre in contatto. Dopo, ricordo grandi abbracci e grandi allegrie ... e il dolore per la perdita della bellissima Turchese, di cui scrissi sul Corriere con grande emozione. A Roma, la politica, gli affetti e le famiglie si intrecciano in modi inestricabili e direi incomprensibili per chi non è abituato ai nostri riti. Il virus ha portato via un grande protagonista della vita cittadina. Un abbraccio forte a Marilù, ai ragazzi e alla squadra di nipotini... a distanza, senza il calore di un funerale, vi sono vicinissima. 

·        Morto Ellis Marsalis, un gigante del jazz.

Da ilmessaggero.it il 2 aprile 2020. La musica jazz perde un gigante. Ellis Marsalis, considerato una leggenda della scena musicale di New Orleans, tra i principali pianisti di modern jazz e patriarca di una famiglia di sei talenti, è morto per le complicazioni del coronavirus. Aveva 85 anni. L'annuncio della scomparsa è stato dato da un portavoce dell' Ellis Marsalis Center for Music. « Ellis Marsalis era una leggenda, un'icona, il simbolo di quello che intendiamo quando parliamo del jazz di New Orleans», ha detto il sindaco di New Orleans, LaToya Cantrell. Ellis Marsalis si affermò più di 50 anni con il suo primo lavoro, «The Groovy Boys» e da allora ha avuto una grande influenza nella musica jazz. Ha suonato con i più noti jazzisti modern, tra cui Cannonball Adderley, Nat Adderley e Al Hirt, diventando uno dei pianisti jazz più stimati nell'ambito del modern jazz. Ha inciso una ventina di dischi e ha collaborato a album di altri grandi jazzisti come David Newman, Eddie Harris, Marcus Roberts e Courtney Pine. Come pianista si è dedicato anche all'insegnamento. Ellis era il padre di una famiglia di musicisti, tra cui spiccano il figlio Wynton Marsalis (1961), trombettista enfant prodige e diventato un filologo della musica afroamericana, emblema del riflusso delle avanguardie jazzistiche verso un mainstream riproposto tra virtuosismo e divismo, e il figlio Brandford (1960), un eccelso sassofonista jazz.  

·        Morto Goyo Benito: stella del Real Madrid negli anni ’70.    

Coronavirus, morto Goyo Benito: stella del Real Madrid negli anni ’70.  Jacopo Bongini il 02/04/2020 su Notizie.it. È morto il giocatore del Real Madrid Goyo Benito, scomparso all'età di 73 anni dopo aver contratto il coronavirus. Con i blancos vinse sei campionati. La pandemia di cornavirus si porta via un altro talento sportivo: è morto infatti il campione del Real Madrid Goyo Benito, che con i blancos aveva vinto ben sei campionati spagnoli e cinque Coppe del Re militandovi dal 1968 al 1983 per 420 partite. Goyo Benito, il cui vero nome era Gregorio Benito, da alcuni anni combatteva contro il morbo di Alzheimer e il coronavirus non ha fatto altro che minare ulteriormente la sua salute già fortemente compromessa. Nato nel 1946, ad esclusione di una breve parentesi di due anni nel Rayo Vallecano Goyo Benito trascorse tutta la sua carriera sportiva nel Real Madrid, dove arrivò la prima volta nel 1965 per poi tornarvi in pianta stabile nel 1968. Con la maglia dei blancos Benito trascorse come difensore tredici stagioni, vincendo sei campionati spagnoli e cinque Coppe del Re e facendo parte della formazione che perse la finale di Coppa dei Campioni del 1981 per uno a zero contro il Liverpool. Tra i primi a esprimere le sue condoglianze per la morte di Goyo Benito c’è stato l’ex portiere del Real (ora in forza al Porto) Iker Casillas, che ha commentato: “Abbiamo avuto una notizia triste a livello nazionale e globale. Oggi noi abbiamo perso una persona incredibile, un madridista di cuore e di razza. Riposa in pace Goyo Benito”. A poche ore dalla sua scomparsa, l’account ufficiale del Real Madrid ha voluto commemorare la figura di Benito, dedicandogli un post in memoria dei suoi anni trascorsi tra le fila dei blancos: “Goyo Benito è sempre stato un esempio dei valori fondanti del nostro club. Ha indossato la maglia del Real Madrid per tredici stagioni. Durante tutto questo tempo, fin dalla sua formazione nelle giovanili del Real Madrid, ha conquistato 6 Liga e 5 Coppe di Spagna”. Quello di Benito è il secondo grave lutto che ha colpito il Real Madrid a seguito dell’epidemia do coronavirus, dopo la morte dell’ex presidente Lorenzo Sanz avvenuta lo scorso 21 marzo.

·        Morto Andrew Jack della saga di Star Wars.

Maurizio Crosetti per “la Repubblica” il 2 aprile 2020. Andrew Jack, di anni 76. Gli appassionati della saga di Star Wars lo ricorderanno nel ruolo del maggiore Calman Ematt, capelli lunghi e bianchi sulla galassia più lontana: un membro della Resistenza. Attore britannico, Andrew è morto al St. Peter' s Hospital di Chertsey, nel Surrey, mentre la moglie Gabrielle sposata un anno fa si trovava in quarantena in Australia. Andrew era anche un maestro di dizione per molte star di Hollywood tra cui Pierce Brosnan, Bill Murray, Cate Blanchett e Viggo Mortensen: curò, tra l' altro, anche la supervisione dei dialoghi nei vari dialetti del Signore degli anelli. Era un maestro schivo e viveva in una delle più antiche case galleggianti sul Tamigi.

·        Coronavirus, addio al musicista Adam Schlesinger, celebre leader dei Fourtains of Wayne.

Coronavirus, addio al musicista Adam Schlesinger, celebre leader dei Fourtains of Wayne. A causa del coronavirus, all'età di 52 anni, si spegne Adam Schlesinger, cantante e fondatore dei Fountains Of Wayne, band di grande successo in America e in Italia. Carlo Lanna, Giovedì 02/04/2020 su Il Giornale. Come riportano le agenzie stampa, il musicista statunitense Adam Schlesinger, fondatore e voce dei Fountains Of Wayne, è morto ieri sera, mercoledì primo aprile, in un ospedale di New York per le complicazioni del coronavirus dopo alcuni giorni di ricovero. Aveva 52 anni. Il cantautore era anche bassista e compositore. Oltre che essere il leader della band nata nel 1995, era noto anche per il suo lavoro come autore di canzoni e colonne sonore per il cinema, serie tv e musical. Adam Schlesinger aveva fondato il gruppo originario del Northampton insieme al cantante Chris Collingwood, al chitarrista Jody Porter e al percussionista Brian Young. Il gruppo esordì nel 1996 con l'album "Fountains of Wayne", seguito nel 1999 da "Utopia parkway" e nel 2003 da "Welcome interstatemanagers", contenente il singolo di grande successo "Stacy's mom", che è diventato un grande successo anche qui in Italia ai tempi d’oro di MTV. L'ultimo album della band, "Sky full of holes", era uscito nel 2011. Nel corso della carriera Adam Schlesinger ha vinto tre Emmy Awards, un Grammy Awards ed era stato nominato agli Oscar e ai Golden Globe. Ottenne la nomination agli Oscar e ai Grammy per la colonna sonora del film diretto da Tom Hanks""Music Graffiti" (1996). Per il cinema ha scritto il brano "Master Of The Seas" per "L’Era Glaciale" e le colonne sonore di "Tutti pazzi per Mary", "Io, me e Irene", "Scary Movie" e "The Manchurian Candidate". Adam Schlesinger è nato nell’ottobre del 1967. È cresciuto in un quartiere di Manhattan ma è originario del New Yersey. Ha sempre avuto la passione per la musica che ha coltivato fin da quando era un ragazzino. Era il cugino di Jon Bernthal, attore reso celebre grazie a "The Walking Dead" e a "The Punisher". Abile compositore, le sue canzoni hanno sempre avuto sonorità orecchiali e per nulla sofisticate. Mixava la musica pop a tonalità un po’ più rock che, alla fine, hanno contraddistinto il suo stile. La sua band ha scalato le classiche ma è stato celebre tra i teatri di Broadway, producendo alcune piecè.

·        E' morta Maria Antonietta Muccioli.

E' morta Maria Antonietta Muccioli, col marito Vincenzo fondò San Patrignano. Rimini, nel 1978 la coppia fece sorgere la comunità per tossicodipendenti, che la saluta così: "L'amore di madre che ci hai regalato". La Repubblica il E' morta ieri notte Maria Antonietta Cappelli Muccioli, vedova del fondatore della comunità di San Patrignano Vincenzo Muccioli. Aveva 86 anni. Ne ha dato l'annuncio, il figlio Andrea sulla sua pagina Facebook. "Ciao mamma - ha scritto - Dovrei essere contento. Questa notte ti sei finalmente liberata di quell'involucro accartocciato e stanco, che ti aveva privato del movimento, della parola e infine della memoria e del pensiero". Vincenzo e Maria Antonietta Muccioli, nel 1978 diedero vita alla comunità di recupero per tossicodipendenti San Patrignano appunto scegliendo il nome dalla strada del comune di Coriano nel Riminese dove ha ancora oggi la sede. San Patrignano ospita quasi duemila giovani. Dalla comunità di "Sanpa" arriva un messaggio di addio alla donna: "Cara Antonietta, non cesseremo mai di ricordarti per la grande forza con cui hai saputo allargare la tua famiglia, permettendo così a Vincenzo di impegnarsi totalmente per la nascita di San Patrignano. L'amore di madre che hai regalato a molti di noi rimarrà per sempre nei nostri cuori". La sua "capacità materna di adoperarsi per mantenere nella Comunità un clima famigliare" è una delle eredità più preziose, scrive in una nota la comunità: una capacità esplicitatasi, "partendo dagli aspetti relazionali sino a quelli organizzativi e di cura degli ambienti. Solo a titolo esemplificativo ci piace ricordare che non ha mai voluto sentir parlare di “mensa” insistendo perché fosse definita “sala da pranzo” e fosse organizzata, anche esteticamente, con modalità il più possibile capaci di riprodurre il calore domestico". 

·        Addio a Franco Crepax.

Addio a Franco Crepax, il discografico che lanciò i primi cantautori. A 92 anni scompare uno dei pilastri dell'industria musicale italiana. Era il fratello del disegnatore Guido Crepax. La Repubblica il 30 marzo 2020. Franco Crepax, uno dei pilastri della discografia italiana, è morto a Milano a 92 anni. Era fratello del disegnatore Guido Crepax e padre di Valentina, che ispirò l’eroina del celebre fumetto. Negli anni Sessanta, come direttore generale prima alla Dischi Ricordi e poi alla Cgd, ha contribuito a lanciare i primi cantautori come Gino Paoli, Giorgio Gaber, Umberto Bindi, Enzo Jannacci, Sergio Endrigo e Luigi Tenco ma anche interpreti della canzone italiana come Ornella Vanoni, Gigliola Cinquetti, Caterina Caselli e Marcella Bella. Stretto collaboratore dalla famiglia Sugar prima come direttore artistico e poi come amministratore delegato. Grande il cordoglio espresso da Piero, Caterina e Filippo Sugar che ricordano la sua attenzione nei confronti della canzone d'autore. Accanto all'attività di produttore discografico, Crepax ha svolto quella di scrittore e saggista, curando anche varie pubblicazioni editoriali.

Mario Luzzatto Fegiz per corriere.it il 30 marzo 2020. E’ morto Franco Crepax, uno dei massimi padri fondatori della discografia italiana, Era fratello del disegnatore Guido Crepax e padre di Valentina, che ispirò l’eroina del celebre fumetto. Era nato a Milano nel 1928. Franco Crepax fu per decenni uno stretto collaboratore dalla famiglia Sugar prima come direttore artistico e poi come amministratore delegato. Grande il cordoglio espresso da Piero, Caterina e Filippo Sugar. Caterina così lo ricorda: «Era un uomo intelligente simpatico e generoso. Ti faceva sempre sentire a tuo agio. Era brillante e comunicativo, sempre attento alle novità e alla canzone d’autore. Piero lo volle in azienda a tutti i costi e fu una decisione che arricchì la CGD Sugar, sul piano finanziario e umano». La sua carriera era iniziata nel 1952 alla VCM (gruppo trasformato in EMI nel 1967), dove gestiva la divisione pubblicità e grafica; nel 1953 è chiamato alle edizioni G. Ricordi & C., dove – insieme a Nanni Ricordi – nel 1958 contribui a inaugurare l’attività di produzione della Dischi Ricordi, aprendo la strada, in qualità di direttore generale, a numerosi cantautori della prima ora, tra cui Paoli, Gaber, Bindi, Jannacci, Endrigo, Tenco ed altri, nonché interpreti come Ornella Vanoni. Nel 1961, nel ruolo di direttore generale, passa alla CGD, di cui diventa nel 1978 amministratore delegato e dove contribuisce al lancio di personaggi come Gigliola Cinquetti, Caterina Caselli, Marcella Bella, i Pooh e numerosi altri. Nel 1986 passò alla Panarecord Dischi, con la carica di amministratore delegato, dedicandosi alla produzione, e negli anni ’90 svolse attività di consulente nell’ambito dell’AFI (Associazione Fonografici Italiani). Accanto all’attività di produttore ha condotto anche quella di scrittore e saggista (il suo ultimo lavoro è Correndo con il dentista”, 2008), curando inoltre varie pubblicazioni editoriali. Fu lo scopritore di Ricky Gianco e l’artefice di fortunatissimi brani come Lisa dagli occhi blu unico successo planetario di Mario Tessuto.

·        È morto Filippo Mantovani, il figlio del presidente della Sampdoria.

È morto Filippo Mantovani, il figlio del presidente della Sampdoria. Laura Pellegrini il 30/03/2020 su Notizie.it. Filippo Mantovani è morto all'età di 54 anni: la Sampdoria piange la scomparsa del figlio del presidente Paolo Mantovani. La Sampdoria è in lutto: è morto Filippo Mantovani, figlio del presidente Paolo Mantovani e fratello di Enrico, Francesca e Ludovica. L’uomo, di 54 anni, è stato stroncato da un improvviso arresto cardiaco. “Era l’unico della famiglia che sapeva giocare a pallone – ha detto Enrico Mantovani a Primocanale, ricordando il fratello –. Seguiva il calcio ovunque, era appassionatissimo. Non mi sento di aggiungere altro, se non che ho perso mio fratello”. “Si è spento oggi nella sua casa di Sestri Levante Filippo Mantovani, terzogenito dell’indimenticato presidente Paolo”. Questo è il messaggio di cordoglio della Sampdoria dopo aver appreso la scomparsa del figlio del presidente. “Aveva 54 anni – scrivono ancora dal team – e, oltre al ruolo di dirigente e stretto collaboratore del fratello Enrico durante la sua presidenza, aveva ricoperto per la Sampdoria il ruolo di team manager. Il presidente Massimo Ferrero e tutta la società abbracciano la mamma Dany e i fratelli Francesca, Enrico e Ludovica porgendo loro le più sentite condoglianze”.

Filippo Mantovani è morto a causa di un arresto cardiaco improvviso e la sua scomparsa così prematura ha gettato nello sconforto moltissime persone. Quando la gestione della società era affidata a Enrico, Filippo faceva parte dei quadri dirigenziali del club blucerchiato, dalla fine del 1993. Nella seconda parte degli anni Novanta, inoltre, aveva sponsorizzato l’acquisto di molti giocatori della squadra. Era un grande appassionato di calcio e aveva svolto anche il ruolo di team manager della Sampdoria.

·        Morto Attilio Bignasca,

Morto Attilio Bignasca, addio all’imprenditore della Lega Dei Ticinesi. Marco Alborghetti il 29/03/2020 su Notizie.it. Grave lutto nella Lega. Questa notte è venuto a mancare Attilio Bignasca, imprenditore e capo della Lega nel Ticino dal 2013. Grave lutto nel mondo politico. Questa notte è venuto a mancare Attilio Bignasca, imprenditore e capo della Lega Dei Ticinesi dal 2013. Bignasca era malato da tempo. Aveva 77 anni. Un grave lutto ha colpito la Lega Dei Ticinesi. Questa notte è venuto a mancare Attilio Bignasca, classe 1943, imprenditore e etitolare della A+G Bignasca, ma conosciuto ai più come esponente leghista dei ticinesi. Bignasca da tempo era malato, e non ha potuto vestire da un anno a questa parte la carica di Gran Consigliere. La Lega dei Ticinesi ha voluto dare un ultimo saluto ad Attilio Bignasca con una storia su Instagram: «Ciao Conte Zio, sarai sempre con noi!”. Toccante è stato il saluto di Norman Bobbi, suo consigliere: Bignasca è stato un politico della prima ora assieme al fratello Giuliano, con il quale poi ha fondato al sua azienda. Per la Lega Dei Ticinesi ha rivestito diverse cariche, come quella di consigliere comunale, ma soprattutto di grancosigliere di lungo corso. Nel 2002 è stato presidente del Gran Consiglio. Dal 2003 al 2009 è stato deputato al Consiglio nazionale. Dal 2013, dopo la scomparsa del fratello Giuliano, aveva assunto il coordinamento della Lega, e negli ultimi mesi pare che si stesse preparando per una nuova conduzione politica.

·        Morto Angelo Rottoli, ex campione europeo dei massimi leggeri.

Pugilato, coronavirus: morto ex campione europeo dei massimi leggeri Rottoli. Angelo Rottoli. bergamasco, aveva 61 anni. Nel suo palmares anche il titolo italiano dei massimi e quello intercontinentale Wbc. La Repubblica il 29 marzo 2020. Il match più difficile non è riuscito a vincerlo. Il bergamasco Angelo Rottoli, ex campione europeo di pugilato, è morto al Policlinico di Ponte San Pietro. Aveva 61 anni ed era stato colpito dal coronavirus, due settimane fa aveva perso la madre e il fratello. Rottoli iniziò da dilettante nel 1977 e passò professionista nel dicembre 1981 come peso massimo: nel giro di due anni divenne campione italiano. Nei massimi leggeri arrivò a competere per il Mondiale Wbc, perdendo per ferita contro il portoricano Carlos De Leon nel 1985. Nel 1987 diventa campione intercontinentale Wbc sempre nei massimi leggeri e poi campione europeo, titolo continentale perso sempre nello stesso anno. Rottoli disputò ancora un match nell'aprile 1990, perdendolo: quella sconfitta lo portò a chiudere la carriera dopo 35 incontri.

·        È morto Krzysztof Penderecki, compositore polacco.

È morto Krzysztof Penderecki, compositore polacco. Suoi brani nelle colonne sonore di Shining e L'esorcista. Aveva 86 anni. Tra le sue ultime opere, un requiem in memoria di Papa Giovanni Paolo II. La Repubblica il 29 marzo 2020. È morto a 86 anni il famoso compositore polacco, Krzysztof Penderecki. Lo riferiscono i media della Polonia che citano la famiglia dell'artista. Penderecki aveva studiato pianoforte e violino al Conservatorio di Cracovia, città alla quale  stato legato per tutta la vita e dove si è spento dopo aver a lungo insegnato all'Accademia di musica. La sua attività di compositore si è ispirata negli esordi alla scuola di Darmstadt, della quala sono stati esponenti Luigi Nono, Bruno Maderna, Pierre Boulez e Karl-Heinz Stockhausen. La sua ricerca musicale si è concentrata soprattuto sull'espressività degli archi e dei cori, con una particolar vena per le composizioni religiose. Tra le sue composizioni più note, la Trenodia per le vittime di Hiroshima, la Polymorphia per 48 strumenti ad arco, il Requiem polacco. È stato autore anche di otto sinfonie, e le sue musiche sono state scelte come parte della colonna sonora di film come L'esorcista e Shining. Tra le sue ultime opere, un requiem in memoria di Papa Giovanni Paolo II. Il compositore era molto apprezzato anche nell'ambito della musica leggera e aveva influenzato l'arte di numerosi artisti: tra questi Jonny Greenwood, chitarrista e arrangiatore dei Radiohead, che lo aveva citato numerose volte come fonte di ispirazione. Nel 2012 era arrivata anche una collaborazione per un album in cui alle composizioni di Penderecki Threnody for the Victims of Hiroshima e Polymorphia erano affiancate Popcorn Superhet Receiver e 48 Responses to Polymorphia di Greenwood. "Penderecki era il più grande", ha scritto Greenwood ricordandolo sui social network, "un compositore incredibilmente coraggioso e un uomo gentile e buono. Le mie condoglianze alla sua famiglia e alla Polonia per questa grande perdita nel mondo della musica". Nel 2019 era stato pubblicato Symphony of Sorrowful Songs, un album in cui Penderecki dirigeva la Polish National Radio Symphony Orchestra con Beth Gibbons, cantante dei Portishead, per la Sinfonia n.3 di Henryk Górecki.

Marco Giusti per Dagospia il 29 marzo 2020. La musica moderna e il cinema perdono uno dei più celebrati maestri del 900, il polacco Krzysztof Penderecki, 86 anni, forse il compositore che più ha influenzato il cinema dell’orrore di sempre. Basterebbe l’uso che hanno fatto della sua musica William Friedkin per “L’esorcista”, Stanley Kubrick per “Shining”, David Lynch per “Cuore selvaggio”, “Inland Empire” e “Twin Peaks: il ritorno”, Martin Scorsese per “Shutter Island”, Alfonso Cuaron per “I figli degli uomini”. Sentiamo suoi celebri brani perfino in “Ready Player One” e “Black Mirror”. Se la fama di Penderecki nasce negli anni ’60, con le sue più celebri composizioni, “Utrenja”, “Polimorphia”, “Trenodie per le vittine Hiroshima”, “I diavoli di Loudon”, che venne eseguita la prima volta al Teatro dell’Opera di Stato di Amburgo nel 1969, “La Passione secondo San Luca”, nel cinema ha due carriere ben divise, da compositore, una trentina di titolo tra corti e lungometraggi e documentari, e come fonte per film altrui. Magari è un paragone azzardato, ma è po’ come accadrà a Ennio Morricone in questi ultimi anni, anche se dei suoi vengono usati solo brani composto per altri film, ma è simile il meccanismo che ha rilanciato a livello popolare quel tipo di musica e con altri effetti. Nato a Debicen, in Polonia, nel 1933, Krzysztof Penderecki, dopo gli studi presso l'Accademia di Musica di Cracovia, grazie alle sue prime composizione già nel 1961 si impone all’attenzione internazionale. La sua “Passione secondo San Luca” è presentata nella Cattedrale di Munster nel 1961. Nel cinema compone nel 1965 le musiche dello stravagante “Il manoscritto trovato a Saragoza” del cecoslovacco Wojciech Has con Zbigniew Cybulski, tratto dal celebre romanzo di Jan Potocki. Lo chiama Alain Resnais per l’altrettanto stravagante, addirittura una storia d’amore mischiata coi viaggi nel tempo,“Je t’aime, Je t’aime” con Claude Rich e Olga-Georges Picot, presto seguito da Michel Cournot per il più tradizionale “Les gauloises bleus”, 1968, con Annie Girardot e Jean-Pierre Kalfon. Nel 1972 diventa rettore dell’Accademia di Stato di Cracovia. Ma è nel 1973, con il successo internazionale di “L’esorcista” di William Friedkin che la musica di Penderecki diventa popolare in tutto il mondo. Pochi anni dopo toccherà a Stanley Kubrick servirsi delle composizioni di Penederecki, “Utrenja”, “Polimorphia” e “De Natura Sonoris”, per il suo capolavoro, “Shining”, mentre David Lynch per “Cuore selvaggio” usa la sua celebre “Kosmogonia”. Basterebbero questi film per definire per sempre la carriera del compositore. Dal 1973 al 1978 è chiamato a insegnare a Yale. Nel 1981 lo vuole Jerzy Skolimowski per musicare il suo film maledetto, censurato più volte e rimontato, “Mani in alto”, poi è la volta di Aleksander Sokurov per “La voce solitaria dell’uomo”, il polacco Andrzej Wajda per lo storico “Katyn”, 2007. La sua ultima composizione originale per il cinema dovrebbe essere il mai visto “Demon” di Marcin Wrona nel 2015. Nel corso della sua lunga carriera, rimase sempre un cattolico fervente, molto legato a Giovanni Paolo II, inoltre, per il quale compose varia musica. Penderecki è morto dopo lunga malattia a Varsavia.  

·        E’ morto Luigi Roni: il cantante lirico.

Coronavirus, è morto Luigi Roni: il cantante lirico aveva 78 anni. Laura Pellegrini il 28/03/2020 su Notizie.it. Colpito dal coronavirus, il cantante lirico Luigi Roni è morto all'ospedale di Lucca all'età di 78 anni. Si è spento a 78 anni all’ospedale di Lucca, dopo un ricovero durato circa una settimana: Luigi Roni è morto a causa del coronavirus. Il cantante lirico aveva una fama mondiale ed era uno dei bassi maggiormente conosciuti. Si era esibito nei maggiori teatri del mondo e per 40 anni aveva collaborato anche con il teatro La Scala di Milano. Gli organizzatori del festival Il Serchio del Muse, del quale Luigi era presidente, lo salutano così: “Non possiamo spiegare quanto sia grande la perdita, dell’uomo, dell’artista e del riferimento che per tutti noi Luigi è stato. In questi venti anni di amore e dedizione per la musica e per il suo territorio. Ci stringiamo intorno ai familiari interpretando il pensiero di tutti coloro che hanno amato ed ammirato un grandissimo artista”. Il mondo della musica è in lutto: è morto, a causa del coronavirus, il cantante lirico di fama mondiale Luigi Roni. L’uomo, di 78 anni, era ricoverato da una settimana all’ospedale di Lucca, dove ha perso la vita. Il Comune della città toscana lo ricorda come “uno dei grandi talenti che hanno rinnovato e portato nel mondo la grande tradizione musicale della nostra terra”. Aveva collaborato per 40 anni con il teatro La Scala di Milano ma aveva varcato anche i maggiori teatri mondiali. L’assessore alla Cultura, Stefano Ragghianti, lo descrive con queste parole: “Di Luigi Roni non potremo mai dimenticare l’affabilità, la competenza, ma soprattutto l’infaticabile passione per la divulgazione musicale, grazie al suo impegno e alla sua rete nell’ambito artistico con il Festival Il Serchio delle Muse ha portato la lirica, il teatro, la poesia negli angoli più belli suggestivi e sperduti della Valle di Serchio”. Classe 1942, Luigi Roni era nato a Calomini di Vergemoli, in provincia di Lucca, nella nota Valle del Serchio. Si è diplomato all’Istituto Boccherini e all’età di 22 anni ha vinto il concorso Adriano Belli di Spoleto. Da lì è partita la sua carriera di cantante d’opera, in cui esordì con il direttore Claudio Abbado, alla Scala nel 1969. Ha collaborato con il teatro meneghino fino al 2010 e ha lavorato con i più grandi direttore d’orchestra e con cantanti lirici come Pavarotti, Domingo, Carreras. Non solo, nel corso degli anni si è esibito anche nei maggiori teatri del mondo: a Tokyo, Mosca, Amsterdam, Oslo, Londra, Parigi, Berlino, Bonn, Copenaghen, Madrid, Lisbona, Zurigo, Ginevra, Johannesburg, Pretoria, nell’America del Nord e del Sud.

·        E se n'è andata anche Annunziata Chiarelli, per tutti Mirna Doris.

Federico Vacalebre per "ilmattino.it" il 27 marzo 2020. E se n'è andata anche Annunziata Chiarelli, per tutti Mirna Doris, avrebbe compiuto 80 anni il 20 settembre, per il piccolo mondo antico di cantaNapoli, sempre più vicino all'estinzione ora che se n'è andata anche lei, resterà per sempre «la ragazza di Marechiaro». ll suo sensuale richiamo canoro da sirena digiacomiana apparve come un miraggio quando la melodia partenopea classica già aveva consumato la sua migliore epopea, dando profondità e allure a una stagione, quella degli anni Settanta, che rimpiangeva i «belle tiempe 'e 'na vota» senza sapere che canzone cantare per essere al passo con i tempi, consegnandosi così drammaticamente alla nostalgia canaglia. La notizia della sua morte è stata data stamattina dalla sua pagina Facebook, poi smentita dalla stessa, parlando di uno «scambio di cartelle». Mentre in rete si alternavano i messaggi di cordoglio e quelli di felicità per la notizia che la cantante era ancora in vita, una pronipote ha gelato tutti: «Ora è morta». Ed era vero: alle 11.40, per l'esattezza, comunicano da Villa Angela, dove era ricoverata per combattere il tumore che l'aveva aggredita da tempo. Da leonessa quale era aveva provato a reagire, sfidando con coraggio il male, ma...Annunziata Chiarelli fu scoperta da Johnny Lombardi, un commerciante italiano proprietario di supermercati in America diventato poi un manager radiotelevisivo, che le affidò un jingle per la sua azienda. Andò a registrarlo negli studi napoletani della Phonotype, la più antica delle etichette napoletane e qui la ascolto Salvatore Mazzocco, già arrivato al successo grazie ai Festival di Napoli: lei era bella, florida e aveva una grande voce, lui la prese sotto la sua ala protettrice e le trovò anche il nome d'arte. I primi concorsi, il primo contratto con la Fonit Cetra, nel 1962 il primo «festivàl» come si diceva per distinguerlo da quello di Sanremo: Mazzocco firma le musiche di «Suonno perduto» e «Ricciulella». Il passaggio alla King, torna al Festival di Napoli nel '64, in duetto con il boss della casa discografica Aurelio Fierro lanciando «Nun m'abbraccia'», ma anche «'Mparame a vule' bene». Il concorso alla ricerca delle nuove melodie veraci è la strada scelta per arrivare al successo: torna nel '65 e porta in finale «Schiavo d'ammore», divisa con Mario Abbate, e «Dduje giuramente», in abbinamento nientepopòdimeno con Sergio Bruni. Nel '66. invece, tocca a «Rose d'o mese 'e maggio» con Mario Trevi e «Nun m'abbanduna'» con Luciano Tomei; nel 1967«Nun spezza' sta catena» con Antonio Buonomo e  «Addio felicità» con Luciano Tajoli. Il fatidico '68 è l'anno buono: vince il Festival di Napoli 1968 con «Core spezzato» (in coppia con Tony Astarita) e arriva terza con «Ammore 'e Napule» e Claudio Villa. Nominata giovane regine di cantaNapoli, rivince l'anno dopo con «Preghiera a 'na mamma» in coppia con Aurelio Fierro. Nel 1970 non vince, ma sfonda con «Chitarra rossa» e Mario Merola, più che con «'A mossa» e Franco Franchi, ma fa bene anche a «Canzonissima» con «Verde fiume». Ancora un cambio di etichetta, la Hello di Luciano Rondinella, ancora concorsi, questa volta «nazionali», ormai è una giovane sensazione, la ragazza di Marechiaro, bella, anche se a Napoli la fanno cantare sulle basi preparate per Mario Merola, che ha un'altra tonalità. Il mondo di cantaNapoli è maschilista, si sa, ma le si adatta, accetta la sfida, la supera. Si misura con la sceneggiata («Grazie Mari'» di Alberto Sciotti con Pino Mauro), nel 1976 è al centro dell'omaggio discografico al suo scopritore Mazzocco, da poco scomparso. E' anche l'anno di «Mammà», sceneggiata con Merola, e di «Novecento»: Bernardo Bertolucci inserì nel suo capolavoro una sua tenera interpretazione di «Era di maggio». Anche Mirna fa i conti con il declino del genere, l'ultimo squillo negli anni '70 è uno storico allestimento della vivianea «Festa di Piedigrotta» con la regia di Roberto De Simone, nel decennio successivo si dedica ad apparizioni sulle tv private campane, chiudendo gli Ottanta con un'antologia in cinque volumi, la prima incisa al femminile, e non a caso intitolata «Napoli una donna», in cui rilegge classici e successi personali diretta da Sciotti e con arrangiamenti di Tony Iglio: ci sono «Mare verde», «Preghiera a 'na mamma», «Chitarra rossa», «Te desidero», «Core spezzato», «Malanotte, più due brani di Claudio Mattone, «Ancora» e «'A città 'e Pulecenella». A rilanciarla, ad annunciarla come «la talentosa Mirna Doris» è Paolo Limiti che dal 1995 la vuole nei suoi programmi televisivi: lei ha ancora una grande ugola, veste da ultima diva di un mondo verace che non c'è più. Nel 1995 con Mario Da Vinci, Gianni Nazzaro e Nunzio Gallo forma i Napoli 4 ed arriva alla finale di «Viva Napoli», presentato da Mike Bongiorno e Mara Venier su Canale 5 con «Ciccio Formaggio». Nel '96 fanno il bis, con Wess al posto di Gianni Nazzaro e «'A pizza». Quel repertorio le sta stretto, torna alla kermesse revival, a questo punto in onda su Retequattro nel 2000 (terza con «'Na sera 'e maggio) , l'anno dopo (quarta con «'A canzone 'e Napule»), nel 2002, l'ultima. Ancora un sceneggiata, anzi il revival della sceneggiata, con la versione teatrale di «Lacreme napulitane» firmata nel 2002 da Geppy Gleijeses. Poi il ritiro, annunciato e per fortuna non mantenuto, il «Masaniello» di Tato Russo, recital che rivelano ancora una voce straordinaria, nel 2012 è ancora in tv con Paolo Limiti. Il 6 aprile 2018 è sul palco della Festa del borgo di Marechiaro. Di Giacomo è il suo autore preferito, più che nel brodo veteromelodico a cui attinsero i suoi successi personali dava il meglio nel repertorio classico, cesellato persino con maggior convinzione nella sua seconda stagione, quella della nuova fama nazionale grazie a Limiti: «Il mio aggettivo preferito è carnale», confessava l'eterna ragazza di Marechiaro ai suoi biografi Pietro Gargano e Gioconda Marinelli, definendo da sola la propria arte, la propria intonazione ora languida ora dolente, ma comunque sempre sull'orlo di una crisi d'amore, di vita, di gioia, di disperazione. Confessava di aver vissuto, amato, sofferto, sbagliato, cantato. Negli ultimi tempi invitava gli amici a cena, periodicamente, al Leon d'Oro, storico ristorante napoletano di piazza Dante: chiacchiere, ricordi, alla fine due canzoni ci scappavano sempre, e tornava l'in/canto della ragazza di Marechiaro. Ciao Mirna, ciao.

·        Morto Michel Hidalgo: c.t. campione d'Europa nell'84 con la Francia.

Da gazzetta.it il 26 marzo 2020. "Calcio champagne". È un'espressione che ha fatto epoca e resterà per sempre legata al nome di Michel Hidalgo, morto oggi a 87 anni dopo una lunga malattia che l'aveva debilitato. Il decesso del c.t. campione d'Europa nell'84 con la Francia non sarebbe dunque legato alla pandemia di coronavirus. Il momento d'oro della carriera da allenatore di Hidalgo è stato nella prima metà degli Anni 80, quando sedeva sulla panchina dei Bleus. Che prima arrivarono in semifinale al Mondiale '82 in Spagna (chiudendo il torneo al quarto posto) e poi vinsero l'Europeo di casa, mostrando sempre un gioco scintillante, piacevole e votato all'attacco. In quella nazionale la stella era Michel Platini, ma anche Giresse, Tigana, Genghini e Fernandes davano un grande contributo. Cresciuto in Normandia, da giocatore era stato un buon centrocampista, capace di vincere il campionato nel '55 col Reims e di arrivare in finale di Coppa dei Campioni l'anno seguente.

·        Morto Massimo Vincenzi de La Repubblica.

Massimo Vincenzi, il talento del giornale in una stanza. Caporedattore centrale per anni, aveva scalato “Repubblica” con quell’intelligenza fisica e quella velocità di reazione alle notizie di chi sa fare un quotidiano. La sedia d’angolo al settimo piano era il suo centro di gravità naturale. Ezio Mauro de La Repubblica il 27 Marzo 2020. Massimo Vincenzi, scomparso a 48 anni. Massimo è andato via proprio quando credeva di aver vinto. Si era riconciliato con se stesso, aveva ripreso le scelte da fare nelle sue mani, ricominciava a pensare alle cose da scrivere, ai servizi da preparare. Passava nelle stanze del giornale per dirlo agli amici, dare rassicurazioni, fare promesse e si capiva che in realtà scommetteva con una parte di sé, quella che si era smarrita e lo trascinava altrove, mentre lui adesso cercava di riprenderla e governarla. Non ce l’ha fatta, come se alla fine tutta l’energia della sua vita giovane si fosse ribellata rovesciandosi nel suo contrario e ormai non avesse più la forza di fare la sua battaglia. Restano i giornali, che spiegano tante cose e rivelano le persone: perché fanno parte della vita, non della sua rappresentazione. Vincenzi è stato vicedirettore della “Stampa”, corrispondente di “Repubblica” da New York. Ma ognuno di noi, quando pensa a lui, lo vede sempre e solo seduto alla guida dell’ufficio centrale, la macchina del quotidiano che comincia a progettarlo al mattino, gli dà forma e senso durante la lunga giornata, lo accompagna alla stampa, la notte. Quello era il suo posto, il luogo del suo talento, del suo carattere, lo snodo tra la formazione e l’ambizione, l’incontro tra la direzione e la redazione, l’occasione per insegnare e imparare insieme, ricominciando ogni giorno. Arrivato dalla “Gazzetta di Mantova”, il giornale della sua città dove aveva cominciato il mestiere giovanissimo, Massimo aveva scalato “Repubblica” come un passaggio naturale, quasi il lavoro fosse semplice. Lo era per lui, che aveva quell’intelligenza fisica, quella velocità di reazione istintiva dei veri capiredattori, che quando succede un grande fatto si alzano in piedi a dettare lo sfoglio nuovo buttando per aria tutto il giornale, e la redazione li segue come li segue il direttore: perché quella è l’autorità misteriosa di chi sa fare il giornale con le mani, in una logica binaria che sceglie continuamente la notizia che deve stare dentro e quella che rimarrà fuori, senza mai perdere il sentimento generale del giornale che si sta componendo, e che ogni giorno è diverso pur essendo uguale a se stesso. Massimo era tutto questo come se fosse predestinato, costruito esattamente per quel mestiere. Come tutti, lo sapeva e cercava di sfuggire attraverso la letteratura, i personaggi di Bukowski e forse alla fine proprio Bukowski come personaggio, i play teatrali che scriveva, la conquista dell’America che inseguiva. Ma il suo centro di gravità naturale restava quella stanza di “Repubblica” al settimo piano, quella sedia d’angolo, quel “timone” davanti agli occhi con tutte le pagine in fila da riempire, i colleghi che entravano, uscivano, riconoscevano i difetti impazienti della giovane età e li scusavano con il pregio impagabile di una guida solida, sicura, che sapeva fare le scelte, e sapeva spiegare perché. Raggiunta l’America, Massimo forse ha perso proprio quel centro di gravità, o forse come dice Simona ha perso l’orizzonte. Si smarriva, si cercava, s’inseguiva. Com’era previsto è tornato al suo posto, perché il talento lo reclamava lì, poi Maurizio Molinari gli ha proposto la vice direzione della “Stampa”, ed è cominciata l’avventura a Torino. Quando era a Roma passava da noi come chi ritorna a casa, accarezzava con lo sguardo le scrivanie, sembrava ogni volta pronto a cominciare la riunione. Forse la solitudine stava vincendo, rubando spazi al lavoro. Forse ricomporre quel che si era spezzato dentro risultava ormai più difficile che costruire le pagine del giornale, organizzarle, curarle fino all’ultima didascalia, prima di licenziarle, appoggiandosi finalmente allo schienale della sedia alla fine, guardando l’ora e avvertendo a quel punto lo sforzo collettivo dell’impresa. E invece anche in lui che si pensava invulnerabile, e che sembrava non sentire mai la fatica del lavoro, si è fatta strada la fatica di vivere. Il corpo ha ceduto quando forse aveva ceduto la volontà, prima ambiziosa, poi orgogliosa, quindi insicura, infine smarrita. Il continuo inseguimento col lavoro vedeva ormai aumentare le distanze, anche il giornale adesso sembrava sfuggire, con le ragioni di una vita. Finché tutto si rinchiude in un letto d’ospedale, senza neanche sapere che i colleghi in redazione chiedono continuamente notizie e scuotono la testa. Non ce lo siamo mai detti, Massimo, perché non si andava oltre la stretta di mano ogni mattina: ma noi ti vogliamo bene, quella sedia è tua.

·        Addio a Flavio Campo di Avanguardia.

Addio a Flavio Campo di Avanguardia. Il ’68, l’università, Reggio e quello schiaffo a Pasolini…Antonio Pannullo venerdì 20 marzo 2020 su Il Secolo d'Italia. Flavio Campo se ne è andato l’altra sera a Roma. La notizia si è appresa dai social, dove un suo vecchio amico di un tempo ha comunicato la notizia. Classe 1942, Flavio Campo rappresentava la generazione di attivisti venuta subito dopo quella dei combattenti della Repubblica Sociale, che riempivano le sezioni del Msi, soprattutto a Roma, ma non solo. Campo era conosciutissimo a Roma, stimato e rispettato da tutti, perché aveva una sua etica, seguiva i suoi ideali, era coraggiosissimo, non si tirava indietro quando bisognava essere coerenti in piazza difendendo le proprie idee.

Flavio Campo entrò giovanissimo nel Msi. Giovanissimo, neanche maggiorenne, entrò nella Giovane Italia (organizzazione giovanile del Msi) che allora si trovava all’ultimo piano di Palazzo del Drago in via IV Fontane. Il presidente provinciale era Adalberto Baldoni. In quegli anni, ossia a cavallo tra i Cinquanta e i Sessanta, l’attività era più che altro politica, culturale: i giovani organizzavano convegni, dibattiti, riunioni, mostre fotografiche. Si era concentrati contro l’Unione Sovietica, c’era da poco stata la Rivolta in Ungheria, e sulle università. C’era poi la lotta alla droga, che iniziava a fare la sua comparsa preoccupante nelle scuole. Nel nome di una falsa libertà, infatti, le sinistre ne propugnavano l’uso. Quando si accorsero di sbagliare, purtroppo, era però troppo tardi. Flavio Campo, per le sue capacità organizzative, divenne in breve tempo il capo-attivisti della Giovane Italia di Roma. Un testimone lo ricorda orgnaizzatore e relatore di un convegno a Palazzo del Drago proprio sull’anniversario, forse il quinto, dei fatti della rivolta d’Ungheria. Nel 1962 però Baldoni lascia la presidenza provinciale della Giovane Italia e Flavio Campo si avvicina alla neonata formazione di Stefano Delle Chiaie Avanguardia Nazionale. Non la lascerà più sino alla fine. Divenne vicinissimo al gruppo dirigente di Avanguardia, insieme con altri attivisti famosissimi a Roma. Flavio Campo conobbe la galera, la latitanza, ma non si fermò mai. Seguì Delle Chiaie in diverse occasioni nella sua latitanza all’estero, perse il suo lavoro al ministero delle Finanze, anche se in seguito fu riassunto in quanto estraneo ai fatti di cui lo imputavano. Era un tipo di poche parole, quasi burbero, parlava solo con la sua stretta cerchia di camerati di Avanguardia, anche se aveva contatti anche con i missini di Roma Sud, zona nella quale era nato e dove abitava.

Fu vicinissmo a Stefano Delle Chiaie. Il suo antico amico di allora, Vincenzo Nardulli, ne ha scitto un bellissimo ricordo su Facebook, corredandolo delle foto che pubblichiamo. Flavio Campo aveva un suo stile: pur essendo indiscutibilmente un uomo d’azione, portava sempre la giacca, e talvolta la cravatta. Era un soldato politico, eseguiva gli ordini a qualunque costo. E in quegli anni era difficile farlo, costretti in venti contro cento ad affrontare gli extraparlamentari di sinistra, e anche le squadre del Pci, che erano piuttosto risolute. Ma lui non si tirò mai indietro. Partecipò alle stagioni del ’68 all’università di Roma, alla rivolta di Reggio del 1970, al golpe Borghese del 7-8 dicembre di quello stesso anno. Secondo Nardulli, Campo partì per arruolarsi nella Legione Straniera ma fu raggiunto da Delle Chiaie che lo convinse a rimanere in Italia. Gli episodi della vita militante di Flavio Campo sono innumerevoli, ma ne vogliamo raccontare due: uno certamente autentico, raccontato da Adalberto Baldoni, e uno leggendario, ma molto verosimile. Il primo avvenne il 29 marzo 1962 in occasione della prima del film di Pasolini Una vita violenta. Consideriamo che Pasolini, in quegli anni, riteneva i missini solo emarginati e teppisti di borgata. La destra italiana aveva sempre rifiutato l’accostamento destra-violenza, e poi gli anni hanno dimostrato che destra della violenza fu vittima. Comunque si inscenò una contestazione davanti al cinema Quattro Fontane. Ma tutto finì lì.

Quella rissa con Pasolini e Citti. Pochi mesi dopo, invece, ci fu un’altra contestazione della Giovane Italia a Pasolini, in occasione della prima di Mamma Roma. La proiezione fu disturbata sia dalla Giovane Italia sia da Avanguardia Nazionale. All’uscita, Pasolini e Sergio Citti aggredirono i dirigenti giovanili guidati da Flavio Campo. Il quale si difese e schiaffeggiò Pasolini, come si vede nella foto pubblicata da Baldoni nel suo Noi Rivoluzionari. Citti invece ebbe la peggio da parte di un altro esponente di Avanguardia. Tra l’altro, quando uscì il libro di Pasolini Una vita violenta, ci fu la presentazione in un circolo comunista all’Appio. Baldoni, Campo e altri parteciparono massicciamente all’evento, e Baldoni intervenne, parlò, disse la sua e tutto si svolse pacificamente. Dimostrando così che la destra anche estrema era disponibile al confronto delle idee.

La presunta partecipazione al golpe Borghese. L’altro episodio, di cui si favoleggia da anni, riguarda il golpe Borghese dell’Immacolata. Non staremo a ricostruire al vicenda, troppo complessa. Basti ricordare che Avanguardia ebbe l’incarico di introdursi al ministero dell’Interno e poi occuparlo quando il golpe fosse stato in atto. Alcuni attivisti, non sappiamo assolutamente chi, si nascosero nel Viminale sin da qualche ora prima. Dopo la chiusura, si introdussero nell’armeria per poter poi controllare la situazione. E’ ovvio che furono scelti gli uomini più determinati. Poi, come sappiamo. l’operazione fallì, e quegli attivisti si allontanarono senza essere arrestati. Qualcuno dice che portarono con sé un paio di Mab, ma in realtà non furono mai ritrovati, per cui probabilmente è solo una leggenda metropolitana. Quando Avanguardia concluse la sua parabola storica, Flavio Campo abbandonò la politica. Proseguì il suo lavoro, poi aprì un maneggio fuori Roma, e poi una libreria di area in via Cerveteri, all’Appio, dove lo conobbi qualche decennio fa. Un tipo di poche parole, disgustato dalla politica politicante, poco disposto alle chiacchiere. Ma anche così, traspariva la caratura dell’uomo e del militante. Aveva dei contatti e delle strettisime amicizie anche con esponenti del Movimento politico Ordine Nuovo, ma ormai il momento era passato. Rimane comunque uno delle persone che hanno fatto la storia dell’attivismo romano e italiano. In anni in cui era difficile e pericoloso schierarsi, lui si schierò.

·        Morto a Parma Massimo Zannoni, docente e uomo di cultura.

Morto a Parma Massimo Zannoni, docente e uomo di cultura. Si oppose allo scioglimento del Msi. Alessandro Amorese lunedì 9 marzo 2020 su Il Secolo d'Italia. Addio a Massimo Zannoni. Se n’è andato improvvisamente uno di quei personaggi sulle cui gambe camminava la storia. Ho avuto la fortuna di conoscere, frequentare ed apprezzare Massimo Zannoni, parmense, presidente e a animatore del Circolo Corridoni. In queste ore gli amici comuni mi chiedevano se vivesse solo. Non proprio, anzi, per niente. Perché vivere in un vero e proprio museo significa accompagnarsi giorno dopo giorno con la storia.

Zannoni non era rautiano ma seguì Rauti. Perché Zannoni era soprattutto un uomo di cultura oltre che un docente. Nella sua casa da una parte si poteva respirare la storia del fascismo, della seconda guerra mondiale e della Repubblica Sociale di cui Massimo possedeva intere collezioni di quotidiani  e riviste. Alcune davvero introvabili, tanto che qualche anno fa scrisse un libro sulla stampa nella Rsi, una autentica bibbia per storici e appassionati.

Era esperto di Rsi e di guerra civile spagnola. Massimo Zannoni variava dalla storia della destra del secondo dopoguerra ad un’altra delle sue grandi passioni, la guerra civile spagnola (era legatissimo all’Ancis). Non mancavano però scaffali dedicati alla Guerra Fredda e al calcio. Tifosissimo crociato da sempre, presidente di club, è stato tra gli ideatori e gli animatori del museo del Parma (che lo ha salutato con un comunicato). Ma ancora arbitro di pallavolo, divoratore di fumetti e grande viaggiatore (era stato recentemente in Corea del nord). Politicamente impegnato e rispettato da tutti, si iscrisse giovanissimo alla Giovane Italia e poi al Msi, frequentando nel ’68 il Fuan bolognese. Andava orgoglioso di essersi sempre occupato della formazione culturale dei giovani e di aver fatto parte dell’unica Federazione del Msi che non votò lo scioglimento del partito e quindi contro alla svolta di Fiuggi. Mai stato rautiano, seguì invece Pino Rauti nella Fiamma Tricolore. Ma i suoi capolavori sono la vitalità del Circolo Corridoni che aveva iscritti in tutta la penisola con i suoi incontri culturali del sabato pomeriggio in una sede così calda e vissuta. E poi Orizzonti, il trimestrale del circolo che esce ininterrottamente da decenni, quasi un unicum a destra. Metteva tutto se stesso in questi progetti, metteva a disposizione tutto il suo archivio ed il suo sapere. A Parma lo conoscevano anche per aver insegnato Lettere a migliaia di studenti, tra questi Gigi Buffon con il quale si sentiva spesso. Un giorno mi donó la sua collezione dell’Italiano di Pino Romualdi. Ora che molti di noi siamo un po’ orfani senza Zannoni, cercheremo di ringraziarlo anche non facendo scemare quello in cui credeva e quello che faceva. In Massimo Zannoni le due cose andavano di pari passo.

·        Morto Mark Blum, recitò anche in "Mr. Crocodile Dundee".

Coronavirus, morto Mark Blum, recitò anche in "Mr. Crocodile Dundee". L'attore statunitense aveva 69 anni. Il suo primo importante ruolo fu nel 1985 per la commedia 'Cercasi Susan disperatamente', accanto a Madonna e Rosanna Arquette. La Repubblica il 26 Marzo 2020. L'attore statunitense Mark Blum, considerato tra uno dei più eleganti interpreti del cinema e per il piccolo schermo, è morto a causa delle complicazioni causate dal coronavirus all'età di 69 anni. L'annuncio della sua scomparsa è stato dato sui social dal gruppo teatrale Playwrights Horizons e da Rebecca Damon, vicepresidente esecutivo della Sag-Aftra di cui era membro, come riferisce l'edizione online di Variety. Nato a Newark, nel New Jersey, il 14 maggio 1950, dopo molte apparizioni teatrali, Blum ottenne il primo ruolo di rilievo sul grande schermo come interprete di commedie nel film Cercasi Susan disperatamente (1985), nel ruolo di Gary, accanto a Madonna e Rosanna Arquette. L'anno successivo fece parte del cast di Mr. Crocodile Dundee (1986). Nel 1992 Blum cambiò completamente genere, partecipando al film thriller Battito finale. Dopo alcuni anni di assenza dal mondo del cinema, nel 2003 ritornò con il film biografico L'inventore di favole. Tra gli ultimi film in cui ha recitato c'è Ma come fa a far tutto?, del 2011. Negli ultimi vent'anni ha recitato spesso in tv, apparendo in serie come Frasier, West Wing, I Soprano, Csi: Miami, fino ad arrivare alla sua più recente partecipazione nella serie di Netflix, You.

·        Morto il principe Raimondo Orsini d’Aragona.

ANDREA CIANFERONI per affaritaliani.it il 25 marzo 2020. Non amava parlare della vita privata, tantomeno della storia sentimentale che lo aveva reso celebre agli inizi degli anni Sessanta. Innumerevoli sono state le copertine di settimanali popolari italiani ed europei dedicate alla love story blasonata tra il principe romano Raimondo Orsini d’Aragona e l’ex imperatrice di Persia Soraya, che gli appassionati di cronache rosa posso recuperare ancora oggi nei mercatini vintage di tutta Italia. Quell’incauto giornalista, o semplicemente curioso, che a decenni di distanza provava ad estorcere al principe romano dei ricordi sulla sua relazione con Soraya, riceveva un secco diniego. Probabilmente l’aristocratico era geloso di quella storia d’amore che non era riuscito a vivere serenamente, anche per colpa dell’invadenza dei paparazzi che, negli anni della Dolce Vita romana, rendevano quasi impossibile la vita a qualsiasi celebrità di passaggio dalla capitale. Erano gli anni in cui le scazzottate nei caffè di via Veneto tra attori hollywodiani e fotografi erano all’ordine del giorno. Roma era la capitale del cinema mondiale e Soraya, che era arrivata a Roma poco dopo essere stata ripudiata dallo Scià Reza Pahlavi perché non in grado di dargli un erede, sperava di intraprendere una carriera cinematografica che, purtroppo, non decollò mai. L’interesse mediatico per quella che era stata, anche solo per pochi anni, la consorte di uno degli uomini più ricchi ed influenti del mondo, era tale che qualsiasi uomo la frequentasse, ne uscisse frastornato. Ma sicuramente il principe Raimondo Orsini d’Aragona, morto martedì 24 marzo nella sua casa romana di via Emilia all’età di 89 anni (era nato a Roma il 18 novembre 1931), a pochi metri da via Veneto, non era alla ricerca della notorietà che gli poteva dare la vicinanza di una ex imperatrice. I suoi natali erano molto più blasonati della famiglia imperiale persiana. E anche i suoi averi gli consentivano una vita più che agiata. Gli Orsini vantano nel loro albero genealogico  ben due papi,  Niccolò III (Giovanni Gaetano Orsini), Benedetto XIII (Pietro Francesco Orsini), una trentina di cardinali, svariati condottieri e uomini politici. Clarice Orsini, che fu moglie di Lorenzo Il Magnifico, era la madre di papa Leone X. Questo stretto legame con il papato, porterà la famiglia Orsini ad ottenere, insieme alla famiglia Colonna, il titolo di “principe assistente al soglio pontificio”, privilegio di presenziare alle cerimonie papali al lato destro del trono pontificio, la più alta carica laica ereditaria della corte pontificia. Carica che gli Orsini ebbero fino al 1958, anno in cui Filippo Napoleone Orsini fu sollevato da Pio XII a causa della impensabile - per la cattolicissima Italia dell’epoca - storia d’amore extraconiugale con l’attrice americana Belinda Lee. Dal matrimonio - legittimo - di Filippo Napoleone Orsini con la nobildonna Francesca Romana Bonacossi Da Zara nacquero due figli maschi: Domenico Napoleone e Benedetto. Il primogenito Domenico Napoleone, che vive a palazzo Orsini a Monte Savello, dall’unione con Martine Bernheim, figlia del banchiere francese Antoine Bernheim, ha avuto due figlie femmine, Leontia e Kajetana. Il cugino Raimondo, molti anni dopo la storia con Soraya, si sposa invece quasi cinquantenne, nel 1977, con una principessa georgiana, Kethevane Bagrationi Moukhrani, discendente dalla famiglia che ha regnato in quel Paese, da cui ha avuto quattro figli: Lelio, Luisa, Dorothea e Georgiana Maria, deceduta poco più che ventenne nel 2005. Nonostante le dispute che si sono succedute nel corso degli anni sul ruolo di capo della casata tra i due rami della famiglia, al momento l’unico erede maschio degli Orsini, dopo il cugino Domenico Napoleone, è Lelio, figlio trentottenne di Raimondo, che si divide tra l’Italia e la Georgia, dove si reca spesso per portare aiuti umanitari. Con la scomparsa del principe Raimondo Orsini, scompare una certa idea di Roma aristocratica e papalina, legata ad un passato glorioso e cavalleresco, una Roma che il principe conosceva benissimo, cosi come conosceva molto bene la genealogia dei reali di mezza Europa. Si narra ancora oggi, nei salotti della capitale, che il principe, da piccolo, insieme alla nonna, invece di giocare con i bambini della sua età, si divertisse a ricostruire il grande albero genealogico della famiglia Orsini con tutte le sue illustri parentele. Una passione, quella per l’araldica, che divideva con l’amico genealogista Domenico Savini, nel corso di lunghe ed appassionate disquisizioni sotto le nobili tende del Bagno Rosina di Forte dei Marmi, buen retiro estivo anche di Elettra Marconi e del figlio Guglielmo Giovanelli Marconi, del Principe Ludovico Rospigliosi e del marchese Giuseppe Ferrajoli, che spesso ha ospitato nei saloni nell’omonimo palazzo di piazza Colonna la festa nazionale dell’ambasciata della Georgia presso la Santa Sede, di cui la principessa Kethevane è stata per molti anni rappresentante diplomatica in Italia. La scomparsa del principe Raimondo Orsini avviene, purtroppo, in un tragico momento non solo per l’Italia, ma per il mondo intero, a causa dell’epidemia del Coronavirus. Le disposizioni del Dpcm vietano infatti tutte le cerimonie civili e religiose, comprese i funerali. 

Dietro il sipario: il principe Orsini e le nozze mai celebrate con la principessa Soraya. Si è spento il nobile romano che conquistò il cuore della regina - ripudiata - dell'Iran portandola quasi all'altare. Tra copertine e fotografie vintage, la favola quasi perfetta di un amore finito troppo presto. Benedetta Perilli il 28 Marzo 2020 su La Repubblica. Marzo 1959, l'agenzia francese Afp batte la notizia "Soraya e Raimondo Orsini hanno deciso di sposarsi". Soraya, è la regina di Iran dagli occhi preziosi che da un anno ha perso la corona, il trono e soprattutto l'amore dello scià di Persia Mohammad Reza Pahlavi. E' stata ripudiata perché non fertile. Soraya, che lo aveva sposato nel 1951 all'età di 19 anni indossando un leggendario abito disegnato da Christian Dior, uno dei più costosi e più voluminosi della storia, in otto anni di matrimonio non era rimasta incinta e quell'erede al trono così atteso era valso più di un grande amore. Raimondo Orsini d'Aragona è un nobile di razza, nato a Roma nel 1931 dal principe Lelio Niccolò Orsini e dalla contessa Luisa Rignon, discendente dei Medici di Firenze e dei Savoia , con tre papi in famiglia. E' un vero principe romano dall’indiscusso fascino e dall’allure internazionale grazie al ruolo di assistente al soglio pontificio che lo porta a viaggiare in tutto il mondo, tornando però sempre nella sua amata Roma all’epoca illuminata dalla Dolce Vita. In quel marzo del 1959 il settimanale Gente annuncia la grande notizia, poi ripresa dalle agenzie di stampa internazionali perché l'attenzione sull'ex imperatrice bellissima e, dicono le cronache mondane in cerca di un nuovo marito, è alta. "Non hanno ancora fissato una data per il matrimonio ma hanno preso la decisione durante una telefonata tra Roma e Colonia". E poi lo scrivente, che non cita nessuna fonte, lancia sul piatto il dettaglio più pungente: "Per celebrare l'unione dovranno sormontare due ostacoli non indifferenti: da una parte l'opposizione della corte iraniana, che ha intimato a Soraya di rinunciare al viaggio a Roma, e dall'altra i dubbi del Vaticano e dell'aristocrazia romana alla conversione della principessa musulmana al cattolicesimo". Tante le fotografie in bianco e nero che li ritraggono insieme in quella calda primavera romana, dalla passeggiata a Villa d'Este a Tivoli, lei splendida con un paio di occhiali da sole cat eye, il tailleur chiaro e le mary jane con doppio cinturino, lui al suo fianco elegante e garbato, agli scatti rubati dai paparazzi mentre escono da un ristorante, partecipano a un gala, entrano in un club non lontano da via Veneto, fuggono su un traghetto verso Capri a isolarsi dagli sguardi troppo insistenti della stampa mondiale. In quella stagione le copertine dei magazine sono tutte per loro: Oggi ne dedicò una, tra le tante, con la foto di Soraya e del principe Orsini che ballano guardandosi appassionati e il titolo "Soraya principessa italiana?". I due si erano conosciuti a Saint-Moritz nell'inverno del 1958, subito dopo la cacciata di Soraya dall'Iran, e nell'anno successivo riempirono le loro vite, e le pagine delle riviste rosa, frequentando molto Roma, all'epoca capitale del cinema dove lei sognava di intraprendere la carriera di attrice, e arrivando quasi alle nozze. L'ultimo atto avviene un anno dopo il loro incontro, come riporta il quotidiano spagnolo Abc: "L'imperatrice Soraya si convertirà al cattolicesimo e sposerà il principe Orsini, il tutto verrà comunicato in un gala che si terrà a Roma il 16 dicembre 1959 davanti a 400 invitati". Una festa che però non ebbe mai luogo. Da quel momento in poi si tornerà a parlare di Soraya ma senza più associare più il suo nome a quello del principe Orsini. Saranno altri gli uomini paparazzati vicino a lei in giro per il mondo, dal barone Harald Kurpp al regista Franco Indovina, poi morto tragicamente in un incidente aereo. Soraya diventerà la regina del jet set parigino e, pur mantenendo il titolo di Sua altezza imperiale la principessa dell'Iran, di quella esperienza porterà con sé solo una profonda depressione. Morirà da sola, nel 1969, per cause naturali e i suoi abiti meravigliosi, incluso lo splendido vestito da sposa, verranno venduti all'asta. Diverso sarà il percorso del mondanissimo principe Orsini. Sulla storia con Soraya non ha mai voluto rilasciare alcuna dichiarazione ma secondo le riviste di gossip la fine sarebbe stata legata alla sua condizione di principe vicino alla Chiesa che non gli avrebbe mai permesso di sposare una musulmana divorziata. Così nel 1978 sposerà la principessa Ketevan Bagration de Moukhrani di Georgia dalla quale avrà quattro figli, poi diventerà cittadino onorario della Georgia e passerà le sue estati a Forte dei Marmi a ricordare gli anni ruggenti. E' morto, all'età di 89, il 24 marzo scorso nella sua abitazione non lontana da quella via Veneto delle meraviglie, che lo aveva visto splendere vicino a Soraya, ora così deserta e silente.

·        Perdiamo anche Detto Mariano.

Marco Giusti per Dagospia il 25 marzo 2020. Ecco. Perdiamo anche Detto Mariano, 82 anni, autore di canzoni, arrangiatore, compositore di musica per film e per sigle di serie d’animazione. Non ce l’ha fatta nella lotta contro il virus. Aveva un talento incredibile e una passione che lo portarono a lavorare per tutti i grandi successi prima del Caln e poi di Adriano Celentano fino al 1968, poi a arrangiare una serie di incredibili hit di Lucio Battisti (“Emozioni”), Mina (“Insieme”), Al Bano (“Nel sole”), Bobby Solo, I Camaleonti. Produsse e arrangiò anche un disco per Leo Ferré. Nato a Monte Urano, Marche, nel 1937, iniziò prestissimo a lavorare con Adriano Celentano, da quando si conobbero facendo il militare. Fu Celentano a rovesciargli clamorosamente nome e cognome e da Mariano Detto diventò Detto Mariano. Arrangia tutti i primi successi suoi e del Clan, da “Il ragazzo della Via Gluk”, “Ora sei rimasta sola” a “Pregherò” a “L’immensità”. Proprio rispetto a “L’immensità” ci fu una lunghissima causa con Don Backy circa la paternità della canzone. Ma ci fu anche una lunga e poco simpatica causa con Celentano per il capolavoro rap “Prisencolinensinainciusol”, che Detto Mariano riteneva fosse sua. Non si saprà la verità, ammesso che esista una sola verità. Nel cinema iniziò a lavorare da quando Celentano e il Clan iniziarono a girare film, diciamo da “Uno strano tipo” e “Super rapina a Milano”, dove è anche attore. Lo troviamo anche come compositore del thriller “Quarta parete”, 1969, ma è solo negli anni ’70 che diventò un lavoro vero e proprio. Musica così il soft di Cesare Canevari “La principessa nuda” con Ajita Wilson e Tina Aumont, “Culastrisce, nobile veneziano” di Flavio Mogherini con Claudia Mori e una buffa apparizione di Celentano. Furono un grande successo le colonne sonore dei primi film di Maurizio Nichetti, “Ratataplan” e “Ho fatto splash”. Fece davvero di tutto negli anni ’80, dove fu tra i primi in Italia a usare il modello numero uno di Fire Light, un sistema particolare di campionatura computerizzata degli strumenti e dei suoni, con grande risparmio di tempo e di soldi per i produttori. Ricordiamo così i tanti film con Celentano, “Qua la mano”, “Asso”, “Yuppi Du”, quelli con Renato Pozzetto, “Mia moglie è una strega”, La casa stregata”, “Il ragazzo di campagna”, le commedie sexy “Spaghetti a mezzanotte”, “Cornetti alla crema”, “W la foca”, i poliziotteschi, “Il giustiziere della strada”, ma anche un cultissimo pera-movie come “Amore tossico” che gli stava particolarmente a cuore. Avrebbe dovuto musicare anche l’ultimo film di Claudio Caligari, “Non essere cattivo”, come ci disse a Stracult un paio d’anni fa. Non certo un compositore classico, come lo fu per la commedia Gianni Ferrio, ma di gran velocità e riconoscibilità. Diciamo che gran parte del sound anni ’80, tra sigle, serie come “Club Vacanze”, film come “Ecceziunale veramente”, “Delitto al ristorante cinese”, “Grandi magazzini”, gli deve molto. Per il film di Duccio Tessari “C’era un castello con 40 cani” riesce a campionare tuttei i bau bau dei 40 cani e metterli assieme nella colonna sonora. Cristina D’Avena lo ricorda oggi su FB come uno dei grandi compositori con cui ha avuto la fortuna di lavorare, e sigle indimenticabili come “Il grande sogno di Maya”, “Le avventure della dolce Kelly”. Ma sono sue anche “Gundam” e “Mazinga Z”. 

Luigi Bolognini per “la Repubblica” il 26 marzo 2020. Ha fatto cantare prima Adriano Celentano ( Il ragazzo della via Gluck) e poi Lucio Battisti per cui arrangiò Mi ritorni in mente, 7 e 40 e Acqua azzurra acqua chiara. Ma ha scritto o arrangiato anche canzonette epocali di Don Backy ( L' immensità, Casa bianca), Equipe 84 ( Tutta mia la città), Bobby Solo ( Zingara, Domenica d' agosto) e Mina ( Insieme). Quindi Mariano Detto, in arte Detto Mariano, fece cantare i bambini degli anni 70 e 80 con sigle come Gundam, L' ape Magà, Mazinga Z, Sì buonasera, le musiche di Drive In e di film come Eccezzziunale veramente di Carlo Vanzina e Ratataplan di Nichetti. Insomma, per 60 anni degli 82 che è vissuto (ieri la morte per coronavirus a Milano) è stato colonna sonora dell' Italia quanto un Morricone o un Bacalov, ma senza la loro notorietà. Tuttavia non misconosciuto: Leone d' oro alla carriera a Venezia 2006. Nato nelle Marche, trapiantato in Piemonte nell' Italia che mordeva il boom come una mela, nel 1960 ebbe «la mia "sliding door" - disse - nel giro di uno, massimo due secondi cambiò totalmente la mia vita musicale». Ovvero si trovò commilitone, nel 7° Artiglieria di Torino, di Adriano Celentano che ne fece il capo dei Ribelli, la sua band, dove si integrò col talento e un carattere che Ricky Gianco, musicista storico del Clan di Celentano, definisce «docile e disponibile: era l' amico di tutti. Soprattutto di Adriano, di cui era il primo ad assecondare ogni decisione, ma pure smettere di provare una canzone e andare a giocare a biliardo. Anche se poi Adriano perdeva perché non sapeva usare la stecca. E se io incidevo Pregherò, versione italiana di Stand by me, con un bellissimo arrangiamento di Mariano, poi la canzone passava comunque ad Adriano». Non facile, d' altronde, star accanto a un carattere così forte e infatti tanti uscirono dal Clan. Finché Mariano Detto, diventato Detto Mariano per un gioco di parole molto celentanesco, resistette, ecco canzoni come Sei rimasta sola e Il ragazzo della via Gluck. E Mondo in Mi 7, «dove Mariano - ricorda il batterista dei Ribelli Gianni Dall' Aglio, primo a dare la notizia ieri - si oppose all' idea di Adriano: inciderla sul tetto della casa discografica, in piazza Cavour a Milano, coi rumori delle auto in sottofondo. Era il 1966, sarebbe stato in anticipo di tre anni sul concerto dei Beatles a Savile Row». Nel 1967 il divorzio e l' attività da battitore libero, anche per il primo Battisti: «Mogol, suo produttore, mi fece arrangiare Balla Linda, Io vivrò (senza te), Dieci ragazze, Fiori rosa fiori di pesco... Ammappete che bella esperienza!». Ma nel 1971 Mariano incontrò per caso Celentano a Venezia, lo spennò di 1 milione 300mila lire a poker e nacquero la pace e Prisencolinensinainciusol e Yuppi du. E da lì si diede alle colonne sonore, tra cui Ratataplan di Nichetti («bel coraggio - ammette il regista - era un film stralunato di uno sconosciuto, lui ci fece musiche dolci, in contrapposizione alle gag, funzionarono benissimo»). E poi Eccezzziunale veramente con Abatantuono, Il ragazzo di campagna con Pozzetto e tutti i Castellano & Pipolo. Fino a Tutte le migliori, il disco di Mina e Celentano del 2017. «Era uno psicologo - spiega Dall' Aglio - faceva da collante tra l' estro di un artista a volte esuberante, come Battisti o Celentano, e il pubblico. Era un mediatore, e sempre con l' ironia e con gran senso melodico: l' intro di Mi ritorni in mente è così bella che quasi, si fa per dire, rende inutile la canzone». L' interessato però aveva un' altra risposta: «Quando mi sento in difficoltà parlo col mio personale maestro, tale Wolfgang nato a Salisburgo nel 1756: "Ma come cavolo facevi ad essere così profondo e semplice contemporaneamente?". Mozart ogni tanto in sogno me lo dice. Quante volte ci ha azzeccato! Sulla profondità non sono sicuro, ma su semplicità e immediatezza sì».

È morto Detto Mariano, ha composto canzoni per Celentano, Mina e Battisti. Aveva 82 anni. Arrangiatore ufficiale del Clan, a partire dagli anni Ottanta ha scritto colonne sonore per il cinema. Nel 2006 ha ricevuto il Leone d'oro alla carriera. Carlo Moretti il 25 Marzo 2020 su La Repubblica. Detto Mariano, autore e arrangiatore di successi del Clan di Adriano Celentano e poi di molti brani di Mina e Battisti, è morto a 82 anni a Milano dov’era stato ricoverato quindici giorni fa per le conseguenze del coronavirus. Era in rianimazione ma le sue condizioni erano giudicate stazionarie e nessuno si aspettava un suo repentino peggioramento. La sua attività principale erano le canzoni ma a partire dagli anni 80 Mariano ha scritto una trentina di colonne sonore cinematografiche tra le quali quella per Yuppi Du, per Eccezziunale veramente e per Il ragazzo di campagna. Nel 2006 gli era stato consegnato il Leone d’oro alla carriera. Oltre alla sua attività di arrangiatore, a cominciare da Il ragazzo della via Gluck sempre per Celentano, Nel sole di Al Bano, Insieme e Viva lei per Mina e Emozioni per Lucio Battisti, Mariano aveva scritto una quarantina di canzoni, tra le quali Ciao amore del 1961, uno dei maggiori successi di Adriano Celentano. Tra i suoi brani più noti come autore c’è anche L’immensità, scritta con Mogol e al centro di una lunga disputa con Don Backy, che ne rivendicò tutta la paternità ricordando che all’epoca non ebbe modo di poterla depositare alla Siae non essendo ancora iscritto come autore. “Proprio qualche minuto fa, il mio amico e ex batterista Riziero Bixio, mi ha comunicato una ferale notizia, ovvero la morte del mio amico e arrangiatore di tanti miei successi, Detto Mariano”, ha scritto Don Backy su Facebook. “Inutile dire che la notizia mi ha agghiacciato. Solo gli stupidi potranno pensare il contrario, in base alle nostre vicende tumultuose sulla paternità delle canzoni. Ciononostante non sarò ipocrita a tal punto, da non restare fermo sulle mie posizioni di sempre, nei suoi confronti. Ormai, non ci sarà più tempo per convincerlo a restituirmi la parte che si è annessa di quei brani, senza averne titolo, e spero che il peso di quella storia e della terra gli sia comunque lieve”. Anche con Celentano lo divideva una causa ancora in corso a Milano a proposito di Prisencolinensinainciusol, il pezzo di cui Mariano ha rivendicato la paternità per quanto riguarda le musiche. Il compositore e arrangiatore è sempre stato convinto che "un buon arrangiatore, quando fa bene il suo lavoro, è anche autore di un brano e il suo nome dovrebbe comparire accanto a quelli dell'autore del testo e dell'autore della musica". Grazie a una sua petizione, lanciata una decina di anni fa e sottoscritta da numerosi musicisti ed arrangiatori italiani, dal marzo del 2010 la Siae ha riconosciuto questo diritto per gli arrangiatori in tutti quei casi in cui "l'arrangiatore, in sede di stesura definitiva di un’opera originale, abbia apportato un intervento creativo e compositivo". Detto Mariano, iscritto come Mariano Detto all’anagrafe di Monte Urano, in provincia di Fermo, aveva conosciuto Adriano Celentano durante il servizio militare. Fu così che quando il Molleggiato decise di dar vita all'etichetta del Clan Celentano coinvolse Mariano, che aveva studiato pianoforte, nel ruolo di arrangiatore e lavoro dopo lavoro divenne l’arrangiatore ufficiale del Clan. Il primo che realizzò fu per il brano Sei rimasta sola che cantata da Celentano ottenne un grande successo. A seguire, dall'aprile 1962 al dicembre 1967, realizzò gli arrangiamenti di tutti gli artisti del Clan, da Ricky Gianco a Don Backy, a Gino Santercole. A partire dal 1968, dopo l’allontanamento dal Clan, Mariano inizia la collaborazione con Lucio Battisti con l’arrangiamento di brani fondamentali come Mi ritorni in mente, Acqua azzurra, acqua chiara, Fiori rosa, fiori di pesco e con la Ricordi per la quale lavora ai brani di Bobby Solo (Zingara e Siesta), di Milva (Un sorriso), l'Equipe 84 (Tutta mia la città). E poi con i Camaleonti (L'ora dell'amore, Applausi). Non secondaria, oltre alla scrittura di colonne sonore, la firma di sigle per i cartoni animati fra le quali Mazinga, Temple e Tam Tam, Judo Boy, Gundam, Astroganga, Piccola Lulu, I bon bon di Lilly. Detto Mariano viveva tra Milano e Roma, dove lavorava e possedeva una casa piena di ricordi e cimeli in zona Prati. Il 9 settembre 2011 è stato nominato cittadino onorario di Poggio Bustone, il paese natale di Lucio Battisti. 

·        Morto Corrado Sfogli.

Morto Corrado Sfogli, addio al direttore della Nuova Compagnia di Canto Popolare. Redazione de Il Riformista il 26 Marzo 2020. Corrado Sfogli, direttore della Nuova Compagnia di Canto Popolare, è morto nella notte nella sua casa di Caserta all’età di 69 anni. Il chitarrista, nato a Napoli, era il marito di Fausta Vetere, anche lei nell’ensamble, e padre di Marco, chitarrista dal grande curriculum e attualmente in forza alla PFM. Sfogli aveva iniziato lo studio della chitarra con un grande maestro, Eduardo Caliendo, diplomandosi poi presso il Conservatorio “Domenico Cimarosa” di Avellino con il massimo dei voti e la lode. Nel 1976 entra nella Nuova Compagnia di Canto Popolare, fondata dieci anni prima da Eugenio Bennato, Carlo D’Angiò, Roberto De Simone e Giovanni Mauriello, ai quali poi si aggiunsero altri grandi musicisti napoletani come Peppe Barra, la moglie Fausta Vetere, Nunzio Areni, Patrizia Schettino e Patrizio Trampetti. Da tempo Sfogli lottava contro un tumore al rene, che gli ha lasciato il tempo però di sposare la compagna di una vita, Fausta, il 28 dicembre 2018. Impossibile ora svolgere i funerali: per l’emergenza Coronavirus infatti non ci sarà un addio pubblico, che il maestro Corrado avrebbe senz’altro meritato.

È morto Corrado Sfogli, anima della Nuova compagnia di canto popolare. Aveva 69 anni. Era entrato nella Nccp nel '76. Il cordoglio del sindaco di Napoli De Magistris: "La sua musica sempre vicina a popolo". La Repubblica il 26 Marzo 2020. Si è spento nella sua casa a Caserta, Corrado Sfogli, chitarrista e direttore musicale della Nuova compagnia di canto popolare, marito di Fausta Vetere, anche lei nome di punta della compagine, padre di Marco Sfogli, chitarrista della Premiata Forneria Marconi. Sfogli, 69 anni, è stato stroncato da un male incurabile. ''Ha lasciato la vita terrena Corrado Sfogli, anima, cuore e corpo della Nuova Compagnia di Canto Popolare" scrive il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris. "Corrado rappresentava l'autenticità della musica partenopea, sempre vicina al popolo della nostra città. È stato anche un uomo sempre sensibile alla vita sociale e politica della nostra comunità, un pensatore libero. Personalmente l'ho sempre ammirato come artista e come uomo. A Fausta Vetere, alla famiglia, ai suoi cari il cordoglio mio personale e della città di Napoli''. Nato a Caserta, città nella quale ha iniziato lo studio della chitarra con il maestro Eduardo Caliendo, si era diplomato al Conservatorio Cimarosa di Avellino ed era entrato nella Nccp nel 1976, subentrando a Eugenio Bennato. Ha partecipato alla tournée di Angelo Branduardi Camminando Camminando e ha pubblicato album cult tra cui La gatta Cenerentola e La cantata dei pastori. Poi è diventato l'anima dello storico gruppo di musica popolare e ha anche collaborato con diverse orchestre tra cui quella del teatro San Carlo di Napoli e ha lavorato come compositore nel cinema con le musiche di Another time, another place di Michael Radford. Tra i suoi lavori anche la composizione delle musiche dello spettacolo teatrale di Giuseppe Patroni Griffi, La Celestina. Nel 1984 ha collaborato con Pino Daniele nel live Scio.

·        È morto Joe Amoruso, il pianista del gruppo di Pino Daniele.

È morto Joe Amoruso, il pianista del gruppo di Pino Daniele. Due anni fa aveva avuto una emorragia cerebrale, si è spento all'Ospedale del Mare. La Repubblica il 24 Marzo 2020. Si è spento all'ospedale del Mare di Napoli Joe Amoruso, pianista e tastierista dello storico gruppo di Pino Daniele. Amoruso, 60 anni, nel 2017 era stato colpito da un'emorragia cerebrale prima di un concerto a Lesina in Puglia. Oggi l'arresto cardiaco. "Un altro grande artista della storica band di Pino Daniele ci ha lasciato - scrive il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris - Joe Amoruso, pianista, tastierista, compositore, una colonna del supergruppo di Pino Daniele, se n'è andato a soli 60 anni. Amoruso, originario di Boscotrecase, dopo la scomparsa di Pino Daniele si esibiva spesso in amarcord del Nero a metà con cui aveva lavorato a dischi che hanno fatto la storia della musica napoletana e italiana. Amoruso e Pino Daniele, insieme a James Senese, Tullio De Piscopo e Tony Esposito, si erano ritrovati nell'operazione Ricomincio da 30 nel 2008 dei concerti natalizi al Palapartenope. Nella sua carriera, aveva inciso un album da solista e collaborato con numerosi artisti tra i quali, solo per citarne alcuni, Roberto Murolo, Vasco Rossi, Zucchero, Andrea Bocelli, la Premiata Forneria Marconi.

2020 tragico: se ne va Joe Amoruso, il pianista della band di Pino Daniele. Redazione de Il Riformista il 24 Marzo 2020. E’ deceduto nella notte tra lunedì e martedì Joe Amoruso, pianista, tastierista e compositore che in passato ha fatto parte della storica band di Pino Daniele. Aveva 60 anni ed era ricoverato all’Ospedale del Mare di Napoli e, così come riporta Il Mattino, sarebbe deceduto per complicazioni e non per il coronavirus. Il musicista era stato colpito da una emorragia cerebrale due anni fa durante un concerto in Puglia. Tra i primi ad essere informati della scomparsa di Joe Amoruso gli altri membri della storica band: Tullio De Piscopo, James Senese,Tony Esposito. Ad assistere l’artista in questi ultimi anni il fratello Arturo, la madre e la sorella.  La morte di Joe Amoruso arriva tre anni dopo quella di Rino Zurzolo (scomparso il 29 aprile 2017) e cinque anni dopo la dipartita di Pino Daniele (4 gennaio 2015). Le condizioni di Joe Amoruso erano critiche da quel 9 dicembre 2017 quando, nel corso di un concerto a Lesina (Foggia) venne colpito da una emorragia cerebrale che negli anni successivi, nonostante un percorso di riabilitazione, gli ha causato non pochi problemi polmonari.

·        E’ morto Paolo Micai, giornalista e cineoperatore.

Coronavirus, è morto Paolo Micai, giornalista e cineoperatore. Mediaset in lutto. Libero Quotidiano il 24 marzo 2020. Paolo Micai, giornalista e tele-cineoperatore genovese, è morto per il coronavirus. Il reporter aveva sessant'anni ed era stato ricoverato per Covid-19 una settimana fa al San Martino di Genova. Sempre in prima linea, nell'ultimo mese aveva raccontato il dramma dell'epidemia accompagnando con le sue immagini i racconti dei giornalisti dalle città. Era anche collaboratore di Mediaset da Genova. "Paolo Micai è stato uno dei più bravi e capaci collaboratori che abbiamo avuto e oggi tutto il Gruppo Mediaset si stringe intorno alla sua famiglia", ha detto commosso il Direttore di News Mediaset, Andrea Pucci.

·        Se ne va anche Alfio Contini.

Marco Giusti per Dagospia il 24 marzo 2020. Ecco. Se ne va anche Alfio Contini, 93 anni, direttore della fotografia di capolavori come “Il sorpasso”, “I mostri” di Dino Risi, “Zabrieskie Point” di Michelangelo Antonioni, “Il portiere di notte” di Liliana Cavani, ma anche di capolavori del cinema bis come “I due pericoli pubblici” con Franco e Ciccio o “Mutande pazze” di Roberto D’Agostino o ben nove film di o con Adriano Celentano, da “Il bisbetico domato” a “Yuppi Du” a “Joan Lui”. Molta della commedia all’italiana degli anni d’oro gli deve parecchio, visto che illuminò non solo i film di Dino Risi, ma anche “Una rosa per tutti” di Franco Rossi, “La matriarca” di Pasquale Festa Campanile, “La mortadella” di Mario Monicelli, “Bianco rosse e…” di Alberto Lattuada, ma bazzicò anche altri generi. Lavora con Liliana Cavani per “Galileo” e per Giuseppe Colizzi nel fondamentale “Dio perdona… io no”, per Michael Cacoyannis ne “Le troiane” con Katherine Hepburn e Vanessa Redgrave e per Nando Cicero ne “il gatto mammone”. Con la stessa disinvoltura scivola da “Joan Lui”, il film più pazzo e magalomane di Celentano a “La bocca” di Luca Verdone al capolavoro cafonal “Mutande pazze”, dove non poco deve aver aiutato il neoregista Dago, a “Al di là delle nuvole” di Wim Wenders, che gli farà vincere il suo secondo David dopo “Zabrieskie Point”. Nato a Castiglioncello nel 1927, entra nel cinema nei primissimi anni ’50 come assistente operatore di Mario Montuori ne “Il cappotto” di Alberto Lattuada, “Bufere” di Guido Brignone, “Tripoli bel suol d’amore” di Ferruccio Cerio, passando poi operatore alla macchina, sempre a fianco di Montuori, di grosse produzioni del tempo, “Racconti romani” e Ferdinando I° Re di Napoli” di Gianni Franciolini, “Il conte Max”, “Olympa” di Michael Curtiz, bazzicando anche il peplum, “La vendetta di Ercole” e chiudendo con “La dolce vita” di Federico Fellini. Dopo un lungo tirocinio fa il suo esordio da direttore della fotografia affiancando Montuori in “Sodoma e Gomorra” di Robert Aldrich e poi da solo su “La regina dei tartari” di Sergio Grieco. Col peplum continuerà col notevole “Arrivano i titani” di Duccio Tessari, ma sarà l’incontro con Dino Risi per  i tre film capolavoro del 1962, “Il sorpasso”, “La marcia su Roma” e “I mostri” a segnarlo come maestro assoluto di luci nella commedia all’italiana moderna girata prevalentemente in esterni. Con Risi proseguirà poi con “Il gaucho”, interamente girato in Argentina, “La moglie del prete” e “Sessomatto”, mentre si aprirà a generi diversi, come lo spaghetti western, “L’uomo che viene da Canyon City di Alfonso Balcazar e, soprattutto, “Yankee” di Tinto Brass e “Dio perdona… io no”. Diventa fondamentale per molti registi, da Liliana Cavani a Pasquale Festa Campanile, anche se sarà il grande lavoro su “Zabrieskie Point” di Michelangelo Antonioni a segnalarla tra i più grandi direttori della fotografia degli anni ’60.  A questo seguiranno altri film di grande impatto come “Il portiere di notte”, ma anche le ricche produzioni dei Celentano movies, sia diretti da lui che diretti da Pasquale Festa Campanile o da Castellano e Pipolo. E’ probabilmente il direttore della fotografia di fiducia di tutti i successi di Celentano. Ma, ripeto, pronto poi a operazioni più difficili o opere prime, “La bocca” di Luca Verdone o lo stesso “Mutande pazze”. Timido, riservato, non ho trovato da nessuna parte sue interviste scritte, anche se su di lui venne scritto un libro nel 2002. Lo incontrai nello stesso periodo sul set di un film imbarazzante, “Apri gli occhi e sogna”. Non potevo crederci che in quel film ci lavorasse l’Alfio Contini de “Il sorpasso” e di “Zabrieskie Point”. Mi sorrise.

·        Bepi Covre è morto: era conosciuto come il “leghista eretico”.

Coronavirus, Bepi Covre è morto: era conosciuto come il “leghista eretico”. Debora Faravelli il 24/03/2020 su Notizie.it.  Addio a Bepi Covre, ex sindaco di Oderzo (comune in provincia di Treviso) e parlamentare della Lega morto a 69 anni. Da tempo soffriva di alcune patologie e negli ultimi giorni era anche risultato positivo ai test per il coronavirus. La sua carriera politica iniziò negli anni Ottanta tra le fila del Carroccio di cui si definì un membro eretico per non aver mai sposato le sue idee secessioniste. Nel 1993 iniziano poi i suoi due mandati da sindaco della sua cittadina a seguito dei quali, non potendo candidarsi per il terzo, si accontentò di essere eletto in consiglio comunale. Quanto all’attività parlamentare, questa iniziò nel 1996 quando venne nominato deputato alla Camera per la Lega Nord. Dopo cinque anni, nonostante secondo molti avesse buone possibilità di essere rieletto, decise di non ricandidarsi. In quegli anni poi, insieme a Giancarlo Gentilini e al giornalista Giorgio Lago, è stato fra gli ideatori del Movimento dei sindaci. Tantissimi i messaggi di cordoglio alla notizia della sua morte, in primis quello di Luca Zaia che l’ha definito un amico e un pezzo di storia. “L’ho sentito l’ultima volta settimana scorsa, mi mancherà molto il suo pensiero ma anche il suo modo di intendere l’amministrazione. Tutti gli dobbiamo qualcosa ed essere grati“, ha continuato il Presidente di Regione Veneto.Tra i veneti che hanno commentato il suo post c’è poi chi l’ha ricordato come un uomo che ha dato molto al suo territorio, “lungimirante, intelligente, sempre pronto nell’aiuto verso gli altri“.

·        Coronavirus, morto Terrence McNally: scrisse “Paura d’amare”.

Coronavirus, morto Terrence McNally: scrisse “Paura d’amare”. Linda il 25/03/2020 su Notizie.it. Anche il drammaturgo americano Terrence McNally è rimasto vittima del Coronavrus: aveva 81 anni e da tempo era malato ai polmoni. Quanto è vero che il Coronavirus non guarda in faccia a nessuno lo stiamo scoprendo purtroppo di giorno in giorno. Di queste ore è la notizia che anche il drammaturgo statunitense Terrence McNally, uno dei più noti al mondo, è rimasto vittima del tremendo virus. Da tempo malato ai polmoni, lo sceneggiatore aveva 81 anni e ad annunciarne il decesso è stato il suo portavoce. McNally si è dunque spento in un ospedale della Florida per via di alcune complicanze dopo aver contratto il Covid-19. Da tempo combatteva contro un tumore ai polmoni, che gli è risultato fatale in questo tragico periodo storico che ci vede tutti più delicati che mai. Il drammaturgo ha vinto cinque premi Tony e un Emmy, oltre a essere stato candidato al premio Pulitzer nel 1994 per la drammaturgia. Tra le sue opere più famose ricordiamo Ragtime, Il bacio della donna ragno, Amore! Valore! Compassione! e Master Class. Terrence McNally aveva inoltre sceneggiato il film Paura d’amare con Al Pacino e Michelle Pfeiffer, iconica storia d’amore fra le più belle del cinema. La vicenda riguardava una donna di mezza età, delusa dalle relazioni del passato. Lui era invece un uomo maturo e divorziato, che le avrebbe di nuovo ridato fiducia nell’amore. Ed è proprio il tema della fiducia che deve essere quanto più interiorizzato in questo particolare frangente storico, dove una vera e propria guerra contro il virus sta tenendo in scacco il mondo intero.

·        Morto il regista americano Stuart Gordon.

Stuart Gordon, morto il regista americano: aveva 72 anni. Linda il 25/03/2020 su Notizie.it. Addio a Stuart Gordon, regista americano indipendente che diresse molti classici del genere horror: aveva 72 anni. Grande lutto nel mondo del cinema. Nelle scorse ore è infatti venuto a mancare a Chicago Stuart Gordon, regista e produttore cinematografico molto noto nel settore dell’horror indipendente. La notizia della sua morte è stata confermata dalla sua famiglia. Gordon aveva 72 anni e durante la sua lunga carriere diresse diversi classici del genere, come Re-Animator e From Beyond – Terrore dall’ignoto. Fu anche l’ideatore di alcune serie, come Masters of Horror, H.P. Lovecraft’s Dreams in the Witch-House e Il gatto nero. Da studente universitario a Chicago, Gordon diede inizio alla sua carriera alla fine degli anni sessanta nel mondo del teatro. Fondò di fatto la Screw Theater e mise in scena diversi spettacoli con un forte impatto realistico, tanto da prendersi anche una denuncia per oscenità nel 1967. Dopo aver lasciato gli studi, diede vita all’Organic Theater, passando poi alla tv con il documentario Bleacher Bums. Fu poi la volta dell’horror Re-Animator al cinema, tratto dal racconto di Howard Phillips Lovecraft. Dallo stesso iconico scrittore americano trasse anche From Beyond – Terrore dall’ignoto. Altro romanziere molto amato dal regista fu Edgar Allan Poe, di cui adottò Il pozzo e il pendolo e il già citato Il gatto nero. Nel 1969 Stuart Gordon sposò l’attrice Carolyn Purdy, presente peraltro in diversi suoi film. La coppia ha avuto tre figlie, Jillian Bess, Margaret Berni e Suzanna Katherine.

Marco Giusti per Dagospia il 25 marzo 2020. Il cinema horror piange oggi uno dei suoi grandi maestri degli anni ’80, Stuart Gordon, 72 anni, regista di film cultissimi come “Re-Animator” e “From Beyond” con Jeffrey Combs e Barbara Crampton, ma anche di film più autoriali come “Edmond” con William Macy, tratto da una sceneggiatura di David Mamet e presentato al Festival di Venezia nel 2005 all’epoca di Marco Muller. La sua attrice preferita, Barbara Crampton, lo descrive oggi su Twitter come “Un talento enorme, vibrante e sconvolgente. Ha creato innumerevoli momenti nel film che sono stati allo stesso tempo divertenti, spaventosi, audaci e intelligenti. Ha creato la mia carriera. Ho perso un caro amico. Ho il cuore spezzato. Nessuna parola può rendergli giustizia”. Sofisticato, divertente, colto, di grande intelligenza e spirito, sempre pronto a mischiare l’horror con il sesso con una certa eleganza, per difendere il suo cinema Stuart Gordon si dovette muovere da indipendente in un mercato non certo facile. Nato a Chicago nel 1947, inizia a far teatro all’Università con una messa in scena politico-psicanalitica di “Peter Pan” che lo farà arrestare per oscenità e poi cacciare dalla stessa università. Fonda così l’Organic Theather muovendosi da Chicago in giro per l’America con un celebre testo di David Mamet, “Sexual Pervertsity in Chicago”, seguito da “Bleacher Buns” e “PS/Pronto soccorso”, che diventerà addirittura una serie tv. Nei primi anni ’80 con Brian Yuzna e Charles Band fondano l’Empire Pictures per produrre i loro film in maniera indipendente. Nasce così “Re-Animator”, interpretato da Jeffrey Combs, tratto da un racconto di H. P. Lovecraft, che vince a Cannes il primo premio alla Semaine de la Critique nel 1985. Seguirà un altro film tratto da Lovecraft, “From Beyond – Terrore dall’ignoto”. “I puristi di Lovecraft”, disse Stuart Gordon difendendo i suoi film dall’accusa di mettere troppe scene spinte nei suoi horror, “sono sempre molto arrabbiati con me perché riempio sempre tanta nudità in questi film, e non c'è nudità in Lovecraft. Ma la mia argomentazione è che c'è una tremenda sessualità in Lovecraft e una paura del sesso, al punto che l'atto riproduttivo è trasformato in qualcosa di mostruoso. Anche se non si esplicita con il sesso, Lovecraft ci si riferirà costantemente nelle sue storie. E in un film, devi usare le immagini per mostrare le cose”. Dirige poi “Dolls- Bambole” e “Robojox”. Suo è anche il soggetto di un film di grande successo per ragazzi come “Tesoro, mi si sono ristretti i ragazzi”, che avrà pure un alterttanto fortunato sequel. Gira una sua versione di “Il pozzo e il pendolo” da Edgar Allan Poe con Lance Henrikson, Oliver Reed e il nostro Benito Stefanelli, il più ricco “2013 - La fortezza” con Christopher Lambert, “Dagon”, “Kings of Ants”, fino a “Edmond” nel 2005 e “Stuck” nel 2007 con Mena Suvari.

·        E’ morto il sassofonista Manu Dibango.

Il sassofonista Manu Dibango morto per coronavirus: addio a una leggenda dell'afro-jazz. La conferma del decesso dall'entourage del musicista. La Repubblica il 24 March 2020. Il coronavirus si è portato via un grande della musica africana. Se n'è andato così Manu Dibango, sassofonista, compositore, vibrafonista e cantante camerunese. Aveva 86 anni  (nato a Douala, il 12 dicembre 1933). In un percorso iniziato nei primi anni Settanta Manu Dibango ha sviluppato uno stile fusion contaminando jazz, soul e funk con elementi della musica tradizionale camerunese.  La conferma del decesso è arrivata da Thierry Durepaire, gestore delle edizioni dell'artista, spiegando che Dibango è spirato al mattino in un ospedale del parigino. Poi il comunicato su Facebook:  "Con profonda tristezza annunciamo la perdita di Manu Dibango, il nostro 'Papy Groove', per covid 19,". Manu Dibango conobbe il successo planetario nel 1972 con l'album "Soul Makossa", tra i più celebri della cosiddetta world music ma considerato da diversi critici addirittura il primo album della disco music. Quanto al brano omonimo, in origine non era che il lato B di un 45 giri, sul lato A un inno composto per la nazionale di calcio del Camerun in occasione della Coppa d'Africa. Scovato dai dj newyorkesi, "Soul Makossa" sarebbe arrivato sui dancefloor della Grande Mela e quindi del mondo. Il jazz è interplay, dialogo, confronto. Nella sua lunga vita artistica Manu Dibango ha collaborato con molti nomi dall'estrazione più varia, da Fela Kuti a Herbie Hancock, Bill Laswell, Bernie Worrell, l'ensemble sudafricano Ladysmith Black Mambazo, Sly and Robbie, Eliades Ochoa. Famosa anche la sua denuncia di plagio che Manu Dibango mosse a Michael Jackson in relazione a un brano dell'album "Thriller". Contenzioso sanato con un accordo economico tra le parti. 

Carlo Moretti per “la Repubblica” il 25 marzo 2020. Per spiegare la sua grandezza e illustrare al meglio fin dove la sua fama seppe spingersi a partire dagli anni 70, basterà dire che nel 1982 il re del pop Michael Jackson campionò, per quello che sarebbe diventato l' album più venduto della storia, Thriller, la sua hit Soul Makossa, pubblicata in America dieci anni prima: il re del pop rendeva così omaggio a Manu Dibango, uomo simbolo dell' afro beat, uno dei più influenti portabandiera della musica africana contemporanea. Il sassofonista camerunense che ha aperto i confini della musica etnica alle sonorità jazz e pop è morto ieri a 86 anni, una delle prime vittime del coronavirus nel mondo della musica. La notizia diffusa dalla famiglia via Facebook ha gettato nello sconforto milioni di fan: «Una voce si alza da lontano, è con profonda tristezza che vi annunciamo la scomparsa di Manu Dibango, il nostro Papy Groove». Come l' altro sassofonista afrojazz, il nigeriano Fela Kuti, anche Manu Dibango incarnava con convinzione quel mondo artistico africano che aveva saputo far suo il linguaggio musicale moderno senza perdere contatto con le proprie radici. Diceva di sentirsi «a cavallo tra due culture, tra due ambienti: Soul Makossa ha fatto capire che è possibile una musica africana non folkloristica ». Grazie a quel brano, che all' inizio non riscontrò alcun successo in patria, Dibango impresse una svolta per l' affermazione della musica elettrica africana nel mondo in quella forma che prese il nome di afrojazz. Arriva giovanissimo in Francia, con sé ha solo tre chili di caffè che gli serviranno per pagare l' affitto, lo racconterà nell' autobiografia. Entra nelle orchestre jazz, ascolta soul americano, suona l' hammond nella band di Nino Ferrer che lo lancia. Nell' album Oboso che contiene Soul Makossa, Dibango fa una sintesi tra James Brown e Miles Davis con la poliritmia africana trovando la chiave del suo successo che gli permetterà gli incontri con Herbie Hancock, Peter Gabriel e tanti altri. "Un omaggio alla sua memoria verrà organizzato non appena ci saranno le condizioni per farlo", annuncia dolente il messaggio su Facebook. Molti artisti già lo ricordano come Angelique Kidjo che via Twitter lo definisce «il vero gigante della musica africana». Per uno dei suoi ultimi concerti italiani, a Barratili in Sardegna, c' erano tuoni e fulmini. «Poi però il cielo si spalancò e come per un miracolo la pioggia smise di scendere», dice Magali Berardo, sua promoter in Italia, «in questa specie di ombrello magico Manu salì sul palco e fece un concerto indimenticabile».

·        Fumetti, addio ad Albert Uderzo: era il "padre" di Asterix.

Fumetti, addio ad Albert Uderzo: era il "padre" di Asterix. Il celebre disegnatore francese, di origini italiane, è deceduto a 92 a causa di un attacco cardiaco. Aveva ideato, insieme allo sceneggiatore Goscinny, la saga divenuta celebre in tutto il mondo. Lavinia Greci, Martedì 24/03/2020 su Il Giornale. Il disegnatore francese Albert Uderzo, creatore della saga a fumetti di "Aterix e Obelix", è morto questa notte, a 92 anni. Ad annunciare il decesso dell'ideatore e padre, insieme allo sceneggiatore Rene Goscinny, del celebre personaggio di fantasia, sono stati i familiari, i quali hanno fatto sapere che il celebre fumettista è morto nel sonno, nella sua casa di Neuilly, in Francia, a causa di un attacco di cuore, non correlato al coronavirus. "Era molto stanco da diverse settimane", ha spiegato il genero dell'artista, Bernard de Choisy.

La storia del disegnatore. Figlio di genitori italiani, Albert Aleandro Uderzo era nato a Fismes, nell'Est della Francia. La vocazione per il disegno la manifestò fin dall'infanzia, distinguendosi come un attento lettore di fumetti e precoce disegnatore di storie. Scoperto un deficit visivo che lo rese daltonico, continuò a disegnare, fino a farlo diventare un mestiere. Dopo aver creato il suo primo fumetto, "Flamberge Gentilhomme Gascon", Uderzo inventò il soldato con una sola gamba, "Clopinard". Nella sua brillante carriera, riuscì a realizzare fumetti avventurosi e umoristici, anche se la celebrità la raggiunse con "Asterix".

L'arrivo di "Asterix". La svolta, per Uderzo, arrivò con l'incontro con Gosciinny, un giovane autore francese appena arrivato dagli Stati Uniti. Tra i due, oltre a una grande amicizia, si formò un fondamentale sodalizio artistico e dopo la prematura scomparsa dello sceneggiatore, avvenuta nel 1977, Uderzo continuò la realizzazione della popolare serie delle avventure degli irriducibili Galli, in perenne lotta contro i Romani. Uderzo e Goscinny debuttarono con le storie di Asterix il 29 ottobre del 1959, con il primo numero di "Pilote", edito dalla Societé Nouvelle du Journal Pilote (creata per l'occasione), di cui Uderzo era direttore artistico. Successivamente il fumetto venne pubblicato in 37 volumi e tradotto in oltre cento Paesi, vendendo oltre 200 milioni di copie.

La fortuna del fumetto. La serie a fumetti di Uderzo e Goscinny ha avuto, nel tempo, diverse trasposizioni cinemtaografiche, con una lunga serie di lungometraggi a cartoni animati e quattro film live action. "Asterix", oltre a essere diventato un vero e proprio simbolo nell'immaginario di tutti, ispirando costumi e travestimenti, ha persino un parco divertimenti a tema, "Parc Astérix", inaugurato nel 1989 a Plailly, vicino a Parigi.

L'eredità di Uderzo. Il celebre disegnatore, pur mantenendo la supervisione sugli albi della saga fino all'ultimo, il 38esimo, "Asterix e la figlia di Vercingetorige", uscito nello scorso autunno, nel 2011 aveva voluto designare i suoi eredi: Jean-Yves Ferri per la sceneggiatura e Didier Conrad per i disegni. I due hanno debuttato con "Asterix e i Pitti", il 34esimo album, nel 2013.

Francia, è morto Albert Uderzo: fu il disegnatore di Asterix. Aveva 92 anni, è stato stroncato da un infarto nel sonno. Insieme a René Goscinny creò la celebre striscia di fumetti. La sua scomparsa lascia un vuoto immenso: ma il suo personaggio vivrà per sempre. Luca Valtorta il 24 Marzo 2020 su La Repubblica. È morto in Francia, a Neuilly, all'età di 92 anni, Albert Uderzo, il disegnatore di Asterix. È stato stroncato nel sonno da una crisi cardiaca, come riferisce la famiglia. Che precisa: la sua scomparsa “non è correlata al coronavirus. Era molto stanco da diverse settimane". Anche se lui era andato in pensione, il suo personaggio, Asterix, ha continuato a vivere: Uderzo ha infatti continuato a mantenere la supervisione sugli albi della saga fino all'ultimo, il 38esimo, Asterix e la figlia di Vercingetorige, uscito lo scorso autunno.

Nel 1977 aveva deciso di andare avanti anche senza il compagno di una vita, lo sceneggiatore René Goscinny, morto quell'anno. I due si erano incontrati per la prima volta nel 1951 ma il vero sodalizio inizia qualche tempo dopo, nella sede parigina della casa editrice Word Press, dove Goscinny scrive le sue prime storie per Lucky Luke mentre Uderzo lavora per serie di stampo più realistico. La prima collaborazione è assai strana: una rubrica di galateo sul femminile Bonnes soirée. Ma lì i due scoprono di condividere lo stesso senso dell'umorismo e il 1952 li vede ancora insieme per la serie Oumpah-Pah (in Italia viene pubblicato su Il Corriere dei Piccoli dal 1967 al 1970), un indiano che ha a che fare con la moderna tecnologia: un modo per prendere in giro sia il nuovo mondo, l'America, con il suo consumismo, che la Francia. Elementi interessanti perché costituiranno poi una parte importante del fumetto che li rende famosi ovunque: Asterix. Che diventerà uno dei più conosciuti in assoluto. Un successo che ha davvero dell'incredibile: 350 milioni di copie vendute, nove film di animazione e quattro con attori in carne e ossa (celebre l’Obelix interpretato da Gérard Depardieu). Il debutto avviene il 29 ottobre 1959 con il primo numero di Pilote, edita dalla Societé Nouvelle du Journal Pilote (creata per l'occasione). Se è Goscinny ad avere l'idea di fare di Asterix una sorta di antieroe, non un personaggio dal fisico perfetto ma un piccolo ometto qualunque che diventa potentissimo grazie alla bevanda magica del druido Panoramix, è Uderzo che insiste per dargli una spalla, un personaggio grosso e gioviale, gran mangiatore di cinghiali (interi), la cui forza è sovrumana perché, essendo caduto da piccolo dentro il paiolo della bevanda in lui i poteri sono permanenti. Non solo: l'incredibile popolarità di Asterix si rivela nel fatto che è tradotto in centodieci lingue! Nessuno come lui. Il motivo di tanto successo probabilmente sta nel fatto che non è solo una lettura per ragazzi. È proprio l'umorismo che lo rende capace di arrivare a un pubblico illimitato: giochi di parole, calembour, acronimi (come il famosissimo S.P.Q.R., che mentre in francese suonava come "IIs sont fous, ces Romains", in italiano viene tradotto da Marcello Marchesi in "Sono Pazzi Questi Romani", il tormentone di Obelix), accenni alla società contemporanea e persino alla politica. Nel 1977 la morte di Goscinny per attacco cardiaco mentre si sta sottoponendo a un test sotto sforzo, quando ha solo 51 anni, lascia Uderzo senza parole: decide comunque di andare avanti proseguendo il lavoro su Asterix e i belgi, ultima sceneggiatura di Goscinny, che esce nel 1979. Poi, va avanti da solo al ritmo di un albo ogni due anni, finché nel 2011 decide che il personaggio deve proseguire ancora e sceglie i suoi eredi: Jean-Yves Ferri (sceneggiatura) e Didier Conrad (disegni) che debuttano con Asterix e i Pitti, il 35esimo albo di Asterix apparso nel 2013. E poi l'ultimissima storia, Asterix e la figlia di Vercingetorige, che ha fatto un certo scalpore anche perché la ragazza protagonista a molti ha ricordato Greta Thunberg. Anche se ha predisposto tutto in vita in modo che Asterix potesse andare avanti, Uderzo lascia un vuoto immenso: è un pezzo enorme della storia del fumetto che se ne va. E non ci voleva di questi tempi. Il suo ultimo regalo, però, è che proprio oggi può darci un enorme conforto: leggiamo Asterix da soli o con i nostri figli. Rileggiamolo. Ridiamo. Pensiamo. Andrà tutto bene.

Albert Uderzo morto a 92 anni: era il disegnatore di Asterix. Riccardo Castrichini il 24/03/2020 su Notizie.it. Albert Uderzo, il disegnatore di Asterix, è morto all'età di 92 anni a causa di un infarto. É morto all’età di 92 anni Albert Uderzo, nome d’arte di Alberto Aleandro Uderzo, il primo disegnatore del celebre fumetto Asterix. A dare notizia della sua morte è stata la famiglia che ha sottolineato come questa non sia dipesa in alcun modo dal coronavirus, ma da un infarto improvviso nella notte.

Morto il disegnatore Albert Uderzo. Figlio di genitori italiani, Uderzo ha avuto una brillante carriera di disegnatore in Francia e ha realizzato fumetti avventurosi ed umoristici. Il suo prodotto più conosciuto è stato senza alcun dubbio la serie di Asterix, realizzato insieme a Renè Goscinny. Quando quest’ultimo morì prematuramente nel 1997, Uderzo diventò la figura di riferimento per la realizzazione del fumetto.

Una vita con Asterix. Una passione, quella per i fumetti, che Uderzo ha coltivato fin da piccolissimo. Amava disegnare e ha sconfitto i suoi limiti per poterne fare una lavoro. Non tutti infatti sanno che il disegnatore di Asterix era daltonico, un deficit importante se nella vita vuoi creare immagini visive. Questo lo ha limitato senza dubbio nella pittura, ma non nel disegno di cui ha fatto il suo vero marchio di fabbrica. Quando aveva solo 13 anni viene assunto dalla Société Parisienne d’Édition in qualità di letterista, ritoccatore di fotografie e correttore di bozze. Poi le sue prime invenzioni come Flamberge Gentilhomme Gascon e il soldato con una sola gamba Clopinard. Successivamente l’incontro con Goscinny e la matita di uno che si unisce alla penna dell’altro, nasce così nel 1959 Asterix. Uderzo lascerà il suo fumetto nelle mani di Jean-Yves Ferri (sceneggiatura) e Didier Conrad (disegni) solo nel 2011 pur mantenendo la supervisione sugli albi della saga di Asterix fino all’ultimo, il 38esimo, Asterix e la figlia di Vercingetorige, uscito nello scorso autunno.

·        Morto Luigi Pallaro, "el senador" che affondò Prodi II.

Morto Luigi Pallaro, "el senador" che affondò Prodi II. Originario di San Giorgio in Bosco, in provincia di Padova, giunse in Argentina nel Dopoguerra, diventando uno dei punti di riferimento della grande comunità italiana. La Repubblica il 23 March 2020.  "È morto questa mattina a Buenos Aires Luigi Pallaro, eletto senatore nel 2006, poco prima di compiere 80 anni, dagli italiani che vivono in Sud America con ben 84.507 voti su un totale di 290mila votanti in tutto il continente. La notizia mi giunge dalla sua famiglia". Lo ha annunciato Lucio Malan di Forza Italia. "Fu molto discusso il suo voto decisivo per la nascita del secondo Governo Prodi, e poi quello che tolse alla stessa maggioranza governativa la presidenza della Commissione Industria Commercio e Turismo, a beneficio del senatore torinese Aldo Scarabosio. Pallaro, poi, dal dicembre 2007 non diede più il sostegno al governo contribuendo alla sua caduta". "Originario di San Giorgio in Bosco, in provincia di Padova, giunse in Argentina nel Dopoguerra, diventando uno dei punti di riferimento della grande comunità italiana. Imprenditore di successo in diversi settori industriali, acquistò anche una superficie di terreno incolto pari a più di sei volte la Repubblica di San Marino trasformandola in una straordinaria azienda agricola che esporta carne in tutto il mondo. "Al di là delle posizioni politiche, ha sempre creduto nella possibilità di creare una rete di sinergia dei tanti italiani all'estero con l'Italia, dandone dimostrazione in prima persona.Esprimo alla famiglia e agli italiani in Sud America le mie condoglianze per la dolorosa perdita".

·        E' morto Carlo Casini, fondatore del Movimento per la Vita.

E' morto Carlo Casini, fondatore del Movimento per la Vita. Magistrato, parlamentare Dc e poi europarlamentare è stato l'animatore di tante battaglia contro l'aborto. La Repubblica il 23 Marzo 2020. E' stato il grande nemico della legge sull'aborto, il fondatore del Movimento per la Vita. Carlo Casini aveva 85 anni: è morto nella sua casa romana dopo una lunga malattia. Accanto a lui la moglie e i figli. Fiorentino, cattolico, Casini era stato dal 1963 al 1966 è stato pretore a Empoli (Fi) e dal 1966 al '79 sostituto procuratore a Firenze. Dopo l'impegno come parlamentare, è stato consigliere presso la Corte di Cassazione dal 1999 al 2003. E' stato docente di diritto internazionale, diritti umani e bioetica presso il Pontificio Ateneo Regina Apostolorum di Roma. Carlo Casini cominciò la carriera in politica nelle file della Democrazia Cristiana. Venne eletto alla Camera per la prima volta nel 1979. Dopo lo scioglimento della Dc, aderì al Partito popolare italiano e in seguito passò al Centro Cristiano Democratico (Ccd), per il quale fu ricandidato alle elezioni europee ma non eletto, e successivamente all'Udc. È stato eletto parlamentare europeo nelle elezioni del 1984, del 1989 e del 1994. Ritornò al Parlamento europeo nel maggio 2006, subentrando ad Armando Dionisi. Nel 1975 era un giovane pubblico ministero di Firenze quando, indagando sulla "clinica degli aborti", mise le manette e fece trasferire nel carcere delle Murate il segretario del partito radicale Gianfranco Spadaccia. Qualche anno dopo, nel 1981, si battè per fermare la legge 194 sull'aborto con il referendum abrogativo. E prima di intraprendere la battaglia referendaria, Casini fu tra i fondatori del Movimento per la Vita, nato il 15 gennaio 1980, da cui sono scaturiti i Cav - Centri di aiuto alla Vita, il Progetto Gemma, le case di accoglienza e tante altre iniziative con decine di migliaia di bambini aiutati a venire al mondo. Molti i messaggi di cordoglio, dal modo cattolico e dalla politica, dai vertici dell'Udc,alla Lega, a Forza Italia con Jacopo Cellai, Mara Carfagna. Giorgia Meloni di Fratelli d'Italia ha scritto: "Se ne è andato un uomo straordinario che ha dedicato tutta la sua esistenza alla difesa della vita e ha animato un volontariato appassionato, che in oltre 40 anni di attività ha dimostrato con i fatti che è possibile salvare una vita, offrire un'alternativa all'aborto e aiutare le donne ad affrontare la bellissima avventura della maternità. Casini è stato e sarà un esempio da seguire". 

·        E’ morto Alberto Arbasino.

E’ morto Alberto Arbasino. Aveva compiuto 90 anni lo scorso gennaio. A dare l’annuncio della morte la famiglia spiegando che Arbasino si è spento “serenamente” dopo una lunga malattia.

Aldo Grasso per corriere.it il 24 marzo 2020. Oggi non si può non parlare di Alberto Arbasino, maestro di intelligenza, di stile, di passione letteraria. Lui, soavemente cosmopolita, che ha trattato con la stessa grazia e ironia la vita bassa, il tanga, l’infradito, le sneakers, il leopardato, il loft, il cool, il mansardato e i mostri sacri della letteratura, regalandoci mitici ritratti dal vivo, conversazioni à bâtons rompus, affondi critici (eravamo ancora neorealisti e lui già sbeffeggiava Antonioni e Visconti), perfidie squisite. Oggi non si può non ricordare il programma Match (1977) dove Arbasino, effervescente e impeccabile padrone di casa, invitava nel proprio salotto due personaggi che avevano in comune la professione o l’inclinazione artistica e li metteva a confronto. «La novità saliente del programma (ideato da Arnaldo Bagnasco, ndr) è costituita dal tipo di articolazione del duello vero e proprio: i due antagonisti avranno ciascuno quindici minuti a disposizione per intervistarsi l’un l’altro, ed è perciò alle reciproche domande e risposte che è affidato l’esito in vivacità e interesse di ogni match», scriveva il Radiocorriere. La prima puntata è dedicata al teatro: seduti l’uno di fronte all’altro ci sono Giorgio Albertazzi e Memè Perlini; per la letteratura lo scontro, molto cavalleresco, è tra Alberto Moravia e Edoardo Sanguineti. Arbasino rende affascinante un programma raffinato e approfondito; il conduttore ha inoltre il merito di far discutere in tv di medicina due protagonisti prestigiosi, Paride Stefanini e Albano Del Favero, di cinema Mario Monicelli e Nanni Moretti, di economia Romano Prodi e Francesco Forte, di architettura Paolo Portoghesi e Leonardo Benevolo; personaggi che, senza autopromuoversi con il libro sottobraccio (come diverrà di moda nei salotti tv), parlano del proprio lavoro e delle proprie idee. In dieci puntate Arbasino aveva dimostrato che non era impossibile fare buona tv. 

Paolo Isotta per il “Fatto quotidiano” il 22 aprile 2020. Medén thaumázein, nihil admirari, non stupirsi di nulla. Questa massima della saggezza antica è attribuita da Plutarco a Pitagora: e dovrebb' essere regola di vita. Io sono troppo ingenuo rispetto a Cicerone e Orazio. Quindi, se paragono quel che i giornali scrissero alla morte di Leonardo Sciascia, uno che avrebbe dovuto quanto meno esser pregato di accettare il premio Nobel, a ciò che medio tempore hanno riempito a paginate per la scomparsa di Alberto Arbasino, non riesco a non admirari. (Ben vero, neanche Arbasino lo conseguì: per snobismo non era abbastanza buonista). Qui vorrei dire una mia opinione che cozza contro quella esposta dai più autorevoli. Lessi nel 1967 Fratelli D' Italia, seconda edizione, Me lo volli far piacere a forza: sedicenne, m' attirava un libro dove si parlava con tanta libertà del vincolo omosessuale. Da allora non l' ho più ripreso in mano; me ne resta l' impressione che del lato omosessuale ci sia solo il blaterare di recchie di provincia, dal tono insinuante al gridolino isterico. I presunti romanzi basati su sillogi di articoli di giornale mi hanno sempre ispirato diffidenza. Ma i colti, gl' intelligenti, dicono che non è più possibile raccontare storie, occorre decostruire e perdere il centro. Ciò è verissimo se consideriamo due fra le sommità del Novecento, L'uomo senza qualità di Musil: e quanto a letteratura omosessuale pensiamo solo a I turbamenti del giovane Törless; e La morte di Virgilio di Hermann Broch; Arbasino viene considerato un esponente del romanzo-saggio, ma pensiamo alle due principali opere di Musil e Broch per ammettere che la differenza con lo scrittore di Voghera non è solo di statura, è anche essenzialmente qualitativa. I due buttano tutto se stesso in opere che sono sfida alla letteratura e alla vita, Arbasino butta sì qualcosa, il fumo negli occhi. E pure Sciascia mescola i generi: è il Maestro incontestato della novella-saggio. Pierluigi Battista il tremulo attribuisce al povero Alberto una sterminata conoscenza dei classici greco-latini. Ma andiamo! Da come scriveva, Arbasino avrà al massimo letto il Satyricon, direttamente in italiano, senza testo a fronte. Poi, non lessi molto di altro.

Il SuperEliogabalo: ci cercavo Gibbon, ci trovai Artaud, e tu, Cara Salma, hai voluto metterti in competizione con Artaud. Ero afflitto dal peso degli articoli su Repubblica. Avete idea del cattivo cuoco che mescola e sovrappone ingredienti affinché qualcosa ne esca? Per uno di Napoli, erano soliloqui di recchia, dal genere incerto, costituiti dall' accumulazione di meri fatti o oggetti visti o musica udita. Ovvio, ricordare a chi non l' ha mai ascoltato Il cavaliere della Rosa diretto da Erich Kleiber. Splendidissimo, ma come non l' ho ascoltato io non l' ha ascoltato lui, ché la registrazione fu degli anni Trenta. Quella serie di accumulazioni e citazioni, ossessiva, aveva il bisogno di nascondere il nulla del pensiero; torno al cattivo cuoco che aggiunge, inoltre, la panna. E quella leziosa, interminabile serie di puntini di sospensione. Di musica non capiva niente; era un altro Mario Bortolotto, lo scopo del quale era épater piuttosto che parlare di ciò che è, e il quale al Quartetto op. 132 trova sempre superiore Ein musikalische Spass, e ai Valzer di Strauss antepone la loro trascrizione per armonium e complessino fatta da Schönberg perché anche questo Grande doveva mangiare. L' enumerazione, la digressione, l' accumulazione, vennero inventate da Flaubert, e sono una vera visione del mondo in ogni tipo di opera. Così i discorsi degli imbecilli. Arba arbae si limitava a registrare quel che sentiva nel suo ambiente aggiungendovi, quando non poteva farne a meno, un pizzico di umorismo. Si credeva un elegantissimo, Anche su questo fatela dire a un napoletano. A Roma sarà riuscito a trovare un economico sarto di Voghera o Lodi; e su quelle tristissime colorate pochettes anche i miei occhi fanno scorrere copiose lagrime - perché, in fondo, tra la finta Signorina Snob (Franca Valeri sì ch'è un genio) e io, sono io il meno cattivo.

Antonio Armano per ilsole24ore.com il 18 ottobre 2020. “Dimenticare Voghera? Non è umanamente possibile”. Alberto Arbasino risponde con questa smodata dichiarazione a Giovanni Testori che sul Corriere della sera lo accusa di essere poco provinciale. Cioè di avere dimenticato la città dove è nato e cresciuto per cadere in preda al demone del cosmopolitismo e dell'irrequietezza: “E perché Arbasino pretende di non lasciarci credere che l'estro, la trafelata bellezza e il trafelato, incipriato sudore della sua scrittura sono tali proprio perché il latte che egli succhiò e il sangue che nelle vene gli capitò, per trapianti che tenti e tradimenti che effettui, sono e restano sgangheratamente e smodatamente vogheresi?” Secondo Testori Arbasino doveva pacificarsi con quelle origini strapaesane e soprattutto doveva smetterla di voler rimandare l'incontro che nel perenne moto sembrava voler eludere, la sua fuga dal tempo per dirla con qualcun altro. Siamo nel 1979. Arbasino non aveva neanche cinquant'anni, godeva di ottima salute, se la spassava da oltre venti a Roma e avrà toccato tutto il ferro e tutti gli attributi a portata di mano nel leggere il lugubre monito a non tradire la terra, il latte e il sangue. In un'intervista a Camillo Langone per il Foglio molto tempo dopo avrebbe detto che per essere Arbasino bisogna vivere nella capitale o almeno a Milano. Lo stesso ha detto a Testori: i tempi in cui bastava nascere in un qualunque borgo italiano per dettare legge in Europa erano finiti da un pezzo. Dal Rinascimento l'Italia aveva smesso di essere un paese centrale e restare significava dunque essere doppiamente marginali: come italiani e come provinciali. In fondo, notava rispondendo a Testori, chi non si era mosso da casa che aveva combinato? “Non lo diceva anche Montale? Non è umanamente possibile essere un poeta bulgaro”. Per la serie: se Canetti fosse rimasto a Ruse non avrebbe battuto chiodo, altro che Nobel. Idem Todorov, ma qui entra in ballo il comunismo a voler prendere sul serio la battuta. Rievoco la polemica tra fantasmi italiani ora che Arbasino è tornato a Voghera dopo l'ineludibile incontro di cui Testori ha parlato con un anticipo di quasi mezzo secolo, in modo così esplicito e pubblico.

“Passeggiando con Arbasino”. Il botta e risposta si trova in un bel volume intitolato Passeggiando con Arbasino, pubblicato da Ticinum di Elisabetta Balduzzi, casa editrice della omonima libreria vogherese, e curato dallo scrittore Guido Conti, il quale si è trasferito a Voghera da Parma. Tra i testi inclusi nella raccolta quello del giornalista Gigi Giudice. Giudice ricorda quando Arbasino era ancora per tutti “Nino” e si presentava verso sera in Lambretta per incontrare il fratello, Tino Giudice. Arbasino e Giudice erano amici e quest'ultimo frequentava lingue alla Bocconi ed era l'interlocutore preferito, in riva allo Staffora almeno, il torrente esangue che non passa lontano da quel quartiere dove “quasi tutti votavano Pci”. Voghera era una cittadina vitale in tutti i sensi prima della desertificazione recente e devastante. In realtà qualcuno era rimasto e aveva combinato qualcosa. Per esempio Lucio Mastronardi, autore negli anni '60 del feroce ritratto del boom economico: Il calzolaio di Vigevano, Il maestro di Vigevano e Il meridionale di Vigevano. Ma dopo avere combinato ben più di qualcosa si era buttato nel Ticino anticipando il fatale incontro di cui parla Testori. Arbasino è stato lo scrittore degli anni '60 intesi come decennio di modernizzazione e crescita, anche in provincia: la MG spider che cambia colore da una edizione all'altra di Fratelli d'Italia (da bianco latte a pervinca...), il meccanico “col cazzo sporco” per La bella di Lodi, le corse sulle nuove autostrade, le soste negli autogrill dove invece Scerbanenco ambientava delitti. Riscrivere è dare la vernice al testo e Arbasino stesso aveva una Porsche sulla quale lascerà quasi la pelle in un incidente. Sempre Testori aveva parlato del tentato suicidio di Arbasino in seguito alla scoperta delle proprie inclinazioni omosessuali. Tutt'e due venivano da famiglie ricche e alto-borghesi e in vista ma Testori abitava a Novate, nell'hinterland milanese sempre più anonimo cioè sempre più hinterland, non in una cittadina collegata bene con tutto ma isolata in mezzo ai campi e dove la maggior parte degli italiani sono stati solo per una coincidenza ferroviaria sostando senza uscire dalla stazione. Ricordo ancora gli annunci dei treni, poi sostituiti dalla voce computerizzata e robotica, fatti da un impiegato con intonazione pesantemente vogherese e tendente al prognatismo. Pur conscio che l'italiano pulito sia la lingua dei doppiatori, meno inquietante è il dialetto, ormai sepolto come lingua madre ma rimasto sotto terra come un'energia che affiora in alcune espressioni elencate da Arbasino ricordando le conversazioni con Gadda (L'ingegnere in blu): termini impagabili e insostituibili come “trasudeciùc” per indicare il color violaceo simile al vomito da ubriaco da vino rigorosamente rosso. In un vasto capitolo di Passeggiando con Arbasino li analizza con passione Angelo Vicini.

Il basso serviva per mischiarlo con l'alto. Allo scrittore il basso serviva per mischiarlo con l'alto, la provincia con la metropoli, la casalinga con la marchesa e viceversa naturalmente (“La viceversa” è stato un significativo soprannome arbasiniano). Senza un estremo non poteva esistere l'altro, anche se sarà stato molto più interessante il secondo tenendo ben presente il primo. Arbasino voleva essere una specie di incrocio tra Gadda e Capote e nessuno può negare che ci sia riuscito, pur con tutto quello di penalizzante che una simile contaminazione comporta: Colazione da Tiffany con le note a pie' di pagina? Doveva andarsene per diventarlo e ha avuto anche molta fortuna nel ritrovarsi nella Roma della Dolce Vita invece che in quella della Grande Bellezza. Per lui la vita artistica romana era l'indefesso lavoro diurno – Arbasino genio e secchione - più incontri serali al caffè; e quando gli scrittori hanno smesso di incontrarsi al caffè e hanno iniziato a stare attaccati al monitor come monadi la letteratura italiana ha iniziato a decadere paurosamente, o smesso proprio di esistere. Insomma – insùma, si direbbe a Voghera - senza avere passato le sere con Flaiano, Pasolini, Moravia, Penna e Parise e altri non avrebbe fatto quello che ha fatto. “Lasciatemi divertire” scriveva Palazzeschi e non si capisce perché Arbasino dovesse sempre ricevere rimproveri se voleva godersi la vita a Roma e in giro per il mondo trasformandola in articoli e gli articoli in libri. A Voghera come e più di altrove lo rimproveravano di essere frivolo e nella suddetta raccolta non poteva mancare una recensione - per non dire stroncatura - a La vita bassa: Davide Fiammengo, ex compagno di scuola al liceo classico Grattoni. Fiammengo gli è grato sì perché se li interrogavano insieme in greco prendeva un voto più alto, trainato dal brillantissimo Nino, ma trova che sia finito per girare a vuoto, scrivendo un “divertissement, in cui ci si perde con la testa per aria”. In altre parole: qualcosa di fine a se stesso. Lo stesso pensava la professoressa Emilia Provenzal, figlia del letterato Dino Provenzal, e docente dei due ragazzi. Anche se non arrivava, come Fiammengo, a consigliargli di “buttarsi sulla Bibbia”. Cosa che Testori del resto ha fatto. Arbasino diceva di essere nato a Voghera e rinato a Roma. A Milano ha ambientato L'Anonimo lombardo, il primo romanzo, e a Milano ha posato l'ultimo sguardo sulle cose terrene. Da grande signore, vissuto per molti anni con rendite di famiglia e vitalizio da parlamentare, dunque libero di viaggiare e scrivere senza condizionamenti, si è scelto un panorama finale come la basilica di San Lorenzo. In un coccodrillo sul Manifesto – di gran lunga il più bello dei coccodrilli arbasiniani -, Giovanni Agosti scrive: “Ci ricordavamo tutti e due che Richard Krautheimer, il massimo conoscitore della Roma medioevale e barocca, la considerava la chiesa più bella dell'Occidente: e Alberto la vedeva ormai tutti i giorni dalle finestre della sua stanza, dal suo balcone. In casa erano già stati fatti i lavori per ricavare dal salotto, con le incisioni di Füssli e di Piranesi, uno spazio per una persona che potesse accudirlo; Stefano infatti era gravemente malato e molto provato da una situazione da anni difficile, tanto da avere deciso di fare abbandonare Roma ad Alberto e di tenerlo con sé a Milano”. Stefano era il compagno storico, la cui scomparsa ha accelerato quella di Arbasino: “Stefano il prisonnier degli anni Sessanta – scrive Agosti -, Stefano impeccabile e musone, Stefano con la r, Stefano mangiato con gli occhi in ascensore da Jacqueline Kennedy, Stefano che disegna gli omini intrecciati – quasi dei Keith Haring ante litteram – sulla copertina di Sessanta posizioni: una proiezione di Alberto? O, meglio, una delle grandi storie d'amore dell'altro secolo?” “Caro topo, vecchio topo/ tu non sai cosa vien dopo”: è l'ultima poesia di Rap! e s'intitola “Miao”.

Aurelio Picca per “il Giornale”  il 25 marzo 2020. Il trentenne che girava in Porsche bianca, e poi lo scrittore sempre in cravatta che compilò innumerevoli volte il suo concerto in lettere, Fratelli d' Italia, non è stato un Maestro, né voleva esserlo. Alberto Arbasino credo ambisse alla dicitura di Gran Lombardo. Di lasciare eredi, almeno letterari, se ne è sempre infischiato. E infatti non ci saranno. Lui e Umberto Eco sono stati gli eccelsi della Neoavanguardia (per intenderci facile: il Gruppo '63), ma il primo ne ha fatto un frullatore al proprio servizio bulimico e singolarissimo; il secondo, dopo avere contribuito alla sepoltura del romanzo, scrive Il nome della rosa per trasformarsi in narratore globale. Quando lessi da ragazzo Le piccole vacanze rimasi tutta l' estate avvelenato dall' inquietudine. Non ricordo nulla di quel romanzo, però ne ho dentro lo scavo esistenziale: il classico solco che producono i capolavori. Arbasino ha sempre oscillato tra una coscienza morale (Giuseppe Parini), tenuta nel fondo della sua letteratura quasi a nasconderla per proteggerla, e l'Opera alla Scala che ha tradotto in una maschera (illusoria). In realtà è stato un Andy Warhol della letteratura, un eccentrico con i connotati borghesi (i suoi abiti di Caraceni lo imbustavano), un ironico fisiologico con la sua erre che, quando parlava, faceva da carrucola alle altre lettere spezzate che uscivano dalla gola in un gorgo sintattico, citazionista e battutista. La bella di Lodi è stato il suo romanzo breve paraculo, che sapeva di vaccherie lombarde e grasso di motori. Lo recensii, in ristampa, forse se non sbaglio su queste pagine. E, cosa che non faccio mai, gli inviai il pezzo. Lui era nato nel 1930, poteva essere mio padre. Ma non era nella pattuglia dei Padri letterari che immaginavo o che frequentavo. Non mi aspettavo nulla. Mi inviò una Cartolina con un saluto a mo' di nodo da foulard. Quasi trenta anni fa venni chiamato al telefono da Roberto D' Agostino che mi invitava a casa sua, via Condotti numero 1. Si festeggiava il compleanno di Alberto (fu lui stesso a fornire a Roberto che non conoscevo il mio nome). Faceva caldo di fronte alla finestra con veduta su Trinità dei Monti. Con Arbasino fu naturale darci del tu. E mi venne pure facile raccontare che ero di ritorno dal Getty Museum di Los Angeles. Lui che aveva calcato le sale di migliaia di musei e scalciato pure quadri e pittori o innalzato dipinti a meraviglie (insieme poteva addizionare odori di periferia a Raffaello), mi chiese come fosse il museo perché non c' era mai stato. Gli raccontai che era costruito con il marmo di travertino di Tivoli e che dalla collina si vedeva di fronte la down town della metropoli e intorno il deserto. Intanto cresceva il caldo là sospesi su piazza di Spagna. Allora Alberto tirò fuori il fazzoletto da tasca bianco ben piegato e se lo portò alla fronte tamponando le goccioline di sudore senza strofinare. Pure io mi ritrovai a usare il mio fazzoletto bianco che porto sempre in tasca fin da bambino. Come ci guardammo, senza averlo voluto, con i fazzoletti tra le mani partì un sorriso. Per anni, scherzando, mi sono vantato di usare fazzoletti ricamati a mano. Anzi, aggiungevo: Io e Alberto Arbasino siamo gli unici scrittori che hanno in tasca un fazzoletto di cotone e non di carta (l' altro era Domenico Rea). Ora, caro Alberto, ragazzo di vita e signora mia, sono rimasto l' unico che se non ha impilati almeno trenta fazzoletti nel comò, rischia il panico. Ne comprerò di nuovi anche per te. In tuo onore.

Camillo Langone per “il Giornale” il 25 marzo 2020. Ironico, cosmopolita, esordiente con Italo Calvino, avanguardista con il Gruppo '63, amico di Inge Feltrinelli, collaboratore di Repubblica... A leggere giornali e guardar siti è morto l' ennesimo intellettuale progressista. Invece è morto un raro intellettuale conservatore. Basterebbe leggerlo, Alberto Arbasino, anziché saccheggiare Wikipedia e limitarsi a citare gita a Chiasso e casalinga di Voghera. Alla notizia della sua morte mi sono precipitato allo scaffale della mia libreria che gli compete, ovviamente lo scaffale più alto, fra Giovanni Ansaldo e Pietro Aretino, e purtroppo non ci ho ritrovato Paesaggi italiani con zombi (dove caspita sarà finito?), un titolo del 1998 ahinoi perfetto per questo 2020 di città spettrali. Ho ritrovato invece Un paese senza, edizione del '90. Non me lo ricordavo così destro. «Non solo nel piccolo Libano e nella media Jugoslavia ma nella vasta Unione Sovietica e nell' ampia India tutti i massacri contemporanei scoppiano per conflitti etnici». Trent' anni fa, quando l' Italia era ancora monoetnica e non lo sapevamo, Arbasino già ci metteva in guardia dal multiculturalismo: «Sarete voi i protagonisti dei prossimi conflitti medievali tra Asia e Africa sui marciapiedi ove si beveva gin-and-tonic e adesso ci si accoltella fra le borsette di religioni differenti?». Cosmopolita di notte, nel jet-set, però molto lombardo di giorno, e non solo per la venerazione nei confronti di Gadda, Dossi, Manzoni. Se non si è mai potuto in alcun modo avvicinarlo alla Lega, come invece è accaduto ad altri grandi nordisti quali Giorgio Bocca e Gianni Brera, è più per incompatibilità estetica che politica. In Un paese senza chiama l' immigrazione massiccia di africani e asiatici, spesso musulmani, col suo vero nome, ossia invasione: «I deliri italiani prossimi deriveranno soprattutto (nella nostra Storia è già capitato) dalle invasioni del Paese, e dai conflitti che hanno più volte provocato anche fra i cittadini». Giusto: in Italia gli sbarchi producono soprattutto guerre civili. O quantomeno lotte intestine. Se è vero che i barconi africani in questi giorni non interessano e dunque, pur continuando ad arrivare, hanno smesso temporaneamente di dividere, è anche vero che si è appena formata una fazione filocinese (da Luigi Di Maio in giù), siccome certi connazionali l' invasionismo ce l' hanno nel sangue. «Sono i complessi coloniali / degli italiani eterni provinciali. / / Invocazioni / continue di intromissioni / e invasioni di stranieri / contro i propri avversari / sul territorio...». Sto virgolettando da Rap 2, il secondo dei due piccoli libri datati 2001 e 2002 in cui l' amante della lirica, l' habitué della Scala, il patito di Maria Callas si lancia, piuttosto a sorpresa, nella poesia civile rappata. Il risultato è più Flaiano che Fedez, ovviamente. Ma chi l' ha letto l' Arbasino rap? È l' Arbasino che si scagliava contro i «comunprepotenti», «i pacifiviolenti», i politici di sinistra che straparlavano di un' Italia trasformata nel Cile di Pinochet solo perché Berlusconi aveva vinto le elezioni...Sandro Veronesi adesso si dispiace su Twitter e non ne dubito, vorrei soltanto si sapesse che Arbasino con lui, e con tutti gli altri scrittori firma-manifesti che amano «mostrarsi assolutamente correct / su tutte le cause più select», non c' entrava nulla. Nel mare magnum di Fratelli d' Italia, il lunghissimo romanzo-saggio che ha la statura del capolavoro, ho pescato una sfida alla letteratura impegnata che fa davvero impressione: «Mi arrampico sulle tende, mi attacco ai lampadari, mi prendo a schiaffi dicendomi cattivo! cattivo!» ma per lo svago e il relax preferisco Piccadilly a Buchenwald». A dispetto di qualcuno che esortava così: «Passa un sabbatico a Belsen, non perdere tempo con Salisburgo, dammi retta! Il massacro rende!». Avrà pure fatto parte (brevemente e lateralmente) del Gruppo '63, di sicuro non ha mai fatto parte del Gruppo '68, e una prova consiste nell' incontro a Francoforte con Adorno assediato dalla contestazione universitaria: il giovane intervistatore parteggia per il vecchio filosofo. Il suo pittore novecentesco preferito era Giorgio De Chirico, non certo Emilio Vedova. La sua divisa era il blazer Caraceni, non certo l' eskimo. Le sue messe (vissute da esteta, non da credente) erano in latino o in greco (a Patmos), non certo post-conciliari coi tamburelli e i «preti che sanno tutto sul Vietnam». Il suo autore prediletto era Gadda, non certo Gramsci che sebbene muoia prigioniero si lascia dietro «non un inno alla Libertà come i romantici tedeschi ma il progetto di un apparato di intellettuali conformisti e propagandisti». Da vero conservatore era un pessimista, un realista, un uomo che non nutriva la benché minima fiducia nei giovani (altro che Greta e Sardine), liquidando come «solfe millenaristiche le speranze nelle generazioni future». Fratello Alberto.

Alberto Arbasino e quel suo sorriso canagliesco. Walter Siti de Il Riformista il 24 Marzo 2020. Ieri è morto a novant’anni, “serenamente, dopo una lunga malattia”, Alberto Arbasino. Sembra la sua ultima arguzia, un annuncio così composto e tradizionale in un momento in cui molti novantenni muoiono travolti dalla disordinata tempesta di un virus, nello scomposto cordoglio della politica e dei media. Arbasino si era inventato, fin dalla metà degli anni Cinquanta con Le piccole vacanze, una scrittura bassa e di conversazione che non aveva precedenti in Italia; il modello era inglese, oltre a stili italiani anomali come quelli di Irene Brin o di Isaia Ascoli. Un’apparente svagatezza che era sprezzatura, un umorismo canagliesco e irriverente, un progressivo amore per il camp. La sua frivolezza era una formazione di difesa nei confronti di una ferita narcisistica rintracciabile sia nell’Anonimo lombardo che in Fratelli d’Italia. Quest’ultimo rimane uno dei migliori romanzi italiani della seconda metà del Novecento: epico ritratto dell’Italia del boom, dell’Autostrada del Sole (su cui già correva la spider della Bella di Lodi). La ribalda epigrafe del romanzo, deformando Massimo D’Azeglio («l’Italia è fatta, è ora di farsi gli italiani»), ha aiutato molti giovani omosessuali a venire a patti col proprio senso di colpa. Curioso e snob, ferocemente aggiornato, ha visitato mostre e visto ovunque spettacoli teatrali; ha scritto versi svincolati da qualunque birignao lirico. Nemico della retorica, ha avuto formazione giuridica e di scienze politiche; è stato deputato per una legislatura (per il Partito Repubblicano) ma il suo vero impegno emerge piuttosto da un libro come Un paese senza (1980): irata e ironica requisitoria contro i vizi italiani di sempre, ma anche contro i nuovi miti: quello per esempio della “metallurgia wagnero-mirafior-marxista”, cioè vacuamente operaista, mentre il Pil italiano già poggiava sulle esportazioni dei prodotti di lusso («delle Borsette e dei Golfini»). Un realismo da ultimo erede dell’illuminismo lombardo dei Parini e dei Verri, nascosto sotto una maschera di eleganza e di understatement.

Roberto D’Agostino per Dagospia il 23 marzo 2020. Si hanno in Italia casi frequentissimi, quotidiani, specie in Italia, di sregolatezza senza genio, programmata a tavolino, calcolata in modo furbetto. In Alberto Arbasino, la congiunzione di estri e di astri è naturale, non si neutralizza mai in rappresaglie fatte di piccinerie, meschinità, bassezze firmate - miserie tipiche del nostro Establishment culturale. “Fratelli d’Italia”, "Fantasmi italiani", "Un Paese senza", "Trans-Pacific Express", gli articoli su "la Repubblica", sono stati i miei modelli letterari. L'ho seguito, ammirato, copiato come uno scudiero segue - e pedissequamente mima - il suo cavaliere errante. Arbasino è un cavaliere errante sulla palude italiana, in possesso di una cultura acrobatica che, balzando da un cavallo all'altro, dalla letteratura alla pittura, dal teatro al cinema, percorre territori estrosi e capricciosi, cattura l'improvvisazione con i furori di una mitragliatrice giocattolo. Ecco: l'amore per la parola, la maestria nell'uso della parola; che è sempre sorprendente: piena, intensa, ironica, mai banale. Come Flaubert classificava tutte le somaraggini della sue epoca, Arbasino ha viaggiato attraverso la Sublime Stronzaggine italiana, con le sue costanti ("conformismi e leccaculismi") e le ultime mode ("la bella volgarità"). Attenzione però: non è mai moralisteggiante, col ditino alzato e la puzza sotto il naso. Un artista libero e spontaneo come la verdura, galeotto e crudele come una fiaba scritta da uno Swift. Quindi, senza farti soffrire, a partire da quel capolavoro del secondo ‘900, “Fratelli d’Italia”, ha soffritto il nostro Paese, i tempi, i costumi, le manie, i i tic e gli chic, i vizi e i gusti della bella e brutta gente e di quella così così. Seduto tra Giovenale e Marziale, ironico nella molteplicità del gioco linguistico, lo scrittore di Voghera è l'ultimo dei satiri, prima delle omogeneizzazioni a livello scadente e demente. Per l'erudizione vertiginosa, il carattere sarcastico, la lotta contro la cialtroneria in qualunque sede e aspetto... E' la mirabolante attitudine di un cavaliere errante tra Vaticano dello Spirito e il Vesuvio della carne, in possesso di una cultura acrobatica che, balzando da un cavallo all'altro, dalla letteratura alla pittura, dalla politica al cinema, cattura l'indenti-Kitsch tricolore con il sarcasmo di Longanesi alto come Flaiano. Per me, ogni incontro con Arbasino è stato un incontro con l'intelligenza. Quando penso a quale livello ignobile sono arrivati gli intellettuali che scrivono sui quotidiani o sui settimanali, quando penso alla loro mancanza di esperienza culturale autentica, alla mancanza di viaggi e di visite ai musei e ai luoghi di cultura, Arbasino per me era una sorta di miracolo. Gli devo quasi tutto: idee, forma, stile. Penso che il massimo complimento che qualcuno può farmi, sia di dirmi che sono stato allattato dall'arte di Arbasino.

Malcom Pagani per il “Fatto quotidiano” del 14 luglio 2014. Pur refrattario all’elaborazione di un saggio sul maleducato da carrozza: “Il tempo è prezioso e la tolleranza costa già un notevole sforzo”, Alberto Arbasino soffre treni, scompartimenti e vicini ciarlieri. “Prendere le cosiddette vetture silenziose, che poi tanto silenziose non sono, è un’accortezza inutile”. Parlano tutti ad alta voce: “Dei fatti loro, dell’intimo, del personale”. E il vento caldo delle sue piccole vacanze in Spagna: “Andavamo alle Baleari. Ibiza era meravigliosa e Formentera non era altro che una lingua di sabbia tagliata dal taxi che ci portava da un lato all’altro dell’isola per il pranzo” o “i flautisti da giardino che ascoltavo d’estate dall’ammezzato di una delle mie prime case romane” non tornano a visitare la stagione dei suoi 84 anni. Luglio è quasi a metà, sulla terrazza il fico ha foglie di un verde innaturale e Arbasino indossa la camicia color kaki di chi sa come attraversare il suo deserto: “Di sera esco ancora volentieri, anche se scivolare dalla Via Veneto prefelliniana alla cena in Piazza Navona, non mi accadrà più. Con Ercolino Patti, Sandro De Feo e Cesare Brandi succedeva spesso. Cesare aveva un piccolo pied-à-terre e dopo una giornata di lavoro casalinga non covava il desiderio della minestrina nel tinello. Così si usciva in gruppo e si stava insieme fino alle due di notte. Mi stupivo. Lavoravano come ossessi e scrivevano senza sosta, ma non rinunciavano a vivere. Ridursi male comunque era difficile. Non tralignavamo mai. Un bicchiere, forse due. Si beveva il giusto, con moderazione”. Della grande casa con le sue iniziali sulla porta, conosce oro, incenso e giacimenti. Quando cerca nella biblioteca un volume di De Chirico: “Me lo regalò lui in Via della Vite, in fondo ci sono anche delle note a penna”, insegue un nome sulla Garzantina: “L’editore fiorentino di cui le parlavo era Carocci”, sventa l’attentato dell’ospite superando agile uno zaino sulla moquette o rimpiange con discrezione la mancanza di un computer: “Non lo possiedo, per alfabetizzarsi è tardi, ma ne sento la mancanza”, Arbasino denuncia il perpetuo movimento che dalla fine degli anni 50, immobile non l’ha fatto mai restare. Anche se i baffi di quando intervistava Borges sono un ricordo fotografico, è nell’autoscatto del tempo che fu: “Self-made man di origini decadenti (nato a Voghera nel 1930, rinato a Roma nel 1957) con la tentazione di vivere come se. Cioè come se abitassimo una società civilissima, illuminata e cosmopolita...” e nei versi ancora attualissimi di Super-Eliogabalo: “Senza pietre di paragone/ né pretese di perfezione/ se ragiono/ a tono/ funziono/ a una condizione/ diventare ciò che sono/ non chi impersono” che Arbasino può vantare la curiosità di chi ha guardato il mondo senza curarsi delle “ultime novità”. Lo stile nemico della semplificazione: “Per far contenti tutti e raggiungere le edicole degli areoporti non si può rinunciare all’ambiguità, alla notte, al mistero, all’oscurità”. L’amicizia con Agnelli: “Ci vedevamo spesso, dietro la sua raffinatezza pulsavano frequentazioni e lezioni erudite, Mario Tazzoli, Luigi Carluccio e Franco Antonicelli che alle signore di Voghera consigliava di servire i cioccolatini in coppe di cristallo”. Il mondo dell’avvocato come ouverture per altri 92 splendidi e diseguali Ritratti italiani raccolti per Adelphi. Ironia, affinità elettive, distanze e convergenze di Arbasino con i pensatori del suo tempo si allineano sotto l’ombrello di un illusorio ordine alfabetico. Sono volti, echi e disegni di passato senza data. Incontri con imprenditori, registi e letterati. Quadri non sovrapponibili. Cornici di un’età irripetibile. Sulla parete d’ingresso, nel tratto grasso di un pennarello nero, uno schizzo che Pasolini donò allo scrittore durante un’intervista: “Arbasino, in un atto di industria culturale (abbietto, naturalmente)”. Gli zigomi duri, nota Arbasino: “Sono i suoi” come la freccia che Pasolini indirizza a se stesso: “Io mentre aspetto che scriva le domande a cui nobilmente rispondere”.

Lei arriva a Roma negli anni Cinquanta.

«Avevo poco più di vent’anni e non la pensavo diversamente da Paul Nizan: "Non permetterò a nessuno di dire che è la più bella età della vita". Quando si parla di Arcadia bisognerebbe essere cauti. In Italia la ricostruzione era a buon punto, ma ci sembrava comunque un’epoca noiosissima, una lunga stagione morta».

Sfogandosi con lei, Pasolini parla di un “ridicolo decennio”.

«È un decennio di paradossi e contraddizioni. Di ultimi fuochi, di cambiamenti, di libera sessualità dietro le dune e le pinete e di libri straordinari. Lo osservavo, lo criticavo, lo subìvo il decennio dei ’50, poi adocchiavo la letteratura e mi chiedevo: Come è possibile?. Di mese in mese, anzi di giorno in giorno, in libreria era una festa. Il Pasticciaccio gaddiano, Menzogna e Sortilegio, Il Disprezzo e La noia, gli ultimi due romanzi veramente belli di Moravia».

Glielo disse che erano gli ultimi?

«Con Alberto ce ne facemmo e dicemmo di cotte e di crude. Da ragazzo era antipatico. Da uomo maturo dispettoso, prepotente ed eccessivamente prono al partito. In vecchiaia ci rappattumammo. Non ripeteva più ‘uffa uffa’ con severo cipiglio, ma in trattoria, davanti alle pere cotte, gridava: Semo tutti peracottari. Gli era venuta voglia di ridere. È superfluo dirlo, ma mi manca moltissimo, non solo nell’ultima veste giocosa».

Eravate entrambi permalosi?

«Lui sicuramente. Io mai, altrimenti non sarei arrivato fin qui. Alberto era ispido ed era capace di lunghissimi silenzi. Quando compì settant’anni gli portai 7 fazzolettini da Parigi. Aveva il vezzo di annodarli al collo e mi impegnai nell’acquisto. Li avevo cercati con perizia: grandi marche, colori magnifici, confezione adeguata. Li soppesò e poi disse: Li conosco, a Roma li chiamano strangolini».

Faceva parte degli intellettuali suscettibili?

«Lui no, ma non mancavano. C’erano persone che non tolleravano neanche l’afrore del giudizio critico e si adombravano se non si ragionava delle loro opere dal superlativo in su. In supporto non mancavano mai teorie di corifei. Gente che generosamente si prestava all’equivoco: Chi osa mettersi contro da oggi in poi non è credibile, Chi non capisce è sciocco, Chi non si spella le mani è un buzzurro».

Di Antonioni, incline all’offesa, lei scrive cose non tenere.

«Con intuizione corretta, Antonioni fotografava tedio, imbecillità e incomprensioni sentimentali della società europea sottoposta all’industrializzazione forzata. Metteva sotto la lente quel disagio che i milanesi bramarono di provare nell’istante immediatamente successivo all’edificazione del primo grattacielo cittadino. Ma nel suo cinema, la pretesa letteraria si risolveva in bozzetti incongrui e programmatici. La serietà con cui agghindava i suoi improbabili personaggi, le mezze calzette elevate a paradigma del Paese, involontariamente comica. Passata la sbornia e svanito l’equivoco, in effetti, si rise».

Altro moloch dal carattere puntuto, Luchino Visconti.

«In lui la componente populistica e quella dannunziana convivevano contribuendo all’essenza di un Visconti che nel retropalco e nell’isolamento sembravano esattamente la stessa persona. Uno che ideologicamente pendeva per il proletariato, detestava la classe media e respirava circondato dallo sfarzo. Un signorotto di geniale talento, ben allevato da genitori che lo portarono alla Scala fin da bambino, con una sua corte di zelantissimi sottomessi, affannati nell’eseguirne gli ordini. Frequentarlo annoiava e addolorava. Giovanni Testori, un caro amico, era sfruttato malamente. Sul versante teatrale poi, anche se gli dobbiamo spettacoli sommi come Anna Bolena e La sonnambula, l’elenco di quelli infelici ha voci in quantità. A un certo punto, anche dal loggione, prevalse lo strepito collettivo: Che palle».

In “Ritratti italiani”, parole liete sono riservate a Giorgio De Chirico.

«Era unico. Straordinario. Diverso da chiunque altro. Avvertiva l’estraneità al mondo circostante, viveva al passato remoto, si sentiva inadeguato persino all’allegro, innocuo circo di Piazza di Spagna. De Chirico abitava a pochi passi dalla filiale della Banca Commerciale Italiana e temeva di essere costantemente rapinato da briganti e mascalzoni. Ho paura sia a ritirare che a depositare mi diceva e io: Maestro, perdoni, ma che razza di traffico ha con questa banca?».

Il denaro per lei è stato importante?

«Non troppo, ma ho sempre considerato ovvio essere pagato per scrivere: il mio lavoro. Nel ’67, ai tempi de Il Giorno di Italo Pietra, un ex comandante partigiano che ben conoscevo per antichi vincoli familiari e che dei suoi anni universitari a Pavia amava dire: ‘Ballavamo il Charleston e traducevamo Sofocle meglio degli altri’, mi trasferii in un amen al Corriere Della Sera. A Il Giorno mi pagavano regolarmente, ma da anni collaboravo senza l’ombra di un contratto. All’ennesimo rinvio della questione mi spostai in Via Solferino. Un problema simile lo ebbi anche a Repubblica. Ero stato eletto deputato con il Partito Repubblicano e l’amministrazione del giornale fu laconica: Un contratto con un deputato non si fa».

Divenne deputato nel 1983.

«Me lo chiesero due fior di personaggi come Giovanni Spadolini e Bruno Visentini. Una volta con Visentini si andava a Treviso. Lui si trasformava, parlava in dialetto e diventava incomprensibile. Di preferenza litigava con uno scrittore autoctono che però dal trevigiano si era emancipato. Aveva viaggiato. Quando si incontravano non c’era facezia che non li accendesse in discussioni infinite».

Niente a che vedere con la timidezza di Gadda e Manganelli.

«Manganelli, uno scrittore sublime, era schivo. Lo incontravi al ristorante, in una sala appartata, avviluppato in se stesso. Mandava l’ambasciata di un cameriere per salutarti, poi si raccomandava: Non dire a nessuno che mi hai visto. Gadda era diverso. Me lo ricordo su una mia vecchia spider con Bonsanti sul sedile posteriore. Terrorizzato dalle curve e con la mano sul freno, Gadda era pronto a intervenire. Una sera, tornando dalla proiezione de La Bella di Lodi, chiese di fermarsi all’Hilton di Monte Mario. Si impelagò in un discorso da ingegnere sugli ascensori con un altro ingegnere, il fratello di Fabrizio Clerici. Tecnicismi da ossessi che evaporarono in un istante quando all’orizzonte si scorse la sagoma di un prelato. Gadda, l’uomo che vestiva in blu, non dimenticava mai la camicia bianca e certe discutibili cravatte acquistate in uno spaccio di Via della Mercede, all’improvviso si illuminò: Così dovevo nascere. Essere americano, farmi prete e vivere in un grande albergo bevendo succo d’arancia. Erano anni curiosi. Anni in cui gli uomini non sapevano farsi la barba e Mimì Piovene, di casa a San Giovanni, si lamentava: Sono diventata la barbiera del Laterano».

Di Umberto Eco ha scritto: “Costruiva oggetti complessi che agli incolti mettevano paura”.

«È vero e fu un’operazione di rara intelligenza. Con i libri di Eco, laureati e laureandi scoprivano la complessità dell’esistenza in maniera abbastanza semplice. Il successo fu assoluto. L’attenzione della critica, sacrale. Non a caso, da allora e per sempre, Eco ha fatto il fornitore di oggetti apparentemente complessi».

Le è simpatico?

«Simpaticissimo. Anzi, simpaticissimi. Lui e la moglie».

Il verbo di Eco inizia a imporsi nei ’70.

«Un decennio abbastanza atroce. Si viveva sulla retorica del ’68 rapidamente diventata una retorica tremenda. A San Francisco c’erano i figli dei fiori, in Europa gli assassini. In California, con gli spazi larghi tra i palazzi, i prati e la sensazione di libertà, la spinta a delinquere era anestetizzata dal contesto. Da noi in fondo, in ambiti più asfittici, l’agguato era nell’aria e la storia fosca dei Guelfi e dei Ghibellini, dei Montecchi e dei Capuleti, non faceva altro che ripetersi».

Altra icona dei ’70, Nanni Moretti. Nel suo ritratto si sostiene che il regista sia privo di cinismo.

Il cinico non perde tempo a deplorare il proprio cinismo con malspeso rovello. Moretti è un cuor d’oro sempre animato dal senso civico e dal bisogno di stare dalla parte giusta. Il rischio moralismo, quando si vuole essere educati, corretti e civici, c’è. Il ritratto del perfetto moralista, in certi film in cui il nostro porta in scena se stesso, anche».

Se scrivere è un lavoro, leggere che cos’è?

«È un altro lavoro. Va compensato. Costa fatica. Non a caso non ho letto i libri che partecipavano al premio Strega».

Nessuno?

«Nessuno. Neanche per sogno. Chi mi paga? Nei libri dello Strega di quest’anno non mi viene in mente nulla che valesse l’aggravio della lettura».

Perché?

«Per la stessa identica ragione per la quale se sul giornale vedo gesti normali insigniti delle nove colonne, mamme che mettono lo zucchero nel caffè o profeti che pensano di stupire usando la parola cazzo, giro pagina. Non me ne importa niente. Non mi vien voglia di leggere. Tanti anni fa non si usavano letterariamente gli antichi sapori o le ricette della nonna mescolandole impunemente con le malattie del papà o l’agonia della mamma. C’erano libri diversi. Scrittori migliori. Il proprio minuscolo io o il proprio ombelico non erano ritenuti validi motivi per sbarcare in libreria e anche se le chiese politiche erano più invadenti di oggi, c’era più understatement anche nella presa di posizione. Se si esclude il Pci, non pulsavano le maldestre voglie di appartenenza e la conclamata aderenza al nuovo progetto politico sul tavolo che oggi rendono impossibile qualsiasi sfumatura. C’è una percepibile ansia di salire sul carro. Consiglierei prudenza, magari il carro si rivela meno solido del previsto».

È un problema culturale?

«Ma la cultura è un affare bizzarro. Come ho scritto in Ritratti italiani, di fronte al rotocalchismo, quella vera sparisce. Basta un lieve sospetto e non la si trova più. Pensare che in un’epoca lontana sorridevamo dell’ingenuità di Carlo Ponti, un produttore che a differenza degli epigoni contemporanei, a Milano aveva studiato davvero. Nell’ufficio all’Ara Coeli, oltre il suo tavolo, teneva la Pléiade con la costa della copertina rivolta verso l’interlocutore. Ci chiedevamo: Ma se volesse leggerla lui, che periplo dovrebbe fare per raggiungere il sapere?».

È sparita anche la letteratura italiana?

«Si è deciso a tavolino che i best-seller dovessero essere al livello del fruitore. E così, una volta abbattuto il gusto a colpi di orrori, visto l’apprezzamento per il buco della serratura di stampo familiare, via libera ai sapori, alle ricette della nonna, ai lutti e alle corsie d’ospedale. Vendono moltissimo. Sono un prodotto da banco. Uno shampoo. Un codice in più nello scontrino del supermercato. Forse sono più alternativo, io».

Sull’affezione premiologica della letteratura italiana lei montò uno speciale per la Rai in epoca non sospetta.

«Più della liturgia dello Strega, non ho dimenticato Casa Bellonci. I corridoi strapieni di libri, lo spazio totalmente colonizzato dai volumi, una cosa da restare sbalorditi. Per la Rai in effetti assemblai un’ora e mezza di premi nazionali da Venezia a Firenze. C’era un ritmo serrato e allo spettatore sembrava si trattasse di un unico premio.L’intento era quello. Quando andai da Maria Bellonci spiegandole che non avrebbe potuto parlare per più di 30 secondi quasi mi rise in faccia: Ho bisogno di più tempo. Si cambiò 10 volte, il risultato era inverosimile. Maria vestita da donna, da uomo, a pois. Divertentissimo. Lei lo sapeva. Era una furbona».

È furba anche una letteratura in cui l’intimo dolore sfiora la pornografia?

«Furba sicuramente, pornografica non so, certamente irrilevante. Come può affascinarmi il calvario della prozia? Il sapesse quanto abbiamo sofferto signora mia?. Vabbè, anche se c’è chi non si diverte e gli scrittori danno l’impressione di divertirsi poco, signora mia sarà contentissima».

Morto Alberto Arbasino. Pubblicato lunedì, 23 marzo 2020 su Corriere.it da Antonio Carioti. Era un’esperienza intrigante, ma al tempo stesso sconcertante e comunque sempre impegnativa, misurarsi con la prosa di Alberto Arbasino, scomparso all’età di 90 anni. Intellettuale cosmopolita dall’erudizione sterminata, letterato dallo stile inconfondibile, sapeva rendere con estrema efficacia il linguaggio parlato delle classi istruite o semi-istruite italiane, in buona parte mutuato dai media. E amava scarnificarlo senza pietà, metterne in mostra la pochezza e gli stereotipi, fustigare con perfido sarcasmo i vizi che ne trasparivano. Svariava con naturalezza, nei suoi libri, dal teatro alle varie forme di arte figurativa, dalla musica alla letteratura. Il suo piglio dissacrante poteva risultare quanto mai spassoso, ma anche molesto e saccente, a seconda dei gusti. Di certo bisogna riconoscergli di aver dimostrato un fiuto sopraffino nel captare le trasformazioni del costume e della comunicazione di massa. Nato il 22 gennaio 1930 a Voghera, in provincia di Pavia, da una famiglia di professionisti, lettore instancabile fin da piccolo, Arbasino aveva interrotto gli studi di Medicina per dedicarsi con profitto a quelli giuridici e aveva intrapreso a metà degli anni Cinquanta la carriera accademica, forte anche di proficui soggiorni alla Sorbona di Parigi e all’Accademia di diritto internazionale dell’Aia. Nel 1965 però, deluso, avrebbe lasciato l’università. Nel 1959 si era recato per la prima volta negli Stati Uniti, allo scopo di seguire i corsi di relazioni internazionali tenuti ad Harvard da un giovane professore di origine tedesca destinato a diventare potente e famoso, Henry Kissinger. Da subito Arbasino aveva sviluppato un enorme interesse per la società d’Oltreoceano e la sua vivace produzione culturale, a cui avrebbe dedicato molti anni dopo il volume America, amore (Adelphi, 2011). Nel frattempo aveva cominciato a scrivere su riviste di prestigio: «L’Illustrazione Italiana», «Officina», «Tempo presente», «Il Mondo» di Mario Pannunzio. Reportage dall’estero, interviste, ritratti di scrittori famosi, poi inclusi nel volume Parigi o cara (Feltrinelli, 1960). Ma anche racconti: il primo, intitolato Distesa estate, era uscito su «Paragone» nel 1955. Nel 1957 Arbasino ne pubblicò una raccolta, Le piccole vacanze (Einaudi), i cui testi furono poi riproposti, insieme ad altri, nel successivo volume L’Anonimo Lombardo (Feltrinelli, 1959). Queste iniziali prove narrative misero subito in luce l’autore come una penna estrosa e innovativa, che trattava i suoi personaggi affamati d’amore con un distacco cinico e un po’ cerebrale, non privo di fredda cattiveria. Spiccava tra gli altri il racconto Giorgio contro Luciano, che affrontava il tema della vita sentimentale gay, all’epoca ancora generalmente tabù, con un approccio disinvolto e allusivo senza dubbio originale, ispirato allo stile camp americano, che avrebbe fatto di Arbasino, egli stesso omosessuale dichiarato, un punto di riferimento per quell’ambiente. Bisogna aggiungere peraltro che lo scrittore di Voghera rimase sempre estraneo a una visione militante del problema: avrebbe criticato i cortei, le ostentazioni più vistose e le battaglie per il riconoscimento giuridico delle coppie gay. Nel 1961 uscì sul «Mondo» il racconto La bella di Lodi, magistrale nel rendere il clima del boom economico, dal quale Arbasino trasse poi la sceneggiatura del film omonimo uscito nel 1963 per la regia di Mario Missiroli, con Stefania Sandrelli nel ruolo di Roberta, la disinibita protagonista. Nel 1972 l’autore avrebbe poi riproposto la stessa vicenda con lo stesso titolo in forma di romanzo, uno dei suoi libri di maggior successo. Tra le caratteristiche peculiari di Arbasino spiccava l’abitudine di rielaborare le proprie opere, diverse delle quali furono via via arricchite e modificate in edizioni successive. Il caso più significativo è Fratelli d’Italia, romanzo fluviale, complesso e irriverente, una sorta di odissea picaresca nell’establishment culturale italiano, uscito nel 1963 da Feltrinelli e progressivamente ampliato fino a toccare quasi le 1.400 pagine nell’edizione Adelphi del 1993. Quell’opera segnò la consacrazione definitiva di Arbasino nella galassia della Neoavanguardia: il Gruppo 63, nato a Palermo nell’anno da cui prese il nome, lo vide in prima fila. Si era tra l’altro affermato come l’erede di Carlo Emilio Gadda, di cui si considerava discepolo: i suoi racconti La narcisata e La controra, usciti nel 1964 da Feltrinelli, sono un evidente omaggio al maestro, cui molti più tardi avrebbe dedicato il volume L’ingegnere in blu (Adelphi, 2008). Dopo aver descritto con arguzia e sensibilità l’Italia del miracolo economico, Arbasino seppe fare altrettanto con la contestazione giovanile, messa in scena, come scrisse lui stesso, «in una decadenza romana archetipica, raccontata con gli strumenti delle avanguardie storiche», nel breve romanzo surreale Super-Eliogabalo (Feltrinelli, 1969), apertamente ispirato all’Eliogabalo del francese Antonin Artaud. Affiora in questa come in altre opere di Arbasino (si pensi alla corrosiva commedia musicale Amate sponde!, sfornata per il centenario dell’Unità nazionale nel 1961) un pessimismo di fondo circa «le pulsioni antropologiche profonde e costanti del vivere italiano»: la faciloneria, il sentimentalismo a buon mercato, la superficialità, il provincialismo, che lui esortava a curare, o almeno a lenire, con una salutare «gita a Chiasso», cioè con l’esperienza diretta dei Paesi più civili. Assai critico anche il suo atteggiamento verso la stampa e la tv, impegnate a abbassare il loro standard culturale al livello della proverbiale «casalinga di Voghera», altra espressione frutto della sua vulcanica immaginazione. Collaboratore assiduo dei più importanti quotidiani, dal «Giorno» al «Corriere della Sera» fino al lungo sodalizio con «la Repubblica», dagli anni Settanta Arbasino si era sempre più caratterizzato come saggista e osservatore del costume, caustico censore della tradizione cattolica come del conformismo progressista, pronto anche a biasimare con parole molto severe (forse troppo) le lettere di Aldo Moro dal carcere delle Br nel libro In questo stato (Garzanti, 1978). «La nostra crisi attuale — scrisse — ci appare non tanto un fatto economico quanto anzitutto un disturbo mentale». Era anche approdato in televisione, a Rai Due, dove aveva condotto nel 1977 il programma Match, e nel 1983 era stato eletto alla Camera da indipendente nelle liste del Partito repubblicano. Del 1980 è la prima edizione del suo più importante saggio d’impegno civile, Un Paese senza (Garzanti), raccolta di riflessioni e aforismi sui paradossi di un’epoca farsesca e nel contempo tragica, sommersa da un’alluvione d’inutili chiacchiere nella persistente incapacità della classe dirigente di affrontare i problemi reali. Anche in seguito, dopo il progressivo esaurimento della sua stagione creativa più intensa e vivace, Arbasino era rimasto un protagonista. Viaggiatore infaticabile anche in tarda età, aveva continuato a raccontare il mondo, con titoli come Pensieri selvaggi a Buenos Aires (Adelphi, 2012), a rievocare eventi e personaggi, a divertire e disorientare il lettore con la sua mania per il dettaglio e le smisurate elencazioni grottesche. Per alcuni anni era tornato a scrivere sul «Corriere», raccogliendo impressioni e ricordi, sapientemente miscelati, in una rubrica dall’eloquente titolo «Vintage». Nel 2009 le sue opere erano state raccolte in due volumi nei Meridiani Mondadori: testimonianze essenziali per comprendere le trasformazioni profonde e le robuste persistenze che abbiamo sperimentato nel lungo passaggio tumultuoso dall’Italia rurale degli anni Cinquanta a quella postmoderna e stralunata di oggi.

Morto Alberto Arbasino, avversario del politicamente corretto. Pubblicato lunedì, 23 marzo 2020 su Corriere.it da Aldo Cazzullo. C’erano, in casa di Alberto Arbasino (scomparso lunedì 23 marzo a 90 anni) , una Madonna in calze a rete firmata da Guttuso, un disegno di Mino Maccari con i preti che su ordine di Andreotti mettono i mutandoni alle statue del Foro Italico, lettere di insospettabile cortesia dei grandi con cui aveva polemizzato, da Bassani a Paolo Grassi; tracce di un’avventura intellettuale, Roy Lichtenstein e Toti Scialoja, Giosetta Fioroni e Antonietta Raphael. E c’era un ritratto con dedica — «Arbasino alla macchina da scrivere in un atto di industria culturale, abietto naturalmente. PPP» —, cui Pier Paolo Pasolini aveva prestato i suoi stessi lineamenti e zigomi. Però nei suoi libri gli amori omosessuali erano narrati in chiave lieve, non in quella drammatica di Pasolini. «Anonimo lombardo era un romanzo epistolarfrocesco da far sobbalzare, perché trattava l’omosessualità studentesca come una cosa normale, ovvia, com’era considerata a Oxford e a Cambridge — raccontava Arbasino —. Infatti fui rimproverato, e non per scherzo, da Pier Paolo e da Testori, che criticarono la mia leggerezza, la mia mancanza di sofferenza, di tormento. Non sapevo cosa rispondere. Forse dipendeva dal fatto che loro fossero così cattolici». Un giorno andò a trovare Pasolini su un barcone sul Tevere, sotto il ponte di Castel Sant’Angelo: «Un posto frequentato da ragazzi di vita molto disponibili. Ero a Roma di passaggio, dopo sarei stato al “Mondo”, vestito come si addiceva a un incontro con Pannunzio, Ercolino Patti, Sandro De Feo, che portavano certe grisailles chiare, un po’ meridionali, da avvocato. Mario Ferrara era un avvocato elegantissimo, così come l’avvocato Battaglia: scarpe nere lucidate bene, baffetti bianchi molto curati. Quando arrivai sul Tevere in cravatta, Pasolini mi derise, così come tutti i marchettoni e le marchettine; ma quando videro che sotto avevo un costume hawaiano, con i palmizi e i fiori, fui molto ammirato dai pischelli. Non so come oggi sarebbe considerato Pasolini. Forse un pedofilo. Come Balthus, un altro grande che ho avuto ospite qui in casa. E Degas, con quelle ballerinette quattordicenni? E Cézanne, coi suoi pompieri al bagno? Forse i tempi erano allora più permissivi? Non so». Pasolini l’aveva visto l’ultima volta alla Carbonara, la trattoria di Campo de’ Fiori. «Lui aveva invitato a cena Sandro Penna, certo per fare una buona azione: Penna era lagnoso e querulo, difficile da reggere, sempre a lamentarsi di cani o gatti malati, come del resto la Morante; i gatti della Morante non erano mai in buona salute. Quando Pier Paolo mi vide fu una liberazione: “Alberto, vieni qui…”». E la sua fine? «Non ho mai pensato che se la fosse andata a cercare, come pare abbia commentato Moravia; ma che ci fosse qualcosa sotto. Non un delitto fascista; pensai piuttosto a una banda, di quale tipo non so. Fu una strana imprudenza: nel momento della sua massima visibilità polemica, contro la Dc contro gli americani contro l’Eni, rischiare non una coltellata ma il flash di un paparazzo dietro un cespuglio, con le mutande in mano?». Anticomunista e avversario del politicamente corretto senza essere di destra, antifascista e pronto a intervenire nel dibattito civile senza essere di sinistra, Arbasino ha coltivato una certa idea dell’engagement, dell’impegno. Faceva notare che i padri della Repubblica non erano schierati a priori né di qua né di là, né democristiani né comunisti. «Croce, Einaudi, gli azionisti torinesi: gli uomini della generazione di mio nonno, presidente del partito liberale di Voghera, e di mio padre, che aveva della farmacie e forniva le medicine ai capi partigiani dell’Oltrepo. Anche venendo arrestato. A Voghera lavorava come impiegato in un’azienda elettrica Ferruccio Parri». Rivendicava di non essersi unito a nessun coro: «Su Berlusconi come su Craxi, posso dirmi vergin di servo encomio e di codardo oltraggio. Entrambi hanno inciso sull’economia, anche su quella del fronte avverso: sono stati una fonte di reddito. Con vignette e commenti pro o contro Craxi e Berlusconi, molti hanno guadagnato. Non io. Con il vecchio Brecht dico che quando leggo “il Cavaliere” sento tintinnare il registratore di cassa». Nell’83 Arbasino fu eletto alla Camera nelle liste repubblicane, e fino all’87 fu tra i deputati più presenti. «Legai molto con i miei vicini in commissione: Adolfo Sarti, di Cuneo, ministro importante e uomo coltissimo, e Michele Zolla, che poi lavorò al Quirinale con Scalfaro. Di fronte c’era Natalia Ginzburg, che smistava tutte le carte a me: “Fai tu anche questo…”. Detestavo il Transatlantico, i divani, i baci e abbracci tra panzoni, le passeggiate sottobraccio alla buvette. Con Sarti e Zolla ci facevamo il caffè alla macchinetta. La Iotti era scrupolosissima: ascoltava tutti, anche gli ostruzionisti, senza farsi mai sostituire; contava i minuti, al massimo 45, e al quarantaseiesimo scampanellava. Mi ricordava le presidi della mia infanzia. La direttrice didattica di Voghera». Chi le offrì la candidatura? «Visentini, cui mi legavano l’arte e la musica. E Spadolini, che era stato il mio direttore al “Corriere”. Spadolini era simpaticissimo. Animato da vanità e golosità infantili. Non da sensualità; quella non gli importava, e credo davvero non la praticasse, se in quattro anni di gossip sul direttore al “Corriere” non venne fuori nulla». Arbasino veniva dal «Giorno». «Avevo legato molto con Murialdi, il caporedattore, e con Pietrino Bianchi; non tanto con Bocca, che credo mi considerasse frivolo, e neppure con il direttore Pietra. Era lui il capo partigiano cui mio padre passava le medicine. Conosceva anche mia madre e di fronte ai redattori allibiti, scherzando ma non troppo, mi diceva: “Se usi troppe parole straniere e troppe citazioni, dico alla mia amica Gina che ti prenda a schiaffi!”. Al “Corriere” mi portarono Enrico Emanuelli e Alfio Russo, che mi affidava elzeviri e brevi corsivi contornati, lunghi mezza matita. Per prima cosa Spadolini mi informò che erano aboliti. Quanto agli elzeviri, li avrebbero scritti solo accademici e luminari». Poi venne Ottone. «Con cui mi trovai bene, e mi lasciai ancor meglio quando passai a “Repubblica”: era il Natale del ’75, portai due bottiglie in redazione, e Ottone mi ringraziò: “Finalmente uno che va via dal “Corriere” non a male parole ma offrendo champagne”…L’unico problema era l’America. Vi ero stato la prima volta nell’estate del ’59, a seguire un corso di Kissinger che ai suoi picnic ci portava Eleanor Roosevelt, Riesman, Galbraith e Schlesinger. Ma non potevo tornarci per il “Corriere” perché il grande Stille non voleva che nessun altro scrivesse di America, neppure sulla letteratura o su Broadway, tranne lui. Così andavo per conto mio» (qui il primo articolo di Arbasino per il «Corriere della Sera», nel 1968). Con Bassani era andata peggio. Enzo Siciliano ha raccontato che gli amici di Arbasino alla Feltrinelli dovettero scassinare un cassetto per recuperare il manoscritto di Fratelli d’Italia. Ma lui negava: «Non è così. Io non ero litigioso, e Bassani con me era severo ma simpatico. Tanti altri cercavano di mettere zizzania attorno al Gruppo 63, inventavano voci per creare difficoltà: “Quelli vogliono prenderci tutti i posti”. Come poi nel ’68. L’uscita di Fratelli d’Italia fu preceduta da una campagna preventiva che infastidì molti, compreso me: veniva annunciato un romanzo scandalistico a chiave, con dentro tutti i protagonisti della dolce vita, da Agnelli in giù. Bassani si allarmò. Quando ebbe tra le mani il libro, molto sinceramente mi disse che non corrispondeva alla sua idea del Romanzo. Fu Giangiacomo Feltrinelli a risolvere la questione: Fratelli d’Italia non sarebbe uscito nella collana curata da Bassani accanto a Forster e Lampedusa, ma in un’altra insieme con Pasternak e Grass. La strana storia dei cassetti forzati, che non so se vera, avvenne molto dopo, con l’acuirsi delle rivalità tra le redazioni romana e milanese, quando il mio libro era già uscito». Era già nato il Gruppo 63, con Angelo Guglielmi, Furio Colombo, Edoardo Sanguineti, Giorgio Manganelli e Umberto Eco. Per prendere amichevolmente in giro Eco, diceva: «Non saprei giudicarlo. I suoi libri sono molto lunghi, e sono bestseller. La questione non riguarda Umberto, ma tutti. Ove si tratti di bestseller che muovono denaro, il compenso per ogni ora di lettura di noi addetti ai lavori non andrebbe commisurato alla tiratura e alle vendite, bensì deontologicamente regolato dalle vigenti tariffe degli ordini professionali. Più Iva».

Morto Alberto Arbasino, ha raccontato l'Italia fuori dal conformismo. Nato a Voghera nel 1930 si è spento dopo una lunga malattia. Scrittore prolifico, fu tra i protagonisti del Gruppo 63. Raffaella De Santis il 23 Marzo 2020 su La Repubblica. E' morto il 22 marzo, domenica, Alberto Arbasino, dopo una lunga malattia. La famiglia fa sapere che lo scrittore "si è spento serenamente". Arbasino era nato a Voghera (Pavia) nel 1930, lo scorso gennaio aveva compiuto 90 anni, ed aveva attraversato il Novecento guardandolo con la distanza dell'illuminista che sa mescolare humor e sguardo critico. D'altra parte la sua carriera intellettuale di romanziere, poeta e saggista sui generis segue fin dall'inizio percorsi originali. Uno scrittore appassionato, un giornalista curioso. Sergio Mattarella saluta  Arbasino e ne ricorda la  "passione civile", quella carica che ha spinto lo scrittore a cercare sempre "strumenti utili alla narrazione e alla comprensione dei mutamenti, sociali e di costume". "Arbasino è stato uno scrittore di grandi qualità e creatività - ha sottolineato Mattarella dopo aver appreso la notizia della scomparsa - un romanziere innovatore, un uomo di cultura poliedrico, tra i motori del Gruppo 63". Per poi concludere: "L'Italia si è arricchita del suo talento e la cultura ne farà tesoro". Come era nella sua natura, sofisticata e rap, elegante e camp, funambolica e imprendibile, Arbasino è salutato da tutti come un grande, dai lettori comuni sui social, dai suoi colleghi scrittori e dalle istituzioni. "Autore prolifico, intellettuale anticonformista, scrittore sperimentale", così lo ricorda oggi il ministro per i Beni e le attività culturali Dario Franceschini: "Con il suo genio ha illuminato la cultura italiana e non solo". Sempre in movimento, mai conforme. Da ragazzo dopo essersi iscritto a medicina a Pavia, Arbasino cambia idea e passa a studiare giurisprudenza alla Statale di Milano dove si laurea nel 1955 con il giurista Roberto Ago, del quale per un po' diventa assistente. La carriera universitaria però non è così consona al suo spirito creativo. Arbasino dimostra fin da subito una cultura flessibile, impastata di studi classici e di vita vera, gli piacciono oltre ai libri il teatro e le mostre, gli scambi tra intellettuali, quello che Foscolo chiamava il Gazzettino del Bel Mondo. I primi passi li compie scrivendo su riviste culturali come L'illustrazione italiana, Officina e Paragone e sul Mondo di Pannunzio, fino a quando nel 1963 pubblica Fratelli d'Italia, un romanzo fiume in cui c'è già la consapevolezza dello scrittore maturo e che rimaneggerà in continuazione nel corso del tempo. Il clima era quello della neoavanguardia del Gruppo '63, del quale Arbasino faceva parte, e il romanzo aveva tutta la veemenza sperimentale di quegli anni. Diventerà un classico, riveduto dallo scrittore nel tempo (l'ultima edizione, nel 1993, esce per Adelphi). Il libro narra le vicende estive "on the road" di due giovani omosessuali, Antonio e l'Elefante, che d'estate girano l'Europa. Arbasino amava viaggiare e sembrava un sismografo tanto era in grado di cogliere al volo i cambiamenti sociali e culturali del momento. La trama per lui era solo un pretesto. Nel 1969 esce Super-Eliogabalo, accolto come d'altra parte Fratelli d'Italia tra entusiasmi e polemiche (prima edizione Feltrinelli nel 1969, poi Einaudi e infine Adelphi). Racconta la vita di un moderno imperatore ispirato al  lascivo imperatore romano Eliogabalo, protagonista di un'opera di Antonin Artaud che ne celebrava la biografia piena di contraddizioni ed eccessi. Scrittore, saggista, poeta, giornalista, era sempre un passo avanti. Tra le altre opere da ricordare: Parigi o cara; Un Paese senza; Paesaggi italiani con zombi; La vita bassa, che fin dai titoli hanno il suo tratto. Amava Gadda più di tutti, tanto da dedicargli un libro, L'ingegnere in blu (Adelphi, 2008) Molte le trovate intelligenti e piene di ironia che rimarranno, tra cui "la casalinga di Voghera" e "gita a Chiasso", che aveva usato nel 1963 in un articolo su "Il Giorno" come antidoto al provincialismo culturale italiano. Nel 2009 escono i due volumi dei Meridiani dedicati ad Arbasino, curati da Raffaele Manica, che lo consacrano come uno dei maggiori autori del Novecento. Arbasino è stato un collaboratore di Repubblica fin dal giorno della fondazione, il suo primo articolo, un'intervista a Bernardo Bertolucci, compare nelle pagine culturali del nostro giornale del 14 gennaio 1976. Arbasino è stato uno scrittore sociale, nel senso che seguendo il filo delle sue opere si registrano i cambiamenti del mondo in cui viviamo, le rotte culturali del tempo, i tic di un'epoca che sapeva essere "post", post ideologica e giocosamente confusa. Per questo amava definirsi con ironia scrittore "neo-frugale" o "post-tragico".  Gli anni Cinquanta della Ville Lumière in Parigi o cara (Feltrinelli 1960, poi Adelphi 1995), quando nella capitale francese si aggiravano i mostri sacri della cultura, da Céline a Jean Cocteau, da Raymond Aron a Raymond Queneau, e poi Pierre Klossowski, Alain Robbe-Grillet, Roland Barthes. Li conosceva, ci discuteva, con una capacità unica di farli parlare, incontrandoli nei loro appartamenti lussuosi o ai ricevimenti ufficiali, nei festival, nei teatri o in luoghi più neutri come le case editrici o le redazioni di riviste. In Il ragazzo perduto, poi rititolato Anonimo lombardo (uscito per Feltrinelli prima nel 1959 e poi nel 1966 e in seguito per Einaudi e Adelphi), mette in scena in forma epistolare le ansie di un amore omosessuale nella Milano del boom anni Cinquanta.  Amava la vita cittadina, i bar, le presentazioni, i musei. Era innamorato delle grandi capitali culturali, Parigi, Londra, New York (alla quale dedica America amore, 900 pagine di incontri, pensieri, interviste, scrittori alticci, pubblicato da Adelphi nel 2011), così come dell'America latina, terra di grandi fasti e repentine crisi, a cui ha dedicato "Pensieri selvaggi a Buenos Aires" (Adelphi, 2012). Le sue analisi taglienti non risparmiano mai spigolature fuori dal coro, come in Un Paese senza, saggio pubblicato nel 1980 per Garzanti, dove mette a fuoco l’Italia degli anni Settanta con punte di divertita cattiveria. Ma ce n'è anche per la Dolce Vita di un tempo passato, il chiacchiericcio ai tavoli, i night club, posti in cui anche i piccoli imprenditori parlano d’affari, “con Buscaglione e Carosone sullo sfondo, e la bottiglia di una certa marca di whisky bene in vista sul tavolo, a conferire identità e status”. Sferzanti i commenti contenuti nel libro. Quello su Theodor Adorno, che nel 1969 all’università di Francoforte era stato contestato da tre studentesse a seno nudo, è tranchant. Arbasino, che si è recato a trovarlo a Francoforte, scrive che Adorno “sarebbe morto di lì a poco di contestazione”. Degli anni Settanta e della contestazione ritrae entusiasmi e smanie, come quella del “dibbattito” (scritto con due “b”), che in quegli anni travolgeva ogni cosa, dalla musica alla politica alla famiglia. Arbasino allora affonda il colpo: “Dover prendere partito anche su ‘rock duro contro disco music’, dunque magari battersi per stronzate?”. Negli anni Ottanta avvicina la politica: dal 1983 al 1987 è deputato come indipendente per il partito Repubblicano. Il passaggio al nuovo millennio gli ispira Rap! (Feltrinelli, 2001, poi l'anno dopo Rap 2) dove incurante del politicamente corretto se la prende con i miti e i riti di oggi, le tendenze considerate “must”, la devolution, il G8, il Cavaliere. Tutto a ritmo rap, facendo proprie le inflessioni del gergo contemporaneo. Un libretto, pubblicato nel 2008 per Adelphi, fotografa invece fin dal titolo la nuova moda dei giovani, La vita bassa, i pantaloni dei ragazzotti più trendy che lasciano intravedere le mutande. Un segno antropologico, tribale, della condizione umana ai tempi dei Millennial.  Chi era Arbasino dei tanti personaggi che racchiudeva? Per Roberto Calasso, direttore editoriale Adelphi, Arbasino è stato soprattutto un "grandioso memorialista", uno che sapeva ritrarre gli altri scrittori in modo eccezionale, dotato di una vis polemica che gli ha consentito di "attaccare frontalmente tanti che venivano venerati, ossequiati in ogni modo, di cui si tacevano grossi difetti". Con Arbasino invece, dice Calasso intervenendo a Radio 3, "non passavano indenni certe mediocrità". Arbasino però scherzava anche su di sé, sulla sua condizione di intellettuale. Sapeva di essere diventato un "venerato maestro" ma in fondo non ha mai smesso di essere un ragazzo irriverente. 

Addio ad Alberto Arbasino, l’illuminista che prese in giro il nostro provincialismo. Il Dubbio il 23 marzo 2020. Aveva 90 anni ed è morto a Roma. Raccontò l’Italia e gli italiani da una visuale anticonformista, controcorrente. E’ morto a Roma Alberto Arbasino, aveva 90 anni, è stato uno degli autori capaci di raccontare l’Italia e gli italiani da una visuale anticonformista, controcorrente. Narratore e saggista eclettico, fu protagonista del Gruppo 63, movimento letterario di neoavanguardia formato da giovani intellettuali critici nei confronti delle opere letterarie ancora legate a modelli tradizionali degli anni ’50. Uomo dalla personalità eccentrica, colto, fu cronista della realtà sociale e culturale degli anni ’60 e ’70 ma di tutta la seconda metà del ‘900. Nato a Voghera il 22 gennaio 1930, Nino Alberto Arbasino si laureò in Giurisprudenza, specializzandosi poi in Diritto internazionale all’Università di Milano. Si fece conoscere con alcuni scritti pubblicati su riviste di rilievo come “L’illustrazione italiana”, “Officina” e Paragone. “Esordì come scrittore nel 1957, anno in cui si trasferì a Roma, ed ebbe come editor Italo Calvino. I suoi primi racconti, pubblicati su riviste, furono raccolti in Le piccole vacanze, del 1957, e “L’Anonimo lombardo”, 1959.  Arbasino raccontava la provincia italiana del dopoguerra, chiusa in un mondo ristretto. Tra le opere maggiori c’è Fratelli d’Italia’ romanzo del 1963 che attraverso le vicende estive di due giovani omosessuali in giro per l’Italia e l’Europa raccontava l’ambiente culturale del Paese degli anni ’60. Nel 1965 Arbasino decise di abbandonare la carriera universitaria per dedicarsi a tempo pieno alla scrittura. Nel 1967 iniziò a collaborare con Il Corriere della Sera, dal 1976 con La Repubblica. Tra i primi lavori ci sono anche reportage per il settimanale Il Mondo, scritti da Parigi e da Londra. Si considerava uno scrittore espressionista, e considerava Super Eliogabalo, pubblicato nel 1969, il suo libro più surrealista ed espressionista. Tra il 1983 e il 1987 fu deputato come indipendente per il Partito Repubblicano Italiano. E’ del 1994 Mekong, un ritratto impietoso della societa’ italiana del secondo ‘900. Era un grande estimatore di Carlo Emilio Gadda. E’ considerato erede della tradizione illuministica lombarda che aveva i padri nobili in Carlo Dossi e Gadda. Arbasino fu anche critico teatrale e musicale e autore di libri di viaggio.

Pierluigi Panza per fattoadarte.corriere.it il 24 marzo 2020. Nella biblioteca del teatro di Voghera, dove sono custoditi i libri sui quali studiò il primo Arbasino, mi pare di aver visto molti classici, non molti libretti d’opera. Ma della divorante passione di Arbasino per la lirica abbiamo una prima data certa, il 1953: “Medea” di Cherubini, con la Callas diretta da Bernstein. Arbasino c’è, c’è anche lui nel foyer, e nell’ “Anonimo lombardo” racconta all’amico Emilio di aver visto quel giorno, quella sera, prima dell’inizio di quell’opera, alla Scala “un Giovin di capelli nerissimi”. Lui vorrebbe, sì vorrebbe ma… no, non può resistere alla Callas. Prima c’è l’opera: “Quel coro di Argonauti mi piaceva da matti, me lo sono subito imparato per inserirlo tra le melodrammatiche marce che mi fanno morire”. L’anno successivo, il 14 settembre 1955, è a Venezia per le sue vacanze post-laurea a vedere “L’angelo di fuoco” di Prokoviev, alla prima mondiale alla Fenice. La lirica, soprattutto i giochi di parole dei famigerati libretti – da Busenello a Illica – diventano il vocabolario della sua narrativa. E l’opera il suo amore segreto. I libretti sono un serbatoio di accostamenti da far impazzire Arbasino. Fino al XVIII secolo folleggiano i “disarmati e impotenti amori” di Busenello, il “velenoso amor”, l’“amator malveduto” gli “sciapiti amplessi” che poi diventano, con il Conte di Luna del “Trovatore”, dei giochi di parole trasformati in detti popolari: “Ah, l’amor l’amore ond’ardo” che si trasforma persino nel vogherese in “l’amore è un dardo”. Da impazzire. Ma nella lirica, lui, ci entra davvero, un paio d’anni prima dei pomodori di Capanna alla prima del ’68 alla Scala. Nel 1966 è al Cairo, “in piena età Nasser e in assoluta economia”, e mette in scena una “Traviata”. L’anno dopo, che è l’anno meno uno della Rivoluzione, realizza una “Carmen” per il Teatro Comunale di Bologna. E udite con chi: scene di Vittorio Gregotti – anche lui scomparso una settimana fa - e costumi di Giosetta Fioroni. Dietro le quinte, con funzione di drammaturgo, diciamo, Roland Barthes, quasi al culmine della sua gloria. Al torero Escamillo la Fioroni fa indossare una maglietta con una grande E sul petto, stile rapper odierno. Le sigaraie sono abbindate con palline da ping pong. Escamillo è Superman, sopra una scala d’argento e la Carmen ammanettata è un po’ mignottesca: “a modo suo tentava audacie alla Artaud sopra Don José affondato fra cuscini d’argento entro gradoni da pre-discoteca”, disse Arbasino. Quella “Carmen” era come un gigantesco Happy hour presessantottesco i cui riferimenti –notò Stefano Di Michele anni fa per “il Foglio” – vanno in fondo cercati nella descrizione di Madame Sesostris della “Terra desolata” di T.S.Eliot. Forse gli piaceva anche Stravinskij, forse la musica russa. Recensore di serata, non entrava mai nel tecnico soporifero e inconcludente di certi critici musicali ammazzamusica. Nel marzo del 2007, per la “Fille du Régiment” alla Scala, sentite cosa scrive su “la Repubblica”: “Qui, accanto alla mirabile Anna Proclemer, che rifà le più formidabili Lady Bracknell d'Oscar Wilde, ai tempi illustri e magistrali di Edith Evans, trionfa saltellando e incespicando, trottolino e tombolotto, l’amatissimo Juan Diego Flórez, finto sempliciotto e tipico paraculetto, ninnolo, giuggiola, e biscuit. Su una cabaletta valzerosa come l'antica Sulle, sulle labbra da salotto, squilla note ficcanti e perentorie come quando Rockwell Blake (anche lui a Pesaro) forzava con sicurezza una preoccupante voce di testa; ma rigirandosi poi in un velluto alla Alfredo Kraus, e scatenando battimani e pestoni da Radetzky Marsch nei Capodanni viennesi”. A Vienna, a Salisburgo, ad ascoltare Wagner e alla Scala, forse ancora un paio d’anni fa. Da dopo che scrisse le “Piccole vacanze”, ai conoscenti di lirica mandava – di tanto in tanto – cartoline dai posti dove si trovava o dove aveva assistito a opere. Con qualche gioco di parole incomprensibile, come queste morti.

"L'intellettuale deve sempre dire la sua": addio Alberto Arbasino, protagonista del '900. È morto nella notte lo il giornalista e scrittore. Lo ricordiamo con questo articolo che scrisse sull'Espresso nel 1997. "Chi per mestiere studia e riflette e collega dati e ne scrive fa benissimo a mettere i risultati del suo lavoro a disposizione della società civile". L'Espresso il 23 marzo 2020. È morto nella notte lo scrittore e giornalista Alberto Arbasino, storico collaboratore di Repubblica e L'Espresso. Tra i protagonisti del Gruppo 63, aveva da poco compiuto 90 anni. Ripubblichiamo qui un suo storico articolo uscito sul nostro giornale l'8 maggio 1997 sul ruolo degli intellettuali.

È giusto che gli intellettuali dicano sempre la loro? Sì, anche a nome del Bar Sport. Caro "L'Espresso", i maneggi e i minuetti sul "ruolo dell'intellettuale" alle spalle della collettività sono spesso stati presuntuosi e molesti, nella supponenza mezzacalza. Ma a livello di "basso profitto" realistico e altruistico, le varie esperienze immagazzinate lungo i decenni di lavoro negli studi professionali e nelle frequentazioni specialistiche - onestamente - possono risultare utili per i cittadini che non hanno accumulato altrettanto "know-how". E non sono abituati (o non avevano il tempo, o non ci hanno mai pensato) a riconoscere i corsi e i ricorsi dei fenomeni che si ripresentano identici, a interpretare i nessi fra i precedenti e l'attualità, ad applicare la memoria storica, i saperi, le competenze, il principio che due più due fa quattro e le pie illusioni non fanno bingo. E se questo vale o si usa - con buone accoglienze - con le indicazioni pratiche sulle cure per la depressione o la disintossicazione, i rimedi per i figli e i fiori, e i consigli circa le pizzerie con la ragazza, perché non fornire "expertises" meditate sui fenomeni politici e mentali che sembrano inauditi o insoliti, suscitano emozioni, e sono in realtà vecchie solfe già analizzate e riciclate più volte? E quindi si è già visto come sono andate a finire di solito. L'importante - mi pare - sarà il non soccombere alle tradizionali velleità e meschinità dei letterati provinciali e dei pensatori settoriali che vedono un solo problema alla volta, si infervorano su un'unica loro "causa" senza considerare gli antecedenti e i consensi. E si scalmanano per qualche giorno (e poi più) come quelle signore di mezza età che si agitano solo contro le pellicce o per l'Irlanda o l'Irpinia, senza riguardi per le altre che promuovono iniziative per i montoni sgozzati o per i monumenti in pericolo o per Lotta continua o per l'Aids. E magari chiedono scelte molto esclusive d'azione e di assegni fra Sarajevo, i carcerati, i tumori, gli ex-tossici, l'ultima provocazione censurata dai vescovi. E certo, qui, volendo, possiamo tutti proclamarci albanesi, e comportarci anche di conseguenza sparando per aria e alle parole e alla gente, per regolare vecchi conti fra bande approfittando dei torbidi, o cercando di portare qualche vantaggio a casa: come si vede nei telegiornali ogni sera. Ma al tempo del Vietnam gli americani seri si dichiaravano pro o contro l'intervento militare con una sola frase, un solo slogan. Nel contorsionismo del politicamente corretto all'italiana, invece, fiumi di parole spesso sconclusionate per non dire né sì né no, fra doppiopesismi e doppioscarpismi, «Yankee go home» e «siamo tutti kennediani», sit-in e «chi salta è...». Ma l'intervento militare italiano - in quanto albanesi - sì oppure no? Fondamentale - per una buona efficacia delle nobili cause - parrebbe allora un'astensione rigorosa da rancori e dispetti personali, da pettegolezzi grulli su citazioncine avulse dal loro contesto, dalle esibizioni pubblicitarie, dai neo-bigottismi di demagogia o di regime... Soprattutto, evitare il predicozzo e la lagna, dopo aver lodato le dissacrazioni. E validissimo risulterà - al contrario - un cotante riferimento ai temi di interesse civico generale e non individuale, duraturo e non episodico, approfondito e non effimero. Soprattutto, non trattare soltanto col cuore, con la laringe, coi bronchi, col fegato, con l'utero, le situazioni serie dove i dati e i fatti gravi e obiettivi e basici richiedono specialmente conoscenze giuridiche, economiche, storiche, diplomatiche, strategiche. Occorre sempre ricordarlo? Gli integralismi e i banditismi non si risolvono con un'Avemaria o un reggae, malgrado la bella figura gratuita fra le anime belle. I fondamentalismi e i terrorismi combattono e non conciliano, anche a costo di gravissime perdite suicide: lo insegna la Storia, che non dànno retta ai buoni sentimenti. Sennò, basterebbe far sfoggio del nostro miglior moralismo: non costa niente, e si ottiene un bell'applauso. Dunque, chi per mestiere studia e riflette e collega dati e ne scrive - direi - fa benissimo a mettere i risultati del suo lavoro a disposizione della società civile. Così come dopo una vacanza intelligente può concretamente suggerire il tale formaggio o il tale panorama. E così magari esprime il punto di vista delle più biasimate categorie sociali, la portinaia e la pescivendola? Ma proprio il già stimato e poi snobbato Louis Althusser spiegava che ogni scrittore serio funziona "anche" come portavoce di un qualche gruppo sociale che non ha voce propria. Senza escludere né la "signora mia" né il Bar Sport. Categorie, oltre tutto, che non hanno facili accessi con la scrittura e i media. E dunque, perché non agevolarne le "prese di coscienza", e rappresentarne magari le opinioni (elettorali, poi, alla fine) così come si forniscono gli indirizzi utili ai mercatini dell'usato? Oltre tutto, quando si è ricevuto parecchio dal proprio Paese, e lo si trova indisposto o incerto, diventa un vero dovere pubblico restituirgli non trasgressioni o moralette, ma un pochino di buon senso civico.

Crocifisso Dentello per il “Fatto quotidiano” il 17 gennaio 2020. "La necessità dello scrivere diverso, che alla coerenza del senso preferisce il rumore del mondo". Così Angelo Guglielmi nel rievocare l' esperienza del Gruppo 63, condivisa a suo tempo con Alberto Arbasino. Lo scrittore lombardo compirà 90 anni mercoledì prossimo e Guglielmi - critico letterario che i 90 li ha festeggiati lo scorso aprile - racconta al Fatto la parabola di un amico la cui voce "si è spenta". Arbasino scrisse: "In Italia c' è un momento stregato in cui si passa dalla categoria di giovane promessa a quella di solito stronzo. Soltanto a pochi fortunati l' età concede poi di accedere alla dignità di venerato maestro". Per stare alla sua stessa dissacrante etichetta, il nostro venerato maestro nasce a Voghera nel 1930 e trascorre un' infanzia "di guerra e di merda nelle campagne lombarde" per poi finire col mettere piede in ogni angolo del mondo e diventare un intellettuale cosmopolita. Romano d' adozione, frequenta negli anni 50 e '60 quasi tutte le personalità della cultura e dello spettacolo tanto da ricavarne una sterminata antologia di ritratti, sempre sul filo di uno snobismo sottile. Un letterato tanto atipico e lontano dai clichè che la sua biografia contempla persino la conduzione televisiva. Da ricordare almeno la trasmissione Match nel 1977 e una memorabile puntata che vide contrapposti Monicelli e un giovane Nanni Moretti. Un inclassificabile che ha sempre licenziato opere tanto innovative che persino la critica più militante si è dovuta arrendere, soverchiata dal suo genio di auto-esegeta. Da L' anonimo lombardo, romanzo epistolare con apparato di note, a La bella di Lodi, parodia di una storia da rotocalco da cui il film con protagonista Stefania Sandrelli, a Fratelli d' Italia, romanzo-conversazione che Raffaele Manica ha definito "enciclopedia della modernità", a Super-Eliogabalo, testo surreale e a frammenti con infinite liste nominali su un moderno imperatore. Non c' è nulla nell' opera di Arbasino che vanti una qualche parentela con altri autori di casa nostra. Questa fame di sperimentazione, di sovvertimento dei canoni, di insofferenza per il già visto, non poteva che trovare facile approdo in quella "rivoluzione di carta" che fu il Gruppo 63. È vero che forse si ricorda la neoavanguardia solo per la taccia sprezzante di Liale con la quale bollò Bassani e Cassola, ma tocca riconoscere che da quella stagione di rottura uscirono autori che hanno contrassegnato la nostra storia letteraria, da Eco a Sanguineti, da Manganelli a Balestrini, fino appunto a Arbasino. L' esigenza di un "altrove" è suggellata dall' uscita, proprio quello stesso anno, nel 1963, di Fratelli d' Italia, la cui eredità, puntualizza ancora Guglielmi, "vive in Celati e in Tondelli, che riconobbe di avere tradotto il parlato in letteratura leggendo proprio Arbasino". "Oggi gli scrittori italiani cedono all' autobiografismo che altro non è se non il riparo di chi non sa che cosa sia scrivere" tuona Guglielmi e aggiunge: "È il limite di chi non sa che aggrapparsi alla propria soggettività e raccontarci le proprie vicende private". La singolarità irriducibile di Arbasino resta sempre come scomoda pietra di paragone. "Che dire della celebre Gita a Chiasso?" si interroga Guglielmi e come appunto non ricordare quel celebre articolo in cui Arbasino invitava i nostri intellettuali a fare una gita "a due ore di bicicletta da Milano per sprovincializzarsi". I vizi del letterato italiano medio, sembra suggerire il critico, non sono più ravvisati nemmeno come tali. Se tanti altri scrittori sono immersi in un conformismo di categoria, ecco la battaglia costante di Arbasino contro le ideologie e i tic linguistici, contro la retorica e l' omologazione. Se tanti altri scrittori non osano oltrepassare l' asticella del romanzo canonico, ecco la capacità camaleontica di Arbasino di assorbire tutti i generi e di rielaborarli in uno stile personalissimo e inimitabile. Tutti i materiali - diari lettere conversazioni reportage - toccati dalla penna di Arbasino confluiscono in una "lingua-mondo come oggetto d' arte". Angelo Guglielmi ribadisce: "Fratelli d' Italia e prima ancora i racconti di Le piccole vacanze mostrano una scrittura nuova, precipitosa e anche slabbrata, ricca di odori sgradevoli e di rumori molesti. La natura del romanzo è oggettiva, è parlare di altro e di altri inventando una scrittura". In effetti Arbasino, nipotino di Gadda, dalla lunga frequentazione con l' Ingegnere in blu ha ereditato l' ossessione patologica per la lingua, per una scrittura totalizzante. Arbasino è notoriamente l' autore che ha trasformato la sua bibliografia in un perenne work in progress, macerando le sue pagine di continue aggiunte e di riscritture. Guglielmi ricorda quando taluni detrattori lamentarono l' oscurità dei pezzi di Arbasino su Repubblica. "Scalfari prese le sue difese, asserì che di ciò che scrivono i grandi scrittori gli unici responsabili sono loro stessi". Vero, perché la letteratura di Arbasino "non comunica, esiste. Fa concorrenza al mondo".

Giovanni Agosti per il manifesto il 31 marzo 2020. Come dovesse finire la partita Alberto Arbasino l’aveva ben chiaro: voleva un funerale in Santa Maria del Popolo, a Roma, a pochi passi da casa sua, con una messa celebrata all’altare della cappella Cerasi, lì in fondo, a sinistra del presbiterio, lì dove sulle pareti stanno la Crocifissione di San Pietro e soprattutto la Conversione di Saulo del Caravaggio, lì dove era stato celebrato il funerale di Carlo Emilio Gadda. Aveva chiari anche in testa i pezzi musicali che voleva si ascoltassero durante il rito ed era convinto che sarebbe stato il «morto del rione»: un’espressione che non conoscevo e che mi faceva ridere, mentre spiegava minutamente i dettagli della cerimonia. Non eravamo al Bolognese, dove mi invitava di solito (e dove, per esempio, era scattata la scintilla che aveva portato al ritrovamento del «Dosso di Bombay»), ma a una più semplice trattoria, passato piazzale Flaminio, il cui oste lui chiamava il Socrate romano o qualcosa del genere. Voleva insomma morire da lombardo a Roma, come l’autore della Cognizione del dolore o come l’autore odiato-amato (ma poi soprattutto amato e perdonato) di Senso e di Ossessione. Ora niente di tutto questo è possibile, in mezzo a una peste diversa dall’altra attraverso cui siamo passati quando eravamo giovani e che sembrava colpire, almeno nel mondo occidentale, soprattutto quelli come noi; in più Alberto aveva vissuto la guerra, aveva visto suo padre arrestato dai fascisti: una vicenda che aveva cercato di dimenticare, sigillata dentro di sé. Provo a scegliere qualcuno degli episodi di una lunghissima amicizia che mi sono venuti a visitare questa notte, interrotta solo dai fischi delle autoambulanze. Comincerò dalla fine, cercando di procedere – è una deformazione professionale – in ordine cronologico e andrò avanti fino a che lo spazio concesso dal numero delle battute me lo permette; il resto, come diceva Desideria, sarà, semmai, per un’altra volta. L’ultima occasione d’incontro mi è ben chiara, anche se non sapevo che sarebbe stata tale: al principio del 2018, a casa sua a Milano, in via Molino delle Armi. Era già una stagione in cui la conversazione di Alberto, un tempo fluida e imprevedibile e inarrestabile, si era trasformata in una litania di «grazie, grazie» e «auguri, auguri». C’era in quelle espressioni una sorta di riconoscenza, che gli scappava malgré soi con chiunque. Ma superata la barriera, ormai da qualche tempo rituale, di quelle espressioni, c’era ancora posto per la commozione davanti a un tramonto che incendiava la basilica di San Lorenzo. Ci ricordavamo tutti e due che Richard Krautheimer, il massimo conoscitore della Roma medioevale e barocca, la considerava la chiesa più bella dell’Occidente: e Alberto la vedeva ormai tutti i giorni dalle finestre della sua stanza, dal suo balcone. In casa erano già stati fatti i lavori per ricavare dal salotto, con le incisioni di Füssli e di Piranesi, uno spazio per una persona che potesse accudirlo; Stefano infatti era gravemente malato e molto provato da una situazione da anni difficile, tanto da avere deciso di fare abbandonare Roma ad Alberto e di tenerlo con sé a Milano. Tranne la presenza dei famigliari dell’uno e dell’altro, erano entrambi molto soli; quasi nessuno li andava a trovare, pochi si facevano vivi al telefono. Stefano mediava con il mondo e infatti la notte totale è cominciata quando lui non c’è stato più. Stefano il «prisonnier» degli anni Sessanta, Stefano impeccabile e musone, Stefano con la r, Stefano mangiato con gli occhi in ascensore da Jacqueline Kennedy, Stefano che disegna gli omini intrecciati – quasi dei Keith Haring ante litteram – sulla copertina di Sessanta posizioni: una proiezione di Alberto? O, meglio, una delle grandi storie d’amore dell’altro secolo? Vado all’indietro di un paio d’anni, direi il 2016: Alberto a casa mia, tra il disordine dei volumi, che occupano tutti gli spazi possibili, indica La fine del mondo di Ernesto De Martino, l’esito interrotto di una ricerca sulle apocalissi culturali, che metteva insieme Proust e i movimenti di liberazione del terzo mondo, e dice: «Che grande libro». Mai e poi mai avrei pensato che De Martino potesse stare tra i riferimenti di Alberto. La sua era una cultura solidissima, cementata di nozioni e di erudizione, di genealogie e di conflitti. Ricordava, senza difficoltà alcuna, le coalizioni contro Napoleone o gli intrighi alla corte del Re Sole. Ma l’esibizione di tutte quelle parentele non era fine a sé stessa, come dicevano i suoi detrattori (perché Arbasino ne ha avuti moltissimi, ora apparentemente dissolti come neve al sole). In altre parole, lui aveva ben chiaro che le opzioni della storiografia italiana, mettiamo quella del Cinquecento, non si riducono alla contrapposizione binaria, e manualistica, tra Machiavelli e Guicciardini. Stava, con il suo cuore e la sua testa di lombardo, dalla parte, laterale, di Paolo Giovio. O, spostando la questione in un altro contesto e per renderla appena più facile a cogliersi, da quella di Saint-Simon. Quando gli dicevo di Dionisotti e di quanto quella lezione, tra storia e politica, fosse stata e fosse importante per me, lì mi sfuggiva. Un «non lo conosco abbastanza», «non l’ho mai letto»: e passava via con una boutade, magari un accenno al fatto che la figlia del sommo italianista aveva recitato in Intimacy di Chéreau, il film tratto da un racconto di Kureishi. E via per un altro giro tra gli ottovolanti del gusto. Non è difficile recuperare nella memoria l’ultima notevole uscita pubblica di Arbasino a Milano: erano i giorni d’avvio dell’Esposizione universale, quindi l’inizio di maggio del 2015, e Anna Crespi aveva organizzato, apparentemente senza una ragione, una serata per Alberto agli Amici della Scala, anzi gliel’aveva chiesta lui. C’erano tutti i suoi amici; io e Carlo Feltrinelli riuscivamo ancora, in quel contesto e tra quelle anagrafi, a fare la parte dei giovani: e Alberto ci è venuto incontro pronunciando dei numeri, apparentemente senza senso, ma poi ha preferito altre compagnie. Orsi entrambi, Carlo e io, siamo venuti via quasi subito e sul marciapiede di via dei Giardini ci siamo interrogati, come da ragazzi, sul significato di quelle cifre: quasi contenessero un segreto. Ma quella festa, ce lo siamo detti subito dopo, era un po’ come quella d’addio in Veronika Voss, il penultimo, lampeggiante, film di Fassbinder (che Alberto aveva incontrato, al principio degli anni Settanta, alla Deutsche Asche, a Monaco, avendo immediatamente compreso che si trattava di un genio). E quindi Memories are made of this. Un po’ prima, quando Alberto faceva ancora un po’ di vita sociale a Milano ed erano usciti da poco, da Adelphi, i suoi Ritratti italiani: in sostanza una galleria di congedi. Una colazione a casa di Rosellina Archinto; io arrivo un po’ prima di lui e Rosellina e Inge mi parlano della fotografia di Alberto comparsa, a tutta pagina, sulla copertina del supplemento del Corriere della Sera: un’immagine per loro incomprensibile, per il disordine fisico, dai capelli alla vestaglia, alle rughe esibite, con cui si era presentato davanti all’obiettivo, e, allora, in coro, un: «perché tu, che sei un uomo, non gli dici qualcosa?». Proprio io, la persona meno adatta in quel ramo del reale: Alberto, con quell’immagine, dichiarava che per lui la recita era finita; era in camerino e si stava struccando. Un’altra freccia di stanotte, più antica (ma non certo la più antica), era la visita nel 1994 al Poussin del Grand Palais, a Parigi; io ero con Luciano Bellosi, che non amava il pittore normanno («andrei più volentieri a vedere una mostra di Laurent de La Hyre», mi aveva detto sull’aereo). Incontriamo Alberto tra le sale della mostra e ne guardiamo un pezzo insieme, stupiti dalla luce naturale che insolitamente si rovescia sui dipinti, al posto dei soliti fari e faretti. Alberto, come me, era invece un fanatico di Poussin: il Rinaldo e Armida del Dulwich College era appena finito sulla copertina dei suoi definitivi Fratelli d’Italia; c’era già stato, nella versione Einaudi 1976 di quel capolavoro, il Trionfo di Nettuno di Filadelfia. Luciano era stupito dalla sensibilità per la pittura che Alberto dimostrava in ogni tratto, dal suo senso della qualità. E sì che lui non era mai riuscito a capacitarsi della mia passione per i Fratelli d’Italia: insieme a Petrolio e da prima di Petrolio, il libro della mia vita, quello che mi ha dato un orizzonte, a cui sono ricorso nei momenti belli e brutti, i cui personaggi – perché lì ci sono i personaggi, immortali, proprio come quelli dei Promessi Sposi, anche se Alberto voleva e credeva che fossero solo funzioni – mi stanno di fronte in tante circostanze dell’antropologia quotidiana. Di fronte ai Baccanali e ai Sacramenti Luciano aveva capito che erano entrambi allievi dello stesso maestro, Roberto Longhi, che aveva letto e riletto e corretto la tesi dell’uno e i racconti dell’altro. Ma adesso il tempo è scaduto; ci tocca la prima linea.

Malcom Pagani per il “Fatto quotidiano” del 14 luglio 2014. Pur refrattario all’elaborazione di un saggio sul maleducato da carrozza: “Il tempo è prezioso e la tolleranza costa già un notevole sforzo”, Alberto Arbasino soffre treni, scompartimenti e vicini ciarlieri. “Prendere le cosiddette vetture silenziose, che poi tanto silenziose non sono, è un’accortezza inutile”. Parlano tutti ad alta voce: “Dei fatti loro, dell’intimo, del personale”. E il vento caldo delle sue piccole vacanze in Spagna: “Andavamo alle Baleari. Ibiza era meravigliosa e Formentera non era altro che una lingua di sabbia tagliata dal taxi che ci portava da un lato all’altro dell’isola per il pranzo” o “i flautisti da giardino che ascoltavo d’estate dall’ammezzato di una delle mie prime case romane” non tornano a visitare la stagione dei suoi 84 anni. Luglio è quasi a metà, sulla terrazza il fico ha foglie di un verde innaturale e Arbasino indossa la camicia color kaki di chi sa come attraversare il suo deserto: “Di sera esco ancora volentieri, anche se scivolare dalla Via Veneto prefelliniana alla cena in Piazza Navona, non mi accadrà più. Con Ercolino Patti, Sandro De Feo e Cesare Brandi succedeva spesso. Cesare aveva un piccolo pied-à-terre e dopo una giornata di lavoro casalinga non covava il desiderio della minestrina nel tinello. Così si usciva in gruppo e si stava insieme fino alle due di notte. Mi stupivo. Lavoravano come ossessi e scrivevano senza sosta, ma non rinunciavano a vivere. Ridursi male comunque era difficile. Non tralignavamo mai. Un bicchiere, forse due. Si beveva il giusto, con moderazione”. Della grande casa con le sue iniziali sulla porta, conosce oro, incenso e giacimenti. Quando cerca nella biblioteca un volume di De Chirico: “Me lo regalò lui in Via della Vite, in fondo ci sono anche delle note a penna”, insegue un nome sulla Garzantina: “L’editore fiorentino di cui le parlavo era Carocci”, sventa l’attentato dell’ospite superando agile uno zaino sulla moquette o rimpiange con discrezione la mancanza di un computer: “Non lo possiedo, per alfabetizzarsi è tardi, ma ne sento la mancanza”, Arbasino denuncia il perpetuo movimento che dalla fine degli anni 50, immobile non l’ha fatto mai restare. Anche se i baffi di quando intervistava Borges sono un ricordo fotografico, è nell’autoscatto del tempo che fu: “Self-made man di origini decadenti (nato a Voghera nel 1930, rinato a Roma nel 1957) con la tentazione di vivere come se. Cioè come se abitassimo una società civilissima, illuminata e cosmopolita...” e nei versi ancora attualissimi di Super-Eliogabalo: “Senza pietre di paragone/ né pretese di perfezione/ se ragiono/ a tono/ funziono/ a una condizione/ diventare ciò che sono/ non chi impersono” che Arbasino può vantare la curiosità di chi ha guardato il mondo senza curarsi delle “ultime novità”. Lo stile nemico della semplificazione: “Per far contenti tutti e raggiungere le edicole degli areoporti non si può rinunciare all’ambiguità, alla notte, al mistero, all’oscurità”. L’amicizia con Agnelli: “Ci vedevamo spesso, dietro la sua raffinatezza pulsavano frequentazioni e lezioni erudite, Mario Tazzoli, Luigi Carluccio e Franco Antonicelli che alle signore di Voghera consigliava di servire i cioccolatini in coppe di cristallo”. Il mondo dell’avvocato come ouverture per altri 92 splendidi e diseguali Ritratti italiani raccolti per Adelphi. Ironia, affinità elettive, distanze e convergenze di Arbasino con i pensatori del suo tempo si allineano sotto l’ombrello di un illusorio ordine alfabetico. Sono volti, echi e disegni di passato senza data. Incontri con imprenditori, registi e letterati. Quadri non sovrapponibili. Cornici di un’età irripetibile. Sulla parete d’ingresso, nel tratto grasso di un pennarello nero, uno schizzo che Pasolini donò allo scrittore durante un’intervista: “Arbasino, in un atto di industria culturale (abbietto, naturalmente)”. Gli zigomi duri, nota Arbasino: “Sono i suoi” come la freccia che Pasolini indirizza a se stesso: “Io mentre aspetto che scriva le domande a cui nobilmente rispondere”.

Lei arriva a Roma negli anni Cinquanta.

«Avevo poco più di vent’anni e non la pensavo diversamente da Paul Nizan: "Non permetterò a nessuno di dire che è la più bella età della vita". Quando si parla di Arcadia bisognerebbe essere cauti. In Italia la ricostruzione era a buon punto, ma ci sembrava comunque un’epoca noiosissima, una lunga stagione morta».

Sfogandosi con lei, Pasolini parla di un “ridicolo decennio”.

«È un decennio di paradossi e contraddizioni. Di ultimi fuochi, di cambiamenti, di libera sessualità dietro le dune e le pinete e di libri straordinari. Lo osservavo, lo criticavo, lo subìvo il decennio dei ’50, poi adocchiavo la letteratura e mi chiedevo: ‘Come è possibile?’. Di mese in mese, anzi di giorno in giorno, in libreria era una festa. Il Pasticciaccio gaddiano, Menzogna e Sortilegio, Il Disprezzo e La noia, gli ultimi due romanzi veramente belli di Moravia».

Glielo disse che erano gli ultimi?

«Con Alberto ce ne facemmo e dicemmo di cotte e di crude. Da ragazzo era antipatico. Da uomo maturo dispettoso, prepotente ed eccessivamente prono al partito. In vecchiaia ci rappattumammo. Non ripeteva più ‘uffa uffa’ con severo cipiglio, ma in trattoria, davanti alle pere cotte, gridava: Semo tutti peracottari. Gli era venuta voglia di ridere. È superfluo dirlo, ma mi manca moltissimo, non solo nell’ultima veste giocosa».

Eravate entrambi permalosi?

«Lui sicuramente. Io mai, altrimenti non sarei arrivato fin qui. Alberto era ispido ed era capace di lunghissimi silenzi. Quando compì settant’anni gli portai 7 fazzolettini da Parigi. Aveva il vezzo di annodarli al collo e mi impegnai nell’acquisto. Li avevo cercati con perizia: grandi marche, colori magnifici, confezione adeguata. Li soppesò e poi disse: "Li conosco, a Roma li chiamano strangolini"».

Faceva parte degli intellettuali suscettibili?

«Lui no, ma non mancavano. C’erano persone che non tolleravano neanche l’afrore del giudizio critico e si adombravano se non si ragionava delle loro opere dal superlativo in su. In supporto non mancavano mai teorie di corifei. Gente che generosamente si prestava all’equivoco: Chi osa mettersi contro da oggi in poi non è credibile, Chi non capisce è sciocco, Chi non si spella le mani è un buzzurro».

Di Antonioni, incline all’offesa, lei scrive cose non tenere.

«Con intuizione corretta, Antonioni fotografava tedio, imbecillità e incomprensioni sentimentali della società europea sottoposta all’industrializzazione forzata. Metteva sotto la lente quel disagio che i milanesi bramarono di provare nell’istante immediatamente successivo all’edificazione del primo grattacielo cittadino. Ma nel suo cinema, la pretesa letteraria si risolveva in bozzetti incongrui e programmatici. La serietà con cui agghindava i suoi improbabili personaggi, le mezze calzette elevate a paradigma del Paese, involontariamente comica. Passata la sbornia e svanito l’equivoco, in effetti, si rise».

Altro moloch dal carattere puntuto, Luchino Visconti.

«In lui la componente populistica e quella dannunziana convivevano contribuendo all’essenza di un Visconti che nel retropalco e nell’isolamento sembravano esattamente la stessa persona. Uno che ideologicamente pendeva per il proletariato, detestava la classe media e respirava circondato dallo sfarzo. Un signorotto di geniale talento, ben allevato da genitori che lo portarono alla Scala fin da bambino, con una sua corte di zelantissimi sottomessi, affannati nell’eseguirne gli ordini. Frequentarlo annoiava e addolorava. Giovanni Testori, un caro amico, era sfruttato malamente. Sul versante teatrale poi, anche se gli dobbiamo spettacoli sommi come Anna Bolena e La sonnambula, l’elenco di quelli infelici ha voci in quantità. A un certo punto, anche dal loggione, prevalse lo strepito collettivo: Che palle».

In “Ritratti italiani”, parole liete sono riservate a Giorgio De Chirico.

«Era unico. Straordinario. Diverso da chiunque altro. Avvertiva l’estraneità al mondo circostante, viveva al passato remoto, si sentiva inadeguato persino all’allegro, innocuo circo di Piazza di Spagna. De Chirico abitava a pochi passi dalla filiale della Banca Commerciale Italiana e temeva di essere costantemente rapinato da briganti e mascalzoni. Ho paura sia a ritirare che a depositare mi diceva e io: Maestro, perdoni, ma che razza di traffico ha con questa banca?».

Il denaro per lei è stato importante?

«Non troppo, ma ho sempre considerato ovvio essere pagato per scrivere: il mio lavoro. Nel ’67, ai tempi de Il Giorno di Italo Pietra, un ex comandante partigiano che ben conoscevo per antichi vincoli familiari e che dei suoi anni universitari a Pavia amava dire: ‘Ballavamo il Charleston e traducevamo Sofocle meglio degli altri’, mi trasferii in un amen al Corriere Della Sera. A Il Giorno mi pagavano regolarmente, ma da anni collaboravo senza l’ombra di un contratto. All’ennesimo rinvio della questione mi spostai in Via Solferino. Un problema simile lo ebbi anche a Repubblica. Ero stato eletto deputato con il Partito Repubblicano e l’amministrazione del giornale fu laconica: Un contratto con un deputato non si fa».

Divenne deputato nel 1983.

«Me lo chiesero due fior di personaggi come Giovanni Spadolini e Bruno Visentini. Una volta con Visentini si andava a Treviso. Lui si trasformava, parlava in dialetto e diventava incomprensibile. Di preferenza litigava con uno scrittore autoctono che però dal trevigiano si era emancipato. Aveva viaggiato. Quando si incontravano non c’era facezia che non li accendesse in discussioni infinite».

Niente a che vedere con la timidezza di Gadda e Manganelli.

«Manganelli, uno scrittore sublime, era schivo. Lo incontravi al ristorante, in una sala appartata, avviluppato in se stesso. Mandava l’ambasciata di un cameriere per salutarti, poi si raccomandava: Non dire a nessuno che mi hai visto. Gadda era diverso. Me lo ricordo su una mia vecchia spider con Bonsanti sul sedile posteriore. Terrorizzato dalle curve e con la mano sul freno, Gadda era pronto a intervenire. Una sera, tornando dalla proiezione de La Bella di Lodi, chiese di fermarsi all’Hilton di Monte Mario. Si impelagò in un discorso da ingegnere sugli ascensori con un altro ingegnere, il fratello di Fabrizio Clerici. Tecnicismi da ossessi che evaporarono in un istante quando all’orizzonte si scorse la sagoma di un prelato. Gadda, l’uomo che vestiva in blu, non dimenticava mai la camicia bianca e certe discutibili cravatte acquistate in uno spaccio di Via della Mercede, all’improvviso si illuminò: ‘Così dovevo nascere. Essere americano, farmi prete e vivere in un grande albergo bevendo succo d’arancia’. Erano anni curiosi. Anni in cui gli uomini non sapevano farsi la barba e Mimì Piovene, di casa a San Giovanni, si lamentava: Sono diventata la barbiera del Laterano. Di Umberto Eco ha scritto: “Costruiva oggetti complessi che agli incolti mettevano paura”. È vero e fu un’operazione di rara intelligenza. Con i libri di Eco, laureati e laureandi scoprivano la complessità dell’esistenza in maniera abbastanza semplice. Il successo fu assoluto. L’attenzione della critica, sacrale. Non a caso, da allora e per sempre, Eco ha fatto il fornitore di oggetti apparentemente complessi».

Le è simpatico?

«Simpaticissimo. Anzi, simpaticissimi. Lui e la moglie».

Il verbo di Eco inizia a imporsi nei ’70.

«Un decennio abbastanza atroce. Si viveva sulla retorica del ’68 rapidamente diventata una retorica tremenda. A San Francisco c’erano i figli dei fiori, in Europa gli assassini. In California, con gli spazi larghi tra i palazzi, i prati e la sensazione di libertà, la spinta a delinquere era anestetizzata dal contesto. Da noi in fondo, in ambiti più asfittici, l’agguato era nell’aria e la storia fosca dei Guelfi e dei Ghibellini, dei Montecchi e dei Capuleti, non faceva altro che ripetersi».

Altra icona dei ’70, Nanni Moretti. Nel suo ritratto si sostiene che il regista sia privo di cinismo.

«Il cinico non perde tempo a deplorare il proprio cinismo con malspeso rovello. Moretti è un cuor d’oro sempre animato dal senso civico e dal bisogno di stare dalla parte giusta. Il rischio moralismo, quando si vuole essere educati, corretti e civici, c’è. Il ritratto del perfetto moralista, in certi film in cui il nostro porta in scena se stesso, anche».

Se scrivere è un lavoro, leggere che cos’è?

«È un altro lavoro. Va compensato. Costa fatica. Non a caso non ho letto i libri che partecipavano al premio Strega».

Nessuno?

«Nessuno. Neanche per sogno. Chi mi paga? Nei libri dello Strega di quest’anno non mi viene in mente nulla che valesse l’aggravio della lettura».

Perché?

«Per la stessa identica ragione per la quale se sul giornale vedo gesti normali insigniti delle nove colonne, mamme che mettono lo zucchero nel caffè o profeti che pensano di stupire usando la parola cazzo, giro pagina. Non me ne importa niente. Non mi vien voglia di leggere. Tanti anni fa non si usavano letterariamente gli antichi sapori o le ricette della nonna mescolandole impunemente con le malattie del papà o l’agonia della mamma. C’erano libri diversi. Scrittori migliori. Il proprio minuscolo io o il proprio ombelico non erano ritenuti validi motivi per sbarcare in libreria e anche se le chiese politiche erano più invadenti di oggi, c’era più understatement anche nella presa di posizione. Se si esclude il Pci, non pulsavano le maldestre voglie di appartenenza e la conclamata aderenza al nuovo progetto politico sul tavolo che oggi rendono impossibile qualsiasi sfumatura. C’è una percepibile ansia di salire sul carro. Consiglierei prudenza, magari il carro si rivela meno solido del previsto».

È un problema culturale?

«Ma la cultura è un affare bizzarro. Come ho scritto in Ritratti italiani, di fronte al rotocalchismo, quella vera sparisce. Basta un lieve sospetto e non la si trova più. Pensare che in un’epoca lontana sorridevamo dell’ingenuità di Carlo Ponti, un produttore che a differenza degli epigoni contemporanei, a Milano aveva studiato davvero. Nell’ufficio all’Ara Coeli, oltre il suo tavolo, teneva la Pléiade con la costa della copertina rivolta verso l’interlocutore. Ci chiedevamo: Ma se volesse leggerla lui, che periplo dovrebbe fare per raggiungere il sapere?».

È sparita anche la letteratura italiana?

«Si è deciso a tavolino che i best-seller dovessero essere al livello del fruitore. E così, una volta abbattuto il gusto a colpi di orrori, visto l’apprezzamento per il buco della serratura di stampo familiare, via libera ai sapori, alle ricette della nonna, ai lutti e alle corsie d’ospedale. Vendono moltissimo. Sono un prodotto da banco. Uno shampoo. Un codice in più nello scontrino del supermercato. Forse sono più alternativo, io».

Sull’affezione premiologica della letteratura italiana lei montò uno speciale per la Rai in epoca non sospetta.

«Più della liturgia dello Strega, non ho dimenticato Casa Bellonci. I corridoi strapieni di libri, lo spazio totalmente colonizzato dai volumi, una cosa da restare sbalorditi. Per la Rai in effetti assemblai un’ora e mezza di premi nazionali da Venezia a Firenze. C’era un ritmo serrato e allo spettatore sembrava si trattasse di un unico premio. L’intento era quello. Quando andai da Maria Bellonci spiegandole che non avrebbe potuto parlare per più di 30 secondi quasi mi rise in faccia: ‘Ho bisogno di più tempo’. Si cambiò 10 volte, il risultato era inverosimile. Maria vestita da donna, da uomo, a pois. Divertentissimo. Lei lo sapeva. Era una furbona».

È furba anche una letteratura in cui l’intimo dolore sfiora la pornografia?

«Furba sicuramente, pornografica non so, certamente irrilevante. Come può affascinarmi il calvario della prozia? Il sapesse quanto abbiamo sofferto signora mia?. Vabbè, anche se c’è chi non si diverte e gli scrittori danno l’impressione di divertirsi poco, signora mia sarà contentissima».

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 3 aprile 2020. Spero che tutti coloro che invocano una programmazione televisiva di qualità (ne abbiamo bisogno, molto bisogno), che desiderano riscoprire la nostra cultura, spero di tutto cuore che seguano la riproposta di «Match», il programma condotto da Alberto Arbasino che metteva a confronto due personalità di idee opposte (le puntate sono dieci, gli ospiti tutti di grande livello; «Match» va in onda il martedì sera su Rai Storia ma è visibile anche su RaiPlay). L' altra sera, tanto per fare un esempio, si parlava di teatro e si confrontavano Giorgio Albertazzi e Memè Perlini. Fatti i dovuti elogi alla conduzione di Arbasino (essenziale, competente, mai prevaricante) si spalancava un mondo ancora oggi di grande interesse. A confronto c' erano due concezioni di teatro, quello delle compagnie di giro o dei Teatri Stabili, con i loro canoni della rappresentazione teatrale ancora condizionata dagli stilemi ottocenteschi, e quello delle avanguardie degli anni 70, in particolare quella «officina creativa» che fu Roma dopo il '68, quando si incrociavano arte e politica, spinte collettive e motivazioni individuali. E qui la mente corre a quegli anni fiammeggianti, al ruolo egemone di Strehler e del Piccolo Teatro, al formidabile lavoro critico e organizzativo di Franco Quadri e del Club Nuovo Teatro. Arbasino invocava un civile confronto ma Memè Perlini era particolarmente aggressivo, persino livoroso («Albertazzi è un televisivo da Carosello , un attore fallito»). Spalleggiato da alcuni critici altrettanto animosi, Perlini si rivolgeva al suo interlocutore con aria di supponenza (nel 1977, quando l' abbiamo visto per la prima volta, sicuramente parteggiavamo per lui), con le parole d' ordine dell' avanguardia culturale tipica di quel periodo che oggi però suonano artefatte e anche un po' ridicole (già allora Arbasino notava che Perlini «è pieno di certezze assolute»).

·        E’ morta Lucia Bosè.

Muore Lucia Bosè, l’attrice icona del cinema italiano tra le vittime del coronavirus. Redazione de Il Riformista il 23 Marzo 2020. È morta l’attrice Lucia Bosè. Lo confermano fonti vicine alla famiglia al quotidiano spagnolo El País. La donna aveva 89 anni, compiuti lo scorso gennaio. Da quanto si apprende, l’attrice non era in buone condizioni di salute ed è morta a causa del coronavirus. Lucia Bosé è morta a Madrid ma da anni viveva nella città di Segovia, dove era ricoverata da giorni, mentre le sue figlie Paola e Lucía si trovano a Valencia. Il primogenito, Miguel, vive in Messico con due dei suoi quattro figli. Sui suoi social il cantante scrive: “Cari amici, vi informo che mia madre Lucía Bosé è appena morta. È già nel migliore dei posti”. Lucia Bosè divenne famosa nel 1947 quando, a soli 16 anni, vinse Miss Italia. Da lì partì la sua carriera di attrice, recitando in film diretti da registi del calibro di Luis Buñuel, Jean Coctaeu e Federico Fellini. Nel 1955 sposò il torero Luis Miguel Dominguín  da cui ebbe i suoi tre figli.

Lucia Bosé morta per coronavirus: l'attrice italiana aveva 89 anni, si è spenta a Madrid. Libero Quotidiano il 23 marzo 2020. Lucia Bosé è morta lunedì 23 marzo in Spagna a Segovia. Lo rende noto El Pais dopo aver parlato con fonti vicine alla famiglia: l’attrice italiana aveva compiuto 89 anni lo scorso gennaio, ma era in condizioni di salute complicata ed è deceduta a causa del coronavirus. La madre di Miguel Bosé era ricoverata in ospedale  dove però non sono purtroppo riusciti ad evitare che diventasse un'altra vittima del Covid-19: l'Italia ha aperto le file, adesso anche la Spagna sta avendo una crescita esponenziale di contagi (circa 33mila) e di decessi, che hanno abbondantemente superato quota 2mila nelle ultime ore. La Bosé è diventata famosa nel 1947, quando vinse a soli 16 anni il concorso di Miss Italia. Da lì è partita la sua grande carriera nel mondo della recitazione e dello spettacolo, partecipando a decine di pellicole per il cinema e anche per la televisione. Lucia si sposò il 1 marzo 1955 con Luis Miguel Dominguin, con il quale ebbe tre figli: Miguel Bosé, Lucia Dominguin e Paola Dominguin. Il matrimonio si concluse nel 1968 con la separazione a causa dell’infedeltà del marito. La nota attrice italiana ha avuto modo di frequentare personalità di rilievo a livello globale, come Pablo Picasso, Luchino Visconti ed Ernest Hemingway. Negli ultimi tempi la Bosé viveva a Brieva, una piccola città di Segovia, mentre le sue figlie Paola e Lucia sono a Valencia e il suo primogenito Miguel vive in Messico. 

Cinema, addio a Lucia Bosè: anche lei vittima del Covid 19. La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Marzo 2020.  ''Cari amici vi comunico che mia madre Lucia Bosè è appena venuta a mancare''. Lo scrive su Twitter il figlio Miguel Bosè annunciando la morte dell'attrice che aveva 89 anni. «Ora è nel migliore dei posti» ha scritto l’artista ricevendo immediatamente migliaia di condoglianze virtuali. Secondo i media spagnoli, l’anziana attrice è morta di coronanirus. La Bosè era nata a Milano il 28 gennaio 1931, Luchino Visconti notò il suo fascino nella pasticceria Galli di cui era una giovane prosperosa commessa. Nel 1947 fu eletta Miss Italia, cominciò una carriera cinematografica con film da Non c'è pace tra gli ulivi di Giuseppe De Santis (1950) a Le ragazze di piazza di Spagna di Luciano Emmer (1952), da La signora senza camelie, di Michelangelo Antonioni (1953) a Gli sbandati di Maselli. Lasciò tutto dopo 17 film, tornando poi al cinema negli anni Sessanta. Dopo un lungo fidanzamento con Walter Chiari, conobbe il torero Luis Miguel Dominguín e si trasferì per sempre in Spagna sposandolo nel 1955 e diventato madre di Miguel, Lucia e Paola. I rotocalchi italiani l’hanno seguita sempre: donna di spirito e di colori (i suoi capelli blu elettrico), con una grande passione per gli angeli.

È morta Lucia Bosè, l'attrice scoperta da Visconti in Spagna. Era in cattive condizioni di salute ed è stata stroncata da una polmonite. Ne dà notizia il quotidiano spagnolo El País. Alcuni siti italiani parlano di Coronavirus. Suo glio Miguel Bosé ha scritto sul suo prolo Instagram. «Cari amici ... Vi informo che mia madre Lucía Bosé è appena morta. È già nei posti migliori». Nata a Milano il 28 gennaio 1931 come Lucia Borloni, divenne famosa quando vinse, nel 1947, a soli 16 anni, il concorso di Miss Italia. Era quell'anno formidabile che, nella stessa edizione, vide in gara Gianna Maria Canale (seconda classicata), Gina Lollobrigida (terza), Silvana Mangano. Lucia, da ragazzina, aveva una grazia gentile e delicata, diversa dall'immagine recente che abbiamo di lei, con il look esuberante e la verve brillante. È stato il maestro del Neorealismo, Luchino Visconti, poi padrino di Miguel Bosé, a scoprire il suo talento, quando l'ha notata dall'altra parte del bancone in una pasticceria milanese, allora sedicenne, mentre stava preparando una scatola di castagne candite per un cliente. Le disse: «Sei un animale cinematograco». Dopo la fascia da Miss, da lì a breve per Lucia Bosè ci fu il lancio nel mondo del cinema. Il debutto nel 1950 con Non c'è pace tra gli ulivi di Giuseppe De Santis e, soprattutto, poco dopo, Cronaca di un amore di Michelangelo Antonioni. Cronaca di un amore, 1950. Piano se… In pochi anni ha inanellato una folta la di lm d'autore. È stata diretta da Luciano Emmer, accanto a Marcello Mastroianni ne Le ragazze di Piazza di Spagna, e Francesco Maselli, di anco al suo primo danzato, Walter Chiari. In Accadde al commissariato di Giorgio Simonelli (1954) è accanto ad Alberto Sordi. Ha recitato per Luis Buñuel (Gli amanti di domani, 1956), che una volta ha denito «un pazzo». Dopo il matrimonio con il torero spagnolo Luis Miguel Dominguin diventò un personaggio da rotocalchi e per qualche anno ha abbandonato i set, che tornò a calcare negli anni Sessanta. Eccola in Il testamento di Orfeo (1960) di Jean Cocteau, Sotto il segno dello scorpione (1969) dei fratelli Taviani, Fellini Satyricon (1969) di Federico Fellini. Più recentemente l'abbiamo vista in Harem Suare (1999) di Ferzan Özpetek e ne I Viceré (2007) di Roberto Faenza. Una delle sue ultime apparizioni pubbliche è avvenuta a Roma lo scorso ottobre, quando ha presentato la sua biograa (Lucia Bosè. Una biograa di Roberto Liberatori), dicendo: «Non sono andata oltre con il cinema perché ho riservato metà della mia vita a me stessa». E un pensiero è andato ancora a Visconti, a quando le vaticinò il suo futuro da attrice: «A quel tempo, mi sembrava pazzo. Era come un fratello, un amante. Ho dato a Visconti quello che ho dato a pochi uomini, un vero amore». In questo video la sua partecipazione a Domenica In, pochi mesi fa, nel salotto di Mara Venier. Lucia era emozionata e commossa per essere tornata in Italia.

È morta Lucia Bosè. La ragazza di piazza di Spagna amata da Visconti e Antonioni. L'attrice, ricoverata in ospedale a Segovia per una polmonite, aveva da poco compiuto 89 anni. Miss Italia nel '47, fu scoperta da Visconti dietro il bancone di una pasticceria. Chiara Ugolini il 23 Marzo 2020 su La Repubblica. È stata Miss Italia del '47, la "ragazza di piazza di Spagna", moglie del torero Dominguin, madre di Miguel che scelse il cognome della mamma per la sua carriera di cantante. Lucia Bosè è morta a 89 anni per una polmonite, una vita dedicata allo spettacolo, al cinema sotto la direzione di registi come Antonioni, Fellini, Emmer, i fratelli Taviani. L'annuncio arriva dal figlio che scrive "è già nel migliore dei posti". Insieme a Sophia Loren, Gina Lollobrigida si conquistò, grazie alle sue forme, l'etichetta di "maggiorata", allora era un complimento oggi suona un termine superato. L'inizio per Lucia Bosè è grazie a Luchino Visconti che la scopre dietro il bancone di una pasticceria, lontani infatti erano per Lucia Borloni nata a Milano il 28 gennaio 1931, i sogni del cinema. Nata come semplice commessa, a sedici anni è una ragazza che non passa inosservata, ma è l'incontro con il grande maestro e la vittoria a Miss Italia nel '47 a Stresa, nella sua stessa edizione c'erano anche Gianna Maria Canale, Gina Lollobrigida, Silvana Mangano e Eleonora Rossi Drago, a traghettarla direttamente nel mondo dello spettacolo. Il debutto sul grande schermo avviene nel '50, con Non c'è pace tra gli ulivi di Giuseppe De Santis, in cui vestiva i panni di una pastorella ciociara, affiancata da Raf Vallone e Folco Lulli. Sarebbe potuta essere anche la mondina di Riso amaro ma la famiglia si era opposta dopo che lei aveva superato il provino. I genitori erano persone semplici e di vedute piuttosto strette, la fotografia a Miss Italia era stata inviata a sua insaputa, quando la sua immagine era stata pubblicata sulla rivista Tempo i suoi si erano infuriati, ma poi di fronte all'occasione di andare a Stresa erano capitolati. Del 1950 è anche il debutto di Michelangelo Antonioni che la volle protagonista nel suo Cronaca di un amore accanto a Massimo Girotti, seguito tre anni dopo da La signora senza camelie. A questi film più autoriali seguono le commedie rosa di Luciano Emmer (Parigi è sempre Parigi, Le ragazze di piazza di Spagna) e poi la serie di film comico-farseschi con Walter Chiari, altro suo grande amore prima del matrimonio col torero spagnolo che la porterà nel '56 a un ritiro temporaneo dalle scene, non prima però di aver partecipato a Gli sbandati di Francesco Maselli, menzione d'onore alla Mostra del cinema di Venezia, dove è la giovane operaia Lucia che si innamora del figlio di una contessa sfollati per i bombardamenti del '43. Dopo il divorzio col torero (ha raccontato in più occasioni i tradimenti del marito), con cui ha avuto tre figli (oltre a Miguel anche Lucia e Paola), l'attrice torna sulle scene. Tra Spagna (dove ha vissuto negli ultimi anni), Francia e Italia. Lavora con Fellini (Satyricon), i Taviani (Sotto il segno dello scorpione), Marguerite Duras (Nathalie Granger), Francesco Rosi (Cronaca di una morte annunciata), Roberto Faenza (I viceré), Ferzan Ozpetek (Harem Suaré). Negli ultimi anni un'apparizione come Donna Isabella nella serie Capri e un ultimo film, Alfonsina y el mar, secondo lungometraggio del duo Pablo Benedetti e Davide Sordella, storia della scrittrice Alfonsina Storni, intellettuale argentina di origini italiane che, di fronte a un male incurabile, scelse di morire suicida nel Mar de la Plata. Tra le prime reazioni nel mondo dello spettacolo il messaggio di Ozpetek "Lucia amata adorata", seguito da un messaggio da Raffaella Carrà. Nel 2000 era riuscita a realizzare un sogno di gioventù aprendo il primo museo dedicato agli angeli al mondo, nella cittadina di Turégano, vicino Segovia. Il museo, dedicato alle rappresentazioni degli angeli, attualmente vanta più di ottanta opere di artisti contemporanei di diversi Paesi, oltre a varie sculture angeliche. L'ultima apparizione in Italia è stata lo scorso autunno alla Festa di Roma dove l'attrice è venuta ospite per presentare la sua biografia scritta da Roberto Liberatori.

La Vita in Diretta, Gina Lollobrigida ricorda Lucia Bosé: "Eravamo amiche, era molto ingenua e timida". Libero Quotidiano il 23 marzo 2020. “Mi dispiace molto per quello che è successo a Lucia. Eravamo molto amiche. Ci siamo conosciute a Stresa in occasione di Miss Italia”. Lo ha detto Gina Lollobrigida, intervenendo a La Vita in Diretta, il programma di Rai1 condotto da Lorella Cuccarini e Alberto Matano. Commentando la notizia della scomparsa dell'attrice Lucia Bosè avvenuta a Madrid, la Lollobrigida ha ricordato: “Lei era molto ingenua, molto timida, allora io con un'amica con cui studiavo al liceo artistico l'ho aiutata a truccarsi e prepararsi per le sfilate. A noi non interessava molto perché dovevamo tornare a scuola, invece per lei era un'occasione. Poi ci siamo un po' perse di vista ma io l'ho seguita molto perché era una ragazza molto carina, simpatica”. L'attrice ha infine raccontato come sta vivendo questi giorni di emergenza a causa del Coronavirus: “Per fortuna sto bene, guardo spesso la televisione per sapere quello che succede, poi mi distraggo un po' con i cani, i pastori tedeschi che sono in giardino”. 

Marco Giusti per Dagospia il 23 marzo 2020. Ecco. Dopo Alberto Arbasino anche Lucia Bosè. Questo virus si sta portando via quel che restava del 900. La musa del primo cinema di Michelangelo Antonioni, “Cronaca di un amore” e “La signora senza camelie”, di due capolavori di Luciano Emmer, “Le ragazze di Piazza di Spagna” e “Parigi è sempre Parigi”, di altri due di Giuseppe De Santis, “Non c’è pace tra gli ulivi” e “Roma ore 11”, ma anche la musa del cinema spagnolo antifranchista, “penso a “Muerte de un ciclista” di Juan Antonio Bardem, di un capolavoro di horror bis come “Ceremonia sangrienta” di Jorge Grau, per non parlare del maledetto “Arcana” di Giulio Questi, film magico milanese, o dello strampalato e debordante “La messe dorée” di Beni Montresor. Milanese, nata nel 1931, da sempre bellissima, viene scoperta in una pasticceria milanese, anzi nella celebre pasticceria Galli di Via Victor Hugo, addirittura da Luchino Visconti, che le fu molto più che amico (“Un fratello, un amante. Gli ho dato quello che ho dato a pochi uomini, un amore vero”). A 16 anni è battezzata Miss Italia e poco dopo fa il suo ingresso clamoroso nel cinema neorealista con la doppietta “Non c’è pace tra gli ulivi” e “Cronaca di un amore”, che la segneranno per sempre. E si fidanza, unione benedetta da Visconti, con il più bel comico d’Italia, Walter Chiari, col quale fa coppia in “E’ l’amore che ci rovina” di Mario Soldati, “Era lei che lo voleva”, “Accadde al commissariato”. 

Lucia Bosé morta per coronavirus: l'attrice italiana aveva 89 anni, si è spenta a Madrid. Libero Quotidiano il 23 marzo 2020. Lucia Bosé è morta lunedì 23 marzo a Madrid. Lo rende noto El Pais dopo aver parlato con fonti vicine alla famiglia: l’attrice italiana aveva compiuto 89 anni lo scorso gennaio, ma era in condizioni di salute complicata ed è deceduta a causa del coronavirus. La madre di Miguel Bosé era ricoverata in ospedale a Segovia, dove però non sono purtroppo riusciti ad evitare che diventasse un'altra vittima del Covid-19: l'Italia ha aperto le file, adesso anche la Spagna sta avendo una crescita esponenziale di contagi (circa 33mila) e di decessi, che hanno abbondantemente superato quota 2mila nelle ultime ore. La Bosé è diventata famosa nel 1947, quando vinse a soli 16 anni il concorso di Miss Italia. Da lì è partita la sua grande carriera nel mondo della recitazione e dello spettacolo, partecipando a decine di pellicole per il cinema e anche per la televisione. Lucia si sposò il 1 marzo 1955 con Luis Miguel Dominguin, con il quale ebbe tre figli: Miguel Bosé, Lucia Dominguin e Paola Dominguin. Il matrimonio si concluse nel 1968 con la separazione a causa dell’infedeltà del marito. La nota attrice italiana ha avuto modo di frequentare personalità di rilievo a livello globale, come Pablo Picasso, Luchino Visconti ed Ernest Hemingway. Negli ultimi tempi la Bosé viveva a Brieva, una piccola città di Segovia, mentre le sue figlie Paola e Lucia sono a Valencia e il suo primogenito Miguel vive in Messico. 

Da ilmessaggero.it il 23 marzo 2020. Lucia Bosé è morta di Coronavirus lunedì 23 marzo a Madrid. Aveva compiuto 89 anni lo scorso gennaio. Lo conferma il sito online di El Pais. Bosé divenne famosa quando vinse il concorso di Miss Italia nel 1947, vincendo su Gina Lollobrigida e Gianna Maria Canale. Da lì ha concentrato la sua carriera sulla recitazione, partecipando a film di Luis Buñuel, Jean Coctaeu e Federico Fellini. Fu una delle prime "maggiorate" del cinema italiano, assieme a Sophia Loren e Gina Lollobrigida. Era una commessa della pasticceria milanese Galli, quando fu notata da Luchino Visconti. Avrebbe dovuto partecipare alle riprese di Riso amaro, ma la sua famiglia si oppose. Iniziò a lavorare seriamente nel cinema con il neorealismo di Non c'è pace tra gli ulivi (1950) di Giuseppe De Santis, ma a lanciarla veramente fu Cronaca di un amore (1950) di Antonioni per il quale fu anche La signora senza camelie (1953). Con Luciano Emmer e Francesco Maselli partecipò a diverse commedie con il suo fidanzato di allora, Walter Chiari. Tra gli altri film in cui ha recitato, Cronaca di una morte annunciata (1987), di Francesco Rosi, L'avaro (1990) di Tonino Cervi, Volevo i pantaloni (1990) di Maurizio Ponzi, I Viceré (2007) di Roberto Faenza. Lucia Bosè aveva una passione, invero particolare: gli angeli.  Vent'anni fa è riuscita a coronare il suo sogno, creando a  Turégano il primo Museo degli Angeli, in cui sono esposte le rappresentazioni degli angeli provenienti da ogni parte del mondo. Bosé si sposò il 1 marzo 1955 con il torero Luis Miguel Dominguín, con il quale aveva messo al mondo tre figli: Miguel Bosé, Lucía Dominguín e Paola Dominguín. Aveva 10 nipoti.

Quando Lucia Bosé  si chiuse con me in un manicomio per “L’ospite”: perché la Rai non lo trasmette? Pubblicato martedì, 24 marzo 2020 su Corriere.it da Liliana Cavani. Lucia Bosè è stata una delle grandi attrici italiane partecipe del trio meraviglioso composto da lei Silvana Mangano e Sofia Loren. Belle bravissime per una innata intelligenza speciale. Nessuna ha fatto una scuola di recitazione ma possiamo ben dire che oltre alla bellezza erano anche eccezionali esseri umani. La recitazione di Lucia Bosè viene dunque dalla vita, dalla famiglia, dal suo quartiere, potrei dire da una “ creme de la creme” popolare milanese che ha una tradizione di valori umani forti. Eppure che eleganza e che carattere riusciva ad esprimere Lucia! E’ vero che Visconti e un giro di eleganti stupiti dalla sua naturale bellezza le hanno risvegliato una maggiore conoscenza di sé stessa ma appunto di se stessa. Il nostro cinema è stato l’espressione eccezionale di un Paese piccolo ma complesso per una Storia vasta e intensa capace di trasmettere carattere e finezza di pensiero anche a chi non ha fatto scuole superiori ma grazie ad un grande retaggio di civiltà . A questa civiltà attinge il suo livello civile la famiglia “ popolare “ di Lucia. Questa scuola della vita le permette di essere una “popolana” intelligente ma anche una credibile disinvolta signora elegante e persino umorale se serve . Questa dote le ha permesso di interpretare personaggi borghesi anche complessi peraltro coerenti con la sua bellezza non procace ma tanto elegante. Sono stati fatti film eccezionali con queste attrici che non erano cresciute né a Parigi né a Londra ma in periferie vuoi di Milano o di Napoli. Uno potrebbe pensare che potevano essere giusto adatte per film popolari come la commedia italiana invece non è stato così. Antonioni e Visconti e Maselli avevano visto giusto e del resto erano registi fantastici. Sono stata un paio di volte a casa di Lucia a Madrid. C’erano sempre ospiti che andavano e venivano e spesso importanti ( aveva tanti amici !) e sembrava che fosse cresciuta in una castello nobiliare per come gestiva tutto quanto con in più però una generosità ospitale tutta italiana. Ci ha fatto fare sempre bella figura ! Mi sono sempre meravigliata per la sua curiosità umana e il suo desiderio di dare alla vita sua e a quella dei figli il coraggio di essere se stessi. Per questo devo dire che suo figlio Miguel ha avuto con la madre il migliore dei maestri. Vengo a me. Ho fatto nel 1971 un film con Lucia. La storia era nata da una mia visita al Manicomio di Pistoia . Mi ci portarono dopo la proiezione di un mio film ( I Cannibali ) dei giovani di una associazione cattolica che dedicavano le domeniche a frequentare gli “ ospiti” di quel luogo che mi fece impressione. Non c’era stato ancora stata la giusta battaglia di Basaglia. Io ero curiosa e a causa di quello ho voluto fare un film a basso costo per la RAI . C’era allora una sezione piccola per fare film esperimentali a basso costo diretta da Ludovico Alessandrini (che era un grande ! ) e glielo proposi e lui accettò . Il film si intitola “l’Ospite “ (nel manicomio chiamavano i pazienti “ospiti” ma ci passavano la vita perchè di fatto non ricevevano cure ). Quel film non l’hanno mai trasmesso eppure c’è una interpretazione di Lucia favolosa! Mai trasmesso purtroppo e spiacque tanto anche a Lucia ( che lavorò gratis come tutti) perché sottolinea la sua personale “scuola “ di recitazione che è quella di immedesimarsi “totalmente”con calma pensata nel personaggio quasi modificando la propria natura ( metodo spontaneo da Actor Studio ). Siamo stati chiusi un mese tutti quanti troupe compresa dentro a quel Laboratorio di stupida crudeltà. Non sarebbe bello se la Rai presa da un brivido umano proiettasse quel film per fare un dono post mortem ad una grande attrice del nostro cinema?

Valerio Cappelli per il “Corriere della Sera” il 24 marzo 2020. «L' ho amata da quando amo il cinema, conosco tutti i suoi film a memoria», dice Ferzan Ozpetek.

Lei ebbe Lucia Bosé in «Harem Suare»

.«Quando la contattai mi rispose che col cinema aveva chiuso. Le dissi: io comunque il copione glielo mando. Mi richiamò facendomi un lungo discorso, aveva voluto vedere Il bagno turco e giù con i complimenti, pensavo, ecco adesso mi dice no. Invece passò al tu e mi disse: non vedo l' ora di conoscerti».

Poi?

«Ci siamo visti a Roma, la volevo dimessa, Piero Tosi, il costumista, mi disse che una donna dell' harem, per quanto ex, non poteva essere dimessa. Ci siamo chiusi per tre giorni con Dino Trappetti della sartoria Tirelli e alla fine l' abbiamo caratterizzata con un cappotto scuro, di qualità ma un po' invecchiato. Con Umberto Tirelli e Dino erano molto amici, avevano la villa a Capri insieme, andavano in crociera dividendo la cabina, tanto erano in confidenza».

Il film andò al Festival di Cannes.

«Lei però restò a casa, era il 1999, disse che non aveva più l' età per i tappeti rossi. Era imprevedibile, nel soggiorno di casa mia volle fare l' unico selfie della sua vita, lei e Valeria Golino a una prova lettura del copione. La scena dell' incontro di loro due alla stazione, la racconterò nel mio nuovo libro, Come un respiro ».

Di cosa parlavate?

«Credeva negli angeli, diceva che ci seguono ovunque. La rimproveravo perché fumava e lei: smettono tutti, io riprendo. Era bastian contrario. A casa di Tilde Corsi, la mia produttrice, ebbe uno scontro con Laura Betti, o meglio, uno scontro a senso unico. Si parlava di Pasolini. Laura era tutta fuoco, Lucia la smontò con un sorriso guardando dall' altra parte. Mi hanno detto che quando scoprì Dominguín con una donna in casa loro, diede fuoco al letto».

Le parlava delle sue origini umili?

«Sì, mi disse che quando fu eletta Miss Italia, finalmente avrebbe potuto mangiare il tartufo che vedeva esposto nella vetrina accanto al negozio in cui faceva la commessa. Così si sedette al ristorante, ordinò tagliatelle al tartufo e il cameriere disse: desolato, signorina, ma non è stagione. Ci rimase malissimo».

Quando l' ha sentita l' ultima volta?

«Venne a Roma tre anni fa, io ero in Francia. Le dissi chissà quando ci rivedremo, lei si mise a ridere e disse, chissà».

·        E' morto il regista Tonino Conte.

E' morto il regista Tonino Conte, fondatore del Teatro della Tosse. Aveva 84 anni, l'annuncio su Facebook del figlio Emanuele: "Mio papà è morto, detestava si dicesse è mancato". Michela Bompani su La Repubblica il 21 Marzo 2020. "Oggi, alle 15.55, mio papà Tonino è morto, detestava sentir dire "è mancato. Non ci sarà funerale, secondo il suo desiderio": è il figlio Emanuele, regista anche lui, a dare l'annuncio della scomparsa del grande uomo di teatro Tonino Conte, nato nel 1935 a Napoli, arrivato a Genova tre anni più tardi. E a Genova ha impresso un'impronta nel teatro nazionale che non sarà mai cancellata: motore fondamentale di quella macchina meravigliosa che è il Teatro della Tosse, con il grande scenografo e artista, Lele Luzzati. Il teatro come meraviglia, impegno, contestazione, e anche rivoluzione: Tonino Conte fece uscire, con Luzzati, il teatro dal teatro, cominciando a usare storie e personaggi per rianimare luoghi dimenticati della città, dai forti di Genova alla diga foranea. A 24 anni cominciò proprio con Aldo Trionfo, era suo direttore di scena alla "Borsa di Arlecchino", nel palazzo della Borsa. E qui conobbe Lele Luzzati. Poi lavorò a Roma, collaborò con Carmelo Bene, continuò a scrivere testi con Trionfo. A 33 anni firmò la sua prima regia: era il 1968 e lo spettacolo è diventato un cult, l'Ubu Re di Alfred Jarry, realizzato per il Teatro Universitario di Genova. Nel 1975 ha fondato con Luzzati, Trionfo, Giannino Galloni, Rita Cirio il Teatro della Tosse, uno dei motori culturali pulsanti, mai irregimentato, della città. Lo ha guidato per tutta la vita, fino al 2007, quando lasciò il testimone proprio al figlio Emanuele. Nel 2005, il sindaco Giuseppe Pericu gli aveva attribuito il Grifo d'oro della Città di Genova.

·        É morto Kenny Rogers.

É morto Kenny Rogers, addio all’icona della musica country. Pubblicato sabato, 21 marzo 2020 su Corriere.it da Chiara Maffioletti. L’icona della musica country Kenny Rogers è morto nella sua casa di Sany Springs, in Georgia. Aveva 81 anni. La sua voce inconfondibile ha spaziato anche nel jazz, folk e nel pop con hit come «Lucille», «Lady», «Islands in the Stream» e il grande successo di «The Gambler». Il musicista — con una carriera anche da attore — è morto per cause naturali. Nato in Texas, il cantante dalla barba argentata aveva venduto milioni di dischi, vinto tre Grammys oltre ad essere stata la star di film tv basati sulle sue canzoni, tra tutti «The Gambler», appunto, il che lo aveva reso una superstar negli anni Settanta e Ottanta. Aveva smesso di fare concerti dal vivo nel 2017, quando aveva 79 anni. Rogers, nonostante il suo stile eclettico che lo aveva fatto spaziare tra i generi, amava essere definito un cantante country. «O fai meglio quello che fanno tutti o fai qualcosa che non fa nessuno, così non ci sono paragoni: io ho scelto questa strada. Non potrei mai essere meglio di Johnny Cash o Willie & Waylon. Così ho trovato un mio modo di fare musica che non mi mette in confronto con loro. Credo le persone abbiano pensato fosse un mio desiderio di cambiare la muscia country, ma non era questo in realtà il mio vero scopo», aveva raccontato nel 2015. Una carriera lunga svariati decenni, la sua, iniziata quando aveva 20 anni, con un singolo dal titolo «That Crazy Feeling», ma il successo arrivò assieme alla First Edition band, con brani come «Just Dropped In (To See What Condition My Condition Was In)», che mixavano il country-rock e il folk in canzoni come «Ruby, Don’t Take Your Love To Town». Il gruppo si sciolse nel 1974 e Rogers iniziò lì la sua carriera da solista, consacrata dal singolo «Lucille» che nel 1977 lo portò dritto al suo primo Grammy. Oltre a «The Gambler», uno dei suoi più grandi successi era stato «Lady», scritta da Lionel Richie, nel 1980. Ma tra le sue compagne di lavoro più affezionate c’è stata Dolly Parton, con cui Rogers condivise anche più di un tour, oltre che numerosi progetti, l’ultimo nel 2013, il duetto: «You Can’t Make Old Friends». Oltre che musicista e attore, Rogers era anche fotografo. Inoltre, negli Stati Uniti aveva lanciato una catena di ristoranti che portano il suo nome: i «Kenny Rogers Roasters».

·        Nazareno (Neno) Zamperla rip.

Marco Giusti per Dagospia il 20 marzo 2020. In queste giornate terribili perdiamo anche uno dei pilastri del nostro cinema di genere. Nazzareno Zamperla detto Neno, 82 anni, noto anche al tempo degli avventurosi e degli spaghetti western come Nick Anderson, Nicholas St. John, Tony Zamperla, è stato attore, stuntman, stunt coordinator, per decine e decine di film non solo italiani. Per Giuliano Gemma, col quale divise tutti i suoi grandi western del tempo, da “Un dollaro bucato”, “Una pistola per Ringo” a “California” e “Tex e il signore degli abissi”, è stato un fratello, il compagno che ha avuto sempre a suo fianco e gli aveva insegnato i grandi trucchi del mestiere. E noi ragazzetti del tempo lo avevamo visto tutti fare acrobazie incredibili a cavallo o a terra con quella faccia simpatica e sempre sorridente in film come “7 pistole per i Mac Gregor” di Franco Giraldi col mitico Robert Woods, dove era Peter Mac Gregor, o “L’arciere di fuoco” di Giorgio Ferroni con Gemma, dove credo per l’unica volta o quasi leggiamo sui titoli di testa il suo nome. E dire che lo Zampanò di Anthony Quinn in “La strada” venne in testa a Fellini, sembra, proprio storpiando il nome di Neno Zamperla, che nel film fa un piccolo ruolo ma tanto stunt acrobatico per “il Matto” di Richard Basehart. E Neno c’era quel giorno sul set di “Buffalo Bill eroe del West”, quando Mario Brega dette il celebre pugno al protagonista Gordon Scott. Solo che ricorda che Brega non voleva affatto menarlo, il pugno gli uscì per sbaglio, come ricordava anche l’operatore alla macchina Sergio D’Offizi. Tanto che poi Brega si mise addirittura  piangere pensando che lo avrebbero cacciato dal set. Vai a trovare la verità…Nato a Treviso nel 1937 da una celebre famiglia di circensi, Nazzareno detto Neno e suo fratello maggiore Rinaldo nel 1949 scendono a Roma in cerac di fortuna nel cinema. Lo troviamo come stunt e double di Frank Latimore in “Capitan Fantasma” di Primo Zeglio nel 1953, subito dopo è presentissimo sul set di “La strada” di Fellini, ma anche dei kolossal del tempo girati a Cinecittà, “Ulisse” di Mario Camerini, “Elena di Troia” di Robert Wise. Fu Yakima Canutt, ricordava, regista della seconda unità e stunt coordinator per il film di Wise, celebre cavallaro e stunt nei primi film di John Wayne, a insegnarli davvero il mestiere, cioè a far funzionare le sue doti atletiche e acrobatiche da circense per il cinema. Una lezione che Neno porterà avanti per tutta la vita, cominciando con i grandi peplum degli Ercole e dei Maciste e coi cappa e spada. Un altro maestro fu infatti per lui anche Aurelio Musumeci Greco, il primo dei grandi stunt coordinator italiani, che gli insegnò spada e fioretto. Lo troviamo così in filmoni come “Le fatiche di Ercole”, “Ercole e la Regina di Lidia”, “Barabba”, “Sodoma e Gomorra”, ma anche nei film di pirati e spadaccini come “Il pirata dello Sparviero Nero”, “Morgan il pirata”. E lo vediamo in azione anche nel più moderno “Corsari” di Renny Harlin con Geena Davis come sword master. Non bello come Gemma, ma di una certa presenza sullo schermo, il produttore Italo Zingarelli lo vuole tra i protagonisti di “I sette gladiatori” a fianco di Richard Harrison, e Giorgio Venturini per “Zorro e i tre moschettieri” e “Zorro contro Maciste”, dove interpreta Sadoch. Umberto Lenzi, nei due film salgariani, “Sandokan la tigre di Mompracen” e “I pirati della Malesia”, lo riprende con il nome di Nick Anderson, mentre fa il suo esordio nello spaghetti western con Gemma in “Un dollaro bucato” come Nicholas St. John. Chissà perché. Attraversa tutto il cinema western e non di Giuliano Gemma, sempre a suo fianco, anche come stunt coordinator, ma lo si nota parecchio anche nei due Mac Gregor di Franco Giraldi. Si lega ai grandi registi dell’avventuroso del tempo, Duccio Tessari, col quale girerà anche “Vivi o preferibilmente morti” e “Uomini duri”, Enzo G. Castellari, che troverà in “Il cittadino si ribella”,  Michele Lupo, “7 volte 7”, ma anche il più giovane Michele Soavi, “Dellamore Dellamorte”. 

·        Morto Gianni Mura, raccontò il calcio e il ciclismo.

Morto Gianni Mura, raccontò il calcio e il ciclismo. Il Dubbio il 21 marzo 2020. È morto questa mattina per un attacco cardiaco improvviso il giornalista e scrittore Gianni Mura, dal 1976 storica firma di Repubblica. Ne dà notizia il sito del quotidiano romano. Mura, 74 anni, si è spento all’ospedale di Senigallia (Ancona). Era nato a Milano nel 1945, e ha scritto pagine memorabili sullo sport e l’Italia degli ultimi decenni, dal calcio al ciclismo. Nel 2007 scrisse il suo primo romanzo, «Giallo su giallo», che vinse il Premio Grinzane: è stato tra i più grandi raccontatori del Tour de France.

Giornalismo, è morto Gianni Mura. Addio a una firma memorabile. Redazione de Il Riformista il 21 Marzo 2020. A 74 anni è morto il giornalista e scrittore Gianni Mura. Firma storica di Repubblica, Mura si è spento questa mattina all’ospedale di Senigallia (Ancona), per un improvviso attacco cardiaco. Lo scrive lo stesso quotidiano fondato da Eugenio Scalfari, con il quale Mura collaborava dal 1976. Era nato nel 1945 a Milano, è stato allievo di Gianni Brera, altra firma storica del giornalismo sportivo. Ha scritto per la Gazzetta dello Sport. I suoi racconti, dal calcio al ciclismo al tennis, e le sue interviste, hanno segnato pagine memorabili dello sport italiano e non solo. Sul settimanale di Repubblica Il Venerdì ha curato la rubrica eno-gastronomica Mangia e Bevi. Nel 2007 il suo romanzo d’esordio, Giallo su giallo, un noir ambientato durante il Tour de France, che si è aggiudicato il premio Grinzane – Cesare Pavese per la narrativa.  “La sua rubrica domenicale Sette giorni di cattivi pensieri è stata un appuntamento fisso con i nostri lettori, anno dopo anno, come anche l’Intervista al campionato e i 100 nomi dell’anno di Mura“, scrive Repubblica.it.

Morto Gianni Mura: un fuoriclasse nel trovare le parole. Quando io, lui e Brera lavoravamo assieme. Pubblicato domenica, 22 marzo 2020 su Corriere.it da Mario Sconcerti. Venerdì sera stava meglio. Pensava quasi di scrivere i «Cattivi pensieri» come ogni domenica. Gli avevano riguardato i polmoni, c’era acqua ma non tumori. Poi la mattina, mentre Emanuela (Audisio) stava portandogli i giornali all’ospedale di Senigallia, si è voltato verso Paola e gli ha fatto vedere la sua morte negli occhi. Non è stato il virus a ucciderlo. Non l’ha mai avuto. È stata un’ischemia cardiaca. Può sembrare strano ma quando eravamo giovani insieme, era la morte che ci immaginavamo per noi, fumatori, bevitori, golosi, impazienti. Solo più breve, mentre lui era da un mese in ospedale. Mi telefonò un pomeriggio di oltre 40 anni fa. Io ero capo dello sport di Repubblica, ma non c’era ancora lo sport. Un giorno sì, un giorno due colonne in cronaca. Però c’erano idee, eravamo diversi. Gianni sentì quella differenza. Era da due mesi all’Occhio di Maurizio Costanzo, grosso stipendio, nessun piacere nel mestiere. Pezzi brevi, giornalismo popolare. Non era il suo mondo. Concordammo un ingaggio ballerino, senza chiedere a direttori e amministratori, un patto tra me e lui. Lui si dimetteva e prendeva dalla cassa di previdenza l’indennità di disoccupazione, e io integravo con un mio budget di redazione che non esisteva. Ma ero sicuro che appena avesse cominciato a scrivere nessuno ci avrebbe mai cacciato. Tremammo un po’, ma andò così. Gianni aveva una facilità di trovare parole che nemmeno Brera aveva. Abbiamo avuto la fortuna di lavorare tutti e tre insieme. Io guidavo la barca, loro mettevano il vento. Era meno forte di Brera, che quando voleva ti annientava con una smorfia. Mura era sempre dalla tua parte, davanti al mondo o a una minestra. Aveva parole e sintesi per tutto, le mescolava e ne uscivano filastrocche ma anche poesie purissime, fulminanti. Era possessivo, infantile, bisognoso di cura, di una luce dagli altri che ne illuminasse la diffidenza, forse la solitudine. È inutile paragonarlo a Brera, era un’altra cosa. Ed è una sciocchezza che il giornalismo sportivo debba permettersi un solo maestro. Brera era fantastico e provocatorio, Mura era quasi snob nel suo bisogno di popolo. Era un raccontatore puro, un ricercatore di dettagli, non un tecnico. Dava il meglio di sé nel ciclismo e nelle gare tra individui. Dove ci sono le facce. Ancora tanto tempo fa, quando sembrava che stessi per diventare direttore della Gazzetta, ci fermammo a costruire i nostri ruoli futuri come due adolescenti. Io a pensare e lui nel mondo a raccontare, prima firma assoluta. Sembrava vero, poi me ne andai io, impaziente come lui, sempre un po’ traditore. Ci siamo persi negli ultimi anni, non eravamo più spontanei. Da quando anch’io scrivevo ci sentivamo un po’ avversari. Veniva da ridere, ma si era spezzato l’equilibrio dei ruoli. Ed eravamo diventati prima uomini e poi anziani. Più che noi, era cambiata la commedia. Gli ho voluto bene, qualcosa di forte, perché sentivo che lui provava la stessa cosa per me. Spero di non averlo deluso troppo. Non era un uomo semplice. Una volta che venne in redazione a Roma e cercava un po’ di coccole, non potevo esserci perché stavo chiudendo un supplemento. Nell’attesa lui reagì con le parole, mi mandò questa filastrocca (o poesia?). La conservo ancora, c’era tutto Gianni. Diceva: Sconcerti smorza/ il video e l’audio, / c’è solamente/ per il sor Claudio. / Ora pro Nobis/ è una misura,/ mai vista un’ora / per Gianni Mura. Come diceva Brera e come scrivevi sempre anche tu, ti sia lieve la terra amico mio.

Gianni Mura, il nostro caro campione. Giornalista straordinario e generoso: un raccontatore, come si definiva, dallo sport al cibo, dava i voti cercando sempre di capire. Memoria strepitosa, cantante per passione, spirito libero. Se ne è andato nel primo giorno di primavera. Emanuela Audisio il 21 Marzo 2020 su La Repubblica.  Se n’è andato nel primo giorno di una primavera deserta, ma già piena di margherite. Alle otto di mattina di un sabato in cui il suo ciclismo (Milano-Sanremo) aveva smesso di correre e alla vigilia di una domenica senza calcio. Chissà, forse Gianni in un mondo così, «senza», non ci stava più. Aveva telefonato la sera prima: «Bevete, anche se io non ci sono». Pronta la risposta: «Ma no Gianni, ti aspettiamo». Ma non c’è più nulla da festeggiare. Aveva voluto il computer in ospedale, perché era un uomo di doveri, e c’erano i Sette giorni di cattivi pensieri da scrivere. Paola, la moglie, glielo aveva portato, con il quaderno a quadrettoni, dove lui annotava i suoi giochi di parole. «Stanotte, ne ho pensato uno: diamante, gioiello extraconiugale». Gianni ti sfiorava, era leggero in tutto: con le parole, con i gesti, con i pensieri. E aveva un italiano splendido, semplice, nitido. Grande anche la sua generosità, non arrivava mai a mani vuote. Ti stroncava con i riferimenti a canzoni, libri, autori, anche dialettali, ricordi, paesaggi. Ne aveva in abbondanza, per tutto e per tutti. Non era tipo che risparmiasse: sulle bottiglie di vino, sul pecorino di Cugusi («pastore, non agricoltore»), sul pane e salame, sulla musica, sulla letteratura, sulla poesia, sul versare e condividere con gli altri, sullo scassarsi il cuore. Con lui, facevi scorpacciate: di curiosità, di raffinatezza, di Fréhel (l’aveva come salvaschermo), Brel, Piaf, Jean Ferrat, Giovanna Marini, Ricky Gianco, De Gregori, Capossela. La suoneria del suo cellulare era Chants de partisans, una Bella Ciao francese. Gli piaceva la gente genuina, giocare a carte (scopone), le parole crociate. Aveva una memoria strepitosa, non si perdeva niente, mandava spesso l’articolo a braccio, dettava in pochi minuti, provateci voi a sintetizzare una partita (ai rigori), a raccontare una morte (quella di Pantani) e una vita (quella di Gimondi) mentre state al ristorante o su un traghetto. Amava gli irregolari, il fumo, la libertà, i romantici, quelli che si buttano a salvare l’amico anche se non sanno nuotare, quelli che fanno, senza chiedersi se conviene, tutto quello che è sulla strada. Anche se nella rubrica dava voti, cercava sempre di capire più che di giudicare. Era molto pudico, rispettava gli imbarazzi e le leggi, figlio di maresciallo («Il Maigret della Brianza»), si fermava ai semafori gialli e guidava con molta prudenza. Solo il suo cuore era eccessivo: si dava per le giuste e buone cause, e tutti lo chiamavano perché sapevano che Mura avrebbe risposto all’appello. Lo consideravano un critico, ma lui preferiva la parola raccontatore. Era arrivato a Senigallia in convalescenza da una polmonite di dicembre, perché i dottori gli avevano raccomandato l’aria di mare. Aveva perso molti chili («Sono sotto i 100»), a tavola mangiava poco (una banana a pranzo), ma se passavano gli amici apriva subito una bottiglia. Aveva subito sostenuto l’economia locale (quando ancora si poteva uscire) comprando pecorini e vini, della zona e non, contento di trovare il gorgonzola di capra della Latteria sociale di Cameri, lo stracchino di Sabelli, e il Cannonau di Pusole. Era rimasto commosso dalla cura con cui nel suo negozio Francesco tagliava a mano il prosciutto: «Vedessi i suoi occhi e la dolcezza della sua mano». Gianni capiva, non aveva bisogno di Internet, ma è bello che in questi giorni in cui si può niente ci sia il web a ricordare un uomo che aveva attraversato il grande e piccolo sport senza mai dire io, ma sempre lei. E trattando con lo stesso rispetto brocchi e campioni. Lunedì mattina per strada Gianni si era sentito male, Paola l’aveva soccorso, un messaggio cardiaco di un generoso dottore l’aveva salvato. Mura si era ripreso. All’ospedale di Senigallia i due cardiologi, il primario Antonio Mariani e Fabrizio Buffarini, si erano accorti che il cuore di Gianni aveva un grave scompenso, c’era un’insufficienza aortica. L’altra mattina un’ischemia miocardica è stata una salita troppo dura. Al dottore che gli aveva chiesto che lavoro facesse, Gianni aveva risposto: sedentario. Già, come no: con 33 Tour de France sulle spalle e con un premio Blondin (unico non francofono a vincerlo) assegnatogli nel 2015 «per la prosa meravigliosa». Tanto che L’Equipe lo ricorda come memoria vivente della corsa facendo notare che era nato «nel ’45 come Eddy Merckx». Le ultime sere con Paola guardava in tv L’Eredità e sì le parole le sapeva tutte subito, senza vantarsi. Si era spazientito solo alla mancata risposta di chi fosse La canzone di Marinella. Vai a casa, se non conosci De André. Alla fine dei suoi racconti sulle vite degli amici persi scriveva sempre: ti sia lieve la terra. Paola l’ha vestito con i jeans, una polo, un golf e scarpe sportive. Non era tipo da cravatta, ma era elegantissimo nella sua semplicità da Mura. Io invece vorrei che la terra diventasse dura, ferrosa, respingente. Che ci restituisse Gianni che credeva nella libertà e che la poesia è un po’ come la Provenza: non sei tu che ci entri, al chilometro tale, ma è lei che ti viene incontro, che s’annuncia con i colori dei campi di lavanda e di girasole. E che voleva bene alle fisarmoniche appoggiate su una sedia. Diceva che sono l’unico strumento che si dilata. Dimenticava il suo cuore.

Addio Gianni e grazie per il talento purissimo e brusco che hai sparso in ogni articolo, intervista e ritratto. “Che la terra ti sia lieve”. Sotto quella terra adesso, insieme alla tua barba ruvida, c’è un pezzo di Repubblica, che ti starà accanto per farti compagnia, come tu l’hai fatta a noi. Carlo Verdelli il 21 Marzo 2020 su La Repubblica. Si è fermato proprio nei giorni in cui si è arreso anche lo sport. E’ sceso di bicicletta, è andato a sedersi in panchina, ha lasciato il campo di cui è stato l’ultimo campionissimo. Pochi giorni fa mi aveva detto: dai, diretur, che ce la facciamo. Sì, dobbiamo proprio farcela, Gianni. Te lo dobbiamo: noi, tuoi allievi di Repubblica, la comunità grande dei nostri lettori, e chiunque si sia emozionato per le tue cronache dal Tour, per le migliaia di montagne che hai scalato con i tuoi ciclisti, per tutte le partite di calcio che ci hai fatto vivere come se fossimo lì, per il talento purissimo e brusco che hai sparso in ogni articolo, intervista, ritratto, per essere stato l’arbitro, volutamente di parte, nell’appuntamento imperdibile e perduto con i tuoi “Cattivi pensieri”, fino all’angolino in ultima pagina, “Spassaparola”, che oggi lasceremo bianco e magari anche domani e dopo. Quando scrivevi l’addio a qualcuno, terminavi sempre con questa frase: “Che la terra ti sia lieve”. Sotto quella terra adesso, insieme alla tua barba ruvida, c’è un pezzo di Repubblica, che ti starà accanto per farti compagnia, come tu l’hai fatta a noi. Anche in questo momento di emergenza.

Carlo Verdelli per repubblica.it il 22 marzo 2020. Si è fermato proprio nei giorni in cui si è arreso anche lo sport. E’ sceso di bicicletta, è andato a sedersi in panchina, ha lasciato il campo di cui è stato l’ultimo campionissimo. Pochi giorni fa mi aveva detto: dai, diretur, che ce la facciamo. Sì, dobbiamo proprio farcela, Gianni. Te lo dobbiamo: noi, tuoi allievi di Repubblica, la comunità grande dei nostri lettori, e chiunque si sia emozionato per le tue cronache dal Tour, per le migliaia di montagne che hai scalato con i tuoi ciclisti, per tutte le partite di calcio che ci hai fatto vivere come se fossimo lì, per il talento purissimo e brusco che hai sparso in ogni articolo, intervista, ritratto, per essere stato l’arbitro, volutamente di parte, nell’appuntamento imperdibile e perduto con i tuoi “Cattivi pensieri”, fino all’angolino in ultima pagina, “Spassaparola”, che oggi lasceremo bianco e magari anche domani e dopo. Quando scrivevi l’addio a qualcuno, terminavi sempre con questa frase: “Che la terra ti sia lieve”. Sotto quella terra adesso, insieme alla tua barba ruvida, c’è un pezzo di Repubblica, che ti starà accanto per farti compagnia, come tu l’hai fatta a noi.

Giovanni Malagò per repubblica.it il 22 marzo 2020. A nome personale e del Comitato Olimpico Nazionale Italiano, interpretando i sentimenti dell’intero mondo sportivo, mi stringo al dolore del Direttore Carlo Verdelli e di tutta la redazione di Repubblica nel ricordo di Gianni Mura, un gigante del giornalismo e un indimenticabile fine dicitore del nostro mondo, abbracciando idealmente la famiglia e tutti quelli che hanno voluto il privilegio di conoscerlo e di apprezzarlo. Ci hai donato poesia pura, traslandola sul ‘tuo’, nostro mondo. Oggi hai voluto riservarci un dolore immenso, tanto difficile da raccontare che, forse, avresti fatica anche tu, caro Gianni. Tu che con le parole hai sempre disegnato arcobaleni e descritto sogni, riuscendo a decodificare con la scrittura anche quello che le sensazioni più intime raccontano solo al cuore. Te ne sei andato in punta di piedi, in un attimo interminabile che ci lascia sgomenti. Non c’è un aneddoto, un momento per ricordarti. C’è una vita intera da celebrare, dedicata a quella passione travolgente chiamata sport, vissuta e raccontata con inimitabile maestria, grazie alla tua sapienza stilistica e alla tua visione illuminata. Ci hai accompagnato attraversando i decenni, ci hai regalato pagine indimenticabili, narrando le vittorie e le sconfitte del nostro mondo con lucida e mirabile capacità, senza risparmiare critiche, senza lesinare consigli, senza mai dimenticare di essere te stesso. Hai fatto la storia del movimento, raccontandolo nella sua accezione multidisciplinare, nella sua dimensione, universale come i messaggi che hai scolpito nel cuore di tutti noi. Hai meritato stima e credibilità, avvicinato i giovani e coinvolto gli appassionati, incantato i protagonisti. Hai scritto e descritto tanti fuoriclasse ma il vero campione eri tu e oggi tocca a noi ricordarlo. Con emozione e gratitudine, certi che il tuo esempio non verrà disperso. Ciao, Gianni. E grazie. A nome di quello sport che hai portato nel cuore. Lì, dove noi conserveremo il tuo ricordo intramontabile.

Maurizio Crosetti per repubblica.it il 22 marzo 2020. Prima le persone e poi le parole, e lui le parole le aveva bellissime, le più belle di tutti. E andare, andare sempre a guardare. Parlare con gli altri, osservare i dettagli, gli oggetti, le forme e le tinte delle cose. Scrivere, quello viene dopo. Scrivere, diceva Gianni, è come cucinare, ma conta molto di più fare la spesa. Quando hai le cose giuste sul tavolo, quando al mercato hai scelto bene, poi i piatti vengono buoni per forza. Gianni, mi spieghi come giocava Peirò? Gliel’ho chiesto l’altro ieri sera al telefono, quando Gianni mi disse che aveva ancora una discreta scorta di Settimana Enigmistica e Domenica Quiz, e poi sul comodino la saga familiare di Giorgio Fontana, “un bel Sellerio spesso così”, e un giallo di Robecchi. Com’è Robecchi?, gli ho chiesto. Non male, mi ha risposto Gianni. E poi ha cominciato a parlarmi di Peirò, di come nell’Inter giocasse quasi solo in Coppa, di quel gol al Liverpool naturalmente. E poi mi ha parlato delle matite e dei pennarelli, mi ha detto che era stato giusto scriverne su Repubblica. Lui, le matite le usava per i cruciverba. Gianni Mura mi ha insegnato che scrivere è prima di tutto leggere, ed è ascoltare una canzone. E’ curiosità degli altri, altrimenti cosa scrivi a fare. Scrivere è ricordare, certo, ma anche immaginare. Gli piaceva quella cosa della nostalgia del futuro, quella malinconia che ci prende quando le cose non ancora accadute ci mancano già.

Da Gianni ho imparato che una coppa di pesche e spumante è formidabile contro la febbre alta. Lui mi curò così, una notte, nel nostro mondiale tedesco del 2006, tornati a Dusseldorf da Dortmund. Era la sera della semifinale vinta. Febbre a 39°, viaggio in treno in piedi, caldo torrido. Poi, nel bar deserto dell’albergo quell’insalatiera piena di pesche e spumante, lasciata lì chissà perché, come un sogno, un’invenzione. Ci sedemmo, bevemmo, mangiammo. Poi una dormita biblica, e la mattina freschi come rose.

Da Gianni ho imparato che in qualunque posto del mondo bisogna creare casa: la trattoria, il giornalaio, il fruttivendolo. Se ci torni ogni giorno, sei a casa. E bisogna mandare cartoline, non lettere ma cartoline, alle persone che amiamo. Lui alla sua Paola ne mandava sempre, da qualunque posto del mondo. Il fruttivendolo è molto importante. Bisogna comprare un po’ di frutta la mattina delle partite in notturna perché poi, tornati in albergo, è meglio mangiare quella piuttosto che le schifezze.

Da Gianni ho imparato che la cosa degli aggettivi da togliere è una scemenza. Bisogna metterli, invece, ma solo quelli giusti, Ma vale per tutto, i nomi, i predicati, i complementi, le virgole, i punti. Solo il punto e virgola non gli garbava: è come il vino rosé, diceva. E il vino o è rosso o e bianco, meglio naturalmente il rosso. A proposito: mica vero che si deve rinfrescare in frigo solo il bianco. Anche col rosso si può, anzi si deve. E poi l’altra stupidata: col pesce solo il bianco. Ma quando? Certo non un barolo, ma un buon barbera non troppo vecchio sì. Tutto questo mi ha insegnato Gianni.

Da Gianni ho imparato che le parole sono un gioco. Nella loro forma più intima, corporea, le assonanze, le sillabe, lo sposalizio tra vocali e consonanti, la rima, il ritmo, c’è già il loro destino nel mondo. Scivoleranno nella frase proprio dal modo in cui sono fatte. C’è chi la chiama poesia, io lo chiamo Gianni Mura. Lui le parole le conosceva tutte, amando di più quelle francesi così come amava il Tour quasi più di ogni cosa. Da Gianni ho imparato che il racconto è movimento: prima di noi stessi, poi delle nostre frasi. E mai fare le mnemoniche con lui (calciatori con la effe, scrittori con la erre): avresti sempre perso.

Da Gianni ho imparato che i maschi, quando si vogliono bene, si abbracciano come orsi. La sua guancia pungeva, la sua pancia arrivava prima di lui. E tu eri timido, sempre un po’ in soggezione di fronte al più grande giornalista italiano di tutti i tempi, non il più grande sportivo, il più grande e basta, non ci sono giornalisti sportivi, o sei giornalista o sei altro. Per me, Gianni Mura è più grande di Brera che gli fu maestro, perché è più buono.

Da Gianni ho imparato che le cose si dicono e si scrivono, costi quel che costi. E che la tenerezza è la migliore forma di forza. Lui era un mite duro, un romantico con la faccia da romanzo. Il bicchiere, diceva Gianni, sempre mezzo pieno. E il pezzo, sempre dieci righe in più che in meno: per chi lavora in redazione sarà più facile metterlo in pagina, tagliare si può sempre, aggiungere no. 

Quando morì Brera, Gianni scrisse il suo articolo più commovente. Un flusso, come galleggiare da un’altra parte, in qualche spazio perduto nell’universo. Le parole vennero chissà come, in tutto quel dolore. Arrivavano dalla vita di prima, tutto arriva da lì. Ma io adesso non riesco a immaginare una vita di parole senza le sue parole.

Da gazzetta.it il 9 luglio 2020. Alla fine è stato preso. E arrestato. Si chiama Francesco Gaspari l'uomo che per anni ha tormentato Gianni Mura, il mitico giornalista sportivo scomparso il 21 marzo scorso. Ricatti e minacce su cui la polizia ha iniziato a indagare dopo la denuncia della moglie di Mura, una volta appreso da un collaboratore del marito dell'esistenza del presunto estorsore, fermato questa mattina a Verona con l'accusa di estorsione.

PRIMA AMICO, POI... Gaspari, 47 anni di Cles (Trento), ma che vive a Verona, si era presentato una decina di anni fa come un lettore, chiedendo un aiuto con piccole cifre. I due erano diventati amici, ma il rapporto è poi degenerato e secondo l'accusa, tra l'ottobre del 2018 fino alla morte del giornalista, si sarebbe fatto consegnare 61.500 euro. In base alla ricostruzione fatta dai militari del Nucleo Investigativo di Milano, l'uomo aveva detto a Mura che il padre era stato ucciso e che la madre era malata. Il giornalista, notoriamente uomo di grande sensibilità, si sarebbe speso per trovargli un lavoro come bibliotecario a Pordenone, ma non era quello che Gaspari voleva.

LE MINACCE —   Così ha iniziato a inviare minacce pesantissime, insieme alle richieste dei soldi. In un'occasione chiese alla sua vittima di comprargli una casa da 40mila euro a Verona. In un'altra gli propose un vitalizio da 700 euro al mese in cambio della promessa di non fare del male a sua moglie, obiettivo principale delle minacce. "Forse ammazzerò solo tua moglie, così capirai cosa significa la sofferenza - si legge in uno dei messaggi riportati nell'ordinanza -. Mandami subito i soldi (basta che li annunci con un sms o una email, non ho voglia di sentirti). Ps. Fossi in te mi prenderei in parola". E di fronte al rifiuto di Mura, lo stalker aggiungeva: "Sappi che non ho paura della galera, delle denunce. Mio padre, ucciso dai trafficanti della camorra, è stato in prigione per una trentina d'anni. Ergo, io non ho la minima paura di andarci. Potrei diventare a brevissimo una feroce belva selvatica in grado di fare di tutto, letteralmente di tutto".

ANCHE DOPO LA MORTE —   La corrispondenza è emersa grazie a uno stretto collaboratore di Mura, che sapeva della conoscenza tra i due ma non aveva idea della natura del rapporto. Con la morte del giornalista, il collaboratore ha potuto accedere alla sua casella di posta e ha scoperto tutto, finendo per ricevere a sua volta minacce. Gaspari, infatti, ha detto che avrebbe ricevuto da Mura la promessa di 3.800 euro e, con la sua morte, questo impegno doveva essere rispettato per evitare di incorrere nella sua vendetta. In quel momento la moglie di Mura aveva già sporto denuncia ai carabinieri.

GIGI GARANZINI per la Stampa il 10 luglio 2020. Alzi la mano destra chi da Gianni Mura si è mai sentito rifiutare una prefazione. O si è sentito rispondere che no, a quel convegno, a quella commemorazione, a quella serata non sarebbe andato: perché era stanco, perché era stufo, perché doveva pur dare un'occhiata alla salute, oltre che all'anagrafe. Era così consapevole del suo talento, e dell'indice di popolarità che ne derivava, da avvertire il dovere della condivisione, della generosità. Con una sensibilità particolare non dico per le cause perse, questo no: ma per gli ultimi certamente sì. Una sera scoprì in un matrimonio langarolo un musicista alle prime armi che gli piacque: quando, tempo dopo, scorsi un paio di cd sul suo tavolo di redazione finse di cadere dal pero e buttò lì en passant che gli sarebbe piaciuto dargli una mano. Seppi poi, ma dal musicista non certo da lui, che l'aiuto era consistito in parole ma anche in opere. Meglio dieci righe in più che in meno, meglio un bicchiere di troppo del rischio di ritrovarsi con la gola secca. Era la sua filosofia di vita, pur se schermata da quella "sardità" che a prima vista lo faceva sembrare burbero. Conoscendola, quando è uscita ieri la notizia è sembrato anche a me come a tutti di cadere dal decimo piano. Ma poi, nel giro di poco, il piano è diventato il terzo, forse il secondo. Per la legge dei grandi numeri. Perché tra tante persone che lo meritano, e dio solo sa quante Gianni ne abbia aiutate in vita sua, il farabutto fa purtroppo parte della statistica. E più una persona è generosa più la sua buonafede istintiva lo rende di una fragilità insospettabile. Adesso è facile ripensare a certi silenzi improvvisi, come se la mente fosse parcheggiata altrove, a certi momenti in cui ti guardava e sembrava non vederti. Il soggetto non poteva essere che la salute, i cui scricchiolii duravano da qualche tempo. Come pensare ad un ricatto? A una vicenda così sporca nata, come sempre, dalla volontà di far del bene? Forse stava prendendo la rincorsa, forse quella pausa era l'inizio di una richiesta d'aiuto: ma subito ammollava una battuta, su Conte o su Mourinho, e riprendeva in mano le carte da scopa, l'ultima volta dal comodino della San Camillo. Eravamo così sollevati, noi "senzamura", all'idea che fosse almeno stato un infarto a portarselo via. Tecnicamente sì. Ma chissà quanto indotto da quella brutta storia irrisolta, dall'angoscia di dover lasciare a Paola l'eredità di una porcheria che non era riuscito a gestire e lo aveva poco alla volta imprigionato. Se solo il suo stalker, con rispetto parlando, anche troppo, si fosse arreso almeno davanti alla morte, di questa storia non avremmo mai saputo nulla. Invece no, era stata così facile, così in discesa sino al 21 di marzo che tanto valeva continuarla: cambiando destinatario e alzando il livello delle minacce. Qualche anno fa Gianni aveva scritto anche un bel giallo con il Tour a far da sfondo, e si era divertito non solo a inventarsi il commissario Magrite, anagramma del suo adorato Maigret, ma anche a ritagliarsi un ruolo da sospettato-principe per una serie di delitti. Nella finzione ne era uscito vittorioso, lasciandosi aiutare. Nella vita reale non è andata così. Per la buona e semplice ragione che le salite era abituato a farsele da solo: date retta a Emanuela Audisio. Anche il necrologio se lo sarebbe probabilmente scritto da sé, se solo si fosse immaginato. Come Ennio Morricone, per non disturbare. Caro Gianni, da ieri pomeriggio la macchina della commemorazione postuma si è rimessa in moto. Ci vuol altro per sporcare una memoria come la tua.

Malcom Pagani e Andrea Scanzi per "il Fatto Quotidiano" il 21 marzo 2020. Con il menisco evaporato: "È a pezzi, strano per uno che dallo sport è stato lontano" e le sigarette razionate: "Ormai, a un passo dalla crisi d'astinenza, prediligo solo quelle più importanti: al cesso, dopo il caffè, alla fine del pasto" Gianni Mura non ha mai venduto fumo. Non firma appelli e rifiuta da sempre di iscriversi al Partito. A 68 anni, non ha cambiato idea: "Vorrei chiamarmi fuori dai due schieramenti che dalla morte di Pantani si danno battaglia con immutabili argomentazioni che non mi appartengono".

Ce le espone?

«Chi urla: Cazzo, ancora ce la menate con questo drogato e chi risponde: Lo hanno imbrogliato, era un angelo caduto dal cielo, vittima di un complotto cosmico. Pantani aveva una grandissima umanità. Se lo sono dimenticati tutti».

Non i tifosi.

«Pantani ha vinto una quarantina di corse, quante Merckx in una sola stagione. Ma sapeva accendere la fantasia come pochissimi altri. Durante il tour del '98 l'Italia si bloccò. Le vecchiette in estasi, la gente accalcata al bar come negli anni 50. Se ancora, in quei sacrari verticali che sono le salite, la gente mette cartelli per ricordarlo significa che l'eco delle emozioni non si è spenta. Nei suoi confronti c'è una gratitudine che va oltre il rimpianto e la Pietas. È un riconoscimento costante, silenzioso, non appariscente».

Perché secondo lei?

«Non conta solo vincere. Conta soprattutto come lo si fa. E Pantani, rispetto al suo microcosmo, era un alieno. Nel parlare e nella pedalata. Se lo osservi, manifesta un'inesausta stanchezza. Una sofferenza nutrita da pochi sorrisi e nessuna ombra di felicità, neanche sul traguardo. Non ho mai trovato ciclisti che per rilassarsi ascoltassero Charlie Parker, né scalatori che come lui dicessero: "Vado forte in salita per abbreviare la mia agonia". Pantani era di quella pasta. E comunque, come lui non ne vediamo più».

Lei lo aveva soprannominato Fossile.

«O Pantadattilo. Un cardellino di 56 chili in mezzo alle aquile che portava fieramente pizzetto e baffi non diversamente dai primi ciclisti dei tempi eroici alla Petit-Breton. Entusiasmava perché scuoteva dalle fondamenta uno sport di ragionieri o, per essere più precisi, di grandi passisti che andavano forte a cronometro e in salita si limitavano a controllare. Pantani in salita tirava colpi pazzeschi. Non calcolava. Che gli andasse bene o male, giocava d'istinto. Dava retta a pochissime persone. Non distingueva gli amici veri da quelli falsi. Un vizio che alla lunga lo ha progressivamente avvicinato alla fossa».

A chi avrebbe dovuto dar retta?

«A chi cercava di riportarlo in pista perché gli voleva bene e capiva che senza bici, Pantani era mutilato. C'era chi gli riempiva le notti di coca e donne a pagamento per scroccargli denaro o stordirlo. La sua fine, tristissima e molto dolorosa, tecnicamente è un suicidio lungo 5 anni. Con tentativi di riemersione e nuovi inabissamenti. Ed è soprattutto una storia di profonda e straziante solitudine. Se avesse avuto vicino uno come Luciano Pezzi, l'ex comandante partigiano che era stato con Gimondi e che a Marco fece firmare un contratto mentre era in stampelle parlando in romagnolo stretto, Pantani forse sarebbe ancora qui».

La avvertirono a pranzo.

«Ero con mia moglie, in ferie, senza computer. Mi chiamò un collega quasi omonimo, Aligi Pontani: "È morto Pantani". Io di getto: "Che cazzo dici? Inventatene un'altra". Poi dettai a braccio. Un quarto d'ora. L'articolo meno scritto della mia vita».

Lei su Pantani ha scritto molto.

«Anche se a lui è legato il momento più difficile del mio percorso, non ritiro una virgola. Dopo Madonna di Campiglio, quando venne trovato con l'ematocrito impazzito, venni investito dalle lettere. Il senso era: ‘E adesso, dopo averci aiutati a innamorarci di lui, come la mettiamo con la sua squalifica?'. Mi mandarono in crisi. In questo sempre più sputtanato mio mestiere, il rapporto di fiducia con il lettore è tutto. . Avremmo dovuto disporre di provette e intercettazioni. Non le avevamo. Puoi andare a 200 all'ora in autostrada, ma se il Tutor non ti becca sei pulito».

Cosa è cambiato in 10 anni?

«L'unica cosa nuova è che l'ultima disperata invocazione di Pantani: ‘Leggi uguali per tutti', è stata inascoltata. Per qualcuno, un nome a caso Armstrong, si faceva un'eccezione. Per tenergli un bell'ombrello aperto sulla testa si scomodava L'Uci, L'unione ciclistica internazionale. Non Fracazzo da Velletri».

LA VERSIONE DI MUGHINI. Dagospia il 22 marzo 2020.  Caro Dago, sono ventiquattro ore che mi arrovello se sì o no metterci due righe di mio fra gli omaggi a Gianni Mura, uno dei più grandi giornalisti italiani del secondo dopoguerra. In linea di massima non ne avrei nessun titolo, e perché mai una volta l’ho avuto accanto in carne e ossa e perché con il lavoro da giornalista vero e proprio – quello di chi racconta al volo l’evento che sta fuggendo, una gara ciclistica o un mondiale di football – anche con quello non ho avuto né familiarità né predisposizione. E finché non mi sono ricordato di un articolo di Mura che avevo ritagliato nel 1982, al tempo della nostra vittoria al Mundial di Spagna, e che è di certo uno dei più bei articoli di giornale che io avessi mai letto. Era un’intera pagina dedicata a quel che la stampa in generale aveva detto degli “Azzurri” nella prima metà del torneo (quando la nostra nazionale era stata poco più che penosa) e poi nella seconda (dove avevamo schiacciato uno dopo l’altro gli avversari fino al trionfo). Un articolo dalla costruzione sublime. Ecco quel che Mura faceva dire ai giornalisti “prima”. “Zoff? Una frana, a quell’età bisognerebbe avere il coraggio di smettere”. “Gentile? Corre male, come gli arabi, e tira calci terrificanti”. “Cabrini? Dovrebbe fare il fotomodello e non il terzino”. “Collovati? Più preoccupato dei suoi riccioli belli che della sorveglianza del centravanti”. “Tardelli? E’ un fantasma con i nervi sfilacciati e i nervi a pezzi”. “Conti? Pallettaro da oratorio con velleità brasiliane”. “Rossi? E’ uno scandalo che gli diano la maglia azzurra a questo ladro, a questo infamone”. “Graziani? Ci vuole un bel coraggio a portare all’estero uno così, che alla palla non darà mai del tu”. “Bearzot? Non ha mai capito niente di calcio, basta guardarlo in faccia, ha i tic dell’orango”. Più o meno letteralmente questo era stato scritto di loro, giorno dopo giorno. Per poi gli stessi giornali se non esattamente gli stessi giornalisti scrivere così. “Zoff? E’ come Pertini”. “Cabrini? Una folgore sulla fascia sinistra”. “Tardelli? E’ sempre lui, ha schiantato l’Argentina”. “Rossi? Angelo vendicatore, angelo sterminatore, bel morettino mio”. “Bearzot? Non ha sbagliato nulla, neanche una virgola”. E’ un articolo che avrò letto 50 volte in vita mia. Altro che libri e romanzi. E’ toccato ai “tre Gianni” della recente cultura italiana – Gianni Brera, Gianni Clerici, Gianni Mura – di scrivere articoli anziché romanzi, articoli che quanto a pienezza e potenza e raffinatezza letteraria non ammettevano rivali sulla carta. E anche se di questo Brera non si dava pace. “Spero che ai miei figli tocchi una sorte migliore”, mi disse una volta, e voleva dire una sorte migliore che non scrivere di sport sulle gazzette. Ammiravo Mura da decenni quando una volta mi capitò di leggere sulla “Repubblica” che appena lui mi vedeva in televisione subito cambiava canale. Non ricordo se gli replicai con qualche malevolenza. Restai sorpreso e un tantino deluso, e ancora dieci anni dopo ricordai la cosa in un mio articolo. A ora di pranzo mi arrivò una telefonata di Mura, ed era la prima volta che sentivo la sua voce dal vivo. “Ma davvero ho scritto su di te quello che dici?”, mi chiese. Gli risposi che con quella telefonata lo aveva cancellato, era come se non fosse mai esistito. In questi ultimi vent’anni ci mandavamo di tanto in tanto degli sms. Ne ho qui registrato sul telefonino uno mio in cui mi congratulavo con lui per avere difeso Fulvio Collovati da quella idiotissima censura che gli venne appioppata per aver fatto una battutaccia sulle “donne che non capiscono di calcio”. Dimenticavo. Quando sono stato cancellato dall’albo dei giornalisti non ho avuto un cenno di solidarietà da nessuno delle centinaia e centinaia di colleghi con i quali avevo lavorato nei quarant’anni che ho tratto il mio pane dei giornali. Mi mandarono un cenno di solidarietà Luca Ricolfi, Piero Sansonetti, Claudio Sabelli Fioretti e Gianni Mura.

Maradonapoli. Gianni Mura per “la Repubblica” del 5 novembre 1985. Lui doveva fermare la Juve e lui l' ha fermata. La fantasia popolare non tiene conto del collettivo, parola tanto cara a Ottavio Bianchi. Un uomo solo al comando della nave dei sogni: la sua maglia è biancoceleste, il suo nome è Diego Armando Maradona, il suo sinistro non perdona. Dicono abbia scavalcato san Gennaro, che non ha il vantaggio di esibirsi tutte le domeniche. Pallonetto è un quartiere di Napoli, non solo la specialità di Maradona. Quasi tutti i suoi gol sono allegri e beffardi come la sua faccia, che è fin troppo ovvio definire da scugnizzo. Facce come la sua propongono finte Lacoste e finte Vuitton a Sanità, con vero entusiasmo. Che differenza con Jeppson e Krol, profeti venuti dal Nord, elevati a bandiera più per necessità che per convinzione: Napoli o altrove, per loro, era lo stesso. Forse Sivori s' avvicinava a Maradona, per doti giocolieristiche, ma con una carriera alle spalle, mentre Maradona, tra tante cose, ha anche l' età dalla sua. Adesso non è più importante sapere se Maradona è uomo-squadra: è uomo-città. Non è un giocatore del Napoli, ma di Napoli. Non il capitano del Napoli, ma di Napoli. E come tale si esprime. Non è colpa sua se spesso gli fanno domande terribilmente banali (ma anche la gioia e il dolore, a pensarci bene, sono banali). Attenzione a come lui parla: come un ministro, un ambasciatore, un uomo di potere e responsabilità. Responsabilmente parla, con profonda sincerità e singolari intuizioni («piaccio tanto ai bambini perché anch' io sono un bambino»). Maradona è quello che sembra e sembra quello che è. Maradona parla per tutti: per Ferlaino e Allodi, per Marino e Bianchi, per Ciccillo e Pascalone. Maradona può. Napoli può. Il Napoli ha perso con la squadra povera di Torino, ma ha battuto quella ricca, quella imbattibile, quella recordosa. L' ha battuta in una giornata nordica, pioggia e fango, quando anche Dio sembrava juventino, il campo pesante in favore delle truppe corazzate e contro i giochi leggeri del piccolo re. Macché, anche in un calcio da fermo si esprime il talento balistico, ecco un altro gol da violinista, un trillo ad effetto, con Maradona la palla difficilmente è scaraventata in porta con un tiro secco e forte, ci va come un uccellino, in volo lento e sempre nuovo. Il figlio del falegname di Lanús a Barcellona era un emigrante, a Napoli no. Meglio, è come se in jumbo fosse tornato il nipote di quelli partiti sui bastimenti dal molo dell' Immacolatella, forse non c' era e non c' è tanta differenza fra un basso di Napoli e un barrio di Baires. E certe caratteristiche di Maradona (il senso e la necessità della famiglia numerosa e allargata, la casa che non trova) lo napoletanizzano in proiezione esterna e lo fanno aderire sempre più strettamente alla sua città. C' è molto sentimento nel calcio che Maradona produce, è un razzo nella città dei fuochi. Attorno, però, la maggioranza della squadra è, più che nordica, prussiana. Le dichiarazioni di Maradona si sono fatte più realiste, restando sincere. Lui stesso si è fatto più realista, al punto da calciare un pallone in tribuna per perdere tempo. E sincero, perché ha ammesso di meritare l' ammonizione inflitta da Redini. Maradona uomo-città: come sembrano lontane le frasi demagogiche sui miliardi per lui (tot milioni al chilo) e non per le fogne, non per gli ospedali, come se costruire fogne ed ospedali rientrasse nei compiti di un club di calcio. Maradona, "Na m' adora", certo: ma è difficile valutare chi si sia arricchito di più (non parlo di soldi, chiaramente). Se lui, esprimendosi da primo fra gli uguali, libero di fiorire e di essere come in una gran serra a cielo aperto, o Napoli. Il nord, le industrie: adesso a Napoli l' industria è il pubblico del San Paolo, che non basta a tenerlo tutto: 60 mila abbonati. Napoli canta ma conta, al di là dei giochi di parole e delle giocate di Maradona, del 34 che non esce mai e del 10 che esce a richiesta e dedica la vittoria alla città. Confrontata a Milano, Torino, Roma, Napoli è l' unica grande città indivisa nel tifo e quindi unanime nell' accendersi e nell' aggrondarsi. Non c' è chi piange e chi ride: o di qua o di là. Maradona l' ha capito subito e non ha avuto bisogno di farsi forza, di venirle incontro. Gli è bastato essere se stesso: maglietta, jeans e scarpe da ginnastica, le partite a calcetto, le visite ad ammalati e carcerati. Tutti i campioni del calcio amano il pubblico, a parole, poi ognuno al suo posto. Maradona nei bagni di folla ci guazza come un' anatra, tutti quei tifosi li sente con e per lui come lui è con e per loro, ma sul serio. Altri professionisti del pallone, anche molto bravi, non sono così coinvolti, pur non vivendo sulla torre d' avorio. Non ritengono di farsi coinvolgere, per pudore, per paura o per aridità. Maradona no, è attento e sensibile anche alle voci dal basso: non è uno che ci marcia, ma uno che ci crede. Parlando di Napoli si corre il rischio di finire nel luogo comune, che è poi quello dove molti s' incontrano. Parlando di Maradona, idem. Raramente, credo, il nostro calcio ha mostrato un' adesione così immediata fra l' anima di una città e quella di un uomo (non di una squadra, o almeno non direi, ancora). Anche la lingua aiuta: guappo, guapo, lo capiscono anche a Baires, tango e tammurriata hanno le stesse cadenze. Maradona, artefice magico, estrae dal cilindro del suo piede miracoli a gettone. Meglio non credere più ai miracoli, Maradonapoli è oro; è ora, forse.

Cosa scriveva in onore di Gianni Brera. Quello scontro nella notte tra il 18 e il 19 dicembre del '92. Così se ne andava un grande scrittore e un maestro di giornalismo. Dieci anni da raccontarti che nostalgia, caro Gianni. L'incidente, i personaggi, gli amici, il vino cosa scriverebbe dello sport di oggi? Gianni Mura il 18 dicembre 2002 su La Repubblica. Dicono che la nebbia sia il vestito migliore, nella Lombardia di pianura, e questi sono giorni di nebbia a San Zenone, dove Gianni Brera nacque ed è sepolto, di nebbia anche tra Maleo e Casalpusterlengo, sulla strada dove morì. Sono già dieci anni. Che sono tanti e sono pochi, dipende da come li si è vissuti, chi li ha vissuti. Dieci anni fa non c’ era nebbia, quella notte. Dicono che lui dormisse, dietro. Sicuramente aveva bevuto solo acqua il suo amico che guidava. In questo Brera aveva anticipato di molto il palloncino. Come in Germania e in Scandinavia, o si hanno amici astemi (non è così facile) o uno a turno non beve. Strana la vita, e anche come finisce, in uno speronamento tra navi di terraferma. Gli speronatori si salvano tutti, tutti gli speronati muoiono. Sono andato a vederlo, quel pezzo di strada. Nemmeno due camion riuscirebbero a speronarsi, due macchine sì. Non è giusto, ho pensato. Lo penso ancora, come uno dei Senzabrera che avrebbe amato sentirti raccontare le tue storie e il nostro sport, e non solo quello, a lungo e a lungo. Ecco che sono passato al dialogo, mi viene naturale. Non hai idea di quelli che scrivono o semplicemente mi fermano per la strada e chiedono: ma Brera cos’ avrebbe detto di questo? E questo può essere tante cose: il Pallone d’ oro a Ronaldo, l’ albero di Natale o 4-3-2-1 del Milan, Pantani, il Chievo, la Lazio. Mi usano come un tavolino a tre gambe. Il bello è che anch’ io ogni tanto mi chiedo cos’ avresti detto di Buffon, o di Totti, o di Zidane, o degli ultimi mondiali. Non andandoci, sicuro: già avevi schivato la Corea nell’ ’88, e Tokio ’64 ti era bastata. Ricordi? «Una giapponese di orrenda dolcezza istruiva allieve nell’arte di intingere fiori (mo seh) nella sabbia quarzosa d’ un riquadro. Kokorekè nikè, neh. Ciocciorekè minè, mah. Nennenne, correggeva la maestra. E al fiore secco da campanula vetrata aggiungeva la mimosa la querquedula la blastula la morula e so mare japanica». Avresti chiamato Ronaldo abatone come già avevi fatto con Eusebio? Penso di sì, ma non posso giurarci. Invece giurerei che da tempo avresti scritto un pezzo (ne avevi facoltà) che cominciava così: «Egregi Signori del Calcio, ritengo opportuno segnalarVi che mi avete veramente rotto i coglioni». Capello, il tuo Gran Bisiaco, l’ avresti difeso comunque. E avresti fatto bene: di tutti gli allenatori in attività, era l’unico al tuo funerale. Mi chiedo, ancora, come reagiresti a una critica, forse il termine è eccessivo, insomma a dei colleghi che battezzano come nuovo Riva, nuovo Pelé e nuovo Maradona il primo ragazzotto che indovina due colpi di fila. E a giornali, sportivi e no, che invocando le leggi di mercato di solo mercato fanno leggere, pagine e pagine, arrivi e partenze, il tutto reso più grottesco dal fatto che non c’è una lira, anzi un euro, ma nel caleidoscopio impazzito che è l’ informazione vale tutto e il contrario di tutto. La competenza, mon vieux, alle ortiche. Conta il volume, non nel senso del libro o della stazza. Chi vosa pussée la vaca l’ è sua (Piero Mazzarella, giusto?). E trasportare il faccione su qualunque teleschermo. Te lo dico perché tu, da direttore della Gazzetta, avevi aperto le pagine (anche la prima, per essere precisi) a chiunque, sportivamente parlando, avesse una competenza specifica e un italiano decente. Più di 50 anni fa. Senti queste righe: «Entrato in surmenage, il pedatore si comporta come la scimmia che è in ciascuno di noi quando gli vengon meno i freni inibitori. Sul campo è istrione da fescennino e mattatore drammatico. Al primo colpo inizia le laudi della professione della madre di colui al quale appartiene il gomito o il piede che l’hanno colpito. Il dialogo è serrato e chiama in causa anche i compagni, l’ arbitro e gli avversari. E quando è lui a commettere il fallo, e l’ arbitro lo ferma, subito alza le braccia al cielo, inarca le reni, sbuffa, spergiura. In un paese civile questi lazzi di provocazione verrebbero puniti con l’ espulsione immediata. In Italia sono scoppiati anche gli arbitri, e tutto fila». Tutto fila, in questa direzione, molto più di prima, e questo ti è risparmiato. Tu (vent’ anni fa, venticinque?) t’indignavi, tu che nello sport esaltavi il vir, il combattente leale, fosse Rombo di Tuono o Pinna d’ oro, non so come ti ritroveresti a cantare le gesta di fighettoni montati che comunicano via Internet, che guadagnano quello che Di Stefano non s’è mai nemmeno sognato, che il sabato dicono che siamo una bella grande famiglia e com’ è giusto il turn over (credo che tu avresti coniato qualcosa, al posto di turn over) e la domenica vaffanculano l’ allenatore che li sostituisce a cinque minuti dalla fine. Nemmeno so, ma non importa poi tanto, come ti saresti ritrovato davanti a certi presidenti-padroni delle ferriere (o della melonera), ai morti e feriti da pallone, all’ Epo e al Gh, al dibattito su Recoba per il quale abatino sarebbe già un complimento. A proposito di presidenti, certamente ti sarebbe piaciuto il giovane Campedelli, che ha un’ aria mammolona ma col calice davanti vale un paio di alpini. Non solo per questo. La prima volta che l’ho visto il Chievo andava bene, più o meno un anno fa, e tra le varie cose gli chiesi se avesse rimpianti. E pensavo mi rispondesse (come Rivera): quello di non essere mai stato giovane. Invece disse: uno solo, quello di non poter leggere un pezzo di Brera sul Chievo. L’ avrei abbracciato (ovviamente, non l’ ho fatto) perché era una risposta asciutta e consapevole, piena di nostalgia e di stima. E poi perché l’ avevo già pensato io: come mi piacerebbe leggere un pezzo di Brera sul Chievo, come quelli scritti per la mirabellissima Atalanta, per il Cagliari, per il Verona di Osvaldo Schopenauer Bagnoli, per il Perugia di D’Attoma, per tutte le piccole grandissime squadre che riescono a infilare il loro bastone nelle ruote dorate, per le scarpe grosse e il cervello fino, per quelli che dal loggione arrivano alle prime file, per il riscatto dei poveri o dei meno ricchi, diciamola tutta. Anche Del Neri ti sarebbe piaciuto. Non quello che continua a dire che il primo obiettivo è la salvezza, ma quello che ama parlare dopo l’ ora canonica, come Rocco, quando la luce delle lampade è azzurrata dal fumo e sul tavolo restano le briciole e qualche bottiglia, e si parla per il piacere di parlare, perché comunque c’è una passione condivisa, ‘sto porco pallone, e si sentono meno gli anni e i chilometri. Forse ti piacerebbe anche Cuper e sull’ Inter sapresti tutto (senza scrivere tutto) perché Moratti te lo racconterebbe, per antica tradizione di famiglia, mentre a me non lo racconta. Sembra che stiano tornando di moda le ali, ed è grazie al Chievo. In compenso, Milano è piena di ristoranti giapponesi (cioccioreké miné). Dei tuoi amici osti è morto Franco Colombani, è morto Giuliano Metalli, è morto Alfredo Valli, ma prima ha fatto in tempo a mettere in menù un risotto dedicato a te (coi borlotti). E adesso devo dirti una cosa. Io questo pezzo dei dieci anni ho cercato di schivarlo fino all’ultimo giorno, di dribblarlo come nemmeno Rocco Fotia. Perché credevo di aver detto tutto quello che c’ era da dire nel coccodrillo, e nei pezzi a un anno dalla tua morte, a due e a cinque, e in tutti quelli fatti sulle pagine di Milano, in nome e per conto dei Senzabrera. Adesso l’Arena di Milano, a due passi da casa tua, è dedicata a te, con tanto di lapide, e mi sembra una bella cosa dopo tante figure di merda. Sì, una bella cosa. Hai anche una via a Soveria Mannelli, in Calabria, e una a Roma. Milano è molto cambiata, io direi in peggio ma molti direbbero in meglio. Non parliamo di politica, altrimenti dovrei informarti che l’Italia ha già partecipato a una guerra umanitaria e sta per partecipare a una guerra preventiva. O dovrei immaginare cosa pensi della devolution, tu che hai parlato di Padania prima di altri. Ma già così l’abbiamo tirata per le lunghe. Il pezzo l’ho scritto perché al giornale hanno detto che dovevo scriverlo io, e un po’ di senso del dovere mi rimane (sarà l’eredità del padre carabiniere) anche quando non sono molto d’ accordo. Ma credo che sarà l’ ultimo. In questi giorni di rievocazione si discute sulla tua eredità professionale. Mi sembrano discorsi inutili. Non si misura la vastità di un lago dal numero degli emissari, né l’altezza di una sequoia dal numero di sequoiette che ha sfornato. E quindi nel nostro paesaggio professionale tu vali Ayers Rock, punto e basta. Averti letto e poi conosciuto è stata una fortuna e una ricchezza, averti perso un dolore. I ricordi pubblici sono faticosi, quasi imbarazzanti, preferisco ricordarti rileggendoti o bevendo un bicchiere di Barolo (scusa, ma ultimamente mi piace più del Barbaresco) o tossendo con la prima sigaretta del mattino. Per il resto, vale la promessa da Malta: continuerò a portarti in giro, ma selezionando i luoghi. L’ erba di San Siro ti farebbe smadonnare, il prossimo Tour promette bene.

·        Joaquin Peiró è morto.

Da gazzetta.it il 18 marzo 2020. È scomparso a 84 anni Joaquin Peirò, per due stagioni (dal 1964 al 1966) attaccante della Grande Inter di Helenio Herrera, con cui vinse la Coppa dei Campioni e la Coppa Intercontinentale nel 1965. Indossò anche le maglie di Torino e Roma (con cui vinse una coppa Italia nel 1969), oltre che dell'Atletico Madrid (una Coppa delle Coppe nel 1962) e della Nazionale spagnola. Era il numero 9 della filastrocca mandata a memoria da generazioni di interisti (e non solo): Sarti, Burgnich, Facchetti,Bedin, Guarneri, Picchi; Jair, Mazzola, Peirò, Suarez, Corso. Arrivato all'Inter nell'estate 1964, aveva preso il posto di Aurelio Milani al centro dell'attacco nerazzurro: il suo nome sarà legato per sempre al celeberrimo gol segnato al Liverpool nella semifinale di Coppa Campioni 1964-65, quando i nerazzurri furono chiamati a rimontare a San Siro la sconfitta per 3-1 subita ad Anfield nel match d'andata. Peirò passò alla storia con un leggendario colpo d'astuzia, sorprendendo alle spalle il portiere Clemence che stava facendo rimbalzare il pallone, soffiandogli la sfera e segnando a porta vuota il gol del 2-0. L'Inter passò il turno e vinse in finale contro il Benfica la sua seconda Coppa dei Campioni, bissando il successo dell'anno prima anche nell'Intercontinentale contro l'Independiente: e anche lì Peirò risultò decisivo, aprendo le marcature nel 3-0 a San Siro che indirizzò il doppio confronto.

Joaquin Peiró è morto: addio all’ex campione della grande Inter di Herrera. Pubblicato mercoledì, 18 marzo 2020 su Corriere.it. È scomparso a Madrid all’età di 84 anni Joaquin Peiró, ex grande campione di Inter, Roma e Torino oltre che allenatore. Spagnolo, nato a Madrid nel 1936, resterà per sempre impresso nella storia del calcio il gol di rapina fatto con la maglia dell’Inter al Liverpool nella semifinale di Coppa dei campioni del 1965 (palla rubata al portiere che stava palleggiando e rete convalidata che consentì ai nerazzurri la rimonta per approdare alla finale con il Benfica). Proprio in maglia nerazzurra Peiró conquistò una Coppa dei Campioni e due Coppe intercontinentali., oltre a due campionati. Peiró ha debuttato da professionista con il Real Murcia nel 1954, nella seconda serie spagnola, per passare l’anno successivo all’Atletico Madrid in prima categoria. Con la maglia dei Colchoneros ha giocato per sette anni, conquistando due Coppe di Spagna e una Coppa delle Coppe: 221n incontri con 127 reti in biancorosso prima di arrivare in Italia e indossare le maglie di Torino, Inter e Roma. Con i giallorossi ha collezionato più di 100 presenze e vinto una Coppa Italia. In Nazionale ha partecipato alle edizioni 1962 e 1966 dei Mondiali. Da allenatore ha guidato il Figueres, il Real Murcia e il Malaga, prima di ritirarsi nel 2004. Ha anche allenato l’Atletico Madrid per una stagione (1988/89).

Peirò, la Grande Inter e quel leggendario gol al Liverpool che ricorda anche chi non c’era. Pubblicato mercoledì, 18 marzo 2020 su Corriere.it da Carlo Baroni. Non erano in tanti. Ci voleva coraggio. Peggio, incoscienza. Non c’era nessuna Var a proteggere gli stinchi. I calci te li prendevi e te li tenevi. Solo i campioni veri tenevano abbassati i calzettoni. Sivori e Corso, per esempio. O i brocchi. Joaquin Peirò non era né l’uno, né l’altro. Ma i calzettoni li teneva giù lo stesso. Se n’è andato in un giorno di quasi primavera, il 18 marzo. Aveva 84 anni. Quando il mondo aveva la testa altrove. Come quando lui usciva dal campo e non c’erano applausi o fischi. Tutti i tifosi a stropicciarsi gli occhi per i suoi compagni. Quelli della Grande Inter. Che a pensarci forse, senza di lui sarebbe stata un po’ meno grande. Gli bastò un gol per mettere in cornice la carriera. Come quegli scrittori che scrivono solo un libro di successo e poi si nascondono in qualche posto sperduto. Il gol di Peirò lo ricordano tutti. Persino quelli che non c’erano. La serata era giusta, l’impresa inevitabile: 12 maggio 1965, stadio di San Siro.Coppa dei campioni. Semifinale. L’Inter deve rimontare tre gol al Liverpool, che otto giorni prima ha vinto 3-1. Sono quelle volte che la gente ci crede senza sapere perché. Per accendere la miccia della remuntada, dopo il gol di Corso, ci voleva un colpo di genio. Il portiere Lawrence fa rimbalzare la palla prima di rinviarla. Uno, due e alla terza volta il piede svelto di Peirò gliela porta via e segna a porta vuota. Il giocatore inglese è prima inebetito, poi incredulo. Infine impazzito. Protesta con tutta la squadra. Ma non c’è fallo e non c’è inganno. L’Inter dopo Herrera ha trovato un altro mago in campo. Facchetti completerà l’impresa con il 3-0 che qualificherà l’Inter alla finale, che poi vincerà 1-0 col Benfica il 27 maggio, sempre a San Siro. I giovani uomini che quella sera erano allo stadio racconteranno mille volte ai figli di quel gol d’astuzia. E i bimbi lo replicheranno nelle partitelle all’oratorio. Fare il Peirò era figo per quei ragazzini che vivevano di sogni e pallone. Sandro Mazzola ricorda anche le trasgressione di quello spagnolo apparentemente triste. «Con lui – rivela – facevamo ogni tanto una fuga. Herrera, infatti, in ritiro ci concedeva pochissimo, sul bere poi era inflessibile. Al massimo potevamo concederci un bicchiere di vino durante il pasto. Così Peirò veniva da me e mi diceva: “Cervesiña?” (birretta?). E fuggivamo insieme per una bevutina segreta». Peirò era lo straniero di riserva. Chiuso da Jair e Suarez. Con la sua aria dinoccolata e la faccia da spagnolo triste/indolente. Solo 25 partite con l’Inter ma quanti trionfi. Una meteora che illuminò a giorno il cielo nerazzurro. Arrivato dalla Spagna giocò prima nel Toro e poi nella Roma. E disputò anche i Mondiali del 1962 con le Furie Rosse. Ma sono quasi dettagli per chi la leggenda l’aveva scritta in una notte sola.

Il mondo del calcio piange Joaquin Peirò: vinse la Coppa Campioni con l'Inter. Joaquin Peirò è morto all'età di 84 anni. L'attaccante spagnolo in carriera ha vestito le maglie di Atletico Madrid, Torino, Roma e della Grande Inter di Herrera. Marco Gentile, Mercoledì 18/03/2020 su Il Giornale. Il mondo del calcio italiano e mondiale piange la morte del grande Joaquin Peirò, giocatore che tra il 1962 e il 1970 ha militato in Italia tra le fila di Torino, Inter e Roma. Lo spagnolo di Madrid è venuto a mancare nella giornata di oggi all'età di 84 anni e fu uno degli attaccanti più forti della sua epoca. Peirò ebbe il privilegio di poter giocare nell'Inter allenata dal mago Helenio Herrera e fu grande protagonista vincendo la Coppa dei campioni del 1965 e due coppe interncontinentali nel 1964 e nel 1965. Non solo, con i nerazzurri vinse anche due scudetti mentre nel suo palmares sono annoverati anche due coppe di Spagna con l'Atletico Madrid, club nel quale ha giocato per ben otto anni, una Coppa Italia con la Roma nel 1969 e una coppa delle Coppe sempre con il club spagnolo. Peirò fu anche nel giro della nazionale spagnola per dieci anni dal 1956 al 1966 con 12 presenze e cinque reti al suo attivo.

Una squadra magica. L'Inter di Helenio Herrera è entrata di diritto nella storia non solo per le imprese sportive ma anche per un modo nuovo di concepire il gioco del calcio. Scorrendo la formazione nerazzurra dell'epoca si nota come ci fossero tantissimi fuoriclasse e diversi ottimi giocatori. Peirò era il numero 9 della filastrocca interista nel ricordare l'Inter stagione 64-65: Sarti, Burgnich, Facchetti, Bedin, Guarneri, Picchi; Jair, Mazzola, Peirò, Suarez, Corso. Peirò arrivò all'Inter nell'estate del 1964 al posto di Aurelio Milani, morto nel 2014, e che ne ereditò così la maglia numero 9. Il nome dello spagnolo rimarrà per sempre impresso nelle menti dei tifosi nerazzurri per il gol segnato nella semifinale di Coppa dei Campioni agli inglesi del Liverpool quando l'Inter fu chiamata a rimontare al Meazza il 3-1 rimediato all'andata in Inghilterra. La squadra di Herrera vinse per 2-0 il ritorno qualificandosi alla finale ma il gol di Peirò passò alla storia per la sua astuzia dato che approfittò di una disattenzione del portiere Clemence che fece rimbalzare la palla nel tentativo di rinviare con l'attaccnte dell'Inter abile a soffiargli la sfera e a depositare in rete per il gol che valse la qualificazione. L'Inter vinse poi la finale contro il Benfica con la rete di Jair e Peirò fu decisivo anche nella coppa Intercontinentale dello stesso anno quando realizzò l'1-0 contro gli argentini dell'Indipendiente con il match che terminò per 3-0.

·        Addio Eduard Limonov.

Addio Eduard Limonov, lo scrittore-combattente russo che ispirò Carrère. Pubblicato martedì, 17 marzo 2020 su Corriere.it da Fabrizio Dragosei. È morto oggi a 77 anni il discusso e controverso scrittore, poeta e polemista Eduard Limonov. Era da tempo in cura per un tumore e domenica era stato ricoverato per un’emorragia. Una infiammazione seguita a due interventi ha avuto la meglio sul suo fisico debilitato. Quattro anni fa, quando era finito in ospedale per una ischemia aveva scritto ai suoi fan: «Dove sono stato? Quasi nell’aldilà. Ma i miei nemici non sperino che me ne vada». Questa volta il combattente, il nazional-bolscevico, non ce l’ha fatta. Lo scrittore era uno dei leader dell’opposizione, accettato anche dai democratici nonostante il suo passato burrascoso. Nato col nome di Eduard Savenko, era stato negli anni tanto di estrema sinistra quanto di estrema destra nazionalista (contemporaneamente). Tornato in Russia dopo lo scioglimento dell’Urss nel 1991, aveva fondato il partito nazional-bolscevico, oggi disciolto. È stato vicino ai nazionalisti serbo-bosniaci, ai nazionalisti dell’Abkhazia e a quelli della Transdnistria e con tutti quanti ha pure combattuto, Nel 2001 fu condannato in Russia a quattro anni di carcere per acquisto illegale di armi. Limonov, la sua vita spericolata e fuori da ogni regola, sono stati al centro di un romanzo dello scrittore francese Emmanuele Carrère che è uscito nel 2011 ed ha avuto grande successo in Francia e in Italia. In questi due Paesi l’anticonformista Limonov è diventato un personaggio popolarissimo. E fino ad oggi lo scrittore, poeta, combattente nazionalista, ex punk, ex teppista, ha continuato ad amare la provocazione, nonostante l’età. Una provocazione che sembrava solo temperata dal desiderio di non alienarsi le simpatie di quei paesi che lo avevano scoperto grazie al racconto della sua vita fatto da Carrère. Una vita «di merda», come lui stesso l’aveva definita. Il poeta russo e premio Nobel Josif Brodskij (che Limonov detestava) lo paragonò a uno dei personaggi più negativi di Dostoyevskij, Pavel Smerdyakov de I fratelli Karamazov, uomo viscido e freddo che odiava tutti. Limonov ce l’aveva a morte con Putin, « stanco, insicuro, spento», come amava ripetere. Poi però approvò in pieno l’annessione della Crimea decisa dal presidente. Lo scrittore rifiutava di essere inchiodato a quello che aveva detto in passato. Alla bandiera rossa come a quella nazista con al centro una falce e martello al posto della svastica che scelse come simbolo del suo partito. Dopo che quella storia si era chiusa con un fallimento, lui quasi ci scherzava su: «Ero nazionalista allora, ma adesso credo che la Russia dovrebbe essere un paese multietnico. E che laddove la maggioranza lo voglia, si dovrebbe consentire l’applicazione della sharia». Rinnegava il passato e si crogiola nella celebrità raggiunta grazie a Carrère che sentì parlare di lui in Francia nei primi anni Ottanta, quando il nostro era una mascotte da salotto di un certo piccolo mondo letterario parigino, secondo una felice definizione. Una fama che Limonov definisce «meglio di un premio Nobel, che adesso è così svalutato». Rinnegava, ma non tutto. Come il suo passato di combattente «per la libertà». Per quella dei russi dell’Abkhazia e della Transnistria contro i georgiani e i moldavi. E per la presunta libertà dei serbi di Bosnia, autori dei massacri più sanguinosi degli ultimi anni, da Sarajevo a Srebrenica, con le “imprese” degli uomini di Ratko Mladić e del suo presidente Radovan Karadžić. Limonov fu filmato mentre chiacchierava (“da giornalista”, diceva) con Karadžić sulle alture attorno a Sarajevo dalle quali i cecchini uccisero migliaia di abitanti della capitale bosniaca. E poi mentre sparava raffiche di mitragliatrice. «Non verso la città, ma in un poligono», precisava in continuazione a interlocutori sempre più scettici. Ma non ha mai smentito di aver combattuto «in più guerre»; anzi, ne andava fiero. Cosa pensava di Karadžić? «Un vero eroe, che ho avuto la fortuna di conoscere». E il massacratore Mladić? «Generale-contadino, un uomo dal viso semplice». Di lui ha detto oggi la scrittrice Lyudmila Ulitskaya: Da giovane era uno scrittore geniale. Poi, quando l’ho frequentato, non mi è sembrato l’uomo più intelligente del mondo; ma era dotato di grande talento».

È morto Eduard Limonov, scrittore e politico russo. Era diventato famoso come protagonista del romanzo omonimo di Carrère. Rosalba Castelletti il 17 marzo 2020 su La Repubblica. "Oggi, 17 marzo, è morto a Mosca Eduard Limonov. Tutti i dettagli saranno diffusi domani". Con uno scarno comunicato sul suo sito Internet, il partito Altra Russia ha comunicato la morte del suo fondatore. Il politico e scrittore Eduard Veniaminovich Savenko, in arte e in battaglia Eduard Limonov, aveva compiuto 77 anni lo scorso 22 febbraio. "È rimasto in contatto fino all'ultimo momento, ha parlato, potevamo scrivergli", ha aggiunto su Telegram Serghej Shargunov, vice della Commissione per la Cultura dando notizia della morte in una clinica moscovita. Secondo il canale Telegram "Mash" Limonov era stato ricoverato il 15 marzo in una clinica privata dopo "una lunga battaglia oncologica" e in giornata aveva "subito due operazioni". "Prima ha avuto problemi alla gola, poi è partita un'infiammazione". Autore di oltre 70 libri, era diventato famoso come personaggio del romanzo di Emmanuel Carrère che porta il suo nome, tradotto in 23 lingue. Tutta la sua biografia, del resto, era sempre stata un intreccio tra vita e letteratura. Nato nel 1943 a Dzerzhinsk, nella regione di Gorkij (oggi Nizhnij Novgorod), Limonov cresce a Kharkov nell'odierna Ucraina. Un'adolescenza da teppistello di strada che scrive poesie che definisce "d'avanguardia", ma che gli editori sovietici rifiutano. Dopo mille lavoretti a Mosca, nel 1974 emigra negli Stati Uniti. L'autoesilio a New York, la vita da vagabondo che finisce per diventare maggiordomo di un milionario, le sue esperienze sessuali etero e omo, sono il tessuto del suo primo romanzo: Il poeta russo preferisce i grandi negri. E' così che, sbarcato a Parigi all'inizio degli anni Ottanta, diventa l'idolo dei circoli parigini come racconta in Domare una tigre a Parigi e nel 1987 ottiene la cittadinanza francese. Ma crolla l'Urss e crolla anche la fama in Occidente di Limonov perché, mentre il mondo osanna la perestrojka, lui chiede che Gorbaciov venga messo a morte. Si scopre inoltre che ha imbracciato il fucile insieme a Karadzic. Torna in Russia e si lancia in politica. Nel 1994, insieme al filosofo Aleksandr Dugin, al musicista Egor Letov e al compositore Serghej Kurekhin, fonda il Partito nazional bolscevico, oggi fuorilegge, dalla bandiera nazista con la falce e martello al posto della svastica. E finisce due anni (il 2002 e il 2003) in carcere. Nel 2010 una nuova avventura politica: il partito Altra Russia al fianco dello scacchista Garri Kasparov. Seguono gli anni delle passeggiate di "Strategia 31", ogni 31 del mese in nome dell'articolo della Costituzione che tutela il diritto alle riunioni pacifiche, e delle oceaniche manifestazioni anti-Putin in piazza Bolotnaja. Sempre dal lato opposto della barricata. E sempre autore prolifico. Solo venerdì scorso aveva annunciato sulla sua pagina Facebook di aver firmato un contratto per un nuovo libro con la casa editrice Individuum. "Il volume è già stato scritto", aveva scritto. Uscirà postumo. Già quattro anni fa era stato ricoverato in rianimazione nel reparto di neurochirurgia. "Sono stato quasi nell'aldilà, ma ora sto bene", aveva scritto sul suo blog dal suo letto d'ospedale per rassicurare i suoi fan. Stavolta invece solo silenzio.

Lastampa.it il 17 marzo 2020. È morto lo scrittore e militante Eduard Limonov. Lo annuncia il suo partito, secondo quanto riporta l'Interfax. Poeta di 77 anni, autore di romanzi auto-biografici che hanno riscosso successo in Francia, Russia e altri Paesi, guerrigliero nella Guerra civile jugoslava al fianco dei serbi, fondatore con Alexander Dugin e leader del Partito Nazional Bolscevico (NBP, successivamente messo al bando), si descrive come un nazionalista moderato, socialista "della linea dura" e attivista dei diritti costituzionali. Come avversario politico di Vladimir Putin ma anche dei neocomunisti e alleato dell'ex campione mondiale di scacchi e attivista liberale Garri Kasparov, Limonov è uno dei leader del blocco politico L'Altra Russia e fondatore del partito omonimo, erede legale del NBP.

Vittorio Macioce per il Giornale il 17 marzo 2020. Eduard Limonov probabilmente non esiste. Non come tutti gli altri umani, perlomeno. Non lo afferri, perché lui cambia, evapora, riappare, scappa e ritorna. È un mutaforma. È Eduard Veniaminovich Savenko, il figlio del commissario del popolo, del cekista con doppia vita, doppia famiglia, e notti insonni per i sensi di colpa. È il teppistello di Dzerzhinsk, la città industriale sul fiume Oka, non troppo lontano da Gorky. È il bohémien newyorkese che si atteggia a punk e per sopravvivere si fa sodomizzare da un nero. È il leader del partito nazional bolscevico e il fondatore del giornale Limonka, come una bomba a mano, a forma di limone. Naturalmente è anche il personaggio del romanzo di Emmanuel Carrère. Limonov lo puoi solo inseguire, come adesso, che sta a Roma e si racconta con in mano il suo nuovo libro: Zona industriale (Sandro Teti editore). È l' ultima immagine, per ora, che vuole dare di sé.

Ora scopriamo che ha un fratello.

«A quanto pare sì. È stata una sorpresa anche per me. Ha bussato una notte nella mia casa di Syry, il quartiere dove cartografo la metamorfosi della Russia e mi ha detto: sono il figlio di tuo padre».

Avete passato una notte a specchiarvi nello stesso padre. Poi non vi siete più visti, perché?

«Perché siamo russi. Voi italiani siete diversi, la famiglia, il sangue. Noi brindiamo al nostro destino».

Ha mai più incontrato Carrère?

«Certo. Tre volte, almeno».

Avete parlato del romanzo?

«No, anche perché io ho letto solo le prime 45 pagine. È una sua opera. Non deve piacermi. Carrère mi ha visto così, io non mi vedo come mi descrive, ma non è importante perché lui per me ha fatto una gran cosa. Mi ha presentato al pubblico di massa. Il suo romanzo è stato tradotto in 35 lingue. Ha avuto un successo strepitoso e impensato per lo stesso Carrère e, dunque, per me».

Chi è Limonov?

«Dipende da come mi sveglio la mattina».

Personaggio o autore?

«Io sono una persona in perenne mutamento e non credo sia possibile afferrarmi o rinchiudermi in qualche formula facile. Scrittore, personaggio, politico sono solo etichette che servono a rassicurare gli altri. A me piace evolvermi, ogni giorno, fino alla fine».

Ha rimpianti?

«No. Sono inutili».

Cosa le pesa di più della vecchiaia?

«Che qualcuno mi dica vecchio. Lo sono?».

Solo per l' anagrafe e la burocrazia.

«Appunto, quindi chi se ne frega. Sto bene, benissimo, sto da Dio. Mi sento al massimo della mia potenza».

Come il Faust di Goethe. Si vede simile a lui?

«A dir la verità, è da poco che ho compreso la sua grandezza, e proprio alla mia età, sono finalmente riuscito a comprendere davvero il dilemma di Faust. Quando, da giovanissimo, lo lessi per la prima volta, rimasi piuttosto deluso per il modo antiquato con cui si svolgeva la trama. Oggi, rileggendolo, il Faust mi appare la parabola di un uomo che vorrebbe allungare la propria vita all' infinito riempiendola di un senso superiore».

Lei si sente più russo o europeo?

«Io sono russo, ma vi ricordo che in Europa ci sono 118 milioni di russi. Di quale Europa poi stiamo parlando? L' Europa è tante cose. È la Ue. È l' euro. È l' Europa di Goethe e l' Europa che finisce agli Urali. È l' Europa con la Russia al centro».

Zona industriale è il ritratto delle sue ragazze. Cosa le hanno lasciato?

«Due figli».

Addio a Limonov, il D’Annunzio russo: l’esteta armato e i suoi viaggi in Italia. L’Italia nelle pagine del geniale autore. Michele De Feudis 19 Marzo 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Limonov (22 febbraio 1943–17 marzo 2020) è stato quasi un D’Annunzio russo, senza però avere una sola Fiume, ma più fronti di lotta. Scrittore e politico - ha fondato prima il Partito nazional-bolscevico con l’eurasista Aleksandr Dugin e poi l’Altra Russia - è riuscito come il Vate a trasformare la sua vita in un’opera d’arte. Ogni poesia o romanzo per Eduard è sempre stato intarsiato con una imprevedibile tensione autobiografica. Aveva una scrittura attraente perché insieme intima e gelida, figlia di una esistenza estrema, anticonformista e distante da ogni materialismo. Era stato in Italia in più occasioni e aveva raccontato il Belpaese con suggestioni folgoranti nel Libro dell’acqua (Alet), la sua opera più originale perché salda affreschi paesaggistici a sfumature sentimentali e passioni amorose. Descriveva con dettagli ora truci ora pieni di umanità l’Adriatico come il Tevere, Ostia e le lande pasoliniane o la Fontana di Trevi a Roma (tra il 1974 e il 1982), accompagnato dall’amata Elena Scapova (moglie che lo lasciò per diventare in seguito vedova di un ricco italiano). Dall’Italia passava alla Moscova nella capitale russa, tinteggiata mentre sfilava in corteo con decine di giovani che sventolavano il vessillo rosso con al centro la Limonka, la bomba a mano a forma di limone, che diede il nome alla testata che dirigeva. In Italia era tornato con una certa frequenza negli ultimi anni, dopo la celebrità che gli aveva donato la biografia Limonov (Adelphi) scritta da Emmanuel Carrère, tra fiere del libro e ospitate nei circoli identitari (come Terra Insubre), per presentare Zona industriale (Sandro Teti). Politicamente la sua linea era tracciata in Drugaya Rossiya, manifesto dove coesistevano Julius Evola e Lenin, Drieu La Rochelle e Gorky. I suoi partiti però non ebbero successo, anche se era apprezzato dalla giornalista Anna Politkovskaja, che ne elogiava il coraggio civile rispetto al conformismo filogovernativo (una costante in tutti i sistemi politici del nostro tempo). Uomo in rivolta, spregiudicato nel fare proprie le battaglie irredentiste più disparate, «amico di Karadzic, Milosevic, Mladic», ora - lo Zeitgeist segna punti inarrivabili - corre il rischio di diventare icona pop, non solo per il suo abbigliamento da eterno punk e per la parlantina tagliente (in Italia solidarizzava con le forze sovraniste), ma soprattutto perché gli ha dedicato un post anche il cantante Fedez. E per evitare il rapido declino dopo l’emozione social è utile ricordare che in italiano sono disponibili alcune sue opere fondamentali, come Diario di un fallito (Odradek), Eddy-baby ti amo (Salani, 2005), o Il Boia (Sandro Teti). La sua vita avvincente ha avuto schegge irriducibili all’esperienza di un intellettuale borghese: è stato insieme politico, gigolò, teppista giornalista, galeotto, struggente amatore dalle latitudini più imprevedibili... Declinava in maniera irruente il patriottismo russo, con una mai celata nostalgia dell’Urss («è il nostro Impero romano, noi continuiamo a guardare al nostro passato con orgoglio»). E non aveva paura. Ogni mese scendeva in piazza per contestare il governo russo (da posizioni social-patriottiche) e veniva sempre incarcerato, come gli era capitato qualche anno prima per una avventura sovversiva. Il penitenziario lo considerava «un monastero», e nei suoi libri si ritrovano elementi comuni con le descrizioni dell’universo detentivo di Adriano Sofri. Una volta libero, riprendeva la strada incendiaria, riattualizzando all’ombra della Madre Russia le intuizioni dei tedeschi Niekisch o Strasser. Aveva una vocazione nichilista di fondo: «A me personalmente piace solo scrivere, ma neanche sempre. Preferisco pensare. Ricordare le poesie. Prendere il sole. Fare l'amore oppure organizzare la rivoluzione». È stato, in conclusione, «un esteta armato», secondo la definizione codificata nell’omonimo libro cult dell’ambasciatore Maurizio Serra. Come «il fascista Drieu, il gollista Malraux e il comunista Aragon», ha incarnato la ribellione all’edonismo, praticando la via della libertà come forza mitopoietica. È stato un intellettuale a tutto tondo, sondando, scoprendo e raccontando territori inediti prima degli altri, rischiando in proprio, coerente con la sua giovinezza. Chi può dire di aver fatto altrettanto tra i ricchi autori di best-seller in Occidente?

·        Se ne va Stuart Whitman.

Marco Giusti per Dagospia il 17 marzo 2020. Ve lo ricorderete protagonista di grandi western come “Rio Conchos” di Gordon Douglas o “Comacheros” di Michael Curtiz, ma anche di noir come “Sindacato assassini” di Stuart Rosenberg o di film di ultragenere come “Il massacro della Guyana” del messicano René Cardona jr dove era il terribile reverendo James Johnson, quello dell’aranciata avvelenata, o de “La donna della calda terra” di José Maria Forqué a fianco di Laura Gemser, la Emanuelle nera. Se ne va Stuart Whitman, 92 anni, forse non così popolare come altri attori del tempo, ma attivissimo dagli anni ’50 fino agli anni ’90, in grado di interpretare sia personaggi eroici in western e film di guerra, ma anche di reggere ruoli molto più impegnativi accanto a star come Joanne Woodward, Simone Signoret, Maria Schell, Ben Gazzara, Rod Steiger. Ebbe anche una nomination all’Oscar come protagonista per “Il marchio” di Guy Green, dove interpretare un uomo accusato di pedofilia che esce dal carcere e stenta a riprendersi la sua vita. Alto, aitante, sportivo, era stato un boxeur in tempo di guerra vincendo ben 23 incontri, figlio di immigrati ebrei di origine russa e polacca, nato a San Francisco nel 1928, Stuart Whitman, tornato dalla guerra, si spartì fra il teatro e piccoli ruoli nel cinema. Negli anni ’50 lo troviamo in ruoli anche minimi in western come “Il traditore di Fort Alamo” e “I sette assassini” di Budd Bietticher, “La campana ha suonato” di Allan Dwan, mélo come “Rapsodia” di Charles Vidor, war movie come “Commandos” di William Wellman e “China Doll” di Frank Borzage. Il primo buon ruolo arriva con “Sei colpi in canna” di Don Siegel, dove lo vediamo a fianco della stella giovanile Fabian. Gli va decisamente meglio col peplum “La storia di Ruth” di Henry Koster dove è protagonista assieme alla sconosciuta Elana Eden. Il film, decisamente dimenticato, è stato rispolverato da poco da Guillermo Del Toro nel suo “La forma dell’acqua”. Ma i film che lo lanciano davvero sono “Sindacato assassini” di Suart Rosenberg, dove appare per la prima volta Peter Falk, e “Il marchio” di Guy Green dove recita a fianco di Maria Schell e Rod Steiger e verrà addirittura candidato all’Oscar. Negli anni ’60 seguita a avere ottimi ruoli sia in film drammatici, come “Tre passi dalla sedia elettrica” di Millard Kaufman o “Elettroshock” di Denis Sanders, sia in film di genere, come “La carovana dei coraggiosi”. Michael Curtiz lo dirige sia in “Comaceros”, dove recita a fianco di un monumento come John Wayne e di Lee Marvin, sia nel suo “Francesco d’Assisi” girato in Italia con Bradford Dillman protagonista. Lo ricordiamo notevolissimo in uno dei grandi western della nostra infanzia, “Rio Conchos”, dove divide la scena con Richard Boone, Tony Franciosa e l’ex giocatore di rugby Jim Brown. Non so quante volto lo abbiamo visto allora. Lo troviamo anche nel superautoriale “Sweet Hunters” del brasiliano Ruy Guerra a fianco di Sterling Hayden e Susan Strasberg e nel superstravagante “Sei dannati in cerca di gloria” del vecchio jean negulesco girato addirittura in Iran, per non parlare dell’avventuroso di Cy Endfield “Le sabbie del Kalahari” o dello spaghetti western “Capitan Apache” di Alexander Singer, girato in Spagna, dove recita a fianco di Lee Van Cleef. Negli anni ’70 e ’80 fa di tutto, molta tv e molti film stracult, come “Shatter”, iniziato da Michael Carreras e finito da Monte Hellman,  il western-horror “White Buffalo” di J. Lee Thompson con Charles Bronson, due horror notevoli come “Ruby” di Curtis Harrington, e “Quel motel vicino alla palude” di Tobe Hooper, addirittura “CrazyMama” di Jonathan Demme con Cloris Leachman, il primo film da regista di Fred Williamson, “Il cobra nero”, pura blackploitation. Alberto De Martino lo dirige in canada nel bel poliziesco “Una magnum speciale per Tony Saitta”, dove è il protagonista, Tony Saitta, a fianco di star come Martin Landau, John Saxon, Gayle Hunnicutt. Forse non in grado di reggere da solo un ruolo da grande protagonista, Stuart Whitman, come altri attori dello stesso tipo, penso a James Garner, era ottimo sia come co-protagonista a fianco di grandi nomi, da John Wayne a Ben Gazzara, sia come co-protagonista a fianco di donne forti, come Simone Signoret in “Il giorno e l’ora” di René Clement, ma anche bravissimo in ruoli psicologicamente più forti. A differenza di tanti suoi colleghi del tempo, che dilapidarono gran parte di quello che avevano guadagnato soprattutto con matrimoni e divorzi, malgrado ebbe ben tre mogli e quattro figli, Whitman si vantava di aver fatto ottimi investimenti , tanto da aver messo da parte alla fine degli anni ’90 qualcosa come 100 milioni di dollari con i quali visse più che bene assieme alla sua terza e definitiva moglie.

·        E' morto l'architetto Vittorio Gregotti.

Addio a Gregotti, l’illuminista dell’architettura che amava la città. Pubblicato domenica, 15 marzo 2020 su Corriere.it da Pierluigi Panza. Sospesa tra culto dell’immagine e richiami, raramente autentici, all’inclusione e all’impegno, l’architettura è oggi molto lontana da quell’autonomo «razionalismo critico» in cui Vittorio Gregotti cercò di collocarla per tutta la sua vita. Nato a Novara nel 1927 da una famiglia di industriali, Gregotti, che è stato il maggiore teorico e critico italiano d’architettura della generazione successiva ad Aldo Rossi e uno dei più prolifici progettisti, si è spento domenica 15 marzo all’Ospedale San Giuseppe di Milano a causa del coronavirus. Gregotti si formò a contatto con il mondo industriale e si affermò giovanissimo nel perimetro, allora dominante, dei grandi maestri del Movimento Moderno: nel 1947 soggiorna presso lo studio Perret a Parigi; nel 1951 firma con Ernesto Nathan Rogers la sua prima sala alla Triennale ed è presente al Ciam (Congrès Internationaux d’Architecture Moderne) di Londra; nel ’52 si laurea al Politecnico; nel ’53 è già redattore di «Casabella» (che dirigerà dal 1982 al 1996) e in quegli anni conosce Le Corbusier, Walter Gropius e Henry van de Velde. Dirige anche «Rassegna» con grande libertà intellettuale. Nel 1953 inizia la sua attività professionale, in collaborazione con Ludovico Meneghetti e Giotto Stoppino, e avvia la carriera di insegnante, che lo vedrà professore di Composizione architettonica all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia negli anni cruciali di una visione progressista dell’architettura al fianco di Manfredo Tafuri, poi al Politecnico di Milano, quindi a Palermo e come visiting professor in varie università del mondo. Nel 1960 il Palazzo per Uffici di Novara segna il suo esordio come progettista e l’adesione ai principi del Razionalismo, che saranno sottoposti a una personale riflessione nel suo più celebre libro, Il territorio dell’architettura, pubblicato da Feltrinelli nel 1966 (Gregotti è stato talmente prolifico che è impossibile elencare quanto ha scritto). È un anno fondamentale perché escono anche i «sacri testi» di Aldo Rossi (L’architettura della città) e Robert Venturi (Complexity and Contradiction in Architecture), con i quali l’architettura diventa un fatto culturale. Già in quel suo testo Gregotti delineava il compito da affidare all’architettura: quello di essere un’attività artistica che nasce dall’osservazione critica della realtà e si inserisce in un territorio per apportare miglioramenti sociali attraverso un proprio linguaggio. È un’idea illuministica, vicina al pensiero di Jürgen Habermas: muove dall’analisi negativa della Dialettica dell’Illuminismo di Theodor W. Adorno e Max Horkheimer ritenendo, però, possibile agire per migliorare il progetto incompiuto della Modernità. Progettare significa ordinare la complessità dei sistemi sociali, economici, fisici, tecnici e politici all’interno di un discorso formale, un abaco, anche riconoscibile, come sarà il suo. Nel 1974 fonda con Pierluigi Cerri, Pierluigi Nicolin, Hiromichi Matsui e Bruno Viganò la Gregotti Associati, prima in via Circo poi in via Bandello a Milano, fucina del suo enorme lavoro i cui disegni, progetti ed elaborati sono ora in via di catalogazione al Casva di Milano e, in parte, al Beaubourg di Parigi: l’ambiente progressista e colto parigino resterà sempre il suo buen retiro. Dal 1974 al 1976 è direttore del settore Arti visive e Architettura della Biennale di Venezia: con lui nascono le Biennali di Architettura. Diventa accademico di San Luca dal 1976 (poi di Brera dal 1995, dove interverrà negli spazi della pinacoteca) e moltiplica la sua attività di critico militante: al 1978 risale il suo primo articolo per il «Corriere della Sera» e dal 1984 al 1992 cura la rubrica di architettura di «Panorama». Gli anni Settanta sono quelli delle grandi commissioni pubbliche, specie universitarie: ateneo di Palermo (1969), di Firenze (1972) e della Calabria a Rende (1974); qui compendia architettura e pianificazione del paesaggio con un complesso a forma di lungo pontile lungo la valle del fiume Crati, con edifici cubici, finestrelle quadrate che stilizzano il suo linguaggio (lo ritroveremo nel Campus della Bicocca) e lunghi percorsi, che richiamano l’intervento di Giancarlo De Carlo a Urbino. Il quartiere Zen di Palermo, progettato nel 1969, «non sarà mai finito», come ha più volte ricordato Gregotti: da questa incompiutezza o impossibile gestione segue il rapido degrado delle strutture, che si trasforma in degrado sociale. L’affermarsi della Postmodernità lo vede dall’altra parte della barricata, con l’amico Umberto Eco a far da tramite tra il mondo dell’impegno critico e quello della fine dei grandi récit, del disimpegno postideologico, dell’affermarsi dell’immagine e dell’Ermeneutica sulla Ragione, della riduzione del disegno industriale (poi dell’architettura) a fatto «di moda», esercizio stilistico, merce di consumo, brand. Sono anni in cui progetta molto: una testimonianza straniera ci viene dal Centro Cultural de Belém di Lisbona, costruito con Manuel Salgado, tra il 1988 e il 1993 tra il lussureggiante Monastero dei Gerolamini e l’oceano. Altro esempio, lo stadio Luigi Ferraris di Genova per i mondiali calcio del 1990. Per i suoi critici, Gregotti, uomo d’innata eleganza, diventa il rappresentante di una «aristocrazia» industriale che si può giovare di committenza pubblica e privata di qualità. Tra questi la Rcs, per la quale cura il rifacimento della storica sede del «Corriere della Sera» in via Solferino (conservando l’ala Rosselli e, poi, opponendosi alla vendita) e la Pirelli, per la quale progetta, come vincitore di concorso, la riconversione dell’ex area industriale Bicocca per università, abitazioni, uffici e il Teatro degli Arcimboldi. Quest’enorme intervento (insediati 5 mila abitanti su 676 mila metri quadrati), iniziato nel 1985, si caratterizza per l’organizzazione urbana su una spina centrale e per il posizionamento degli edifici, che rispettano il perimetro di quelli industriali. L’edificio meglio riuscito è la torre di raffreddamento, che nel 2003 Gregotti ingloba in un cubo di 50 metri per 50 sul cui perimetro si trovano gli uffici, distribuiti in modo da essere collegati da passerelle aeree alle sale riunioni. Qui va oltre la severità del suo abaco, offrendosi a una controllata spettacolarizzazione in omaggio alla civiltà industriale. Grande disegnatore, oltreché infaticabile saggista e critico, Gregotti evitò la deriva digitale del progetto. Gli ultimi anni furono dedicati dal suo studio ai macro interventi in Cina e furono quelli, per lui, dei riconoscimenti piovuti da ogni parte. Anche Milano — dove abitava in una bella casa ricca di opere d’arte moderne, ma non contemporanee, e di libri, e dove ospitava da gran signore — due anni fa gli ha dedicato un’antologica al Pac (a cura di Guido Morpurgo). Con lui se ne va il maggior rappresentante e la maggior voce critica contro l’abbandono del progetto Moderno.

E' morto l'architetto Vittorio Gregotti. E' stato uno dei padri della moderna architettura italiana. Aveva 92 anni. Era ricoverato per una polmonite. Ilaria Zaffino il 15 marzo 2020 su la Repubblica. Non è stato solo un architetto: saggista, teorico e critico dell’architettura, è morto a Milano Vittorio Gregotti. Aveva 92 anni ed era ricoverato per una polmonite: è la prima vittima illustre del coronavirus in Italia. Lo ha scritto in un post Stefano Boeri, presidente della Triennale che ha commentato: “Se ne va, in queste ore cupe un maestro dell'architettura internazionale”. Urbanista di fama internazionale, è stato uno dei padri della moderna architettura italiana. Nato a Novara nel 1927, Gregotti si era laureato nel 1952 al Politecnico di Milano; nel 1964 è stato responsabile della sezione introduttiva per la Triennale di Milano e dal 1974 al 1976 è stato direttore delle arti visive e architettura della Biennale di Venezia. Unico architetto a far parte del Gruppo 63, aveva invitato a collaborare a un progetto della Triennale amici intellettuali come Umberto Eco, Luciano Berio o Furio Colombo. Professore ordinario di Composizione architettonica all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia, ha insegnato anche nelle facoltà di Architettura di Milano e Palermo e poi all’estero. Come visiting professor, ha lavorato in Giappone, Stati Uniti, Argentina, Brasile e Regno Unito. Nel 1953 entra alla storica rivista mensile di architettura, urbanistica e design Casabella: dapprima come redattore, quindi come caporedattore, infine come direttore. Tra i suoi oltre mille e cinquecento progetti, realizzati in Italia e molti anche all’estero, ricordiamo il contestato quartiere Zen (Zona esterna nord) realizzato a Palermo tra la fine degli anni Sessanta e i primi Settanta; il Centro Culturale di Belém a Lisbona; il dipartimento di scienze dell’università di Palermo (dove insegna) e la sede dell’università della Calabria; il piano di edilizia popolare a Cefalù e il Centro ricerche dell’Enea a Portici. E poi gli insediamenti sempre popolari a Venezia, la sistemazione del Parco archeologico dei Fori imperiali a Roma. Ma anche la trasformazione delle aree intorno alla Bicocca, alla periferia di Milano, sino al nuovo quartiere residenziale nell’area di Pujiang, in Cina.

Infine, tra le sue tante pubblicazioni, iniziate nel 1966 a poco meno di quarant’anni con Il territorio dell’architettura (Feltrinelli): La città visibile (Einaudi, 1991), Dentro l’architettura (1991), Le scarpe di Van Gogh (1994) e le più recenti Autobiografia del XX secolo (2005), L’architettura nell’epoca dell’incessante (2006), Contro la fine dell’architettura (2008), Una lezione di architettura (2009), Tre forme di architettura mancata (2010), sino a Architettura e postmetropoli (2011), Il sublime al tempo del contemporaneo (2013) e Il mestiere di architetto (2019).

Da ilgiorno.it il 15 marzo 2020. Un nuova vittima del coronavirus: è morto, questa mattina, Vittorio Gregotti, il decano degli architetti italiani, urbanista di fama internazionale. Aveva 92 anni. Era ricoverato alla clinica San Giuseppe di Milano in seguito alle conseguenze di una polmonite. Gregotti era nato a Novara nel 1927. Dopo la laurea in architettura nel 1952 al Politecnico di Milano entrò, come prima esperienza, nello studio BBPR. . Dal 1953 al 1968 svolse la sua attività in collaborazione con Ludovico Meneghetti e Giotto Stoppino. Nel 1974 fondò la Gregotti Associati di cui è presidente. E' stato anche docente di Composizione architettonica presso l'Istituto Universitario di Architettura di Venezia, ha insegnato nelle Facoltà di Architettura di Milano e Palermo. Nel corso della sua attività accademica è stato anche 'visiting professor' alle Università di Tokyo, Buenos Aires, San Paolo, Losanna, Harvard, Filadelfia, Princeton, Cambridge (U.K.) e all'M.I.T. di Cambridge (Mass.). Tra i suoi numerosi interventi si contano, per esempio la risistemazione di Potsdamer Platz a Berlino, i progetti del Teatro degli Arcimboldi a Milano, del Gran Teatro Nazionale di Pechino e della Chiesa di san Massimiliano Kolbe, a Bergamo. È ideatore del controverso progetto del quartiere Zen di Palermo, di cui anni dopo Massimiliano Fuksas proporrà la demolizione. Gregotti ha sempre dato la responsabilità del fallimento del progetto dello Zen al fatto che non sia mai stato ultimato a causa di infiltrazioni mafiose nella fase di appalto.  Uno degli ultimi progetti a cui ha lavorato è stata la ristrutturazione da ex fabbrica del gruppo Ilva a Teatro Fonderia  Su Facebook è stata aperta una pagina pubblica in suo ricordo.

Chi è Vittorio Gregotti, l’architetto morto per coronavirus. Redazione de Il Riformista il 15 Marzo 2020. E’ morto oggi, a Milano, Vittorio Gregotti, noto architetto, fra i migliori del Novecento. Era ricoverato in ospedale per una polmonite da coronavirus, ma non ce l’ha fatta. Aveva 92 anni. “Se ne va, in queste ore cupe, un Maestro dell’architettura internazionale; un saggista, critico, docente, editorialista, polemista, uomo delle istituzioni, che – restando sempre e prima di tutto un architetto – ha fatto la storia della nostra cultura. Concependo l’architettura come una prospettiva: sull’intero mondo e sull’intera vita. Che grande tristezza”, ha scritto su Facebook per ricordarlo Stefano Boeri.

CHI ERA – Nato a Novara il 10 agosto del 1927, Vittorio Gregotti é un architetto, urbanista e uno dei più grandi teorici dell’architettura italiana. Laureato in Architettura al Politecnico di Milano nel 1952, inizia la sua carriera collaborando con la storica rivista Casabella, di cui diverrà direttore a partire dal 1982 fino al 1996. Ma ciò che lo ha reso piú famoso é stata la creazione nel 1974 del suo studio professionale “Gregotti Associati International”, che da allora ha realizzato opere in una ventina di paesi. La sua arte si lega a movimenti come il Neoliberty di reazione al Movimento moderno ed alla sua interpretazione italiana definita razionalismo italiano, di questo genere l’esempio più significativo è il palazzo per uffici a Novara del 1960. Inoltre non molti sono a conoscenza del fatto che ha progettato una megastruttura architettonica per le università di Palermo, di Firenze e della Calabria. Inoltre, sempre a Palermo é stato ideatore del controverso progetto del quartiere Zen di Palermo, di cui anni dopo Massimiliano Fuksas proporrà la demolizione.

A casa di Vittorio Gregotti lo scorso novembre: «Troppo stupore in architettura». Pubblicato lunedì, 16 marzo 2020 su Corriere.it da Elena Papa. «In architettura quello che fa la differenza sono i particolari. È sufficiente un dettaglio per rendere un progetto innovativo». A raccontarlo è Vittorio Gregotti dall’interno della sua abitazione di Milano: casa Candiani. Un edificio eclettico di fine Ottocento, tutto decorato in cotto con tanto di lesene, finestre bifore, fregi e grottesche. Architetto, docente universitario, scrittore, direttore della storica rivista Casabella del settore arti visive e architettura della Biennale di Venezia, oltre che responsabile della sezione introduttiva della XIII Triennale di Milano nel 1964 e di altre numerose esposizioni internazionali, Gregotti quando ha compiuto novant’anni ha dichiarato di aver chiuso con l’architettura. Sono passati due anni e sta finendo un lavoro a Lisbona. L’ultimo dice. E — forse — dopo aver elaborato oltre milleseicento progetti nel corso della sua carriera, potrà «riposarsi». Ma per il professor Gregotti riposare vuol dire dedicarsi ai numerosi interessi: dalla lettura alla musica, dalla filosofia all’arte. Nato a Novara ma milanese di adozione, Gregotti è riconosciuto come uno dei padri dell’architettura italiana, così per il novantesimo compleanno il Padiglione di Arte Contemporanea (Pac) di Milano, gli ha dedicato una retrospettiva che ha tratto il titolo da un suo omonimo libro: Il Territorio dell’Architettura.

Professore, ha iniziato la sua carriera intorno agli anni Cinquanta, con il boom economico e con tanta voglia di rinascere da parte degli italiani. Crede di essere stato un innovatore di quel periodo?

«No grazie — risponde con un sorriso ironico — nei miei progetti ho sempre cercato di trovare una soluzione che avesse la qualità di “non essere una trovata”, ovvero di non sorprendere come fanno molti miei colleghi».

Che cosa sono per lei la creatività e l’innovazione in architettura?

«Siamo in un momento storico in cui c’è una grande crisi di innovazione e creatività e le due cose sono sovrapposte, non si capisce bene che cosa sia veramente l’innovazione rispetto all’idea di creatività. Questo soprattutto in architettura perché la creatività è una specie di piccolo accento, là dove l’accento non dovrebbe esserci, ed è diventato il modo normale verso il quale si cerca di rendere particolare e diverso il proprio lavoro. Per gli altri, i miei colleghi, quello che è veramente importante è far meravigliare, stupire con l’architettura. L’originalità, quindi, è diventata un carattere di tutto quello che produce. Si crede sia fondamentale guardare “le cose” da un altro punto di vista».

I n uno scenario che vede una sempre più crescente relazione tra tecnologie della comunicazione, mobilità, ambiente ed efficienza energetica, come si fa a misurare la qualità dell’architettura oggi? E quanto conta l’idea rispetto alla realizzazione?

«Come ho detto, tutti sono alla ricerca dell’originalità. Realizzare qualcosa di diverso a tutti i costi per poter sorprendere. Quello che conta nell’architettura di oggi è l’involucro, senza rapporto con la funzione. Come un messaggio pubblicitario». Cosa pensa delle nuove tecniche di modellazione digitali in rapporto alla sperimentazione di nuove forme? «La produzione tecnica oggi offre delle possibilità plastiche che forse cinquant’anni fa non si potevano immaginare. Grazie ai computer a volte basta modificare un parametro deciso arbitrariamente all’inizio, per aver restituito in un attimo una serie di scelte che noi stessi avevamo compiuto, ma a partire da presupposti differenti. E di rigenerare una forma. Questo permette di gestire situazioni tanto complesse che un tempo sarebbero state irrealizzabili per ragioni di budget».

Ha realizzato milleseicento progetti, ce né uno a cui è particolarmente legato?

«Per me il guaio è di essere troppo critico: di tutti i progetti vedo solo gli errori. Però li amo tutti. Sento lo sforzo fatto dall’intero team».

Esistono gli edifici icone?

«Gli edifici non sono icone ma lo possono diventare. Perché siamo noi che attribuiamo a loro un carattere magico che non hanno».

Parliamo di città. Che cosa vuol dire progettare il futuro di un centro urbano?

«Le città future finiranno per assomigliarsi tutte, tranne quelle che verranno abbandonate (che sono le città del passato)».Che cosa pensa dei grattacieli. Le piace come si sta sviluppando Milano?

«Non sono pregiudizialmente contrario. Ma ritengo che tendenzialmente sia una ricerca volta più alla richiesta di un riconoscimento più che a un bisogno effettivo. Milano? Mi piaceva prima della Guerra. Ora si sta sviluppando male perché guarda troppo a modelli avanzati. È una visione aeronautica».

Intervista di Francesco Erbani per ''la Repubblica'' del 12 luglio 2017. Vittorio Gregotti ha chiuso il suo studio d'architetto. Il 10 agosto compie novant'anni, ma il motivo non è solo anagrafico. "L'architettura non interessa più", dice persino sorridendo nel salotto della sua casa milanese - Casa Candiani, un edificio eclettico di fine Ottocento, un po' neogotico, un po' neorinascimentale, fra San Vittore e Santa Maria delle Grazie. Fino a qualche mese fa al pianterreno c'era la Gregotti Associati, fondata nel 1974, lavori in Italia e nel mondo, dalla Germania al Portogallo alla Cina. Ora, di là dal vetro, si scorgono scaffali vuoti e la luce spenta. "Abbiamo tre progetti ancora in piedi, ad Algeri, in Cina e poi a Livorno, dove facciamo il piano regolatore. Li cura il mio socio Augusto Cagnardi".

E niente più?

"Niente più. D'altronde compio novant'anni, ma cosa sta succedendo nel nostro mondo? Una società immobiliare decide se, con i soldi dell'Arabia Saudita, investire a Berlino, a Shanghai o a Milano, a seconda delle convenienze. Stabilisce il costo economico, compie un'analisi di mercato, fissa le destinazioni. E alla fine arriva l'architetto, a volte à la mode, al quale si chiede di confezionare l'immagine".

Lei fa questo mestiere dall'inizio degli anni Cinquanta: ne avrà visti di periodi bui. O no?

"Certo. Ma non è un caso che nella mia vita sia stato amico più di letterati, di artisti e di musicisti che di architetti. Da Emilio Tadini a Elio Vittorini, da Umberto Eco a Luciano Berio. E poi ho sempre concepito l'architettura come un prodotto collettivo: un valore che si è perso".

Dove l'ha appreso?

"Lavorando da operaio in uno stabilimento di proprietà della mia famiglia, a Novara ".

Lei si è occupato tanto di letteratura, di filosofia, di musica. Ha fatto il conservatorio. Eppure lamenta che i suoi colleghi oscillano dall'iperspecialismo alla tuttologia.

"Ma mantenere relazioni fra filosofia, letteratura e architettura non è tuttologia. I miei modelli sono il capomastro medievale e il suo sguardo d'insieme. Capii questo a Parigi, nel 1947, dove lavorai nello studio di Auguste Perret. Dovunque girassi incontravo intellettuali che incrociavano le diverse competenze. Tornato a Milano, appena le lezioni del Politecnico me lo consentivano, andavo a sentire Enzo Paci che parlava di filosofia teoretica".

Studiava architettura, ma non le bastava.

"La svolta fu nel 1951, quando partecipai a Hoddesdon al convegno dei Ciam, il Comitato internazionale per l'architettura moderna. C'erano Le Corbusier e Gropius. Si rifletteva sul rapporto con la storia e il contesto. E a chi insisteva che il contenuto del nostro futuro sarebbe stato la tecnologia, si contrapponeva la dialettica con il passato, con i luoghi in cui si realizzava un'architettura. Ciò che preesisteva non andava ignorato, anche nel caso in cui il nuovo fosse un'eccezione".

E i rapporti con gli scrittori?

"Rimasero intensi. Ho anche partecipato al gruppo 63: si ragionava su come vivere il tempo libero senza finire preda del mercato, una questione cruciale per un architetto".

Comunque sempre pochi architetti.

"Gli architetti erano divisi in due categorie. Una prediligeva la natura d'artista e considerava la letteratura o la filosofia discipline distanti. L'altra era quella dei professionisti, che interpretavano il mestiere onorevolmente, ma che non andavano al di là del dato tecnico".

Comunque sia, lei ha sostenuto che allora ci si confrontava con una società in cui prevaleva l'industria. E che oggi, invece, poco ci si rapporta con quella post industriale.

"Oggi non ci si preoccupa di rappresentare una condizione sociale collettiva. È andato smarrendosi il disegno complessivo della città, che viene progettata per pezzi incoerenti, troppo regolata da interessi".

Questo è dovuto all'irruzione del postmoderno?

"Il postmoderno è un'ideologia tramontata. Ma ha avuto effetti significativi. Si è interpretato in modo ingenuo il rapporto con la storia, non ponendosi nei suoi confronti in termini dialettici, ma adottandone lo stile. E l'involucro è stato considerato indipendente dalla funzione di un edificio. Poi il postmoderno ha incrociato il capitalismo globale".

E che cosa è successo?

«Sono saltate le differenze fra culture. Ora ovunque si distribuiscono prodotti uguali. Prevale il riferimento a un contesto globale, che diventa moda, più che a un contesto specifico. Avanzano lo spettacolo, l’esibizione, l’ossessione per la comunicazione».

Mi fa un esempio?

(Sul tavolo davanti al divano pesca una rivista, c’è la foto di un edificio che sembra accartocciato) «Guardi, questo è il centro di ricerca progettato a Las Vegas da Frank Gehry. Gehry è un mio amico, ma ha superato ogni limite nel rapporto fra contenuto e contenitore. È l’ammissione che l’architettura è sfascio».

Le piace la Nuvola di Fuksas?

«Assolutamente no».

E il Maxxi di Zaha Hadid?

«Il suo fine è la trovata, la calligrafia, senza rapporto con la funzione. Queste sono architetture popolari, d’altronde se non fossero popolari non potrebbero esistere. Contengono un messaggio pubblicitario. Anche nel Seicento le facciate barocche delle chiese lo contenevano, ma si riferiva a un universo spirituale. Qui è la moda a dettare le prescrizioni».

Lei ha realizzato il quartiere Bicocca, a Milano, e a Pujang, in Cina una città da centomila abitanti. Ha fatto il piano regolatore di Torino e il Centro culturale Belem a Lisbona. Ha collaborato con Leonardo Benevolo al Progetto Fori a Roma, mai realizzato, purtroppo. Ma le viene spesso rinfacciato il quartiere Zen a Palermo: c’è chi ne invoca la demolizione.

«Lo Zen avrebbe dovuto essere diverso da quel che è stato, una parte di città e non una periferia. Palermo ha il centro storico, le espansioni otto-novecentesche e poi doveva esserci lo Zen, con residenza, zone commerciali, teatri, impianti sportivi. Doveva possedere un’autonomia di vita che non si è realizzata».

È il problema di molte periferie pubbliche italiane. Qualche responsabilità ce l’avete voi progettisti?

«Io non sono per demolire lo Zen o Corviale. Sono per demolire il concetto di periferia, non basta il rammendo. Ci siamo illusi in quegli anni di poterlo realizzare? È vero, ci siamo illusi di costruire quartieri mescolati socialmente, dotati delle attrezzature che ne facevano, appunto, parti di città e non luoghi ai margini. Rispondevamo a un’emergenza abitativa. Ma se noi ci siamo illusi, quello che contemporaneamente si costruiva o quello è venuto dopo cos’è stato se non la coincidenza fra interessi speculativi e l’annullamento di ogni ideale progettuale? Corviale ha un’idea, che andava realizzata. Non è solo un tema d’architettura».

Lei è stato insegnante a Palermo e ad Harvard, a Venezia e a Parigi. Come guarda ai futuri architetti?

«Mi preoccupa il loro disorientamento. Vengono spinti a coltivare una pura professionalità, a saper corrispondere alle esigenze del committente, oppure ad avere una formazione figurativa stravagante e capace di essere attraente. È pericoloso l’abbandono del disegno a mano. Con il computer si è precisi, è vero, ma non si arriva all’essenza delle cose. I materiali dell’architettura non sono solo il cemento o il vetro. Sono anche i bisogni, le speranze e la conoscenza storica».

Coronavirus, addio a Gregotti. Quando disse: la morte di mio fratello, il mio rimpianto. Pubblicato domenica, 15 marzo 2020 su Corriere.it da Paolo Di Stefano. Vittorio Gregotti, uno dei maestri dell’architettura del Novecento, è morto a Milano domenica 15 marzo, in seguito a una polmonite da coronavirus. Il Questionario di Proust che pubblichiamo gli fu sottoposto nel luglio 2004 e pubblicato su «Il Donna».

1. Il tratto principale del suo carattere? Sono Leone ascendente Leone, quindi un’affettuosa testardaggine.

2. La qualità che preferisce in un uomo? Non mi pare si possano fare distinzioni tra uomo e donna: in ambedue i casi l’intelligenza dei sentimenti.

3. Che cosa apprezza negli amici? La fedeltà solidale che si ritrova con sicurezza a distanza di anni.

4. Il suo principale difetto? Sono invidiosissimo sino alla disperazione nei confronti di alcuni grandi artisti: soprattutto quelli del passato perché sono indiscutibili.

5. La sua occupazione preferita? Certamente fare l’architetto: considero una grande fortuna avere ancora molto entusiasmo per il lavoro dopo cinquant’anni.

6. Il suo sogno di felicità? Una giornata fresca in cui il sole vince adagio la nebbia.

7. Il suo rimpianto? La morte di mio fratello: è stato il più grande dolore della mia vita; il rimpianto è di non averlo amato di più.

8. L’ultima volta che ha pianto? Non è difficile piangere per ragioni stupide e improprie; più difficile di fronte alle grandi infelicità.

9. Il momento della sua vita in cui è stato più felice? A Parigi nell’estate del 1947, il mio primo soggiorno lungo fuori dall’Italia alla scoperta di un mondo vasto.

10. La paura maggiore? Che la vecchiaia mi impedisca di pensare e mi faccia vivere solo di ricordi.

11. Cosa possiede di più caro? Un vestito di lino degli anni Trenta appartenuto a mio nonno esploratore; mi va stretto, ma qualche volta, d’estate, lo indosso.

12. Che cosa le è riuscito meglio nella vita? Restare passabilmente onesto.

13. Quale sarebbe la disgrazia più grande? Perdere curiosità e desideri.

14. Che cosa vorrebbe essere? Tutto quello che non sono.

15. Il paese in cui vorrebbe vivere? In un paese bello come alcune parti dell’Italia ma pieno di speranze fondate.

16. Il colore preferito? Il rosso mattone: niente sangue, piuttosto costruzione.

17. Il fiore preferito? Fiori secchi di colori che vanno dal grigio sabbia all’azzurro; con qualche piccola macchia giallo vivo.

18. L’uccello preferito? Due merli che hanno preso stabile dimora sul nostro terrazzo e chiacchierano molto.

19. Bevanda preferita? Quella della mia generazione: il whisky (possibilmente il “Famous Grouse”), che abbiamo scoperto all’inizio degli anni Cinquanta e mai abbandonato: neanche per un po’ di kief.

20. Il piatto preferito? Il riso, in tutti i modi: ci sono nato in mezzo con lo sfondo del Monte Rosa, la “Chimera”, come la chiama Sebastiano Vassalli.

21. Il suo primo ricordo? A quattro anni: il Lago d’Orta, una salita di sassi tondi e in cima, a sinistra, i vetri di una casa a due piani: durante un temporale.

22. L’oggetto più caro? Un piccolo disegno che mi ha regalato mezzo secolo fa Fernand Léger.

23. Se avesse qualche milione di euro? Mi comprerei un grande quadro di Saenredam.

24. Autori preferiti in prosa. Anzitutto quelli che ho conosciuto, come Gadda, o che mi sono amici come Daniele Del Giudice: e poi moltissimi altri che amo senza averli mai incontrati.

25. Poeti preferiti? Auden e Vittorio Sereni; tra gli antichi Catullo.

26. Cantante preferito? Dipende dal tipo di musica: comunque Cecilia Gasdia in “Lascia che io pianga” dal “Rinaldo” di Händel è insuperabile.

27. I suoi eroi della finzione? Sono di una generazione pre-fumetti: quindi il Signor Bonaventura e Alice nel paese delle meraviglie.

28. Compositori preferiti? Haydn senza dubbio: un geniale artigiano che ha detto che per fare buona musica occorrono tre cose: una piccola frase, una grande tradizione e molta intelligenza nella variazione…

29. I suoi pittori preferiti? Nell’antico la bottega di Giovanni Bellini, nel contemporaneo Anselm Kiefer: un poco per la mia amicizia con Beuys che è stato il suo maestro, un po’ perché la sua pittura è antichissima.

30. Film cult? Soprattutto i francesi: da Renoir a Carné e poi la “Nouvelle Vague”.

31. Canzone che fischia più spesso sotto la doccia? Qualche Brassens.

32. Se dovesse cambiare qualcosa nel suo fisico, che cosa cambierebbe? Dieci centimetri in altezza.

33. I suoi eroi nella vita reale? Non posso fare a meno di pensare agli architetti: quindi Walter Gropius e Louis Kahn.

34. Le sue eroine nella storia? Artemisia Gentileschi.

35. I nomi preferiti? Marina: è il nome del grande amore della mia vita.

36. Quel che detesta di più? Presunzione e superficialità: che vanno quasi sempre insieme.

37. I personaggi storici che disprezza di più? I prepotenti senza grandezza né eroismo.

38. E quelli a cui vorrebbe assomigliare? È inevitabile: Leon Battista Alberti.

39. Il dono di natura che vorrebbe avere? La semplicità non in quanto semplificazione ma in quanto capacità di sintesi.

40. Come vorrebbe morire? Nel mio letto: durante il riposo pomeridiano, come mio padre.

41. Stato d’animo attuale? Ciclotimico: incline alla depressione e all’entusiasmo alternati.

42. Le colpe che le ispirano maggiore indulgenza? Quelle che in genere sono definite debolezze: non indulgono al disprezzo ma solo alla comprensione.

43. Il suo motto? Quello cinese: attendere sul bordo del canale il cadavere del tuo nemico (culturale, naturalmente).

·        Atletica, morta Dana Zatopek.

Atletica, morta Dana Zatopek: tra amore e ori olimpici con il leggendario Emil. A Helsinki, mentre il marito conquistava l'ennesimo oro, lei trionfò nel giavellotto. La loro è stata una delle più grandi storie d'amore della storia dello sport. Enrico Sisti il 13 marzo 2020 su La Repubblica. Erano nati nello stesso giorno, Dana Ingrova e Emil Zatopek, il 19 settembre del 1922. E forse era destino che condividessero tutto, compresa la data di nascita e la regione di provenienza (la Moravia-Slesia, a nord dell’attuale Repubblica Ceca). Dana Ingrova Zatopkova, la leggendaria moglie del leggendario Emil Zatopek, è morta venerdì Aveva 97 anni. Lui una delle figure chiave della storia del mezzofondo, lei un’ottima giavellottista. Entrambi apparvero sulla scena dello sport dopo la Seconda Guerra Mondiale, ai Giochi di Londra, nel ’48, tra le pieghe della speranza. Lui vinse l’oro nei 10 mila, lei finì settima nel giavellotto. Dana lanciava da soli due anni, Emil era appena al suo secondo 10 mila in carriera. Lei fece progressi mostruosi in pochi mesi, diventando rapidamente la prima cecoslovacca a lanciare oltre i 40 metri e guadagnando così il pass olimpico. Zatopek andò a congratularsi con lei per il risultato, non si conoscevano ancora. Lì scoprirono di essere nati nello stesso giorno, lì probabilmente venne annaffiato per la prima volta, con sguardi e timide parole, il seme dell’amore. Quando s’imbarcarono per Londra erano già una coppia. Dopo aver vinto le sue medaglie (anche l’argento nei 5 mila), Emil uscì dal villaggio, andò a Piccadilly e acquistò due anelli. Tornati a casa si sposarono: “Io e Emil abbiamo vissuto dentro una fiaba”, ha ricordato Dana qualche tempo fa, “ancora adesso, se penso a quel nostro viaggio a Londra, da innamorati e da atleti, mi sembra di sognare, quell’esperienza ha segnato tutto il resto della mia vita, ma forse non sarebbe stato così meraviglioso se non avesse avuto la cornice dello spirito olimpico, quasi una benedizione laica”. Dana ammise anche che soltanto a Londra capì che la sua passione per l’atletica sarebbe presto diventato qualcosa di più: una professione: “Ma il vero miracolo fu che io non cambiai per questo: continuai ad allenarmi con l’animo leggero, senza pressioni”. Se a Londra Dana e Emil iniziarono a scrivere la loro storia, a Helsinki quattro anni dopo entrarono nella storia: “Eravamo più innamorati e più forti”, ricordò Dana. Anche la tempistica aveva del magico: mentre Emil stava correndo i 5 mila (si era già riconfermato nei 10 mila quattro giorni prima), Dana era negli spogliatoi dopo aver effettuato il riscaldamento, aspettava di essere chiamata nella call room, dalla quale si accede al campo per la gara. Poco prima di accedere allo stadio sentì il boato della folla, mise fuori la testa e vide Emil volare verso il suo secondo oro: “Mi sono così emozionata che per un momento ho temuto di svenire”. Mentre Emil usciva, lei entrava. Lui le mostrò la medaglia, le la prese e se la mise nella borsa: “Mi porterà fortuna”. Era appeno uscito dalla doccia che il team manager gli disse: “Al primo lancio Dana ha superato i 50 metri ed è prima!”. Aveva spedito il giavellotto a 50,47. Dana fu la prima  cecoslovacca a vincere un oro olimpico nell’atletica. Lui la prese in giro: “Hai vinto solo perché ti sei caricata con i miei 5 mila…!”. “Ah sì”, rispose lei, “e allora va’ a caricare qualche altra ragazza e vedi un po’ se riesce anche lei a lanciare oltre i 50 metri!”. Emil se l’era andata a cercare. Si abbracciarono e si baciarono. Ci sarebbe voluta una foto di Doisneau. Emil si ritirò nel ’57. Lei proseguì. Gareggiò anche a Roma nel ’60, quando aveva 37 anni: e ottenne un clamoroso argento. Quando Emil morì (nel 2000), Dana continuò a vivere nello sport, allenando in ogni angolo del mondo, disseminando i campi di intelligenza, umanità, sensibilità. “Fu lei a mettermi in mano il primo giavellotto della mia vita”, disse Jan Zelezny, il campione ceco, tuttora primatista mondiale, con il 98,48 lanciato nel ’96. Dana per me era una musa e un’enciclopedia dello sport: faceva tutto con emozione e non potevi non rimanere stregato da lei”.  Quando le chiedevano di Emil, lei rispondeva sempre così: “Emil era un cuore che correva”.

·        Bruno Armando è morto.

Bruno Armando è morto, l’attore malato da tempo. Luca Zingaretti: «Mi sento perso». Pubblicato lunedì, 09 marzo 2020 da Corriere.it. «Bruno se ne è andato per una serie di mali bastardi che l’anno aggredito un anno fa. Bruno era un uomo difficile ma dolcissimo, chiunque l’abbia conosciuto nn ha potuto fare a meno di amarlo per la sua pulizia, il suo essere un giusto, la sua integrità, per il suo non amare i compromessi, per la sua lealtà, perché dentro aveva il sole che si era conquistato da solo. Bruno era mio amico, era un fratello maggiore, per certi versi un padre. Era un attore sensibile, vero, cazzuto. Mi sembra impossibile che nn ci sia più»: recita così il toccante ricordo di Luca Zingaretti, che su Instagram ricorda l’amico postando una foto di loro due sul set, «una foto di tanti anni fa», quando «stavamo provando e preparando “Maratona di New York” che Edoardo Erba aveva scritto per noi. La storia di un milanese senza paura e un romano un po’ più cagasotto che si stanno allenando per andare a fare la Maratona nella Grande Mela».

Bruno Amando è morto ieri, domenica 8 marzo 2020, a Milano: attore di teatro, cinema e televisione, Armando è diventato famoso per la sua partecipazione nella serie tv Distretto di Polizia, ma ha partecipato a molte altre fiction di successo: da Adriano Olivetti: La forza di un sogno a L’angelo di Sarajevo, passando per Pietro Mennea: La freccia del Sud a Qualche Nuvola, fino a Anime nere e Facciamo Fiesta. Laureato alla Bocconi, Armando iniziò la sua carriera come traduttore letterario e si era affermato nel mondo dello spettacolo solo alla fine degli anni Novanta. «Chi l’ha conosciuto lo piangerà per sempre ma conserverà anche, per tutta la vita, il privilegio di averlo amato- scrive Zingaretti- Oggi Bruno io mi sento perso, non riesco a farmene una ragione, tu mi avresti sicuramente aiutato a trovarla. Addio amico mio! #amico #brunoarmando #edoardoerba».

·        Morto Max von Sydow.

Morto Max von Sydow, sacerdote dell’«Esorcista», attore feticcio di Bergman. Pubblicato lunedì, 09 marzo 2020 da Corriere.it. E’ morto Max von Sydow. L’attore, che avrebbe compiuto 91 anni il 19 aprile, aveva una carriera lunga quasi 60 anni e decine di ruoli di successo tra cui due nomination agli Oscar. Tra i suoi film più celebri, «L’esorcista» (1973), in cui è il sacerdote cattolico Lankester Merrin e «Il settimo sigillo» - è nella storia del cinema la scena in cui lui, cavaliere crociato, gioca una partita a scacchi con la morte - diretto nel 1957 da Ingmar Bergman, regista che considerò presto von Sydow il suo attore feticcio, dirigendolo in tutto in 14 film. L’attore, il cui vero nome era Carl Adolf von Sydow, era nato in Svezia ma poi naturalizzato francese. Nella sua carriera anche «Star Wars: Il risveglio della forza» (2015) e una apparizione nella serie della Hbo «Il trono di spade».

È morto Max von Sydow, il cavaliere del "Settimo sigillo" e il sacerdote dell'Esorcista. L'attore franco-svedese, preferito da Ingmar Bergman, aveva 90 anni. Nella sua lunga carriera ha lavorato in I tre giorni del Condor, è stato diretto da Wim Wenders, Woody Allen e Dario Argento. È stato anche il veggente nel Trono di Spade. Rita celi il 9 marzo 2020 su La Repubblica. È morto a 90 anni Max von Sydow, tra gli interpreti preferiti di Ingmar Bergman e in tanti film di successo, dal sarcedote archeologo nell'Esorcista al Risveglio della Forza, ma anche il veggente Corvo con tre occhi nella saga televisiva Trono di Spade. Nato in Svezia il 10 aprile 1929,  è morto in Francia dove viveva da tempo con la seconda moglie, la produttrice francese Catherine Brelet. "È con il cuore spezzato e con infinita tristezza che abbiamo l'estremo dolore di annunciare la scomparsa di Max von Sydow", ha detto la moglie Catherine con cui era sposato dal 1997. Max von Sydow ha iniziato a recitare nei teatri svedesi nei primi anni Cinquanta. Sul palcoscenico incontra il suo mentore Ingmar Bergman che lo sceglie per Il settimo sigillo nel 1957. Inizia una fitta collaborazione che va avanti per oltre una decina di titoli tra cui Il posto delle fragole (1957), Il volto (1958), La fontana della vergine (1960), Come in uno specchio (1961), Luci d'inverno (1963), L'ora del lupo (1968). Dei ruoli interpretati per il regista svedese rimane memorabile quello del cavaliere Antonius Block e della partita a scacchi con la Morte in Il settimo sigillo. Di ritorno dalle Crociate, insieme al suo scudiero, Block incontra un essere vestito di nero: è la Morte che vuole portarlo con sé. Il cavaliere ha il sangue freddo di sfidarla a una partita a scacchi, se riuscirà a batterla avrà salva la vita. Il film è tornato in sala in versione restaurata nel 2018 in occasione del centenario della nascita di Ingmar Bergman e a cinquant'anni dall'uscita nelle sale italiane. La sua carriera si sposta poi a Hollywood dove interpreta Gesù in La più grande storia mai raccontata (1964), è padre Merrin, il prete archeologo in L'esorcista (1973) di William Friedkin e lo spietato killer Joubert in I tre giorni del Condor (1975) di Sydney Pollack. Ha lavorato in La morte in diretta (1980) di Bertrand Tavernier, in Flash Gordon (1980) in cui è il feroce imperatore galattico Ming, in Hannah e le sue sorelle (1986) di Woody Allen. Dalla metà degli anni Settanta è attivo anche nel cinema italiano: è diretto da Alberto Lattuada in Cuore di cane (1976), è nel cast di Cadaveri eccellenti (1976) di Francesco Rosi, Il deserto dei Tartari (1976) di Valerio Zurlini, Gran bollito (1977) di Mauro Bolognini, Non ho sonno (2001) di Dario Argento. Molto amato dagli autori europei, da Wim Wenders (Fino alla fine del mondo, 1991) a Lars von Trier (Europa, 1991), partecipa al biopic su Bergman Con le peggiori intenzioni (1993) e all'esordio dell'amica e collega Liv Ullmann (Conversazioni private, 1997). In tarda età è stato diretto da Steven Spielberg in Minority Report, da Martin Scorsese in Shutter Island e da J.J. Abrams in Star Wars Il risveglio della Forza. in cui è Lor San Tekka, anziano abitante di Jakku, che consegna la mappa per raggiungere Luke Skywalker. Ha lavorato molto anche per la tv e tra le sue ultime interpretazioni, il Corvo con tre occhi nella saga del Trono di Spade. Nella sua lunga carriera è stato nominato due volte agli Oscar: nel 1989 come miglior attore protagonista per Pelle alla conquista del mondo di Bille August e nel 2012 come miglior attore non protagonista per Molto forte, incredibilmente vicino di Stephen Daldry.

Marco Giusti per Dagospia il 9 marzo 2020. Non giocherà più a scacchi con la Morte. E non arriverà più nelle nebbie della notte per liberarci dal demonio con la valigetta da esorcista di Padre Merrin. Il cinema, proprio in questi giorni orrendi, perde una delle sue massime leggende, Max von Sydow, 91 anni, 13 film con Ingmar Bergman, a cominciare proprio da “Il settimo sigillo”, dove è il cavaliere che sfida a scacchi la morte, ma anche il mago misterioso de “Il volto”, l’intellettuale impazzito de “L’ora del lupo”. Non potevamo non amarlo e non essere contemporaneamente spaventati e affascinati dalla sua cupa e luminosa presenza. E’ stato Gesù Cristo, nel kolossal americano “La più grade storia mai raccontata” di George Stevens, e il Diavolo, ha illuminato con la sua presenza “Dune” di David Lynch, “Hannah e le sue sorelle” di Woody Allen, “I tre giorni del condor” di Sidney Pollack. Ha avuto una bella carriera in Italia, dove è stato diretto da Alberto Lattuada in “Cuore di cane”, da Francesco Rosi in “Cadaveri eccellenti”, Valerio Zurlini ne “Il deserto dei Tartari”, Mauro Bologni in “Gran bollito”, fino al Dario Argento di “Non ho paura”.  Solo vederlo, anche per pochi istanti, in “Minority Report” di Steven Spielberg, nel “Robin Hood” di Ridley Scott o nella recente sesta stagione di “Games of Throne”, dove era il corvo con tre occhi, ci riportava subito al grande cinema che aveva interpretato. Ma anche sentire la sua voce dava lo stesso effetto, al punto che Lars Von Trier lo volle come narratore di “Europa”. Altissimo, 1,93 m., con un volto come scolpito, già una presenza antica per non dire vecchio a soli trent’anni, si è imposto da subito nel cinema, ma sono stati i capolavori di Ingmar Bergman, ovviamente, a decretarne il successo internazionale e a stabilirne l’impatto sullo schermo. Il cinema americano e europeo non sempre sono stati in grado di sfruttarne a pieno il suo potere e le sue doti di attore, malgrado i grandi incontri con regista famosi, da John Huston a David Lynch, spesso preferendo relegarlo in avventurosi anche di rango, penso a “Conan il Barbaro”, ma non credo che fosse facilissimo dirigerlo con tutto quello di bergmaniano e di suo che si portava dietro. Il suo volto, la sua figura, il suo legame con Bergman sono stati per Max von Sydow sia la chiave del successo internazionale, ma anche un limite. Al punto che molto deve a Jan Troell che lo diresse assieme a Liv Ullman nel bellissimo “Karl e Kristina”, mostrandone un volto meno cupo. Nato come Carl Adolf von Sydow a Lund, nel sud della Svezia, figlio di una baronessa tedesca, Maria Margareta Rappe, e di un professore di etnologia e di folklore, inizia giovanissimo a recitare a teatro, dove incontra Ingrid Thulin e Lars Ekborg. Alf Sjoberg lo porta al cinema prima in “Bara en Mor”, 1949, e poi nel 1951 in “la notte del piacere”. Ma è solo nel 1957, con “Il settimo sigillo” di Ingmar Bergman che esplode nel cinema da protagonista. Girerà poi capolavori come “Il posto delle fragole”, “Alle soglie della vita”, “Il volto”, che è forse il mio preferito, “La fontana della vergine”, “Come in uno specchio”, “Luci d’inverno”. Grandi titoli della nostra infanzia cinematografica in bianco e nero passata tra cineclub e film d’autore in tv. Hollywood lo chiama per interpretare Gesù nel notevole, anche se un po’ pastrocchione “La più grande storia mai raccontata” di George Stevens. Critica pessima, ma lui se la cava, anche se da biondo devono farlo scuro. Contemporaneamente gira in Messico il mezzo western “La taglia” di Serge Bourguignon con Yvette Mimieux e Efrem Zimbalist jr. Sono film di grandi mezzi il successivo “Hawaii” di George Roy Hill con Julie Andrews e Richard Harris, dove ha il ruolo antipatico di un prete che vuole canonizzare gli allegri hawaiani, e l’euro-spy “Quiller Memorandum” con George Segal e Alec Guinness. Nel 1971 gira l’ultimo film con Bergman, “L’adultera”, per poi rompere clamorosamente col suo maestro, mai spiegato il perché, ma gira pure il notevole “Karl e Kristina” con Jan Troell, che lo rilancia a Hollywood. Peccato che proprio assieme a Jan Troell si lasci invischiare nel disastro del remake di “Uragano”, vecchio disaster movie di John Ford, che non sanno gestire. E’ invece un killer vendicatore che esce dal manicomio in mutande armata di accetta nel nord della Danimarca in “L’assassino arriva sempre alle 10” girato da Laslo Benedek, film che avevo adorato, e che aprirà a una serie di apparizioni più spaventose, che culmineranno nel ruolo di Padre Merrin nel capolavoro di William Friedkin “L’esorcista”, 1973. Lì Max von Sydow sembra un vecchio esorcista anche se ha solo 44 anni. Sidney Pollack ne fa il terribile killer Joubert in “I tre giorni del Condor” con Robert Redford. Grazie a Padre Merrin e a Joubert, per la prima volta Max von Sydow si ritroverà in situazioni non bergmaniane. Negli anni ’70 girerà molti film in Italia, cominciando con “Cuore di cane” di Alberto Lattuada tratto dal romanzo di Bulgakov. Il ruolo più estroso sarà quello di una delle vecchie uccise da Shelley Winters in “Gran bollito” di Mauro Bolognini, ma è notevole anche in “Il deserto dei tartari”. Negli anni ’80 inizierà la fase più fumettistica. Lo troveremo così nel deludente “Flash Gordon” di Mike Hodges prodotto da Dino De Laurentiis, in “Dune” di David Lynch, in “Conan il barbaro” di Richard Fleischer, ma anche come cattivo nel suo unico 007, “Mai dire mai”. Sembra però che fosse stato la prima scelta di Terence Young per il ruolo del Dr No, il primo cattivo della lunga serie dei film di James Bond. Ma negli anni ’80 fa davvero di tutti, forse anche troppo, anche se Woody Allen lo omaggerà di un bel ruolo bergmaniano in “Hannah e le sue sorelle”, 1986, e con “Pelle alla conquista del mondo”, 1987, di Billie August avrà la sua seconda nomination agli Oscar. Dirige lui stesso un film, “Katinka storia romantica di un amore impossibile”. Negli anni ’90 continuiamo a trovarlo ovunque. In Svezia gira un nuovo film di Billie August, “De goda viljan”, scritto da Bergman, dove interpreta addirittura il nonno del maestro, con Nanni Loy gira in Italia “A che punto è la notte”, dove recita con Marcello Mastroianni, Lars von Trier lo chiama come narratore per “Europa”, con Roberto Faenza lo vediamo a fianco di Keith Carradine in “Mio caro dottor Grasler”. Non la smetterà di girare, anche in piccoli ruoli, fino a oggi. Lo abbiamo visto da poco nel buon film di sottomarini di Thomas Vinteberg “Kursk” nel ruolo di Vladimir Petrenko. Viveva da anni a Parigi assieme alla sua seconda moglie, Catheribe Brelet, che gli aveva dato due figli. Altri due figli aveva avuto con la prima moglie, l’attrice svedese Christina Olin, sposata nel 1951. Magari ha sbagliato qualche film, ma non ha certo mai sbagliato un ruolo. 

·        Morta Suor Germana.

Morta Suor Germana, una vita tra fornelli per salvare le famiglie. Pubblicato lunedì, 09 marzo 2020 da Corriere.it. Si è spenta sabato 7 marzo, a Caronno Varesino, Suor Germana, al secolo Martina Consolaro, nata a Crespadoro, nel padovano, il 3 luglio 1938. Se n’è andata senza fare rumore, lasciandoci quella agenda-ricettario best seller con un immenso patrimonio di ricette che aveva studiato per «tenere assieme le coppie». Nata da padre boscaiolo e madre vicentina, Suor Germana è stata una bambina poverissima. A 19 anni entra a far parte della congregazione delle suore del Famulato Cristiano dove si occupa, fin da subito, di insegnare i segreti della cucina a coppie di giovani fidanzati. «Non c’è niente di meglio che stare insieme ai fornelli per durare a lungo», diceva sempre. Nel 1982 redige il suo primo libro: «Quando cucinano gli Angeli», 32 ristampe, 3mila ricette tutte provate e scritte, a cui fa seguito, a partire dal 1987, l’«Agenda casa di Suor Germana». Un vero e proprio best seller della DeAgostini, con quasi 800mila copie vendute a partire dal 2001. «Ho inventato e sperimentato migliaia di piatti. Tutti con un solo scopo: rinsaldare la famiglia. Per esempio ho ideato i “tortelli acchiappasuocera” — aveva dichiarato lo scorso novembre nella sua ultima intervista al Corriere della Sera —. E cioè un primo così originale che la mamma del marito vorrà di certo copiare e quindi cercherà di farsi amica la nuora. Così si crea la pace familiare». Più che un’utopia, una certezza perché Suor Germana di famiglie, nella sua esistenza, ne riunisce tante. «Sa, lo stomaco è vicino al cuore e se a tavola metti amore e impegno, l’effetto si riverbera sul legame. Del resto, anche Gesù le cose più belle le ha fatte a tavola». Insomma, tanta cucina per andare d’accordo, in famiglia e fuori. Perché, nel tempo, Suor Germana matura quel côté “politico” che le permette di parlare al mondo interno. I suoi libri, una ventina in tutto per oltre due milioni di copie vendute, vengono tradotti in moltissime lingue. «In una delle mie agende, ad esempio, inserii la parola perestrojka. Insomma, oltre alle ricette io metto consigli pratici. Durante gli anni di piombo spiegavo come comportarsi in quel periodo buio». Perché quello del cibo è un linguaggio universale che, se ben utilizzato, fa stare meglio. Lei lo ha sempre saputo e vi ha dedicato l’esistenza intera. Notte tempo: «Mi alzo già alle 2 o alle 3 del mattino e scrivo i testi per l’agenda», diceva orgogliosa e piena di fantasia «perché, sa, in cucina bisogna essere creativi per utilizzare ogni avanzo e non sprecare nulla. Sarebbe peccato!». E a chi le chiedeva se non le mancasse un uomo per il quale cucinare rispondeva, con il suo inconfondibile humour: «Abituata al mio, che è Lui, lassù, un uomo solo non potrebbe bastarmi».

Da varesenews.it  il 9 marzo 2020. Si è spenta nella giornata del 7 di marzo a Caronno Varesino Suor Germana, al secolo Martina Consolaro: da consacrata al Signore ha scritto molti libri di cucina di grande successo. Suor Germana, nata a Crespadoro, nel padovano, il  3 luglio 1938 Entrò diciannovenne tra le suore del Famulato Cristiano, fondate con il fine di tutelare le giovani lavoratrici. Venne destinata dalla congregazione all’insegnamento e assegnata a una scuola per fidanzati, dove insegnò cucina. Il suo primo libro di ricette lo scrisse nel 1983: era il celeberrimo Quando cucinano gli angeli, cui fece seguito – a partire dal 1987 – la pubblicazione annuale dell’Agenda di suor Germana. In tutto ha scritto una ventina di libri, ha collaborato con Radio Maria e con le riviste Famiglia Cristiana e Visto, e ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive quali Mi manda Lubrano, Forum, I fatti vostri, Festival di Sanremo 1999, Uno Mattina, Domenica In e Cominciamo bene. Suor Germana si è spenta nella nostra provincia, a Caronno Varesino, dove risiedeva, il 7 marzo 2020. I funerali si svolgeranno, come impone l’ordinanza antivirus, in forma strettamente privata.

Paolo Rappellino per famigliacristiana.it  il 9 marzo 2020. Per lungo tempo è stata la religiosa più famosa d’ Italia: i best seller di ricette firmati da suor Germana andavano a ruba e il suo volto luminoso e la voce gentile erano una presenza costante in tv. Ma del suo sorriso, poi, è rimasta traccia solo sulle copertine dei libri che ancora oggi continua a pubblicare, con quel ritratto sempre uguale e apparentemente senza età. Che fine ha fatto suor Germana? È lei stessa a spiegarcelo, accettando di raccontare la brutta depressione che ha affrontato a partire dal 2002, la difficile risalita e il sorriso oggi ritrovato. La incontriamo in una residenza per anziani in provincia di Varese, dove vive da qualche tempo. Gli occhi chiari e l’ espressione dolce incorniciata dal velo candido sono gli stessi che tutti ricordiamo, anche se sul viso si leggono i segni dell’ età e le prove della vita. Lei va subito al punto: «La depressione è una malattia brutta e si sta veramente male. Non mi vergogno a dirlo: sono arrivata a pensare di farla finita. Si soffre anche perché molti non capiscono che è una vera malattia. Non serve a niente dire: “Dai, tirati su, non ci pensare”. Per uscirne ci vogliono dottori e medicine. Ma a conti fatti ringrazio il Signore: ho capito meglio cosa provano quelli che soffrono». Lo scorso luglio suor Germana ha compiuto ottant’ anni, naturalmente festeggiati con un bel pranzo a base delle sue ricette e attorniata dagli amici che le sono rimasti vicini. Un traguardo importante, di quelli che aiutano a guardarsi indietro e a ripensare le tappe di una vita. «Il Signore mi ha voluto bene: mi ha preso per mano e mi ha accompagnato su strade che mai avrei immaginato di percorrere». Sì, perché certo la piccola Martina Consolaro – questo il suo nome “al secolo”, quando imparava ad abbrustolire la polenta sulla stufa della sua casa a Durlo di Crespadoro, nel Vicentino, famiglia di gente povera con un padre lavoratore stagionale e una madre sempre sola a crescere i numerosi figli – mai si sarebbe immaginata in televisione a cucinare. Eppure la storia della suora delle ricette inizia proprio lì, quando da bambina viene colta da un attacco del «piccolo male» (una forma di epilessia) mentre è in chiesa. «Mi hanno fatto baciare la reliquia di san Valentino e da allora non mi è più successo. Lui mi ha fatto la grazia perché sapeva che gli sarei stata utile», sorride suor Germana. Infatti a 12 anni Martina confida ai genitori di volersi fare «monega». «Sei troppo piccola», le dice il padre, ma lei, caparbia, fa lo sciopero della fame fino a che il parroco non trova a Torino un istituto religioso disposto ad accettarla. L’ impatto con la mentalità del convento è durissimo: «Dopo un po’ un’ apostolina (giovane aspirante alla vita religiosa, ndr) come me mi chiese, con malizia, se sapevo come nascono i bambini. Io non lo sapevo ma, usando l’ intelligenza, risposi: “Penso come gli animali”. Non lo avessi mai detto: “Una che parla così non può fare la suora”, e mi rimandarono a casa». Martina però non si arrende: torna a Torino come ragazza di servizio in una famiglia e poi, a 16 anni, entra postulante nelle suore del Famulato cristiano, un istituto dedito alla cura pastorale delle colf, le «serve», come si diceva allora. È li che “nasce” la suor Germana che tutti conosciamo. Nel 1958 le suore del Famulato organizzano un corso di economia domestica per fidanzate e a lei viene chiesto di tenere le lezioni di cucina. «Mi misi a piangere, non sapevo nemmeno da che parte cominciare», ricorda. «Poi mi resi conto che potevo mettere a frutto la mia esperienza: le ragazze di città non sapevano nemmeno rompere un uovo mentre io, figlia di contadini, avevo imparato a preparare da mangiare con quello che c’ era a disposizione». È il motto che accompagnerà il successo di suor Germana: «Dove non arriva il portafoglio arriva il cervello», altro che i cuochi stellati di adesso. Ben presto suor Germana è coinvolta in un progetto ambizioso: con i domenicani Angelico Ferrua e Giordano Muraro fonda a Torino il Punto Familia, un’ iniziativa pionieristica di sostegno al matrimonio cristiano, con corsi per fidanzati ma anche l’ assistenza di professionisti quali psicologi, medici e mediatori familiari. Suor Germana si occupa dell’ accoglienza e tiene i suoi famosi corsi di cucina: «Il cuore è vicino allo stomaco», ripete alle ragazze, «e se saprete far felice il marito con la cucina ci sarà armonia in famiglia. Del resto, anche Gesù le cose più belle le ha fatte a tavola». Ma in realtà in quegli anni la religiosa va ben oltre la gastronomia. Sono tempi di grandi cambiamenti sociali: tramonta l’ immagine della donna casalinga, il divorzio e l’ aborto diventano legali, si dibatte di contraccezione: «Eravamo convinti che se si salva la famiglia si salva la società… e penso avessimo ragione», spiega suor Germana. Alcune questioni sono delicatissime e lei si muove con realismo e umanità: «Una volta viene una donna e mi racconta che il marito la picchiava e continuava a metterla incinta. Da poco papa Paolo VI aveva pubblicato l’ Humanae vitae (l’ enciclica dedicata all’ amore coniugale, che esclude la contraccezione, ndr) e lei non voleva disobbedire. Ma io le ho detto: “Non preoccuparti, con un marito ubriaco devi prendere la pillola! Con il Papa ci parlo io”». In quegli anni organizza anche i primi incontri per separati intitolati “E se tornassimo insieme?” Nel 1980 partecipa come rappresentante delle religiose al Sinodo dei vescovi sulla famiglia. Dove, interviene dicendo: «La Chiesa è madre e una madre sa preparare un cibo buono. Ma il vostro è un pane duro». Ricorda: «Il vescovo di Ivrea monsignor Bettazzi mi disse: “Germana, meno male che ci hai fatto scendere dalle nuvole”. Ora», aggiunge, «vedo che è diverso, al Sinodo c’ è davvero confronto». Il debutto nell’ editoria avviene quasi per caso. «Al Punto Familia era venuto l’ editore Piemme per chiedere un articolo a padre Muraro», racconta la religiosa. «Lui era assente e io mi faccio avanti: nasce così il libro Quando cucinano gli angeli. 32 ristampe, due milioni di copie vendute. 3.000 ricette, tutte provate e scritte per come si fa: basta saper eseguire alla lettera e la riuscita è sicura». Il segreto del successo sono buonsenso, praticità, qualche trucchetto ingegnoso per presentare bene i piatti. Seguono altri volumi in dispense In cucina con suor Germana che vanno a ruba nelle edicole, una fortunata rubrica su Famiglia Cristiana e gli inviti in televisione. «Fu il critico Edoardo Raspelli a portarmi alla Rai: Che fai, mangi? con Enza Sampò, I fatti vostri con Magalli e Giletti e persino il Festival di Sanremo con Fabio Fazio nel 1999. Oggi mi piacerebbe tornare a dare nuove ricette». Il successo e il denaro, si sa, sono una difficile tentazione per chi vuole seguire il Vangelo. «Sì», ammette suor Germana, «ho guadagnato molto più di quanto potessi mai immaginare. Con i soldi, io che ero nata povera, ho potuto sostenere il Punto Familia e aiutare tanti poveri. E purtroppo c’ è stato anche chi si è approfittato di me. Ma pazienza: la vera ricompensa la dà solo Dio». Gli anni del successo coincidono anche con la prima grande crisi che suor Germana deve affrontare: a seguito di incomprensioni con le sue superiore, nel 1990 lascia l’ abito religioso del Famulato. «Ero un cane sciolto, mi ha accolto monsignor Giovanni Saldarini, allora arcivescovo di Torino, che mi ha proposto di entrare nell’ Ordo virginum, in cui mi sono consacrata nel 1994». La seconda dura prova avviene nel 2002 quando si rompono i rapporti con i Domenicani del Punto Familia: «Mi sono trovata fuori da un giorno all’ altro. Ho molto sofferto. Ma il Signore non ti da mai una croce più grande di quella che puoi sopportare… A volte ne abusa, ma perché ci stai tu. Del resto, pensiamo a come e finito lui!». Oggi suor Germana conduce vita ritirata tra gli anziani della casa di riposo: «Mi alzo già alle 2 o alle 3 di notte e scrivo i testi per l’ Agenda che esce ogni anno con l’ editore De Agostini». Di recente ha pubblicato anche un'autobiografia intitolata La vita e le ricette di suor Germana (Editoriale Programma). E non ha perso il senso dell’ umorismo: «Ogni tanto mi chiedono: “Tu che hai lavorato tanto tra le famiglie non ne avresti voluta una tua?”. “No, mai”, rispondo. “A me un uomo solo non sarebbe bastato”». Non potevamo non chiedere a suor Germana di consigliarci un paio delle sue ricette più semplici ma di sicuro effetto. Ecco cosa ha scelto per noi...Prendi un cucchiaio di bacche di ginepro e un cucchiaio di sale grosso marino. Mettili in un canovaccio e riducili in polvere con il batticarne. Prendi il carré di maiale e rotolalo nel pestato ottenuto, quindi mettilo in forno preriscaldato a 190 gradi per 45 minuti. Procura dei pomodori San Marzano medi, fagiolini corti, olio e limone. Taglia a fette i San Marzano e togli i semi (ma non buttarli: puoi usarli per condire a freddo la pasta). Cuoci i fagiolini mettendoli in acqua bollente salata. Scolali  e infilali a mazzetti nel buco dei San Marzano. Condisci con olio e limone.

·        Francesca Milani è morta.

Da ilmessaggero.it il 7 marzo 2020. Francesca Milani è morta. «Stamattina è arrivata in radio una di quelle notizie che non avremmo mai voluto dare, la nostra conduttrice Francesca Milani, amatissima voce de La Sveglia dei Gladiatori, ci ha lasciati per sempre». Lo ha annunciato Dimensione Suono Roma in un doloro messaggio pubblicato sul proprio sito. La Milani, come si legge nel testo, combatteva una brutta malattia. «Da anni Francesca combatteva una battaglia coraggiosa, da vera gladiatrice, contro un male spietato e  implacabile - scrivono - Ha sempre lottato col coltello tra i denti, finchè ha potuto, con tutte le sue energie, senza mai risparmiarsi. Anche nei momenti più duri e dolorosi ha continuato a lavorare, ad essere puntuale in onda, ad andare in diretta radio e ad interpretare se stessa e i suoi irresistibili personaggi. Perchè, prima di tutto il pubblico». «Nei momenti più delicati la radio la affaticava, ma l’ha aiutata tantissimo a sentirsi viva, a non gettare la spugna, a nutrirsi di adrenalina, a curarsi con l’affetto e il calore degli ascoltatori - si legge - Non dimenticheremo la Francesca Milani gladiatrice, conduttrice, attrice. Non dimenticheremo la Francesca Milani persona, nel suo coraggio, nella sua gentilezza, nel suo sorriso, nella sua ironia, nel suo amore unico per il lavoro, per il teatro, per la radio, per il pubblico. Ma soprattutto non dimenticheremo il suo amore per la vita. Ciao gladiatrice, ciao Francesca».

·        Morto l’attore e culturista David Paul.

Morto l’attore e culturista David Paul, la metà dei Barbarian Brothers. Pubblicato domenica, 08 marzo 2020 da Corriere.it. Addio a David Paul, attore e bodybuilder statunitense che con il fratello gemello Peter, entrambi culturisti, formò per il cinema la coppia The Barbarian Brothers, che fra gli anni ‘80 e i ‘90 interpretarono una decina di film di successo. David Paul è morto due giorni prima di festeggiare il suo 63esimo compleanno. L’annuncio della scomparsa è stato dato dal fratello Peter Paul al sito internet «Evolution of bodybuilding». La causa del decesso al momento non è stata precisata ma secondo alcuni fonti l’attore si sarebbe spento nel sonno. David Paul era nato ad Hartford, nel Connecticut, l’8 marzo 1957. Aveva esordito a Hollywood nel 1983 nel film «D.C. Cab», accreditato come David Barbarian, diretto dal regista Joel Schumacher. Nel 1984 recitò nella serie tv «Supercar», che segnò anche il debuttò dei Barbarian Brothers, e nello stesso anno in cui i due fratelli apparvero nel film «Flamingo Kid» con la regia di Garry Marshall. Il film che lo ha reso noto al grande pubblico è stato «I barbari» del 1987 diretto da Ruggero Deodato. Insieme al fratello ha poi partecipato a altre pellicole, tra le quali «I predatori della strada», «Due gemelli e una monella», «Ghost Writer», «Doppio guaio a Los Angeles» e «I babysitter». David Paul nel 1994 aveva recitato anche in «Assassini nati - Natural Born Killers» di Oliver Stone ma le scene che lo riguardavano furono poi cancellate dal regista.

È morto David Paul, attore e culturista, metà dei Barbarian Brothers. Il film che lo ha reso noto al grande pubblico è stato I barbari del 1987 diretto dal regista italiano Ruggero Deodato. la Repubblica l'8 marzo 2020. È morto David Paul, attore e bodybuilder statunitense che con il fratello gemello Peter, entrambi culturisti, formò per il cinema la coppia The Barbarian Brothers, che fra gli anni '80 e i '90 interpretarono una decina di film di successo. David Paul è morto due giorni prima di festeggiare il suo 63esimo compleanno. L'annuncio della scomparsa è stato dato dal fratello Peter Paul al sito internet Evolution of bodybuilding. La causa del decesso al momento non è stata precisata ma secondo alcuni fonti l'attore si sarebbe spento nel sonno. Era nato ad Hartford, nel Connecticut, l'8 marzo 1957. David Paul aveva esordito a Hollywood nel 1983 nel film D.C. Cab, accreditato come David Barbarian, diretto dal regista Joel Schumacher. Nel 1984 recitò nella serie tv Supercar, che segnò anche il debuttò dei Barbarian Brothers, e nello stesso anno in cui i due fratelli apparvero nel film Flamingo Kid con la regia di Garry Marshall. Il film che lo ha reso noto al grande pubblico è stato I barbari del 1987 diretto da Ruggero Deodato. Insieme al fratello ha poi partecipato a altre pellicole, tra le quali I predatori della strada, Due gemelli e una monella, Ghost Writer, Doppio guaio a Los Angeles e I babysitter. David Paul nel 1994 aveva recitato anche in Assassini nati - Natural Born Killers di Oliver Stone ma le scene che lo riguardavano furono poi cancellate dal regista.

Marco Giusti per Dagospia l'8 marzo 2020. Ecco. Se ne va anche David Paul, 62 anni, uno dei due fratelli Barbari, simpatici culturisti americani gemelli dalle lunghe chiome e dai bicipiti gonfiatissimi, che negli anni ’80 ebbero un momento di gloria grazie al nostro cinema di genere. David e suo fratello gemello Peter, nati a Hartford nel Connecticut nel 1957, dopo essere esplosi nelle palestre americane , come la Gold’s Gym di Venice, grazie alla loro bellezza un po’ coatta e al fatto di essere gemelli, ebbero qualche particina nel cinema, “D.C.Cab” e “Flamingo Kid”, per poi avere il ruolo da protagonisti del fenomenale fantasy-peplum di Ruggero Deodato “The Barbarians&Co” nel 1987. Lì, nei pochi abiti di Gore e Kutcher, David e Peter Paul ebbero la loro grande occasione di esplodere nel cinema di genere internazionale. Girato fra Torcaldara e le grotte di Salone, alle porte di Roma, in mezzo a vere facce americane, il cattivo Richard Lynch, ma anche a tanti veri maestri del menamose romano, Giovanni Cianfriglia, Franco Daddi, ma c’erano pure il mangiafuoco Osiride Pevarello, Lucio Rosato e la bella Raffaella Baracchi, i gemelli combattevano il male fra gli effetti speciali dei fratelli Paolocci. Il loro ruolo da bambini lo ebbero Pasquale e Luigi Bellezecca. Deodato ne ha sempre parlato come uno dei suoi film migliori, che si è divertito molto a fare. I due gemelli, ricordava, erano un po’ pazzi, ogni mezzora dovevano farsi siringhe su siringhe per conservare i muscoli. Il film uscì in tutto il mondo e ebbe anche buone critiche. I due gemelli comparivano pure, anche se nessun sito lo riporta, nel delirante porno soft di Sergio Bergonzelli “Tentazione” con la bellissima Trine Michelsen, una danese che ebbe un certo successo con “La bonne” di Samperi, e con la stellina dell’hard Olovia Link. In “Tentazione” i due gemelli prendono Trine nuda uno per una gamba e uno per l’altra come aprendola in due mostrando al pubblico non diciamo cosa. Scena assurda di un film totalmente fuori di testa. Trine Michelsen poi ritornò in patria dove incontrò Lars Von Trier per “Idioti”, e dette scandalo con una celebre di sesso reale, per poi morire tragicamente qualche anno dopo. I due gemelli, invece, ritornarono in patria, girarono una serie di commedie da protagonisti, “Due gemelli e una monella”, “Doppio colpo a Las Vegas”, “Twin Sitters”. Oliver Stone li volle in “Assassinati nati” per una scena con Robert Downey Jr che venne tagliata nella versione cinematografica. David diventò anche fotografo di un certo valore, ma anche produttore e regista di un film da festival sulla loro vita, “Faith Street Corner Tavern”, dimostrando che non era soltanto un culturista pieno di muscoli.

·        E’ morto Perez de Cuellar ex segretario generale dell’Onu.

Perez de Cuellar è morto, fu segretario generale dell’Onu. Pubblicato giovedì, 05 marzo 2020 da Corriere.it. È morto l’ex segretario generale dell’Onu, Javier Perez de Cuellar. Lo ha annunciato il figlio. Di origine peruviana, Perez de Cuellar aveva compiuto 100 anni lo scorso 19 gennaio. Era nato a Lima, in Perù, e dopo una carriera diplomatica culminata nel ruolo di segretario generale delle Nazioni Unite (dal 1982 al 1991) è stato anche presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica Peruviana e ministro degli Esteri dal 22 novembre 2000 al 28 luglio 2001, dopo la caduta del governo Fujimori. Di formazione avvocato, Perez de Cuellar ha avuto una brillante carriera diplomatica, cominciata nel 1944. Il governo peruviano lo inviò come ambasciatore in Svizzera, Unione sovietica, Polonia, Venezuela e Francia. Fu anche rappresentante permanente del Perù alle Nazioni Unite fra il 1971 ed il 1975. Questo incarico lo mise in luce al punto che fu nominato sottosegretario nel Palazzo di Vetro nel 1979, assumendo quindi la segreteria generale dell’organizzazione dall’1 gennaio 1982, subentrando all’austriaco Kurt Waldheim, al 31 dicembre 1991, quando al suo posto fu eletto l’egiziano Boutros Boutros-Ghali. Fino ad oggi il diplomatico peruviano è stato l’unico cittadino americano a ricoprire la massima carica delle Nazioni Unite. Una volta tornato in patria tentò la scalata alla presidenza nelle elezioni generali del 1995, ma fu sconfitto in una votazione in cui il presidente uscente Alberto Fujimori fu riconfermato. Nel 2000 il presidente Valentin Paniagua lo chiamò a presiedere il Consiglio dei ministri peruviano di transizione e il ministero degli Esteri, carica che accettò e ricoprì fino al luglio 2001. Negli ultimi anni della sua vita Perez de Cuellar si dedicò all’attività letteraria. Pubblicò nel 2012 le sue «Memorias. Recuerdos personales y politicos» e due anni dopo il romanzo `Los Andagoya´. Fra i suoi successi diplomatici viene ricordato il ruolo nella trattativa per il cessate il fuoco nel conflitto tra Iran ed Iraq, nel 1988.

Onu: morto l'ex segretario generale Javier Perez de Cuellar. Aveva 100 anni, è stato in carica dal 1982 al 1991. Fu mediatore nella guerra tra Iran e Iraq. La Repubblica il 05 marzo 2020. E' morto l'ex segretario generale dell'Onu, Javier Perez de Cuellar. Lo ha annunciato il figlio. Di origine peruviava, Perez de Cuellar aveva 100 anni ed è stato il quinto segretario generale delle Nazioni Unite dal 1982 al 1991. Laureatosi in Giurisprudenza, divenne Ambasciatore nel 1962. Nel 1969 fu il primo ambasciatore peruviano in Unione Sovietica e quattro anni più tardi fu delegato al Consiglio di Sicurezza dell'Onu di cui divenne poi Segretario Generale, come detto, nel gennaio 1982. Rieletto nel 1986, riuscì a ottenere un grande successo con la mediazione per il cessate il fuoco nel conflitto tra Iran e Iraq nel 1988. Nel 1995 fu sconfitto alle presidenziali peruviane da Alberto Fujimori. È stato Presidente del Consiglio dei ministri del Perù e ministro degli Esteri dal 22 novembre 2000 al 28 luglio 2001, dopo la caduta del governo Fujimori. Negli ultimi anni della sua vita Pérez de Cuéllar si è dedicato all'attività letteraria. Nel 2012 ha pubblicato le sue Memorias.Recuerdos personales y politicos e due anni dopo il romanzo Los Andagoya.

·        Morto Ulay. L’artista storico compagno di Marina Abramovic.

MORTO ULAY, L’ARTISTA STORICO COMPAGNO DI MARINA ABRAMOVIC. Federica D'Alfonso per fanpage.it il 2 marzo 2020. La notizia è giunta da Lubiana, dove l'artista viveva da dieci anni: Frank Uwe Laysiepen, conosciuto in tutto il mondo come Ulay, è morto. L'artista aveva 76 anni, e anche se non sono state ancora rese note le cause della morte, da tempo soffriva di cancro: nel 2011 la diagnosi, a cui segue dopo breve tempo l'uscita di "Project Cancer", un documentario di Damjan Kazole. Attivo fin dagli anni Settanta prima in Germania e poi in Olanda, Ulay ha attraversato per oltre quarant'anni la scena artistica internazionale, divenendo famoso anche per la sua relazione (e per la rottura) con Marina Abramovic. Frank Uwe Laysiepen nasce nel 1943 in un piccolo paese della Germania settentrionale. A circa trent'anni, con già una moglie e un figlio, decide di abbandonare tutto per dedicarsi all'arte: li lascia, e si trasferisce ad Amsterdam, dove inizia a frequentare l'ambiente controculturale olandese e dove, nel 1976, conosce Marina Abramovic. Prima di questo incontro, che segnerà per sempre la sua vita artistica e privata, Ulay si era già fatto notare con opere come "Renais sense" e "Fototot", sperimentazioni all'avanguardia a metà fra fotografia e live performance. Ma nel 1976, arriva la svolta: Ulay incontra quella diventerà anche sua compagna nella vita, e con la quale realizzerà opere memorabili come "Relation Works" e "There is a Criminal Touch to Art". I due vivranno per tre anni in un furgone, girando tutta Europa con il loro personalissimo lavoro dedicato al tema della relazione uomo-donna. Negli anni Ottanta  la loro relazione finisce, ma Ulay continua con la sua monumentale produzione di Fotogrammi e Polagrammi che giungerà fino agli anni Dieci del Duemila quando, inaspettatamente, gli viene diagnosticato un cancro. Nel 2010 si torna a parlare di loro: durante una performance della Abramovic al MoMA di New York, i due si rivedono proprio nel corso della rappresentazione, generando un momento intensamente emozionante. Emozione che non durerà molto: nel 2015 si dà notizia della battaglia legale che proprio Ulay avrebbe condotto ai danni della Abramovic, per ottenere i risarcimenti di danni all'immagine oltre che i diritti di alcune opere di cui, secondo Ulay, la donna si sarebbe appropriata.

Camilla Tagliabue per “il Fatto quotidiano” il 3 marzo 2020. È stato fotografo e performer, ma soprattutto il più famoso "fidanzato di" della storia dell' arte contemporanea, avendo fatto del suo amore con Marina Abramovic un' opera vivente: Ulay, all' anagrafe Frank Uwe Laysiepen, è morto ieri a Lubiana a 76 anni, probabilmente di cancro, di cui era malato dal 2011. Figlio, presto orfano, di un gerarca nazista, Ulay ha sempre malvissuto le proprie radici, rinunciando al nome e alla nazionalità tedesca e denunciando il nazionalismo in molte sue performance: in There is a Criminal Touch to Art, ad esempio, ruba dalla Neue Nationalgalerie di Berlino il dipinto Der arme Poet di Carl Spitzweg, il pittore preferito di Adolf Hitler, per poi donarlo a una famiglia di immigrati turchi in Germania. Il 1975 è l' anno fatale: ad Amsterdam conosce infatti la collega Abramovic. Fatale è anche il giorno: 30 novembre, data del compleanno di entrambi. "Prese la sua agendina e mi fece vedere che la pagina del 30 novembre era strappata", scrive Marina nella sua autobiografia Attraversare i muri (Bompiani, 2016). "Dato che detestavo il mio compleanno, anch' io strappavo sempre la pagina corrispondente. Così presi la mia agendina e la aprii per mostrare la pagina mancante. Anche Ulay rimase a fissarmi. Quella sera tornammo a casa sua, e restammo a letto per i dieci giorni successivi". La relazione durerà quasi tredici anni, tra amplessi, tradimenti, amplessi a tre con gli amanti di turno, tormenti, piatti rotti e arte. Ulay "era alto e magro, con capelli lunghi e fluenti che teneva raccolti in una crocchia con un paio di bacchette - un dettaglio che mi colpì subito, dato che io facevo lo stesso con i miei La nostra intensa alchimia sessuale fu solo l' inizio. Il fatto che fossimo nati lo stesso giorno era più di una coincidenza. Fin dall' inizio, respirammo la stessa aria; i nostri cuori battevano all' unisono. Ciascuno finiva le frasi dell' altro, sapendo esattamente che cosa aveva in mente, anche quando dormiva Quell' uomo era tutto ciò che volevo, e sapevo che lui provava lo stesso per me Ci sono coppie che, quando iniziano a convivere, comprano pentole e padelle. Ulay e io cominciammo a progettare di fare arte insieme". Scorrazzando in giro per l' Europa a bordo di un furgone, concepiscono la luminosa serie di performance Relation Works, che comprende Relation in Space (portata alla Biennale di Venezia) e Imponderabilia, realizzata nel 1977 alla Galleria Comunale d' Arte Moderna di Bologna. Quest' ultima è una delle loro opere più famose: entrambi nudi, uno di fronte all' altro contro gli stipiti della porta d' ingresso, costringono i visitatori del museo a entrare di traverso, rivolti verso la donna o verso l' uomo: "È questo il gioco - spiega Ulay -: in un secondo devi prendere una decisione, ancora prima di poter comprendere perché". Peccato che dopo appena mezz' ora la polizia interrompa l' happening ritenendolo osceno. L' altra loro performance di successo è l' ultima, The Lovers - The Great Wall Walk , in cui percorrono a piedi la Grande Muraglia cinese partendo dai due capi opposti e incontrandosi a metà per dirsi addio. È il 1988, appunta sempre Abramovic: "L' avrei ammazzato. Per lui era facile: seguiva la Grande Muraglia nel deserto, dove tutto era piatto. Io invece non facevo che arrampicarmi su e giù per le montagne Dato che il fuoco è il simbolo del principio maschile e l' acqua di quello femminile, si era deciso che lui partisse dal deserto e io dal mare. E confesso anche che, malgrado tutto, in quel momento speravo ancora di salvare il nostro rapporto". Finito il sodalizio con Marina, Ulay torna a dedicarsi perlopiù alla fotografia, con la sua monumentale produzione di Fotogrammi e Polagrammi, lui che aveva iniziato la carriera artistica con la Polaroid (di cui era diventato consulente già nel 1970), pur avendo studiato ingegneria. I due si rivedono pubblicamente al Moma nel 2010 durante la mostra-performance di Abramovic The Artist is Present: un pezzo di teatro straordinario, se non fosse che è arte contemporanea, ed è tutto vero, per commozione, struggimento, intensità, amore. Seguono scaramucce legali per i soldi, come nelle migliori ex coppie, con lui che fa causa a lei per alcuni diritti d' autore delle opere e danni all' immagine: il giudice gli darà ragione nel 2016, costringendo la donna a versargli 250 mila euro. Ma pace: "Era un artista e un essere umano eccezionale, ci mancherà profondamente", scrive Marina su Facebook poche ore dopo la notizia della morte dell' ex compagno, mentre lo Stedelijk Museum di Amsterdam annuncia una mostra personale su Ulay a novembre. L' artista lascia mogli e figli in giro per il mondo: lui che "aveva sempre abbandonato tutti" ora l' ha fatto veramente.

Isotta Esposito per urbanpost.it l'1 dicembre 2015. Marina Abramovic, regina dell’arte performativa, madre di “The Artist is Present” , (l’indimenticabile performance tenutasi per tre mesi al MoMA di New York, che continua a comunicare a tutto il mondo l’importanza di guardarsi negli occhi), lei, che davanti al suo storico amore Ulay, aveva fatto scivolare sul volto lacrime pure, ora si ritrova ad essere in tribunale, portata proprio dal suo ex, con cui aveva condiviso gioie, dolori e tanta arte. The Guardian ha dato la notizia: Ulay sostiene che Marina Abramovic non gli abbia dato tutti i soldi che gli spettavano per ben sedici anni e non abbia riconosciuto il suo nome come partner lavorativo in molte delle opere firmate solamente “Marina Abramovic”. Si ritrovano faccia a faccia nuovamente, quindi, i due che oltre ad essersi commossi guardandosi, hanno anche lanciato uno sguardo profondo d’umanità e amore in tutto il mondo. Nuovamente di fronte, Marina e Ulay, come una storia infinita che non sa trovare un finale, come a teatro “stando con quello che c’è”, come nella performance, nel “qui e ora”, come in quell’avventura, camminando per la Grande Muraglia Cinese, e dirsi poi addio. Ulay ora le chiede: “Ogni sei mesi, una dichiarazione sulle vendite e la corretta menzione nome“. La storia, forse, ora è veramente finita.

Antonella Barina per Il Venerdì - la Repubblica il 28 novembre 2016. All' inizio non mi rendevo conto del significato inconscio delle mie performance, di quanto fosse labile il confine tra lavoro e vita: l' ho capito solo invecchiando». A riconoscere di aver sempre messo a nudo la propria anima, oltre che il proprio corpo, davanti al pubblico di mezzo mondo, è l' artista che si è frustata a sangue fino a non sentire più le sferzate; ha urlato fino a perdere la voce; ha stuzzicato un pitone (finché a strisciar via non è stato lui). In Rythm 10, la sua prima performance, nel '73, spalancò una mano su un foglio bianco e, impugnando con l' altra un coltello, prese a colpire velocemente gli spazi tra un dito e l' altro: quando sbagliava il bersaglio, ferendosi, cambiava pugnale e via, tac-tac-tac-tac. In Balcan Baroque, con cui vinse il Leone d' oro alla Biennale di Venezia del '97, rimase sei giorni seduta su una montagna di ossa putride, pulendole una per una, come a lavar via le atrocità della guerra nei suoi Balcani. Marina Abramovic, pioniera della body art svettata dall' underground all' olimpo delle star, è fuggita dalla Belgrado di Tito senza mai liberarsi del suo passato plumbeo. La sua casa di campagna sull' Hudson, vicino a New York, da cui ora parla via Skype, è un cottage di legno a forma di stella, come il simbolo del comunismo. Come la stella in cui si è sdraiata nel '74 in Rythm 5 - testa, braccia e gambe nelle cinque punte - per poi farla incendiare (e perdere i sensi, perché le fiamme hanno divorato l'ossigeno). Come la stella che si è incisa sul ventre con un rasoio in Thomas Lips, per poi scudisciarsi e sdraiarsi sul ghiaccio...Oggi quel passato tetro, minaccioso, che è stato storico ma anche familiare, esplode con forza nei ricordi di un' autobiografia che esce da Bompiani in occasione dei suoi 70 anni - li compie il 30 novembre - scritta con l' aiuto di James Kaplan, già biografo di Jerry Lewis e Frank Sinatra. Si intitola Attraversare i muri, perché «nel clima oppressivo della Jugoslavia postbellica, i veri comunisti dovevano saper superare ogni ostacolo con la loro fermezza» (parole sue, in un inglese dal forte accento slavo). «Perché a suon di botte e ceffoni mia madre mi ha addestrato a essere un soldato come lei, che dal dentista non voleva anestesia, quando si toglieva un dente». Ed ecco 410 pagine di ossessione tutta Abramovic: il resto del mondo dell' arte compare poco o nulla nell' universo autoreferenziale della matriarca della performance. Ma ecco pure confessioni franche (ai limiti dell' esibizionismo), come quando racconta d' essere stata così disperata per i tradimenti di Ulay, già compagno di vita e di arte, da accettare di far l' amore a tre con la sua amante, soffrendone allo spasimo. In fondo Attraversare i muri è l' ultima performance di Marina Abramovic, tra le più azzardate. Perché l' artista delle azioni estreme non sfida i limiti del corpo, ma quelli dell' emotività.

Un altro muro attraversato?

«Credo di sì. A 70 anni dovevo pur liberarmi del passato, come un serpente che fa la muta, per crescere, finalmente. E dovevo farlo con sincerità, perché nella mia famiglia si teneva celato tutto. I miei genitori si odiavano - donnaiolo lui, coriacea lei, dormivano nella stessa stanza con la pistola sul comodino - ma di volersi separare neanche un cenno. Nemmeno la morte ammettevano: tennero nascosto alla nonna anche il decesso di suo figlio, dicendole che era partito per un lungo viaggio in Cina. Io invece voglio riconoscere che dietro alla super Marina, al guerriero che in pubblico sopporta qualsiasi ordalia, c' è una Marina insicura, incasinata, che da ragazza si sentiva brutta e goffa: naso troppo grande, occhiali troppo spessi, scarpe ortopediche per i piedi piatti. E da grande si sente brutta e vecchia, rottamata, ogni volta che un uomo l' abbandona. Il che succede sempre».

L' ha lasciata Ulay dopo dodici anni di convivenza - in un furgone, in una comune, in una tenda nel deserto - anni di azioni insieme come un unico performer, Marinaeulay. E l' ha lasciata l' artista Paolo Canevari, dopo nove anni di divergenze sempre meno trascurabili a New York e un matrimonio. Come lo spiega?

«Metto continuamente sotto pressione gli amori della mia vita. Troppe richieste, troppa ossessione, troppa gelosia: una tempesta di emozioni tragicamente balcanica. Unita a un accanimento sul lavoro che nessuno riesce a reggere. Anche perché finisce per porli in secondo piano. Gli uomini mi abbandonano perché, insaziabile, pretendo tutto l' amore che non ho avuto da bambina. E perché non mollo mai: devo sempre dimostrare di vincere. Contro chissà chi».

I suoi genitori, forse?

«Temo di sì. Prima eroi di guerra, poi membri di rilievo del Partito, erano fissati con il coraggio, la disciplina marziale, la determinazione. Siccome ero terrorizzata dall' acqua, a sei anni mio padre mi buttò giù dalla barca e si allontanò a remi: a furia di bere e scalciare, imparai a tenermi a galla. Mia madre invece era ossessionata dall' ordine e dalla pulizia: la notte mi svegliava urlando, se dormivo scompigliando le coperte. E al minimo sgarro mi picchiava fino a farmi blu. Abuso di minore? Probabilmente. Ma quei maltrattamenti mi hanno fatto diventare quel che sono. Devo il mio successo a quelle regole umilianti, alle pene fisiche, allo spauracchio di mia madre. Da lei ho ereditato anche terribili emicranie, che sono state una valida palestra per imparare a tollerare il dolore. Così oggi sono molto severa con i miei studenti: impongo loro giorni di digiuno e di silenzio, ore e ore a contare chicchi di riso, escursioni sotto la neve o nel caldo torrido».

Forse anche sadismo e masochismo si ereditano...

«Non credo, perché nella vita di tutti i giorni detesto il dolore fisico. Lo accetto (e sconfiggo) solo durante le mie performance. Perché ho imparato, nelle mie lunghe frequentazioni dello sciamanesimo e delle filosofie orientali, che il dolore è un muro, straziante, insopportabile, ma chi riesce a trapassarlo accede a un diverso stato di consapevolezza. A una nuova fonte d' energia. Illimitata. E la Marina impaurita diventa la Marina eroica. Una sensazione inebriante. Che raggiungo solo davanti al pubblico, perché è dagli spettatori che traggo forza. Senza di loro non arriverei in fondo».

Il passare degli anni non aiuta.

«Solo il fisico è più debole. La mente più salda che mai. La prima volta che realizzai Thomas Lips, azione faticosissima - la stella incisa sul ventre, le scudisciate, il ghiaccio - avevo 29 anni e durò un' ora. L' ultima volta ne avevo 59 e ne durò sette. Era il 2005, al Guggenheim di New York, dove riproposi sette performance storiche, mie e altrui: Seven Easy Pieces. Per una settimana, sette ore al giorno, feci di tutto: compreso masturbarmi dalle 17 a mezzanotte sotto una pedana, con un altoparlante che amplificava gemiti e fantasie sessuali, come aveva fatto Vito Acconci in un lavoro degli Anni 70. Da giovane non ce l' avrei fatta neanche con un allenamento olimpionico».

Ebbe molto successo. Ma fu con la retrospettiva del 2010 al Moma che sfondò i confini del mondo dell' arte, raggiungendo il grande pubblico. Clou: lei seduta immobile per tre mesi, otto ore al giorno senza bere, mangiare, fare pipì, sostenendo lo sguardo degli spettatori. Che furono 850 mila dal vivo e milioni sul web. La sua vita è cambiata?

«Da giovane mi accusavano di andare contro le convenzioni, oggi di far parte del mainstream. Prima ti rendono una star, poi ti incolpano di esserlo. Per questo ho dedicato l' autobiografia "ad amici e nemici": sono intercambiabili. Mi scontro con fiumi di gelosia. E di lavoro: la lista degli impegni arriva al 2020. Festeggerò i 70 anni al Guggenheim, l' 8 dicembre, e andrò a ricaricarmi in India. Poi una retrospettiva a Stoccolma, dove esporrò per la prima volta i dipinti kitsch della mia gioventù: ho imparato a esibire anche ciò di cui mi vergogno. Quindi mostre in Danimarca, Svizzera, Germania, Cina. Uno show per sole donne nel Qatar. Soldatino ligio, non mollerò».

È ancora convinta che l' arte sia sinonimo di libertà, come quando fuggì dalla Jugoslavia?

«Quando si è giovani e senza soldi si viaggia leggeri: fino ai 45-50 anni sono stata povera in canna. Ma la libertà ti è inesorabilmente preclusa, se ti obbligano a essere sempre la migliore».

E a sfidare il destino: a 14 anni giocava alla roulette russa con la pistola carica di suo padre...

«Ebbrezze da ragazzi. Il vero problema è l' imperativo a svettare. Il cui prezzo da pagare è la solitudine. Perché è difficile trovare un uomo che non si senta minacciato dal tuo successo. E io reggo la sofferenza fisica, non quella emotiva. Le rivelo un segreto, però: sto per innamorarmi di nuovo... Non mi chieda altro: su di me incombe sempre il rischio che vada tutto a rotoli».

·        Elisabetta Imelio è morta a 44 anni: Prozac+ e Sick Tamburo in lutto.

Elisabetta Imelio è morta a 44 anni: Prozac+ e Sick Tamburo in lutto. Debora Faravelli l'01/03/2020 su Notizie.it. E' morta Elisabetta Imelio, musicista dagli anni Novanta dei gruppi Prozac e Sick Tamburo: malata di un tumore, aveva 44 anni. Addio a Elisabetta Imelio, bassista e cantante di due gruppi punk italiani, morta a 44 anni dopo una battaglia contro un tumore. In lutto Prozac+ e Sick Tamburo, le due band che aveva fondato e che l’avevano portata al successo. La sua carriera era iniziata negli anni Novanta quando, precisamente nel 1995, aveva dato vita ai Prozac+ insieme a Gian Maria Accusani e Eva Poles aveva fondato i Prozac+ la cui canzone più nota è senz’altro Acida Acido. Oltre 200 mila le copie vendute di quell’album, un successo nazionale assoluto come dimostrato dalle code chilometriche per sentir esibire la band. Dopo lo scioglimento del gruppo, avvenuto nel 2007, formò sempre insieme ad Accusani i Sick Tamburo, con i quali pubblicò cinque dischi, l’ultimo dei quali uscito nel 2019. Proprio il collega ha voluto scrivere un messaggio commosso di addio sottolineando come “oggi non c’è più dentro e non c’è più fuori, non ci sono più confini“. Una scomparsa, quella di Elisabetta, che gli ha fatto capire che “oggi che quel corpo ci ha lasciato siamo ancora più vicini“. Quando pensava di aver sconfitto la malattia, la Imelio aveva pubblicato un brano intitolato La fine della chemio. Come raccontato da lei in un’intervista, a scriverlo era stato Gian Maria. Lei l’aveva ascoltato per la prima volta mentre andava in ospedale per una seduta di chemioterapia e aveva descritto così quel momento: “E’ stato un istante, più potente della chemio, degli antidepressivi, degli incontri con la psicologa e di mille terapie coadiuvanti. Mi è arrivata addosso una bomba d’amore e di speranza, un’energia che mi ha dato gioia, forza e volontà indispensabili per affrontare tutto questo“. A quel punto, essendo stata per lei una canzone di grande aiuto, aveva voluto che quel regalo fosse a disposizione di tutti coloro che si trovano ad affrontare una malattia. Per questo aveva chiesto ad alcuni artisti di cantare il brano insieme a loro in modo da raggiungere più persone possibili. A interpretarlo vi sono infatti Jovanotti, Tre Allegri Ragazzi Morti, Manuel Agnelli, Samuel, Elisa, Meg, Lo Stato Sociale e Pierpaolo Capovilla. La band ha devoluto i proventi ricavati dal brano in beneficienza. Una parte all’Andos di Pordenone, un’associazione di volontariato in sostegno delle donne operate al seno, e una parte alla squadra di canoa “Donne in Rosa Lago Burida”.

Prozac+, perché ci sono piaciuti tanto negli anni Novanta. Pubblicato lunedì, 02 marzo 2020 su Corriere.it da Anna Ascione. Una Band Cult «Mi sento scossa agitata, agitata, un po' nervosa»: chi ha letto questo verso cantandolo (e scandendo bene le parole, ripetendo le «a» finali) appartiene senza ombra di dubbio alla generazione che nella seconda metà degli anni Novanta è stata investita musicalmente dal ciclone Prozac+. La band di Pordenone - fondata nel 1995 dal chitarrista Gian Maria Accusani, dalla cantante Eva Poles e dalla bassista Elisabetta Imelio (scomparsa nella notte tra sabato e domenica a 44 anni) - ha conosciuto un rapido successo nel giro di pochi anni. Sicuramente è stato merito dei chilometri macinati in furgone concerto dopo concerto (si sono esibiti dal vivo centinaia di volte, arrivando ad aprire i live italiani del PopMart Tour degli U2) e il video del singolo che li ha lanciati, «Acida», è stato trasmesso in heavy rotation - come si dice in gergo - in radio ma soprattutto su Mtv, proprio negli anni in cui la televisione musicale era il perfetto trampolino di lancio per molte band indie(pendenti). Ma non solo: perché ci sono piaciuti così tanto e continuiamo a ricordarli con nostalgia?

Le radici e The Great Complotto. Sicuramente Gian Maria, Eva ed Elisabetta si sono trovati, come si suol dire, nel posto giusto al momento giusto, in un terreno particolarmente fertile per il «nuovo rock italiano». C’è chi in quegli anni, in pieno boom, aveva azzardato un paragone definendo Pordenone come la Seattle del NordEst (anche per la vicinanza con la base NATO di Aviano): prima dell’esplosione dei Prozac+ si stava aprendo una nuova fase per The Great Complotto, leggendario progetto artistico nato nella città friulana sul finire degli anni Settanta. Proprio da quel movimento underground arrivavano i Futuritmi, in cui avevano militato Davide Toffolo (poi fondatore dei Tre Allegri Ragazzi Morti) e Gian Maria. Eva invece, che partecipò nel 1993 alla compilation «Skandalo al sole» della Vox Pop (l’etichetta fondata a Milano da Giacomo Spazio, Carlo Albertoli, Paolo Mauri, Manuel Agnelli e Mauro Ermanno Giovanardi che avrebbe poi pubblicato nel 1996 «Testa plastica»), aveva cantato anche con i Pimps di Teho Teardo ex Meathead, altra formazione storica legata alla scena di Pordenone.

Dare voce a chi è in difficoltà. Il malessere della vita di provincia, il disagio giovanile, l’emarginazione sociale e l’uso di droghe: Gian Maria Accusani ha sempre cercato, con la sua scrittura, di dare voce a chi è in difficoltà, soprattutto negli anni con i Prozac+. «Perché quelli che stanno bene non hanno bisogno di attenzione - aveva spiegato a Rockol in un’intervista recente - I Prozac erano un tg pieno di esistenze in bilico, che nessuno aveva voglia di raccontare». Forse è per questo che le canzoni della band sono riuscite a colpire nel segno: in «Acido acida» ad esempio compare «Betty Tossica», un’eroinomane che in realtà non ha nessuna intenzione di smettere, mentre in «Testa acida» la protagonista di «Legami» riferisce con un’amarezza toccante tutto quello che dicono di lei («Dicono che ero bella di una bellezza che se ne è andata dicono che son rovinata di un'intelligenza sprecata»).

Il successo e le critiche. Se dal pop avevano ereditato le melodie e i ritornelli ossessivi (quelli che più facilmente rimangono nella testa della gente) dal punk i Prozac+ hanno sicuramente preso l’attitudine e il sano amore per l’autenticità e la verità, accollandosi tutte le conseguenze del caso. La band di Pordenone, negli anni del suo massimo successo, ha infatti dovuto fare i conti con la stessa accusa che oggi viene rivolta a personaggi come Sfera Ebbasta e Achille Lauro (la presunta promozione del consumo di sostanze stupefacenti), vuoi per il nome (il Prozac è un potente antidepressivo) vuoi per i testi espliciti, da quello di «Pastiglie» a quello della hit «Acida» (il «viaggio» di cui si parla in un verso è inequivocabilmente l’effetto della sostanza lisergica). Lo spot per l’uscita del loro album «Acido acida» nel 1998 (disco che vendette oltre 170mila copie) fu addirittura bloccato dal Giurì di autodisciplina pubblicitaria: «Non inneggiamo alle droghe, ma descriviamo storie che accadono intorno a noi - aveva spiegato Accusani - Se descrivere una realtà significa esprimere un giudizio su di essa ed assumersi responsabilità per il fatto che ciò che si descrive può indurre chi ascolta ad agire in un modo piuttosto che in un altro, l’estrema conseguenza del ragionamento sarà l’abolizione delle libertà di espressione e la censura».

La reunion del 2018. Di fatto i Prozac+ non si sono mai sciolti: dopo aver pubblicato altri tre dischi di minor successo commerciale («3Prozac+» nel 2000, «Miodio» nel 2002 e «Gioia nera» nel 2004) nel 2007 hanno deciso di prendersi una pausa a tempo indeterminato per dedicarsi ad altri progetti. Soltanto in occasione del ventennale dall’uscita di «Acido acida» hanno sentito il bisogno di tornare sul palco insieme, sempre però rimanendo «fedeli alla linea»: le date della reunion («una operazione antisocial») sono state soltanto due, una al Magnolia di Milano il 26 maggio 2018 per il MiAmi, la seconda ad Home Festival a Treviso il 31 agosto 2018. «La motivazione che ci ha spinto a fare questa cosa – spiegavano – è molto lontana dal voler vendere o promuovere qualcosa ma è legata solo ed unicamente ad un fatto sentimentale, all’amore». Bisognava chiudere il cerchio. E ora, con il senno di poi, capiamo bene perché.

·        Addio al fisico e matematico visionario Freeman Dyson.

Addio al fisico e matematico visionario Freeman Dyson. Scomparso a 96 anni il genio ribelle che nel '59 elaborò la "teoria della sfera" immaginando l'emigrazione dell'Umanità verso altri pianeti. "Ci sono ancora grandi verità da dire, se avessimo il coraggio di enunciarle e la capacità di accettarle". la Repubblica il 29 febbraio 2020. E' morto all'età di 96 anni Freeman John Dyson, fisico teorico britannico naturalizzato americano e autore di importanti studi sull'elettrodinamica quantistica e sulle interazioni tra particelle elementari che hanno generato intuizioni scientifiche rivoluzionarie. Ad annunciare la scomparsa, avvenuta in un ospedale di Princeton, nel New Jersey, è l'Institute for Advanced Study dell'Università di Princeton, dove Dyson ha insegnato per quasi 60 anni e di cui era professore emerito. Nato a Crowthorne (Regno Unito) nel 1923, durante la Seconda guerra mondiale Dyson prestò servizio come civile nella Royal Air Force, proseguendo poi a Princeton - dove ottenne una cattedra all'età di 30 anni - gli studi iniziati al fianco del fisico Richard Feynman. Ma il nome di Dyson diventò leggenda per le sue teorie visionarie, come l'emigrazione del genere umano su altri pianeti, ultimo approdo per la sopravvivenza. In realtà, i suoi studi sull'elettrodinamica quantistica, la fisica dello stato solido e l'ingegneria nucleare posero le basi della fisica contemporanea. Celebre la sua "teoria della sfera", progetto all'avanguardia nel 1959 per una biosfera che preservasse l'Umanità nello spazio. L'ipotesi di una "bolla" artficiale a forma di guscio intorno al Sole, raccontata poi in una puntata di Star Trek, aveva lo scopo di sfruttare al massimo la radiazione emessa e catturata da uno scudo di pannelli solari atti a creare uno spazio vitale. Sfumato il Progetto Orione, cui Dyson lavorò tra il 1957 e il 1961 per dimostrare la possibilità del volo spaziale attraverso la propulsione nucleare, a causa delle leggi contro l'uso di armi nucleari nello spazio, lo scienziato si dedicò alla cattura dell'energia solare che un giorno società tecnologicamente avanzate avrebbero potuto realizzare. Sempre con uno sguardo fiducioso verso il futuro: "Più lontano andremo nel futuro, più differenziazione delle strutture naturali scopriremo, e più diversificazioni tecnologiche potremo creare".

·        Egitto, morto l'ex presidente Hosni Mubarak.

Egitto, morto Hosni Mubarak: l’ex presidente aveva 91 anni. Pubblicato martedì, 25 febbraio 2020 da Corriere.it. L’ex presidente egiziano Hosni Mubarak è morto all’età di 91 anni. La notizia, data prima in tv, è stata da pochi minuti confermata dalla famiglia. Il quarto presidente dell’Egitto e leader di un establishment militare che ha governato il Paese per trent’anni, era malato da tempo. Aveva subito un intervento chirurgico alcune settimane fa.

Nel 1981 era succeduto al presidente Anwar al-Sadat, e da allora era stato Presidente. Dal 2011, anno della «primavera» di piazza Tahrir in cui era stato incarcerato con l’accusa di corruzione (era tornato poi a piede libero a marzo 2017) l’ex presidente era uscito totalmente dalla scena politica.

Egitto, morto l'ex presidente Hosni Mubarak: aveva 91 anni. L'ex rais in tribunale nel 2018. Dalla guerra dello Yom Kippur del 1973 alla presidenza e alla deposizione. L'ex rais è morto dopo essere stato ricoverato in ospedale al reparto di terapia intensiva. Vincenzo Nigro il 25 febbraio 2020 su La Repubblica. La distanza che separa la morte di Hosni Mubarak dalla primavera del 2011, da quella rivoluzione abortita che lo spodestò dal potere, forse non aiuta nel tentativo di capire cosa sarà il futuro dell’Egitto. Ma di sicuro offre uno spazio sufficiente per comprendere chi fu il “faraone” che per 30 anni governò il primo Paese del mondo arabo. Ufficiale dell’aeronautica egiziana, Mubarak fu uno dei piloti che combatterono contro Israele nella guerra dello Yom Kippur, l’attacco a sorpresa che nel 1973 Egitto e Siria misero a segno contro lo stato ebraico. Fu lui a ordinare l’attacco, 6 minuti prima dell’orario concordato con i siriani, di una postazione degli israeliani, dando il via a una guerra che gli israeliani riuscirono a rovesciare. Mubarak e altri 2 generali dell’aeronautica erano i soli a conoscenza dei piani del presidente-soldato Anwar Sadat di colpire Israele. Gli israeliani vennero colti di sorpresa, reagirono e ricacciarono indietro egiziani e siriani. Ma Sadat raccontò quella guerra come una vittoria dell’Egitto, trasformando il fallimento di un’avventura militare in una base per il grande passo che Sadat e Mubarak fecero insieme: siglare la pace con Israele. Dopo l’assassinio di Sadat per mano di estremisti islamici, Mubarak divenne presidente il 14 ottobre 1981: e da allora per 30 anni, fino all’11 febbraio del 2011, governò prima con saggezza ed equilibrio, poi guidando una corte sempre più vorace e violenta, un Paese che da sempre è stato al centro di ogni equilibrio nel Mediterraneo e nel Medio Oriente. Mubarak fu rimosso dal potere dal “supremo consiglio delle forze armate”, ovvero dalla cupola dell’esercito che aveva guidato per 30 anni, dopo le proteste di piazza del gennaio/febbraio 2011. A differenza del tunisino Ben Alì, che fuggì in Arabia Saudita, Mubarak non abbandonò il paese. Attraversò fra carcere e ospedali militari un declino dal quale ha assistito prima all’ascesa del presidente fratello musulmano Mohammed Morsi. Poi al colpo di stato dei militari di Abdel Fattah Al Sisi contro i Fratelli e infine, in questi ultimi anni, al consolidamento di un nuovo regime militare. Un governo molto più violento e spietato di quanto fosse stato il sistema che Mubarak aveva messo in piedi per controllare il paese. Mubarak fu prima condannato all’ergastolo per aver “cospirato” ed ordinato l’uccisione dei 239 manifestanti uccisi dalla polizia nei 18 giorni della rivolta del 2011. Da queste accuse fu totalmente assolto. Ma gli rimasero addosso a lui, ai 2 figli, a molti ministri dei suoi governi, accuse di corruzione che in questi ultimi anni hanno fatto comodo anche a molti personaggi del nuovo potere che si è consolidato attorno al nuovo presidente Sisi. Molti egiziani ancora oggi ricordano il periodo di Mubarak come un periodo di totale autocrazia, di corruzione crescente: ma un generale che aveva combattuto contro gli israeliani e che poi aveva ostruito la pace con loro, che aveva il rispetto di tutti i leader del mondo arabo e di capi di superpotenze come erano allora gli Stati Uniti e l'Urss, ancora oggi viene considerato in maniera diversa dal suo successore. È ancora troppo presto per capire se nell’Egitto di oggi ci sarà un’eredità Mubarak che possa trasformarsi in qualcosa di positivo per il futuro del gigante arabo. Di sicuro la distanza, il tempo che scorre, a molti fanno pensare a quell’età di Mubarak come un periodo in cui la violenza, la repressione del regime erano molto relative, quasi “paterne” rispetto agli episodi di violenza che tormentano oggi l’Egitto. Forse è un’illusione, forse oggi il regime di Mubarak avrebbe adottato gli stessi metodi di quello di Sisi. Ma come tutti i ricordi, quello di Mubarak è uno di quelli che ancora muove molti egiziani a comprensione.

E’ morto Mubarak, da eroe nazionale dell’Egitto a simbolo della corruzione. Marta Lima martedì 25 febbraio 2020 su Il Secolo d'Italia. L’ex presidente Alaa Mubarak, Hosni Mubarak, che era ricoverato in terapia intensiva per un problema di salute circa un mese fa, è morto oggi a 91 anni in un ospedale del Cairo Hosni Mubarak. E’ l’uomo che ha guidato l’Egitto per oltre trent’anni e che è sopravvissuto ad almeno sei attentati. A deporlo era stata la Rivoluzione del 25 gennaio del 2011 nell’ambito delle primavere arabe che avevano travolto i governi del Medioriente. Compreso il suo, accusato di corruzione, repressione politica e dei diritti umani, di aver autorizzato la polizia ad agire in modo brutale, di aver portato l’Egitto in una crisi economica di cui ancora oggi il Paese paga le conseguenze. Coinvolti anche i due figli, Alaa e Gamal, assolti sabato dalle accuse di aver manipolato il mercato azionario. Lo stesso Hosni Mubarak verrà assolto nel 2017, dall’accusa di aver ordinato l’uccisione di manifestanti antigovernativi. Condannato, invece, per appropriazione indebita di fondi pubblici.

L’eroe del popolo egiziano. Nato il 4 maggio del 1928 nel villaggio rurale di Kafr-El Meselha nel Delta del Nilo, nell’Egitto settentrionale, Mubarak era entrato nell’Aeronautica militare nel 1949. L’anno dopo diventa pilota e nel 1959 si trasferisce in Unione Sovietica, importante fornitore di armi dell’Egitto, dove impara a far volare i bombardieri. Sposa Suzanne, figlia 17enne di un medico, e scala i vertici dell’esercito diventano capo dell’Accademia dell’Aeronautica. Nel 1972 ottiene l’incarico di Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica militare, quindi diventa vice ministro della Difesa. L’anno successivo diventa un vero e proprio eroe nazionale per aver inferto un duro colpo alle forze israeliane nel Sinai. Mubarak fu infatti determinante nel pianificare l’attacco a sorpresa alle forze israeliane all’inizio della guerra arabo-israeliana del 1973. Il raid ebbe luogo durante lo Yom Kippur. La Russia e gli Stati Uniti si avvicinarono al conflitto tra superpotenze mentre si affrettavano a rifornire i rispettivi alleati. Israele respinse l’invasione, ma alla fine cedette il Sinai all’Egitto.

I legami di Mubarak con i leader arabi. Due anni dopo il presidente Anwar Sadat lo nomina vice presidente e gli affida la gestione della politica nazionale, mentre lui si occupa di quella estera. Ma Mubarak inizia a stringere forti legami personali con vari leader arabi, tra cui il principe saudita Fahd. Nell’ottobre del 1981 l’attentato a Sadat, dove Mubarak resta ferito. Il presidente morirà in ospedale, mentre Mubarak gli succede. Viene confermato alla presidenza con il 98 per cento dei voti in un referendum che lo vede unico candidato. La sua leadership verrà confermata in tre referendum successivi e senza opposizione nel 1987, 1993 e 1999. Le prime elezioni pluripartitiche sono del 2005, ma anche in questo caso Mubarak stravince. Succeduto a Sadat, promette di mantenere gli accordi di Camp David, ma sotto la sua presidenza si ammorbidiscono i rapporti con Israele. Sotto il suo dominio, l’Egitto diventa un alleato chiave degli Stati Uniti nella regione, ricevendo 1,3 miliardi di dollari all’anno in aiuti militari statunitensi fino al 2011. Sotto la sua leadership, porta l’Egitto ad avere un ruolo chiave nella mediazione tra israeliani e palestinesi per un accordo di pace.

Il duro colpo dell’invasione dell’Iraq. Mubarak avvicina l’Egitto anche all’Arabia Saudita, rafforzando così il fronte arabo contro il potere crescente dell’Iran dell’Ayatollah Khomeini. L’ex presidente fa sì che l’Egitto venga riammesso nella Lega Araba, dalla quale era stato espulso nel 1979. Il quartier generale dell’organizzazione panaraba torna alla sua sede originale sulle rive del Nilo. L’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq nel 1991 rappresenta un duro colpo per Mubarak, che aveva ricevuto da Saddam Hussein la promessa che non ci sarebbe stata un’azione militare. Nel 2003 l’ex raìs contesta la decisione degli Stati Uniti di invadere l’Iraq, affermando che l’azione avrebbe portato alla creazione di ”100 Bin Laden”.

Chi era Mubarak, nipotino di Nasser e zio di Ruby. Paolo Guzzanti de Il Riformista il 27 Febbraio 2020. Era un tiranno: poco ma sicuro. Ma la sua tirannia d’Egitto aveva bagliori e larghe aree di laissez-faire. Non era un totalitario come il generale al-Sisi, ma un militare gaudente, moderatamente feroce, ragionevole e crudele. Hosni Mubarak è morto ieri a 91 anni, ma era già politicamente morto nel 2011, quando fu rovesciato dai moti di piazza delle primavere arabe, che poi – Tunisia a parte – finirono tutte in bagni di sangue e regimi ancora più distruttivi. Naturalmente quando si nomina Mubarak, in Italia scatta il riflesso condizionato della “nipote di Mubarak”, al secolo la famosa Ruby che passò come nipote del rais egiziano e per la quale Berlusconi disse di aver chiesto alla questura a Milano un occhio di riguardo, perché “hai visto mai, magari è davvero sua nipote”. So che manderò in bestia molti lettori e ci sono abituato, ma io lo dissi allora e lo ripeto oggi che trovai allora la versione di Berlusconi assolutamente credibile, visto il clima dei rapporti personali fra i due. Mubarak aveva fama, giustificata, di allevare e apprezzare un esercito vastissimo di nipotine e di sicuro non avrebbe mai avuto nulla da temere dai movimenti “Mee-Too” in casa sua. Era stato il successore di Sadat il quale a sua volta era stato il successore di Nasser, l’uomo che mandò all’inferno l’Occidente aprendo il suo Paese ai sovietici che armarono il suo esercito, costruirono la diga di Assuan e lo indussero a scatenare guerre disastrose contro Israele. Ma Nasser era un uomo legato al Baath arabo, cioè all’ideologia nazional socialista araba così come Assad padre, come Saddam Hussein e tutti i satrapi del Medio Oriente che, durante la Seconda guerra mondiale avevano apertamente parteggiato, insieme al Gran Muftì di Gerusalemme, per Hitler contro il foyer ebraico promesso dagli inglesi ai coloni ebrei con gli accordi di Balfour durante la Prima guerra mondiale. Mubarak era un giovane brillante capo dell’aviazione egiziana, diventando il numero due del presidente Anwar Sadat, quello che aveva osato l’inosabile – riconoscere l’esistenza dello Stato di Israele dopo le catastrofiche guerre del 1967 e quella di Yom Kippur del 1973 – pagando questa follia con la propria pelle. Quel giorno del 1981, quando un pugno di congiurati dei Fratelli Musulmani uccise Sadat nel mezzo di una parata militare al Cairo, Hosni era al suo fianco in alta uniforme, suo numero due. Sadat era stato protetto segretamente e vanamente dalla Cia, che per lui aveva creato una sede a Roma in cui si avvicendavano gli uomini che avrebbero dovuto garantire la sua vita, e Mubarak era a sua volta l’uomo della speranza occidentale per il proseguimento del dialogo con Israele. Infatti, ieri Bibi Netanyahu gli rendeva pubblicamente omaggio a nome dello Stato ebraico definendolo un «combattente per la pace». Mubarak aveva incontrato molte volte i leader israeliani e si era attirato per questo, come il suo predecessore, l’odio senza quartiere dell’islamismo filopalestinese, benché il leader storico dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, Yasser Arafat, egiziano di nascita, lo adorasse. Io ebbi per puro caso la sorte di essere l’ultimo giornalista che incontrò Arafat prima che tornasse nel suo compound dove morì misteriosamente forse – come sostenne la moglie – avvelenato con il polonio. Lo incontrai all’Hotel Excelsior di via Veneto e passammo alcune ore per me straordinarie: Arafat era fortemente spaventato, era tremante e mi disse che soltanto Mubarak poteva proteggertelo dai suoi nemici. Mi sembrarono allora le parole di uno che aveva perso la bussola, ma sta di fatto che il leader dell’Olp morì dopo un misterioso periodo di segregazione e che secondo fonti di intelligence dell’epoca, la sua eliminazione era da attribuirsi all’ala radicale egiziana. Non lo sapremo mai, ma sta di fatto che il trentennio di Mubarak fu quello di un Egitto proteso verso un accordo generale con Israele, ed ottenne la restituzione della penisola del Sinai che gli israeliani avevano catturato e su cui si erano insediati migliaia di coloni che furono fatti sloggiare dal governo di Gerusalemme con la forza. Il Sinai era stato il fronte di guerra del giovane ufficiale dell’aviazione Mubarak, quando le armate israeliane minacciavano di raggiungere il Cairo sotto la guida del geniale Moshe Dayan l’uomo con una benda nera e l’inventore della tattica dei carri armati autosufficienti che agivano nel deserto come vascelli pirata, devastando le linee dell’esercito egiziano ancora formato da reparti rigidi secondo i modelli turco e inglese. Mubarak amava la bella vita, le belle donne, detestava i suoi nemici e restò al potere a colpi di referendum manipolati, sull’onda dei sentimenti popolari occasionali e tumultuosi. Esattamente come quelli che lo abbatterono nel 2011 quando lui reagì alla piazza insorta come ogni altro rais prima e dopo di lui: aprendo il fuoco sugli inermi e falciando le strade con le mitragliatrici. Abbattuto nel 2011 e portato davanti al supremo tribunale militare, le accuse contro di lui caddero ad una ad una col passare del tempo e alla fine furono tutte cancellate dal nuovo regime di al-Sisi, nato a sua volta da una repressione ferocissima con i carri armati contro i Fratelli musulmani che avevano vinto le elezioni e che a loro volta avevano scatenato repressioni devastanti. Mubarak era stato un grandioso tiranno, ma non un tiranno totalitario come gli attuali governanti. Per lui era importante guidare la politica estera con una duttilità creativa che sfidava l’islamismo sunnita, ma non mosse un dito contro le libertà sostanziali degli egiziani nelle loro vite private. Il suo Egitto era uno Stato di polizia, ma al tempo stesso un Paese liberale in cui la pluralità era garantita e la libertà di comunicazione con gli israeliani era sempre aperta. Aveva sostenuto la politica della striscia di Gaza – una terra egiziana conquistata dagli israeliani nel 1967 – come territorio palestinese autonomo e questa fu esattamente la linea che accolse Ariel Sharon, il soldataccio della passeggiata delle Moschee, quando lasciò che la Striscia diventasse il territorio d’insediamento per Arafat nel 1994. Io andai ad assistere alla fastosa cerimonia con cui Arafat prese possesso di questa terra, ma poiché ero arrivato senza un “Passi” firmato e timbrato dagli uffici dell’Olp, fui subito arrestato dalle milizie e messo in quarantena in una rovente capanna dal tetto di alluminio davanti al deserto e fui costretto a guardare la cerimonia su una televisione in bianco nero insieme a uno sceicco caduto in disgrazia. Ma poi fui ammesso ai festeggiamenti serali e gli egiziani erano i più entusiasti della soluzione che allora sembrava quella più intelligente e produttiva per comporre il conflitto israeliano palestinese. Anche allora centinaia di migliaia di coloni israeliani furono costretti ad andarsene da Gaza affinché il piano costruito con pazienza al Cairo e a Gerusalemme andasse in porto. Questa era la grandezza di Mubarak: aveva combattuto con onore e come un eroe di guerra contro Israele nel 1973. Aveva capito che mai alcuna coalizione araba, anche se fortemente sostenuta dall’Unione Sovietica come era accaduto, avrebbe potuto sconfiggere Israele perché quel Paese aveva non soltanto la potenza militare delle armi più moderne, ma una motivazione e una rapidità d’azione nell’affrontare le crisi, che né l’Egitto né le altre potenze arabe avrebbero mai potuto avere, per quanto numerosi fossero i loro carri armati. Era dai tempi in cui Mosè impose al Faraone la libertà del suo popolo affinché raggiungesse la sua terra attraverso le acque del Maro Rosso, che il popolo egiziano e quello ebraico scrivevano insieme il destino delle loro terre. Sadat aveva visto prima e aveva sfidato la morte per il primo passo verso il realismo: Mubarak compì i passi successivi anche attraverso periodi di rapporti pessimi fra il Cairo e Gerusalemme, Mubarak non era buono, non era mite, non era democratico, non era un santo da qualsiasi parte lo si guardasse. Ma aveva il dono del realismo e anche la struttura etica del leader che sa di potersi opporre alle piazze, ma non alla storia. Tiranno sì, totalitario no. La capitale egiziana durante il suo regno era una metropoli deliziosamente caotica, ragionevolmente corrotta, anzi corrottissima, ma piena di eventi, arte, libri, congiure, tangenti, champagne e turisti. I nemici di Mubarak tentarono di colpire il suo governo colpendo i turisti in crociera sul Nilo ed era l’unica arma che potessero usare, ma la polizia segreta del rais era informata, spietata e segretamente connessa con il Mossad israeliano. Il Cairo di oggi è una metropoli in cui il regime ha deciso di prendere possesso della vita personale dei sudditi per inquisirla, esaminarla, reprimerla. In un certo senso, l’Egitto del dopo Mubarak somiglia un po’ al Cile di Pinochet durante la guerra fredda. Il Paese che aveva guidato l’uomo che ieri si è spento in ospedale dopo quasi dieci anni dalla sua caduta, era invece molto più simile all’Egitto degli inglesi e del re Faruk, un gaudente opportunista cacciato con un colpo di stato militare. Hosni amava le parate, ma senza eccessi. Aveva un suo senso dell’umorismo, non sempre innocente. Non conosceva altro diritto se non quello della forza e del realismo, e questa era la sua virtù in un’area geografica che non ha mai conosciuto altre forme di governo che quelle delle maniere forti, delle repressioni nel sangue e delle aperture improvvise. Oggi gli analisti che Al-Jazeera intervistava per raccontare la sua epoca, concordavano: Mubarak fu un tiranno quasi buono, un uomo di Stato, una persona tanto crudele quanto affidabile, moderatamente corrotto, circondato da stuoli di nipoti e più ancora di nipotine appassionate per la danza dei sette veli. 

·        Addio a Katherine Johnson, la scienziata della Nasa che portò l'uomo nello spazio.

Addio Katherine Johnson, la matematica che fece a mano i conti per la missione nello spazio. Pubblicato lunedì, 24 febbraio 2020 su Corriere.it da Gianna Fragonara. Johnson nel 2015 ha ricevuto la più alta onorificenza americana da Barack Obama. Buon viaggio Mrs Johnson! Se ne è andata, a 101 anni una delle figure più importanti della matematica e delle scienze aerospaziali americane e del mondo: Katherine Coleman Goble Johnson, la donna che calcolò le traiettorie dei primi viaggi dell’uomo nello spazio. Nera, figlia di un boscaiolo e di una insegnante, classe 1918, nata nella piccola città di White Sulphur Springs nello Stato americano del West Virginia, fu una delle prime allieve di colore ammesse alla scuola locale dove si è diplomata a soli 14 anni. All’inizio degli anni Cinquanta fu assunta dalla Nasa (allora Naca), ma è nel 1957 con il lancio dello Sputnik da parte dei sovietici che la sua vita - oltre che la storia del mondo - cambia: ci sono i suoi calcoli sulle traiettorie dietro la missione Freedom 7 di Alan Shepard (maggio 1961). Dopo essere stata la prima donna autore di un testo di matematica astronomica nel 1962 ha partecipato al gruppo di lavoro che ha preparato la missione orbitale di John Glenn: il suo lavoro è stato quello di costruire un sistema di comunicazione tra computer nel mondo che collegasse le varie stazioni con Washington, Cape Canaveral e le Bermuda: questa «rete» doveva controllare la traiettoria della capsula spaziale. I computer erano stati programmati secondo le equazioni predisposte dal gruppo di ingegneri ma prima della partenza della missione a Johnson è stato chiesto da Glenn di ripetere tutta la sequenza delle operazioni sulle traiettorie. Ma a mano, con la sua calcolatrice meccanica: «Se lei dice Ok - si racconta che abbia detto Glenn - allora vado». La missione fu un successo. Johnson ha lavorato per quasi tutte le missioni spaziali, compresa la Apollo 11 nel 1969 con il leggendario sbarco dell’uomo sulla Luna, quelle dello Shuttle e anche sui primi studi per le sonde da inviare su Marte. Ha lasciato la Nasa nel 1986, ma la sua storia è diventata un libro e poi un film («Hidden figures»). E anche la Mattel le ha reso omaggio creando una Barbie con il suo nome e le sue sembianze, come monito ed esempio per le bambine di oggi. Nel 2015 il presidente Barack Obama l’ha insignita della Presidential Medal of Freedom, la più alta onorificenza civile americana.

Addio a Katherine Johnson, la scienziata della Nasa che portò l'uomo nello spazio. Aveva 101 anni. La sua storia raccontata nel film ''Diritto di Contare''. Nel 2015 disse: "Io conto tutto, i miei passi (...) e le stelle in cielo. Tutto ciò che può essere contato, io conto". La Repubblica il 24 febbraio 2020. E' morta a 101 anni Katherine Johnson, la matematica, informatica e fisica statunitense, originaria della Virginia, che ha contribuito con i suoi calcoli a lanciare la corsa nello spazio lavorando per la Nasa. La sua storia è stata raccontata sul grande schermo con "Il diritto di contare" (Hidden Figures il titolo originale, 2016), film diretto da Theordore Melfi e tratto dall'omonimo romanzo di Margot Lee Shetterly. Nel 2015 l'allora presidente degli Usa, Barack Obama, l'ha insignita della Medal of Freedom, la più alta onorificenza civile negli Usa. Johnson ha contribuito in modo fondamentale all'aeronautica statunitense e ai programmi spaziali della Nasa, dove ha lavorato per 33 anni, sfidando razzismo e sessismo: dai calcoli delle traiettorie delle orbite alle finestre di lancio delle navicelle spaziali, dai percorsi di ritorno di emergenza per molti voli lunari del programma Apollo fino al lavoro sul programma Space Shuttle e ai piani per le missioni su Marte. Fu determinante la traiettoria da lei tracciata per la missione Apollo 11 nel 1969. Ma la sfida per emergere è iniziata da subito per Katherine che già da giovanissima aveva dimostrato una particolare inclinazione al calcolo. Fu grazie alla pervicacia dei suoi genitori, Joshua Johnson e Joylette Coleman, se la piccola Johnson mandata in un'altra contea a causa delle leggi razziali, fu selezionata tra i tre studenti afroamericani, unica donna, per integrare la scuola di specializzazione, dopo la sentenza della Corte Suprema del Missouri del 1938, in cui si affermava che gli stati che fornivano una scuola a studenti bianchi dovevano fornire un'istruzione statale analoga anche agli studenti neri. Nel 1953 le fu offerto un lavoro alla Nasa e Katherine divenne così una delle prime donne afroamericane del Dipartimento di guida e navigazione. Dal 1953 e fino al 1958 si occupò di calcolo nell'ambito del programma di ricerca per l'attenuazione degli effetti delle raffiche di vento sugli aeromobili. Faceva parte della squadra di calcolo formata interamente da donne afroamericane identificate come ''calcolatori di colore'' e continuamente soggette alla discriminazione razziale, obbligate a lavorare, pranzare e usare i servizi igienici separati dai loro colleghi bianchi, fino a quando il gruppo fu sciolto nel 1958. Dal 1958 fino alla pensione, nel 1986, Katherine ha lavorato come ingegnere aerospaziale. Ha calcolato nel 1959 la traiettoria per il primo volo spaziale con equipaggio, poi assegnato ad Alan Shepard, e ha anche calcolato la finestra di lancio per la missione Mercury del 1961. E ha tracciato diagrammi di backup di navigazione per gli astronauti in caso di guasto elettronico. Nel 1962, quando la Nasa ha utilizzato i calcolatori elettronici per la prima volta per il calcolo del volo orbitale con la Mercury Friendship 7, viene richiesto a Johnson di verificare i calcoli del computer poichè un degli astronauti della missione, John Glenn, si rifiutava di volare a meno che la stessa Katherine non li confermasse. La sua capacità e reputazione per la precisione hanno visto assegnare a Johnson il calcolo della traiettoria per la missione del 1969 di Apollo 11, con lo sbarco dell'uomo sulla Luna. Nel 1970 Johnson ha lavorato al programma di Apollo 13 e una volta che la missione è stata interrotta ha aiutato l'equipaggio a tornare sano e salvo sulla Terra. Dalla fine degli anni '70 ha lavorato anche al programma Space Shuttle, all'Earth Resources Satellite e ai piani per una missione su Marte. Nel 2015, in occasione della consegna della Medaglia presidenziale della Libertà, Katherine ha spiegato la sua vita in beve: "Io conto tutto, conto i passi che faccio per strada, quelli per andare in chiesa, il numeri di piatti e stoviglie che lavo, le stelle in cielo. Tutto ciò che può essere contato, io conto". Il 5 maggio 2016 il nuovo impianto Katherine G. Johnson Computational Research le è stato formalmente dedicato alla Langley Research Center a Hampton, in Virginia.

 Poppy e le altre: le scienziate che spedirono l'uomo sulla Luna. Gaia Scorza su La Repubblica il 19 luglio 2019. Negli anni '50 venivano chiamate "computress", ma hanno ricoperto ruoli chiave nella corsa all'allunaggio. Frances Northcutt fu una di loro, le donne celebrate oggi dalla Nasa. Allora la chiamavano computress, che più o meno suonava come "la signorina computer". Non c’era da stupirsi. Intorno a lei, al centro di controllo di Houston, c’erano soprattutto uomini ed era proprio questo che le aveva fatto gola: uno stipendio più alto. Così Frances Northcutt, detta 'Poppy', classe '43, con una laurea in matematica presa in Texas a soli 25 anni fu la prima donna a sedersi nella stanza dei bottoni della Nasa per far tornare a Terra gli astronauti spediti sulla Luna. Fu sua la supervisione del calcolo che fece rientrare l’Apollo 8 dall’orbita lunare, la prima andata in porto. Ma Poppy giocò un ruolo fondamentale anche dopo l’incidente del 1970, che l’equipaggio dell’Apollo 13 segnalò pronunciando l’indimenticabile "Houston, abbiamo un problema". Grazie ai calcoli della scienziata, in quattro tornarono tutti illesi. "Una bionda nella sala di controllo", titolava allora la stampa più attenta al suo look che alla perizia. D'altronde lavorare sotto pressione non era stato facile, avrebbe raccontato la stessa Northcutt intervistata nel 2017 per il lancio di "Il diritto di contare" (2016), il film dedicato alle donne in forza alla Nasa che come lei avevano tentato la vera impresa: fare un lavoro da uomini. Negli anni ’50 dietro le quinte dei successi spaziali, oltre a Poppy, c’erano anche Katherine Johnson, Dorothy Vaughan e Mary Jackson. E poi JoAnn Morgan, Susan Finley, Margaret Hamilton e molte altre. Ci vollero anni perché l'Agenzia spaziale americana riconoscesse il valore del loro contributo ai traguardi raggiunti dall’ingegneria spaziale a partire dall’allunaggio. Nel 2016 fu Barack Obama a consegnare la medaglia presidenziale della libertà a Margaret Hamilton che, a 80 anni compiuti, commentò: "Erano certi che sapevo fare il mio lavoro, ma temevano che gli uomini non mi avrebbero ubbidito. Invece, lo fecero". E dall'Apollo 11 scesero tutti sani e salvi.  

Anni dopo una carriera calmierata dalle leggi che obbligavano le donne a lavorare meno ore rispetto agli uomini, Northcutt raccontò di avere scoperto tardi che nel Mission Control Centre c'era una telecamera puntata solo su di lei per studiarne le mosse. Chissà quanto tutto questo  l’abbia convinta a dedicarsi poi, nei decenni a seguire, alle cause legali di donne vittime di maltrattamenti invece che alle stelle. Di recente Poppy non ha lesinato critiche neppure alla società che, a suo dire, "non ha fatto poi così tanti passi avanti". Per certi versi, anche dal punto di vista tecnologico, come ha avuto modo di stigmatizzare dimostrando ancora una volta di saper guardare oltre: "Oggi abbiamo molte più possibilità tecnologiche di allora, possiamo fare molto più che scattare selfie".

·        Lego, morto Nygaard Knudsen inventore degli omini del colosso dei giochi.

Lego, morto Nygaard Knudsen inventore degli omini del colosso dei giochi. La sua prima minifigura, un poliziotto, debuttò nel 1978. Andrea Tarquini il 24 febbraio 2020 su La Repubblica. Per anni Jens Nygaard Knudsen ha reso felici i bimbi di tutto il mondo. E anche i collezionisti di giocattoli del pianeta. Mercoledì, a 78 anni, è morto nella sua casetta di Hvide Sande, sulla costa occidentale danese, e ieri la Lego, la sua azienda, ne ha dato notizia. Knudsen era infatti il taciturno e geniale inventore delle figurine umane della Lego. Quei pupazzetti che, da lui ideati nel 1978, hanno cambiato a fondo il mondo dei mattoncini. Un poliziotto, con braccia e gambe mobili, ovviamente agganciabile con il sistema d’inserto a ogni mattoncino, fu la sua prima creatura in miniatura: ne furono prodotti quattro miliardi. Seguirono milioni di figure diverse: il dottore, il pompiere, il fattorino, l’astronauta, tutti con le mani ad artiglio per impugnare armi o strumenti Lego. All’inizio erano tutti gialli, perché secondo Knudsen era il colore preferito dai bimbi. Il primo omino Lego di colore raffigurò il personaggio di Star Wars Lando Calrissian. Poi vennero figure di tante serie e film, da Guerre stellari, appunto, fino a Harry Potter, Spider Man e Jurassic Park. Knudsen non c’è più, ma resterà per sempre un genio.

È morto Jens-Nygaard Knudsen, l’inventore degli omini Lego. Pubblicato lunedì, 24 febbraio 2020 su Corriere.it da Luigi Offeddu. Non erano ometti. E neppure bambine. Ai mattoncini o pupazzetti con le braccia e le gambe snodabili e intercambiabili che aveva creato con il marchio Lego per i bambini (ma anche per molti adulti dotati di fantasia) in tutto il mondo, Jens Nygaard Knudsen non aveva mai dato un’età, un sesso, un volto preciso, soprattutto una razza, il colore di una pelle (il colore giallo fu scelto soltanto perché, in un sondaggio, risultò «il preferito dei bambini»). Quei pupazzetti o figurine avevano un’espressione neutra, perché tutti potessero giocare con loro in libertà, perché ogni bambino potesse scegliere la loro espressione, in un certo senso la loro «anima». E comporre con loro, con le loro minuscole braccia e gambe, un proprio mondo. Ogni figura, un’avventura, un sogno, un apprendistato giocoso alla vita: così almeno le considerava lui, e il mercato non lo ha mai smentito. Knudsen è morto mercoledì a 78 anni in una casa di riposo sulla costa occidentale della sua Danimarca, dopo una vita «traboccante di idee», come ha detto qualcuno dei suoi antichi colleghi. E dopo avere, come ha detto la sua vedova all’agenzia France Presse, «messo la vita nelle case». Aveva lavorato come disegnatore per la Lego dal 1968 al 2000, e aveva esercitato la sua fantasia su quei progetti di figurine per quasi 10 anni, prima di lanciarle ufficialmente nel 1978. Avevano quasi subito conquistato il mercato mondiale, superando i rivali americani come quelli della Hasbro, anche durante la crisi più profonda dell’industria dei giocattoli: la Lego, che produce in Danimarca, nella Repubblica Ceca e in Ungheria, solo nel 2019 e solo in Cina ha aperto 80 nuovi negozi. I mattoncini, o figurine, disegnati da Knudsen hanno popolato nel tempo e nei Paesi dalle culture o sistemi sociali più diversi intere città in miniatura, film e video-giochi, scenari teatrali e panorami della natura. Tutto affidato all’immaginazione dei bambini. Che quei bambini fossero iscritti a qualche organizzazione giovanile comunista, com’era il caso della Repubblica popolare cinese, o figli benestanti di una società occidentale liberista, come in Germania o in Scandinavia o negli Usa, che fossero cresciuti in famiglie conservatrici o all’avanguardia culturale nei rispettivi Paesi, poco cambiava. Per Knudsen cambiavano e cambiano i valori, non il tocco della sua fantasia: che era sempre delicato, e rispettoso dei piccoli appassionati; anche gli smartphone, o tutti gli oggetti o giocattoli digitali, nonostante il loro successo negli ultimi anni non erano riusciti a umiliare i pupazzetti, a buttarli fuori dal mercato. Perché con loro, ogni bambino continuava a creare in libertà il suo piccolo universo. Con i suoi baffoni e occhiali, il disegnatore danese era una sorta di mago nascosto dietro le quinte di quel mondo, presente ma sempre discreto, mai dominante. Leggendaria è sempre stata la battaglia impegnata dalla Lego con l’altra rivale Playmobil pure creatrice di grandi successi. Per il Natale 2019, per esempio, Playmobil ha «schierato» sul mercato italiano la «Casa delle bambole trasportabili», o la «Caserma dei Ghostbusters (“cacciatori di fantasmi”)». E la Lego, il famoso Castello di Hogwarts di Harry Potter. In quel momento, il mago Knudsen non era più in trincea. Ma in qualche modo, la sua passione per la fantasia aleggiava ancora su tutto il mondo dei giocattoli. 

·        Addio a Nando Ceccarini, maestro della cronaca per 20 anni.

Addio a Nando Ceccarini, maestro della cronaca per 20 anni. E' morto a 80 anni. Capocronista degli anni ruggenti, scelto da Eugenio Scalfari per il suo talento raro. "Il lettore - diceva sempre - deve capire. Scrivi come parli". I funerali mercoledì 26 febbraio alle 10 presso il Tempietto Egizio del cimitero del Verano di Roma. Daniele Mastrocinque il 20 febbraio 2020 su La Repubblica. E' morto Ferdinando Ceccarini. Nando, il mio capo per 15 anni. Il Cronista, con la C maiuscola, come lo chiamava Eugenio Scalfari ogni volta che aveva bisogno di consultarlo per un fatto di cronaca che dominava quel giorno. Perché Ferdinando Ceccarini, scomparso ieri sera a 80 anni, dopo un attacco cardiaco da cui si era salvato grazie all'intervento del figlio ma poi riapparso per un trasferimento ad altro ospedale del tutto imprudente, aveva un talento raro, anche per un giornalista: aveva il fiuto per le notizie, sapeva come svilupparle e poi metterle sul giornale con una scansione che le rendeva chiare e complete. L'ho conosciuto a Repubblica. Io giovane cronista alle prime armi, lui caporedattore chiamato da Paese Sera dove aveva fatto di tutto. Con una velocità nella scrittura, anche bella, che gli aveva fatto conquistare il nome di "Ribattuta Joe" quando da noi guidava la squadra di notte ed era capace di rifare tutto il giornale per la seconda edizione. Una qualità che aveva raggiunto come capo dell'edizione pomeridiana del grande quotidiano di via dei Taurini, nel quartiere romano di San Lorenzo. Sveglia all'alba e fattura di un numero che sarebbe stato in edicola alle 3 del pomeriggio. Anche per questo il fondatore di Repubblica lo volle nel nostro giornale. Con la sua esperienza avrebbe formato l'ossatura di un settore che fino a quel momento era a metà tra il Politico e la Cronaca. E' stato lì per vent'anni. Da Nando ho imparato molto, se non tutto. Come scrivere un pezzo, come cercare le notizie; il rigore nelle verifiche, nei dettagli, negli attacchi degli articoli, nella prosa asciutta ma efficace. Nella chiarezza. "Il lettore", mi diceva sempre quando mi faceva riscrivere un pezzo, "deve capire. Scrivi come parli". Nando Ceccarini era un maestro, il capitano di una squadra da lui stesso formata. Ti dava fiducia e ti difendeva fino in fondo. Si assumeva le responsabilità di averti mandato su un fatto da coprire e si prendeva i rimbrotti se il giorno dopo si lamentavano di un "buco", quello che nel nostro gergo significa non avere una notizia che la concorrenza aveva. Ti chiamava poi nel suo box, ti strapazzava se c'era bisogno ma poi ti affidava un nuovo pezzo invitandoti a fare meglio. Si infuriava, non portava mai rancore. Era allegro, pieno di ironia. Puntava su di te e da te pretendeva il massimo. Dal suo piccolo buco a vetri osservava i suoi cronisti sfogliando a ritmi impressionanti la montagna di agenzie di stampa che i commessi gli riversavano sulla scrivania. Ha scritto, impostato e titolato migliaia di pagine che hanno fatto la storia d'Italia. Amava la sua Sardegna che raggiungeva appena poteva, così come amava sua moglie Aurora, primario oculista al San Giovanni, che ha assistito fino alla fine dopo i primi segni della Sla che l'aggrediva. Anche per questo smise di venire al giornale sebbene in pensione per "respirare quell'aria", come mi diceva quando lo incontravo nei corridoi, "che lo faceva sentire vivo". Repubblica aveva la sua sede ancora a Piazza Indipendenza. Anni durante i quali il nostro quotidiano raggiunse fama e notorietà diventando il primo giornale in Italia. Questo grazie anche a colleghi come Nando. Decine se non centinaia di cronisti oggi lo piangono. Ha dato molto e insegnato tantissimo. Voglio ricordarlo nella sua forma migliore. Quando non scriveva, senza firmare, dirigeva. Ho un'immagine che mi è rimasta scolpita. Un sabato pomeriggio, senza notizie. Ceccarini di turno, felice perché sarebbe partito per la Sardegna quella sera stessa. Riceve una telefonata da Attilio Bolzoni, all'epoca corrispondente a Palermo. La faccia diventa seria di colpo. Resta in silenzio. Disegna in pochi minuti quindici pagine. Una scansione impressionante: chiarissime, perfette. Va all'ufficio centrale che ha già saputo la notizia: Giovanni Falcone e sua moglie Francesca Morvillo sono stati colpiti da un attentato. L'agitazione è immensa. Prima di lasciare la stanza della cronaca ci guarda: "Tutti mobilitati. La mafia ha ucciso Falcone". Due inviati già erano in volo per Palermo, noi chini sulle macchine da scrivere. Il Cronista con le pagine disegnate e pronte da riempire e titolare. Uscimmo con un numero eccezionale, stracciando la concorrenza. I funerali di Nando Ceccarini si terranno mercoledì 26 febbraio alle 10 presso il Tempietto Egizio del cimitero del Verano di Roma.

·        Morto a 99 anni Jean Daniel, il fondatore dell'Obs.

Morto a 99 anni Jean Daniel, il fondatore dell'Obs: "Una lunga vita di passione, impegno e creazione". L'annuncio della scomparsa del giornalista, collaboratore di Repubblica, sul sito del settimanale francese: "E' stato un testimone, un attore e una coscienza di questo mondo. La redazione esprime profonda ammirazione, sincera gratitudine e fedele memoria". La Repubblica il 20 febbraio 2020.  Jean Daniel, fondatore del Nouvel Observateur, divenuto Obs, è morto. Lo ha annunciato il settimanale sul proprio sito web. "È morto mercoledì notte all'età di 99 anni dopo una lunga vita di passione, impegno e creazione", si legge. Jean Daniel aveva fondato nel 1964 con Claude Perdriel Le Nouvel Observateur, di cui è stato direttore della pubblicazione fino al 2008. "Con lui muore il più prestigioso giornalista francese. Un testimone, un attore e una coscienza di questo mondo. La redazione esprime profonda ammirazione, sincera gratitudine e fedele memoria", si legge nel sito della rivista. Nato a Blida in Algeria il 21 luglio 1920, si unì alla famosa "division blindée" del generale Leclerc e partecipò alla Liberazione prima di studiare filosofia alla Sorbona. Nel 1947 fondò la rivista culturale "Caliban" e ben presto conobbe Albert Camus, che al tempo dirigeva "Combat" ed era già l'apprezzatissimo autore de "Lo straniero". A farli incontrare lo scrittore Louis Guilloux: Camus chiese a Daniel di pubblicare un testo di Guilloux e il giornalista rispose recitandogli a memoria alcuni passaggi di un romanzo di Guilloux. Fu l'inizio di un'amicizia e di un confronto intellettuale profondo e spesso aspro, rievocato nel saggio "L'aria del tempo" (Mesogea), in cui rileggeva l'intera opera di Camus come se fosse una ininterrotta lezione di etica, utilissima oggi per sfuggire all'insidia totalitaria e all'ideologia dominante. Nel 1954 scrisse il suo primo articolo per "L'Express", che gli chiese di coprire la guerra in Algeria e nel 1963 intervistò John F. Kennedy divenendo così uno dei più importanti testimoni della Storia. Quando Kennedy venne ucciso, Jean Daniel era in compagnia di Fidel Castro. Ormai considerato uno dei più autorevoli giornalisti francesi al mondo ( dialogherà tra gli altri con Pierre Mendès-France, Michel Rocard, Francois Mitterand, Jacques Delors, Shimon Peres...), nel 1964 decise di rilevare con l'industriale Claude Perdriel  "France Observateur", che divenne "Le Nouvel Observateur",  rivista settimanale punto di riferimento della sinistra francese, in prima linea per le lotte sociali, dalla legalizzazione dell'aborto ai diritti degli omossessuali e alla lotta al razzismo. Tra i saggi pubblicati in Italia da Dalai editore ricordiamo "La prigione ebraica", in cui toccava tutti i temi della questione ebraica, da quello religioso, nei rapporti con le società cristiane, a quello dell'Olocausto e delle sue origini, a quello del conflitto arabo-palestinese, nello scenario ultimo del terrorismo e dei kamikaze. E ancora: "Ribelli in cerca di una causa" nel quale analizzava le rivolte delle banlieu francesi e i suoi protagonisti, giovani magrebini e giovani africani, gli uni e gli altri nipoti di immigrati e dunque presenti da due generazioni sul territorio francese, rintracciando nella loro violenza i segni di una crisi di identità profonda. Insignito dei più alti riconoscimenti, dalla Legion d'Onore al premio Principe delle Asturie per la comunicazione e l'umanistica, collaboratore di "Repubblica" per cui scrisse editoriali sui più importanti temi di attualità internazionale, dalla minaccia del terrorismo islamico alla ghettizzazione delle periferie europee, voleva essere ricordato in modo asciutto e modesto. Nel libro intervista "Questo straniero mi somiglia", dove per la prima volta ha raccontato la sua esperienza biografica e intellettuale, spiegò di avere già scritto il suo epitaffio: "Jean Daniel, giornalista e scrittore francese". Nient'altro. 

Da ''la Stampa'' il 21 febbraio 2020. Il «favoloso destino» di Jean Daniel si è compiuto ieri, alla favolosa età di 99 anni. Scompare così il più noto, importante e a suo tempo influente giornalista francese, l' uomo che sussurrava ai presidenti, rappresentante di un' epoca marchiata per intero dalle stigmate del Novecento, dalla guerra di Liberazione dal nazismo cui partecipò nella leggendaria «division blindée» del generale Leclerc, all' uscita dal colonialismo. Ha incarnato il tormento razionale, la passione intellettuale, la concretezza del giornalismo militante. Tutto ciò che ha rappresentato per oltre cinquant' anni il suo Nouvel Observateur, modello di rivista settimanale che fu punto di riferimento della Gauche, alla confluenza di tutte le avanzate civili e insieme teatro di accaniti scontri culturali. Jean Daniel è stato il rappresentante più simbolico di questa avventura, amico fraterno di Albert Camus con cui fu spesso in contrasto, ma che è stato per lui «padrino e modello», come si legge oggi nel necrologio sul Novel Obs. La morte prematura dell' autore della Peste insieme all' editore Gallimard in un incidente stradale nel 1960 lo ha profondamente segnato. Nato il 21 luglio 1920 a Blida, a una cinquantina di chilometri da Algeri, undicesimo figlio di Jules Messaoud Bensaïd, ebreo, commerciante di cereali, cresce nella casa-bottega del padre, sul boulevard des Orangers, al centro di questa grande città sulla costa del Mediterraneo. La sorella maggiore Mathilde, appassionata di letteratura francese, lo inizia prestissimo al culto di Stendhal che diventa così il suo immaginario maestro di vita nella massima della «chasse au bonheur» e fin dalle scuole medie si mette in mostra per la naturalezza e l' eleganza della scrittura. Lo choc della vita gli piomba addosso il 7 ottobre 1940, data terribile per gli ebrei algerini. Il regime filo nazista di Vichy abroga il decreto Crémieux che dal 1870 accordava la naturalizzazione francese: è l' antisemitismo di Stato che sarà attuato con meticolosa ferocia dalla burocrazia francese e la deportazione di 75 mila ebrei. Jean Bensaïd ha vent' anni, deve lasciare l' università e da quel mite letterato cresciuto nell' apparente paradiso coloniale deve confrontarsi con la Storia. Diserta l' esercito regolare, raggiunge Londra attraverso la Scozia e si arruola nella 2° divisione blindata del generale Leclerc, al comando del generale De Gaulle, che il 18 giugno 1940 aveva lanciato l' appello per la liberazione della Francia dagli occupanti nazisti. Jean non andrà mai in prima linea, tuttavia gli verrà riconosciuta la "croce di guerra" per la liberazione di Parigi. Il dopoguerra fu per tutti un' eccitante ripresa di ogni attività, Jean si iscrive alla Sorbona, facoltà di filosofia, ma è la politica e il giornalismo che lo prendono. Parigi è attraversata da una febbre di dibattito intellettuale che diventa la misura stessa della vita. E lui si ritrova, come portato da un inevitabile destino caporedattore di Caliban, una delle riviste nate in questo clima intellettuale scoppiettante. Il giornale raccoglie un areopago di personalità animate dall' idea illuminista di «rendere intellegibile il mondo»: Jean-Paul Sartre, Emmanuel Mounier, Claude Bourdet, Jean-Marie Domenach e naturalmente Albert Camus. Fuoco del dibattito era come intrecciare marxismo e democrazia, liberandosi dalla stretta ideologica e operativa del Pcf, il partito comunista, che esercitava un' indiscussa egemonia sulla cultura. Più radicale Camus, più accomodante Jean che nel frattempo aveva preso il «nom de plume» di Daniel. L' avventura di Caliban finisce e ricomincia quella Jean Daniel che si intreccia così fortemente con la storia della Francia. Viene inviato da l' Express a coprire la guerra di liberazione algerina, è vicino a Pierre Mendès France, l' ex presidente del Consiglio che ha guidato della decolonizzazione dell' Indocina e che potrebbe essere capace di trovare una soluzione per l' Algeria. Ma Mendès lascia il governo, e Jean Daniel entra quasi subito in collisione con il ministro della giustizia François Mitterrand fautore della linea dura contro la resistenza algerina. Nasce in questa circostanza una reciproca diffidenza tra il politico e il giornalista che resterà tale fino alla fine. Nel 1964 l'industriale visionario Claude Perdriel offre a Jean Daniel la direzione di un nuovo settimanale, ritorna lo spirito e il progetto del Caliban, padrini dell' operazione Mendès France e Sartre. Nasce il Novel Observateur e parte l' avventura di mezzo secolo dove i diritti e i rovesci della politica e francese si riverberano sul mercato dei giornali e delle idee. Jean Daniel ne è stato protagonista e insieme severo ed elegantissimo osservatore e se la letteratura ha perso il romanziere che avrebbe voluto essere da «stendhaliano solare», la Francia legge oggi nella sua vita stessa uno dei suoi romanzi nazionali più emblematici.

·        Amaretto Disaronno, è morto il patron Augusto Reina.

Amaretto Disaronno, è morto il patron Augusto Reina. Appassionato di calcio, presiedeva un club di Serie D: "Ha sempre creduto nei giovani". La Repubblica il 20 Febbraio 2020. È morto Augusto Reina, patron del Disaronno e dell'Illva Saronno. Classe 1940, l'imprenditore si è spento nella serata di mercoledì 19 febbraio. Ceo dell'Illva Spa, colosso del beverage italiano che produce e commercializza l'Amaretto Disaronno, Reina ha portato il brand fuori dai confini nazionali rendendolo celebre nel mondo. Tra i marchi acquisiti nel corso degli anni anche Rabarbaro Zucca, Marsala Florio e vini Corvo e Duca di Salaparuta. Appassionato di sport, dal 1990 era entrato a far parte del consiglio della Caronnese calcio (oggi in serie D), per poi assumerne la presidenza dal 2003. "Cao pres, sei nei nostri cuori" si legge sul sito della società sportiva. "Brillante imprenditore a capo di una delle più importanti aziende di beverage al mondo, Reina aveva sposato i valori della Caronnese negli anni 90 entrando all’interno del Consiglio di Società, per poi diventarne Presidente negli anni successivi. Grazie alla sua riconosciuta impronta manageriale Augusto Reina nel corso del tempo ha saputo far crescere la Caronnese su tutti i fronti, facendola diventare una società modello pronta per solcare il professionismo: nei primi anni della sua presidenza la prima squadra è stata protagonista di un duplice salto di categoria, dalla Promozione all’Eccellenza fino alla Serie D (sotto la sua egida è avvenuta la fusione con la Salus et Virtus Turate), una categoria che non ha mai lasciato fino ai giorni nostri e in cui la società rossoblù ha sempre centrato gli obiettivi stagionali, confermandosi ai vertici in ogni stagione sportiva", la nota della Caronnese. "Reina ha sempre creduto nei giovani: sotto la sua guida la Caronnese ha sviluppato il suo vivaio raggiungendo importanti riconoscimenti a livello regionale e anche nazionale. Sono stati numerosi i giovani cresciuti all’interno del settore giovanile della società promossi in prima squadra e che poi hanno fatto il salto nelle categorie professionistiche. Augusto Reina ha sempre dimostrato grande passione per la crescita sportiva dei più piccoli campioni in erba (molto spesso era presente sugli spalti anche a tifare per le squadre più giovani). Dotato di una spiccata personalità e di grande umanità, il Presidente Reina mancherà sicuramente non solo ai suoi consiglieri e più ristretti collaboratori ma anche a tutti coloro (squadre, staff tecnici ma anche genitori) con cui ha condiviso gioie e felicità".

·        Napoli, è morto l’ex campione Mario Occhiello. 

Napoli, è morto l’ex campione Mario Occhiello. Federico Dedori 26/02/2020 su Notizie.it. È morto all’età di 73 anni Mario Occhiello. Era una delle bandiere dello sport di Posillipo campione di nuoto e pallanuoto. A comunicarlo attraverso una nota il circolo: “Ci ha lasciato una bandiera dello sport posillipino. Oltre ad essere stato un ottimo atleta (campione di nuoto, pallanuoto e salvamento), Mario Occhiello è stato un grandissimo amante del nostro sodalizio“. Lutto nel mondo dello sport, si è spento Mario Occhiello padre di Giampiero e Mauro, l’attuale allenatore dell’Acquachiara. Nella sua carriera Mario aveva giocato nel Posillipo e nella squadra dei Carabinieri. “Il presidente Semeraro, il Consiglio Direttivo, tutte le sezioni sportive e l’intero sodalizio, si uniscono al dolore della famiglia” concludono nella nota. Dopo aver smesso di giocare, Mario Occhiello è stato tecnico del settore giovanile e dirigente del circolo napoletano. Nella sua vita è stato campione del mondo di salvamento nel trasporto manichino e campione italiano dei 200 farfalla. Ai tanti messaggi di cordoglio si è aggiunta anche la Federazione Italiana Nuoto: “Il Comitato Regionale Campano – scrivono in una nota rilanciata su Internet – con il presidente, Paolo Trapanese, il Consiglio Direttivo ed i collaboratori tutti sono vicini alla famiglia Occhiello ed esprimono sentite condoglianze”. I funerali si sono svolti il 26 febbraio 2020 alle ore 15 presso la chiesa Santa Maria del Buon Consiglio in via Posillipo 257. Su Facebook il pallanuotista Andrea Scotti Galletta ha scritto: “Ciao Mario sei stato il primo allenatore ad accogliermi al Posillipo e ad insegnarmi i veri valori del circolo e dello sport… a farmi sentire in famiglia e a mio agio… il tuo buonumore era contagioso, le tue battute, i tuoi soprannomi, le mille risate, gli scherzi e le cazziate… Da quando alleno porto con me un pezzo anche di te…”.

·        È morto lo scrittore Clive Cussler, maestro dell'avventura.

È morto lo scrittore Clive Cussler, maestro dell'avventura. Clive Cussler in una foto d'archivio su un'auto d'epoca parte della sua collezione. Aveva 88 anni. Tra i suoi romanzi di maggior successo "Recuperate il Titanic" e "Virus". Ha venduto oltre 126 milioni di copie nel mondo. La Repubblica il 26 febbraio 2020. È morto Clive Cussler, grande scrittore di romanzi d'avventura di grande successo come Recuperate il Titanic e Sahara, Salto nel buio e Virus. Aveva 88 anni. "È con il cuore pesante che condivido la tristezza per la morte di mio marito lunedì 24 febbraio. È stato un privilegio e un grande onore dividere la vita con lui - ha scritto oggi la moglie, Janet Horvath, sui profili social dello scrittore - Era la persona più cortese e gentile che abbia mai incontrato. So  che le sue avventure continueranno". 'ultimo libro di Cussler pubblicato da Longanesi, suo editore italiano, è Il destino del faraone, scritto con il figlio Dirk e uscito lo scorso gennaio. Nato ad Aurora, nell'Illinois, il 15 luglio 1931 da madre americana e padre tedesco, Cussler si arruolò nell'Aviazione durante la guerra di Corea e fece il meccanico aeronautico e l'ingegnere di volo nel Military Air Transport Service. Negli anni Sessanta fu sceneggiatore e direttore creativo di diverse agenzie pubblicitarie.

Il personaggio di Dirk Pitt. Nel 1965 esordì con  Enigma e da subito si impose con il personaggio di Dirk Pitt,  l'ingegnere navale e maggiore dell'aeronautica statunitense, uomo d'azione per eccellenza, protagonista di alcune delle più incredibili avventure della NUMA, in viaggio in tutto il mondo con il suo insostituibile braccio destro Al Giordino. L'eroe di questa prima e famosa serie, che ha venduto cinque milioni di copie, ha ispirato anche il nome del figlio di Cussler, Dirk, con cui lo scrittore ha firmato a quattro mani gli ultimi romanzi.

Tante serie di grande successo. Sono arrivate poi le serie dei Numa Files, degli Oregon Files, Le avventure dei Fargo e le Indagini di Isaac Bell dove ancora una volta si intrecciavano la vita dell'autore e il suo universo immaginario. Ne Il destino del faraone Cussler racconta una nuova avventura di Dirk Pitt alle prese con tre eventi all'apparenza scollegati: l'assassinio di una squadra di scienziati dell'Onu a El Salvador, una collisione mortale nel fiume Detroit e un violento attacco a un sito archeologico lungo il Nilo. Numerosi i libri scritti da Cussler con altri autori, da Grant Blackwood a Graham Brown, da Thomas Perry a Justin Scott.

I premi e le passioni. Nel corso della sua lunga carriera Cussler ha vinto diversi premi internazionali per la televisione e radio, tra cui il Cannes Lions Advertising Festival. Nel 1997, la State University di New York gli conferì la Laurea in Lettere per riconoscere il valore letterario dei suoi romanzi. Appassionato collezionista di auto e aerei d'epoca, raccolti nel Cussler Museum, ad Arvada, in Colorado, aveva fondato l"associazione no profit  NUMA- the National Underwater and Marine Agency, specializzata nel recupero e conservazione dei relitti marini di interesse storico. Era membro dell'Explorers Club di New York e della Royal Geographical Society di Londra. Passioni che si ritrovano nei suoi oltre 80 libri che schizzavano subito in testa alle classifiche dei più venduti. I suoi thriller hanno raggiunto le vette della classifica del New York Times per più di 20 volte. I suoi libri sono stati pubblicati in 40 lingue in oltre 100 paesi e hanno venduto complessivamente più di 126 milioni di copie in tutto il mondo, otto milioni dei quali in Italia. Dai romanzi di Cussler sono stati tratti due film: Blitz nell'oceano (Raise the Titanic!, 1980), con Richard Jordan nella parte di Dirk Pitt, e Jason Robards nella parte dell'ammiraglio James Sandecker, e Sahara (2005), con Matthew McConaughey nella parte di Dirk Pitt e Steve Zahn nella parte di Al Giordino.

·        Metropolitana di New York, è morto il padre della mappa iconica.

Metropolitana di New York, è morto il padre della mappa iconica: una delle più consultate al mondo. Il grafico Michael Hertz è morto 87 anni in un ospedale di Long Island. Negli anni '70 ricevette l'incarico di realizzare uno strumento che davvero aiutasse i cittadini a districarsi in un sistema così tentacolare di linee, tanto da essere soprannominato The Labyrinth. La Repubblica il 26 febbraio 2020. Il grafico Michael Hertz, il creatore dell'iconica piantina delle linee della metropolitana di New York, una delle mappe più consultate della storia umana, è morto 87 anni in un ospedale di Long Island. Quel labirinto di linee rosse, blu, verdi, giallo ocra e viola, che si intersecano con strade e piazze, da oltre cinquant'anni è il disegno più conosciuto al mondo da milioni di turisti che sono passati, almeno una volta, da New York. Il "padre" della mappa della metropolitana più famosa della storia abitava a East Meadow, Long Island ma da settimane era ricoverato in ospedale. A metà degli anni '70 la Mta, la societa' che gestisce i collegamenti di metro e bus a New York, chiese a Hertz di realizzare una mappa che aiutasse non solo i cittadini e i turisti a orientarsi tra le linee sotterranee di quello che era considerato un labirinto rompicapo, tanto da essere chiamato "The Labyrinth", ma che rendesse l'esperienza più umana di quanto fosse in passato. Fino a quel tempo, c'era la mappa disegnata da un italiano, Massimo Vignelli, che l'aveva realizzata nel '72 ma che non aveva avuto successo perchè non aveva messo in relazione il sottosuolo della città con la sua superficie. La cartina di Vignelli è finita al MoMa per la sua qualità artistica, ma non aveva superato la prova pratica della vita di tutti i giorni. Quella che invece premiò la mappa di Hertz. La sua intuizione fu quella di disegnare non solo il tracciato delle linee che collegavano i vari sobborghi di New York, da Harlem a Brooklyn, dal Queens all'Upper West Side, ma di poter identificare il punto geografico dei collegamenti, mettendo sulla stessa piantina sia la mappa dei collegamenti sia quella della città. Non solo, Hertz curò il percorso dei treni in modo così preciso da indicare anche le curvature. Fu subito un successo e una guida preziosa per milioni di persone, al punto da essere riprodotta all'interno delle stazioni nei pannelli giganti e seguita dalle città di tutto il mondo. In questi cinquant'anni la mappa è stato continuamente aggiornata, in base allo sviluppo della rete, ma senza cambiare la grafica originale. "Mike è stato un genio - ha commentato Charles Gordanier, della Mta - tutti i newyorkesi hanno nella loro testa l'immagine chiara della sua mappa". Nato l'1 agosto del '32 a Brooklyn, Hertz si laureò in Belle arti al Queens College nel '54, prima di passare due anni nell'esercito e poi lavorare per la Walt Disney come direttore artistico dei trailer promozionali dei film. Negli anni '60, il passaggio decisivo: Hertz cominciò a disegnare le cartine di Houston e Washington, poi quelle di vari aeroporti, fino all'opera che lo ha reso immortale: la mappa di New York. Un lavoro che gli ha procurato gioia fino agli ultimi tempi. "Mi fa sempre piacere - aveva confessato pochi anni fa - guardare alla stazione della metro qualcuno che consulta la mia mappa. Sento di dargli una mano a orientarsi".

·        Si è spenta Claire Bretécher, una delle prime donne ad affermarsi nel mondo dei fumetti.

Leonardo Martinelli per “la Stampa” il 12 febbraio 2020. Claire Bretécher aveva raccontato com’era nata l’idea di Agrippina, adolescente pestifera, uno dei protagonisti più famosi dei suoi fumetti (era il 1988). «Mi sono ritrovata con tante amiche che avevano figli adolescenti. Li trovavano geniali e creativi. Io li trovavo stupidi e invadenti. Per questo ho creato un personaggio stupido e invadente». Claire ieri si è spenta, a 79 anni, una delle prime donne ad affermarsi nel mondo dei fumetti, maschile e a tratti maschilista. Con un umorismo feroce. Impietosa, cinica, politicamente scorretta. Era nata a Nantes, città che abbandonò già a 19 anni (assieme agli studi alle Belle arti), fuggendone la provincialità, una famiglia cattolica e borghese e un padre violento. Sbarcata a Parigi, si arrangiava come poteva, da subito ossessionata dal disegno. Iniziò a pubblicare le prime strisce nelle riviste Tintin, Spirou e poi in Pilote, per il quale creò nel 1969 Cellulite, la principessa ninfomane. Nel 1972, assieme a Marcel Gotlib e Nicolas Mandryka, dette vita al mitico L’Echo des savanes. L’anno dopo cominciò a pubblicare sul Nouvel Observateur una striscia settimanale, i «Frustrati». Vi prenderà in giro, fino al 1981, quel mondo di intellettuali di sinistra, di cui faceva parte, prodotto del ’68: i radical chic, che, come diceva lei, «pensano a sinistra e vivono a destra». Nel 1975 Roland Barthes la definì «il migliore sociologo dell’anno». Ma per lei era «un’assurdità», perché non si prendeva mai sul serio, malgrado un successo internazionale (conosciuta anche in Italia grazie a Linus e poi pubblicata da Bompiani). Chiusa nel suo atelier a Montmartre, si dedicò anche alla pittura. I suoi erano ritratti (spesso coloratissimi) di bambini, amiche, componenti della propria famiglia (è stata compagna per 25 anni del costituzionalista Guy Carcassonne, morto nel 2013, da cui ha avuto un figlio). Faceva pure autoritratti, dove lei, che nella realtà era longilinea, bionda, con gli occhi azzurri e bellissima, non veniva mai valorizzata. L’autoderisione fu sempre una delle sue cifre. E la derisione di tutti, tanto che, simbolo del femminismo anche per la sua vita vissuta, si ritrovò comunque nelle mire di certe militanti, che ne criticavano il supposto sessismo e le esagerazioni. Robe da pazzi.

·        E’ morta Caroline Flack, uno dei volti più noti della televisione britannica.

Martina Pennisi per il ''Corriere della Sera'' il 16 febbraio 2020. Caroline Flack aveva 40 anni ed era uno dei volti più noti della televisione britannica. Aveva presentato la gara canora X Factor e, negli ultimi quattro anni, aveva reso il reality show Love Island una delle trasmissioni di maggior successo del Regno Unito. Poi, dallo scorso dicembre, il buio. Un buio che ieri l'ha inghiottita definitivamente: Flack è stata trovata morta nel suo appartamento di Londra, nel quartiere di Islington. A comunicarlo la famiglia: «Possiamo confermare che la nostra Caroline è morta oggi, il 15 febbraio. Chiediamo che venga rispettata la nostra privacy in questo momento così difficile», hanno fatto sapere. Dall'avvocato dei Flack è invece arrivata la conferma di quello che si iniziava a temere: la star si è tolta la vita. Lo ha fatto due mesi dopo l'episodio che gliel'aveva sconvolta, e a meno di un mese dall'inizio del processo che l'avrebbe vista protagonista. Come imputata, il 4 marzo. I fatti: lo scorso 12 dicembre Caroline Flack si trovava in casa con il suo fidanzato, l'ex tennista Lewis Burton. Secondo le ricostruzioni, dopo aver letto alcuni messaggi sullo smartphone di lui, Flack lo aveva aggredito con una lampada, mentre stava dormendo, provocandogli una profonda ferita alla testa. La polizia e i soccorsi chiamati da Burton avevano trovato entrambi coperti di sangue — «una scena da film dell'orrore», diranno in seguito — e, alle 5:25 del mattino del 13, la donna era stata arrestata. Una volta liberata su cauzione, le era stato intimato di non contattare il fidanzato. Lei si era dichiarata non colpevole. Il 27enne aveva deciso di non sostenere le accuse. Al contrario, aveva cominciato a difenderla: «Sono stanco di queste bugie e degli attacchi alla mia ragazza. Questa non è una caccia alle streghe, c'è di mezzo la vita di qualcuno. Caroline è adorabile e non se lo merita», aveva scritto su Instagram. Venerdì, poche ore prima del suicidio, sempre sul social network fotografico, le aveva dedicato un «Ti amo», con l'emoticon di un bacio. Lei sui social era silente da settimane, ma aveva scelto proprio San Valentino per farsi rivedere dai suoi 2 milioni e mezzo di seguaci in una serie di scatti con il suo cagnolino Ruby. Il precedente saluto ai fan risale invece alla vigilia di Natale, quando la presentatrice ha scritto: «Questo tipo di attenzione, queste speculazioni sono eccessive da sopportare, per una sola persona. In fondo sono anche io un essere umano, e non rimarrò in silenzio nel momento in cui avrò una storia da raccontare, e una vita da continuare a vivere. Ora mi prenderò del tempo per me, per stare meglio, per imparare le lezioni che alcune situazioni nelle quali mi sono trovata hanno da insegnarmi». Parole che, con il senno di poi, fanno ancora più impressione. E quel riferimento al tempo, il tempo libero derivante dallo stop forzato dalla sua attività lavorativa. Pochi giorni dopo l'aggressione Flack sarebbe dovuta volare in Sud Africa per girare la serie invernale di Love Island, iniziata l'8 gennaio. Ha invece ceduto il timone della trasmissione alla collega Laura Whitmore, che ieri su Twitter ha reagito così alla notizia: «Sto cercando di trovare le parole ma non riesco». Per Love Island, che ieri sera non è andato in onda, si tratta dell'ennesima tragedia: dopo aver preso parte allo show di Itv2, si erano uccisi i giovani concorrenti Mike Thalassitis e Sophie Gradon. L'emittente ha commentato questo nuovo lutto dicendosi «scioccata e rattristata» dalla morte di Flack che era «un membro molto amato della squadra». In passato la presentatrice nata a Londra aveva fatto parlare di sé per la relazione con il cantante Harry Styles, che all'epoca militava nella boy band degli One Direction e aveva 17 anni (Flack ne aveva 31) e per un presunto breve flirt con il principe Harry.

·        È morto José Mojica Marins. Il maestro dell'orrore.

È morto José Mojica Marins, il più horror (e folle) tra i registi brasiliani. Il maestro dell'orrore, considerato tra i massimi autori di tutto il Sud America, era conosciuto anche come Zé do Caixão. Si è spento a San Paolo, in Brasile, all'età di 83 anni. La Repubblica il 20 febbraio 2020. Il regista, attore e showman brasiliano José Mojica Marins, creatore dell'iconico personaggio horror, che interpetava anche fuori dal set, Coffin Joe, che si era guadagnato il soprannome di "regista dell'orrore più pazzo del mondo" per il suo abbigliamento stravagante (e unghie spropositate), è morto ieri in un ospedale di San Paolo, Brasile, dove era ricoverato dal 28 gennaio scorso per una broncopolmonite, all'età di 83 anni. L'annuncio della scomparsa è stato dato dalla figlia, l'attrice Liz Marins. La sua grande passione sono stati i film horror dalle atmosfere gotiche, con immagini forti e scioccanti, pellicole visionare e crudeli, sadiche e brutali: tutto questo hanno fatto di Marins il primo regista sudamericano dell'orrore. Il suo personaggio più famoso si chiama Zé do Caixão (in italiano suona come 'Giuseppe dalla cassa da morto', mentre al cinema è conosciuto con il nome internazionale di Coffin Joe) che debuttò nel 1964 nel film A mezzanotte possiederò la tua anima. L'idea originaria di Marins era quella di dirigere la pellicola senza recitarvi ma decise di interpretare il ruolo del malvagio becchino in seguito all'abbandono dell'attore protagonista. Interpretato dallo stesso regista, da allora Zé-Marins, protagonista di altri sequel, si è vestito sempre di nero con un cilindro, mantello e unghie lunghissime, che si è tagliato solo nel 1998. L'anti-eroe creato da Marins fu censurato e osteggiato in Brasile ma divenne ben presto un personaggio di culto in patria e fuori dal paese latinoamericano con le visioni underground. L'enorme successo spinse Marins a continuare su quella strada e a sviluppare ulteriormente il suo personaggio, che apparve in una decina di film. Girò nel 1967 il seguito del primo film di grande successo, intitolato Esta Noite encarnarei no Teu Cadàver, in cui Zé do Caixão ritornava più cattivo e ossessionato dalla ricerca della madre perfetta per la sua discendenza. Altri film dagli anni Settanta vedono protagonista Zé-Marins in trame incredibilmente strane, dove l'horror si mescola sempre più spesso con l'erotismo. Nel 2008 Marins ha terminato la trilogia ufficiale di Zé con Incarnazione del Demonio, sadica, blasfema, visionaria conclusione di una delle più allucinanti saghe cinematografiche di sempre.

Marco Giusti per Dagospia il 20 febbraio 2020. Il cinema horror perde uno dei suoi più grandi miti, Zé do Caixão alias José Mojica Marins, 89 anni, l’uomo che ha inventato il cinema del terrore in Brasile col personaggio, appunto, di Zé do Caixão, “Peppino della cassa da morto”, noto in America anche come Coffin Joe, autore e interprete di film miserabili ma fondamentali per qualsiasi storico del cinema di genere come “A meia-noiet eu levarei sua alma”, 1964, e “Esta noite encarnarei no teu cadaver”, 1966, che dettero il via a una saga totalmente brasiliana di film spaventosi con veri ragni giganteschi e ragazze fatte a pezzi perché Zé, una sorta di Dracula contadino ma con cilindro, mantello nero unghia gigantesca, aria da pazzo, sadico, anarchico, erotomane, blasfemo, cerca la donna per fare il figlio perfetto, ma non sempre la trova. E intanto le donne muoiono. Se gli europei avevano Dracula, i brasiliani avevano Zé do Caixão. Un personaggio che, a differenza di Dracula, ha una sua folle filosofia: “L’esistenza, cos’è l’esistenza? La morte? Cos’è la morte? Non sarà la morte l’inizio della vita? O è la vita l’inizio della morte?”. Così amato dalle giovane generazioni che quando si tagliò la sua unghia gigantesca, erano anni e anni che se la faceva crescere, lo fece sul palco di un concerto del suo gruppo rock di riferimento, i Sepultura, che lo avevano sempre adorato. Devo dire che quando lo andai a cercare a San Paolo nel 1993, più di vent’anni fa, per portare lui e i suoi film al Festival di Torino, non era ancora partita la resurrezione internazionale di Zé. Lo trovai dopo un viaggio di ore alla periferia di San Paolo, in mezzo alle sue casse da morte e sopra un negozio di animali probabilmente adatti per macumbe. Molto più grasso del previsto, soprattutto rispetto alla magrezza spettrale che mostrava nei suoi vecchi film, Zé viveva tra qualche apparizione in tv e le presentazioni di nuovi supermercati dove si presentava come Zé do Caixao, vestito di nero con o senza bara a fianco e la sua filosofia da terrore materialista, come la chiamava Rogerio Sganzerla. Ma aveva in testa perfettamente il valore del suo cinema, profondamente marginale e profondamente brasiliano. Adorato da grandi registi come Glauber Rocha (“l’unico genio del cinema brasiliano”), Rogerio Sganzerla (“un genio totale”), Carlos Reichenbach (“come Pelé ha inventato il calcio nazionale, lui ha inventato l’horror nazionale…”), da Gustavo Dahl (“forse l’unico regista brasiliano cinematograficamente autoctono”) si vantava di non aver mai visto horror internazionali, né americani né euroepei. In un festival dell’horror, il regista e produttore americano Irwin Allen, regista di “Swarm – lo sciame che uccide”, gli aveva chiesto quanto costavano i suoi ragni meccanici, e lui rispose che i suoi ragni giganti erano tutti veri e velonosissimi, e col costo di una sola ape meccanica di “Swarm” lui ci avrebbe pagava tutto un film. Sbruffone come pochi, bugiardissimo, si vantava che molte delle sue attrici erano morte sul set a causa di questi ragni un po’ difficili da gestire, ma non credo proprio che fosse vero. Penso che facesse parte del personaggio. I suoi diciamo attori erano reclutati per la strada del quartiere popolare dove girava i film, a Bras. Figlio di un torero spagnolo che poi aveva aperto un piccolo cinema nella provincia più rurale di San Paolo e di una cantante di tango, Zé sosteneva di aver fatto tutto da solo. Aveva girato dei “quasi” film a sette anni, aveva aperto un teatro a otto anni e a dieci aveva realizzato il suo primo film, “Juizo final”, sull’Apocalisse. Alla fine degli anni ’40 gira addirittura il suo primo horror, “Feitiçaria”, fonda la sua prima casa di produzione, la Ibéria Cinematografica, che nel 1954 diventerà Apolo Cinematografica, e con la quale girerà il suo primo film in 35 mm, “Sentença de Deus”, rimasto incompiuto per la morte di tre attrici sul set (mah…). Conclude invece il suo primo western, che in Brasile vengono chiamati bangue-bangue, “Sina do aventureiro”, che secondo Zé era anche il primo film brasiliano in cinemascope. A casua di un nudo di una ragazza ripresa mentre si fa il bagno, la Chiesa impone che il suo film venga bandito da ogni sala del paese. Prova allora col cinema edificante coi santi, ma il film riparatore è un disastro al botteghino. Fonda una rivista di fumetti, dove disegna, scrive e fa tutto lui, poi nei primi anni 1960 fonda una scuola di cinema in una sinagoga di San Paolo, dove studiano molti futuri registi del cosiddetto “cinema marginal”. Nello stesso tempo dirige “A meia-noite levarei sua alma”, il suo primo film con il personaggio di Zé do Caixao e il suo capolavoro, presto seguito da “Esta noite encarnerei no teu cadaver” e da “O estranho mundo de Zé do Caixao”. Il Cinema Novo, la nouvelle vague brasiliana si accorge di lui, i giovani registi adorano la sua libertà, viene scelto come protagonista per il film di Mauricio Capovila “O profeta da fome”, 1969. Come ben spiegano Sganzerla e Jairo Ferreira, il personaggio di Zé, sembra essere esistito da sempre. “Visione provinciale del demonio, cilindro, basette, unghie lunghe, perverso, stiamo davanti a un diavolo brasiliano, circense. Il suo individualismo esacerbato, anarchico, è la giusta e comprensibile reazione al processo di appiattimento a cui sono sttoposte le masse nel continente latino-americano. Con le sue componenti megalomani e messianiche, Zé do Caixão attinge sicuramente a un sentimento di rivincita del lumpen-proletariato contro l’ordine stabilito”. Carlos Reichenbach, dopo la visione di un altro horror di Mojica, “Ritual de um sadico”, che uscirà dopo dodici anni di attesa in censura, si lancia a definirlo un “folle, un genio del disgusto, il più grande uomo di cinema mai esistito nell’emisfero sud”. Un’opera che “rappresenta la fine del cinema imbecille, caustico, finto. Film maschio, pagano, senza vergogna. I geni diventeranno bestie e andranno a pascolare dopo averlo visto. Glauber non esiste più. (..) E’ una di quelle cose che appare solo una volta nella vita”. Dopo Zé, Mojica si inventa un nuovo personaggio, Finis. Una sorta di Anticristo. Ma gira davvero di tutto. La censura gli taglia le scene migliori? Lui le riprende, le rimonta e le ripresenta in censura come fossero un nuovo film e la censura non se ne accorge. Negli anni ’80, con la crisi del cinema, si butta sul porno, sia soft che hard, che firma col nome di J. Avelar, col desiderio di vendicarsi così di un noto critico di Rio che non lo amava. Gira con un hard con un cane infoiatissimo, “24 horas de sexo ardente”, visto il successo cerca di ripeterlo con “48 horas de sexo alucinante”, va a ricercare il cane protagonista ma scopre che il padrone gli ha fatto fare una brutta fine.  Aveva visto il film e aveva concluso che “era un cane vizioso, l’ho ammazzato”. Allora gira con una gigantesca mucca meccanica dove mette dentro una donna nuda… Zé non si ferma di fronte a niente, Ivan Cardoso lo omaggia di un documentario sulla sua vita, fa molta tv, sia come attore nelle telenovelas, lo ricordiamo come “Lucio Fera” nella serie “Olho por olho” di Rete Manchete, sia con programmi suoi. Dagli anni ’90 diventa un vero personaggio di culto e inizia la sua glorificazione. Roger Corman lo viene a trovare a San Paolo, lui sostiene che anche Coppola fosse venuto a trovarlo. “Cosa vogliono da noi questi demoni americani, abbiamo già i nostri, quelli nazionali!”. La diffusione dei suoi film prima in dvd e poi su Internet lo rende molto più popolare in tutto il mondo. Torna addirittura alla regia e al personaggio di Zé do Caixão con un film bello e maledetto atteso da 40 anni, “Encarnaçao do demonio”, col quale chiude la sua trilogia. Un film che verrà mostrato a Venezia sotto la direzione di Marco Muller e che lascerà il segno, perché, anche se i tempi sono cambiati, Zé non ha perso nulla della sua forza eversiva e politica.

·        Morto Flavio Bucci, fu Ligabue nella fiction tv.

Da ilmessaggero.it il 19 febbraio 2020. È morto Flavio Bucci, il grande interprete noto per il personaggio di Antonio Ligabue e decine di film come “Il Marchese del Grillo”. Bucci da alcuni anni risiedeva a Passoscuro, sul litorale romano. Nato da una famiglia molisano-pugliese originaria di Casacalenda in provincia di Campobasso, e di Orta Nova in provincia di Foggia, si è formato professionalmente presso la Scuola del Teatro Stabile di Torino. Tra i suoi ruoli più popolari, il prete Don Bastiano in Il marchese del Grillo di Mario Monicelli (1981), Tex e il signore degli abissi (1985), Secondo Ponzio Pilato (1987), Teste rasate (1993), Il silenzio dell'allodola (2005). Tra i suoi ultimi lavori, Il divo di Paolo Sorrentino (2008). 

Morto Flavio Bucci, fu Ligabue nella fiction tv. Pubblicato martedì, 18 febbraio 2020 su Corriere.it da Emilia Costantini. «È morto Flavio Bucci, il grande interprete noto per il personaggio di Antonio Ligabue e decine di film come il Marchese del Grillo». A renderlo noto in un post su Facebook il sindaco di Fiumicino Esterino Montino. Bucci da alcuni anni risiedeva a Passoscuro, sul litorale romano. Attore di cinema e di teatro, aveva 73 anni e aveva conquistato grande popolarità alla fine degli anni ‘70 come protagonista dello sceneggiato tv per la Rai «Ligabue» (qui un video con la sua interpretazione). «La vita è una ed è tua, puoi farci quello che vuoi», aveva detto nel 2018 al Corriere. «Non mi sento colpevole verso nessuno, non ho rimpianti oppure se preferisce posso anche dirle che ne ho, tanto non potrei cambiare niente. La verità è che tutti ti pretendono a loro immagine e somiglianza, però io sono come sono. Non mi voglio assolvere da solo e non voglio nemmeno andare in Paradiso, che poi sai che noia lassù». Bucci ironizzava anche sulle troppe sigarette fumate — «Mi fanno male? Bah, c’è una sola cosa che ti uccide, però non lo sai mai prima, quale sarà». «Mi sparavo cinque grammi di coca al giorno, solo di polvere avrò bruciato 7 miliardi», aveva aggiunto nel corso della stessa intervista. «L’alcol mi ha distrutto? Mah, ha mai provato a ubriacarsi? È bellissimo. Lasci perdere discorsi di morale, che non ho. E poi cos’è che fa bene? Lavorare dalla mattina alla sera per arricchire qualcuno? Non sono stato un buon padre, lo so. Ma la vita è una somma di errori, di gioie e di piaceri, non mi pento di niente, ho amato, ho riso, ho vissuto, vi pare poco?». Flavio Bucci era nato a Torino nel 1947 da una famiglia di immigrati di Campobasso. L’esordio sul grande schermo era avvenuto per lui nel 1971, ne «La classe operaia va in paradiso» di elio Petri, anche se con un ruolo minore. Aveva recitato anche per Giuliano Montaldo («L’Agnese va a morire») , Dario Argento («Suspiria»), Gabriele Salvatores («Sogno di una notte d’estate») e Mario Monicelli nel già citato Marchese del Grillo, dove è don Bastiano, il capo dei briganti che finisce sul patibolo. La grande popolarità arrivo come detto con lo sceneggiato Rai «Ligabue», andato in onda tra il novembre e il dicembre del 1977 che contribuì a far conoscere a un largo pubblico non solo il talento del pittore emiliano ma anche quello dell’attore che lo impersonò.

Flavio Bucci, così l’attore ha trasformato Ligabue in un’icona pop. Pubblicato martedì, 18 febbraio 2020 su Corriere.it da Vincenzo Trione. Talvolta, la televisione può far bene all’arte. Si pensi al caso-Ligabue. Grazie a un fortunato sceneggiato televisivo, diretto da Salvatore Nocita, andato in onda su Rai 1 dal 22 novembre al 6 dicembre 1977, il controverso ed eccentrico pittore di origine svizzera è diventato una figura addirittura pop. Un’icona molto popolare. Cruciale, per questa consacrazione, fu la memorabile e mimetica interpretazione di Flavio Bucci, che riuscì a immedesimarsi nel suo personaggio, fino a coincidere con esso. La sua faccia imperfetta e inquieta diventò la faccia irregolare di Ligabue. I suoi gesti diventarono quelli di Ligabue. Le sue ossessioni diventarono quelle di Ligabue. Solo i grandi attori riescono a compiere prodigi simili (intanto, è in uscita il 27 febbraio «Volevo nascondermi», film diretto da Giorgio Diritti con protagonista Elio Germano nel ruolo del pittore e scultore italiano Antonio Ligabue, ndr). Un’operazione magica, che ci consente di ripercorrere l’esistenza di un eroe minore, non troppo diverso da van Gogh e da Basquiat: Antonin Artaud lo avrebbe chiamato un «suicidato della società». Il biopic di Nocita ne documenta fedelmente le tante peripezie. Gli anni in Svizzera. Le malattie. I disagi psicologici. Le turbe interiori. Il rimpatrio in Italia, perché considerato «indesiderabile» dalle autorità svizzere. Il rifugio nel Reggiano, in un ricovero per vecchi. E, poi: le evasioni. I lavori improvvisati. Gli impietosi scherzi dei compagni. La scelta di nascondersi in una capanna lungo il fiume Po, dove trascorre il tempo immerso nella natura. Con gli anni, la popolazione del borgo dove va a vivere – Gualtieri – si abitua alla figura di Toni: un misantropo e anche un pazzoide, ma non pericoloso. Senza calcolo, Ligabue scopre la propria vocazione artistica, dipingendo la natura sulle piante e sui muri. Un amico pittore ne intuisce il talento e gli dona gli strumenti per eseguire quadri che trovano acquirenti e gli permettono di allestire una mostra personale. Dopo tante vicissitudini che lo portano a essere ricoverato in manicomio, i guadagni ottenuti dalla vendita di quadri consentono a Toni di normalizzarsi e di sposarsi. Eppure, si tratta di una normalità apparente. Queste le tappe del dramma di un uomo vissuto in solitudine. Un «diverso». Il film di Nocita spinse il grande pubblico a scoprire la parabola privata di quel disadattato dell’arte. Ma fu anche un’occasione per far affiorare da stanze segrete e abbandonate quadri naïve, ingenui, a volta scorretti, densi di rimandi espressionistici, ricchi di rimandi a van Gogh, a Klimt e a Beckman, attraversati da memorie autobiografiche e da rinvii a episodi quotidiani, caratterizzati da cromie accese e da pennellate corpose, abitati da individui arcaici, da animali, da paesaggi incontaminati. Fino agli anni settante molti critici giudicarono Ligabue solo come un episodio marginale nella storia dell’arte del Novecento. Dopo quel film, iniziò una lunga e seria fase di ripensamento, per assegnare a quel pittore folle lo spazio che merita. Decisiva fu la performance di Bucci. Che fece rivivere Ligabue sul piccolo schermo della televisione a colori alla fine degli anni Settanta. Ma, soprattutto, vi si identificò. E ne fece il suo alter ego. 

Marco Giusti per Dagospia il 18 febbraio 2020. Destino beffardo quello che colpisce Flavio Bucci, celebre Ligabue televisivo, che esce di scena a 73 anni proprio quando sta per uscire al Festival di Berlino un nuovo film dedicato al pittore, “Volevo solo nascondermi”, interpretato da Elio Germano e diretto da Giorgio Diritti. Nella sua vita, tormentata, giocata spesso al massimo, sicuramente non semplice, Bucci ha avuto una serie incredibile di alti e bassi, cadute e rinascite improvvise. Sullo schermo, oltre che pittore nel celebre “Ligabue” di Salvatore Nocita sceneggiato da Cesare Zavattini, è stato il pianista cieco per “Suspiria di Dario Argento, il militante marxista-mandrakista Total in “La proprietà non è più un furto” di Elio Petri, forse il suo miglior film e miglior ruolo, killer per “’ultimo treno della notte” di Aldo Lado, Commissario Ingravallo per l’edizione tv di “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” da Gadda, Franco Evangelisti, uomo di Andreotti ne “Il divo” di Paolo Sorrentino, Don Luigi Sturzo e Bakunin in tv, padre di Ceccherini in “Lucignolo” di Massimo Ceccherini, rivoluzionario deluso Svitol in “Maledetti vi amerò” di Marco Tullio Giordana, risentitevi il suo monologo su cosa è di sinistra e cosa è di destra (“…l’erotismo è di sinistra, la pornografia è di destra… la penetrazione è di destra, i preliminari sono di sinistra, mentre il pompino è di destra…”), gigolò napoletano in “Gegé Bellaviita” di Pasquale Festa Campanile, Russ Brissenden nel “Martin Eden” tv. Con i colleghi Michele Placido e Stefano Satta Flores lottò per i diritti degli attori italiani e costruì una cooperativa che produsse il vero esordio di Nanni Moretti, “Ecce bombo”. Come attore non si fece mancare nulla, dagli esordi in “la classe operaia va in Paradiso” di Petri a “Pierino Stecchino” di Claudio Fragasso, da “Tex e il signore degli abissi” di Duccio Tessari a ”Il marchese del Grillo” di Mario Monicelli. Nessuna delle sue interpretazione è però mai superficiale, banale, neutra, ogni volta costruisce qualcosa di particolare e di estremamente aderente al suo personaggio. La sua è una pratica teatrale che applica fin dall’inizio, fin dalle sue prime apparizioni sullo schermo. Nato a Torino nel 1947, figlio di immigrati pugliesi, si forma alla scuola del Teatro Stabile di Torino, lavora poi allo Stabile di Genova e al Piccolo di Milano. Lo troviamo alle prese con opere importanti, “Le opinioni di un clown” di Heinrich Boll, “Le memorie di un pazzo” di Gogol, “Conversazione continuamente interrotta” di Flaiano. Lavora con registi come Mario Missiroli e Marco Mattolini, ma saranno poi Elio Petri, Valentino Orsini e Salvatore Nocita a portarlo al successo a metà degli anni ’70, prima al cinema e poi in tv. La sua è una recitazione nervosa, sofferta, teatrale, ottima nel grottesco, più in difficoltà nel comico. Dichiara a più riprese che il suo sogno proibito è sempre stato quello di fare un film comico. Lo farà con “Gegé Bellavita” di Pasquale Festa Campanile, dove cerca una nuova strada in un tipo di commedia a basso costo, girata addirittura in 16 mm, che non funzionerà come sperato, ma che rimane come un bel tentativo. Attore molto moderno, come oggi possono essere Elio Germano o Luca Marinelli, sviluppa quel tipo di recitazione fra teatro e cinema che Petri sviluppò prima con Gian Maria Volonté e che Bucci riprese con successo. Bucci aveva ricordi incredibili di quei tempi, con Petri regista violento con gli attori al punto di alzare davvero le mani perfino con Volonté. Purtroppo dopo il successo degli anni ’70 e una serie di buoni ruoli negli anni ’80, Bucci si smarrì fra eccessi e sfortune. Ma non perse mai la lucidità sul proprio lavoro, come dimostrano le sue ultime apparizioni, anche recentissime, al cinema.

Giancarlo Dotto per Diva e Donna il 19 febbraio 2020. Flavio Bucci è un uomo, al confine dei settant’anni, che se ne frega di quello che è stato ieri o che sarà domani e se ci sarà un domani. Gli basta poco. Dategli un pacchetto di sigarette e l’occasione di fare il suo mestiere.  Non ha altro da chiedere. E nemmeno questo chiede. Una bella faccia, anche un po’ sinistra, di uno che ne ha di vite e di storie da raccontare, a cominciare dalla sua. Attore dal talento smisurato, disperso e spesso voluttuosamente sprecato, senza un vero perché, in quarant’anni di cinema, teatro e televisione, da Elio Petri a Paolo Sorrentino, da “La piovra” a “I promessi sposi”. Alla fine degli anni ’70 era un italiano celebre, un divo nazionalpopolare, nei panni e nella pelle di Ligabue, il pittore lunatico e naif, sceneggiato televisivo Rai da 20 milioni di spettatori a sera. Ha scelto di vivere distratto e smemorato a Passoscuro, contrazione di Passo Oscuro, tanto per darsi un nome adeguato al destino, paesino di pescatori a nord di Roma, fuori dai flussi turistici. Agli “ergastoli domiciliari”, come dice lui . Da lì si sposta il meno possibile. Eccezione, il volo per Amsterdam, a trovare la compagna olandese e il figlio Ruben. Un fratello, Riccardo, che lo protegge con discrezione dagli ingiuriosi disagi del mondo reale. Assolutamente ipnotico è il racconto di Flavio a tavola. Sarà per  quella sua voce da caverna, sarà la tavola, sarà il vino bianco che va giù facile, a litri. “Punto, punto e virgola, punto a capo” è la sua locuzione preferita, quando si stufa e deve liquidare un argomento. Si comincia dal Capoccione.

Chi è Capoccione?

“Elio Petri. Il mio indiscusso maestro. Detto così per intuibili motivi”.

Con Petri, la tua prima parte da protagonista, il Total di “La proprietà non è più un furto”.

“Avevo già girato due anni prima “La classe operaia va in paradiso”, un film culto dell’epoca”.

Gli attori di allora. Da brividi.  Gian Maria Volonté. Salvo Randone, Mariangela Melato, Mario Scaccia, Ugo Tognazzi.

“Gian Maria e Corrado Pani sono stati i primi che ho conosciuto a Trastevere, quando arrivo a Roma. Con Volonté parlavamo sempre di politica, con Corrado solo di sesso e di donne”.

Bell’uomo Corrado Pani, ex di Mina.

“Aveva perso la testa per lui. Era quel tipo di figlio di puttana fascinosissimo che piaceva alle donne. Il nostro James Dean, di una simpatia rara. Non so quante macchine ha sfasciato”.

Comunista convinto Gian Maria Volonté.

“Il padre era un gerarca fascista. Busso alla porta di casa sua. Mi vede, neanche mi fa entrare e mi porta a fare la tessera alla vicina sezione del partito”.

E tu l’hai fatta?

“Dovevo mangiare”.

Sei stato anche con Mario Monicelli ne “Il Marchese del Grillo”.

“Quando mi mandò il copione, gli dissi: “Maestro, io piemontese, molisano da parte di padre e pugliese da parte di madre, non posso fare il romano con Alberto Sordi. E lui: “Fa come cazzo te pare, basta che lo fai”.

Enrico Montesano ha riportato di questi tempi il Marchese del Grillo a teatro.

“Attore che non sopporto. Tu mi devi spiegare quale presunzione ti spinge a rifare un personaggio che ha fatto un grande come Sordi. Non è normale”.

Dimmi di Alberto Sordi.

“Impossibile averci a che fare. Un grande attore, ma un pianeta a parte. Indescrivibile”.

Perché impossibile?

“Non l’ho mai sopportato, ma era un grande. Come fai ad essere amico di Sordi? Avaro anche di sentimenti. Neanche Fellini gli era amico. Mi divertivo a provocarlo”.

Come?

“Lo aspettavo fuori del bar di Cinecittà. “Mi offri un caffè?” gli  chiedevo. E lui: “Ma perché me devi rovina’ la giornata?”. Mi mandava la sarta nella roulotte a rimediare tra gli avanzi dei cestini le ossa per i cani”.

Hai incrociato tutti i più grandi della tua e precedente generazione.

“La cosa più curiosa è che più grandi erano e meno se la tiravano. Penso a gente come Mastroianni e Tognazzi”.

Se ti dico che Tognazzi è stato un talento naturale assoluto?

“Dici bene. Amava la vita. Il cibo e le donne. Se l’è goduta”.

Vittima a fine corsa di depressione, come l’amico Gassman.

“Ugo organizzava ogni anno quelle feste a Torvaianica abbinate al tennis, piene di gente famosissima. L’ultima volta non lo vedo. Salgo su, lo trovo sdraiato su un lettino. “Che scendo a fare, non conosco nessuno”.

Diversissimi Gassman e Tognazzi.

“Storie diverse. Vittorio era il teatrante della prosa. Ugo veniva dalla rivista. A me interessa solo l’essere umano. E Ugo era il più grande. Punto, punto e virgola, punto a capo”.

Più vicino, come umano, Mastroianni a Tognazzi.

“Cena di Capodanno. Marcello  stava con Catherine Deneuve. Arriva ogni bendidio. E lei, schizzinosa: “Je ne pas…”. Al terzo o quarto “Je ne pas”, Marcello esplode: “Non te piace niente, pijatela ner culo”.

Grande Marcello.

“Se non c’era, bisognava inventarlo”.

Nino Manfredi, l’altro grande dell’epoca.

“Bravo. Dopo Sordi, c’è lui. Ma più antipatico di Sordi. Un borghese piccolo piccolo. Sordi era talmente surreale da diventare simpatico”.

Hai lavorato con Pasquale Festa Campanile.

“Un geniaccio, completamente fuori di testa. Cominciava a bere gli amari alle quattro di mattina. Faceva il cinema perché gli permetteva di scrivere romanzi. Scriveva di notte. Non dormiva mai. Tranne che sul set”.

Sul set con Toni Servillo ne “Il divo”. Ti piace?

“No. Lo trovo molto freddo come attore. Nel nostro mestiere tu devi arrivare col cuore allo spettatore dell’ultima fila. Che me ne frega della tecnica”.

Vi confondono ancora tu e Castellitto?

“E’ la mia controfigura. Poveraccio, se deve fa’ ‘na plastica”. 

Hai doppiato John Travolta in “Grease” e tanti altri film.

“C’incontriamo in un ristorante a Roma, Lucherini fa a Travolta: “Lui è la tua voce italiana”. E io: “E lui la mia faccia americana”.

Hai doppiato Gerard Depardieu.

“Quasi tutti, tranne uno, che l’ha doppiato Michele Placido. Uno che non sa doppiare nemmeno se stesso”.

Hai prodotto Nanni Moretti in “Ecce bombo”.

“Dio mi perdoni. Un altro borghese piccolo piccolo. L’insuccesso gli ha dato alla testa”.

Hai mai mandato qualche regista a quel paese?

“Alberto Lattuada. Mi aveva chiamato per “Cuore di cane”. “Ti ho fatto preparare un costumino…”. Manco fossi una ballerina del Bolshoi. M’è venuto uno sbocco di sangue. Mai più voluto vederlo, neanche in foto”.

Con “Ligabue” hai conosciuto la nazionalpopolarità, quella vera.  

“Per carattere, non me n’è mai fregato nulla. La gratificazione, se viene, la vivo come un diritto. Fa parte della paga. Non mi monto la testa per queste cose”.

Premi e osanna per la tua interpretazione.

“Ho studiato due documentari su Ligabue e mi sono fidato del mio istinto. Questo è quanto. Me ne sbatto di scuole e maestri. L’unico genio che ho conosciuto nella finzione del gioco si chiama Cesare Zavattini”. 

Uomo e attore di una generazione che non ha avuto paura degli eccessi.

“Ho avuto il mio periodo. Alcol e cocaina insieme. Tiravo cinque grammi al giorno e ci mettevo sopra una bottiglia di vodka. Ne ho fatte di tutte. Fumo da sempre. Prima o poi la faccenda si conclude”.

Niente approdo senile al salutismo o alla fede?

“No. Resto un materialista inguaribile. Tutto è opinabile. Si muore a diciotto anni, si nasce morti. Mi rompe i coglioni morire, ma non mi lamento, ho avuto tutto dalla vita”.

Sei stato sposato con la principessa Micaela Pignatelli, anche lei una storia d’attrice.

“Quando arrivava la pasta a tavola e facevo la scarpetta col sugo, la suocera inorridiva: Ma come, due carboidrati? Non poteva funzionare”.

La compagna olandese?

“Tutta un’altra storia. Viviamo separati, ma ne sono ancora innamorato dopo vent’anni”.

I figli?

“Ne ho tre. I primi due non li vedo da una vita. M’incuriosisce che, dei tre, nessuno abbia seguito le orme del padre. Non me ne frega niente, ma lo trovo singolare”.

Ti assolvi come padre?

“Non mi sento un padre che si è comportato bene. Ho tante colpe. Sono stato egoista. Ma sono stato in giro per cinquant’anni. Ancora adesso, che mi sono fermato, ogni tanto mi chiedo dove sto”.

Le ricordi tutte le donne che hai avuto?

“Alcune le ho dimenticate. Anche volutamente”.

Bucci e le donne oggi.  

“Ancora mi piacciono molto. Sono sempre voglioso. Non prendo farmaci. Se ce la faccio da solo, bene. Mi piace proprio la presenza femminile. E’ l’altra parte di noi. Una cena di solo uomini mi rompe”.

Indimenticabile?

“La storia con Stefania Sandrelli. Una donna magica. La più sublime che abbia mai incontrata. Sessualmente e come essere umano”.

La tessera del partito comunista l’hai stracciata?

“Mai stracciata. Non so più dove sia.  La tessera, ma anche il partito…”.

Cosa ti fa stare bene oggi?

“Una sola cosa, il lavoro. Cinema, teatro, qualunque cosa. Del resto non me ne frega niente. Punto, punto e virgola, punto a capo”.

·        Addio a Barry Hulshoff, il pilastro dell’Ajax di Cruyff.

Addio a Barry Hulshoff, il pilastro dell’Ajax di Cruyff: «Il calcio totale? Geometria e istinto». Pubblicato sabato, 22 febbraio 2020 su Corriere.it da Tommaso Pellizzari. L’uomo che vedete nella foto, scattata il 30 maggio 1973, è stato decisivo per la conquista della Coppa dei Campioni quell’anno vinta dalla Juventus. L’altro, a sinistra, è Johan Cruyff. Non vi sembri indelicato riciclare una vecchia battuta per ricordare Barry Hulshoff, leggendario difensore centrale della squadra olandese che ha cambiato la storia del calcio, morto il 17 febbraio a 73 anni (un mese dopo Pietro Anastasi, battuto in quella finale) per una breve malattia. Leggete, invece, cosa gli successe anni dopo in un paesino di montagna della Grecia, nel suo racconto in prima persona: «C’era un uomo anziano in piedi davanti a me. Mi prese le mani, le strinse e iniziò a piangere. Andò avanti per quattro o cinque minuti. Ero molto imbarazzato, non riuscivo a capire cosa stesse succedendo. Più tardi il mio traduttore me lo spiegò. Disse che nel villaggio non c’erano televisori, perciò quel vecchio doveva farsi due ore a piedi per raggiungere un altro villaggio per guardare le partite dell’Ajax in tv. E in quell’altro villaggio guardavano l’Ajax (...), tante persone ammassate attorno a un solo televisore. L’uomo aveva amato l’Ajax e ora si ritrovava davanti uno dei giocatori che aveva visto giocare. Non riusciva a spiegarselo e si era fatto prendere dall’emozione». D’altronde, ricordava il suo compagno di squadra Sjaak Swart, «quando arrivava una palla alta potevi lasciare tranquillamente la posizione perché sapevi che Hulshoff l’avrebbe colpita di testa». Queste parole, come l’aneddoto greco, compaiono in «Brilliant Orange. Il genio nevrotico del calcio olandese», scritto dall’inglese David Winner nel 2000 e pubblicato in Italia nel 2017 da minimum fax. Meglio tardi che mai, e questa frase fatta sia intesa come il più sentito dei complimenti a chi ha finalmente tradotto uno dei più bei libri sul calcio mai scritti, in cui Winner cerca di spiegare il nesso tra le dighe, la pittura del ’600 e l’architettura del ’900 olandesi da una parte. E la nascita del calcio totale dall’altra. Un’impresa intellettuale tentata e riuscita con l’aiuto (anche e soprattutto) di Barry Hulshoff, che di quell’Ajax fu pilastro difensivo e verrebbe da dire teorico, se non fosse per una strana caratteristica che accomuna quasi tutti i giocatori che parlano di calcio: non voler apparire come persone eccessivamente portate alla teoria, anche se la cosa gli riesce particolarmente bene (e ovviamente non c’è nulla di male). Però, per dire, Hulshoff era ostinatamente convinto che il calcio totale fosse un’invenzione non del loro allenatore Rinus Michels, ma dei giocatori. E poi, solo poi, «un sacco di altre persone ci ricamarono sopra delle teorie». Perché, per Hulshoff, la questione era semplice: «La gente non riusciva a capire che a volte agivamo in modo automatico. Viene dal fatto che giochiamo insieme da tempo. Il calcio migliore è quello istintivo, che viene dal cuore. Dopo ci puoi anche ragionare sopra; ma in campo giochi e basta. Ci siamo cresciuti dentro. Non ci rendevamo conto che la palla corresse così veloce, che stessimo cambiando posizione con una tale frequenza. Sapevamo esattamente cosa fare perché ci conoscevamo e giocavamo insieme da cinque anni. Eravamo in grado di adattarci e coprirci a vicenda in ogni situazione». Tanto è vero che Barry dava del calcio totale la definizione più semplice possibile: «Significa che un giocatore in attacco può giocare in difesa – banalmente che può farlo, tutto qui. Il processo comincia in modo semplice. Il difensore deve intanto ragionare in modo difensivo, ma anche saper ragionare in modo offensivo. Per un attaccante è l’opposto. Da qualche parte si incontrano». Eppure, era lui stesso a raccontare che con Cruyff discutevano «tutto il tempo di spazio». Johan «parlava sempre di dove far correre i giocatori, dove farli restare fermi, quando non si muovevano. Era tutta questione di creazione e occupazione dello spazio. Una sorta di architettura del campo da gioco. Il punto era il movimento, ma tutto partiva dallo spazio, dalla sua organizzazione. Deve esserti chiaro perché costruire un’azione dalla fascia sinistra o da quella destra comporti un tipo di movimento diverso rispetto a una costruzione dal centro. In difesa, se giochi contro tre punte, i due difensori centrali costruiranno l’azione. Se gli attaccanti sono due, allora l’azione si sviluppa dalle fasce, e così via». E se non era architettura, erano geometria o matematica. Come quando, in un bar vicino alla stazione di Breda (al confine tra Olanda e Belgio) Hulshoff spiegò come «due difensori dinamici e intelligenti possano neutralizzare quattro attaccanti semplicemente stando nel punto giusto e muovendosi con prontezza». E lo spiegò con dei disegni su una tovaglietta di carta: «Vedi? In questa posizione, puoi marcare questo giocatore...». Poi altre linee, frecce, cerchi: «In questa posizione hai un margine d’azione di novanta gradi. Se io invece mi metto qui, ho centottanta gradi. Matematica, pura e semplice matematica. E l’unica ragione per cui i giocatori non fanno così è che non ne sanno niente. Giocano tutti nella maniera sbagliata, nella maniera stupida. Per migliorare devono muoversi. Devono andare da questa parte, o da quest’altra. Devono correre un po’. Questo deve andare un po’ più vicino alla palla, l’altro un po’ più lontano. Ma si può fare con due difensori. Novanta gradi o centottanta. Semplice matematica. Nient’altro che matematica». Un disegno gli servì anche per spiegare com’era nato il primo gol dell’Ajax nella finale di Coppa dei Campioni del 1972, vinta 2-0 contro l’Inter: «Il passaggio che feci e che portò al primo gol fu frutto di uno sbaglio. Ho preso palla a centrocampo – Keizer era qui, Cruijff qui, Mühren là in fondo. Io stavo giusto per arrivare a centrocampo, e cosa faccio? Gioco la palla senza guardare a destra. Ho guardato a sinistra e ho passato a destra, dove pensavo ci fosse Arie Haan. Di norma, in una situazione simile, Arie Haan sarebbe stato lì. Ma non c’era. Né lui, né nessun altro». Il problema è che ci cascò anche la difesa dell’Inter. La palla finì a Swart. Sul cross, Bordon in uscita andò a sbattere su Burgnich, mentre il pallone finiva sui piedi di Cruyff, che segnò a porta vuota. Erano passati solo 3 anni dalla sconfitta, sempre in finale, contro il Milan. Ma sembravano 30: «All’epoca avevamo una squadra molto giovane. Dicono che a volte si debba perdere una finale per vincerne una, ed è vero. Più avanti imparammo che se per noi non si metteva bene, potevamo cambiare nel corso della partita... cambiare tattica intendo. Contro il Milan non potevamo cambiare nulla. Erano troppo esperti. Fummo sopraffatti, su ogni fronte. Loro erano migliori». Lo diventò anche Hulshoff, scegliendo una strada diversa da quella che gli chiedeva Rinus Michels: «Voleva che diventassi più duro, spietato, e che facessi fallo agli attaccanti se mi colpivano. Mi diceva di prendere l’avversario a calci, di metterlo fuori uso. Ma io non ne ero in grado e non lo facevo. Magari qualche trattenuta, ma non era abbastanza. Non era nel mio carattere». Che, invece, gli diceva di fare qualcos’altro: imparare ad anticipare, in un modo così efficace da non aver bisogno di fare fallo. Glielo diceva il carattere, ma anche la sua passione per quello sport: «Io giocavo a calcio e per il calcio facevo tutto. Non c’era spazio per altro». A parte la musica, la cui evoluzione in quegli anni era l’unica manifestazione intellettuale che Hulshoff riusciva a collegare con quanto il suo Ajax aveva fatto tra i 60 e i 70. A patto che fosse la «sua» musica, però: progressive rock e heavy metal: «Musica parecchio estrema, la mia. In squadra non piaceva a nessuno. Preferivano il pop tipo i Beatles». Scrive David Winner che solo a nominarli faceva una smorfia.

·        Usa, si schianta col suo missile: muore Mike Hughes, sostenitore della Terra piatta.

Usa, si schianta col suo missile: muore Mike Hughes, sostenitore della Terra piatta. Lo stuntman 64enne si è lanciato dalla rampa di un camion nel deserto californiano con un razzo fai-da-te, ma qualcosa è andato storto e il paracadute si è staccato un secondo dopo il decollo facendolo precipitare. La Repubblica il 23 febbraio 2020. Voleva provare che la Terra è piatta, ma è morto nel tentativo di lanciarsi nello spazio a bordo di un razzo artigianale a vapore. È quanto è accaduto al 64enne "Mad" Mike Hughes, che ieri si è schiantato nel deserto californiano, dopo essersi lanciato vicino alla località di Barstow con un razzo che si era costruito da solo. Convinto che la Terra fosse piatta, Hughes voleva volare fino a 1500 metri per fotografare dall'alto la sua teoria, dimostrando così la sua fede "terrapiattista". Un video diffuso sui social media mostra il razzo che decolla e il paracadute, quello che avrebbe dovuto portarlo in salvo, che si stacca subito dopo facendolo precipitare al suolo. L'impresa dell'ex autista di limousine, con cui si aggiudicò il record di lunghezza di salto, al suo terzo tentativo, era stata sostenuta da Homemade Astronauts, una serie Tv sui dilettanti che cercano di costruire razzi, che doveva essere mandata in onda sul canale americano Science Channel. In un tweet di condoglianze ai familiari, Science Channel ha scritto che Hughes è morto inseguendo il suo "sogno".

«La Terra? Piatta»: e Mad Mike Hughes muore sul razzo fai da te. Pubblicato domenica, 23 febbraio 2020 su Corriere.it da Marta Serafini. Morire per battere un record e dimostrare una teoria falsa. Autore dell’inutile missione è Michael «Mad Mike» Hughes, stuntman statunitense 64enne.Personalità eclettica, spericolato, Hughes era un fervente sostenitore della sedicente teoria della Terra piatta. Progettista e costruttore di razzi fai-da-te, «Mad Mike» ha detto addio al mondo dopo un lancio finito male di un razzo a vapore, che è andato a schiantarsi vicino a Barstow, nel deserto del sud della California. Mike «il matto» aveva un sogno: lanciarsi nello spazio per poter finalmente fotografare la terra «senza trucchi», dimostrando così il suo credo. Una missione decisamente impossibile, per la quale da anni raccoglieva denaro (anche se con scarso successo). Ex detentore del record di lunghezza di salto con la limousine — esiste anche questa specializzazione — dal 2014 costruiva e pilotava razzi artigianali, con i quali è riuscito a farsi proiettare fino a quasi 500 metri d’altitudine in Arizona prima di ricadere a terra mentre la sua «creazione» veniva frenata da un doppio paracadute. In un successivo lancio nel 2018 sul deserto del Mojave, in California, era arrivato a 572 metri dopo un lancio diagonale da una rampa inclinata: anche in quel caso i paracaduti si sono aperti regolarmente ma, nell’impatto a terra, lo stuntman ha ricevuto un forte colpo alla schiena: nulla di serio, comunque.Per l’ultima missione Hughes voleva battere un altro record: superare i 1.500 metri di altitudine con un razzo a vapore lanciato da una rampa da un camion. Forse non la migliore delle idee. Il razzo se l’era costruito nel suo giardino di casa con il suo assistente, Waldo Stakes. Spesa complessiva dell’operazione: 18 mila dollari. Nei filmati caricati su YouTube si vede il suo paracadute strapparsi mentre il razzo continua la sua traiettoria. Dopo qualche secondo il vettore si schianta a terra con Hughes ancora sopra. Fine del sogno. A confermare il decesso dello stuntman, la polizia che è accorsa sul luogo dell’incidente. «Un uomo è stato dichiarato morto dopo che il suo razzo si è schiantato nel deserto», ha spiegato laconico lo sceriffo della contea di San Bernardino. Nel deserto, tra un cactus e un coyote, qualcuno era accorso per ammirare l’impresa. «Michael “Mad Mike” Hughes è morto tragicamente nel tentativo di lanciare il suo razzo fatto in casa. I nostri pensieri e le nostre preghiere vanno alla sua famiglia e ai suoi amici in questo momento difficile. Questo lancio era il suo sogno e noi eravamo lì per raccontare il suo viaggio», hanno twittato quelli di Science Channel. L’idea di «Mike il Matto» era infatti di mandare in onda la sua prodezza all’interno della serie «Homemade Astronauts», del canale tv statunitense. Al di là dell’impresa, da capire quanto il 64enne fosse davvero un sostenitore del «terrapiattismo». Prima di quel lancio, Hughes aveva dichiarato all’Ap: «La terra è piatta come un frisbee e voglio averne la conferma». Ma il suo ufficio stampa Darren Shuster, dopo la sua morte ha spiegato: «Sosteneva delle teorie del complotto, ma non c’entrano con la teoria della Terra Piatta. Quella era una cosa che ci eravamo inventati per farci pubblicità». Ma poco importa ormai. Quella trovata gli è costata la vita.

·        E’ morta Nikita Pearl Waligwa, l'attrice ugandese vista nel film «Queen of Katwe».

Da “il Giornale” il 17 febbraio 2020. Aveva solo quindici anni ma era già una star. Nikita Pearl Waligwa, l' attrice ugandese vista nel film «Queen of Katwe», è morta per tumore al cervello. Ha lottato tre anni contro il male, il più brutto, quello ti toglie le forze e ti costringe a ringraziare ogni giorno in più che riesci ad abbracciare i genitori, gli amici. Ma nonostante la sua determinazione l' adolescente non ce l' ha fatta e il cancro l' ha portata via. L' attrice aveva recitato nel film Disney del 2016, interpretando l' amica prodigio negli scacchi di Phiona Mutesi, abitante di una baraccopoli ugandese. Interpretava Gloria, la amica con la quale cresce Phiona imparando a giocare a scacchi. Nikita aveva recitato in questa pellicola che racconta la storia vera di una ragazza che inizia a giocare a a nove anni, continuando a crescere e pian piano riuscendo a competere anche a livello internazionale. Nel cast del film anche Lupita Nyong' o e David Oyelowo. Ma a Nikita nel 2016 è stato diagnosticato per la prima volta un tumore e la regista del film Disney, Mira Nair, ha anche finanziato per lei un trattamento speciale in India. Ha subito un intervento chirurgico per curare il tumore, ma appena un anno dopo ha scoperto di averne altro tumore. Un ennesimo duro colpo. Un membro della sua famiglia aveva spiegato che «il cervello era gonfio e stava esercitando molta pressione». La ragazzina si è attaccata alla vita fino all' ultimo ma sabato è morta sabato sera al TMR International Hospital, a Naalya, Kampala. Il film «Queen of Katwe» è la storia di Phiona Mutesi, nata nella baraccopoli di Katwe, dove solo gli scacchi riusciranno a riscattare la sua esistenza fino a portarla alle Olimpiadi degli Scacchi per rappresentare l' Uganda. La pellicola è stata presentata in anteprima il 10 settembre 2016 al Toronto International Film Festival ed è stato poi distribuito nelle sale statunitensi il 23 settembre 2016, arrivando anche in Italia sulle pay tv.

·        Morto Max Conteddu,  il poeta dei social.

Morto Max Conteddu,  il poeta dei social. Così  ha raccontato la malattia  e ha acceso una luce in noi. Pubblicato giovedì, 20 febbraio 2020 su Corriere.it da Elvira Serra. Ho cercato su Instagram il primo messaggio di Max, era del 20 aprile dello scorso anno, alle 8.06 del mattino. «Buongiorno Elvira, ti disturbo per dirti che io sono di Capo Comino e mi ha emozionato sapere del tuo libro… Lo leggerò. Buona giornata :)». Si riferiva a «Le stelle di Capo Gelsomino», era appena uscito in libreria ed era ambientato nel nostro posto del cuore, Capo Comino, dove io trascorro tutte le estati da quando sono nata, e dove Max viveva, «lungo la strada bianca dove c’è il market, quella che invece di entrare a Su Tiliò va a sinistra, in campagna…». Erano i nostri punti di riferimento, noi sapevamo di che cosa stavamo parlando. Non ci eravamo mai intercettati prima. Vidi che aveva moltissimi follower e che seminava aforismi, pillole sulla vita e sull’amore. Rimanemmo d’accordo che ci saremmo visti ad agosto, nel nostro mare. Quando però gli scrissi che ero arrivata, non riuscimmo a vederci nel baretto sulla spiaggia di S’Ena e Sa Chitta, come ci eravamo ripromessi: lui non stava bene. Gli proposi di raggiungermi a Santa Lucia il 9 agosto, quando avrei presentato il romanzo sulla spiaggia delle barche. Promise di esserci e ci fu. Ma quando venne a salutarmi, alla fine, non riconobbi la persona socievole e vivace con cui mi ero scambiata i messaggi. Sembrava rigido, non proprio intimidito, ma in qualche modo a disagio. Qualche giorno dopo ci sentimmo per telefono, con calma. «Sai ero confuso, non mi venivano parole, avevo una grande confusione in testa, ero spaventato. Sono andato all’ospedale, ho un tumore. Se verrò a Milano a curarmi ti chiamo».A Milano non venne mai, rimase all’ospedale San Francesco di Nuoro. Contravvenendo alla regola che mi sembrava si fosse dato sui social, cominciò a pubblicare le foto della malattia, il suo bel volto trasformato dai farmaci, la fidanzata sempre accanto a lui come un faro di dolcezza e di amore, i ringraziamenti per la sorella, per il cognato, per la sua famiglia. Non ha smesso mai di parlare di amore, di gratitudine, di quello che importa davvero. «Tenete in tasca un po’ di sole. Ne avrete bisogno quando farà buio nella vostra vita». È il suo ultimo tweet, il suo testamento. La luce che ha acceso prima di lasciarci. Una luce bianca, come la nostra spiaggia. Ciao Max.

Elvira Serra per corriere.it il 20 febbraio 2020. Ho cercato su Instagram il primo messaggio di Max, era del 20 aprile dello scorso anno, alle 8.06 del mattino. «Buongiorno Elvira, ti disturbo per dirti che io sono di Capo Comino e mi ha emozionato sapere del tuo libro… Lo leggerò. Buona giornata :)». Si riferiva a «Le stelle di Capo Gelsomino», era appena uscito in libreria ed era ambientato nel nostro posto del cuore, Capo Comino, dove io trascorro tutte le estati da quando sono nata, e dove Max viveva, «lungo la strada bianca dove c’è il market, quella che invece di entrare a Su Tiliò va a sinistra, in campagna…». Erano i nostri punti di riferimento, noi sapevamo di che cosa stavamo parlando. Non ci eravamo mai intercettati prima. Vidi che aveva moltissimi follower e che seminava aforismi, pillole sulla vita e sull’amore, che ci saremmo visti ad agosto, nel nostro mare. Quando però gli scrissi che ero arrivata, non riuscimmo a vederci nel baretto sulla spiaggia di S’Ena e Sa Chitta, come ci eravamo ripromessi: lui non stava bene. Gli proposi di raggiungermi a Santa Lucia il 9 agosto, quando avrei presentato il romanzo sulla spiaggia delle barche. Promise di esserci e ci fu. Ma quando venne a salutarmi, alla fine, non riconobbi la persona socievole e vivace con cui mi ero scambiata i messaggi. Sembrava rigido, non proprio intimidito, ma in qualche modo a disagio. Qualche giorno dopo ci sentimmo per telefono, con calma. «Sai ero confuso, non mi venivano parole, avevo una grande confusione in testa, ero spaventato. Sono andato all’ospedale, ho un tumore. Se verrò a Milano a curarmi ti chiamo». A Milano non venne mai, rimase all’ospedale San Francesco di Nuoro. Contravvenendo alla regola che mi sembrava si fosse dato sui social, cominciò a pubblicare le foto della malattia, il suo bel volto trasformato dai farmaci, la fidanzata sempre accanto a lui come un faro di dolcezza e di amore, i ringraziamenti per la sorella, per il cognato, per la sua famiglia. Non ha smesso mai di parlare di amore, di gratitudine, di quello che importa davvero. «Tenete in tasca un po’ di sole. Ne avrete bisogno quando farà buio nella vostra vita». È il suo ultimo tweet, il suo testamento. La luce che ha acceso prima di lasciarci. Una luce bianca, come la nostra spiaggia. Ciao Max.

Da ilmessaggero.it il 20 febbraio 2020. Max Conteddu, chi è il poeta social morto per un tumore. Insieme a Insopportabile, era una delle voci sarde più sincere e libere di Twitter. Max Conteddu, noto per l'account “Istintomaximo”, era un ragazzo sensibile, poetico, ironico. Sui social ha mostrato le cicatrici del dolore senza paura. Senza vergogna. Ha lottato contro un glioblastoma, un tumore al cervello, postando le sue foto sul lettino. Con la compagna, la sorella, il fratello. Irriconoscibile rispetto alla sua foto profilo, è diventato una specie di “mito” per la leggerezza con cui ha raccontato l'evoluzione della sua malattia. Scriveva frasi di ogni genere: «Portami dove posso sbagliare», «Io sto male ma anche alcuni di voi non scherzano», «Un sorriso è sempre un regalo, siate generosi». Basta scorrere la sua pagina Twitter per imbattersi in un piccolo grande uomo. Aveva rispetto della sua terra, era attento ai temi dell'ambiente. Capace di ringraziare il personale dell'ospedale di San Francesco di Nuoro o di attaccare Nadia Toffa sul «dono» della malattia. Nessuna paura del confronto, dell'amore, della vita nonostante lo choc di cancro che, fin dall'inizio, aveva capito che non gli avrebbe lasciato scampo. O lo avrebbe comunque portato a passare una vita tutta in salita. Tanti i messaggi d'affetto e di sostegno che riceveva ogni giorno, ogni minuto. Anche Max Pezzali aveva voluto salutarlo e augurargli la guarigione con un video su Twitter. «A tutti quelli che buttano via la propria vita, che Max sia d’esempio per quanto l’ha amata anche nella sofferenza ...#CiaoMax», il tweet di Rossella Brescia. Non era una star, quando di mezzo c'è una malattia (grave) c'è poco da fare la stella. Nessuno vorrebbe esserlo. Preferiamo ricordare Max con questa sua frase. «Eppure ci sono ancora persone che si commuovono guardando un film, ascoltando una canzone o leggendo un libro. E io vi ringrazio, perché mi dimostrate che c'è ancora un po' di umanità in giro».

Chi era Max Conteddu, addio al poeta che raccontava la sua malattia sui social. Redazione de Il Riformista il 20 Febbraio 2020. “Fate, dite, scrivete cose belle. Ne abbiamo tutti bisogno”. Questo è solo uno dei tanti messaggi che Max Careddu scriveva sui suoi account social. Seguito da oltre 40mila persone sia su Instagram che su Twitter, il giovane sardo era diventato un simbolo nella battaglia contro il cancro. Originario di Siniscola, in località Capo Comino dove viveva, dopo la diagnosi del tumore al cervello si era creato in breve tempo un vasto pubblico che lo amava e seguiva soprattutto su Twitter. Massimiliano Conteddu, conosciuto con l’account social di ‘istinto maximo’ regalava attraverso i suoi post momenti delle sue giornate e dei suoi stati d’animo raccontando il decorso della malattia scoperta solo lo scorso anno. Tristezza, sconforto, ironia ma soprattutto tanta forza contraddistinguevano i suoi post guadagnandosi l’amore e la stima di tutte le persone che lo seguivano. Infatti molti dei suoi seguaci ammiravano la sua voglia di combattere e di non arrendersi. Il suo ultimo tweet risale al 10 febbraio scorso, quando ha pubblicato nove cuori e uno zero finale, che alcuni hanno interpretato come un conto alla rovescia. Mentre il giorno prima aveva scritto: “Tenete in tasca un pò di sole. Ne avrete bisogno quando farà buio nella vostra vita”. Dalle sue frasi brevi e fugaci, trapelava sempre tanto amore per la vita. Attraverso la poesia esprimeva i suoi sentimenti, ricordando a tratti Nadia Toffa, la famosa giornalista de Le Iene morta anche lei della stessa malattia lo scorso 13 agosto. Molti infatti hanno paragonato le due storie, tanto che lo stesso Max era intervenuto con un post proprio su Nadia: “Chiariamoci una volta per tutte: lei definì il tumore come un dono, perché le aveva fatto aprire gli occhi. Ma io gli occhi li avevo già aperti prima di questo intruso. Non è un dono, è una maledizione. Nadia, resti comunque una guerriera”. Chi seguiva Max aveva ben presente la sua storia d’amore con una ragazza che non lo aveva mai abbandonato e che, anzi, gli stava sempre accanto e compariva in quasi ogni foto. A lei e al suo fidanzato guerriero sono dedicati tutti i messaggi di oggi soprattutto su twitter, pieno zeppo di post che lo ricordano con tanto affetto. Tra questi troviamo anche quello di Selene Maggistro, famosa per aver creato la pagina social “La fidanzata psicopatica”, anche lei colpita dalla malattia e che ha usato i social per raccontare la sua esperienza: “Questo modo di dire “non ce l’ha fatta” è terribile. Max ce l’ha fatta. Max ha affrontato senza mai mollare. Ha visto il suo corpo cambiare e non si è lasciato abbattere. Ha sorriso per asciugare le lacrime di chi lo ama. Max ce l’ha fatta a sopportare tutto. Max ha fatto il leone anche quando era così stanco che sarebbe voluto essere solo un gattino spaventato. Max così timido e riservato che non aveva mai condiviso il suo essere col mondo, ha lasciato che il mondo vedesse il suo cuore da vicino. Max, il mio poeta. È difficile scrivere, è difficile parlarne. È stato impossibile rispondere a chi mi ha chiesto come stavi. Non sei “uno dei social” sei un amico a cui voglio veramente tanto bene. Abbiamo riso, pianto, imprecato. E insieme ci siamo fatti tanto coraggio. Hai vinto tu Max, avrai sempre vinto tu”.

·        È morto Larry Tesler, il “padre” dei comandi copia-incolla-taglia.

Da leggo.it il 20 febbraio 2020. Con una sua invenzione, ci ha cambiato la vita: in pochi conoscono il nome di Larry Tesler, un informatico che ha lavorato in Xerox, Apple, Amazon e Yahoo. Eppure Tesler è stato il primo, negli anni Settanta, a inventare i comandi «taglia», «copia» e «incolla», ancora oggi in uso su computer, smartphone e tablet. Oggi la Silicon Valley lo piange, dopo la sua morte avvenuta lunedì scorso a 74 anni, ma la notizia è divenuta pubblica solo nelle ultime ore. Oltre al taglia, copia e incolla, l'ex ricercatore ha inventato anche il «trova e sostituisci». «La vostra giornata lavorativa è più facile grazie alle sue idee rivoluzionarie», ha twittato Xerox, la società in cui l'informatico iniziò la sua lunga carriera, proseguita poi appunto in Apple, Amazon e Yahoo. Laureato all'università di Stanford, Tesler era specializzato in interazione uomo-computer. Il suo «taglia, copia e incolla» è stato reso popolare da Apple, che nel 1983 lo ha adottato sul compure Lisa e nel 1984 sul primo Macintosh. «Tesler ha creato l'idea di tagliare, copiare e incollare, e ha unito la formazione informatica con l'idea controculturale che i computer dovessero essere adatti a tutti», ha scritto su Twitter il Computer History Museum della Silicon Valley.

È morto Larry Tesler, il “padre” dei comandi copia-incolla-taglia. Laura Pellegrini 20/02/2020 su Notizie.it. È morto Larry Tesler, l'inventore e il padre dei comandi per copiare, taglia o incollare elementi sul computer: aveva 74 anni. Lutto nel mondo della tecnologia mondiale: è morto all’età di 74 anni Larry Tesler, il “padre” dei comandi copia, incolla e taglia. Grazie a lui erano nate le funzionalità che ad oggi tutti utilizzano: “ctrl-c” per copiare un elemento, “ctrl-v” per incollarlo e “ctrl-x” per tagliarlo. La sua specializzazione era volta a semplificare l’utilizzo dei dispositivi informatici. Tra le altre cose, Tesler lavorò anche per Xerox e Apple. È morto il creatore e l’inventore dei comandi copia-incolla: Larry Tesler è scomparso lunedì 17 febbraio all’età di 74 anni. Nato nel Bronx nel 1945, si era laureato nella prestigiosa università di Stanford e si era dedicato da subito all’intelligenza artificiale. Mosse i primi passi nel mondo della tecnologia quando i pc erano ancora agli albori. L’esordio fu alla Xerox, dove Tesler si specializzò nel rendere i sistemi informatici più semplici e intuitivi. Terminato il primo periodo alla Xerox, Larry passò a lavorare in un altro grande colosso della tecnologia: la Apple di Steve Jobs. Proprio in quell’ambiente nacquero i comandi che ad oggi utilizzano tutte le persone del mondo: “ctrl-c” per copiare un elemento, “ctrl-v” per incollarlo e “ctrl-x” per tagliarlo. Il comando venne incorporato nel software Apple sul computer Lisa. All’epoca era il 1983. Successivamente, inoltre, venne inserito anche sul primo Macintosh e si diffuse poi in tutte le altre tipologie di computer commercializzate. Dopo aver lasciato Apple, Larry ha fondato una società propria: la Stagecast Software. Infine, nel 2001, è passato prima ad Amazon, diventando vicepresidente per lo shopping, poi a Yahoo nel 2005, e nel 2008 è diventato socio di 23andMe.

Addio Larry Tesler, inventò il taglia, copia e incolla. Pubblicato giovedì, 20 febbraio 2020 da Corriere.it. Taglia, copia e incolla sono le tre parole magiche dell’informatica. Sembrano esistere da sempre e invece hanno un inventore con un nome e un cognome, quel Larry Tesler che è morto lunedì all’età di 74 anni. Geniale pioniere dell’informatica, Tesler nel 1973 lavora per lo Xerox Palo Alto Research Center (Parc), il primo nucleo di quella che poi sarebbe diventata la Silicon Valley. È lì, in quel campus avveniristico dalla location insolita, che era stata inventata la prima interfaccia grafica che sostituiva i comandi testuali, sempre lì sono nati il mouse, i computer desktop, le stampanti laser. Il giovane Larry Tesler si muoveva in questa polveriera di idee e lui, geniale, aveva pensato che mancassero ancora dei comandi fondamentali per quell’interazione uomo-macchina che si stava facendo sempre più naturale. Aveva così inserito taglia, copia e incolla all’interno di Gipsy, un software per l’elaborazione dei testi ideato insieme a Tim Mott. Così Tesler descrive la sua invenzione all’interno del proprio curriculum: la possibilità, si legge, di «Inserire o sovrascrivere il testo senza entrare in una modalità specifica e semplicemente facendo clic o trascinando e quindi digitando […] spostare o copiare il testo senza entrare in una modalità usando taglia/copia e incolla [...] digitare o incollare trovare e sostituire testo in un modulo che può essere modificato prima e dopo la ricerca». Insomma, sembra tutto semplicissimo oggi che quei comandi sono diventati naturali. Li applichiamo oggi giorno sul computer ma anche sullo smartphone o sul tablet. Tesler era dotato anche di una certa autoironia. «Sono stato erroneamente identificato come il padre dell’interfaccia grafica del Macintosh. Non lo ero. Tuttavia, un test di paternità potrebbe espormi come uno dei suoi molti nonni». Era proprio dall’interfaccia grafica dello Xerox Alto a cui aveva lavorato Tesler che Steve Jobs aveva preso l’idea per il suo primo computer. Dopo aver lasciato la Xerox nel 1980, Tesler aveva lavorato per Apple e poi per Amazon, Yahoo e per la società di analisi genomica 23andMe senza mai abbandonare il campo dell’interazione uomo-macchina. Come una sorta di copia-incolla, insomma.

·        Si è spento Gianni Rotondo, decano dei giornalisti di Taranto.

Si è spento Gianni Rotondo, decano dei giornalisti di Taranto. Il Corriere del Giorno il 15 Febbraio 2020. Parlando del giornalismo ritirando un premio a Capua sua città natale disse: “E’ aumentata l’informazione, ma non so se è una buona informazione, forse ci vorrebbe più professionalità, penso in particolare all’informazione locale”. Con lui se ne va un altro pezzo del “vero” giornalismo tarantino. Si è spento nella notte Gianni Rotondo, all’età di 87 anni decano dei giornalisti tarantini, originario di Capua. Da tempo era ammalato e si era sottoposto ad un delicato intervento chirurgico e recentemente aveva trascorso un lungo ricovero in ospedale. Gianni Rotondo era diventato caporedattore della Gazzetta del Mezzogiorno, dopo il pensionamento Franco de Gennaro. Nel corso della sua lunga carriera, come giornalista prima del Corriere del Giorno dal 1958 al 1961, poi alla Gazzetta del Mezzogiorno ed ultimamente come corrispondente dell’AGI-Agenzia Italia. Gianni Rotondo ha seguito l’evolversi della storia di Taranto. E’ stato un autentico vero fuoriclasse della cronaca nera e giudiziaria a Taranto, settore in cui non ha avuto eredi. Ritirando un premio nel 2013 a Capua, sua città d’origine parlando del giornalismo disse: “E’ aumentata l’informazione, ma non so se è una buona informazione, forse ci vorrebbe più professionalità, penso in particolare all’informazione locale” Con lui se ne va un altro pezzo del “vero” giornalismo tarantino. Insieme alla redazione e tutti i collaboratore del CORRIERE DEL GIORNO, piangiamo la scomparsa di un caro vero amico e di un ottimo collega. Fai buon viaggio caro Gianni, e finalmente riposa in pace.

·        Addio a Stanley Cohen, Nobel per la Medicina con Levi Montalcini.

Addio a Stanley Cohen, Nobel per la Medicina con Levi Montalcini. Aveva 97 anni. Con la scienziata italiana studiò il fattore di crescita delle cellule nervose. La Repubblica il 07 febbraio 2020. E' morto a 97 anni Stanley Cohen in una casa di riposo di Nashville, nel Tennessee. Cohen collaborò con Rita Levi Montalcini allo studio del fattore di crescita delle cellule nervose (NGF) e chiarì i processi alla base delle interazioni fra i fattori di crescita e i loro recettori sulla superficie delle cellule. I risultati ottenuti gli valsero il premio Nobel per la Fisiologia e la Medicina che fu assegnato nel 1986 anche a Levi Montalcini. Nato a New York il 17 novembre 1922, dal 1952 Cohen si dedicò, presso la Washington University, dove era professore, a esperimenti sulla biochimica della crescita cellulare. L'anno seguente collaborò con Rita Levi Montalcini allo studio del fattore di crescita delle cellule nervose (Nerve growth factor, in sigla Ngf). E proprio nel 1953 i due scienziati riuscirono a isolare il fattore di crescita delle fibre nervose. Cohen continuò poi il lavoro di ricerca sui fattori di crescita presso la Vanderbilt University (Tennessee), dove diventò professore di biochimica (1959). A Cohen si deve la scoperta di un secondo fattore di crescita, quello dei tessuti epidermici (Epidermal growth factor, in sigla EGF). Riuscì, infatti, a isolare in forma pura il fattore di crescita dell'epidermide e chiarì i processi alla base delle interazioni fra i fattori di crescita e i loro recettori sulla superficie delle cellule. 

·        Addio a Poeti Norac, astro nascente del surf.

Addio a Poeti Norac, astro nascente del surf, morta a 24 anni in Australia. Pubblicato sabato, 08 febbraio 2020 su Corriere.it da Francesco Tortora. Poeti Norac, astro nascente francese del surf, è morta a 24 anni in Australia. Non sono ancora chiare le cause che hanno provocato il decesso della giovane sportiva che da qualche mese si era trasferita sulla Sunshine Coast del Queensland per coltivare la passione delle onde. La surfista, originaria di Les Sables-d'Olonne, dipartimento della Vandea, aveva disputato 4 finali nazionali e ottenuto 10 vittorie alla Coupe de France. Ad annunciare la scomparsa, avvenuta lo scorso weekend, è stata la Federazione francese del surf che ha pubblicato il 4 febbraio un breve comunicato su Twitter : "La nostra comunità ha perso un membro della famiglia, una bella persona con un sorriso radioso, un’artista sulla sua tavola e il cui entusiasmo si è irradiato nella Vandea e in qualsiasi altro luogo". La Federazione sportiva ha anche annunciato che presto sarà organizzata una cerimonia per celebrare la campionessa. Poeti aveva iniziato a praticare surf quando aveva 10 anni insieme al padre Bruno e subito aveva dimostrato di avere un enorme talento. Molto attiva su Instagram dove era seguita da oltre 5.800 follower la surfista era solita pubblicare messaggi in cui cercava di spronare i fan: «E' il tuo percorso e solo il tuo - recita uno degli ultimi post -. Le persone possono camminare al tuo fianco ma nessuno può camminare per te». Anche Oxbow , marchio di surf che ha sponsorizzato Norac, ha espresso il proprio cordoglio su Instagram: «È con grande tristezza che abbiamo appreso della morte del nostro giovane testimonial Poeti Norac. È con il cuore pieno di dolore che inviamo ai suoi cari e ai suoi molti amici le nostre più sincere e profonde condoglianze. Il suo sorriso sarà impresso per sempre nei nostri ricordi».

·        Se ne va anche Dyanne Thorne, cioè Ilsa la belva delle SS.

Marco Giusti per Dagospia il 7 febbraio 2020. Brutta giornata per il cinema. Se ne va anche Ilsa la belva delle SS, cioè Dyanne Thorne, incredibile stracult queen per aver interpretato negli anni ’70 capolavori camp amati in tutto il mondo dai cinefili più malati come appunto “Ilsa la belva delle SS” e “Ilsa la belva del deserto” diretti da Don Edmonds, “La tigre del sesso” diretto da Jean La Fleur e “Greta la donna bestia” diretto da Jesus Franco, dove è una bionda nazista vendicativa e cattivissima. Film che la resero immortale fra i cultori del trash sporcaccione internazionale. Americana, nata a Greenwich, Connecticut nel 1943 (secondo altre fonte nel 1936), entrò nello spettacolo come vocalist, poi attrice di teatro a fianco di comici. Nel cinema fece delle particine prima a New York e poi a Los Angeles. Riusciamo a vederla in “Chi era quella signora?” di George Sidney, “Strano incontro” di Robert Mulligan, in un paio di film erotici di Joseph Sarno, regista superindipendente di erotici colti. In un corto, “Encounter”, 1965, è poco più di una comparsa, come lei, anche un giovane Robert De Niro. Si sposta a Los Angeles nel 1966, dove la vediamo nella serie tv “Star Trek”, più tardi in piccoli horror come “Punto del terrore” diretto da Alex Nicol. Con l’arrivo del primo cinema erotico, non ancora hard, la troviamo in classici del porno soft come “Le avventure erotiche di Pinocchio” di Corey Allen, dove ha un buon ruolo, in “Incontri erotici del quarto tipo” di William Levey, in “Raptus erotico” di Gus Trikonis, prima di essere chiamata per il ruolo della sua vita in “Ilsa la belva delle SS”, diretto da Don Edmonds. Cosa che le procurò anche parecchie noie, anche perché aveva sposato, proprio nel 1975, un cantante e attore ebreo, Howard Mauer. La vedeva così: “Fu un'occasione per mettere in pratica quello che su cui aveva lavorato per anni. Anche così, i miei amici ebrei erano sconvolti dal fatto che sarei apparsa in un film del genere. Mio marito è ebreo ed è impazzito quando ha letto per la prima volta la sceneggiatura. Ma come attrice non ci ho pensato. Stavo solo recitando un ruolo. Per me è stato un lavoro e ho fatto del mio meglio. Non ho mai provato a glorificare Ilsa. Ho sentito che era un personaggio che provocava pietà, piuttosto che emulazione. Volevo mostrare la verità su di lei”. Sì, vabbé…Per quanto contrario, il marito Howard Mauer, la spinge a fare tutta la serie di Ilsa. Arrivarono così “Ilsa la belva del deserto”, sempre di Don Edmonds, dove è la cattiva guardiana di un harem per gli sceicchi, poi fu la volta della terribile aguzzina comunista in “Ilsa la tigre del sesso” diretto da un certo Jean La Fleur che non diresse poi granché. Jesus Franco, il celebre regista di horror e follie varie spagnolo, la vuole infine per “Greta la donna bestia”, dove ripete di fatto il solito ruolo. “Se fai un lavoro troppo buono nel ruolo di un cattivo”, diceva, “la pagherai. I miei amici più noti del settore mi hanno rimproverato per questa scelta. Dissero che il film avrebbe danneggiato la mia carriera a Hollywood e che la gente mi avrebbe odiato per aver interpretato Ilsa - e avevano ragione. Mi ha fatto perdere molto lavoro. Non potevo più entrare per vedere i principali direttori del casting in studio e non riuscivo nemmeno a farmi rappresentare da un agente. Avevano paura di gestirmi”. Non è infatti che il successo di Ilsa l’abbia portata chissà dove, ma diventò di fatto un’icona. La troviamo in piccoli horror, “Hellhole”, in un progettato, ma mai realizzato, “Ilsa Meets Bruce Lee”,  ma qualche anno dopo anche nel film ad episodi superbizzarrio “Aria”, 1987, diretta da Franc Roddam dove recita assieme al marito, poi in “Real Men” con Jim Belushi nel ruolo, lei, di Dad Pirandello.  Dopo 25 anni di inattività, assieme al marito, ritornarono al cinema nel 2013 per due piccoli horror, “House of the Witch Doctor” e “House of Forbidden Secrets”. Da Los Angeles si spostarono poi a Las Vegas dove misero in piedi un’attività per matrimoni stravaganti, cioè sul modello Ilsa.  Il suo ultimo film, come se stessa, risulterebbe “Exploitation” del 2018 diretta da Bill Zebub con certa Jessica Albano.

·        Addio alla scultrice Beverly Pepper, regina della Land Art.

Addio alla scultrice Beverly Pepper, regina della Land Art. La Repubblica il 6 febbraio 2020. L'artista statunitense aveva 97 anni e sarà sepolta a Todi, dove viveva dal 1972 e dove ha lasciato molte opere. L'artista statunitense Beverly Pepper, scultrice di fama internazionale, celebre per le sue opere monumentali e architettoniche e per interventi di Land Art e di Connective-Art, è morta all'età di 97 anni, nella tarda serata di ieri a Todi (Perugia), dove viveva dal 1972, pur avendo continuato spesso a soggiornare nella città natale di New York. Era cittadina onoraria di Todi e alla città di elezione aveva regalato nel settembre scorso il "Parco di Beverly Pepper", primo parco monotematico di scultura contemporanea in Umbria e il primo dell'artista nel mondo. Le sculture, tutte provenienti dalla collezione personale della Pepper, raccontano il suo percorso creativo iniziato negli anni Sessanta ma mai ingabbiato in un movimento. Beverly Stoll nasce a Brooklyn, a New York, il 20 dicembre 1922, studia design pubblicitario, fotografia e design industriale presso l'Art Students' League a Brooklyn e, a partire dagli anni Quaranta, a l'Académie de la Grande Chaumiére di Parigi. Durante il soggiorno europeo visita l'Italia e Roma, dove incontra lo scrittore giornalista statunitese Curtis Bill Pepper, che diventerà suo marito. La sua prima personale, presentata dallo scrittore e pittore Carlo Levi, nel 1952, è alla Galleria dello Zodiaco a Roma. Negli stessi anni frequenta gli artisti Achille Perilli, Pietro Consagra, Piero Dorazio, Giulio Turcato del Gruppo Forma1 e intesse numerosi rapporti con l'ambiente culturale romano. Nel 1960, dopo un viaggio in Cambogia ad Angkor Wat, cambia radicalmente il suo linguaggio artistico, avvicinandosi alla scultura e realizzando piccole forme in legno e argilla. Espone per la prima volta come scultrice nel 1961 a New York e a Roma alla Galleria Pogliani, con presentazione critica di Giulio Carlo Argan. Nel 1962 partecipa alla mostra "Sculture nella Città" nell'ambito del V Festival dei Due Mondi di Spoleto. L'artista realizza all'interno delle officine Italsider di Piombino (Livorno) varie opere di medie e grandi dimensioni, esperienza che sancisce il suo definitivo passaggio all'arte di forgiare e modellare il metallo. Tra il 1967 e il 1969 sperimenta vere e proprie forme di connective-art e progetti ambientali utilizzando erba, sabbia, fieno. Tra il 1971 e il 1975 realizza il suo primo progetto ambientale a Dallas, "Dallas Land Canal and Hillside". Nel 1971 Pepper viene ospitata dalla città di Roma per esporre una decina di sculture in acciaio inox in piazza Margana. Nel 1972 è presente alla 34esima Biennale di Venezia e si trasferisce definitamente a Todi, dove nella propria residenza costruisce il suo atelier-fabbrica. Tra il 1974 e il 1976 realizza una delle sue prime opere di Land Art, "Amphisculpture", in New Jersey e nel 1977 espone alla Documenta 6 di Kassel. Nel 1998 realizza l'installazione al Forte Belvedere. Tra le sue opere ambientali più note: "Todi Columns" installate nella piazza del Popolo di Todi, "Spazio Teatro" a Celle di Pistoia, "Narni Columns" a Narni, "Palingenesis" a Zurigo, "Sol y Ombra Park" a Barcellona, "Manhattan Sentinels" nella Federal Plaza di New York, "Departure, For My Grandmother" a Vilnius in Lituania, "Brufa Broken Circle" al Parco sculture di Brufa. Nel 2014 Beverly Pepper espone i suoi "Circles" al Museo dell'Ara Pacis a Roma, riuscendo a coniugare il passato con il presente. Tra le ultime opere di Land Art troviamo "Amphisculpture", un teatro all'aperto di 3000 mq, il più grande del centro-sud Italia, creato e donato da Beverly Pepper alla città dell'Aquila nell'ambito del progetto "Nove artisti per la Ricostruzione". Tra i riconoscimenti ricevuti dall'artista, il premio alla carriera dall'International Sculpture justify di New York, il premio National Academician della National Academy Museum and school di New York, il premio di scultura Alexander Calder in Francia. Era Chevalier de l'Ordre des Arts et Lettres di Parigi, Commendatore all'Ordine del Merito della Repubblica Italiana e Accademico di Merito all'Accademia di Belle Arti di Perugia. La scultrice sarà tumulata nel cimitero della frazione di Torregentile (Todi), dove si trova la sua casa-studio (un castello medievale definito "Beverly's Hills").

·        È morto Luciano Capelli, storica voce di Radio Alice.

È morto Luciano Capelli, storica voce di Radio Alice: il ricordo di Carlo Rovelli. Pubblicato domenica, 02 febbraio 2020 su Corriere.it da Carlo Rovelli. È morto il 29 gennaio a San José, in Costa Rica, Luciano Capelli. Luciano è stato un personaggio discreto ma significativo nella cultura contemporanea, la cui eredità vive tanto in Costa Rica, il Paese senza eserciti che ha scelto come suo nella seconda parte della sua vita, quanto in Italia, dove è nato ed è cresciuto. I giornali del Costa Rica danno rilievo alla notizia della sua scomparsa e celebrano il suo ruolo nella vita del Paese come cineasta, fotografo, produttore ed editore. In Costa Rica Luciano ha dato vita alla prima casa discografica locale che ha dato la possibilità ai musicisti del Paese di esprimere la ricchezza culturale della loro musica senza dipendere dall’establishment discografico degli Stati Uniti. Ha diretto e prodotto documentari che hanno ottenuto numerosi riconoscimenti importanti, come «Algo queda» (Qualcosa rimane) che racconta l’eredità della rivoluzione in Nicaragua, diretto con Andrea Ruggeri. Ha fondato una casa editrice e un’agenzia di comunicazione, e realizzato libri di stupende immagini delle grandi ricchezze naturali del Costa Rica, giocando un ruolo importante nel sostegno alla politica di protezione della natura per la quale il piccolo Paese centroamericano dà lezioni al mondo. Fotografo geniale, Luciano ha battuto le zone più remote e spettacolari del paese, catturandone immagini di bellezza emozionante. L’estate scorsa mi ha portato con sé per un tratto in una spedizione nel Sud, nel parco nazionale del Corcovado, la zona più selvaggia del Paese. Armato di una macchina fotografica nascosta nella plastica, fradicio di pioggia e infangato fino ai capelli, gli occhi di Luciano, settantenne, scintillavano di passione e gioia di vivere. In Italia la sua è stata la voce più caratteristica di Radio Alice, la voce a cui la mitica radio degli anni Settanta deve parte del suo fascino non tramontato. Era il suo timbro inconfondibile, roco, preciso e appassionato, certamente. Ma soprattutto era quel linguaggio scarno ma pieno di immagini, complessità, intelligenza e magia, che dava alla rivolta spesso goffa e istintiva della gioventù di Bologna spessore e intensità. Majakovskij, Dada, Rilke, le avanguardie storiche, il nuovo cinema, Deleuze… una ricchezza di linfa culturale che si mescolava nella parola incantata e incantatrice di Luciano, nutrendo il discorso politico e la rivolta utopica con la profondità dell’intera cultura europea. Sto riascoltando quella voce in questi giorni, da registrazioni delle emissioni di Radio Alice durante i giorni burrascosi del 1977, quando la radio venne chiusa dalla polizia durante la rivolta dell’università di Bologna seguita all’omicidio di uno studente, Francesco Lorusso. La magistratura riconobbe poi un carabiniere, Massimo Tramontani, come responsabile dell’uccisione di Lorusso, e giudicò l’omicidio «legittimo». Oggi da noi c’è sdegno per la brutalità della polizia a Hong Kong —che non ha ucciso nessuno— e simpatia per gli studenti di Hong Kong, le cui proteste sono di gran lunga più devastanti delle vetrine rotte di Bologna…Del linguaggio autentico, frantumato, sperimentale, sognante e multiforme di quei giorni strani, in cui molti pensavano di poter rapidamente cambiare il mondo, del breve e felice sogno iniziale di Radio Alice, resta un libretto che Luciano pubblicò allora, con Stefano Saviotti, per le edizioni Erba Voglio: «Alice e il diavolo: sulla strada di Majakovskij: testi per una pratica di comunicazione sovversiva». Luciano non si è mai messo in avanti. La sua colta intelligenza e la sua creatività originalissima si sono espresse sempre in maniera discreta, sotterranea. Il suo fascino personale era irresistibile, ma Luciano era quello che si occupava degli altri, non di se stesso; quello che cucinava per tutti; quello che ascoltava, non quello che parlava. Mago della comunicazione, comunicava sempre con discrezione. I giornali del Costa Rica insistono sulla sua generosità, sulla dedizione ai tanti giovani che imparavano da lui. Da ragazzo sembrava talvolta affranto dalla vita. Ha attraversato molti momenti difficili. Ha perso un grandissimo amore in un incidente. Ma mentre tante vite baldanzose si sono pian piano spente in una disillusione un po’ triste, Luciano ha continuato a scintillare, a combattere, irriducibile, e vivere bruciando. Della vita ha bevuto fino in fondo il nettare più dolce: amore, pensieri, musica, natura… tutto fino all’ultimo respiro. Quando ha saputo di avere una malattia grave e forse pochi mesi di vita, mi ha scritto che non gli interessava mettersi nelle mani dei medici che gli dicevano che doveva provare a curarsi: voleva solo vivere a fondo anche gli ultimi giorni, come aveva sempre vissuto. È rimasto pieno di vita fino alla fine, ribelle, irriducibile, splendido. Si è indebolito rapidamente, si è spento nel sonno senza troppo soffrire. Certo non si aspettava vita dopo la morte. Non c’è più. Eppure in questi giorni riascolto spesso la sua voce, dal CD che accompagna una riedizione di «Alice è il diavolo», e il timbro rauco e dolce di quella voce risuona dentro di me. Quando Alice, distrutta dalla polizia, riappare sulle onde di una radio amica: «la barca dell’amore si è spezzata contro lo scoglio del quotidiano — come suol dirsi, l’incidente è chiuso…». Adesso Luciano è più presente che mai in tantissimi di noi. Nel cuore che in questi giorni batte molto forte delle sue due splendide figlie, ora una in Italia e una in Costa Rica, nelle nostre emozioni, nell’esempio e nelle immagini che ci ha lasciato. Gli devo moltissimo. Quando vivevamo assieme a Bologna, ero affascinato dal suo modo di pensare e dalla sua intelligenza. Ho riletto da poco la sua tesi di laurea per il DAMS, sul regista tedesco Wim Wenders, e ho sorriso riconoscendovi così tante linee di influenza su di me. È stato Luciano che mi ha indicato la complessità, la profondità, l’intelligenza di ignorare le norme, e mi ha mostrato quanto le parole possono svelare e restare piene di risonanze. Grazie, dolce caro amico, per tutto quello che mi hai insegnato, per il tuo sguardo sornione e affettuoso di allora, per il tuo amore per la vita, per la tua irriducibilità. Non ci sei più. Sei nel cuore di tutti noi.

·        La scomparsa di Emanuele Severino.

L’eredità che Emanuele Severino ha lasciato al mondo. Biagio De Giovanni de Il Riformista l'8 Febbraio 2020. La scomparsa di Emanuele Severino crea un vuoto di sapienza nel mondo, una sorta di diminuzione della Mente collettiva che forma l’identità complessa di una società. Anche perché il filosofo, che aveva compiuto i novanta anni, continuava instancabilmente a pensare e, la dico così, a vigilare sulle tendenze del mondo, sul senso della Vita, sul significato e sulla trasformazione della civiltà europea. Bisogna, però, sgombrare il campo da un equivoco, o meglio da una vera e propria tesi che ha una storia risalente, ma che ha molto séguito nei nostri tempi: che tutto il pensiero ormai sia affidato ai saperi della scienza, alla loro ricerca ormai senza confini, sul cosmo e sull’uomo, e che la filosofia sia ormai fuori corso, come moneta cattiva scacciata da quella buona. Diffidate, diffidiamo di questa idea. Si dà il caso che l’uomo sia un animale metafisico, che «agli uomini – come scriveva Thomas Mann – è dato l’assoluto questo è un fatto positivo, sia esso una maledizione o una benedizione. L’uomo è impegnato con l’assoluto, la sua essenza è tesa verso l’assoluto». E la ragione è che l’uomo ha la coscienza, e dunque il dubbio, la scelta, l’incertezza della volontà, ed è l’animale con la coscienza della propria morte che si può trasformare in angoscia o in grandiosa spinta alla volontà di vita, e a pensare la Vita. E ha assaggiato il frutto che ha distinto il Bene dal Male. Dicendo questo non ci allontaniamo da Severino, anzi le cose accennate sono un modo di introdurlo tra noi, di invitarlo al dialogo intorno a un tavolo ideale. Giacché il filosofo era proprio assillato dal tema della finitezza, ed aveva un suo modo originalissimo per rispondere all’unica vera domanda della filosofia di ogni tempo: come si salva il finito, questo finito che noi stessi siamo, dalla contingenza, dalla propria scomparsa? Severino rispondeva con una idea che può apparire misteriosa, qualcuno diceva «paradossale», cosa che a lui dava un senso di fastidio, e diceva: tutto è eterno, l’essere degli enti è principio eterno e sostanziale di tutto, nulla e nessuno per davvero muore, e aggiungeva una idea che è stata la guida del suo pensiero, legata ai suoi sviluppi che riguardano infine la tendenza del mondo di oggi. Ecco questa idea, qui proposta nella forma più semplice: la follia dell’Occidente, dai Greci in giù, è quella di aver progressivamente distrutto l’idea stessa dell’Eterno, di aver immaginato che tutto diviene, e che questo divenire di tutto, che è divenire del divenire stesso, significa che le cose vengono fuori dal nulla e vanno nel nulla. E questo mutare vorticoso di tutto trascina la stessa civiltà europea verso una stazione dove la Tecnica, la vera potenza trasformatrice, divora tutte le altre potenze della vita, se ne impadronisce, distrugge essenze, valori, tradizioni: intese, queste, non come ceneri da conservare ma come fuochi da continuamente ravvivare. E così la civiltà europea, l’Occidente, sulla base di quella “follia”, diventa civiltà della Tecnica, e le altre potenze della vita ne sono sommerse e la volontà di potenza si scatena oltre ogni limite, fino alla possibile “produzione” dell’umano. Tutto il mondo è ora invaso da questa follia. Oltre Nietzsche, due grandi autori italiani sono stati, per Severino, protagonisti di questa idea del divenire di tutto, che Severino definisce come il sottosuolo della nostra civiltà: Giacomo Leopardi e Giovanni Gentile, il primo ricavando da quella “follia” la vanità di tutto e della vita stessa; l’altro il filosofo, immaginando, all’opposto, che da essa derivi la conquista della libertà e l’invenzione continua della storia. Gentile, con cui Severino dall’origine si misurò, fu giudicato da lui massimo pensatore europeo, unico vero filosofo dell’età della Tecnica proprio in quanto filosofo del divenire di tutto e, lo dicevo prima, dello stesso divenire. Ma che cosa è questo “Eterno”, della cui corazza Severino si mette a difesa? Sta lì, sopra di noi, indecifrabile, incomunicabile, ma incontrovertibile? Siccome ogni grande filosofo crea la sua scolastica anche questo è avvenuto per Severino, letto da alcuni come l’ultimo dei pensatori metafisici, mentre il pensiero che conta corre verso ben altri lidi. Provo a dire perché non sono affatto d‘accordo con questa immagine che si dà di lui. La filosofia di Severino è una filosofia tragica, tutt’altro da una ricomposizione metafisica del mondo, garantito dall’Eterno che è in esso. È una filosofia aperta, piena di contrasti, come per me è ogni vero pensiero che, pensando la Vita, ne incontra le contraddizioni e non le risolve in un mondo immaginato. Dunque, perché dico filosofia tragica, e dunque aperta, problematica, sorprendente? Perché l’Eterno, il Destino, la Necessità, La Gioia – parola di Severino – tutto ciò che incontra e si intreccia con il dolore del mondo non sta per conto suo, in attesa di non so che cosa per potersi realizzare, ma è in continua tensione, in continuo intreccio con la nostra finitezza, con la nostra storia alienata; sta in opposizione “con la terra isolata dal destino della necessità”, eppure partecipe di essa. Il dilemma di Severino è dentro ognuno di noi, ci sentiamo partecipi di una verità e, insieme, spaesati nell’età del divenire di tutto, nell’età in cui sembra che la Tecnica da mezzo sia diventata fine. Tesi di Severino che ho avuto occasione di discutere più volte anche con lui, provando perfino a contestare l’esito cui essa conduce. Ma non è questa la sede per approfondire il tema se non per dire che per Severino il sentiero della Gioia non è perduto per l’umanità, il suo linguaggio della vita si mescola a quello del finito e della morte. Oggi guardiamo alla sua eredità, come si fa con i classici. Siccome fino a ieri lui era vivo – l’ultimo convegno dello scorso giugno fu sul nodo Severino-Heidegger – ne avvertiamo la assenza, per me di una persona amica e gentile, ma insieme sappiamo che il suo pensiero resta incardinato nella nostra vita, direi anche nella vita dei quasi tutti che non lo possono incontrare come filosofo, giacché lui ha pensato il destino dell’uomo, e soprattutto il destino di Europa, una civiltà legata alla propria filosofia, che ne ha segnato la pur tragica vicenda. E finisco con una punta di ironia che sfocia anche in una rivalutazione del Mezzogiorno, di solito strapazzato per mille ragioni anche valide. Dunque, Severino era nato a Brescia e aveva vissuto tra Brescia, Venezia, Milano. Si sa bene che fu escluso dall’Università cattolica di Milano, in anni lontanissimi, perché la sua filosofia venne giudicata incompatibile con il pensiero cristiano, come effettivamente era. Ma non è su questo che voglio concludere. Una volta gli chiesi: come mai da una città come Brescia, produttiva di cose che si toccano, di armi, di prodotti metalmeccanici, insomma una città del Nord industriale e produttivo, come mai, da lì, tanta metafisica? Lui mi rispose, forse un po’ sorpreso della domanda: mio padre era siciliano. Allora tutto mi fu chiaro, anche Gentile era di Castelvetrano. il Mezzogiorno ha avuto, per dir così, la risorsa della Metafisica, e qualcuno dice: perciò state nei guai. Io la penso diversamente, questa sua vocazione ha dato qualcosa al mondo che non si tocca, ma che forse proprio per questo è prezioso, e preme, come invisibile, sotto la pelle di ciò che si vede e, appunto, semplicemente si tocca.

·        Morta il soprano Mirella Freni.

Morta il soprano Mirella Freni, la grande cantante lirica aveva 84 anni. Pubblicato domenica, 09 febbraio 2020 su Corriere.it da Enrico Girardi. Bambina prodigio, poi il successo negli anni Sessanta soprattutto con il repertorio Pucciniano e poi Verdiano. È morta il soprano Mirella Freni, una delle più grandi cantanti liriche di tutti i tempi. Freni si è spenta nella sua casa di Modena a seguito di una lunga malattia, circondata dai suoi cari. Avrebbe compiuto 85 anni il prossimo 27 febbraio. Bambina prodigio, esordì alla Scala di Milano nel 1962 e nel 1963 il grande successo nel tempio della lirica milanese con «Bohème», stessa opera che le diete fama anche oltreoceano, nel 1965, al Metropolitan di New York. Tra i suoi altri ruoli celebri, Desdemona in «Otello» e Aida. Nel 2010 a Verona le fu assegnato l’Oscar della lirica alla carriera.

È morta Mirella Freni, la soprano italiana famosa in tutto il mondo. Si è spenta all'età di 84 anni, dopo una lunga malattia. "Ho perso un fratello", disse quando morì Pavarotti, con cui aveva conquistato i teatri del mondo. Francesca Bernasconi, Domenica 09/02/2020 su Il Giornale. È morta Mirella Freni, una delle voci più conosciute nel mondo della lirica. La soprano che ha portato il canto in tutti i principali teatri del mondo se n'è andata a 84 anni, dopo una lunga malattia, e si è spenta nella sua casa di Modena. Mirella Freni debuttò nel 1955, quando non aveva ancora 20 anni, interpretando il ruolo di Micaela nella Carmen, andando in scena nel Teatro comunale della sua città. Da lì iniziò il suo successo, che la portò in tutto il mondo. Nel 1963 fu Mimì nella prima della produzione di Zeffirelli della Bohème. Come ricorda il Corriere della Sera, la grande soprano si esibì, tra gli altri, anche alla Scala di Milano, al Metropolitan di New York, all'Opera di Parigi, al Bolshoj di Mosca, al Covent Garden di Londra e al Teatro Nazionale di Tokyo. La sua voce fece così il giro del mondo. Lavorò con i registi più famosi, come come Von Karajan, Giulini, Pretre, Muti, Osawa, Zeffirelli, Ronconi e Barrault. Lasciò il palco della lirica nel 2005, quando la sua carriera era ancora florida, per dedicarsi all'insegnamento del canto lirico. La soprano italiana ottenne numerosi riconoscimenti: lo Stato italiano la nominò Cavaliere di Gran Croce, la Francia le attribuì la Legion d'Onore, mentre Austria e Germania le riconobbe l'onoreficenza di Kammersaengerin. Ma la sua voce non si fermò in Europa e arrivò oltre oceano: i sindaci di Miami e New York, infatti, le consegnarono le chiavi della città e Cannes le assegnò il Midem Classical Awards. Numerosi anche i riconoscimenti in italia, tra cui la Laurea honoris causa in lingue e letterature straniere, conferitale dall'Università di Pisa, l'Oscar della lirica a Verona e il sigillum magnum dell'Ateneo di Bologna. Mirella Freni era coetanea e concittadina di Luciano Pavarotti. Insieme i due, che si conoscevano fin da bambini, hanno conquistato i teatri d'opera di tutto il mondo. Quando, nel 2007, Pavarotti morì, la soprano disse: "Ho perso un fratello". "Mimì, lei era Mimì", ha commentato all'Agi il maestro Leone Magiera, suo primo marito. "Erano anni belli- aggiunge -di grande amicizia e collaborazione tra me, Luciano e Mirella". Un pensiero arriva anche dal presidente della Regione Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini: "Con Mirella Freni se ne va una delle più grandi soprano che abbia mai calcato i palcoscenici della lirica mondiale. Una voce indimenticabile e una persona straordinaria". "A tutti noi - conclude Bonaccini - rimarrà per sempre il suo ricordo e quello di memorabili interpretazioni. Un esempio da seguire per tanti giovani artisti, così come i molti che da lei hanno imparato porteranno avanti il suo insegnamento".

Morta Mirella Freni, grande soprano e sorella di latte di Pavarotti. La cantante è scomparsa a Modena dopo una lunga malattia. Avrebbe compiuto 85 anni tra pochi giorni. Era l'ultima delle grandi eredi di Callas e Tebaldi. Angelo Foletto il 09 febbraio 2020 su La Repubblica. È morta nella sua casa di Modena, a seguito di una lunga malattia, il soprano Mirella Freni. Avrebbe compiuto 85 anni il prossimo 27 febbraio. Sorella di latte di Luciano Pavarotti di cui poi fu amica e compagna di palcoscenico speciale, Mirella Freni (Modena il 27 febbraio 1935) è stata la più schietta interprete della grande scuola sopranile italiana post-Callas/Tebaldi. Bambina prodigio per le pioneristiche telecamere Rai, consigliata nello studio del canto da Beniamino Gigli, esordiente il 3 febbraio 1955 al Comunale della sua città (Micaela in Carmen di Bizet, uno dei suoi personaggi caratterizzanti) ha cantato per cinquant'anni esatti, salutando il palcoscenico dal Metropolitan di New York dove fu assidua e amatissima per decenni con uno straordinario Galà nel 2005. Allieva di Luigi Bertazzoni e Ettore Campogalliani, maestri di vecchia, impeccabile, e intransigente, scuola vocalistica, orientata musicalmente da Leone Magiera (suo primo marito), come cantante e interprete non ha sbagliato nulla; "e se è successo, non ci ho pensato un attimo a tornare indietro". Il secondo personaggio della vita, Mimì, lo fece per la prima volta al Regio di Torino nel 1958. Seguirono gli esordi a Glyndebourne nei ruoli mozartiani di Susanna e Zerlina (Don Giovanni lo registrò nel 1966 con Otto Klemperer) e nel 1962, Nannetta in Falstaff, cantava per la prima volta alla Scala. Quando questo 'suo' teatro le dedicò una grande-serata omaggio nel 2015, l'applauso che l'accolse all'entrata in scena dimostrò ch'era ancora considerata di casa, e una regina. L'ammirazione si mescolava alla gratitudine per una carriera artistica di serietà e coerenza ferree. "Lirico" per (auto)definizione - "un soprano col colore e la bellezza della voce, che deve cantare bene senza forzare; sono sempre stata onesta nei confronti della mia voce" - ha messo a disposizione tecnica e intelligenza a un repertorio vario. E dopo una prima fase di esplorazione dei personaggi naturali, tra cui Faust, Mireille e Roméo et Juliette di Gound, ha azzardato confronti arditi (Elvira in Ernani, Violetta in Traviata ad esempio) salvo poi lasciarli decantare, abbandonarli del tutto s'era meglio oppure (è il caso di Tosca e Cio-Cio San) destinarli allo studio di registrazione. Imponendo la semplicità empatica e disarmante della non-diva e una professionalità senza compromessi: accorta ma perspicace nelle decisioni; intransigente anzitutto con se stessa. La sua musicalità duttile al di là della bellezza e tornitura riconoscibili tra mille della voce, l'ha resa il soprano dei grandi direttori. Da Herbert von Karajan, con cui in gioventù creo una Mimi idiomatica (nell'edizione fatta nel 1963 alla Scala con Franco Zeffirelli; insieme anche nella poco apprezzata Traviata dell'anno successivo; e negli anni Settanta Desdemona, Elisabetta del Don Carlo e Aida al Festival di Salisburgo) a Giuseppe Sinopoli che la volle nei suoi radicali Puccini. Da Riccardo Muti (con lui Elvira nei Puritani e in Ernani, in una delle otto inaugurazioni di stagione della Scala; ancora in Don Pasquale e Leonora della Forza del destino) a Gianandrea Gavazzeni che negli ultimi anni ne stuzzicò e plasmò la personalità da tragedienne in Adriana Lecouvrer e soprattutto Fedora, suo ultimo ruolo in Scala (14 giugno 1996). Senza dimenticare gli incontri storico-verdiani con Claudio Abbado (Amelia nel Simone Boccanegra e Elisabetta, nel Requiem), Carlo Kleiber (che migliorò ancora la Desdemona 'di' Karajan), Riccardo Chailly (Matilde in Guillaume Tell) o Seiji Ozawa e Vladimir Delman per Eugene Onegin di Tchajkovskij. Favorita anche dalla vicinanza del grande basso Nicolai Ghiaurov, suo marito dagli anni Ottanta, Tatiana fu sua più toccante e credibile identificazione nei grandi personaggi del compositore russo, di cui cantò anche Dama di Picche e Pulzella di Orleans che a Washington, nel 2005, fu la sua ultima opera cantata in teatro.

Enrico Girardi per corriere.it il 10 febbraio 2020. L’ambiente musicale era preparato alla notizia perché da qualche tempo la sapeva sofferente nella sua casa di Modena. Ora però che la morte di Mirella Freni è stata annunciata ufficialmente, nel tardo pomeriggio di ieri, il dispiacere non è meno tangibile e profondo. Perché Mirella Freni ha avuto, prima ancora degli infiniti meriti musicali che tutti le hanno sempre riconosciuto, lo speciale carisma della cantante nella quale ciascun appassionato poteva riconoscersi. Il suo talento è stato così naturale e “facile”, il suo aspetto così comune, la sua adesione espressiva così autentica che chiunque poteva sentirla come l’amica di tutti i giorni, la vicina che fa piacere incontrare sotto casa. Se l’espressione non fosse abusata, e nel modo non poco fastidioso con cui la si inflaziona, la si direbbe una donna del popolo: Modenese, come Pavarotti, ma meno “guascona” di lui, meno costruita sotto i riflettori, anche se i passi della propria carriera li ha percorsi con la logica e il raziocinio dell’artista pienamente consapevole delle proprie qualità e dei propri difetti.

Ruoli celebri. Voce ed espressione naturale, si diceva. Questa facilità di entrare nel personaggio e di nascondere le insidie delle numerose parti che ha sostenuto poteva essere un limite, per certi versi. Herbert von Karajan, che per lei aveva una speciale predilezione e che l’ha lanciata ai più alti livelli della vita operistica internazionale – le incisioni con Karajan di «Bohème» nel ’73 e di «Butterfly» nel ’74 appartengono alla leggenda della storia dell’interpretazione –, la rimproverava di essere pigra. Come dire: “il fatto che venga tutto facile e naturale non significa che non si possa andare ancora oltre, scavando nelle pieghe della scrittura musicale”. E lei ha fatto tesoro di quegli insegnamenti tanto autorevoli, diventando un punto di riferimento per generazioni di soprani lirici che l’hanno presa a modello. Ed è anche divenuta, quando la voce ha cominciato a non essere più quella di prima, una formidabile didatta, come lo sono i musicisti dall’istinto infallibile ma dalla consapevolezza stilistica ancora più marcata.

La carriera. La carriera di Mirella Freni è iniziata prestissimo. Già a 10 anni aveva stregato gli ascoltatori cantando «Un bel dì vedremo» a un concorso Rai. Tanto studio, da allora. E il debutto, quello vero, arriva quando appena 20enne è Micaëla in una produzione di «Carmen» del Comunale di Modena, il teatro della sua città oggi intestato a Luciano Pavarotti. Diverse produzioni in Italia e in Europa e nel ’62 è già alla Scala, dove sostiene la parte di Nannetta nel «Falstaff» , prima tappa di una storia scaligera che pochi altri cantanti potrebbero vantare altrettanto continuativa e prestigiosa. Già a metà degli anni Sessanta, la Freni è una cantante che può permettersi di dire un sì tra dieci no e di accettare le proposte più attraenti e più corrette per la propria carriera. Come già si accennava, Mirella Freni ha incarnato la quintessenza del soprano lirico. Il primo personaggio che le viene associato, nella percezione di tutti, è quello di Mimì della «Bohème». Ma non c’è figura di donna nel teatro pucciniano che non abbia interpretato con altrettanta devozione. E anche nel repertorio verdiano e donizettiano ha sempre detto la sua, così come nell’ambito del Verismo e nell’opera francese di secondo Ottocento. Quando era giovane, ha offerto contributi di un certo interesse anche nelle opere mozartiane di lingua italiana.

·        Addio a George Steiner, maestro della critica. 

Addio a George Steiner, maestro della critica. L’ultima intervista. Pubblicato lunedì, 03 febbraio 2020 su Corriere.it da Ida Bozzi. Morto Steiner, maestro della critica. Teorizzava la valenza morale della letteratura e i suoi legami con la società, ma anche la sua responsabilità nei confronti del potere e della barbarie: si è spento a 90 anni George Steiner, uno dei più importanti e influenti critici letterari contemporanei. Ritiratosi ormai da anni dalla vita pubblica per rifugiarsi nella sua casa di Cambridge, nel Regno Unito, aveva insegnato Letterature comparate in numerosi atenei prestigiosi, come Oxford, Chicago, Princeton e Stanford. Nell’intervista rilasciata ad aprile 2019 al «Corriere della Sera», Steiner aveva confessato a Nuccio Ordine: «Sento la fatica degli anni, e molti dei miei amici non ci sono più. Però i ricordi mi mantengono vivo. E nell’album dei miei momenti felici, l’Italia occupa un posto di primo piano». Proprio in Italia, aveva infatti ricevuto la laurea honoris causa all’Università di Bologna. Nell’intervista Steiner, da sempre convinto del peso morale della letteratura, si era detto tra l’altro preoccupato per i venti xenofobi nel continente europeo: «L’odio per lo straniero, la caccia all’ebreo, l’apologia dell’autodifesa e delle armi sono i pericolosi segni di una terribile regressione, un preludio alla violenza». George Steiner era nato a Neuilly-sur-Seine, il 23 aprile 1929 da padre ceco e madre austriaca, in una famiglia di origine ebraica. Emigrato negli Usa nel 1940 per sfuggire all’antisemitismo nazista, nel 1944 era stato naturalizzato americano. Critico e storico della cultura di primo piano, lui stesso autore di alcune opere in versi e in prosa e di un romanzo (Il processo di San Cristobal, Rizzoli, 1982), era autore di saggi importanti come Tolstoj o Dostoevskij, La morte della tragedia, Dopo Babele, Una certa idea di Europa e I libri che non ho scritto (tutti editi in Italia da Garzanti) con cui aveva annunciato l’addio alla scrittura avvenuto poi nel 2014.

George Steiner, l’intervista postuma «L’Europa è un sogno che resta vivo». I motivi di questo colloquio. Pubblicato martedì, 04 febbraio 2020 su Corriere.it da Nuccio Ordine. In un dialogo con il «Corriere» da pubblicare dopo la sua morte, il critico raccontava passioni ed errori. Il grande critico George Steiner è morto il 3 febbraio 2020 nella sua casa di Cambridge. Questa intervista venne rilasciata dallo stesso Steiner a Nuccio Ordine il 21 gennaio 2014 (e poi in parte rivista successivamente) con l’intesa che sarebbe stata pubblicata solo dopo la sua scomparsa.

Qual è il segreto più importante che vuoi svelare in questa intervista postuma?

«Posso dirti che per 36 anni ho indirizzato a una interlocutrice (il suo nome deve restare ancora segreto) centinaia di lettere che rappresentano il mio “diario”, in cui ho raccontato la parte più rappresentativa della mia vita e gli avvenimenti più significativi che hanno marcato la mia quotidianità. In questa corrispondenza ho parlato degli incontri che ho fatto, dei viaggi, dei libri che ho letto e scritto, delle conferenze e anche di episodi semplici e banali. Si tratta di un “diario condiviso” con la mia destinataria, in cui è possibile ritrovare anche i miei sentimenti più intimi e le mie riflessioni estetiche e politiche. Saranno conservate a Cambridge, in un archivio del Churchill College con altri carteggi e documenti che testimoniano le tappe di una vita, forse troppo lunga. Queste lettere-diario, in particolare, saranno sigillate e potranno essere consultate solo dopo il 2050, cioè dopo la morte di mia moglie e (forse) dei miei figli. Saranno rese pubbliche, insomma, solo quando molte delle persone a me vicine non ci saranno più. Qualcuno le leggerà dopo tanto tempo? Non lo so. Ma non potevo fare diversamente…».

Perché un’intervista postuma?

«Mi ha sempre affascinato l’idea dell’intervista postuma. Di qualcosa che dovrà essere resa pubblica proprio nel momento in cui io non potrò più leggerla sui giornali. Un messaggio per coloro che restano e una maniera per congedarmi facendo sentire l’ultima mia parola. Un’occasione per riflettere e abbozzare bilanci. Ho raggiunto un’età in cui ogni giorno, più o meno normale, è da considerarsi come un valore aggiunto, come un bonus che la vita ti regala. In questa fase, sono i ricordi del passato che diventano l’unico e vero futuro interiore. È un viaggio all’indietro fondato sulla rimembranza che ci permette di coltivare alcune speranze. Non abbiamo le parole esatte per indicare il ricordo che racchiude in sé il domani. Mi trovo in un momento della mia vita in cui il passato, i luoghi che ho frequentato, le amicizie che ho intrattenuto, l’impossibilità di rivedere persone che ho amato e continuo ad amare e la stessa relazione con te costituiscono l’orizzonte del mio futuro più di quanto possa esserlo il futuro reale».

Ti rimproveri qualcosa in particolare?

«Certo. Più di una cosa. Ho scritto un piccolo libro, Errata, in cui ho parlato degli errori che ho commesso. Non sono riuscito a cogliere alcuni fenomeni essenziali della modernità. La mia educazione classica, il temperamento, la carriera accademica non mi hanno permesso di comprendere a pieno l’importanza di certi grandi movimenti del modernismo. Non ho capito, per esempio, che il cinema, in quanto nuova forma espressiva, avrebbe potuto svelare talenti creativi e nuove visioni meglio di altre forme più antiche, come letteratura o teatro. Non ho capito il movimento contro la ragione, il grande irrazionalismo della decostruzione e, per certi aspetti, del post-strutturalismo. Avrei dovuto rendermi conto che il movimento femminista, che appoggiai a Cambridge con grande convinzione riconoscendo l’importanza del ruolo delle donne, avrebbe poi assunto, nella lotta per occupare un posto dominante nella nostra cultura, una funzione politica e umana straordinaria».

Sul piano più strettamente personale, quali sono gli errori che hai commesso?

«Avrei dovuto, essenzialmente, avere il coraggio di cimentarmi nella letteratura “creativa”. Ho scritto racconti e da giovane anche versi. Ma non ho voluto mai assumere il rischio trascendente di sperimentare qualcosa di nuovo in quest’ambito che mi appassiona molto. Il critico, il lettore, l’erudito, il professore sono mestieri che amo profondamente e che vale la pena di esercitare bene. Però è tutt’altra cosa rispetto alla grande avventura della “creazione”, della poeisis, del produrre nuove forme. E, probabilmente, è meglio fallire nel tentativo di creare che avere un certo successo nel ruolo di “parassita”, come mi piace definire il critico che vive alle spalle della letteratura. Certo, anche i critici (l’ho sottolineato più volte) hanno una funzione importante: ho cercato di lanciare, talvolta con successo, alcune opere e ho difeso autori che ritenevo meritevoli di sostegno. Ma non è la stessa cosa. La distanza tra chi crea letteratura e chi la commenta è enorme: una distanza (per usare una parola pomposa) ontologica, una distanza dell’essere. I miei colleghi universitari non mi hanno mai perdonato l’aver sostenuto queste tesi: molti baroni e una certa critica strettamente accademica non hanno visto di buon occhio che io prendessi in giro la loro presunzione di essere, talvolta, più importanti degli autori di cui parlavano…».

A chi vuoi indirizzare un messaggio in questa intervista postuma?

«Penso ad alcuni allievi, più brillanti di me, che stanno portando a termine lavori importanti: il loro successo è per me una ricompensa enorme. Penso, con una profonda gratitudine, ad alcuni miei colleghi che mi hanno accompagnato lungo il cammino accademico. E penso soprattutto a persone più intime, come te, che hanno compreso ciò che ho cercato di fare e grazie alle quali ho potuto vivere un’intensa avventura intellettuale e affettiva. Ma, in questo momento, cerco in primo luogo di capire perché sta crescendo sempre di più la distanza tra me e l’irrazionalismo moderno e, oso dire, la crescente barbarie dei media, la volgarità dominante. Credo che stiamo attraversando un periodo che si fa sempre più difficile…».

Qual è la cosa che ti ha fatto più soffrire?

«Mi ha fatto soffrire la coscienza di aver pubblicato saggi che avrei desiderato scrivere meglio. Certo: ci sono pagine della mia opera che ho difeso e difendo con convinzione, e anche aspramente. Però so che probabilmente non è ciò che io avrei desiderato di scrivere. E penso spesso all’ingiustizia del grande talento: nessuno capisce come abbiano origine e come siano distribuiti questi doni supremi. Penso a un fanciullo di 5 anni e mezzo che disegna un acquedotto romano vicino Berna e poi, improvvisamente, raffigura un pilastro con delle scarpe: da allora grazie a Paul Klee, questo è il suo nome, gli acquedotti camminano nel mondo intero. Nessuno può spiegare le sinapsi neurologiche che possono scatenare in un ragazzino questo “colpo di fulmine” della metamorfosi, quest’intuizione geniale che cambia la realtà. Ho pensato che sia un’ingiustizia il fatto che noi possiamo provare, riprovare, sforzarci ancora, per riuscire solo a restare sulla scia dei grandi, ma senza raggiungerli, perché loro sono diversi da noi».

E la cosa che ti ha fatto più piacere?

«La felicità di aver insegnato e di aver vissuto in molte lingue. Felicità che ho cercato di coltivare ogni giorno fino all’ultimo, tirando fuori dalla mia biblioteca un poema per tradurlo nelle mie 4 lingue (francese, inglese, tedesco e italiano). E anche se non l’ho tradotto bene, ho comunque avuto l’impressione di aver aperto una finestra per far entrare un raggio di sole nella mia quotidianità».

Quali desideri non hai potuto realizzare?

«Tantissimi: viaggi che non ho avuto l’audacia di fare, libri che avrei voluto scrivere e che non ho scritto, soprattutto incontri cruciali che ho evitato per mancanza di coraggio o disponibilità o energia. Avrei potuto, per esempio, incontrare Martin Heidegger: ma non ho osato. E credo di aver avuto ragione. Ho sempre rispettato un principio: non bisogna importunare i grandi, hanno altro da fare. E poi non ho mai sopportato coloro che si rendono importanti collezionando appuntamenti con grandi nomi. Le persone eccellenti hanno il diritto di scegliere gli interlocutori con cui vogliono “perdere” il loro tempo. Poi accade che un giorno, aprendo i libri di memorie, si leggano frasi del tipo: “Sono stato importunato dal signor X che ha insistito per incontrarmi, ma non aveva niente da dire”. Ho sempre temuto di poter scivolare in un errore così grossolano. Penso a Jean-Paul Sartre, per esempio, specialista nel rivelare circostanze legate a famosi “scocciatori”. E mi è costato molto rinunciare, negli ultimi tempi, alla compagnia di un cane. Dopo la morte di Muz, ho capito che alla mia età era molto rischioso prenderne un altro. Amo questi animali, ma alla soglia dei novant’anni mi sembrava terribile offrirgli una casa per poi lasciarlo solo…».

Qual è la vittoria più bella?

«Quella di aver insistito sull’idea che l’Europa continua a essere una necessità importantissima e che, nonostante le minacce e i muri che si costruiscono, non bisogna abbandonare il sogno europeo. Sono antisionista (posizione che mi è costata molto, fino al punto di non riuscire a immaginare la possibilità di vivere in Israele) e detesto il nazionalismo militante. Ma adesso che la mia vita volge al tramonto, ci sono momenti in cui ho qualche vivo rimpianto: forse mi sono sbagliato? Non era meglio lottare contro lo sciovinismo e il militarismo vivendo a Gerusalemme? Avevo il diritto di criticare, comodamente seduto sul divano della mia bella casa a Cambridge? Sono stato arrogante quando, dall’esterno, ho cercato di spiegare a persone in pericolo di morte come avrebbero dovuto comportarsi?».

Ti ricordi di aver pianto nella tua vita?

«Certo. In questi ultimi tempi mi capita spesso di ricordare particolari circostanze. Penso, per esempio, a grandi esperienze umane che si sono concluse senza che io ne avessi previsto la fine. La scomparsa improvvisa di alcune persone che non potrai più rivedere. O luoghi che hai frequentato e che non potrai più frequentare. E penso anche a cose più semplici, forse banali: pesci e cibi che hai gustato in alcuni posti magici e che non potrai più gustare. E, talvolta, incontrare nell’angolo di una strada o in un giardino l’ombra di una persona che ami, e di cui hai un enorme bisogno, ma che sai di non poter più raggiungere».

Che peso ha avuto l’amicizia nella tua vita?

«Un peso enorme. E nessuno meglio di te può saperlo. Avrei vissuto malissimo questi ultimi decenni della mia vita senza di te e senza altri due o tre amici, con cui ho intrecciato una fittissima corrispondenza. Interlocutori privilegiati, con cui ho condiviso una profonda intimità affettiva. Forse l’amicizia è più preziosa dell’amore. Difendo questa tesi, perché nell’amicizia non c’è nessun egoismo del desiderio carnale. L’amicizia, quella autentica, si fonda su un mistero che Montaigne (nel tentativo di spiegare la sua amicizia con Étienne de la Boétie) ha racchiuso in una bellissima frase: “Perché era lui; perché ero io”».

E l’amore?

«L’amore ha avuto un peso grandissimo, forse troppo, troppo grande. In primo luogo, la felicità che mi ha dato il mio matrimonio, che non posso spiegare con parole, in maniera razionale. E poi uno o due altri incontri che sono stati decisivi nella mia vita. Penso che le donne abbiano una sensibilità potenziale superiore a quella degli uomini. Ho avuto l’enorme privilegio di fare l’amore parlando diverse lingue (ho scritto molto su questo tema): il dongiovannismo poliglotta è stato per me una grande ricompensa, un’occasione per vivere molteplici vite. Ed è curioso che né la psicologia né la linguistica, si siano mai occupate di questo appassionante fenomeno. Ecco perché in Dopo Babele ho coniato una definizione originale della traduzione simultanea: è un orgasmo ben riuscito. Il fenomeno delle parole e dei silenzi in relazione all’eros è sempre stato per me un tema capitale…».

Ti capita di pensare alla morte…

«Continuamente. Ma non solo ora. Anche quando ero giovane mi capitava. Sono cresciuto all’ombra della minaccia hitleriana e ricordo bene che nella mia classe di liceo solo io e un altro compagno siamo riusciti a sopravvivere. Papà e la vita mi hanno preparato ad affrontare i temi della perdita e del pericolo della morte. Adesso penso che il confronto con la morte possa essere interessante, possa rivelarsi una maniera per capire meglio tante cose...».

Pensi che ci sia qualcosa dopo la morte?

«No… Sono convinto che non ci sarà niente. Però il momento del passaggio potrà essere molto interessante. Mi pare infantile la reazione di coloro che, dopo aver pensato sempre al nulla, nella fase finale della loro vita cambiano idea, immaginando un “mondo” ultraterreno. Credo che sia un fatto di dignità il non avere paura: non bisogna perdere il rispetto della ragione e le cose vanno chiamate chiaramente con il loro nome. Certo, si può cambiare idea. Ho avuto la fortuna di vivere sempre a contatto con grandi scienziati e so che ogni giorno si imparano nuove cose e se ne correggono altre. Ma questo è normale nella scienza. Credere in una vita altrove, invece, è ben altro affare…».

In questa intervista postuma, vorresti scusarti con qualcuno con cui hai litigato?

«Sì, vorrei scusarmi con una persona di cui non posso dire il nome. Penso che lui stesso preferirebbe restare anonimo. Si tratta di un uomo eminente, per lungo periodo amico intimo, con cui ho litigato per una stupida questione: una frase mal scritta in una lettera ha finito per mandare in frantumi la nostra antica relazione. Ho imparato tanto da questa esperienza: come, talvolta, un attimo insignificante possa trasformarsi in qualcosa di decisivo nella tua vita. Corriamo spesso questo rischio: un gesto irrilevante o una semplice parola, in un solo secondo, possono provocare vere e proprie tragedie. E adesso, dopo tantissimi anni, vorrei dire a questo mio amico: vieni, pranziamo insieme e ridiamoci sopra. Però, con molto rimpianto, mi rendo conto che ormai non c’è più tempo. È troppo tardi…».

Ma la tua irascibilità è famosa. È stato sempre un punto debole del tuo carattere?

«È vero. Ma non solo da adulto. Ricordo che da ragazzo andavo in escandescenza per piccole cose e, talvolta, senza vere ragioni. Questi comportamenti hanno creato molte inimicizie. Poi con gli anni ho dovuto imparare a moderarmi. Ma ho anche pagato per la mia ironia, spesso molto tagliente e non sempre gradita. E forse la tristezza, frutto della coscienza della mia mediocrità, ha messo non poche volte a disagio alcuni miei interlocutori. In tanti anni ho collezionato, purtroppo, molte ostilità e ho rotto tante amicizie. È triste riconoscerlo. Ma è così…».

Un consiglio ricevuto che ti ha cambiato la vita?

«Eccome: soprattutto quelli che, con grande affetto, ho avuto dalla mia mamma. Debbo a lei gli incoraggiamenti a una fruttuosa convivenza con il mio handicap. Da piccolo, per scuotermi nei momenti di sconforto, mi diceva che la “difficoltà” era un “dono” divino: oltre ad avermi salvato dal servizio militare, infatti, mi aveva anche offerto l’occasione per imparare a fare meglio. Per cercare di capire che senza sforzo non si ottiene nulla nella vita. L’ho ricordato in diverse circostanze: uno dei traguardi più belli della mia esistenza è stato quando, per la prima volta, sono riuscito ad allacciare le scarpe con la mano offesa…».

Wlodek Goldkorn per “la Repubblica” il 4 febbraio 2020. C'è un midrash, un commento ebraico alle Sacre scritture che George Steiner amava ripetere: «Perché Dio creò Adamo? Perché voleva avere accanto qualcuno che gli raccontasse delle storie». Il mondo, per il grande critico letterario, intellettuale polimorfo, tra i più influenti degli ultimi decenni, autore di centinaia di saggi e due dozzine di libri, scomparso ieri a Cambridge a 90 anni poteva infatti essere racchiuso in un testo. Poliglotta, parlava, leggeva e insegnava in quattro lingue: l' inglese, il francese, il tedesco e l' italiano. Nato a Neuilly-sur-Seine (il 23 aprile 1929) figlio di due ebrei originari di quello che fu l' Impero austroungarico, naturalizzato americano, ateo, ma conscio del fatto che senza la trascendenza la vita non ha molto senso, Steiner pensava che la parola e la narrazione costituissero l' essenza del nostro essere umani, la scintilla divina insita in ognuno di noi e che ci distingue dagli altri animali. Era un umanista, un uomo rinascimentale per la vastità delle letture e degli interessi (nella stessa frase poteva citare Omero, Platone, Dante e Kafka), avversario di ogni decostruzionismo, profondamente legato invece all' idea della centralità e della singolarità dell' esperienza umana, convinto addirittura che fosse il "genio" a fare la differenza tra un vero scrittore e un raccontatore di storie. E tuttavia Steiner non era ottimista. Non era affatto fiducioso nelle capacità degli uomini di costruire un futuro migliore. Anzi, si rendeva conto del fatto che il bello non sempre coincide con il buono. Nelle conversazioni citava spesso il caso Céline, per segnalare un paradosso: il più grande scrittore francese del Novecento professava idee antisemite ed era amico dei nazisti. Ma l' elenco di casi simili era assai più lungo. La riflessione su come l' etica e l' estetica possano non coincidere, derivava direttamente dall' esperienza ebraica di Steiner, in particolare dalla sua riflessione sulla Shoah e soprattutto su come si è arrivati a quello che un altro studioso, ebreo tedesco israeliano, lo storico Dan Diner, ha definito come "la catastrofe della civiltà". Per Steiner si trattava di un pezzo della sua biografia. La raccontava volentieri a chi volesse ascoltarlo. Dunque, il padre, già negli anni Venti a Vienna, intuisce che un certo Adolf Hitler può essere pericoloso. Di conseguenza trasferisce la famiglia a Parigi. Nel 1940 si trova per conto del governo francese a New York. Là si imbatte (gli States sono ancora un Paese neutrale) in un suo conoscente tedesco diventato funzionario nazista, che gli dice: tra poco prenderemo Parigi e saranno tempi duri per voi. Steiner papà fa immediatamente venire tutta la famiglia a New York. E così gli Steiner hanno la vita salva, e diventano cittadini americani. Anni dopo, il grande intellettuale si sarebbe chiesto come mai, nonostante tutti sapessero come sarebbe andata a finire, si trattava comunque di qualcosa di inimmaginabile e inenarrabile. Inenarrabile davvero? Aveva davvero ragione Adorno quando disse: «Dopo Auschwitz niente poesia?». Secondo Steiner, la risposta a questo interrogativo era ambivalente. Era impossibile scrivere di Auschwitz, e tuttavia ognuno aveva il diritto di farlo, anche come invenzione, come romanzo. Ma la verità vera, l' ultima e la più penetrante, sono riusciti a svelarla e narrarla, diceva, solo due autori: Primo Levi e Paul Celan. Ambedue, sottolineava, ne hanno pagato un prezzo altissimo: il suicidio. E comunque, per chi volesse approfondire il tema si consiglia in particolare il saggio Linguaggio e silenzio , che non ha perso niente della sua attualità. Prima di diventare grande studioso della letteratura Steiner, aveva lavorato come giornalista per l' Economist . A Princeton, dove cominciò la sua carriera accademica (contrastata dai colleghi che lo vedevano troppo poco specialista) che l' avrebbe portato a Ginevra, Oxford e Cambridge, è stato chiamato per caso; in conseguenza di un' intervista e nell' ambito di un' inchiesta giornalistica. Questo mestiere non lo abbandonò mai del tutto. Per 27 anni ha lavorato per il New Yorker. Non rimase tuttavia in America a insegnare, tornò invece in Europa perché il padre gli disse che il Vecchio Continente senza ebrei sarebbe stata una vittoria postuma di Hitler. E alla figura di Hitler Steiner ha dedicato uno dei suoi libri più controversi, Il Processo di San Cristobal . Vi si racconta il processo, finto ovviamente, intentato dagli agenti del Mossad israeliano al Führer da loro catturato in America Latina. Il dittatore tedesco a sua difesa sostiene che l' idea della purezza della razza e del popolo eletto non l' ha inventata lui, ma in larga misura l' ha presa in prestito dalle sue vittime. Steiner voleva semplicemente, e attraverso un romanzo, riflettere su come un linguaggio nato e adoperato per secoli al fin del bene possa essere invece utilizzato a scopi del tutto nichilistici. Ma ha urtato la sensibilità di molti. E infatti nel mondo ebraico è rimasto un personaggio discusso. Se non altro perché si proclamava ebreo diasporista, negava cioè la centralità dello Stato ebraico e dell' esperienza sionista nel vissuto del proprio popolo. Era molto critico nei confronti della politica e dello stesso uso di violenza da parte dello Stato d' Israele. Ripeteva che la sua patria fosse ovunque ci sia una macchina da scrivere. Ebraismo insomma come testo, invenzione e interpretazione. Per lui la vera patria, se ne aveva una, era l' Europa, con la sua architettura e i suoi modi di vita. Negli ultimissimi anni non vedeva più nessuno. Era disilluso, il mondo che gli stava intorno non gli piaceva. Soffriva per il riemergere dell' antisemitismo e la Brexit era stata per lui un grande dolore. Che cosa resta del suo insegnamento? Senz' altro la lezione di Nessuna passione spenta , dove sulla scia di Walter Benjamin (il suo vero modello di intellettuale) fa capire che senza la domanda sull' esistenza di Dio, senza insomma l' indagine quasi teologica sulle ragioni ultime della nostra vita, l' arte, qualunque arte, è priva di significato. Resta anche un libretto "minore", I libri che non ho scritto . Dove elenca tutti quelli che avrebbe voluto invece comporre, spiega perché i monoglotti sono poveri umanamente e sentimentalmente, e quanto è bello fare l' amore in quattro lingue diverse: le sue.

È morta Zara Shakow,  dieci giorni dopo  il marito George Steiner. Pubblicato venerdì, 14 febbraio 2020 su Corriere.it da Nuccio Ordine. Non è una storia narrata in un film o in un racconto romantico. Giovedì Ieri sera, a pochi giorni dalla morte del marito, si è spenta nella sua casa di Cambridge, Zara Shakow, moglie di George Steiner. Dopo 65 anni di matrimonio, la scomparsa del suo compagno di una vita (il 3 febbraio scorso) l’aveva prostrata a tal punto da lasciarsi andare per dare libero corso a una malattia che l’affliggeva da tempo. Nata a New York il 6 novembre del 1928, Zara Steiner aveva insegnato dal 1968 nel prestigioso Murray Edwards College a Cambridge e nel 2007 era stata eletta Fellow della British Academy. Riconosciuta dalla comunità scientifica come una grande esperta di relazioni internazionali, della Prima guerra mondiale e della storia novecentesca europea e statunitense, aveva pubblicato diversi libri su questi temi, tra cui The Foreign Office and Foreign Policy, 1898-1914 (Cambridge University press, 1969), The Lights that failed: European International History 1919–1933 (Oxford University Press, 2005) e The Triumph of the dark: European International History 1933–1939 (Oxford University Press, 2010). Nella sua intervista postuma rilasciata al «Corriere della Sera» (e pubblicata il 4 febbraio), Steiner ricordava l’importanza dell’amore nella sua esistenza e il ruolo fondamentale della moglie: «L’amore ha avuto un peso grandissimo, forse troppo, troppo grande. In primo luogo, la felicità che mi ha dato il mio matrimonio, che non posso spiegare con parole, in maniera razionale». Restio a parlare della sua vita interiore, George considerava inaccettabile la mancanza di pudore con cui nei social e nella comunicazione quotidiana si condividono pubblicamente momenti intimi attraverso l’esibizione di immagini e di parole. Nella sua autobiografia intellettuale Errata, infatti, a Zara è dedicato un solo accenno, inserito in una bellissima pagina in cui si racconta di un viaggio compiuto assieme nella Franche-Comté, tra le rupi rese celebri dai dipinti di Gustave Courbet: «Mia moglie, dotata di una sagacia di cuore, di un buon senso radioso e di percezioni inespresse senza paragone, guidava parallelamente a ciò che riuscivamo a scorgere dai pali di una barriera». Nonostante le lunghe separazioni negli anni di insegnamento nell’Università di Ginevra e i suoi numerosi viaggi per conferenze in tutto il mondo, George ribadiva in ogni occasione che la sua vita sarebbe stata inconcepibile senza Zara e senza i suoi consigli. Steiner, soprattutto, riconosceva alla moglie una dolcezza straordinaria, capace di mitigare come un balsamo le sue asprezze caratteriali.

·        Morto a 100 anni Mike Hoare, il mercenario più famoso del mondo.

Morto a 100 anni Mike Hoare, il mercenario più famoso del mondo. Pubblicato martedì, 04 febbraio 2020 su Corriere.it da Alessandro Fulloni. Di Mike Hoare — «Mad Mike», ovvero «Mike il pazzo» — l’archivio del Corriere della Sera racconta le prime imprese di guerra in un articolo del 1964: nel Congo infuria una guerra civile, l’ennesima. «Mad Mike» è accanto al leader del Katanga Moise Ciombe, organizza una milizia composta da britannici e sudafricani, «il V° commando» decisivo nello sbaragliare i regolari e a rafforzare Ciombe. Poi — sempre sfogliando il Corriere — i resoconti delle gesta di Hoare si moltiplicano. E sono sempre mezzi romanzi d’avventura: racconti di guerra fredda, battaglie campali, insurrezioni, tentativi di golpe (falliti e riusciti) sparsi per il mondo. Hoare, leggendario comandante mercenario, è morto (a 100 anni) nei giorni scorsi a Durban, in Sudafrica, dove si era stabilito dopo la «pensione» e aver smesso di combattere. Almeno ufficialmente. La sconfinata documentazione fotografica lo ritrae sempre in giacca sahariana e basco militare in testa. Volto grintoso, assai rassomigliante al generale Montgomery (quello di El Alamein e dell’Ottava Armata) sotto cui aveva servito nelle campagne del Nord Africa. Fu Richard Burton a impersonare Hoare in un film che sbancò i botteghini nel 1978, «I quattro dell’oca selvaggia». Pellicola che vede un gruppo di mercenari adoperarsi per liberare un leader africano (una via di mezzo tra il senegalese Léopold Sédar Senghor e il sudafricano Nelson Mandela), presidente democratico di un immaginario paese destituito dopo un golpe. Burton (anzi Hoare) e i suoi lo fanno scappare e alla fine i mercenari, tra cui un grintosissimo afrikaner, rischiano la vita per lui, colpiti dalle sue parole all’insegna di un’Africa pacificata. Pellicola «buonista» che vide la consulenza dello stesso «Mad Mike». Definito dalla stampa britannica «un gentiluomo tra i soldati di ventura», Hoare (assai vicino alla Cia e che definiva il comunismo «il maggiore pericolo del mondo») solitamente era in genere al soldo di chi i ribelli — soprattutto se appartenevano ai movimenti filomarxisti sostenuti da Unione Sovietica e Cuba — li combatteva. Una vita come un romanzo, la sua. Anni Sessanta, il colonialismo è alla fine e l’Africa esplode in mille conflitti. Servono i professionisti della guerra. Arrivano «i terribili». Un nomignolo per identificare i mercenari europei. Piccoli nuclei in grado di conquistare regioni enormi. In centinaia trovano il loro «regno» — e molto denaro— in Congo, paese messo a ferro e fuoco. Nel 1960 scocca l’ora di Hoare — che sostenne anche di aver combattuto con i «Chindits», le squadre speciali inglesi che operarono durante la guerra in Birmania — insieme al suo «commando» agisce in Katanga. Si ripete quattro anni dopo agli ordini di Moisè Ciombè. Hoare, alla testa del suo reparto formato in gran parte da sudafricani, partecipa poi all’operazione Drago Rosso per liberare 1600 europei bloccati dai ribelli Simba a Stanleyville. Per tutti, per le sue gesta, Hoare diventa «Mike il pazzo». Nel 1981 lo rivediamo alle Seychelles mentre cerca di rovesciare il governo legittimo con un drappello di 46 mercenari che atterrano nelle isole facendosi passare per una squadra di rugby. Finisce male. In aeroporto uno del drappello di Hoare si fa scoprire con un Kalashnikov. Sembra una barzelletta. Ma poi si spara davvero e la battaglia è sanguinosa. Il gruppo è costretto a scappare e per farlo addirittura sequestra un aereo dell’Air India. Dirottamento valso «Mad Mike» una condanna a 10 anni una volta sbarcato in Sudafrica. Pena che Hoare scontò piuttosto comodamente, uscendo di galera dopo 33 mesi e sfornando ripetute autobiografie.

·        Morto il produttore Gianni Minervini.

Marco Giusti per Dagospia il 5 febbraio 2020. Il cinema italiano perde uno dei suoi più storici e combattivi produttori, , 92 anni, vincitore di ben tre David per film come “Turné” di Gabriele Salvatores, “Mi manda Picone” di Nanni Loy e “Fuori stagione” di Luciano Mannuzzi. E premio Oscar grazie a “Mediterraneo”, sempre di Salvatores, anche se la scena sul palco gliela rubò Vittorio Cecchi Gori, co-produttore del film, che lo aveva relegato in galleria provocando un certo trambusto al momento della vittoria. Dopo una gavetta da attore di teatro con Eduardo De Filippo e di cinema negli anni ’50 e da organizzatore negli anni ’60, è sempre stato molto costante seguendo con passione la carriera di giovani registi, spesso lanciandoli coraggiosamente con le loro opere prime. Pensiamo a Pupi Avati, che ha prodotto fin dai tempi di “Bordella” e “La casa delle finestre che ridono”, “Jazz Band”, a Gabriele Salvatores, oltre a “Turné” e a “Mediterraneo” ha prodotto anche “Marrakesh Express” e, Giuseppe Berolucci, per il quale ha prodotto il primissimo film, “Berlinguer ti voglio bene” scoprendo lui stesso Roberto Benigni all’Alberichino, e poi “Strana la vita”, “Segreti, segreti”, ma anche Antonio Capuano, che ha seguito da “Pianese Nunzio, 14 anni” a “Polvere di Napoli” a “L’amore buio” che è anche il suo ultimo film, nel 2010. Per non parlare di film difficili come “Un cuore semplice” da Gustave Flaubert, opera prima di Giorgio Ferrara o “Se lo scopre Gargiulo”, opera prima dello scrittore Elvio Porta. Ci sono anche film che ha cercato di fare senza riuscirci, come “Il permesso”, film sul terrorismo che avrebbe dovuto segnare il ritorno al cinema di Giuseppe De Santis. “Ho collezionato diversi fiori all’occhiello”, diceva, “belli e sfortunati e dalla breve vita nelle sale cinematografiche, come “Strana la vita” e “Segreti segreti” o “La sposa era bellissima” del prematuramente scomparso regista ungherese Pal Gabor, ho colto prematuramente fiori di campo come quel “Berlinguer ti voglio bene” con un Benigni che nessuno voleva. Ma penso che il nostro cinema abbia bisogno di inventiva e coraggio”. Nato a Napoli nel 1928, figlio del critico cinematografico del “Corriere di Napoli”, iniziò il cinema da attore nel 1955 con “Le ragazze di Sam Frediano” di Valerio Zurlini, dove faceva il barista balbuziente che si innamora di Rossana Podestà, e poi proseguì con “Souvenir d’Italie” di Antonio Pietrangeli, “Guardia, ladro e cameriera”, dove contende a Nino Manfredi la bella Gabriella Pallotta, “La cento chilometri” di Giulio Petroni, che poi seguì anche come organizzatore e produttore esecutive per i suoi western, “Da uomo a uomo” e “Tepepa”, “Tipi da spiaggia” di Mario Mattoli e “Urlatori alla sbarra” di Lucio Fulci. Negli anni ’60 rompe il contratto da attore con la Lux Film, si stacca dalla compagnia di Eduardo De Filippo che lo aveva formato, e riprende il cinema dietro la macchina da presa come organizzatore e produttore esecutivo per film come “Il federale” di Luciano Salce e “La viaccia” di Mauro Bolognini, per poi mettersi in proprio con la sua A.M.A. Film producendo “Totò, Fabrizi e i giovani d’oggi” e poi “La notte dei serpenti”, un altro western di Petroni. Negli anni ’70 si legò con Pupi Avati e Gabriele Salvatores, ma anche con Nanni Loy per “Mi manda Picone”, con Florestano Vancini per “Un dramma borghese”, Lina Wertmuller con “Notte d’estate con profilo greco”, legandosi a quello che un tempo era chiamato cinema di qualità. Lavorò con molti altri produttori, da Cecchi Gori a Goffredo Lombardo, da Elio Scardamaglia a Luciano Martino, ma sempre inseguendo il sogno di un cinema d’autore che potesse essere anche di successo in sala. Cosa che non sempre capitava.

·        Luciano Gaucci, morto ex presidente del Perugia.

Luciano Gaucci, morto ex presidente del Perugia: dai successi al crac, alla relazione con Elisabetta Tulliani. Libero Quotidiano l'1 Febbraio 2020. È morto Luciano Gaucci, lo storico presidente del Perugia si è spento a 81 anni a Santo Domingo. Qui si era rifugiato nel 2005 dopo essere stato accusato di associazione a delinquere finalizzata alla bancarotta fraudolenta. Ma al di là dei guai giudiziari, se ne va un grande personaggio del calcio degli anni d'oro: è stato alla guida del Perugia dal 1991 al 1999, portandolo dalla serie C alla A e lanciando giocatori di altissimo livello. Ma soprattutto Gaucci è passato alla storia per alcuni episodi controversi, a partire dal litigio con Matarrese, passando per il folle ingaggio di Saadi Gheddafi (il figlio del dittatore libico), fino ad arrivare all'offerta da un milione di euro a Birgit Prinz, la calciatrice che voleva far giocare in prima squadra. Inoltre Gaucci era finito suo malgrado sulle pagine di tutti i giornali per la vicenda del Superenalotto con Elisabetta Tulliani, l'attuale compagna di Gianfranco Fini alla quale è stato a lungo legato sentimentalmente. L'ex presidente del Perugia aveva sempre sostenuto di essere stato lui a giocare la schedina che aveva fruttato una vincita di 2 miliardi e 400 milioni di lire. Vincita che avrebbe poi diviso con la donna come "gesto d'amore", ma la Tulliani ha sempre negato tutto e il tribunale le ha dato ragione, dato che non ha dovuto restituire gli appartamenti e tutto gli altri beni acquistati con la vincita.

È morto Luciano Gaucci: quella volta che Lucci andò a trovarlo a Santo Domingo. Le Iene News l'1 febbraio 2020. Aveva 81 anni e dal 2005 viveva a Santo Domingo, prima da latitante e poi da uomo libero dopo aver patteggiato una condanna a 3 anni. Noi de Le Iene eravamo andati a trovarlo proprio nella repubblica Dominicana ai tempi della sua latitanza. Luciano Gaucci è morto. L’istrionico dirigente sportivo, noto per essere stato vicepresidente della Roma e per tredici anni presidente del Perugia, aveva 81 anni. Dal 2005 era riparato a Santo Domingo per sfuggire a un’inchiesta giudiziaria: nel 2008 aveva poi patteggiato tre anni di reclusione per bancarotta fraudolenta e reati fiscali, pena interamente indultata. Nella sua lunga carriera sportiva aveva lavorato come vicepresidente della Roma durante la presidenza di Dino Viola e poi aveva acquistato il Perugia, portato dalla serie C fino alla partecipazione alla Coppa Uefa. Fu proprio il Perugia a metterlo nei guai però, quando venne indagato per il fallimento della società. Mentre l’inchiesta era in corso riparò a Santo Domingo, ed è proprio lì che noi de Le Iene eravamo andati a trovarlo nel 2006 con Enrico Lucci. “Luciano Gaucci non si arrende. Da Santo Domingo”. È già, perché al tempo della nostra visita Luciano Gaucci aveva qualche problema con la giustizia italiana. Ma mentre i figli erano rinchiusi in galera, il buon Gaucci se ne stava serenamente in riva alle paradisiache spiagge della repubblica Dominicana in dolce compagnia…“Ma quanti anni c’avete di differenza?”, gli ha chiesto Lucci. “Eh una quarantina, lei ne ha venticinque”. Insomma, una vita allegra e spensierata mentre la sua prole affrontava le patrie galere. “Malgrado le nostre incomprensioni, io vi penso sempre e vi amo”, ci disse però Gaucci. Potete rivedere l'intervista di Enrico Lucci cliccando qui.

Remo Gasperini per “il Messaggero” il 2 febbraio 2020. L'Uragano si è spento ai Caraibi. Luciano Gaucci è morto a 81 anni, dopo una lunga malattia, a Santo Domingo lontano da quel mondo che l'ha visto protagonista per un ventennio con i suoi trionfi e le sue cadute. Il mondo dell'ippica, dell'impresa, del calcio gli scenari del suo vivere. Basterebbe una canzone di Vasco Rossi per tratteggiare la sua vita spericolata, ma per raccontarla, questa vita, ci vorrebbe un libro. Anzi un'enciclopedia. Lucianone, così l'ha chiamato per anni il suo popolo biancorosso perugino che ha fatto prima lungamente sognare ma anche alla fine soffrire, ha scritto e fatto scrivere pagine indimenticabili. Nel bene e nel male. Il fiuto per gli affari è stata la sua cifra fin dai tempi di Tony Bin, il purosangue irlandese acquistato giovanissimo e rivenduto a peso doro, una passione, quella per i cavalli, che condivideva con il suo nume tutelare Giulio Andreotti. Una tecnica poi replicata con i calciatori: da sconosciuti a campioni del mondo. Nessuno come lui ha saputo scovarli e valorizzarli. Ma quel fiuto non l'ha retto in eterno e a Santo Domingo, dove poi ha finito i suoi giorni da uomo libero, ci è dovuto andare per sfuggire alla giustizia che lo accusava di associazione a delinquere finalizzata alla bancarotta fraudolenta. E un capitolo con la giustizia Gaucci l'ha aperto anche con quella sportiva. Il cavallo all'arbitro di Petritoli, l'inutile spareggio con l'Acireale di Foggia con ventimila perugini al seguito, la squalifica e la retrocessione sono capitoli dolorosi come il finale fallimento del Perugia. Gaucci non è stato mai in secondo fila. O se c'è stato l'ha fatto di passaggio. L'ingresso nell'azienda di pulizie della famiglia della moglie Veronica del Bono, la madre dei suoi figli Alessandro e Riccardo, poi trasformata da lui nella Milanese; il periodo alla vice presidenza della Roma di Dino Viola con il successivo salto a Perugia per una piena titolarità. E avrebbe voluto salire più in alto Gauccione con la scalata al Napoli: «Una platea immensa - diceva - la squadra che ha tifosi sparsi in tutto il mondo». Ma il colpo non gli riuscì. E sarebbe stata ben altra cosa rispetto alle sue proprietà della Sambenedettese, Catania, Viterbese A Perugia Gaucci, dove è stato fino al 2000 portando la squadra dalla C alla A, vincendo l'Intertoto e conquistando un posto in Uefa, ha comunque trovato un palcoscenico adeguato per farsi vedere da tutto il mondo. Per vincere, sfidare e stupire tutti. Istituzioni in primis. Federcalcio e Lega sfidate con il Perugia quando minacciò di far saltare l'ultima giornata di A con riflessi sul Totocalcio, e con il Catania quando costrinse il palazzo al varo della serie B in versione extralarge. E che dire della proposta di tesserare la prima donna, la Prinz, per una squadra maschile? El juego de hombre titolavano all'epoca ironicamente i quotidiani del sud America. Gaucci, una donna, poi la portò in panchina, tesserando la Morace a Viterbo, prima volta assoluta. In fatto di tecnici, lui ha creato l'era Cosmi nel calcio italiano e le sue acrobazie di mercato sono roba da film. Grazie al fiuto anche dei suoi figli, ha scoperto non solo gli sconosciuti Materazzi, Liverani, Gattuso e Grosso tanto per citarne alcuni, ma i colpi internazionali annunciati in gran parte dai merli di Torre Alfina, si diceva il castello della Prima Repubblica, portano i nomi del cinese Ma, del coerano Han, dell'iraniano Rezaei, del giapponese Nakata e di Al Saadi Gheddafi il più in di tutti. Da film erano la sue traversate del Curi con al braccio Elisabetta Tulliani, e i suoi sermoni ai tifosi sul ponte della Genna a due passi dal Curi nei momenti di maggiore difficoltà. Bastone e carota era il suo mondo di gestire i dipendenti. Dunque era anche molto generoso, allentava spesso i cordoni della borsa, ma pretendeva. Ferocemente. Ricorda Castagner che gli ha regalato più promozioni di tutti: «Era un martello. Tutti i giorni chiamava, tutti i giorni spronava. I giocatori li teneva sempre sotto pressione. Clamorose le sue sfuriate negli spogliatoi. E ai ragazzi dicevo: è fatto così, è impulsivo. Lasciamolo sfogare, poi andiamo per la nostra strada. Certo per una allenatore era un tormento. Con me raggiunse il massimo quando nell'intervallo di un Lazio-Perugia all'Olimpico mandò un suo uomo a dirmi che dovevo togliere Rapajc e Petrachi. Mi rifiutai e dopo mi dimisi. Quella storia ebbe un seguito e finì male, fui costretto a querelarlo per diffamazione ma gli avvocati trovarono un accordo: lui versò trenta milioni alla chiesa perugina di Ferro di Cavallo che era in costruzione. Sì, Gaucci era anche molto generoso».

Gaucci, l'uomo che portò in A il Perugia e mandò in B. Fini: "La prima volta che vide Elisabetta Tulliani".  Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano il 2 Febbraio 2020. «Gaucci, noi siamo di serie A!», gli urlò Matarrese, invitandolo alla calma nel post-partita caldissimo di un Perugia-Bari del 1999. Al che lui, Luciano Gaucci, patron della squadra umbra, rispose, fregandosene di ogni bon ton: «Vai fare in culo te e tuo fratello. Zozzone. Venduto. Cornuto. Figlio di m». In questo scambio di battute c' è un po' tutto Lucianone, presidente ingombrante non solo per la stazza, scomparso ieri all' età di 81 anni a Santo Domingo. C' è il suo carattere fumantino, il suo essere cavallo di razza, e un po' cavallo pazzo. E diciamo "cavallo" non a caso dato che, proprio acquistando un puledro, tale Tony Bin, Gaucci costruì la sua fortuna: lo comprò a 12 milioni di lire ma, dopo una serie di vittorie del quadrupede, riuscì a rivenderlo a 7 miliardi: il primo caso di plusvalenza equina, in cui il darsi all' ippica non fu una deminutio. E d' altronde, nelle scommesse di gioco, Gaucci ebbe sempre un certo fiuto: fece un 13 al Totocalcio che gli svoltò la vita; e anni dopo azzeccò un miliardario Superenalotto che gli avrebbe procurato molta grana ma anche molte grane. E tuttavia Lucianone era anche uomo di calcio giocato, e giocato in serie A, come gli ricordava Matarrese. Nella massima serie riuscì a portare il Perugia, grazie a una cavalcata epica a partire dalla serie C con tre promozioni in cinque anni. In serie A fece fiorire il mito Perugia, quello fatto di giocatori-icona dell' Oriente, da Nakata, primo giapponese ad affermarsi da noi, fino ad Ahn, il coreano che poi Gaucci licenziò in diretta tv quando quello "osò" segnare un gol contro l' Italia. In serie A lui creò dei personaggi, come l' allenatore Serse Cosmi, ne portò altri discutibili, come lo scarsissimo figlio di Gheddafi, e comunque riuscì a proiettare quella squadra ai vertici fino a farle vincere un trofeo, l' indimenticabile Coppa Intertoto. In serie A Gaucci si prese pure il lusso di far perdere un campionato alla Juve in quel pomeriggio di diluvio del 2000 in cui fu un gol di Calori a spegnere le speranze bianconere. Ma Gaucci fu personaggio strabordante oltre i confini del Perugia. Fu il presidente che non si accontentava di avere una squadra ma ne voleva due: tenne allo stesso momento il Perugia e la Viterbese, e poi il Catania e la Sambenedettese. E fu patron lungimirante facendo debuttare, per primo e ultimo, sulla panchina di una squadra di calcio maschile una donna: Carolina Morace. Le sue vicende si legano però indissolubilmente anche ai suoi rapporti sentimentali e "politici". Gaucci fu fidanzato di Elisabetta Tulliani, la donna che sarebbe diventata poi compagna di Gianfranco Fini. Fu lui stesso a raccontare in un libro, Luciano Gaucci. Latitante ai Tropici, il modo in cui l' allora leader di An e la Tulliani si conobbero, quando questa era ancora legata al vulcanico presidente: «A un certo punto incrociammo con lo sguardo Fini che stava uscendo dal Parlamento. Lui ci vide e, senza curarsi del traffico, attraversò, fermandosi al centro della carreggiata per salutarci e abbracciarci. Meglio, per salutare e abbracciare lei! Le macchine suonavano all' impazzata i clacson. L' onorevole però non stava a sentì i clacson della gente! L' onorevole se stava a innamorà!». Quella che poteva sembrare una beffa per Gaucci si dimostrò la sua fortuna. Perché ebbe modo di liberarsi della Tulliani che infiniti guai avrebbe addotto al «coglione», per autodefinizione, Fini. Nello stesso periodo, secondo la sua versione, Lucianone aveva fatto crescere come suo assistente nella Viterbese Giancarlo Tulliani, ossia il fratello di Elisabetta, poi divenuto tristemente noto come proprietario della casa di Montecarlo. Quel virgulto, che anni dopo Gaucci avrebbe definito «un ragazzo un po' strano che dove va fa guai», sarebbe stato la rovina di Fini, la ragione della sua fine politica. Il patron del Perugia fece in tempo a starne alla larga prima di rifugiarsi, a seguito di impicci giudiziari, nella Repubblica Domenicana. E in fin dei conti non è male essersi spento a Santo Domingo per un uomo che la domenica l' ha sempre santificata, andando allo stadio. Gianluca Veneziani

Morto Luciano Gaucci, l’ex presidente del Perugia. Pubblicato sabato, 01 febbraio 2020 da Corriere.it. Il primo febbraio è morto Luciano Gaucci, storico presidente del Perugia Calcio negli anni Novanta. È morto a Santo Domingo dove si era rifugiato negli ultimi anni della sua vita: dal 2005 al 2008 era stato soggetto infatti a custodia cautelare attiva proprio per il fallimento della sua società. Aveva promesso che sarebbe tornato in Italia, ma non lo aveva fatto. Tranviere da giovane, vicepresidente dell’As Roma dall’82 all’89 sotto la gestione di Dino Viola, monopolista nel settore degli appalti nelle pulizie (impresa La Milanese: «Dà un’idea di efficienza») , sostenuto dagli amatissimi figli di primo letto (Alessandro, in particolare, abilissimo nel calciomercato), all’inizio degli Anni 90 aveva preso il Perugia issandolo, in cinque anni, dalla C1 alla A e alla Coppa Uefa. Un successo imprenditoriale impreziosito da operazioni memorabili (il difensore Pieri, entrato per 50 milioni di lire e uscito per 16 miliardi; il giapponese Nakata, trasformato in calciatore e rivenduto alla Roma a peso d’oro, la provocazione sull'ingaggio di un'attaccante donna, Birgit Prinz, l'ingaggio del coreano Ahn Yung Hwan che poi "giustizierà" l'Italia ai Mondiali 2002) e iniziative ai confini del buon senso. I due cavalli - era appassionato anche di ippica - offerti all’arbitro Senzacqua, un tentativo di corruzione che gli costò la retrocessione in C1 («Se l’avessi comprato davvero, questo signore non ci avrebbe negato un rigore grande come una casa...»), anche se con gli equini Lucianone aveva dimostrato di avere fiuto: Tony Bin, comprato sconosciuto per poche lire, all’apice del successo sbancò l’Arc de Triomphe e fu poi sbolognato in Giappone per la cifra record di 6 miliardi. Tra un ritiro punitivo e l’altro, che Gaucci ordinava ai suoi innumerevoli allenatori come le ostriche al ristorante, si ricordano: l’ingaggio di Saadi Al Gheddafi, figlio del Colonnello, ingegnere con l’hobby del pallone, due anni in Umbria, una presenza, una sospensione per doping (nandrolone); l’assunzione e il quasi contestuale licenziamento di Carolina Morace come tecnico della Viterbese; l’annuncio del tesseramento al Perugia di Birgit Prinz, bomber tedesca che al grido di «nessuna norma lo vieta, è una questione di diritti umani» avrebbe dovuto incrociare i polpacci con Nesta e Cannavaro. Era un presidente che credeva di poter vivere al di sopra delle regole, regalava biglietti da 50 euro ai barboni per strada ma ogni tanto aveva l’umiltà, e l’autoironia, di telefonare ai giornalisti: «La ringrazio per l’intervista, addirittura migliorativa del mio italiano». Alessandro e Riccardo, complici e vittime del grandioso disegno paterno, hanno corrisposto alle aspettative finché hanno potuto, difendendolo dalle battute acide dei tanti avversari, il presidente federale Carraro, quello di Lega Galliani, la trimurti juventina, che Luciano si era inimicato ribaltando il Monopoli del calcio a ogni buona occasione. Quando il suo Catania si salvò dalla C con un inghippo normativo, costringendo il consiglio federale della Figc ad allargare la B a 24 squadre. O quella volta che il tentativo di scalata al moribondo Napoli, con l’idea geniale di iscriverlo in B senza accollarsi la montagna di debiti, finì in burla. Solo negli ultimi giorni dell’impero, finalmente, i Gaucci brothers si sono concessi una scampagnata nelle loro vere passioni: il pugilato per Ale (un match da mediomassimo contro il croato Miletic), il calcio a 5 per Ricky, che ha giocato in nazionale. Disapprovati, neanche a dirlo, da papà. Che ai tempi d’oro già diceva: «Il calcio non mancherà a Gaucci». Il contrario, semmai. 

Morto l’ex presidente del Perugia Luciano Gaucci: dalla sfuriata con Matarrese alla passione per i cavalli. Pubblicato sabato, 01 febbraio 2020 su Corriere.it. Gaucci: dalla sfuriata con Matarrese alla passione per i cavalli  di Andrea Marinelli. Luciano Gaucci si guadagnò il suo posto nella leggenda – sportiva e non solo – con un cavallo: non Tony Bin, il puledro irlandese che aveva acquistato per un pugno di milioni e rivenduto per 6 miliardi dopo la vittoria nel 1988 del Prix de l’Arc de Triomphe a Parigi, ma quello che regalò al suocero dell’arbitro Emanuele Senzacqua per aggiustare la partita di Serie C1 fra Siracusa e Perugia dell’aprile 1992. L’incontro finì con un pareggio, a fine stagione gli umbri furono promossi in B dopo un epico spareggio a Foggia contro l’Acireale, ma vennero subito ricacciati in C per illecito sportivo e il neopresidente squalificato per tre anni. Si presentò così Gaucci – morto sabato a Santo Domingo a 81 anni – al mondo del calcio, dove era entrato l’autunno precedente come un uragano. Esperto navigatore della Prima Repubblica, si era arricchito con gli appalti ottenuti per la sua impresa di pulizie romana La Milanese («Per dare un’idea di efficienza», diceva): dopo essere stato vicepresidente della Roma di Dino Viola negli anni Ottanta, acquistò il Perugia, che all’epoca languiva nei bassifondi della Serie C ed era sull’orlo del fallimento, e promise la Serie A in cinque anni. Il primo colpò lo fallì per quel cavallo, poi mantenne la promessa: nel giugno del 1996 festeggiava il ritorno degli umbri nella massima divisione dopo 15 anni. Nel frattempo, «Uragano» era diventato uno dei suoi soprannomi: per l’esuberanza, per le sfuriate, per i giocatori convinti a scendere di categoria – i primi furono il campione del mondo Beppe Dossena, ormai a fine carriera, il bomber Giovanni Cornacchini e Rocco Pagano, uno che mise in difficoltà persino Paolo Maldini – ma anche per i ritiri punitivi ordinati all’improvviso, per gli allenatori cacciati senza preavviso (chiedere a Walter Novellino, licenziato quando scoprì che sull’aereo che avrebbe portato la squadra allo spareggio con l’Acireale ci sarebbe stato anche il suo successore Ilario Castagner) e per le sceneggiate. Tante, di ogni tipo. La più celebre fu quella con Antonio Matarrese, davanti al pullman del Bari e alle telecamere. «Il giocatore è in ospedale, ha la frattura», diceva Gaucci all’arbitro e il presidente pugliese s’intromise: «Gaucci, noi siamo di Serie A». Al che lui rispose – «Vai a fare in culo, tu e tuo fratello» - e scoppiò un parapiglia sotto la pioggia in cui Gaucci, cercando di divincolarsi, disse: «Lasciami, gliene devo dire quattro». Una hit da YouTube, che ancora macina clic e risate. Poi ci fu la volta che tentò di acquistare una donna, la centravanti tedesca Birgit Prinz, per farla giocare con gli uomini – primi anni Duemila – e quella in cui, intervistato a Controcampo su Italia 1, disse che Roberto Baronio portava sfortuna perché indossava il numero 13. «Le poche volte che è entrato non ci ha certo portato bene. Ma il problema è il numero, è il 13, che è come un gatto nero che ti attraversa la strada», disse. «Domani brucerò la sua maglia con il numero 13». Aneddoti, che un po’ divertivano e un po’ facevano vergognare i tifosi biancorossi, abituati a gentiluomini come Franco D’Attoma e Spartaco Ghini. Nel frattempo il Perugia era stabilmente in Serie A e con Carlo Mazzone alla guida sfilò anche uno scudetto alla Juventus sotto il diluvio, cucendolo sulle maglie della Lazio. Era il 2000 e Gaucci, romano e romanista, aveva «obbligato» i giocatori a vincere, pena un ritiro post campionato, altrimenti non sarebbe potuto tornare nella sua città (come era successo, invece, l’anno precedente, quando i suoi non opposero resistenza al Milan). Grazie a intuizioni geniali – ma anche a collaboratori eccezionali come il figlio Alessandro e Walter Sabatini – lanciava intanto giocatori che avrebbero fatto la storia del calcio: un giovane Gennaro Gattuso, che fu costretto a scappare dalla finestra del convitto in cui dormiva con i ragazzi delle giovanili per andare in Scozia ai Glasgow Rangers (con Gaucci che ne denunciò la scomparsa), poi gli altri campioni del Mondo Marco Materazzi e Fabio Grosso, e in ordine sparso Fabio Liverani, Hidetoshi Nakata, Marco Negri, Milan Rapaic, Federico Giunti e Fabrizio Miccoli, solo per citarne alcuni. E Ahn Jung.Hwan, ovviamente, il sudcoreano cacciato per aver eliminato con un gol la nazionale di Giovanni Trapattoni ai Mondiali del 2002 in Corea e Giappone. Anche con gli allenatori aveva fiuto. Prima lanciò Novellino, poi nell’estate del 2000 pescò un giovane Serse Cosmi all’Arezzo in Serie C e gli mise in mano una squadra di promesse e oscuri calciatori esotici (fra gli altri cinesi, iraniani, greci e anche il figlio del leader libico Muammar Gheddafi): «l’uomo del fiume» – appena tornato dopo 16 anni alla guida dei biancorossi, che domenica scenderanno in campo con il lutto al braccio – salvò il Perugia per tre anni di fila, dando spettacolo e portando la squadra fino alla Coppa Uefa, raggiunta dopo aver vinto l’Intertoto. Erano anni d’oro per Gaucci, che acquistava squadre di calcio come noccioline (Catania, Viterbese, Sanbenedettese), faceva modificare i campionati – a lui si deve la Serie A a 20 squadre – e nel frattempo era fidanzato con Elisabetta Tulliani, amica del figlio che esibiva sotto la Curva Nord e con cui, in seguito, arrivò allo scontro in tribunale per via di una vincita milionaria all’enalotto di cui entrambi si dichiaravano titolari. Finì in pareggio, lui si tenne la vincita e lei gli immobili che l’ex compagno le aveva intestato. Ex, perché intanto Gaucci aveva già presentato la ragazza a Gianfranco Fini, e qui comincia un’altra storia che vira verso Montecarlo ed è stata raccontata a fondo dai giornali. Una vita intensa, quella del vulcanico Gaucci, che nei tredici anni alla guida del Perugia ha conquistato due promozioni in B e due in A. Poi arrivò la retrocessione in Serie B nel 2004, dopo uno strano spareggio con la Fiorentina, il passaggio della società ai figli e il crac finanziario del club nel giugno del 2005: i figli vanno in carcere per bancarotta fraudolenta (35 milioni di debito con il fisco e 6 milioni di stipendi non pagati), lui in esilio a Santo Domingo, dove è rimasto latitante fino al 2009. E dove sabato è morto dopo una lunga malattia, facendo tornare in mente a tutti gli appassionati di calcio le mirabolanti avventure di cui fu protagonista, nel bene e nel male, nei due decenni a cavallo del millennio: campioni, calciatrici, scaramanzia. E cavalli.

E' morto Luciano Gaucci, ex presidente del Perugia calcio. Esuberante, amante della provocazione, scopritore di talenti: muore a 81 anni l'ex presidente oltre che del club umbro, di Viterbese, Sambenedettese e Catania, con un passato da dirigente della Roma. Luci e ombre giudiziarie nella vita di un uomo che ha segnato decenni del movimento calcistico italiano. La Repubblica l'01 febbraio 2020. Il mondo del calcio piange la scomparsa di Luciano Gaucci. Fu prima imprenditore e dirigente, con un'esperienza come vicepresidente della Roma durante la gestione di Dino Viola, e poi patron del Perugia in prima persona: acquistò il club umbro verso la fine del 1991, rilevando una squadra ormai abituata a barcamenarsi in Serie C1 dopo i lustri dei decenni precedenti e una società prossima al fallimento. Vulcanico, capace di infiammare le folle con le sue dichiarazioni a effetto, Gaucci riuscì a riportare gradualmente il club biancorosso fino alla Serie A, non senza ombre: dopo lo spareggio promozione in Serie B vinto con l'Acireale, venne squalificato per tre anni per aver regalato un cavallo a un arbitro. Proprio il mondo dell'ippica lo aveva visto protagonista con la grande intuizione di Tony Bin, un cavallo acquistato per soli 12 milioni di lire quando era ancora un puledro e rivenduto per 3 miliardi dopo svariati successi. Riportato il club in B dopo la cavalcata nel 1993-94, riuscì finalmente a centrare la Serie A dopo sole due stagioni, assestandosi con il passare degli anni (pur con una nuova retrocessione) nella massima categoria anche grazie a dei colpi a sensazione: dalla scommessa Nakata in campo a quella Serse Cosmi in panchina. Tanti gli eccessi di un uomo che amava la provocazione: la storica lite con Matarrese alla fine di una sfida contro il Bari, la decisione di ingaggiare Carolina Morace come allenatrice della Viterbese, la capacità di esplorare mercati meno battuti, dalla Corea di quell'Ahn che licenziò in diretta tv dopo il gol segnato all'Italia al Mondiale alla Cina di Ma Ming Yu, passando per l'Iran di Rezaei, senza dimenticare i tantissimi giocatori lanciati direttamente dalle serie minori. E' stato proprietario anche di Viterbese, Sambenedettese e Catania, e proprio alla guida degli etnei ingaggiò una battaglia con i vertici del calcio italiano, nel celebre "caso Catania" che portò a ribaltare la struttura del campionato di Serie B a 24 squadre. Per un breve periodo fu anche patron della società "Napoli Sportiva", creata nell'estate 2004 dopo il fallimento della vecchia SSC Napoli e mai iscritta a campionati professionistici. Indagato per il fallimento del Perugia, è stato poi inquisito insieme ai figli Riccardo e Alessandro per associazione a delinquere finalizzata alla bancarotta fraudolenta, rifugiandosi nella Repubblica Dominicana e patteggiando tre anni per bancarotta fraudolenta e reati fiscali. Tale pena non è stata scontata grazie all'indulto. Proprio a Santo Domingo si è spento all'età di 81 anni, dopo una lunga malattia.

Le reazioni. "Riposa in pace Big Luciano... Oggi solo silenzio e tristezza. Ti porterò sempre nel mio cuore". Serse Cosmi, tecnico del Perugia di Gaucci e recentemente ritornato ad allenare il club umbro, ha scelto di omaggiare così il suo ex datore di lavoro su Instagram. Un altro grande protagonista della cavalcata di quel Perugia è stato Marco Materazzi, che sui social network ha voluto ricordare così l'ex patron: "Non ti sarò mai grato abbastanza, a te e alla tua famiglia. Grazie di tutto. Dopo di te il NULLA a Perugia". L'attuale presidente del Grifone, Massimiliano Santopadre, ha spiegato sul sito ufficiale della società che "la sua visione, il suo coraggio, il suo carisma resteranno sempre impressi nel cuore dei tifosi biancorossi e della nostra gloriosa società". E anche il numero 1 della Lega Pro Francesco Ghirelli ha espresso il suo cordoglio: "Quando arriva la notizia della morte di Luciano Gaucci, il pensiero corre agli anni passati con lui a Perugia. Con lui ho iniziato la mia avventura nel calcio e lo debbo, come ho sempre fatto, ringraziare. Poi il pensiero va al dolore dei figli Alessandro e Riccardo, allora, ragazzi splendidi ed oggi, uomini veri. Caro Luciano, riposa in pace". 

Gianluca Veneziani per “Libero Quotidiano” il 2 febbraio 2020. «Gaucci, noi siamo di serie A!», gli urlò Matarrese, invitandolo alla calma nel post-partita caldissimo di un Perugia-Bari del 1999. Al che lui, Luciano Gaucci, patron della squadra umbra, rispose, fregandosene di ogni bon ton: «Vai fare in c...te e tuo fratello. Zozzone. Venduto. Cornuto. Figlio di m». In questo scambio di battute c' è un po' tutto Lucianone, presidente ingombrante non solo per la stazza, scomparso ieri all' età di 81 anni a Santo Domingo. C'è il suo carattere fumantino, il suo essere cavallo di razza, e un po' cavallo pazzo. E diciamo "cavallo" non a caso dato che, proprio acquistando un puledro, tale Tony Bin, Gaucci costruì la sua fortuna: lo comprò a 12 milioni di lire ma, dopo una serie di vittorie del quadrupede, riuscì a rivenderlo a 7 miliardi: il primo caso di plusvalenza equina, in cui il darsi all' ippica non fu una deminutio. E d' altronde, nelle scommesse di gioco, Gaucci ebbe sempre un certo fiuto: fece un 13 al Totocalcio che gli svoltò la vita; e anni dopo azzeccò un miliardario Superenalotto che gli avrebbe procurato molta grana ma anche molte grane. E tuttavia Lucianone era anche uomo di calcio giocato, e giocato in serie A, come gli ricordava Matarrese. Nella massima serie riuscì a portare il Perugia, grazie a una cavalcata epica a partire dalla serie C con tre promozioni in cinque anni. In serie A fece fiorire il mito Perugia, quello fatto di giocatori-icona dell' Oriente, da Nakata, primo giapponese ad affermarsi da noi, fino ad Ahn, il coreano che poi Gaucci licenziò in diretta tv quando quello "osò" segnare un gol contro l' Italia. In serie A lui creò dei personaggi, come l' allenatore Serse Cosmi, ne portò altri discutibili, come lo scarsissimo figlio di Gheddafi, e comunque riuscì a proiettare quella squadra ai vertici fino a farle vincere un trofeo, l' indimenticabile Coppa Intertoto. In serie A Gaucci si prese pure il lusso di far perdere un campionato alla Juve in quel pomeriggio di diluvio del 2000 in cui fu un gol di Calori a spegnere le speranze bianconere. Ma Gaucci fu personaggio strabordante oltre i confini del Perugia. Fu il presidente che non si accontentava di avere una squadra ma ne voleva due: tenne allo stesso momento il Perugia e la Viterbese, e poi il Catania e la Sambenedettese. E fu patron lungimirante facendo debuttare, per primo e ultimo, sulla panchina di una squadra di calcio maschile una donna: Carolina Morace. Le sue vicende si legano però indissolubilmente anche ai suoi rapporti sentimentali e "politici".

Gaucci fu fidanzato di Elisabetta Tulliani, la donna che sarebbe diventata poi compagna di Gianfranco Fini. Fu lui stesso a raccontare in un libro, Luciano Gaucci. Latitante ai Tropici, il modo in cui l' allora leader di An e la Tulliani si conobbero, quando questa era ancora legata al vulcanico presidente: «A un certo punto incrociammo con lo sguardo Fini che stava uscendo dal Parlamento. Lui ci vide e, senza curarsi del traffico, attraversò, fermandosi al centro della carreggiata per salutarci e abbracciarci. Meglio, per salutare e abbracciare lei! Le macchine suonavano all' impazzata i clacson. L' onorevole però non stava a sentì i clacson della gente! L' onorevole se stava a innamorà!». Quella che poteva sembrare una beffa per Gaucci si dimostrò la sua fortuna. Perché ebbe modo di liberarsi della Tulliani che infiniti guai avrebbe addotto al «coglione», per autodefinizione, Fini. Nello stesso periodo, secondo la sua versione, Lucianone aveva fatto crescere come suo assistente nella Viterbese Gianfranco Tulliani, ossia il fratello di Elisabetta, poi divenuto tristemente noto come proprietario della casa di Montecarlo. Quel virgulto, che anni dopo Gaucci avrebbe definito «un ragazzo un po' strano che dove va fa guai», sarebbe stato la rovina di Fini, la ragione della sua fine politica. Il patron del Perugia fece in tempo a starne alla larga prima di rifugiarsi, a seguito di impicci giudiziari, nella Repubblica Domenicana. E in fin dei conti non è male essersi spento a Santo Domingo per un uomo che la domenica l' ha sempre santificata, andando allo stadio.

Luciano Gaucci, trionfi e fallimenti di un presidente unico. Le 11 curiosità di una vita da romanzo.  Pubblicato domenica, 02 febbraio 2020 da Corriere.it. È morto all’età di 81 anni a Santo Domingo l’ex storico presidente del Perugia Luciano Gaucci. Mille vite diverse dentro una, sono tante le curiosità da ricordare oggi su uno dei personaggi più interessanti e discussi degli ultimi trent’anni di calcio italiano. La prima: iniziò la sua carriera professionale come autista dell’Atac a Roma, ma lo spirito imprenditoriale covava dentro questo esuberante signore nato nel 1939, figlio di un contadino poi costruttore. Il salto avviene come imprenditore nel ramo pulizie. La sua azienda si chiama «La Milanese». A Roma? «Sì, perché il lavoratore milanese dà idea di grande efficienza». Centinaia di dipendenti, appalti su appalti, il lavoro va a gonfie vele anche perché Luciano è abile nel «networking» politico, frequentando il Gotha democristiano della capitale: dal cardinale Angelini, fino all’entourage andreottiano degli Evangelisti e Ciarrapico.

Romanista (e mai laziale). Gaucci, legato per sempre al Perugia e alle varie altre squadre di cui è stato (anche contemporaneamente) proprietario, era romanista nel midollo. Della Roma anni Ottanta di Dino Viola è stato anche vicepresidente, ma se ne andò quando capì che l’Ingegnere non era disposto a farsi di lato per lasciargli la presidenza. La leggenda dice che un giorno Giulio Andreotti, suo punto di riferimento politico e di vita, gli propose addirittura di acquistare la Lazio. Siccome a tutto c’è un limite, Gaucci rifiutò.

Cavalli e trionfi (e Andreotti). Tony Bin, uno dei cavalli della sua scuderia Whiet Star (nata nel 1980), era un purosangue pescato in Irlanda per 7 milioni di lire (circa 3600 euro), vinse l’Arc de Triomphe a Parigi nel 1988 e venne rivenduto per 3 milioni di euro in Giappone. Il nome derivava da un pittore veneto che Gaucci aveva incrociato al Louvre mentre era intento a dipingere un’imitazione della Gioconda. Qui, ancora una volta, entra in gioco Andreotti, perché si dice che Gaucci muovesse capitali del politico. Vero o falso, non si saprà mai.

Cavalli e illeciti. Ai cavalli è legata anche una disgrazia sportiva di Gaucci. Ne regalò infatti uno al suocero dell’arbitro Emanuele Senzacqua per aggiustare la partita di Serie C1 fra Siracusa e Perugia dell’aprile 1992. L’incontro finì con un pareggio, a fine stagione il perugia fu promosso in B dopo un epico spareggio a Foggia contro l’Acireale, ma vennero subito ricacciati in C per illecito sportivo e Gaucci squalificato per tre anni.

Ma (o Mah?): il cinese sbagliato. Gli piaceva provocare e stupire, non sempre però gli andava bene. Come quando portò a Perugia il primo cinese della storia serie A, peccato fosse quello sbagliato: Ma Ming Yu era stato confuso con un altro, che però non si mosse mai da Pechino. Questo, — 27 anni secondo l’ufficio stampa del Perugia, 32 secondo fonti cinesi — arrivò in prestito nel 2000 per una stagione (per 1 miliardo di lire), con diritto di riscatto fissato a 4 miliardi, eventualmente da versare nelle casse dei cinesi nel giugno 2001 e un ingaggio intorno al mezzo miliardo l’anno. Fu uno dei più grandi fallimenti della storia del calcio. Più Mah che Ma.

Donne in campo. Con la Federcalcio, tra le innumerevoli battaglie, litigò anche nel 2003 quando voleva tesserare per il Perugia maschile una calciatrice donna, la centravanti della Germania Birgit Prinz: «Nessun regolamento lo vieta» sottolineò, ed era vero anche se poi non se ne fece niente. Ingaggia invece nel 1999 per la Viterbese, una società satellite, Carolina Morace, la prima allenatrice donna che si dimetterà però dopo 4 partite per incompatibilità di carattere.

L’intuizione Nakata. Non solo folklore o errori, però. Fra i tanti acquisti azzeccati — a Perugia transitarono fra gli altri campioni del mondo come Materazzi, Grosso e Gattuso, ottimi giocatori come Marco Negri, Rapaic, Giunti e Miccoli e tanti altri — spicca quello del giapponese Nakata, per 3,5 milioni di dollari. Il suo esordio in serie A è uno show: doppietta contro la Juventus. Chiude l’avventura umbra con 12 i gol in 47 presenze e, affarone di Gaucci, viene rivenduto alla Roma per 15 milioni di euro più il cartellino di Dmitrij Alenicev. Non ebbe più la stessa fortuna avuta in Umbria.

Litigi e scaramanzie. Un pomeriggio all’Olimpico durante Lazio-Perugia un suo dirigente nell’intervallo scende in spogliatoio per «consigliare» al tecnico Castagner di sostituire Rapaic e Petrachi: il tecnico non esegue e si dimette. Gaucci lo insulta in tv, Castagner lo querela. Tutto si risolverà con la donazione a una parrocchia. Il coreano Ahn Jung-hwan, uno dei tanti talenti scovati in giro per il mondo, venne invece mandato via, nel 2002, perché ai Mondiali aveva segnato il gol dell’eliminazione dell’Italia. Di Baronio, anche lui licenziato, Gaucci avrebbe volto invece bruciare la maglia numero 13, convinto che non portasse bene.

Lucianoni contro. Classici furono i suoi scontri con il palazzo del potere calcistico e con i colleghi. A parte la lite celeberrima con Matarrese, nel 2003 in tv denunciò: «I sorteggi degli arbitri sono pilotati e fasulli». Tre anni più tardi scoppierà Calciopoli, protagonista Luciano Moggi che così ha ricordato l’altro Lucianone: «Perdo un amico: con lui ho fatto affari e avuto discussioni, ma c’era stima».

Gheddafi e l’operazione Libia. Uno dei momenti più clamorosi della sua storia è l’ingaggio del figlio di Gheddafi, Saadi, che gioca (malamente) quindici minuti di Perugia-Juventus (di cui era all’epoca socio e tifoso), diventando nell’occasione il primo calciatore libico a giocare in serie A. Successivamente gheddafi jr. è risultato positivo a un controllo antidoping dopo la partita Perugia-Reggina (durante la quale era rimasto in panchina) venendo squalificato per tre mesi. La speranza di Gaucci — pare su suggerimento di Moggi — era di intavolare un rapporto per fare affari con la Libia. Non accadde nulla.

Inchieste, Caraibi e ancora donne. Luciano Gaucci è stato implicato in diverse inchieste giudiziarie. In particolare, l’1 febbraio 2006 sfugge all’arresto nell’ambito dell’inchiesta sul crac del Perugia e ripara a Santo Domingo, il buen retiro dove è morto. Secondo gli inquirenti, il buco accertato era di circa 100 milioni di euro. Nel marzo 2007, i magistrati chiedono il processo per Gaucci anche per l’inchiesta sul fallimento del Perugia Calcio e nel novembre 2008 patteggia una pena a tre anni di reclusione. Di Gaucci, infine, si risente parlare per via di Elisabetta Tulliani, compagna di Gianfranco Fini ma ex fidanzata del patron del Perugia (e prima del figlio Alessandro). La loro — con 34 anni di differenza — è una storia finita male. Nel gennaio 2013 Gaucci, ritornato a Santo Domingo, la chiama in causa accusandola di averlo raggirato per farsi intestare beni per milioni (accuse sempre smentite dall’ex fidanzata).

·        Morta Germana Giacomelli, la super mamma che curava i bambini.

Morta Germana Giacomelli, la super mamma che curava i bambini. Era indagata  per maltrattamenti. Pubblicato lunedì, 10 febbraio 2020 su Corriere.it da Giovanni Bernardi. È morta per un improvviso malore Germana Giacomelli, la super mamma di Cavriana, in provincia di Mantova, balzata agli onori delle cronache prima per essersi presa cura, nel corso dei decenni, di oltre 120 bambini e ragazzini in situazioni di disagio e difficoltà ospitati nella casa famiglia che aveva realizzato nella sua abitazione; e poi, alla fine dello scorso dicembre, in quanto indagata dalla Procura di Mantova per maltrattamenti proprio nei confronti dei bambini e dei ragazzini di cui si è presa cura. La signora Giacomelli aveva 72 anni e, al momento del decesso, non si trovava nella casa di Cavriana. Proprio in virtù dell’indagine era infatti stata allontanata dalla struttura dove abitava con il marito e i ragazzini di volta in volta ospitati. I sanitari del 118 hanno tentato tutte le manovre per salvarle la vita, ma non c’è stato nulla da fare. La data dei funerali non è ancora stata fissata. A fine dicembre 2018, per la sua attività nella casa famiglia, la signora Giacomelli aveva ricevuto dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella l’onorificenza di Commendatore dell’ordine al merito della Repubblica Italiana. In decenni di attività nella casa famiglia, infatti, aveva preso in carico e in alcuni casi adottato in totale 121 bambini e ragazzini. Alcuni mesi dopo l’onorificenza concessale da Mattarella, però, il programma televisivo Le Iene aveva mandato in onda, in due riprese, le testimonianze di alcuni ragazzi che - oggi non più ospiti della casa famiglia - accusavano la signora Giacomelli di maltrattamenti e vessazioni. Da lì la Procura di Mantova aveva aperto un’indagine, nella quale è finito anche il 25enne Pietro Foroni: suo stretto collaboratore, pure lui oggi è indagato per maltrattamenti ed è stato allontanato dalla casa famiglia. Se il 25enne avrà dunque modo di conoscere l’esito della vicenda giudiziaria, lo stesso non si può dire della signora Germana. Il fato è arrivato prima della conclusione delle indagini e del potenziale processo.

·        Addio a Giancarlo Morbidelli, papà di leggendarie moto da corsa.

Addio a Giancarlo Morbidelli, papà di leggendarie moto da corsa. Da grande industriale del legno ai quattro titoli mondiali piloti fra il 1975 e il 1977. Il mondo delle due ruote piange un gigante del settore. Vincenzo Borgomeo il 10 febbraio 2020 su La Repubblica. E' morto all'età di 86 anni, nella sua Pesaro, Giancarlo Morbidelli, leggendario costruttore di moto da corsa e di piccoli motori che hanno spinto le moto leggere di un'intera generazione. Vincitrici di quattro titoli mondiali piloti fra il 1975 e il 1977, le Morbidelli hanno fatto la fortuna di piloti del calibro di Paolo Pileri, Pier Paolo Bianchi, Mario Lega, Graziano Rossi (il papà di Valentino) e molti altri. Infinite le sue moto, con un canto del cigno spettacolare: una gran turismo con motore 8 cilindri a V disegnata da pininfarina e desitinata a finire nelle mani di ricchi appassionati per un prezzo - nel 1992 - di 100 milioni. Non se ne fece nulla, ma oggi fa bella mostra di se nel museo Morbidelli aperto nei vecchi stabilimenti nel 1999, per esporre qualcosa come 350 motociclette. Ex pilota del campionato "regolarità" enduro, Morbidelli ha iniziato a fabbricare macchine utensili, per poi aprire a fine anni Sessanta la Morbidelli e conquistare il mondo con la sua sconfinata passione per i motori. Morbidelli nasce infatti a Pesaro, primogenito di una semplice famiglia con quattro figli. Frequenta le scuole tecniche e al termine degli studi inizia a lavorare in una fabbrica meccanica. Poi apre in proprio una piccola fabbrica di macchine speciali per la lavorazione del legno. E da lì nasce un colosso del settore: la Morbidelli che arriva ad impiegare 300 dipendenti. La sua passione, però, è la motocicletta, un amore che nutre già da adolescente, e che non dimentica neanche quando si dedica, con grande determinazione, al suo lavoro imprenditoriale. Come veicolo pubblicitario per la sua ditta, verso la fine degli anni 60 inizia a costruire moto da competizione che, grazie alle loro qualità tecniche e alle caratteristiche innovative, nel corso degli anni '70 gli regalano immense soddisfazioni.

È morto Giancarlo Morbidelli, un gigante del motociclismo internazionale. Laura Pellegrini il 11/02/2020 su Notizie.it. Lutto nel mondo dei motori: è morto, presso l'ospedale di Fano, Giancarlo Morbidelli, icona del motociclismo internazionale e dell'industria. È morto Giancarlo Morbidelli, icona del motociclismo italiano e internazionale. L’uomo lottava da tempo contro una malattia e le sue condizioni si erano aggravate nel corso dell’ultima settimana. Si è spento all’ospedale di Fano, nelle Marche, all’età di 86 anni. Molti lo ricorderanno come uno dei più importanti collezionisti di moto: nel suo famoso museo, infatti, ne ospitava oltre 350. Altri, invece, collegheranno il suo cognome al figlio Gianni Morbidelli, ex pilota di Formula 1 con un passato nella Ferrari. Lutto nel mondo del motociclismo italiano: è morto all’età di 86 anni Giancarlo Morbidelli, icona dell’industria motociclistica pesarese e internazionale. Classe 1934, era nato in una famiglia di origini contadini. Ben presto, però, mostrò la sua inclinazione verso il mondo dell’industria e della progettazione e nella vita divenne un grande imprenditore. Muovendo i primi passi come operaio letturista per l’Enel, Morbidelli costruì negli anni 50 un laboratorio di riparazione e costruzione di utensili in legno. Il suo laboratorio divenne in pochissimi anni un punto di riferimento per le aziende italiane e straniere. Nel 1965 trasformò la sua passione in lavoro aprendo la prima officina meccanica. In seguito iniziò a progettare delle Morbidelli da Gran Premio che vennero poi utilizzate nei Mondiali di motociclismo negli anni tra il 1969 e il 1981. A distanza di quasi un decennio spunta infine il Museo Morbidelli che accoglie al suo interno oltre 300 metri quadrati di esposizione di motociclette.

Il cordoglio. Matteo Ricci, il sindaco di Pesaro, ha accolto la tragica notizia con un messaggio: “Siamo profondamente addolorati. Perdiamo un genio assoluto della meccanica. Una figura fuori dal comune che con talento, coraggio e capacità uniche è stata capace di scrivere pagine indimenticabili nella storia del motociclismo e dei motori pesaresi, veicolandole con passione e grandi traguardi raggiunti a livello mondiale. Difficile sintetizzare il patrimonio umano rappresentato da Giancarlo e racchiuso nella sua esistenza. Mancherà a tutta la città. Siamo vicini alla famiglia in questo momento di dolore”.

·        Morto Benito Sarti, addio allo storico terzino della Juventus.

Morto Benito Sarti, addio allo storico terzino della Juventus. Martino Grassi il 04/02/2020 su Notizie.it. È morto Benito Sarti a 83 anni: ha giocato sei partite nella nazionale e vinto con la Juve tre scudetti, tre Coppe Italia e una Coppa delle Alpi. È morto a 83 anni Benito Sarti, lo storico terzino della Juventus nel decennio tra il 1959 e il 1968. La notizia arriva direttamente dalla Juventus che ha pubblicato una nota sul proprio sito ufficiale. Sarti era nato a Padova il 23 luglio 1936, da una famiglia di ortolani. Martedì 4 febbraio è venuto a mancare Benito Sarti, aveva 83 anni. Il terzino della Juventus prima di giocare nella squadra bianconera, aveva esordito in seria A nel Padova quando aveva solamente 19 anni. Aveva disputato due campionati con la Sampdoria, collezionando in totale 63 presenze.

La carriera. Solo qualche anno prima della scomparsa aveva rilasciato un’intervista alla rivista ufficiale della Vecchia Signora Hurrà Juventus in cui aveva raccontato il suo trasferimento a Torino e le emozioni provate dalla famiglia: “Pochi giorni prima di trasferirmi a Torino andai a trovare mio padre. Gli feci una sorpresa. Mi presentai all’alba al negozio e lui aveva le lacrime agli occhi. Stava leggendo sul giornale la notizia della mia cessione alla Juventus. Mi disse di non montarmi la testa, di continuare a vivere come avevo sempre fatto, allenandomi scrupolosamente, senza trascurare il minimo particolare”. A soli 23 anni è entrato a far parte della squadra bianconera che raccoglieva un successo dopo l’altro con Boniperti, Charles e Sivori. Ha disputato moltissime partite a fianco dei suoi compagni Castano, Leoncini, Garzena e Nicolè. Benito Sarti è rimasto alla storia anche per le sei partite giocate indossando la maglia azzurra e vincendo con la Juventus tre scudetti, tre Coppe Italia e una Coppa delle Alpi.

·        Morto Giovanni Cattaneo, è stato il primo «Capitan Findus».

Morto Giovanni Cattaneo, è stato il primo «Capitan Findus». Pubblicato mercoledì, 05 febbraio 2020 su Corriere.it. Si è spento Giovanni Cattaneo, l’attore che interpretò il primo «Capitan Findus» in Italia, il personaggio degli spot televisivi della nota marca di prodotti surgelati. Cattaneo, 84 anni, da tempo era ricoverato in un istituto geriatrico di Milano. «La gente mi fermava per strada e ancora adesso mi chiamano così», aveva raccontato in diverse intervista otto anni fa, quando aveva reso noto che era caduto in miseria dopo una serie di investimenti finiti male. «Mi hanno raggirato», diceva, «ho perso tutto e ora sono in mano agli avvocati». «Il mondo dello spettacolo mi piaceva, eppure nessun lavoro non mi ha mai fatto paura»,aveva detto Cattaneo al Il Giorno: «Mi alzavo alle 4 per andare a scaricare i camion all’Ortomercato, sono stato facchino, tassista, bagnino nelle piscine comunali, bibliotecario, bidello e maschera alla Scala. Per un periodo ho fatto anche il vigile, però non davo mai multe», precisa il protagonista dello spot che in Italia andò per la prima volta in onda nel 1978. «Gino Bramieri e mia madre mi dicevano: “Sei troppo buono”. La gente mi fermava per strada e mi chiedeva i soldi, ma ora sono io che li devo chiedere agli altri». «Facevo i fotoromanzi per Grand Hotel», aveva raccontato un’altra volta. «Avevo dei bei lineamenti, mi chiamavano Gianni l’amour per quanto piacevo ed ero dolce. Ma non mi sono mai sposato. Ho solo avuto una compagna che è rimasta con me per tredici anni e poi è morta di Alzheimer, non era amore ma un grande affetto che è il bene più grande».

Addio al primo Capitan Findus degli spot anni Settanta: Giovanni Cattaneo scomparso a Milano, aveva 84 anni. Era diventato famoso impersonando il capitano nella pubblicità dei bastoncini di pesce. Ma dopo alcuni rovesci economici, era finito a vivere in miseria in una casa popolare. Si è spento nell'istituto geriatrico Redaelli. La Repubblica il 5 febbraio 2020. E' morto Giovanni Cattaneo, il primo 'Capitan Findus' in Italia della pubblicità dei più famosi bastoncini di pesce: era stato lui, tra gli anni Settanta e Ottanta, a impersonare il capitano del peschereccio, la sua barba bianca e il berretto erano diventati un marchio di fabbrica. Aveva 84 anni, gli ultimi anni li aveva trascorsi all'istituto geriatrico Redaelli di Milano, dopo aver vissuto a lungo in una casa popolare del Corvetto con il suo cane: era finito in miseria, dopo rovesci finanziari, e viveva circondato dai ricordi, con la pensione di invalidità. "Non sono più quello di una volta, mi hanno truffato e qualche mese fa il mio appartamento è stato occupato da una famiglia di rom", aveva raccontato a Repubblica nel 2016. Perchè se la sua interpretazione più celebre era stata a 34 anni quella del capitano nella pubblicità, aveva poi lavorato anche come comparsa in alcuni film e aveva avuto alcuni ruoli in fotoromanzi, ma prima di quella pubblicità che gli aveva dato la fama aveva anche fatto il pasticciere, il tassista, il bagnino, la maschera alla Scala e il bidello. Le sue ceneri saranno sepolte nel Modenese accanto a quelle di suo fratello.

Da “il Giornale” il 6 febbraio 2020. È morto a 84 anni Giovanni Cattaneo, il primo Capitan Findus della pubblicità dei bastoncini di pesce nella tv a cavallo tra gli anni 70 e 80. Ricoverato all' Istituto geriatrico Piero Redaelli, a Milano, era sofferente da tempo. In più occasioni i media si erano occupati della sua triste sorte, ma il destino gli è rimasto avverso fino alla fine. Nell' ultimo periodo della sua vita ha vissuto in condizioni di indigenza in un alloggio popolare in via Pomposa, quartiere Corvetto, dove si era trasferito insieme al suo pastore tedesco dal nome originale, Commissario Com, dopo «essere caduto in miseria». Barba e capelli bianchi, cappello da marinaio in testa e un veliero in miniatura in soggiorno, nel cuore non aveva smesso di essere «il capitano». Raccontava di aver girato pubblicità, posato per i fotoromanzi, lavorato come comparsa e di aver abitato in una bella casa in zona Paolo Sarpi. Mostrava orgoglioso foto appese alle pareti, ritratti di Gino Bramieri, Tony Dallara, Macario, Miranda Martino e Nino Taranto. «Ma la cosa più bella è stata la parte di Capitan Findus», amava ripetere Cattaneo. Aggiungendo: «Al Corvetto mi sono trasferito dopo aver perso tutto perché dei cinesi mi hanno truffato». Malato da tempo, Cattaneo ha trascorso gli ultimi anni nell' istituto Redaelli. Le sue ceneri saranno portate al cimitero di San Michele dei Mucchietti, frazione di Sassuolo, in provincia di Modena.

·        Morto Kirk Douglas, aveva 103 anni.

Morto Kirk Douglas, aveva 103 anni. Pubblicato mercoledì, 05 febbraio 2020 su Corriere.it da Maurizio Porro, Paola Caruso e Paolo Mereghetti. Il leggendario attore, padre di Michael, si è spento a 103 anni. La notizia data da People che ha ricevuto una nota dal figlio. Era il decano degli attori hollywoodiani, il più anziano di tutti, capostipite di una dinastia. Aveva 103 anni Kirk Douglas, padre di Michael che ha dato l’annuncio della sua scomparsa: era malato da tempo e non si vedeva più da aprile. E si è spento . Ed è morto Spartacus, il sindacalista della Roma imperiale. E’ morto Ulisse, il globe trotter della Grecia omerica. E’ morto Van Gogh. Sono morti il cinico giornalista dell’«Asso nella manica», il boxeur che nel «Grande campione» non sa accettare la sconfitta, il cacciatore di pelli della vecchia frontiera del «Grande cielo», il produttore senza pietà del «Bruto e la bella» con Lana Turner. E’ morto l’ufficiale francese pacifista che si oppone alla follia bellica di «Orizzonti di gloria» di Kubrick, è morto il primo cow boy, il Doc Holliday di «Sfida all’OK Corral», e l’ultimo, quello che si scontra col cavallo contro le auto in «Solo sotto le stelle». E’ morto con Kirk Douglas l’uomo senza paura di quasi 90 film, un metro e 80 della Hollywood dei sogni. Ed anche il patriarca della dinastia con la fossetta nel mento: se egli vinse solo un Oscar alla carriera nel ‘96, dopo averlo perso per tre volte (tanto che la seconda moglie Anne gliene regalò uno falso), il figlio Michael (gli altri sono Eric, Joel e Peter), a sua volta attore e produttore, ha legato la fama a «Qualcuno volò sul nido del cuculo», «Wall street», «Basic instinct». Douglas, con i suoi caratteri ambiziosi e tormentati, è l’esempio classico del “self made actor”, ha servito a tavola per mantenersi agli studi; ha lottato, non solo metaforicamente, prima di affrontare lo show business, cominciando dalla radio e dal teatro (se ne sentiranno gli echi in «Il lutto si addice ad Elettra» di O’Neill e «Zoo di vetro» di Williams). All’anagrafe risultava Issur Danielovitch Demsky, nato ad Amsterdam (New York) il 9 dicembre 1916 da una famiglia poverissima di emigrati ebrei russi, in cui il papà straccivendolo doveva sfamare 7 figli. Altro che cinema. Il peso delle origini (e la riscoperta, in vecchiaia, dopo un pauroso incidente, della fede in Mosè e nella Torah) gli ha fatto inaugurare, nel secondo tempo della sua vita, il lavoro creativo dello scrittore, con un libro di memorie («Il figlio del venditore di stracci») e altri romanzi («The devil’s dance», «The gift», «Last tango in Brooklyn», editi da Sperling & Kupfer. Nei libri trasferisce giusti dubbi, rivendicando le mezze tinte di alcuni suoi personaggi non sempre senza macchia e senza paura. Anzi. Così come rivendica impegni sociali, ideologici ed ecologici contro la guerra e i razzismi di ogni ordine e grado. Fu bellissimo quando, nel ‘69, diretto da Elia Kazan, recitò il pubblicitario in crisi del «Compromesso», titolo doppiamente biografico in cui sono riassunti i dilemmi esistenziali dell’America ‘70. Ma per la gente Douglas è l’eroe che, in cinemascope e technicolor, lotta contro il mondo intero e spesso soccombe, un ruolo in cui l’attore mette un tocco di moderna ironia: il fiocinatore di «20.000 leghe sotto i mari» di Verne più Disney e il guerriero vichingo Einat cui cavano un occhio, mentre Van Gogh si tagliava l’orecchio, in «Un magnifico ceffo da galera» aveva una gamba sola e nell’«Uomo senza paura» era pieno di cicatrici: sadomasochismi e pene del contrappasso cinematografico. E’ Ulisse nel ‘54 per Camerini con una doppia Mangano (Circe e Penelope), primi tempi della Hollywood sul Tevere; e poi Spartacus (fu l’unico a girare con Kubrick due coraggiosi capolavori), che interpretò, produsse e protesse dagli attacchi isterici della Hollywood della caccia alle streghe, difendendo la sceneggiatura di Dalton Trumbo, nome della “black list” in odor di comunismo, ma licenziando Anthony Mann, che aveva iniziato le riprese. Ha parlato di cinema, col cinema, in compagnia del suo regista di fiducia Minnelli, che lo colorò con le migliori tinte del melodramma «fiction to fiction» nel «Bruto e la bella» e in «Due settimane in un’altra città», dove è un attore sul viale del tramonto a Roma. Il cinema in realtà lo scoprì col marchio Paramount e su raccomandazione di Lauren Bacall in un ottimo giallo-melò con Barbara Stanwyck «Lo strano amore di Martha Ivers», Hollywood nera del ‘46. Segue una carriera che, senza soste, affronta tutti i generi, in prevalenza l’azione, scegliendo spesso il cinismo dell’uomo senza scrupoli, ma anche la commedia («Lettera a tre mogli» di Mankiewicz, ‘49), la biografia d’arte («Brama di vivere») e quella jazz («Chimere» di Curtiz su Bix Beiderbeck con la Bacall e Doris Day), il film da corsa («Destino sull’asfalto»); il dramma dell’ispettore fanatico in («Pietà per i giusti» di Wyler) del maggiore americano che nella «Città spietata» fa assolvere quattro reclute accusate di stupro. Ha lavorato con i maggiori registi, ciascuno si è fidato e ha vinto: alla grande Billy Wilder col film più spietato sul giornalismo da scoop («L’asso nella manica»); ma anche Frankenheimer che lo pose nel complotto fantapolitico di «7 giorni a maggio» come il colonnello fedele agli States ma scontento di se stesso. Per il western ebbe una ricambiata passione intinta di senso del nevrotico: non solo fu uno splendido, tisico e alcolizzato Doc in «Sfida all’OK Corral» dichiarando eterna amicizia virile all’amico Burt Lancaster (con cui girò 7 film, fino a «Due tipi incorreggibili» dell’86), ma diresse con gusto anche «I giustizieri del West» nel ‘75. E nel curriculum della prateria non si possono dimenticare il bandito dell’«Occhio caldo del cielo» di Aldrich e il ladro del superbo «Uomini e cobra» di Mankiewicz, variazione sull’avidità dell’uomo. Tema che fu caro a Douglas, tanto che in finale di carriera, oltre ad alcune cose modeste tipo export girate anche in Italia, recitò un feroce zio ricco in «Greedy» con Michael J. Fox, oltre ad apparire in alcuni tv movies e progettare film con i figli, con cui stabilì un solido patto patriarcale, anche se non aveva un carattere facile, nè in famiglia nè sul set. «Mi hanno accusato di volere far sempre il regista» disse al momento di dirigere il suo primo film «almeno questa volta sapranno subito chi è il colpevole».

Addio a Spartaco Kirk Douglas. È morto oggi l'ultracentenario Kirk Douglas, padre di Micheal, divenuto celebre per il film Spartacus di Stanley Kubrick. Negli ultimi anni si era dedicato alla scrittura e alla lotta contro il razzismo. Francesco Curridori, giovedì 06/02/2020 su Il Giornale. “Io credo nell’immortalità. Io sono immortale perché una parte di me vive nei miei figli, ecco il concetto. Io non ho paura di morire”. L’ultracentenario Kirk Douglas, indimenticato protagonista di Spartacus e padre di Micheal, ci credeva veramente. Oggi, nel giorno della sua scomparsa, Hollywood non può che celebrarlo come un’icona immortale.

L'infanzia, gli inizi a Broadway e la guerra. Kirk Douglas nasce nel 1916 ad Amsterdam, nello stato di New York, col nome di Issur Demsky Danielovitch da una coppia di immigrati ebrei bielorussi. Trascorre un’infanzia di stenti e povertà tanto che intitola la sua autobiografia del 1988 Il figlio del venditore di stracci. Si laurea in Lettere, si diploma all'Accademia di arti drammatiche di New York e, poi, ottiene anche dei piccoli ruoli a Broadway. Un produttore gli consiglia di cambiare nome e così sceglie di chiamarsi Kirk come il personaggio di un fumetto e Douglas come la sua insegnante di dizione. Scoppia la Seconda Guerra Mondiale e nel 1941 l’attore esordiente diventa ufficiale delle comunicazioni dell’esercito americano. Nel 1944, dopo un incidente in elicottero, fa ritorno a casa da sua moglie Diana Dill che aveva sposato l'anno precedente. Da questo primo matrimonio, finito nel 1951 dopo appena 7 anni, nasceranno l’attore Michael Douglas (1944) e il produttore Joel Douglas (1947).

Gli esordi e le due nomination all'Oscar. Nel 1946 inizia la sua carriera cinematografica col film Lo strano amore di Marta Ivers dove interpreta un giovane procuratore distrettuale ma ottiene maggior successo ne Il grande campione che nel 1950 gli vale la sua prima nomination agli Oscar. La definitiva consacrazione arriva però un anno dopo col film L'asso nella manica di Billy Wilder dove Douglas interpreta un giornalista senza scrupoli che specula sul dramma di un minatore intrappolato dopo il crollo in una miniera. Nel 1952 recita la parte di un cinico produttore ne Il bruto e la bella che gli vale la sua seconda nomination agli Oscar. Due anni dopo fonda una sua casa di produzione, la Bryna Productions, chiamata così dal nome di sua madre. Sempre nel 1954 si sposa con la produttrice Anne Buydens, da cui ha altri due figli, Peter Vincent ed Eric, morto a 46 anni per abuso di stupefacenti. Nel 1956 è il pittore Vincent van Gogh nel film Brama di vivere, mentre è del 1957 Orizzonti di gloria, pellicola fortemente antimilitarista ispirata da un libro di Humphrey Cobb e diretta dal giovane Stanley Kubrick che nel 1960 sarà il suo regista anche in Spartacus. Il kolossal era stato scritto da Dalton Trumbo, uno sceneggiatore finito nelle liste nere del senatore McCarthy ma Douglas non volle sentire ragioni e gli impedì di firmare con uno pseudonimo. Negli anni ’70 recita in Il compromesso, di Elia Kazan, Uomini e cobra, di Joseph L. Mankiewicz ma soprattutto si cimenta nel ruolo di regista con Un magnifico ceffo da galera e con I giustizieri del West. Nel 1977 partecipa al film Holocaust 2000, di Alberto De Martino, poi Fury, di Brian De Palma, e Jack del Cactus, di Hal Needham. Dopo aver recitato in Saturn 3, Kirk, nel 1980, torna a lavorare con De Palma in Home Movies - Vizietti Familiari. Il 16 gennaio del 1981 il presidente Jimmy Carter gli consegna la Medaglia presidenziale della libertà. “Mica facile capire chi sei veramente, facendo questo mestiere. Ci riesci soltanto con la maturità. Prima no. Prima è inutile ti metta lì a raccontarti storie, che volere o volare ti identifichi più di quanto non credi, che fare l’attore o lo scrittore o il musicista è sempre una fuga dal mondo… Fare l’attore è un po’ come un ritorno all’infanzia, quando senti il desiderio di essere qualcun altro…” confessava in un’intervista rilasciata a Lina Coletti negli anni ’70.

Gli ultimi anni di Kirk Douglas. Del decennio successivo dirada notevolmente la sua presenza nel grande schermo e negli anni ’90 si fa apprezzare come scrittore dotato di un certo talento. Nel 1991 Douglas compare di nuovo sul grande schermo con Oscar - Un fidanzato per due figlie, di John Landis, e Veraz, di Xavier Castano e, nel 1994, recita accanto a Micheal J Fox nel film Caro zio Joe. Due anni più tardi si vede assegnato l'Oscar alla carriera ma viene colpito da un ictus. Nel libro My Stroke of Luck, Douglas rivelerà che quell’evento è stato "una benedizione" poiché "ho imparato a non dare nulla per scontato. Ora che la capacità di comunicare è rallentata posso pensare in maniera più accorta a quello che dirà la mia lingua. Sono fortunato a non essere rimasto completamente paralizzato e a non esser morto. Nonostante la depressione, finalmente apprezzo il dono della vita. A salvarmi sono stati lo humor e mia moglie Anne che tutti i giorni mi dice: Muovi il culo e scendi dal letto". Il suo penultimo film è Vizio di famiglia del 2003 dove recita il ruolo del padre del personaggio interpretato da suo figlio Michael. Di lui ha rivelato: “L’ho perdonato con una risata quando mi disse che ero troppo vecchio per il film che stava producendo, Qualcuno volò sul nido del cuculo, e diede la parte al bravissimo Jack Nicholson”. Kirk ha dedicato gli ultimi anni della sua vita, anche attraverso i social, alla lotta contro il razzismo subìto dagli afroamericani. A tal proposito, in una delle sue ultime interviste, ha detto: “Non possiamo cancellare errori gravissimi, ma dobbiamo per gli Usa e per il mondo sempre bandire ogni forma di discriminazione. Papa Francesco, ad esempio, lo dico da ebreo che lo ammira, è una grande persona valida per tutte le religioni”. 

 Kirk Douglas dona il suo patrimonio di 61 milioni di dollari in beneficenza ( e non lascia niente al figlio Michael). Pubblicato lunedì, 24 febbraio 2020 su Corriere.it da Francesco Tortora. In vita Kirk Douglas ha sempre finanziato associazioni caritatevoli. A quasi 20 giorni dalla sua morte il tabloid Mirror svela che l'indimenticabile attore americano ha donato l'intero patrimonio in beneficenza senza lasciare nulla a suo figlio Michael e ai nipoti. Un patrimonio di 61 milioni di dollari La star, scomparso il 5 febbraio all'età di 103 anni, possedeva un patrimonio di 61 milioni di dollari. La maggior parte dell'eredità (circa 51 milioni di dollari) sono stati destinati alla Fondazione Douglas, creata tanti anni fa dallo stesso Kirk e da sua moglie Anne per "aiutare le persone sole e in difficoltà". Tra i beneficiari della fondazione ci sono l'ateneo St. Lawrence University, che finanzierà borse di studio per studenti svantaggiati, il Tempio del Sinai di Westwood, che ospita il centro per l'infanzia "Kirk and Anne Douglas Childhood Center", il cinema restaurato "Kirk Douglas Theatre di Culver City e infine l'ospedale pediatrico di Los Angeles. Ma Michael ne ha 300...Non è chiaro a chi siano stati destinati i restanti 10 milioni, ma è certo che non saranno ereditati da Michael e dai nipoti. Michael non rimarrà certo al verde poiché durante la sua carriera di attore e produttore ha messo da parte un patrimonio di oltre 300 milioni di dollari. Pochi giorni dopo la scomparsa di sua padre la star di "Wall Street" e "Basic Instinct"  ha iniziato a fare campagna elettorale per Michael Bloomberg e ha partecipato a un banchetto a Quincy, nel Massachusetts: "Bloomberg è uno dei migliori candidati che abbiamo avuto negli ultimi 40 anni" ha dichiarato l'attore. 

Roberto Nepoti per repubblica.it il 6 febbraio 2020. Ne ha fatta di strada "il figlio dello straccivendolo" (così è intitolata la sua autobiografia, pubblicata nel 1988 da Simon & Schuster) da quando, il 9 dicembre di cento tre anni fa, vide la luce ad Amsterdam, cittadina dello stato di New York. È morto il leggendario attore di Hollywood Kirk Douglas, l'annuncio è stato dato dal figlio Michael che ha scritto: "Con immensa tristezza che io e i miei fratelli dobbiamo annunciare che Kirk Douglas ci ha lasciato a 103 anni". Allora portava l'impegnativo nome di Issur Danielovitch Demsky e si ritrovò catapultato in una famiglia di nove membri, ebrei bielorussi immigrati nel Paese delle possibilità. Secondo una vecchia leggenda, la fossetta sul mento sarebbe l'impronta dell'indice di un angelo, che voleva tenere il nascituro fuori dal mondo. Però non era ancora nato l'angelo capace di respingere il futuro Kirk Douglas: piccolo sì, ma destinato a crescere forte e atletico e a diventare un uomo senza paura, come recita il titolo di uno dei suoi western più celebri. L'espressione "larger-than-life" sembra coniata per descriverlo, eccessivo in tutto nel corpo (dal torace enorme a quella famosa fossetta di cui lui stesso, con humour, si burlava) come nel carattere, che gli valse la fama di produttore e attore tirannico sul set. E in effetti capitava che Kirk imponesse la sua volontà al regista; al punto di servirsi, spesso, di "yes men" pronti a mettere fedelmente in pratica le sue idee. O che non facessero osservazioni su una certa tendenza a sovrarecitare, che talvolta ne deprimeva le eccellenti doti di attore (e basterà ricordare L'asso nella manica o Brama di vivere, dove interpretò il proprio alter-ego depressivo, Vincent Van Gogh). È cosa nota, infatti, che Douglas si avvalse dei poteri di produttore-vedette per cacciare Anthony Mann dal set di Spartacus; e, a dire del regista Robert Aldrich, avrebbe anche massacrato in sede di montaggio il western L'occhio caldo del cielo. Ma se questi sono gli aspetti negativi della sua personalità dominante, a compensarli ci sono stati tanti altri "effetti collaterali" della stessa meritevoli di rispetto e, spesso, di ammirazione. Come le volte in cui Douglas sfruttò carisma e potere per ottime cause. Basterà ricordarne due. La prima riguarda Orizzonti di gloria, al quale il giovane Kubrick, per compiacere i produttori, sarebbe stato disposto a dare un finale più "soft" e accomodante. E invece Kirk tenne duro su quello originale, convincendo il regista ad andare contro la produzione e assicurando al film la sua durevole fama di capolavoro del cinema antimilitarista. Il secondo episodio riguarda la protezione agli sceneggiatori della "lista nera" Dalton Trumbo e Albert Maltz; e, in particolare, l'altro film generato dalla coppia Douglas-Kubrick, ovvero Spartacus. Messo al bando da Hollywood per la militanza comunista, Trumbo non poteva più autografare le sue celebri sceneggiature, che firmava con uno pseudonimo. Fu Douglas a risarcirlo del lungo silenzio, imponendo che fosse citato col suo vero nome nei titoli di Spartacus e ratificandone, così, la riammissione nel Writers Guild of America. Perché Kirk Douglas è sempre stato, in fondo, un po' eroe. Forse è questo il motivo per cui, nella fase più recente della sua lunga carriera, ha voluto interpretare quasi soltanto personaggi eroici. Ed è in fondo un peccato perché - attore tutt'altro che a senso unico - probabilmente non è mai stato così bravo come quando faceva il cattivo (Le catene della colpa, Le vie della città) o l'uomo maturo in crisi (Due settimane in un'altra città, Il compromesso). Vedette in oltre settanta film, oltreché Spartacus e Van Gogh il neo-centenario è stato Ulisse, Doc Holliday, il fiociniere di 20.000 leghe sotto i mari Ned Land e una quantità di altri personaggi, riuscendo ad adattare la sua splendida faccia da impunito ai ruoli più diversi. Grazie a questa versatilità ha vinto l'Oscar alla carriera e l'American Film Institute lo ha inserito al diciassettesimo posto tra le più grandi star della storia del cinema. Come cittadino, invece, ha mostrato un'assoluta coerenza: un liberal convinto, filantropo (tra l'altro ha fondato un centro per homeless) e sostenitore del partito democratico. Tanto che avrà sicuramente subìto una dura delusione per l'elezione alla presidenza di Donald Trump; che, in un'intervista sull’Huffington Post, aveva accostato all’ascesa di Hitler per la violenza dei toni e il razzismo. Quando ha compiuto un secolo, a chi gli chiedeva come intendesse festeggiare il centesimo compleanno, Douglas ha risposto: "Spero di avere intorno Michael e sua moglie Catherine e Anne e tutta la mia famiglia. E mi berrò un buon drink". "Il segreto della mia longevità? Interessarsi al prossimo" diceva in una delle ultime interviste. Lascia la moglie Anne Buydens con cui era sposato dal 1954.

Roberto Vivaldelli per ilgiornale.it il 6 febbraio 2020. Sparito dalla televisione, Chef Rubio torna ad affidarsi a Twitter per scatenare l'ennesima polemica che sta infiammando i social network. Nel mirino del cuoco più discusso d'Italia questa volta c'è Kirk Douglas, morto ieri all'età di 103 anni. Il leggendario attore e produttore, all’anagrafe Issur Danielovitch Demsky, nato ad Amsterdam (New York) il 9 dicembre 1916 da una famiglia poverissima di emigrati ebrei russi, è stato "salutato" da Chef Rubio in un tweet di commiato che sta facendo molto discutere: "Morto uno dei più grandi attori sionisti della storia. Grazie a lui il revisionismo religioso e storico è stato possibile anche su pellicola e il pubblico coccolato dalle bugie, ha così smesso di farsi domande e accettare passivamente tutto". Questa volta, però, anche chi lo segue lo bacchetta, e lui replica così: "L’ho scritto spesso e lo ribadisco nel commiato. È anche per colpa sua, dei suoi finanziamenti e per come la storia e la religione è stata impressa su pellicola col suo volto se oggi siamo così e se l’opinione pubblica non lotta per l’unico popolo al mondo ancora sotto assedio [quello palestinese]". Ma le polemiche su twitter proseguono, e Chef Rubio non demorde e passa al contrattacco. Questa volta in romanesco: "Quando dici la verità te rompono il cazzo, non c’è niente da fa. Anche se nel 2020 #ChefRubio secondo i sionisti è improvvisamente stronzo, la poranima de Kirke nel 2016 veniva elogiato e celebrato dai camerata sionisti. Verba volant, social manent #sionistisquadristi #fascisti". E ancora, in un altro tweet, sempre in romanesco: "Che poi non lo dico io che er poro Kirke era un sionista. Lo dicono i fatti! Me fa ride che i sionisti se vergognano d’esse tali e se je lo fai presente te danno dell’antisemita. Non volete sentirvi dire che siete fascisti repressi? Smettete di esserlo". Dallo scorso fine dicembre, come riporta Vanity Fair, Chef Rubio è a Gaza in Palestina per partecipare al progetto Gaza Freestyle, consociato al Centro Italiano di Scambio Culturale Vittorio Arrigoni-VIK, ovvero un gruppo di persone e volontari di diversa formazione il cui obiettivo "è organizzare progetti di emergenza umanitaria per aiutare la popolazione di Gaza". Come annunciato dallo stesso Chef Rubio sul suo sito internet, la sua permanenza a Gaza sarebbe continuata dopo Gaza Freestyle Festival, per documentare attraverso i social "l’impegno umanitario della collettività di operatori e gli sforzi di un popolo costretto a vivere sotto assedio".

Kirk Douglas rip. Marco Giusti per Dagospia il 6 febbraio 2020. Kirk Douglas era il mio attore preferito. Magari assieme a due miti assoluti come Burt Lancaster e James Stewart. Ma solo Kirk aveva quella rabbia in corpo, quel ghigno assurdo di chi sta a rosicare da tanto tempo, che gli faceva muovere tutto il corpo, il ciuffo e il mento con il buchetto tutto in avanti che montava scena dopo scena  e esplodeva nei suoi duelli finali o nei suoi scontri violentissimi con le donne. Non poteva che essere lui Spartacus, l’eroe popolare che guida la rivolta più vecchia del mondo degli schiavi e dei gladiatori nel capolavoro di Stanley Kubrick, ma prodotto da Kirk e scritto da Dalton Trumbo “Spartacus”. Guardate che rabbia mette nei suoi primi film, in “Le vie della città” di Byron Haskin con Burt Lancaster e nel capolavoro “Le catene della colpa” di Jacques Tourneur con Robert Mitchum. Senti il rosico di chi viene dal basso, dalla povertà, del resto era figlio di due profughi russi, con padre stracciarolo che aveva trasportato la famiglia dalla Biellorussia a New York. Quando Lauren Bacall lo aiuta nel cinema, presentandolo a Hal B. Wallis della Paramount non sapeva neanche dove andare a dormire. Ogni rapporto sulla scena, con uomini e donne, è uno scontro all’ultimo sangue. Janet Leigh non lo vuole ne “I vichinghi” di Richard Fleischer perché gli preferisce il fratellastro Tony Curtis? “Se non avrò il tuo amore allora avrò il tuo odio!” gli urla Kirk pronto a affettare Tony Curtis che gli ha fatto perdere un occhio strappato via dal suo falcone. “Odinoooo…” Come scordare quando balla senza controfigura si spera sui remi della nave vichinga… O se la spassa sulla nave di Ulisse costruita da Ponti e De Laurentiis che finirà poi sul Garda per le miserabili produzioni avventurose di Fortunato Misiano. Aveva fatto quel film per la cifra astronomica, allora, di 250 000 dollari, malgrado fosse amico di Carlo Ponti, e passa da lui, ad Amalfi, la luna di miele con la seconda e definitiva moglia, Diane, allora direttrice del bureau de presse del Festival di Cannes. Donna forte. Ma sullo schermo, guardate come tratta Jane Greer in “Le catene della colpa”, come è sempre competitivo con tutti i suoi partner maschili, a cominciare da Burt Lancaster. Era Kirk Douglas, mica una mammoletta alla Montgomery Clift o gli attori fighetti degli anni ’70. In “L’uomo senza paura” di King Vidor, altro capolavoro, sa come rollare una sigaretta rimanendo a cavallo. Un’intera generazione di giovani critici era sbalordita. Certo, Kirk montava su certo Pie, cavallo star di Hollywood che già aveva fatto i grandi western di James Stewart con Anthony Mann. Saremmo stati buoni tutti, diciamo, ma solo nel film di Vidor c’è una scena così e solo Kirk sa come recitarla. Anche in “Solo sotto le stelle” diretto da David Miller con una sceneggiatura meravigliosa di Dalton Trumbo, recita sempre a cavallo. Del resto è il suo film preferito, la storia di un vecchio cowboy che non si ritrova nell’America moderna e seguita a girare col suo cavallo mentre lo sceriffo Walter Matthau ha la passione di vedere i cani che pisciano e cacano per la strada. In “Asso nella manica” di Billy Wilder è il primo giornalista assatanato di successo che costruisce un caso mediatico su una storia minore non guardando in faccia nessuno. Billy Wilder sembra conoscerlo alla perfezione. Lo vuole anche per “Stalag 17”, ma rifiuta il ruolo da Oscar che va a William Holden. Hedda Hopper, dopo il successo di “Il grande campione”, 1949, gli dice “Adesso che sei una star, diventerai un vero figlio di mignotta”. “Sbagliato”, risponde Kirk, “Sono sempre stato un figlio di mignotta. Solo che non te ne sei mai accorta prima”. Domina gli anni ’50 di una Hollywood a cavallo tra film classici e campioni dell’Actor’s come nessun altro. Porta la sua rabbia in ogni genere di film. Vincent Minnelli lo vuole per “Il bruto e la bella”, dove è un produttore-padrone americano alla Val Lewton, ma anche per interpretare Vincent Van Gogh nel biopic “Brama di vivere” e per fare il regista premio Oscar in crisi in “Due settimane in un’altra città” che arriva a Roma con i suoi Oscar nella valigia. Howard Hawks gli affida un ruolo da esploratore avventuroso in “Il grande cielo”, che perderà un dito stupidamente in una scena che John Wayne non avrebbe mai fatto. Ma, pur da democratico, ha sempre rispettato John Wayne, come ha rispettato Charlton Heston. Richard Fleischer se lo ritrova come marinaio canterino (“Ho un paio di storie da raccontar…”) in “Ventimila leghe sotto i mari” per la Walt Disney e ne fa poi lo strepitoso fratello cattivo, ma non così cattivo, ne “I vichinghi”, addirittura figlio di Ernst Borgnine. Nessuno ha quel ghigno. Per farne una sorta di remake italiano con “Erik il vichingo” Mario Caiano affida lo stesso ruolo a Gordon Mitchell. Pauroso, ma meno di Kirk. Lavora con tutti i grandi registi di Hollywood. E’ Bix Beiderbecke in “Chimere” di Michael Curtiz, è il protagonista di un bellissimo western di Raoul Walsh, “Sabbie rosse”, assieme a Virginia Mayo, lo ritroviamo in “L’occhio caldo del cielo” di Robert Aldrich con un Rock Hudson grosso, invadente e non così carismatico. John Sturges se lo reinventa come Doc Holliday nel capolavoro “Sfida all’O.K. Corral”, dove è a fianco di Burt Lancaster come Wyatt Earp. Se Burt è un po’ legnoso, a causa del ruolo, Kirk è il miglior Doc Holliday di ogni tempo, romantico e truce al tempo stesso, l’unico in grado di reggere il confrono con Jo Van Fleet. Sturges gli offre anche il ruolo dello sceriffo protagonista di “Il giorno della vendetta”, che si ritrova la moglie indiana stuprata e uccisa dal figlio scemunito del potente Anthony Quinn. Altro che Liam Neeson… Ma qualsiasi ruolo sembra stargli stretto. E’ un personaggio sempre “bigger than life”. Sia nel western che nella commedia ha sempre qualcosa in più. Nel bellissimo “Noi due sconosciuti” di Richard Quine, dove è un architetto sposato innamorato di Kim Novack, le spiega e ci spiega come riesce a farsi la barba sul buchetto del suo mento. “Ho una lametta piccolissima fatta apposta…”. Da spettatore, non potevi che adorarlo, scordando che peste doveva essere sul set. Mario Camerini e tutta la troupe italiana di “Ulisse” lo odiava. Ma solo alla fine delle riprese Camerini lo chiamò sul set e gli disse quanto aveva rotto le palle a tutti durante le riprese. Fanatico. Non gli bastava fare l’attore, non gli bastava il successo. Quando diventò produttore e fece i suoi grandi film, “Orizzonti di gloria” e “Spartacus”, si permise di contestare Anthony Mann su “Spartacus” sostituendolo appunto con Kubrick, ma offrì anche il nome sui titoli di testa allo sceneggiatore Dalton Trumbo, che era stato “blacklisted” dai maccartisti e solo grazie a Kirk Douglas, e a Otto Preminger con “Exodus”, ritornò alla ribalta di Hollywood. Già dalla metà degli anni ’60 non sempre trova nel cinema di Hollywood i personaggi e gli umori giusti. Gira con Preminger “Prima vittoria”, è vero, ma non sono grandi titoli “Carovana di fuoco” o “I combattenti della notte”. Hollyood non è più la stessa, i registi non sono più gli stessi e lui è un personaggio ingombrante. Probabilmente sbaglia a rifiutare un film da Oscar, “Cat Ballou”, dove il suo ruolo lo prende Lee Marvin, e non riesce a girare lui stesso “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, che aveva fatto a teatro e lancerà come superstar Jack Nicholson. Arriva troppo presto e  col titolo sbagliato ai film di mafia, “La fratellanza” di Martin Ritt è un pre-Padrino che non avrà alcun successo. Elia Kazan gli fa sostituire ancora una volta Marlon Brando nel film autobiografico “Il compromesso” nel ruolo di Eddie Anderson. Brando si dice sconvolto dall’omicidio di Martin Luther King, ma forse non vuole fare il film. Kirk non c’entra nulla col personaggio e non si ritrova con Kazan. Costosissimo, con Faye Dunaway strapagata, il film è un disastro di critica e di pubblica. Kirk ha l’occasione d’oro di ritrovare Joseph Mankiwicz per uno strano e strepitoso western della New-Holluwood, “Uomini e cobra”, dove recita con Henry Fonda un copione scritto da Benton e Newman, gli stessi di “Gangster Story”. Mankiewicz avrebbe voluto Marlon Brando e Warren Beatty. Non ha torto. Fonda e Douglas, bravissimi, sono troppo vecchia Hollywood. Finisce in Italia in un due produzioni non così meravigliose, “Un uomo da rispettare” di Michele Lupo e “Holocaust 3000” di Alberto De Martino. Ma non è tanto meglio il fantascientico di Stanley Donen “Saturn 3” o il western mezzo comico “Jack del Catus”.  Dirige lui stesso due film, neanche male, “Scalawag – Un magnifico ceffo da galera” dove fa una sorta di Long John Silver, e il western politico “Posse” con Bruce Dern. Affronta in un duello mortale perfino Johnny Cash in un piccolo western sballato ma curioso, “Quattro tocchi di campana”. Sono due vecchi pistoleri che si incontrano solo per soldi. Ma uno dei due morirà. Di tutti i suoi ultimi film lo trovo strepitoso solo in “Fury” di Brian De Palma, dove se la vede con un malefico John Cassavetes e viene trattato come la star di Hollywood che era. Sopravvissuto a quattro anni di guerra, a un infarto, un terribile incidente d’elicottero, due operazioni all’anca, Kirk Douglas non è stato solo una grande star della Hollywood più classica, perché ha provato sempre a cambiare le regole, a imporre temi forti, la brutalità della guerra, il bisogno di libertà dalla schiavitù di ogni tipo, a lavorare con sceneggiatori e registi scomodi. Onore a Kirk Douglas, un uomo, come ha sempre detto di se stesso, “troppo vecchio per cambiare. Come Braccio di ferro, sono quello che sono. Amami o odiami, ma non posso esserti indifferente”.

Il ricordo. Ritratto di Kirk Douglas, attore che ha scritto la storia del cinema. Paolo Guzzanti de Il Riformista il 7 Febbraio 2020.  Non si smette mai di nascere né di morire e Kirk Douglas ha seguitato a nascere come un campione umano e alla fine ha ceduto a 103 anni, numero che non è in grado a rendere meno triste il vuoto. Se ne va un piccolo emigrato ebreo russo dal nome di famiglia impronunciabile e che era diventato il campione del maschio americano che sa battersi al revolver nell’O.K. Corral (aveva imparato a sparare i sei colpi della sua colt alla velocità dei più bravi pistoleros) e che dopo aver lottato, arato, seminato, difeso la sua terra e la sua gente, poi spende le sue energie per aiutare il prossimo. Oggi si chiama volontariato, ma all’epoca di Kirk si chiamava filantropia e così Michael il figlio lo ha subito ricordato: mio padre, il filantropo, l’uomo che aiutava gli uomini e che allo stesso tempo credeva nella forza maschia e gentile al tempo stesso. Quando girava Lust for Life, un magnifico film sulla vita di Van Gogh fu inghiottito dal personaggio e dalla sua fame di suicidio e di autolesionismo: «Ero diventato identico a lui, avevo la sua faccia e il suo pensiero, la sua barba e i suoi occhi, ero lui e non riuscivo ad uscire fuori e tornare me stesso. Per anni, poi, non sono riuscito a vedere quel film, perché mi dava un disturbo profondo». E fu così che John Wayne, che passa nell’immaginario hollywoodiano per il super macho con la pistola e col pugno (in realtà fu riformato e non poté andare in guerra, benché abbia vestito per il cinema tutte le uniformi da combattimento) quando lo vide a pezzi per la performance su Van Gogh gli disse: «Cristo, Kirk! Ma tu non puoi ammazzarti così per un personaggio! Non devi distruggerti per fare il cinema». E la risposta fu: «Invece secondo me i personaggi devono essere durissimi, gente tosta e non roba per checche come fai tu. La gente deve sentire il peso della tua sofferenza». E vestiva gli abiti di Van Gogh con un paio di scarpe pesantissime e mostruose di cui una slacciata affinché lo costringesse a sbilanciarsi e soffrire. Non era di sinistra, ma reagì al maccartismo offrendo asilo a tutti gli sceneggiatori, registi e attori che la commissione contro le attività antiamericane presieduta dal senatore McCarthy aveva messo in mezzo alla strada. Con una serie di società, sigle, studios e la sua rete di amici permise a tutte le vittime della cosiddetta caccia alle streghe (come la chiamò nel suo famoso testo teatrale Arthur Miller, secondo marito di Marilyn Monroe) di superare la fase della repressione con il minor numero di danni possibile. Kirk (che era nato a New York col nome di Issur Danielovitch e poi Isadore Demsky, venendo da una famiglia che portava nella memoria la povertà ebraica e il peso delle persecuzioni che l’aveva costretta a trasferirsi in Olanda) fu quanto di più americano l’America potesse dare a se stessa. È stato l’uomo che ha ricostruito il suo corpo con una disciplina spartana e lo ha fatto per interpretare Spartacus e diventare uno schiavo ribelle e disciplinato allo stesso tempo. Non ebbe mai un vero Oscar ma molte nomination perché all’ultimo momento la statuetta andava a qualcun altro e così nel 1999 l’American Film Institute lo celebrò a modo suo dandogli un posto in classifica fra le più grandi star della storia del cinema e gli assegnò un onorevole diciassettesimo posto. Non era stato molto contento. In compenso ci teneva fino alla fine ad essere gradito alle donne e ad amare le donne. Disse pubblicamente, ormai centenario, che gli sarebbe piaciuto «incontrare Angelina Jolie, sempre che mia moglie me lo permetta». Da vero americano venne su dal nulla e ormai famoso dovette affrontare e superare un ictus. Ma all’inizio fece un mestiere europeo, da povero ebreo: il trovarobe, il rigattiere che raccoglie ciò che gli altri scartano, per rimettere in buona salute oggetti condannati e farli rivivere. È morto, ci hanno subito informato nella notte di mercoledì, nella sua bella casa di Beverly Hills e non sappiamo come si sia spento, anche se evidentemente Michael e gli altri figli e amici lo sapevano ed erano lì. Michael aveva pronta una bella dichiarazione che aveva letto in precedenza allo stesso padre in cui ricorda la violenza della morte non importa a quale età arrivi e il vuoto che provoca proprio perché aspettata. Ha fatto in tempo, ha detto, a far capire al padre quanto gli fosse grato e quanto andasse fiero di lui. Proud of you, una delle espressioni più banali in fondo, del lessico americano, ma in questo caso certamente vero perché padre e figlio si sono guardati nello specchio molto a lungo. La sua qualità? La dedizione suicida e auto-antropofaga di essere il personaggio. Di soffrirlo in tutto il suo dolore (prevalentemente). Così è stato nei due magnifici film di Kubrick Paths of Glory e Spartacus. Due crocefissioni sul set, se così si può dire. Nel primo, era un ufficiale francese che vanamente spende la sua passione per salvare da una ingiusta esecuzione tre soldati vittime della sclerotica burocrazia militare. Nel secondo è l’eroe ribelle che porta gli schiavi alla riscossa e si trasforma in un capro espiatorio, un combattente spietato e consapevole. Ma più che altro credibile. Questo era il suo brand: la credibilità della sua “personification” che non era recitazione, ma incarnazione prima di tutto della sofferenza e raramente della gioia. Il capolavoro per cui la mia generazione l’ha amato, insieme a Burt Lancaster nei panni di Wyatt Earp fu la Sfida all’O.K. Corral dove lui impersonava lo sceriffo Doc Holliday, che sconsiglia l’amico Wyatt di reagire alle provocazioni e ai delitti di Ringo, finché scocca l’ora della verità. L’ora della verità è la più famosa, epica, emozionante, credibile sparatoria western della storia del cinema e dura sullo schermo per undici minuti. La sparatoria avvenne davvero, il fatto è storico: accadde il 26 ottobre 1881, ma non nell’ampiezza agricola del Corral ma in una stradina adiacente e durò soltanto 27 secondi, durante i quali tutte le armi fecero fuoco e tutti i corpi caddero. La ricostruzione storica del film è completamente stravolta e non vale nemmeno la pena di raccontare come andarono veramente le cose, perché quel che conta è ciò che questi magnifici attori misero sullo schermo nel 1957. A quei tempi io finivo il liceo e posso testimoniare che il mondo era solo parzialmente americano: l’anno precedente c’era stata la repressione sovietica in Ungheria, la guerra di Suez e il ventesimo congresso del Pcus con la destalinizzazione. L’America era lontana ma vicinissima con tutti i suoi prodotti mediatici ed eroici perché la guerra era finita da poco più di un decennio ed erano ancora tutti vivi e giovani coloro che erano sopravvissuti. La memoria americana era profondamente legata alla guerra passata e ai fasti della sua epica cinematografica. L’intellighenzia italiana di sinistra anche comunista vedeva benissimo la portata della cinematografia americana e Kirk Douglas non appariva soltanto come una star, il famoso attore di Hollywood, ma come una delle grandi presenze americane nell’immaginario europeo e italiano, per quel che ci riguarda. Tutti questi grandi personaggi dello schermo epico di Hollywood apparivano giovani, forti, le donne straordinariamente belle, i character, i personaggi presentavano quasi sempre il bene e il male sullo stesso piatto, ben distinguibili, sapevi per chi tifare, mentre da noi in Europa e in Italia serpeggiava il dubbio, il bifidismo ideologico. Tuttavia, questa sensazione di allora oggi va corretta e la morte di Douglas padre può essere un’occasione. Quest’uomo ha avuto alcune fortune: ha amato moltissimo sua moglie che lo ricambiava e che è morta dopo aver compiuto cento anni: Anne Buydens e Kirk fecero in tempo a celebrare le nozze di pietra a 65 anni di matrimonio. La longevità in certe persone appare come un segno di merito, di tenacia, di capacità di battersi e non soltanto di sopravvivere. Oggi possiamo guardare a Kirk cercando di immaginarlo come sarebbe stato se suo padre non fosse fuggito ad Amsterdam e poi a New York e se fosse rimasto il gracile bambino ebreo che era, senza potersi trasformare nel combattente Spartacus, nell’amico dello sceriffo, nel pittore logorato dalla tentazione del suicidio. Non sappiamo quanti Kirk Douglas non diventarono mai ciò che avrebbero potuto e voluto essere. È stato dunque un eroe americano anche per tutto ciò che ha portato da fuori per sembrare americano al punto da costringere l’America a rispecchiarsi in lui, che ai nastri di partenza non aveva nulla di americano. Come è successo ai grandi mostri cinematografici americani di discendenza italiana, Quentin Tarantino, Francis Coppola, Robert De Niro, Pesce, Al Pacino e tutti gli altri che hanno formato non un’America italiana, ma una America sempre più americana ma avida di nuove radici, fiera di tutti e oggi memore incantata dalla fine di una delle ultimissime grandi star dei tempi di Gregory Peck, di Spencer Tracy, Burt Lancaster, Jimmy Stewart e ci fermiamo qui perché quell’Ade di figure fantastiche e vivissime è ormai popolato quasi soltanto di ricordi, di eroi, di gente spesso meschina ma più spesso ancora con qualcosa di speciale nella mente e nel modo di mettere in scena la vita, la morte, la sfida, la malattia, la rivolta, l’ingiustizia, il sacrificio, il revolver di Kirk Douglas che in tempo reale vuota il suo tamburo dei sei colpi di Colt che fanno la differenza non soltanto nell’O.K. Corral, ma nella storia dei nostri tempi.

·        Morto Paolo Guerra, storico agente e produttore.

Marco Giusti per Dagospia il 6 febbraio 2020. Potevamo capirlo vedendo il finale triste di “Odio l’estate”, l’ultimo film di Aldo, Giovanni e Giacomo. Quella tristezza era dedicata alla malattia inesorabile che aveva colpito il loro storico agente e produttore, Paolo Guerra, fondatore della Agidi, con la quale aveva realizzato tutto i film del trio, fin dal primissimo, “Tre uomini e una gamba”. Storico agente di attori e cantanti, promoter di concerti anche internazionali, potente produttore cinematografico, Paolo Guerra, 70 anni, se ne va nella sua Modena che non aveva mai lasciato. Nella sua lunga e fortunata carriera, assieme alla moglie Emanuela Rossi, aveva curato artisti del calibro di Paolo Rossi, Enzo Jannacci, Angela Finocchiaro, Bebo Storti, Raul Cremona, Enrico Ruggeri. Aveva portato in giro in Italia gruppi storici come Siouxsie and the Banshee, The Lounge Lizards, Echo and the Bunnymen. Il suo capolavoro fu però puntare sulla comicità di Aldo, Giovanni e Giacomo, che seguiva fin dai tempi del programma di Rai Tre “Su la testa” con Paolo Rossi e Cochi e “Cielito lindo” con Claudio Bisio. Quando altri produttori cinematografici pensarono a lanciarli in un film, Paolo Guerra preferì tenerseli per sé e diventare lui il loro produttore. Nacque così nel 1997 “Tre uomini e una gamba”, diretto da Massimo Venier, primo film prodotto da Paolo Guerra, un successo da 45 miliardi di lire del tempo, paragonabile solo a quello dei film di Checco Zalone prodotti da Pietro Valsecchi. Con la differenza che Paolo Guerra, oltre a averli seguiti fin dagli esordi teatrali, era produttore in proprio, e non era l’esecutivo di Medusa. Dovendo gestire un miracolo comico del genere, Guerra spostò molte delle sue attività nel cinema, ottenendo nuovi successi con i successivi film del trio, “Così è la vita”, ancora con Marina Massironi, “Chiedimi se sono felice”, dove, oltre alla Massironi, troviamo Paola Cortellesi e il duo comico siciliano Ficcara e Picone. E’ poi la volta di “La leggenda di Al, John e Jack”, e “Tu la conosci Claudio”, sempre diretto da Massimo Venier con il lancio ufficiale di Paola Cortellesi. Con “Il cosmo sul comò”, Paolo guerra sostituì Venier alla regia con Marcello Cesena, poi con Paolo genovese per “La banda dei Babbi Natale”, che fu un grande successo e lanciò al cinema Angela Finocchiaro. Cià lo convinse a produrre un intero film dedicato alla Finocchiaro, “Ci vuole un fisico”, diretto da Sophie Chiarello con Giovanni Storti e Elio come partner maschili, ma non fu un successo. Eì poi la volta di “Il ricco, il povero e il maggiordomo” diretto da Morgan Bertacca con il trio e Francesca Neri. Con “Fuga da Reuma Park”, diretto ancora da Morgan Bertacca sembrava esaurita la vena comica di Aldo, Giovanni e Giacomo, ma il successo del recente “Odio l’estate”, che vede il ritorno alla regia di Massimo Venier, sembra un po’ della vecchia magia sia tornata. Per Aldo, Giovanni e Giacomo perdere Paolo Guerra è qualcosa di molto di più di perdere un agente o un produttore.

·        Harriet Frank Jr rip.

Marco Giusti per Dagospia il 29 gennaio 2020. Se ne va una delle più grandi sceneggiatrici di Hollywood, Harriet Frank Jr, 96 anni. A lei si devono dei grandi classici del cinema come “Hud il selvaggio”, “Hombre”, “La lunga estate calda”, tutti con Paul Newman,  “A casa dopo l’uragano” con Robert Mitchum, “I Cowboys”, uno dei rari western dove John Wayne muore, ma anche tanti film innovativi e coraggiosi come “Norma Rae” con Sally Field, “Conrack” con Jon Voight, fino a “Lettere d’amore” con Robert De Niro e Jane Fonda. Assieme al marito Irving Ravetch, che se ne è andato dieci anni fa, ha scritto e in parte prodotto ben 21 film, portando al cinema grandi romanzi di William Faulkner, William Inge, Elomre Leonard e Larry McMurtry. Fondamentale, per Hollywood, fu il loro rapporto con il regista Martin Ritt, appena uscito dal maccartismo, col quale fecero otto film, da “La lunga estate calda” a “Lettere d’amore”, e con Paul Newman, che in gran parte ne fu protagonista spesso insieme alla moglie Joanne Woodward. Nata come Harriet Goldstein a Portland, Oregon, nel 1923 (anche se altre fonti riportano 1917), figlia di un venditore di scarpe e di una mamma con voglie letterarie, fu proprio la madre, dopo aver cambiato il nome della famiglia da Goldstein in Frank, a spostare tutti a Los Angeles dove lei aveva trovato lavoro come story editor per la MGM. Fu a Hollywood, dove era stata assunta nella scuola per sceneggiatori della MGM, che Harriet incontrò il futuro marito Irving Ravetch, che sposò nel 1946, anche se dopo la luna di miele, raccontava, scoprirono di essere stati licenziati tutti e due. Passarono così alla Warner Bros. Giovanissima, se è vero che è nata nel 1923 e non nel 1917, Harriet Frank si fa le ossa con una serie di western della Warner, cominciando con un vero e porprio capolavoro come “Silver River” di Raoul Walsh con Errol Flynn, ma scive pure “Ten Wanted Men” di H. Bruce Humberstone “Whiplash” di Lewis Seiler e “All’ombra del patibolo” di Nicholas Ray con James Cagney, che fu anche il primo film che firma assieme al marito, Irving Ravetch. Con “La lunga estate calda”, 1958, tratto dal romanzo di William Faulkner, inizia la loro collaborazione con Martin Ritt, Paul Nwman e Joanne Woodward. Non è solo un grande successo, dimostra anche che Hollywood può trattare i classici letterari moderni a livello popolare. Di Faulkner, ammettevano gli stessi sceneggiatori, rimaneva poco, ma il pubblico apprezzò molto. Ripetono l’operazione con “L’urlo e la furia”, sempre di Ritt con Joanne Woodward e Yul Brynner al posto di Paul Newman. Fu un successo anche “A casa dopo l’uragano” diretto da Vincente Minnelli con Robert Mitchum, Eleanor Parker e George Peppard per la MGM, ma di certo fu più innovativo “Hud il selvaggio” diretto da Martin Ritt con Paul Newman e Patricia Neal, dove portarono per la prima volta in scena un romanzo di Larry McMurtry, allora giovane scrittore western. Fu poi la volta di “Hombre”, grandioso western di Martin Ritt con Paul Newman e Richard Boone. Firmarono con lo pseudonimo “James P. Bonner” i film che forse non vedevano in linea con il loro lavoro più impegnato, come “Il castello di carte” di John  Guillermin con George Peppard e Orson Welles, “Il caso Carey” di Blake Edwards con James Coburn, tratto da un racconto di Michael Crichton. Tornarono a Faulkner con “Boon il saccheggiatore” di Mark Rydell con Steve McQueen, al western con l’ottimo “I cowboys” di Mark Rydell con John Wayne e con “La banda di Harry Spikes” di Richard Fleischer con Lee Marvin. Ma furono lavori maggiori, premiatissimi, anche se mai con l’Oscar, malgrado le tante nominations, “Conrack” e “Norma Rae” di Martin Ritt, dove trattorono temi sociali importanti. Con Martin Ritt girarono ancora “L’amore di Murphy” con Sally Field” e “Letter d’amore”, 1990, con Jane Fonda e Robert De Niro, che fu l’ultimo film sia per Ritt, che morì poco dopo, sia per loro. Rispetto al loro metodo di lavoro, raccontavano: "È davvero una pura collaborazione nel senso che ci riuniamo, parliamo a lungo esaustivamente dei problemi della stori, facciamo una sorta di scaletta insieme e ogni parola è davvero soppesata per l'approvazione di entrambi. La sceneggiatura non è tanto scritta quanto è parlata sulla pagina”.

·        Kobe Bryant è morto.

Da corriere.it il 27 gennaio 2020. Kobe Bryant sarebbe morto domenica 26 gennaio in un incidente di elicottero a Calabasas, in California, alle 10 del mattino, ora locale, le 19 italiane. Lo annuncia il sito americano TMZ specializzato nel gossip sulle star e non solo. Diverse persone, almeno quattro, sono rimaste vittime dell’incidente, secondo altre fonti locali che non confermano però la presenza del campione NBA. A bordo, sostiene sempre TMZ, non ci sarebbe stata la moglie di Bryant, Vanessa.

Da gazzetta.it il 27 gennaio 2020. L'ex stella Nba Kobe Bryant è morto a 41 anni dopo un incidente in elicottero a Calabasas, secondo quanto riporta l'americana Tmz. Il velivolo si sarebbe schiantato al suolo intorno alle 19 italiane e avrebbe preso fuoco, provocando la morte dell'ex cestista e di altre persone che erano con lui. Proprio nella notte, la leggenda dei Los Angeles Lakers, cinque anelli, due Mvp delle Finals e un Mvp della stagione regolare, era stato superato come terzo massimo realizzatore di sempre in Nba da LeBron James. Lo stesso Kobe si era complimentato in mattinata con il 23 dei Lakers. Poi la tragedia. "ITALIANO” Kobe era nato negli Stati Uniti, ma ha trascorso parte dell'infanzia e dell'adolescenza (dai 6 ai 13 anni) in Italia al seguito del padre, anche lui giocatore di pallacanestro. Parlava fluentemente la nostra lingua ed era un gran tifoso del Milan. Lascia quattro figlie.

Kobe Bryant morto, il drammatico messaggio dei soccorritori dopo lo schianto in elicottero. Libero Quotidiano il 26 Gennaio 2020. Una notizia che sconvolge il mondo: morto a 41 anni Kobe Bryant, la leggenda del basket Nba, che con i Los Angeles Lakers aveva vinto tutto, dominando la lega per anni. Morto, insieme alla figlia Gianna ed altre tre persone, in uno schianto in elicottero, in California, forse dovuto anche al maltempo. Una tragedia che lascia senza parole. A dare per primo la notizia è stato il portale statunitense Tmz. Successivamente sono filtrate anche le immagini dal luogo dello schianto dell'elicottero di Bryant: una lunga colonna di fumo, morte, desolazione. E ora, sempre Tmz, ha diffuso l'audio in cui si può sentire l'operatore del 911 dirigere sul luogo della tragedia i soccorsi e il personale che ha gestito l'emergenza.

Kobe Bryant, il video ravvicinato dei soccorsi: dell'elicottero non è rimasto nulla. Libero Quotidiano il 27 Gennaio 2020. Dell'elicottero su cui viaggiavano Kobe Bryant, la figlia tredicenne e altre tre persone (anche se le autorità sospettano che potessero essere addirittura nove in totale) è rimasto soprattutto cenere e fumo. Una tragedia immane, quella che ha colpito il mito della pallacanestro mondiale e la sua famiglia, con la moglie Vanessa che si ritrova da sola con le altre tre figlie. In queste ore il mondo cestistico e non si è fermato per rendere omaggio a Kobe. Addirittura lo Staples Center, arena dei Los Angeles Lakers in cui Bryant ha trascorso tutta la sua carriera, si è trasformato in una sorta di luogo di culto in cui migliaia di persone si stanno raccogliendo nella memoria del loro idolo. 

Basket, è morto Kobe Bryant: schianto in elicottero per la leggenda Nba. Redazione de Il Riformista il 26 Gennaio 2020. Una tragedia immane colpisce il mondo del basket. Kobe Bryant, stella della pallacanestro Usa e simbolo dei Los Angeles Lakers, è morto in un incidente in elicottero assieme alla figlia Gianna, di 13 anni. A riportare la notizia è il sito TMZ, secondo cui tutti gli occupanti dell’elicottero sono deceduti nell’incidente. L’elicottero di proprietà dell’ex cestista, ritiratosi dal basket nel 2016, si è schiantato nei pressi di Calabasas, a nord ovest di Los Angeles. La moglie Vanessa non è tra le vittime, così come le altre tre figlie Natalia, Bianca e Capri. Kobe Bryant e la figlia si stavano dirigendo in elicottero alla Mamba Academy per un allenamento mattutino.

LA NOTA UFFICIALE SULL’INCIDENTE – Con un comunicato stampa Daryl Osby, capo dei Vigili del Fuoco della Contea di Los Angeles, ed Eliot Simpson, rappresentante dell’agenzia investigativa del Governo USA NTSB, hanno rilasciato le prime dichiarazioni sull’accaduto: “Alle 9.47 (18.47 italiane, ndr) di questa mattina il 911 ha ricevuto una telefonata: segnalavano un elicottero che ha preso fuoco. A bordo dell’elicottero c’erano nove persone: il pilota e altre otto. Al momento, però, è del tutto inappropriato identificare i soggetti con il loro nome, lo faremo in una fase successiva. Per quanto riguarda le cause dell’incidente, è di competenza della NTSB (un’agenzia investigativa indipendente del Governo USA, che indaga sugli incidenti relativi ad aerei, navi, treni e gasdotti, ndr) spiegare certe sfumature. Siamo in attesa delle loro comunicazioni”. “Pompieri e paramedici hanno collaborato sul luogo dell’incidente, abbiamo optato per l’intervento dei secondi per provare a individuare eventuali sopravvissuti. Abbiamo impiegato un’ora per spegnere l’incendio, la presenza di magnesio ha di gran lunga peggiorato la situazione determinando un aumento delle fiamme. Prima di procedere con qualsiasi annuncio relativo alle persone che erano a bordo, attendiamo la fine delle indagini”.

I TRIONFI IN CARRIERA – Con i Lakers Bryant ha vinto cinque titoli Nba, oltre a due Olimpiadi (Pechino 2008 e Londra 2012). Ha partecipato per 18 volte agli All-Star Game, durante i suoi 20 anni di carriera con i Lakers, vincendo anche 2 Mvp delle finali Nba e  l’Mvp della Regular Season del 2008. E’ stato incluso in 15 All-Star Team. Bryant decise di adottare il soprannome di "Black Mamba" dopo aver visto "Kill Bill: Volume 2", pellicola in cui è presente il mamba nero (in inglese Black Mamba) e in cui vengono descritte le sue caratteristiche. Per il cestita il suo modo di giocare a basket era simile a quello di adottato dall’animale nel film di Quentin Tarantino. Bryant è il quarto tra i migliori marcatori della storia dell’Nba con 33.643 punti. Soltanto sabato notte era stato superato da LeBron James al terzo posto nella classifica dei giocatori che hanno segnato di più nella storia della Nba. IL LEGAME CON L’ITALIA – Il cestita da sempre era legato all’Italia: ha vissuto nel Belpaese dai 6 fino ai 13 anni di età, seguendo gli spostamenti del padre Joe Bryant che giocava nel nostro campionato, tanto da parlare perfettamente l’italiano. Tra il 1984 e il 1991 passò da Rieti a Reggio Calabria, per proseguire a Pistoia e infine a Reggio Emilia.

Morte Kobe Bryant, l’elicottero viaggiava a 300 km/h: la nebbia probabile causa dell’incidente. Redazione de Il Riformista il 27 Gennaio 2020. Il medico legale della contea di Los Angeles, Jonathan Lucas, ha affermato che il terreno accidentato ha complicato gli sforzi per recuperare i resti della leggenda del basket Nba Kobe Bryant, della figlia 13enne  Gianna e delle altre sette persone a bordo dell’elicottero schiantatosi ieri nei pressi della metropoli californiana. Il medico stimato in almeno un paio di giorni il tempo necessario completare l’attività prima di poter effettuare le identificazioni dei corpi. Intanto le autorità locali hanno reso noto ulteriori dettagli del tragico incidente. L’elicottero di Bryant ha lasciato Santa Ana nella Contea di Orange, a sud di Los Angeles, poco dopo le 9 del mattino ora locale virando a est dell’Interstate 5, vicino a Glendale. I controllori del traffico aereo hanno notato una scarsa visibilità intorno alla zona.

L’ELICOTTERO VIAGGIAVA A 300 KM/H – Poco dopo le 9.40 (ora locale), l’elicottero, salito intanto a oltre 609 metri di quota si è schiantato su una collina alta circa 420 metri, secondo i dati di Flightradar24. Quando ha colpito il suolo, l’elicottero stava volando a circa 160 nodi (296 km/h) e scendendo a una velocità di oltre 1219 metri al minuto. L’elicottero si è schiantato a Calabasas, a circa 30 miglia (48 chilometri) a nord-ovest del centro di Los Angeles. Gli investigatori federali stavano arrivando sulla scena. Tra le altre cose, esamineranno la storia del pilota, i registri di manutenzione dell’elicottero, i registri del proprietario e dell’operatore, ha spiegato il membro del consiglio di amministrazione della NTSB Jennifer Homendy in una conferenza stampa.

L’IPOTESI: SCHIANTO A CAUSA DELLA NEBBIA – Kurt Deetz, un pilota che faceva volare Bryant sul suo elicottero, ha affermato che l’incidente è stato probabilmente causato dalle condizioni meteorologiche avverse piuttosto che da problemi meccanici. “La probabilità di un guasto del motore gemello su quell’aeromobile? Semplicemente non accade”, ha detto al Los Angeles Times. Il Consiglio nazionale per la sicurezza dei trasporti, infine, in genere pubblica entro 10 giorni un rapporto preliminare che fornirà un sommario approssimativo di ciò che gli investigatori hanno appreso. Ma una rapporto completo sulla causa dell’incidente può richiedere un anno o più. LE ALTRE VITTIME – C’è era anche l’allenatore di baseball John Altobelli, 56 anni, fra le vittime del tragico incidente di elicottero in cui hanno perso la vita la ex star del basket NBA Kobe Bryant, 41 anni, e la figlia Gianna di 13. Lo ha confermato ad AP Tony Altobelli, fratello minore dell’allenatore di Orange Coast College. Morti anche la moglie Keri e la figlia Alyssa, che aveva circa 13 anni e giocava nella stessa squadra di basket della figlia di Bryant. Il sindaco di Costa Mesa, Katrina Foley, ha reso noto via Twitter i nomi delle altre persone decedute nell’incidente. Si tratta di Christina Mauser, un’allenatrice di pallacanestro femminile in una vicina scuola elementare privata, e suo marito, Matt Mauser, fondatore dei Tijuana Dogs, una popolare band dell’ Orange County.

Davide Chinellato per gazzetta.it il 27 gennaio 2020. Sarebbe il maltempo, la fitta nebbia che avvolgeva la zona, la causa più probabile dell’incidente in cui sono morti Kobe Bryant e altre 8 persone, compresa la figlia 13enne Gianna, secondo quanto fatto capire dallo sceriffo della contea di Los Angeles in una conferenza stampa nella serata californiana. Domenica mattina la visibilità era talmente bassa che la polizia di Los Angeles ha tenuto a terra i propri elicotteri. Quello della leggenda dei Lakers invece, partito alle 9:06 dall’aeroporto John Wayne di Orange County, si era alzato e si è schiantato poco più di 40’ dopo nella zona di Calabasas, a ovest di Los Angeles, dopo aver sorvolato la città. L’elicottero di Kobe era diretto a Thousands Oaks, California, dove il Mamba avrebbe dovuto allenare una partita della squadra della figlia nella Mamba Cup un torneo con squadre maschili e femminili organizzato dalla sua Mamba Sports Academy, il progetto legato al basket della carriera post Nba del 41enne. Anche se le autorità non hanno diffuso i nomi delle vittime, è confermata la presenza a bordo dell’elicottero di John Altobelli, coach di baseball all’Orange Coast College. Altobelli era a bordo con la figlia Alyssa, 13enne compagna di squadra di Gianna Bryant, e la moglie Keri, secondo quanto riferito dalla famiglia del coach. Nell’incidente, oltre al pilota dell’elicottero che resta ancora senza nome, è morta anche Christina Mauser, assistant coach di Kobe nella squadra della figlia, come ha confermato il marito sui social network. L’ufficio del coroner della contea di Los Angeles ha annunciato che per il recupero dei corpi potrebbero volerci dei giorni, perché i resti dell’elicottero su cui viaggiava Kobe si trovano in una zona remota. Quando i primi soccorritori sono arrivati, hanno trovato detriti sparsi in un’area grande un quarto di acro avvolti tra le fiamme di un incendio innescato dallo schianto. All’indagine, come da prassi in questi casi, sta partecipando anche l’Fbi. Le autorità domenica sera hanno isolato la zona. Los Angeles domenica era come paralizzata dall’improvvisa morte di una delle sue star più amate. Lo Staples Center, la casa dei Lakers, stava ospitando i Grammy’s: all’interno i numeri 8 e 24, quelli ritirati in onore di Kobe, sono stati immediatamente coperti con un drappo nero, mentre all’esterno migliaia di fan si sono radunati per rendere omaggio alla leggenda gialloviola in un memoriale improvvisato. La casa di Lakers e Clippers sono stati l’epicentro del ricordo di Kobe, ma non l’unico: tutta la città ha reso omaggio ad una leggenda che, anche se aveva smesso di giocare, era rimasta un simbolo.

DAGONEWS il 27 gennaio 2020. L'elicottero sul quale viaggiavano Kobe Bryant, sua figlia Gianna e altre sette persone stava volando in condizioni metereologiche talmente avverse che la polizia locale aveva richiesto ai propri uomini di atterrare con i loro mezzi. L'elicottero di Bryant ha lasciato Santa Ana nella Contea di Orange, a sud di Los Angeles, poco dopo le 9: secondo il dipartimento di polizia di Los Angeles le condizioni non erano adatte al volo. C'era un addensamento nuvoloso a 396 metri e una visibilità di circa 8 chilometri. Il pilota Ara Zobayan stava volando seguendo le regole del volo a vista, abbreviato in VFR, ovvero l'insieme di norme e procedure cui un pilota deve attenersi per condurre in sicurezza un volo utilizzando principalmente la propria vista, osservando il terreno sotto di lui. Intorno alle 9.20, l'elicottero ha girato in cerchio per circa 15 minuti a est dell'Interstate 5, vicino a Glendale. I controllori del traffico aereo avevano messo in attesa l'elicottero, prima di dargli il via a procedere verso nord lungo l'Interstate 5 attraverso lo spazio aereo di Burbank. A causa della scarsa visibilità, il pilota avrebbe potuto contattare i controllori del traffico aereo e richiedere di passare alle regole del volo strumentale (IFR), ovvero la serie di regolamenti e procedure ideate per consentire il volo degli aeromobili anche in condizioni nelle quali i piloti non sono in grado di vedere ed evitare ostacoli, il terreno o altri aeromobili in volo. Tuttavia, quando i piloti volano in IFR, i tempi di volo si allungano. Probabilmente per questo motivo il pilota ha deciso di continuare a volare a vista e verso le 9.40 ha girato a ovest per seguire la US Route 101, la Ventura Highway. Verso le 9.44, l'elicottero ha nuovamente virato ed è salito improvvisamente di quota da circa 365 metri fino ai 609 metri. In un audio registrato poco prima dello schianto, il pilota dell'elicottero dell'ex stella dei Lakers è stato informato da un controllore di volare "troppo basso" per essere monitorato dal radar. Alle 9.45, nel momento in cui è precipitato, l’elicottero si è schiantato contro una collina a 518 metri d'altezza. I dati del tracker mostrano che stavano volando a circa 298 km/h. Lo schianto è avvenuto nella località di Calabasas.

Leonard Berberi per corriere.it il 27 gennaio 2020. L’elicottero con a bordo Kobe Bryant era un Sikorsky S-76 bi-turbina prodotto nel 1991. Si tratta di un modello utilizzato anche in ambito governativo e militare. Ha volato per lo Stato dell’Illinois fino al 2015 poi è stato venduto. Secondo i testimoni poco prima di precipitare (alle 10 del mattino, sulle colline vicine a Los Angeles) uno dei motori emetteva uno strano suono, ma la dinamica è ancora poco chiara e l’ultima parola l’avranno gli esperti dell’Ntsb, l’ente americano che indaga sugli incidenti nel trasporto. Di sicuro le condizioni meteo non erano ottimali a causa della nebbia: la polizia locale aveva infatti lasciato a terra i propri elicotteri. La nebbia, come hanno confermato alcune fonti sentite dall’Associated Press, riduce la visibilità e potrebbe aver disorientato il pilota. Kurtz Deetz, uno dei piloti che aveva spesso volato con Kobe, ha dichiarato che secondo lui è più probabile che lo schianto sia dovuto alle cattive condizioni del meteo che a un guasto tecnico o meccanico del velivolo. I responsabili della torre di controllo dell’aeroporto di Burbank hanno dichiarato al sito Tmz che il pilota li h contattatati intorno alle 9:30 e che ha compiuto diversi giri in circolo per circa 15 minuti. Poi il pilota ha puntato verso nord per poi dirigersi a ovest. Intorno alle 9:40 si è imbattuto in un banco di nebbia ancora più fitto e si è quindi diretto a sud, puntando però verso una zona montagnosa - per questo motivo, forse, il pilota ha portato il velivolo in alto, passando dall’altezza di 1.200 piedi a quella di 2mila. Pochi minuti dopo, intorno alle 9:45, è ritornato a 1.700 metri. Poi, lo schianto. Quello di ieri è il 43esimo esemplare precipitato secondo il database specializzato Aviation Safety Net. Nel 2017 - ultimo anno disponibile - l’International helicopter safety team analizzando i dati di 49 Paesi (compresi quelli europei) calcola che gli incidenti, in totale, sono stati 239 e i morti 44, di questi 121 schianti (poco più della metà di quelli complessivi) e 20 vittime si sono registrati negli Stati Uniti. Gli elicotteri sono più «pericolosi» degli aerei? A leggere le statistiche sì, anche se i controlli tecnici sono altrettanto rigidi: negli Usa la Faa - l’ente federale dell’aviazione - stima che se nei velivoli (di qualsiasi tipo) ogni centomila ore di servizio si contano 0,84 incidenti mortali, nello stesso arco temporale con gli elicotteri il dato balza a 1,02.

Kobe Bryant, l’elicottero aveva ottenuto un permesso speciale per volare. Pubblicato lunedì, 27 gennaio 2020 su Corriere.it da Leonard Berberi. Il pilota dell’elicottero che trasportava Kobe Bryant, la figlia Gianna e altre sei persone aveva ottenuto una speciale autorizzazione per continuare a volare nonostante la nebbia fitta. È quanto si apprende dalle conversazioni con un addetto al controllo del traffico aereo dello scalo di Burbank che sono state pubblicate sul sito specializzato LiveATC. Un via libera che a questo punto sarà al centro dell’inchiesta che dovrà far luce sulle cause dell’incidente. L’elicottero poco prima di precipitare operava seguendo le Visual flight rules (Vfr), cioè le regole di volo a vista: il ragionamento alla base è quello di muoversi in aria accertandosi da un lato di vedere cosa c’è intorno, ma anche di essere visti. Tra i comportamenti previsti da parte del pilota c’è anche quello di separarsi dagli ostacoli sulla superficie. Gli elicotteri— stabiliscono le regole Vfr — possono operare con visibilità in volo inferiore a 1.500 metri, ma non inferiore a 800 metri. L’elicottero era un Sikorsky S-76 bi-turbina prodotto nel 1991. Si tratta di un modello utilizzato anche in ambito governativo e militare. Ha volato per lo Stato dell’Illinois fino al 2015 poi è stato venduto. La dinamica dello schianto (alle 10 del mattino, sulle colline vicine a Los Angeles) resta ancora poco chiara e l’ultima parola l’avranno gli esperti dell’Ntsb, l’ente americano che indaga sugli incidenti nel trasporto. A loro toccherà raccogliere i detriti sparsi su circa mille metri quadrati di terreno accidentato. Di sicuro le condizioni meteo non erano ottimali a causa della nebbia: la polizia locale aveva infatti lasciato a terra i propri elicotteri. La nebbia, come hanno confermato alcune fonti sentite dall’Associated Press, riduce la visibilità e potrebbe aver disorientato il pilota. I responsabili della torre di controllo dell’aeroporto di Burbank hanno dichiarato al sito Tmz che il pilota li ha contattatati intorno alle 9:30 e ha compiuto diversi giri per circa 15 minuti forse in attesa di una schiarita. Poi il pilota ha puntato verso nord per dirigersi a ovest. Intorno alle 9:40 si è imbattuto in un banco di nebbia ancora più fitto e si è quindi diretto a sud avvicinandosi però verso una zona montagnosa, questo spiega, forse, perché il pilota ha portato l’elicottero in alto, passando dall’altezza di 1.200 piedi (366 metri) a quella di duemila (610 metri). Pochi minuti dopo, intorno alle 9:45, è ritornato a 1.700 piedi (518 metri). Poi, lo schianto. In quei minuti la visibilità sull’area era così ridotta che — scrive il Los Angeles Times — la Polizia che il Dipartimento dello sceriffo della Contea hanno messo a terra la loro flotta di elicotteri. «La situazione meteo era al di sotto dei nostri standard minimi per il volo», spiega Josh Rubenstein, portavoce del Los Angeles Police Department. Quello di ieri è il 43esimo esemplare precipitato secondo il database specializzato Aviation Safety Net. Nel 2017 — ultimo anno disponibile — l’International helicopter safety team analizzando i dati di 49 Paesi (compresi quelli europei) calcola che gli incidenti, in totale, sono stati 239 e i morti 44, di questi 121 schianti (poco più della metà di quelli complessivi) e 20 vittime si sono registrati negli Stati Uniti. Un Paese, gli Usa, dove l’elicottero è un mezzo molto utilizzato proprio perché — ed è il caso di Los Angeles e di New York — aiuta ad ottimizzare i tempi spostandosi da un lato all’altro della città senza restare imbottigliati anche per ore nel traffico stradale. Gli elicotteri sono più «pericolosi» degli aerei? A leggere le statistiche sì, anche se i controlli tecnici sono altrettanto rigidi: negli Usa la Faa — l’ente federale dell’aviazione — stima che se nei velivoli (di qualsiasi tipo) ogni centomila ore di servizio si contano 0,84 incidenti mortali, nello stesso arco temporale con gli elicotteri il dato balza a 1,02.

Davide Chinellato per gazzetta.it il 29 gennaio 2020. L’ultima comunicazione tra il pilota e la torre di controllo è avvenuta 700 metri di quota. Poi più nulla, solo l’impatto. Terribile, violentissimo, con l’elicottero su cui viaggiavano Kobe Bryant, la figlia Gianna e altre 7 persone che finisce in mille pezzi nelle colline di Calabasas, poco fuori Los Angeles, precipitando di 600 metri in un minuto. È l’ultima ricostruzione fatta dagli inquirenti in una conferenza stampa nella notte italiana, in cui è stato rivelato che l’elicottero non aveva la strumentazione che avrebbe allertato il pilota dell’avvicinarsi della collina. Sistema che, per un cavillo legale, non era però obbligatorio. Intanto dal luogo dell’incidente, diventato meta di pellegrinaggio, sono stati recuperati tutti i corpi delle vittime: quello di Kobe Bryant è già stato identificato. Come quelli di John Altobelli, Sarah Chester e dell’esperto pilota Ara Zobayan. Il relitto dell’elicottero è stato trasferito dal luogo dell’incidente in uno più sicuro dove verranno proseguite le indagini per capire cosa ne abbia causato la caduta. Tra i detriti sono stati rinvenuti anche un iPad e un telefono cellulare.

Da corriere.it il 29 gennaio 2020. Gli esperti forensi hanno identificato ufficialmente il corpo del giocatore di basket Kobe Bryant, tra i nove recuperati dai detriti dell’elicottero che si è schiantato tre giorni fa su una collina vicino Los Angeles. L’ex star Nba, 41 anni, è stata identificata dalle sue impronte digitali. Identificati anche due uomini e una donna: sono John Altobelli, 56 anni — allenatore di baseball morto nell’incidente con sua moglie Keri e la loro figlia Alyssa —, il pilota Ara Zobayan, 50 anni, e Sarah Chester, 45 anni. Gli inquirenti stanno ancora lavorando per identificare gli altri cinque corpi, tra cui la figlia di Kobe Bryant, Gianna, 13 anni, che era in elicottero con suo padre.

"Stai volando troppo basso" L'audio choc su Kobe Bryant. La torre di controllo ha avuto modo di parlare con il pilota dell'elicottero sul quale viaggiava Kobe Bryant: "State volando basso", poi il silenzio e lo schianto. Marco Gentile, Martedì 28/01/2020, su Il Giornale. Sono passate poco più di 48 ore dalla morte di Kobe Bryant, della figlia Gianna e di altre sette persone nello schianto con l'elicottero avvenuto nei pressi di Calabasas. Le cause dell'incidente presumibilmente sono riconducibili al maltempo, alla fitta nebbia che aveva indotto anche la polizia a vietare il volo ai propri elicotteri. Il velivolo privato dell'ex campione dell'Nba, però, aveva avuto l'autorizzazione per poter volare ma sfortunatamente circa 40 minuti dopo si è schiantato su una collina. L'elicottero dell'ex fenomeno dei Los Angeles Galaxy aveva lasciato Santa Ana nella Contea di Orange, nel sud di Los Angeles, verso le 9:06 con l'esperto pilota 50enne Ara Zobayan che stava volando seguendo le regole del volo a vista ovvero l'insieme di norme e procedure cui un pilota deve attenersi per condurre in sicurezza un volo utilizzando principalmente la propria vista, osservando il terreno sotto di lui. Circa quindici minuti dopo, però, il velivolo ha iniziato a girare in cerchio per circa 15-20 minuti con i controllori del traffico aereo che avevano messo in attesa l'elicottero. Verso le 9:40, ovvero circa 5 minuti prima di precipitare, il pilota viste le avverse condizioni meteo avrebbe potuto richiedere alla torre di controllo di passare alla regole del volo strumentale, ovvero una serie di regolamenti e procedure studiate e create per consentire il volo agli aeromobili anche in condizioni nelle quali i piloti non sono in grado di poter vedere gli ostacoli date le pessime condizioni meteo. Verso le 9.44, l'elicottero ha virato in maniera improvvisa ed è poi salito in quota fino a 600 metri schiantandosi poi alla velocità di 300 km/h contro una collina a 518 metri d'altezza. Le indagini stanno precedendo a ritmi incessanti con gli investigatori federali che esamineranno la storia del pilota e tutti i registri di manutenzione dell'elicottero. Kurt Deetz, un altro pilota di cui si avvaleva Kobe, ha dato la sua opinione in merito all'incidente: "La probabilità di un guasto del motore gemello su quell’aeromobile? Semplicemente non accade", ha dichiarato al Los Angeles Times.

L'ultimo audio. Oggi, a distanza di oltre 48 ore dall'incidente, alcuni siti americani dedicati all'aviazione hanno pubblicato l'ultimo audio avvenuto tra il pilota dell'elicottero e la torre di controllo. Nell'audio che dura circa un minuto e mezzo si nota come all'inizio le comunicazioni avvengano in maniera tranquilla ma veso il finale non si sente più parlare Ara Zobayan con l'addetto del traffico aereo che avrebbe intimato al pilota di volare più alto: "Sta volando ancora troppo basso", poco dopo il tragico impatto che è costato la vita a nove persone, tra cui l'ex fenomeno del basket mondiale e sua figlia Gianna che sognava di seguire le orme del Black Mamba.

Kobe Bryant, la scoperta sconvolgente: l'elicottero non era dotato del sistema di rilevamento del terreno. Libero Quotidiano il 29 Gennaio 2020. Altre novità sull'incidente che ha tolto la vita a Kobe Bryant, sua figlia e altre sette persone.  L’elicottero non era dotato della strumentazione necessaria che avrebbe avvertito il pilota dell’elicottero dell’avvicinarsi della collina. Un sistema che, per un cavillo legale, non era obbligatorio. È questo l’ultimo dettaglio rivelato dagli inquirenti che indagano sulle cause dell’incidente ed è emerso nella ricostruzione dell’impatto. Gli investigatori stanno cercando di capire perché l'elicottero si è schiantato contro una collina di Los Angeles in condizioni di nebbia. L'investigatore  Jennifer Homendy ha dichiarato ì che l'elicottero era a 2300 piedi quando ha perso la comunicazione con i controllori del traffico aereo. L'elicottero stava risalendo in quegli istanti a più di 2.000 piedi al minuto al momento dell'impatto. "Quindi sappiamo che questo è stato un incidente con un impatto ad alta velocità", ha spiegato Homendy.

Leonard Berberi per il "Corriere della Sera" il 29 gennaio 2020. «Elicottero 72EX, state volando troppo bassi». Quando alle 9.44 di domenica mattina (le 18.44 in Italia) la torre di controllo della California del Sud avverte che il mezzo deve risalire di quota per essere «intercettato» dai radar e quindi essere guidato nella nebbia fitta è già troppo tardi. Il Sikorsky S-76B con nove persone a bordo - compresi Kobe Bryant e la figlia 13enne Gianna - sta precipitando a 283 chilometri orari sulle colline di Calabasas, a nord di Los Angeles. Tre giorni dopo la tragedia la dinamica dell' incidente resta così confusa che gli esperti del Ntsb, l' ente americano che indaga, hanno chiesto a chiunque di dare una mano con foto e video realizzati proprio quella mattinata con i telefonini. Anche perché - come è stato spiegato in conferenza stampa - l' elicottero non aveva le «scatole nere» (non c' era un obbligo). Il pilota Ara Zobayan - 50 anni, ottomila ore di volo alle spalle - aveva però un iPad con l' applicazione ForeFlight (usata per consultare i dettagli della rotta, le mappe e altre informazioni) e questo potrebbe aiutare. Quello che si sa è che alle 9.06 l' elicottero è decollato dall' aeroporto «John Wayne» di Orange County con destinazione Camarillo. Undici minuto dopo, però, Zobayan decide di deviare dal percorso solito a causa della nebbia e intraprende una delle due strade alternative in caso di maltempo. Alle 9.21 la torre di controllo di Burbank chiede di attendere sopra Glendale perché c' è un velivolo in arrivo. Attesa che dura dodici minuti e l' elicottero deve percorrere diversi giri in circolo. Una volta autorizzato a procedere Zobayan annuncia di voler salire di quota per evitare uno strato nuvoloso e così passa da 244 a 427 metri. Alle 9.39 un altro controllore di volo - di Van Nuys - approva la virata a sinistra e chiede di cambiare frequenza per farsi gestire dalla torre della California del Sud. Da qui parte l' avvertimento: «State volando troppo bassi». Ma nessuno risponde. Il mezzo si è schiantato. Tra gli esperti si sta facendo largo l' ipotesi del disorientamento del pilota. In mezzo alla nebbia, sostengono, il corpo perde ogni riferimento spaziale, arrivando persino a confondere per qualche istante il sopra e il sotto. Questione di secondi - 10-15 al massimo - e se chi è al comando non ritrova l' orientamento l' elicottero perde quota. La velocità del mezzo negli ultimi istanti - stando ai dati di Flightradar24 - sembra confermare questo scenario. Certo Zobayan non aveva difficoltà a muoversi in condizioni proibitive. E negli archivi della Faa (l' ente federale Usa dell' aviazione) non risultano incidenti collegabili a lui. La visibilità nell'area era così bassa che la Polizia di Los Angeles e il Dipartimento dello sceriffo della Contea avevano messo a terra la loro flotta di elicotteri. Non volava nulla in quel momento e in quel luogo. Tranne il Sikorsky S-76B.

Antonio Prisco per il Giornale il 31 gennaio 2020. Un groviglio informe di lamiere è quanto rimane dell'elicottero su cui viaggiavano Kobe Bryant e altre otto persone tra cui sua figlia Gianna, di appena 13 anni. Tuttavia restano ancora numerosi i dubbi e gli aspetti da chiarire sul tragico schianto di Calabasas in attesa del rapporto preliminare del Consiglio Nazionale per la sicurezza dei trasporti, che sarà emesso entro dieci giorni.

La dinamica accertata. I pochi dati raccolti dall'Ntsb hanno rivelato che l'elicottero volava a 700 metri di quota quando ha perso il contatto con il controllore di volo. Lo schianto è avvenuto a 283 chilometri orari, una velocità notevole, tanto che i detriti sono sparsi fino a 150 metri dal punto dell'impatto. Il pilota aveva deciso di salire di quota, secondo quanto emerso dalle conversazioni captate da LiveATC, per sorvolare un fitto banco di nebbia. Quello che è successo dopo, con la risalita e la successiva rapida discesa del mezzo potrebbe indicare un disorientamento: le manovre sarebbero frutto della perdita dei riferimenti spaziali.

Mancanza dei sensori anti-collisioni. Allo stesso modo delle scatole nere (non presenti) anche il Twas -Sistema di avviso e rappresentazione del terreno- non è obbligatorio. L'Ntsb già nel 2006 aveva chiesto alla Faa di renderlo obbligatorio negli elicotteri, ma l'ente decise di no. Il Twas fornisce su uno schermo una rappresentazione tridimensionale del terreno nei dintorni indicando con i colori giallo e rosso le estremità potenzialmente pericolose. In caso di allarme emette un segnale acustico e visivo di alcuni secondi, costa fino a 40 mila dollari. Restano ancora i dubbi se il dispositivo avrebbe potuto evitare l'incidente. La responsabile dell'Ntsb Jennifer Homendy si è ben guardata dal sostenerlo, ma ha sottolineato che avrebbe potuto aiutare. Alcuni piloti hanno replicato che a quella velocità di discesa, circa 10 metri al secondo, il collega avrebbe potuto fare poco con il Twas. E non solo, più di un professionista ha rivelato che nelle città con grattacieli di solito si tende a spegnerlo, altrimenti suonerebbe sempre.

Aspetti ancora oscuri. Come noto il pilota ha deciso di proseguire nonostante le condizioni meterologiche avverse. questo resta uno degli aspetti da chiarire. Ara Zobayan aveva ottenuto l'autorizzazione a procedere, ma poi è il pilota che alla fine decide se proseguire o no. Di sicuro aveva molta esperienza: 8.200 ore di volo alle spalle secondo la Faa, l'ente federale americano dell'aviazione, d cui 1.250 ai comandi del Sikorsky S-76B, l'esemplare precipitato. Considerava la visibilità inferiore ai parametri minimi per il volo a vista cioè senza affidarsi alle radioassistenze. Poi ha chiesto il flight following che prevede il contatto costante con una torre di controllo per ricevere aiuto nelle manovre, ma l'elicottero volava troppo basso per essere captato dai radar.

Le indagini. Il Sikorsky S-76B apparteneva alla società Island Express Helicopters, usata da anni da Kobe Bryant e da altri personaggi famosi per evitare il traffico di Los Angeles. Negli archivi della Ntsb risultano tre incidenti, di cui due mortali dal 1985. L' Ntsb ha chiarito che un rapporto preliminare della Consiglio Nazionale per la sicurezza dei trasporti dovrebbe arrivare entro una decina di giorni, mentre per quello finale potrebbe volerci un anno e mezzo. Il lavoro è senza dubbio reso difficile dall' assenza delle scatole nere. Nei 185 incidenti analizzati nel periodo 2005-2017 ben 159 velivoli non avevano questi registratori e le cause di 18 schianti restano parzialmente ignote. 

Morte Kobe Bryant, l'elicottero non poteva volare con poca visibilità. Il Sikorsky S-76B sul quale hanno perso la vita l'ex stella Nba, la figlia Gianna e altre sette persone non sarebbe dovuto decollare a causa delle condizioni di meteo avverse. Intanto i Lakers preparano il ritorno in campo contro Portland e la lega ha deciso di modificare il format dell'All Star Game in memoria del Black Mamba. La Repubblica il 31 gennaio 2020. L'elicottero in cui ha perso la vita Kobe Bryant, la figlia Gianna e altre sette persone non avrebbe dovuto essere in volo con quelle condizioni di visibilità ridotte. Secondo alcune fonti che hanno familiarità con le operazioni della compagnia di elicotteri charter, infatti, Island Express Helicopters, l'azienda proprietaria del Sikorsky S-76B precipitato sulle colline di Calabasas, a Los Angeles, è certificata solo per operare secondo le regole del volo a vista, il che significa che i piloti devono essere in grado di vedere chiaramente all'esterno dell'aeromobile. Regole che permettono di volare con almeno tre miglia di visibilità e un tetto di nuvole non inferiore di 1.000 piedi dal suolo.

Senza l'autorizzazione per il volo strumentale. L'elicottero aveva a bordo strumenti sofisticati che il F.A.A, il Federal Aviation Administration, aveva approvato per il volo strumentale e il pilota Ara Zobayan era anche abilitato per questo tipo di volo, ma molto probabilmente aveva poca esperienza nel farlo a causa delle limitazioni operative dell'azienda. Un operatore all'aeroporto di Van Nuys, dove ha sede la compagnia, ha affermato che nessuno degli operatori charter si è mai preoccupato di ottenere la certificazione per il volo strumentale, perché è ritenuto semplice navigare a bassa quota nel sud della California visto il tempo soleggiato. A sostegno di questa tesi le parole di Claudia Lowry, proprietaria del Gruppo 3 Aviation, un servizio di charter e scuola di volo con sede nello stesso aeroporto di Van Nuys di Island Express. "Nessuna delle compagnie di charter locali ha la certificazione di volo strumentale, perché la certificazione significherebbe un aumento drastico della formazione, dell'attrezzatura e dei requisiti assicurativi. Persino gli elicotteri della polizia locale non ce l'hanno. Non ne vale la pena, non voliamo comunque in quel tipo di tempo. E il più delle volte il tempo è buono". Secondo il Times, il pilota Ara Zobayan nelle comunicazioni radio aveva riferito che la visibilità era sufficiente per il volo a vista aggiungendo che il tempo sembrava peggiorare, mentre il volo continuava. Il resto lo conosciamo.

Lakers si preparano per tornare in campo. E mentre le indagini vanno avanti, lo Staples Center e la Mamba Sports Academy continuano ad essere luoghi di pellegrinaggio per le migliaia di fans di Bryant. Questa notte la casa delle due squadre di Los Angeles ha riaperto al basket per la prima volta dopo la tragedia. In campo sono scesi i Clippers, sconfitti però dai Sacramento King, domani toccherà ai Lakers contro i Portland Trail Blazers. I gialloviola provano a tornare alla normalità e coach Vogel spera che la "terapia del lavoro" possa liberare la mente dei suoi ragazzi. ""Ci stiamo concentrando sul lavoro. Stiamo cercando di trovare il giusto equilibrio per far stare bene i ragazzi. Oggi ci siamo allenati all'aperto, non è a prima volta che accade, ma è meglio allenarsi alla luce del sole". LeBron James e compagni dopo la sessione di allenamento hanno svolto una sessione tattica. Per i Lakers, che dominano la Western Conference (36-10), l'obiettivo rimane lo stesso dell'inizio della stagione con l'arrivo di Anthony Davis per sostenere LeBron James: vincere il 17esimo titolo NBA, dieci anni dopo l'ultimo raccolto con Kobe Bryant. Contro Portland, però, dovranno essere più forti delle loro emozioni e onorare al meglio il Black Mamba.

Nuovo format per l'All Star Game. Intanto la Nba ha annunciato che il prossimo All Star Game, in programma il 16 febbraio a Chicago avrà un  format tutto nuovo per omaggiare la figura di Kobe Bryant. Tutti i primi tre quarti della sfida tra le 'stelle' partiranno dallo 0-0 e la squadra vincente in ciascun periodo donerà un assegno di 100mila dollari ad un ente di beneficenza dell'area di Chicago. Il quarto ed ultimo tempo non necessiterà del cronometro: vincerà chi aggiungerà 24 punti, come il numero di maglia di Bryant, al totale dei tre round da dodici minuti disputati. I capitani delle due squadre, LeBron James e Giannis Antetokounmpo, sceglieranno ufficialmente i loro undici compagni di squadra durante la prossima settimana. La Nba ha anche annunciato che vi saranno ulteriori omaggi, non ancora resi noti, alle vittime della tragedia in California.

Morte Kobe Bryant, indagine: il pilota stava salendo per evitare nubi. "Lo schianto ha lasciato una scena devastante". Le autorità locali forniscono dettagli sul tragico incidente sulla collina di Calabasas su cui indaga anche l'Fbi: visibilità molto bassa.  L'elicottero era stato autorizzato a volare in condizioni meteorologiche peggiori di quelle consentite dalle norme standard. la Repubblica il 27 gennaio 2020. La nebbia in particolare, in una giornata scura sui cieli di Los Angeles, tra le cause principali dell'incidente in elicottero sulla collina di Calabasas, nei pressi della metropoli californiana, che ha causato la morte di Kobe Bryant, della figlia Gianna Maria Onore e di altre sette persone a bordo. Secondo le autorità e i dati dei controllori di volo, infatti, c'era una visibilità estremamente bassa al momento dello schianto in cui è rimasto coinvolto il Sikorsky S76, con condizioni di nebbia e nuvole tanto che la polizia di Los Angeles aveva messo a terra i propri elicotteri. Le comunicazioni finali del pilota dell'elicottero indicano che stava salendo di quota per evitare lo strato di nubi. Lo riferiscono gli investigatori, aggiungendo che lo schianto ha lasciato una scena devastante.

Identificate tutte le vittime dell'incidente. Sono state intanto identificate tutte le nove vittime dello schianto in elicottero. Insieme all'ex stella Nba e alla figlia 13enne, che erano attesi alla Mamba Sports Academy di Thousand Oaks per una partita di basket, hanno perso la vita l'esperto pilota di origini armene Ara Zobayan, John Altobelli, 56enne ex giocatore di baseball ed ora allenatore dell'Orange Coast College con la figlia Alyssa (coetanea e compagna di squadra di Gianna Maria alla Mamba Academy) e la moglie Keri, Christina Mauser, assistente allenatrice di pallacanestro della Harbour Day School, infine Sarah e Payton Chester, mamma e figlia residenti a Orange Country come i Bryant. Il medico legale della contea di Los Angeles, dottor Jonathan Lucas, ha affermato che il terreno accidentato ha complicato gli sforzi per recuperare i resti di Kobe Bryant, della figlia Gianna e delle altre persone a bordo del velivolo.

Elicottero volava a 296 km/h al momento dello schianto. Intanto, nel corso di una nuova conferenza stampa nella notte italiana, lo sceriffo della contea di Los Angeles, Alex Villanueva, ha dichiarato che le indagini potrebbero richiedere settimane. "Il sito dell'incidente non è di facile accesso", le sue parole. Le autorità locali hanno comunque reso noto ulteriori dettagli del tragico schianto. L'elicottero di Bryant ha lasciato Santa Ana nella Contea di Orange, a sud di Los Angeles, poco dopo le 9 del mattino ora locale virando a est dell'Interstate 5, vicino a Glendale. I controllori del traffico aereo hanno notato una scarsa visibilità intorno alla zona. Poco dopo le 9.40 (ora locale) l'elicottero, salito intanto a oltre 609 metri di quota, si è schiantato su una collina alta circa 420 metri, a Calabasas, a circa 30 miglia (48 chilometri) a nord-ovest del centro di Los Angeles, secondo i dati di Flightradar24. Quando ha colpito il suolo, l'elicottero stava volando a circa 160 nodi (296 km/h) e scendendo a una velocità di oltre 1219 metri al minuto.

Il pilota aveva avuto un permesso speciale. Il pilota dell'elicottero  aveva avuto il permesso di volare in base alle "Special Visual Flight Rules" (Vfr), ossia le regole del volo a vista, a causa delle condizioni meteorologiche (fitta nebbia). Lo si apprende da una conversazione audio del pilota con i controllori di volo. Le VFR sono regole speciali con cui viene data l'autorizzazione ai piloti di volare in condizioni meteorologiche peggiori di quelle consentite dalle norme standard. Secondo quanto riporta il New York Times, la torre di controllo dell'aeroporto di Burbank ha permesso all'elicottero di procedere verso nord-est seguendo l'autostrada I-5.

Sulle cause indaga anche l'FBI. Sulla scena dell'incidente sono giunti anche gli investigatori federali FBI per indagare sulle cause della tragedia, insieme all'autorità federale dell'aviazione e all'ente nazionale per la sicurezza dei trasporti. Tra le altre cose, verranno esaminati la storia del pilota, i registri di manutenzione dell'elicottero, i registri del proprietario e dell'operatore, come ha spiegato il membro del consiglio di amministrazione della NTSB Jennifer Homendy in conferenza stampa. Kurt Deetz, un pilota che faceva volare Bryant sul suo elicottero, ha affermato che l'incidente è stato probabilmente causato dalle condizioni meteorologiche avverse piuttosto che da problemi meccanici. "La probabilità di un guasto del motore gemello su quell'aeromobile? Semplicemente non accade", ha detto al 'Los Angeles Times'. Il Consiglio nazionale per la sicurezza dei trasporti, infine, in genere pubblica entro 10 giorni un rapporto preliminare che fornirà un sommario approssimativo di ciò che gli investigatori hanno appreso. Ma un rapporto completo sulla causa dell'incidente può richiedere un anno o più.

Kobe nella Hall of Fame, minuto silenzio in Italia. Bryant entrerà nella Hall of Fame con la classe del 2020. Lo ha annunciato il presidente della Hall of Fame, Jerry Colangelo. Insieme al fuoriclasse dei Los Angeles Lakers anche Tim Duncan e Kevin Garnett. "Dovrebbe essere la classe più epica di sempre con Kobe, Tim e Kevin. Kobe sarà ricordato nella maniera in cui merita di essere ricordato", ha detto Colangelo. In Italia la Fip ha disposto un minuto di silenzio su tutti i campi e in ogni categoria nelle gare dell'intera settimana: "Un piccolo ma sentito e doveroso gesto per onorare la vita e la memoria di Kobe Bryant, campione assoluto che ha sempre avuto nel cuore il nostro Paese". Il Comune di Reggio Emilia ha deciso di intitolare a Bryant la nuova piazzetta che si affaccia su Via Guasco, la strada del palazzetto dello sport, di recente riqualificata.

Kobe Bryant, quel black  out tra elicottero e torre prima dello schianto. Pubblicato sabato, 08 febbraio 2020 su Corriere.it da Leonard Berberi. Per alcuni secondi l’elicottero Sikorsky SK-76B con a bordo Kobe Bryant, la figlia Gianna e altre sette persone è stato lasciato solo al suo destino, immerso nella nebbia e senza ricevere alcuna assistenza da terra. Il controllore di volo in contatto fino a quel momento aveva concluso il turno. Quello subentrato all’inizio non aveva la minima idea di cosa fosse quel velivolo in quota. Pochi attimi dopo il biturbina s’è schiantato contro una collina, precipitando a 1.200 metri al minuto e a una velocità di 257 chilometri orari. È questo uno dei dettagli che emerge dalla lettura delle undici pagine dell’aggiornamento delle indagini sull’incidente del 26 gennaio scorso — nei pressi di Los Angeles — condotte dall’agenzia investigativa americana Ntsb. Un documento — in un primo tempo classificato per errore come «rapporto preliminare» dall’ente — che per ora esclude problemi tecnici gravi all’origine del disastro: le prove raccolte non mostrerebbero alcuna avaria alle turbine. Il dossier però mostra, con tanto di immagini, quanto la nebbia fosse fitta quella mattina. E come, in quelle condizioni meteo proibitive, tra elicottero e torre ci sia stato un black out temporaneo. Il rapporto finale — che potrebbe arrivare anche tra 18 mesi — chiarirà se anche questo ha contribuito all’incidente. Alle 9.06 del 26 gennaio — le 18.06 ora italiana — il Sikorsky SK-76B parte dall’aeroporto «John Wayne» di Santa Ana, California, con destinazione Camarillo, 127 chilometri più a Nord. Ai comandi c’è Ara Zobayan, un esperto e istruttore di volo. Dietro di lui Kobe Bryant, la figlia 13enne Gianna Maria-Onore, l’allenatore di baseball John Edward Altobelli, la moglie Keri e la figlia Alyssa (compagna di squadra di Gianna), Christina Mauser, Payton (altra compagna di Gianna) con la mamma Sarah. Il pilota — scrive il documento dell’Ntsb — procede a un’altitudine di 213-243 metri sul livello del mare e utilizzando principalmente la propria vista. Quando però alle 9.20 si avvicina allo spazio aereo gestito dallo scalo di Burbank il meteo intanto è peggiorato, la visibilità ridotta e bisogna procedere con l’aiuto degli strumenti di bordo. Ma il pilota chiede l’autorizzazione — e la ottiene — a procedere in modalità «volo a vista speciale» che impone separazioni minime comunque maggiori e con l’aiuto degli uomini a terra. Alle 9.32, dopo alcuni minuti di attesa, il controllore di volo dice a Zobayan che può procedere e gli chiede di cambiare frequenza per mettersi in contatto con la torre che si dovrà prendere in «carico» il suo volo, quella dell’aeroporto di Van Nuys. Cosa che avviene alle 9.39. A questo punto il controllore di Van Nuys domanda al pilota se sta volando nella modalità «volo a vista» e quando lui conferma, da terra gli viene consigliato di contattare il radar dell’aeroporto della California del Sud per la fase successiva. Zobayan ribadisce al controllore della California del Sud che l’elicottero è diretto a Camarillo ed è a quota 457 metri. Dalla torre però gli viene detto che il radar non riesce a captare l’elicottero così in basso e il servizio di assistenza viene interrotto.

In questo momento il velivolo, in mezzo alla nebbia, diventa una sorta di fantasma. Il controllore che fino a poco prima aveva interagito con Zobayan intanto lascia la postazione e — scrive l’Ntsb — viene sostituito da un collega. Alle 9.45 il pilota contatta ancora la torre della California del Sud e comunica di voler salire di quota per superare il banco di nebbia e per questo vuole ricorrere all’aiuto da terra. Ma da terra c’è un’altra persona che non sa nulla del percorso dell’elicottero e domanda a Zobayan di identificare il volo. Poi gli chiede cosa vuole fare e il pilota annuncia di voler salire a 1.200 metri di quota. Poi il silenzio. I segnali dei transponder mostrano che successivamente l’elicottero arriva fino a 701 metri di quota, vira a sinistra, otto secondi dopo inizia a scendere e gira ancora a sinistra. Un testimone ha raccontato che il velivolo è comparso all’improvviso nella nebbia per uno, due secondi, poi si è schiantato contro la collina. Alle 9.47 — due minuti dopo che l’elicottero con Kobe Bryant ha ricontattato la torre della California del Sud, ma ritrovandosi un nuovo controllore — al 911 arriva la prima telefonata per segnalare un incidente. «I nostri investigatori hanno raccolto una notevole quantità di prove», ha fatto sapere attraverso una nota Robert L. Sumwalt, presidente dell’Ntsb. «Siamo fiduciosi che saremo in grado di determinarne la causa, nonché tutti i fattori che hanno contribuito ad essa, così da poter formulare raccomandazioni sulla sicurezza per evitare che incidenti di questo tipo si ripetano».

Si schianta con l'elicottero: Kobe Bryant muore a 41 anni. Tragedia per l'ex stella dei Los Angeles Lakers. Dopo lo schianto, l'elicottero ha preso fuoco: nessun sopravvissuto. Sgomento nel mondo dello sport. Marco Gentile, Domenica 26/01/2020, su Il Giornale. Il mondo del basket e dello sport in generale piange la morte di Kobe Bryant, uno dei più famosi cestisti della storia dell'Nba. Secondo i media statunitensi il 41enne ex fuoriclasse dei Los Angeles è deceduto in California a seguito di un brutto incidente con il suo elicottero personale. A riportare questa tragica notizia è stato il sito TMZ Sports che ha informato come tutte le persone a bordo siano decedute, tra cui anche la figlia Gianna.

Lo schianto dell'elicottero. L'ex stella dei Los Angeles Lakers e della nazionale americana si è schiantato con il suo elicottero a Calabasas: con lui a bordo c'erano altre quattro persone, tra cui la figlia 13enne Gianna, che sono tutte decedute. Le autorità, infatti, hanno già affermato come nessuno dei membri a bordo sia risultato vivo sfortunatamente. L'ex leggenda dell'Nba, vincitore di cinque anelli, due volte Mvp delle Finals, Mvp per una volta nella stagione regolare, questa mattina si era complimentato con LeBron James che l'ha sorpassato come terzo massimo realizzato di sempre dell'Nba. Black Mamba aveva anche vinto un Oscar e due Olimpiadi nel 2008 a Pechino e nel 2012 a Londra con la maglia della nazionale a stelle e strisce. Kobe era nato negli Usa ma aveva trascorso la sua infanzia in Italia per gli impegni di lavoro del padre: era un grande tifoso del Milan, parlava correttamente l'italiano ed era un grande padre di famiglia che lascia tristemente la moglie Vanessa e altre tre figlie Natalia Diamante di 17 anni, Bianka Bella di tre anni e Capri Kobe nata solo 7 mesi fa.

Una carriera da sogno. La carriera da professionista di Kobe inizia nel 1996 a 18 anni e sempre tra le fila dei Los Angeles Lakers con cui ha giocato 1346 partite in carriera realizzando oltre 33600 punti, 33.643 per l'esattezza. Con la Nazionale statunitense ha partecipato ai FIBA Americas Championship 2007 e ai giochi olimpici di Pechino 2008 e di Londra 2012, vincendo la medaglia d'oro in tutte e tre le manifestazioni. Si è ritirato dai parquet Nba nel 2016 all'età di 38 anni lasciando un grande ricordo nelle menti dei tanti appassionati di sport e di basket come esempio in campo e fuori. Bryant si è ritirato nel 2016 all'età di 38 anni ed è considerato da tutti nell'ambient e non solo come uno dei giocatori più rappresentativi nella storia del basket, dell'Nba e dello sport in generale. Kobe ha militato per ben 20 anni sempre nello stesso team, i Los Angeles Lakers di cui è divenuto ben presto un simbolo, un'icona, il capitano, il fenomeno imprescindibile che rientra in assoluto tra gli sportivi più conosciuti e famosi al mondo.

Il cordoglio del Milan. Bryant non ha mai fatto mistero di essere un grande tifoso del Milan che qualche tempo fa lo ospitò a Milanello regalandogli una maglia a lui dedicata. Il club rossonero sui social network ha espresso il suo cordoglio per questa tragedia ed ha salutato l'ex fuoriclasse dell'Nba.

L'Italia nel suo cuore. Kobe, come detto, è cresciuto in Italia e la sua formazione culturale è stata fortemente influenzata dalla sua esperienza di vita nel Bel paese e lui non ha mai fatto mistero di avere ricordi bellissimi della sua infanzia. Il Black Mamba infatti nasce negli States, a Philadelphia, ma ben presto si trasferisce in Italia dove dai 6 ai 13 anni viaggia parecchio spostandosi nelle varie città dei club per i quali giocava il padre. Tra il 1984 e il 1991 passò da Rieti a Reggio Calabria per andare poi a Pistoia e infine a Reggio Emilia.

Curiosità sulla stella Nba. I suoi genitori decisero di chiamarlo Kobe in onore alla pregiata qualità di carne bovina assaporata dai genitori del fenomeno di Philadelphia in un viaggio in Giappone. Secondo quanto riportato dalla rivista Forbes, inoltre, nel 2014 è stato il decimo sportivo più pagato di sempre con con un guadagno di 49,5 milioni di dollari. L'ex Los Angeles Lakers è stato a capo della Kobe Bryant China Fund per favorire l'educazione scolastica e sportiva dei ragazzi in Cina e nel 2011 ha fondato con sua moglie Vanessa la Kobe & Vanessa Bryant Family Foundation, con cui si è impegnato duramente nel sociale verso i più giovani abitanti di Los Angeles che versano in difficoltà economiche e sociali.

Flavio Pompetti per il Messaggero il 28 Gennaio 2020. Il medico legale è arrivato con la sua squadra di prima mattina sulla collina di Calabasas dove sono sparsi i rottami dell'elicottero. La nebbia persiste come ieri quando Kobe, sua figlia GiGi e altri sette passeggeri sono morti nell'incidente; la zona è protetta da un divieto di volo per un raggio di otto chilometri, e le testimonianze sono solo quelle degli astanti, isolati dalla cortina di polizia a distanza di sicurezza. La precauzione è d'obbligo: gli esporti forensi stanno rimuovendo pezzo a pezzo quello che rimane delle vittime carbonizzate dall'esplosione della carlinga, e devono porre estrema cura nell'agevolare l'identificazione dei corpi, che sarà fatta solo più tardi nei laboratori di medicina legale. Gli Stati Uniti e il mondo intero dello sport sono stato di shock e aspettano di sapere cosa è successo. Come sia potuto accadere che un elicottero di sicura affidabilità, nelle mani di un pilota esperto, si sia andato a schiantare durante un volo di appena un'ora che avrebbe dovuto portare la comitiva alla Mamba Sport Academy di Thousand Oaks. Kobe e i suoi amici erano partiti alle 9:06 accettando il rischio di un volo che non si prospettava facile. La nebbia aveva accorciato i 3,2 chilometri di visibilità richiesti dal regolamento della polizia di Los Angeles per far volare i due elicotteri a sua disposizione, e gli altri velivoli di servizio che incrociano normalmente il cielo della città. Tutti gli apparecchi pubblici erano fermi quando il Sirkowsky S76 è decollato con un permesso speciale della torre di controllo dell'aeroporto John Wayne di Orange County che richiedeva uno stato di allerta nel volo a bassa quota. Era diretto a Nord, sul tracciato dell'autostrada 5 che collega Los Angeles a San Francisco. Ha sorvolato il Dodge Stadium, poi ha fatto un giro circolare sopra il quartiere urbano di Glendale. Il pilota si è reso conto che sarebbe stato più prudente avere l'assistenza continua degli operatori a terra, e ha chiesto la procedura del «flight following». Gli hanno risposto che stava volando troppo in basso per potere essere letto dai radar. Quella è stata l'ultima comunicazione. Pochi minuti prima delle 10 l'elicottero si è schiantato sulla collina di Calabasas, precipitando dal cielo senza più controllo. L'inchiesta è ora nelle mani dell'agenzia per l'aviazione civile con il supporto dell'Fbi; ci vorranno ancora diversi giorni prima di avere il racconto degli ultimi minuti della vita di Kobe Bryant e dei suoi amici. La tragedia ha spinto le persone più diverse ad esprimere dolore per la scomparsa così drammatica di un uomo che aveva toccato la vita di tanti altri (significativa l'impennata di 3 milioni di follower dopo la notizia, rinviato anche il derby di Los Angeles tra Lakers e Clippers). Bryant come accade alle stelle più brillanti della scena pubblica, stava spiegando le ali alla fine della carriera sportiva per assumere il ruolo di testimonial nelle cause sociali per lui più importanti. Questo spiega il diluvio di reazioni di cordoglio: dai compagni di squadra e della Nba ai giocatore di tennis come Novak Djokovich Naomi Osaka; da un calciatore come David Beckham, i presidenti Obama e Trump. I Dallas Mavericks hanno deciso di ritirare la maglia numero 24 in segno di rispetto. A New York una delle fermate della metropolitana è stata rinominata Kobe Bryant Park e all'esterno del Madison Square Garden è stato installato un mega schermo in ricordo della star dell'Nba. Non manca qualche voce dissonante dal coro: la giornalista del Washington Post Felicia Sommes pochi minuti dopo aver appreso la notizia della tragedia ha riproposto su Twitter un articolo che raccontava l'accusa di violenza sessuale che aveva colpito Kobe nel 2003, e che fu messa a tacere con un accordo extragiudiziale. Sommes, a sua volta vittima di molestie da parte di un suo ex direttore, è stata sospesa dal giornale perché il tempismo dell'intervento è stato giudicato inopportuno. L'uomo e l'atleta hanno cancellato quell'episodio con l'impegno dimostrato negli anni successivi nel campo sociale, e gli Usa, la Nba e i fans di Black Mamba si preparano a celebrare la statura di eroe che avevano visto volare tante volte verso il canestro, da non poter mai sognare che un giorno il cielo gli sarebbe stato nemico.

Da “la Repubblica” il 28 Gennaio 2020. Considerato uno degli elicotteri più sicuri, ma anche complicati da guidare, il Sikorsky S-76B veniva usato spesso da Kobe Bryant per gli spostamenti. Nel giorno dell' addio al basket, aprile 2016, con questo stesso elicottero, costruito nel '91, il Mamba aveva sorvolato la città per salutare i tifosi. Due posti da pilota, e dodici per i passeggeri. Per guidare l' S-76B, dicono gli esperti, servono almeno duemila ore di volo sulle spalle. Le indagini si concentrano su tre cause: la presenza di nebbia, il guasto meccanico e l' errore umano. Partito alle 9.06 dall' aeroporto John Wayne, l' elicottero si è schiantato poco dopo le 9.45 nella zona di Calabasas, a nordovest di Los Angeles. La telefonata ai vigili del fuoco è arrivata alle 9.47. Secondo alcune testimonianze, l' S-76B viaggiava a una velocità di trecento chilometri orari, troppi, secondo gli esperti, per le condizioni ambientali, visto che nella zona c' era una fitta nebbia, e considerando il fatto che il pilota volasse con il protocollo del "volo a vista". In base al tracciato della rotta, registrato dalle torri di controllo, il Sikorsky si sarebbe abbassato troppo nell' ultimo tratto, al punto che dalla torre di controllo di zona avevano perso la posizione. A un certo punto il pilota dice di volare a circa 500 metri d' altezza. Gli uomini radar di Burbank lo passano a quelli di Van Nuys. Il pilota risponde okay, registra il codice del canale su cui comunicare, poi più niente. Dalla torre di controllo lo chiamano tre volte, gli chiedono se stia volando troppo basso, ma non otterranno risposta. Testimoni racconteranno di aver visto l' elicottero schiantarsi sul lato di una collina e esplodere. Per i soccorritori è stato difficile arrivare. Tre corpi sono stati recuperati fra domenica e ieri. Ma potrebbero volerci molti giorni prima di completare le operazioni. Alle indagini lavorano diciotto persone, tra aviazione e Fbi, ma per accertare le cause dell' incidente, dicono, potrebbero bastare poche ore.

Kobe Bryant, LeBron: «Ho il cuore a pezzi, fratello, lo prometto: vincerò anche per te». Pubblicato martedì, 28 gennaio 2020 su Corriere.it da Roberto De Ponti. James lo aveva appena scavalcato al terzo posto nella classifica dei marcatori all time, e Kobe con un post lo aveva incoronato erede. È stato l’ultimo messaggio della sua vita. «Continua a far crescere il gioco e a tracciare il percorso per il futuro». Non immaginava, Kobe Bryant, che il messaggio per LeBron James sarebbe stato il suo testamento. La sua ultima volontà. LeBron lo aveva appena scavalcato al terzo posto nella classifica dei marcatori all time della Nba, e Kobe con un post ha incoronato l’erede al termine della partita del sorpasso, quella che i Lakers hanno perso a Filadelfia. Sabato notte. Poche ore più tardi, accompagnato dalla piccola Gianna e da altre sette persone, sarebbe scomparso nella nebbia della California diventando una volta per tutte immortale. Quando un colosso di 206 centimetri e di 110 e passa chili di muscoli piange, fa impressione. Non te lo aspetti, da un guerriero che in campo non ha paura di nulla. LeBron James ha pianto. Non ha più smesso di farlo. Sorpreso da una telecamera, in lacrime sulla pista dell’aeroporto di Los Angeles. È da quando un amico ha avuto il terribile compito di spiegargli che cosa fosse appena accaduto su una collina di Calabasas che LBJ piange. Non può essere accaduto. Non può. Kobe era il suo mentore, la sua fonte d’ispirazione, il suo esempio. E il campione da superare. Ci ha messo tre giorni, LeBron, a rispondere a quel messaggio. A quell’incoronazione. Non ce la faceva. Poi ieri notte i 57,4 milioni di follower di kingjames su Instagram hanno visto comparire un post. «Il» post. La premessa: «Non sono pronto, ma eccomi qua. Sono qui seduto cercando di scrivere qualcosa ma ogni volta che provo incomincio a piangere al solo pensiero di te, della nipotina Gigi e dell’amicizia/legame/fratellanza che ci univa». La rabbia e il dolore: «Ho il cuore a pezzi, sono distrutto fratello mio. Ti amo come un fratello maggiore». L’impegno: «Ti prometto che raccoglierò il tuo testimone: sento come una mia responsabilità quella di caricarmi sulle spalle la tua eredità e continuare quello che hai fatto!! Chiedo al cielo di darmi la forza e di assistermi in questa missione: a NOI ora ci penso io». Venerdì notte LeBron tornerà in campo. I Lakers torneranno in campo. I Lakers di LeBron, e di Kobe. La vita continua, il basket continua, e saranno i Portland Trail Blazers i testimoni del lutto del popolo gialloviola. Da dieci anni il club più famoso della Nba non vince il titolo, l’ultimo ad alzare il Larry O’Brien Trophy fu il giocatore con la maglia numero 24, il Black Mamba. Kobe Bryant. Da domenica scorsa LeBron James è un uomo in missione. Certo, ci saranno gli Antetokounmpo, i Leonard, i Doncic, ma che ne possono sapere loro? Che ne sanno di che cosa voglia dire piangere il tuo mentore? Che ne sanno di che cosa significhi giocare per Kobe e, da quella maledetta domenica, anche «con» Kobe? Vincerò, per te e per il basket: è una promessa, fratello.

Kobe Bryant, LeBron James scopre della morte scendendo dall'aereo: la reazione straziante. Libero Quotidiano il 27 Gennaio 2020. LeBron James apprende la notizia della morte di Kobe Bryant una volta atterrato a Los Angeles. LeBron proveniva da Philadelphia, dove soltanto 24 ore prima del tragico schianto in elicottero aveva superato Kobe nella classifica dei migliori marcatori della Nba. Tra i due fenomeni della pallacanestro normale c'è sempre stato enorme rispetto, essendo James uno dei tantissimi cestisti cresciuti nel mito di Michael Jordan e di Kobe Bryant. Le telecamere hanno immortalato LeBron nel momento in cui è venuto a conoscenza della morte dell'amico, lasciandosi andare alle lacrime. 

Da fanpage.it il 27 gennaio 2020. LeBron James ha appreso della morte di Kobe Bryant mentre rientrava a Los Angeles dopo l'ultima trasferta con i Lakers, in occasione della quale aveva superato proprio Kobe al terzo posto nella classifica dei migliori marcatori di sempre in NBA. Le sue immagini, in lacrime appena sceso dall'aereo, stanno facendo il giro del mondo. Per LeBron, Kobe Bryant è stato prima un idolo, poi un modello da seguire, un avversario da battere e infine un amico.

Le ultime parole tra LeBron James e Kobe Bryant. E' surreale il tempismo con cui questa storia si è verificata. Proprio nella giornata di ieri, LeBron James aveva scritto un altro pezzo di storia del basket e della NBA, superando Kobe Bryant al terzo posto della classifica all-time dei marcatori grazie alla prestazione nella sconfitta contro Philadelphia (29 punti a referto). A fine gara, LeBron aveva omaggiato Kobe con il rispetto e l'ammirazione che si devono ad una leggenda dello sport. “È troppo. Lui ha fatto la storia di questo gioco. Non ha senso quello è successo stasera. Sto giocando con la maglia dei Lakers, qui a Philadelphia, la sua città natale. La prima volta che incontrai Kobe mi regalò le sue scarpe durante l’All-Star Weekend. Ora siamo qui a parlare di questo. È surreale, non ha senso, ma l’universo ha sempre disegni particolari per la tua vita e immagino che quando vivi nel modo giusto, quando le dai tutto in qualunque cosa tu stia facendo, le cose accadono quasi in maniera naturale.” Parole che fa una certa impressione leggere adesso, dopo la tragedia che ha colpito Kobe Bryant e gli altri passeggeri a bordo dell'elicottero precipitato in California. Un attestato di stima al quale lo stesso ‘Mamba' aveva replicato con l'ultimo messaggio pubblicato sui propri canali social, poche ore prima dello schianto fatale: "Continua a portare avanti il gioco, @KingJames. Rispetto fratello".

Morte Kobe Bryant, quel patto con la moglie: ''Mai insieme in elicottero". LeBron James: "Raccoglierò la tua eredità". Rinviato il derby tra Lakers e Clippers. Straziante post del Prescelto: "Sento come una mia responsabilità quella di continuare quello che hai fatto. Dammi la forza di assistermi in questa missione: a noi ora ci penso io". Proseguono le indagini: il pilota stava salendo per evitare le nubi poco prima dello schianto. Recuperati i corpi di tutte le nove vittime: identificato ufficialmente quello della star Nba. La Repubblica il 28 gennaio 2020. Lo spettacolo può attendere, almeno allo Staples Center di Los Angeles dove l'attesissimo derby tra i Lakers e i Clippers in programma domani non andrà in scena. Rinviato a data da destinarsi. Troppo il dolore per la scomparsa di Kobe Bryant, troppe le lacrime versate in questi due giorni. "Vogliamo ringraziare tutti per il supporto e le condoglianze - scrivono i Los Angeles Lakers su Twitter nel loro primo commento dopo la tragedia -. E' un momento davvero difficile per tutti noi. Continueremo ad essere vicini alla famiglia di Kobe e condivideremo ulteriori informazioni con voi quando ce ne saranno". LeBron James, che solo poche ore prima dello schianto dell'elicottero sul quale viaggiava il Black Mamba lo aveva scavalcato al terzo posto fra i marcatori all-time della Nba, è devastato. Il Prescelto, immortalato in lacrime all'aeroporto di Los Angeles subito dopo aver appreso la notizia, ha poi rotto il silenzio via social.

Lo straziante ricordo di LeBron James. "Non sono pronto, ma eccomi qui. Sono seduto davanti al pc cercando di scrivere qualcosa su questo post, ma ogni volta che ci provo inizio a piangere ancora al solo pensiero di te, Gigi e dell'amicizia, del legame e della fratellanza che ci univa". È un lungo, commovente post quello che LeBron scrive su Instagram. "Ho sentito la tua voce domenica mattina prima di lasciare Philadelphia per tornare a Los Angeles. Non avrei mai e poi mai pensato che quella sarebbe stata la nostra ultima conversazione. Ho il cuore a pezzi, sono distrutto fratello mio, ti amo come un fratello maggiore, i miei pensieri ora vanno a Vanessa e alle bambine. Ti prometto che raccoglierò io il tuo testimone! Hai voluto dire così tanto per tutti noi qui - noi della #LakersNation - per cui sento come una mia responsabilità quella di caricarmi sulle spalle la tua eredità e continuare quello che hai fatto. Per favore, dammi la forza dai cieli e veglia su di me. Vorrei dire molto di più, ma in questo momento non riesco a superare tutto questo. Fino a quando non ci incontreremo di nuovo fratello!!"

ll patto tra Kobe e Vanessa. "Mai insieme su un elicottero". Era questo il patto che Kobe Bryant e la moglie Vanessa avevano stretto ormai diversi anni fa. Lo ha dichiarato alla rivista 'Peoplè un amico di famiglia del fuoriclasse statunitense. "Kobe e Vanessa avevano il patto di non volare mai insieme su un elicottero", ha dichiarato. Bryant aveva iniziato a usare il mezzo con frequenza quando ancora giocava con i Lakers: "Una volta sono rimasto intrappolato nel traffico e ho perso la recita scolastica di mia figlia - dichiarò Bryant in una intervista del 2018 -. Ho dovuto trovare un modo in cui potevo ancora allenarmi, ma senza compromettere il tempo per la mia famiglia. Così ho preso in considerazione l'elicottero, per essere in grado di andare e tornare in 15 minuti".

La Nike ritira gli articoli su Kobe. La Nike ha deciso di ritirare dal suo store online tutti gli articoli legati a Kobe Bryant. Ne dà notizia la ESPN, spiegando come l'azienda stia cercando di rimodulare la strategia relativa alla nuova serie di scarpe disegnate dall'ex campione, il cui lancio era imminente. Sul sito Nike è infine comparso un messaggio dedicato alla memoria del cestista: "Mamba per sempre. Come milioni di atleti e fan in tutto il mondo, siamo affranti per la tragica notizia. Estendiamo il nostro più profondo cordoglio alle persone care a Kobe, in particolare alla famiglia e agli amici più stretti. Era uno tra i più grandi atleti della sua generazione, e il suo contributo nel mondo dello sport e alla community del basket è stato incommensurabile. Era un componente molto amato della famiglia Nike. Ci mancherà enormemente. Mamba per sempre".

L'omaggio alla leggenda. Bryant sarà inserito nella Naismith Memorial Basketball Hall of Fame già nel 2020. L'ex stella dei Los Angeles Lakers entrerà a far parte di quella stretta cerchia di personalità e personaggi, giocatori, arbitri e allenatori, a cui viene riconosciuto di aver avuto un particolare impatto nella storia della pallacanestro. Intanto oltre 500 mila persone hanno firmato una petizione per chiedere alla Nba di usare per il proprio logo l'immagine di Kobe Bryant, morto insieme alla figlia e ad altre sette persone nello schianto di un elicottero. Il logo attuale, disegnato da Alan Siegel e mai cambiato dal 1971, rappresenta la silhouette di un altro grande giocatore dei Lakers: Jerry West, che ha 81 anni. A New York l'Empire State Building si colora di gialloviola: "Le nostre luci si accendono di giallo e di viola questa sera come tributo alla leggenda del basket Kobe Bryant, motivo di ispirazione per milioni di persone nel pianeta, che ci ha lasciati troppo presto", ha scritto l'Empire State Building nel suo profilo ufficiale Twitter. "I nostri cuori - si legge ancora - sono vicini a tutte le famiglie, gli amici e i fans che sono sconvolti da questa tragedia #824Forever".

Recuperati i corpi delle vittime. Il medico legale ha detto che "tutti i nove corpi" dello schianto in elicottero in cui, in California, hanno perso la vita l'ex superstar dell'Nba Kobe Bryant, la figlia Gianna Maria e altre sette persone "sono stati recuperati". È stato identificato ufficialmente quello della star Nba. L'elicottero era caduto in un punto impervio delle colline, dove non esistono strade, e non è stato semplice far arrivare i mezzi di soccorso e recuperare i cadaveri.

L'indagine, il pilota stava salendo per evitare le nubi. L'atmosfera a Los Angeles resta surreale. Senza sosta le indagini per capire le dinamiche dell'incidente. Le comunicazioni finali del pilota dell'elicottero indicano che stava salendo di quota per evitare lo strato di nubi. Lo riferiscono gli investigatori, aggiungendo che lo schianto ha lasciato una scena devastante. Il pilota aveva chiesto una autorizzazione speciale a volare nella fitta nebbia pochi minuti prima dello schianto ed era ad un'altezza di 427 metri. Poi aveva richiesto ai controllori di volo di fornire un collaboratore che seguisse il volo, ma gli era stato detto che l'elicottero volava troppo basso. Circa quattro minuti dopo, il pilota ha informato che stava salendo per evitare uno strato di nubi. Quando gli è stato chiesto cosa intendeva fare, non c'è stata risposta. Il data del radar indicano che l'elicottero era salito a 701 metri e poi ha cominciato a precipitare verso sinistra.

Rieti gli dedica una via, Pistoia un campo. La città di Rieti, dove Bryant visse tra il 1984 e il 1986 frequentando le scuole elementari, gli intitolerà una strada e ha organizzato una cerimonia commemorativa, in programma il 5 febbraio al PalaSojourner (ore 21), in occasione della partita tra Npc Rieti e Scafati. A Pistoia il Comune ha deciso di dedicare a Bryant un impianto sportivo.  

Kobe Bryant e il presagio della moglie Vanessa: "Non volavano mai insieme". Mentre il mondo piange la scomparsa del campione di basket e di sua figlia Gianna, la rivista People svela il funesto accordo fatto con la moglie anni prima per impedire che i loro figli rimanesse orfani. Novella Toloni, Martedì 28/01/2020, su Il Giornale. Suona quasi come un presagio l’accordo che Kobe Bryant e sua moglie Vanessa fecero pochi anni fa proprio sull’utilizzo dell’elicottero. A pochi giorni dal tragico incidente costato la vita a nove persone, emergono le prime indiscrezioni sul patto che il campione di basket e sua moglie avevano stretto nel 2018, quando Kobe decise di utilizzare il velivolo per i suoi spostamenti. Kobe Bryant è morto insieme alla figlia Gianna Maria, 13 anni, e altre sette persone (tra cui una compagna di squadra e l’allenatrice della figlia del giocatore) nello schianto del suo elicottero avvenuto domenica scorsa a Los Angeles. Mentre le indagini per chiarire le dinamiche del tragico incidente sono ancora in corso, oggi emergono le prime indiscrezioni. La rivista People ha svelato che Vanessa Bryant e suo marito Kobe avevano scelto di non volare mai insieme in elicottero. La donna, che era sposata con il cestista dal 2001 e con il quale ha avuto altri tre figli, oltre a Gianna, Natalia (17 anni), Bianka (3 anni) e Capri (9 mesi), aveva preso un accordo con il compagno per impedire che un tragico fatto, come quello avvenuto domenica, lasciasse orfani i loro figli. Solo viaggiando separatamente, visti i frequenti spostamenti di lavoro, avrebbero potuto impedire una simile tragedia. Bryant aveva scelto di utilizzare l’elicottero per i suoi spostamenti nel 2018, da quando giocava nella squadra dei Los Angeles Lakers. Un modo per evitare il traffico della metropoli e accorciare i tempi dei suoi spostamenti. Tutto per trascorrere più tempo con la sua famiglia, le sue quattro figlie e la sua compagna. "Lui e Vanessa avevano un accordo sul fatto che non avrebbero mai volato insieme su un elicottero", ha fatto sapere una fonte vicina alla coppia al tabloid americano. Parole che oggi risuonano come un presagio nonostante il campione avesse scelto di volare sempre con il solito pilota proprio per una questione di maggiore sicurezza. Oggi la moglie si è chiusa nel suo doloroso silenzio, ma del suo compagno Kobe, padre premuroso e affettuoso, parlano tutti quelli che lo hanno conosciuto e apprezzato oltre le doti di atleta. "Si preoccupava molto di più di essere un marito per Vanessa e un buon padre per le sue ragazze. Amava la sua famiglia, era la sua famiglia. Questo è il Kobe che ricorderò", ha scritto Derek Jeter, stella del baseball americano e amico di Bryant.

Domenico Zurlo per leggo.it il 28 Gennaio 2020. Nel passato di Kobe Bryant, l’ex campione NBA morto ieri in un incidente in elicottero, c’era anche una piccola ombra: un’accusa di stupro, risalente al luglio del 2003, da parte di una ragazza di 19 anni. Lui all’epoca ne aveva 25 ed era già una superstar, con tre titoli già vinti al fianco di Shaquille O’Neal (nel 2000, 2001 e 2002). Di quel caso tanto si parlò all’epoca: diverse polemiche ci furono anche due anni fa, quando nel pieno degli scandali legati al #metoo, l’Academy premiò con l’Oscar il cortometraggio di Kobe nato dalla sua lettera d’addio alla pallacanestro. E ieri, dopo la notizia della sua morte, è successo anche di peggio, con commenti orribili apparsi sui social non da parte di sparuti commentatori o troll, ma da giornaliste, attrici e femministe. Una reporter del Washington Post, Felicia Sonmez, dopo la morte di Bryant ha infatti postato un articolo del Daily Beast proprio su quelle accuse, dal titolo “Il caso dello stupro di Kobe: la prova del DNA, la storia della accusatrice, e la semi-confessione” (qui il link per leggerlo). A quel tweet sono seguite migliaia di risposte di fan di Kobe che hanno attaccato la Sonmez per il discutibile tempismo. E la cronista, prima di rimuovere tutti i tweet, ha ribattuto così: «Alle 10mila persone che hanno commentato e scritto mail con insulti e minacce di morte, prendetevi un minuto e leggete il pezzo, scritto oltre tre anni fa e non da me. Ogni figura pubblica andrebbe ricordata nella sua totalità, anche quando è amata da tutti». Un altro giornalista della ABC e della Reuters, Matthew Keys, ha postato gli screen dei tweet di Felicia Sonmez, parlando di una sospensione da parte del Washington Post, non per i tweet anti Kobe ma per un’altra questione legata alla privacy. Ma la Sonmez non è stata l’unica a scegliere un discutibile tempismo nei suoi tweet contro Bryant. «I miei pensieri sono e rimarranno con le vittime che vedono le loro accuse di stupro mascherate o ignorate solo perché un uomo sa praticare bene uno sport. La tua storia, il tuo trauma e la tua umanità contano più di una carriera», le parole di Danielle Campoamor, collaboratrice di New York Times e Cnn (stando alla sua bio su Twitter). «Potete avere il cuore spezzato per sua moglie, le sue figlie, i suoi amici, le persone che lo hanno idolatrato. È tanto triste quanto complicato». Ma le parole più choc vengono dalla 32enne attrice Evan Rachel Wood, la Dolores Abernathy di Westworld, lanciata a Hollywood per la sua interpretazione in Thirteen nel 2003. «Ciò che è accaduto è tragico, ho il cuore spezzato per la famiglia di Kobe. Era un eroe dello sport, ma era anche uno stupratore. E tutte queste verità possono esistere contemporaneamente», le parole di Rachel, che hanno provocato migliaia di commenti negativi nei suoi confronti. La giovane, una dipendente di un hotel in Colorado, accusò Kobe di averla violentata, il 30 giugno 2003: il 4 luglio Kobe venne arrestato e poi rilasciato dopo aver pagato una cauzione di 25mila dollari. Bryant ammise di aver fatto sesso con lei, ma in maniera consensuale: ne seguì un periodo difficile anche con la moglie tradita, Vanessa, all’epoca già mamma della primogenita di Kobe. L’incubo del Mamba andò avanti per circa un anno: il 27 agosto del 2004 il processo vide il ritiro delle accuse di stupro da parte dei legali della presunta vittima. Parecchi sponsor abbandonarono il giocatore dei Lakers: la Nutella decise di non legare più a Kobe il suo nome, mentre la Adidas, il suo sponsor tecnico personale fin dall’inizio della sua carriera, non rinnovò l’accordo con lui e Bryant diventò un uomo Nike. Singolare come quelle accuse, 16 anni dopo, tornino a galla proprio dopo la sua morte, come una coltellata nel cuore della sua famiglia, che in queste ore non meritava probabilmente di vedere rivangata quella brutta storia.

Kobe Bryant, i tweet che stanno mettendo in crisi il Washington Post. La giornalista Felicia Sonmoz ricorda sui social il passato caso di sospetto stupro che coinvolse il campione scomparso domenica. Ondata di insulti e minacce ma il management del giornale non la protegge, anzi la punisce. E i colleghi insorgono. Raffaella Menichini il 28 gennaio 2020 su La Repubblica. “L’inquietante caso di Kobe Bryant e lo stupro: le prove del Dna, la storia dell’accusatrice e la mezza confessione”. Questo tweet, con allegato il link a un articolo di tre anni fa, è costato a una reporter politica del Washington Post la sospensione amministrativa per violazione delle regole di comportamento sui social media imposti dall’azienda. Una misura da molti considerata eccessiva, che per ora vede però una sola imputata: Felicia Sonmez, colpevole di aver rivangato un episodio poco edificante del passato di Bryant a sole due ore dalla notizia della sua tragica morte, insieme alla figlia e ad altre sette persone, in un incidente di elicottero il 26 gennaio scorso. In pochi minuti la donna è stata sommersa di insulti e vere minacce di violenza fisica, ma la direzione del Post ha ritenuto di doverla punire ugualmente, in quanto il suo tweet ha dimostrato “scarso giudizio e ha messo a rischio il lavoro dei suoi colleghi”. La vicenda a cui si riferisce Sonmez riguarda un episodio del 2003, quando una cameriera diciannovenne di un resort del Colorado accusò il campione dell’Nba di averla violentata. La giovane, sottoposta a molte pressioni da parte dei legali di Bryant, più tardi ritrattò l’accusa ma mantenne comunque una causa civile che fu poi liquidata dal cestista. Bryant in parte riconobbe l’ambiguità della propria posizione, sostenendo che il rapporto sessuale con la giovane era stato secondo lui consensuale ma riconoscendo che “lei non aveva visto questo episodio nello stesso modo”. Da allora Bryant aveva mantenuto il punto di dedicarsi alla vita di famiglia, anche se il percorso di riconciliazione con la moglie Vanessa (madre anche della piccola Gianna morta con lui domenica) fu lungo e marcato anche da un avvio di divorzio, poi rientrato. Per Sonmez, però, il fatto che i media e i fan di tutto il mondo stessero evocando la vita e le gesta del grande campione scomparso omettendo completamente questo momento importante della sua vita non era accettabile. Non lo era per lei come giornalista, ma anche come donna in passato vittima di stupro. La sua denuncia delle violenze subite a Pechino nel 2017 dal collega del Los Angeles Times Jonathan Kaiman, allora corrispondente dalla Cina (accusa suffragata dalla denuncia di un’altra donna contro lo stesso Kaiman), valse il licenziamento e la fine della carriera dell’uomo ma anche un certo isolamento di Sonmez rispetto al management del Post, che in questi anni l’ha già più volte presa di mira e rimbrottata per l’attività sui social. Il provvedimento della direzione del Washington Post - ancora più sorprendente visto il ruolo di primo piano che lo stesso giornale ha avuto nella denuncia dei primi casi di violenza che diedero origine al movimento #MeToo - è ancora in fase di valutazione. Per ora la donna è stata messa in aspettativa amministrativa, mentre i vertici dell’azienda decidono di che tipo di violazione del codice interno sul comportamento da tenere sui social si sia macchiata. E’ evidente che l’ondata di indignazione a caldo provocata dal suo tweet ha travolto e spaventato la direzione e la proprietà, in un momento in cui l’enormità della notizia della morte di Bryant stava avendo il sopravvento. Ma il provvedimento, anche a causa della lacunosità delle sue motivazioni, rischia di trasformarsi in un boomerang perché il caso può diventare simbolico esattamente di quel che il management del Post vuole evitare. L’ondata di sdegno contro Sonmez, infatti, non si è limitata alle critiche e alle proteste. Contro la donna si sono scatenati hater armati di insulti pesanti e anche di minacce di violenza fisica. Qualcuno ha pubblicato l’indirizzo di casa della giornalista, che da domenica è stata costretta ad andare a vivere in un luogo protetto per timore di essere aggredita. Lei ha reso noto tutto questo via Twitter immediatamente. E dal vertice del suo giornale, invece che un atto di solidarietà, è arrivato il primo attacco: l’ordine di cancellare tutti i tweet incriminati (compresa la documentazione delle minacce ricevute via email), in quanto violavano la privacy delle persone che la stavano insultando. Poi sono arrivati i provvedimenti disciplinari, motivati goffamente prima con il fatto che Felicia Sonmez avesse twittato di un argomento che esulava dalla sua competenza (criterio secondo cui tutti i giornalisti dovrebbero finire in punizione), poi con la presunta violazione della privacy proprio di coloro che la minacciavano di morte. Sul contenuto di quei tweet, però, è difficile obiettare, a meno che non si sostenga che il cattivo tempismo può prevalere sulla libertà d’espressione. L’atteggiamento del management del Post però non riflette il clima in redazione. Evidentemente l’interpretazione restrittiva del “decalogo” di comportamento sui social usata come metodo di imbrigliamento dei giornalisti non piace ai colleghi di Sonmez. Sul sito è uscito un durissimo attacco alla direzione da parte del reporter dello stesso Post che si occupa dei media, Erik Wemple: “Il clamore che si è acceso intorno a Sonmez deriva dal vecchio costume secondo cui non si può parlare male dei morti. Una regola che però non si applica agli storici e ai giornalisti, cui il pubblico si affida per conoscere tutta la verità sul passato dei personaggi importanti”. La vicenda sta prendendo anche una seria piega sindacale. In una lunga e dura lettera al direttore Martin Baron e alla vicedirettrice responsabile degli standard e l’etica Tracy Grant, firmata da oltre 300 giornalisti, il Guild (sindacato) accusa il management di “totale violazione delle buone pratiche nel sostegno alle vittime di violenza sessuale - comprese quelle che utilizziamo nel nostro giornalismo. I superstiti di aggressioni dentro e fuori la redazione meritano un trattamento giusto e trasparente. Un trattamento che non colpevolizzi le vittime o comprometta la sicurezza dei superstiti”. Ma i giornalisti accusano la leadership del Post anche di fare uso sproporzionato e discrezionale delle regole di comportamento sui social media, e lo fanno con un linguaggio che fa capire come l’episodio di Sonmez, così carico di complicanze e pesanti bagagli di vissuto personale, sia in realtà solo l’apice di un problema più profondo. E chiedono non solo l’immediata cancellazione del provvedimento contro la collega, ma anche che vengano messe in campo misure attive per proteggerla e difenderla. E concludono, con un appello che è anche un monito: “Lasciate che facciamo quel che vogliamo fare davvero: i giornalisti”. 

Kobe Bryant accusato di stupro: il cestista non fu mai condannato. Asia Angaroni il 30/01/2020 su Notizie.it. Felicia Sonmez, giornalista del Washington Post, su Twitter ha ricordato le accuse di stupro che avevano coinvolto Kobe Bryant nel 2003.  A poche ore dalla morte di Kobe Bryant una giornalista del Washington Post ha ricordato le accuse di stupro che lo avrebbero coinvolto nel lontano 2003. In quell’anno, infatti, il cestista fu indagato (ma mai condannato) per violenza sessuale. Le parole di Felicia Sonmez hanno alimentato una serie di proteste. Lei stessa, infatti, è stata presa di mira, ricevendo insulti, minacce di morte e stupro. La cronista è stata costretta a trasferirsi in un hotel, abbandonando la sua casa. Il suo indirizzo privato, infatti, era stato diffuso online. Anche Evan Rachel Wood, attrice famosa per la precedente love story con Marilyn Manson e per aver partecipato alla serie Westworld, ha pubblicato accuse contro il cestista. “Ho il cuore spezzato per la famiglia di Kobe. Era un eroe dello sport. Era anche uno stupratore. Ed entrambe queste verità possono esistere simultaneamente”. Molte le polemiche emerse dopo il suo post.

Kobe Bryant, le accuse di stupro. Le accuse a carico di Kobe Bryant risalgono all’estate del 2003. All’epoca il campione dei Los Angeles Lakers aveva solo 25 anni. Si trovava in Colorado, dove lo avrebbero poi operato al ginocchio. Fa il check in un hotel-spa vicino alla clinica. Si fa accompagnare da una concierge alla sua camera. I due iniziano a baciarsi e, stando a quanto ha sempre dichiarato Bryant, il loro rapporto è stato consensuale. La donna, invece, ha denunciato il giocatore alla polizia, dichiarandosi vittima di stupro. La donna mostrò persino un livido al collo. Il campione della pallacanestro, inizialmente, aveva negato l’accaduto, poiché già sposato e con una figlia. Eppure, davanti alle prove fornite alla polizia (tra cui segni e sperma di lui all’interno della vagina, ma anche sangue di lei sulla maglietta di Kobe), lui dovette ritrattare le sue posizioni. In conclusione, ha confermato che fra loro c’è stato sesso, ma ha ribadito che è stato un rapporto consenziente. I suoi avvocati diffondono il nome della concierge, sottolineandone l’inattendibilità come accusatrice e facendo emergere alcuni suoi trascorsi sessuali e psichiatrici. La donna smetterà quindi di collaborare con gli investigatori e smetterà di testimoniare. “Forse perché realizzò di aver sbagliato ad accusare Bryant. Forse perché era solo una 19enne terrorizzata, che non poteva reggere l’ostilità dei media e la controffensiva di un uomo ricco e famoso”, scrive il Guardian a distanza di più di 15 anni. Il caso penale contro Kobe Bryant è stato così archiviato. La donna, invece, porta avanti una causa civile e raggiungerà un accordo con Kobe. Sconosciuti i termini, ma c’è chi parla di 2,5 milioni di dollari.

Le parole del campione. In seguito all’archiviazione, il cestista rilascerà un lungo comunicato. Nel documento, Kobe ribadisce che per lui il rapporto è stato consensuale, ma adesso riconosce che “per la donna non lo era”. La moglie ha deciso di rimanere al suo fianco e non divorziare. Difficile, invece, recuperare il rapporto con gli sponsor. Da quel momento Kobe diventerà famoso come a Black Mamba, come il serpente più letale dell’Africa reso famoso dal film Kill Bill. Per lui ha inizio una nuova vita e lascia alle spalle l’incidente, del quale non si parlerà più.

Le accuse improprie della giornalista. Il Washington Post ha imposto a Felicia Sonmez un congedo amministrativo. In questo modo sarà possibile verificare se il messaggio, in seguito eliminato, abbia violato o meno le direttive ai giornalisti sull’uso dei social media. “I tweet di Sonmez mostrano un errore di giudizio che ha minato il lavoro dei suoi colleghi”: è questo il motivo del provvedimento preso a suo carico. “Alle 10mila persone che hanno commentato e scritto email con insulti e minacce di morte: prendetevi un minuto e leggete il pezzo, scritto oltre tre anni fa e non da me. Ogni figura pubblica andrebbe ricordata nella sua totalità, anche quando è amata da tutti”. Così la giornalista americana ha risposto agli attacchi. Il sindacato che rappresenta i mille dipendenti del gruppo del Washington Post la difende e ha chiesto che venga immediatamente reintegrata. La Sonmez è stata definita “una collega valorosa”. Per il sindacato, “è stata censurata per aver riportato quello che è un dato di fatto”.

«Con Kobe Bryant è morta una stella»: le lacrime dell’America per Black Mamba e la figlia. Pubblicato lunedì, 27 gennaio 2020 su Corriere.it da Giuseppe Sarcina e Leonard Berberi. Era uno dei campioni di basket più forti di tutti i tempi: ma l’ondata di shock e dolore innescata dalla sua morte drammatica, in uno schianto d’elicottero in California, mostra quanto la sua rilevanza trascendesse il campo sportivo. Quando muore una stella. L’America piange Kobe Bryant. Uno dei più grandi campioni del basket di tutti i tempi è morto nello schianto del suo elicottero, la mattina di domenica 26 gennaio, in California. Con lui è scomparsa anche la sua secondogenita, Gianna, detta «Gigi», 13 anni. Una folla non solo di tifosi si è raccolta davanti allo «Staples Center» di Los Angeles, il palazzetto dei Lakers, la squadra in cui Bryant ha giocato per vent’anni. Prima lo shock, poi un’emozione corale stanno attraversando gli Stati Uniti e il resto del mondo. Da ore tv e giornali ricordano giustamente i record sportivi di un atleta assoluto, universale. I quattro campionati (o «ring») della Nba, le due medaglie d’oro olimpiche (Pechino 2008, Londra 2012). È stato anche scritto e detto che la figura di Bryant «trascendeva» l’ambito sportivo. E il «secondo tempo della sua vita», come ha twittato Barack Obama, era effettivamente pieno di attività benefiche, di iniziative a favore dei giovani. Questo, però, forse non basta a giustificare un dolore simile a una vertigine che ieri ha fatto dire a un commentatore radiofonico di Los Angeles: «È come con John Fitzgerald Kennedy, ognuno di noi ricorderà dov’era quando ha avuto la notizia della morte di Kobe». Una reazione eccessiva? Può darsi. In realtà Bryant ha giganteggiato proprio perché faceva sport, non perché faceva «qualcosa di più» oltre allo sport. Sono stati il suo genio, il suo immenso talento in quel rettangolo con due canestri a trasformarlo in un mito, in un grande personaggio del nostro tempo. Lo sport negli Stati Uniti (e in tanti altri Paesi) ha un radicamento sociale profondo. Ecco perché i suoi «eroi» continuano ad affascinare il pubblico anche dopo che abbandonano le gare, l’agonismo. Queste figure titaniche sono poche. Una di loro era Mohammed Alì, morto nel 2016. Il suo funerale, a Lousville, in Kentucky, è stato un evento travolgente, memorabile. Alla cerimonia funebre hanno partecipato celebrità del cinema e un ex presidente, Bill Clinton. Ma fu soprattutto un trionfo di popolo, perché Alì è stato amato per quello che era sul ring. Da quello che si è visto, potrebbe accadere qualcosa di simile per Kobe Bryant, perché ieri è morto prima di tutto un campione dello sport, cioè di «tutti», senza distinzioni. Ecco perché oggi «tutti» sono in lutto.

Kobe Bryant, la sua morte e quella di GiGi commuovono l'America. Pubblicato lunedì, 27 gennaio 2020 su Corriere.it da Giuseppe Sarcina. Il giallo e il viola brillano nella notte. Gli americani provano a farsi coraggio dopo la morte di Kobe Bryant, 41 anni, e della sua secondogenita, la tredicenne Gianna, detta Gigi. In tv, sui siti, su Twitter rimbalzano, da una città all’altra, le immagini di un Paese in lutto. Il sindaco di Los Angeles, Eric Garcetti ha fatto illuminare il City Hall, il municipio, con i colori dei Los Angeles Lakers, la squadra del grande campione di basket. Le luci sono rimaste accese anche altrove. Al Madison Square Garden di New York, al Mercedes Benz Stadium di Atlanta, allo United Center di Chicago.Jules Muck, una delle più note artiste di Los Angeles, ha disegnato nella notte un graffito gigantesco su un muro del Pickford Market, in centro città. È un ritratto di Kobe e Gigi, il mito e la sua inseparabile figlia, giovane promessa della pallacanestro. Un video li riprende mentre si allenano insieme. Il padre passa la palla, poi le si para davanti. Lei lo spinge via con un movimento perfetto della spalla, sale in sospensione e tira: ciuff, canestro, ovviamente. L’epicentro di questo dolore così profondo è lo Staples Center di Los Angeles, l’impianto in cui Kobe Bryant ha sempre giocato. Sulla rete è già partito un movimento per chiedere che sia celebrata qui la funzione funebre. Nel 2009 proprio allo Staples Center la città diede l’addio a Michael Jackson. C’era anche Bryant quel giorno sul palco. Forse non esiste un posto più appropriato di questo. Torna alla memoria il funerale di Muhammad Ali, il 10 giugno del 2016 a Louisville, in Kentucky. L’orazione dell’ex presidente Bill Clinton. Un trionfo di popolo. Probabilmente sarà così per Kobe, il Black Mamba, anche se la moglie Vanessa potrebbe scegliere di anticipare in forma privata la sepoltura del marito e di Gigi. Solo dopo ci sarebbe spazio per il ricordo pubblico. Non saranno dimenticate le altre sette vittime dell’incidente: l’allenatore di baseball, John Altobelli, sua moglie Keri e sua figlia Alyssa; Christina Mauser, coach di basket, sua figlia Sarah e sua madre Payton Chester. Infine il pilota Ara Zobayan.Gli investigatori stanno ancora ricostruendo le sue ultime manovre, prima dello schianto a Calabasas. La mattina di domenica le condizioni climatiche sono pessime. Nebbia impenetrabile, umidità quasi al 100% a nord di Los Angeles. L’elicottero privato di Kobe parte alle 9 da Santa Ana, a sud di Los Angeles. Ma la fitta foschia costringe subito il pilota a scendere di quota e a sorvolare in circolo per circa 15 minuti l’area dello zoo cittadino. Alle 9,30 Zobayan avvisa la torre di controllo dell’Hollywood Burbank Airport che gli dà comunque il via libera, nonostante la visibilità sia ridotta. Una volta fuori dalla zona sorvegliata, spetta al pilota decidere se proseguire. Ara,un aviatore esperto, sceglie di fare rotta verso Thousand Oaks, dove i ragazzi della Mamba Academy li stanno aspettando. Ma superata Los Angeles, il muro di nebbia lo costringe ancora a ripiegare verso sud. Il velivolo entra in una zona montuosa. È necessario salire immediatamente, da 360 a 600 metri. Alle 9.45 il Sikorsky S-76 si infrange contro una collina, a un’altitudine di 426 metri e a una velocità di 296 chilometri all’ora.

Morto Kobe Bryant, schianto in elicottero: tra le vittime anche la figlia Gianna, mondo sconvolto. Libero Quotidiano il 26 Gennaio 2020. È morto Kobe Bryant. Una notizia, terrificante, che sconvolge il mondo. Morto a 41 anni in un incidente di elicottero a Calabasas, nella mattinata di domenica. Insieme a lui anche la figlia Gianna, con cui stava viaggiando verso la Mamba Academy per un allenamento. La notizia è stata inizialmente confermata da Tmz. L'ex fuoriclasse dei Los Angeles Lakers stava viaggiando altre persone quando l'elicottero, di sua proprietà, è precipitato. Nessuno è sopravvissuto.  Nove le vittime confermate, compreso il pilota. A bordo non c'era Vanessa, la moglie del campione, uno dei più grandi giocatori nella storia del basket. Le cause dello schianto devono ancora essere accertate, ma stando ai primi rilievi la caduta dell'elicottero potrebbe essere dovuta alle cattive condizioni atmosferiche. Kobe lascia la moglie e tre figlie: Natalia, Bianca e Capri, che era appena nata. La morte di Bryant arriva poche ore dopo il sorpasso subito da parte di Lebron James nella classifica dei migliori realizzatori nella storia Nba, si trovava al terzo posto. "Grande rispetto per King James", si era congratulato Bryant dopo aver subito il sorpasso. Nella sua impareggiabile carriera, interamente in maglia Lakers, la guardia ha vinto cinque titoli Nba, una volta il titolo di Mvp della regular season e due volte quello delle finali. Con gli Stati Uniti ha vinto due Olimpiadi. "Black Mamba", questo uno dei suoi soprannomi, aveva un legame speciale con l'Italia, dove ha trascorso dai 6 ai 13 anni, seguendo il padre, che proprio come lui giocava a basket. Kobe parlava perfettamente la nostra lingua ed era un grande tifoso del Milan. Nella sua carriera, anche 18 partecipazioni all'All Star Game. Fu selezionato nel draft del 1996, giovanissimo, con la 18esima scelta assoluta: una clamorosa intuizione di quei Lakers, che con Shaquille O'Neal prima e con lui da assoluto trascinatore poi, hanno per lunghi anni dominato la Nba.

Kobe Bryant, è morta anche la figlia Gianna: era con lui sull'elicottero. Fra le vittime della tragedia anche la figlia Gianna Maria, una giovane promessa del basket femminile. Antonio Prisco, Domenica 26/01/2020, su Il Giornale. La morte di Kobe Bryant in un incidente di elicottero in California, nella contea di Los Angeles, si arricchisce di nuovi elementi e diventa purtroppo una tragedia familiare.

Lo schianto dell'elicottero. Secondo quanto riferito dal sito americano Tmz, Bryant era a bordo del suo elicottero privato insieme anche alla figlia Gianna Maria di 13 anni, astro nascente del basket femminile, oltre che insieme al pilota e ad altre due persone non ancora identificate. Conosciuta da tutti come GiGi, aveva ereditato dal padre la grande passione per la pallacanestro. Tra le figlie era quella più interessata a questo sport e aspirava ad una carriera da professionista. Spesso presente alle partite del padre, si faceva sempre notare per delle sessioni di tiro prima o dopo le partite, accompagnata da Kobe. Si allenava presso la Mamba Academy, il centro sportivo che stavano raggiungendo al momento dell'incidente, ed era una giocatrice delle Los Angeles Lady Mamba. Recentemente Kobe e Gianna Maria Bryant avevano assistito insieme ad una gara dei Los Angeles Lakers, la storica squadra di Kobe, allo Staples Center. La moglie Vanessa invece non sarebbe tra le vittime. Bryant lascia oltre alla moglie anche le altre tre figlie Natalia, Bianca e la neonata Capri.Tutti i cinque passeggeri sono morti. Il velivolo ha preso fuoco una volta precipitato e inutili sono stati i soccorsi. Bryant era abituato ad usare l'elicottero Sikorsky S-76 per spostarsi sin da quando giocava per i Lakers e fare la spola tra Newport Beach e lo Staples Center. Le autorità stanno indagano sulle cause che hanno provocato l'incidente di elicottero in cui la leggenda del basket americano ha perso la vita in California. Alcuni scatti mostrano una lunga colonna di fumo in una zona collinare della contea di Los Angeles. Nel frattempo spunta una testimonianza di un uomo di Calasabas che racconta di aver sentito "quello che sembrava un aereo o un elicottero a bassa quota. Era molto nebbioso, quindi non abbiamo potuto vedere nulla. Ma poi abbiamo sentito un crepitìo e poi un boom". Intanto la polizia di Los Angeles ha fatto sapere che alle 23 ore italiane terrà una conferenza stampa per fornire ulteriori dettagli sull'incidente in elicottero avvenuto a Calabasas ormai più di due ore fa. Inoltre le autorità hanno confermato la morte di cinque persone a bordo del velivolo, senza tuttavia rivelare ulteriori dettagli dell'identità delle persone presenti a bordo. Assieme a loro c'erano anche un altro giocatore e un congiunto non meglio identificato al momento. La figlia di Rick Fox, ex cestista dei Lakers e attore, ha smentito la notizia secondo la quale il padre sarebbe stato a bordo dell'elicottero in cui è morto Kobe. Sempre secondo quanto riportato da Tmz, sull’elicottero si trovava anche John Altobelli, allenatore di baseball all’Orange Coast College. L'Nba ha deciso di cancellare le gare di stanotte e domani in segno di lutto.

Lo sceriffo: '"A bordo nove persone''. Nell'attesa conferenza stampa, lo sceriffo ha rivelato: ''Poco prima delle 10 del mattino abbiamo ricevuto la telefonata di un incidente aereo nella contea di Los Angeles. All'arrivo abbiamo subito visto un incendio scaturito dall'incidente schiantatosi sul fianco della collina. Abbiamo inviato una squadra di 56 fra medici, paramedici e forze dell'ordine. Fiamme molto persistenti, dovute al magnesio presente sui detriti del velivolo. Assieme ai vigili del fuoco sul luogo è intervenuto anche un elicottero che ha verificato l'eventuale presenza di superstiti. Purtroppo nessuno dei passeggeri è vivo. Aspettiamo l'arrivo del coroner per il recupero dei resti delle vittime. A bordo dell'elicottero c'erano 9 persone: il pilota più altri 8 passeggeri. Nonostante le speculazioni delle ultime ore su chi facesse parte di questo volo, sarebbe da parte nostra inadeguato, inappropriato e irrispettoso da parte nostra dare adito a queste speculazioni. Questo fino a che il coroner non abbia svolto il suo lavoro".

Gianna Bryant, l'erede del grande Kobe morta con suo padre. La figlia 13enne del campione di basket era con lui sull'elicottero che si è schiantato a Los Angeles. Voleva seguire le orme del padre sul parquet. E già mostrava di averne la stoffa. Piera Matteucci il 27 gennaio 2020 su La Repubblica. Aveva solo 13 anni, ma già le idee molto chiare: voleva seguire le orme di suo padre. Gianna Bryant, figlia della stella del basket Kobe, morto in un incidente con l'elicottero, se n'è andata insieme al padre, di cui era l'ombra. Anche lei era, con Kobe e altre 7 persone, sull'elicottero che si è schiantato sulla collina di Calabasas, a Los Angeles. Nonostante la giovanissima età, Gianna, che come le sorele Natalia (17 anni, giocatrice di pallavolo), Bianka (3 anni) e Capri (sette mesi), portava nel nome l'affetto di Bryant per l'Italia, guardava al suo futuro sui cambi di basket e nelle università americane con le migliori squadre professioniste. E Kobe sorrideva quando i suoi tifosi gli chiedevano se gli dispiacesse di avere quattro figlie femmine: sentiva che Gianna sarebbe stata la sua degna erede. "È una persona speciale - disse Kobe di Gianna durante una puntata dello show di Jimmy Kimmel -. Una volta davanti a lei alcuni tifosi mi dissero che avrei dovuto avere un figlio maschio per proseguire la dinastia, lei rispose fiera: 'Non vi preoccupate, ci penserò io'". Gianna e Kobe erano legatissimi: lei era sempre al suo fianco sugli spalti delle partite della NBA e della WNBA. Lui giocava a basket con lei nella palestra della loro villa e allenava la sua squadra del college. Ieri stavano andando in elicottero a un torneo a cui partecipava proprio la squadra di Gianna, soprannominata "Mamba Team", da uno dei soprannomi di Kobe Bryant. Con loro c'rano anche uno dei compagni di squadra della giovane e i suoi genitori. Ossessionata dal basket come il padre, 'Gigi', come affettuosamente Kobe l'aveva soprannominata, aveva sul parquet gli stessi atteggiamenti del campione: "Quello che mi piace di Gigi è la sua curiosità per il basket, è interessata a tutto. Durante una partita ha la rara capacità di analizzare ciò che accade e di porre le domande giuste", aveva detto Bryant al quotidiano Los Angeles Times lo scorso ottobre. "È un privilegio guardarla mentre si muove durante il match e notare alcune delle sue espressioni (...) È pazzesco vedere come funziona la genetica", ha aggiunto. Gianna ha anche riacceso la passione per il basket di suo padre, la cui fine della carriera è stata segnata da gravi infortuni e delusioni sportive con i Lakers. La sua carriera era quasi segnata: voleva iscriversi a tutti i costi, secondo suo padre, all'Università del Connecticut, punto di riferimento nel basket americano, prima di tentare la fortuna in WNBA. Suo padre e il padrino Rob Pelinka, un ex agente di Kobe e direttore generale dei Lakers, l'avevano presentata a stelle e allenatori nel basket femminile. Più del suo illustre cognome e dei suoi antenati, sono state le sue attitudini sul campo a catturare l'attenzione in particolare dell'allenatore della squadra di Los Angeles Sparks, la squadra di basket femminile di Los Angeles. "Hanno lo stesso modo di fare le cose e la stessa personalità", ha detto Derek Fisher, ex compagno di squadra di Bryant ai Lakers. Del padre aveva ereditato anche un soprannome ispirato a quello del campione "Black Mamba": per molti era già "Mambacita", la piccola Mamba.

Gianna e le orme di papà: "Sarò la tua erede". La 13enne aveva l'idea del gioco e il carattere del padre. Che la chiamava "Mambacita". Umberto Zappelloni, Martedì 28/01/2020, su Il Giornale. Kobe era un italiano. Non di passaporto, ma di sentimento. Gli erano bastati setti anni, quelli decisivi nella formazione di un ragazzo, per assorbire il meglio che può dare il nostro Paese. L'amore per la famiglia, l'amore per la vita. Lui ci ha messo il resto. L'amore per il basket e l'ossessione per la perfezione. Così è diventato uno dei più grandi di sempre nel basket e non solo in quello, perché la commozione scatenata dalla sua morte ha oltrepassato i confini dello sport. È bizzarro che uno che aveva ereditato il nome da una bistecca giapponese, abbia scelto solo nomi italiani per le sue quattro figlie. Natalia Diamante, Gianna Maria Onore, Bianka Bella e Capri Kobe. Originali, ma italiani. «Italianissimi», come sottolineò una volta in un'intervista, rimarcando il suo amore per il nostro Paese. Un amore sbocciato tra Rieti, Reggio Calabria, Pistoia e Reggio Emilia e fra i 6 e i 13 per anni, il periodo in cui il bambino diventa ragazzino. «A parte la mia grande elevazione tutto il resto lo devo all'Italia», ha sempre raccontato nelle sue frequenti visite italiane. E non lo raccontava solo a noi italiani per farci sentire importanti. Lo raccontava sempre, anche nella bella biografia scritta da Roland Lazenby ed edita in Italia da 66thand2nd. «Stavamo bene, lì - diceva Kobe -. Sviluppammo quel tipo di mentalità, in Italia. La cosa importante è la solidità della famiglia. Quando hai quella, tutto il resto va bene. Che tu segni cinquanta punti o nessuno, la tua famiglia sarà sempre lì per te. Gli italiani la pensano allo stesso modo. È un popolo dal cuore caldo». E quanto tenesse all'Italia lo dimostrano le parole dette quando ha ricevuto l'Oscar per il miglior cortometraggio: «Mi wife Vanessa and our daughters Natalia, Gianna and Bianka vi amo con tutto il mio cuore: you are my inspiration» con quella frase pronunciata in italiano davanti all'Accademy. Quella famiglia tutta al femminile era il suo tesoro. Gianna, «Gigi» la sua erede designata per cui aveva già scelto il nomignolo «Mambacita» se ne è andata con lui su quell'elicottero maledetto. Gigi aveva l'idea del gioco e pure il carattere forte di papà. «Una volta davanti a lei alcuni tifosi mi dissero che avrei dovuto avere un figlio maschio per proseguire la dinastia, lei rispose fiera: Non vi preoccupate, ci penserò io», aveva detto Kobe allo show di Jimmy Kimmel . I suoi vecchi amici italiani non smettono di piangere. «Voleva sempre giocare a basket e quando non giocava guardava le cassette che suo padre si faceva spedire dall'America», ricordano i suoi vecchi amici con i quali è sempre rimasto in contatto. Guardava Magic, Jordan ne imitava i movimenti. E quando non giocava e non era davanti alla tv, era a bordo campi a vedere papà. Era uno dei ragazzini che asciugavano il parquet. In cambio nell'intervallo gli permettevamo di tirare. E la gente che lo vedeva non staccava più gli occhi da quel ricciolone. Capitò anche che Dan Peterson, allenatore della squadra avversaria, si fermò a chiedere: «Ma chi è quel bambino?». E non fu l'unico. Metta World Peace, meglio conosciuto come Ron Artest, stella Nba arrivato a Cantù qualche anno fa rimase impressionato dalla passione e chiamò Kobe per dirgli: «Adesso ho capito perché giochi in quel modo». Giocava con la passione e l'amore imparati in Italia. Lui ci ha messo il resto con una dedizione e un impegno che possono essere un esempio per tutti. Non solo per chi deve spedire il pallone in un canestro.

Gianna e Kobe Bryant, le ultime foto prima della tragica morte. Redazione de Il Riformista il 27 Gennaio 2020. Una notizia che ha sconvolto il mondo intero quella riguardante la morte di Kobe Bryant, stella della pallacanestro Usa e simbolo dei Los Angeles Lakers. A perdere la vita in un incidente in elicottero c’era anche la figlia Gianna, di 13 anni. A riportare la notizia è il sito TMZ, secondo cui tutti gli occupanti dell’elicottero sono deceduti nell’incidente. L’elicottero di proprietà dell’ex cestista, ritiratosi dal basket nel 2016, si è schiantato nei pressi di Calabasas, a nord ovest di Los Angeles. La moglie Vanessa non è tra le vittime, così come le altre tre figlie Natalia, Bianca e Capri. Kobe Bryant e la figlia si stavano dirigendo in elicottero alla Mamba Academy per un allenamento mattutino. Infatti Gigi, così come la chiamava il padre, stava seguendo le orme del padre come cestista. Il sito TMZ Sports ha pubblicato alcune delle ultime foto che ritraggono Kobe Bryant con sua figlia Gianna durante una partita di basket. Le foto sono state scattate sabato alla Mamba Sports Academy di Kobe a Thousand Oaks, dove il team Mamba di Gigi ha giocato due partite. Le foto ritraggono momenti di tenerezza tra padre e figlia che erano legati da una forte passione. Infatti ad un certo punto Kobe è andato dalla figlia per darle alcuni consigli. Bryant aveva dichiarato più volte che Gianna aveva l’aspirazione di essere nel WNBA ed era sulla buona strada per arrivarci. L’amore per il basket li univa anche fuori dal campo, quando vivevano momenti tra genitore-figlia. Spesso andavano insieme a vedere le partite di basket. La loro complicità è stata ripresa non molto tempo fa dalle telecamere, il cui video è stato postato da tantissimi utenti sui social affranti per questa perdita.

L’INCIDENTE – Il medico legale della contea di Los Angeles, Jonathan Lucas, ha affermato che il terreno accidentato ha complicato gli sforzi per recuperare i resti della leggenda del basket Nba Kobe Bryant, della figlia 13enne  Gianna e delle altre sette persone a bordo dell’elicottero schiantatosi ieri nei pressi della metropoli californiana. Il medico stimato in almeno un paio di giorni il tempo necessario completare l’attività prima di poter effettuare le identificazioni dei corpi. Intanto le autorità locali hanno reso noto ulteriori dettagli del tragico incidente. L’elicottero di Bryant ha lasciato Santa Ana nella Contea di Orange, a sud di Los Angeles, poco dopo le 9 del mattino ora locale virando a est dell’Interstate 5, vicino a Glendale. I controllori del traffico aereo hanno notato una scarsa visibilità intorno alla zona.

LE VITTIME – C’è era anche l’allenatore di baseball John Altobelli, 56 anni, fra le vittime del tragico incidente di elicottero in cui hanno perso la vita la ex star del basket NBA Kobe Bryant, 41 anni, e la figlia Gianna di 13. Lo ha confermato ad AP Tony Altobelli, fratello minore dell’allenatore di Orange Coast College. Morti anche la moglie Keri e la figlia Alyssa, che aveva circa 13 anni e giocava nella stessa squadra di basket della figlia di Bryant.

Domenico Zurlo per leggo.it il 27 gennaio 2020. Ad aggiungere drammaticità alla scomparsa di Kobe Bryant, morto ieri a 41 anni in un incidente in elicottero, la presenza sul mezzo della figlia Gianna Maria Onore, soprannominata Gigi, che aveva soltanto 13 anni. Gianna, nome italiano come tutte le figlie di Bryant (che in Italia aveva passato parte della sua infanzia e adolescenza, per via della carriera cestistica di suo padre Joe nel nostro Paese), era la secondogenita di Kobe, ed era pronta a seguire l’esempio del papà. Gigi era infatti già una piccola star del basket e sognava la WNBA, la lega femminile americana, il massimo livello cestistico mondiale. Suo padre la portava spesso in giro per i palasport, con tanto di lezioni tattiche a bordo campo in cui Kobe spiegava a sua figlia giocate e schemi, e lezioni sul parquet, come testimoniano tanti video sui social. Come detto, tutte le figlie di Kobe hanno nomi italiani: la primogenita è Natalia, 17 anni, poi c’era Gianna di 13, Bianka di 3 e Capri di appena 7 mesi, che probabilmente quando crescerà non avrà quasi alcun ricordo del papà da vivo. Dopo il suo ritiro dal basket giocato, Bryant aveva iniziato ad allenare proprio la squadra della figlia, che da Kobe aveva ereditato anche l’ambizione e l’autostima: ospite di Jimmy Kimmel infatti il Mamba aveva raccontato che quando qualcuno gli chiedeva chi avrebbe portato avanti la sua eredità data l’assenza di figli maschi, Gigi interveniva dicendo «ci penserò io». Tutta suo padre.

Kobe Bryant: ''Le mie figlie non capiscono il mio amore per l'Italia''. Intervistato nel 2016 durante una visita a Reggio Emilia, Kobe Bryant descriveva il suo rapporto speciale con l'Italia e il legame con i luoghi in cui era cresciuto. Antonio Prisco, Martedì 28/01/2020, su Il Giornale. ''Le mie figlie in America non possono avere le cose che ho avuto io in Italia'' raccontava Kobe Bryant in una vecchia intervista a Basketime, durante una visita a Reggio Emilia. Kobe amava l'Italia e in particolare Reggio Emilia dove aveva trascorso gran parte della sua infanzia con il suo papà Joe Bryant, anche lui cestista ed ex giocatore di Rieti, Reggio Calabria, Pistoia e infine Reggio Emilia. Nel nostro Paese aveva passato gli anni più felici della sua adolescenza. Arrivato a soli 6 anni, quando il papà Joe aveva deciso di lasciare i Houston Rockets per proseguire la sua carriera a Rieti, si trasferì dal 1989 al 1991 a Reggio Emilia dove aveva lasciato un pezzo di cuore. Una passione che Kobe voleva tramandare anche alle sue figlie portandole più spesso nei luoghi dove era cresciuto e dove sapeva sentirsi sempre a casa. Come testimonia una vecchia intervista realizzata da Basketime nel 2016 durante una visita dell'ex campione proprio a Reggio Emilia: ''Le mie figlie in America non possono avere le cose che ho avuto io: i giri con gli amici quando uscivo di casa, in una piazza, con un gelato, a parlare e a divertirci… cose normali. In America non si può e penso che loro si perdano questa cosa. Se glielo racconto, per loro è impossibile capirlo perché non l’hanno mai visto. Però questa è la cosa più importante, avere questi momenti, ed è difficile averli in America''. Kobe innamorato dell'Italia che raccontava i ricordi più divertenti di quegli anni a Reggio Emilia ''uno spettacolo con la scuola quando aveva 12 anni'' e il sogno di aprire proprio lì dove era cresciuto, una scuola per tanti piccoli appassionati di basket, per educarli anche in campi diversi cone scrittura, marketing e business in maniera tale da permettere loro di coltivare questa passione non solo sul campo. Intanto il sindaco di Reggio Emilia Luca Vecchi ha annunciato su Facebook che sarà dedicata una piazza a Kobe Bryant: "Reggio Emilia intitolerà a Kobe Bryant la nuova piazzetta che si affaccia su via Guasco''. Iniziative analoghe con l'intitolazione di una strada anche a Rieti, nella città sabina il 5 febbraio è prevista una cerimonia commemorativa e a Reggio Calabria dove la Pallacanestro Viola ha inoltrato una richiesta ufficiale alle istituzioni cittadine. Allo stesso modo il Milan, di cui Kobe era gran tifoso, ha annunciato che questa sera, in occasione del match di Coppa Italia contro il Torino, lo ricorderà con il lutto al braccio mentre il club granata, attraverso Twitter, fa sapere che sarà al fianco dei rossoneri per ricordare l'indimenticato campione.

Le figlie di Kobe Bryant: Gianna Maria promessa del basket morta con lui, Natalia Diamante, Bianka Bella e Capri. Pubblicato lunedì, 27 gennaio 2020 su Corriere.it da Roberto De Ponti. GiGi era un giovane talento del basket. Del resto, allenandosi ogni giorno nella palestra di casa con papà Kobe, non poteva essere diversamente. Un video domestico la ritrae mentre con una finta di mestiere manda lungo un papà compiaciuto prima di fare canestro dalla media distanza. Un altro meme la sorprende sulle tribune dello Staples Centre mentre ascolta le indicazioni tecniche di papà, prima di scoppiare in una fragorosa risata: quel meme è diventato l’epitaffio di Gianna Maria-Onore e Kobe Bryant, figlia e padre che hanno visto i propri sogni schiantarsi contro una collinetta a una manciata di chilometri da Los Angeles. Gianna Maria-Onore, soprannominata GiGi, aveva 13 anni, una canottiera delle Los Angeles Ladies e il sogno di giocare un giorno con U-Conn per rinverdire i fasti di papà. E aveva un nome italiano, come le tre sorelle: Natalia Diamante, la maggiore, Bianka Bella, la terzogenita, e Capri Kobe, nata da pochi mesi. Una scelta non casuale: l’Italia è sempre stata nel cuore del fenomeno che ha cambiato il corso del basket mondiale. Non è una novità. «Mi piaceva parlare con lui della pallacanestro dei Lakers, di essere padri e mariti e di quanto amavamo l’Italia» la commemorazione dell’amico e maestro Magic Johnson. E Kobe, del suo amore per il nostro Paese, non aveva mai fatto mistero: «Se sono diventato quello che sono, è tutto merito dell’Italia. Lì ho vissuto negli anni della mia adolescenza, lì ho imparato a giocare a basket, lì ho lasciato tanti amici». E non era un modo di dire: «Ho voluto che le mie figlie imparassero l’italiano, perché quelle sono le nostre radici». Italiano dentro, Kobe, tanto da chiamare le sue quattro meraviglie con nomi italiani. L’ultima, Capri, scegliendo con ogni probabilità il luogo dove era stata concepita. Una tradizione di famiglia, papà Joe lo chiamò Kobe dopo un viaggio in Giappone: si era innamorato della bistecca kobe tipica di quel Paese e aveva deciso di dare al figlio lo stesso nome. Per questo oggi l’Italia del basket si sente un po’ più orfana degli altri: Kobe era anche un po’ nostro. Come GiGi, giovane promessa della pallacanestro caduta di fianco al suo papà.

Kobe Bryant, tra le vittime anche la compagna di squadra della figlia. Jacopo Bongini il 27/01/2020 su Notizie.it. Altre otto persone, compresa la figlia e Alyssa Altobelli, sono morte nell'incidente in elicottero in cui ha perso la vita Kobe Bryant. Emergono nuovi terribili particolari dalle indagini sull’incidente in elicottero che nella giornata del 26 gennaio ha causato la morte di Kobe Bryant, 41enne ex cestista considerato uno dei più forti giocatori di basket di tutti i tempi. Nello schianto è infatti morta anche la figlia di 13 anni di Bryant, Gianna Maria, che assieme al padre si stava dirigendo con il velivolo presso la Mamba Academy di Thousand Oaks per partecipare ad un allenamento di pallacanestro. Insieme a loro, sull’elicottero precipitato, anche l’amica Alyssa Altobelli.

Morta Alyssa Altobelli. Tra le vittime del tragico incidente del 26 gennaio si conta anche la giovanissima Alyssa Altobelli, compagna di squadra di Gianna Maria. La ragazzina viaggiava insieme alla madre e al padre (Keri e John Altobelli, coach della squadra di basket dell’Orange Coast College). Alyssa e Gianna si allenavano insieme a Thousand Oaks e, come dichiarato dal vice allenatore Ron La Ruffa, erano solite accompagnare Bryant alle partite: “Era una cosa che John [Altobelli ndr] faceva abitualmente.

Volava con Kobe per partecipare alle partite con sua figlia”. La notizia della morte della giovane Gianna Maria è stata riportata dal sito di news statunitense Tmz, lo stesso che per primo ha diffuso la voce della scomparsa dell’indimenticato campione. A bordo dell’elicottero oltre a Bryant e alla figlia si trovavano altra sette persone anch’esse morte nell’incidente. Nello schianto infatti, non è purtroppo sopravvissuto nessuno. Inizialmente era stata data per probabile sull’elicottero anche la presenza dell’ex giocatore dei Lakers Rick Fox, ma pochi minuti dopo la notizia è stata fortunatamente smentita. Stando a quanto riportato dalla Federal Aviation Administration in queste ore, l’elicottero sul quale viaggiava Bryant era un Sikorsky S-76. Confrontando il numero di riconoscimento posto sulla coda del velivolo si è potuto appurare che sia proprio quello di proprietà dal giocatore da molti anni e che regolarmente utilizzava per spostarsi tra i vari impegni di lavoro. Con la loro morte, Kobe Bryant e la figlia Gianna Maria lasciano la moglie e madre Vanessa Laine e i figli e fratelli Natalia Diamante, Bianka Bella e Capri Kobe. Nel 2010 la rivista GQ spiegava come Bryant utilizzasse così spesso l’elicottero per spostarsi al fine di arrivare sul campo da gioco in perfette condizioni fisiche: “Dato il suo dito rotto, le sue fragili ginocchia, la sua schiena e i suoi piedi doloranti, per non parlare della sua agitazione cronica, Bryant non riesce a stare seduto in macchina per più di due ore. Con l’elicottero si assicura che arrivi sul campo sentendosi fresco, con il corpo caldo, sciolto e fluido come il mercurio”.

Francesco Persili per Dagospia il 27 gennaio 2020. “Se vuoi vincere il titolo Nba, devi segnare, cazzo”. Kobe Bryant nel bel mezzo di una finale NBA contro i Boston Celtics si mette a parlare in italiano con il compagno di squadra Sasha Vujacic, tre anni a Udine. Ma come è possibile? Lascia stare lo Staples Center, le grandi strade di LA. Prendi la Salaria e riparti dall’inizio. Sabina Confidential. A fare da sfondo ai primi canestri di Kobe Bryant non c’è la collina di Hollywood ma il monte Terminillo. A tenerlo a battesimo sul parquet non è Los Angeles, la città in cui ha vinto 5 titoli NBA con la canotta dei Lakers, né Philadelphia, la sua città natale, ma Rieti. Quella di “Black Mamba” è una storia molto italiana. Mamba italiano. Aveva sei anni, il padre, il mitico Joe Bryant furoreggiava con la Sebastiani Rieti, Kobe giocava sul campetto della parrocchia e faceva piangere i bambini rivali. Un canestro via l’altro, nel nostro paese ha imparato a palleggiare anche con la mano sinistra, ammirato il brasiliano ex Caserta Oscar Schmidt (e le sue bombe da tre) e sognato sulle note di “Bad”. Grazie a Michael Jackson ha capito come si diventa un fuoriclasse: passione, lavoro duro, ricerca della perfezione (sugli allenamenti alle 4 di mattina c’è una copiosa letteratura). Tra Rieti, Reggio Calabria, Pistoia e Reggio Emilia, Kobe ha forgiato i fondamentali tecnico-agonistici e la visione che gli avrebbe permesso poi di diventare il campione più popolare del basket americano nell’era post Jordan, come ricorda Andrea Barocci nel suo libro “Un italiano di nome Kobe”. Prima del Triangolo, lo schema offensivo di Phil Jackson, il guru prima dei Bulls e poi dei Lakers, Kobe è rimasto estasiato dal Milan di Sacchi e ha interiorizzato le quattro f che definiscono il made in Italy. Food, football, fashion and Ferrari (fiore all’occhiello del suo parco-macchine). “Sono cresciuto in Italia, un posto che sarà sempre nel mio cuore”, ha detto in una intervista a Radio Deejay. La più italiana delle stelle NBA non ha reciso il cordone ombelicale con la sua seconda patria: ha chiamato le sue figlie Natalia Diamante e Gianna Maria Onore. E quando durante la cerimonia degli Oscar 2018, vinse la statuetta per il film documentario "Dear Basketball", ringraziò nella lingua di padre Dante la moglie Vanessa e le figlie, Natalia, Gianna e Bianka. “Vi amo con tutto il mio cuore". Le radici sono sempre importanti, già.

Roberto De ponti per il Corriere della Sera il 27 gennaio 2020. Soltanto poche ore prima aveva visto LeBron James, il fenomeno a cui aveva passato il testimone, superare il suo primato di punti in Nba. I record sono fatti per essere battuti, avrà pensato, ma il suo feroce spirito competitivo non lo avrà lasciato tranquillo: perdere, a Kobe Bean Bryant, non piaceva proprio. Fin da quando, da bambino, cominciò a inseguire papà Joe, detto Jellybean, per i campi di basket d' Italia, Rieti, Reggio Calabria, Pistoia, Reggio Emilia. I tifosi apprezzavano le prodezze sotto canestro del giocatore venuto da Filadelfia, ma impazzivano per quel ragazzino tutto riccioli che durante l' intervallo delle partite scendeva sul parquet e segnava da qualsiasi posizione. Uno spettacolo fuori programma. Un predestinato, Kobe, cresciuto in Italia e diventato «la» pallacanestro. «Tutto è cominciato qui... In queste stradine, su un campetto in piastrelle. Andavo avanti e indietro in bici, con il pallone sottobraccio, e sentivo il profumo, i sapori di questa terra, la cultura, la storia. L' architettura. Non riesco a immaginare un posto più lontano dalla Nba. Eppure in Nba ci sono arrivato». Ci è arrivato studiando i suoi campioni preferiti, Magic Johnson, Michael Jordan, consumando videocassette a furia di schiacciare i tasti play, stop e review. E ripetendo i loro gesti. Reggio Emilia, la sua casa adottiva. Non passava anno senza che venisse a farsi un giro da queste parti, a trovare i vecchi amici, con cui parlava rigorosamente in italiano. Ci teneva così tanto, alle sue «origini» italiane, da aver voluto che anche le sue figlie studiassero la nostra lingua.

Un ragazzino precoce. Non aveva ancora 18 anni quando si dichiarò eleggibile per il draft Nba senza passare per il college. «Non l' avevo detto a nessuno ma dentro di me ne ero convinto: sì, sarei diventato il giocatore più forte del mondo». Lo scelsero i Charlotte Hornets ma subito dopo lo cedettero ai Los Angeles Lakers in cambio dei diritti su Vlade Divac. E con la canottiera gialloviola Kobe divenne l' icona di una franchigia, della Nba, dello sport mondiale.

Kobe, semplicemente. Più giovane debuttante nella lega professionistica americana, a 18 anni e 72 giorni, Bryant ci mise un po' a capire (e a far capire) quanto fosse forte, poi nel secondo anno di Nba si rese conto di essere speciale. «Fu un' illuminazione. Durante un time out dico a un mio compagno: ora facciamo così, io prendo palla qui, tu ti sposti lì, il difensore farà questo, tu farai quest' altro, io mi muovo così, pà-pà-pà, e facciamo canestro! Lui mi ha guardato con gli occhi sgranati e ha risposto: ehhh?! Ho realizzato che vedevo il gioco molto più avanti degli altri». Dove sia arrivato, lo dicono i numeri. Venti stagioni nella Nba, tutte con i colori dei Lakers. Cinque anelli di campione, due volte capocannoniere della stagione regolare, due volte Mvp delle finali e una volta Mvp della regular season, 11 volte nel quintetto ideale della Nba. Miglior realizzatore di sempre dei Lakers: 33.643 punti segnati. Due ori alle Olimpiadi. Più un' infinità di altri primati. Ma le statistiche e i numeri non rendono quanto Kobe sia stato «Kobe», per la pallacanestro e per lo sport mondiale. Non fanno capire quanto la sua feroce dedizione abbia cambiato il basket. «Ossessione», la chiamava lui. «Che significa fare quello che ti piace di più. Farlo al massimo. Farlo cercando di essere il migliore di tutti, sempre. E seguire tutte le strade lecite per diventarlo. Quando fai la cosa che ami, l' ossessione è naturale». «Mamba mentality», la chiamava. E «Black Mamba» era il soprannome che si era autoaffibbiato, dopo l' oscura vicenda delle accuse di stupro. Una volta chiusa la vicenda processuale, come a dare un taglio al passato, Kobe decise di cambiare il numero di maglia: dall' 8 passò al 24. E, caso più unico che raro, i Lakers hanno ritirato entrambe le sue maglie, che oggi restano appese al soffitto dello Staples Centre di Los Angeles. Quando ha chiuso con il basket, dopo una passerella durata una stagione, lo ha fatto come solo Kobe avrebbe potuto fare: 60 punti nella partita d' addio. Poi il saluto: «Mamba out». L' ultimo passo verso l' immortalità, la condanna alla vita. E ieri l' immortalità ha chiesto in cambio la vita a Kobe. «Mamba out».

Maledizione...

Dagospia il 27 gennaio 2020. Da "sport.sky.it". In condizioni normali sarebbe stata la serata di Billie Eilish — capace di aggiudicarsi i quattro premi più importanti assegnati durante la serata dei Grammys — ma nella sua Los Angeles, all’interno proprio del suo Staples Center, una delle cerimonie musicali più importanti dell’anno si è presto trasformata in un omaggio e un tributo al n°8/24 dei Lakers: “Questa serata è per Kobe!”, ha annunciato al via dello show la cantante hip-hop/soul Lizzo, prima di attaccare proprio con le parole “I’m crying” (sto piangendo) il suo pezzo “Cuz I love you”. Poi è toccato alla presentatrice della serata, Alicia Keys, tornare sulla tragedia che ha toccato da vicino così tanto la città e gli abitanti di Los Angeles, che per 20 anni hanno potuto vedere da vicino il Kobe Bryant Show. “Siamo qui per celebrare i migliori artisti dell’anno — ha detto — ma a essere onesti dentro di noi ora sentiamo soltanto una grandissima tristezza perché poche ore fa Los Angeles, l’intera America e tutto il mondo ha perso un eroe. Il mio cuore è letteralmente spezzato mentre sono qui su questo palco, nell’arena che Kobe Bryant ha costruito”. “The house that Kobe Bryant built” è un modo di dire spesso utilizzato in America che ricorda la famosa frase coniata per il campione di baseball Babe Ruth e per lo Yankee Stadium a New York. E così, durante lo show — sia durante il discorso di Alicia Keys che nel corso dell’esibizione di John Legend, DJ Khaled, Meek Mill, Roddy Rich, Kirk Franklin & YG — sui maxi schermi dello Staples Center sono apparse le immagini di Kobe Bryant con la maglia gialloviola dei suoi Lakers. Un’immagine comune, all’interno di quell’arena, ma che stavolta nessuno avrebbe mai voluto vedere.

Reggio Emilia piange il campione. Diceva: «Io qui mi sento in pace». Pubblicato martedì, 28 gennaio 2020 su Corriere.it da Alessandra Arachi, inviata a Reggio Emilia. Qui l'ex asso dei Lakers aveva trascorso solo 3 dei 7 anni vissuti in Italia, ma era sempre qui che tornava ogni volta. Davide ha gli occhi secchi, e non ha ancora realizzato cosa è successo davvero dall’altra parte dell’Oceano. Dispensa profluvi di parole, e davanti alle telecamere dei cronisti fa rivivere il Kobe ragazzino che abitava a Reggio Emilia, che giocava a basket e non passava mai la palla, che dopo gli allenamenti correva nel campetto della parrocchia di Montecavolo per allenarsi ancora e ancora, che aveva una tale disciplina nel gioco da sembrare ben più adulto di suo padre Joe «Jellybean». Davide Giudici ha conosciuto Kobe Bryant in mutande, dentro gli spogliatoi degli Aquilotti delle Cantine riunite, era il 1989. «Ce lo hanno presentato e ci hanno detto: ecco il vostro nuovo compagno di squadra», e da quel momento Davide non ha mai smesso di ammirare quel ragazzino altissimo e magro, che a dieci anni sapeva palleggiare come nessun altro, di destro ma anche di sinistro, e sapeva mettere la palla dentro il canestro sempre, da ovunque si trovasse. A Reggio Emilia Kobe Bryant è rimasto tre dei suoi sette anni vissuti in Italia, ma era sempre qui che tornava ogni volta che poteva dagli Stati Uniti. «Qui mi sento in pace, sono in pace», garantisce la sua voce morbida in un italiano perfetto e senza accento dentro un video di tre anni fa che ieri Claudio Sarti si risentiva a ripetizione, lui che oggi è il responsabile del palazzetto dello sport di Reggio Emilia e che quel ragazzetto con gli occhi brillanti lo ricorda accanto al padre campione. Anche Andrea Menozzi ricorda Kobe accanto al padre Joe, sul campo di pallacanestro a lui spettava il compito di allenarlo, ancora oggi Andrea allena le giovanili della Reggiana, ma quel ragazzino era troppo bravo per tenerlo nella squadra con i suoi coetanei e dopo un anno lo ha passato alla squadra dei più grandi, li dove giocava anche Marco Morani che oggi non se la sente di ricordare l’amico d’infanzia. Marco come Christopher Ward, che con Kobe non ha mai smesso di sentirsi e di vedersi da quando aveva lasciato Reggio Emilia per trasferirsi negli Stati Uniti. È Davide per oggi il testimone di quella comitiva cresciuta a pane e canestri. E racconta: «Non è un’invenzione, è successo davvero. Un giorno Kobe è caduto, si è fatto male al ginocchio ed è scoppiato a piangere. Non potevamo immaginare che proprio lui piangesse così per una ferita. Ma lui era molto serio, mi ha guardato e mi ha detto: “Non capisci così non potrò mai andare in Nba”». Ci sono i bimbi di Davide che giocano nel campetto dello scuola «Ada Negri». Lui ha voluto venire qui perché è stato in questo campetto che ha visto Kobe giocare, nel 2016, ed è guardando i suoi figli che i suoi occhi secchi diventano umidi di lacrime. «Non penso alla morte di Kobe, penso all’orrore che la vita ha voluto fargli vivere con sua figlia accanto. Kobe ha avuto il tempo di realizzare la tragedia che stava succedendo sul suo elicottero. E penso che l’orrore più grande sia stato realizzare il pericolo per sua figlia Gigi».

Da Sky al Corriere, i cinque strafalcioni sulla morte di Kobe Bryant. Redazione il 27 Gennaio 2020 su Il Riformista. Mentre milioni di tifosi e amanti del basket piangevano la scomparsa di una leggenda della palla a spicchi come Kobe Bryant, precipitato in elicottero a Los Angeles nello schianto che ha ucciso la figlia 13enne Gianna e altre 7 persone, in Italia si è potuto assistere allo spettacolo di sciatteria di giornalismo e politica nel commento della tragedia del 5 volte campione Nba. Mentre dagli Stati Uniti filtravano le prime notizie sull’incidente costato la vita al Black Mamba, i media (e non solo) riprendevano la notizia tra incredibili strafalcioni.

È il caso del Corriere della Sera, che su Twitter pubblica la notizia della scomparsa di Bryant utilizzando una foto di Lebron James, suo erede con la canotta gialloviola dei Los Angeles Lakers.

Non va meglio a Sky Sport. Fabio Caressa, condirettore della rete sportiva di Murdoch, afferma in diretta che “Kobe è stato un punto di riferimento nella lotta alla malattia”, confondendo incredibilmente il Black Mamba con Magic Johnson, altra icona dei Los Angeles Lakers che nel 1991 rivelò al mondo di aver contratto l’Hiv.

Ancora nel mondo del giornalismo va segnalata l’uscita sgradevole del direttore del Corriere dello Sport, Ivan Zazzaroni. L’editoriale dedicato sulla carta alla scomparsa della leggenda Nba dopo una decina di righe vira incredibilmente sul solito racconto dell’ultima giornata di Serie A. Ma in generale sono tutti i più importanti giornali sportivi a trattare la notizia in modo poco rilevante, mentre all’estero la morte del Mamba ha occupato intere prime pagine.

Spostandoci sulla politica non può non essere segnalato il tweet pubblicato ieri sera dalla Lega. Alla fine di un messaggio di cordoglio infatti il profilo del Carroccio infila gli hashtag relativi alle regionali in Emilia-Romagna: #26gennaiovotoLega e anche #Borgonzonipresidente. Immediate le polemiche sui social da parte degli utenti che hanno spinto la ‘Bestia’ a rimuovere il cinguettio con un messaggio di scuse.  “A causa di un disguido tecnico è stato pubblicato un tweet errato sulla scomparsa di Kobe Bryant. Ci scusiamo per l’inconveniente”.

Kobe Bryant, polemiche contro la stampa sportiva italiana: “Vergogna”. Debora Faravelli il 28/01/2020 su Notizie.it. A detta di molti la stampa sportiva italiana avrebbe dedicato troppo poco spazio alla morte di Kobe Bryant. É polemica nel mondo dello sport su come la stampa sportiva italiana abbia trattato la morte di Kobe Bryant, ex cestista dell’NBA che ha tragicamente perso la vita in un incidente aereo. Da Marco Belinelli a Federica Pellegrini, sono in molti ad aver criticato i giornali nazionali per il poco spazio dato alla notizia rispetto a quelli americani e non solo.

Stampa sportiva italiana su Kobe Bryant. A conferma del dato Belinelli ha postato una foto che mette a confronto le aperture dei tabloid internazionali e quelli italiani, evidenziando che i primi hanno dedicato l’intera pagina a Kobe mentre nei secondi il calcio ha preso il sopravvento. Ha quindi così commentato: “Il problema è che i giornali sportivi in Italia NON SONO giornali sportivi. Vergognatevi“. Moltissimi gli utenti che hanno commentato indignati per il troppo poco peso che a loro detta la stampa italiana ha dato alla notizia. A condividere la critica è stata anche un’altra campionessa dello sport nazionale, Federica Pellegrini. Dopo aver definito Kobe “un Dio dello sport“, ha postato un’immagine simile a quella del cestista dei San Antonio Spurs. Anche lei ha lamentato che mentre tutto il mondo ha reso onore al 41enne, “Noi?!?!…..Al netto dell’importanza che ha il calcio nel nostro Bel Paese… tutto ciò è assolutamente sbagliato!! Lo Sport per me è Altro!! Soprattutto oggi“.

Dagospia il 27 gennaio 2020. DAN PETERSON A RADIO2 RICORDA IL “MAMBA”. «In questo momento rifiutiamo di accettare una notizia del genere» ha dichiarato l'allenatore Dan Peterson ai microfoni del Late Show di Rai Radio2 ieri, domenica 26 gennaio, pochi minuti dopo la scoperta della scomparsa di Kobe Bryant, domenica 26 gennaio 2020. Kobe Bryant e l’Italia.  «Kobe Bryant era molto legato e molto riconoscente verso l'Italia. Ha sempre detto di aver imparato i fondamentali e l'intelligenza di gioco in Italia. Ha sempre dichiarato: "sono un giocatore più straniero-internazionale che americano. Sono molto riconoscente e grato a chi mi ha insegnato come giocare a basket"». 

Bryant era il Gullit del basket. «Kobe Bryant era il Ruud Gullit del basket» continua Peterson ai microfoni con Luca Restivo, Davide D'Addato e Federico Vozzi, «un uomo con caratteristiche fisiche e atletiche eccezionali, anche con una grandissima tecnica e mentalità. Kobe Bryant aveva tutte queste caratteristiche insieme e anche una determinazione terrificante». Kobe Bryant era un esempio non solo per i suoi tifosi e gli appassionati di sport: «era un uomo a 360 gradi: non si è fermato agli allori e i soldi guadagnati nel basket, ha cercato di continuare a crescere come uomo anche dopo la sua carriera sportiva». Late Show è il nuovo programma del week end di Rai Radio2, condotto dai trentenni Luca Restivo, Federico Vozzi e Davide D'Addato, tutti i sabati e le domeniche alle 22, che alterna interviste a ospiti big, al commento dei fatti di attualità e la comicità nella modalità classica del late show anglosassone.  

Morto Kobe Bryant: reazioni social e il cordoglio di amici e colleghi. Jacopo Bongini il 26/01/2020 su Notizie.it. Sono centinaia le reazioni di cordoglio da parte di colleghi e società sportive per la scomparsa di Kobe Bryant, morto in un incidente in elicottero. La morte improvvisa di Kobe Bryant è stata un fulmine a ciel sereno per milioni di appassionati e di addetti ai lavori del mondo del basket, scatenando una conseguente tempesta di reazioni sui social network. Sono infatti a decine gli amici e i colleghi sportivi che hanno voluto lasciare un messaggio di cordoglio in ricordo di quello che secondo molti era stato uno dei più grandi giocatori di basket di tutti i tempi. Kobe Bryant aveva appena 41 anni e si era ritirato dall’agonismo nel 2016. Tra le prime reazioni a giungere sui social network c’è quella del Comitato Olimpico Nazionale Italiano, che ricorda il cestista appena scomparso con una sua celebre frase: “Ho corso su e giù per ogni parquet dietro ad ogni palla persa per te. Hai chiesto il mio impegno ti ho dato il mio cuore perché c’era tanto altro dietro”. Kobe Bryant era peraltro molto legato all’Italia, avendo qui trascorso gli anni della sua infanzia a seguito del padre Joe Bryant e aver contestualmente mosso i primi passi nel mondo della pallacanestro. Ed è proprio la squadra di basket italiana dell’Olimpia Milano a ricordare Bryant in un post dove racconta di quando il giocatore si legò per un breve periodo alla compagine meneghina negli anni ’90: “L’Olimpia piange la scomparsa di Kobe Bryant e si unisce al dolore della famiglia. Kobe è stato brevemente part-owner dell’Olimpia durante la gestione di Pasquale Caputo e del padre Joe nella stagione 1997/98”. L’Olimpia piange la scomparsa di Kobe Bryant e si unisce al dolore della famiglia. Kobe è stato brevemente part-owner dell’Olimpia durante la gestione di Pasquale Caputo e del padre Joe nella stagione 1997/98. Dal mondo dello spettacolo americano arriva anche il pensiero della comica e conduttrice televisiva Ellen DeGeneres, che esprime sgomento per il cestista e per la sua famiglia: “Come tutti, sono triste e sconvolta per le notizie su Kobe Bryant. Il mio cuore è si spezza pensando a sua moglie e alla sua famiglia”. Sgomento anche da parte dei tanti giocatori di basket che militano o hanno militato nell’Nba, tra questo il francese Rudy Gobert, che scrive: “Non può essere vero! Goditi le persone ogni giorno, siamo sempre troppo preoccupati per cose che in realtà non sono così importanti. La vita è preziosa e non puoi mai sapere quando finirà”. Analoghe parole anche da parte di JJ Watt: “Non può essere vero. Non può proprio esserlo. Veramente orribile. Riposa in pace Kobe”. Tra le tante voci al di fuori del mondo sportivo che sono giunte in occasione della morte di Kobe Bryant in serata è arrivata quella del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che in un breve messaggio ha affermato: “Stando alle notizie, il grande giocatore di basket Kobe Bryant e altre tre persone sono rimaste uccise in un incidente in elicottero in California. Parole simili anche dal Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu: “Mi dispiace sapere della tragedia avvenuta negli Stati Uniti, una giornata triste per tutti gli amanti dello sport nel mondo. Kobe Bryant, uno dei più grandi giocatori di basket della storia, è rimasto ucciso oggi in un incidente in elicottero a Calabasas, in California. Gli sopravvivono una moglie, tre figli e milioni di appassionati di basket in tutto il mondo. Un uomo da non dimenticare. Possa riposare in pace”. Anche il mondo della politica italiana ha però voluto rendere omaggio al campione statunitense, attraverso messaggi come quello dell’ex presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani, che sul proprio account esprime le proprie condoglianze: “La scomparsa di Kobe Bryant è qualcosa di molto triste. Era cresciuto in Italia e amava il nostro Paese. Non era solo un giocatore di basket, ma una leggenda dello sport mondiale. Riposa in pace campione”. Cordoglio per la morte di Kobe Bryant anche da parte del governo italiano, per mano del ministro dello Sport Vincenzo Spadafora, che dichiara: “Campione NBA, aveva iniziato a fare i primi tiri a canestro proprio in Italia, da piccolo, quando il padre giocava nel nostro campionato di pallacanestro. È stato un immenso campione, un simbolo positivo, un grande uomo”.

Chi era Kobe Bryant: biografia dell’ex cestista morto in un incidente. Jacopo Bongini il 26/01/2020 su Notizie.it.  Chi era Kobe Bryant? L'ex cestista morto il 26 gennaio in un incidente in elicottero era considerato uno dei più grandi giocatori di basket di sempre. Tragicamente morto nella giornata del 26 gennaio 2020 in California durante un volo in elicottero, Kobe Bryant sarà senz’altro ricordato come uno dei più gradi giocatori di basket di tutti i tempi. Il 41enne cestista dei Los Angeles Lakers è stato infatti protagonista di numerosi record individuali durante i suoi oltre vent’anni di carriera professionistica, tra cui l’essere stato il più giovane giocatore dell’All Star Game a 19 anni e l’essere stato l’unico giocatore dell’Nba ad aver segnato più di 60 punti nella sua ultima partita ufficiale.

Morto Kobe Bryant: la biografia. Nato a Filadelfia il 23 agosto del 1978, Kobe Bryant nasce figlio d’arte. Il padre, Joe Bryant, è stato infatti un celebre cestista di numerose squadre professionistiche statunitensi ed italiane tra gli anni ’70 e gli anni ’90. Fu proprio in Italia che il giovane Kobe iniziò a muovere i primi passi nel mondo della pallacanestro, seguendo il padre nei vari club per cui quest’ultimo giocava nel nostro Paese, da Rieti a Reggio Calabria, da Pistoia a Reggio Emilia. Questa sua esperienza nel Bel Paese lo portò ad essere molto amata in Italia anche quando divenne celebre negli Stati Uniti. Bryant parlava infatti un fluente italiano e la sua squadra di calcio preferita era il Milan. Nel corso della sua carriera nell’Nba Bryant fu celebre oltre che per i vari primati anche per aver vestito per vent’anni la stessa maglia: quella dei Los Angeles Lakers. Con la squadra californiana vinse ben cinque campionati Nba, mentre con la nazionale statunitense di pallacanestro fece sue due medaglie d’oro alle olimpiadi di Pechino e di Londra e un FIBA Americas Championship nel 2007.

Kobe Bryant aveva vissuto in Italia: “Resterà nel mio cuore”. Martino Grassi il 26/01/2020 su Notizie.it. In un’intervista del 2011 a Radio DeeJay, Bryant aveva raccontato quale fosse il suo rapporto con l’Italia, in cui è cresciuto. L’ex cestista americano, morto in un incidente dopo che il suo elicottero privato è andato a schiantarsi in California, è stato ospite più volte a Radio Deejay, durante la trasmissione “Deejay chiama Italia” condotta da Linus e Nicola Savino. In un’intervista del 2011 Kobe Bryant ha raccontato il suo amore per l’Italia: “Io sono cresciuto qua in Italia, sarà sempre un posto vicino al mio cuore, sempre”. L’ex cestista infatti, nonostante sia nato a Philadephia, è cresciuto in Italia, dove il padre, anche lui cestista nell’NBA, si era trasferito per giocare a basket nel Rieti. All’epoca Kobe aveva solo sei anni e, oltre a Rieti, ha vissuto anche a Reggio Calabria, Pistoia e Reggio Emilia. In un’intervista del 2011 a Radio DeeJay, Bryant ha raccontato il suo rapporto con l’Italia, in cui ha vissuto diversi anni durante la sua infanzia (infatti parlava molto bene l’italiano). Kobe Bryant era figlio del pivot Joe “Jellybean” Bryant, che negli anni Ottanta ha giocato per ben sette stagioni in Italia per molteplici squadre, tra cui anche il Rieti. Proprio dal padre Kobe ha ereditato la passione per l’Italia, in particolare Reggio Emilia. Fin da piccolo ha praticato molto sport, soprattutto calcio e basket, ed era tifoso del Milan. Rientrato negli Stati Uniti, si è dedicato interamente al basket, diventando una vera e propria stella della pallacanestro. È stato, infatti, selezionato dalla National Basketball Association già al liceo e, da allora, la sua carriera nella pallacanestro è sempre stata in salita.

La lettera d’addio di Kobe Bryant che ispirò un corto vincitore di un Oscar. Martino Grassi il 26/01/2020 su Notizie.it. Kobe Bryant scrisse una lettera con cui annunciava di abbandonare il basket: "un amore così profondo che ti ho dato tutto". Kobe Bryant, venuto a mancare in un tragico incidente con il suo elicottero, scrisse una commovente lettera quando decise di abbandonare il basket, dopo venti anni sul parquet. Non una semplice lettera, ma una vera e propria dichiarazione d’amore per lo sport che Bryant praticava, ma che all’età di 37 anni è stato costretto a lasciare. Da questa lettera è nata anche l’ispirazione per un cortometraggio “Dear Basketball” realizzato dal regista e animatore Glen Kean. Il corto si è aggiudicato la statuetta dorata nel 2018. La lettera di Kobe Bryant

Nella lettera scritta da Kobe Bryant, con cui annuncia la fine della sua carriera sportiva, si evince l’amore e la passione che il cestista nutriva nei confronti di questo sport: “Caro basket, dal momento in cui ho cominciato ad arrotolare i calzini di mio padre e a lanciare immaginari tiri della vittoria nel Great Western Forum ho saputo che una cosa era reale: mi ero innamorato di te Un amore così profondo che ti ho dato tutto dalla mia mente al mio corpo dal mio spirito alla mia anima. Da bambino di 6 anni profondamente innamorato di te non ho mai visto la fine del tunnel. Vedevo solo me stesso correre fuori da uno. E quindi ho corso. Ho corso su e giù per ogni parquet dietro ad ogni palla persa per te. Hai chiesto il mio impegno ti ho dato il mio cuore perché c’era tanto altro dietro. Ho giocato nonostante il sudore e il dolore non per vincere una sfida ma perché TU mi avevi chiamato. Ho fatto tutto per TE perché è quello che fai quando qualcuno ti fa sentire vivo come tu mi hai fatto sentire. Hai fatto vivere a un bambino di 6 anni il suo sogno di essere uno dei Lakers e per questo ti amerò per sempre. Ma non posso amarti più con la stessa ossessione. Questa stagione è tutto quello che mi resta. Il mio cuore può sopportare la battaglia la mia mente può gestire la fatica ma il mio corpo sa che è ora di dire addio. E va bene. Sono pronto a lasciarti andare. E voglio che tu lo sappia così entrambi possiamo assaporare ogni momento che ci rimane insieme. I momenti buoni e quelli meno buoni. Ci siamo dati entrambi tutto quello che avevamo. E sappiamo entrambi, indipendentemente da cosa farò, che rimarrò per sempre quel bambino con i calzini arrotolati bidone della spazzatura nell’angolo 5 secondi da giocare. Palla tra le mie mani. 5… 4… 3… 2… 1…Ti amerò per sempre, Kobe”.

L'ultima partita da record di Kobe Bryant. Il campione dei Lakers gioca la sua ultima partita da professionista: "Non posso credere che sia finita, questi 20 anni sono volati, è davvero incredibile. Sono sempre stato un tifoso dei Lakers. Vi amo tutti". Raffaello Binelli, Giovedì 14/04/2016, su Il Giornale. Nella storica serata del suo addio al basket giocato Kobe Bryant si regala (e regala ai tifosi) la bellezza di 60 punti. Insomma, ha giocato a modo suo l'ultima partita da professionista, trascinando alla vittoria i Lakers su Utah Jazz per 101-96.

I campioni dello sport salutano...Era dal febbraio 2009 che il numero 24 gialloviola non superava quota 50. "Cos’altro posso dire? Il Mamba è venuto fuori", sorride Bryant, che chiude nel migliore dei modi una carriera lunga vent’anni, tutti con la maglia dei Lakers. "È dura credere che sia andata così, sono ancora sotto choc", aggiunge Kobe, che manda in visibilio lo Staples Center con una tripla a 59'' dalla sirena e un’altra a 31'', portando i suoi sul 97-96 prima di chiudere con un assist che vale la vittoria, anche se solo la 17esima stagionale in quella che è stata la peggior annata di Los Angeles. "Il finale perfetto sarebbe stato il titolo - aggiunge - ma stasera si trattava di andare là fuori, giocare duro e mettere su il miglior show possibile, sentivo di poterlo fare ancora un’ultima volta". Terzo miglior realizzatore di sempre nella storia Nba (33.643 punti), il 37enne fuoriclasse di Philadelphia diventa anche il giocatore più "vecchio" a siglare almeno 50 punti in una gara Nba e quella contro i Jazz è la sua miglior performance dai 61 punti contro New York nel 2009. Cinque titoli, 18 volte All Star, Bryant è stato omaggiato dai suoi tifosi prima e dopo la partita. "Penso che la cosa più importante sia l’essere rimasti uniti per tutto questo tempo - dice al pubblico. - Sarete sempre nel mio cuore, vi amo". E così, con la sua partita numero 1.346, cala il sipario su uno dei più grandi giocatori di tutti i tempi. Un vero e proprio gigante dello sport. In tutti i sensi. Il numero 24 dei Lakers polverizza il suo record personale di stagione (38 punti) e guida la sua squadra al diciassettesimo trionfo dalla fine di ottobre. Bryant trascorre 42 minuti sul parquet, mandando letteralmente in visibilio i 18mila spettatori tutte le volte che tocca la palla. Il "Black Mamba" tira con 22/50 dal campo (6/21 da tre), servendo 4 assist e catturando 4 rimbalzi. Realizza il primo canestro del match dopo 7' per poi crescere e scatenarsi soprattutto nel secondo tempo dove realizza ben 45 punti sfoderando pezzi di classe dal suo infinito repertorio.

Le lacrime dei tifosi. Il palazzetto dello sport dello Staples Center era pieno fino all’inverosimile per l’ultimo saluto a "Black Mamba". Una serata davvero indimenticabile, con emozioni a mille e spettaoclo super. Punto di riferimento di una generazione intera, Kobe entra in campo accolto da un pubblico in delirio. Ha gli occhi lucidi mentre osserva il video tributo che ripercorre la sua carriera, proiettato sui maxi schermi. E la commozione aumenta quando sul parquet entra per celebrarlo un’altra leggenda dei Lakers, Magic Johnson. Poi arrivano i messaggi di altri campioni come Shaquille O'Neil, Carmelo Anthony, LeBron James, e la star del cinema Jack Nicholson. "Questa è la sua notte, e vogliamo che si diverta il più possibile", ha assicurato prima dell’inizio dell’incontro l’allenatore Byron Scott: "L’attenzione è su di lui, e giocherà quanti più minuti possibile". Alla fine è andata più che bene. Non poteva essere altrimenti per Kobe. Lui, emozionato, ringrazia tutti: "Non posso credere che sia finita, questi 20 anni sono volati, è davvero incredibile. Sono sempre stato un tifoso dei Lakers. Vi amo tutti". 

Morte Kobe Bryant, petizione per cambiare il logo Nba: «Mettiamo lui». Pubblicato martedì, 28 gennaio 2020 su Corriere.it. Un milione e ottocentomila firme, comprese quella di giocatori o ex giocatori della Nba come Paul Pierce. Tutti chiedono, attraverso una petizione su Change.org, per modificare l’attuale logo dell’Nba e onorare così la memoria di Kobe Bryant, scomparso domenica 26 gennaio in un incidente di elicottero insieme alla figlia Gianna e altre sette persone. Nell’attuale logo ufficiale Nba è raffigurata la silhouette di un altro mito dei Los Angeles Lakers, Jerry West: L’idea è sostituirla con quella di Bryant. Pierce va oltre e propone anche di ritirare il numero 24 in ognuna delle trenta squadre della Nba.

Kobe Bryant e Jack Nicholson. L’attore: «Gli chiesi se voleva un mio autografo sul pallone. Pensò fossi pazzo...» Pubblicato martedì, 28 gennaio 2020 da Corriere.it. Jack Nicholson è una leggenda del cinema: tre Oscar, 12 nomination, film immortali, un’aura assoluta. Ma in queste ore è soprattutto un tifoso dei Lakers distrutto. Al punto da rompere il suo proverbiale silenzio e concedere una breve intervista al Los Angeles Times dove ha ricordato l’amico e il campione Kobe Bryant, scomparso domenica in un incidente in elicottero insieme alla figlia Gianna Maria e altre 7 persone. «Quando pensiamo che tutto sia solido, c’è un grosso buco nel muro», dice Nicholson, aggiungendo: «La mia reazione? È la stessa di quasi tutta Los Angeles. Ci mancherà». Nicholson non è un tifoso qualsiasi. Da sempre frequenta — non senza show personali, qualche intemperanze e una competenza tecnica riconosciuta — le partite dei Lakers, in prima fila (lato panchina degli ospiti) al vecchio Forum di Inglewood ai tempi dello showtime di Magic Johnson e poi all Staples Center ai tempi di Kobe. Tempi che lui ricorda così: «Dalla prima fila spesso mi capitava di essere dietro Kobe che tirava. Lo vedevo alzare la palla, preparare il tiro e dalla mia posizione potevo indovinare se la palla sarebbe entrata». E lo faceva molto spesso. Nicholson ha poi ricordato alla Cbs il divertente episodio del loro primo incontro: «È stato al Madison Square Garden di New York. L’ho preso in giro. Gli ho offerto un pallone da basket e gli ho chiesto se voleva che glielo autografassi per lui. Mi ha guardato come se fossi pazzo». Puro stile Nicholson, che incontrava il puro stile Bryant: «Perché lui era un tipo che sapeva sempre stare allo scherzo...». Parlando poi proprio della sua ritrosia a rilasciare interviste, Nicholson ricorda la volta che Bryant, impegnato nella creazione di un documentario, gli chiese di derogare ai suoi principi: «Mi chiamò al telefono e mi disse: “Lo so che non ami questo genere di cose, ma mi dicono di chiedertelo. Ti va di raccontare qualcosa su di me?”. Anche lui era uno geloso della sua privacy. E il suo modo di chiedermelo dice tanto della sensibilità di Kobe».

I Los Angeles Lakers hanno ritirato le maglie di Kobe Bryant. L'omaggio del team californiano: nessuno potrà più indossare l'8 e il 24. Lucio Di Marzo, Mercoledì 13/09/2017 su Il Giornale. Un omaggio a un campione che per i Los Angeles Lakers ha significato molto. Un ringraziamento dei più classici quello deciso dal team Nba californiano, che ha scelto di ritirare l'8 e il 24, i due numeri di maglia indossati da Kobe Bryant, perché rimangano i suoi per sempre. Non uno, ma due numeri indossati da Kobe, che ha annunciato nel 2015 l'addio al parket, come a dire che il posto che occupa nel cuore dei tifosi è quello dei campioni più grandi e che per questo si merita un qualcosa in più di altri che da Los Angeles sono passati. La cerimonia si terrà prima della partita con i Golden State. In quell'occasione si vedranno per l'ultima volta l'8 che fu il numero di Kobe dal 1996 al 2006 e quel 24 con cui lo sostituì in quel momento e che tenne fino al termine della sua lunghissima carriera nei Lakers. Sono solo 10 i giocatori passati da quel campo che hanno avuto l'onore di una maglia ritirata. E mai ne erano state ritirate due. Cinque titoli Nba e 20 stagioni con la stessa cucita addosso qualcosa devono pur voler dire.

Da ilsole24ore.com il 27 gennaio 2020. Per Kobe Bryant, evidentemente, è proprio fisicamente impossibile non vincere. L'ex cestista dei Los Angeles Lakers, vincitore di 5 titoli Nba e due ori olimpici con gli Stati Uniti, conquista, dopo il mondo del basket, anche quello del cinema. Con il suo "Dear Basketball", corto animato ispirato alla sua lettera di addio alla palla a spicchi che inizia proprio con queste due parole, ha vinto agli Oscar nella categoria "Miglior corto animato". Ad annunciarlo, Mark Hamill: una stella annunciata dal Luke Skywalker di Guerre stellari.   Grande emozione per Kobe Bryant durante il discorso al ritiro della statuetta: "Non so nemmeno se sia possibile una cosa del genere, noi cestisti dovremmo solo stare zitti e palleggiare". Risposta per le rime a chi, come Laura Ingraham, giornalista di Fox News, ha sentenziato, riferendosi all'attivismo di LeBron James e Kevin Durant, che, appunto, i giocatori di basket dovrebbero solo fare silenzio e giocare. "Sono contento che facciamo più di questo - specifica Bryant - e grazie all'Academy per questo incredibile onore, a John Williams per un'incredibile lavoro di musica, a chi ha creduto in questo progetto e a chi lo ha reso possibile. Infine, grazie a Vanessa e alle mie figlie Natalia, Gianna e Bianka, siete la mia ispirazione". Durante il discorso, anche una frase in perfetto italiano rivolto alla moglie: "Ti amo con tutto il mio cuore". Poi, rivoltosi ai giornalisti: "Vincere questo premio è onestamente migliore di un titolo Nba - dice Bryant - giuro che è così. Quando dicevo a tutti che avrei scritto e raccontato storie dopo essermi ritirato, tutti credevano che sarei stato triste dopo il mio addio al basket. Essere qui con questa statuetta è davvero pazzesco". 

Da ansa.it il 27 gennaio 2020. Non è solo un libro, ma una vera e propria chicca che gli appassionati di basket, e dei Los Angeles Lakers, faranno a gara per avere. Il 13 novembre esce infatti anche in Italia, edito da Rizzoli, il bellissimo libro, impreziosito dalle fotografie di Andrew D. Bernstein, fotografo ufficiale dei Lakers, il libro "Kobe Bryant, The Mamba Mentality". Celebra i venti anni di carriera nella stessa squadra di un fenomeno capace di vincere 5 titoli Nba e due ori olimpici, oltre ad aver stabilito un'infinità di record personali. La sua leggenda cestistica è stata seconda solo a quella di Michael Jordan (da lui studiato in modo maniacale) e la sua popolarità è ancora così alta al punto che, anche dopo il ritiro, negli store veri e virtuali dei Lakers le maglie di Kobe, quella con il n.8 e con il 24, sono ancora le più vendute. Bryant è stato un rivoluzionario della pallacanestro, prima di ritirarsi nel 2016 scrivendo una toccante lettera d'addio al basket diventata un cortometraggio animato premio Oscar 2018.

Dagonews il 27 gennaio 2020. “Muhammad Alì sosteneva che devi lavorare sodo al buio per poter brillare alla luce. Dietro la fama c’è la fatica, la determinazione e la serietà, cose che da fuori non si vedono”. Dall’ossessione per i miglioramenti ai rapporti con i compagni e gli avversari (tra cui è curiosa l’omissione di Steph Curry), tutti i segreti di Kobe Bryant nel libro “The Mamba Mentality”, in arrivo in Italia, edito da Rizzoli. L’infanzia in Italia, la rottura con i genitori, mai citati nel libro, l’incontro con Phil Jackson (“Soltanto nell’ultima fase abbiamo capito quanto fossimo assortiti”), la leggenda della pallacanestro offre la propria visione del basket. Ma – come riporta La Stampa - è soprattutto il rapporto con se stesso ad emergere. Dopo le finali vinte nel 2000 per ritrovare la mobilità della caviglia infortunata, l’ex fuoriclasse dei Lakers si diede al tip tap. Viene raccontata anche la sfida per ripartire dopo la rottura del tendine d’Achille del 2013 (“Il mio Everest personale”), le lacrime versate insieme alle figlie, i tre allenamenti al giorno per tornare a essere il migliore. “Senza il basket – conclude Bryant – non conoscerei la creatività né la scrittura, non comprenderei la natura umana, non sarei in grado di essere leader. E non avrei vinto un Emmy e un Oscar”.

Kobe, la morte di un semidio innamorato del Belpaese. Ninni Perchiazzi il 28 Gennaio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. «....qualsiasi cosa io farò, sarà sempre quel bambino con i calzettoni, il cestino della spazzatura nell’angolo e 5 secondi ancora sul cronometro, palla in mano. 5… 4… 3… 2… 1. Ti amerò sempre. Kobe». Termina così la lettera d’addio al basket giocato di Bryant ormai 4 anni or sono, una dichiarazione d’amore per il gioco, oggi ancora più struggente, alla notizia della sua morte. Una scomparsa prematura (41 anni) e tragica (con lui la figlia 13enne) come il destino degli eroi della mitologia, quei semidei che hanno catturato il cuore, animato i sentimenti e scatenato la fantasia di tante giovani generazioni. Proprio come ha fatto Kobe, un fuoriclasse che ha impastato sogni, ambizioni e talento con la cultura del lavoro duro, della tenacia e della perseveranza, per regalare fantastiche sensazioni a milioni di tifosi e appassionati in tutto il mondo. Gli stessi oggi colpiti da un dolore profondo come una vertigine per la tragedia che ha distrutto altre 4 famiglie, oltre quella del nostro moderno eroe della palla a spicchi, rimpianto e commemorato dal mondo sportivo e non, da Totti e Del Piero, da Federica Pellegrini, dal tennista Kyrgios in campo con la canotta n. 8 dei Lakers, ma anche dai presidenti Usa, Trump e l’ex Obama, perché la figura di Bryant trascende l’ambito sportivo, fino a far dire a un commentatore radiofonico di Los Angeles: «È come con JF Kennedy, ognuno di noi ricorderà dov’era quando ha avuto la notizia della morte di Kobe». Forse è un’esagerazione, ma si tratta di una figura titanica, in parte come è stato Mohammed Alì, amato per le sue battaglie dentro e fuori dal ring in favore della sua gente, in un Paese dove lo sport ha un radicamento sociale profondo. Proprio come l’ex 24 gialloviola stava facendo nel secondo tempo della sua vita, pieno di attività benefiche e iniziative a favore dei giovani. Genio e dedizione sul rettangolo della amata palla a spicchi, intriso di cultura italiana, grazie ai suoi trascorsi tra Rieti, Reggio Calabria, Pistoia e Reggio Emilia, dove il papà Jo si è evoluto dal 1984 al 1991. In Italia, da 6 a 13 anni, ha appreso i primi rudimenti cestistici (e un italiano vicino alla perfezione) che lo hanno portato sulle orme del più grande di tutti i tempi, il suo idolo e amico fraterno, Michael Jordan, fino a diventare il «Black Mamba», letale con la palla in mano, ma dentro capace di emozionarsi come un bambino. E di far emozionare tutti. 5… 4… 3… 2… 1. Ti ameremo sempre, Kobe.

Alessandra Arachi per il “Corriere della Sera” il 28 Gennaio 2020. Il giallo e il viola brillano nella notte. Gli americani provano a farsi coraggio dopo la morte di Kobe Bryant, 41 anni, e della sua secondogenita, la tredicenne Gianna, detta Gigi. In tv, sui siti, su Twitter rimbalzano, da una città all' altra, le immagini di un Paese in lutto. Il sindaco di Los Angeles, Eric Garcetti ha fatto illuminare il City Hall, il municipio, con i colori dei Los Angeles Lakers, la squadra del campione di basket. Le luci sono rimaste accese anche altrove. Al Madison Square Garden di New York, al Mercedes Benz Stadium di Atlanta, allo United Center di Chicago. Jules Muck, una delle più note artiste di Los Angeles, ha disegnato nella notte un graffito gigantesco su un muro del Pickford Market, in centro città. È un ritratto di Kobe e Gigi, il mito e la sua inseparabile figlia, giovane promessa della pallacanestro. Un video li riprende mentre si allenano insieme. Il padre passa la palla, poi le si para davanti. Lei lo spinge via con un movimento perfetto della spalla, sale in sospensione e tira: «ciuff», canestro, ovviamente. L' epicentro di questo dolore così profondo è lo Staples Center di Los Angeles, l' impianto in cui Kobe Bryant ha sempre giocato. Sulla rete è già partito un movimento per chiedere che sia celebrata qui la funzione funebre. Nel 2009 proprio allo Staples Center la città diede l' addio a Michael Jackson. C' era anche Bryant quel giorno sul palco. Forse non esiste un posto più appropriato di questo. Torna alla memoria il funerale di Muhammad Ali, il 10 giugno del 2016 a Louisville, in Kentucky. L' orazione dell' ex presidente Bill Clinton. Un trionfo di popolo. Probabilmente sarà così per Kobe, il Black Mamba, anche se la moglie Vanessa potrebbe scegliere di anticipare in forma privata la sepoltura del marito e di Gigi. Solo dopo ci sarebbe spazio per il ricordo pubblico. Non saranno dimenticate le altre sette vittime dell' incidente: l' allenatore di baseball, John Altobelli, sua moglie Keri e sua figlia Alyssa; Christina Mauser, coach di basket, sua figlia Sarah e sua madre Payton Chester. Infine il pilota Ara Zobayan. Gli investigatori stanno ancora ricostruendo le sue ultime manovre, prima dello schianto a Calabasas. La mattina di domenica le condizioni climatiche sono pessime. Nebbia impenetrabile, umidità quasi al 100% a nord di Los Angeles. L' elicottero privato di Kobe parte alle 9 da Santa Ana, a sud di Los Angeles. Ma la fitta foschia costringe subito il pilota a scendere di quota e a sorvolare in circolo per circa 15 minuti l' area dello zoo cittadino. Alle 9,30 Zobayan avvisa la torre di controllo dell' Hollywood Burbank Airport che gli dà comunque il via libera, nonostante la visibilità sia ridotta. Una volta fuori dalla zona sorvegliata, spetta al pilota decidere se proseguire. Ara,un aviatore esperto, sceglie di fare rotta verso Thousand Oaks, dove i ragazzi della Mamba Academy li stanno aspettando. Ma superata Los Angeles, il muro di nebbia lo costringe ancora a ripiegare verso sud. Il velivolo entra in una zona montuosa. È necessario salire immediatamente, da 360 a 600 metri. Alle 9.45 il Sikorsky S-76 si infrange contro una collina, a un' altitudine di 426 metri e a una velocità di 296 chilometri all' ora. 

Davide Chinellato per gazzetta.it il 30 gennaio 2020. Un post su Instagram. Lungo, toccante, il commento ad una foto di famiglia, Kobe circondato dalle sue ragazze. Vanessa Bryant fa conoscere così al mondo il proprio dolore per la morte del marito, compagno da 20 anni, e della figlia 13enne Gianna, scomparsi domenica assieme ad altre 7 persone quando l’elicottero su cui viaggiavano si è schiantato sulle colline di Calabasas. Per oltre 72 ore è rimasta in silenzio, devastata dal lutto ma con le tre figlie rimaste in vita, Natalia, Bianka e Capri, da proteggere. "Io e le mie ragazze vogliamo ringraziare le milioni di persone che ci hanno mostrato supporto e amore durante questo momento orribile. Grazie per tutte le preghiere. Ne abbiamo decisamente bisogno. Siamo completamente devastati dalla perdita improvvisa del mio adorato marito Kobe, incredibile padre per i nostri bambini, e per la mia bellissima e dolce Gianna, una adorabile e splendida figlia e una fantastica sorella per Natalia, Bianka e Capri. Siamo anche devastati per le altre famiglie che domenica hanno perso qualcuno a loro caro: condividiamo il loro dolore intimamente. Non ci sono abbastanza parole per descrivere il nostro dolore in questo momento. Mi conforta il pensiero che Kobe e Gianna sapessero entrambi di essere amati profondamente. Siamo incredibilmente fortunati ad averli avuti nelle nostre vite. Vorrei fossero con noi per sempre. Sono i nostri meravigliosi doni del cielo che ci sono stati portati via troppo presto. Non sono sicura di quello che ci riserverà la vita, perché è impossibile immaginare cosa sarà senza di loro. Ma ci svegliamo ogni giorno cercando di farcela, con Kobe e la nostra piccola Gigi che ci illuminano la via. Il nostro amore per loro è senza fine, incommensurabile. Vorrei poterli abbracciare, vorrei poter dare loro un bacio. Averli con noi, per sempre. Grazie per aver condiviso con noi il vostro dolore e il vostro supporto. Chiediamo il rispetto e la privacy di cui avremo bisogno per navigare questa nuova realtà. Grazie per tenerci nelle vostre preghiere, e per amare Kobe, Gigi, Natalia, Bianka, Capri e me". Un paio d’ore dopo anche i Lakers sui social fanno conoscere tutto il loro dolore. Su twitter compare una foto di Kobe e Gianna, che i fan gialloviola continuano ad omaggiare sia fuori dallo Staples Center, sia sul luogo dell’incidente, che alla Mamba Academy di Thousand Oaks, dove l’elicottero era diretto. Poi due messaggi di dolore: "Siamo devastati e siamo stati cambiati per sempre dall’improvvisa perdita di Kobe Bryant e di sua figlia, Gianna. Mandiamo il nostro amore a Vanessa, alla famiglia Bryant e alle famiglie degli altri passeggeri. Le parole non bastano per far capire cosa significhi Kobe per i Los Angeles Lakers, i nostri tifosi e la nostra città. Era molto di più di un giocatore di basket: era un padre molto amato, un marito e un compagno di squadra. L’amore per lui e Gianna e la loro luce rimarrà per sempre nei nostri cuori". Ieri, nel primo allenamento Lakers aperto alla stampa dopo la tragedia, coach Frank Vogel era stato l’unico a parlare: "Nel resto della stagione vogliamo rappresentare i valori in cui credeva Kobe -. Abbiamo sempre voluto renderlo orgoglioso di noi e tutto questo non cambia quell’obiettivo". Domani la squadra torna in campo, ospitando Portland allo Staples Center: "Giocare sarà terapeutico - ha detto Vogel -, come ogni cosa che ti permette di distrarti da quello che sta succedendo. Di una cosa sono sicuro: tutto questo ci ha unito come squadra. Siamo diventati in fretta una famiglia, ora lo siamo ancora di più". Nel nome di Kobe. Come Vanessa, le figlie e milioni di tifosi Lakers in tutto il mondo.

Kobe Bryant, lo struggente saluto  della moglie Vanessa: «Siamo devastati».  Ecco perché l’elicottero si è schiantato. Pubblicato giovedì, 30 gennaio 2020 su Corriere.it da Salvatore Riggio. Il post della moglie del campione Usa morto insieme alla figlia e ad altre 7 persone in un incidente in elicottero. «Sono completamente devastata»: sono le prime parole pubbliche di Vanessa Bryant, moglie del campione Nba di basket Kobe morto insieme alla figlia Gianna e altre 7 persone nello schianto dell’elicottero su cui viaggiava in California. Vanessa ha utilizzato Instagram per ringraziare le tantissime manifestazioni di cordoglio e affetto ricevute. La signora Bryant ha anche annunciato la formazione di un fondo per aiutare le altre famiglie colpite dall’incidente. «Grazie per tutte le preghiere. Ne abbiamo sicuramente bisogno » ha scritto, «siamo completamente devastati dall’improvvisa perdita del mio adorato marito, Kobe, lo straordinario padre dei nostri figli; e la mia bella, dolce Gianna, una figlia amorevole, premurosa e meravigliosa, e una sorella straordinaria di Natalia, Bianka e Capri. Siamo anche devastati per le famiglie che hanno perso i loro cari domenica e condividiamo intimamente il loro dolore ». Vanessa e Kobe avrebbero celebrato il loro 19° anniversario di matrimonio ad aprile, insieme alle quattro figlie. «Non ci sono abbastanza parole per descrivere il nostro dolore in questo momento» ha aggiunto «mi conforta sapere che Kobe e Gianna sapevano di essere così profondamente amati. Siamo stati incredibilmente fortunati ad averli nella nostra vita. Vorrei che fossero qui con noi per sempre. Erano le nostre meravigliose benedizioni portate via troppo presto da noi». E ancora: «È impossibile immaginare la vita senza di loro, ma ci svegliamo ogni giorno cercando di continuare ad andare avanti perché Kobe e la nostra bambina, stanno brillando per illuminare la strada. Il nostro amore per loro è infinito e cioè incommensurabile. Vorrei solo poterli abbracciare, baciarli e benedirli. Li hanno qui con noi, per sempre».

Morto Kobe Bryant, Shaquille O'Neal in lacrime: "Vorrei parlargli ancora". Repubblica Tv il 29 gennaio 2020. Ospite dell'emittente televisiva statunitense Tnt, l'ex compagno di squadra  Shaquille O'Neal ha raccontato tra le lacrime del rapporto che lo legava al campione deceduto domenica scorsa. "Il fatto che non potremo scherzare insieme alla sua cerimonia di ingresso nella Hall of Fame - ha dichiarato l'ex centro dei Lakers -, il fatto che non potrà dirmi: 'Ah, io ne ho cinque (anelli NBA), tu solo quattro'. Che non potremmo dirci che se fossimo restati insieme avremmo potuto vincerne 10… queste sono cose che non potranno mai tornare indietro. Ho già perso mio padre e mia sorella… l'unica cosa che vorrei è potergli parlare ancora" Libia, due navi turche al largo di Tripoli.

Kobe Bryant: il dolore della moglie Vanessa e i dubbi sui funerali. Jacopo Bongini il 30/01/2020 su Notize.it. Diverse fonti affermano come la moglie Vanessa sia devastata dalla morte di Kobe Bryant, mentre ancora non si sa nulla della data dei funerali. Non si placa il dolore di Vanessa Bryant per la morte improvvisa del suo Kobe, scomparso domenica 26 gennaio in un incidente in elicottero assieme alla figlia Gianna Maria. Secondo fonti vicine alla famiglia infatti, la 37enne moglie del cestista dei Los Angeles Lakers non riuscirebbe a finire una frase senza scoppiare a piangere, dovendo inoltre pensare a organizzare gli immensi funerali per il campione di pallacanestro che tuttavia ancora non è chiaro né dove né quando si terranno.

Il dolore della moglie di Kobe Bryant. Sempre secondo la stessa fonte, Vanessa sarebbe attualmente circondata da: “un buon sistema di assistenza, da persone che la amano e amavano Kobe“, e malgrado la devastazione emotiva per la morte del marito e della figlia 13enne: “sta lavorando molto duramente per mantenere il controllo per le altre ragazze. Ora deve essere forte”. Vanessa e Kobe Bryant si erano sposati nel 2001, quando lei aveva solo 18 anni e lui 22. Nel corso degli ultimi anni però, la donna si era dette contraria al fatto che Bryant usasse l’elicottero per i suoi continui spostamenti, temendo che potesse incappare in qualche incidente. Fu proprio per questo motivo che marito e moglie fecero un patto sul non salire mai insieme sullo stesso volo, in modo che se uno dei due avesse dovuto perire l’altro sarebbe rimasto al fianco dei figli.

I funerali a Los Angeles. Al momento inoltre si sta cercando di capire dove organizzare i funerali per quello che è considerato come uno dei più grandi giocatori di basket di tutti i tempi. La location inizialmente prevista dello Staples Center di Los Angeles – lo stadio casalingo dei Lakers – risulta non abbastanza capiente malgrado i suoi 20mila posti a sedere. Per questo motivo si starebbe facendo largo in queste ore l’idea di tenere le esequie nel Los Angeles Memorial Coliseum, dentro il quale possono entrare 80mila persone e che venne in passato utilizzato per le cerimonie di apertura delle Olimpiadi di Los Angeles del 1932 e del 1984.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 29 gennaio 2020. Adesso siamo tutti Kobe Bryant. È scattato il millesimo meccanismo di cordoglio collettivo a costo zero (basta un click) ed è sorprendente scoprire quanti fossero, ben nascosti, gli appassionati di basket Nba in Italia: questo considerando che le partite le trasmette solo un canale satellitare a pagamento. Non c' è solo il tweet di domenica sera (con gaffe) dello staff di Lucia Borgonzoni: ieri anche il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, ha ricordato il campione di basket statunitense morto per un incidente due giorni fa a Los Angeles; il pretesto ci stava, perché Bryant studiò e crebbe in Italia, ma è chiaro che Mattarella ha annusato l' aria. E, nell' aria, non c' era soltanto il vecchio adagio secondo il quale c' è bisogno che una persona muoia per riconoscerne i meriti; ora è diverso, perché a quanto pare c' è bisogno che una persona muoia per apprenderne la semplice esistenza. Dopodiché può scattare la dinamica di solidarietà virale (tweet, like, cuoricini e «rip», alias riposi in pace) che supera anche il celebre «effetto Diana Spencer» del 1997, quando la morte di una principessa perlopiù conosciuta per i gossip raccolse un' impressionante solidarietà mediatica e popolare; ma Diana, almeno, la conoscevano già tutti, ci sta. Ora è diverso, perché il «siamo tutti Caio» è diventata una moneta gratuita da spendere così, tanto per non sbagliare.

Conformismo. Non si tratta del «siamo tutti americani» che serviva per dare consapevolezza dell' attacco all' Occidente, al nostro modo di vivere; e non è neppure il già più controverso «Je suis Charlie» che doveva farci capire che la libertà di espressione è tutto, anche quando le opinioni divergono. È cominciata, in seguito, un' altra cosa, una forma di fastidioso conformismo informatico a comando. Qualcosa che non celebra, non unisce o non per davvero, bensì banalizza e appiattisce ogni icona. Siamo tutti Kobe Bryant a patto di non sapere chi fosse, siamo alla trasfigurazione di un personaggio fittizio, chimerico. Me ne sono accorto - nota personale - quando domenica sera, fottendomene allegramente dei risultati elettorali, seguivo solamente le notizie su Bryant e ho fatto un post su Facebook: infiniti cuoricini e solidarietà, troppa roba, qualcosa già cominciava a non quadrare. Lunedì sera, invitato a Sky a commentare gli esiti elettorali in un notiziario che parlava anche di Bryant, mi veniva spontaneo commentare la sua morte: forse perché avevo seguito l' ascesa di Bryant per tutta la sua carriera professionale, e perché il basket è stato lo sport che ho praticato sin da adolescente, sinché il fisico ha retto; ma non ho commentato, perché ho visto che, dopo di me, in studio avrebbe parlato Davide Pessina, un cristone di 2.06 che giocò da professionista e che ora è un bravo telecronista di basket proprio a Sky. A ognuno il suo, pensavo. Non avevo capito niente, non avevo capito che Bryant ormai apparteneva a chiunque, era stato già arruolato nell' immaginario mediatico che in fondo ti chiede solo di avere i requisiti giusti per la loro deformazione: nel caso, Bryant - che per me era anzitutto un dio del pallone da basket - era bello, aveva una bella faccia, era nero, aveva delle belle figlie nere - una è morta con lui, a perfezionare la mestizia - ed era una persona sicuramente intelligente e interessante, questo in un ambiente dove il più colto è un troglodita.

Il ritiro. Bryant era uno che, dopo il ritiro, non ha smesso di esistere e ha fatto un sacco di altre cose. Sul web, poi, ho provato a postare una bella foto di Bryant che se ne va e saluta rivolto alle telecamere: moltissimi «like». Poi ho postato un video degli ultimi tre minuti dell' ultima partita della carriera, dove ribaltò il risultato letteralmente da solo e fece 60 punti: ma ecco, molti meno like e contatti. Chiaro. Ovvio. Non era più un giocatore di basket. Non si parlava più di sport. E uno può dire: d' accordo, ma qual è il problema? Che male fa tutto questo? Di male fa - risposta - che quella cosa, quella persona celebrata dall' effimero «web», non è già più lui, è un altro. Vogliamo farci capire? Tempo fa, Kobe Bryant venne arrestato perché una diciannovenne l' accusò di averla violentata; lui confessò di aver avuto un rapporto sessuale con lei, ma negò la violenza dicendo che fu consensuale, e pagò 25mila euro di cauzione. Andò sotto processo sinché le accuse non furono ritirate, non sappiamo in base a quale genere di accordo. Bryant perse contratti (anche con Adidas e con la Nutella Ferrero) sinché la cosa si perse nell' oblio, anche perché parliamo del lontano 2003.

Metoo. Ora immaginatevi, in tempi di conformismo «Metoo», che cosa sarebbe successo se la cosa fosse stata un po' più recente. Anzi, non serve immaginarlo: ieri una giornalista del Washington Post si è permessa di riprendere un articolo di tre anni fa (scritto da altri) titolato «Il caso dello stupro di Kobe: la prova del Dna, la storia dell' accusatrice e la semi-confessione». E, l' hanno licenziata. Sì, licenziata: congedo amministrativo. Motivazione ufficiale: «I tweet di Felicia Sonmez mostrano un errore di giudizio che ha minato il lavoro dei suoi colleghi». Al che la giornalista ha scritto, prima di salutare: «Alle 10mila persone che hanno commentato e scritto mail con insulti e minacce di morte, prendetevi un minuto e leggete il pezzo, scritto oltre tre anni fa e non da me. Ogni figura pubblica andrebbe ricordata nella sua totalità, anche quando è amata da tutti». L' attrice 32enne Evan Rachel Wood, di rimando, ha replicato: «Ho il cuore spezzato per la famiglia di Kobe. Era un eroe dello sport, ma era anche uno stupratore. E tutte queste verità possono esistere contemporaneamente». Tante verità, nessuna verità. Siamo tutti Kobe Bryant, e nessuno lo è. Siamo tutto, anzi, non siamo niente. Chi ha amato e conosciuto le gesta di Kobe Bryant ne tenga stretto il ricordo, prima che questo mondo idiota glielo porti via.

Eduardo Lubrano per “la Repubblica - Edizione Roma” il 28 Gennaio 2020. «Il piccolo Kobe? Un anarchico. In campo faceva tutto: segnava, tornava in difesa recuperava il pallone e andava di nuovo in attacco senza passava la palla e segnava di nuovo». Gioacchino Fusacchia, classe '60 è stato il primo allenatore di Kobe Bryant a Rieti. Il padre Joe giocava nella Sebastiani e si era trasferito nel capoluogo sabino con la famiglia. Viveva la città: lo trovavi al bar, al ristorante, al cinema. E il piccolo Kobe che all'epoca aveva 6 anni - parliamo del 1984 - seguiva il padre dandogli la mano: nell' altra aveva sempre un pallone da basket. «Allenatore di Kobe è una parola grossa - dice Fusacchia che oggi allena a La Foresta Rieti - io e Claudio Di Fazi col quale mi occupavo del minibasket della Sebastiani cercavamo di insegnargli a palleggiare, come si fa con tutti i bambini di quell' età, provando a far divertire tutti. Diciamo che siamo riusciti a non fargli passare la voglia di giocare. D' altronde lui non era allenabile dal punto di vista "tattico": si impegnava tantissimo, non si tirava mai indietro negli esercizi, era sempre il primo. Ma poi voleva sempre il pallone in partita e decideva tutto da solo».

Un predestinato?

«Sarebbe facile per me dirlo oggi, ma certo si capiva che aveva una gran voglia di emergere».

Fisicamente com' era, già così esuberante?

«No, tutt' altro, era uguale agli altri. Ma dal punto di vista tecnico era superiore. Una anno facemmo una prova nel Torneo Coca Cola, all' epoca molto importante. Era riservato ai nati nel 1975 e noi decidemmo di far giocare anche Kobe pensando che quei tre anni di differenza (era nato il 23 agosto del 1978,ndr) avrebbero potuto tenerlo a freno. Niente da fare. Fummo costretti a richiamarlo in panchina perché anche con i più grandi faceva tutto lui e faceva sempre canestro. Lui si arrabbiò tantissimo ed invece di sedersi in panchina andò a lamentarsi dalla mamma e dal papà che mi lanciò un' occhiataccia. Alla fine lo premiammo come miglior giocatore del torneo».

Come facevate a farvi capire dal piccolo Kobe?

«All' inizio con l' universale linguaggio dei gesti. Ma dopo 4-5 mesi lui già parlicchiava la nostra lingua e soprattutto capiva benissimo. E quando una cosa non gli piaceva faceva finta di non capire, come fanno i bambini di quell' età e come fanno quelli come lui, con un caratterino molto forte. Poi negli altri due anni è stato tutto molto più facile. Anche se in ogni pausa dell' allenamento della prima squadra si metteva a tirare fino a che qualcuno non gli faceva uno strillo affettuoso "Kobe e basta adesso!". Lui smetteva ma appena l' allenamento si fermava ricominciava come se niente fosse».

Maria Lancellotti per "movieplayer.it" il 28 Gennaio 2020. La notizia della morte di Kobe Bryant ha lasciato Jack Nicholson letteralmente senza parole e nella più profonda tristezza. proprio lui che, assente dai set da diversi anni, non fa mai mancare, però, il proprio sostegno alla squadra del cuore, i Los Angeles Lakers. Non sorprende, quindi, che l'attore abbia voluto far sentire la propria voce in un momento tragico, non solo come tifoso ma anche come personale ammiratore di Kobe Bryant, che nei suoi Lakers ha militato per 20 anni: "La mia reazione?" ha dichiarato Jack Nicholson ai microfoni di CBSLA "La stessa di tutta Los Angeles. Pensiamo che sia tutto completamente solido ma c'è sempre un buco nel muro. Notizie simili ti uccidono. La morte di Kobe è un evento terribile". Jack Nicholson ha poi voluto ricordare Kobe Bryant a modo suo, con un aneddoto ormai famoso tra i suoi fan: "Ero a New York, al Madison Square Garden, gli ho dato un pallone da basket e gli ho chiesto di autografarmelo. Mi guardò come se fossi un matto. Me lo ricordo ancora volare così in alto sul campo, avrei potuto dire dal primo istante che quella palla sarebbe entrata. Posso ricordare che grande giocatore è stato, in ogni senso. Penseremo a lui per sempre, e ci mancherà". Kobe Bryant ha perso la vira ieri, a soli 41 anni, e con lui la figlia Gianna Maria, appena tredicenne, dopo che l'elicottero su cui stavano viaggiando insieme ad altre tre persone è precipitato sulle colline di Calabasas, una zona a nord-ovest di Los Angeles, probabilmente a causa della fitta nebbia. Mentre la polizia di Los Angeles sta ancora indagando sull'accaduto, in città come sui social sta continuando il flusso di persone che, da quando la notizia è stata diffusa, continua a rendere omaggio al campione scomparso prematuramente.

Morte Kobe Bryant: LeBron James, il tatuaggio in suo onore e l’omaggio dei Los Angeles. Lakers: «Vivrai per sempre, fratello». Pubblicato sabato, 01 febbraio 2020 su Corriere.it da Flavio Vanetti. L’eredità ora è nelle sue mani. E nel suo cuore e nel suo animo. Dunque nel profondo di chi, fino a poco tempo, era stato uno dei principali avversari, se non il principale. C’è un senso di commovente bellezza nei gesti con cui LeBron James, al ritorno in campo dei Los Angeles Lakers dopo la tragedia di Kobe Bryant, della figlia Gianna e degli altri sette occupanti l’elicottero schiantatosi domenica 26 gennaio nella San Fernando Valley, ha voluto ricordare l’ex cestista. Nemmeno un amico: «Mio fratello», ha sottolineato il Prescelto dando seguito a quanto aveva detto immediatamente dopo la disgrazia. Ora l’ha certificato all’epilogo di una liturgia del ricordo e dell’affetto che ha coinvolto pure la squadra e i tifosi ma prima di tutto lui, il numero 23 che ha voluto indossare il numero 24 del fuoriclasse scomparso e che quelle cifre di gara contigue alle sue idealmente non abbandonerà mai più. Tutto era Kobe, e nel segno di Kobe — oltre che degli sventurati compagni di viaggio — allo Staples Center: emozione, lacrime, dolore, i colori giallo-viola a fare da sfondo. E un silenzio assoluto per 24,2 secondi mentre sullo schermo apparivano i nomi delle persone perite. Della partita, che Los Angeles avrebbe perso contro i Portland Trail Blazers, importava davvero poco. I Lakers per la fase della commemorazione sono entrati vestendo chi la canotta con l’8 e chi quella con il 24, le due avute da Kobe nella carriera: si sono radunati in cerchio, abbracciandosi. Nello spogliatoio, LBJ ha appeso quel simbolo a fianco del suo locker personale: molto probabilmente non lo rimuoverà mai. Così come è definitiva un’altra testimonianza dell’affetto di King James per Bryant: su una gamba si è fatto tatuare un serpente — in ossequio al soprannome di Kobe: Mamba — con la scritta «Kobe 4 life». Ma è stato nel discorso davanti a tutti che LeBron ha dato il meglio. Introdotto dallo speaker, è andato a centro campo, ha preso il microfono e ha cominciato a parlare, rinunciando ben presto agli appunti segnati su foglietti per procedere a braccio. «Prima di cominciare con il discorso che ho preparato, voglio ricordare tutte le vite che sono andate perdute domenica mattina», ha cominciato, recitando i nomi delle vittime dell’incidente a Calabasas. «Ho qualcosa di scritto con me perché mi hanno chiesto di seguirlo per non perdere la rotta, ma tradirei la fiducia della Laker Nation se leggessi qualcosa di preparato: perciò parlerò direttamente dal cuore» ha poi aggiunto, depositando per terra i fogli che aveva con sé. «La prima cosa a cui penso è il senso di famiglia. Guardandomi intorno vedo che tutti siamo in lutto, stiamo soffrendo e abbiamo il cuore a pezzi, ma in momenti del genere l’unica cosa da fare è appoggiarsi alla spalla della propria famiglia. Prima di venire a giocare qui a Los Angeles avevo sentito parlare della Laker Nation e di quanto sia presente questo sentimento di famiglia: ecco, è quello che ho sentito nell’ultima settimana, da domenica mattina fino a questo momento. Non solo dai giocatori, dal coaching staff o dall’organizzazione, ma da tutti. Tutti quelli che sono qui fanno parte di una vera famiglia, e so che Kobe, Gianna, Vanessa e tutta la famiglia Bryant vuole ringraziarvi dal profondo del loro cuore così come Kobe ha detto nel suo ultimo discorso qui». Quindi il ritratto del Mamba: «So che prima o poi ci sarà una commemorazione per lui, ma guardo a questa serata come a una celebrazione dei 20 anni del sangue, del sudore, delle lacrime, del corpo che crolla e delle innumerevoli volte in cui si è rialzato, delle infinite ore di lavoro, della determinazione a diventare il più grande giocatore possibile. Stanotte celebriamo il ragazzo che è arrivato qui a 18 anni e che si è ritirato a 38, e che è diventato il miglior padre che abbiamo visto negli ultimi tre anni», ha continuato James, cedendo a un attimo di commozione per introdurre qualcosa di ancora più personale: «Kobe è un fratello per me. Sin da quando ero al liceo, guardandolo da lontano, a quando sono entrato in questa lega, guardandolo da vicino, fino a tutte le battaglie che abbiamo avuto nelle nostre carriere, la cosa che abbiamo sempre condiviso è la determinazione a vincere e ad essere grandi. Il fatto che io sia qui a ora vuole dire tantissimo per me: insieme ai miei compagni vogliamo portare avanti la sua eredità non solo per questa stagione, ma fino a quando potremo continuare a giocare a pallacanestro perché è quello che amiamo ed è quello che avrebbe voluto lui. Perciò, nelle parole di Kobe Bryant: Mamba out. Ma nelle nostre parole: non verrai mai dimenticato. Vivrai per sempre fratello». James ha chiuso così, lasciando il microfono al centro del campo come fatto da Kobe Bryant nella sua ultima partita in carriera. Un gesto pensato e voluto, il ponte che lega i due per sempre.

Dan Peterson ricorda Kobe Bryant: "Un campione al livello di Jordan". A Cernusco sul Naviglio, in occasione del Fair Play Festival organizzato dall'Aso, l'ex allenatore dedica un commovente tributo al campione Nba scomparso. Giuseppe De Lorenzo, Domenica 09/02/2020 su Il Giornale. Un commosso ricordo, di fronte a centinaia di persone. Dan Peterson, storico allenatore e voce della pallacanestro nostrana, dedica il suo tributo a Kobe Bryant, il campione Nba scomparso pochi giorni fa in un tragico incidente d'elicottero. "Kobe ha sempre giocato da bambino nel settore giovanile ed è stato molto riconoscente al basket italiano - racconta - Ai compagni di squadra diceva: 'Io sono più forte di voi perché sono americano di nascita ed europeo di formazione. Ho imparato il basket non come sport individuale, ma come concetto di gioco squadra". L'inconfondibile voce di Peterson, con quell'italiano misto all'inglese nonostante i tanti anni nel Belpaese, è risuonata ieri sera all'Agorà di Cernusco Sul Naviglio, quest'anno città europea dello sport 2020. L'occasione è stata il "Fair Play Festival" organizzato dall'Aso Cernusco, la società sportiva nata dall'unione dei due gruppi sportivi degli oratori presenti in città. Dopo un lungo racconto attraverso le mille avventure della carriera da allenatore di Dan, al teatro si spengono le luci. In sottofondo risuona Alleluya. Sullo schermo appare la fotografia di Kobe vicino a Mike D'Antoni, altra grande bandiera della Milano cestistica degli anni 80. È il giusto tributo a un giocatore arrivato "un millimetro sotto" a Michael Jordan. "Bryant non era conosciuto come un grande difensore - racconta Peterson - mentre Jordan era insieme il miglior attaccante e il miglior difensore. E allora Kobe si è detto: 'Anche io devo diventare il miglior difensore'. Aveva dentro di lui questa motivazione che, come tutti i grandi campioni, era in grado di trovare dove altri non riuscivano". Non è un caso se ha vinto cinque anelli con due squadre "diverse": i primi tre con O'Neal al fianco e gli altri due con Pau Gasol. "Jordan li ha vinti tutti con Scottie Pippen - dice Dan - per Kobe è stato più difficile vincere cinque titoli. Per questo merita di essere ricordato al suo stesso livello". Peterson ricorda come Kobe, ad inizio carriera, avesse scelto la maglia numero 8 in onore proprio di Mike D'Antoni, che vedeva giocare nell'Olimpia Milano dei record quando era un ragazzino al seguito del padre in Italia. "Quattro o cinque anni fa è tornato qui per la Gazzetta dello Sport - continua Dan - Molte stelle quando ricevono un premio scappano via come Usain Bolt. Kobe invece non era così. Lui aveva una pazienza incredibile: posava per ogni selfie, firmava ogni autografo e in conferenza stampa rispondeva ad ogni domanda. Aveva grande umanità". Peterson lo definisce "solare". Un ragazzo semplice, nonostante la leggenda che era già diventato. Un aneddoto: durante un'intervista, Dan prende la parola per fare una domanda a Kobe. Era convinto che la stella Nba nemmeno sapesse chi fosse quel piccolo allenatore di basket. E invece Bryant risponde: "Dan Peterson, per me è il numero uno!".

“Odio Kobe Bryant”: ecco i perché. Diedo Martone su Il Giornale il 31 gennaio 2020. In questi giorni di commozione mondiale per la prematura scomparsa del campione di basket Kobe Bryant, assieme agli sfortunati passeggeri dell’elicottero, voglio ricordare un sentimento che spesso lo ha accompagnato in vita. Si tratta dell’odio che riusciva a suscitare presso gli avversari in campo e i tifosi che si vedevano sconfitti da qualche sua prestazione monstre. Come non ricordare quello che dichiarò Sam Mitchell, all’epoca head coach dei Timberwolves, che “nel post-partita ha esternato in modo molto schietto il proprio odio verso Bryant. Mitchell, tra le altre cose, era anche in campo nel 2006, quando Kobe segnò 81 punti contro i Raptors, ovviamente dalla parte “sbagliata”. “Lo odio” – ha detto il coach – “Quando non lo vedrò mai più per il resto della mia vita non sarà mai troppo presto”, quale commento ad una delle partite di addio (ultima stagione di Kobe nell’NBA) in cui Kobe segnò 38 punti all’interno di una sfida del tutto inutile ai fini della classifica. La sua risposta fu di stile “Beh, grazie per l’odio” – ha commentato Kobe – “No, per davvero. Mi fa piacere. Sulla partita contro i Raptors posso dire che, onestamente, non c’era nulla che lui potesse fare di più. Io continuavo ad alzarmi e tirare in faccia agli avversari. Era una di quelle serate pazzesche”. (fonte: articolo su basketuniverso a firma F. Manzi). Interessante anche ascoltare parte della lettera scritta da un tifoso di Boston (evidentemente esasperato dai danni fatti alla propria squadra dai canestri e dai passaggi di Kobe) a cura di Linus e Savino in una trasmissione di anni fa. Ma l’odio per Kobe è diventato anche oggetto di alcuni spot memorabili girati per il marchio sponsor di Kobe, ovvero quello che richiama la vittoria alata. Potete trovarli qui. L’addio a un grande campione viene ora ricordato nelle sue prodezze. Ma se avrete la pazienza e la voglia di leggere qualche sua biografia scoprirete, al di là degli aneddoti che circolano, il profilo di un uomo che ha fatto del basket la sua ossessione, dell’etica del lavoro il suo stile di vita, dell’attenzione a ogni singolo dettaglio il suo atteggiamento. Forse è per questo che viene citato da tanti quale ispirazione, ma davvero da pochi quale esempio da riuscire a seguire.

Kobe e Gianna Bryant, la data dei funerali non è casuale. Redazione Notizie.it l'08/02/2020. La data dei funerali di Kobe e Gianna Bryant (che saranno celebrati allo stadio dei Lakers) ha un significato preciso. Gli Stati Uniti ed il mondo intero sono ancora in lutto per la scomparsa di Kobe Bryant e della sua figlia Gianna, appena 13enne, morti in un tragico incidente a bordo di un elicottero nella giornata di domenica 26 gennaio. È stata decisa la data dei funerali di Kobe Bryant e della figlia Gianna, un modo per ricordare un’ultima volta la stella dell’NBA che ha fatto la storia del basket. La scelta del giorno della funzione non è affatto casuale: la data 24/02 racchiude, infatti, il numero di maglia di Kobe e quello della giovane figlia. Il 20 del 2020, infine, corrisponde al numero di anni che Bryant ha trascorso nei Lakers e che lui e Vanessa hanno passato insieme.

È stata comunicata la data dei funerali di Kobe e Gianna Bryant. Il prossimo 24 febbraio i familiari (a partire dalla moglie Vanessa) e gli amici, come il cestista Michael Jordan, potranno rivolgere alle vittime un ultimo saluto. Per la funzione è stato scelto lo Staples Center, lo stadio dei Lakers. A renderlo noto è stata la moglie Vanessa con un post su Instagram.

Chi era Gianna Bryant. Gianna Bryant era la secondogenita di Kobe e della moglie Vanessa. Nata nel 2006 dopo Natalia Diamante, la piccola Gianna aveva appena 13 anni. I coniugi Bryant hanno in seguito avuto altre due figlie Bianka Bella e Capri Kobe. Gianna, così come il padre, ha fin da subito manifestato la sua passione per la disciplina che ha reso celebre il padre e prima ancora il nonno, designandola come la naturale erede di famiglia. Lo stesso Kobe aveva ammesso in un’intervista che: “Segue le partite, come giocano, e impara, non solo dalle vittorie, ma anche dalle dure sconfitte. Segue anche le loro interviste. È fantastico, come genitore, poter vedere mia figlia trarre ispirazione da loro”. La piccola era “ossessionata dalla Uconn”. Gianna non è sopravvissuta all’incidente con l’elicottero che è costato la vita al padre e a tutte le persone a bordo. Tra le vittime c’è anche Alyssa Altobelli, giovanissima compagna della figlia di Kobe nella squadra di basket dell’Orange Coast College. La ragazzina era solita seguire l’amica per assistere alle partite di Bryant, accompagnata anche dal padre John (anche lui deceduto nell’incidente). 

Kobe Bryant: l’ASI ha chiesto la cittadinanza onoraria per lui. Alessandra Tropiano il 04/02/2020 su Notizie.it. L'ASI ha ufficializzato la richiesta della cittadinanza onoraria per Kobe Bryant per omaggiarlo e riconoscere il suo contributo allo sport italiano. Dopo la morte del campione dei Lakers, tutto il mondo si è mobilitato per ricordarlo tra tornei, commemorazioni e saluti da parte delle società sportive. Anche l’Italia ha fatto la sua parte, con l’ASI (Associazioni Sportive e Sociali Italiane) che ha chiesto la cittadinanza onoraria per Kobe Bryant. L’ASI ha infatti espressamente fatto richiesta di una concessione ‘post mortem’ per meriti speciali, già conferita in vita (ex articolo 9 della legge 91/92) ad atleti che si siano distinti per grandi meriti sportivi. Si tratta di una procedura complessa, che la Legge sulla cittadinanza prevede, in via ordinaria, come concessione meritoria e non alla memoria. Ma, come per altri casi particolarmente emblematici in cui si è richiesta la cittadinanza onoraria per meriti speciali post mortem, anche nella peculiarità del caso di Kobe Bryant la Società ha ritenuto che ci siano le giuste ragioni per la concessione. “Un gesto di apprezzamento e di considerazione che, ancorché solo simbolico, ci appare importante e solenne“, ha specificato.

Kobe Bryant e l’amore per l’Italia. Innanzitutto Kobe Bryant aveva tanto di italiano nell’educazione e nell’istruzione ricevuta in sette anni di permanenza nel Belpaese al seguito del padre Joe Jellybean Bryant. Dal 1984 al 1991 costui ha infatti vestito le maglie di Rieti, Reggio Calabria, Pistoia e Reggio Emilia. Amava poi tornarvi per trascorrere le vacanze dopo la stagione ufficiale tanto da aver sempre detto di voler comprare una casa in Italia. “Ma non riusciva a scegliere il posto talmente trovava bella qualsiasi nostra città“, ha continuato l’ASI.

Per questo, consci dell’amore di Kobe per la nostra nazione, l’associazione ha ritenuto di chiedere un’attestazione di riconoscenza per quello che lui ha donato allo sport italiano. E anche, ha concluso, per ricambiare quel legame forte, intimo, intenso e profondo che l’atleta provava nei confronti del nostro Paese.

E’ possibile trovare su Amazon il libro di Kobe Bryant, in cui il cestista racconta della sua carriera e delle sue avventure nel mondo della pallacanestro. Si ricorda, inoltre, che al clic sarà possibile visualizzare l’intero catalogo Amazon. 

Kobe Bryant, il ricordo della moglie: “Mi manca il tuo buongiorno”. Debora Faravelli il 06/02/2020 su Notizie.it. La moglie di Kobe Bryant ha condiviso un dolce ricordo dell'ex cestista e del messaggio di buongiorno che era solito mandarle. A dieci giorni dalla scomparsa di Kobe Bryant causata da un incidente aereo, la moglie Vanessa ha condiviso un ricordo dell’ex campione NBA con un dolce messaggio per lui. Ha poi pubblicato una serie di video che ritraggono il ritiro della maglia di basket della figlia Gianna Maria Onore, anch’essa morta nello schianto verificatosi domenica 26 gennaio 2020. Queste le parole che la donna ha scritto a corredo di un’immagine raffigurante un sorridente Kobe: “Mi manca il tuo “buongiorno principessa/regina“. Tra gli hashtag utilizzati spiccano #mybestfriend e #thebestdaddy, a significato del fatto che per Vanessa il cestista non era soltanto un marito ma anche un migliore amico e il miglior papà in assoluto. Non poteva infine mancare un “Mi manchi tanto” con un cuore rosso. Vanessa Bryant ha poi postato una serie di registrazioni della cerimonia tenutasi presso la palestra della Harbor Day School di Newport per il ritiro della maglietta numero 2, quella indossata Gianna. Dolci le parole a lei dedicate, iniziate con “Per tredici anni ho avuto la fortuna di svegliarmi al mattino e vedere il tuo sorriso meraviglioso. Avrei voluto che questo proseguisse fino al mio ultimo respiro“. Si è poi detta orgogliosa di lei per aver insegnato che nessun atto di gentilezza è mai troppo piccolo. Per omaggiare la 13enne sono intervenuti anche i funzionari del consiglio studentesco dell’Harbor Day. Queste le parole da loro pronunciate: “Ricorderemo la tua volontà di migliorare le cose, le tue battaglie. Hai ispirato il cambiamento negli insegnanti e negli amici, il tuo esempio non svanirà mai“.

Da sport.sky.it l'11 febbraio 2020. Sono passate poco più di due settimane dal tragico incidente in cui hanno perso la vita Kobe, sua figlia Gianna e altre sette persone, e il dolore che sta vivendo Vanessa Bryant è ancora difficile da esprimere: “Sono stata riluttante a spiegare con delle parole i miei sentimenti”, ha scritto lunedì la moglie di Kobe in un lungo post su Instagram accompagnato da un video in cui la figlia Gianna gioca a basket con la maglia della Mamba Academy. “Il mio cervello –spiega Vanessa - rifiuta di accettare che sia Kobe che Gigi se ne siano andati. Non riesco a elaborare entrambi i lutti contemporaneamente. È come se stessi cercando di processare la perdita di Kobe, ma il mio corpo rifiuta di accettare il fatto che Gigi non tornerà più da me. Mi sembra tutto sbagliato. Perché dovrei essere in grado di svegliarmi un altro giorno se la mia bambina non può avere questa opportunità? Mi sembra di impazzire. Aveva così tanta vita da vivere”. Dopo aver espresso la sua disperazione Vanessa cerca però di guardare avanti, soprattutto per le sue altre tre figlie. “Mi rendo conto che devo essere forte e presente – dice - per le mie tre figlie. Non posso essere con Kobe e Gigi, ma per fortuna sono qui con Natalia, Bianka e Capri. So che quello che sto provando è normale, fa parte dell’elaborazione del lutto. Volevo solo condividerlo nel caso ci fosse qualcuno là fuori che ha subito una perdita come questa. Vorrei che fossero qui e questo incubo finisse. Prego per tutte le vittime di questa orribile tragedia. Per favore, continua a pregare per tutti”. Tutta Los Angeles, e non solo, si ritroverà il prossimo 24 febbraio per commemorare pubblicamente Kobe e Gianna in una cerimonia allo Staples Center.

Repubblica.it il 12 febbraio 2020. Sono stati sepolti venerdì scorso i corpi di Kobe e Gianna Gigi Bryant, morti il 26 gennaio in un incidente in elicottero. La famiglia ha scelto una cerimonia privata, a cui erano presenti pochi intimi, nel massimo della riservatezza. Come si può leggere dai certificati rilasciati dalla Contea di Los Angeles, il luogo scelto dalla famiglia dell'ex stella dei Los Angeles Lakers è il Pacific View Memorial Park di Corona Del Mar, in California. Kobe Bryant, morto a 41 anni mentre con la figlia tredicenne e altre sette persone stava raggiungendo con il suo elicottero privato la Mamba Sports Academy a Thousand Oaks per un match di Gianna, era cattolico e poche ore prima dell'incidente si era fermato a pregare in una parrocchia vicino a casa. Il cimitero dove riposeranno i Bryant si trova a dieci minuti dalla chiesa frequentata dalla famiglia, Our Lady Queen of Angels di Newport Beach. Nel certificato di morte l'ex Black Mamba è descritto come "autore, produttore e atleta" ed è spiegato che la causa del decesso è un trauma contusivo che ha portato immediatamente alla morte. I resti delle nove vittime dello schianto sulle colline di Calabasas sono stati restituiti alle famiglie all'inizio di febbraio, dopo l'identificazione dei cadaveri. Con Bryant e la figlia Gianna erano presenti sul mezzo il pilota Ara Zobayan, le compagne di squadra della ragazza Alyssa Altobelli e Payton Chester, i genitori di Alyssa e la madre di Payton e l'allenatrice Christina Mauser. Per il 24 febbraio allo Staples Center di Los Angeles, la casa dei Lakers, è prevista una cerimonia pubblica per celebrare Kobe Bryant. Non sono ancora stati diffusi dettagli sui biglietti per assistere, ma la città si prepara per un grande evento collettivo per ricordare la grande stella del basket.

Da "lastampa.it" il 25 febbraio 2020. La vedova di Kobe Bryant ha fatto causa a Los Angeles alla società proprietaria dell'elicottero che un mese fa è caduto nella nebbia in California uccidendo suo marito e la figlia Gianna, di 13 anni. Secondo la donna, il pilota (anche lui morto nell'incidente) fu negligente nel volare con quelle condizioni meteo. La notizia della causa è arrivata mentre era in corso la cerimonia allo Staples Center di Los Angeles per commemorare il campione e alla figlia.

L'ultimo saluto a Kobe e Gianna Bryant. La moglie Vanessa: "Ci vediamo in paradiso". 20.000 persone hanno reso omaggio alla memoria di Kobe e Gianna Bryant allo Staples Center di Los Angeles. Vanessa in lacrime: "Prenditi cura di Gigi, io lo farò con le altre nostre figlie". Marco Gentile, Lunedì 24/02/2020 su Il Giornale. 26 gennaio 2020-24 febbraio 2020: sono passati 29 giorni dalla tragica scomparsa di Kobe Bryant, della figlia Gianna e di altre sette persone che si sono schiantate con un elicottero privato nei pressi di Calabasas. Presso lo Staples Center di Los Angeles, seconda casa del "Mamba", 20.000 persone hanno dato l'ultimo saluto al fenomeno del basket mondiale e alla sua giovanissima figlia 13enne che hanno lasciato un vuoto incolmabile nella vita dei loro familiari e non solo. Ogni persona presente per omaggiare la memoria di Kobe e della figlia ha ricevuto all'ingresso un libricino fotografico con una serie di scatti raffiguranti uno dei più forti giocatori della storia del basket e dell'Nba insieme alla sua amatissima Gianna. Tanti gli ospiti presenti con Beyoncé che ha aperto la cerimonia con una serie di canzoni per scaldare ancora di più i cuori delle 20.000 persone presenti per Kobe. Tante le celebrità presenti per questo vero e proprio evento per dare l'ultimo saluto ad un uomo vero che ha perso la vita a 41 anni in una triste domenica d'inverno. A salire sul palco per prima, naturalmente, è stata la moglie di Kobe e mamma di Gianna, Vanessa che non è riuscita a trattenere le lacrime e la commozione: "Kobe mi diceva sempre: 'Gigi è tutta la sua mamma: ha lo stesso fuoco dentro che hai tu, la tua personalità, il tuo sarcasmo'". Il discorso di Vanessa è durato quasi 20 minuti in cui ha toccato tanti temi e dove ha ricordato la figura del marito, del padre, dell'uomo di famiglia, dell'atleta ma anche quello della sua giovane figlia: "Sono stato la sua migliore amica, la sua prima ragazza, sua moglie, il suo grande amore. Mi ha mandato un ultimo messaggio, prima di morire: voleva che ci prendessimo un po' di tempo io e lui soltanto, senza le bimbe, per stare assieme. Non ce l'abbiamo fatta. Kobe, pensaci tu a Gigi. Io farò lo stesso per le nostre altre figlie. Ci rivedremo in paradiso, tutti assieme". Anche un commosso e distrutto Michael Jordan, che ha compiuto 57 anni lo scorso 17 febbraio, ha voluto ricordare il suo grande amico Kobe: "Avevo promesso a mia moglie che non avrei pianto. Non volevo un altro mio meme in lacrime per i prossimi anni. Ma questo è quello che mi fa fare Kobe Bryant".

Vanessa fa causa alla società dell'elicottero. La vedova del fenomeno dei Los Angeles Lakers ha inoltre deciso di fare causa alla società proprietaria dell'elicottero caduto un mese fa nei pressi di Calabasas. Secondo quanto riporta TMZ il pilota Ara Zobayan fu negligente nel volare con quelle condizioni meteo. Oltre alla mancata autorizzazione a volare in condizioni precarie e con una nebbia molto fitta, Vanessa avrebbe anche sollevato perplessità circa l'alta velocità a cui viaggiava l'elicottero, circa 180 miglia orarie.

Giuseppe Sarcina per il “Corriere della Sera” il 25 febbraio 2020. Lacrime ed emozioni allo Staples Center di Los Angeles. La città dei Lakers e l' America si commuovono, piangono per Kobe Bryant e «Gigi», la figlia tredicenne, morti nello schianto dell' elicottero il 26 gennaio scorso, insieme con altre sette persone, a Calabasas, in California. È una cerimonia a suo modo intima, nonostante il palazzetto sia gremito da più di 20 mila persone e con milioni di spettatori davanti alla tv. Non c' è Barack Obama, nonostante le voci della vigilia. E non ci sono altri politici. In prima fila prendono posto i campioni di ieri e di oggi, come Magic Johnson, Kareem Abdul Jabbar, Jerry West, Byron Scott, James Worthy, LeBron James, Stephen Curry. Sul palco Beyoncé apre il memorial, in giacca e pantaloni dorati; ha cantato Xo e Halo , due classici, «le canzoni preferite dal mio carissimo Kobe». Poi un filmato, le immagini spettacolari di Bryant in azione. La stella dei Lakers per 17 anni, vincitore di cinque anelli Nba, due medaglie d' oro con gli Usa alle Olimpiadi di Pechino e di Londra. Il «Black Mamba», riferimento per la comunità, ma anche al centro di vicende controverse, come un' accusa di stupro nel 2003, poi ritirata. Ecco allora la moglie di Kobe, Vanessa. Si avvicina al microfono, stende un paio di fogli sul leggio. E condivide con il mondo il ritratto personale di Bryant e, prima ancora, di sua figlia Gianna, 13 anni, promessa del basket. Difficile rimanere indifferenti. Le imprese sportive si mescolano con i dettagli di una vita familiare vivace, divertente. È il momento del lutto, ma anche della rabbia per la famiglia Bryant. Proprio ieri si è saputo che Vanessa e la Nba hanno fatto causa alla Island Express Helicopters, la società che gestiva l' elicottero precipitato in una mattinata di fitta nebbia. Sotto accusa pure le scelte del pilota, Ara Zobayan, morto anche lui, di continuare il volo nonostante le condizioni proibitive. Jimmy Kimmel, showman e comico, ha il compito di cucire il programma del memorial. Prova qualcuna delle sue battute, ma anche lui è troppo emozionato. A un certo punto dice: «Come se fossimo in chiesa, scambiatevi un segno di pace». La popstar Alicia Keys ha incantato, eseguendo al pianoforte la Sonata al Chiaro di Luna di Beethoven. Michael Jordan, le guance bagnate di lacrime, ricorda il legame profondo «con un ragazzino che mi tormentava con le domande, che mi mandava messaggi alle due, alle tre di notte». «Per me era un fratello più piccolo, ma una fonte di ispirazione per la sua passione, per l' amore che riversava sullo sport, la sua famiglia, la sua vita».

L’addio a Kobe Bryant e Gianna: “Ci rivedremo in cielo, amore mio…” Il Dubbio il 25 Febbraio 2020. Il saluto struggente della moglie di Black Mamba davanti a migliaia di persone commosse. Un addio struggente ad un campione che resterà sempre un esempio, in campo e fuori. Lo Staples Center di Los Angeles ha tributato l’ultimo saluto a Kobe Bryant e a sua figlia Gianna, morti insieme ad altre sette persone lo scorso 26 gennaio in seguito allo schianto dell’elicottero che li stava trasportando. Un tributo pubblico i cui proventi saranno devoluti alla Mamba and Mambacita Sports Foundation. Bryant, “Black Mamba”, è stato ricordato anche durante il week-end dell’All Star Game. I 20mila presenti ricevano un libricino fotografico con una serie di scatti di Bryant e della figlia Gianna, Steve Nash e il commissioner Nba Adam Silver si abbracciano e, tra i presenti, ci anche Magic Johnson e James Worthy, Manu Ginobili, Tony Parker e Kyrie Irving. Tutti a commuoversi per un video-tributo che arriva al cuore, poi, dopo un omaggio di Beyoncè la standing ovation per Vanessa, la vedova di Kobe e la mamma di Gianna. “Sono stata la sua migliore amica, la sua prima ragazza, sua moglie, il suo grande amore – ricorda – Mi ha mandato un ultimo messaggio prima di morire: voleva che ci prendessimo un po’ di tempo soltanto lui ed io, senza le bimbe, per stare assieme. Non ce l’abbiamo fatta”. E ancora: “Non potremo mai vedere Gianna andare al liceo assieme a Natalia, insegnarle a guidare o dirle quanto stara’ bene nel suo vestito di nozze”. Struggenti le ultime parole dirette al cielo: “Kobe, pensaci tu a Gigi. Io faro’ lo stesso per le nostre altre figlie. Ci rivedremo in paradiso, tutti assieme”. “Kobe era l’Mvp dei papa’”, ha detto Vanessa Bryant mentre offriva un ritratto intimo del marito trattenendo le lacrime nella cerimonia allo Staples center. Il mondo, ha raccontato, vedeva Kobe come una celebrità, una leggenda del basket, ma per lei e’ il miglior amico, un protettore. Bryant, ha proseguito, amava guardare film romantici con le loro figlie e metterle a letto ogni sera. Col marito pianificava di viaggiare nel mondo ed entrambi non vedevano l’ora di diventare “nonni fantastici”. Poi ha descritto la figlia Gianna come una ragazza dolce, premurosa, che amava anche nuotare, cantare, cucinare dolci e guardare “Survivor” e le partire di Nba insieme al padre. “Avrebbe potuto diventare la miglior giocatrice nell’Nba femminile”, ha aggiunto. Alla fine ha ringraziato l’ondata di affetto e sostegno da tutto il mondo che ha confortato la famiglia nel suo lutto. 

Kobe Bryant Memorial, il discorso di Michael Jordan: “Ho perso un fratello”. Linda 25/02/2020 su Notizie.it. Alla commemorazione allo Staples Center di Los Angeles in ricordo di Kobe Bryant, le dolorose parole di Michael Jordan. Tra le molte testimonianze e le tante frasi a commento della tragica scomparsa di Kobe Bryant sono giunte anche quelle di Michael Jordan. Il noto giocatore di basket, che forse più di tutti è stato il mentore della superstar dei Lakers, si è infatti espresso nel corso della commemorazione organizzata allo Staples Center di Los Angeles.

Michael Jordan: commozione e dolore. “Sono sotto shock per la tragica notizia della morte di Kobe e Gianna”. Queste sono state le parole di Michael Jordan, proprietario degli Charlotte Hornets, in apertura al comunicato ufficiale. “Non ci sono parole per descrivere il dolore che provo in questo momento. Ho amato Kobe, che per me era come un fratello minore. Parlavamo spesso e mi mancheranno molto le conversazioni con lui. Amava tantissimo la competizione ed è uno dei più grandi che abbiano mai giocato a basket con un’incredibile forza creativa in campo”.

L’uomo non ha poi mancato di ricordare Kobe come un ottimo padre e marito, che amava profondamente la propria famiglia. Immerso nella passione per la pallacanestro, il cestista aveva trasmesso questo amore anche alla figlia Gigi, scomparsa anche lei nel tragico incidente insieme all’adorato padre. Ricordiamo che la star del basket Kobe Bryant è morto lo scorso gennaio in un incidente d’elicottero sulle colline di Calabasas, nella zona a nord-ovest di Los Angeles. Fra le vittime, oltre alla figlia Gigi di 13 anni, sono morte altre nove persone. Il cordoglio per la scomparsa di una leggenda è stato immenso, non solo da parte del mondo dello sport ma di tutto il mondo in generale.

Basket: in 20 mila per l'ultimo saluto a Kobe Bryant, Vanessa fa causa a società elicottero. Allo Staples Center l'ultimo omaggio al Black Mamba, scomparso il 26 gennaio insieme alla figlia Gianna e altre 7 persone. La moglie: "Dio sapeva che tu e Gigi non potevate vivere lontani l'uno dall'altra, quindi vi ha preso insieme". Il ricordo di Jordan: "Con lui morta una parte di me". La Repubblica il 24 febbraio 2020. Un addio struggente. L'America si è fermata per rendere omaggio a Kobe Bryant e a sua figlia Gianna, morti insieme ad altre sette persone lo scorso 26 gennaio in seguito allo schianto dell'elicottero che li stava trasportando. In 20 mila allo Staples Center di Los Angeles, casa dei Lakers, per ricordare l'ex stella della Nba, il palco circondato da 35 mila rose rosse. La prima a salirci è stata  Beyoncé: "Sono qui perché amo Kobe", dice la cantante prima di salutare Vanessa Bryant con grande affetto al termine della sua esibizione. E intanto arriva la notizia che la moglie del Black Mamba ha deciso di fare causa all'operatore dell'elicottero in cui hanno perso la vita il marito e la prima figlia della coppia.

Le parole di Vanessa Bryant. Vanessa, accolta con una standing ovation e crollata in lacrime mentre scorrevano le immagini con gli 'highlights' della carriera del marito, prende la parola nello Staples Center, e parla subito di sua figlia Gianna, lasciando al marito la parte finale del suo ultimo ricordo. "Non posso immaginare la vita senza Gigi, non potrò vederla andare all'high school, non potrò mai dirle quant'è bella il giorno del suo matrimonio, e non potrò vedere i suoi figli. Ci mancate ogni giorno. Sapevo che Kobe era feroce sul campo di basket, ma per me era Koko e io la sua principessa e regina madre, insieme da quando avevo 17 anni e mezzo. Sono stata la sua migliore amica, la sua prima ragazza, sua moglie, il suo grande amore - ricorda -. Mi ha mandato un ultimo messaggio prima di morire: voleva che ci prendessimo un po' di tempo soltanto lui ed io, senza le bimbe, per stare assieme. Non ce l'abbiamo fatta. Il marito più eccezionale di tutti, io fuoco e lui ghiaccio e anche viceversa, ci completavamo totalmente. Ora non sarà più qui per dare il sostegno che era capace di dare alle suo figlie più piccole, ma io voglio che loro sappiano che uomo straordinario fosse. Dio sapeva che tu e Gianna non potevate vivere lontani l'uno dall'altra, e quindi vi ha preso insieme. Tu prenditi cura di lei, io lo farò con loro. Ti amiamo e ci mancherete per sempre. Ci rivedremo in paradiso, tutti assieme".

Parterre ricco di stelle. C'erano i campioni di un tempo, come Kareem Abdul-Jabbar, Shaquille O'Neal, Magic Johnson, Bill Russell. E quelli di oggi, come Lebron James, James Harden, Stephen Curry, Luka Doncic, Anthony Davis. Nel parterre anche l'allenatore Luke Walton, ex compagno di Bryant ai Lakers. Il ricordo di Michael Jordan: "Quando è morto Kobe, con lui è morta una parte di me e se anche voi tutti siete qui, è perché per voi è lo stesso. Riposa in pace fratellino mio". In prima fila i tifosi vip, come Spike Lee, Jack Nicholson. Non mancavano i giocatori delle squadre locali di hockey su ghiaccio e di Nba femminile. Ma gran parte del pubblico era composto dai suoi fan più affezionati che lo hanno invocato con i loro cori "Kobe", "Kobe". Come Bob Melendez, 72 anni, abbonato ai Lakers per 40 anni: "Dopo aver visto Kobe giocare per molti anni, non potevo perdermi questa cerimonia".

Vanessa fa causa a società elicottero. Nel giorno del tributo c'è anche la rabbia per un incidente che si poteva evitare. Gli avvocati di Vanessa hanno, infatti, annunciato di aver intentato una causa contro la società che ha utilizzato l'elicottero che si è schiantato nei pressi di Los Angeles. La denuncia presso la Corte Suprema della Contea di Los Angeles si rivolge contro la Island Express Helicopters e la Island Express Holding Corp., affermando che il pilota Ara Zobayan, anch'egli deceduto nell'incidente di Calabasas, ha agito con negligenza e che la morte di Bryant è stato un risultato diretto di questa condotta.

Paolo Mastrolilli per “la Stampa” il 4 marzo 2020. Scandalo nell' ufficio dello sceriffo del contea di Los Angeles, perché otto agenti hanno scattato fotografie non autorizzate della scena dell' incidente in cui sono morti Kobe Bryant, la figlia Gianna e altre sette persone, mostrandole poi ad estranei. Lo sceriffo Alex Villanueva ha detto che ha ordinato di cancellare le immagini e ha aperto un' inchiesta: «Questo comportamento - ha detto - è inaccettabile. I familiari stanno già soffrendo per la perdita dei loro cari, è inconcepibile che debbano sopportare anche un simile abuso. Si tratta di un tradimento, un pugno nello stomaco». È difficile però che la questione si chiuda senza provvedimenti disciplinari, per non parlare poi del rischio che queste foto finiscano su qualche sito o giornale scandalistico. Le immagini clandestine Il 26 gennaio scorso l' elicottero che trasportava Kobe, Gianna e altre sette persone era precipitato sulle colline di Calabasas, a nord di Los Angeles, presumibilmente a causa della nebbia. La moglie Vanessa ha avviato un procedimento legale contro la compagnia che gestiva il mezzo. Otto agenti dell' ufficio dello sceriffo erano andati sulla scena dell' incidente, e avevano scattato con i loro cellulari personali foto definite «molto grafiche», dove cioè si vedevano i resti delle vittime. Poi le hanno mostrate in giro, addirittura anche al bar, e naturalmente c' è il sospetto che possano averle vendute a qualche pubblicazione scandalistica. Vanessa si è detta «assolutamente devastata», quando la notizia si è diffusa, e l' ufficio dello sceriffo è stato accusato di aver cercato di nascondere l' episodio. Quindi Villanueva è stato costretto ad intervenire, obbligando gli agenti a cancellare le immagini e aprendo un' inchiesta. Le uniche autorità che potevano scattare foto della scena dell' incidente erano i magistrati e gli uomini del National Transportation Safety Board, impegnati nelle indagini sulle cause della tragedia. L' ufficio dello sceriffo ha una direttiva che vieta agli agenti di condividere le foto delle scene dei delitti criminali, ma non dice nulla riguardo gli incidenti, e questo potrebbe proteggere i responsabili dalle conseguenze legali. Perciò Villanueva ha chiesto l'approvazione immediata di una legge che proibisca di scattare e condividere foto anche in queste situazioni.

Morte Kobe Bryant, otto poliziotti nei guai: "Condivisero foto macabre". Rischiano un'inchiesta disciplinare gli agenti che hanno confessato di aver diffuso le immagini raccolte sul luogo dell'incidente. La Repubblica il 03 marzo 2020. Otto poliziotti della contea di Los Angeles sono indagati e rischiano un'inchiesta disciplinare per aver condiviso e diffuso foto macabre prese sulla scena dell'incidente d'elicottero in cui sono morti tra gli altri Kobe Bryant e una figlia di 13 anni. Lo sceriffo della contea della metropoli californiana, Alex Villanueva, si è detto "devastato e con il cuore infranto" per la violazione della privacy delle vittime e ha assicurato che gli agenti, dopo aver ammesso le loro responsabilità, su suo ordine hanno cancellato le immagini dai cellulari. La vicenda, denunciata per primo dal Los Angeles Times, sta causando ulteriori sofferenze alla vedova della leggenda dell'Nba, Vanessa, e a tutti i familiari delle vittime dell'incidente del 26 gennaio. Gli avvocati delle famiglie delle vittime hanno chiesto punizioni esemplari e l'indagine interna sugli otto agenti potrebbe portare a pesanti misure disciplinari, come ha anticipato lo stesso sceriffo Villanueva. Lo sceriffo ha spiegato che sul luogo del disastro aereo, nelle alture di Calabasas, c'erano solo due gruppi di persone autorizzati a scattare foto, lo staff dell'ufficio del medico legale e gli investigatori del National Transportation Safety Board. Alcuni suoi collaboratori, però, hanno scattato diverse foto inviandole poi ad altrettante persone interne ed esterne al dipartimento. Un tirocinante vicesceriffo avrebbe mostrato ad una donna le terribili immagini dei resti in un bar e un barista che ha notato la scena ha presentato una denuncia online al Dipartimento dello sceriffo.

Roberto De Ponti per il Corriere della Sera il 27 gennaio 2020. «Forse quando l' arbitro alzerà la prima palla a due della stagione avrò un momento di emozione, credo sia umano, ma poi tutto andrà come deve andare: i miei ex avversari in campo, io a fare altro nella vita». Quel momento sta per arrivare. La Nba sta per inaugurare la stagione 1 d.K., dopo Kobe. E anche se i tifosi fanno fatica a immaginare una Lega senza il Mamba, da domani dovranno farsene una ragione: Kobe Bean Bryant è oggi un 38enne che guarda avanti, pensa a film, a libri, ad academy, a insegnare pallacanestro ai giovani. A giocare, sì, ma con gli amici. Dopo 19 anni di trionfi e uno passato salutando giocatori e tifosi, compagni e avversari, KB è un ex. «Mamba out», le sue due ultime parole su un parquet Nba.

Kobe, partiamo dalla fine. Il momento preciso in cui ha deciso «basta, mi ritiro».

«Mi sono svegliato una mattina, dolori alle spalle, alla schiena, dappertutto. Mi sono chiesto: Kobe, ma tu hai ancora voglia di tutto questo? E la risposta è stata semplice: no. Presa la decisione, tutto mi è stato chiaro: non potevo più stare in campo a certi livelli».

«Non potevo» o «non volevo»?

«Forse non volevo, che poi è la stessa cosa».

Poi però sono arrivati 60 punti nella partita d' addio... Non ha mai avuto, nemmeno per un istante, la voglia di dire «scusate stavo scherzando, il prossimo anno giocherò ancora»?

«Mai. La decisione, una volta presa, è presa. Indietro non si torna».

Quanto ha provato coach Krzyzewski a convincerla a chiudere la carriera a Rio disputando le sue ultime Olimpiadi con la canottiera Usa?

«In realtà molto poco. Mi ha gentilmente chiesto se la sua proposta poteva interessarmi, ho risposto che avevo chiuso la carriera con la divisa dei Lakers addosso. Ha capito».

Rimarranno i record. Quanto hanno contato, contano o conteranno per lei?

«Adesso poco. Forse quando ero più giovane ci stavo più attento, invecchiando mi sono reso conto di quanto poco siano importanti. Conta di più quello che trasmetti, quello che fai in campo. Quello che vinci».

Raccontano i suoi ex compagni di squadra reggiani che lei a 11 anni era sicuro di diventare un giocatore da Nba.

«Non sicuro, sicurissimo».

Da dove nasceva questa sicurezza?

«Vedevo i giocatori Nba nei video e pensavo: loro ci sono riusciti. E allora perché loro e non io? Che cos' hanno più di me? Lavorano ogni giorno? Anch' io lavoro ogni giorno per migliorarmi. Anche se la Nba non era così globalizzata e arrivarci partendo da Reggio Emilia non era la cosa più facile del mondo».

Reggio Emilia, l' Italia. La sua seconda patria.

«Tutto è cominciato qui... In queste stradine, su un campetto in piastrelle, nella scuola di fianco. Andavo avanti e indietro in bici, con il pallone sottobraccio, e sentivo il profumo, i sapori di questa terra, la cultura, la storia. L' architettura. Non riesco a immaginare un posto più lontano dalla Nba. Eppure in Nba ci sono arrivato».

Quanto ha contato la sua esperienza italiana nel farla diventare «Kobe Bryant la stella»?

«È stata fondamentale».

Anche se lei era ancora un bambino?

«Le faccio un esempio. A 11 anni ero il più alto della squadra, ma gli allenatori ci dicevano: se volete imparare a giocare a basket, dovete imparare a fare tutto. Nessuno ha mai pensato di farmi giocare da lungo perché ero alto. In America? Se sei alto ti dicono giochi da lungo, se sei piccolo ti fanno fare il play. Se sono diventato un giocatore completo, è perché sono cresciuto in Italia».

La sua fonte di ispirazione?

«Magic Johnson, il migliore. Poi Michael Jordan ha spostato i limiti più in là, ma Magic era il mio eroe. Ho consumato videocassette continuando a schiacciare i tasti play, stop e review per capire ogni suo movimento, ogni suo segreto».

Era convinto che sarebbe diventato anche il giocatore più forte del mondo?

«Non l' ho mai detto a nessuno ma sì, dentro di me ne ero convinto. Ero molto determinato anche a 11 anni».

La sua arma in più, che lei ha chiamato «Mamba Mentality», è stata l' ossessione. Che significa ossessione per lei?

«Fare quello che ti piace di più. Farlo al massimo. Farlo cercando di essere il migliore di tutti, sempre. E seguire tutte le strade lecite per diventarlo. Quando fai la cosa che ami di più, l' ossessione è naturale; se devi provare a farlo, allora cercati qualcos'altro».

Quando si è reso conto di avere un talento unico per il basket?

«Al secondo anno di Nba. Fu come un' illuminazione».

Che cosa accadde?

«Durante una pausa dico a un mio compagno: ora facciamo così, io prendo palla qui, tu ti sposti lì, il difensore farà questo, tu farai quest' altro, io mi muovo così, pà-pà-pà, e facciamo canestro. Il mio compagno mi ha guardato con gli occhi sgranati e mi ha risposto: ehhh?!? Allora ho ricominciato a spiegargli con calma quello che sarebbe accaduto, stupito che lui non capisse; lui mi ha riguardato e ha chiuso dicendo: boh, fai un po' tu. Ho realizzato che vedevo il gioco molto più avanti degli altri».

E quell' azione poi si è sviluppata come l' aveva in mente lei?

«Naturalmente...».

Quanto dev' esserci in percentuale di talento e di lavoro in palestra in un giocatore?

«Dipende. Puoi avere poco talento ma lavorare molto in palestra: diventerai un buon giocatore, anche se non super. Puoi avere molto talento e poca propensione al lavoro, allora sarai un buon giocatore che non ha sfruttato tutti i suoi mezzi. E infine puoi avere talento e lavorare duro in palestra...».

...e a quel punto sei Kobe Bryant...

«Ma non solo».

L' eterno confronto con Michael Jordan l' ha infastidita?

«No. È sempre stato un idolo per me, mi ha insegnato moltissimo. Anche adesso ci sentiamo spesso. Posso dire che sono migliore di lui? No, non posso, sarebbe una mancanza di rispetto. Lui mi ha aiutato. Abbiamo avuto due carriere differenti, tutto qui».

Quanto è difficile essere Kobe?

«Non lo è. Basta essere come sono. Essere me stesso».

Non pesano gli obblighi extra basket cui è sottoposto? Gli impegni con gli sponsor, gli autografi, le interviste, l' impossibilità di camminare per strada senza essere avvicinato dai tifosi?

«Se mi pesassero non le farei. Faccio solo quello che mi sento di fare, alle cose che mi pesano dico no».

E quanto è difficile essere compagno di squadra di Kobe Bryant?

«Ah, difficilissimo. Da un mio compagno pretendo lo stesso impegno e la stessa ossessione che ci metto io».

Qual è il vero Kobe? Quello che fuori dal campo scherza, o quello che sul parquet ha uno sguardo che uccide?

«In campo libero tutte le tensioni che ho dentro. Litigo con mia sorella? Impassibile.

Ho problemi personali? Faccio finta di nulla. Poi appena scendo in campo libero tutta questa aggressività, frustrazione, chiamatela come volete, e divento Kobe Bryant il giocatore. Io uso le cose dark, "scure", per trovare forza, il tifo contrario, un avversario che difende sporco, le critiche ingiuste...».

È vero che verrà in Italia a insegnare pallacanestro?

«Questa è l' intenzione».

In molti speravano di vederla chiudere la sua carriera in Italia, nella sua Reggio Emilia, o magari a Milano.

«Sarebbe piaciuto anche a me, ci ho pensato spesso. Ma alla fine è andata così, il momento della decisione di smettere è arrivato mentre ancora vestivo la maglia dei Lakers. Ho deciso di chiudere».

Però una stagione in Europa, in Italia, non sarebbe impegnativa come una stagione Nba.

«Ma io non potrei mai accettare di essere Kobe Bryant al 60-70 per cento delle proprie possibilità. Se gioco è per dare il massimo, sempre. E io ho deciso che non voglio più».

Lei ha incontrato Francesco Totti, praticamente suo coetaneo, che a 40 anni sta giocando un' altra stagione nella Roma.

«Totti è un grandissimo. Credo che come me si sia posto quella domanda, hai ancora voglia di tutto questo, e si sia risposto di sì. Se quella è la risposta, allora fa benissimo a continuare».

E ora che cosa farà Kobe Bryant?

«Giocherò per le nuove generazioni. Proverò a insegnare il mio modo per raggiungere risultati, la mia mentalità, che tu sia un cestista, uno scrittore, un artista».

Quindi il Mamba non è ancora «out»...

«Oh no, sono più "in" che mai».

·         E' morto Robbie Rensenbrink: fu uno dei fuoriclasse della grande Olanda di Cruyff.

E' morto Robbie Rensenbrink: fu uno dei fuoriclasse della grande Olanda di Cruyff. Giocò e perse due finali mondiali, famoso un suo palo al 91' contro Argentina nel 1978. In Belgio, con l'Anderlecht, ottenne grandi successi internazionali. Aveva 72 anni, era malato di atrofia muscolare progressiva. Luigi Panella il 25 gennaio 2020. Il destino sportivo glorioso di Robbie Rensenbrink, morto all'età di 72 anni, avrebbe potuto virare verso un posto stabile nella leggenda il 25 giugno 1978, al 91' della finale mondiale di Buenos Aires contro l'Argentina. Era uno dei leader, sia pure silenzioso, dopo il no di Cruyff alla Nazionale olandese, una sua conclusione ravvicinata eluse l'intervento dei portiere Fillol, ma si stampò beffardamente sul palo. Gli argentini quella partita la vinsero ai supplementari, e la grande Olanda, che 4 anni prima aveva perso un'altra finalissima (contro la Germania Occidentale) si consegnò alla storia del calcio come la più bella delle incompiute insieme all'Ungheria del 1954.  Restò parzialmente incompiuto anche Rensenbrink, che all'epilogo del 1974 (quando Cruyff c'era e dominava la scena) a Monaco di Baviera era arrivato malconcio dopo la durissima gara precedente con il Brasile e dovette alzare bandiera bianca alla fine del primo tempo. Se ne è andato per una atrofia muscolare progressiva che non gli ha lasciato scampo. Quarantasei volte nazionale olandese, per vincere molto emigrò in Belgio e non giocò mai per una delle grandi del suo paese. Il Bruges infatti lo prelevò dal DWS Amsterdam -che lo aveva a sua volta ingaggiato precedendo l'Ajax-, soffiandolo al Feyenoord. Ma fu nell'Anderlecht, dove approdò nel 1971, che vinse molto. Velocissimo, rapido nel dribbling e goleador affidabile, si guadagnò il soprannome di uomo serpente.  Con la squadra di Bruxelles vinse il campionato nel 1972 e nel 1974,  quattro coppe del Belgio (1972, 1973, 1975 e 1976) ma soprattutto portò i biancomalva, prima compagine belga nella storia, a vincere a livello internazionale. Due volte la Coppa delle Coppe: nel 1976 in finale contro gli inglesi del West Ham per 4-2 (gara nella quale realizzò una doppietta) e nel 1978 con il nettissimo 4-0 all'Austria Vienna (a segno altre due volte). Nel palmares, anche due Supercoppe Europee, vinte nella doppia finale contro Bayern Monaco (in gol nel 4-1 di Bruxelles dopo la sconfitta 2-1 in Germania) e Liverpool (3-1 in casa, e ko 2-1 in Inghilterra). Una grande carriera che poteva essere perfetta se di mezzo, in quella notte argentina del 1978, non ci si fosse messo un palo.

·        Morto Narciso Parigi.

Morto Narciso Parigi, l’addio di Pieraccioni: “Ciao grande artista”. Debora Faravelli il 25/01/2020 su Notizie.it.  Leonardo Pieraccioni ha voluto dare un ultimo addio a Narciso Parigi, cantante e attore italiano morto il 25 gennaio 2020. Il regista ha in particolare ricordato la comparsa da lui fatta in un suo film rievocando la sua richiesta di recitarvi. Pieraccioni ha fatto sentire la sua vicinanza alla voce della Fiorentina scomparsa all’età di 92 anni tramite un post condiviso sul suo profilo Instagram. Ha infatti rimembrato quando al suo primo film l’aveva scelto per fare una piccola parte e Parigi, senza nemmeno pensarci né chiedere di cosa si trattasse, aveva chiesto il luogo in cui avrebbe dovuto presentarsi. Si tratta del film I laureati del 1995, l’esordio di lui come regista. Racconta la storia di quattro trentenni studenti fuori corso impersonati da Pieraccioni stesso, Massimo Ceccherini, Gianmarco Tognazzi e Rocco Papaleo. Il cantante era stato chiamato a interpretare il ruolo di Berto Sperandei. Il regista ha poi descritto Narciso con tre parole ma emblematiche: solare, simpatico e sempre allegro. L’ha infine salutato definendolo un grande artista. L’uomo è infatti noto per essere una star della radio e per aver cantato “Oh Fiorentina“, ma anche per aver recitato in diversi film a partire dagli anni Cinquanta. Tra i più celebri Terra straniera, Acque amare, Baracca e burattini e La porta dei sogni. A testimoniare la grandezza della sua figura vi è anche il fatto che nel 2015 Lorenzo Andreaggi ha realizzato un documentario su di lui per il mercato americano intitolato Narciso Parigi – A Song Lasting a Life.

·        Addio a Stefano Scipioni, voce di Radio Radio.

Addio a Stefano Scipioni, voce di Radio Radio. Ha combattuto contro una grave malattia senza mai abbandonare il suo lavoro al seguito della Roma e della Lazio. La Repubblica il 24 gennaio 2020. Lutto nel mondo del giornalismo romano, si è spento, dopo una lunga malattia, Stefano Scipioni. Voce e volto per anni dell’emittenza capitolina, Stefano, sessant’anni, ha combattuto contro una grave malattia senza mai abbandonare il suo lavoro al seguito della Roma e della Lazio. Ironico e professionale, interveniva sulle frequenze di Radio Radio e in tv con al “Processo dei tifosi” su Teleroma 56. I funerali sabato 25 gennaio a Cocciano vicino Frascati, nella chiesa di San Giuseppe lavoratore, alle 15.

·        È morto Terry Jones, fondatore e regista dei Monty Python.

È morto Terry Jones, fondatore e regista dei Monty Python. Pubblicato mercoledì, 22 gennaio 2020 su Corriere.it da Francesco Tortora. E' morto martedì sera all'età di 77 anni Terry Jones, fondatore dei Monty Python e regista di tre film del celebre gruppo comico britannico. Il poliedrico artista gallese (è stato attore,regista, sceneggiatore, scrittore e presentatore televisivo), era gravemente malato e dal 2016 gli era stata diagnosticata una grave forma di demenza degenerativa. A dare l'annuncio del decesso è stata la famiglia di Jones con un comunicato: "Terry è morto la sera del 21 gennaio all'età di 77 anni - si legge nella nota - con al fianco la moglie Anna Soderstrom dopo una lunga e coraggiosa battaglia condotta sempre con il buon umore. Negli ultimi giorni la moglie, i figli, la famiglia allargata e molti amici intimi sono stati costantemente con Terry nella casa sua nella zona nord di Londra. Abbiamo perso tutti un uomo gentile, divertente, caloroso, creativo e veramente amorevole, che con il suo lavoro ha stimolato e divertito milioni di persone in sei decenni di attività". Nato a Colwyn Bay, in Galles, nel 1942, Jones studiò letteratura inglese a Oxford e qui incontrò il collega Michael Palin con il quale avrebbe prima lavorato a una serie di show televisivi e poi nel 1969 avrebbe formato il gruppo comico dei Monty Python (insieme a John Cleese, Graham Chapman, Eric Idle e a Terry Gilliam) il cui umorismo anarchico contribuì a rivoluzionare la commedia britannica. Jones ottenne grande successo anche da regista. Tra i suoi film più famosi "Monty Python e il Sacro Graal", "Brian di Nazareth" e "Monty Python – Il senso della vita", quest'ultimo vincitore del Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes. Nel 2015 ha diretto la sua ultima pellicola "Un’occasione da Dio" con Simon Pegg e Kate Beckinsale. 

·        Morto Gianluigi Patrini, ex calciatore.

Morto Gianluigi Patrini, ex calciatore: ha avuto un incidente stradale. Debora Faravelli il 23/01/2020 su Notizie.it. L'ex difensore del Crema Gianluigi Patrini è morto in un incidente stradale: è finito fuori strada ed è finito contro un cancello. Si è schiantato con la sua auto contro il cancello di una villetta: così è morto Gianluigi Patrini, ex calciatore del Crema. L’incidente stradale è avvenuto intorno alle 14 di mercoledì 22 gennaio 2020 in via Santuario a Castelleone, in provincia di Cremona. Stando ad una prima ricostruzione dell’accaduto, ancora al vaglio delle forze dell’ordine, il 66enne stava viaggiando a bordo della sua Lancia Y quando, per cause ancora ignote, ne avrebbe perso il controllo ed è andato a finire fuori strada. Qui si è schiantato contro la recinzione di una villetta, incastrandosi tra il muro di cinta e un albero. Immediato l’allarme al 118, i cui sanitari giunti sul posto non hanno però potuto fare nulla se non constatare il decesso dell’uomo, causato dal forte impatto a cui è avvenuto lo schianto. Presenti anche i Vigili del Fuoco e gli agenti della Polizia stradale per effettuare i rilievi necessari e gestire il traffico. Poche ore dopo la morte di Gianluigi la sua ex squadra di Calcio ha espresso il suo cordoglio. Un post pubblicato su Facebook ne ha ripercorso tutta la sua carriera: dopo aver militato in tutte le squadre giovanili del Crema, era approdato giovanissimo alla prima squadra che concluse il campionato di Serie D. Subito dopo aveva giocato un’altra stagione con il Crema, poi ancora nella D e poi nel Pavia, fino all’infortunio fatale al ginocchio prima della firma con il Monza che militava in B. Un valido giocatore che l’AC Crema 1908 ha voluto ricordare con affetto, stima e rispetto per il valore umano e sportivo. 

·        È morto Jimmy Heath, in arte Little Bird.

È morto Jimmy Heath, in arte Little Bird: sassofonista e compositore leggenda del jazz americano. Pubblicato martedì, 21 gennaio 2020 da Corriere.it. È morto Jimmy Heath, una delle leggende del jazz americano. Aveva 93 anni ed è morto per cause naturali. Heath, soprannominato Little Bird per l’influenza che Charlie «Bird» Parker ebbe su di lui, è stato per 70 anni un apprezzato sassofonista e oltre che un compositore. Ha lavorato con nomi come Miles Davis, John Coltrane e Dizzy Gillespie oltre che con i suoi stessi fratelli: il bassista Percy Heath e il batterista Albert Heath. Tra i suoi riferimenti musicali, ci sono stati Louis Armstrong, Fats Waller e Marian Anderson oltre alla musica che il padre, Percy, un meccanico di auto che suonava anche il clarinetto, ascoltava e la madre Arlethia, che cantava in un coro di una chiesa. A 13 anni ebbe in dono il suo primo sassofono e da allora non se ne separò più. Negli anni ‘50 ebbe anche problemi con la droga e fu condannato a quattro anni e mezzo di prigione per spaccio. Durante la detenzione si liberò dalla dipendenza imparando a suonare il flauto e concentrandosi sulla composizione e l’arrangiamento. Il suo primo album risale al 1959 ed è intitolato «The Thumper».

·        Addio ad Emanuele Severino, gigante della filosofia italiana.

(ANSA 21 gennaio 2020) - E' morto il filosofo Emanuele Severino. E' scomparso a Brescia lo scorso 17 gennaio ma si è saputo soltanto oggi, per sua volontà. Il filosofo, che avrebbe compiuto 91 anni il 26 febbraio, è stato già cremato. Severino, era considerato uno dei più grandi filosofi, scrittori e intellettuali viventi.

BIOGRAFIA DI EMANUELE SEVERINO. Da cinquantamila.it di Giorgio Dell’Arti.

Brescia 26 febbraio 1929. Filosofo. Accademico dei Lincei. Professore emerito di Filosofia teoretica all’Università di Venezia. Allievo di Bontadini, nel 1962 diventò docente all’Università Cattolica, due anni dopo uscì il suo Ritornare a Parmenide, che provocò il suo allontanamento (la Sacra congregazione per la dottrina della fede sentenziò l’incompatibilità del suo libro con la dottrina cristiana: lui raccontò il lungo processo ne Il mio scontro con la Chiesa). Insegnò poi al San Raffaele di Milano. Tra gli altri libri: Essenza del nichilismo (Paideia 1972), Destino della necessità (Adelphi 1980), Il declino del capitalismo (Rizzoli 1993), Pensieri sul cristianesimo (Rizzoli 1995). Tra gli ultimi: Oltrepassare (Adelphi 2007), Immortalità e destino (Rizzoli 2008), l’autobiografia Il mio ricordo degli eterni (Rizzoli 2011), Intorno al senso del nulla (Adelphi 2013) e La potenza dell’errare (Rizzoli 2013).

Collabora con il Corriere della Sera.

«Chirurgo di quel magma terribile che è il Nichilismo (e cioè la consapevolezza che la verità dell’essere sia il nulla)» (Pietrangelo Buttafuoco).

L’esigenza di interrogarsi sul significato della vita nacque «dalla consuetudine che avevo con mio fratello, più grande di me di otto anni. Io, come lui, ho fatto le scuole, dalle elementari fino al liceo, dai gesuiti di Brescia, di cui ho un ottimo ricordo. Verso i miei 11 anni, poniamo che fossi in prima ginnasio, lui era già alla Normale di Pisa dove sentiva le lezioni di Giovanni Gentile (che considero uno dei massimi pensatori contemporanei, forse il più radicale) e ne parlava in casa. Sull’onda di quello che raccontava, nacque il bisogno di vederci un po’ più chiaro. Si fece avanti allora, forse, la domanda, ancora incerta e acerba: “Che senso ha la vita?”. La mia famiglia era cattolica e la risposta precedeva la domanda perché l’educazione cattolica indicava appunto qual è, a suo avviso, il senso della vita. C’è stato bisogno di tempo per anteporre la domanda» (da un’intervista di Luigi Vaccari).

«Credo di essere stato un bambino allegro fino alla tragica scomparsa di mio fratello. Fu lui ad aprirmi alla filosofia. Lui – normalista a Pisa durante la guerra – a parlarmi con entusiasmo di Gentile. La sua morte mi gettò nella costernazione. La stessa cosa, ma forse più dolorosa, l´ho rivissuta con la morte di mia moglie (avvenuta nel 2009 – ndr). Con lei siamo stati insieme per più di sessant’anni. Ho il rimorso di non averle forse dato tutto quello che avrei potuto» [ad Antonio Gnoli, Rep 15/8/2011].

«Mi dico neoparmenideo, per semplificare. In verità, sono l’opposto di Parmenide. In Parmenide, l’Essere è la pura luce, senza considerare i colori. Lui afferma l’eternità della pura luce, mentre il molteplice, il mondo, sono illusione. Io dico che sono eterni, proprio il mondo e la molteplicità. Quello che unisce me e Parmenide, è l’eternità. Tutto è eterno. Non esiste un passato che sia nulla e attenda di entrare nell’Essere. Questo pieno totale si affaccia progressivamente nella storia. La storia e il tempo sono il progressivo affacciarsi degli Eterni» (da un’intervista di Giancarlo Perna).

«Da più di trent’anni i miei scritti sviluppano la tesi che anche il capitalismo è destinato al tramonto, come lo era il socialismo reale e come lo sono tutte le altre grandi forze della tradizione occidentale (e orientale).

Sposato con Estervioletta Mascialino, due figli.

Eccellente intenditore di vini e amante del cervo con la polenta. Un suo grande sogno sarebbe fare un incontro di scherma da campioni, «come era mio padre».

Addio ad Emanuele Severino, gigante della filosofia italiana. Il Dubbio il 22 gennaio 2020. È morto venerdì 17 gennaio ma la notizia della scomparsa è stata diffusa soltanto a funerali avvenuti. Addio a Emanuele Severino, uno dei maggiori filosofi italiani del secondo Novecento, famoso soprattutto per i suoi studi sull’ontologia, influente pensatore del nichilismo contemporaneo. Aveva 90 anni. È morto venerdì 17 gennaio ma la notizia della scomparsa è stata diffusa soltanto oggi a funerali avvenuti. Era nato a Brescia il 26 febbraio1929, città dove ha sempre vissuto, fino all’ultimo. Laureato all’Università di Pavia nel 1950 discutendo una tesi su Heidegger e la metafisica sotto la supervisione di Gustavo Bontadini, Severino l’anno successivo ottenne la libera docenza in filosofia teoretica. Dal 1954 al 1969 ha insegnato filosofia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. I libri pubblicati in quegli anni entrarono in forte conflitto con la dottrina ufficiale della Chiesa cattolica, suscitando vivaci discussioni all’interno dell’Ateneo fondato da padre Agostino Gemelli e nella Congregazione per la dottrina della fede (l’ex Sant’Uffizio). In particolare suscitò scalpore il saggio «Ritornare a Parmenide», fulcro del suo pensiero che lo ha portato a teorizzare che l’intera storia dell’Occidente è storia del nichilismo. Dopo un lungo e accurato esame (condotto da Cornelio Fabro) la Chiesa proclamò ufficialmente nel 1969 l’insanabile opposizione tra il pensiero di Severino e il cristianesimo e il filosofi fu costretto a lasciare l’Università Cattolica. Il filosofo, lasciata l’Università Cattolica, venne chiamato all’Università Cà Foscari di Venezia dove fu tra i fondatori della Facoltà di Lettere e Filosofia, nella quale hanno insegnato alcuni dei suoi allievi (Umberto Galimberti, Carmelo Vigna, Luigi Ruggiu, Salvatore Natoli, Italo Valent). Dal 1970 è stato professore ordinario di filosofia teoretica, ha diretto l’Istituto di filosofia (diventato poi Dipartimento di Filosofia e Teoria delle scienze e, oggi, Dipartimento di Filosofia e Beni Culturali) fino al 1989 e ha insegnato anche logica, storia della filosofia moderna e contemporanea e sociologia. Nel 2005 l’Università Cà Foscari di Venezia lo ha proclamato professore emerito. Dopo la pensione ha insegnato ontologia fondamentale presso la Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Era Accademico dei Lincei e Cavaliere di Gran Croce e collaborava da alcuni decenni con il Corriere della Sera. Tra le sue numerose opere figurano: Note sul problematicismo italiano(1950); La struttura originaria (1957), Studi di filosofia della prassi (1962), Essenza del nichilismo (1972); Gli abitatori del tempo(1978); Legge e caso (1979); Le radici della violenza (1979); Destino della necessità (1980); A Cesare e a Dio (1983); La strada (1983); Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica (1990); Tautotes (1995); La gloria (2001); Storia, una gioia (2016); Il nichilismo e laterra (Mimesis, 2018). Ha pubblicato, inoltre, una storia divulgativa della filosofia (Filosofia antica, moderna, contemporanea, futura), e un manuale scolastico (Filosofia, 3 volumi).

È morto l’ultimo dei filosofi italiani: addio a Emanuele Severino. Aldo Di Lello martedì 21 gennaio 2020 su Il Secolo d'Italia. Emanuele Severino è morto. Era nato a Brescia 90 anni fa. Severino era l’ultimo dei filosofi italiani. Non perché fosse l’ultimo a fregiarsi di tale titolo. Ma nel senso che Severino aveva ancora la voglia di filosofare. Di indagare intorno al mistero dell’essere. Di pensare il destino dell’uomo con il solo strumento della ragione. Di fare insomma filosofia. Né filosofia del linguaggio. Né filosofia della scienza.  Né filosofia della vita quotidiana. Né storia della filosofia. Severino non si accontentava di elaborare eleganti calembour nella riserva indiana cui era ridotta la filosofia. Stretta dall’astrofisica e dalla fisica teorica, da una parte. E dall’analfabetismo digitale, dall’altro. «La grande follia dell’Occidente è pensare che le cose escano dal nulla e rientrino nel nulla». È una frase ricorrente negli scritti e nei discorsi di Severino. Con questa frase il grande maestro bresciano del pensiero intendeva definire l’assurdità ontologica del nichilismo (L’essenza del nichilismo, 1972). Severino rilanciò la filosofia dell’essere, la filosofia di Parmenide. È pensabile solo l’essere non il nulla. I suoi riferimenti moderni erano Nietzche e Heidegger. Come il filosofo di Messkirch condivideva la preoccupazione per l’egemonia dell’apparato tecnico-scientifico. Ma Severino invitava a vedere tale circostanza con serenità. A prendere la cosa con filosofia. Appunto. In libri come Téchne e La tendenza fondamentale del nostro tempo ha scritto pagine di grande profondità Qualcuno, un po’ per celia, lo definiva l'”Heidegger di  Brescia”. Lui ci rideva su. E iscriveva nel club dei filosofi anche Giacomo Leopardi. Severino non era quindi un gentiliano.  Però di Gentile e del pensiero neoidealista italiano aveva il massimo rispetto. Accettò di buon grado di rilasciarmi un’intervista sul filosofo dell’attualismo per un volume di interviste che curai proprio nel tempo della riscoperta  gentiliana. Il Secolo d’Italia, anche in anni molto diversi da quelli attuali (quando la conventio ad excludendum della destra era ancora forte) lo intervistava spesso. E lui accettava sempre con cortesia e disponibilità. Severino era un pensatore realmente libero dalle gabbie dell’appartenenza politica. Stava realmente su un altro pianeta. Molto distante da quello dei filosofi “interventisti” del nostro tempo. Dei dispensatori, a buon mercato, di pillole di saggezza politicamente corretta. Non amava nemmeno andare in televisione. Di Severino ci resta una produzione di libri, articoli, saggi  pressoché sterminata. E un grande patrimonio di saggezza. Era l’ultimo dei filosofi italiani. Tutto il resto è onesta (più o meno) tecnica del linguaggio.

Morto Emanuele Severino. Pubblicato martedì, 21 gennaio 2020 su Corriere.it da Mauro Bonazzi. Era nato a Brescia nel 1929, stava per compiere 91 anni. È scomparso il 17 gennaio, l’annuncio a funerali avvenuti. Citando un verso di Archiloco, Isaiah Berlin ha una volta provato a distinguere i pensatori in volpi e ricci, tra chi «sa molte cose», inseguendo la realtà in tutte le sue diramazioni, e chi invece «sa una sola cosa, ma grande». Emanuele Severino — scomparso il 17 gennaio a quasi 91 anni — appartiene a pieno titolo al secondo gruppo, in compagnia di un altro riccio per eccellenza, Parmenide, al quale aveva dedicato il saggio Ritornare a Parmenide («Rivista di filosofia neoscolastica», 1964). Nei tanti libri pubblicati e nelle tante conferenze tenute (Severino era tra le altre cose un ottimo oratore), la sua riflessione si è sviluppata intorno a un unico problema, quello del divenire e della morte. Con un solo, grandioso, obiettivo: negarne l’esistenza. Il problema degli uomini è la credenza del nulla, l’illusione che tutto ciò che esiste, prima non ci fosse e poi non ci sarà. Dal non essere all’essere e ancora al non essere: è il ciclo della vita che diviene. Questa certezza nell’esistenza del divenire è una forma estrema di «nichilismo» tragico: è nichilismo perché il divenire presuppone il non essere e dunque il nulla (L’essenza del nichilismo, Paideia, 1972); ed è tragico perché di fatto riduce la vita ad una corsa verso la morte (il non essere). La storia del pensiero occidentale in tutte le sue declinazioni, religiose, scientifiche, filosofiche, è un tentativo di eludere la paura di questo nulla. Per Severino non c’è spazio per tutta questa «follia», per una ragione semplicissima. Il divenire non esiste. L’essere è e non può non essere, il non essere non è e non può essere, affermava Parmenide. Dire che l’essere è non essere, o che l’ente è niente, ammettere il divenire insomma, è contraddittorio. L’unica conclusione coerente è, allora, che ogni ente — tutte le cose, ciascuno di noi — è in quanto è ente: e se è, è eterno, non viene all’essere (non nasce) e non finirà nel nulla (non muore). La morte non esiste, è solo un abbaglio di chi non ha capito che cosa vuol dire «essere». Si pensa alla vita come a un film, in cui fotogrammi scorrono verso una conclusione, senza rendersi conto che tutti i singoli fotogrammi sono sempre lì e niente passa o si perde. Illusi dai loro errori gli uomini si angosciano per la morte e non si accorgono che sono già da sempre salvi, «nella Gloria e nella Gioia» (La gloria, Adelphi 2001; Storia, gioia, Adelphi 2016). Nel 1970 la Congregazione per la dottrina della fede dichiarò che la filosofia di Severino era incompatibile con la rivelazione cattolica, costringendolo a lasciare l’Università Cattolica di Milano e trasferirsi a Venezia. C’era del vero nella condanna: il pensiero di Severino è un pensiero del qui e ora, che non demanda a un improbabile aldilà il momento della salvezza. Rinnova il confronto secolare tra religione e filosofia, prendendo le parti della seconda. La filosofia, quando è veramente filosofia, è il tentativo di spiegare — su basi razionali, senza bisogno di rivelazioni o illuminazioni — cosa sia la realtà e quale sia il suo senso. La filosofia è conoscenza e la conoscenza salva, perché ci aiuta a capire come stanno le cose: che non vi è nulla oltre agli enti (le cose, noi), che la morte non esiste, che il paradiso (la Gloria) è qui e ora. Severino è davvero l’ultimo dei Greci. Anche per questo un altro controverso filosofo del Novecento, Martin Heidegger, s’interessò al suo pensiero (o meglio alle critiche che Severino gli aveva rivolto nella sua tesi di laurea), riconoscendone l’importanza. È una notizia recente, che però non sorprende, vista la convinzione di entrambi che l’Occidente avesse preso una strada «folle» nel momento in cui aveva deciso di sostituire a Dio la tecnica, credendo di poter risolvere in questo modo i problemi del nostro tempo (Il destino della tecnica, Rizzoli, 1998). Del resto, al netto delle pur fondamentali differenze (per Severino neppure Heidegger è stato capace di uscire dal nichilismo: anche lui, insistendo sulla dimensione temporale dell’essere, è rimasto intrappolato nel secche del divenire), il suo pensiero va incontro a difficoltà analoghe a quelle di Heidegger. Nel mondo di Severino non c’è spazio per la politica, intesa come cambiamento dell’esistente (Il tramonto della politica, Rizzoli, 2017). Quello che serve è uno sguardo capace di contemplare l’eternità. Tutto è, eternamente — un bacio, il terremoto di Lisbona, la pioggia che cade. Sono tesi radicali, oggetto di grandi discussioni, ma coerenti con l’impianto di fondo del suo sistema, e un grande pensatore non rinuncia mai alla coerenza. Del resto non è proprio il compito della filosofia mostrarci che le cose stanno diversamente da come siamo abituati? «Non si tratta di rassicurare il mortale, ma di mostrare la verità del destino». E la verità, osservava Leopardi (di cui Severino ha vigorosamente difeso la profondità filosofica nel libro In viaggio con Leopardi, Rizzoli 2015), non è necessariamente buona o bella, ma non per questo va respinta. Di sicuro lui l’ha cercata per tutta la vita.

E' morto Emanuele Severino, l'ultimo filosofo parmenideo. Scompare a quasi 91 anni uno dei più grandi pensatori italiani, artefice di un sistema centrato su un Essere unico e immutabile come la verità. Nel 1969 fu condannato dalla Chiesa. Claudio Morgoglione il 21 gennaio 2020 su La Repubblica. Addio a un grande filosofo italiano. Emanuele Severino ci ha lasciati il 17 gennaio scorso, anche se solo adesso è trapelata la notizia della sua scomparsa: a funerali avvenuti, e in forma strettamente privata, come da sue volontà. Avrebbe compiuto 91 anni il prossimo 26 febbraio. Un intellettuale portatore di una visione originalissima, capace di conciliare la tensione speculativa ed etica alle radici del pensiero occidentale, greco in particolare, con le ansie e le inquietudini dei nostri tempi travagliati. Una sfida titanica compiuta da un uomo dalla personalità forte, carismatica, deciso a spendere l'intera esistenza alla ricerca di una "ben rotonda verità" - per citare un'espressione celebre di Parmenide, suo maestro riconosciuto e sua maggiore fonte di ispirazione. Nato a Brescia nel 1929, il giovane Emanuele si laurea all'università di Pavia e poi intraprende una lunga carriera accademica, che lo porta prima alla Cattolica di Milano, e poi, per decenni, alla Ca' Foscari di Venezia. Qui è uno dei fondatori della facoltà di Lettere e filosofia; diventa ordinario di filosofia teoretica; si ritrova a insegnare anche logica, storia della filosofia moderna e contemporanea, sociologia; viene proclamato professore emerito. Prima di trascorrere l'ultimo periodo presso l'università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Accademico dei Lincei, storico collaboratore del Corriere della Sera, ha pubblicato numerosi saggi: uno dei più noti è e resta Ritornare a Parmenide, uscito nel 1965 su una rivista, che fece scalpore e generò grande dibattito nel mondo filosofico. Quelli in volume sono stati pubblicati per la maggior parte da Rizzoli e soprattutto dalla casa editrice più affine al suo spirito speculativo, la Adelphi di Roberto Calasso. Fra i tanti ricordiamo La struttura originaria (1957),  Essenza del nichilismo (1972), Legge e caso (1979), Le radici della violenza (1979); Destino della necessità (1980). L'ultimo uscito è Testimoniando il destino (2019), in cui tutti i punti della visione "parmenidea" di Severino vengono recapitolati: "Non basta possedere un campo: bisogna coltivarlo - è scritto - E anche questo libro intende indicare l'autentica pianura della verità". E già queste ultime parole danno un'idea della portata filosofica - anzi, ontologica - del pensiero di Emanuele Severino. Un'elaborazione che parte, come quasi tutta la filosofia novecentesca, da Martin Heidegger e dalla sua scommessa sull'Essere con la "e" maiuscola: verità autentica contrapposta all'inautenticità di tanti aspetti della nostra vita. Una sfida che il filosofo italiano raccoglie con una radicalità davvero unica. E che lo porta a trovare risposte molto indietro nel tempo, in epoca presocratica. Ed ecco allora il suo abbracciare il sistema di Parmenide di Elea, nato intorno alle 510-515 avanti Cristo, che afferma l'esistenza di un Essere unico, ingenerato, eterno, immutabile, immobile, omogeneo. Perché ciò che è non può che - appunto - Essere. Secondo Severino l'unica ricetta possibile, in un mondo di cui prima Nietzsche e poi Heidegger hanno svelato gli inganni e le illusioni legate al progresso tecnico, è dunque l'abbandonarsi a quest'Essere di tipo parmenideo. Cercare la verità a qualsiasi costo, con un'ansia conoscitiva che è l'esatto opposto del concetto di "utile" che permea il mondo contemporaneo, e che è lontanissima da qualsiasi forma di accettazione passiva. Un atteggiamento che lui chiama Gioia. Il tutto, spiega sempre Severino, senza indulgere nell'errore di quasi tutti i filosofi venuti dopo il maestro di Elea, concentrati invece sul divenire. Cioè su qualcosa che, al contrario dell'Essere, non è. E che poi la religione, così come il già citato progresso tecnico, hanno tentato in qualche modo di esorcizzare, di addomesticare. Proprio per queste sue critiche alla fede e al cattolicesimo, il Santo Uffizio proclamò tra il 1969 e il 1070 la totale contrapposizione tra la filosofia di Severino e il Cristianesimo, costringendolo ad allontanarsi dall'università Cattolica: "La procedura adottata nei miei riguardi era la medesima che aveva riservato a Galilei nel 1633", raccontò poi lui, che alla vicenda dedicò il libro Il mio scontro con la Chiesa (Rizzoli, 2001). Una dimostrazione indiretta di quanto il suo modo di pensare sia stato eretico, scandaloso, o, come direbbe Nietzsche, meravigliosamente inattuale. Etico, nel senso migliore del termine, lontano da qualsiasi moda. Filosofica e non. Come gli hanno sempre riconosciuto i suoi amici a colleghi, a partire da Massimo Cacciari che gli è stato vicino fino all'ultimo. E che ricorda ora, con dolore, il maestro, la sua irriducibile "fame di verità". Un desiderio che trasuda anche dalle ultimissime righe del suo ultimissimo libro, scritte col consueto linguaggio affascinante e un po' oscuro: "Nell'apparire infinito del destino è oltrepassata la totalità delle contraddizioni... Culmine della volontà del destino, l'apparire infinito ottiene eternamente tutto ciò che da esso è voluto".

L'ULTIMA BELLISSIMA INTERVISTA DI EMANUELE SEVERINO (AL “FOGLIO”).

Davide D’Alessandro per ilfoglio.it (7 aprile 2019)

Professore, il 26 febbraio scorso ha compiuto novant'anni. È stato un modo per guardare più indietro o avanti?

«Niente di particolare. Quasi ogni giorno il mio lavoro è guardare anche queste cose: guardare il tempo».

Quando scriveva di “eterno” e di “essere”, sua moglie Esterina le diceva: “Come vorrei che tutte le cose che pensi fossero vere”. Sono vere?

«Sono vere. Ma a dirlo così le si immiserisce. E il dire è patetico. Bisognerebbe innanzitutto chiarire che cosa significa “vero”. Ed è il chiarimento più complesso».

Testimoniando il destino, il suo ultimo libro, è soprattutto la testimonianza di un lungo percorso di studio, della forza di un pensiero improntato a smascherare la follia. A che punto è la follia dell’Occidente?

«La Follia sta andando verso il suo punto più alto. Per arrivarvi ha ancora molto cammino da fare, ma è in cammino. D’altra parte il suo mostrarsi, nonostante tutto, è prezioso. Senza di essa, infatti, lo stare al di sopra di essa è impossibile. La Follia non è una povera cosa: è piena di intelligenza, di bellezza, di luce, e di potenza. Ed è qualcosa di essenzialmente più radicale del peccato di Adamo. Ma anche questa mia risposta è, inevitabilmente, un balbettare. Quanto allo smascheramento della Follia, di cui lei parla, esso è qualcosa che ha incominciato a parlare, nei miei scritti, quasi sin dall'inizio. Potrei dire sin dalla metà degli anni cinquanta. Qui, certo, i miei novant'anni, mi fanno guardare soprattutto all'indietro, suscitando sentimenti contrastanti».

Che cos'è la filosofia? Sono più i problemi che risolve o quelli che solleva?

«Da che vive, l’uomo lotta contro la morte. Il primo grande Rimedio contro di essa è il mito, ossia il Racconto che garantisce la vittoria sulla morte. Ma a un certo punto l’uomo si accorge della debolezza di quella garanzia. Il mito è la semplice volontà che le cose stiano come esso vuole che stiano. La parola “filosofia” significa invece l’aver a cuore (phileín) ciò che sta in luce (saphés) e che quindi è affermato non perché è voluto, ma perché si impone da sé. La grandezza della filosofia sta cioè nell'aver evocato l’idea di un sapere assolutamente innegabile, che né uomini o dèi possano smentire, né cambiamenti di luoghi e di epoche, e nemmeno un Dio onnipotente. Poi la filosofia ha inteso stabilire, lungo un processo durato più di due millenni, in che consista il contenuto di questo sapere, ed è questo processo ad aver condotto, e inevitabilmente, alla destinazione della tecnica al dominio assoluto del mondo, ossia al culmine della Follia a cui abbiamo prima accennato. Ciò significa che sin dall'inizio la filosofia è rimasta accecata e che la destinazione della tecnica al dominio è il risultato di questo accecamento. La storia dell’Occidente e ormai del Pianeta (che è storia dei pensieri e delle opere) cresce all'interno dell’accecamento della filosofia. Ma, ripetiamo, senza questo accecamento sarebbe impossibile la limpida vista che guarda stando al di sopra di ogni cecità. (Non solo, ma al nostro tempo si addice anche che il lettore di questa intervista  - il lettore che di queste cose ha sentito poco - faccia presto a voltar pagina). L’accecamento della filosofia - che pure è pieno di intelligenza, di bellezza, di luce, e di potenza - non sta nelle nuvole ma è ormai la terra in cui ormai l’umanità intera affonda le proprie radici».

Cesare Pavese ha scritto che “un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via”. Lei, pur avendo insegnato a Milano e a Venezia, non ha mai lasciato Brescia. Abita ancora nella casa dove arrivò, se non erro, che aveva soltanto quattro mesi. Che cosa vuol dire?

«Forse vuol dire che, proprio perché in questa casa son quasi nato, ed è cresciuta con me, mi è sembrato innaturale staccarmene».

Chi è Martin Heidegger?

«Martin Heidegger è un grande pensatore, il cui accecamento non ha però avuto la radicalità che esso ha in Nietzsche, Gentile, e innanzitutto in Leopardi. Ma lo dico non nel senso che egli riesca più di loro a guardare verso la Non-Follia, ma nel senso che meno di loro è coerente con le premesse (ossia con l’accecamento iniziale) che lui e loro hanno in comune. Fuori luogo, comunque, voler ridurre il pensiero di Heidegger ai rapporti col nazionalsocialismo e con la questione ebraica».

Che cosa può e/o che cosa deve l’uomo di fronte alla tecnica?

«Gli uomini di potere (politico, economico, religioso, ecc.) continuano a dire al resto dell’umanità che cosa deve fare. È stato sempre così. Fin dall'inizio la filosofia sostiene che “fare” significa far essere le cose che ancora non sono e far non essere quelle che sono. Il che presuppone  che le cose siano di per sé disponibili a passare dal non essere all'essere e viceversa. Che cosa c’è di più “evidente” di tutto questo? Non stiamo perdendo tempo a parlarne? (Ma - la domanda è retorica – l’accecamento di cui prima ho parlato non sarà proprio questa che tutti considerano un’ovvia “evidenza”?). La Non-Follia non dice che cosa si deve fare, ma che cosa gli uomini sono destinati a volere. E l’uomo del nostro tempo è destinato ad abbandonare sempre più i valori e i costumi della tradizione e a presentarsi sempre più come un funzionario della tecnica. Ma può diventarlo solo se, insieme, diventa funzionario del pensiero filosofico che negli ultimi due secoli ha mostrato l’impossibilità di ogni Realtà immutabile che regoli, domini, produca la realtà diveniente, dove le cose oscillano appunto tra l’essere e il non essere. In seguito è destinato a venire il tempo in cui all'uomo si apriranno gli occhi e vedrà la Follia del mondo in cui vive. Non potrà smettere di voler trasformare le cose, ma vedrà l’alienazione di questa volontà, e vedendola egli sarà già un diverso modo di esser uomo».

C’è una responsabilità che imputa alla Chiesa cattolica?

«Anche la Chiesa cattolica, anche il cristianesimo, l’ebraismo, l’islamismo appartengono alla storia dell’Occidente. “Responsabile” non significa esser qualcosa che si sarebbe potuto non essere, ma esser destinati a essere ciò che si è».

L’uomo, dice lei, è un re che si crede mendicante. Non ritiene che il politico sia un mendicante che si crede re? Che cosa vede nel tramonto della politica?

«Ma la regalità che il politico e in generale l’uomo potente credono di avere non è la regalità autentica che compete all'uomo in quanto eternamente sovrastante la Follia».

Il suo libro più importante è La struttura originaria. È anche quello a cui tiene di più?

«Il mio libro è l’insieme dei miei libri».

Quale sarà il prossimo?

«È un periodo di riflessione. Sto prendendo appunti sui pensieri che si affacciano.

Lei ha dato la vita alla filosofia o il contrario? (Glielo chiedo perché molti giornalisti dicono di aver dato la vita al giornalismo, invece è il giornalismo ad averne data una loro…).

«“Dar vita” significa far essere qualcosa. Se ci ricordiamo di quel che ho detto sull'accecamento del far essere, allora la limpida vista mostra che la filosofia non ha dato vita a me e tanto meno io a lei».

Qual è il filosofo dal quale non può prescindere la filosofia?

«Hegel diceva che la filosofia è un organismo. E da un organismo si potrebbe prescindere dal cuore, dai polmoni, dalle gambe, dalle braccia? (Questo, anche se  Hegel nella filosofia non poteva vedere altro che ciò che nello sguardo della Non-Follia si mostra come la Follia)».

C’è un filosofo vivente che legge con maggiore attenzione?

«Leggerei con maggiore attenzione quelli che con maggior coerenza e radicalità camminassero al seguito della Follia – i seguaci del grande Errare (che essi intenderebbero non come l’Errare ma come l’unica verità possibile). Ma tra i viventi ne vedo assai pochi».

Qual è il collegamento, se c’è, tra musica e filosofia?

«In una delle mie prime risposte ho accennato al rapporto tra il mito e la filosofia. Nel tempo del mito la festa è il luogo in cui, del mito, viene celebrata la potenza salvifica. La celebrazione si manifesta nel grido, nella voce  dei celebranti; ed è la musica delle origini. Gridano l’esultanza per il loro esser riusciti a vivere e diventare padroni della loro vita: hanno vinto le potenze demonico-divine che lo impedivano, ma insieme tentano di placarle per l’ingiustizia commessa nei loro confronti. Nel più antico testo filosofico che conosciamo – il frammento di Anassimandro – si dice appunto che le cose e gli uomini, morendo, ritornano là, tra le potenze supreme dalle quali si son voluti separare, e  pagano così il fio per l’”ingiustizia” (adikía) compiuta staccandosi da esse. Espiano la colpa, ma salvandosi dalla morte annientante. La tradizione filosofica dell’Occidente si manterrà all'interno di questa visione. Poi, negli ultimi due secoli la filosofia mostrerà che non esiste alcuna potenza suprema al di sopra del divenire del mondo. Lo si dirà in vari modi anche in tutti gli altri campi del sapere. La musica lo dice con l'atonalismo, che è il rifiuto di considerare il “tonale” come la regola e quindi come la potenza suprema nel campo dei suoni».

Dove sta andando l’Europa?

«Sta andando verso nuove e più ampie forme di aggregazione. Già trent'anni fa scrivevo che l’Europa è nata vecchia. La tecnica è destinata a scompaginare ogni forma di aggregazione - vecchia o nuova -  che non abbia come scopo lo scopo della tecnica, cioè l’incremento indefinito della potenza».

Ha detto che la democrazia è una fede. E la fede?

«La fede è la contraddizione in cui si vuole che sia verità indiscutibile ciò che non lo è».

Aldo Masullo, a 96 anni, ha detto che vive con dispetto il dover andarsene senza aver capito chi è Aldo Masullo. Lei ha capito chi è Emanuele Severino?

«Gli individui sono ciò che nell'uomo è il mendicante. Ci sono vari, infiniti modi di essere individui e mendicanti. È la morte a far capire a ognuno in che modo egli è mendicante».

Che cos'è la morte?

«La morte, da un lato, è il riapparire di tutti gli eterni (ogni cosa è un eterno) che sono scomparsi, dall'altro lato è il comparire degli eterni che liberano da tutte le contraddizioni della Follia. Eterne anch'esse, peraltro, perché se si annientassero il “Non” della Non-Follia resterebbe senza ciò che esso nega e quindi non ne sarebbe più la negazione. La morte è l’apparire della Gioia».

Ha già disposto di voler morire in casa, da solo. Cremato. Perché?

«La cremazione consente di far mettere le proprie ceneri all'interno della tomba che custodisce i resti di chi abbiamo amato. Ma c’è molta esagerazione nel culto  funerario. I cadaveri sono soltanto l’ultima forma che il corpo umano presenta. L’ultima di una serie infinita di forme eterne, spesso splendenti: da quelle che ci competono appena nati, un po’ cresciuti, ancora più cresciuti, ragazzi, adulti, anziani. Per ora queste forme sono scomparse e soltanto i cadaveri si fanno vedere; ma poi, come dicevo prima, anche queste forme sono destinate a riapparire – nella Gioia. Ma, mi lasci dire, se si intervista un fisico sulla teoria della relatività, egli non può mostrare, nell'intervista, i fondamenti di tale teoria. Che dunque si presenta come un dogma, o peggio. Qualche secolo prima Copernico e Galileo erano considerati dei pazzi dalla gente. A maggior ragione ciò accade quando l’intervista riguarda la filosofia. E ancora di più quando si è invitati a parlare di ciò che in noi sta eternamente al di sopra della Follia. Le risposte sembrano i sogni di un visionario».

·        E' morto Pietro Anastasi.

Pietro Anastasi, morto a 71 anni il grande bomber di Juventus e Nazionale anni '70. Libero Quotidiano il 18 Gennaio 2020. È morto Pietro Anastasi, indimenticabile bomber di Juventus e Nazionale a cavallo di Anni 60 e 70. Aveva 71 anni e si è spento a Varese dopo una lunga malattia. Simbolo del riscatto dei "terroni" nella Torino della Fiat e degli Agnelli, idolo dei tifosi bianconeri e protagonista in azzurro, giovanissimo, del trionfo agli Europei 1968 (suo uno dei due gol nella ripetizione della finale con la Jugoslavia), Pietruzzu perse la partecipazione al mitico Mondiale 1970 in Messico a causa di un banale incidente prima della partenza: fu operato d'urgenza ai testicoli dopo aver ricevuto per scherzo un colpo al basso ventre dal massaggiatore della Nazionale di Valcareggi. Cresciuto nella Massiminiana, club della sua Catania, ed esploso a Varese, si rifece alla grande con la Juventus vincendo 3 scudetti (1972, 1973 e 1975) prima di passare all'Inter nello scambio con un altro reduce messicano, Boninsegna, che fu convocato nel '70 proprio al posto dell'infortunato U turcu. Chiuse la carriera ad Ascoli, segnando proprio alla Juve e a Zoff il centesimo dei suoi 105 gol in Serie A (su 338 gare complessive). In Nazionale ha invece totalizzato 25 presenze, con 8 reti.

Alberto Cerruti per gazzetta.it il 18 gennaio 2020. Attaccante fino al fischio finale della vita, perché ha chiesto lui di spegnere per sempre la luce della stanza e dei suoi 71 anni. Pietro Anastasi se ne è andato ieri sera, con uno scatto improvviso come i suoi in campo, anche se stavolta non ha sorpreso gli avversari, ma sua moglie Anna e il suo secondo figlio Gianluca che gli chiedeva invano: “Papà, non andartene via stasera”. Parole inutili, come le cure palliative e quella mascherina che ormai non sopportava più, perché la Sla aveva deciso di portarsi via anche lui…

Tre gol dalla panchina: quel record firmato Anastasi. Oggi 45 anni fa, Pietruzzo fu il primo (in cinque minuti). Poi Boateng, Ilicic e Cornelius. Domenico Latagliata, Lunedì 27/04/2020 su Il Giornale. Tre gol arrivando dalla panchina. Segnati per di più in cinque minuti, secondo più secondo meno. Pietro Anastasi fu il primo a riuscirci in Italia, il 27 aprile 1975: quarantacinque anni fa oggi. Carletto Parola era l'allenatore della Juventus che a fine stagione avrebbe vinto il suo sedicesimo scudetto, mentre quel giorno il recentemente scomparso Pietruzzo indossava la maglia numero 13: arrabbiat(issim)o per il fatto che in quell'occasione gli vennero preferiti Bettega e Altafini. Una giornata storica, quindi. Ma cominciata nel peggiore dei modi. Perché, saputo in mattinata di non essere titolare, Anastasi decise inizialmente di tornare a casa abbandonando il ritiro: la successiva telefonata con la moglie Anna lo convinse invece a restare con la squadra. Il suo momento arrivò a una ventina di minuti dal termine, quando prese il posto di Bettega dopo che Altafini aveva portato in vantaggio i bianconeri: una dozzina di minuti dopo arrivò il primo gol, facendosi trovare pronto su un cross dalla sinistra di Causio. Tre minuti e il ragazzo di Sicilia concesse il bis: angolo di Causio, palla dentro di Capello e acrobazia vincente del sempre meno furibondo Anastasi. Il quale, pochi secondi dopo, piombò da opportunista sul pallone calciato da Viola e ribattuto dalla traversa: tre reti in quattro minuti, forse cinque. Come mai nessuno prima di lui, almeno in Italia, arrivando dalla panchina. Un evento straordinario, rimasto unicum fino al 2011: quell'anno lo imitò Boateng, con il Milan sotto per 3-0 a Lecce. Allegri, allora tecnico dei rossoneri, a inizio ripresa buttò nella mischia Kevin Prince e lui lo ripagò realizzando tre gol in 15 minuti, aprendo la strada all'incredibile vittoria arrivata grazie al 4-3 siglato nel finale da Yepes. Ad Anastasi e Boateng si è quindi aggiunto Ilicic, il 29 dicembre 2018: Sassuolo-Atalanta 2-6, lo sloveno in campo solo nell'ultima mezzora ma immediatamente devastante. Poi, buon ultimo nonché recente (impresa registrata lo scorso ottobre), il danese Cornelius: l'attaccante del Parma, entrando durante la gara contro il Genoa al posto dell'infortunato Inglese, ha infatti siglato tre reti in appena otto minuti a cavallo tra il primo e il secondo tempo. Quattro triplette arrivando dalla panchina, allora, in tutta la storia del calcio italiano. Strada aperta da Anastasi, bravo a tramutare la rabbia in un qualcosa fino a quel momento mai verificatosi su un terreno di gioco.

Calcio italiano in lutto: è morto a 71 anni Pietro Anastasi. Addio allo storico attaccante della Juventus, simbolo bianconero negli anni 70. Lottava da tempo contro la malattia. Antonio Prisco, Sabato 18/01/2020, su Il Giornale. Pietro Anastasi, storico attaccante della Juventus degli anni 70, è scomparso a 71 anni dopo una lunga battaglia contro il cancro iniziata nel 2018. ''Anastasi finì per essere il simbolo vivente di un'intera classe sociale: quella di chi lasciava a malincuore il Meridione per andare a guadagnarsi da vivere nelle fabbriche del Nord'' non si possono scegliere parole migliori di quelle dello scrittore torinese Alessandro Baricco per ricordare l'ex attaccante bianconero Pietro Anastasi. Aveva da sempre un doppio sogno, quello di diventare un grande calciatore e quello di vestire la maglia della sua amata Juventus, sin dai tempi in cui milita nella Massiminiana, il piccolo club catanese fondata dalla famiglia Massimino che Pietruzzo trascinò con 18 reti in 31 partite, per la prima volta in Serie C. Pietruzzu u turcu perché d’estate diventava nero come la pece, così chiamavano dalle sue parti quel ragazzino, che conservava sempre nel portafogli la sua foto con John Charles, il suo idolo, scattata anni prima al Cibali, sognando di diventare come lui, un grande calciatore e un simbolo della sua squadra del cuore. Un sogno che tardò poco ad avverarsi, dopo aver trascinato il Varese in Serie A, Anastasi si trova finalmente di fronte l'amata Vecchia Signora nella massima serie. E' la partita del destino quella del 4 febbraio 1968, i biancorossi travolgono 5-0 la Juve con la tripletta personale di Anastasi. Per Gianni Agnelli fu amore a prima vista e in estate lo strappa alla concorrenza dell'Inter, per la cifra record di 650 milioni. ''Ero al settimo cielo perché vestivo la maglia della squadra di cui sono sempre stato tifoso. Si avverava un sogno'' diceva sempre Pietruzzo ricordando quel momento. Il sogno finalmente si era avverato e divenne ben presto un idolo dei tifosi, soprattutto per quelli del Sud, che rivedevano in lui la loro voglia di emergere, tipica dell'epoca e l'uomo simbolo della società, tutto quello che aveva da sempre desiderato. Alla Juve trova il compagno perfetto per esaltare le sue caratteristiche, Roberto Bettega, con cui forma una delle coppie più belle e prolifiche della sotria del calcio italiano. Da una parte c'era Pietruzzo, meridionale estroso e imprevedibile, un calciatore totale che gli valse il soprannome di Pelè bianco, dall'altra Bobby gol, torinese doc, ariete d'area di rigore ed algido sottoporta, il suo perfetto alter ego. Otto stagioni in bianconero di cui le ultime due capitano, con 130 gol in 303 partite arricchite da tre scudetti (1971-1972, 1972-1973 e 1974-1975) e tre finali (Coppa delle Fiere nel 1971, Coppa dei Campioni e Coppa Intercontinentale nel 1973). La magia e lo smalto di un tempo però erano finiti e nell'estate del 1978, Giampiero Boniperti lo vende all'Inter per Roberto Boninsegna, uno scambio che suscitò tantissime polemiche. Pietruzzo approdò in nerazzurro malvolentieri, era troppo per chi aveva solo il bianconero nel cuore. All'Inter fu la copia sbiadita dello splendido attaccante, ammirato negli anni alla Juve e da lì cominciò il declino. Poi passò poi all'ascoli, tre anni nelle Marche prima di chiudere la carriera al Lugano. L’addio al calcio nel 1982, l’anno in cui l’Italia tornava a vincere una competizione internazionale dopo l’Europeo1968. La competizione che vide il suo esordio in maglia azzurra, con cui fu splendido protagonista in finale contro la Jugoslavia grazie alla mezza rovesciata del 2-0 all’Olimpico di Roma, prodezza che nel 2014 la Uefa, per il proprio sessantenario, ha inserito tra i 60 più belli nella storia del calcio europeo. Intanto la Juventus, il club della sua vita sceglie di salutarlo ''con una semplice parola grande quanto lui: Grazie'' di sicuro il modo migliore per dire addio a Pietruzzo, simbolo più di ogni altro di una generazione che sapeva ancora sognare.

Alberto Cerruti per gazzetta.it il 18 gennaio 2020. Attaccante fino al fischio finale della vita, perché ha chiesto lui di spegnere per sempre la luce della stanza e dei suoi 71 anni. Pietro Anastasi se ne è andato ieri sera, con uno scatto improvviso come i suoi in campo, anche se stavolta non ha sorpreso gli avversari, ma sua moglie Anna e il suo secondo figlio Gianluca che gli chiedeva invano: “Papà, non andartene via stasera”. Parole inutili, come le cure palliative e quella mascherina che ormai non sopportava più, perché la Sla aveva deciso di portarsi via anche lui…

Da ansa.it il 18 gennaio 2020. Addio a Pietro Anastasi, figlio del Sud e simbolo del calcio degli Anni 70. Nato a Catania il 7 aprile del 1948 diventò il mito calcistico degli operai meridionali sbarcati nel Nord Italia a cercare fortuna. E la Juventus con la quale il bomber bianconero vinse tre scudetti li fece innamorare tutti tra vittorie memorabii e grandi partite. Pietruzzo, come veniva chiamato amorevolmente all'epoca dai tifosi per rimarcare la sua origine siciliana, fu anche protagonista di un celebre scambio di mercato con l'allora interista Roberto Boninsegna nell'estate nel 1976. Considerato uno dei migliori attaccanti italiani della sua generazione, giocò con la squadra torinese un totale di 258 partite in Serie A realizzando 78 reti, laureandosi capocannoniere della Coppa delle Fiere 1970-1971 e della Coppa Italia 1974-1975, prima di una precoce parabola discendente che lo portò a chiudere la carriera con le maglie di Inter, Ascoli e Lugano. Campione europeo con la nazionale italiana nel 1968, in azzurro ha giocato 25 partite siglando 8 reti. Particolare che rende la sua morte ancor più doloroso per il calcio italiano che si avvicina agli Europei 2020 con tante speranze per le buone prove della Nazionale di Mancini. Era impossibile non volere bene a Pietruzzo perché è stato uno juventino fino in fondo e alla squadra del suo cuore ha trasmesso tutta la sua passione. Quella che da bambino, raccattapalle al Cibali di Catania, lo vede chiedere una foto accanto al suo idolo John Charles. Il sogno di vestire la maglia bianconera si concretizza nel 1968: Pietro arriva a Torino forte di una stagione memorabile nel Varese e di un gol storico in maglia azzurra nella finale dell'Europeo a Roma. Alla Juventus Pietro regala anni straordinari fino al 1976, ma le cifre e l'attaccamento alla maglia spiegano solo in parte l'amore della gente nei suoi confronti. Il suo coraggio nelle giocate, le sue reti in acrobazia, il suo spirito da lottatore lo rendono un idolo, capace di exploit indimenticabili, come i 3 gol segnati alla Lazio in 4 minuti in una gara iniziata seduto in panchina. Un amore che lo stadio Comunale tradusse con lo striscione con la scritta: Anastasi Pelè bianco. La vita di Anastasi è stata un vero romanzo bianconero, negli anni 70' Hurrà Juventus gli dedicò una narrazione a puntate per diversi numeri. "La Juventus - scrive il sito del club bianconero - abbraccia la moglie Anna, i figli Silvano e Gianluca e saluta Pietro con una semplice parola grande quanto lui: Grazie". Un grazie a cui si unisce tutto il calcio italiano in lutto nel sul ricordo.

E' morto Pietro Anastasi, centravanti che fece grande la Juventus. Vinse a Torino 3 scudetti e con la nazionale l'Europeo del 1968. Nel 1976 fece storia lo scambio con Boninsegna, che lo portò all'Inter. La Repubblica il 17 gennaio 2020. E’ morto a 71 anni Pietro Anastasi attaccante di Juventus, Inter e della nazionale tra la fine degli anni 60 e gli anni 70. A darne la notizia è stato il sito ufficiale della società bianconera: "Oggi è un giorno triste per tutta la Juventus, per il calcio italiano e per tutti coloro che lo hanno conosciuto. Pietro Anastasi ci ha lasciato". Nato a Catania nel 1948 si impose come centravanti veloce e acrobatico nonostante l'altezza non eccezionale. Ha segnato 105 gol in serie A di cui 78 con la Juventus dove vinse il titolo di capocanniere nel 1968 e poi tre scudetti nella prima metà degli anni 70. Conteso da Juve e Inter dopo l'esplosione con i Varese fu acquistato dalla Juventus nel 1968, strappandolo all’Inter per 650 milioni, cifra notevole all’epoca. Resterà  8 stagioni, arricchite da tre scudetti, formando con con Bettega un grande coppia gol, ma si logorerà nella parte finale, tanto che la società nell’estate nel 1976 lo scambia con Roberto Boninsegna. Sull’asse Juve-Inter uno scambio senza precedenti che si rivelò più redditizio per proprio per i bianconeri. Anastasi a Milano vince la Coppa Italia del 1978, prima di chiudere la carriera tra Ascoli e Lugano. Campione europeo con l’Italia nel 1968, in azzurro ha collezionato 25 presenze e 8 reti in Nazionale, ma saltò i mondiali di Messico 70 per un infortunio durante la preparazione poche settimane prima della partenza. Dopo il ritiro, Anastasi è stato allenatore delle giovanili per un breve periodo e poi commentatore televisivo.

Pietruzzu, la Fiat e la Juve. Con i gol fece saltare le divisioni sociali. Negli anni '70  diventò l'eroe di una squadra "proletaria" e "meridionale". Maurizio Crosetti su La Repubblica il 18 gennaio 2020. Erano piene di nebbia, a quel tempo, le mattine d’inverno a Torino, ed era dura rimettersi a battere la lastra nel reparto presse della Fiat. Ma c’erano giorni diversi, c’erano i magici lunedì in cui l’operaio “terùn”, naturalmente juventino, poteva dimenticare ogni gelo nella strada e nel cuore, ogni amarezza, ogni sporca fatica della vita grama. Perché la domenica la Goeba aveva vinto. E al centro dell’attacco di quella squadra c’era lui, Pietro Anastasi da Catania, Pietruzzu, Pietro ‘u turco. «Mi chiamavano così perché d’estate mi bastava il primo sole per diventare più nero del carbone». Se n’è andato dopo due anni di battaglia contro un tumore di cui aveva parlato senza reticenze, con quella voce timida e come indecisa, le parole inciampavano anche da ragazzo tra le labbra di Pietruzzu che non era mica un oratore, lui era un centrattacco. Nella Juve che stava rinascendo prima con Vittore Catella, poi con Allodi e Boniperti, esisteva una proporzione di meridionali pari a quella della Fiat se non superiore. Il siciliano Anastasi, il sardo Cuccureddu, il siciliano Furino (non di nascita ma di sangue), il pugliese Causio che Gino Rancati a Novantesimo Minuto chiamava Caùsio, sbagliando l’accento. Di tutti loro, Causio detto “il Barone” oppure “Brasìl” era il più fantasioso, ma Anastasi il più amato dalla gente. Perché segnava in acrobazia, con quelle rovesciate che incendiavano il vecchio Comunale, e perché aveva un cuore enorme. Magari non proprio impeccabile nello stop a seguire, ma perfetto nello scambio veloce, nel lavoro pulito e anche in quello sporco, quando l’attaccante non ha paura di sgobbare quanto un gregario. Nella Juve vinse molto più che nell’Inter, dove Boniperti lo mandò per prendersi in cambio Boninsegna che davano per finito e invece era ancora formidabile, e vennero scudetti e la Coppa Uefa, e dove invece Anastasi invecchiò in fretta. Ma anche la nazionale gli diede una gioia grande, il titolo europeo nel ’68 quando Pietro ‘u turco segnò nella ripetizione della finale contro la Jugoslavia. Il cittì Valcareggi lo riteneva il più forte numero 9 di tutti, il titolare dell’Italia e il compagno perfetto per Gigi Riva. Infatti doveva andare lui, al mondiale messicano del mito. Ma pochi giorni prima della partenza, lo scherzo di un massaggiatore che gli diede un colpo sui testicoli gli cambiò il destino: Anastasi dovette essere operato d’urgenza, niente più Messico ’70 dove venne invece chiamato Boninsegna (ancora un fatale incrocio di strade, tra loro) che già stava partendo per il mare. Il popolare Bonimba chiese se non fosse tutta una burla come quella appena uscita su qualche giornale: una fuga d’amore con Raffaella Carrà! Niente di vero, naturalmente. Finì con Anastasi in clinica e Boninsegna in campo, mitico protagonista di Italia-Germania 4-3 (aprì le marcature dopo 8 minuti) e autore dell’unica rete azzurra contro il mostruoso Pelé. Pietruzzu piaceva molto all’avvocato Agnelli, che allo stadio voleva divertirsi con i giocolieri e che cercava la pace sociale nelle sue fabbriche: anche per questo non prese Maradona, per non indispettire i sindacati. Le sforbiciate del centravanti siciliano erano qualcosa di barocco, piene di colore e stupore. Una volta segnò tre gol alla Lazio in una manciata di minuti, nel finale di una gara emozionantissima. La sua media è di quelle che restano: 338 partite e 105 reti in serie A, ben poche banali. Era un opportunista d’area, un fascio i muscoli governati dall’istinto, Un calciatore di sangue in una stagione di attaccanti spaventosamente bravi, da Gigi Riva a Bonimba, da Paolino Pulici a Pietruzzu che saltava come se fosse di gomma. Tra gli occhi, nelle figurine Panini aveva come una macchia scura, pareva Sandokan, e sopracciglia foltissime. «I tifosi avversari mi dicono terrone ma io non mi arrabbio, non è mica un insulto, e comunque io guadagno più di tutti i polentoni messi insieme». Nell’Italia che stava cambiando pelle, anche un giocatore di pallone poteva far saltare le marcature delle divisioni sociali.

Da ansa.it il 18 gennaio 2020. Addio a Pietro Anastasi, figlio del Sud e simbolo del calcio degli Anni 70. Nato a Catania il 7 aprile del 1948 diventò il mito calcistico degli operai meridionali sbarcati nel Nord Italia a cercare fortuna. E la Juventus con la quale il bomber bianconero vinse tre scudetti li fece innamorare tutti tra vittorie memorabili e grandi partite. Pietruzzo, come veniva chiamato amorevolmente all'epoca dai tifosi per rimarcare la sua origine siciliana, fu anche protagonista di un celebre scambio di mercato con l'allora interista Roberto Boninsegna nell'estate nel 1976. Considerato uno dei migliori attaccanti italiani della sua generazione, giocò con la squadra torinese un totale di 258 partite in Serie A realizzando 78 reti, laureandosi capocannoniere della Coppa delle Fiere 1970-1971 e della Coppa Italia 1974-1975, prima di una precoce parabola discendente che lo portò a chiudere la carriera con le maglie di Inter, Ascoli e Lugano. Campione europeo con la nazionale italiana nel 1968, in azzurro ha giocato 25 partite siglando 8 reti. Particolare che rende la sua morte ancor più doloroso per il calcio italiano che si avvicina agli Europei 2020 con tante speranze per le buone prove della Nazionale di Mancini. Era impossibile non volere bene a Pietruzzo perché è stato uno juventino fino in fondo e alla squadra del suo cuore ha trasmesso tutta la sua passione. Quella che da bambino, raccattapalle al Cibali di Catania, lo vede chiedere una foto accanto al suo idolo John Charles. Il sogno di vestire la maglia bianconera si concretizza nel 1968: Pietro arriva a Torino forte di una stagione memorabile nel Varese e di un gol storico in maglia azzurra nella finale dell'Europeo a Roma. Alla Juventus Pietro regala anni straordinari fino al 1976, ma le cifre e l'attaccamento alla maglia spiegano solo in parte l'amore della gente nei suoi confronti. Il suo coraggio nelle giocate, le sue reti in acrobazia, il suo spirito da lottatore lo rendono un idolo, capace di exploit indimenticabili, come i 3 gol segnati alla Lazio in 4 minuti in una gara iniziata seduto in panchina. Un amore che lo stadio Comunale tradusse con lo striscione con la scritta: Anastasi Pelè bianco. La vita di Anastasi è stata un vero romanzo bianconero, negli anni 70' Hurrà Juventus gli dedicò una narrazione a puntate per diversi numeri. "La Juventus - scrive il sito del club bianconero - abbraccia la moglie Anna, i figli Silvano e Gianluca e saluta Pietro con una semplice parola grande quanto lui: Grazie". Un grazie a cui si unisce tutto il calcio italiano in lutto nel sul ricordo.

Luca Cardinalini per ''il Fatto Quotidiano'' il 19 gennaio 2020. "La signora, lei sì che mi ha cambiato la vita". La signora, scritta in minuscolo, non la Signora, la Juventus. Per farlo arrivare in Serie A, Pietro Anastasi, detto "Petru lu turcu" o "Pietruzzu", dall' aspetto non proprio ariano, il destino utilizzò un sentiero curioso. E una signora, appunto. Aprile 1966, al Cibali si gioca Catania-Varese, gara inutile essendo entrambe già quasi retrocesse in Serie B (ci finiranno), 3-0 per i siciliani (doppietta di Facchin e Magi). Alle 21 c' è il volo di ritorno, Catania-Milano, stracolmo. All' imbarco, un' emergenza: una donna incinta deve salire su quell' aereo, l' aspetta a Milano una visita urgente. Il direttore sportivo del Varese, Alfredo Casati, le cede il posto e prenota il volo del giorno successivo, stesso orario. Tornato in albergo, il barista lo accoglie sorpreso, spiegazioni, poi gli dice: "Già che è qui, perché non va a vedere domani una partita di Serie D, Massiminiana-Paternò?". Ora: non esiste un paese che si chiami Massiminiana, né di sotto né di sopra. Il nome della squadra deriva da quello del suo patron Giuseppe Massimino, fratello di Angelo, presidentissimo del Catania, che darà a sua volta il nome allo stadio. Perché l' ego, insomma, non manca. Casati va. La partita finisce 0-0 (e come sennò?) ma il migliore in campo è un ragazzino quasi nero, 18 anni, mille fratelli, famiglia poverissima. Fatta la doccia, Pietruzzu scopre di essere diventato un calciatore del Varese. Casati, in tribuna, si era accordato con Massimino. Raccontava Anastasi: "Non sapevo nemmeno dell' esistenza di un posto chiamato così". Lì visse per il resto della sua vita, si sposò, diventò padre e, due giorni fa, vi morì. Il mitico '68 fu un "anno formidabile" soprattutto per lui, iniziato a febbraio, in una domenica fredda e nevosa, quando il Varese (il Varese) asfaltò la Juventus, in quello che diventò "il miracolo di Masnago". Pietruzzu: "Quel pomeriggio, col pullman fermo a un semaforo, un signore a spasso con il cane ci riconobbe e ci chiese: come è andata? 5-0. Ehhhh, ne avete presi un po' troppi, disse lui. No, glieli abbiamo fatti, dissi io. Fece il gesto come a dire, ma va là pirla". In quel Varese giocava gente come Picchi, Sogliano, Della Giovanna, il patron era Giovanni Borghi, proprietario dell' Ignis, leader negli elettrodomestici anni 60. Per Anastasi, ventenne, autore di una tripletta, fu gioia doppia, visto che è un tifoso juventino. La prima foto che ti mostrava, a casa, era il selfie - termine ancora inesistente - con il suo idolo John Charles, scattata prima di un Catania-Juventus, Pietruzzu è raccattapalle. Cinque anni dopo, sarà titolare con quella maglia bianconera. Un emigrante - sia pure di lusso - ma pur sempre un emigrante: "Le distanze erano amplificate rispetto a oggi. Per telefonare a casa dovevi andare alle poste, prenotare la chiamata, poi aspettare in cabina. Oggi, con mio figlio che abita a Los Angeles, ci vediamo e parliamo via Skype". A Varese vince la B e fa quel po' po' di campionato in A. "Finii il campionato e mi dissero che la società aveva chiuso l' affare con l' Inter. Poi, nell' intervallo di un' amichevole a San Siro, il trofeo Emilio Violanti, un fotografo mi disse: Ehi Anastasi, complimenti, sei diventato bianconero. Rimasi di sasso". Il sorpasso sull' Inter avvenne in extremis e con un trucco: "L' affare con l' Inter era già fatto, grazie al rapporto tra Casati e Allodi, ds nerazzurro. Poi Agnelli fece un' offerta irrinunciabile al dottor Borghi. L' Ignis aveva bisogno di motorini per un nuovo modello di frigorifero, la Fiat si impegnò a farglieli avere". Una sorta di Kulusewski ante litteram, insomma. Sempre quell' estate debutta in nazionale a 20 anni, l' 8 giugno 1968, ancora tesserato del Varese, nella finale dell' Europeo contro la Jugoslavia, allo stadio olimpico di Roma: "Era una cosa quasi impensabile, ero minorenne (all' epoca l' età limite erano i 21 anni, ndr) e senza esperienza, di una squadra di provincia, buttato dentro nella partita più importante". Prima finale dominata dalla Jugoslavia, ma il bunker di Valcareggi resiste. Nella ripetizione due giorni dopo Valcareggi ne cambia sei, ma non il giovane Anastasi, che lo ripaga con un gol: "De Sisti mise la palla in mezzo, ebbi l' istinto di tirare al volo, senza mirare a niente". Come dà, il destino toglie. "Un unico rimpianto. Aver perso il Mondiale del 1970 per una manata di un massaggiatore, uno scherzo finito malissimo, con un' operazione ai testicoli". Anastasi ha vinto scudetti, coppe, ha segnato più di 400 gol nella carriera tra Massiminiana, Varese, Juventus, Ascoli e Lugano. Ma più dei gol segnati, diceva, gli capitava di ripensare a quelli sbagliati, vai a capire perché. E la mente, soprattutto, tornava spesso a quella signora, "chissà se aveva portato a termine la sua gravidanza, chissà cosa saranno ora quel bambino o quella bambina, forse juventini o forse no, che non sapranno mai questa storia" e a quel viaggio che ha cambiato - inconsapevolmente - più vite. A cominciare dalla sua.

Morto Anastasi, dal tumore alla Sla: «Papà ha chiesto la sedazione». Pubblicato sabato, 18 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Tomaselli. «Negli ultimi tre mesi la situazione è precipitata, ma a quel punto lui ha detto basta, rifiutando l’accanimento terapeutico». «È morto in pochi minuti». Calciatori e Sla: già 32 i casi. «Papà aveva la Sla, che gli era stata diagnosticata tre anni fa dopo essere stato operato di un tumore all’intestino. Gli ultimi mesi sono stati davvero devastanti e lui giovedì sera quando era ricoverato all’ ospedale di Circolo di Varese ha chiesto la sedazione assistita per poter morire serenamente». Così Gianluca Anastasi ricorda la scomparsa del padre Pietro, avvenuta venerdì a 71 anni, confermando che è stata dovuta anche alla sclerosi laterale amiotrofica. «Ha scelto lui giovedì sera di andarsene. Ha chiamato mia mamma e ci ha detto di volere subito la sedazione. Tutto era cominciato tre anni fa con dei dolori al braccio e alla gamba. Abbiamo fatto altri esami ed è emerso che aveva un tumore all’intestino, anche se persisteva il problema neurologico alle gambe. Dopo l’operazione per asportare il tumore e altri approfondimenti medici è venuto fuori che era Sla. Papà lo ha saputo solo tre mesi fa. Da allora la cosa è precipitata, ma a quel punto lui ha detto basta, rifiutando l’accanimento terapeutico. E giovedì sera si è addormentato per sempre». Lunedì alle 10 sarà aperta una camera ardente all’interno della sala comunale Estense di Varese, domani si svolgeranno i funerali nella basilica di San Vittore. Anastasi ha contribuito a far accendere le fiaccole all’Olimpico, nella notte magica del 10 giugno 1968, con il primo gol alla Jugoslavia nella finale-bis dell’Europeo vinta dagli azzurri (di Riva il 2-0), ma ieri a Roma prima di Lazio-Samp non è stato ricordato e oggi solo Juventus e Inter, le due squadre di serie A in cui ha giocato, lo onoreranno con un minuto di silenzio e il lutto al braccio: con il lutto giocherà anche l’Italia a Wembley il 27 marzo. A Torino l’omaggio sarà toccante, perché Anastasi è stato un idolo e un simbolo della Juve, con la quale ha giocato 8 stagioni dal ’68 al ’76 vincendo 3 scudetti (all’Inter nel ’78 vinse la Coppa Italia). Ragazzo di Catania cresciuto in una famiglia operaia, con i suoi gol e il suo stile di gioco generoso ha contribuito all’integrazione dei tanti lavoratori emigrati al Nord in cerca di fortuna come lui. «Quando Anastasi segna, Agnelli diventa un santo» è il titolo di un reportage fra i lavoratori torinesi pubblicato dal Corriere della Sera del 2 marzo 1973. Il presidente della Federcalcio, Gabriele Gravina ricorda Petruzzu: «Salutiamo una leggenda del calcio italiano, un giocatore straordinario, ma soprattutto una persona stimata e apprezzata da tutti. I suoi valori morali e tecnici siano viva testimonianza per le future generazioni». Ricordarlo in tutti gli stadi sarebbe stato certamente d’aiuto.

Il figlio di Anastasi: «Papà malato di Sla, ha chiesto la sedazione assistita». Pubblicato sabato, 18 gennaio 2020 su Corriere.it da Claudio Del Frate. «Papà aveva la Sla, che gli era stata diagnosticata tre anni fa dopo essere stato operato di un tumore all’intestino. Gli ultimi mesi sono stati davvero devastanti e lui giovedì sera quando era ricoverato all’ ospedale di Varese ha chiesto la sedazione assistita per poter morire serenamente»: lo ha dichiarato all’Ansa Gianluca Anastasi figlio di Pietro Anastasi, l'ex centravanti di Juventus, Inter e della Nazionale morto venerdì sera all’età di 71 anni. Il figlio del campione conferma chela morte è stata dovuta alla Sla. «Ha scelto lui giovedì sera di andarsene. Ha chiamato mia mamma e ci ha detto di volerla subito». I funerali di Anastasi si svolgeranno lunedì pomeriggio nella basilica di San Vittore a Varese: proprio a Varese il calciatore aveva debuttato nel calcio professionistico nel 1966 e nella città lombarda era tornato a vivere dopo il ritiro dal calcio giocato. Domani, domenica, verrà aperta la camera ardente a Palazzo estense, sede del municipio di Varese. Pietro Anastasi non è il primo calciatore professionista a essere colpito dalla Sla, malattia degenerativa nota anche come morbo di Gehrig. Secondo una ricerca dell’Istituto Mario Negri di Milano sono già 32 i casi accertati tra i giocatori in attività tra il 1960 e il 2000. Per questa categoria di sportivi l’incidenza della malattia è due volte superiore rispetto a quella della media generale della popolazione. Tra i casi piùà noti, quello dell’ex attaccante del Milan e della Fiorentina Stefano Borgonovo. Il figlio di Anastasi così prosegue la sua testimonianza: «Tutto era cominciato tre anni fa con dei dolori al braccio e alla gamba ma a lui all’inizio non abbiamo detto nulla. Abbiamo fatto altri esami ed è venuto fuori che aveva un tumore all’intestino, anche se persisteva il problema neurologico alle gambe. Comunque papà si è operato e il tumore è stato tirato via. Poi abbiamo fatto altre analisi e approfondimenti medici ed è venuto fuori il problema. Il medico ci ha detto che era Sla ma a papà abbiamo preferito tacerlo anche se lui aveva capito tutto. Abbiamo deciso di dirgli la verità tre mesi fa - prosegue il primogenito di Anastasi - ma lui come detto lo aveva già immaginato perché i problemi nei movimenti erano evidenti. Da allora la cosa è precipitata perché papà non riusciva più a muoversi e respirava a fatica e si aiutava con l’ausilio di una macchina da cui non riusciva più a staccarsi. Poi gli è stata consigliata anche la tracheotomia ma a quel punti lui ha detto `basta´, seguirò il destino della mia malattia», e ha rifiutato l’accanimento terapeutico». Anastasi mercoledì è entrato nell’Hospice, dove sono i malati terminali, e il giorno dopo ha deciso di essere sedato. «Lui era cosciente anche se faceva fatica parlare, ci ha salutato, mio fratello che vive in America, poi me e mia mamma, abbiamo chiacchierato una mezzoretta dei vecchi tempi e della vita bella insieme poi è arrivato il dottore, gli ha messo l’ago per la sedazione assistita. In 40 minuti si è addormentato e il giorno dopo papà è morto».

L'ultima richiesta di Anastasi alla moglie: "Devi farmi morire". Anna Bianchi, compagna di vita per ben 53 anni di Pietro Anastasi, ha raccontato le ultime richieste del marito: "Me lo chiedeva quando era già malato, ma non sapeva ancora di avere la Sla". Marco Gentile, Lunedì 20/01/2020, su Il Giornale. La morte di Pietro Anastasi, ex grande attaccante di Juventus ed Inter, ha scosso il mondo del calcio. Il 71enne siciliano se n'è andato nella serata di venerdì 17 gennaio dopo aver a lungo combattuto contro la Sla. Il figlio Gianluca ha raccontato gli ultimi istanti di vita del padre, mentre la moglie Anna Bianchi in una lunga intervista al Messaggero ha voluto ricordare quell'uomo con cui è stata insieme per ben 53 anni. La moglie di Anastasi ha raccontato straziata la richiesta del marito: "Mi devi promettere che mi fai morire. Voleva andare in Svizzera come Dj Fabo, porre fine alle sue sofferenze con il suicidio assistito. Me lo chiedeva quando era già malato, ma non sapeva ancora di avere la Sla". Anastasi scoprì di avere un tumore all'intestino tre anni fa e gli fu diagnosticata anche la Sla, anche se i familiari hanno preferito non svelarlo all'ex calciatore della Juventus che però pare avesse già capito tutto: "Mio marito aveva un problema alla mano destra, non riusciva a impugnare bene la forchetta. Hanno scoperto che aveva un tumore all’intestino e la Sla". La signora Anna ha poi raccontato che un giorno, tre mesi fa, guardò in faccia il marito per dirgli la verità: "Muoversi diventava sempre più difficile, qualsiasi minimo gesto quotidiano si trasformava in un’impresa insormontabile. Finché un giorno, tre mesi fa, l’ho guardato negli occhi e gli ho detto: Sai cos’hai?. E lui mi ha risposto: Sì, ho la Sla. Ed è rimasto a lungo in silenzio".

Il personale medico è stato di grande aiuto e conforto per la famiglia Anastasi che ha dovuto avere la forza per supportare Pietro in questa ingiusta sofferenza: "È arrivata una dottoressa, una persona davvero splendida, ha parlato con mio marito e gli ha prospettato la sedazione con una puntura. Si sarebbe addormentato e non si sarebbe più svegliato. È andata proprio così ed è avvenuto tutto molto rapidamente". La moglie di Anastasi ha concluso l'intervista raccontando gli ultimi strazianti attimi di vita del marito che dopo anni di sofferenze ha potuto porre fine al suo calvario: "C’eravamo io e mio figlio. “Mi faccio sedare”, ci ha comunicato. “No, aspetta”, l’ho pregato. Ma aveva deciso. Ha salutato l’altro nostro figlio che sta in America, chiamandolo via Skype, e alle sette di sera si è addormentato. Alle dieci e mezza era morto”.

Anastasi, il figlio Gianluca e la scelta della sedazione: "Avrei fatto lo stesso, ma ha avuto tanto coraggio". Andrea Lattanzi su Repubblica tv il 20 gennaio 2020. "Un padre affettuoso, buono, l'orgoglio di famiglia - così il figlio Gianluca ricorda Pietro Anastasi - era sempre un'emozione incontrare i tifosi che ancora gli chiedevano l'autografo". Il giorno più lungo, quello dei funerali, per la famiglia Anastasi è arrivato. L'ex calciatore della Juventus e della Nazionale, sepolto nella "sua" Varese, aveva deciso di ricorrere alla sedazione assistita per alleviare i dolori da sclerosi laterale amiotrofica dalla quale era affetto da tre anni. "Quando ha deciso per la sedazione assistita è stato un bel colpo anche per noi. Ma l'ha fatto anche per noi, perché vedeva che stavamo tutti male". Molti campioni, a cominciare dall'ex giocatore della Fiorentina Borgonovo, dopo aver smesso hanno sviluppato questa malattia: "Sono due anni e mezzo che ci penso - racconta il figlio Gianluca - ma purtroppo non ci sono cure né si sa da cosa sia generata".

Anastasi, il funerale a Varese. Gentile: "Vergognoso il mancato minuto di silenzio su tutti i campi". Andrea Lattanzi Repubblica tv il 20 gennaio 2020.  "Rappresentava l'operaio del sud che migrava verso nord, era l'idolo dei tifosi che erano andati a Torino per lavorare alla Fiat". Parole di Beppe Marotta, ad dell'Inter, per ricordare Pietro Anastasi nel giorno dei suoi funerali nella basilica di San Vittore a Varese. Una giornata di lutto, ma anche di ricordo per tutto il mondo del calcio. Pavel Nedved, Fabio Capello, Roberto Bettega, Claudio Gentile, Gabriele Oriali sono solo alcuni dei grandi nomi che hanno voluto rendere omaggio all'ex attaccante della Juventus e della Nazionale deceduto per le conseguenze di una grave forma di sclerosi laterale amiotrofica, dopo aver dato l'assenso per la sedazione passiva. L'ex bianconero Gentile: "Domenica scorsa solamente i campi di Torino e Lecce hanno fatto un minuto di silenzio per Pietro. Questa è una vergogna".

L'ultimo saluto a Pietro Anastasi. Gentile: "Vergognoso il mancato minuto di raccoglimento". La Repubblica il 20 gennaio 2020. Celebrati i funerali dell'ex attaccante di Juve e Inter e della Nazionale, scomparso a 71 anni per la Sla. Bettega: "È stato l'uomo simbolo degli anni '70". Oriali: "Impossibile non volergli bene, un onore giocare con lui e poterlo frequentare". Gentile: "Vergognoso che non gli sia stato tributato 1' di raccoglimento su tutti i campi". Il ricordo anche di Ezio Greggio. Tanti vecchi amici ma anche gente comune per l'ultimo saluto a Pietro Anastasi. Centinaia di persone si sono ritrovate nella basilica di San Vittore a Varese dove si sono celebrati i funerali dell'ex attaccante di Juve e Inter e della Nazionale italiana, scomparso venerdì sera a 71 anni dopo una lunga malattia. Molti i tifosi e gli appassionati in piazza già dalle 14, un'ora e mezza prima dell'inizio della funzione, con sciarpe e cappellini di Varese e Juventus. Una pioggia di applausi ha accolto l'entrata del feretro e alla cerimonia c'era anche una fetta importante del mondo del calcio. A partire dagli ex compagni di squadra alla Juventus come Roberto Bettega, Claudio Gentile e Fabio Capello, mentre a rappresentare la società bianconera, di cui Anastasi ha vestito la maglia dal 1968 al 1976, c'erano il vicepresidente Pavel Nedved e Paolo Garimberti, presidente del J-Museum. Con Anastasi ha condiviso l'esperienza in nerazzurro e in Nazionale pure Lele Oriali, presente insieme all'attuale ad dell'Inter, Beppe Marotta, di casa in quella Varese dove l'ex giocatore ha vissuto la parte finale della sua vita. "È vergognoso che ad Anastasi non sia stato tributato un minuto di raccoglimento su tutti i campi della Serie A. C'è grande amarezza". A dirlo è Claudio Gentile arrivando alla cerimonia funebre dell'ex compagno, scomparso dopo aver combattuto con la Sla. Solamente Juventus e Inter hanno infatti ricordato il campione d'Europa del 1968 con un minuto di raccoglimento prima delle rispettive partite di campionato. "È stato il mio compagno di camera, riusciva a darmi tranquillità per affrontare una sfida dura. È stato l'uomo simbolo degli anni '70, era un mondo diverso, non paragonabile a quello di oggi. Era un grande uomo": Roberto Bettega ricorda così l'ex compagno di club e Nazionale. "Il mio gol di tacco? Il cross era di Anastasi, ricordo bene - prosegue -. Era una persona che ti incitava e ti instradava, è stato davvero importante nella mia vita, come uomo e come amico. Niente minuto di silenzio? Non sono domande da porre me, il mio minuto di silenzio è iniziato venerdì alle 11 quando sono stato informato della sua scomparsa". "Era impossibile non volergli bene, era un simbolo di tutti ed un grande amico. Voglio ricordarlo con un sorriso". Sono le parole con cui Lele Oriali tratteggia la figura di Pietro Anastasi. "È stato un onore - aggiunge Oriali, all'arrivo al funerale - poter giocare con lui e poterlo frequentare. Aveva tanti valori umani, era un grande giocatore". L'ex mediano, dietro gli occhiali da sole, si abbandona alla commozione: "Nell'ultimo periodo non l'ho sentito spesso e me ne dispiaccio". "Il valore della memoria di Pietro Anastasi è molto forte, da tifosi ci ha regalato emozioni in quell'unico Europeo vinto dall'Italia nel 1968. Anastasi ha creato la nobiltà dell'essere meridionale". Anche Beppe Marotta ricorda con grande trasporto Pietro Anastasi e cerca di spegnere le polemiche sul mancato minuto di raccoglimento sui campi della Serie A. "A Lecce lo abbiamo fatto - spiega l'ad dell'Inter, arrivando alla cerimonia funebre - come club, era un doveroso gesto di riconoscenza verso una figura di grandi valori. Per il resto mi pare sia stata una situazione contingente. La federazione lo ricorderà nei prossimi impegni delle Nazionali".

Morte Anastasi, centinaia ai funerali a Varese. Gentile: «Vergognoso il minuto di silenzio mancato». Pubblicato lunedì, 20 gennaio 2020 da Corriere.it. Centinaia di persone partecipano lunedì pomeriggio ai funerali di Pietro Anastasi, ex attaccante della Nazionale — con cui divenne campione d’Europa nel 1968 — e, tra gli altri, della Juventus e dell’Inter, nella basilica di San Vittore a Varese. Anastasi, catanese, è scomparso venerdì a 71 anni ucciso dalla Sla. Molti i tifosi e gli appassionati in piazza fin dalle 14 con sciarpe e cappellini di Varese e Juventus, e presenti in rappresentanza del mondo del calcio, tra gli altri, il tifoso Ezio Greggio e gli ex atleti Pavel Nedved, Roberto Bettega, Fabio Capello, Oscar Damiani, Beppe Marotta, Lele Oriali, Carlo Muraro, Francesco Morini e Claudio Gentile. Quest’ultimo ha contestato la decisione della Federazione di non far osservare il minuto di silenzio su tutti i campi (solo Inter e Juventus lo hanno fatto): «È vergognoso, c’è grande amarezza».

Antonio Prisco per il Giornale il 21 gennaio 2020. "È vergognoso che non gli sia stato tributato un minuto di raccoglimento su tutti i campi della Serie A, c'è grande amarezza" ha dichiarato Claudio Gentile, arrivando alla cerimonia funebre di Pietro Anastasi, scomparso dopo aver combattuto contro la Sla. Vecchi amici ed ex compagni di squadra ma anche tanta gente comune per l'ultimo saluto ad Anastasi. Centinaia di persone si sono ritrovate nella basilica di San Vittore a Varese dove si sono celebrati i funerali dell'ex attaccante della Juventus e della Nazionale italiana, scomparso venerdì sera a 71 anni. Alla cerimonia c'erano anche gli ex compagni di squadra bianconeri Roberto Bettega, Claudio Gentile e Fabio Capello. Per l'Inter invece Lele Oriali, che condivise con lui le esperienze in nerazzurro e in Nazionale e Beppe Marotta, di casa a Varese dove Pietruzzo scelse di vivere, dopo aver mosso i primi passi della sua carriera. Il dirigente dell'Inter lo ha ricordato così: "Il valore della memoria di Pietro Anastasi è molto forte, da tifosi ci ha regalato emozioni in quell'unico Europeo vinto dall'Italia nel 1968. Anastasi ha creato la nobiltà dell'essere meridionale". "Era impossibile non volergli bene, era un simbolo di tutti ed un grande amico. Voglio ricordarlo con un sorriso" ha dichiarato invece Lele Oriali che poi ha aggiunto: "È stato un onore poter giocare con lui e poterlo frequentare. Aveva tanti valori umani, era un grande giocatore". Parole intrise di commozione per Roberto Bettega, compagno di un tandem d'attacco formidabile: "È stato il mio compagno di camera, riusciva a darmi tranquillità per affrontare una sfida dura. È stato l'uomo simbolo degli anni '70, era un mondo diverso, non paragonabile a quello di oggi. Era un grande uomo. Il mio gol di tacco? Il cross era di Anastasi, ricordo bene. Era una persona che ti incitava e ti instradava, è stato davvero importante nella mia vita, come uomo e come amico. Niente minuto di silenzio? Non sono domande da porre me, il mio minuto di silenzio è iniziato venerdì alle 11 quando sono stato informato della sua scomparsa". Non riesce a nascondere la rabbia invece Claudio Gentile. L'ex roccioso difensore della Juve, arrivato ai funerali, tuona contro la Federazione per il mancato minuto di silenzio: ''Sono molto arrabbiato, è una cosa vergognosa. Uno come lui, con quello che ha fatto anche con l’Europeo doveva essere riconosciuto a livello totale. Però, in Italia non si rispettano persone che fanno anche cose importanti. Non posso dare consigli a nessuno, sarà la loro coscienza a darli. Se un giocatore come lui non viene riconosciuto è una cosa gravissima''. Solamente Juventus e Inter hanno infatti ricordato il campione d'Europa del 1968 con un minuto di raccoglimento prima delle rispettive partite di campionato mentre la Figc dovrebbe ricordare Anastasi, nei prossimi impegni della Nazionale. Decisamente troppo poco per uno dei grandi del calcio italiano.

Da calciomercato.com il 21 gennaio 2020. La FIGC non ricorderà con un minuto di silenzio sui campi di Serie A l'ex attaccant di Juve e Inter Pietro Anastasi. Bianconeri e nerazzurri lo faranno con il lutto al braccio e allo Stadium, prima della sfida col Parma, si osserverà un minuto di silenzio. Furioso Ciccio Graziani: "Ma che c... hanno nella testa questi dirigenti? - dichiara a Radio Sportiva -. Non riescono, ai tempi di oggi, a far si che nella giornata di campionato ci sia da subito un minuto di silenzio per ricordare un campione del nostro calcio, che ha dato tantissimo al nostro calcio. Dove hanno la testa questi dirigenti? Pensano solo ai quattrini, agli sponsor, se non si ricordano che bisogna fare un minuto di silenzio per un uomo meraviglioso come Anastasi. Era una persona speciale, Pietro. Come si fa? E' un'ignorantata allucinante, per tutti gli appassionati di calcio e la famiglia. Tutti dovevano mettere la fascia, non solo le squadre dove ha giocato Pietro. Un minuto di raccoglimento per un uomo e un calciatore che ha dato tantissimo al nostro calcio". 

Gaia Piccardi per il “Corriere della Sera” il 20 gennaio 2020. Anastasi Pietro, morto venerdì a Varese di sclerosi laterale amiotrofica (Sla) a 71 anni, ci costringe ad aggiornare la macabra contabilità dei caduti sotto l' implacabile tackle della «malattia professionale» dei calciatori. A definire per primo così la Sla è stato il magistrato torinese Raffaele Guariniello, autore di un prezioso studio epidemiologico su un campione di 24 mila calciatori italiani di Serie A, B e C dalla stagione '59-60 a quella '99-2000 (fondamentale si rivelò l' archivio delle figurine Panini), recentemente confermato da uno studio dell' Istituto Mario Negri di Milano arrivato fino al 2018 con un follow up allargato. Le ricerche concordano: in Italia i calciatori si ammalano di Sla di più e prima delle altre categorie professionali. I casi fin qui accertati di Sla nel calcio italiano sono 32. Esclusi Anastasi e Giovanni Bertini, ex difensore di Roma e Fiorentina (le misteriose morti dei giocatori viola degli anni 70, da Beatrice a Longoni, da Saltutti a Galdiolo, furono al centro di un' inchiesta di Guariniello), arresosi alla Sla a 68 anni lo scorso dicembre. «Il rischio ricalcolato sulla popolazione calcistica è circa 2 volte di più rispetto alla popolazione generale - spiega il dottor Ettore Beghi -. Considerando solo la Serie A, il rischio sale a 6 volte di più». Il 6 novembre 2002 si spegneva Gianluca Signorini, amatissima bandiera del Genoa, il primo celebre caduto sul fronte della Sla. Verrebbe da dire che dopo quasi quattro lustri di indagini e ricerca non è cambiato nulla. La Sla resta una malattia neurodegenerativa incurabile, multifattoriale, quindi difficilissima da decifrare. «La mia speranza, mentre la casistica purtroppo cresce, è che sia maturata la consapevolezza dell' ambiente - dice l' ex pm, che presiede la commissione amianto del ministero dell' Ambiente -. Trovare il nesso tra calcio e Sla è importante ai fini della prevenzione. Io lavorai da solo, in un clima sconsolante. Con una perplessità che non mi ha mai abbandonato: benché non si possa pensare che la Sla sia una malattia solo dei giocatori italiani, il mio studio non ebbe seguito in Europa. Provai a sensibilizzare Michel Platini all' Uefa, da noi Damiano Tommasi sembrava molto interessato, ma non ci fu seguito. Sarebbe stato interessante, invece, incrociare i dati». I casi nel calcio continentale non mancano (l' olandese Fernando Ricksen, ex Rangers e Zenit, è deceduto il 18 settembre 2019 a soli 43 anni), però nessuno ne parla. Contro l'indifferenza delle istituzioni ha sbattuto anche Chantal Borgonovo, che insieme al marito Stefano (ex Fiorentina e Milan) ha combattuto in prima linea, pubblicamente: una generosità che ha finalmente portato la Sla sulle prime pagine dei giornali. «La ricerca va avanti, ma sul fronte calcio siamo fermi - racconta dal timone della Fondazione Borgonovo -. Nel silenzio generale i calciatori continuano ad ammalarsi e morire». Nel febbraio 2017 un incontro a Zurigo con il neopresidente della Fifa Gianni Infantino, cui fu chiesto di finanziare proprio la ricerca del l' Istituto Mario Negri, finì con un pugno di mosche in mano. Salvo sentirsi dire un anno dopo che «adesso che c'è la Fondazione Fifa siamo pronti al dialogo». Un libro già uscito, una fiction da proporre, altre iniziative per tenere vivo l'interesse su un tema di cui si torna a parlare in occasione dei funerali (stamane a Varese quello di Anastasi): «A vent'anni pensi solo a giocare a calcio. Dovrebbero essere le istituzioni a fare opera di sensibilizzazione. Ma io non mi arrendo» promette Chantal. Il primo nel '73 fu Armando Segato, ex Cagliari e Fiorentina, seguito da Fulvio Bernardini, centrocampista di Lazio, Inter e Roma, ct della Nazionale dal '74 al '77. Le ipotesi? Sempre le stesse: 1) Traumi (colpi di testa, scontri, infortuni); 2) uso di sostanze dopanti e abuso di farmaci; 3) esposizione a sostanze chimiche per ravvivare l' erba e il verde dei campi. «Non si vuole criminalizzare il calcio - chiosa Guariniello -, ma trovare il nesso. Peccato non aver mai incontrato un pentito su questo fronte. La mafia li ha, il calcio no».

·        Morto Pietro Antonio Migliaccio, il nutrizionista dei salotti tv.

Da migliaccionutrizione.it il 16 gennaio 2020. Con immenso dolore diamo il triste annuncio dell’improvvisa scomparsa del caro Prof. Migliaccio. La camera ardente sarà presso la camera mortuaria del Policlinico Umberto I dalle ore 12 alle ore 16 di Venerdì 17. La cerimonia funebre si svolgerà Sabato 18 alle ore 10,30 presso la Basilica di S. Croce al Flaminio in via Guido Reni – Roma

È morto improvvisamente il nutrizionista Pietro Migliaccio. Pubblicato giovedì, 16 gennaio 2020 su Corriere.it da Cristina Marrone. È morto a Roma all’età di 86 anni Pietro Antonio Migliaccio, docente in Scienza dell’alimentazione e specialista in Gastroenterologia, presidente emerito della Società italiana di Scienza dell’Alimentazione, e volto noto della televisione, pioniere della divulgazione scientifica sul tema della sana alimentazione. La notizia è stata resa nota dal sito web del suo studio medico: «Con immenso dolore diamo il triste annuncio dell’improvvisa scomparsa del caro Prof. Migliaccio». Il professore è deceduto a causa di un evento improvviso e grave: la rottura dell’aorta come ha raccontato all’Ansa la moglie Maria Teresa Strumendo Migliaccio: «Il professore è stato impegnato in studio fino al tardo pomeriggio di ieri, poi verso le 19.00 ha accusato un dolore e ci siamo recati in clinica. Poi in ambulanza d’urgenza al Policlinico Umberto I». Non c’è però stato nulla da fare. Pietro Migliaccio era fra i massimi esperti in Italia di nutrizione e sostenitore della dieta Mediterranea, contro gli eccessi delle diete estreme. Per la sua notorietà era stato anche imitato da Fiorello, provocando divertimento dello stesso scienziato. Lo stesso show man oggi su twitter ha postato un video con cui ricorda il celebre dietologo nutrizionista salutandolo con un «Rip professor Migliaccio». Nel video, un’intervista che Fiorello fece a Migliaccio durante una puntata di «Edicola Fiore», nel quale il presentatore scherza imitando la nota «erre moscia» del professore, e si fa raccontare la dieta «ideale». Migliaccio, col grande senso dell’umorismo che lo ha sempre caratterizzato, sta allo scherzo e gioca con il conduttore ipotizzando una «pasta alla peripatetica». Migliaccio era nato a Catanzaro nel 1934, dove aveva conseguito la laurea in Medicina e chirurgia. Docente in Scienza dell’alimentazione, oltre che esperto in Auxologia, per oltre 25 anni è stato ricercatore dell’Istituto nazionale della Nutrizione (l’attuale Inran). Da anni esercitava a Roma la professione di nutrizionista e dietologo clinico e attività didattica presso varie università italiane. Nominato all’unanimità presidente della Società italiana di Scienza dell’alimentazione (Sisa) il 12 marzo 2010, attualmente rivestiva la carica di presidente emerito. È ’ stato autore di numerose pubblicazioni scientifiche in ambito biochimico e nutrizionale, ma ha collaborato attivamente con la stampa e con numerose testate televisive per la divulgazione di temi riguardanti gli alimenti, la nutrizione e la salute. Ha condotto una rubrica di nutrizione bisettimanale all’interno del programma «I fatti vostri» in onda su Rai Due. Autore del «Manuale di Nutrizione Umana tra presente e futuro» e di numerose pubblicazioni tra cui «L’alimentazione del bambino con patologia oncologica». La camera ardente sarà presso la camera mortuaria del Policlinico Umberto I dalle ore 12 alle ore 16 di Venerdì 17. La cerimonia funebre si svolgerà sabato 18 gennaio a Roma alle ore 10.30 presso la Basilica di S. Croce al Flaminio in via Guido Reni.

Morto Pietro Antonio Migliaccio, il nutrizionista dei salotti tv. Fino a ieri sera al lavoro, poi il malore e il ricovero in un ospedale romano dove è deceduto. Autore di numerosi libri aveva dato il nome ad alcune diete, tra cui quella del gelato. La Repubblica il 16 gennaio 2020. È morto a Roma Pietro Antonio Migliaccio, docente in Scienza dell'alimentazione e specialista in Gastroenterologia, presidente emerito della Società italiana di Scienza dell'Alimentazione. L'annuncio sul sito del suo studio. L'esperto era un volto noto della televisione, pioniere della divulgazione scientifica sul tema della sana alimentazione, ospite della tramissione I fatti vostri  in onda su Rai Due dove aveva una sua rubrica fissa. Il professore aveva lavorato fino a ieri sera, quando per un malore improvviso è stato ricoverato in un ospedale romano, dove è poi deceduto. Il saluto sui social di Barbara Palombelli: "La scomparsa del professor Pietro Migliaccio lacia un vuoto immenso - ha scritto la conduttrice su Facebook - 50 anni di consuetudini familiari, affetto, amicizia, assistenza professionale e tanti momenti meravigliosi vissuti insieme. Lo ricorderò oggi in tv". Migliaccio aveva dato il suo nome a numerosi regimi dietetici, tra i quali la "dieta del gelato" e pubblicato molti libri sul tema dell'alimentazione. Era nato a Catanzaro, laureato a Roma presso l'Università La Sapienza in Medicina e Chirurgia. Professore in Scienza dell’Alimentazione e Specialista in Gastroenterologia da anni svolgeva a Roma la professione di Nutrizionista e Dietologo Clinico e attività didattica presso varie Università italiane partecipando a conferenze e seminari. Per oltre 25 anni è stato ricercatore dell’Istituto Nazionale della Nutrizione, attuale INRAN – Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione. È autore di numerose pubblicazioni scientifiche in ambito biochimico e nutrizionale tra cui il Manuale di Nutrizione Umana tra presente e futuro, giunto alla sua XIV edizione e L'alimentazione del bambino con patologia oncologica.

·        Morto Christopher Tolkien, figlio dell’autore del «Signore degli Anelli».

Morto Christopher Tolkien, figlio dell’autore del «Signore degli Anelli». Pubblicato venerdì, 17 gennaio 2020 da Corriere.it. Era il terzo dei quattro figli dello scrittore J.R.R. Tolkien, autore de Il Signore degli Anelli, e, dopo la morte del padre, fu per anni il curatore e il custode della sua sterminata e amatissima opera. È morto Christopher Tolkien: aveva 95 anni e viveva in Francia dal 1975. A confermarne la scomparsa, avvenuta nella notte tra il 15 e il 16 gennaio al Centre hospitalier de la Dracénie di Draguignan, in Provenza, è stata la Tolkien Society inglese. Christopher, unico dei figli di Tolkien ancora in vita, era nato a Leeds, nel Regno Unito, il 21 novembre del 1924. Da giovane aveva militato come pilota nella Raf (Royal Air Force)durante la seconda guerra mondiale. Alla fine del conflitto aveva portato a termine gli studi diventando poi docente di inglese a Oxford. Nel 1973, alla morte del padre, era diventato literary executor del Tolkien Estate, dedicandosi a riorganizzare lo sterminato materiale — appunti, carte, racconti — lasciato dal padre e legato all’universo letterario della Terra di Mezzo. Negli anni Christopher Tolkien aveva lavorato alle edizioni degli scritti paterni rimasti inediti (un’operazione criticata da alcuni che accusavano il figlio di eccessiva libertà nell’interpretazione degli scritti paterni) : a lui si devono la cura e la pubblicazione del Silmarillion, uscito per la prima volta nel 1977, oltre che di altri titoli come I figli di Húrin, Beren e Lúthien, La caduta di Gondolin. Quando J.R.R. Tolkien era ancora in vita, Christopher aveva collaborato con lui, condividendone la passione letteraria e seguendo la genesi del corpus che sarebbe poi diventato la saga più celebre di tutta la letteratura fantasy e disegnando le mappe della Terra di Mezzo. In anni recenti Christopher Tolkien era stato protagonista di una polemica che lo aveva visto prendere posizione contro la trasposizione cinematografica del Signore degli Anelli che, a suo dire, avrebbe tradito lo spirito del padre.

·        Morto Stan Kirsch.

Highlander, trovato morto Stan Kirsch: si sarebbe impiccato nel bagno di casa sua. Pubblicato mercoledì, 15 gennaio 2020 su Corriere.it da Simona Marchetti. Si sarebbe tolto la vita impiccandosi sabato scorso nel bagno della sua casa di Los Angeles Stan Kirsch, co-protagonista della serie tv «Highlander», ispirata al celebre film con Christopher Lambert del 1986. Come rivelato dal sito TMZ, a ritrovare il cadavere del 51enne attore sarebbe stata la moglie Kristyn Green, mentre i paramedici giunti poi sul posto non hanno potuto fare altro che confermarne il decesso. «L'11 gennaio abbiamo perso tragicamente il nostro amato Stan Kirsch - si legge in una nota sulla pagina Facebook ufficiale dell'attore - e ne siamo tutti devastati». In seguito anche la moglie dello sfortunato attore ha utilizzato la propria pagina social per ringraziare i fan per l'amore e il sostegno ricevuti. «Non riesco a rispondere ai messaggi, alle telefonate e alle email che ho ricevuto - ha scritto infatti la donna sempre su Facebook - ma li ho letti e ascoltati tutti e sono grata a ciascuno di voi per l'amore di cui mi avete circondata». Diventato famoso per il ruolo di Richie Ryan nel telefilm «Highlander», dove ha recitato dal 1992 al 1998, da dieci anni Kirsch non aveva più un ruolo e attualmente lavorava come insegnante di recitazione. «Senza Stan Kirsch la serie Highlander non sarebbe stata la stessa - hanno commentato gli attori del telefilm sulla pagina social della serie - . Ha portato senso dell’umorismo, gentilezza ed entusiasmo giovanile al personaggio di Richie Ryan per sei stagioni. Ogni volta che abbiamo avuto la possibilità di parlare con Stan, lui era sempre gentile, premuroso e sincero e la sua calda presenza ora ci mancherà». Oltre alla felice esperienza con «Highlander», Kirsch è anche apparso come guest star in alcune serie tv di successo, fra cui «General Hospital», «Jag – Avvocati in divisa» e, soprattutto, «Friends», dove in un episodio della prima stagione aveva interpretato Ethan, uno studente delle superiori che aveva mentito sulla sua età per poter uscire con Monica (Courteney Cox).

Da leggo.it il 15 gennaio 2020. Addio all'attore statunitense Stan Kirsch, famoso per aver interpretato il ruolo di Richie Ryan nel telefilm «Highlander» (1992-98), al fianco del protagonista principale Adrian Paul (Duncan MacLeod). Aveva 51 anni. Secondo quanto ha reso noto la polizia di Los Angeles, Kirsch si sarebbe suicidato. Fonti della polizia hanno riferito al portale internet Tmz che è stata la moglie di Kirsch, Kristyn Green, sabato scorso a trovare l'attore impiccato nella loro casa di Los Angeles. Stan Kirsh era nato a New York il 15 luglio 1968 e iniziò a recitare all'età di 4 anni nelle pubblicità televisive delle zuppe Campbell. Nel 1991 si affermò nella serie tv «Riders in the Sky» e l'anno dopo apparve nella soap opera «General Hospital» e nella sitcom «Una famiglia tutto pepe». Sempre 1992 conquistò il grande successo grazie alla serie televisiva «Highlander» dove compare per sei stagioni e poi ritornò come guest star nell'episodio finale della serie. In una dichiarazione pubblicata anche su Facebook il team del telefilm «Highlander» ha reso omaggio a Kirsch e al suo fondamentale contributo: «Senza Stan Kirsch la serie di Highlander non sarebbe stata la stessa. Lui ha portato il senso dell'umorismo, la gentilezza e l'entusiasmo giovanile per il personaggio di Richie Ryan per sei stagioni. Ogni volta che abbiamo avuto l'opportunità di metterci al passo con Stan era sempre gentile, premuroso e sincero. Era una presenza calorosa e ora ci mancherà». La serie tv era nata come sequel\spin-off del film «Highlander - L'ultimo immortale» (1986) con Christopher Lambert. Stan Kirsch è apparso come guest star in alcune serie televisive di successo come «Jag - Avvocati in divisa», «In tribunale con Lynn» e «Friends». Kirsch ha recitato anche in una decina di film e nel 2004 decise di mettersi dietro la macchina da presa: della pellicola «Straight Eye: The Movie» è stato infatti attore, produttore e regista.

·        E’ morto il giornalista e scrittore Giampaolo Pansa.

Giampaolo Pansa, l'Italia che ci aspetta: "Premier donna islamica e guerra armata". Giampaolo Pansa da Libero Quotidiano il 30 giugno 2020. Esce oggi il libro postumo di Giampaolo Pansa, L'Italia si è rotta (Rizzoli, pp.256, euro 10) in cui il giornalista scomparso lo scorso gennaio racconta la deriva dell'Italia a cominciare dal 2020, anno bisestile e maledetto. Qui sotto ampi stralci del capitolo sulla crisi economica. La crisi economica devastante vide anche il fiorire dei mercatini della povertà. Erano luoghi all'aperto dove, a poco a poco, cominciarono ad apparire bancarelle improvvisate che vendevano una merce speciale: le ricchezze nascoste negli armadi e nei cassetti di molte case. Appartenevano a famiglie che si vedevano costrette a cederle. Per ricavarne un piccolo gruzzolo in grado di rendere meno brutale la difficoltà di mettere insieme il pranzo con la cena. Sui banchi dei mercatini venivano offerti corredi conservati con cura per anni. Lenzuola e coperte di tessuto prezioso. Tovaglie ricamate usate poche volte per pranzi di Natale e Capodanno. Abiti maschili e femminili di ottimo taglio, acquistati in epoche fortunate in negozi che li vendevano a prezzi allora ritenuti abbordabili. Buone scarpe inglesi di cuoio ormai scomparse. Camicie americane diventate introvabili. Servizi di piatti, cucchiai, forchette e coltelli che le padrone di casa si vedevano costrette a cedere con la morte nel cuore. E poi macchine fotografiche, cineprese, televisori, computer, cellulari, iPad, tablet. Lo stesso accadeva per piccoli gioielli in oro e argento: collane, braccialetti, orecchini, anelli, persino fedi nuziali. Di solito venivano ceduti a una delle tante agenzie che inalberavano la medesima insegna: «Compro oro e argento».(...) A Roma i mercatini della povertà erano spuntati in quasi tutti i quartieri.

MERCE IN VENDITA. Il Narratore, sempre curioso di capire come stava cambiando l'Italia sotto la sferza della crisi, amava visitarli. Gli piaceva osservare quello sorto in piazza Navona, nel cuore della capitale, a un passo dal Senato. Nei primi tempi qui erano comparse non più di dieci bancarelle (...). Lui osservava la merce in vendita, ma era attratto specialmente da chi la offriva ai possibili acquirenti. Erano soprattutto signore fra i quaranta e i cinquant' anni, all'apparenza di ceti un tempo fortunati e adesso messi alle strette dall'incalzare della crisi (...). Una domenica mattina, il Narratore si trovò di fronte a una sorpresa. Riconobbe una delle bancarellaie e venne riconosciuto da lei. Era una sua vecchia fiamma: Giovanna Z., una signora di sessantasette anni, alta, bella, capelli neri, sguardo ardente, un tantino formosa. Gli bastò scambiare qualche parola con lei per rivedere una storia d'amore che li aveva legati per tanti mesi. Tutto era cominciato all'inizio del 1980, quando lei aveva ventisei anni. In quel tempo il Narratore lavorava al «Corriere della Sera» e Giovanna era un'impiegata dell'ufficio stampa dell'Eni. Si erano incontrati per caso a una conferenza dell'ente petrolifero e si erano piaciuti subito. A dichiararsi era stata lei, spinta dal carattere impulsivo che le favoriva scelte improvvise e coraggiose. Qualche giorno dopo, Giovanna lo aveva cercato alla redazione romana del «Corriere». Confessò che voleva rivederlo e gli propose di incontrarla la sera seguente, nella casa di una collega che abitava in un minuscolo appartamento dietro il Senato (...). La loro relazione proseguì per parecchi mesi. Giovanna non era sposata e neppure fidanzata (...). Dopo un anno lei lo lasciò, senza una ragione apparente. E non lo cercò più. In seguito il Narratore apprese che si era fidanzata con un giovane manager. Lo sposò e mise al mondo due figli. E adesso Giovanna era lì davanti alla sua bancarella in piazza Navona. Non lontano da quello che per mesi era stato il loro rifugio. Le domandò: «Come mai sei qui?». Lei sembrava incapace di rispondergli. Poi si fece coraggio e spiegò: «Mio marito è stato licenziato come altri della sua azienda. Per un manager della sua età non c'è nessuna via di uscita. Dopo decenni di benessere, adesso abbiamo problemi pesanti. I nostri figli sono andati a cercare lavoro all'estero. Ma noi due siamo alle prese con difficoltà di bilancio, diciamo così. Ho scoperto di tenere negli armadi molte cose inutili, ma belle. Cerco di venderle su questa bancarella. Mio marito è rimasto a casa perché si vergogna a stare in piazza. Io non mi vergogno di niente, tu lo sai bene». Quindi aggiunse: «Del resto qui siamo in tante».

L'AIUTO ECONOMICO. Il Narratore disse: «Se hai problemi immediati di denaro potrei aiutarti, anche se non sono ricco». Giovanna gli sorrise: «Mi aspettavo di sentirtelo dire. Ti ringrazio. Però non accetterei un euro da te. Spero soltanto che su questa piazza non arrivi più la banda delle Harley Davidson». «Chi sono?» domandò il Narratore. Giovanna spiegò: «Giovinastri che viaggiano su quelle grosse motociclette. Hanno già fatto due incursioni in piazza Navona. Si sono diretti verso le bancarelle dove si vendono oggetti d'oro e d'argento. Hanno scaraventato per terra le signore che le custodivano e arraffato tutto». «La polizia non è intervenuta?» chiese lui. Giovanna alzò le spalle: «Vedi degli agenti in questa piazza? Io no. E tu neppure. Siamo rimasti soli, con l'unica compagnia delle nostre disgrazie. «L'Italia è un Paese perduto. Il fisco ci strozza» continuò Giovanna. «La Guardia di finanza si accanisce su chi è debole e non morde mai i veri ricchi. E non c'è soltanto questo. Tutto il clima mondiale sta cambiando. Tu sei nato in una città che si affaccia sul Po. Ci sei ritornato di recente?». Il Narratore le confessò: «Mi piacerebbe ritornarci e fare qualche passeggiata su via Roma, la strada che attraversa il centro. Ma ho paura di imbattermi in qualche fiamma della mia giovinezza, distrutta dalla vecchiaia e diventata una megera spaventosa». Giovanna gli sorrise: «Sei sempre lo stesso ragazzaccio. Ma io volevo chiederti se sei andato a vedere il Po. Leggo sul giornale che il caldo e le piogge scarse lo stanno prosciugando. E prima o poi il più grande fiume d'Italia sparirà. La crisi idrica colpisce l'intera Pianura Padana. Ci aspetta un'apocalisse ()». Il Narratore, divertito: «Vedo che hai ancora la forza di preoccuparti del clima mondiale. Sei una combattente sempre in servizio. Ma non esagerare, ti prego!». Poi acquistò un paio di scarpe inglesi del tutto nuove. Non ne aveva bisogno, ma non voleva deludere Giovanna. Poi la baciò e si diresse verso casa, pensando che la governante l'avrebbe sgridato per quella spesa inutile.

Biografia di Giampaolo Pansa a cura di Giorgio Dell'Arti per cinquantamila.it. 

Casale Monferrato (Alessandria) 1 ottobre 1935. Giornalista. «La mia patria morale è da sempre la Resistenza ma non accetto la retorica falsa secondo la quale di qui c’erano tutti i buoni e di là i cattivi. La sinistra che afferma ancora questa grande bugia reca danno solo a se stessa».

«Mio padre aveva trascorso l’infanzia nella miseria: penultimo di sei ragazzini orfani, figli di un bracciante a giornata. Morto di colpo mentre zappava il campo di un altro: Giovanni Pansa, classe 1863, di Pezzana, provincia di Vercelli. Mia nonna, Caterina Zaffiro, classe 1869, anche lei vercellese di Caresana, non aveva voluto affidare i bambini alla carità pubblica. E li aveva tirati su da sola, con la ferocia di una leonessa. Per farli mangiare, andava a rubare. Il suo motto diceva: la roba dei campi è di Dio e dei santi, dunque pure di una disgraziata come me».

«Papà e mamma erano arrivati soltanto alla quarta elementare lui e alla quinta lei. Per poi andare subito al lavoro: come guardiano delle mucche e come piccinina in una pellicceria».

Laureato in Scienze politiche con una tesi su La guerra partigiana tra Genova e il Po (trasformata poi in un libro, Laterza 1967), vinse il premio Einaudi (500.000 lire) e fu chiamato alla Stampa, dove entrò l’1 gennaio 1961, praticante alla redazione Province.

La sera del 22 novembre 1963, dovendosi fare il giornale sull’attentato a Kennedy, il direttore Giulio De Benedetti piombò nella redazione Esteri: «Questa cronaca non va bene, non va bene assolutamente. Riscriverla per la seconda edizione». Subito dopo: «Anzi, no. Voi degli Esteri siete troppo stanchi». Il direttore si girò, e alle sue spalle c’era la redazione Province. «Lei e lei. Rifatela voi due, questa cronaca». I due erano Giuseppe Mayda e Pansa: «Seguite voi due questo fatto anche nei prossimi giorni, fino a che il nostro inviato non sia giunto sul posto». Tirarono avanti fino al quarto giorno, quando arrivò a tutti e due una lettera del segretario di redazione Fausto Frittitta che diceva: «Il direttore mi incarica di comunicarLe la sua soddisfazione per il servizio da Lei svolto sull’assassinio del presidente Kennedy». Seguiva l’annuncio di un aumento di stipendio.

Pansa dice di aver imparato in questi primi anni le cinque regole che sono alla base di un giornale ben fatto: redazioni ridotte al minimo indispensabile; giornalisti pronti a far tutto; rapidità; unico giudice il direttore, dittatore assoluto; se si fa bene, si sia premiati e se si fa male si sia puniti.

Al Giorno dal 1964, al direttore Italo Pietra che gli chiedeva se preferisse fare l’inviato in Vietnam o a Voghera rispose: «A Voghera». Pietra: «Risposta esatta. Se avessi detto Vietnam non ti avrei preso». Nel 1968 tornò alla Stampa (direttore Ronchey).

Dal 1972 redattore capo al Messaggero, si trovò male anche per l’ostilità della redazione, nel 1973 andò al Corriere della Sera come inviato: colpo più clamoroso l’intervista a Enrico Berlinguer del 1976 in cui alla domanda se non temesse di fare la fine di Dubcek (il segretario del Partito comunista cecoslovacco che nel 1968 aveva tentato di liberalizzare il suo paese ed era stato spazzato via dai carri armati sovietici) ebbe per risposta: «No, perché sono da questa parte dell’Occidente e, con la protezione della Nato, mi sento più sicuro».

Nel 1977, dopo le dimissioni del direttore Ottone, lasciò il Corriere per Repubblica.

A Repubblica (è questo il periodo in cui lo si vede ai congressi dei partiti col binocolo perché non vuole farsi sfuggire nessun tic degli oratori) cominciò presto a fare il vicedirettore con Gianni Rocca e contribuì allo straordinario successo (in copie e peso politico) del giornale. Alla fine degli anni Ottanta inaugurò su Panorama (direttore Claudio Rinaldi) la rubrica “Bestiario”, poi portata all’Espresso di cui diventò condirettore. Incarico che ha lasciato il 30 settembre 2008 per passare al Riformista, fino al 2010, quando passa a Libero dove porta il suo “Bestiario”.

Ha scritto molti libri, tra cui: L’esercito di Salò (Istituto della Resistenza e poi Oscar Mondadori, 1970), Comprati e venduti (Bompiani 1977), Ottobre addio (Mondadori 1982), Carte false (Rizzoli 1986), Intervista sul mio partito (a Luciano Lama, Laterza 1987), Lo sfascio (Sperling 1987), Questi anni alla Fiat (intervista con Cesare Romiti, Rizzoli 1988), Il Malloppo (Rizzoli 1989) ecc. Dopo che Rizzoli rinunciò alla pubblicazione de L’intrigo, giudicato troppo contrario a Berlusconi (in quel momento oltre tutto Berlusconi distribuiva con la Rizzoli Sorrisi e Canzoni), passò a Sperling & Kupfer, per poi tornare a Rizzoli nel 2008.

Gli ultimi libri hanno ripreso il vecchio tema della Resistenza, visto però dalla parte dei perdenti. La grande bugia (Sperling & Kupfler, 2006), I tre inverni della paura (2008), I vinti non dimenticano (2010), La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti (2012), Bella ciao - Controstoria della Resistenza – (2014). Grandissime vendite e grandissime polemiche. Su Il sangue dei vinti (Rizzoli, 2003): «Vergognoso, non revisionista ma falsario» (Aldo Aniasi), «Una vergognosa operazione opportunista» (Giorgio Bocca), «Libro vergognoso di un voltagabbana» (Liberazione), «Una cinica operazione editoriale» (Sandro Curzi). Ernesto Galli Della Loggia: «Che cosa gli rimproverava la sinistra più conservatrice e aggressiva, quella, come lui la chiama, degli “uomini di marmo”? Semplicemente di aver rotto il tabù delle migliaia di fascisti (o presunti tali, o addirittura, in più di un caso, di antifascisti perfino) brutalmente fatti fuori dai partigiani all’indomani del 25 aprile». Giorgio Bocca dopo aver letto La grande bugia: «Io sono d’accordo coi francesi, robe simili vanno proibite per legge».

«Molti leader di sinistra sono persone mediocri, arroganti, boriose. Afflitte soprattutto da un vizio: l’ignoranza. Una malattia diffusa che li fa essere infastiditi da tutto ciò che non rientra nei loro poveri schemi culturali. Quando uscì il mio Sangue dei vinti i tipi sinistri non erano in grado di smentire i fatti che raccontavo: ma divennero furibondi perché incrinavo un tabù, quello della Resistenza, che li aveva aiutati a campare per tanti anni. Coprendo la verità con il mantello della retorica interessata e di bugie senza vergogna».

«Dopo una vita trascorsa nel giornalismo schierato, de sinistra, Pansa ha maturato negli ultimi anni, specie per come sono stati accolti i suoi libri sulla guerra civile tra partigiani rossi e repubblichini dai Torquemada ex e post del pensiero unico, un giustificato disamore per la sinistra, forse antropologicamente superiore a ogni altra tribù nazionale ma con un QI politico e un respiro culturale, sia detto senza offesa, di poco superiore a quelli del paramecio, organismo unicellulare e magari, non mi stupirei, anche un po’ trinariciuto». (Diego Gabutti) [Iog, 17/4/2012].

Da ultimo anche un paio di libri fortemente critici verso i giornalisti: Carta straccia. Il potere inutile dei giornalisti italiani (Rizzoli 2011) La Repubblica di Barbapapà (Rizzoli 2013, «Barbapapà è il soprannome che la redazione di Repubblica diede ad Eugenio Scalfari»).

«Sono un umorale, un ingenuo, a volte m’incavolo, spesso sbaglio. Ma non ho mai scritto una riga per calcolo o fatto polemiche per opportunismo».

«Ha il giornalismo nel sangue, anzi in Italia ne è uno dei capiscuola e officia i riti di questo mestiere con un suo scrupolo particolare. Alle 8,30 del mattino ha già letto dieci quotidiani, si devono a lui metafore entrate nel linguaggio comune come la definizione di “Balena bianca” per la Dc» (Maurizio Caprara).

«Le cattiverie di Pansa sono leali, mai subdole, e non cancellano un’indulgenza di fondo verso gli attori della commedia umana. Il “Bestiario” cerca di applicare a modo suo il principio costituzionale del giusto processo» (Claudio Rinaldi).

Antiberlusconiano («con giudizio», dice lui). «In passato ho creduto in Prodi. Ora ho perso anche l’ultima illusione». Nel maggio 2007 annunciò che non sarebbe più andato a votare. Frequenti bastonate alla sinistra estrema, tra i suoi bersagli preferiti Bertinotti, ribattezzato “Il parolaio rosso”.

Giampaolo Pansa morto a Roma a 84 anni: Bestiario e guerra civile, addio a un gigante del giornalismo. Libero Quotidiano il 12 Gennaio 2020. Giampaolo Pansa è morto a Roma a 84 anni: è stato uno dei più grandi e influenti giornalisti italiani del Secondo Dopoguerra. Nato a Casale Monferrato, in Piemonte, è stato vicedirettore di Repubblica sotto Eugenio Scalfari e condirettore dell'Espresso. Negli anni '70 è stata una firma storica anche per il Corriere della Sera, per il quale era tornato a scrivere nel novembre 2019 curando la rubrica "Ritorno in Solferino". Grande firma di Libero con Vittorio Feltri e poi con Maurizio Belpietro, ha curato per anni la sua famosissima rubrica Bestiario, con cui ha stilato ritratti indiscreti dei grandi protagonisti della politica italiana. Appassionato di storia, ha sviscerato con vari articoli e libri il tema della Resistenza e della guerra civile italiana tra partigiani e fascisti senza pregiudizi o ipocrisie, provocando le ire di quella sinistra in cui lo stesso Pansa, spesso da "eretico", si riconosceva. Nel novembre 2017 aveva sofferto per la improvvisa morte del figlio Alessandro, importante manager di Finmeccanica e Feltrinelli a cui aveva dedicato una commovente lettera pubblica di addio. Da tutta la redazione di Libero un saluto commosso a un grandissimo collega.

E’ morto il giornalista e scrittore Giampaolo Pansa. Redazione de Il Riformista il 12 Gennaio 2020. Il giornalista Giampaolo Pansa è morto questa sera a Roma, all’età di 84 anni. Storica penna del giornalismo italiano, nato a Casale Monferrato nel 1935, è stato vicedirettore del quotidiano La Repubblica e condirettore de L’Espresso. Il suo esordio nel mondo del giornalismo risale al 1961, per La Stampa. Dal 1977 al 2008  invece la lunga collaborazione con La Repubblica e L’Espresso. Poi esperienze anche per il settimanale Panorama, per Il Messaggero e  Il Giornale. E’ stato anche storico, autore di romanzi e saggi in gran parte incentrati sugli anni della guerra partigiana, un argomento che era stato anche al centro della sua tesi di laurea in Scienze Politiche , dove era stato allievo dello storico Alessandro Galante Garrone. Alla fine degli anni ’80 del Novecento lancia dalle pagine di Panorama la sua celebre rubrica Il Bestiario , che poi porta sull’Espresso ed infine su Libero. Tra i libri più noti, il Sangue dei vinti, nel quale mette a punto le sue idee poi accusate di revisionismo sulla Resistenza, Bella Ciao controstoria della Resistenza. “Mi addolora la scomparsa di Giampaolo Pansa, ha accompagnato la politica italiana con la lente spietata del vero giornalista, fino alla fine. Certe persone non dovrebbero morire mai”. Lo scrive su Twitter Gianfranco Rotondi, deputato di Forza Italia. “Apprendo con dolore della scomparsa di Giampaolo Pansa. Leggerlo, conoscerlo, confrontarsi con lui è sempre stato una occasione di crescita culturale e morale. Ha cancellato omissioni, menzogne e luoghi comuni. Con il coraggio di chi ha vissuto e raccontato la storia più recente e drammatica d’Italia. I suoi libri e il suo coraggio intellettuale sono una ricchezza della Nazione che ne farà per sempre un punto di riferimento di libertà e di verità”. Lo dichiara il senatore Maurizio Gasparri (Forza Italia).

Morto il giornalista e scrittore Giampaolo Pansa: aveva 84 anni. Jacopo Bongini il 12/01/2020 su Notizie.it. È morto all'età di 84 anni il giornalista e scrittore Giampaolo Pansa, da quasi sei decenni uno dei protagonisti del mondo dell'informazione italiana. È morto Giampaolo Pansa; il celebre giornalista e scrittore italiano è deceduto all’età di 84 anni nella serata del 12 gennaio. Nato nel 1935 a Casale Monferrato, nel corso della sua lunga carriera Pansa collaborato con numerosi quotidiani e periodici tra cui La Stampa, Il Messaggero, L’Espresso e Panorama ed era considerato una delle più autorevoli firme del giornalismo italiano. Negli ultimi anni divenne noto al grande pubblico per le sue inedite e spesso ardite analisi storiche sul fenomeno della Resistenza italiana.

Morto Giampaolo Pansa. Giampaolo Pansa inizio a lavorare come giornalista nel 1961, scrivendo per il quotidiano torinese La Stampa. All’epoca divenne celebre il suo reportage del disastro del Vajont per il quale si recò nei luoghi della tragedia al confine tra il Veneto e il Friuli e che il cui incipit suonava così: “Vi scrivo da un paese che non esiste più”. Dopo una parentesi di quattro anni al quotidiano Il Giorno, nel 1969 tornò a La Stampa dove documentò i convulsi giorni della strage di Piazza Fontana. Negli anni 70′ diventa inviato speciale per il Corriere della Sera e per La Repubblica, mentre negli anni 80′ inizia la sua collaborazione con i grandi periodi nazionali come Epoca, L’Espresso e Panorama. Proprio su quest’ultimo da inizio alla sua celebre rubrica Il Bestiario, che proseguirà fino ai nostri giorni attraversando diverse testate. Negli ultimi anni passò ai quotidiani Libero e La Verità – entrambi diretti da Maurizio Belpietro – mentre la sua ultima collaborazione è stata quella con il Corriere della Sera iniziata nel settembre 2019.

Il libri sulla Resistenza. Una consistente parte della carriera di Giampaolo Pansa è stata incentrata sull’analisi storico-sociale del fenomeno della Resistenza italiana, che l’ha portato ad essere frequentemente criticato e tacciato di revisionismo per i suoi giudizi sui partigiani e sui militari della Repubblica Sociale Italiana che spesso divergevano dall’opinione comune sul tema. Malgrado Pansa si sia sempre occupato di questa tematica lungo tutta la sua carriera (la sua tesi di laurea in scienze politiche s’intitolava Guerra partigiana tra Genova e il Po), fu con il saggio del 2003 Il Sangue dei vinti che la figura del giornalista come storico della Resistenza divenne nota anche al grande pubblico.

È morto il giornalista Giampaolo Pansa, aveva 84 anni. Pubblicato domenica, 12 gennaio 2020 su Corriere.it da Aldo Cazzullo. È morto il giornalista Giampaolo Pansa, aveva 84 anni. Padre del «Bestiario», Pansa aveva ricominciato a scrivere per il Corriere della Sera lo scorso settembre. Per il giornalista — nato a Casale Monferrato nell’ottobre del 1935 — quello al Corriere era stato un rientro, dopo il quinquennio 1973-1977. «Credo di essere il cronista che ha lavorato per più giornali: ma sono ancora qui, a rompere le scatole», aveva detto a Davide Casati. Pansa è stato uno dei cronisti e dei commentatori più noti ai lettori italiani: dal 1961 — quando ottenne il suo primo contratto giornalistico, alla Stampa — ha raccontato come nessuno (e come nessuno ha fustigato) la società e la politica del nostro Paese. Lo ha fatto scovando scoop (a partire dallo scandalo Lockheed), inventando locuzioni e nomi entrati di diritto nella storia (uno per tutti: la «Balena bianca»), intervistando i protagonisti (al Corriere, e a Pansa, Enrico Berlinguer consegnò le frasi con le quali chiariva che non desiderava l’uscita dell’Italia dalla Nato) e descrivendo il «bestiario» (altra sua invenzione lessicale) della nostra scena politica.

Addio a Giampaolo Pansa, fu vicedirettore di Repubblica e condirettore de l'Espresso. Il giornalista e scrittore si è spento a Roma. Aveva 84 anni. Simonetta Fiori il 12 gennaio 2020 su La Repubblica. E’ difficile immaginare il giornalismo senza Giampaolo Pansa, protagonista di oltre mezzo secolo di carta stampata. Uno dei maggiori cronisti d’Italia è scomparso all’età di 84 anni. Nato il primo ottobre del 1935 a Casale Monferrato, esordì a 26 anni alla Stampa, ma poi ha frequentato le redazioni delle testate più autorevoli, lasciando ovunque una traccia della sua forte personalità. Impetuosa, travolgente, anche generosa. La sua firma è legata ai capitoli più importanti della storia italiana, a cominciare dal disastro del Vajont, raccontata per il quotidiano diretto da Giulio de Benedetti. Sul Giorno di Italo Pietra dedicò i suoi articoli alle trasformazioni dell’Italia negli anni del boom, con le contraddizioni del passaggio da Paese contadino a realtà industriale. Tornato alla Stampa nel 1969 fu incaricato da Alberto Ronchey di scrivere della strage di piazza Fontana. E pochi anni più tardi, al Corriere della Sera, firmò insieme a Gaetano Scardocchia l’inchiesta che contribuì a svelare lo scandalo Lockeed. Nel 1977 l’approdo a Repubblica e l’inizio del suo lungo sodalizio professionale e umano con Eugenio Scalfari e Carlo Caracciolo. Nel 1978 Pansa assume la vicedirezione del quotidiano, affiancando Scalfari nelle scelte più difficili imposte dalla stagione del terrorismo. Oltre che autore di straordinari reportage, Pansa fu inventore di uno stile giornalistico che ha fatto scuola. “Giornalista dimezzato”, “Dalemoni” (sull’intesa tra D’Alema e Berlusconi), “Parolaio rosso” (Bertinotti), “Balena bianca” (la Democrazia Cristiana) sono soltanto alcuni lemmi di un suo personalissimo lessico con cui ha svecchiato la cronaca politica italiana, scrutata con il suo leggendario binocolo ai congressi di partito. Pochi come Pansa hanno avuto il passo del rubrichista: per l’Espresso nel 1984 – direttore Giovanni Valentini – ideò la fortunata rubrica "Chi sale e chi scende" (che ancora oggi vanta molti imitatori) e nel 1987 esordì su Panorama con il Bestiario (direttore Claudio Rinaldi), poi trasferito su l’Espresso. Anche i titoli dei suoi saggi restituiscono la verve polemica, rivolta soprattutto al mondo dei giornali: "Comprati e venduti". "Carte false". "Lo sfascio". "Il malloppo". "Carta straccia". Rivendicava con orgoglio il ruolo di “rompiscatole”, epiteto che diede anche il titolo a un libro autobiografico. Al lavoro del giornalista, Pansa ha affiancato per cinquant’anni quello dello storico. A cominciare dalla tesi di laurea dedicata alla “Guerra partigiana tra Genova e il Po”, sotto il magistero di Guido Quazza. A incoraggiarlo verso gli studi storici fu anche Alessandro Galante Garrone, suo professore di Storia moderna e contemporanea negli anni torinesi dell’università. Da quel mondo di studi convintamente antifascista, Pansa si sarebbe allontanato tra gli anni Novanta e il nuovo secolo, quando cominciò il suo lungo viaggio attraverso le zone oscure del partigianato. Il primo titolo di successo fu "Il Sangue dei vinti" che suscitò polemiche non lievi: nelle vesti di aguzzini e seviziatori, tra il maggio del 1945 e la fine del 1946, s’incontrano alcuni dei partigiani che avevano liberato il Paese da nazisti e fascisti. Storie di stupri e di torture, di cadaveri irrisi e violati, di fucilazioni di massa e crimini gratuiti. «Dopo tante pagine scritte sulla Resistenza e sulle atrocità commesse dai Repubblichini – disse Pansa a Repubblica – mi è sembrato giusto vedere l’altra faccia della medaglia. Ossia quel che accadde ai fascisti dopo il crollo della Repubblica sociale». Alla passione storiografica Pansa affiancava la felicità di una scrittura narrativa di rara limpidezza: il libro divenne subito un bestseller, segnando l’avvio di un “ciclo di vinti” dedicato alle “efferatezze” della Resistenza: una serie di libri destinati a scalare le classifiche dei più venduti. Intorno alle sue opere nacque un accesso dibattito. Anche Repubblica discusse i presupposti e il metodo del suo lavoro storico-narrativo, in un passaggio politico in cui la destra berlusconiana cercava di demolire la storia antifascista da cui era nata la Repubblica italiana. E alle critiche Pansa reagiva alla sua maniera, protestando con veemenza, dedicando alle polemiche pagine di libri successivi, ma senza mai negare l’abbraccio affettuoso del vecchio collega. Giampaolo Pansa lascia la sua compagna amatissima Adele Grisendi. Solo due anni fa il lutto che gli fece perdere voglia di vivere: la scomparsa del figlio Alessandro, ex amministratore delegato di Finmeccanica.

Massimo Fini: “Era un cronista di razza: maniaco del dettaglio, da vero professionista”. Massimo Fini Il Fatto Quotidiano, 14 gennaio 2020. Per la nostra generazione, che segue da vicino la sua, Giampaolo Pansa, insieme ad Andrea Barbato (“i due cavalli di razza”) è stato un maestro. Di professionalità innanzitutto. Un esempio per la fatica e la diligenza che metteva nel suo lavoro e l’impegno, così difficile quando non si è dei talenti naturali come Montanelli, a dare ai suoi articoli una adeguata qualità di scrittura. Fra i tanti mi ricordo un ritratto, splendido, dell’armatore Costa che iniziava così: “C’è un Dio che invecchia in cima a un grattacielo”. Se un qualche fatto era avvenuto, poniamo, alle sette del mattino, il giorno dopo per raccontarlo lui si recava alla stessa ora sul posto per vedere come batteva il sole su una certa casa e la luce in cui si era svolto. Era un maniaco del dettaglio come deve essere ogni vero professionista. Da buon piemontese era ligio al servizio, un soldatino di piombo, un doverista. Mi sento di dire che al mestiere, soprattutto nei suoi anni migliori, ha sacrificato tutto o quasi. Una volta mi raccontò che quando suo figlio divenne grande chiedeva a sua moglie “ma come era Alessandro da piccolo?”. In pratica non lo aveva visto mai travolto dalle esigenze del mestiere, da quei servizi scritti uno dopo l’altro seguendo l’inesorabile  martellamento della cronaca. Del resto fra di noi si dice che “il giornalista nasce orfano e muore vedovo” (ma parliamo naturalmente di un altro giornalismo, di un giornalismo di altri tempi, che ha poco o nulla a che fare con quello pressapochista di oggi). Il suo mondo, almeno nella prima parte della carriera, appartiene alla cronaca, alla grande cronaca. Non era un opinionista, era un giornalista. E infatti il Corriere della Sera, quando esistevano ancora certe regole, con suo grande disappunto non gli ha mai concesso il “fondo”, l’editoriale di prima pagina. La sua prosa era nitida, limpida, direi quasi semplice, lontana dall’espressionismo di un altro notevole giornalista che per età lo segue da vicino, Paolo Guzzanti, ma altrettanto efficace. Poiché gli mancava qualsiasi esperienza internazionale –ed è questo uno dei suoi grandi limiti- finì per dedicarsi invece che ai fatti e alle tragedie della vita al mondo della politica. E’ questa la fase, a mio avviso, meno convincente della sua carriera. Ha creduto di nobilitare il modestissimo materiale con cui aveva a che fare con i soprannomi e le maiuscole: “la Balena Bianca, l’Elefante Rosso, il Bisciobalena”. Insomma si era chiuso in un mondo dall’orizzonte ristrettissimo e a furia di fissare per anni il mostro ne aveva preso il linguaggio, i tic, l’opportunismo. Detestava Giorgio Bocca intuendo probabilmente che era di un’altra categoria e quando morì non fu né elegante né generoso affermando: “Non ci mancherà”. Il grande successo lo ottenne con la pubblicazione de Il sangue dei vinti che dava conto delle violenze ad opera dei vincitori comunisti sui fascisti o presunti tali (le nefandezze del famoso “triangolo rosso”). Un atto di coraggio perché Pansa veniva comunque dal mondo di sinistra anche se non era mai stato un ottuso estremista (mi ricordo che quando seguivamo le “piste nere”, in una sorta di pool che si era specializzato in quest’ambito, cercava di tamponarne gli eccessi antifascisti). Ma anche questo suo ripensamento sulla Resistenza ha dei limiti. Pansa ha preso a piene mani dalla documentatissima e ineccepibile  Storia della guerra civile in Italia di Giorgio Pisanò. Ma siccome Pisanò era un fascista, o direi piuttosto, avendolo conosciuto molto bene, un ‘mussoliniano’ che a questa sua passione romantica ha sacrificato quella che poteva essere una grande carriera, nessuno, Pansa compreso, a quel tempo gli diede alcun credito. Inoltre, com’è ovvio, era molto più facile scrivere quelle cose in un’Italia che si era spostata a destra, che in un’Italia in cui dominava l’egemonia di sinistra, cioè nei tempi in cui le scriveva Pisanò. A Pansa è sempre mancato qualcosa. Per fare un paragone calcistico Lukaku, il centravanti dell’Inter, non diverrà mai Robert Lewandowski. A Gianpaolo Pansa è mancato quell’x factor per diventare Montanelli o Bocca. Però ci mancherà. E’ un’altra parte della nostra vita che se ne va.

Giampaolo Pansa e il potere di narrare. Scompare a 84 anni un grande protagonista del giornalismo del Novecento. Per "L'Espresso", di cui è stato condirettore, ha composto ogni settimana il suo Bestiario, ha inventato una mostruosa creatura mitologica, Dalemoni. E ha scritto il suo articolo più dolente, dopo la strage di mafia di via D'Amelio. Marco Damilano il 12 gennaio 2020 su L'Espresso. Pubblichiamo il ritratto appassionato che Marco Damilano dedicò a Giampaolo Pansa in occasione del suo ottantesimo compleanno il 1 ottobre del 2015. Sghignazzano. Capi e gregari di questa banda di macellai chiamata Brigate rosse entrano nelle gabbie e sghignazzano. Gettano un'occhiata distratta ai parenti delle loro vittime, alle madri, alle mogli, ai figli degli uomini che hanno ucciso o fatto uccidere, e sghignazzano... Povero Moro! E poveri gli agenti della sua scorta, e poveri Varisco, e Minervini, e Tartaglione, e Bachelet, e tutti gli oscuri poliziotti di cui nessuno più ricorda il nome. Tanto sangue versato, tanto dolore, tante famiglie distrutte, tante pagine di giornale scritte e riscritte e poi riscritte un'altra volta, tante parole sprecate sulla “geometrica potenza” di via Fani, per poi finire qui, tutti quanti, morti e vivi, a farci ridere in faccia da questa banda di disperati...Quindici aprile 1982, quel giorno sulla prima pagina di “Repubblica” c'è il reportage sull'apertura a Roma del processo alle Brigate rosse per il sequestro e l'omicidio di Aldo Moro e gli altri delitti nella Capitale. Il titolo: “Le donne in nero senza più lacrime”. La firma è di Giampaolo Pansa. Dalla Sardegna viene una madre vestita di nero. «Lei chi è signora?», domanda uno di noi. Ha un viso dolce, gli occhi gonfi, le labbra serrate. Si volta verso il cancello, con lo sguardo a terra, come ostinandosi a non rispondere. Qualcuno insiste, e allora lei mormora: «Sono la mamma di Ollanu, l'agente di polizia Ollanu Pierino. Me l'hanno ucciso in piazza Nicosia. Che posso dirle signore? Niente, signore. Grazie, signore». Dovrebbe essere un semplice pezzo di cronaca: l'aula-bunker, i metal detector, i terroristi che ridono dietro le sbarre. E invece la scrittura di Pansa trasforma il resoconto di quella giornata in un archetipo universale, il confronto muto a distanza tra due mondi inconciliabili, il mondo dei carnefici e il mondo delle vittime. «Una linea netta li separa, e nessuna incertezza è possibile». Lo squadrone della morte se ne va dal bunker, intonando l'Internazionale. Tuttavia, cantato da quelle facce, questo inno usurpato non dà emozioni. No, stia tranquilla, signora Ollanu: è un trucco che non funziona più. Ti puoi innamorare per sempre del giornalismo, se sei un ragazzo, dopo aver letto un articolo così. E forse anche della vita.

Giampaolo Pansa compie oggi ottant'anni. Il figlio di Ernesto, operaio del telegrafo, e di Giovanna, modista, nato a Casale Monferrato il primo ottobre 1935, festeggia il compleanno con il primo posto in classifica del suo ultimo libro “L'italiaccia senza pace” (Rizzoli). Comincia a preparare, come ogni settimana, il suo Bestiario su “Libero”. Nell'ultimo, domenica scorsa, ha immaginato un talk televisivo dei renziani pensato a Palazzo Chigi e condotto da Luca Lotti. Lavora tra ritagli, articoli, libri, pochissime telefonate. In mezzo alle parole e alle immagini Pansa vive dall'inizio degli anni '60. Da quando, per la prima volta, mise piede in un giornale dopo la laurea a Torino, allievo di Norberto Bobbio, Luigi Firpo, Alessandro Galante Garrone, «i maestri che hanno lasciato un segno indelebile nella mia vita, i professori che più amavamo, i nostri idoli, le nostre rockstar». Era la “Stampa” diretta da Giulio De Benedetti, il mitico Gidibì. Accolse così il neo-laureato: «È meglio che questo giovanotto non sappia nulla: imparerà presto e si adatterà subito al nostro lavoro». Il primo articolo assegnato (da Carlo Casalegno che sarà ucciso dai terroristi rossi nel 1977) è una recensione di “Il giorno più lungo”, il libro di Cornelius Ryan sullo sbarco in Normandia. Pansa scrive, lima, consegna, attende con ansia la pubblicazione. «Dopo otto giorni fui convocato da Gidibì. Teneva il mio articolo in alto, fra pollice e indice, penzolante come un impiccato. Poi sentenziò: “Questa non è una recensione. È una cronaca sommaria dello sbarco in Normandia, superata e noiosa”. Non aggiunse altro. La cronaca venne stracciata sotto i miei occhi. Con puntiglio sadico, fu ridotta in pezzi sempre più piccoli, gli ultimi uguali a coriandoli. E finì, sfarfallando, sulla scrivania di Gidibì: una nevicata orrenda, che non avrei dimenticato più».

Dopo la nevicata, però, Giampaolo non si è fermato, per fortuna. È l'unico tra i grandi giornalisti ad aver lavorato in quasi tutti i quotidiani: "Stampa", "Giorno", "Messaggero", "Corriere della Sera". Poi la vice-direzione di “Repubblica” accanto a Eugenio Scalfari, per quattordici anni, dal 1977 al 1991. E la condirezione dell' “Espresso” con Claudio Rinaldi, Giulio Anselmi, Daniela Hamaui, fino al 2008. Dopo quasi trent'anni ha lasciato il gruppo Espresso per scrivere sul “Riformista” e quindi su “Libero”. In questi decenni ha cambiato il nostro modo di scrivere, il racconto della politica e non solo. Non c'è stato cronista che non abbia provato a imitarlo, magari inconsciamente. «Scrivo da un paese che non esiste più...», forse l'attacco più famoso e più moderno del giornalismo italiano, oggi tutti lo ripetono pigramente, lo citano a loro insaputa in occasione di ogni calamità, un terremoto, un'alluvione. Pansa lo inventò il 10 ottobre 1963 in mezzo al fango e ai morti di Longarone spazzato via dall'esplosione della diga del Vajont. Quell'attacco geniale era avanti di decenni sugli altri. I grandi inviati erano rimasti in albergo, lui era andato a vedere. «Pestavo sui tasti dell'Olivetti senza badare alla distanza siderale tra le parole che allineavo sul foglio e l'inferno dal quale ero tornato», ricorderà. «L'essere stato laggiù mi conferiva il potere di narrare. Sia pure nella miseria di una cronaca in grado di offrire soltanto l'ombra confusa di una realtà indescrivibile».

L'arte del ritratto. Leonardo Sciascia nel 1970, «con i suoi occhi piccoli, la faccia grigia e un po' chiusa» che emette una sentenza terribile nella sua casa di Palermo mentre le campane di San Michele suonano il vespro: «Non spero più perché l'Italia è da spazzare». L'andreottiano Franco Evangelisti in campagna elettorale nel 1979, profetico: «“Basta con queste facce di politici, basta con questi onorevoli qualunque, questi Cazzetti e Cazzettini, 'sti sconosciuti che arrivano sul video e pretendono di spiegarvi tutto! Basta, basta...”. E si prende a schiaffi da solo, sciaf!, sciaf!, sorridente e felice».

La scena della politica, inquadrata con le lenti del binocolo in tribuna stampa quando i palchi dei congressi di partito erano ancora lunghi e lontani dal parterre e gli schermi per ingrandire i volti ancora piccoli. Le rughe, le risate, le lacrime, la tensione. Il fattore umano. «Tabacci uguale a un giovane principe zarista in fuga, Goria è difeso da una barba perfetta e luttuosa, Bodrato è inquieto, sparuto, quasi divorato da un'ansia dolorosa, il professor D'Onofrio è melanconico come un fanciullo in castigo. La Tina Anselmi scruta le luci del night congressuale assorta, dolente, immersa in pensieri dai colori grigi...», ed è l'ultimo congresso della Dc nel 1989, i volti degli sconfitti della sinistra interna.

I soprannomi: il Coniglio Mannaro (Arnaldo Forlani), il Parolaio Rosso (Fausto Bertinotti). E le truppe mastellate (la claque di Mastella calata a Roma). E la Balena bianca, la Dc...

Le cronache con rabbia sui grandi fatti della storia repubblicana: la strage di piazza Fontana, i funerali di Moro, i delitti del terrorismo rosso, i tangentocrati, i congressi di partito, lo sfascio della Prima Repubblica, il berlusconismo. L'intervista a Cesare Romiti e quella a Luciano Lama. I libri sui giornali comprati e venduti e sulle carte false della stampa: le bugie, la corruzione, l'attitudine a vendersi a qualunque padrone. La polemica contro il giornalista dimezzato, come il visconte di Italo Calvino, che «regala metà del suo mestiere alla propria appartenenza politica, alla propria militanza ideologica. E rinuncia così ad essere un giornalista intero, anche intero quel tanto, o quel poco, che il sistema editoriale che gli consente di essere... Il tutto produce un giornalismo che ha perso la sua ragion d'essere, quella di raccontare e di capire i fatti». Una razza in crescita esponenziale: ieri dimezzati in nome di un'ideologia o di un partito, oggi per compiacere il nuovo Principe.

I big della Prima Repubblica. Giulio Andreotti, «le dita vibratili, sensitive, da ragno, mani che s'avvicinano, si sfiorano, s'incrociano, mani, soprattutto, che non tremano». Bettino Craxi di cui Pansa fotografa l'apice del potere, il congresso di Rimini del 1987 con il tempio progettato dall'architetto Filippo Panseca: Protervo? Retorico? Pacchiano? Ridicolo? Sinistramente profetico? Non si sa più come definirlo il Tempio craxiano di Rimini in questo pomeriggio politico di fuoco. Voglia di un Leader, voglia di un Capo, voglia di un Uomo capace di fare del Psi qualcosa di simile a questo tempio congressuale: una costruzione perfetta, ineguagliabile nel suo modernismo al computer. Qui hanno già superato il presidenzialismo. E perfino il leaderismo. E financo il ducismo. Sì, nel campo del Garofano sono già arrivati al padreternismo.

Ricorda qualcuno? È ancora Pansa a descrivere il tramonto di Craxi, quattro anni dopo, al congresso di Bari, il discorso della canottiera zuppa di sudore inquadrata dal binocolo sotto la camicia bianca che diventa il simbolo dell'afflosciamento della leadership craxiana.

E poi c'è Re Enrico, Berlinguer. A Pansa sul “Corriere” concede l'intervista più importante. Alla vigilia delle elezioni politiche del 21 giugno 1976, caratterizzate dal miraggio del sorpasso sulla Dc, il segretario del Pci dice al giornalista di sentirsi «più sicuro» sotto la Nato. Le reazioni sono europee e mondiali, nella spartizione di Yalta è una svolta spericolata, destinata infatti alla sconfitta. Ma oggi che il muro di Berlino non c'è più, e il Pci neppure, resta da conservare soprattutto il backstage dell'intervista riportato da Pansa: Occhiaie. Rughe profonde, quasi dei tagli. La barba di fine giornata pressoché bianca. Fumava Turmac, e non poche. Beveva acqua mescolata con whisky, a piccoli sorsi. L'aria rassegnata di chi prende una medicina. Una figura più che smilza esile, quasi fragile. Che trasmetteva una realtà contraria: un'energia contenuta ma grandissima, compressa come una molla pronta a scattare, trave portante di un carattere ferreo, da uomo testardo e anche capace di molte asprezze. Il carattere di un uomo che doveva aver sempre inteso la politica davvero come una scelta di vita, ma s'era abituato a nascondere il fuoco che gli bruciava dentro sotto un'aria fredda, da formica paziente della trasformazione comunista della società... Quando rivedemmo l'intervista, ad un mio tentativo di impedirgli una correzione non ricordo più a quale risposta, Berlinguer mi zittì sorridendo: «Non protesti. Lei ha già avuto parecchio di più degli altri giornalisti che sono venuti da me in questi giorni. E quello che ha avuto è molto». Infatti, il “molto” che lui mi aveva concesso fece sobbalzare molta gente, in Italia e in Europa.

Per "L'Espresso" che compie gli anni insieme a lui ha composto ogni settimana il suo Bestiario, ha inventato una mostruosa creatura mitologica, Dalemoni, l'incrocio tra D'Alema e Berlusconi, destinata a riprodursi sotto altre sembianze. E ha scritto il suo articolo più dolente, dopo la strage di mafia di via D'Amelio a Palermo, quella del giudice Paolo Borsellino nel luglio 1992: In quell'inizio settimana, l'Italia sembrò tale e quale il palazzo sventrato di via D'Amelio. Un condominio partitico sventrato. Un edificio civile pronto ad afflosciarsi su se stesso. Una casa aggredita da troppi mali. Per niente difesa. Alla mercè di tutti i mafiosi di tutte le mafie e poi degli sciacalli. Sì, era un'Italia che faceva pena e paura. E che suggeriva un'immagine insieme banale e terrificante: quella della frana. Di una frana gigantesca. Di uno smottamento colossale. In moto da anni: dapprima lentamente, con movimenti quasi impercettibili, poi, via via, in discesa con velocità crescente verso l'inferno. Tanto per farti urlare: adesso non ci fermiamo più!

Il lavoro dell'ultimo decennio, lo scavo nelle tragedie della guerra e del periodo post-Liberazione, i tradimenti, le violenze, le sevizie dei vincitori sui fascisti che hanno perso la guerra ha scatenato polemiche e risentimenti (e ha prodotto montagne di copie vendute), ma è in coerenza con ciò che davvero interessa Pansa. L'indagine sugli abissi del cuore umano e sulla vena di violenza mascherata da ideologia che scorre nella recente storia italiana. Di nuovo si fronteggiano il mondo dei carnefici, sia pure vestiti da partigiani, e il mondo delle vittime, in questo caso schierate dalla parte sbagliata della storia. Doppiamente vinte, dunque.

Ho frequentato Giampaolo tutti i giorni nella sua stanza di condirettore de “L'Espresso” nella storica sede di via Po, finché siamo rimasti lì. La scrivania coperta da pile di libri, alle spalle un pannello con una vecchia copertina su Francesco Cossiga («Fuori controllo»), un disegno di Staino, appunti, biglietti. Gli strumenti del mestiere: un quaderno e una penna, la macchina da scrivere, le cartelline dell'archivio sconfinato. La curiosità mai saziata. La risata contagiosa. La capacità, diavolo d'un Pansa!, di cogliere un dettaglio più di te anche da una ripresa televisiva. La lontananza da tutti i salotti politici, economici, intellettuali, editoriali, accentuata negli ultimi anni, e la vicinanza ai lettori, gli italiani comuni senza potere. Uno che ti riconosce come simile a fiuto. Un maestro riluttante e ruvido. Di umanità solare, accogliente, generosa.

Sulla copertina di “Romanzo di un ingenuo”, la sua prima autobiografia uscita nel 2000 per la Sperling, ha messo una sua foto in bianco e nero da adolescente: l'impermeabile ben annodato, il basco in testa, i pantaloni con il risvolto, gli occhi buoni e spalancati, brillanti di intelligenza, avidi di capire. Arrivato a ottant'anni è rimasto così: uno che guarda alla realtà con stupore. Anche quando è subentrato il disincanto. «Eravamo ingenui. Ingenui e prigionieri di un mito e di un sogno. Il mito dei freschi inchiostri all'alba. Il sogno di cominciare “il mestiere” dentro un grande giornale». In quanti abbiamo immaginato di diventare giornalisti per inseguire quel mito e quel sogno? Mito violentato, sogno appassito, d'accordo, sottoposto a condizionamenti e pressioni più pesanti che in passato. Eppure ne vale ancora la pena. I freschi inchiostri all'alba sono scomparsi, sono un paese che non esiste più. Oggi domina lo storytelling, il linguaggio di seta artefatto e autocompiaciuto con cui i propagandisti si battono le mani da soli. Il potere di narrare è l'opposto: è il giornalismo. Onesto, indipendente, mai neutrale. Per questo Pansa è uno dei nostri, uno di noi. È il nostro campione. Auguri Giampaolo e Adele. Auguri magnifico ragazzo!

Angelo Scarano per il giornale.it il 13 gennaio 2020. Pansa è stato uno dei cronisti e commentatori più noti ai lettori italiani. Cominciò la sua carriera giornalistica nel 1961 a La Stampa raccontando il Paese e la politica degli anni del boom economico. Poi l'approdo, nel 1964 a il Giorno dove si occupa di cronache della Lombardia. Alla fine degli anni '60 torna a La Stampa e in quegli anni si ritrovò a raccontare una delle pagine più buie della storia repubblicana: la strage di Piazza Fontana. Dal 1972 al 1973 è al Messaggero. Poi per quattro anni, dal 1973 al 1977, è al Corriere della Sera. In via Solferino firma lo scoop sul caso Lockheed. Nel 1977 lascia il Corriere per andare a Repubblica dove resterà fino al 1991. La sua firma però è legata anche ai settimanali. Prima Epoca, poi l'Espresso per passare poi a Panorama. La sua esperienza giornalistica più lunga è comunque legata a Repubblica. La sua linea era vicina alla sinistra di opposizione con critiche anche al Partito Comunista Italiano. Alla fine degli anni 2000, nel 2008, per l'esattezza lascia l'Espresso per passare al Riformista. Poi per 7 anni scrive su Libero. L'esperienza di viale Majno si chiude nel 2016 con il passaggio alla Verità. Dal 2018 all'agosto 2019 scrive anche per Panorama diretto da Maurizio Belpietro. Infine negli ultimi mesi, da settembre, era tornato al Corriere. Nella sua lunga carriera hanno avuto un grande ruolo anche i saggi. Il più discusso è stato quello dal titolo "Il sangue dei vinti". Per quel saggio del 2003, Pansa è stato criticato fortemente dalla sinistra. Venne accusato di aver "infangato" la Resistenza usando, secondo i suoi più duri rivali "rossi", quasi esclusivamente fonti revisioniste di parte fascista. Pansa ha sempre respinto queste accuse affermando di aver utilizzato fonti di diverso colore politico e di aver spesso descritto i crimini che certi esponenti fascisti avevano commesso ai danni dei partigiani prima di essere a loro volta uccisi. Con la sua morte se ne va un giornalista che ha raccontato l'Italia del Novecento su diverse testate, ma sempre con la stessa professionalità.

E' morto Giampaolo Pansa. Panorama il 13 gennaio 2020. Panorama ha ospitato il "Bestiario" lo spazio dove Pansa commentava le vicende politiche e sociali dell'Italia. Questo testo, uno degli ultimi, era dedicato...La passione nel proprio mestiere. Tanti giovani espatriano anche se in Italia il lavoro per loro non manca. Questione anche di etica del lavoro.

Giampaolo Pansa il 4 luglio 2019 su Panorama. Chi comanda oggi in Italia? Per il momento nessuno. Il nostro Paese sembra una barca senza nocchiero, pronta ad affondare. Ma quando arriverà il domani che molti aspettano? E quando sarà arrivato esisteranno ancora degli italiani da comandare? Quelli delle vecchie generazioni, come la mia per esempio, saranno già morti e sepolti. Ma i giovani dove li scoveranno? Leggo sui giornali che molti di loro si stanno trasferendo all’estero, in altri Paesi europei, nell’illusione di trovare un lavoro migliore e meglio pagato che in Italia. In realtà il lavoro ce l’avrebbero qui, ma non lo vogliono accettare. In questi giorni mi è capitato di parlare a lungo con due imprenditori toscani, uno è il proprietario di una falegnameria importante, l’altro si occupa di impianti elettrici. Entrambi mi hanno detto la stessa cosa: non troviamo giovani disposti a imparare il nostro mestiere. Preferiscono fuggire a Londra per fare il pizzaiolo. Oppure puntare sul reddito di cittadinanza e su un po’ di lavoro nero. Ma così resteranno a carico nostro per tutta la vita.

Anche mio padre Ernesto, classe 1898, era povero. Ma cambiando molti lavori ha poi trovato quello giusto: l’operaio del telegrafo. Mia madre Giovanna aveva imparato a cucire quando aveva dieci anni ed era una piccinina sveglia. È diventata una sarta e una modista molto ricercata. E guadagnava più di mio padre, ma non lo faceva pesare. A me piaceva scrivere. E volevo fare il giornalista. La fortuna mi ha aiutato, ho vinto un premio importante per la mia tesi di laurea sulla guerra civile, e La Stampa mi ha assunto come praticante. Fu così che mi trovai alle prese con un direttore, il mitico Giulio De Benedetti, che aveva la fama di essere una carogna. Capace di mostrarsi cattivo pure con chi lavorava per lui. E persino con la figlia Simonetta, poi diventata la moglie di Eugenio Scalfari. Il mitico Gidibì ogni domenica pubblicava un breve articolo di fondo, messo di spalla in prima pagina. Lo scriveva il sabato mattina nella sua villa sulle colline di Torino. Dopo averlo scritto lo leggeva alla figlia, poi le chiedeva: «È tutto chiaro? Hai capito che cosa voglio dire ai nostri lettori?». Per liberarsi di quella croce, Simonetta rispondeva subito di sì. E allora Gidibì le replicava: «Se hai davvero capito, ripeti quello che ti ho letto...». Quando la figlia non sapeva farlo, lui stracciava l’articolo e ne scriveva un altro. Imparare il mestiere alla Stampa di Gidibì ti obbligava a convivere con una dittatura inflessibile. Accadeva così anche per i capiservizio. Le loro riunioni avvenivano in una stanza dove esisteva una sola sedia: quella del direttore. Lui ruggiva: «Restare in piedi aiuta a evitare i discorsi inutili!». I suoi giudizi erano senza appello. Un giorno Carlo Casalegno, il collega poi ucciso dalle Brigate rosse, responsabile della terza pagina, mi chiese di scrivere una recensione di un libro sullo sbarco alleato in Normandia nel 1944, appena uscito. Lo scrissi, lo corressi, lo riscrissi, poi lo portai a Gidibì. Lui lo lesse ringhiando, poi lo stracciò in pezzetti grandi come coriandoli e mi rivelò la sua sentenza: «Non mi piace. È soltanto una pessima cronaca dello sbarco in Normandia, evento al quale lei non ha di certo partecipato per ragioni di età». Avevo appena 27 anni e Torino era una città difficile. Anche nei quartieri abitati da chi non era ricco si leggeva dappertutto: «Non si affitta ai meridionali». La mia giovane moglie di allora era lombarda, della Lomellina. Ed era costretta a spiegare di non essere dell’Italia del Sud. Ma veniva ascoltata con attenzione soltanto quando diceva di essere sposata con un giornalista della Stampa. Gidibì poteva andare fiero del sistema autoritario che aveva creato. Tutti stavano al loro posto. I praticanti come il sottoscritto, i redattori professionisti, i capiservizio, i capiredattori, e infine Lui, il Dio in terra. Quando entrava nel salone della redazione, tutti ci alzavamo e si smetteva di lavorare. Sino a quando Gidibì non ordinava: «Signori, seduti!». Poteva sembrare un sistema ottocentesco. Ma non era così poiché contava sulla passione degli essere umani che lo tenevano in vita. I giovani come ero io allora venivano premiati con incarichi complessi che ci facevano tremare. Accadde così quando nell’ottobre del 1963 ci fu la catastrofe del Vajont. Mi fecero partire da Torino nella notte, con un viaggio interminabile in auto sino a Belluno. Cominciai a scrivere un articolo dopo l’altro, per molti giorni. Ma la passione per quello che dovevo raccontare ai lettori della Stampa mi sosteneva e mi impediva di sentire la fatica. Vidi allora da vicino i famosi inviati speciali. Litigavano sempre fra di loro. Giorgio Bocca, il caposquadra del Giorno, arrivò a lanciare una bistecca addosso ad Alberto Cavallari, il numero uno del Corriere della sera. Poi arrivarono le ragazze jugoslave di un servizio che si occupava di recuperare i cadaveri sepolti dall’acqua caduta dalla diga del Vajont. Era un lavoro terribile e le ragazze slave cercavano di distrarsi amoreggiando con i giornalisti italiani. Ma i praticanti come me si resero subito conto che era merce soltanto per i big. A noi toccavano la gavetta e il lavoro duro.

Giampaolo Pansa, storia del giornalista più bravo odiato dai colleghi. Piero Sansonetti il 14 Gennaio 2020 su Il Riformista. «Seguimi, svelto, oggi ti faccio fare uno scoop». Mi disse così, e iniziò a camminare velocissimo per i corridoi di Montecitorio, poi nei sottoscala, apriva porte e svicolava a destra e a sinistra. Alla fine si voltò di nuovo verso di me: «Dai, entra e sbarra la porta: da questo momento non un fiato, prendi appunti e taci». Eravamo finiti in uno sgabuzzino pieno di scope, stracci, secchi per lavare per terra. C’era puzza di lysoform. Lo stanzino confinava con il retro dell’auletta dei gruppi, o almeno all’epoca si chiamava così. Era una sala nella quale i gruppi parlamentari spesso tenevano le loro assemblee. Quel pomeriggio c’era l’assemblea del gruppo socialista. Ascoltammo tutto. Quattro ore filate. Al buio, senz’aria. Manca poco che soffochiamo. Dieci pagine fitte fitte di appunti. Il signore che mi aveva promesso lo scoop era Giampaolo Pansa. Io ero un ragazzetto e da tre mesi facevo il cronista parlamentare per l’Unità, anche se non ero ancora assunto. Pansa era già Pansa, aveva 43 anni ed era una firma di primissimo piano del giornalismo italiano. Era quello di Piazza Fontana, quello della Lockheed, quello dell’intervista a Berlinguer che parlando con lui aveva mollato l’Urss e aveva aperto la strada all’ingresso del Pci in maggioranza. Sto parlando dell’estate 1978. Luglio direi. Erano passati appena due mesi dalla morte di Moro e pochi giorni dalle dimissioni del Presidente della Repubblica Leone, incalzato, ingiustamente, dai radicali e dall’Espresso. Il Psi di Craxi si era intestardito a candidare al Quirinale Antonio Giolitti, ma Pci e Dc facevano blocco contro. La Dc perché Giolitti era troppo di sinistra, il Pci perché era un ex comunista, uno che aveva voltato le spalle a Togliatti. Lui al Quirinale era uno schiaffo. Dc e Pci volevano Pertini, meno impegnato nelle lotte tra le correnti dei partiti. E quel giorno, all’assemblea del Psi, Craxi – a sorpresa – disse ai suoi di prepararsi ad accettare Pertini. Allora le riunioni politiche erano segrete davvero. E la notizia restò riservata. Ma solo fino alla mattina seguente, quando l’Unità e Repubblica uscirono con il resoconto dell’assemblea e anticiparono la decisione dei socialisti. Il giorno dopo, se non sbaglio, Pertini fu eletto. Pansa, al solito, aveva fregato tutti. E mi aveva fatto questo regalo di coinvolgere anche me, chissà perché. Oggi può sembrare un episodio minore. Allora no. Non esisteva un solo giornalista politico che poteva immaginare di nascondersi nello sgabuzzino delle scope per carpire una notizia. I giornalisti politici erano persone molto serie e compassate, indossavano il cappotto, parlavano lentamente, partecipavano a dei convegni, e le notizie le ricevevano solo e direttamente dai politici o dai loro uffici stampa. Poi le scrivevano, spesso in modo un po’ pomposo, arzigogolato. Il notista politico bravo era quello che le notizie le aveva tutte ma le scriveva in forma tale che solo i più avvertiti le potevano capire. Anche gli editorialisti erano così. Nel Pci, la prima cosa che ti insegnavano è come si legge un editoriale. In un editoriale c’erano tanti messaggi criptati, i militanti più bravi li capivano e li spiegavano agli altri, e crescevano nella loro considerazione. Pansa inventò il giornalismo politico duepuntozero, diremmo oggi. Entrò con tutti e due i piedi nel piatto della politica. E i vecchi lo guardano un po’ inorriditi. Avrebbero voluto cacciarlo via a calci nel sedere, il problema è che scriveva troppo bene per essere cacciato. Iniziò a scrivere le cose che vedeva, a sbirciare ai congressi con il cannocchiale, a svelare i segreti, a raccontare, raccontare, raccontare, senza chiedere imbeccate o autorizzazioni. Aveva solo due punti fermi: scrivere bene ed essere sempre indipendenti. Fu anche molto coraggioso, Pansa. Negli anni del terrorismo non tutti i giornalisti erano coraggiosi. Me ne ricordo due: Pansa e Tobagi. Tobagi lo fecero fuori con la mitraglietta. Pansa fu condannato a morte ma poi ci furono dei contrattempi e si salvò per miracolo. Giampaolo Pansa, sicuramente, tra i giornalisti italiani del dopoguerra è stato una delle penne migliori. Con Montanelli, Pintor, Bocca, Zucconi. Ma la sua dote principale non era quella: era l’autonomia. Pansa è stato uno dei pochi giornalisti italiani che non lavorava per nessuno. Allora la gran parte dei giornalisti era al servizio dei politici. Di vario colore. Quando io arrivai in Parlamento il gruppo più forte erano i demitiani. Che poi fecero tutti gran carriera e finirono a dirigere molti giornali e parecchie Tv. I craxiani meno, meno carriera, dico. I comunisti meno ancora, tranne quelli un po’ trasversali che stavano proprio con De Mita. Giampaolo Pansa invece era indipendente. Poteva permetterselo perché scriveva come un dio e sapeva pure trovare le notizie. Non tutti potevano permetterselo. Io non ho mai avuto grandi maestri di giornalismo. Se devo pensare a qualche mio maestro penso solo a due nomi: Alfredo Reichlin, che era il mio direttore in quegli anni, e che è il più sottovalutato tra tutti i dirigenti del Pci, e Pansa, che era un mito. Mi ricordo che alla fine degli anni Novanta all’Unità noi della generazione del ‘68 facemmo grandi lotte per l’autonomia. Dicevamo al partito: «Non esistono giornalisti di partito. Il partito è l’editore ma il giornalista, se davvero è un giornalista, è libero e indipendente». Prendemmo anche parecchi calci in faccia, infatti alla fine ci abbatterono. Prima di essere abbattuti (o dispersi in altri giornali) sperammo per diversi mesi che il partito, che aveva cambiato nome e non si chiamava più Pci, decidesse un direttore del giornale laico, e ci mandasse Pansa. Sognavamo. Poi qualche anno dopo Pansa mise le mani sulla materia che scotta di più. I fascisti. Andò a scavare su tanti episodi dell’immediato dopoguerra nei quali i fascisti, ormai sconfitti e bastonati, non erano più carnefici ma vittime. I vinti. Iniziò a raccontare storie che ricostruiva con il suo metodo tradizionale: andare a vedere, farsi raccontare, verificare. Senza ideologie, senza tesi. La sinistra lo scomunicò, lui entrò nell’elenco dei traditori. Il più traditore di tutti i traditori, perché non solo aveva tradito la sua parte, ma l’aveva tradita nella sua essenza religiosa. Da noi l’antifascismo, spesso, è così: non è una idea liberale e libertaria, e laica e antiautoritaria. È una religione, un dogma, una sacrestia dove si rispettano rituali, inchini e certezze. Pansa violò quei rituali e fu messo all’indice. Anche personalmente. Non solo dalla sinistra, anche dal giornalismo. Finì ai margini. Proprio lui che era il più bravo di tutti.

Giampaolo Pansa, il giornalista infedele in nome delle idee. Pubblicato lunedì, 13 gennaio 2020 su Corriere.it da Antonio Polito. Giampaolo Pansa era un giornalista infedele. Questo mi ha insegnato, sia quando mi ha diretto (a Repubblica) sia quando l’ho diretto io (al Riformista, si parva licet): che anche il giornalista più schierato, e lui lo era, altroché se lo era, non «appartiene» mai al suo schieramento, politico e culturale. E dunque è pronto a «tradirlo» in nome della verità: amicus Plato, sed magis amica veritas. Per questo era così imprevedibile. Lui, laureato con una tesi sulla Resistenza, che scrive Il sangue dei vinti e rivela al grande pubblico le vittime dei partigiani rossi. Lui, di sinistra, che bolla il connubio tra D’Alema e Berlusconi come Dalemoni. Lui, accusato dalla sinistra di essere ormai passato a destra, che scrive un libro su Salvini intitolato Il dittatore, il suo ultimo. Lui che lascia il transatlantico del gruppo Espresso per la scialuppa del Riformista, lui che molla Libero per l’avventura de La Verità. Imprevedibile perché onesto. Onesto perché intransigente, addirittura pignolo con la sua parte, e pronto a vedere le ragioni dell’altra. Oggi, nel dibattito pubblico, in televisione come sui social, ai giornalisti si chiede di schierarsi. Quelli che non lo fanno sono considerati vigliacchi da quello stesso pubblico che il giorno dopo li accusa di essere faziosi. Pansa era un magnifico esempio di giornalista schierato, di certo non gli si poteva dare del cerchiobottista, o del pavido, la polemica più aspra e anche personale era il suo attrezzo del mestiere. Però era schierato solo con le sue idee e il suo modo di vedere le cose, che tentava di far coincidere il più possibile con quello dei suoi lettori. Prendeva parte, ma la sua. Non era al servizio (intellettuale) di nessuno. Che lezioni ci ha dato.

Maria Luisa Agnese per il “Corriere della Sera” il 13 gennaio 2020. «Immaginifico e ultracreativo, Pansa ha reinventato e dato nuova linfa al giornalismo politico, con le sue intuizioni linguistiche, le balene bianche, i bestiari, i Dalemoni, crasi fra D' Alema e Berlusconi, per spiegare l' inciucio fantasioso». Giulio Anselmi è stato direttore dell' Espresso con Giampaolo Pansa condirettore. Una convivenza che ricorda come un periodo buono, anche se aggiunge che spesso «bisognava ricordargli chi era il direttore. E forse il non avere mai avuto una direzione è stato il cruccio della sua vita». Aveva una gran facilità di linguaggio, dice Anselmi, e un talento affabulatorio: «Quando arrivai all' Espresso lui aveva già vissuto una stagione di intesa straordinaria con il direttore precedente, Claudio Rinaldi, una strana coppia, di personaggi diversi ma con una incredibile intesa politica». Anselmi ha intuito subito che Pansa aveva anche un talento «fra l' ironico e il cattivo per le copertine». Anselmi lo assecondò, anche se sapeva che gli avrebbe creato qualche grattacapo. «Successe quando Berlusconi vinse le elezioni. Il Cavaliere, si sa, aveva il vezzo di ripetere "mi consenta, mi consenta", e lui suggerì la famosa copertina con la scritta E ora mi consento». Altra carina, ricorda Anselmi, fu la copertina, con Francesco Rutelli e Barbara Palombelli e la scritta «Cicciobelli», in occasione della candidatura di Rutelli. Quello che si irritò fu l' editore Carlo De Benedetti, che nell' occasione aveva deciso di appoggiare Rutelli e non Giuliano Amato. «In ogni caso la presenza di Giampaolo nelle riunioni di redazione era sempre vitalizzante». Amava i giovani? Non ricordo una sua particolare propensione verso di loro, con l' eccezione di Marco Damilano, che poi ho assunto proprio su segnalazione di Pansa e non me ne sono mai pentito». Lo spirito battagliero, quasi dispettoso da giornalista di razza lo portò anche, da un certo punto in poi, a impegnarsi in quella pubblicistica fortemente revisionista della Resistenza. «Un inedito per chi come lui aveva sempre avuto un taglio da giornalista di sinistra, ma un po' per il suo spirito da bastian contrario, un po' perché era lusingato dai consensi e dalle lettere che riceveva, restò quasi prigioniero di quella persona che era diventato, diversa dal Giampaolo Pansa che conoscevamo. Era risentito, forse inseguiva qualcosa che non aveva mai avuto».

Francesco Merlo per ''la Repubblica'' il 13 gennaio 2020. Lo trattavano da sopravvissuto, ma adesso che Giampa è morto, Giampa ritorna finalmente a vivere. E finalmente ci metteremo a studiare quegli articoli che lanciavano grandi sguardi sugli avvenimenti indugiando su minuzie descrittive sempre condite dall'aneddoto e spesso dalla malignità: la Balena Bianca, il Coniglio Mannaro, l’epica delle truppe mastellate all’assalto dei congressi. Armato di penna e di binocolo per rubare un’espressione, una smorfia, un fastidio. Il Pci era l’elefante rosso, e nella sede della Dc scoprì il tavolo che il corto Fanfani aveva fatto segare. E poi gli onorevoli Cazzetti e Cazzettini, ma anche il canto dell’'Internazionale che nell'aula bunker divenne uno sghignazzo, le facce dei morti ammazzati, la ferocia dei terroristi che si trasformò in miseria e pena quando li rincontrò come ex terroristi, con tutte quelle sanguinarie dall'aria mansueta. E poi le interviste, i ritratti: Berlinguer, Romiti, Lama, Andreotti, Craxi, Berlusconi, D'Alema…È l’opera che illumina tutta la vita di Giampaolo, anche i suoi errori, l’ossessione di celebrare Salò e le vittime dell’antifascismo: “Ho descritto tante Italie. Mi sono inoltrato su terreni che nessuno voleva esplorare, come la guerra civile e il sangue dei vinti”. Pansa diceva di dovere a Fenoglio il passaggio da sinistra a destra, dalla tesi di laurea sulla Resistenza concordata con Alessandro Galante Garrone, ai libri appunto su Salò che tanto hanno venduto e che lo hanno gettato in quella rissa culturale che confessava di amare per istinto: “Non mi piace ubbidire perché non mi piace comandare”. E la sua prosa, la sua passione, la sua liberà cocciuta facevano dimenticare tutto il resto, si faceva perdonare con una metafora, con due aggettivi: “Una giornata di sole asciuga tutti i bucati”, si dice a Casale Monferrato, dove era nato. E tutto finiva e ricominciava nella  sua risata da munfrin, che sono gli omoni di schiatta contadina, picareschi e spavaldi descritti da Fenoglio che non fu solo il poeta delle Langhe. Davvero è morto, in quella clinica dov’era ricoverato da un mese e dove continuava a scrivere, il rompiscatole del giornalismo italiano, il cronista più bravo, il campione della passione e del risentimento, con noi e contro di noi, con Repubblica e contro Repubblica, con la sinistra e poi con la destra ma sempre restando se stesso, maestro della scrittura come risarcimento, del colpo di penna come colpo di spada. Aveva accanto Adele, la donna che più ha amato, la compagna che era anche la sua coscienza, grazie a lei e alla scrittura riuscì a sopravvivere alla morte, a soli 55 anni, del figlio Alessandro, un capitano d’industria stimatissimo, alla Feltrinelli, a Finmeccanica, al Credito italiano, banchiere d’affari…, il contrario del padre che nei numeri si perdeva, un macigno per il vecchio Giampa che sembrava destinato a una morte felice: “Come posso credere a un Padreterno che ha preso lui anziché prendere me”. Monferrino timido e ribelle, Giampa aveva il coraggio e la modestia di quella piccola specialissima patria piemontese, il complesso di inferiorità della provincia che è la cuccia di tutti i grandi italiani. Anche da vecchio scriveva ancora per il papà Ernesto, operaio del telegrafi, per la mamma Giovanna che non leggeva i suoi articoli, per la nonna Caterina, contadina analfabeta «che non aveva altra terra se non quella dei vasi da fiori», la nonna che perse il marito — Giovanni — nei campi, poi perse un figlio — Paolo — che cadde da un'impalcatura. Ed è a loro che fu dedicato il ragazzo: Giovanni e Paolo, Giampaolo. C’era la foga del malessere come risorsa persino nel suo famoso stile che è diventato una scuola. Sferzante e imprevedibile, ogni tanto si faceva spericolato, come sempre è accaduto ai grandi giornalisti impressionisti che si possono permettere anche la libertà di inventarsi un Kant fatalista di provincia: «Fai quel che devi e avvenga quel che può», si inventò un giorno. Pansa era fatto così, concentrava in sé tutto il bene e il male di un mestiere che si sta inesorabilmente rovinando, la velocità di scrittura, la fantasia delle citazioni, la memoria e l’amore per la battuta. Riassumeva se stesso così: “Tutto ciò che resterà della mia vita è quello che ho scritto”.  E tutti sapevano che avrebbe scritto pure sui muri, sempre funambolico, la vita come spettacolo — «Scrivo da un Paese che non esiste più», fu l'incipit dal Vajont — e quell'attenzione dolce per il dolore che è un’altra delle lezioni più belle di Fenoglio. Senza concessioni alla moda detestabile del maschio femminista e senza i compiacimenti generazionali per la malafemmina, Pansa è anche la straordinaria storia d’amore con la signora Adele Grisendi: “Non ero io che decisi di guardarla, ma era lei che mi obbligò a farlo”. Non voglio essere reticente: indimenticabili sono state le cattiverie polemiche che scrisse su Ezio Mauro, Carlo De Benedetti ed Eugenio Scalfari perché sino alla fine Repubblica gli tornava in gola. Erano fratelli e si guastarono, dove guastarsi è un'altra maniera di vivere insieme, senza mai perdersi di vista. Come ha detto Scalfari i grandi protagonisti delle polemiche del tempo, quando passa quel tempo, non hanno conti da saldare. Rimangono gli stili e i dettagli di vita come contributi alla biografia del giornalismo italiano della carta stampata, alla struggente bellezza di una professione morente che ha premiato Pansa sino a eleggerlo maestro.

Marina Valensise per ''Il Messaggero'' il 13 gennaio 2020. Parla Pansa. Se ne va con Giampaolo Pansa uno degli ultimi giornalisti liberi della sua generazione. Un uomo dal talento generoso e straripante, un uomo buono, colpito dalla morte del figlio adorato, scomparso a 55 anni nel 2018, un intellettuale audace e al tempo stesso irriverente, uno scrittore e un autore di successo che ha fatto scuola non solo nel giornalismo italiano, ma nel modo di raccontare il nostro passato prossimo e remoto, mostrando il coraggio di squarciare il velo di ipocrisia su alcune delle sue pagine più tragiche anche a costo di attizzare una polemica furiosa, e di finire nel campo dei reprobi, dei paria, dei condannati all'ostracismo. Parla Pansa. Rispondeva così al telefono, sempre pronto a rispondere alle domande dello scocciatore, del giovane cronista, del lettore fanatico. E da quel tono allegro e sardonico, pieno di generosa ironia, si capiva che la libertà gli piaceva da matti, anche a rischio di passare per un provocatore. Era in fondo ed è sempre stato un outsider, nel giornalismo italiano del dopoguerra, un tipo senza complessi, che si divertiva a confondere i confini, passare le linee, uscire dalle gabbie ideologiche dei vari campi di appartenenza in anni in cui la militanza politica era una religione civile. Anni lontani, dove i confini tra fascismo e antifascismo erano invalicabili, e dove era impensabile passare da un fronte all'altro per il solo gusto di conoscere la verità della storia. Pansa questo fece. Il figlio della sarta di Casale Monferrato che aveva vissuto da ragazzo la stagione più nera della guerra civile in Italia, sognava di diventare uno storico. E infatti si laureò con Guido Quazza con una tesi sulla Guerra partigiana tra Genova e il Po, e continuò per qualche tempo a lavorare all'Università con Alessandro Galante Garrone, altro grande storico torinese, studioso della Rivoluzione francese, di Buonarroti, e della congiura degli Eguali, la genealogia del socialismo. Catturato dal giornalismo, fu cronista della Stampa, passò al Giorno, tornò alla Stampa, come inviato da Milano all'epoca in cui il direttore era Alberto Ronchey, e seguì da vicino la strage di Piazza Fontana. Per due anni, tra il 1972 e il 1973, fu anche caporedattore al Messaggero. Quando passò al Corriere diretto da Piero Ottone, a metà degli anni Settanta, mise a nudo la trama dello scandalo Lockheed, e nel 1977 passò a Repubblica e al Gruppo Espresso, dove rimase per trent'anni, maestro inimitabile, graffiante, sardonico, ingestibile, nella sua analisi della politica, nel suo racconto dei vizi dei potenti di turno, e del teatrino ineffabile del potere. La vera svolta avvenne per lui nel 2001 quando pubblicò un saggio, I figli dell'aquila, per raccontare di un volontario della Repubblica sociale italiana. Iniziò allora per lui il così detto ciclo dei vinti, la narrazione molto romanzata ma veritiera delle violenze compiute dai partigiani ai danni dei fascisti, negli anni bui della guerra di liberazione, che fu come gli storici più coraggiosi ebbero modo di dimostrare, una guerra civile. Il sangue dei vinti, pubblicato nel 2005, lo consacrò come un autore di best seller e lo condannò come un paria, un traditore, un revisionista agli occhi della sinistra radicale e antifascista che mal tollerava la libera perlustrazione in un campo minato. Nel 2006, ricordo ancora il clamore, l'indignazione, e l'ostracismo che segnò l'uscita di Sconosciuto 1945, un altro best seller pubblicato da Sperling&Kupfer, sui ventimila scomparsi, torturati e uccisi, per le vendette dopo il 25 aprile, nella memoria dei vinti. Non era un altro capitolo dell'antistoria della Resistenza che Pansa perseguiva da anni, ma un'opera di liberazione intellettuale e morale. Per la prima volta Pansa apriva ai suoi lettori il suo archivio, per dare direttamente voce alle centinaia di fonti che per sessant'anni erano rimaste chiuse sottochiave, condannate al silenzio.

Giampaolo Pansa, il maestro sempre contromano rifiutava le lenti dell'ideologia. Non è mai stato un giornalista neutrale e non si è lasciato sottomettere all'etichetta. Portava il lettore nel suo sguardo. Vittorio Macioce, Lunedì 13/01/2020, su Il Giornale. Se ne è andato via in una notte di metà gennaio, scartando di lato, come al solito senza avvertire nessuno, lasciando la vita perché ormai si era stancato di raccontare storie contromano. Forse perché in questo tempo stanco e vuoto non ne trovava più.

Il coraggio sulla Resistenza. Giampaolo Pansa è morto e non bastano poche righe buttate giù in fretta per raccontarlo. Quello che pensi è che piano piano, uno alla volta, vanno via i giornalisti della stagione d'oro, quelli che hai letto da bambino, quelli per cui bene o male hai pensato di fare questo mestiere. Non c'è nessun mistero. È l'età eppure alla fine finisci per sentirti un po' orfano dei tuoi santi. Pansa non è mai stato un giornalista neutrale. Scriveva quello che vedeva, sentiva, dal suo punto di vista, senza però mai sottomettersi al gioco delle etichette e rifiutando di indossare gli occhiali comodi dell'ideologia. Questo non significa che non aveva idee, pensieri e una visione del mondo, ma aveva abbastanza coraggio, carattere, per metterla al confronto con i fatti e non prendersi in giro. Il patto con un lettore era un altro: ti porto dentro il mio sguardo, non bluffo, tu cerca di fidarti di me. Ha scritto dove si sentiva libero, quando si sentiva in gabbia apriva la porta e se ne andava. «Credo di essere il cronista che ha lavorato per più giornali: ma sono ancora qui, a rompere le scatole». Ha cominciato a 26 anni a La Stampa, un quotidiano che per chi è nato a Casale Monferrato, il primo ottobre del 1935, in provincia di Alessandria, è un punto di arrivo. Per lui, che amava la sua provincia fino alle viscere, è stato il punto di partenza. E da lì il lungo cammino: il Corriere della Sera, il Messaggero, Epoca, Repubblica, l'Espresso. Poi la svolta, per raccontare le ragioni dei vinti. Il passaggio al Riformista e poi Libero e la Verità. L'ultimo approdo è il ritorno al Corsera. Non sono le testate che però fanno la sua storia. È la capacità di essere dove c'è bisogno di raccontare. Pansa è il racconto del Vajont, è a Piazza Fontana, è l'inchiesta che svela lo scandalo Lockheed. È la famosa intervista a Enrico Berlinguer, quando il segretario del Pci racconta di sentirsi molto più a sicuro sotto l'ombrello della Nato. È lo strappo con Mosca e l'idea dell'eurocomunismo. Pansa è il racconto dei protagonisti della politica che prendono vita come nelle favole di Esopo. È il suo famoso Bestiario. È la capacità di vedere nei leader di questo o quel partito, di uomini di governo o d'affari, la loro radici, il loro istinto, animale. La testardaggine di Pansa si rivela in tutta la sua potenza nel 2003 con un saggio che non gli verrà mai perdonato dai suoi vecchi amici: Il sangue dei vinti. Quale è la sua bestemmia? Raccontare quello che molti accademici non hanno avuto la coscienza di fare. Dire che alla fine della guerra anche i rossi hanno ammazzato i neri. Sono i giorni della giustizia sommaria e della vendetta. Sono le morti di chi andrebbe dimenticato, morti fasciste, morti senza pietas. «Il ciclo è iniziato per essere precisi col libro precedente, I figli dell'Aquila, e poi è proseguito con altri titoli come Sconosciuto 1945, La grande bugia, I gendarmi della memoria. E se io sarò ricordato per qualcosa credo che lo sarò proprio per il ciclo del Sangue dei vinti. Me ne accorgo perché le persone mi fermano per ringraziarmi... Certo se vado in una zona dove dominano i centri sociali è l'opposto. Io dovuto smettere di andare a parlare in pubblico. Per fortuna i libri buoni si fanno strada da soli». Pansa non è mai stato fascista. Non ha scavato nella storia dimenticata per rivendicare qualcosa. È stata la curiosità a portarlo su quelle strade, su quei delitti, nei sentieri di quelle croci. Non gli è mai stato perdonato. Perché un giornalista di sinistra va a scartabellare nella storia dei fasci? Perché tradisce i suoi amici, i suoi compagni di cordata, i suoi lettori? Pansa ha sempre detto che non ha mai tradito nessuno, ma soprattutto non voleva tradire se stesso. Non ha mai amato le carte false. «Carte false. Fare carte false. Spacciare carte false. Sempre di più, il giornalismo italiano mi appare così: un mestiere che non può, o non vuole, distinguere il falso dal vero, un mestiere che maneggia troppe carte truccate, un mestiere che tradisce se stesso». Nella sua storia c'è una morte arrivata troppo presto. No, non la sua, con quella ormai stava facendo i conti. La morte che non voleva vivere è quella di suo figlio Alessandro. È morto a 55 anni, l'undici novembre del 2017. Nessun padre vuole assistere alla morte del figlio. «Come avrei potuto proteggerti figlio?». Non poteva. Ora, in qualche posto nello spaziotempo, forse può riabbracciarlo.

Giampiero Mughini per Dagospia il 13 gennaio 2020. Cara Adele Grisendi, approfitto delle pagine di Dagospia perché non saprei come altrimenti rivolgermi a lei, che è stata la compagna di una vita del nostro Giampaolo Pansa, e questo nel giorno in cui l’intera stampa italiana dovrebbe essere listata a lutto perché è morto uno dei suoi sovrani. Solo per dirle, cara Adele, che il tono della voce di Giampaolo era sempre lo stesso quando ci raccontavamo le cose del mondo, sempre lo stesso sia che lui parlasse dei partigiani o dei fascisti. Un tono brusco, da piemontese. Solo in un caso il tono della sua voce cambiava completamente e sia pure per un istante, quando pronunciava il suo nome, cara Adele.

Non solo grande cronista. Pansa ha cambiato l'Italia. Neppure alla sua morte, gli è stato riconosciuto di aver riscritto la storia della Guerra civile. Alessandro Gnocchi, martedì 14/01/2020, su Il Giornale. Chi ha acquistato i giornali di ieri, avrà notato una singolare mancanza negli articoli dedicati alla morte di Giampaolo Pansa (nato a Casale Monferrato nel 1935). Con le eccezioni di Pierluigi Battista sul Corriere della Sera e Renato Farina su Libero, e a parte chi ha scritto su questo giornale, nessuno ha pensato che fosse da portare in primo piano l'attività di storico di Pansa. Abbiamo dunque ripassato fatti indiscutibili: la grandezza del cronista, i servizi memorabili (Vajont e molti altri), le interviste cruciali e tanti altri successi ottenuti da Pansa in decenni di carriera. Pansa è stato un maestro, tra l' altro generoso e perfino affettuoso con i principianti. Niente da dire. Però abbiamo una notizia già sicura: non verrà ricordato solo per essere stato una grande firma; resterà nella storia d'Italia per aver cambiato la cultura. Nel bene e nel male. Il male lo spieghiamo subito: il successo di Pansa ha spalancato le porte a improvvisatori che scambiano la raccolta di testimonianze, pur interessanti, con lo studio della storia. Svarione che Pansa non avrebbe mai commesso. Aveva una formazione da vero studioso, tesi di laurea con Alessandro Galante Garrone, pubblicazioni specialistiche e partecipazione a convegni di primo piano, tutto questo a partire dalla fine degli anni Cinquanta, in cui già si occupava del suo tema prediletto: la Resistenza e il fascismo negli anni della guerra civile. Così Pansa nel 2003 intervistato da Domizia Carafòli: «Non è una cosa di oggi. La prima volta che dichiarai che non si poteva fare la storia di quei tremendi venti mesi dal '43 al '45 ignorando la realtà della Rsi, avevo 23 anni e mi trovavo a un convegno sulla storiografia della Resistenza a Genova, presieduto da Ferruccio Parri. Fui interrotto dagli astanti ma Parri mi invitò a proseguire. Alla fine ammise che non condivideva tutto quanto avevo detto ma che avevo fatto bene a dirlo». Pansa aveva scelto la forma del romanzo e del colloquio per arrivare al grande pubblico ma aveva le conoscenze necessarie per capire cosa sia un documento e come vada trattato. Non si può dire la stessa cosa dei suoi epigoni, inclusi quelli incoronati re delle classifiche. La grande editoria, di certo non per colpa di Pansa, ha assecondato questa deriva, con il pessimo risultato che la saggistica è stata più o meno spazzata via. Veniamo al bene. Si può senz'altro notare che il quadro generale in cui vanno inseriti i libri più noti di Pansa, a partire da Il sangue nei vinti (Sperling & Kupfer, 2003), era già stato disegnato da pesi massimi come Augusto del Noce e Renzo de Felice. Si può anche aggiungere che i numeri del massacro posteriore al 25 aprile 1945 erano già apparsi nei lavori di Giorgio Pisanò. Non c'è dubbio, è così. Anche la memorialistica dei reduci di Salò o delle vittime innocenti dei partigiani già circolava. Non che Pansa fosse arrivato in ritardo: «Ho scritto L'esercito di Salò nei rapporti riservati della Guardia nazionale repubblicana nel 1969. Lo pubblicò l'Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione. Ho sempre pensato che la storia della guerra non poteva bloccarsi al 25 aprile. Bisognava raccontare anche quello che accadde dopo. In quanto al clima politico, certo che è cambiato. In peggio. Lo choc per l'andata al potere del centrodestra ha fatto regredire la sinistra, che ora si è arroccata nel fortino ed è molto più sospettosa verso chi, come me, scrive da sinistra quello che è successo ai padri di molti della destra». Pansa ha preso questo tema delicatissimo, l'ha sottratto al circolo ristretto dei nostalgici e l'ha portato al mercato di massa, costringendo i cittadini ad aprire gli occhi davanti a verità sgradite: la Resistenza era una testimonianza morale importante ma irrilevante dal punto di vista militare; la gran parte degli italiani si collocava in una zona grigia in attesa della fine della guerra ma senza particolari passioni politiche; i partigiani non erano tutti uguali: alcune formazioni comuniste non erano al servizio dell'Italia ma della rivoluzione sovietica e se ne fregavano della democrazia; le stragi nel Triangolo rosso, a Liberazione avvenuta, rispondevano alla logica della vendetta e dell'odio di classe; sul confine orientale, alcuni partigiani rossi, per far spazio ai titini, non esitarono a far fuori i partigiani bianchi; molti ragazzi si arruolarono nell'esercito di Salò per idealismo patriottico: hanno perso, per nostra fortuna, ma meritano l'onore delle armi e non la dannazione dell'oblio. Oggi, a parte qualche relitto del passato, tutti concordano in linea di massima su questa ricostruzione. Ma nel 2003 Il sangue dei vinti scatenò una polemica infinita tra storici di rigoroso pedigree antifascista (ma non anticomunista) e... il resto d'Italia che comprò avidamente il libro. A ruota, arrivarono l'Anpi e associazioni militanti che, confermandosi ignoranti delle regole democratiche, hanno «inseguito» Pansa per un decennio, cercando di impedire le presentazioni dei suoi libri. Giorgio Bocca affermò che Il sangue dei vinti era «una vergognosa operazione opportunista» uscita non a caso «nel momento in cui è in corso una chiara operazione di rivalutazione del fascismo». L'ex sindaco socialista di Milano Aldo Aniasi, allora presidente della Federazione italiana delle associazioni partigiane, ribadì il concetto: «Quello di Pansa è un libro vergognoso, non revisionista ma falsario. Ed è vergognoso anche il comportamento di Pansa che in questi ultimi anni si è dedicato a inventare storie sui crimini dei partigiani in gran parte inesistenti». Migliaia di morti inesistenti, dunque. Dopo Il sangue dei vinti, per fortuna, nessuno azzarderebbe giudizi del genere, anche se ieri qualche poveretto ha festeggiato in Rete la morte del «fascista» Pansa (uomo sempre stato di sinistra, tra l'altro). Prima di Pansa tali giudizi erano la verità ufficiale. Pansa ha cambiato davvero la storia della cultura italiana. Sarà ricordato soprattutto per questo. Cediamo la parola al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che si è unito al lutto della famiglia con questo messaggio: «La vivace intelligenza di Giampaolo, l'acutezza che manifestava nei suoi scritti hanno animato il suo lavoro di storico, anche suscitando polemiche e discussioni, come del resto era suo costume».

Giampaolo Pansa, il ritratto di Renato Farina: "Tanti errori di valutazione politica, ma intrisi di passione". Libero Quotidiano il 13 Gennaio 2020. È morto ieri il più grande cronista del dopoguerra. Giampaolo Pansa probabilmente è morto descrivendo la sua morte. Sapeva vedere cose che gli altri non scorgevano e le raccontava tenendoti attaccato alla pagina come se qualsiasi cosa accadesse fosse la premessa della fine del mondo. Nessuno scrisse come lui dei congressi democristiani, degli attentati delle brigate rosse, delle stragi di cui lui odorava la polvere e il sangue. La biografia di lui è tutta nei suoi libri, specialmente negli ultimi.

LA STORIA. Era nato a Casale Monferrato 84 anni fa. Sua mamma era una modista. E lui amava guardarsi in giro, raccontare a se stesso, già allora, le forme delle ragazze, l'alito dei vecchi. Si è laureato a Torino con una tesi sulla storia della resistenza. Studiò meticolosamente quanto accadde nel genovese. C'erano cose che non quadravano nel raffronto ormai consolidato delle lotte dei partigiani e delle cattiverie fasciste. E questo punto di domanda l'ha accompagnato tutta la vita fino a cercare e trovare delle risposte che gli hanno causato l'emarginazione e l'odio di una parte della sinistra. È stato lui il più importante storico di quegli anni oscuri che vanno dal '43 fino al '45. Anzi oltre il 1945. Ha rintracciato le tracce dell'odio dovunque si fossero manifestate. Specialmente quelle che nessuno aveva mai raccontato: specie delle volanti russe, il triangolo della morte in Emilia. Questo è il Pansa oramai maturo, quello degli anni 2000. Ma in precedenza aveva regalato a tutti i lettori di quasi tutti i più importanti giornali italiani il racconto dell'Italia. Pansa ricordava che una volta Giorgio Bocca, con il quale spesso non era stato d'accordo, gli contestò che non avrebbe mai dovuto dirigere un giornale, perché, gli disse, «tu hai le dita d'oro». Del resto lui usava affermare «io non amo comandare né essere comandato». Si deve a lui il racconto del disfacimento della seconda Repubblica. Andava ai convegni, nei congressi di tutti i partiti. Però bisogna dire che non capiva nulla di politica. Aveva molto umanità nel raccontarla. Il suo problema era che la osservava con il cannocchiale. Prendeva proprio in mano il binocolo, se lo metteva davanti agli occhi e descriveva al microscopio. Ne uscivano racconti insieme epici e esilaranti. Ma non capiva nulla di politica. Perché non usava il cervello ma solo l'istinto. Lo portò a parlare malissimo della Democrazia Cristiana, bene del Partito Comunista Italiano, a distruggere Craxi solo perché la sua canottiera intrisa di sudore si rendeva visibile sotto la camicia nel «padiglione egizio» del congresso di Bari.

GLI ULTIMI TEMPI. Esaltò Scalfaro contro Cossiga. Attaccò Berlusconi sistematicamente negli ultimi tempi, se la prese sì con la sinistra, soprattutto con il «parolaio» Bertinotti, ma il suo nemico acerrimo fino all'ultimo momento è stato Matteo Salvini, da lui dipinto come una sorta di nuovo Hitler. Ma tutto questo non possiamo che guardarlo con rimpianto. Perché anche i suoi errori di valutazione politica, le sue esagerazioni nell'uso dei paragoni bestiali che fissava spesso con cattiveria per i suoi avversari politici, erano intrisi di una passione ormai introvabile. Credeva a ciò che scriveva, e lo scriveva benissimo. Anche quando inciampava nel pregiudizio. Ma con lui era bellissimo arrabbiarsi, perché si incazzava moltissimo, prendeva tremendamente sul serio qualsiasi osservazione, come tutti quelli che amano esibirsi in prima fila e restituire colpo su colpo. Ha contribuito a illustrare le immagini che si depositano nella nostra memoria. La «balena bianca» è roba sua. Così come Forlani è e sarà per sempre il «coniglio mannaro» e chissà per chi altri di cui noi non ricordiamo più la provenienza pansiana. Ha avuto l'immenso dolore di dover seppellire l'amato figlio, che aveva intrapreso una carriera come manager di altissimo profilo.

CONTESTATO. Tutti i suoi ultimi libri, hanno avuto per fautrice l'amatissima moglie Adele Grisendi, che come lui veniva da sinistra, lavorando alla Cgil, e con il tempo l'ha accompagnato nella scoperta della persecuzione perpetrata dai cosiddetti giusti contro i cosiddetti cattivi (i fascisti). Gentilissimo con tutti quelli che si mettevano in contatto con lui, li andava a trovare in ogni parte di Italia, con coraggio ha sfidato i vecchi comunisti che andavano a disturbare le presentazioni dei suoi libri e a minacciarlo. Si faceva un baffo di loro. Di recente aveva avuto una soddisfazione che lo riempiva di orgoglio: il ritorno al Corriere della Sera, cui negli ultimi mesi ha inviato articoli di memorie memorabili. Memorabili resteranno il suo nome e le sue cronache scritte su un tamburo. In tanti ci alzavamo la mattina sperando di leggere i suoi racconti dell'Italia che muore ogni giorno e fatica a risorgere. Cerea, caro Pansa. Renato Farina

Quando Giampaolo Pansa inventò Dalemoni. Nell'ottobre del 1996 il giornalista nel suo "Bestiario" per L'Espresso dava vita alla creatura con le fattezze di Massimo D'Alema e i ragionamenti di Silvio Berlusconi. Ecco l'articolo integrale. Giampaolo Pansa il 13 gennaio 2020 su La Repubbloica. Ma chi è quel personaggio che sdottoreggia davanti alle telecamere del Maurizio Costanzo Show, accudito con trasporto amoroso dall'imponente Balia Baffuta? Forse è il perdente Silvio Berlusconi che ha deciso di truccarsi con una parrucca nero-grigia e due baffini dritti come spade, nella speranza di assomigliare all'avversario che l'ha sconfitto, il vincente Massimo D'Alema. Oppure è D'Alema che ha scelto di ragionare e di parlare come ragionava e parlava il Berlusca, nella speranza di catturare sempre nuovi consensi tra gli orfani di Forza Italia. Oppure ancora stiamo assistendo a un sortilegio che si ripeterà tante altre volte dopo questa sera di martedì 24 settembre: abbiamo di fronte un ibrido, un centauro, una creatura doppia, in parole povere un D'Alema rimasto nelle fattezze fisiche uguale a se stesso, ma posseduto dai pensieri e dalle parole di Berlusconi. Come se Silvio il Perdente si fosse vendicato entrando nel corpo di Massimo il Conquistatore e condannandolo a perpetuare le idee, la concezione mentale, le pulsioni illiberali del berlusconismo di guerra. Posso dirlo? Questo impasto, questo alieno sdoppiato, un Dalemoni che non avevo mai visto, mi ha provocato prima un disagio profondo e poi una gran rabbia. E mi sono chiesto se davvero la vittoria dell'Ulivo meritasse anche il pagamento di un tale scotto, di tanto prezzo. Avevamo vinto, certo, ma adesso le idee del capo di Forza Italia erano passate nella testa del leader della Quercia e lì continuavano a vivere. Parlo, in questo caso, delle idee sui magistrati e sull'informazione giudiziaria, il piatto forte dentro il monologo televisivo del fenomeno Dalemoni. Quando ho acceso la tivù, più o meno alle 23 e 40, Dalemoni stava lagnandosi delle intercettazioni sull'affare Necci pubblicate dai giornali. Che pastrocchio!, si lamentava lui, ho tentato di leggerle, ma non ci ho capito quasi niente. L'unica cosa che ho compreso è che quelle pagine di giornale erano micidiali per la dignità degli imputati e di tutte le persone nominate. Non bisogna pubblicare né i verbali degli interrogatori né le trascrizioni degli intercettatori. E bisogna, assolutamente!, tutelare meglio il segreto istruttorio. Questo sistema di pubblicare tutto ha prodotto danni enormi. Il segreto, invece, è utile anche al proseguimento delle indagini. Il metodo di stampare ogni cosa è sbagliato. Avvelena il tessuto civile del paese. Causa una fibrillazione che è sfiancante anche per l'opinione pubblica e destabilizza tutto...La balia Maurizia ascoltava silente Dalemoni, sempre più facondo e gesticolante con pacatezza curiale. Pensate all'amministratore delegato di una grande impresa che si veda sui giornali in quel modo!, viene messo in una condizione di insicurezza e di paura. E tutta la vita economica e politica del paese viene precipitata nel malessere e nell'incertezza da questa pubblicazione. Mio caro Costanzo, si metta nei panni di un gestore di fondi americani che deve investire mille miliardi in Italia. Lui se ne sta lì con la sua montagna di dollari e legge sui giornali la voce che mettono sotto accusa tre ministri. Che cosa decide? Me lo dica lei! Forse ci facciamo soltanto del male. Bisogna avere giustizia e verità, chi non lo riconosce?, ma anche un paese non avvelenato e non sfiancato! I magistrati, dunque, devono mostrare riserbo e una maggiore compostezza, anche perché non si crei un rigetto dell'opinione pubblica. Ce la ricordiamo l'epoca del terrorismo? I magistrati erano degli eroi di quella lotta. Ma poi la gente ha votato in modo massiccio il referendum sulla responsabilità civile dei giudici. Dunque dobbiamo chiedergli maggiore sobrietà e minore spettacolo. Io voglio un'Italia normale dove ci sia la lotta politica e anche le indagini della magistratura, ma senza mettere a soqquadro la tranquillità del paese. Era la prima volta che, da telespettatore, mi trovavo nel piatto un D'Alema immerso in una salsa così berlusconiana. E mi sono domandato: ma come siamo arrivati a un pastrocchio, questo sì, tanto sfiancante? L'antefatto è lungo. Dura da anni. Sull'"Espresso" ne abbiamo scritto a iosa, forse dovremo riparlarne altre volte, e dunque lo saltiamo. Limitiamoci a partire dall'ultima sequenza, quella legata all'affare Necci. La data: la sera di martedì 17 settembre. Il luogo: la procura della Repubblica di La Spezia. Tutto comincia con un eccesso di loquacità di uno dei due sostituti che, per nove mesi, hanno indagato in silenzio e nel segreto. E' Alberto Cardino che, cito "l'Unità", si lascia scappare: «Ci sono anche politici coinvolti». Politici attualmente in carica? «Sì». In carica anche nel governo? Al terzo quesito dei giornalisti il dottor Cardino, grazie al cielo, non risponde più. Quella stessa sera D'Alema è a Scandiano, in Emilia, alla festa dei popolari. Replica subito ("La Stampa", 18 settembre) con un missile assolutamente sproporzionato e che rivela un grande nervosismo da insofferenza: «Non si può destabilizzare (sic!) le istituzioni politiche andando alla tivù a dire: "Sapete ci sono dei politici coinvolti in una inchiesta, poi vi faremo sapere chi sono". Mi pare un modo di condurre le vicende giudiziarie quanto mai singolare. E voglio sperare che segua, a poche ore dall'annuncio, l'indicazione dei nomi dei politici che sarebbero coinvolti». Poche ore dopo, e siamo al primo pomeriggio di mercoledì 18 settembre, arriva sulla procura di La Spezia un altro missile. A spararlo sono i tre consiglieri del Pds nel Consiglio superiore della magistratura, Giovanni Fiandaca, Carlo Federico Grosso e Andrea Protopisani. L'obiettivo sono i giudici che parlano delle inchieste, a cominciare dal dottor Cardino. Perché il ministro della Giustizia, Gianmaria Flick, e il procuratore generale della Cassazione non li sottopongono «ad un'attenta valutazione» in sede disciplinare? Queste esternazioni, giurano i tre, «talvolta incidono persino sul sereno svolgimento delle funzioni politiche di governo (sic!) e sull'andamento dell'economia (sic!)». In difesa della patria, del governo e della lira in pericolo scatta subito la mobilitazione generale di quasi tutto il partitismo italiano. La chiamata alle armi avviene al seguito della bandiera più potente, quella del Pds. E con un capovolgimento della realtà che lascia stupefatti: i nemici del paese non sono più i corrotti, i tangentari, i malloppieri redivivi, bensì i giudici che parlano! Un giorno qualcuno scriverà la storia di questa mistificazione. Qui daremo solo qualche traccia documentaria che riguarda capi e capetti della Quercia, un partito che, prima di questi tempi acidi, era sempre stato, come doveva, dalla parte dei magistrati onesti. Uno che parla subito molto è il giovane Pietro Folena, responsabile del Pds per la giustizia. Sulle prime, quando la chiamata alle armi non c'è ancora, dice parole sensate ("Il Messaggero", 18 settembre): «Vi pare che la democrazia stia crollando perché è stato arrestato l'amministratore delegato delle Ferrovie?... In questo caso non mi sento di condividere le critiche all'arresto di Necci. Anzi, vorrei sottolineare che i giudici hanno condotto l'inchiesta con grande riserbo». Poi Folena cambia idea, e vedete subito come e quando. Il 19 settembre ("Repubblica" del 20) Pietro l'Esperto comincia a fantasticare sull'inchiesta di Verona contro la Lega e l'irruzione della Digos a Milano, nella centrale leghista di via Bellerio: «Mi viene il dubbio che ci sia qualcosa d'intenzionale dietro queste iniziative. Settori della magistratura, settori della polizia, cosa stanno facendo i servizi al nord... C'è qualche grumo di ambienti torbidi» che prova a buttare benzina sul fuoco. Lo stesso giorno ("l'Unità" del 20) Folena passa alla Spezia: «Non abbiamo nessun imbarazzo rispetto a quell'inchiesta. Ma quello che di meno questo paese oggi sopporta è il ripetersi di ciò che sopportò tra il 1992 e il 1994-95: vale a dire il circuito autonomo tra pubblico ministero - sistema massmediatico politico - opinione pubblica, che era praticamente una forma di comunicazione diretta tra pm e popolo». Due giorni dopo ("Corriere della Sera", 22 settembre), la pubblicazione delle intercettazioni trova Folena ormai in pieno delirio persecutorio: basta con «l'assenza di equilibrio di questa cultura del buco della serratura. Sta determinando una destabilizzazione che nessun paese democratico può reggere a lungo!». Al seguito di D'Alema & Folena si mettono in riga altri eccellenti della Quercia. E' una sfilata strabiliante per i candidi come me che li hanno sempre votati. Cesare Salvi ("Il Messaggero", 20 settembre) bolla a fuoco il giustizialismo, se la prende anche «con la linea di politica giudiziaria che sembra prevalere sulle pagine dell'"Unità"», poi grida: «E' inaccettabile che le decisioni del Parlamento possano essere condizionate dalle opinioni dei giudici». Massimo Cacciari (Ansa, 19 settembre), di solito simpaticamente trasgressivo, si scaglia contro i giornali che pubblicano i verbali: «Queste cose intollerabili devono finire. Abbiamo superato ogni limite. Siamo usciti dallo Stato di diritto. Non ci sono più garanzie per gli imputati e la difesa. E' ora che si aprano inchieste su questi comportamenti inaccettabili». Anche i vicini di banco hanno i santissimi che fumano. Il senatore Luigi Manconi (Ansa, 19 settembre) vede «magistrati e giornalisti» solidali «in un unico progetto criminoso». E il senatore Gualtieri (tu quoque, Libero!) piange rabbioso sul comportamento dei giornali: «Pregiudizio alle inchieste! Disinformazione dell'opinione pubblica!». Si mobilitano persino teste d'uovo del calibro di Giuseppe Vacca e Claudia Mancina, ed è un'altra grandinata su di noi pubblicatori di verbali. Le voci in difesa sono rare. Beppe Giulietti chiede ai suoi compagni di indignarsi per la corruzione, non con i magistrati e i giornalisti. Lo stesso dice Antonello Falomi ("Corriere" del 22 settembre): «Quando i giudici depositano le loro carte, queste divengono pubbliche. Dobbiamo vietare alla stampa di scrivere?». Ma la chiamata alle armi è ormai totale, e D'Alema non ammette renitenze e diserzioni. Me ne rendo conto quando va all'attacco il presidente della Camera, Luciano Violante. E' il venerdì 20 settembre e lo debbo intervistare alla Festa nazionale dell'Unità, a Modena. Una serata che non dimenticherò più. E che m'insegna molte cose. La prima è che l'affettuosa amicizia tra giudici e Pds è finita. Quando i magistrati radevano al suolo il Psi di Craxi, la Dc del Caf e il loro erede, Berlusconi buonanima, il pappa-e-ciccia è stato formidabile. Tutto era accolto con festosi rulli di tamburo: esternazioni, verbali, intercettazioni, violazioni di segreto. Lo scoop giudiziario era una manna e il cronista dei palazzi di giustizia un combattente. Ma adesso basta!, la ricreazione è finita. C'è stato il voto del 21 aprile. La sinistra è al governo. Tre quarti dell'Italia è sotto bandiera dell'Ulivo. Gli eroi sono stanchi di inchieste e di rivelazioni. I giudici si ritirino in pace. E i giornali pure. Mi viene un magone infuriato, la sera di Modena, quando metà del tendone ulula contro una mia constatazione dalla banalità suprema: «Se i giudici non avessero parlato, e se noi giornalisti non avessimo infranto segreti, non avreste saputo nulla di Tangentopoli!». Ma il magone più forte me lo regala Violante quando dipinge la vita privata degli italiani alla mercè di una gigantesca Spectre di intercettatori e di cronisti senza vergogna, pronti a gettare fango su tutti. Ai giornalisti ha già pensato D'Alema, che da mesi semina discredito dipingendoci come una banda di squadristi della carta stampata. Ai magistrati che intercettano, e poi trascrivono il tutto in atti pubblici, qualcuno ci penserà. Ecco perché, la sera di martedì 24 settembre, il D'Alema di Canale 5 parlava come il Berlusca di Mediaset. Gli estremi ormai si toccano, si confondono, si fondono. Stai a vedere che l'Inciucissimo prossimo venturo servirà soprattutto a zittire chi disturba il manovratore, ieri polista, oggi dell'Ulivo. Ma chi ha ancora il gusto della libertà si metterà di mezzo. E saranno cavoli acidi per il Dalemoni d'Italia.

"Addio al mio bel fieu", la lettera di Giampaolo Pansa al figlio Alessandro. Tra ricordi d'infanzia e considerazioni politiche, lo struggente commiato scritto su “La Verità” per ricordarlo poco dopo la sua improvvisa scomparsa a novembre 2017. La Repubblica il 13 gennaio 2020. Alessandro, l'unico figlio amatissimo di Giampaolo Pansa, morì improvvisamente a 55 anni l'11 novembre 2017. Per ricordarlo, il grande giornalista gli scrisse una lettera pubblicata dal quotidiano "La Verità" di cui all'epoca era collaboratore. "Caro Alessandro, la tua scomparsa improvvisa mi ha costretto a prendere atto di alcune verità. La prima è che nella vita di tutti giorni accade ciò che di solito avviene quando c'è una guerra. Che cosa succede in una nazione coinvolta in un conflitto? L'ho visto con i miei occhi di bambino negli ultimi mesi della seconda guerra mondiale: a morire sono sempre i giovani, mentre gli anziani la scampano. Insomma, la guerra rovescia lo stato naturale delle cose. Ma può accadere così anche se il mondo si trova in pace." "Te ne sei andato a 55 anni", prosegue Pansa, "mentre io sono ancora vivo quando ne ho 82. Ti confesso che in questi giorni più di una volta mi sono domandato: perché il Padreterno non ha preso me, invece di te, anche se avrebbe arrecato un grande dolore alla persona che amo di più al mondo, la mia cara Adele? Lo so, è una domanda senza senso: il perché lo conosce soltanto lui. Ma l'ho pensato e credo che ci metterò del tempo prima di non chiedermelo più." Tra le righe, non solo il dolore di una perdita "che, come la guerra, rovescia lo stato naturale delle cose", ma anche la scoperta di un mondo di profonde relazioni: "In questi giorni mi sono reso conto con gioia che avevi una vita intensa di affetti e di amicizie forti. Non la conoscevo anche se eri il mio unico figlio. Accanto a te c'era un gruppo di amici, molto compatto e solidale. In parte erano stati anche loro allievi del liceo classico Manzoni che avevi frequentato a Milano, in parte erano allievi di altri licei della città. Tutti professionisti affermati, nella finanza, il tuo campo di attività, nelle banche e nella grande editoria libraria. Stavate bene insieme. Il lavoro che avevate scelto vi piaceva. Non so dire quali fossero le vostre opinioni politiche, di cittadini che sanno di vivere in una nazione complessa, ma le credo simili tra loro. Però ammetto che, tra amici, questo può essere un problema secondario e la mia deformazione professionale lo ingigantisce senza motivo." Dalle amicizie alla politica, sempre sul filo della consapevolezza di un rapporto in cui la distanza ha giocato un ruolo significativo. "In questi giorni di lutto, un mio amico mi ha chiesto come tu la pensassi a proposito dei partiti italiani. Non ho saputo rispondergli, anzi non ho voluto. La memoria mi ha restituito soltanto l'Alessandro all'età di 16 anni, quando si era preso una cotta politica per Sandro Pertini, diventato Presidente della Repubblica nel 1978. Avevi addirittura imparato a memoria il suo discorso d'insediamento. Allora lavoravo a Repubblica e il direttore, Eugenio Scalfari, l'aveva detto a Pertini e lui ti aveva invitato al Quirinale insieme a me. Quel giorno eri davvero soddisfatto!". Il ricordo passa poi ai nipoti Giacomo e Angelica e la loro fortuna di "avere avuto un padre sempre molto sollecito, anche se immerso in un mare di impegni. Da adolescenti non esitavano a criticarti e io lo consideravo una prova che insieme a tua moglie Costanza eravate stati capaci di crescerli da ragazzi liberi, senza soggezioni. Così la penso ancora, pur riconoscendo di aver saputo poco della tua vita privata e famigliare." Uomo colto, laureato in Bocconi, appassionato di storia e filosofia, Alessandro Pansa era nato a Mortara (Pavia) il 22 giugno, 1962, e si era laureato in Economia Politica con lode. Vicepresidente di Feltrinelli e docente alla Luiss, fu anche amministratore delegato di Finmeccanica fino al 2014. Proprio l'allontanamento da Finmeccanica è uno dei ricordi più dolorosi di un padre. "Eri un uomo consapevole delle proprie capacità e dunque molto tenace nell'affrontare le sconfitte momentanee. La più dura emerse nel 2014 quando il governo di Matteo Renzi, insediato da qualche settimana, mandò via i capi di tutte le aziende partecipate dallo Stato. In quel momento eri l'amministratore delegato della grande Finmeccanica. Conoscevi tutto di quel gruppo poiché ci lavoravi da 12 anni, salendo gradino dopo gradino. Da un anno, dopo che era scoppiato il terremoto giudiziario che aveva eliminato ben due numeri uno dell'azienda, avevi preso il loro posto. E, insieme a un gruppo ristretto di giovani dirigenti, ne avevi retto il timone con mani salde. Con me non parlavi mai della tua caduta, ma avvertivo l'amarezza mista a rabbia. Un giorno mi spiegasti: "Mi hanno cacciato senza neppure dirmi grazie!". Un dolore privato che sfuma nell'analisi, più pessimistica che mai, del mondo politico, che Pansa definisce senza mezzi termini  "un mattatoio di bande che si azzannano". "Però quello che io non ho sopportato allora e continuo a non sopportare - continua - è la vergogna per un Paese che sceglie chi è fedele a un boss ed è, magari, mediocre, mettendo da parte i migliori. Tu, Alessandro, eri tra questi. Eliminato nel pieno della maturità intellettuale e professionale, com'è accaduto e accadrà ancora a molti altri. Un danno immenso per le sorti di questa Italia senza pace". E di nuovo il rimpianto di non aver saputo fare abbastanza, di essere stato un padre "ingombrante e spesso assente". "Non ho mai conosciuto il tuo giudizio sul mio lavoro - scrive Pansa -. Oggi mi rendo conto che in realtà la mia professione non ti attirava, come invece sembra accada a molti figli di giornalisti. Anche da piccolo mantenevi delle riserve sul mio conto. Alle elementari, tu consegnasti il tema che mi riguardava: «Mio papà fa il giornalista e, quando ritorna a casa la notte, svuota il frigorifero». Infine per tua madre Lilli nutrivi un amore sconfinato. Era la tua Ginevra e tu il suo Artù, mentre io, finché sono rimasto in casa, ero un cavaliere della Tavola rotonda. Con la tua partenza, quel mondo è finito del tutto". Le ultime parole, sono la resa di un padre a un dolore immenso: "Da parecchio, la notte non traffico con il frigo. Cerco di dormire. E ci riesco soltanto perché mi accuccio nel fianco di Adele. Da una settimana cerco di non pensare che tu, caro Alessandro, te ne sei andato chissà dove. E ti confesso che ho il terrore di sognarti. Però, mio bel fieu, mio bel ragazzo, ti accoglierò sempre a braccia aperte. O con un cazzotto sulla spalla. Come facevo quando venivi a trovarci. Mi piacerà ascoltare di nuovo la tua voce che mi dice: «Fai bene a scrivere contro questi nuovi politici che stanno portando il nostro Paese al disastro». Ritroveremo così quell'intesa che a volte ci è mancata. Ti voglio bene". Firmato: "Giampaolo, il tuo papà".

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 14 gennaio 2020. Nel nostro simpatico Paese, se vuoi essere considerato più di una mosca fastidiosa, ti tocca almeno morire. Allorché questo avviene, non rompi più le scatole alle anime belle, le quali di fronte alla tua bara sono perfino disposte a togliersi il cappello e a renderti onore. Giampaolo Pansa non è una eccezione. Quando era vivo ne ha udite sul suo conto di tutti i colori: fascista, imbroglione e via andare. I suoi più accaniti detrattori erano proprio i giornalisti, e persino gli editori. La colpa che gli attribuirono quasi tutti, non tutti, fu quella di aver tolto la verginità ai partigiani nonché di aver raccontato la verità in un libro memorabile: "Il sangue dei vinti", che non contiene una sola parola sbagliata. Rammento che all' autore fu addirittura impedito di presentare pubblicamente la sua alta opera letteraria, tanto per fare capire al lettore il livello democratico dei suoi acidi critici. Pansa crepa, come succede a chi invecchia e si ammala, e mentre sui social network, che sono fogne a computer acceso, gliene dicono ancora di cotte e di crude, i giornaloni lo lodano e lo imbrodano esageratamente, celebrandolo anche come analista politico, cosa che non era di sicuro la sua specialità. Egli è stato un cronista fenomenale, il più bravo in assoluto nel descrivere il mondo nevrotico dei partiti, ma il succo delle attività di Palazzo non lo ha mai assaggiato pur nella convinzione di averlo bevuto. Insomma un maestro della cronaca di alto livello, e altresì un narratore storico attento e puntuale, eppure non un esperto della politica. Con rammarico vergo questa nota, però mi dispiace maggiormente constatare con quanta ipocrisia egli sia stato trattato dai colleghi quando era in posizione eretta e ancora di più ora che è defunto. Siamo stati, lui ed io, amici per lunghi anni, poi abbiamo litigato per questioni professionali meschine. Tuttavia, non ho mai negato la sua enorme statura. Insomma, per eccellere bisogna decedere.

È morto il giornalista Giampaolo Pansa, il più grande giornalista italiano. Il Corriere del Giorno il 13 gennaio 2020. Giampaolo Pansa amava scrivere al servizio dei suoi lettori e rivendicava con orgoglio il ruolo di “rompiscatole”, epiteto che diede anche il titolo a un libro autobiografico. Pansa amava scrivere al servizio dei suoi lettori. E’ sempre stato generoso di insegnamenti con i colleghi, anche modesti e sconosciuti. Ci ha lasciato all’età di 84 anni Giampaolo Pansa protagonista di oltre mezzo secolo di giornalismo. Risulta quasi impossibile immaginare  per chi come noi si è abbeverato e formato leggendo i suoi articoli, i suoi resoconti dei congressi politici della 1a Repubblica, di non leggere più la sua “penna” arguta. Immaginare oggi di sfogliare la carta stampata senza trovate la sua firma è molto triste. Pansa nato il primo ottobre del 1935 a Casale Monferrato, esordendo a 26 anni al quotidiano La Stampa di Torino. Diventato uno dei più letti ed  autorevoli cronisti d’Italia , ha lavorato nelle redazioni dei giornali più importanti, lasciando sempre il segno della sua forte personalità generosa e travolgente. Appena poteva lasciava la scrivania per tornare a fare il cronista: con il binocolo coglieva i dettagli dei congressi della “Balena Bianca“, cioè la Democrazia Cristiana, e dell’”Elefante rosso“, il Partito Comunista Italiano. Al Pci fu vicino, ma non esitò a chiedere le dimissioni del segretario Achille Occhetto quando emerse il coinvolgimento del partito nell’inchiesta Tangentopoli. Pansa è stato un grande inviato, scrivendo saggi importanti, tra cui “Il malloppo” che anticipava Tangentopoli, libri-intervista come “Questi anni alla Fiat” con Cesare Romiti, da cui gli storici non potranno prescindere, e romanzi di vasta tiratura. La “firma” di Giampaola Pansa  è strettamente collegata ai momenti più importanti della storia italiana, scrivendo prima su Il Giorno e poi su La Stampa per approdare nel 1977 a La Repubblica dove ebbe l’inizio del suo lungo legame professionale ed umano con Eugenio Scalfari e con l’editore Carlo Caracciolo. L’anno successivo, nel  1978 Pansa diventò vicedirettore del quotidiano romano, affiancando e supportando Scalfari nelle decisioni giornalistiche più difficili scaturite dalla stagione del terrorismo. Pansa è stato inventore di uno stile giornalistico che ha fatto scuola. I suoi libri “Giornalista dimezzato”, “Dalemoni” (sull’intesa tra Berlusconi e D’Alema), “Parolaio rosso” (Bertinotti), “Balena bianca” (la Democrazia Cristiana) sono soltanto alcuni passaggi del suo personalissimo lessico con cui ha svecchiato le cronache giornalistiche sulla politica italiana, osservandola ai congressi di partito con il suo leggendario binocolo . Rivendicava con orgoglio il ruolo di “rompiscatole”, epiteto che diede anche il titolo a un libro autobiografico. Sono pochi i giornalisti che hanno avuto il passo del “rubrichista” come Pansa :  nel 1984 ideò  per il settimanale l’Espresso  sotto la direzione Giovanni Valentini,  la fortunata rubrica “Chi sale e chi scende” che  vanta ancora oggi molti cattivi imitatori, e nel 1987 esordì su Panorama, direttore Claudio Rinaldi  con “il Bestiario” rubrica successivamente trasferita su l’Espresso. Anche i titoli dei suoi libri lasciano il segno della sua vis polemica, rivolta soprattutto al mondo dei giornali e giornalisti. Chi ama questo mestiere non può non avere letto saggi come  “Carta straccia“, “Carte false“, “Comprati e venduti“, “Il malloppo“, “Lo sfascio“...Pansa ha affiancato per cinquant’anni al lavoro del giornalista,  quello dello storico,  cominciando dalla tesi di laurea, sotto il magistero di Guido Quazza,  dedicata alla “Guerra partigiana tra Genova e il Po”. A incoraggiarlo verso gli studi storici fu merito soprattutto di Alessandro Galante Garrone,  che è stato suo professore di Storia moderna e contemporanea negli anni torinesi dell’università. Pansa si sarebbe allontanato da quel mondo di studi convintamente antifascista, tra gli anni Novanta e il nuovo secolo, quando cominciò il suo lungo viaggio attraverso le zone oscure del partigianato. “Dopo tante pagine scritte sulla Resistenza e sulle atrocità commesse dai Repubblichini – disse Pansa a Repubblica – mi è sembrato giusto vedere l’altra faccia della medaglia. Ossia quel che accadde ai fascisti dopo il crollo della Repubblica sociale”. Il suo primo titolo di successo fu “Il Sangue dei vinti” che suscitò polemiche non lievi: tra il maggio del 1945 e la fine del 1946, nelle vesti di aguzzini e seviziatori,  s’incontrano alcuni dei partigiani che avevano liberato il Paese da nazisti e fascisti. Storie di stupri e di torture, di cadaveri irrisi e violati, di fucilazioni di massa e crimini gratuiti. Alla passione storiografica Pansa affiancava la felicità di una scrittura narrativa di rara limpidezza: il suo libro divenne subito un bestseller, segnando l’avvio di un “ciclo di vinti” dedicato alle “efferatezze” della Resistenza: una serie di libri destinati a scalare le classifiche dei più venduti. Intorno alle sue opere nacque un accesso dibattito. Anche  il quotidiano La Repubblica discusse i presupposti e il metodo del suo lavoro storico-narrativo, in un passaggio politico in cui la destra berlusconiana cercava di demolire la storia antifascista da cui era nata la Repubblica italiana. Pansa reagiva alle critiche  alla sua maniera, protestando con veemenza, dedicando pagine di libri successivi alle polemiche, ma senza mai negare l’abbraccio affettuoso del vecchio collega. Giampaolo Pansa amava scrivere al servizio dei suoi lettori. E’ sempre stato generoso di insegnamenti con i colleghi, anche modesti e sconosciuti . Addio caro Giampaolo: come te, nessuno più.

Addio a Giampaolo Pansa, icona della destra. Raccontò le violenze dei partigiani. Meloni: «Giornalista controcorrente». Giorgia Castelli lunedì 13 gennaio 2020 su Il Secolo d'Italia. Addio a Giampaolo Pansa. Scrittore, polemista, commentatore, icona della destra. Firma dei più importanti quotidiani italiani, dalla Stampa, dove ottenne il suo primo contratto giornalistico, nel 1961, al Giorno, dal Corriere della Sera a Repubblica (di cui è stato vicedirettore) al Messaggero, dall’Espresso a Epoca a Panorama. Giampaolo Pansa, morto a Roma all’età di 84 anni, ha raccontato con acume la società e la politica italiana. Mettendo alla berlina i vizi della classe dirigente e soprattutto proponendo un punto di vista controcorrente, sempre in grado di stimolare il dibattito e la riflessione.

Giampaolo Pansa e i libri sui crimini dei partigiani. Basti pensare alle polemiche giornalistiche e storiografiche che hanno sempre accompagnato i suoi libri dedicati alla Resistenza, su tutti Il sangue dei vinti, il saggio del 2003 sui crimini dei partigiani compiuti dopo il 1945 che provocò uno choc culturale. E gli è costato da parte della sinistra l’accusa di revisionismo. E questo perché raccontò per la prima volta la storia e le piaghe degli sconfitti. Maturò la passione per gli anni del Fascismo e della Resistenza fin dalla tesi di laurea. Pansa ha firmato numerosi saggi e romanzi storici. Nel 2001 ha pubblicato Le notti dei fuochi, sulla guerra civile italiana combattuta tra il 1919 e il 1922. Ma anche I figli dell’Aquila, racconto della storia di un soldato volontario dell’esercito della Repubblica sociale italiana. Ha firmato poi il ciclo dei vinti, libri dedicati alle violenze compiute dai partigiani nei confronti di fascisti durante e dopo la seconda guerra mondiale: Il sangue dei vinti (vincitore del Premio Cimitile 2005), Sconosciuto 1945, La Grande Bugia e I vinti non dimenticano (2010). Nel 2011 ha firmato Poco o niente. Eravamo poveri. Torneremo poveri, in cui ritrae l’Italia degli umili tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX attraverso la storia dei propri nonni e genitori. Provocatore fino all’ultimo, tra i suoi libri più recenti l’autoritratto intitolato Quel fascista di Pansa e poi con un pamphlet su Salvini Ritratto irriverente di un seduttore autoritario.

Gli scoop. Collezionò numerosi scoop. Uno di questi, per esempio fu quello sullo scandalo Lockeed. Ma coniò anche espressioni entrate nella storia come la “Balena bianca”, riferimento alla Democrazia cristiana. O il “Bestiario”, titolo di una sua celeberrima rubrica. Piemontese di Casale Monferrato allievo di Alessandro Galante Garrone, Pansa ha esordito nel giornalismo con la Stampa, occupandosi tra l’altro del disastro del Vajont, per passare poi al Giorno, al Messaggero di Roma, al Corriere (quotidiano con cui era tornato da poco a collaborare). E ancora a Repubblica e all’Espresso con cui ha collaborato dal 1977 al 2008 quando abbandonò polemicamente il Gruppo Espresso, in contrasto con la linea editoriale. Da allora ha scritto per Il Riformista, Libero, Panorama e The Post Internazionale. Giampaolo Pansa è morto a Roma assistito da sua moglie, la scrittrice Adele Grisendi. Nel 2016 aveva perso il figlio Alessandro, ex ad di Finmeccanica morto di malattia a 55 anni. Un dolore dal quale non si era mai ripreso.

Le parole di Giorgia Meloni. Tantissimi i messaggi di cordoglio per la sua scomparsa. Giorgia Meloni ha scritto un messaggio su Twitter: «Addio a Giampaolo Pansa, uno dei maestri del giornalismo italiano. Un grande professionista che ha raccontato l’Italia con il suo stile inconfondibile e ha avuto anche il coraggio di andare controcorrente, rileggendo alcune delle pagine più controverse della nostra storia».

Pansa e la destra: ecco le interviste-verità sui comunisti e quella coraggiosa difesa di La Russa. Lucio Meo lunedì 13 gennaio 2020 su Il Secolo d'Italia. Giampaolo Pansa e la destra italiana: un rapporto lungo, sincero, talvolta duro ma fruttuoso, costruttivo. E sempre nel segno della verità, del rispetto delle idee e soprattutto dei fatti storici. Al grande giornalista morto ieri a Roma la destra italiana deve un meticoloso e coraggioso lavoro di “revisionismo” sulle menzogne della storiografia ufficiale. Soprattutto, ma non solo, sui crimini commessi dai partigiani comunisti, che a Pansa valse l’ostracismo dell’intellighentia “rossa”, di cui lui mai si curò. Le interviste verità affidate ai giornali “non allineati”. Nelle sue numerose interviste sui giornali “non allineati”, Pansa testimoniò la sua passione per la verità, oltre ogni ideologia, per una memoria condivisa. Nel 2008 il primo, clamoroso caso di legittima difesa della destra da parte del giornalista piemontese. Episodio rispolverato oggi da Ignazio La Russa. «Ricordo ancora una sua intervista al Giornale nella quale da uomo di sinistra disse, quasi divertito, che mai nella vita avrebbe potuto immaginare di arrivare a difendere il sottoscritto dagli attacchi dei ‘moderati del Partito democratico. Perché lui fu così, sempre schietto e mai schiavo». Era il 10 settembre e due giorni prima sul palco di una cerimonia ufficiale con Napolitano, l’allora ministro della Difesa aveva difeso i ragazzi di Salò. «Farei torto alla mia coscienza se non ricordassi altri giovani italiani che si erano battuti contro lo sbarco degli americani. Dal loro punto di vista, combatterono credendo nella difesa della Patria».  Apriti cielo. Lo scontro con il presidente Napolitano fu durissimo. Il giorno dopo, sul Giornale, Pansa si schierò con la destra. «Mai avrei pensato, in tutta la mia vita, che mi sarei ritrovato a difendere La Russa dagli attacchi dei moderati del Partito democratico! Mai. Su Salò, per giunta… Questa polemica ha qualcosa di antistorico e barbaro che non capisco e non voglio capire». Titolo: «Tutte le ipocrisie di questi antifascisti». Svolgimento: musica per le orecchie di La Russa. «Non capisco cosa ci sia si scandaloso in quel che ha detto La Russa. Il ministro della Difesa non è un sacerdote della repubblica, tenuto all’imparzialità! Non siede al Quirinale. È un politico, un ministro. Posso citarle i numeri di Salò? Secondo le fonti della Rsi, furono più di 800mila.È grottesco etichettarli tutti come torturatori e amici dei nazisti! Molti di loro erano cresciuti nel regime fascista, immersi in un clima di propaganda perenne: cinema, scuola, radio… le divise dei figli della lupa… La maggior parte di loro, non poteva certo schierarsi per un parlamento legittimo, che non aveva nemmeno mai conosciuto. Quella educazione, fatalmente, portava molti di loro all’idea che difendere la patria dagli angloamericani fosse il primo dovere…».

Le memorabili interviste di Pansa al “Secolo d’Italia”. Anche al “Secolo d’Italia“, in più occasioni, il giornalista consegnò memorabili interviste destinate poi a far discutere in tempi di monopolio culturale e mediatico del pensiero unico. Nel 2012 Pansa non usò messe misure nel commentare l’uscita di due film “controcorrente”, “Sfiorando il muro”, di Silvia Giralucci, che prendeva le mosse da un tragico fatto di violenza politica degli anni ‘70 targato Br. E “Il segreto”, di Antonello Belluco, che aveva sullo sfondo l’eccidio di Codevigo, in cui 136 persone vennero uccise dai partigiani nel 1945. “In Italia è ancora inconcepibile una storia scritta dai vinti”, titolava il Secolo, con Pansa che spiegava. «Memoria condivisa significa che se io e te abbiamo storie molto diverse io accetto… anzi no, non accetto, io rispetto la tua storia e tu rispetti la mia. Ecco, tutto ciò in Italia è una pia illusione, un’utopia. Appartiene a una dimensione ideale, non alla nostra realtà quotidiana». Nel 2015, sempre sul Secolo, Pansa difendeva così i nemici della sinistra, nel suo libro “La destra siamo noi». «Ho voluto ribadire con questo libro un concetto fondamentale: la destra in tutte le sue varianti – neofascismo, moderatismo, destra reazionaria ecc. ecc. – è stata protagonista della storia dell’Italia nel dopoguerra ed è stato sbagliato considerare quel mondo come un’area di bombaroli neri da stangare e da tenere ai margini. La destra appartiene alla vita di questo paese, per questo il titolo è ‘la destra siamo noi’».

Dopo la verità sui partigiani rossi, quella sulle foibe di Tito. Ed ancora, negli anni, parole di verità sui crimini del comunismo. E sulle foibe. Nel febbraio del 2019 attaccò a testa bassa l’Anpi. «Quelli dell’Anpi non contano un cazzo. Straparlano. Sono un club di trinariciuti comunisti». La Giornata del Ricordo si avvicinava e lo scontro della destra con l’Anpi si faceva sempre più forte. Ma Pansa, pur non avendo mai preso posizione politica su un fronte o su un altro, su quei crimini sapeva bene da che parte stare. «Vogliono negare che Tito era un dittatore comunista – disse al Secolo –. Ma non possono farlo perché è storia. Vogliono negare che le squadre comuniste gettavano la gente che non amava Tito dentro le foibe. Ma non possono farlo perché è storia. Quelli dell’Anpi dicono e fanno delle cose che sono di un’assurdità totale». Dell’Anpi parlò anche nel suo ultimo libro Quel fascista di Pansa dove racconta le accuse e gli insulti che accompagnarono la pubblicazione nel 2003 del Sangue dei vinti, dedicato alle vendette compiute dai partigiani trionfanti sui fascisti repubblicani sconfitti.

«Un giornalista controcorrente», lo ha definito Giorgia Meloni. Controcorrente, ma soprattutto giornalista.

Pansa e lo strappo di Berlinguer che terremotò il Pci “Meglio sotto la Nato che Mosca”. Francesco Damato il 14 gennaio 2020 su Il Dubbio. Addio a un maestro. Gli scoop, la balena bianca, I dalemoni, il parolaio e l’elefante rosso: la sua penna ha descritto fatti e umanità, colorato vicende politiche e vizi capitali. Per la quantità degli importanti giornali ai quali ha collaborato nella sua lunga attività professionale, qualche volta andandosene e tornandovi, com’è accaduto al Corriere della Sera, che se lo era ripreso da poco destinando i suoi articoli ad una rubrica dal significativo titolo “Ritorno in Solferino”, poteva essere considerato un nomade Giampaolo Pansa: Giampa per gli amici, appena scomparso all’età di 84 anni. Al di là dell’amicizia, quando si era creata una certa confidenza fra di noi, quasi coetanei, con soli tre anni di distanza l’uno dall’altro, non ho mai smesso di considerare Giampa un Maestro, con la maiuscola: come altri davvero più anziani e quindi con tanta maggiore esperienza. Penso, in particolare, a Indro Montanelli, Enzo Bettiza e l’ancor vivo Sergio Lepri, di cui ho appena scritto sul Dubbio recensendone una biografia. Debbo dire che è proprio strana questa nostra editoria giornalistica, non a caso d’altronde affollata di editori, diciamo così, di risulta: spesso più improvvisati che professionali, o più impuri che puri, come si dice comunemente per dolersi di quanti usano i loro giornali più per coltivare meglio altri e prevalenti loro interessi, senza la trasparenza distintiva come quella della nostra testata, che per tutelarne e diffonderne il successo nelle edicole. E’ proprio strana questa nostra editoria, dicevo, se ad uno come Pansa non è mai capitato di diventare direttore di un quotidiano o di un settimanale, fra quelli per i quali ha lavorato o quelli che avrebbero potuto benissimo assumerlo solo per farsi da lui guidare. Vi confesso che quando divenni direttore del Giorno, ancora di proprietà dell’Eni, il primo al quale pensai con un certo imbarazzo fu proprio lui, Giampa, che per quel quotidiano era passato lasciando tracce di tutto rispetto, come alla Stampa, al Corriere e poi a Repubblica, a Panorama, all’Espresso, al Riformista, a Libero, alla Verità. Gliene parlai e lui mi tolse subito dall’imbarazzo dicendo, credo poco sinceramente, solo per garbo nei miei riguardi, che non vi aveva mai aspirato perché gli piaceva troppo scrivere. E dirigendo bene un giornale, non se avrebbe avuto più il tempo, o non gliene sarebbe rimasto abbastanza. La verità è che Giampa - diciamolo con franchezza e onestà - era troppo libero, e troppo imprevedibile nella sua libertà, perché un editore, specie se impuro, con interessi cioè diversi e prevalenti rispetto al giornale posseduto, gliene affidasse il timone. Peccato davvero, perché sarebbe stato un direttore della stessa eccellenza dei suoi articoli, delle sue inchieste, delle sue polemiche, dei suoi tantissimi libri, delle sue immagini, con le quali sapeva dare corpo efficacissimo ai suoi giudizi. Penso, per esempio, alla “balena bianca” alla quale volle e seppe paragonare la malandata Democrazia Cristiana, che pure sembrava allora inaffondabile, non immaginando nessuno che la cosiddetta prima Repubblica potesse morire non tanto dei suoi mali quanto degli sconfinamenti della magistratura e dell’uso, o abuso, fattone da partiti, uomini e gruppi di potere emergenti, o rivelatisi incapaci di vincere le loro battaglie con i mezzi ordinari. Penso all’” Elefante rosso” con cui egli battezzò quella potente macchina organizzativa e politica del Pci; o al “parolaio rosso” col quale Pansa seppe e volle liquidare, agli albori, o quasi, della cosiddetta seconda Repubblica, l’allora leader della Rifondazione Comunista Fausto Bertinotti, Che nel 1998 affondò il primo governo di Romano Prodi: quello dell’Ulivo, cui sarebbe subentrato senza un passaggio elettorale, pur logico col nuovo sistema maggioritario, un governo di Massimo D’Alema sostenuto da transfughi del centrodestra assemblati alquanto disinvoltamente da quel giocoliere che sapeva essere, quando ne aveva voglia, l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Ma penso anche al “Dalemoni” partorito dall’immaginazione di Pansa, sempre agli albori della cosiddetta seconda Repubblica, di fronte alle prove d’intesa, sopra e sotto traccia, fra D’Alema e Silvio Berlusconi. Che arrivarono ad un palmo dall’accordo vero e completo prima in una delle commissioni bicamerali sucedutesi per la riforma costituzionale, e poi addirittura in un turno di elezioni presidenziali per l’avvicendamento al Quirinale alla scadenza del mandato del presidente in carica. A quest’ultimo proposito fu proprio all’ultimissimo momento che Berlusconi si tirò indietro, temendo più la sorpresa dei suoi ancòra tanti elettori che la delusione dell’amico e consigliere Giuliano Ferrara. Che sull’intesa aveva un po’ scommesso, consapevole che da soli né il centrodestra né il centrosinistra, nonostante le speranze accese dal carattere prevalentemente maggioritario del nuovo sistema elettorale, ce l’avrebbero fatta a governare l’Italia tenendosi stretta la famosa Costituzione “più bella del mondo”, di cui parlava la sinistra ogni volta che si cercava seriamente di cambiarla. Negli ultimi tempi, prima di riapprodare al Corriere, e rompendo con i giornali di sostanziale centrodestra che l’ospitavano da quando la sinistra lo aveva praticamente espulso, trattandolo come un traditore per avere voluto raccontare e ricostruire con onestà la Resistenza, nel rispetto dei “vinti” e non solo dei vincitori, spesso sanguinari al di là delle esigenze di una pur drammatica guerra civile; negli ultimi tempi, dicevo, Pansa era diventato molto pessimista sulle sorti del Paese. Egli era sopraffatto dall’incompetenza dei grillini, dai limiti della sinistra e dalla paura del “seduttore autoritario” Matteo Salvini. Una volta si lasciò scappare persino un mezzo auspicio che venisse fuori un generale a rimettere ordine, come capitò di pensare a Ugo La Malfa nel 1978 reagendo al sequestro di Aldo Moro con la richiesta ad altissima voce, nel famoso “transatlantico” di Montecitorio, della pena di morte. Che solo un regime militare avrebbe potuto e potrebbe ripristinare. Autore frequente di scoop, a volte generati solo dalla sua capacità di previsione e di lettura del dibattito politico, che lo incuriosiva anche negli aspetti fisici, come dimostrava scrutando col binocolo dalle postazioni della stampa palchi e tribune dei congressi di partito, nell’epoca in cui erano ancora di moda questi riti della democrazia, credo che il più clamoroso resti quello del 1976. A crisi ancora aperta dopo le elezioni anticipate provocate dai socialisti di Francesco De Martino, mentre democristiani e comunisti trattavano la formazione di una maggioranza emergenziale di cosiddetta solidarietà nazionale, destinata a realizzarsi attorno ad un governo monocolore dc presieduto da Giulio Andreotti, l’allora inviato del Corriere della Sera Pansa seppe rompere letteralmente la corazza politica del segretario del Pci Enrico Berlinguer. Che l’indossava fuori e dentro il Bottegone, come si chiamava l’enorme palazzo di via delle Botteghe Oscure che era la sede del maggiore partito comunista d’Occidente. Alla presenza del tanto vigile quanto insofferente Tonino Tatò, il portavoce e molto altro del segretario del Pci, Pansa seppe strappare a Berlinguer un annuncio così clamoroso e imbarazzante per i militanti da essere ignorato, cioè censurato, il giorno dopo dal giornale ufficiale del partito. In particolare, sapendo bene quanto forti fossero i timori fuori e dentro l’Italia di una maggioranza condizionata dai comunisti, e dai loro rapporti già difficili ma pur sempre forti con l’Unione Sovietica, Berlinguer disse di considerare l’autonomia del suo partito più al sicuro sotto l’ombrello della Nato. Poi, in verità, dopo il sequestro e la morte di Aldo Moro per mano delle brigate rosse, anche per evitare il rafforzamento di quell’ombrello col riarmo missilistico dell’Alleanza Atlantica di fronte agli SS 20 sovietici schierati nell’est europeo contro i paesi occidentali, lo stesso Berlinguer si sarebbe tirato indietro dalla maggioranza tornando all’opposizione, all’inizio del 1979. Ma quell’annuncio strappatogli da Pansa era detonato come una bomba sullo scenario politico italiano e internazionale. Il segretario del Pci aveva scavato con quelle parole un solco destinato a produrre i suoi frutti anche dopo la ritirata del 1979. I rapporti del Pci con Mosca non sarebbero più tornati gli stessi. E la stessa Unione Sovietica sarebbe finita entro una ventina d’anni.

Così i "compagni" gioiscono per la morte di Pansa: "Oggi è un giorno un po' meno di m..." I militanti del collettivo di esterma sinistra "Militant" gioiscono per la morte di Giampaolo Pansa: "Oggi è un giorno un po' meno di merda del solito e forse non a caso il sole splende alto". Elena Barlozzari, Lunedì 13/01/2020, su Il Giornale. Giampaolo Pansa, scomparso ieri all’età di 84 anni, non era un fascista. Era un giornalista di razza, un curioso, una mente adamantina che non si è lasciata aggiogare da nessun padrone. É il cronista italiano che ha scritto per più giornali: dagli esordi su "La Stampa", all'approdo a "Il Corriere della Sera", passando poi per "Repubblica" e "L'Espresso", di cui è stato vicedirettore, fino ad arrivare al "Riformista", "Libero" e "La Verità". "Ha scritto dove si sentiva libero, quando si sentiva in gabbia apriva la porta e se ne andava", racconta Vittorio Macioce dalle colonne del nostro giornale. Eppure, oggi, c'è chi ne infanga la memoria affibbiandogli etichette che non gli sono mai appartenute. Sono i militanti del collettivo di estrema sinistra Militant, che dal loro blog prendono le distanze "dai consueti coccodrilli e dai ricordi commossi dei colleghi". Sbeffeggiano Walter Veltroni, che sulle pagine del "Corsera" lo definisce "un giornalista onesto benché aspro". Disconoscono quella sinistra troppo moderata che ha speso parole di cordoglio per la sua scomparsa. Pansa non merita neppure di riposare in pace ("Ciao Giampi... No Rip", scrivono sprezzanti). Nessuna pietà per un "revisionista". Sì perché, per loro, "era è resta un revisionista della peggior specie, uno che si è reso protagonista consapevole dell'attacco alla storia dei comunisti". La sua colpa è duplice. Il Sangue dei Vinti non è uno dei tanti saggi minori che raccontano dei crimini commessi dai partigiani. Il Sangue dei Vinti è un best seller. Ed è fuoco amico. Perchè Pansa non è Giorgio Pisanò. La sua è un'accusa alla Resistenza che arriva da sinistra. Un tradimento, per i nostalgici della falce e martello. E allora, quello odierno non è un giorno di lutto, ma "un giorno un po' meno di me... del solito e forse non a caso il sole splende alto". A scrivere sono gli stessi "compagni" che il 16 ottobre di quattordici anni fa lo contestarono a Reggio Emilia. Un gesto di cui i collettivi vanno ancora fieri. "Uno dei piccoli meriti che ci possiamo riconoscere come collettivo - si legge ancora - fu proprio quello di essere riusciti, con quell'azione, a infrangere l'immagine di Pansa come storico super partes riportando la questione dell'uso della memoria sul piano dello scontro politico". Probabilmente, quando ha cominciato a indagare sull'escalation di violenza ai danni dei fascisti, Pansa, tutto questo lo aveva già messo in conto. Ma non gli è importato. "Se io sarò ricordato per qualcosa - diceva - credo che lo sarò proprio per il ciclo del Sangue dei Vinti. Me ne accorgo perché le persone mi fermano per ringraziarmi... Certo, se vado in una zona dove dominano i centro sociali è l'opposto. Io ho dovuto smettere di andare a parlare in pubblico. Per fortuna i libri buoni si fanno strada da soli".

I collettivi antifà brindano alla morte di Pansa. «Oggi il sole brilla alto. Ciao Giampi… no Rip». Stefania Campitelli lunedì 13 gennaio 2020 su Il Secolo d'Italia. Lo hanno contestato, insultato, sbeffeggiato in vita. E non  si fermano neppure dopo la morte. All’indomani della scomparsa di Giampaolo Pansa, i compagni del collettivo Militant festeggiano la notizia. Una liberazione degna di un brindisi per quelli che sventolano in piazza “Triangolo rosso, nessun rimorso”.

Il collettivo Militant brinda alla morte di Pansa. È l’ultimo oltraggio postumo dei nostalgici delle violenze partigiane. Degli antifà che non hanno perdonato al giornalista controcorrente e scomodo la riscrittura della storia nazionale. Il racconto dei crimini partigiani a guerra finita, che ha intaccato la gloriosa vulgata resistenziale. «Ciao Giampi… no R.I.P». È il titolo eloquente dell’editoriale comparso sul sito del collettivo  comunista che raccoglie gli ultrà dei movimenti antagonisti romani. Lo stesso che nel 2006 contestò duramente il giornalista a Reggio Emilia. E rivendicò con orgoglio la “coraggiosa”  aggressione, che costrinse Pansa a interrompere le conferenze pubbliche. Nell’articolo grondante odio  bravi ragazzi dei centri sociali se la prendono con i “soliti coccodrilli”. E con il ricordo “commosso” di Veltroni sulle pagine del Corriere. Un’offesa all’antifascismo militante, che con la morte di Pansa è attraversato da una certa euforia. «Oggi per i comunisti è un giorno un po’ meno di merda del solito.E forse non a caso il sole splende alto», scrivono i compagni di provata fede antifascista. Che negano con orgoglio l’onore delle armi all’avversario.

Un prezzolato, un revisionista della peggiore specie. «Giampaolo Pansa era è resta un revisionista della peggior specie. Uno che si è reso protagonista consapevole dell’attacco alla storia dei comunisti. E della lotta di classe di questo paese. E che lo ha fatto perché prezzolato, per il proprio tornaconto personale. Vendendo il suo pedigree di giornalista e storico “di sinistra” che finalmente rompeva il silenzio. Per dire “la verità”». Il collettivo antifà si intesta il merito di aver smascherato l’autore de Il sangue dei vinti. E ricorda con enfasi trionfalista il 16 ottobre di quattordici anni fa. «Quando partimmo da Roma per contestarlo. Ee dirgli che quella storia che lui avrebbe voluto macchiare noi invece ce la rivendicavamo tutta. In ogni suo aspetto, in ogni sua contraddizione. Uno dei piccoli meriti che ci possiamo riconoscere fu proprio quello di essere riusciti a infrangere l’immagine di Pansa come “storico super partes”. Da quel giorno Pansa divenne di fatto lo “storico” della destra. E questa cosa probabilmente non ce l’ha mai perdonata. Visto che in ogni libro che ha scritto dopo “La grande bugia” non ha perso occasione per ricordare e condannare la nostra contestazione. Ciao Giampi… no R.I.P. Per quello che vale, siamo felici di essere stati la tua ossessione».

Giampaolo Pansa, l'orrore: a sinistra sputano sul morto. "Camerata merdaccia, una feccia in meno". Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano il 14 Gennaio 2020. Anche davanti a un morto la mamma degli imbecilli è sempre incinta. Con l' aggravante che ora quegli imbecilli usano i social e possono diffondere ovunque le loro bestialità. In occasione della morte di Giampaolo Pansa molti compagni, odiatori di professione e per partito preso, si sono scatenati, riversando in modo codardo insulti e accuse alle quali il destinatario, per ovvie ragioni, non potrà rispondere. Questi sciacalli si possono distinguere grossomodo in tre categorie: ci sono quelli che sbraitano e offendono per il puro gusto di farsi notare perché, se tutti lodano e compiangono, fare il controcanto (funebre) assicura maggiore visibilità; ci sono poi quelli che sputano bile sul sangue dei vinti, sentendosi paladini di una verità storica che Pansa avrebbe avuto la colpa di dissacrare, e quindi ergendosi a numi tutelari del totem della Resistenza; da ultimo, ci sono i maramaldi, quelli che godono nell' infierire sui cadaveri, pronipoti degli artefici dello scempio di Piazzale Loreto, che dinanzi alla morte del "nemico" non provano pietas ma accrescono il desiderio di vendetta. Questa sub-umanità ha trovato spazio negli ultimi due giorni su Twitter dove l' hashtag #Pansa è entrato in tendenza, ma sono divenuti di tendenza anche l' odio e la cretineria. Molti attaccano il giornalista dandogli dello storico improvvisato che avrebbe propalato bugie con libri mediocri e causato danni permanenti alla nostra conoscenza storica. Un utente lo definisce «uno dei più noti e spudorati spacciatori di menzogne. Ha diffuso roba uscita dalla propaganda delle SS, fantasie pornografiche», un altro esulta in quanto «ora ha smesso di produrre immondizia revisionista», un altro ancora giudica «i suoi libri sulla Resistenza dello stesso valore delle edizioni Harmony», d' accordo con chi ricorda «i danni gravissimi che i suoi libri e i polveroni mediatici che si compiaceva di suscitare hanno arrecato alla cultura storica». "Camerata" - Fioriscono a proposito quanti danno a Pansa, in modo spregiativo, del «camerata», uno che ha rivalutato il Ventennio, che «ha lavato e stirato il fascismo» e «reso tutti uguali, vittime e carnefici», equiparando vincitori e vinti. Di una specie ancor più deplorevole sono coloro che gli danno del mercenario, attribuendo la sua operazione di messa in luce dei crimini partigiani al tentativo di accreditarsi presso il centrodestra berlusconiano allora al potere. Ecco che allora fioccano gli epiteti di «prezzolato» e «opportunista» e le accuse esplicite di essersi venduto al padrone, come quella che arriva da Gennaro Carotenuto, prof. di Storia contemporanea all' Università di Macerata: «Di Pansa», scrive, «resteranno i soldi che ha fatto spargendo letame e balle sulla Resistenza, individuando un filone aurifero, all' inizio dell' era Berlusconi, attaccando il cavallo dove voleva il padrone». Squallida ironia - I peggiori sono però quanti godono della sua morte, da chi fa squallida ironia tipo «Pansa te, che bella liberata ci siamo dati» a chi scrive testualmente «era un merdoso, ora possiamo sputare addosso a lui. Un feccia in meno», fino agli antifascisti del collettivo Militant che, ripresi da molti sui social, festeggiano con un «Ciao Giampi no R.I.P., oggi per i comunisti è un giorno un po' meno di merda del solito e forse non a caso il sole splende alto»; per arrivare infine a chi gli augura una cattiva sorte post mortem, una specie di pena infernale in cui Pansa venga «rincorso e preso a calci nel culo da ogni partigiano che incontra per tutti i secoli dei secoli» oppure «insegni agli angeli il revisionismo del cazzo». Eccola qua, la nuova tendenza in fatto di odio social(comunista): non solo auspicare la morte di qualcuno o minacciarlo di morte, ma brindare alla sua morte. Quanto sono umani gli autoproclamatisi eredi dei partigiani. Gianluca Veneziani

Alessandro Gnocchi per “il Giornale” il 16 gennaio 2020. Non basta una carrellata di insulti per infangare la memoria di un uomo onesto, e Giampaolo Pansa, di cui si sono appena celebrati i funerali, non era solo un uomo onesto. Era un uomo di grande valore e come tale sarà ricordato. Probabilmente non accadrà ai suoi critici che si sono sbizzarriti in una sequela di sciocchezze sui social network. Anche i sassi sono consapevoli dei meriti indiscutibili di Pansa. Fu un cronista eccezionale, mise a segno scoop per almeno tre decenni, ebbe un ruolo decisivo nell' affermazione di testate come l' Espresso. Sorprende che lo storico dell' arte Tomaso Montanari si unisca al coro con un articolo di straordinaria violenza ma di troppo ordinario contenuto su Micromega. Intendiamoci: i coccodrilli devono essere onesti. Non è obbligatorio parlare bene di chi non si stima. Però neppure dirne male fino alla dannazione. Montanari si spinge a dire che la memoria di Pansa è esecrabile: non è un argomento critico degno di un accademico. Per il resto, siamo alle solite. La credibilità del Pansa storico sarebbe nulla perché non ci sono le note in fondo al Sangue dei vinti; Pansa avrebbe equiparato fascismo e antifascismo; Pansa era un falsario; Pansa è responsabile della deriva che ha portato allo sdoganamento di partiti come Fratelli d' Italia e Lega; Pansa è stato omaggiato dai media per ignoranza. Partiamo dal fondo e diciamo subito che Pansa non ha affatto sdoganato Matteo Salvini. Al contrario, ne era un acerrimo detrattore. Pansa poi è stato celebrato come cronista. Quasi tutti però si sono guardati bene dall' evidenziare come i suoi libri, che piacciano o meno, abbiano cambiato l' Italia, dalla cultura all' editoria. Il che è oggettivo ma difficile da ammettere per chi ritiene un attentato alla Costituzione affermare un paio di cose ormai scontate per chiunque non sia rimasto indietro di qualche decennio nelle letture. Pansa non ha equiparato un bel niente. Ha solo divulgato l' ovvio dopo gli studi di Renzo de Felice e Augusto del Noce. Non tutti gli antifascisti lottavano per la libertà: quelli rossi lottavano per Stalin. Non tutti i fascisti erano criminali. Siamo lieti che siano stati sconfitti (dagli Alleati) ma non condannare all' oblio le loro ragioni. Non è sufficiente dichiararsi antifascisti per appartenere alla famiglia liberale, è necessario anche essere anticomunisti. Pansa non era un falsario a differenza degli storici che hanno presentato la Guerra civile ignorando ciò che gli storici veri hanno provato: la massa degli italiani si collocava in una zona politicamente grigia; la Resistenza è stata una importante testimonianza morale ma non militare; la «svolta democratica» del Pci fu dettata da Mosca per opportunismo. Poi ci sarebbe il capitolo delle figure dimenticate perché minavano la propaganda del Pci, poco incline a riconoscere i meriti dei partigiani bianchi e azzurri o dei semplici patrioti. Pansa ha divulgato con successo questi temi delicati perché aveva la formazione dello storico e la penna agile del grande cronista. Il resto sono chiacchiere e distintivo.

Delirante attacco di “Micromega” a Pansa: “Un falsario. Ha sdoganato FdI e Salvini”. Guglielmo Federici giovedì 16 gennaio 2020 su Il Secolo d'Italia.  Violento attacco di Micromega a Giampaolo Pansa. Con la penna intinta nel veleno il critico d’arte Tomaso Montanari si incarica di tessere un rancoroso articolo contro l’autore del “Sangue dei Vinti”, appena scomparso.  Giudica “inaccettabile” quella che definisce  “la scelta revisionista di Pansa”. E bolla le santificazioni operate dai media una  “corale opera di depistaggio”. Ma Montanari va molto oltre il  dissenso dal giornalista scomparso, che può essere naturalmente legittimo.  E’ ignobile e arbitrario il ragionamento che ne segue. Montanari parte dalla delegittimazione totale del Pansa storico, definendolo “falsario”.  La sua “equiparazione sostanziale fascismo-antifascismo”  rende Pansa “uno dei responsabili culturali della deriva che conduce allo sdoganamento dello schieramento che va da Fratelli d’Italia alla Lega di Salvini, passando per Casa Pound”. Un delirio. Fossimo in una democrazia sana, Montanari, docente di storia dell’arte, andrebbe allontanato dall’insegnamento. Tanto divisive e colme di odio intellettuale sono le sue analisi. Pessimo insegnamento per i giovani. Montanari si fa interprete del rancore che la sinistra cova e coverà per sempre contro Pansa. Non si insegna con il rancore e l’ideologia. Oltretutto è un ignorante in senso etimologico: non sa che i partiti non vengono sdoganati dai libri di storia, ma dagli elettori che li votano. Ben strano concetto di democrazia. Poi getta tutto il discredito possibile e immaginabile sulla memoria dei ragazzi di Salò. Con una cattiveria che fa orrore. Pansa è colpevole di avere fatto da “megafono” alla pubblicistica fascista sulla guerra civile italiana;  e sulla memorialistica dei reduci di Salò. Una messe di testimonianze “che per un cinquantennio non erano riusciti a incrociare la strada del grande pubblico per la loro inconsistenza storiografica”: è la sentenza dell’autore del vergognoso articolo. Pansa ha acceso i riflettori sull’altra metà della storia. Sia dannato per sempre, è il sottotesto dell’articolo. Pansa ha avuto molti riconoscimenti da parte della cultura di destra per avere depotenziato le vulgate resistenziali ed illuminato capitoli  oscuri che la sinistra preferiva fossero rimasti negli scantinati della memoria. Guardati a vista dai “gendarmi”. Nell’oblio. Non è stato così. “Basterebbe questo a renderne la memoria esecrabile”, si spinge a scrivere Montanari: “Almeno per chi crede davvero nei valori della nostra Costituzione”. Siamo alla follia. Montanari si dice sconcertato della “celebrazione corporativa della grande firma”. Tutti idioti i giornalisti – secondo l’illuminato Montanari – che ne hanno elogiato l’opera. Dunque, da vero gendarme della memoria” (definizione usata da Pansa ) “i suoi libri  dal 2003 in poi ecco cosa sono: “Una continua, abile, suggestiva manipolazione dei fatti” Lo scopo dello scrittore e giornalista sarebbe stato quello di “costruire, nella percezione del pubblico, un sostanziale falso storico”. Pansa si farebbe una risata. Perché questo giudizio di Montanari è in sostanza la summa delle ingiurie che gli erano state rivolte in vita. Fa ridere la distinzione che fa Montanari tra un Pansa “buono”, poi diventato “cattivo”. “Aveva praticato egli stesso la ricerca storica con ottimi risultati”, si legge nell’articolo di “Micromega”. “Ma quando decise di  sostenere le tesi opposte a quelle in cui aveva sempre creduto – quando, cioè, decide di costruire l’apologia di chi uccise e morì per la Repubblica di Salò – non adottò il metodo storico. Ma ma scrisse una serie di testi narrativi in cui la memorialistica e il romanzo sfumano l’una nell’altro”. L’epitaffio di Montanari sulla tomba di Pansa suonerebbe così: “Sono testi, i suoi, che non hanno nulla a che fare con la storiografia: ma nemmeno col giornalismo…”. Insomma falsificazioni, carta straccia che racconta una storia falsa: “fiction ideologica, dalla parte dei fascisti”. Ignobile. Ignobile anche il resto. Pansa sarebbe stato abilmente coadiuvato da “un’ampia corte di giornalisti (quelli fascisti, quelli di destra, quelli che semplicemente non leggevano nulla; e quelli troppo ignoranti per porsi il problema)”. Ancora: “ Pansa oggi non è (come dovrebbe) l’autore di romanzetti curiosamente filofascisti, ma è il giornalista antifascista che ha svelato – dimostrando la coraggiosa capacità di andar contro "la sua parte" – il lato oscuro della Resistenza. Una clamorosa distorsione della verità”. Di distorto c’è qualcos’altro. La paura che il “fantasma”  di Pansa li perseguiti. I suoi libri hanno mutato, se non rovesciato, la percezione -falsa e omissiva- di tanta storiografia ideologica. E questo non sarà mai elaborato dalle cattive coscienze

Tomaso Montanari per Micromega – temi.repubblica.it il 16 gennaio 2020. La santificazione a testate unificate di Giampaolo Pansa lascia sconcertati. È naturalmente comprensibile il lutto degli amici e degli ammiratori, così come è lodevole la gratitudine dei più giovani giornalisti che ripensano ai loro debiti verso quello che fu, fino a un punto preciso della sua vita, un maestro del nostro italianissimo giornalismo. Ma il silenzio sulla scelta revisionista di Pansa (una scelta che assorbe, portandolo di male in peggio, quasi gli ultimi vent’anni della sua vita), o peggio i tentativi di liquidarla con accenni a un suo gusto per le questioni «controverse», al suo essere «bastian contrario» o «sempre contro», sono invece inaccettabili. E nemmeno il combinato disposto dell’intollerabile ipocrisia italica e borghese del «de mortuis nihil nisi bonum» e del corporativismo giornalistico possono giustificare questa corale opera di depistaggio. È esattamente questa coltre di silenzio che obbliga a prendere la parola proprio ora, a caldo: perché ci sia almeno qualche voce che contraddica la canonizzazione, e instilli dubbi proprio nel momento in cui il nuovo santo viene innalzato sugli altari, a riflettori ancora accesi. E il punto non è solo che Pansa è stato uno dei più efficaci autori dell’equiparazione sostanziale fascismo-antifascismo, cioè uno dei responsabili culturali della deriva che conduce allo sdoganamento dello schieramento che va da Fratelli d’Italia alla Lega di Salvini, passando per Casa Pound. Già, perché con Pansa, «la pubblicistica fascista sulla “guerra civile” italiana e la sterminata memorialistica dei reduci di Salò, che per un cinquantennio non erano riusciti a incrociare la strada del grande pubblico per la loro inconsistenza storiografica, hanno trovato un megafono di successo, uno sbocco nella grande editoria e nel grande schermo» E i fascisti ringraziarono, come fece per esempio il leader di Forza Nuova Roberto Fiore, parlando in tv nel 2008: «in generale l’Italia sta cambiando e sta iniziando a valutare quel periodo in modo più sereno. C’è stato un Pansa di mezzo in questi due anni. C’è stato un sano “revisionismo storico”». Basterebbe questo a renderne la memoria esecrabile: almeno per chi crede davvero nei valori della nostra Costituzione. Ma se almeno la qualità giornalistica del lavoro di Pansa fosse indiscutibile, potrei faticosamente arrivare a comprendere (mai ad accettare, né tantomeno ad approvare) la celebrazione corporativa della grande firma. È quello che avvenne per la Fallaci: e se trovo mostruoso che le si dedichino vie o strade, perché oggi sarebbe condannata per istigazione all’odio razziale, posso capire che le si riconoscano qualità di scrittura e di inchiesta (che personalmente, tuttavia, giudico al contrario assai modeste). Ma i peana per il giornalismo di Pansa rivelano in chi li eleva una ben curiosa idea di giornalismo. Il punto, infatti, è che i libri di Pansa dal 2003 (l’anno in cui esce il Sangue dei vinti) consistono in una continua, abile, suggestiva manipolazione dei fatti che mira a costruire, nella percezione del pubblico, un sostanziale falso storico. Pansa era stato uno storico: si era laureato in storia con uno dei migliori storici della Resistenza, e aveva praticato egli stesso la ricerca storica con ottimi risultati. Ma quando decise di ribaltare il tavolo e sostenere le tesi opposte a quelle in cui aveva sempre creduto – quando, cioè, decide di costruire l’apologia di chi uccise e morì per la Repubblica di Salò – non adottò il metodo storico, ma scrisse una serie di testi narrativi in cui la memorialistica e il romanzo sfumano l’una nell’altro. Una affabulazione senza nessun apparato di documenti e di note: e dunque inverificabile per il lettore. Sono testi, i suoi, che non hanno nulla a che fare con la storiografia: ma nemmeno col giornalismo, per quanto estesa possa essere l’idea di quest’ultimo. Perché sono testi in cui è inutile chiedersi se le cose narrate siano vere o meno: ed è inutile perché è impossibile rispondere. Ciò nonostante, moltissimi storici professionisti (a partire da Giovanni De Luna) hanno chiarito in molte occasioni (si leggano per esempio questo e questo) come si tratti di testi privi di qualunque valore cognitivo, irti di coscienti omissioni, falsificazioni, disonestà intellettuali di ogni tipo. Carta straccia che racconta una storia falsa: fiction ideologica, dalla parte dei fascisti. Nonostante questo – e con un metodo ben calcolato – l’abilissimo Pansa e un’ampia corte di giornalisti (quelli fascisti, quelli di destra, quelli che semplicemente non leggevano nulla e quelli troppo ignoranti per porsi il problema) a ogni uscita di libro hanno trasformato la percezione di quei romanzi nel racconto di una nuova storiografia di riscoperta, di revisione, di rovesciamento della verità stabilità dai vincitori antifascisti. Cosicché, nel discorso pubblico, Pansa oggi non è (come dovrebbe) l’autore di romanzetti curiosamente filofascisti, ma è il giornalista antifascista che ha svelato – dimostrando la coraggiosa capacità di andar contro ‘la sua parte’ – il lato oscuro della Resistenza. Una clamorosa distorsione della verità: una lunghissima, perversa ambiguità che non solo ha eroso, di libro in libro, il consenso alla Repubblica antifascista, ma che contestualmente ha mandato in vacca ogni idea di giornalismo, ledendo programmaticamente il primo essenziale patto che lega chi scrive e chi legge, perché «la prima cosa che chiediamo a uno scrittore è che non dica bugie» (George Orwell). Una risposta efficace era quella di Giorgio Bocca, un giornalista che aveva eguale udienza presso i media, e che definiva Pansa, semplicemente, «un falsario». Invece, contro questa mistificazione gli storici veri hanno avuto più difficoltà a rispondere: perché come disse (con straordinario cinismo) lo stesso Pansa allo storico Angelo D’Orsi, che lo rimproverava di non mettere nessuna nota nei suoi libri: «Tu vendi 2.000 copie e io 400.000… vuoi anche le note?». La stessa situazione, a me ben nota, in cui si trova lo storico dell’arte che voglia smontare le bufale di Dan Brown su Leonardo, o anche solo l’ennesima attribuzione farlocca a Caravaggio sparata in prima pagina dal redattore orbo di turno. Come si possa salutare oggi, dando fiato senza risparmio a tutte le trombe della retorica, un "maestro di giornalismo" è veramente un mistero doloroso del rosario di fake news, falsi storici, manipolazioni o semplici sciocchezze che si snocciola ogni santo giorno sui media italiani. Per fortuna, in queste ore non sono mancate lucide voci contro: per esempio quelle del collettivo Nicoletta Bourbaki, rilanciate dai Wu Ming, o quella di Luca Casarotti su Jacobin Italia. Ma sulla carta stampata non si è trovato davvero nessun antidoto (salvo un timido cenno sul Manifesto): e non per caso anche queste righe non appaiono su un giornale, ma su un sito felicemente eretico. La triste morale è che è inutile, ipocrita, e in ultima analisi intollerabile, inondarci di retorica sull’insegnamento della storia nelle scuole e difendere sdegnati la libertà di stampa e i giornali indipendenti, se poi è la nostra idea di giornalismo (e dunque di democrazia) a esser così gracile, ipocrita, superficiale.

Dal “Corriere della Sera” il 20 gennaio 2020.

Lettera di Tomaso Montanari. Caro direttore, gli insulti scomposti di Aldo Grasso sono altrettante medaglie. Ma forse i lettori del Corriere meritano anche argomentazioni. La fonte di Giampaolo Pansa non fu Otello Montanari, né la storiografia che aveva già documentato, sviscerato, interpretato quelle pagine della guerra di liberazione (per esempio nei libri di Mirco Dondi, Guido Crainz, Santo Peli, Massimo Storchi). Pansa si limita a mettere in romanzo (in almeno sei libri, l'uno ripetizione sostanziale dell'altro) la versione del repubblichino Giorgio Pisanò, e della sterminata memorialistica dei repubblichini di Salò. Un'altra fonte da cui Pansa attinge a man bassa sono I giorni di Caino. Il dramma dei vinti nei crimini ignorati dalla storia ufficiale di Antonio Serena, espulso da Alleanza Nazionale per aver distribuito in Parlamento un suo video in cui inneggia a Erich Priebke, e quindi finito senatore della Lega. I libri di Pansa non sono né storia né giornalismo: sono un cumulo indistinto di fatti, supposizioni, falsi, ipotesi, errori. Il tutto mischiato con furore ideologico. Senza una nota, senza un rinvio a un documento certo: senza mai la possibilità di verificare. E il Paese che oggi celebra Pansa è «un Paese felice di vedere i resistenti messi alla berlina della storia o, peggio, alla ghigliottina della morale...Un Paese felice di assistere alla gogna collettiva dei "comunisti" di allora e degli "antifascisti autoritari" di oggidì, in un grandguignolesco spettacolo dove tutti i nemici di Pansa grondano violenza e vergogna, dai più mitici capi partigiani ai più oscuri docenti universitari. Un Paese felice di sentirsi ignorante, e di farsi illuminare dal Robin Hood di Casale Monferrato»: come scriveva il Corriere della Sera (il 20 ottobre 2006).

Risposta di Aldo Grasso. A proposito di «insulti scomposti», la spinta a scrivere il Padiglione a difesa di Pansa mi è venuta leggendo la sequela di ingiurie e irrisioni - un invito alla damnatio memoriae di stampo stalinista - che Montanari gli ha rivolto a poche ore dalla morte per controbilanciare una presunta santificazione (si polemizza con i vivi, non con i morti). Né Montanari né io siamo storici di professione. Diversamente da lui, non sono mosso da astratti furori e non ho alcun desiderio di essere al servizio del ministro di turno. Ci penseranno altri più attrezzati di noi a stabilire se Pansa sia un «falsario» o meno. I libri di Pansa sono serviti a cambiare un clima culturale e ideologico, a divulgare, magari con estro giornalistico e scarsa attenzione alle note, l'insegnamento di un grande storico come Renzo De Felice, a sua volta vittima di un'ostilità feroce e prolungata: non tutti gli antifascisti hanno lottato per la libertà, alcuni per l'egemonia sovietica sull' Italia. E non tutti i fascisti erano dei mascalzoni come pretende la «vulgata antifascista», la storia scritta dai vincitori. Rispondendo a una lettera di Ugo Intini, Paolo Mieli scriveva sul Corriere del 14 ottobre 2003: «Per me la revisione storica - purché onesta (ed è il caso di Pansa) - è sempre la benvenuta. Noto però che quando essa è fatta a sinistra - qualche nome alla rinfusa per cose pur tra loro diverse: Otello Montanari, Stelio Spadaro, Luciano Violante, Massimo Storchi, Silvio Pons, Gianfranco Bettin - c'è sempre in agguato qualcuno pronto a menare le mani. Sempre. Il che la dice lunga su quanto sia poco maturato lo spirito complessivo di questa parte del Paese. Fosse per loro, non sarebbe mai il momento giusto per affrontare i temi scomodi, ci sarebbe sempre un buon motivo per chiedere che se ne parli più in là. E siccome per principio mi sembra doveroso stare dalla parte dei bastonati anziché da quella dei bastonatori, dico con franchezza che, anche se non considerassi (come invece considero) quello di Giampaolo Pansa un gran bel libro e avessi qualche dubbio (che non ho) sui tempi della sua pubblicazione, visto come è stato accolto dal mondo di cui si è detto, in ogni caso mi schiererei - e senza esitazione - al suo fianco». Per sgombrare ogni dubbio, mi permetto di osservare che il nome che porto nasce dal desiderio di mio zio, partigiano nella 1ª Divisione Langhe, di ricordare la famosa parola d' ordine «Aldo dice 26 x 1» con cui il comando piemontese impartì l' ordine dell' insurrezione.

La santificazione di Craxi e Pansa è un insulto alla Costituzione repubblicana. Paolo Flores d’Arcais il 21 gennaio 2020 su Micro Mega de La Repubblica. La santificazione concomitante e parallela di Bettino Craxi e Giampaolo Pansa segna la vittoria completa di Tangentopoli su Mani Pulite e della Costituzione materiale partitocratico-affaristica sulla Costituzione Repubblicana nata dalla Resistenza antifascista. In realtà la guerra dell’establishment contro la rivoluzione della legalità tentata da Mani Pulite iniziò quasi subito, quando le tv di Berlusconi, che per un momento avevano svolto un ruolo giornalistico con imparziali cronache di onesta informazione sulle vicende giudiziarie che andavano coinvolgendo l’intero gotha politico e imprenditoriale, diventarono le cannoniere mediatiche della neonata “Forza Italia”, con cui il medesimo Berlusconi si impadroniva di parlamento e governo. Non già l’imprenditore al posto dei politici, come pure si vociferò nel servo encomio, ma il fuorilegge dell’etere locupletato a imprenditore monopolistico da quello stesso Craxi, via “legge Mammì”. E tuttavia, quella revanche di Tangentopoli contro Mani Pulite, di cui Berlusconi, con Fini e la Lega utili e ricompensati furbi, fu cavaliere e crociato, trovava ostacoli e resistenze, antagonisti e refrattari. Pane per i suoi denti, insomma. Non nella politica, o comunque sempre meno, poiché la speranza dell’Ulivo di Prodi svanì con la nomina del suo Flick a ministro della Giustizia, la cui prima chanson de geste fu mandare ispettori contro il pool di Borrelli. La speranza da allora sopravvisse come illusione. Ma visse nella società civile che si manifestò e organizzò in modo autonomo, dal popolo dei fax nel maggio 1993 ai Girotondi nel 2002, continuando con “Il popolo viola”, “Se non ora quando” e le manifestazioni contro le leggi bavaglio, avendo sullo sfondo la colonna sonora e visiva delle trasmissioni di Barbato, Biagi, Santoro d’antan (quello di recenti esternazioni è ormai establishment colato), e anche la parte migliore della carta stampata, con “la Repubblica” spesso punta di diamante del giornalismo-giornalismo, e intellettuali che non temevano di mettere a repentaglio notorietà e privilegi prendendo posizione in quelle lotte, e spesso promuovendole, Bobbio, Galante Garrone, Sylos Labini, Pizzorusso, Giolitti, Visalberghi, Laterza, (nel 1994 per l’ineleggibilità di Berlusconi) Camilleri, Tabucchi, Margherita Hack, Dario Fo, Franca Rame...Oggi di tanta passione civile, che nel “Resistere, resistere, resistere!” di Francesco Saverio Borrelli all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2002 trovò la sua più alta e quasi unica manifestazione istituzionale, non resta quasi più nulla. E la figlia di Bettino annuncia addirittura che il presidente della Repubblica troverà il modo di mettere il suo sigillo alla santificazione del criminale morto latitante venti anni fa. Perché di questo, secondo l’ordinamento costituzionale, si tratta. Bettino Craxi è stato condannato con sentenze definitive. Sulla base di leggi da lui stesso volute o mantenute, visto che era membro eminentissimo del potere legislativo (oltre che esecutivo). Ma pretendeva che lui e i suoi pari o colleghi, i politici insomma, fossero legibus soluti, potessero violare le leggi che essi stessi facevano e alla cui obbedienza erano invece tenuti i cittadini comuni. E infatti, nel famoso discorso in parlamento del 3 luglio 1992, Craxi non negò affatto, anzi affermò tonitruante, che nel finanziamento dei partiti esistesse “uno stato di cose che suscita la più viva indignazione, legittimando un vero e proprio allarme sociale e ponendo l’urgenza di una rete di contrasto che riesca ad operare con rapidità e con efficacia. I casi sono della più diversa natura, spesso confinano con il racket malavitoso, e talvolta si presentano con caratteri particolarmente odiosi di immoralità e asocialità”.

La sua difesa fu solo che “tutti sanno”. Tutti sanno “che buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale”. Questi “tutti” non sono naturalmente i cittadini, ma i politici, per cui il discorso di Craxi non approda alla sua logica conseguenza, secondo legge e democrazia: se nessuna “possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo” allora “gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale”, e perciò tutti a casa e una nuova classe dirigente. Bensì, contro logica e democrazia: se tutti criminali nessun criminale, e insomma tutti impuniti, legibus soluti, appunto: tarallucci e vino. Craxi, condannato, poteva malato venire a farsi curare in Italia. Anche da detenuto non gli sarebbero certo state negate le cure migliori. Ma Craxi pretendeva di essere al di sopra di quella condanna, di essere al di sopra di ciò che come Potere legislativo aveva statuito, perché risibile era stato il tentativo di negare nel processo che gli addebiti fattuali contestatigli non fossero provati. Craxi fu condannato per una mole di prove, testimonianze, riscontri. Per aver commesso quelli che egli stesso, come potere legislativo, aveva qualificato come crimini. Definire Craxi un criminale acclarato, morto latitante, è semplice descrizione fattuale, se si prende sul serio l’edificio costituzionale che ci rende con-cittadini. Se questa definizione è considerata calunniosa, ingiuriosa, o nel migliore dei casi “obsoleta” e da superare perché divisiva e ingenerosa, è solo perché Mani Pulite (e i pool antimafia) e le macchie di leopardo di magistratura che ancora ne onorano l’esempio, è stato e resta il vero nemico assoluto e l’unica bestia nera dell’establishment (di cui Salvini, che detesta i magistrati-magistrati, è infatti lo Scherano). Chi oggi vuole santificare Craxi, o semplicemente si rassegna a una riabilitazione, nega la validità dell’ordinamento costituzionale che ha portato alla sua condanna, vuole più che mai due giustizie, una per i cittadini comuni e una per i potenti o “eccellenti”. Vuole che la Costituzione materiale, che ha imperversato sempre più a iniziare dal giorno dopo la promulgazione della Costituzione, faccia aggio fino a cancellarla sulla Costituzione repubblicana approvata il 22 dicembre 1947 da una delle migliori Assemblee rappresentative che le democrazie dell’intero pianeta abbiano mai conosciuto nella loro intera storia. Quella Costituzione, che dovrebbe ancora essere la nostra, manifesta quasi ad ogni articolo (tranne il famigerato numero 7) il DNA della Resistenza antifascista e dei suoi valori unitari. La Resistenza antifascista è perciò la fonte storica di legittimità della nostra democrazia, la Grundnorm in senso kelseniano, senza la quale viene meno l’intero edificio giuridico del nostro vivere insieme, dello Stato, della Patria. Contro questa legittimazione storica e morale Pansa ha versato il suo inchiostro da quando ha visto frustrate le sue ambizioni di direzione nel gruppo Repubblica/Espresso (lo adombra con elegante veleno Eugenio Scalfari, con inoppugnabili rimembranze dirette, ricordando Pansa il giorno dopo la morte, ma era vox populi, vox dei). Questo ingaglioffirsi di Pansa ad aedo degli odiatori della Resistenza è stato analizzato e stigmatizzato lucidamente sul sito di MicroMega da Tomaso Montanari, guadagnandosi ovvie sbrodolate d’insulto dal mainstream mediatico, anche con onore di prima pagina, di questi tempi oscuri di revisionismo storico e impalpabilità morale. MicroMega del resto aveva già dettagliatamente ricostruito il carattere falsificatorio e propagandistico dei libri di Pansa contro la Resistenza pubblicando nel gennaio del 2010 un ampio saggio di Angelo d’Orsi. Ne aveva del resto già scritto Sergio Luzzatto sul “Corriere della sera” quattro anni prima [“Perché queste tonnellate di carta copiativa trovano ogni volta un ampio pubblico di lettori, o quanto meno un ampio mercato di acquirenti? … il profilo merceologico del cliente di Pansa coincida con quello del cliente dei volumi di storia di Bruno Vespa (un giornalista che pure, in confronto a Pansa, torreggia come un gigante della storiografia). È un cliente che non sa distinguere fra chi ha credito scientifico e chi non ce l’ha, e per il quale il gesto di comprare un libro prolunga il gesto di fare zapping sul telecomando”], ne aveva puntualmente scritto Giorgio Bocca cui si deve uno dei libri più belli sulla Resistenza, e che prima di scriverne l’aveva fatta, e la lista potrebbe essere per fortuna assai lunga. Una fortuna che riguarda il passato. Oggi di onestà intellettuale e rigore storico rimangono sempre più solo lacerti. E della passione civile che da Mani Pulite fino ai Girotondi e oltre ha preso sul serio la Costituzione repubblicana restano solo casematte di resistenza. Sarebbe bello pensare che le Sardine annuncino un risveglio di democrazia, capace di mettere di nuovo in mora santificazioni di Craxi, Pansa e consimili degenerazioni etico-politiche, e magari addirittura riaprire una stagione di lotte per giustizia-e-libertà. Staremo a vedere, nel senso che per parte nostra faremo il possibile.

Pansa: "Tutte le ipocrisie di questi antifascisti". Lo scrittore difende La Russa dagli attacchi del Pd. Luca Telese, Mercoledì 10/09/2008, su Il Giornale. Giampaolo Pansa, è divertito. «Mai avrei pensato, in tutta la mia vita, che mi sarei ritrovato a difendere La Russa dagli attacchi dei moderati del Partito democratico! Mai. Su Salò, per giunta... Questa polemica ha qualcosa di antistorico e barbaro che non capisco e non voglio capire. L’antifascismo ringhiante di Veltroni e Franceschini oggi non è credibile. Anche perché, proprio Franceschini tre anni fa... ». Alt! Per ora ci fermiamo qui, e vi lasciamo in sospeso, perché in questa intervista c’è una storia che stupirà molti. Ma siccome il giornalista più famoso d’Italia è un fiume in piena, bisogna prima di tutto spiegare cosa pensa. Per lui, che ci ha scritto sopra una quadrilogia saggistico-narrativa e un romanzo, la polemica sulla Repubblica sociale esplosa dopo le dichiarazioni del ministro Ignazio La Russa è l’occasione per tirare le fila di un viaggio iniziato con la tesi di laurea, da ragazzo, e proseguito con il lavoro monografico degli ultimi anni. Fino all’ultimo libro, I tre inverni della paura, che lui definisce «un via con il vento nella guerra civile». Pansa ha scritto una saga ambientata più di mezzo secolo fa, ma che oggi, quando gira l’Italia, pare un instant book. Ogni volta che lo presenta vede accorrere folle di lettori: «Cinquecento persone a Parma domenica... Chissà quante ne troverò sabato a Revere, in provincia di Mantova. Per questo pubblico, tra cui molti giovanissimi, è come se parlassi di ieri».

Pansa, perché parla proprio di Franceschini?

«L’ho visto, in televisione indignato contro La Russa, in cattedra sull’antifascismo. E sono rimasto di stucco».

Perché? Non è legittimo?

«Vede, nella Grande Bugia ho raccontato la storia di una ragazza che da bambina girava per le vie di Poggio Renatico, il suo paese, con gli occhi sempre bassi».

Per la vergogna?

«No. Era figlia di un fascista, ma non se ne vergognava. Però le vie erano tappezzate di scritte su suo papà, Giovanni Gardini. Dicevano: "A morte Gardini!"».

E chi era Gardini?

«Un amico di Italo Balbo: con la Rsi divenne Podestà di San Donà di Piave. Dopo l’8 settembre fuggì per salvare la pelle. Per fortuna ci riuscì».

Perché me lo racconta?

«La bambina si chiamava Gardenia, ed era destinata a diventare madre di un bimbo. Di Dario. Cioè Franceschini. E sa chi me l’ha raccontato?».

Chi?

«Lo stesso Franceschini! Ecco perché, quando vedo semplificazioni antistoriche, e che a farle è il Pd, scuoto il capo».

Cosa non la convince?

«Non credo che il problema del Pd sia la storia del ’45. Mi cascano le braccia se vedo Veltroni abbarbicato a questo antifascismo perdente e suicida. Perché so che il suo vero problema è Di Pietro che fa la faccia feroce. Lui allora rilancia, senza esserne convinto, perché gli stanno rubando il patrimonio».

Parliamo del primo inverno della paura, nel 1943.

«Non capisco cosa ci sia si scandaloso in quel che ha detto La Russa».

Forse il suo ruolo?

«Ma il ministro della Difesa non è un sacerdote della repubblica, tenuto all’imparzialità! Non siede al Quirinale. È un politico, un ministro. Posso citarle i numeri di Salò?».

Degli arruolati.

«Sì. Secondo le fonti della Rsi, furono più di 800mila».

Stime di parte?

«Non molto contestate, a dire il vero, ma il nodo è un altro. Vogliamo dire che erano 500mila? Il fatto è chi erano davvero questi ragazzi».

Intende il loro identikit?

«Dico che è grottesco etichettarli tutti come torturatori e amici dei nazisti! Molti di loro erano cresciuti nel regime fascista, immersi in un clima di propaganda perenne: cinema, scuola, radio... le divise dei figli della lupa... ».

E quindi?

«E quindi, la maggior parte di loro, non poteva certo schierarsi per un parlamento legittimo, che non aveva nemmeno mai conosciuto».

Giudizio storico o politico?

«Dico che quella educazione, fatalmente, portava molti di loro all’idea che difendere la patria dagli angloamericani fosse il primo dovere».

Bisogna distinguere, dice?

«Da storico "dilettante" mi occupo di queste cose dai tempi della laurea... Sono storie complesse. Altrimenti non si capisce come mai, fra quei ragazzi, ce n’erano molti che divennero sinceri antifascisti, Nomi mille volte citati: Tognazzi, Dario Fo, Vianello, persino Gian Maria Volontè».

Ma ci fu pacificazione?

«Anedotto illuminante. Quando andai al Giorno, nel 1964, Italo Pietra, che aveva fatto il partigiano, e si trovava molti ex ragazzi di Salò in redazione, scherzava: "Chi di voi mi ha fatto saltare la casa, sul monte Penice, nel rastrellamento dell’agosto 1944?"».

Difficile a credersi, con gli occhi di oggi.

«Invece accadeva. E gli rispondevano: "Io no, stavo nella brigata nera di Varese...", "Io neppure, ero con gli sciatori di Pavolini..."».

Sta cercando di dire che...

«Fino a che non arriva il detonatore violento degli anni di piombo, questo paese aveva chiuso la faida del ’45».

E teme che ora si riapra?

«Con tanto odio in giro, temo possa accadere. Un altro esempio insospettabile?»

Su chi?

«Livio Zanetti: grande maestro di giornalismo, direttore dell’antifascista L’Espresso».

Quando si seppe che...

«A metà degli anni settanta, per il dispetto di un’agenzia di stampa di destra. Ebbene: nessuno, dico nessuno, si azzardò a chiederne la testa».

Chiedo ancora: come mai?

«Erano tempi meno feroci. Forse il Pci aveva altre bandiere, il mito dell’Urss. Ecco, a me preme spiegare che quei ragazzi di cui parla La Russa, non erano quattro miserabili scherani, come vuol far credere chi polemizza con lui».

E chi erano?

«Uomini che si trovarono giovanissimi nel tempo delle scelte dure. Alcuni di loro potevano essere nostri padri. O fratelli. O persino, come nel caso di Franceschini, i nostri nonni».

Pansa: “In Italia è ancora inconcepibile una storia scritta dai vinti“.  Il Secolo d'Italia venerdì 14 settembre 2012. Due film – uno appena uscito, l’altro ancora in preparazione – hanno in questi giorni riaperto l’eterno dibattito sulla memoria condivisa. Parliamo di “Sfiorando il muro”, di Silvia Giralucci, che prende le mosse da un tragico fatto di violenza politica degli anni ‘70 targato Br, e de “Il segreto”, di Antonello Belluco, che ha sullo sfondo l’eccidio di Codevigo, in cui 136 persone vennero uccise dai partigiani nel 1945. Il primo è stato appena presentato a Venezia, l’altro viene faticosamente girato in queste settimane fra infinite scomuniche. Comune denominatore? Le polemiche. E l’incapacità di saper rispettare la storia dell’altro da sé. Giampaolo Pansa, pur provenendo dalla sinistra culturale, a comprendere la memoria dell’altro ci ha provato. E in molti gliel’hanno giurata. Colpa delle ferite ancora aperte, dice. Delle tradizioni familiari che grondano sangue. Ma anche di una certa educazione all’odio che non è mai cessata.

Ma è davvero difficile arrivare a una memoria condivisa?

«Memoria condivisa significa che se io e te abbiamo storie molto diverse io accetto… anzi no, non accetto, io rispetto la tua storia e tu rispetti la mia. Ecco, tutto ciò in Italia è una pia illusione, un’utopia. Appartiene a una dimensione ideale, non alla nostra realtà quotidiana».

È per questo che film come quello sull’eccidio di Codevigo danno ancora fastidio?

«Certo. Sulla guerra civile, che durò dal settembre 1943 all’aprile 1948, non c’è condivisione e non ci potrà essere, per il momento. E poi figuriamoci, ancora ci dividiamo sulla storia del sud, Garibaldi e i Savoia… devono passare ancora molti anni».

Perché succede questo?

«Perché anche chi non sa nulla delle tragedie di quegli anni, della Rsi e della Resistenza, ha comunque appreso a ragionare secondo lo schema buoni/cattivi dalla tradizione familiare. E anche quando non c’è quest’ultima c’è spesso una educazione che definire politica sarebbe troppo elegante, io la definirei una educazione al fanatismo che insegna a ragionare in modo manicheo. Qualche anno fa, comunque, la situazione era peggiore».

A cosa si riferisce?

«Fino a una decina d’anni fa il clima era ancora più intollerante. Credo che anche i miei i libri abbiano contribuito ad abbattere una sorta di muro di Berlino che culturale che ancora vigeva in questo Paese. Penso a I figli dell’aquila, del 2002, che aveva per protagonista un soldato della Repubblica sociale. Ma soprattutto a Il sangue dei vinti, del 2003, che ha venduto un milione di copie. La gente ha imparato in questi anni che non esistono tabù, nulla è intoccabile. È stato fatto molto, ma quel molto è ancora pochissimo, e vicende come quella del film su Codevigo lo dimostrano».

L’incapacità di raggiungere una memoria condivisa è una specialità italiana o anche all’estero è così?

«No, non credo sia una specialità italiana. Pensiamo solo ai paesi che hanno vissuto l’occupazione nazista o sovietica. Dovrà passare qualche secolo, le ferite sono ancora aperte. Pensiamo a una famiglia tedesca che abbia vissuto l’occupazione sovietica: stupri, torture, sparizioni. Ci sono storie inimmaginabili…»

Ma la guerra è finita da un pezzo…

«Noi crediamo che quando cessano di parlare le armi tutto sia finito. Invece no, il dramma inizia allora. La guerra lascia veleni con cui la pace deve fare i conti. Scrivendo i miei libri è questa la conclusione a cui sono giunto. È anche il motivo per cui sono diventato un pacifista integrale».

Se non c’è accordo sulla guerra civile iniziata nel 1943, figuriamoci sugli anni di piombo. A proposito, ha visto il film di Silvia Giralucci?

«No, ma conosco bene la storia. Io all’epoca ero a Padova per il “Corriere della Sera”, ma fortunatamente non mi intruppai con quei colleghi che parlavano addirittura di faida interna al Msi. Anche dopo la rivendicazione delle Br ci fu chi non ci credette e continuò con i veleni. Fu un brutto capitolo per l’informazione italiana…»

Perché quella storia fa ancora male?

«Perché è ancora inconcepibile una storia scritta dai vinti, da chi in quelle vicende ha sofferto ed è stata vittima».

Intanto di Brigate Rosse si è tornati a parlare anche in seguito alla recente sentenza che ha definito i neobrigatisti solo sovversivi e non terroristi. Lei che ne pensa?

«Mi sembra una follia e un errore grossolano».

Pansa parla del suo libro: non sputate sulla destra, l’Italia ne ha bisogno. Il Secolo d'Italia sabato 14 febbraio 2015. Dopo avere scritto Il sangue dei vinti Giampaolo Pansa ha sempre tenuto viva l’attenzione sul mondo della destra, che ricambia l’interesse, con una serie di titoli che raccontano la storia del dopoguerra con un’ottica alternativa a quella “canonica” della vulgata compiacente verso la sinistra. Una buona scrittura e una buona memoria sono i pilastri sui quali si fonda il suo ultimo libro, in questi giorni in libreria per i tipi di Rizzoli, La destra siamo noi. Una controstoria italiana da Scelba a Salvini (pp. 360, euro 19,90). Un accostamento, quello fra Scelba e Salvini, destinato a a far discutere, perché Scelba era il ministro degli Interni che voleva mettere fuori legge il Msi e Salvini è un contestatore anti-euro che certo ha poco a che fare con la destra democristiana. “Ma Scelba – ribatte Pansa – voleva anche mettere fuorilegge il Pci dopo l’attentato a Togliatti. Fu De Gasperi a dirgli un no secco, di quelli  che solo lui sapeva dire”.

Che fa Pansa, riscrive il pantheon della destra?

«Ho solo voluto ribadire con questo libro un concetto fondamentale: la destra in tutte le sue varianti – neofascismo, moderatismo, destra reazionaria ecc. ecc. – è stata protagonista della storia dell’Italia nel dopoguerra ed è stato sbagliato considerare quel mondo come un’area di bombaroli neri da stangare e da tenere ai margini. La destra appartiene alla vita di questo paese, per questo il titolo è la destra siamo noi».

Mi descriva che destra è quella di Berlusconi.

«Berlusconi nel libro non c’è. Ho scritto tanto di lui. Gli ho dedicato un libro quattro anni prima che scendesse in campo. È un errore pensare che la destra diventa protagonista solo con Berlusconi. C’era anche prima. Berlusconi è certo un uomo di destra, un non violento, un signore che ama dare baci anziché botte. Chi lo dipinge come un potenziale dittatore non ha capito nulla».

Il Msi era più neofascista o di destra?

«Era tutt’e due le cose e aveva un grande leader come Almirante che conosceva bene l’Italia, infatti nel 1974 cercò di convincere il suo partito a non appoggiare il referendum contro il divorzio. Di Almirante nel libro si parla a lungo, e non potrebbe essere altrimenti».

Da Almirante a Salvini: è un percorso immaginabile?

«Salvini è un signore furbo che ha approfittato del vuoto che aveva attorno ed è stato molto abile nel cercare voti. Avrà successo da un punto di vista elettorale ma secondo me non è in grado di guidare un partito nuovo di centrodestra, non ne ha soprattutto le capacità culturali».

Il suo libro è una sorta di risarcimento alla destra italiana per l’ostracismo decennale che ha subito?

«Il nocciolo del mio libro è che nessuna democrazia si regge su un solo partito. Ciò che Renzi ha in animo di fare è un esperimento tragico: se riesce a fare il partito della nazione mettendo tutti gli altri nell’angolo, tutti ne risulteremo impoveriti, soprattutto dal punto di vista della libertà».

Foibe, Pansa: «L’Anpi è un club di trinariciuti comunisti che dicono solo falsità». Desiree Ragazzi martedì 5 febbraio 2019 su Il Secolo d'Italia. «Quelli dell’Anpi non contano un cazzo. Straparlano. Sono un club di trinariciuti comunisti». Giampaolo Pansa proprio non ci sta a sentire le fandonie e le falsità che in questi giorni circolano sulle foibe. Prima il post revisionista dell’Anpi di Rovigo, poi la sponsorizzazione e partecipazione dei partigiani a una conferenza negazionista a Parma. La Giornata del Ricordo si avvicina e lo scontro con l’Anpi si fa sempre più forte. «Vogliono negare che Tito era un dittatore comunista – dice Pansa – Ma non possono farlo perché è storia. Vogliono negare che le squadre comuniste gettavano la gente che non amava Tito dentro le foibe. Ma non possono farlo perché è storia. Quelli dell’Anpi dicono e fanno delle cose che sono di un’assurdità totale». Dell’Anpi ne parla anche nel suo ultimo libro Quel fascista di Pansa (Ed. Rizzoli) dove racconta le accuse e gli insulti che accompagnarono la pubblicazione nel 2003 del Sangue dei vinti. «Quel libro era dedicato alle vendette compiute dai partigiani trionfanti sui fascisti repubblicani sconfitti – scrive il giornalista nella sinossi del libro – Segnò l’inizio di una serie di vicende che in qualche modo riflettono l’Italia entrata nei nevrotici anni Duemila. Prima di tutto non sono stato ritenuto un rosso come credevo di essere, bensì un nero: Pansa il fascista ha gettato la maschera. Questo accese la rabbia di una serie di eccellenze presunte democratiche, più ridicole che tragiche. Venni aggredito e messo all’indice da parrocchie politiche che prima stravedevano per me e volevano eleggermi in Parlamento». È un libraccio che racconta la verità su questa Italia del cazzo. Ai comunisti dico: attaccatemi. E più mi attaccherete, più copie venderò. Nel libro scrivo che dopo molti anni si vede con chiarezza l’assurdità paradossale della sinistra italiana nella Prima Repubblica. C’erano il Partito comunista, il Partito socialista e il Partito socialdemocratico. Poi esisteva un quarto partito: l’Anpi. Che cosa sapevano gli italiani dell’Anpi? Quasi niente, anche i suoi dirigenti erano pressoché ignoti. E soprattutto nessuno di loro poteva essere sottoposto a una valutazione dell’opinione pubblica…

Lei scrive che la crisi della sinistra italiana non è un guaio del 2019 perché risale nell’immediato dopoguerra.

«I comunisti e tutta la sinistra non hanno più voce in capitolo. Sono in rotta di collisione con la verità e la storia. Ecco perché parlare oggi di Anpi è anacronistico. In un certo modo è come parlare dei superstiti di Garibaldi che cento anni dopo parlano dello sbarco dei garibaldini…»

La sinistra quando deve ricordare i crimini commessi dai comunisti ha sempre l’orticaria…

«Si vergogna di essere nata da una costola del comunismo internazionale. E, quindi, si ostina  a negare, negare, negare. E a dire che non è assolutamente vero che furono commessi crimini atroci. Oggi negano le foibe, ma qualcuno dentro c’è morto ed era gente che non piegava la testa ai soldati di Tito».

Ultimo saluto a Giampaolo Pansa, oggi i funerali nel Senese. Nella Collegiata di San Leonardo e Cassiano, a San Casciano dei Bagni, si celebrano le esequie del giornalista piemontese morto domenica a 84 anni. Alessandro Di Maria il 14 gennaio 2020 su La Repubblica. San Casciano dei Bagni, l'ultimo saluto a Giampaolo Pansa. Nella collegiata di San Leonardo e Cassiano, nel comune in provincia di Siena, si sono celebrati oggi i funerali del giornalista piemontese, già vicedirettore di Repubblica e firma del Corriere della Sera morto domenica a 84 anni. Tanti i colleghi arrivati nel piccolo paese a confine con il Lazio dove il giornalista risiedeva da alcuni anni con la moglie per rendergli omaggio: dal direttore dell'Espresso Marco Damilano a Sebastiano Messina, da quello di Libero Maurizio Belpietro a Luca Telese, fino al vignettista Emilio Giannelli. Alle esequie hanno partecipato anche decine di residenti del piccolo borgo, oltre al sindaco di Casale Monferrato Federico Riboldi, il paese dove il giornalista era nato, che ha indossato la fascia tricolore. "Adesso non sarai più qui a proteggermi, ma spero che potrai farlo lo stesso perché ne ho bisogno", ha detto commossa durante la funzione la moglie di Pansa, Adele Grisendi, accompagnata in chiesa dalla nipote. Dopo il rito è partito il corteo funebre per la tumulazione del feretro, nel cimitero della cittadina senese dove Pansa ha scelto di essere sepolto.  "Onorati di averlo avuto come concittadino, nella speranza di avergli reso almeno un pezzetto di quello che lui ha dato a noi. Lo ricorderemo sulla nostra piazza a presentare un suo libro durante un'iniziativa estiva, a parlare di politica fumando una sigaretta, con l'ardore di chi aveva ancora tanto da dire", ha affermato Agnese Carletti, sindaco di San Casciano dei Bagni, che ha proclamato il lutto cittadino. Presente durante la cerimonia anche il gonfalone del Piemonte. "Un segno di rispetto e gratitudine nei confronti di un piemontese che è stato una delle firme più importanti del giornalismo italiano", ha sottolineato il presidente della regione Alberto Cirio.

L’ultimo saluto a Pansa: chiesa gremita a San Casciano. La moglie: «Non si sentiva un maestro, ma un collega». Redazione mercoledì 15 gennaio 2020 su Il Secolo d'Italia. Chiesa gremita e bandiere a mezz’asta per dare l’ultimo saluto a Giampaolo Pansa.  Con la vedova Adele, parenti, amici, autorità locali e anche alcuni colleghi tra cui Maurizio Belpietro, Luca Telese, Marco Damilano e Emilio Giannelli. Tutti si sono stretti per l’ultimo saluto al giornalista. A San Casciano dei Bagni (Siena), dove il giornalista è stato tumulato, sono accorsi anche gli abitanti del piccolo borgo senese dove lo scrittore de Il sangue dei vinti viveva con la moglie.  «Spesso si confidava con me raccontandomi di quando da giovane faceva il chierichetto e serviva la messa», ha detto don Antonio Nutarelli, parroco di San Casciano dei Bagni, durante l’omelia. «In questo momento penso a tutti quelli che hanno goduto della sua presenza benedetta da Dio con il dono eccellente della scrittura e del pensiero», ha sottolineato il parroco. E poi ha ricordato quando Pansa aveva combattuto contro le accuse di revisionismo per avere raccontato la verità sulle foibe e sui crimini commessi dai partigiani. In chiesa tra la folla i sindaci di San Casciano dei Bagni e di casale Monferrato. In entrambi i Comuni è stato proclamato il lutto cittadino. Ci sono anche i confaloni dei due Comuni e della Regione Piemonte. Manca quello della Regione Toscana. La moglie Adele Grisendi ha ringraziato tutti i presenti «amici, parenti, nipoti, i medici che lo hanno curato con tanto affetto e i colleghi presenti». «I colleghi – ha detto la  signora Adele  – lo consideravano un maestro, ma lui non si considerava affatto un maestro. Solo un collega, con grande semplicità». Parole che si accompagnano al ricordo degli allievi dell’ottantaquattrenne morto a Roma. A cominciare da Aldo Cazzullo che ricorda il “maestro”: «Aveva una capacità di lavoro mostruosa oltre che un’immensa facilità di scrittura». E poi «era un uomo molto coraggioso anche fisicamente. Le Brigate Rosse lo volevano ammazzare, scelsero tra lui e Tobagi e uccisero Tobagi. Conservo un meraviglioso ricordo di lui», ricorda il collega del Corriere, dove Pansa era da poco tornato a scrivere.

La grande ipocrisia vien da lontano. “I Vinti non dimenticano” (Rizzoli 2010), è il titolo del volume di Giampaolo Pansa. Ci si fa largo tra i morti, ogni pagina è una fossa e ci sono perfino preti che negano la benedizione ai condannati. E poi ci sono le donne, tante, tutte ridotte a carne su cui sbattere il macabro pedaggio dell’odio. È un viaggio nella memoria negata, quella della guerra civile, altrimenti celebrata nella retorica della Resistenza.. Le storie inedite di sangue e violenza che completano e concludono "Il sangue dei vinti", uscito nel 2003. Si tenga conto che da queste realtà politiche uscite vincenti dalla guerra civile è nata l'alleanza catto-comunista, che ha dato vita alla Costituzione Italiana e quantunque essa sia l'architrave delle nostre leggi, ad oggi le norme più importanti, che regolano la vita degli italiani (codice civile, codice penale, istituzione e funzionamento degli Ordini professionali, ecc.), sono ancora quelle fasciste: alla faccia dell'ipocrisia comunista, a cui quelle leggi non dispiacciono.

Esecuzioni, torture, stupri. Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega scrive Giampaolo Pansa. (scrittore notoriamente comunista osteggiato dai suoi compagni di partito per essere ai loro occhi delatore di verità scomode). C’è da scommettere che il libro di Giampaolo Pansa, "La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti" (Rizzoli, pagg. 446), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione “Il Giornale” pubblica un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro.

Ecco la carica dei faziosi L'armata rossa è in tv. Garimberti bacchetta il Tg3, ma è tutta Raitre a tirare colpi bassi al Cav. Per non parlare di La7. A Sky le inviate giocano alla rivoluzione, scrive il 29 Ottobre 2011 Giampaolo Pansa su "Liberoquotidiano.it". Mi ha molto stupito che Paolo Garimberti, il presidente della Rai, abbia preso cappello per la faziosità del Tg3 diretto da Bianca Berlinguer. “Garimba” è un mio vecchio amico, abbiamo lavorato insieme alla Stampa e poi a Repubblica. L’ho sempre considerato un tipo sveglio, tanto che mi ha sorpreso vederlo accettare di presiedere la Rai: un dinosauro senza speranze e un ambiente nel quale non vorrei vivere neppure da deportato. Tuttavia, il “Garimba” dovrebbe sapere come è fatta la Rai. Da anni è un rudere lottizzato, ossia diviso in lotti di partito. Nella Prima Repubblica, un pezzo apparteneva alla Dc, un secondo ai socialisti del Psi, un terzo ai comunisti del Pci. Nel proprio orto ciascun partito era sovrano, poteva disporne come gli pareva e piaceva, senza che nessuno dicesse né hai né bai. Nella Seconda Repubblica la spartizione per lotti è rimasta. Sono cambiati soltanto i partiti proprietari. La prima Rete con il relativo telegiornale è roba del Pdl e dunque del cavalier Berlusconi. La seconda in teoria spetterebbe alla Lega, ma un provinciale come il sottoscritto non ha ancora capito se sia o no così. La terza con il Tg3 è sotto l’imperio del Partito democratico e dei suoi presunti alleati. Con il passare degli anni, i direttori del Tg3 sono sempre stati rossi, a cominciare dal mitico Kojak, ossia Sandro Curzi, oggi scomparso. Kojak era un comunista collaudato, tanto d’aver persino lavorato a Radio Praga. Contava più di molte eminenze delle Botteghe oscure. Da vero paraculo (uso il termine con ammirazione) faceva quel voleva, in barba a tutto.  

ARRIVA LA DIRETTORA. I direttori venuti dopo di lui si sono comportati all’incirca nello stesso modo. Gli unici sfortunati sono stati due signore. La prima, Daniela Brancati, durata appena un anno, dal 1994 al 1995, fu segata dalle liti interne al tigì e dagli scioperi. La seconda, Lucia Annunziata, venne messa al Tg3 da Massimo D’Alema dopo la prima vittoria elettorale del centro-sinistra, quella del 1996. Ma anche lei ci rimase poco. A suo giudizio, i tre quarti della redazione del tigì rosso non lavoravano abbastanza. E questo giudizio, diventato pubblico, la obbligò ad andarsene. Chi sta da anni al Tg3 è l’attuale direttora, Bianca Berlinguer, arrivata nel 1991. Ad assumerla era stato Curzi che la stimava come giornalista: brava, bella e lavoratrice. L’unico difetto di Bianca era di essere figlia di Enrico, il segretario del Pci. Il leader comunista chiamò Curzi e osservò che l’assunzione della figlia non gli sembrava elegante né opportuna. Mezzo mondo avrebbe pensato che la ragazza era stata raccomandata dal padre, pur non essendo così… Sembra che l’episodio sia vero, roba impensabile ai giorni nostri. Bianca Berlinguer dirige il Tg3 dall’ottobre 2009. E da quel momento ha fatto un tigì che più rosso non si può. Sempre molto accanito contro Berlusconi. Prima del “Garimba”, qualcuno se ne era adontato. Il sottoscritto no. Ho smesso da un pezzo di guardare il suo telegiornale delle sette di sera, perché è noioso come tutti i mezzi di propaganda. La canzone che canta è sempre la stessa. Il taglio dei servizi idem. I commenti, spesso affidati alla mimica facciale di Bianca, non sono mai sorprendenti. Perché dovrei buttare il mio tempo? Tuttavia so bene che la direttora Berlinguer non viola nessuna legge. È la lottizzazione, bellezza! Qualche ingenuo seguiterà a pensare che la spartizione politica della Rai, un bene pubblico, sia un’anomalia italiana. Ma è un difetto congenito. Per questo, la rossa Bianca stravincerà sempre. Ha il diritto di farlo e lo farà. Aspettate la campagna elettorale e vedrete. Del resto, essere contro il Caimano di Arcore non è uno sport soltanto del Tg3. La maggioranza dei talk show pubblici e privati sta allineata e coperta sulla linea anti-Cav. La 7 si è buttata tutta a sinistra. Il tigì di Enrico Mentana, detto “Mitraglia”, un ultracinquantenne ingrigito, ormai è pronto per trasferirsi nella squadra di Repubblica. Agli ordini di Ezio Mauro, un dittatore freddo che l’ha sempre saputa più lunga di lui. Corrado Formigli, con la sua Piazza pulita, mette in mostra un fanatismo da Santoro dei poveri, privo della geniale cattiveria del vero Michele. Lilli Gruber spasima di fare su Otto e mezzo la diretta del funerale di Berlusconi. Il panciuto Luca Telese vuol dimostrare di essere l’unico comunista rimasto in Europa. E tratta la sua foglia di fico, Nicola Porro, come un fastidioso destrone, erede della Luisella Costamagna, epurata con stile neo-sovietico. Dell’Infedele di Gad Lerner meglio non parlare. I lettori di Libero sanno che non sono mai stato un tifoso di Silvio. Ho predetto per tempo la sua crisi. E l’ho invitato a ritirarsi dalla politica. Ma questo non mi impedisce di staccare la mia spina personale ai programmi troppo faziosi e dunque noiosi. Decidendo che per me sono inguardabili.  L’ho fatto da un pezzo con il Ballarò del compagno Floris. La sera dell’incidente di Fini che straparla sulla signora Bossi mi sono goduto la partita Juventus-Fiorentina. E solo da Libero ho appreso il trattamento di super favore riservato da Floris a Fini: venticinque minuti di concione, il doppio del tempo complessivo concesso al ministro Gelmini e al sinistro Vendola.  Ma la faccenda non mi scandalizza. Anche Floris coltiva come meglio crede il proprio orto lottizzato. Pagando il canone Rai con la puntualità dei fessi, pago anche il diritto del compagno Giovanni a condursi come un militante. Il vero scandalo è Fini: un presidente della Camera, terza carica istituzionale della Repubblica, che va in diretta tivù a fare propaganda politica. Ma questa è una questione che riguarda la Casta. Un verminaio dal quale non mi aspetto più nulla. Mi aspetterei, invece, qualcosa da un’emittente televisiva che si regge sugli abbonamenti dei privati. Sto parlando di Sky e del suo telegiornale, SkyTg24. Un po’ di giorni fa, il ramo italiano dell’impero di Rupert Murdoch ha festeggiato un evento importante per la sua cassa: l’aver conquistato cinque milioni di clienti. Uno di questi sono io, e da molto tempo: un abbonato storico che versa il costoso gettone allo Squalo soprattutto per le partite di calcio e il telegiornale continuo.  Quali diritti hanno gli abbonati di Sky? Soltanto due: pagare o disdire il contratto. Anche il criticare è possibile, ma come succede in molte grandi aziende i clienti contano come il due di picche. Nessuno risponde mai ai rilievi, il vertice e i piani sottostanti se ne fottono. Del resto, che cosa pesa il singolo rispetto a cinque milioni di baionette? Nulla. Tuttavia, poiché fin da piccolo ho imparato a non starmene mai zitto, voglio fare una domanda alla redazione del tigì di Sky. E in particolare alla nuova direttora, Sarah Varetto. Guardo questo telegiornale almeno cinque o sei volte al giorno. Notando un mutamento rispetto al tono di un anno fa. Quello che avevo descritto in un libro dedicato ai media italiani e ai giornalisti che ci lavorano. Sotto la direzione di Emilio Carelli, SkyTg24 era già diventato uno strumento di battaglia politica contro il centro-destra. Un po’ mi stupiva, sapendo che Carelli era un cattolico cresciuto dai salesiani e addestrato come televisionista nelle reti del Berlusca. Ma la brava e bella Varetto ha fatto un passo in più. La mia impressione è che l’equilibrio e l’imparzialità del suo tigì siano diventati un foglio di cartavelina, dietro il quale si nasconde un gioco allo sfascio che non mi piace per niente. 

PIANETA SKY. Anche la signora Varetto ha un’attenuante. Mi dicono che il tigì di Sky lo vedano quattro gatti. Ovvero, oltre a me, poche migliaia di spettatori. Un ascolto persino più basso di quello raccolto da Rai News, il telegiornale rosso di Corradino Mineo, figlio malvisto dagli alti comandi di viale Mazzini. Ma si può essere piccoli e, al tempo stesso, brutti. Vale a dire, troppo enfatici nel dipingere con gioia il disastro italiano, la nostra ridicola debolezza in Europa, gli scioperi proclamati dal sindacato, le piazze ribelli con le molotov. Ci sono giornaliste di Sky tragicamente buffe nella loro convinzione di fare le inviate di guerra sul fronte di una rivoluzione proletaria: unica luce nella notte nera del berlusconismo. Questo ammazza la credibilità di un telegiornale che, per di più, appartiene a un capitalista con la dentatura da squalo. Forse la direttora Varetto dovrebbe proporsi una domanda. Se l’Italia sparisse nella voragine della crisi economica, quanti dei suoi cinque milioni di abbonati rimarrebbero in grado di pagare il costoso gettone che tiene in piedi Sky? Toccando ferro, le rispondo così: pochi, davvero molto pochi. Giampaolo Pansa 

EIA EIA, MA VA' LA. Il Duce unisce più di Renzi: bastano quattro cretini per fare gridare la sinistra al nuovo Ventennio. Ma è silenzio sulle violenze dei centri sociali, scrive Alessandro Sallusti, Venerdì 01/12/2017, su "Il Giornale". Ogni tanto, ma sempre più spesso, scatta l'allarme dell'«all'armi son fascisti». Questa estate la goliardia canaglia di un bagnino di Chioggia che aveva tappezzato il suo lido con frasi mussoliniane era stata spacciata come l'inizio di un nuovo Ventennio. Il malcapitato ha perso il lavoro e si è riciclato come opinionista di avanspettacolo destrorso nelle radio e tv venete dopo essere stato completamente scagionato dai magistrati che avevano aperto un'inchiesta. Nessun tentativo di ricostituire il Partito fascista - hanno concluso i saggi pm - ma solo una gigantesca burla. Adesso ci risiamo con la storia dei quattro ragazzotti di destra che hanno fatto irruzione in un circolo pacifista di Como per leggere ai presenti un comunicato sulla «patria minacciata dagli immigrati». Deplorevole (la violazione di domicilio privato), ridicolo (il gesto), a tratti delirante (il testo), ma comunque fatto anche questo ascrivibile più all'idiozia giovanile che alla fascistizzazione dell'Italia. Il codice penale attuale mi sembra attrezzato a punire eventuali reati che questi ragazzotti possano avere commesso, con i fatti e con le parole, e la cosa dovrebbe finire lì. E invece no, puntuale come la morte arriva da Repubblica il grido di allarme sul pericolo destre. E la panna monta, manco stessimo parlando di un attentato dell'Isis. Facendo una ricerca con Google si scopre che dall'inizio dell'anno i giornali del gruppo Espresso hanno fatto scattare «l'allarme fascismo» 492 volte. Siamo cioè all'antifascismo militante che amplifica ed esalta stupidi episodi e persone ignoranti che sono numericamente, politicamente e socialmente più che marginali. Certamente meno significativi dell'allarme che dovrebbero destare le occupazioni, gli abusi e a volte le devastazioni urbane di quei simpatici ragazzi dei centri sociali; sicuramente meno preoccupanti delle milizie di estrema sinistra che impediscono con la forza la presentazione dei libri di Giampaolo Pansa sul revisionismo della Resistenza, di Magdi Allam sull'islam o una conferenza di Angelo Panebianco all'università di Bologna perché «professore non abbastanza pacifista». Più stupidi dei neofascistelli ci sono solo i tromboni dell'antifascismo a tempo pieno, i quali non si indignano che il leader della Lega Matteo Salvini - democraticamente eletto - possa apparire in pubblico solo se scortato, a volte blindato. A questi tromboni andrebbe ricordato - ironia della sorte - che ancora oggi il nostro codice penale a pagina uno porta in grassetto la firma di chi l'ha promulgato, cioè «Sua Eccellenza Benito Mussolini», come ben sanno studenti di giurisprudenza e addetti ai lavori. Che facciamo, chiudiamo i tribunali, mettiamo al rogo in piazza la tavola delle leggi e proclamiamo la mobilitazione generale? La verità è che il Duce riesce dove ha fallito Matteo Renzi. Cioè unire la sinistra, che - non avendo né presente né futuro - per dare l'impressione di esistere deve per forza attaccarsi ai fantasmi del passato. Diciamolo, i veri nostalgici sono proprio loro.

Assalti, censure e violenze in università. I blitz dei centri sociali non scandalizzano. Da Pansa zittito a Panebianco contestato, le vittime dell'intolleranza rossa, scrive Paolo Bracalini, Venerdì 1/12/2017, su "Il Giornale".  Clima da Repubblica di Weimar, nazismo alle porte, l'ombra nera sull'Italia. Il blitz degli skinhead ha svariati precedenti, ma a sinistra. La sinistra unita solo con la caccia al fascista. Aggressioni, minacce, lanci di uova, però più politicamente corretti rispetto a quattro teste rasate, e quindi non meritevoli di allarme per la democrazia in pericolo. Eppure a lungo, per un giornalista come Giampaolo Pansa colpevole di aver messo in discussione la vulgata partigiana sulla guerra civile italiana dopo l'8 settembre, è stato quasi impossibile presentare un semplice libro, considerato negazionista dall'estremismo rosso che accoglieva le presentazioni con insulti, minacce, propaganda a pugni chiusi. Qualche cenno di solidarietà in privato dai leader di sinistra, ma mai pubblico, perché Pansa è un diffamatore della Resistenza, un nemico del popolo. Identica sorte toccata ad Angelo Panebianco, editorialista del Corriere e docente all'Università di Bologna: «Fuori i baroni dalla guerra», gli hanno urlato i collettivi lo scorso febbraio, durante la sua lezione. «Panebianco cuore nero», la scritta lasciata dai centri sociali sulla porta del suo ufficio anni fa. Imbarazzo, silenzio e poco altro anche per Salvini, nel mirino dei centri sociali, più violenti degli skin head, ma col lasciapassare politico. Il leader della Lega è stato aggredito più di una volta, a Bologna gli hanno sfasciato il vetro dell'auto, in Umbria gli antagonisti lo hanno accolto a sputi e cori «stronzo», a Napoli hanno scatenato una guerriglia con sassi e molotov, violenze annunciate con la massima tranquillità alla vigilia («Non assicuriamo un corteo pacifico») senza creare indignazione, anzi (il sindaco de Magistris è con i centri sociali). A Milano sempre i centri sociali hanno distrutto un gazebo della Lega e malmenato due militanti. Scene che si ripetono, senza che mai si parli di un «allarme centri sociali», mentre quattro skin bastano per mobilitare le massime istituzioni. A Daniela Santanchè, donna di destra quindi meno rispettabile, ha raccontato in diretta, mentre discuteva di ius soli con Fiano del Pd (il deputato che vuol mettere in carcere chi ha una immagine di Mussolini in casa) di aver ricevuto un tremendo insulto più minaccia di morte come se niente fosse («Mi è appena arrivato su Twitter Sei una put... da uccidere»). Ancora a Napoli l'ex candidato sindaco di centrodestra, Gianni Lettieri, denunciò un'aggressione per strada da parte degli attivisti di una casa occupata. Ne sanno qualcosa gli ex ministri Renato Brunetta e Mariastella Gelmini, bersaglio prediletto degli attivisti e centri sociali per le battaglie sui furbetti della pubblica amministrazione e sulla scuola, feudo della contestazione di sinistra. Brunetta, durante un convegno, fu vittima di un blitz della «Rete dei precari» fischi, insulti, striscioni a cui replicò definendoli «l'Italia peggiore». Non l'avesse mai fatto: «Diecimila post di insulti, minacce, addirittura pallottole, sul mio profilo Facebook. Molti legati anche alla mia statura fisica» calcolò l'allora ministro, sempre preciso anche nella contabilità degli insulti ricevuti. Per la Gelmini, si inventò persino un No Gelmini Day, con i collettivi studenteschi in piazza, al grido «Ci vogliono ignoranti, ci avranno ribelli», ma pure senza un chiaro nesso logico «Siamo tutti antirazzisti e antifascisti». Coi fumogeni e i lanci di uova. Tanto i fascisti sono solo a destra.

Giampaolo Pansa su “Libero Quotidiano”: Ma il Caselli aggredito dai No Tav si fida di questa sinistra? Ho sempre avuto stima e simpatia per il magistrato Gian Carlo Caselli. Per una serie di motivi a cominciare dalle origini famigliari abbastanza simili alle mie e dall’età che lo vede in vantaggio di poco: tra un paio di mesi compirà 76 anni. Lui ha origini alessandrine, io monferrine. Noi del Monferrato non siamo mai andati troppo d’accordo con i mandrogni. Ma esistevano altri fatti a renderci vicini. I nonni contadini a Fubine, il papà operaio, la laurea a Torino. Oggi Caselli è in pensione, ma ha conservato la figura asciutta e il carattere forte di quando dava la caccia al terrorismo rosso. All’inizio degli anni Settanta era giudice istruttore a Torino. E dobbiamo pure a lui se le prime Brigate rosse, quelle fondate e capeggiate da Renato Curcio, furono sconfitte. Il mitico Renè venne catturato. L’unico errore dei magistrati fu di rinchiuderlo nel piccolo carcere di Casale Monferrato. Per la moglie Mara Cagol si rivelò uno scherzo entrare in quella prigione e portarsi via il marito, senza sparare un colpo. Caselli è sempre stato un coraggioso. Le Br miravano anche ai magistrati. A Genova, nel giugno 1976, accopparono il procuratore generale Francesco Coco e i due carabinieri che lo scortavano. Penso che pure Caselli rischiasse la pelle. Ma una volta fatto il proprio dovere a Torino, nel 1992, dopo l’assassinio di Giovanni Falcone, si candidò all’incarico di procuratore capo a Palermo e si trasferì lì per un bel po’ di anni, comportandosi con onore. Insomma, siamo di fronte a un uomo che ha fatto tanto per la nostra sicurezza. Gli italiani gli debbono molto. Voglio dirlo adesso che la magistratura sta declinando come il resto del paese. E non si può fingere che gli uomini e le donne in toga siano senza responsabilità. Perché questi brevi cenni sul percorso di Caselli? Perché accade che Gian Carlo sia preso di mira da gruppi di antagonisti violenti. A cominciare dai guerriglieri anti Tav e per finire ai loro compagni di Firenze, non vogliono che lui parli in pubblico. L’hanno preso di mira e non smetteranno. Caselli e i suoi tanti sostenitori non s’illudano. Mi sembrano vane le lezioni di democrazia che lui tenta di impartire a certe bande. L’ultima è apparsa venerdì sul Fatto quotidiano. Il dotto articolo di Caselli era intitolato: «Il bavaglio. La storia riscritta dagli squadristi». Uno sforzo inutile. Spiegare al sordo che è sordo non serve a nulla: lui non ti sentirà. Lo dico perché sono passato anch’io per le stesse forche caudine imposte a Caselli. Con la differenza che lui viene difeso, sia pure inutilmente, dalle molte sinistre. Il Pansa, invece, fu lasciato solo, tanto da essere costretto a rinunciare di parlare in pubblico. Ossia a uno dei diritti che la Costituzione garantisce a tutti, specialmente a chi fa politica, ai magistrati ormai fuori carriera, a chi scrive sui giornali e pubblica libri. La mia colpa erano proprio i libri. Nel 2003 avevo pubblicato «Il Sangue dei vinti», una ricostruzione senza errori di quanto era accaduto in Italia dopo il 25 aprile 1945. Era un libro che abbatteva il muro di omertà che aveva sempre nascosto la sorte dei fascisti sconfitti. E per questo ebbe subito un successo imprevisto e strabiliante. I violenti rossi dell’epoca lì per lì non se ne accorsero, forse perché non leggono i giornali e non frequentano dei luoghi chiamati librerie. Se ne resero conto soltanto tre anni dopo. Così, a partire dall’ottobre 2006, cominciarono a darmi la caccia, non appena pubblicai un altro dei miei lavori revisionisti, «La Grande bugia». Il primo assalto lo sferrarono il 16 ottobre 2006. Una squadra capeggiata da un funzionario di Rifondazione comunista, arrivata apposta da Roma con un pulmino, cercò di impedire la prima presentazione in un hotel di Reggio Emilia. Mentre stava per iniziare il dibattito tra me e Aldo Cazzullo, generosa firma del Corriere della sera, la squadra ci aggredì. Ci lanciarono contro copie del libro, poi tentarono di coprirci con un lenzuolo tinto di rosso, che recava la scritta «Triangolo rosso, nessun rimorso». Volevano farci scappare, ma a tagliare la corda furono gli aggressori, cacciati dalla reazione del pubblico. Il giorno successivo ero atteso in una grande libreria di Bassano del Grappa. Ma nella notte i balilla rossi avevano bloccato con il silicone le serrature degli ingressi. Una squadra di fabbri lavorò a lungo per liberarle. Allora tentarono di entrare e di leggere un loro proclama, ma la polizia lo impedì. Il giorno dopo, a Castelfranco Veneto, nuovi fastidi. L’indomani mi riuscì di parlare a Carmignano sul Brenta, protetto da agenti della polizia guidati dal capo della squadra mobile di Padova. Era un dirigente giovane, intelligente ed esperto. Mi avvisò che in Veneto avrei incontrato dappertutto gli stessi problemi. Aggiunse: «Comunque verrà sempre difeso da noi. Conosciamo bene questi gruppi e li terremo a bada». Fu allora che mi posi un problema di etica pubblica. Chiesi a me stesso: «Quale diritto ho di mobilitare reparti di polizia e di carabinieri per proteggere le presentazioni dei miei libri? Le forze dell’ordine hanno compiti ben più importanti, dal momento che tanta gente è vittima di furti, rapine, scippi, aggressioni». Se ci ripenso a nove anni di distanza, sono ancora convinto che fosse una domanda sensata. E altrettanto fu la risposta che mi diedi. Studiai l’agenda e mi resi conto che erano previsti una trentina di incontri per la «Grande Bugia». Ne annullai quattordici, in città come Bologna, Ferrara, Piacenza, Parma, Crema, Treviso, Vicenza, Padova, Valdagno. A decidermi furono le parole di un amico: «Tu vieni nella mia libreria, protetto dai poliziotti. Presenti il tuo libro, poi riparti. Ma noi restiamo qui, senza difese». A qualcuno capitò di vedersi sfasciare la vetrina. A una grande libreria emiliana spararono un colpo di rivoltella contro una vetrina. L’aspetto più sgradevole della faccenda stava nel fatto che in quegli stessi momenti c’erano giornali che mi attaccavano per i miei libri revisionisti, tentando di farmi il vuoto attorno. Si andava da Liberazione, il quotidiano rifondarolo, alla Stampa di Torino e a Repubblica, passando per una serie di giornali provinciali del Gruppo Espresso. Alla Stampa c’era un collega che non mi poteva soffrire. Voglio farne il nome perché oggi conta più di allora: Massimo Gramellini, il socio televisivo di Fabio Fazio. Era un vicedirettore della «Bugiarda», così la chiamavano gli operai torinesi. E arrivò a telefonarmi con arroganza melliflua per sapere se avevo letto la pagina contro di me, vantandosi di averla confezionata con le sue manine. Dopo l’assalto di Reggio, il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, stilò un comunicato in mia difesa. Ricevetti in via privata le telefonate di Romano Prodi, Piero Fassino e Walter Veltroni. Sul versante della sinistra furono i soli a farsi vivi. Sono campato lo stesso e i miei libracci hanno sempre avuto molti lettori. Ma l’esperienza di allora mi induce a rivolgere una domanda a Gian Carlo Caselli: ti fidi ancora delle sinistre italiane che oggi ti portano sugli scudi? Con l’aria che tira, e sotto i bombardamenti pesanti del Cremlino renzista, avranno bisogno di raccattare tutti i voti possibili. Tu conti per uno soltanto. Prima o poi ti molleranno, a favore delle bande che occupano gli atenei. Troppo tollerate e persino blandite.

Ecco la nostra collana firmata Pansa. Da oggi il primo romanzo che rilegge le vicende del Paese, scrive Matteo Sacchi, Sabato 16/04/2016, su "Il Giornale". Non è mai facile raccontare la storia recente, quella che dista da noi meno di un centinaio di anni. Si rischia sempre di incorrere nelle distorsioni da vicinanza, ci si sente toccati dai fatti. Meno che mai è facile farlo in un Paese come l'Italia. La Seconda guerra mondiale, spartiacque fondamentale della modernità, ha spaccato la nazione in due. Si è trasformata anche in guerra civile, con dei vincitori e con dei vinti. Un popolo che si sentiva vinto e sconfitto ha fatto tutto il possibile per scordarsi di essere stato fascista e per nascondersi dietro il mito della Resistenza. Che ci fu, ma fu un fenomeno militare di modesta portata, condotto da poche decine di migliaia di persone, ovviamente escludendo dal novero dei combattenti chi saltò sul carro del vincitore all'ultimo momento. E che fu un fenomeno non certo alieno da ideologie totalitarie, come quella comunista, quanto lo stesso fascismo. Questi concetti possono apparire come ovvi e banali, ma è stato necessario un enorme sforzo per renderli evidenti, rompendo il conformismo degli storici ufficiali. Gran parte del merito in questa impresa va riconosciuto a Giampaolo Pansa il quale, pur non essendo uno storico di professione, ha scandagliato quelle pieghe della storia che molti italiani avrebbero voluto dimenticare. Ora alcuni dei suoi volumi più significativi ritornano in abbinata con il Giornale, riuniti in una collana: «Controstoria d'Italia». Il primo volume sarà in edicola da oggi a 8,50 euro oltre al prezzo del quotidiano. Il titolo è Eia Eia Alalà. Controstoria del fascismo. Si tratta di un romanzo storico che attraverso la finzione letteraria racconta le vicende e gli amori della camicia nera della prima ora Edoardo Magni (personaggio inventato dall'autore). Magni incarna il fascista patriottico e in assoluta buona fede il quale, poco a poco, dovrà rendersi conto dei fatali errori commessi da Mussolini. Dalla scelta folle di aderire alle leggi razziali alla guerra rovinosa e disperata. Gli entusiasmi di Magni danno conto con grande onestà del consenso, quasi unanime, di cui godette il regime («erano tutti fascisti dice Pansa e poi hanno fatto finta di essere stati tutti antifascisti») e di come l'adesione di massa si tramutò in indifferenza e disillusione. Nel caso del protagonista del libro, anche in sincera autocritica (grazie all'incontro con la giovane ebrea Marianna). Pansa nella prefazione, e poi nel testo, dà anche conto con grande precisione di come le violenze iniziali del fascismo fossero strettamente legate alle violenze del «biennio rosso». E anche questo è un pezzo di storia su cui spesso si preferisce sorvolare. Il percorso che inizia con Eia Eia Alalà proseguirà poi con Bella ciao. Controstoria della Resistenza (dal 23 aprile); Sangue, sesso, soldi. Una controstoria d'Italia dal 1946 a oggi (dal 30 aprile); La destra siamo noi. Da Scelba a Salvini (dal 7 maggio); Tipi sinistri. I gironi infernali della casta rossa (dal 14 maggio) e infine Poco o niente. Eravamo poveri. Torneremo poveri (dal 21 maggio). E anche in questi volumi Pansa ci mette di fronte ad analisi non allineate e che costringono a riflettere e a uscire dai luoghi comuni. Qualche esempio: De Gasperi? Ha salvato la libertà dell'Italia e non era affatto un lacchè degli Usa. Il Sessantotto? Un tragico bluff. Andreotti un Belzebù che le ha sbagliate tutte? Assolutamente no.

Il fascismo fu la risposta alle minacce dei "rossi". Nel 1919-20 la sinistra evocò lo spettro della rivoluzione, ma provocò la nascita dello squadrismo. Come racconta Pansa in "Eia Eia Alalà". Scrive Giampaolo Pansa, Sabato 16/04/2016, su "Il Giornale". "Tutti i nodi vennero sciolti con il colpo di spada dell'offensiva squadrista. È il calendario a ricordarci la velocità di quell'azione. Un blitz che ebbe inizio, si sviluppò e vinse in meno di due anni: dalla fine del 1920 all'ottobre del 1922. I rossi cianciavano di rivoluzione, i neri costruirono con i fatti la reazione a tante chiacchiere. Aveva ragione il mio edicolante: la colpa di aver messo in sella il fascismo, e di aver mandato al governo Mussolini, era soltanto dei socialisti. Chi comprese subito quanto era avvenuto fu uno scrittore anarchico, il bolognese Luigi Fabbri, autore di un libro stampato nel 1922 dall'editore Cappelli e intitolato: La controrivoluzione preventiva. La sua tesi era semplice. La rivoluzione tanto predicata dai socialisti non era arrivata e in un certo senso non era mai stata voluta per davvero. Ma le sinistre l'avevano fatta pesare come una minaccia per tutto il 1919 e il 1920. Questo fu sufficiente a provocare la controrivoluzione moderata, di cui il fascismo era il protagonista più impietoso e risolutore. Una bufera che si giovò soprattutto di due armi: la violenza illegale dello squadrismo e la repressione legale del governo liberale, attuata dalla polizia, dai carabinieri e dalla guardia regia, quasi sempre rivolte contro le sinistre. Il risultato fu simile ai giochi di guerra delle Play Station odierne. Le sinistre avevano gridato per due anni di voler fare come in Russia, ma senza saper passare dai proclami alla rivoluzione vera. E i fascisti andarono all'assalto per impedire a chiunque di trasformare in fatti le teorie del bolscevismo nostrano. Gli incauti parolai rossi si erano comportati come l'apprendista stregone: avevano creato il mostro che li avrebbe divorati. Infine le sinistre erano pronte a farsi sconfiggere. Dentro un corpo in apparenza molto solido celavano il virus della discordia e della divisione. Stavano insieme in un solo partito e in poco più di un anno si ritrovarono frantumate in tre segmenti. Nel gennaio 1921, a Livorno, la corrente guidata da Antonio Gramsci e Amadeo Bordiga lasciò il Psi e fondò il Partito comunista d'Italia. Allora accadde un fatto assurdo, che anticipava tutte le pazzie destinate nel futuro a corrodere la sinistra italiana. Mentre il nuovo partito iniziava subito l'attacco ai vecchi compagni, i socialisti rimasti nel Psi rinnovavano all'unanimità la fedeltà a Mosca che aveva voluto la scissione. Anni dopo, un Gramsci costretto all'autocritica avrebbe affermato che la scissione era stata «il più grande regalo fatto alla reazione». Ma in quel 1921, già carico di pericoli per la sinistra, pochi lo compresero. Fra questi c'era Nenni, che scrisse: «A Livorno è cominciata la tragedia del proletariato italiano». E un altro politico vicino al Psi sfornò un'immagine sempre attuale: «La scissione è il cacio sulla minestra della borghesia». Ma al socialismo italiano una sola frantumazione non bastava. Se ne costruirono una seconda all'inizio dell'ottobre 1922, ventiquattro giorni prima della marcia su Roma. Al diciannovesimo congresso del Psi, la corrente massimalista, sfruttando una lieve maggioranza di delegati, espulse i riformisti di Filippo Turati, Claudio Treves e Giacomo Matteotti. I compagni messi fuori dalla vecchia casa formarono un nuovo movimento politico: il Partito socialista unitario. Affidato alla guida di Matteotti, nominato segretario. Gramsci schernì subito il deputato di Fratta Polesine dicendo che era «un pellegrino del nulla». Mentre la sinistra si svenava in una guerra senza quartiere contro se stessa, lo squadrismo fascista cresceva a vista d'occhio e partoriva figure sempre nuove. Molti protagonisti della controrivoluzione in camicia nera il lettore li troverà effigiati in Eia eia alalà. Alcuni di loro emergevano da un'Italia sotterranea e sconosciuta, da mondi estranei alla politica, con un passato torbido, non privo di nefandezze. È il caso di una coppia di amanti, poi divenuti marito e moglie: i conti Carminati Brambilla che hanno un posto di rilievo in questo libro. Mentre scrivevo questo libro mi sono rivolto una domanda. Nell'Italia degli anni Duemila è possibile vedere emergere un regime autoritario non molto diverso dal regime fascista, anche se di colore differente, bianco invece che nero, oppure rosso o rosa? Non è un interrogativo privo di senso. La storia europea del Novecento ci ha insegnato che le dittature nascono in paesi che hanno tre caratteristiche. Sono deboli perché stremati da una guerra o da una crisi economica feroce. Hanno istituzioni democratiche screditate e che non funzionano più, in mano a partiti inefficienti e corrotti. Risultano dilaniati da contrasti sociali molto forti, tra una minoranza di presunti ricchi e una maggioranza di cittadini sempre più poveri. L'Italia del 2014 è così? Esiste un'affinità tra il paese di oggi e quello del 1919-1922? Qualche volta temo di sì".

“Bella Ciao. Controstoria della Resistenza”. Autore Giampaolo Pansa. Il 25 aprile chi va in piazza a cantare "Bella ciao" è convinto che tutti i partigiani abbiano combattuto per la libertà dell'Italia. È un'immagine suggestiva della Resistenza, ma non corrisponde alla verità. I comunisti si battevano, e morivano, per un obiettivo inaccettabile da chi lottava per la democrazia. La guerra contro tedeschi e fascisti era soltanto il primo tempo di una rivoluzione destinata a fondare una dittatura popolare, agli ordini dell'Unione Sovietica. Giampaolo Pansa racconta come i capi delle Garibaldi abbiano tentato di realizzare questo disegno autoritario e in che modo si siano comportati nei confronti di chi non voleva sottomettersi alla loro egemonia. Quando si sparava, dire di no ai comunisti richiedeva molto coraggio. Il Pci era il protagonista assoluto della Resistenza. Più della metà delle formazioni rispondeva soltanto a comandanti e commissari politici rossi. "Bella ciao" ricostruisce il cammino delle bande guidate da Luigi Longo e da Pietro Secchia sin dall'agosto 1943, con la partenza dal confino di Ventotene. Poi le prime azioni terroristiche dei Gap, l'omicidio di capi partigiani ostili al Pci, il cinismo nel provocare le rappresaglie nemiche, ritenute il passaggio obbligato per allargare l'incendio della guerra civile. La controstoria di Pansa svela il lato oscuro della Resistenza e la spietatezza di uno scontro tutto interno al fronte antifascista. E riporta alla luce vicende, personaggi e delitti sempre ignorati.

Il Parlamento appartiene ai nostri partigiani, è grazie a loro se ce l'abbiamo libero". Sono le parole pronunciate dalla presidente della Camera, Laura Boldrini, a Passolanciano, sulla Majella, in Abruzzo, il 3 agosto 2016 durante la cerimonia di commemorazione dei 60 anni della tragedia di Marcinelle, in Belgio, che l'8 agosto del 1956, costò la vita a 136 minatori, di cui 60 abruzzesi. La Boldrini ha ricordato "l'epopea della Brigata Maiella, a cui va il mio riconoscimento. Si unì insieme agli altri partigiani e liberò il centro Italia dal nazifascismo. Da qui, dalle montagne abruzzesi, partirono in tanti per andare a combattere su altre montagne. Tanti sono stati i caduti", ha detto, ricordando la cerimonia organizzata in Parlamento, quando i partigiani sono stati invitati "a sedersi sugli scranni, non come ospiti". 

Il 25 aprile chi va in piazza a cantare Bella ciao è convinto che tutti i partigiani abbiano combattuto per la libertà dell’Italia. Un’immagine suggestiva della Resistenza, ma non corrisponde alla verità. I comunisti si battevano, e morivano, per un obiettivo inaccettabile da chi lottava per la democrazia. La guerra contro tedeschi e fascisti era solo il primo tempo di una rivoluzione destinata a fondare una dittatura popolare, agli ordini dell’Urss. Giampaolo Pansa racconta come i capi delle Garibaldi abbiano tentato di realizzare questo disegno autoritario e come si siano comportati nei confronti di chi non voleva sottomettersi alla loro egemonia. Per concessione di autore ed editore anticipiamo dal libro Bella ciao il capitolo 6 del libro, Terrorismo e ostaggi.

I primi a sparare e a uccidere furono i comunisti di Reggio Emilia. Diedero voce alle rivoltelle quando Longo e Secchia non avevano ancora messo in campo la struttura incaricata di scatenare il terrorismo nelle città e nei piccoli centri. Quindici giorni dopo l’armistizio, la sera di giovedì 23 settembre 1943, poco dopo le nove, un ciclista solitario si recò nel paese di San Martino in Rio, sul confine tra le province di Reggio e di Modena. Aveva l’aspetto del contadino o del bracciante che ritorna a casa dopo una giornata di lavoro sui campi. (...)

Giampaolo Pansa racconta il lato oscuro della Resistenza, tra terrorismo e uccisioni per le strade. Pansa parla dell'obiettivo dei Gap: alimentare la lotta armata, nonostante le rappresaglie. Lo facevano ammazzando padri davanti ai figli e sparando a vista. Poi il giornalista ci racconta il caso di Buranello, il gappista torturato.

Giampaolo Pansa affronta in questo libro tutti i falsi storici che hanno contribuito a dipingere la Resistenza come un mondo dove tutti erano buoni e uniti. La storia della Resistenza è molto diversa da quella celebrata dagli studiosi faziosi. Esiste un retroterra di contrasti, intrighi, faide politiche e personali, conflitti interni e feroci delitti. Per i comunisti guidati da Togliatti nell’Italia del sud e da Longo e Secchia al nord, la Resistenza è soltanto il prologo di una seconda guerra decisiva: quella per la conquista del potere in Italia.

La controstoria di Pansa svela il lato oscuro della Resistenza e la spietatezza di uno scontro tutto interno al fronte antifascista. E riporta alla luce vicende, personaggi e delitti sempre ignorati. Pagina dopo pagina, prendono vita i protagonisti di un dramma gonfio di veleno ideologico. A cominciare dagli “spagnoli”, i reduci delle Brigate internazionali nella guerra di Spagna, presenti in tutte le bande garibaldine, inchiodati a un comunismo primitivo e brutale. Pansa ce li presenta anche nei loro errori di rivoluzionari senza onore, pronti a uccidere chi li contrastava. E nel metterli a confronto con i partigiani che si battevano per un’Italia libera da qualsiasi dittatura rievoca una pagina di storia che la sinistra ha finto di non vedere. Bella ciao verrà ritenuto un libro scandaloso dai gendarmi della memoria resistenziale. E questa sarà la conferma che Pansa ha fatto un importante passo in più nel suo percorso di narratore revisionista - Il 25 aprile chi va in piazza a cantare “Bella ciao” è convinto che tutti i partigiani abbiano combattuto per la libertà dell’Italia. È un’immagine suggestiva della Resistenza, ma non corrisponde alla verità. I comunisti si battevano, e morivano, per un obiettivo inaccettabile da chi lottava per la democrazia. La guerra contro tedeschi e fascisti era soltanto il primo tempo di una rivoluzione destinata a fondare una dittatura popolare, agli ordini dell’Unione Sovietica. Giampaolo Pansa racconta come i capi delle Garibaldi abbiano tentato di realizzare questo disegno autoritario e in che modo si siano comportati nei confronti di chi non voleva sottomettersi alla loro egemonia. Quando si sparava, dire di no ai comunisti richiedeva molto coraggio. Il Pci era il protagonista assoluto della Resistenza. Più della metà delle formazioni rispondeva soltanto a comandanti e commissari politici rossi. Bella ciao ricostruisce il cammino delle bande guidate da Luigi Longo e da Pietro Secchia sin dall’agosto 1943, con la partenza dal confino di Ventotene. Poi le prime azioni terroristiche dei Gap, l’omicidio di capi partigiani ostili al Pci, il cinismo nel provocare le rappresaglie nemiche, ritenute il passaggio obbligato per allargare l’incendio della guerra civile.

Così il Pci scatenò il terrore per impadronirsi del Paese.

In "Bella ciao" Giampaolo Pansa racconta la strategia delle Brigate Garibaldi per sterminare i fascisti. E non solo, scrive Giampaolo Pansa  su “Il Giornale”.  Pubblichiamo, per gentile concessione dell'editore, un estratto da Bella Ciao. Controstoria della Resistenza (Rizzoli, pagg. 430, euro 19,90; in libreria dal 12 febbraio) di Giampaolo Pansa. Nel saggio Pansa ricostruisce con dovizia di particolari il ruolo del PCI all'interno della guerra civile che ha insanguinato l'Italia dall'8 settembre del '43 sino al 25 aprile del '45 (anche se in molti casi le violenze si sono trascinate ben oltre). Il giornalista documenta come i comunisti si battessero per obiettivi ben diversi da quelli di chi lottava per la democrazia. La guerra contro tedeschi e fascisti era soltanto il primo tempo di una rivoluzione destinata a fondare una dittatura filosovietica. Pansa racconta come i capi delle brigate Garibaldi abbiano tentato di realizzare questo disegno autoritario. Ricostruisce il cammino delle bande guidate da Luigi Longo e da Pietro Secchia sino dall'agosto 1943. Poi le prime azioni terroristiche dei Gap, l'omicidio di capi partigiani ostili al Pci, il cinismo nel provocare le rappresaglie nemiche, ritenute il passaggio obbligato per allargare l'incendio della guerra civile.

A distanza di tanti decenni colpisce sempre la strategia messa in atto dai militanti del Pci. In molti luoghi dell'Italia del Nord e del Centro, senza strutture apposite, comandi riconosciuti, progetti elaborati, basi predisposte. All'inizio tutto avvenne per iniziativa di singoli militanti, a volte sconosciuti anche ai dirigenti comunisti periferici. Fu così che si mise in moto un'offensiva fondata su uno schema semplice e terribile. Lo schema può essere riassunto nel modo seguente. Un attentato, una rappresaglia nemica. Un nuovo attentato, una nuova rappresaglia più dura. Un terzo attentato, una terza rappresaglia ancora più aspra. E così via, con una catena senza fine che aveva un solo risultato: allargare l'incendio della guerra civile e spingere alla lotta pure chi ne voleva restare lontano. Scriverà Giorgio Bocca: «Il terrorismo ribelle non è fatto per prevenire quello dell'occupante, ma per provocarlo, per inasprirlo. Cerca la punizione per coinvolgere gli incerti, per scavare il fosso dell'odio». Ecco qual era la strategia dei Gruppi di azione patriottica, i Gap. Fondati verso la fine del 1943 per iniziativa del Comando generale della Brigate Garibaldi, ossia di Longo e di Secchia. Uno degli spagnoli, Francesco Scotti, poi raccontò: «Qualche compagno sosteneva che non era giusto scatenare il terrore individuale, perché questo era contrario ai principi marxisti leninisti. Anche in Francia avevo ascoltato critiche di questo genere». Aderire alla strategia dei Gap, anche soltanto sul terreno del consenso politico, era difficile per molti iscritti al Pci clandestino. Gente semplice e coraggiosa che rischiava l'arresto perché aveva in tasca una tessera o partecipava a una raccolta di denaro per i primi nuclei ribelli. Ma trovare dei compagni disposti a sparare alla schiena di un avversario, e a sangue freddo, risultava un'impresa davvero ardua. [...] Il vertice delle Garibaldi non perdeva tempo a strologare su queste esitazioni. Voleva vedere subito dei morti nelle strade. Secchia incitava ad agire «contro le cose e le persone» dei fascisti. Le azioni non venivano quasi mai rivendicate. E questo accentuava la paura seminata dalle molte uccisioni. Pochi si rendevano conto che i Gap erano piccoli nuclei armati, composti soltanto da militanti comunisti, clandestini nella clandestinità, capaci di vivere nell'isolamento più totale. Una solitudine in grado di mettere a dura prova la resistenza nervosa anche del più freddo terrorista. In realtà i gappisti veri e propri, quelli professionali e in servizio permanente, erano una frazione davvero minuscola rispetto ai tanti comunisti che iniziarono a sparare quasi subito contro i fascisti. Gli omicidi di dirigenti del nuovo Partito fascista repubblicano, di solito segretari federali, vennero preparati e compiuti da terroristi dei Gap. Ma gli altri delitti, ben più numerosi, furono il risultato di iniziative decise da singoli militanti, decine e decine di volontari, senza nessun rapporto con il vertice delle Garibaldi. Erano pronti a sparare e a uccidere, sulla base di una tacita parola d'ordine diffusa da nessuno. Ecco qualche esempio di queste azioni, di solito destinate a non entrare nella storia della guerra civile. Il 5 novembre 1943, a Imola, venne ucciso il seniore della Milizia Fernando Barani. Il 6 novembre, a Medicina, sempre in provincia di Bologna, furono accoppati quattro fascisti. Il 7 novembre, a San Godenzo (Firenze) altri quattro fascisti caddero sotto le rivoltellate di sconosciuti. In seguito Giorgio Pisanò scrisse che questo attentato era stato compiuto da un gruppo guidato dal meccanico Alessandro Sinigaglia, poi capo dei Gap fiorentini. Anche lui uno spagnolo reduce da Ventotene, perse la vita nel febbraio 1944 in una sparatoria. Nel Reggiano, dopo la fine del Tirelli, si cercò di accoppare il commissario della nuova federazione fascista, l'avvocato Giuseppe Scolari. Era l'imbrunire del 13 novembre e l'attentato fallì. Andò a segno il terzo colpo, messo in atto il 17 dicembre. L'obiettivo era Giovanni Fagiani, cinquantenne, seniore della Milizia e già comandante della 79ª Legione. Abitava nel comune di Cavriago e stava ritornando a casa in bicicletta. Era in compagnia della figlia Vera, 19 anni, che pedalava accanto a lui. In località Prati Vecchi, il seniore venne affrontato da due ciclisti, in apparenza contadini avvolti nel tabarro per difendersi dall'umidità invernale. Gli spararono e lo uccisero. Mentre Vera si gettava sul padre, tirarono anche su di lei e la colpirono al volto. La ragazza sopravvisse, ma rimase cieca. A Genova il gruppo di Buranello, ormai divenuto il Gap della capitale ligure, il 27 novembre 1943 cercò di intervenire in appoggio agli operai meccanici e ai tranvieri scesi in sciopero. L'agitazione era stata indetta dal Pci per adeguare il salario al carovita e ottenere l'aumento della quantità di alcuni generi alimentari tesserati. Ma l'aiuto si limitò a un paio di attentati contro i tralicci dell'alta tensione. Più pesante fu l'intervento in occasione del nuovo sciopero deciso tra il 16 e il 20 dicembre. Due fascisti vennero uccisi, forse dai Gap o da altri. Per reazione, le autorità repubblicane fucilarono due operai già in carcere perché trovati in possesso di armi mentre tentavano di sabotare dei tram. La rappresaglia, resa pubblica il 20 dicembre, fece terminare subito l'agitazione.

Pansa nel mirino dei "baroni rossi". La battaglia di retroguardia degli accademici contro una nuova lettura della storia d'Italia, scrive Giampaolo Pansa, Giovedì 11/02/2016, su "Il Giornale". Più interessanti, anche se scontati, furono gli anatemi che mi arrivarono da un manipolo di intellettuali, quasi sempre docenti di storia in diverse università italiane. Il più accanito si rivelò Angelo d'Orsi, ordinario di Storia del pensiero politico a Torino. All'inizio del 2004 pubblicò sulla rivista «MicroMega» una lunga requisitoria contro il revisionismo. Scritta in uno stile da burocrate sovietico e in un pessimo italiano, evocava a mio disdoro, «la protettiva ombra del berlusconismo e dei suoi immediati pressi». Il suo stralunato atto d'accusa merita di essere ricordato per una singolare schedatura che lo accompagnava: la lista nominativa di signori che non dovevano permettersi di pubblicare ricerche storiche. Queste lingue da tagliare erano diciotto, compresa la mia. Tra loro c'erano intellettuali stimati come Sergio Romano, Francesco Perfetti, Ernesto Galli della Loggia, Giovanni Belardelli, Giovanni Sabbatucci. E giornalisti come Paolo Mieli, Pierluigi Battista, Giuliano Ferrara, Silvio Bertoldi, Gianni Oliva, Antonio Spinosa, Arrigo Petacco, Antonio Socci, Renzo Foa. «E l'elenco potrebbe continuare» minacciava d'Orsi, «arrivando sino alla più sgangherata frontiera della battaglia per la libertà di stampa». Eppure la faccenda non si concluse lì. Il direttore di «MicroMega», Paolo Flores d'Arcais, andò in orgasmo per la lista d'Orsi e decise di sfruttarla per guadagnare qualche lettore alla sua rivista quasi clandestina. La domenica 8 febbraio 2004 decise di trasferire una parte dell'elenco in un'inserzione pubblicitaria sul paginone culturale della «Repubblica». Una gogna stampata su 646 mila copie. Con un titolo di quelli furenti: Basta con i falsi storici. La manipolazione permanente della verità da parte dei vari... Seguivano i nomi di dieci loschi figuri, compreso il sottoscritto. Un altro gendarme della memoria molto solerte nel pestaggio verbale del Pansa si dimostrò di nuovo un docente di Storia dell'Università di Torino, Giovanni De Luna. Lui aveva a disposizione un quotidiano importante, «La Stampa». Nel 2003 era diretta da Marcello Sorgi, un collega che non digeriva i libri del sottoscritto, ma senza avere il coraggio di dirmelo affrontandomi in modo diretto. Sul «TuttoLibri» del 25 ottobre 2003, De Luna mi dedicò una lunga stroncatura intitolata Pansa, il sangue dei vinti visto con gli occhiali della Repubblica sociale italiana. Il titolo mi inorgoglì. L'accusa era quella che, tanti anni prima, nel 1952, era stata scagliata dall'«Unità» contro un libro del grande Beppe Fenoglio. Colpevole di vedere la guerra partigiana «dall'altra sponda», ossia dal versante dei fascisti. Al professor De Luna dovevo stare sui santissimi. Infatti quando venne intervistato dalla solita Simonetta Fiori di «Repubblica», disse che ero «straordinario nell'intercettare lo spirito del tempo». In parole povere un furbastro che fiutava il vento nuovo berlusconiano a cui accodarsi. Ma devo dedicarmi a un altro docente che mi prese di mira. Un big, così sembra, della ricerca storica: Sergio Luzzatto. Anche Luzzatto, genovese, quarant'anni giusti all'uscita del Sangue dei vinti, insegnava Storia all'Università di Torino. Ma rispetto agli altri gendarmi era un tipo avventuroso che aspirava alla notorietà. Scriveva i pezzi di polemica come un qualunque giornalista pittoresco. Nel dicembre 2002 aveva accettato di presentare a Genova I figli dell'Aquila e quel pomeriggio non mi sembrò che il Pansa gli facesse ribrezzo. Invece Il sangue dei vinti gli suscitò un disgusto profondo. Lo manifestò tutto nell'ottobre 2004. Una sera Giuliano Ferrara e Ritanna Armeni lo invitarono a Otto e mezzo, il loro talk show sulla Sette, a illustrare un suo pamphlet appena uscito, dedicato alla crisi dell'antifascismo. Accanto a lui c'ero io che avevo pubblicato in quei giorni Prigionieri del silenzio. La vicinanza, penso poco gradita a Luzzatto, mi trasformò nel suo bersaglio. Un ruolo che in fondo mi piaceva, poiché ero sempre attratto dalla rissa culturale, chiamiamola così. Tuttavia io ero soltanto un misero rappresentante di una categoria da aborrire: l'intellighenzia occidentale che, a sentir lui, aveva rinunciato a riflettere sul ruolo storico della violenza come levatrice di progresso. Quella sera Luzzatto mi sembrò un esemplare perfetto del signor Ghigliottina, nostalgico dei tagliatori di teste della Rivoluzione francese. E in quei panni mostrò di essere implacabile. Sostenne che la moralità della Resistenza consisteva anche nella determinazione degli antifascisti di rifondare l'Italia a costo di spargere molto sangue. Il signor Ghigliottina si rivelò pirotecnico. Sostenne che era sbagliato impregnarsi di buonismo. Spiegò: «Per questo non accetto il pansismo. Ossia la rugiadosa sensibilità di chi si scandalizza e quindi equipara una certa violenza partigiana, che pure Giampaolo Pansa ha avuto il merito di documentare, con quella fascista». Lo ascoltai sorridendo. A me Luzzatto sembrò un uomo delle caverne che esca dal suo antro con la clava e si scateni contro mezzo mondo. Intervistato da Dario Fertilio del «Corriere della Sera», aggiunsi: «Se è vero che l'antifascismo è in crisi, senza volerlo Luzzatto gli spara un colpo alla nuca».

Giampaolo Pansa, il revisionista impenitente, scrive Gabriele Testi su “Storia in Rete”. Il revisionista che non si pente. Anzi. L’autore che più di ogni altro ha attaccato in Italia miti storiografici del Novecento e l’Accademia, sta per tornare con un libro destinato a rinverdire le polemiche scatenate da «Il Sangue dei Vinti». Le tesi di Pansa? «Il PCI di Togliatti voleva l’Italia satellite dell’Urss»; «la politica di oggi non è interessata a fare i conti con la Storia»; «I miei critici? Scappano…»; «Le celebrazioni? Non mi piacciono mai»; «Il miglior leader italiano? De Gasperi»; «Gli italiani? Non hanno futuro se continuano così…». Forse perché non vogliono avere un passato? C’è sempre una prima volta, anche per Giampaolo Pansa. Quella del giornalista piemontese al Festival Internazionale della Storia di Gorizia, dunque allo stesso tempo su un terreno e in un territorio particolarmente delicato per ogni forma di rivisitazione e di analisi storiografica, non è passata inosservata. Anzi. La dialettica con un pubblico tanto attento quanto sensibile alle vicende degli italiani vissuti (e morti) oltre il Muro, in particolare comunisti di fede stalinista fuggiti in Jugoslavia e diventati «nemici del popolo», e lo scontro verbale con il moderatore Marco Cimmino non saranno dimenticati facilmente dalle parti di Gorizia. L’occasione si è comunque rivelata perfetta per una chiacchierata con un autore che, in polemica con gli accademici italiani e i «gendarmi della memoria» non arretra di un metro sul piano del confronto scientifico su quei temi, il tutto alla vigilia del compleanno che il primo ottobre gli farà oltrepassare la soglia dei tre quarti di secolo e della pubblicazione di un ultimo lavoro che lo riporterà in autunno nei panni a lui del revisionista. È lui stesso a raccontarlo a «Storia in Rete» in un’intervista esclusiva in cui si mescolano Resistenza e Risorgimento, eredità del PCI, meriti e demeriti democristiani, una visione organica della nostra società e le differenze esistenti fra i giovani di oggi e quelli le cui scelte avvennero con la Guerra.

Considerato il soggetto dei suoi ultimi due libri, considera ormai chiusa la parentesi dedicata alla Guerra Civile italiana?

«No, tant’è vero che in novembre uscirà con la Rizzoli un mio nuovo libro sulla Guerra Civile. Il titolo è: “I vinti non dimenticano”. Non è soltanto il seguito del “Sangue dei vinti” e dei miei libri revisionisti successivi. Insieme a vicende che coprono territori assenti nelle mie ricerche precedenti, come la Toscana e la Venezia Giulia, c’è una riflessione più generale, e contro corrente, sul carattere della Resistenza italiana. Dominata dalla presenza di un unico partito organizzato, il PCI di Palmiro Togliatti, Luigi Longo e Pietro Secchia. Che aveva un traguardo preciso: conquistare il potere e fare dell’Italia un Paese satellite dell’URSS».

È rimasto fuori qualcosa – un’osservazione, una storia, un nome – che le piacerebbe aggiungere o correggere?

«Non ho niente da correggere per i miei lavori precedenti. E voglio dirvi che, a fronte di sette libri ricchi di date, di nomi, di vicende spesso ricostruite per la prima volta, non ho mai ricevuto una lettera di rettifica, dico una! E non sono mai stato citato in tribunale, con qualche causa penale o civile. Persino i miei detrattori più accaniti, tutti di sinistra, non sono mai riusciti a prendermi in castagna. Mi hanno lapidato con le parole per aver osato scrivere quello che loro non scrivevano. Però non sono stati in grado di fare altro».

E a proposito di «aggiungere»?

«Come voi sapete meglio di me, nella ricerca storica esistono sempre campi da esplorare e vicende da rievocare. In Italia questa regola vale ancora di più a proposito della Guerra Civile fra il 1943 e il 1948. Parlo del ’48 perché considero l’anno della vittoria democristiana nelle elezioni del 18 aprile la conclusione vera della nostra guerra interna. I campi da esplorare sono molti, anche perché della guerra tra fascisti della RSI e antifascisti non vuole più occuparsene nessuno. I cosiddetti “intellettuali di sinistra” hanno smesso di scriverne perché si sono resi conto che il loro modo di raccontare quella guerra non regge più, alla prova dei fatti e dei documenti. Nello stesso tempo, le tante sinistre italiane non hanno il coraggio di ammettere quella che ho chiamato nel titolo di un mio libro “La grande bugia”. Se lo facessero, perderebbe molti elettori, ossia quella parte di opinione pubblica educata a una vulgata propagandistica della Resistenza. Sul versante di destra constato la stessa reticenza. Un tempo esisteva il MSI, in grado di dar voce agli sconfitti. Oggi i reduci di quell’esperienza, parlo soprattutto del gruppo nato attorno a Gianfranco Fini, si guardano bene dal rievocare il tempo della Repubblica Sociale Italiana. Infine, il Popolo della Libertà ha ben altre gatte da pelare. E a Silvio Berlusconi della Guerra Civile non importa nulla. Di fatto, sono rimasto quasi solo sulla piazza. Questo mi rallegra come autore, però mi deprime come cittadino. Sono ancora uno di quelli che non dimenticano una verità vecchia quanto il mondo: il passato ha sempre qualcosa da insegnare al presente e anche al futuro».

Che cosa risponde a chi nega valore ai suoi libri perché «poco scientifici»? È davvero soltanto una questione di note a margine?

«Mi metto a ridere! Rido e me ne infischio, perché la considero un’accusa grottesca. Questa è l’ultima trincea dei pochi “giapponesi” che si ostinano a difendere una storiografia che fa acqua da tutte le parti. A proposito delle note a piè di pagina, ricordo che tutte le mie fonti sono sempre indicate all’interno del testo, per rispetto verso il lettore e per non disturbarlo nella lettura del racconto. Per quanto riguarda i cattedratici di storia contemporanea, il mio giudizio su di loro è quasi sempre negativo. Ci sono troppi docenti inzuppati, come biscotti secchi e cattivi da mangiare, nell’ideologia comunista. Il Comunismo è morto in gran parte del mondo, ma non all’interno delle nostre università. L’accademia che ho conosciuto nella seconda metà degli anni Cinquanta era molto diversa…».

Com’è un libro di storia «scientifico»? Perché non si toglie lo sfizio e glielo fa? Oppure bisogna necessariamente scriverlo da una cattedra universitaria?

«Se per libro scientifico si intende una ricerca storica fondata su fonti controllate e che racconta fatti veri o comunque il più possibile vicini alla verità, questo è ciò che ho sempre fatto. Anche il libro che uscirà a novembre, se vogliamo usare una parola pomposa che non mi appartiene, è a suo modo un’opera scientifica. Lo è perché l’ho pensato a lungo, ci ho lavorato molto e sono pronto ad affrontare ogni contraddittorio. Ormai la storiografia accademica “rossa” non vuole fare contraddittori con i cani sciolti come me perché ha paura di essere messa sotto. Si nascondono, fanno come le lumache. Mia nonna diceva: “lumaca, lumachina, torna nella tua casina”. Non si fa così: si tengano le loro cattedre sempre più inutili, cerchino di insegnare qualcosa a studenti altrettanto svogliati. Dopodiché quello che posso fare per loro è pagare le mie tasse fino all’ultima lira, come ho sempre fatto. In fondo, io sono tra i finanziatori della ricerca storica universitaria».

A proposito di revisionismo: come giudica quello sul Risorgimento (quello neo-borbonico, ma anche la nostalgia cripto-leghista che ha in mente il Regno Lombardo-Veneto austriaco)?

«Quando ero studente diedi anche un esame di storia del Risorgimento. Non mi ricordo più con chi. Mi appassionava, però confesso di non avere un interesse per quel periodo storico. Mi rendo conto, com’è accaduto per tutte le fasi cruciali, che bisognerebbe andare a vedere anche lì se la storia ci viene raccontata nel modo giusto. Io non santifico nessuno, non mi piace. Non l’ho mai fatto nel mio lavoro di giornalista politico, per cui mi è difficile trovare qualcuno che mi entusiasmi anche tra i leader partitici. E credo che anche sul Risorgimento ci sia molto da rivedere o revisionare. Ma se un partito come la Lega Nord si mette di mezzo e pretende di riscrivere la storia, io me ne ritraggo inorridito…».

Ci fu anche allora, indubbiamente, una guerra civile che prese il nome di «brigantaggio». Ha mai pensato di occuparsene?

«Sul brigantaggio ho letto parecchio, recentemente anche un romanzo bellissimo che racconta di un episodio in Calabria o Campania, adesso non ricordo, della lotta contro i piemontesi. Ritengo che questo fenomeno fosse una forma di resistenza delle classi dirigenti del Mezzogiorno nei confronti dei Savoia per quella che era un’occupazione militare. Lo Stato unitario è certamente nato sul sangue di entrambe le parti, perché non è che i piemontesi siano andati con la mano leggera al sud, e lo dico parlando da piemontese. Del resto, le guerre sono sempre state fatte in queste modo: le vincono non soltanto coloro che hanno la strategia più intelligente, ma anche chi non usa il guanto di velluto. Basti vedere come sono stati i bombardamenti alleati in Italia durante la Seconda guerra mondiale, un altro argomento che gli storici dell’antifascismo e della Resistenza non hanno granché affrontato e che io credo di avere chiarito bene nel prossimo libro, per di più alla mia maniera. Ormai ho imparato che i conflitti bellici sono mattatoi pazzeschi. Ricordo che da bambino vidi passare sulla mia testa, a Casale Monferrato, le “fortezze volanti” americane che andavano a bombardare la Germania. In un primo tempo a scaricare esplosivo sui tedeschi erano gli aerei inglesi del cosiddetto Bomber Command, guidati da questo Harris [sir Arthur Travers Harris, maresciallo dell’aria della RAF, 1892-1984, soprannominato “Bomber Harris” NdR] che anche dai suoi era stato battezzato “Il macellaio” [per la leggerezza con cui mandava a morire i suoi equipaggi NdR]. Anch’io avrei potuto essere un bambino bombardato in Italia, ma grazie a Dio non abitavo vicino ai due ponti sul Po che attraversavano la mia città. Queste sono le guerre. È chiaro che se poi, una volta che sono finite, ci si mettono di mezzo i faziosi che pretendono di raccontarle alla loro maniera, secondo gli interessi di una parte politica, allora non ci si capisce più nulla…».

Come si esce dalle divisioni del passato? Ancora oggi l’ANPI, l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, tessera dei giovani: queste cose hanno senso per lei?

«No, e io sono stato uno dei primi a raccontarlo in qualche mio articolo e anche in un libro. Una sera mi trovavo a Modena, dove mi ero recato a presentare uno dei miei lavori revisionisti, e mi accorsi che sui quotidiani locali c’erano delle pagine pubblicitarie a colori, dunque costose, e delle locandine in cui si invitavano i ragazzi a iscriversi all’ANPI. Tutto questo non ha senso o, meglio, lo ha se si pensa che l’Associazione è oggi un partito politico, minuscolo e molto estremista. Secondo me tutto ciò non ha senso, però se vogliamo capire il fenomeno bisogna dire che l’ANPI è uno strumento nelle mani della Sinistra radicale o, diciamolo meglio, affinché non si offendano, una sua componente: è chiaro che se dovesse fare affidamento soltanto sugli ex partigiani, anche su quelli delle classi più giovani del ’25, ’26 e ’27, oggi i soci sarebbero tutti ultraottantenni. Hanno bisogno di forze fresche e hanno trasformato un’organizzazione di reduci, assolutamente legittima, in un club quasi di partito. Siamo in una situazione di sfacelo delle due grandi famiglie politiche, prima è toccato al centrosinistra e ora sta accadendo per una specie di nemesi al centrodestra, e possiamo immaginarci quanto poco conti l’ANPI in questo scenario. Quando l’Italia diventerà ingovernabile e nessuno sarà in grado di gestirla, ci renderemo conto di come certi leader politici non possano fare nulla».

Come spessore dei personaggi, chi vince tra la Prima e la Seconda Repubblica? E, fra i grandi statisti del passato, chi ci servirebbe oggi?

«È una bella domanda, che però richiede una risposta complicata. Come ho scritto nella prefazione de “I cari estinti”, tanto per citare un mio libro che sta avendo un grande successo, sono un nostalgico della Prima Repubblica. Non ricordo chi lo abbia detto, se Woody Allen o Enzo Biagi, personaggi agli antipodi fra di loro, ma “il passato ha sempre il culo più rosa”. Io sono fatalmente portato a ritenere che i capi partito della Prima Repubblica avessero uno spessore più profondo, diverso, migliore di quelli di oggi, anche se in quel periodo furono commessi degli errori pazzeschi. Prima che quella classe politica si inabissasse per sempre e la baracca finisse nel rogo di Tangentopoli – non tutta naturalmente, perché il PCI fu graziato dalla magistratura inquirente – negli ultimi quattro-cinque anni si accumulò un debito pubblico folle, che è la palla al piede che ci impedisce di correre e, soprattutto, diventa una lama d’acciaio affilata che incombe sulle nostre teste. Non ho mai votato la DC, anche perché sono sempre stato un ragazzo di sinistra, ma ho una certa nostalgia della “Balena Bianca”. Il grande merito della Democrazia Cristiana fu di vincere le elezioni del 18 aprile, perché se nel 1948 avesse prevalso il Fronte Popolare, non so che sorte avrebbe potuto avere questo Paese. Secondo me ci sarebbe stata un’altra guerra civile, se non altro per il possesso del nord Italia, anche se poi la storia non si fa con i “se”. Per fortuna, lì si impose Alcide De Gasperi in prima persona. Ero molto giovane, ma quello è un leader al quale ho visto fare grandi cose nei rapporti con gli elettori. Ma pure i leader dell’opposizione a vederli da vicino erano cosa altra da adesso. Anche di Enrico Berlinguer, che era una specie di “santo in terra”, mi resi subito conto di che pasta fosse da un punto di vista politico, più che umano. Quando lo intervistai per il “Corriere della Sera”, alla vigilia delle elezioni politiche del 1976, mi disse che si sentiva molto più al sicuro sotto l’ombrello della NATO che non “protetto” dal Patto di Varsavia. Queste risposte eterodosse sull’Alleanza Atlantica e il PCI non le pubblicò “l’Unità”, censurando di fatto il segretario del Partito, perché avevano suscitato i malumori dell’ambasciata dell’URSS a Roma. Però gli stessi concetti mi furono ribaditi dal leader comunista, senza battere ciglio, anche in televisione durante una tribuna elettorale. Evidentemente, tutto ciò non doveva finire su ”L’Unità”, che era letta come il Vangelo dai militanti comunisti, mentre in tivù si poteva dire qualsiasi cosa».

Secondo lei chi è stato il più grande? E perché?

«Io direi che oggi ci servirebbe un uomo molto pratico ed energico come Amintore Fanfani, che ha curato i nostri interessi sotto molti aspetti, oppure un temporizzatore tranquillizzante come Mariano Rumor. Con tutto il rispetto per la sua figura e la fine che ha fatto, non so invece se ci occorrerebbe un Aldo Moro. A sinistra ci vorrebbe un tipo come Craxi, diciamoci la verità: Bettino aveva un grande orgoglio di partito, ma non pendenze storiche che sarebbero state sconvenienti da mostrare come accadeva a molti leader del PCI. In conclusione, ci servirebbe un leader democratico e liberale in grado di imporsi con autorità e autorevolezza per mettere fine a questa guerra civile di parole di cui in Italia non ci rendiamo troppo conto e che diventa sempre più violenta. Il più grande di tutti resta comunque De Gasperi, un uomo affascinante, brillante e capace: se non sbaglio fece sette governi, si ritirò a metà dell’ottavo per il venir meno della fiducia e fu per undici mesi segretario della DC prima di morire nel 1954. È stato il politico che ha concesso a me e a voi, in un giorno d’estate del 2010, di procedere in quest’intervista senza paura di dire come la pensiamo».

Come giudica, anche da piemontese, il modo con cui l’Italia si appresta a «festeggiare» i primi centocinquant’anni di vita nel 2011 e le dimenticanze su Cavour in questo 2010?

«Vi dirò una cosa: io sono contrario alle celebrazioni, anche le più oneste. Non servono a nulla, se non a far girare un po’ di consulenze, a far lavorare qualche storico, vero o presunto che sia, gli architetti, qualche grafico e chi si occupa di opere pubbliche per tirar su mostre, ripristinare un museo e via dicendo. Non me ne importa nulla e non sono affatto d’accordo. Chi vuole approfondire la storia del Risorgimento, trova già tutto: basta che vada in una buona libreria e si faccia consigliare da qualche bravo insegnante, magari di liceo, che spesso è anche più competente di tanti docenti universitari…».

Che popolo sono gli italiani? È giusto dire che dimenticano tante cose belle e si accapigliano a distanza di secoli sempre sulle stesse cose?

«Io ho un’idea abbastanza precisa di come siamo: un popolo in declino, che non è all’altezza delle nazioni con le quali dovremmo confrontarci. L’Italia è un Paese di “serie B”, che presto scenderà in “serie C”, con una squadra di calcio che non combina più nulla da un sacco di anni. La gente è sfiduciata e non vuole più saperne della politica, anche per come è la politica oggi. I giovani sono in preda ai “fancazzismi” più esasperati e affollano le università per lauree assurde, vere e proprie anticamere della disoccupazione. A un sacco di ragazzi se chiedi che cosa vogliono fare da grandi, non sanno risponderti, perché non vogliono nulla. Questo è un Paese per vecchi che diventano sempre più vecchi e io mi metto in cima alla lista, perché a ottobre di anni ne avrò settantacinque. Quand’ero giovane l’Italia era un contesto più generoso e che osava, baciato da miracoli economici successivi, in cui il figlio di un operaio del telegrafo e di una piccola modista, allevato da una nonna analfabeta come Giampaolo Pansa, poteva andare all’università, laurearsi e fare il giornalista, che era la cosa che avrebbe sempre voluto fare. Adesso l’Italia è un deserto di speranze, ma anche i giovani non si accontentano mai. Oggi se ho bisogno di un idraulico, di un falegname o di un elettricista, o trovo dei signori ultracinquantenni, o mi affido a giovani molto bravi che quasi sempre sono extracomunitari. Vallo a spiegare ai ragazzi italiani che gli studi universitari non garantiscono più nulla…».

Foibe, Pansa: «L’Anpi è un club di trinariciuti comunisti che dicono solo falsità», scrive martedì 5 febbraio 2019 Desiree Ragazzi su Secolo fd’Italia. «Quelli dell’Anpi non contano un cazzo. Straparlano. Sono un club di trinariciuti comunisti». Giampaolo Pansa proprio non ci sta a sentire le fandonie e le falsità che in questi giorni circolano sulle foibe. Prima il post revisionista dell’Anpi di Rovigo, poi la sponsorizzazione e partecipazione dei partigiani a una conferenza negazionista a Parma. La Giornata del Ricordo si avvicina e lo scontro con l’Anpi si fa sempre più forte. «Vogliono negare che Tito era un dittatore comunista – dice Pansa – Ma non possono farlo perché è storia. Vogliono negare che le squadre comuniste gettavano la gente che non amava Tito dentro le foibe. Ma non possono farlo perché è storia. Quelli dell’Anpi dicono e fanno delle cose che sono di un’assurdità totale». Dell’Anpi ne parla anche nel suo ultimo libro Quel fascista di Pansa (Ed. Rizzoli) dove racconta le accuse e gli insulti che accompagnarono la pubblicazione nel 2003 del Sangue dei vinti. «Quel libro era dedicato alle vendette compiute dai partigiani trionfanti sui fascisti repubblicani sconfitti – scrive il giornalista nella sinossi del libro – Segnò l’inizio di una serie di vicende che in qualche modo riflettono l’Italia entrata nei nevrotici anni Duemila. Prima di tutto non sono stato ritenuto un rosso come credevo di essere, bensì un nero: Pansa il fascista ha gettato la maschera. Questo accese la rabbia di una serie di eccellenze presunte democratiche, più ridicole che tragiche. Venni aggredito e messo all’indice da parrocchie politiche che prima stravedevano per me e volevano eleggermi in Parlamento». Nel nuovo libro c’è un capitolo intitolato I nemici dell’Anpi…È un libraccio che racconta la verità su questa Italia del cazzo. Ai comunisti dico: attaccatemi. E più mi attaccherete, più copie venderò. Nel libro scrivo che dopo molti anni si vede con chiarezza l’assurdità paradossale della sinistra italiana nella Prima Repubblica. C’erano il Partito comunista, il Partito socialista e il Partito socialdemocratico. Poi esisteva un quarto partito: l’Anpi. Che cosa sapevano gli italiani dell’Anpi? Quasi niente, anche i suoi dirigenti erano pressoché ignoti. E soprattutto nessuno di loro poteva essere sottoposto a una valutazione dell’opinione pubblica…Lei scrive che la crisi della sinistra italiana non è un guaio del 2019 perché risale nell’immediato dopoguerra. I comunisti e tutta la sinistra non hanno più voce in capitolo. Sono in rotta di collisione con la verità e la storia. Ecco perché parlare oggi di Anpi è anacronistico. In un certo modo è come parlare dei superstiti di Garibaldi che cento anni dopo parlano dello sbarco dei garibaldini…La sinistra quando deve ricordare i crimini commessi dai comunisti ha sempre l’orticaria…Si vergogna di essere nata da una costola del comunismo internazionale. E, quindi, si ostina a negare, negare, negare. E a dire che non è assolutamente vero che furono commessi crimini atroci. Oggi negano le foibe, ma qualcuno dentro c’è morto ed era gente che non piegava la testa ai soldati di Tito.

"Quel fascista di Pansa" racconta la sua storia. L'autore stesso svela come il suo «Il sangue dei vinti» mandò in tilt la sinistra, che lo censurò e rinnegò, scrive Roberto Chiarini, Martedì 05/02/2019, su Il Giornale. Era inevitabile che Giampaolo Pansa, l'autore del «libro infame», Il sangue dei vinti, ritornasse sul luogo del delitto: il delitto storiografico, politico, morale (mai condonato) di aver attentato al mito fondante della Repubblica nata dalla Resistenza togliendo il velo alla sequela di violenze, assassini, esecuzioni sommarie di ex fascisti - talora solo presunti - che hanno insanguinato il nostro dopoguerra. Era il 2003 quando una delle più popolari e stimate firme del giornalismo di sinistra osò dare alle stampe il libro incriminato: una lunga, sconvolgente sequela di delitti costati la vita a molti italiani colpevoli - non sempre in modo comprovato - di essersi macchiati di gravi misfatti, talora semplicemente di essersi schierati dalla parte sbagliata nel Ventennio o nei fatidici seicento giorni della Rsi. Fu subito un'esplosione di polemiche, di attacchi, di scontri che implacabilmente accompagnarono il lungo tour di presentazione del libro in giro per l'Italia, per non dire delle intimidazioni subite dall'autore quando osò metter piede in partibus infidelium, dove vigeva il bando del politicamente e storiograficamente scorretto. Era inevitabile che Pansa tornasse su quella tormentata stagione di polemiche. Per più di un motivo. Perché il libro, subito incriminato di lesa maestà alla Resistenza, gli aveva fatto toccare l'acme della popolarità, con ristampe sfornate a tambur battente fino a raggiungere il milione di copie vendute. Perché fu un caso storiografico unico nella storia repubblicana. Perché infine, a distanza di anni, sarà pur venuto il momento di storicizzare quella polemica, di fare cioè un bilancio delle ragioni pro e contro che portarono allora l'Italia a schierarsi in due fazioni l'una contro l'altra armarla. Il primo, non solo titolato a esprimere un parere al riguardo, ma che ha sentito l'urgente bisogno di riparlarne, è stato appunto il protagonista o, meglio (per i suoi avversari) l'imputato numero uno. Lo ha fatto al suo solito modo: diretto, polemico, provocatorio. Già dal titolo: Quel fascista di Pansa (Rizzoli, pagg. 240, euro 20; in libreria da oggi). Avvalendosi di aneddoti, curiosità e testimonianze di molte vittime della lunga guerra civile post 25 aprile e di loro familiari, che dopo l'uscita del libro inondarono letteralmente di lettere accorate l'autore, nonché delle requisitorie sviluppate dai suoi, non meno numerosi, critici, Pansa conduce per mano il lettore a rivisitare quell'infuocata kermesse politico-storiografica che si innestò all'apparizione del libro, in qualche caso addirittura al solo annuncio. Kermesse fu e non poteva non essere. Il sangue dei vinti era il libro giusto uscito al momento giusto, per i suoi denigratori il libro sbagliato nel momento sbagliato. Sono gli anni infatti del gran ritorno in auge della destra. Impera Berlusconi, il Cavaliere nero, macchiatosi dell'onta di aver non solo sdoganato, ma addirittura portato al governo il partito sospettato di perpetuare sotto mentite spoglie cultura, valori, tradizione del mai debellato neofascismo. Ci voleva solo che, dopo lo sdoganamento politico della destra, uscisse un libro che completasse l'opera attuandone anche lo sdoganamento storico. A questo punto, sarebbe caduto anche l'ultimo argine al suo dilagamento. Ai custodi della memoria mitizzata della Resistenza era proprio questo il ruolo svolto dall'operazione editoriale di Pansa. Al di là delle specifiche vicende luttuose rievocate nel libro, l'addebito principe lanciato contro il libro dai denigratori fu che non era lecito né storiograficamente né moralmente, tanto meno politicamente, illuminare «il lato oscuro della guerra civile». Esattamente l'opposto di quel che invece da mezzo secolo si aspettavano le vittime della guerra civile: un popolo di «esuli in patria», dimenticati, cittadini dimezzati perché gravati da una colpa inespiabile, familiari di fascisti che per non vedersi rinnovare il bando dalla cittadella democratica avevano preferito rifugiarsi in «una torre di silenzio», stretti nella morsa «della paura, della vergogna». Non conta se quanto rievocato nel libro di Pansa fosse veritiero, documentato, non smentibile. Il sangue dei vinti era «un libro infame» che «danneggiava i valori della Resistenza». Di più: portando alle estreme conseguenze il revisionismo, quella denuncia di violenze perpetrate a danno dei vinti avrebbe attuato una sorta di rovescismo. Dipingendo i partigiani come criminali e i fascisti come vittime o eroi, si era finito col ribaltare le conquiste storiografiche e coll'abbattere il patrimonio di valori su cui si è fondata la democrazia repubblicana. Pansa richiama, uno a uno, i capi di imputazione avanzati a suo carico, per demolirli e rivendicare la validità dell'operazione editoriale da lui condotta. Non accetta l'accusa di essere «un falsario» e nemmeno uno storico poco scrupoloso nel documentare le sue affermazioni. La pretestuosità di tali accuse è comprovata - non manca di rimarcare dal fatto che i suoi accusatori finirono col contraddirsi avanzando l'imputazione opposta, e cioè che egli si limitava a narrare «vicende già note». Resta il rilievo dell'inopportunità dell'iniziativa. Se inopportuna è stata l'iniziativa, non di meno si deve convenire che inopportuno era il rilievo. Come scrive Pansa: «In una società democratica, nata dalla vittoria contro una dittatura, imbavagliare chi ha perso contraddice un principio che tutti dovremmo avere caro». Da ultimo, ci sia consentito l'impertinenza. Siamo così sicuri che sia stato un buon servizio alla democrazia costringere al silenziamento indistintamente tutto il sommerso dei vinti, impedendo di «riacquistare il diritto di esistere» anche a chi, come si lamenta l'orfana di una vittima dei partigiani, pur nutrendo «idee di sinistra», s'era vista costretta a «stare zitta» per mezzo secolo, senza nemmeno poter dar voce pubblica al suo lacerante dolore?

Giampaolo Pansa, con il suo nuovo Bella ciao, racconta gli assassini resistenziali del Pci. Pacificazione? Basta la verità. Molte controverità in tanti libri. Nessuna smentita, mai, scrive Goffredo Pistelli su “Italia Oggi”. Giampaolo Pansa va avanti. Questo grande giornalista monferrino, classe 1935, prosegue il suo lavoro di ricostruzione degli anni di storia italiana che vanno dal 1943 al 1948, il periodo che comincia con l'8 settembre e la costituzione delle prime forme resistenziali e che arriva al confuso e violentissimo dopoguerra. Dopo i libri, come Il sangue dei vinti (Sperling&Kupfer), che hanno riportato a galla le ragioni degli sconfitti, dei reietti che scelsero, o si trovarono a scegliere, la Repubblica di Salò, Pansa ha alzato il tiro sulla grande congiura del silenzio, sulla storiografia accomodata sull'immagine dei vincitori, su una narrazione che è stata funzionale anche alle ragioni, spesso poco commendevoli, di un partito, quello comunista. Il suo nuovo lavoro, Bella ciao, in uscita per Rizzoli, di questo si occupa soprattutto ed è destinato, come gli altri, a scatenare le polemiche.

Domanda. «Pansa, un altro libro, ricco e documentato, ma stavolta non è solo il racconto di storie terribili e di vendette silenziate...»

Risposta. «Infatti, stavolta ho cercato di spiegare quanto il Partito comunista italiano, il più forte e l'unico organizzato in quegli anni, vedesse la liberazione dai nazifascisti come l'inizio della rivoluzione. Pietro Secchia, grande dirigente di allora, lo affermò, d'altra parte: volevano fare dell'Italia una democrazia popolare sul modello dell'Urss di Stalin.»

D. «Figuriamoci, già fino a poco tempo fa era disdicevole parlare di «guerra civile» e non «di liberazione», ora lei va scrivere che si voleva fare la rivoluzione...»

R. «Pazienza ciò spiega, come scrivo, perché i comunisti erano implacabili contro chi non stava ai loro ordini. «O stai con noi» e il motto di quel partito con una potenza gigantesca.»

D. «Una spietatezza che arrivò sino all'omicidio politico, nel famoso episodio di Porzus in Friuli, nel febbraio del 1945, quando 18 partigiani della Brigata Osoppo furono uccisi un gruppo di partigiani legati al Pci. Lei aggiunge dettagli nuovi.»

R. «Sì, ho fatto una ricostruzione della biografia di Giacca, il gappista che comandò quella strage, il padovano Mario Toffanin, che morì in Slovenia nel 1999, dopo aver ricevuto la grazia da Sandro Pertini, nel 1978, e da allora percependo fino alla fine la pensione dello Stato italiano.»

D. «Però lei racconta un altro delitto legato a Porzus quello di Leo Scagliarini detto Ricciotti, altro comandante partigiano di Palmanova (Ud)...»

R. «Ufficialmente Scagliarini morì mitragliato da un aereo alleato, mentre si muoveva in auto. Dalle ricostruzioni e dalle testimonianze raccolte dai figli, è evidente che fu ammazzato in altro modo: alcuni partigiani garibaldini lo fecero inginocchiare e gli spararono alla testa. Lui era comandante garibaldino, ma non comunista, era andato in giro a dire che su Porzus si sarebbe dovuta far luce.»

D. «Un'altra morte misteriosa fu quella di Aldo Gastaldi detto Bisagno, capo partigiano garibaldino in Liguria ma cattolico...»

R. «Una fine assurda nella ricostruzione ufficiale: inspiegabilmente Bisagno si sarebbe messo sopra la cabina di un camion in marcia, dalla quale sarebbe rovinosamente caduto. Ho fatto qualche anno di cronaca nera e di morti più improbabili non ne ricordo.»

D. «S'era opposto all'organizzazione resistenziale del Pci in Liguria.»

R. «Era uno dei comandanti più forti e capaci, giovane, aitante, uno da oratorio ma col mitragliatore sten a tracolla. Comandava una divisione e più di una volta il Pci aveva cercato di toglierselo dai piedi con le buone ma lui e i suoi, agguerritissimi, s'erano rifiuti di sloggiare. Riuscirono a impedire che scendesse a Genova per la liberazione anche perché sapevano che si sarebbe opposto alla mattanza dei fascisti: più di 800 esecuzioni in pochi giorni. E in una riunione immediatamente successiva, chiese lo scioglimento della polizia comunista, responsabile di molti di quegli omicidi. Storie che rendono ancora improbabile il racconto della sua morte.»

D. «Vicenda simile a quella di Franco Anselmi detto Marco, altro comandante non comunista, ucciso a Castenaso, in Emilia.»

R. «Fu ucciso l'ultimo giorno di guerra, il 26 aprile, da una raffica di un tedesco in ritirata. Sono andato a vedere la casa dove spirò. Molti ritengono che fosse stato abbattuto da fuoco amico, in realtà. Uno con cui ne parlai fu Italo Pietra...»

D. «Il mitico direttore del Giorno... In cui lei, Pansa, lavorava...»

D. «Certo, Pietra fu comandante di divisione nell'Oltrepò Pavese.»

D. «E che le disse?»

R. «Le sue parole furono chiare: «Vuoi un consiglio? Non domandarti nulla. Marco è morto da vent'anni. Lasciamolo riposare in pace».

D. «Perché lei continua a scrivere questi libri?»

R. «Mai una smentita, lo scriva, mai una smentita...»

D. «Certo. E anche uno degli storici che all'inizio l'aveva criticato, Sergio Luzzatto, lo scorso anno le ha riconosciuto, dalle pagine del Corriere, rigore nella ricerca.»

R. «I ripensamenti non mi interessano. Le storie contemporanee sono tutte basate sulle fonti resistenziali, usare anche quelle dei fascisti pareva indecoroso.»

D. «Infatti, ora che l'eredità politica di quel Pci si va esaurendo, rimangono tetragone le cattedre universitarie...»

R. «C'è il pensiero unico, in materia. Fior di baroni accademici, gente che si ritiene l'unica titolata a occuparsi di storia della Resistenza, mi hanno messo al bando accusandomi di un reato per loro infame: il revisionismo storico. Una colpa ancora più grave perché commessa da chi non appartiene alla loro casta, un giornalista, un bastian contrario, un dilettante della ricerca storica.»

D. «C'è speranza di vedere attecchire una ricerca diversa là dentro?»

R. «Poche. Peggio delle burocrazie, e in Italia ne sappiamo qualcosa, ci sono le burocrazie accademiche: ordinariati che si trasmettono di padre in figlio o di zio in nipote. E comunque anche sugli eredi del Pci...»

D. «... che cosa si può dire?»

R. «Che anche dopo la Bolognina e la condanna di un certo comunismo, c'è stato il sequestro della memoria resistenziale.»

D. «Come mai, secondo lei?»

R. «Avendo visto cadere una grande quantità di certezze, era il solo un osso da succhiare. E la Resistenza è diventata roba loro. Si ricorda quando Letizia Moratti ebbe l'ardire di presentarsi al corteo del 25 aprile a Milano col papà?»

D. «Certo. L'anziano resistente, in carrozzella...»

R. «Era stato un partigiano di Edgardo Sogno, della Organizzazione Franchi, dei badogliani, era finito persino nei campi di sterminio. Furono entrambi insultati. Una cosa vergognosa: la Resistenza sequestrata. Ho voluto intitolare il libro Bella ciao anche per questo.»

D. «Torno al punto. Che valore ha un altro libro come questo, nell'Italia di oggi? Qualcuno potrebbe obiettare che i comunisti ormai sono minoritari anche nel partito che ne ha raccolta l'eredità, per mano di quel Matteo Renzi che, da qualche sua intervista, mi pare non le stia troppo simpatico...»

R. «Il valore di non disperdere memoria vera del nostro passato. È necessario, anzi, se si vuol capire proprio cosa è in grado di fare Renzi, che non mi è antipatico, anzi sta dando scosse elettriche ad altissimo voltaggio, fra Senato e Titolo V dello Costituzione. Lo invidio per la sua giovinezza: fa quello che i politici di centrosinistra avrebbero dovuto fare già da un pezzo.»

D. «Aveva ragione Luciano Violante quando, qualche anno fa, invocava una pacificazione nazionale?»

R. «Non ci credo, non credo alla «memoria condivisa»: l'unica pacificazione possibile è dire la verità, raccontare come sono andati i fatti.»

D. «I protagonisti di quella guerra, tra l'altro, sono quasi tutti morti...»

R. «Il sangue dei vinti in dieci anni ha venduto un milione di copie e io ho ricevuto più di 20 mila lettere scritte dagli eredi di quei vinti: figli, nipoti. Per la maggior parte sono le donne: quando c'è un piccolo archivio familiare, ordinato, ben tenuto, in genere c'è la mano di una donna. Insomma c'è una memoria di quella tragedia, che è difficile da far collimare con quella della vittoria.»

D. «Ha visto che cosa è capitato al cantautore Simone Cristicchi, contestato per il suo spettacolo sulle foibe?»

R. «Non mi sorprende. Le dico che il libro è stato prenotato da centinaia di librerie ma sono costretto a dire di no a molte richieste di presentazione. Da quando, anni fa, a Reggio Emilia sono stato aggredito dai militanti dei centri sociali, devo stare più attento. D'altronde i piccoli gruppi, oggi, sono capaci di tutto, basta vedere cosa hanno fatto cinque leghisti a Strasburgo a un galantuomo come Giorgio Napolitano.»

D. «Lei per anni ha lavorato in gruppo editoriale, quello di Repubblica e di L'Espresso, sulle cui pagine culturali, non erano certo ammessi revisionismi. Come ha fatto?»

R. «Nel «Gruppone», come lo chiamo io, ci sono stato per 31 anni, pensi. Avevano bisogno di me quando nacque Repubblica: erano un gruppo di giovanissimi e io ero uno d'esperienza. Con loro e con gli intellettuali che scrivono sui quei giornali, ho avuto polemiche feroci da quando sono usciti i miei libri. La verità è un'altra...»

D. «Quale?»

R. «Che allora i giornali erano migliori: oggi sono ideologicamente blindati. Al mattino ormai ci impiego solo due ore per leggerne una decina: alcuni ripetono sempre gli stessi articoli. Il suo direttore fa eccezione: ItaliaOggi è un giornale aperto, direi quasi libertino, che ammette visioni diverse. Una rarità.»

Ciononostante negli anni 2000 inoltrati c'è ancora qualcuno che simpatizza per una ideologia del millennio precedente. "Non prova imbarazzo ad avere il padre fascista?". La domanda è come un boomerang e questa volta torna indietro a colei che per prima l'aveva scagliata come fosse un dardo all'indirizzo del deputato M5S Alessandro Di Battista ospite delle sue "Invasioni Barbarie", scrive Libero Quotidiano. Daria Bignardi, infatti, è lei stessa figlia di un padre fascista. Lo fa notare Marco Travaglio, sul suo editoriale, raccontando lo "scandalo" dell'interessamento di Enrico Letta al tweet di Rocco Casalino che chiedeva alla Bignardi se prova imbarazzo per il suocero Adriano Sofri, condannato a 22 anni perché mandante del delitto Calabresi. "Nessuno meglio di lei può raccontare", puntualizza Travaglio sul Fatto Quotidiano, "visto che è così interessata, cosa si prova ad avere un fascista e un assassino in famiglia. Dunque che le salta in mente di chiederlo ai suoi ospiti?". Anzi uno solo: Di Battista. Travaglio fa notare che il giochino, esteso ad altri ospiti del programma, potrebbe innescare scene davvero imbarazzanti, visto che "fino al 1945 gli italiani erano quasi tutti fascisti: compresi il fondatore del giornale su cui scrive Sofri e, absit iniuria verbis, il presidente della Repubblica in carica e in ricarica". Ma quello che più fa imbestialire il vice direttore del Fatto non è tanto la domanda della Bignardi. "La polemicuzza", scrive in prima pagina,"potrebbe finire lì, fra un Casalino e una Bignardi, eventualmente anche un Sofri (nel senso del padre del marito della Bignardi, il quale comunica sul Foglio che lui è, sì, un condannato per omicidio, ma non è un omicida: un po’ come Berlusconi che è, sì, un pregiudicato per frode fiscale, ma non è un frodatore fiscale)". Quello che proprio non va giù a Travaglio è che da Doha, "si fa inopinatamente vivo – si fa per dire – il presidente del Consiglio, per stigmatizzare a nome del governo e delle più alte cariche dello Stato il tweet del Casalino e solidarizzare con la famiglia Bignardi-Sofri, parlando di “frasi folli” e di “barbaria senza fine”, poi tradotta in 'barbarie'". "E doveva pure essere sobrio", ironizza l'editorialista, £visto che l’uso e abuso di alcolici nei paesi islamici è severamente vietato. Il che spiega lo sguardo interrogativo e allarmato degli emiri presenti alla scena". Il pezzo di Travaglio si chiude con la domanda: "Cosa prova Letta ad avere quello zio?".  

Giampaolo Pansa su “Libero Quotidiano”: tutte le falsità sulla Resistenza. "Gli anniversari dovrebbero essere aboliti. Soprattutto quando celebrano un evento politico che si presta a una giostra di opinioni non condivise. Accade così per il settantesimo del 25 aprile 1945, la festa della Liberazione.  Una cerimonia che suscita ancora contrasti, giudizi incattiviti e tanta retorica. A volte un mare di retorica, uno tsunami strapieno anche di bugie e di omissioni dettate dall'opportunismo politico. Per rendersene conto basta sfogliare i quotidiani e i settimanali di questa fine di aprile. È da decenni che studio e scrivo della nostra guerra civile. Ma non avevo mai visto il serraglio di oggi. Una fiera dove tutto si confonde. Dove imperano le menzogne, le reticenze, le pagliacciate, le caricature. È vero che siamo una nazione in declino e che ha perso la dignità di se stessa. Però il troppo è troppo. Per non essere soffocato dalla cianfrusaglia, adesso proverò a rammentare qualche verità impossibile da scordare. La prima è che la guerra civile conclusa nel 1945, ma con molte code sanguinose sino al 1948, fu un conflitto fra due minoranze. Erano pochi i giovani che scelsero di fare i partigiani e i giovani che decisero di combattere l'ultima battaglia di Mussolini. Il «popolo in lotta» tanto vantato da Luigi Longo, leader delle Garibaldi, non è mai esistito. A perdere furono i ragazzi di Salò, i figli dell'Aquila repubblicana. Ma a vincere non furono quelli che avevano preso la strada opposta. L'Italia non venne liberata da loro. Se il fascismo fu sconfitto lo dobbiamo ad altri giovani che non sapevano quasi nulla di un Paese che dal 1922 aveva obbedito al Duce e l'aveva seguito in una guerra sbagliata, combattuta su troppi fronti. La vittoria e la libertà ci vennero donate dalle migliaia di ragazzi americani, inglesi, francesi, canadesi, australiani, brasiliani, neozelandesi, persino indiani, caduti sul fronte italiano. E dai militari della Brigata Ebraica, che oggi una sinistra ottusa vorrebbe escludere dalla festa del 25 aprile. Gli stranieri e gli italiani si trovarono alle prese con una guerra civile segnata da una ferocia senza limiti. Qualcuno ha scritto che la guerra civile è una malattia mentale che obbliga a combattere contro se stessi. E svela l'animo bestiale degli esseri umani. Tutti gli attori di quella tragedia potevano cadere in un abisso infernale. Molti lo hanno evitato. Molti no. Eccidi, torture, violenze indicibili non sono stati compiuti soltanto dai nazisti e dai fascisti. Anche i partigiani si sono rivelati diavoli in terra. In un libro di memorie scritto da un comandante garibaldino e pubblicato dall' Istituto per la storia della Resistenza di Vercelli, ho trovato la descrizione di un delitto da film horror. Una banda comunista, stanziata in Valsesia, aveva catturato due ragazze fasciste, forse ausiliarie. E le giustiziò infilando nella loro vagina due bombe a mano, poi fatte esplodere. La ferocia insita nell' animo umano era accentuata dalla faziosità ideologica. La grande maggioranza delle bande partigiane apparteneva alle Garibaldi, la struttura creata dal Pci e comandata da Longo e da Pietro Secchia. È una verità consolidata che tra le opzioni del partito di Palmiro Togliatti ci fosse anche quella della svolta rivoluzionaria. Dopo la Liberazione sarebbe iniziata un' altra guerra. Con l' obiettivo di fare dell' Italia l' Ungheria del Mediterraneo, un Paese satellite dell' Unione Sovietica. I comunisti potevano essere più carogne dei fascisti e dei nazisti? No, perché chi imbraccia un' arma per affermare un progetto totalitario, nero o rosso che sia, è sempre pronto a tutto. Ma esiste un fatto difficile da smentire: le stragi interne alla Resistenza, partigiani che uccidono altri partigiani, sono tutte opera di mandanti ed esecutori legati al Pci. La strage più nota è quella di Porzûs, sul confine orientale, a 18 chilometri da Udine. Nel pomeriggio del 7 febbraio 1945, un centinaio di garibaldini assalgono il comando della Osoppo, una formazione di militari, cattolici, monarchici, uomini legati al Partito d' Azione e ragazzi apolitici. Quattro partigiani e una ragazza vengono soppressi subito. Altri sedici sono catturati e tutti, tranne due che passano con la Garibaldi, saranno ammazzati dall' 8 al 14 febbraio. Un assassinio al rallentatore che diventa una forma di tortura. In totale, 19 vittime. La strage ha un responsabile: Mario Toffanin, detto "Giacca", 32 anni, già operaio nei cantieri navali di Monfalcone, un guerrigliero brutale e un comunista di marmo. Ha due idoli: Stalin e il maresciallo Tito. Considera la guerriglia spietata il primo passo della rivoluzione proletaria. Ma l' assalto e la strage gli erano stati suggeriti da un dirigente della Federazione del Pci di Udine. Di lui si conosce il nome e l'estremismo da ultrà che gioca con le vite degli altri. È quasi inutile rievocare le imprese di Franco Moranino, "Gemisto", il ras comunista del Biellese. Un sanguinario che arrivò a uccidere i membri di una missione alleata. E poi fece sopprimere le mogli di due di loro, poiché sospettavano che i mariti non fossero mai giunti in Svizzera, come sosteneva "Gemisto". Il Pci di Togliatti difese sempre Moranino e lo portò per due volte a Montecitorio e una al Senato. Anche lui come "Giacca" morì nel suo letto. Tra le imprese criminali dei partigiani rossi è famoso il campo di concentramento di Bogli, una frazione di Ottone, in provincia di Piacenza, a mille metri di altezza sull' Appennino. Dipendeva dal comando della Sesta Zona ligure ed era stato affidato a un garibaldino che oggi definiremmo un serial killer. Tra l' estate e l' autunno del 1944 qui vennero torturati e uccisi molti prigionieri fascisti. Le donne venivano stuprate e poi ammazzate. Soltanto qualcuno sfuggì alla morte e dopo la fine della guerra raccontò i sadismi sofferti. A volte erano dirigenti rossi di prima fila a decidere delitti eccellenti. Le vittime avevano comandato formazioni garibaldine, ma si rifiutavano di obbedire ai commissari politici comunisti. Di solito questi crimini venivano mascherati da eventi banali o da episodi di guerriglia. Uno di questi comandanti, Franco Anselmi, "Marco", il pioniere della Resistenza sull' Appennino tortonese, dopo una serie di traversie dovute ai contrasti con esponenti del Pci, fu costretto ad andarsene nell' Oltrepò pavese. Morì l' ultimo giorno di guerra, il 26 aprile 1945, a Casteggio per una raffica sparata non si seppe mai da chi. Negli anni Sessanta, andai a lavorare al Giorno, diretto da Italo Pietra che era stato il comandante partigiano dell' Oltrepò. Sapeva tutto del Pci combattente, della sua doppiezza, dei suoi misteri. Quando gli chiesi della fine di Anselmi, mi regalò un' occhiata ironica. E disse: «Vuoi un consiglio? Non domandarti nulla. Anselmi è morto da vent' anni. Lasciamolo riposare in pace». Un' altra fine carica di mistero fu quella di Aldo Gastaldi, "Bisagno", il numero uno dei partigiani in Liguria. Era stato uno dei primi a darsi alla macchia nell' ottobre 1943, a 22 anni. Cattolico, sembrava un ragazzo dell' oratorio con il mitragliatore a tracolla, coraggioso e altruista. Divenne il comandante della III Divisione Garibaldi Cichero, la più forte nella regione. Era sempre guardato a vista dalla rete dei commissari comunisti della sua zona. Nel febbraio 1945, il Pci cercò di togliergli il comando della Cichero, ma non ci riuscì. Alla fine di marzo Bisagno chiese al comando generale del Corpo volontari della libertà di abolire la figura del commissario politico. E quando Genova venne liberata, cercò di opporsi alle mattanze indiscriminate dei fascisti. Non trascorse neppure un mese e il 21 maggio 1945 Bisagno morì in un incidente stradale dai tanti lati oscuri. In settembre avrebbe compiuto 24 anni. Ancora oggi a Genova molti ritengono che sia stato vittima di un delitto. Sulla sua fine esiste una sola certezza. Con lui spariva l'unico comandante partigiano in grado di fermare in Liguria un'insurrezione comunista diretta a conquistare il potere. Scommetto mille euro che nessuno dei due verrà ricordato nelle cerimonie previste un po' dovunque. Al loro posto si farà un gran parlare delle cosiddette Repubbliche partigiane. Erano territori conquistati per un tempo breve dai partigiani e presto perduti sotto l' offensiva dei tedeschi. Le più note sono quelle di Montefiorino, dell' Ossola e di Alba.

Nel 1944, Montefiorino, in provincia di Modena, contava novemila abitanti. Con i quattro comuni confinanti si arrivava a trentamila persone. L' area venne abbandonata dai tedeschi e i partigiani delle Garibaldi vi entrarono il 17 giugno. La repubblica durò sino al 31 luglio, appena 45 giorni. Fu un trionfo di bandiere rosse, con decine di scritte murali che inneggiavano a Stalin e all' Unione Sovietica. Vi dominava l'indisciplina più totale. Al vertice c' era il Commissariato politico, composto soltanto da comunisti. Il caos ebbe anche un lato oscuro: le carceri per i fascisti, le torture, le esecuzioni di militari repubblicani e di civili. Ma nessuno si preoccupava di difendere la repubblica. Infatti i tedeschi la riconquistarono con facilità. La repubblica dell'Ossola nacque e morì nel giro di 33 giorni, fra il settembre e l'ottobre del 1944. Era una zona bianca, presidiata da partigiani autonomi o cattolici. E incontrò subito l' ostilità delle formazioni rosse. Cino Moscatelli, il più famoso dei comandanti comunisti, scrisse beffardo: «A Domodossola c' è un sacco di brava gente appena arrivata dalla Svizzera che ora vuole creare per forza un governino pur di essere loro stessi dei ministrini». La repubblica di Alba venne descritta così dal grande Beppe Fenoglio, partigiano autonomo: «Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre 1944». Durata dell'esperimento: 23 giorni, conclusi da una fuga generale. Sentiamo ancora Fenoglio: «Fu la più selvaggia parata della storia moderna: soltanto di divise ce n'era per cento carnevali. Fece impressione quel partigiano semplice che passò rivestito dell'uniforme di gala di colonnello d'artiglieria, con intorno alla vita il cinturone rossonero dei pompieri...». In realtà la guerra civile fu di sangue e di fuoco. Con migliaia di morti da una parte e dall'altra. Dopo il 25 aprile ebbe inizio un'altra epoca altrettanto feroce. L'ho descritta nel libro che mi rende più orgoglioso fra i tanti che ho pubblicato: Il sangue dei vinti. Stampato da un editore senza paura: la Sperling e Kupfer di Tiziano Barbieri. Un buon lavoro professionale. Dal 2003 a oggi, nessuna smentita, nessuna querela, ventimila lettere di consenso, una diffusione record. Ma le tante sinistre andarono in tilt. E diedero fuori di matto. Più lettori conquistavo, più venivo linciato sulla carta stampata, alla radio, in tivù. Mi piace ricordare l' accusa più ridicola: l' aver scritto quel libro per compiacere Silvio Berlusconi e ottenere dal Cavaliere la direzione del Corriere della Sera. Potrei mettere insieme un altro libro per raccontare quello che mi successe. Qui preferisco ricordare i più accaniti tra i miei detrattori: Giorgio Bocca, Sandro Curzi, Angelo d'Orsi, Sergio Luzzatto, Giovanni De Luna, Furio Colombo, qualche firma dell'Unità, varie eccellenze dell' Anpi, del Pci e di Rifondazione comunista. Tutti erano mossi dalle ragioni più diverse. Se ci ripenso sorrido. La meno grottesca riguarda l' ambiente legato al vecchio Pci. Dopo la caduta del Muro di Berlino e la svolta di Achille Occhetto nel 1989, gli restava poco da mordere. Si sono aggrappati alla Resistenza. E hanno inventato uno slogan. Dice: la Resistenza è stata comunista, dunque chi offende il Pci offende la Resistenza. Oppure: chi offende la Resistenza offende il Pci e gli eredi delle Botteghe oscure. Ecco un'altra delle menzogne spacciate ogni 25 aprile. Insieme alla bugia delle bugie, quella che dice: le grandi città dell' Italia del nord insorsero contro i tedeschi e li sconfissero anche nell' ultima battaglia. Non è vero. La Wehrmacht se ne andò da sola, tentando di arrivare in Germania. In casa nostra non ci fu nessuna Varsavia, la capitale polacca che si ribellò a Hitler tra l'agosto e il settembre 1944. E divenne un cumulo di macerie. In Italia le uniche macerie furono quelle causate dai bombardamenti degli aerei alleati. Che cosa resta di tutto questo?

Di certo il rispetto per i caduti su entrambe le parti. Ma anche qualcos'altro. Quando viaggio in auto per l' Italia, rimango sempre stupito dalla solitaria immensità del paesaggio. Anche nel 2015 presenta grandi spazi vuoti, territori intatti, mai violati dal cemento. È allora che ripenso ai pochi partigiani veri e ai figli dell' Aquila fascista. E mi domando se avrei avuto il loro stesso coraggio se fossi stato un giovane di vent'anni e non un bambino. Si gettavano alle spalle tutto, la famiglia, gli studi, l'amore di una ragazza, per entrare in un mondo alieno, feroce e sconosciuto. Erano formiche senza paura e pronte a morire. L'Italia di oggi merita ancora quei figli, rossi, neri, bianchi? Ritengo di no. Giampaolo Pansa".

Pansa: «La Boldrini dovrebbe andare al doposcuola. Non conosce la storia», scrive Aldo Di Lello su “Il Secolo D’Italia”. «La Boldrini? Dovrebbe andare a ripetizione di storia». Non fa sconti, Giampaolo Pansa, alla terza carica dello Stato dopo Bella ciao cantata nell’Aula della Camera e dopo gli interventi sul  25 aprile che hanno riproposto i temi della vecchia vulgata resistenziale della Prima repubblica. In questi giorni di retorica d’annata, l’autore de Il sangue dei vinti è intervenuto su Libero (23 aprile) per ricordare alcune verità scomode sulla Resistenza.

Allora Pansa, non ritieni che il clima di questo settantesimo anniversario del 25 aprile sia caratterizzato da un sorta di passo indietro rispetto alle aperture e alle ammissioni di qualche anno fa? Penso a Mattarella, che non vuol sentir parlare di “ragioni” dei “ragazzi di Salò”, a differenza di quanto a suo tempo affermò Luciano Violante e di quanto, più recentemente, ha ammesso Napolitano. Penso soprattutto alla Boldrini, che giorni fa, in televisione, è arrivata a negare l’esistenza di una guerra civile. Per la presidente della Camera bisognerebbe solo parlare di «lotta di liberazione». Un vero e proprio ritorno al passato. Non ti pare? 

«Non voglio polemizzate con Mattarella: è una persona che stimo. È il Capo dello Stato e mi rappresenta. Della Boldrini penso invece che dovrebbe essere mandata al doposcuola, perché dimostra di non conoscere la storia italiana. Non può parlare in quel modo. L’estrema semplificazione della sua non conoscenza c’è stata quando ha fatto intonare Bella ciao alla Camera:  non è mai stata una canzone partigiana. I partigiani cantavano Fischia il vento. Ha fatto uno spettacolo da teatrino dell’oratorio rosso».

Che differenza noti tra il tempo in cui uscì Il sangue dei vinti e oggi?

«Il sangue dei vinti uscì nel 2003 ed ebbe subito un successo pazzesco. Dopo pochi mesi aveva già venduto duecentomila copie. E l’interesse è continuato  negli anni successivi, fino alla vendita di un milione di volumi.  Fui bersagliato in tutti i modi. Me ne dissero di tutti i colori. E si trattava spesso di accuse ridicole e grottesche. Ci fu anche chi, ad esempio,  disse che volevo fare un regalo a Berlusconi per farmi nominare direttore del Corriere della Sera. Non c’è dubbio che era un’Italia faziosa.  Oggi abbiamo una faziosità nascosta, che non si esprime. Siamo alle prese con una crisi economica che, nonostante quello che dice Renzi, non è affatto risolta. E poi c’è l’enorme dramma delle migrazioni e degli sbarchi. L’Italia è come un malato che non si è ancora alzato dal letto per la paura di muoversi. Rispetto ad allora, l’Italia è più addormentata. Ed è su questa Italia che si è abbattuto lo tsunami di retorica per il settantesimo anniversario del 25 aprile».

Non ritieni che, in questa Italia addormentata, il conformismo attecchisca più facilmente?

«Ti rispondo con un esempio tratto dai miei ricordi d’infanzia. A quel tempo, avrò avuto otto o nove anni, i miei genitori mi facevano preparare il “prete”. Sai che cos’è?»

«Via i libri di Pansa dal banchetto per la Resistenza». Sul banchetto nell’atrio centrale della biblioteca comunale “Bassani”, in questi giorni vi sono tanti libri e saggi storici in mostra, a raccontare, in occasione del 25 aprile, la storia della..., scrive il 23 aprile 2016 “La Nuova Ferrara”. Sul banchetto nell’atrio centrale della biblioteca comunale “Bassani”, in questi giorni vi sono tanti libri e saggi storici in mostra, a raccontare, in occasione del 25 aprile, la storia della Resistenza italiana. Una iniziativa non nuova per la biblioteca Bassani, che per eventi di attualità propone agli utenti il materiale della biblioteca. Però, tra i libri esposti sul banchetto in questi giorni, anche quelli di Giampaolo Pansa che hanno innescato una petizione e che ieri aveva raggiunto un centinaio di adesioni. Una petizione proposta da Irina Aguiari per rimuovere i testi di Pansa dal banchetto allestito: tre titoli, "La Grande Bugia", "La Guerra Sporca dei Partigiani e dei Fascisti" e "Il Sangue dei Vinti". «Testi revisioni e negazionisti» scrive la Aguiari, sottolineando che «la biblioteca giustifica tale scelta con la volontà di garantire molteplici punti di vista». «Credo - la motivazione della petizione - che su una dittatura durata un ventennio e una guerra civile per la libertà d'Italia non esistano punti di vista discordanti». «Soprattutto - continua - non in una città in cui gli antifascisti sono stati fucilati, non in una biblioteca intitolata a Giorgio Bassani, non in occasione della Giornata della Liberazione». Nella petizione si parla di «sfregio alla memoria di tutti coloro che hanno dato la vita per la libertà del nostro Paese (partigiani e civili)». E si conclude «così come nessuno oserebbe (a ragione) porre un testo di Hitler accanto al Diario di Anna Frank, non vedo per quale motivo tale riserbo non venga dedicato anche alla nostra storia». La richiesta di rimuovere i testi- è bene dire - è già stata respinta da Enrico Spinelli, direttore Servizio biblioteche Comune, che spiega: «A mio personale giudizio non ci sono elementi di scandalo poichè Pansa scrive libri, chiunque può analizzarli criticamente e può dire la propria: l’operazione della biblioteca Bassani è corretta, senza faziosità». E commenta: «Le purghe dei libri ricordano anni bui della cultura europea, dico di più: a mio giudizio il 25 aprile, la memoria di Bassani e dei partigiani escono rafforzate dal confronto con quanto scrive Pansa. Quindi ho deciso di respingere la richiesta inoltratami via mail di far rimuovere quei testi dal banchetto».

La sinistra contro Pansa contraddice il senso della Liberazione. "Egregio Direttore, Leggo della triste petizione promossa da Irina Aguiari per rimuovere i libri di Giampaolo Pansa dai banchetti del 25 Aprile, davanti alla biblioteca comunale “Bassani” di Ferrara. Invocare la rimozione di libri richiama tempi bui, nega e contraddice quindi il significato vero del 25 Aprile, ossia la lotta per la Libertà, anche di opinione. Non se ne può più di questo retaggio nostalgico della sinistra, che si è impossessata di una festa di tutti, di una data storica. Ricordo che la Resistenza non l’hanno fatta solo i comunisti, ma tra gli eroi che diedero la vita per liberare il Paese dal nazifascismo ci furono anche liberali, cattolici, liberi pensatori, persone di diversa estrazione e di credi differenti. E’ ora che certa sinistra la finisca di strumentalizzare il 25 Aprile per far propaganda a se stessa. Mio nonno, Gianpietro Fabbri, fu partigiano, non comunista, ma democristiano. Il suo ricordo è il mio orgoglio. Nei circoli Anpi ci si ostina a parlare esclusivamente di "compagni", promuovendo di fatto un falso storico (o, quantomeno, solo mezze verità). E’ ora inoltre che si inizi a parlare di ciò che è accaduto dopo la guerra, e che anche l’Anpi dica la sua a riguardo, per evitare di giustificare ogni tipo di assassinio in nome di un conflitto già finito. Ricordo a questo riguardo episodi come l’eccidio di Argelato: l’esecuzione sommaria, compiuta dai partigiani delle Brigate Garibaldi, di decine di persone, tra cui i sette fratelli Govoni. Esecuzioni precedute da torture e sevizie, a guerra finita. Ricordo anche l’uccisione dei preti e dei seminaristi, vittime della furia ideologica comunista, come il nostro Rolando Maria Rivi, beato della Chiesa cattolica, barbaramente trucidato a 14 anni solo perché indossava l’abito talare. Se Pansa ha tolto dal cono d’ombra argomenti scomodi alla retorica comunista è perché ha a cuore la verità storica. E questo dà valore al 25 Aprile, che è festa di tutti. Non lasceremo che – anche quest’anno – la sinistra si impossessi della festa di Liberazione per la sua bassa propaganda politica. La petizione di Irina Aguiari è la negazione stessa del 25 Aprile. Cordiali saluti". Lettera di Alan Fabbri (Capogruppo Lega Nord in Regione Emilia Romagna) su “Estense”.

Pansa “Il nazismo e il fascismo non sono stati sconfitti dalla Resistenza, ma dagli Alleati”. La voce e l’opinione di Pansa in un intervista di Cesare Martinetti pubblicata su La Stampa il 25 Aprile 2016. «Pansa!». La vociona rimbomba nel telefono al terzo squillo.

Buongiorno Pansa, parliamo della Resistenza?

«Certo, sono anch’io un figlio della Resistenza, me ne occupo e ne scrivo da quasi sessant’anni, ho cominciato con la tesi di laurea che ho discusso nel 1959 a Torino, relatore Guido Quazza, 110, lode e dignità di stampa. Da allora non ho più smesso di occuparmene».

Quanti anni aveva durante la guerra civile?

«Tra gli 8 e i 10, parliamo del ’43-’45. La mia famiglia era genericamente socialista. Se avessi avuto 19 anni con ogni probabilità sarei andato anch’io in montagna».

A combattere il fascismo?

«Sì, ma in Italia nazismo e fascismo non sono stati sconfitti dalla Resistenza. È una verità che non piace a molti, ma è la verità. Sono stati sconfitti dagli Alleati, in particolare dagli angloamericani e non solo. Da migliaia di ragazzi americani, inglesi, canadesi, brasiliani, persino indiani e della Brigata ebraica che sono morti fino all’aprile 1945. Non possiamo dimenticarlo».

E cosa fu la lotta di Liberazione?

«Una guerra civile, un affare di due minoranze. Erano ragazzi di 18-19-20 anni. E si sono trovati in un conflitto bestiale. La retorica resistenziale accredita la ferocia soltanto ai fascisti e certo che erano feroci, ma i partigiani lo sono stati nello stesso modo, hanno compiuto eccidi e torture. È successo in Valsesia – la fonte è uno storico di provata fede antifascista, Cesare Bermani – che due ausiliarie ritenute spie furono uccise facendo esplodere una bomba a mano nella vagina. Ma è solo uno dei tanti episodi».

Perché questa ferocia?

«Dipendeva dal carattere dei comandanti o delle bande, partigiane o fasciste che fossero, ma anche dal tipo di guerra e tra il ’43 e il ’45 ci sono state tante guerre: c’era chi combatteva per liberare il Paese dal fascismo e chi per preparare la rivoluzione comunista. Ci sono stati delitti politici che non verranno di sicuro ricordati tra il 24 e il 25 aprile. C’è stato l’eccidio dei partigiani bianchi a Porzûs, le malefatte della banda Moranino, ci sono stati dei comandanti, veri partigiani, ma non comunisti, eliminati misteriosamente nei giorni della Liberazione».

Pansa, lei dodici anni fa ha pubblicato da Sperling & Kupfer “Il sangue dei vinti”, rovesciando il punto di vista ufficiale e guardando ai fatti dalla parte degli sconfitti, dei fascisti. Perché? Qual era il suo intento??

«Per capire bene le guerre civili non possiamo fermarci nel momento in cui si concludono, uno vince e uno perde. Conoscevo i tentativi di Giorgio Pisanò e i piccoli libri pubblicati da editori sconosciuti. Ma non c’era un racconto organico. Ho fatto un’inchiesta, ho girato mesi, nel Centro ma soprattutto nel Nord Italia, andando a vedere i posti e verificare quello che mi raccontavano. L’unico intento era di fare una cosa che per come la facevo io non l’aveva mai fatta nessuno».

E infatti il suo libro è stato uno scandalo: ma come, Pansa, uno di noi, che si mette dalla parte dei fascisti?

«È successo il finimondo per la reazione dei compagni e dei compagnucci ma anche di altra gente, mi viene in mente Giorgio Bocca, ma è scomparso e non voglio più litigare con lui. La cosa meno cattiva ma più sciocca che mi dissero era che l’avevo scritto per compiacere Berlusconi perché mi facesse nominare direttore del Corriere della Sera. Una cosa ridicola».

Un successo che non le è stato perdonato?

«Il mio caso ha messo allo scoperto un mondo terribile e cioè che una democrazia nata da una guerra civile dovrebbe essere conciliante, riconoscere e non disprezzare il lavoro di uno che viene dalla sua parte, che ha lavorato per tutta la vita in giornali di sentimenti antifascisti, dal Giorno, a La Stampa, al Corriere, a Repubblica per 15 anni, all’Espresso per 17 e che ha attraversato un territorio proibito per raccontare quello che era successo».

Un revisionista?

«Ah quella parola sono stato tra i primi a pronunciarla, il 24 maggio del 1959, in un convegno a Genova, c’era Ferruccio Parri, mi sono alzato e ho attaccato Roberto Battaglia, autore della Storia della Resistenza italiana pubblicata da Einaudi (che Longo aveva corretto, perché troppo intrisa di azionismo), dicendogliene di tutti i colori. L’ex sindaco socialista di Genova ha protestato, ma Parri mi ha lasciato parlare. Poi mi ha chiamato e mi ha detto: hai fatto bene, i giovani devono tirare i sassi nei vetri, i vetri si rompono, vediamo che erano sporchi e andavano cambiati. Poi mi diede 25 mila lire, un assegno rosa del Credito italiano, come una sua personale borsa di studio».

Senta, Pansa, nei suoi libri fascisti e partigiani sembrano stare sullo stesso piano. Perché? Non c’era una parte giusta e una sbagliata?

«Intanto non è vero che metto tutti sullo stesso piano. E poi, che domanda è? La parte giusta era quella della Resistenza. Con una nota a margine. Che il maggior numero delle bande erano delle Garibaldi ed erano comandate da due ossi da mordere, Longo e Secchia, convinti che la guerra di resistenza al fascismo fosse solo il primo tempo. Poi doveva arrivare il secondo… per fortuna grazie a Stalin, a Yalta, a De Gasperi il secondo tempo, dalla dittatura nera a quella rossa, non arrivò mai».

S’è mai pentito di aver scritto quel libro?

«Mai, ne sono orgogliosissimo, ha rotto un tabù, ma mi fa ridere chi dice che si sapeva tutto. Mi fa paura la retorica che esploderà in questi giorni… guai se non si celebrasse il settantesimo, ma chissà cosa dirà Renzi che non sa niente. Vorrei scappare dall’Italia, fare il turista in Australia…».

E invece cosa farà il 25 aprile?

«Come ogni giorno mi alzerò alle 6 e dopo una piccola colazione accenderò il computer e mi metterò a scrivere. È la mia vita, lo farei anche gratis. E poi, come diceva Totò, bisogna insistere: e io insistisco».

Dal revisionismo al rovescismo. La Resistenza (e la Costituzione) sotto attacco, scrive Angelo d’Orsi il 18 gennaio 2010 su “Micro Mega” (Temi Repubblica). Pubblichiamo un capitolo dal volume "La storia negata. Il revisionismo e il suo uso politico", a cura di Angelo del Boca (Neri Pozza Bloom, pag. 384, € 20). Nell’ottobre 2006, il giornalista Giampaolo Pansa pubblicava un volume che avrebbe dovuto essere legato strettamente al precedente, fortunatissimo Sangue dei vinti, un’opera beneficiata da uno spettacolare lancio del sistema mediatico, con notevolissime, immediate ricadute sul piano politico. Se quel libro voleva essere la rivelazione di fatti tenuti nascosti per sei decenni – tale il messaggio che sostanziò la campagna propagandistica – i successivi del medesimo autore, apparivano quasi dei metalibri, complemento polemico rispetto al primo, stazioni di una personale via crucis dell’autore: lo scrivano – il «pennarulo», per dirla en napolitain – travestitosi da studioso di storia, sfidava i professionisti della ricerca, non soltanto producendo un risultato di enorme successo, e, grazie a esso, ergendosi a loro accusatore, con sonori squilli di trombe e roboanti rulli di tamburi di guerra. L’imputazione? Essere professionalmente non all’altezza del compito, e addirittura nascondere per fini ideologici, o peggio, spinti da conformismo politico (vittime o complici; magari i soliti «utili idioti» della vecchia propaganda anticomunista), nei confronti del «politicamente corretto», ossia della «verità di partito», o quanto meno «di parte»; essi, nella requisitoria di Pansa, avrebbero per decenni nascosto la vera, intera verità di cui pure erano o potevano essere a conoscenza. Non casualmente, dopo avere polemizzato, già nelle aspre tenzoni legate al Sangue dei vinti, contro l’angusta pedanteria di professori che pretendevano addirittura l’indicazione delle fonti su cui egli aveva «lavorato», l’autore andava rivendicando la propria formazione storica, avvenuta all’Università di Torino, con una tesi sulla Resistenza nelle sue zone, l’Alessandrino. Ho detto via Crucis, in quanto in realtà tutta l’operazione-Pansa, oltre ad avere un significato, prima di tutto, bassamente commerciale, era una delle tante rese dei conti che nel sottobosco intellettuale italiano si andavano consumando relativamente ad appartenenze o a militanze nell’area vicina o contigua alle forze politiche della tradizione operaia, socialista, comunista. Insomma, «revisionando» i risultati della ricerca sulle «questioni scottanti» legate alla Resistenza, e ancor più al post 25 aprile, l’autore sembrava esercitare il suo commiato, aspro ed egolatrico, dalla sinistra, accusata di essere, in sostanza, disonesta, retrograda, succube dell’occhiuto, nefasto esercizio dell’egemonia gramsciano-togliattiana. Un tema assai caro a una sovrabbondante pubblicistica, passata dall’era craxiana a quella berlusconiana, che, via via più convinta della giustezza della battaglia contro la pretesa egemonia comunista, ne ha fatto una sorta di leitmotiv. Benché, con eccesso di malizia, forse, vi fu chi sospettò allora che le ambizioni di Pansa fossero di tipo politico, o di giornalismo «che conta» (direzione Corriere della Sera, ad esempio), in realtà il giornalista Pansa era parte – divenuta subito prediletta dai media di area di centrodestra – di una non piccola, anche se non estesa, conventicola: i rovistatori della Resistenza, che hanno la specialità, o endogena, o insufflata dalla committenza politico editoriale, di raschiare nelle pieghe della storia, per snidare il nascosto, ma soltanto se questo sia passibile di uso politico e mercantile, e, soprattutto, se questo «nascosto» emani odore di putrescenza, o sia in grado, appunto, di rovesciare, ribaltare, le acquisizioni storiografiche: ossia la «storia di sinistra», quella che De Felice e i suoi adepti bollarono, con sussiegoso disdegno, come «vulgata antifascista», e poi, semplicemente, «vulgata». E poiché nella maggior parte dei casi la putrescenza è assente, la si inventa, o meglio si condisce con il proprio putridume interiore i fatti, a partire da una impostazione che, come è stato osservato, è prima che anticomunista, «anti-antifascista». Non casualmente, fu sempre pratica corrente di De Felice di non citare mai i lavori dei suoi antagonisti, cioè coloro che venivano deietti nell’inferno della storiografia «ideologica», ossia «di sinistra»: il che, a prescindere dai contenuti della querelle, costituisce già un errore di prospettiva. La storiografia non può essere individuata come «di destra» o «di sinistra», ma soltanto come buona o cattiva, vale a dire seriamente fondata, o meno. Insomma, l’accusa di ideologismo, proveniente dalla sponda revisionistica, andrebbe semplicemente ribaltata su chi la scaglia. E, in ogni caso, appare segno di debolezza – oltre che di insopportabile arroganza – il voler evitare di confrontarsi con ipotesi interpretative e impostazioni metodologiche diverse dalle nostre. Dunque, eccoci alla ricerca sistematica della storia «nascosta», la storia «negata», la storia «menzognera», la storia «sequestrata», la storia «violentata»…, ossia la storia che mostrerebbe (questa la reductio ad unum) il ruolo nefasto, esercitato appunto dal Partito comunista italiano, e dai tanti suoi utili idioti, gli intellettuali «organici», espressione con cui nel disinvolto quanto grottesco lessico revisionistico, vengono etichettati tutti coloro che al PCI erano stati legati, anche indirettamente, coloro che pubblicavano presso casa Einaudi, oltre che sotto le insegne canoniche delle Edizioni Rinascita e, poi, degli Editori Riuniti. L’idea sottesa a questo tipo di atteggiamento e di procedura, è – se vogliamo nobilitarli – che la storia fino a un certo momento sia stata «ostaggio» della cultura di sinistra, a sua volta egemonizzata dal PCI. Costoro, gli intellettuali (non solo gli storici) di sinistra, sotto l’occhiuta regia di Togliatti e, in seguito, del togliattismo, sarebbero stati «i padroni della memoria». Via via che il clima politico generale andava cambiando, e diveniva un fatto concreto lo «sdoganamento» del neofascismo (ormai, nella versione corrente, «postfascismo»), tra gli anni Ottanta e i Novanta, ossia tra Craxi e Berlusconi, i revisionisti prendevano coraggio, occupavano spazi (in particolare si segnalano le pagine, non solo quelle culturali, del Corriere della Sera, foglio in cui ha imposto la linea, su queste tematiche, Ernesto Galli della Loggia), e facevano proseliti, nella loro crociata, che, oltre che anti-antifascista, sostanzialmente era anticomunista, o meglio ancora, in termini più generali, antirivoluzionaria (benché il termine possa apparire desueto). Il revisionismo ha posto sotto attacco, in effetti, a partire dagli anni Sessanta, tutto il ciclo delle rivoluzioni, da quella Francese a quella Bolscevica, fino alla Resistenza, nella quale fu presente, come una componente importante, l’istanza rivoluzionaria, di un cambiamento epocale, e di un sovvertimento sociale a favore delle classi subalterne. Associandosi all’anticomunismo, questo revisionismo, anche nella versione estrema, portato avanti da giornalisti, ma anche da storici, giungeva a sostenere che tutto quello che sappiamo in merito a fascismo, antifascismo, Resistenza, è menzogna, o perché fondata sulla falsità, o perché basata sull’occultamento; responsabili delle menzogne e dei nascondimenti della verità, sono «i comunisti», da Gramsci fino ai suoi pronipoti, con un particolare accanimento su Togliatti, presentato, spesso e volentieri, egli stesso come un soggetto storico su cui esercitare l’arte speciosa del rovesciamento, e come ispiratore delle trame storiografiche negatrici della verità, infine rimessa a posto dai Pansa e sodali, i vendicatori della storia. Dunque, se quello che si sa è menzogna, si tratta di costruire una «verità alternativa». E più si urlano le verità alternative, più esse sono costruite in modo plastico, condite possibilmente da eros e thanatos, più si allarga il bacino d’utenza. Più i libri smerciano le copie, più aumentano i «passaggi» televisivi (con un rapporto di reciproco beneficio tra l’una cosa e l’altra), più il ceto politico se ne occupa, e un prodotto cartaceo diviene strumento di lotta politica. Non è un caso che il successo dell’«operazione Pansa» sia stato preparato da un lungo lavorio, che parte almeno dagli anni Ottanta, volume dopo volume della mastodontica biografia mussoliniana di Renzo De Felice. Che De Felice abbia dei meriti, è fuori discussione, ma che il suo lavoro avesse anche un fine politico, è altrettanto indubbio, e del resto lo stesso studioso si è incaricato con prese di posizione pubbliche, specie nelle due note interviste, rilasciate a distanza di un ventennio, di trarre risultati politico-ideologici a una ricerca presentata sempre come «disinteressata». E senza quel lavoro, e quegli impulsi ideologici, il revisionismo all’italiana non avrebbe avuto cittadinanza. De Felice, dunque, a partire dai primi anni Sessanta, quando venne allo scoperto come studioso del fascismo, aveva reiteratamente etichettato il proprio metodo nei termini classicamente positivistici del minatore che scava nelle latebre del passato, portandone alla luce i tesori (i documenti), aggiungendo, ad abundantiam, di essere assolutamente «obiettivo», dimenticando l’avvertenza salveminiana: «lo storico che si dichiara obiettivo o è uno sciocco, o un uomo in malafede, quasi lupo travestito da agnello». Salvemini invitava alla «probità»: dichiarare le proprie passioni, innanzi tutto, e prendere «le contromisure nei loro confronti». Il che significa essere onesti, sul piano intellettuale, e rigorosi sul piano del metodo. Ma, nella biografia del duce, contraddicendo il proprio assunto, fin dal primo volume (1965), De Felice aveva operato un pieno ricupero alle glorie patrie del figlio del fabbro romagnolo, sconnettendo, nel prosieguo del lavoro, il cattivo nazismo dal fascismo («che non era poi così male», come si espresse, all’ingrosso, uno dei grands commis di questo apparato ideologico, Giuliano Ferrara), usando (e abusando) la categoria della «modernizzazione» oltre che, ovviamente, di quella del «consenso». Categorie che, nell’analisi del fascismo sono del tutto lecite, ma da usarsi con cautela. E senza enfatizzare né l’una, né l’altra; soprattutto, senza recidere i nessi tra fascismo (movimento e regime) e l’uso della violenza, della sopraffazione, dell’intimidazione. E il sostegno a Mussolini giunto da poteri non propriamente modernizzatori come il Vaticano. Ma ritorniamo a Pansa, e al revisionismo, inteso come teoria e pratica della revisione programmatica, che sarebbe giunto alla sua estremizzazione, il rovescismo, agli inizi degli anni Duemila, ma che aveva palesato già vent’anni prima il suo obiettivo, che ancor prima che culturale era direttamente politico; ad ogni modo, esso non si collocava affatto nell’alveo delle problematiche storiografiche, né aveva un intento conoscitivo. A seguito di una intervista (al Corriere della Sera), in cui De Felice invitava a lasciar cadere la retorica dell’antifascismo, vi fu chi – Alessandro Galante Garrone, tra i primissimi – comprese quale fosse il punto d’arrivo, di un combinato disposto, che metteva accanto, come pezzi di una batteria, revisionismo (pseudo)storiografico e proposte politico istituzionali (erano gli anni della annunciata Grande Riforma, della vaticinata Seconda Repubblica). L’obiettivo di tanto fuoco, in vero, era la Costituzione Repubblicana, cui si voleva metter mano, per un «adeguamento», che ricordava, nella sostanza, la medesima operazione che in termini storiografici si pretendeva di compiere rispetto al ventennio fascista e al biennio resistenziale. Tra De Felice, in specie l’ultimo De Felice, e Pansa, il rapporto sussiste ed è indiretto; fra i due esiste naturalmente una distanza siderale, ma il nesso v’è, e il secondo non sarebbe pensabile senza il primo. Diretta invece la filiazione dal primo degli pseudostorici della Resistenza chiamata sbrigativamente «guerra civile», il giornalista repubblichino Giorgio Pisanò; ma Pansa s’inseriva nel solco tracciato da divulgatori disinvolti quali Arrigo Petacco, Silvio Bertoldi, e un nugolo di altri che non sempre hanno avuto il beneficio del grande successo di pubblico, ossia del massiccio sostegno mediatico. Proprio tale successo, impossibile del resto in epoca preberlusconiana, faceva di Pansa, a partire dal 2003, il principe dei rovistatori. L’obiettivo perseguito da costoro è, come dicevo, la ricerca del sensazionale, o ancora meglio del maleodorante, del putrescente: e, se non c’è, lo si inventa, lo si amplifica, e lo si sbatte in prima pagina. Che questa operazione sia fatta senza alcun criterio storico, senza le cautele minime di qualsivoglia studioso, poco importa. Se gli autori di libri di tal fatta, vendono, troveranno editori disposti a scommettere su di loro, giornali, radio e televisioni pronti a parlarne, e un pubblico abilmente stuzzicato e quindi incuriosito, non dei fatti, così come si sono effettivamente svolti, ma delle notizie (il giornalismo attuale ci ha abituato a una perfetta disconnessione fra le due parole, un tempo legate consequenzialmente: le notizie come la fotografia e radiografia, quando si va un po’ oltre i dati empirici, dei fatti accaduti). Quel pubblico, in sostanza, viene convogliato verso il misterioso, verso il segreto, verso il maligno, verso l’erotico, verso il sadico, verso il macabro: ossia verso ciò che suscita attenzione di massa, che eccita interesse della radio e soprattutto della televisione; ebbene allora il risultato è conseguito. Del resto, l’obiettivo massimo – raggiunto da Pansa– è che la propria opera diventi un film o uno sceneggiato TV. Ho affermato che la filiazione del Pansa «storico» della Resistenza e del primissimo dopoguerra, ci porta a un attivista neofascista, già militante della RSI, giornalista e politico nel MSI (di cui fu rappresentante al senato per un ventennio), Giorgio Pisanò. Nella sua febbrile attività volta a screditare l’antifascismo, e a riabilitare il duce, e il fascismo in generale, costui negli anni Cinquanta pubblicava un’opera a suo modo capitale, che fissava lo stilema interpretativo della Resistenza nei termini di guerra civile. A tale fonte a dir poco inquinata, si abbeverarono i rovistatori di cui sopra, Pansa per ultimo, ma con maggiore dovizia. Ma vediamo chi è il revisionista numero uno, in fatto di «storiografia» sulla Resistenza, Giorgio Pisanò. Ci affidiamo a una fonte inequivoca, un suo libro autobiografico-memorialistico. La decisione di restare nel campo repubblicano (la RSI, insomma) dopo l’8 settembre, viene motivata dall’autore come difesa della «sua dignità di italiano» e de «l’onore della bandiera» di fronte al «rovesciamento di fronte» del Regno....

A sinistra gli storici, a destra i cantastorie, scrive Luigi Iannone su “Il Giornale” il 30 novembre 2016. Quiz della sera …facile, facile.

1) Morto lo storico Claudio Pavone. Per i media è stato colui il quale ha sdoganato il termine di guerra civile.

2) Ernesto Galli della Loggia esce in questi giorni con un libro (Credere, tradire, vivere) in cui si descrivono tutti i passaggi, a fine guerra, dei fascisti nelle fila del PCI e si parla esplicitamente della “truffa dell’antifascismo”.

3) Dovunque mi capiti di cliccare sul telecomando mi imbatto in programmi di Storia in cui: a) si parla solo di fascismo o nazismo come se il mondo iniziasse e finisse negli anni Trenta del secolo scorso; b) i conduttori-giornalisti sono Carlo Lucarelli, Aldo Cazzullo o Paolo Mieli nella migliore delle ipotesi.

4) In qualunque libreria io vada, nella sezione Storia, trovo sempre una caterva di libri revisionistici di Pansa.

Fatta salva la condivisione per questi loro, seppur tardivi, posizionamenti in tema di revisionismo, trattasi tuttavia di persone provenienti o attualmente ancora ‘dimoranti’ in quel mondo che per comodità linguistica definiamo di sinistra.  Un mondo che da sempre detta ‘tempi e modi’ dell’analisi storiografica e delle sue ricadute nel dibattito politico. E allora, secondo voi, cari lettori, tutto ciò può rappresentare una delle principali motivazioni per le quali mi vengono dei ‘travasi di bile’ ogni qualvolta guardo atterrito i soliti volti noti che, invece di andare ai giardinetti dopo aver mostrato le loro miserrime capacità nel ventennio passato, pontificano di nuovo sulla ricomposizione della diaspora post An e si dicono pronti a riorganizzare la Destra politica?

Giampaolo Pansa. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Giampaolo Pansa (Casale Monferrato, 1º ottobre 1935) è un giornalista, saggista e scrittore italiano. Nativo di Casale Monferrato, dopo gli studi classici si iscrisse a Scienze Politiche presso l'Università degli Studi di Torino, dove ebbe come docente Alessandro Galante Garrone. Si laureò con una tesi intitolata Guerra partigiana tra Genova e il Po. Sposato con Lidia, nel 1962 ha avuto un figlio, Alessandro, ex amministratore delegato di Finmeccanica. Agli inizi degli anni sessanta entrò nel quotidiano torinese La Stampa. L'elenco delle sue collaborazioni è il seguente:

1961-1964: La Stampa (direttore Giulio De Benedetti). Uno dei suoi servizi più noti del periodo fu sul disastro del Vajont[3];

1964-1968: Il Giorno (direttore Italo Pietra), si occupò delle cronache dalla Lombardia;

1969-1973: La Stampa, inviato da Milano (direttore Alberto Ronchey). Scrisse per il quotidiano torinese sulla strage di piazza Fontana;

(dopo una breve parentesi al Messaggero di Roma come redattore capo) 1º luglio 1973- ottobre 1977: inviato per il Corriere della Sera (direttore Piero Ottone). Durante il periodo al Corriere Pansa scrisse con Gaetano Scardocchia l'inchiesta che contribuì a svelare lo scandalo Lockheed;

novembre 1977-1991: La Repubblica, inviato speciale (direttore Eugenio Scalfari). Nell'ottobre 1978 assunse la vicedirezione[4]. Riprese a scrivere per il quotidiano romano nel 2000 come editorialista;

1983-1984: crea la rubrica «Quaderno italiano» su Epoca (direttore Sandro Mayer);

1984-1987: crea la rubrica «Chi sale e chi scende» su L'Espresso (direttore Giovanni Valentini);

1987-1990: crea la rubrica «Bestiario» su Panorama, (editore Mondadori, direttore Claudio Rinaldi, Pansa fu condirettore);

1990- settembre 2008: il «Bestiario» prosegue su L'Espresso (direttore Giulio Anselmi, poi Daniela Hamaui).

Nella carriera di Pansa hanno avuto un ruolo preponderante i giornali del Gruppo L'Espresso (la Repubblica e L'Espresso), con i quali Pansa ha collaborato ininterrottamente dal 1977 al 2008. Negli anni della sua collaborazione alla Repubblica, Pansa è stato tra i rappresentanti della linea editoriale vicina alla sinistra di opposizione, senza risparmiare critiche anche al Partito Comunista Italiano. Sono note inoltre alcune sarcastiche definizioni che Pansa ha dedicato a politici italiani, come quella di "Parolaio rosso", per Fausto Bertinotti o quella di "Dalemoni", allusiva al cosiddetto "inciucio" tra Massimo D'Alema e Silvio Berlusconi ai tempi della Bicamerale. Pansa non fu tenero neanche con i colleghi giornalisti: nel 1980scrisse su la Repubblica un articolo intitolato «Il giornalista dimezzato», in cui stigmatizzava il comportamento, da lui giudicato ipocrita, dei colleghi che, a suo dire: "cedeva[no] metà della propria professionalità al partito, all'ideologia che gli era cara e che voleva[no] comunque servire anche facendo il [proprio] mestiere". Il 1º ottobre 2008, trovandosi in contrasto con la linea editoriale, lasciò il Gruppo Editoriale L'Espresso. Da allora ha scritto sui seguenti giornali:

ottobre 2008-dicembre 2010: Il Riformista (direttore: Antonio Polito);

settembre 2009-luglio 2016: Libero, dove nel gennaio 2011 ha portato il «Bestiario» (direttore: Maurizio Belpietro (2009-2016), Vittorio Feltri (2016-in carica);

settembre 2016: La Verità (il nuovo quotidiano fondato da Belpietro).

La sua attività ha avuto come principale interesse la Resistenza italiana, già oggetto della sua tesi di laurea (pubblicata da Laterza nel 1967 con il titolo Guerra partigiana tra Genova e il Po). Nel 2001 Pansa pubblica Le notti dei fuochi, sulla guerra civile italiana combattuta tra il 1919 e il 1922, conclusa con la presa del potere da parte del fascismo. Nel 2002 esce I figli dell'Aquila, racconto della storia di un soldato volontario dell'esercito della Repubblica sociale italiana. Con questo libro comincia il ciclo «dei vinti», cioè una serie libri sulle violenze compiute da partigiani nei confronti di fascisti durante e dopo la seconda guerra mondiale. Escono successivamente Il sangue dei vinti (vincitore del Premio Cimitile 2005), Sconosciuto 1945 e La Grande Bugia. Nel 2011 esce Poco o niente. Eravamo poveri. Torneremo poveri, in cui ritrae l'Italia degli umili tra la fine del XIX secolo e l'inizio del XX attraverso la storia dei propri nonni e genitori. In particolare per Il sangue dei vinti, Pansa è stato oggetto di critiche in quanto avrebbe "infangato" la Resistenza utilizzando, a detta dei detrattori, quasi esclusivamente fonti revisioniste di parte fascista[8] accuse che Pansa ha sempre respinto con decisione, sostenendo di aver utilizzato fonti di diverso colore politico e di aver spesso descritto i crimini che certi esponenti fascisti avevano commesso ai danni dei partigiani prima di essere a loro volta uccisi. Durante la presentazione dei suoi libri in alcune occasioni Pansa è stato oggetto di contestazione da parte di centri sociali di estrema sinistra che accusano l'autore di revisionismo. In un caso ci sono stati tafferugli tra gruppi di sinistra e di destra, entrambi presenti all'evento. Tali episodi sono stati condannati dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e dal presidente del Senato Franco Marini. Vi è stato anche chi, come Galli della Loggia, ha giudicato positivamente il lavoro di Pansa, chiedendosi però come mai l'Italia si permetta di far luce sui crimini ignorati della sua storia solo quando sono gli intellettuali di sinistra a renderli noti al grande pubblico. Anche lo storico Sergio Luzzatto, dopo una iniziale perplessità su Il sangue dei vinti, che comportò da parte sua anche dure prese di posizione, dichiarò in seguito che nelle sue opere «nulla si inventa» e c'è «rispetto per la storia». Il libro successivo, La Grande Bugia, è dedicato proprio alle reazioni suscitate da Il sangue dei vinti. Anche quest'opera è stata oggetto di critiche. I gendarmi della memoria ha chiuso il trittico aperto da Il sangue dei vinti: è un atto di accusa contro quanti, a suo avviso, non accettano alcuna forma di ripensamento o di autocritica su quel periodo.

Il fascismo secondo Giampaolo Pansa. Intervista pubblicata su Il Messaggero di Federico Guiglia. All’epoca dell’Italia che gridava eia eia alalà, Giampaolo Pansa era un bambino. “Ma quel grido lo sentivo di continuo”, ricorda il giornalista e scrittore. Ha appena pubblicato un libro che proprio quelle parole riporta in copertina: Eia eia alalà, controstoria del fascismo, Rizzoli editore. Un racconto sul passato per dire del presente: guardate che cos’è successo, e può ancora succedere, lui dice. “Quando il fascismo è caduto, io avevo sette anni e mezzo ed ero figlio della Lupa a Casale Monferrato”, riprende il filo del discorso. “Ho pure una foto scattata da mio padre davanti al monumento ai Caduti della prima guerra mondiale, in cui apparivo vestito in quel modo un po’ ridicolo con fasce bianche e camicia nera e facevo il saluto romano. Insieme con la canzone “Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza”, eia eia alalà era un po’ il “jingle” del fascismo”.

“Il nero nacque dal rosso” è la riflessione-chiave dei personaggi del libro (dall’immaginario possidente terriero Edoardo Magni al suo - suo di Pansa -, edicolante citato in prefazione). Ma socialisti e fascisti erano nemici irriducibili: come fa a imputare ai primi la nascita dei secondi?

“Guardiamo le date. Nel 1915 per noi comincia la prima guerra mondiale, che finisce nel novembre del 1918. I soldati tornano a casa e la grande maggioranza di loro erano poveracci e contadini. S’assiste all’espansione politica e sindacale della sinistra di allora. C’era il Partito socialista. C’erano le leghe operaie e contadine che nell’Italia della pianura padana si svilupparono molto. Dopo la prima vittoria elettorale del Partito socialista, comincia quello che Pietro Nenni chiamò il biennio rosso. Non soltanto una serie di scissioni a sinistra, ma soprattutto questi matti delle leghe che annunciavano l’arrivo del bolscevismo e della rivoluzione. Dicevano che l’Italia doveva fare come Lenin. Violenze dappertutto, in particolare nelle campagne. Basta ricordare il grande sciopero agrario del 1920, quando le leghe rosse, per piegare i proprietari agricoli, ordinarono ai braccianti e ai mungitori di lasciar morire le vacche per non essere munte”.

Sta dicendo che, per paura del rosso, gli italiani diventano neri?

“A ogni azione corrisponde una reazione. E’ quello che non hanno capito le sinistre, la frazione che nel 1921 fondò a Livorno il Partito comunista, i massimalisti. L’hanno capito un po’ i socialisti riformisti e l’hanno scritto su loro giornale, La Giustizia. Non è che il fascismo è un mostro che nasce per caso. E’ un mostro che viene creato dai suoi avversari, che fanno di tutto per spaventare la borghesia”.

La sindrome per l’uomo solo al comando ha colpito una volta sola o può colpire ancora il sentimento, le paure, il conformismo di tanti italiani?

“La sindrome la vediamo anche oggi. Quando un presidente del Consiglio invece di rivolgersi al Parlamento si rivolge alla gente e vuole essere solo a decidere, il rischio c’è sempre. E’ proprio uno dei motivi per cui ho scritto il libro. Com’era l’Italia del 1920/21? Stremata dal punto di vista economico dopo una guerra mondiale pazzesca. Aveva una classe politica, oggi diremmo una casta, screditata, ritenuta imbelle e corrotta. E poi c’erano i conflitti sociali. Ci sono affinità con l’Italia di oggi? Temo di sì. E poi gli italiani sono gente che ama essere comandata da un signore solo. Questo non è il Paese dalla tradizione democratica inglese o americana”.

Fin dai tempi della storia narrata nei libri di Montanelli, gli storici non amano i giornalisti che si cimentano sul loro terreno. Avendo lei mescolato romanzo e storia non teme di avallare il loro pregiudizio?

“Non me ne frega nulla del pregiudizio. Bisogna avere una patente speciale per scrivere di storia come per guidare la Ferrari? Io ho profonda disistima per la classe accademica degli storici italiani, che è egemonizzata dai postcomunisti. Quando nel 2003 ho pubblicato “Il Sangue dei vinti”, che ha venduto più di un milione di copie, sono stato bombardato da tutte le parti. Ma io li conosco. Sono stato uno studente diligente, facendo una tesi di laurea - poi pubblicata da Laterza - sulla guerra partigiana. Arrivato a settantanove anni, Pansa ha soltanto uno di cui preoccuparsi: il Padreterno. Non ho ancora capito quanto tempo mi lascerà per scrivere e rompere le scatole al prossimo. Ma non ce l’ho con tutti i professori. Ho un grandissimo rispetto per De Renzo De Felice, di cui sono stato allievo indiretto avendo letto tutti i suoi libri. E non solo lui”.

De Felice fu il primo a parlare di “anni del consenso” per il fascismo, almeno fino alle vergognose leggi razziali del 1938.

“Il consenso c’era, non l’ha inventato De Felice. Non è vero che Mussolini è arrivato e ha ammanettato milioni di italiani. Gli italiani sono stati quasi tutti fascisti. Tranne una minoranza infima di comunisti, cattolici, socialisti repubblicani, anarchici che stavano in galera o costretti a espatriare. Poi c’era chi si iscriveva al fascio perché obbligato, perché gli conveniva, per quieto vivere. Se oggi spuntasse un altro Mussolini, avremmo un po’ di manifestazioni in piazza, ma la maggioranza degli italiani gli andrebbe dietro. L’attualità del mio libro è proprio questa: guardate un po’ che cosa è successo, come la storia drammatica degli ebrei deportati nella primavera del ’44 che racconto. E la gelida indifferenza di tanti che si giravano dall’altra parte”.

La grande ipocrisia vien da lontano. “I Vinti non dimenticano” (Rizzoli 2010), è il titolo del volume di Giampaolo Pansa. Ci si fa largo tra i morti, ogni pagina è una fossa e ci sono perfino preti che negano la benedizione ai condannati. E poi ci sono le donne, tante, tutte ridotte a carne su cui sbattere il macabro pedaggio dell’odio. È un viaggio nella memoria negata, quella della guerra civile, altrimenti celebrata nella retorica della Resistenza. Le storie inedite di sangue e violenza che completano e concludono "Il sangue dei vinti", uscito nel 2003. Si tenga conto che da queste realtà politiche uscite vincenti dalla guerra civile è nata l'alleanza catto-comunista, che ha dato vita alla Costituzione Italiana e quantunque essa sia l'architrave delle nostre leggi, ad oggi le norme più importanti, che regolano la vita degli italiani (codice civile, codice penale, istituzione e funzionamento degli Ordini professionali, ecc.), sono ancora quelle fasciste: alla faccia dell'ipocrisia comunista, a cui quelle leggi non dispiacciono.

Esecuzioni, torture, stupri. Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega scrive Giampaolo Pansa. (Scrittore notoriamente comunista osteggiato dai suoi compagni di partito per essere ai loro occhi delatore di verità scomode). C’è da scommettere che il libro di Giampaolo Pansa, "La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti" (Rizzoli, pagg. 446), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione “Il Giornale” pubblica un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro.

REVISIONISMO. IL LINCIAGGIO DI GIAMPAOLO PANSA.

Piani comunisti per epurare la Resistenza. Nel nuovo saggio Giampaolo Pansa ricostruisce la lotta per il potere nelle montagne liguri, scrive Matteo Sacchi, Martedì 20/02/2018, su "Il Giornale". Si chiamava Aldo Gastaldi, ma nei suoi venti mesi di guerriglia, dopo l'8 settembre del 1943, era decisamente più conosciuto col suo nome di battaglia: Bisagno. Nato a Genova nel 1921, era perito industriale e durante il Secondo conflitto era stato arruolato come tenente del Genio. Evidentemente però aveva il talento del combattente da prima linea. Non appena i tedeschi iniziarono ad occupare il Nord Italia salì in montagna, senza un attimo di esitazione e portandosi dietro parte delle armi, abbandonate da altri militari che non seppero resistere al richiamo del «tutti a casa». Rifugiatosi a Cichero nell'entroterra di Chiavari, dove l'aveva sorpreso l'armistizio, nell'inverno tra il '43 e il '44 riuscì a organizzare una piccola e combattiva unità. In breve «Bisagno» divenne un mito. Cattolico praticante aveva uno stile tutto suo nel condurre la lotta contro la Wehrmacht e i militi dell'Rsi. Diceva che il nemico andava combattuto ma non odiato. Ci pensava bene prima di commettere azioni che provocassero rappresaglie. Si rifiutò sempre di creare bande grandi e impreparate, buone soltanto per essere macellate dai tedeschi. Il risultato fu che la Garibaldi-Cichero divenne una vera spina nel fianco dell'occupante. Ma presto la «Divisione» e il suo comandante iniziarono a non essere molto amati anche dai vertici dei partigiani comunisti. Gastaldi continuava a ribadire ai suoi uomini: «Aspettate prima di aderire a un partito. Imparate a ragionare con la vostra testa. Dopo la guerra deciderete». Iniziò anche a pretendere di levarsi dai piedi i commissari politici, forse anche a pensare di tenersi ben strette le armi, visto la sua pochissima voglia di essere «sovietizzato» a guerra finita. Questi alcuni dei fatti certosinamente raccolti, vagliati e raccontati da Giampaolo Pansa nel suo nuovo libro Uccidete il comandante bianco. Un mistero della Resistenza (Rizzoli, pagg. 294, euro 20) che è in libreria da oggi. Nel testo, di cui in questa pagina per gentile concessione dell'editore presentiamo uno stralcio, Pansa va oltre quello che vi abbiamo riassunto nelle righe sopra. Cerca di capire se il clima di ostracismo e odio che si era formato attorno a Aldo Gastaldi abbia qualche legame con la sua strana e prematura morte avvenuta a Desenzano del Garda il 21 maggio 1945. Ma l'indagine di Pansa va oltre il caso singolo, proseguendo il filone storico di cui il giornalista è maestro. La vicenda di «Bisagno», medaglia d'oro alla memoria (gli eroi morti non possono più dar fastidio), è infatti emblematica della spaccatura che, durante la Guerra civile, si aprì all'interno della Resistenza tra chi era sostanzialmente un partigiano italiano e chi invece vedeva la Resistenza solo come un prodromo, necessario ma imperfetto, all'instaurazione del comunismo. E per ottenere questo risultato «sovietico» c'era chi era pronto a tutto, anche a uccidere i propri compagni, anche gli eroi che, per primi, erano insorti in difesa dell'Italia contro i tedeschi.

Così i partigiani rossi tradirono Bisagno, il vero eroe della guerra contro i tedeschi. Misteri e retroscena dietro la morte inspiegabile di un comandante scomodo, scrive Giampaolo Pansa, Martedì 20/02/2018, su "Il Giornale". Costretto a convivere con i comunisti e vedendoli all'opera, Bisagno aveva capito tutto del disegno politico del Pci. Diceva: «Quelli come Miro e Attilio vogliono prendersi per intero il potere in Italia. E consegnare il nostro Paese ai sovietici perché ne facciano la provincia occidentale dell'impero di Stalin. Dovremmo rompere subito con loro. Ma questo servirebbe soltanto a spaccare le unità partigiane. E non possiamo farlo per rispetto dei tanti ragazzi che abbiamo portato a morire». (...) Il comando della Sesta zona, sempre guidato da Miro, aveva deciso di rendergli la vita difficile. Bisagno sapeva di essere guardato a vista da occhi malevoli. I suoi messaggi ai comandanti delle brigate erano intercettati e letti dal Sip, diventato un'occhiuta polizia rossa. Il comandante della Cichero si trovò costretto a dormire con la rivoltella sotto il cuscino e una baionetta sotto il paglione. Temeva una manovra ai suoi danni e persino di essere ucciso. La manovra emerse con chiarezza alla fine di febbraio del 1945, quando il Comando della Sesta zona, sempre guidato da Miro, decise di togliere a Bisagno la Cichero e di inviarlo, da solo, in un'altra area della Liguria, a Ponente. Il motivo inconfessabile era evidente: Aldo Gastaldi rappresentava l'unico concreto ostacolo all'egemonia del Pci in Val Trebbia e, di riflesso, alle strategie da attuare dopo la fine della guerra. La decisione doveva essergli comunicata in un incontro previsto per il 28 febbraio, ma Bisagno non si presentò. Venne fissata una nuova data, il 3 marzo, e poi una terza, il 7 marzo, a Fascia, un minuscolo paese dell'Appennino, a mille metri d'altezza. Questa volta Bisagno si fece vivo ed ebbe una discussione molto accesa con l'apparato comunista della Sesta zona. Ma ad affiancarlo c'erano due distaccamenti della Cichero. Avevano le armi imbracciate ed erano pronti a sparare. Il Comando di zona se ne andò con la coda tra le gambe, rinunciando a quel golpe interno. Tuttavia l'atto finale della crisi doveva ancora andare in scena. Il 29 marzo 1945, tre comandanti di divisione, ossia Bisagno, Scrivia e Antonio Zolesio, delle Brigate Giustizia e Libertà-Matteotti, inoltrarono al Comando generale del Corpo volontari della libertà un documento molto duro nei confronti dei quadri comunisti della Sesta zona. Accusati di voler trasformare le bande della Garibaldi in altrettante unità di partito. Tra le richieste avanzate a Milano ce n'era una che, agli occhi di Luigi Longo e di Pietro Secchia, dovette sembrare eversiva. Era quella di «abolire i commissari politici che non si curano d'altro se non di svolgere attività politica di partito». La conclusione del documento domandava di costituire un nuovo Comando di zona separato da quello esistente. Bisagno si era deciso a un passo tanto rischioso nella convinzione che subito dopo la fine della guerra civile il Pci avrebbe tentato di impadronirsi del potere con un colpo militare. Ecco perché, alla vigilia dell'incontro di Fascia, aveva detto a Scrivia, l'amico fraterno: «Un giorno dovremo vergognarci di essere scesi a Genova alla testa dei comunisti». Me lo rivelò lo stesso Scrivia quando stavo preparando la tesi di laurea. Ma la richiesta dei tre comandanti rimase senza risposta. Il Pci era ormai troppo forte, anzi era il partito più forte del fronte partigiano. (...) Ebbe inizio così l'ultimo tempo della giovane vita di Aldo Gastaldi. Nel novembre del 1944, Bisagno aveva accolto nella Cichero un gruppo di alpini che avevano lasciato la Monterosa, una delle divisioni della Rsi. Appartenevano al Battaglione Vestone, schierato in Val Trebbia. Gli aveva promesso che, finita la guerra, li avrebbe accompagnati nei loro paesi, attorno a Riva del Garda, in provincia di Trento. Per evitare che li arrestassero come militari fascisti. Bisagno mantenne l'impegno. Il 20 maggio 1945 partì da Genova con un autocarro Fiat 666 e una grossa camionetta Volkswagen, carichi di alpini. Con lui c'erano due suoi partigiani e un autista che di solito guidava le corriere in servizio tra la Val Trebbia e Genova. Arrivati a Riva del Garda e dopo aver salutato gli alpini, Bisagno si fermò a dormire lì. Il mattino successivo si rimise in viaggio, sempre sullo stesso camion e con il medesimo equipaggio. Durante il ritorno, così venne raccontato, decise di salire sul tettuccio della cabina dell'autocarro. Una decisione assurda e inspiegabile per un comandante avveduto qual era lui. Nei pressi di Desenzano del Garda, il veicolo fu costretto a una brusca sterzata per evitare una colonna di prigionieri tedeschi sbucata all'improvviso sulla statale. Il comandante della Cichero venne sbalzato dal tettuccio e finì sotto le ruote posteriori del veicolo, che lo schiacciarono. Morì quasi subito all'ospedale di Desenzano. In settembre avrebbe compiuto ventiquattro anni. Era stata davvero una disgrazia imprevedibile, come dichiararono sempre i partigiani che stavano con lui in quel viaggio? Oppure l'incidente nascondeva un delitto? Ancora oggi a Genova c'è chi sostiene la tesi dell'assassinio.

Giampaolo Pansa: «La Resistenza, storia da riscrivere. Politici pericolosi, stavolta non voto». Il giornalista: dai comunisti guerra agli altri partigiani. Nel nuovo libro («Uccidete il comandante Bianco») il racconto della vita di Bisagno. Intervista di Aldo Cazzullo del 19 febbraio 2018 su "Il Corriere della Sera".

Giampaolo Pansa, chi è il «comandante bianco», Aldo Gastaldi, nome di battaglia Bisagno, cui lei dedica il suo nuovo libro? 

«Era un eroe. L’unico comandante partigiano non comunista della terza divisione Cichero, la più importante della Liguria. Morto in circostanze misteriose subito dopo la fine della guerra. Sono convinto che sia stato assassinato».

Come lo descriverebbe ai lettori del Corriere?

«Un Gesù Cristo con il fucile. Profondamente cattolico. Mi ha raccontato un testimone che ogni settimana spariva nella notte della Val Trebbia. Prendeva la sua motocicletta, andava da un parroco, picchiava con le dita sul vetro della canonica per farsi riconoscere, si confessava, riceveva la comunione. Talora assisteva alla messa. Poi tornava dai suoi uomini. Quando è morto, a 24 anni, era ancora vergine».

Perché?

«Per lui un buon cattolico non doveva avere rapporti prima del matrimonio. Come disse Amino Pizzorno, nome di battaglia Attilio, capo del Sip, il delicatissimo Servizio informazioni e polizia: “Il nostro commissario politico, Miro, andrebbe da solo nella Genova occupata dai nazisti per scoparsi una ragazza; e il nostro comandante militare ha fatto il voto di castità”».

Miro si chiamava in realtà Anton Ukman.

«Un nome che suona come una fucilata».

Lei nel libro ipotizza che Miro avesse avvertito Bisagno, a mezze parole, del pericolo che correva a causa dei suoi compagni comunisti.

«È possibile che l’abbia fatto davvero. Anche Miro sognava la rivoluzione e la dittatura del proletariato; ma disprezzava i capi comunisti di Genova, li considerava burocrati, mentre lui era un combattente vero, duro».

Perché i comunisti volevano uccidere Bisagno?

«Non era un docile strumento nelle loro mani, come l’avrebbero voluto. E aveva proposto l’abolizione dei commissari politici. Tentarono in ogni modo di farlo fuori. Prima il comando della Sesta divisione ligure cercò di sottrargli la guida della sua divisione. Poi gli ordinarono di lasciare il suo territorio, dove aveva salvato 1.200 uomini dai terribili rastrellamenti dell’“inverno dei mongoli”, i caucasici al servizio dei nazisti, e di andare in esilio in un’altra valle. Lui però si presentò all’incontro accompagnato da trenta facce da patibolo, armate di mitragliatori, e i comunisti non la sentirono di insistere. Ma ormai gliel’avevano giurata».

Bisagno tentò di fermare le vendette dopo il 25 aprile.

«A Genova il sangue dei vinti corse a fiumi: oltre 800 morti. Molti non avevano mai toccato un’arma. Si racconta, ma non ci sono conferme, che i fascisti venissero gettati negli altoforni ancora vivi. Bisagno non poteva tollerare questo. “Ci vuole più coraggio a uccidere che a essere uccisi” diceva. Infatti propose di sostituire la polizia partigiana con la polizia militare Usa».

Da qui la sua fama di amico degli americani.

«Bisagno aveva legato con loro. Era stato invitato in America a insegnare la guerriglia. Un motivo in più per farlo fuori. Sono convinto che dietro il finto incidente stradale in cui morì si nasconda un delitto».

Come andò?

«Bisagno aveva promesso a un gruppo di alpini della Monterosa, che avevano disertato per unirsi a lui, di riportarli a casa, sul Garda. Fu di parola. Partì da Genova il 20 maggio 1945 con un autocarro Fiat 666 e una grossa camionetta Volkswagen. C’erano due suoi partigiani più l’autista; ma forse c’era anche un quarto uomo mai identificato. Bisagno dormì a Riva del Garda. Il giorno dopo, sulla via del ritorno, cominciò a comportarsi in modo strano».

Cosa fece?

«Aprì la borsa con i documenti riservati che portava sempre con sé, e li distribuì. Poi cominciò a regalare banconote: una follia per un ligure sparagnino come lui. Infine salì sul tettuccio del camion: una scelta assurda, pericolosissima. Quando l’autista sterzò per evitare una colonna di prigionieri tedeschi, Bisagno fu sbalzato e schiacciato da un camion. Morì all’ospedale di Desenzano. L’autopsia non fu mai fatta».

Cos’era accaduto, secondo lei?

«Qualcuno sostiene che sia stato avvelenato, che quando cadde stesse già morendo. Io penso che sia stato drogato, in modo da provocare l’incidente. Ma alla radice di tutto c’è un problema più generale».

Quale?

«La storia della Resistenza come la conosciamo è quasi del tutto falsa; e va riscritta da cima a fondo. Gli storici professionali ci hanno mentito. Settantatré anni dopo, è necessario essere schietti: molte pagine del racconto che viene ritenuto veritiero in realtà non lo è. Le guerre civili furono due. Oltre a quella contro i nazifascisti, ci fu la guerra condotta dai comunisti contro chi non la pensava come loro».

Non dobbiamo avere paura della verità. Resto convinto che la Resistenza non appartenga a una fazione, neppure a quella che ne ha sequestrato la memoria nel dopoguerra, ma alla nazione.

«Leggo sempre con interesse quello che lei scrive sulla Resistenza. Ma la penso diversamente. Lei dà una lettura delle nostra guerra civile che a me sembra troppo generosa. Troppo buonista. Come succede in tutte le guerre civili, anche in Italia il conflitto del 1943-1945 è stato feroce e senza riguardi per nessuno. Non sto parlando dei tedeschi e dei fascisti, avversari destinati a soccombere. Parlo della guerra all’interno dello schieramento antifascista, dominato dall’unico partito che si era sempre opposto al regime di Mussolini: il partito comunista».

Molti partigiani non erano comunisti.

«Gli altri partiti non esistevano, a cominciare dai moderati. Stavano nei Comitati di liberazione, ma non contavano nulla. Invece i comandanti partigiani non comunisti contavano e spesso molto. Ma quando iniziavano a opporsi alla supremazia del Pci contavano sempre di meno. C’erano eccezioni: Mauri in Piemonte, Bisagno in Liguria. Ma è proprio la figura di Bisagno che ci aiuta a comprendere l’asprezza del confronto interno al fronte antifascista. Finché Bisagno si è occupato della guerriglia, non ha mai incontrato ostacoli. Quando ha iniziato a essere troppo forte e a fare politica, per lui sono cominciati i guai».

La Resistenza non fu fatta solo dai partigiani, ma dai civili. Dalle donne, dagli ebrei, dai carabinieri, dai militari che combatterono accanto agli Alleati, dagli internati militari in Germania che preferirono restare nei lager piuttosto che andare a Salò.

«Ma la maggioranza degli italiani voleva solo che passasse la bufera per dedicarsi agli affari propri; e questa è la radice stessa del fascismo. Sa qual è la differenza tra me e lei? Che io ho una visione molto più pessimista dell’Italia. Appena assunto alla Stampa, nell’estate 1961, il vicedirettore Casalegno mi mandò a intervistare Saragat, che mi disse: “Governare gli italiani non è difficile; è inutile”. Prima di lui l’aveva già detto Mussolini».

Che effetto le fa oggi l’allarme antifascista?

«Sono fesserie. Oggi il vero dramma è che abbiamo una classe politica incompetente e pericolosa. Per questo stavolta non andrò a votare. Sono preoccupato per chi ha figli. Io il mio l’ho perso tre mesi fa, per un infarto, a 55 anni. Solo l’amore per Adele mi ha impedito di uccidermi».

Lei disse che la Resistenza è la sua patria morale.

«Lo dico ancora. Ma non la Resistenza di chi voleva una dittatura agli ordini di Mosca».

Nel ’43 lei aveva solo otto anni. Se ne avesse avuti dieci in più, cos’avrebbe fatto?

«Mia madre Giovanna mi diceva in piemontese: “Giampaolo, tu sei un volontario”. Sarei andato con i partigiani. Ma rispetto chi in buona fede fece un’altra scelta. E non ho bisogno di patenti per scrivere i miei libri revisionisti. Avessi più tempo davanti a me, riscriverei la storia della Resistenza. Tocca ai giovani storici farlo. Cosa aspettano?».

Cronache con rabbia. I primi ottant'anni ​di Giampaolo Pansa. Maestro di giornalismo, proveniente di sinistra, ha raccontato con successo la verità sulle stragi partigiane e la Rsi. Storici e intellettuali? Si sono infuriati, scrive Stefano Zurlo, Giovedì 1/10/2015, su "Il Giornale". Sua nonna Caterina, analfabeta, quando gli voleva fare una confidenza, scandiva poche parole: «Non si può cantare in tutti i cortili». Per Giampaolo Pansa, che oggi taglia il traguardo degli ottant'anni, quella frase è diventata un po' un marchio di fabbrica. Una bussola che l'ha portato per paradosso, lui figlio della cultura giacobina piemontese e poi icona di tanta sinistra, a svoltare e svoltare ancora sfuggendo a dogmi e etichette comode ma asfissianti. Se c'è una cifra nella biografia di Pansa è la liberta che impedisce di incasellarlo una volta per tutte. Oggi, nel gioco evergreen delle bandierine, molti lo considerano un uomo di destra e questo, nell'Italia dei muri e delle ideologie che non cadono, è il miglior complimento ma a metà perché Pansa è solo Pansa. Molto studio, grande curiosità, memoria prodigiosa e occhi sgranati su un mondo che non finisce di stupirlo. Il talento, precoce, si manifesta già in prima media quando il bambino riempie da solo, alla domenica pomeriggio, un giornaletto che si chiama Nero stellati, come la squadra della sua Casale: maglia nera con stella bianca. Giampaolo, cronista di calcio, compone su un foglio protocollo che poi distribuisce in classe ottenendo in cambio cicche e caramelle. È solo il prologo di una parabola strepitosa. Va a Torino, all'Università, e subito sintonizza le antenne: alla prima lezione di storia delle dottrine politiche il professor Luigi Firpo sciocca gli studenti parlando per un'ora dell'educazione sessuale dei giovani aztechi. Tema crudo e lontanissimo da quello del corso dedicato agli scritti giovanili di Carl Marx sulla Gazzetta Renana. Firpo finisce e Pansa alza subito la mano; segue un breve dialogo con la conclusione di Firpo che non ammette discussioni: «L'argomento non c'entra niente ma l'ho fatto per dimostrare che qui comando io e faccio quello che mi pare». Messaggio ricevuto. Pansa annuisce ma non si adegua. Lui, figlio di un operaio, guardafili del telegrafo di Alessandria, si muove con disinvoltura in quel pantheon di teste d'uovo, proiezione dell'Italia giacobina. Quella che si considera la parte migliore del Paese e guarda dall'alto in basso il popolo che arranca. Chiede la tesi ad Alessandro Galante Garrone, altro monumento della nostra cultura, e scrive un saggio lunghissimo sulla Guerra partigiana fra Genova e il Po. Il testo vince il premio Einaudi e verrà pubblicato da Laterza. È l'incipit di una carriera sfolgorante che potrebbe portare la giovane promessa nel santa sanctorum dell'intellighenzia subalpina. Ma lui cambia registro e torna alla sua vocazione di cronista: il 1° gennaio 1961 entra come praticante alla Stampa, redazione Province. Una scrivania anonima che non gli basta. Il 9 ottobre 1963 il disastro del Vajont segna la sua carriera: alla sera, dopo aver chiuso in tipografia la prima edizione, Pansa viene inviato a Longarone in compagnia di un inviato navigato come Francesco Rosso. In macchina, con l'autista come usava allora, Rosso si calca il borsalino sugli occhi e dorme. Pansa, invece, resta sveglio e giunto, infine, nei pressi di Longarone riceve una sorta di battesimo del fuoco da un vecchio collega, Guido Nozzoli, che gli chiede: «Hai mai visto la guerra?». Alla risposta negativa, l'altro replica secco: «Vai avanti e la vedrai». Il primo pezzo ha un incipit semplice e memorabile: «Scrivo da un paese che non c'è più». Da incorniciare come quello, celeberrimo di Tommaso Besozzi sul bandito Giuliano: «Di sicuro c'è solo che è morto». Poi i suoi articoli e le sue inchieste non si contano più: da Piazza Fontana allo scandalo Lockeed che contribuisce a scoperchiare insieme a Gaetano Scardocchia. Pansa è il principe degli inviati speciali ma anche questo vestito dopo un po' è da buttare. Eccolo a Repubblica, dove sarà vicedirettore, poi collaboratore di lusso nel Panorama di Claudio Rinaldi e condirettore all' Espresso ferocemente anti-berlusconiano ancora con Rinaldi, e poi nella stagione più levigata di Giulio Anselmi. La sua rubrica, Il Bestiario, inventata a Panorama e traslocata poi all' Espresso, entra nell'immaginario collettivo, i suoi graffi si fissano nel tempo e diventano quasi didascalie da antologia di alcune maschere della politica nazionale. Ritratti corrosivi e inarrivabili. Fausto Bertinotti è il Parolaio rosso, ma il sarcasmo sintetico dello scrittore dà il meglio fotografando l'inciucio, nella Bicamerale, fra Berlusconi e D'Alema. Nasce il Dalemoni che aprirà un filone inesauribile della satira. Potrebbe pure bastare, ma alla non più verde età di sessantotto anni lo studente modello di storia torna a sgomitare e si apre la strada, mandando all'aria poltrone e allori. Nel 2003 esce Il sangue dei vinti, che poi è quello dei fascisti massacrati senza pietà e senza regole nelle settimane successive alla fine della Guerra. Dopo aver osservato con la lente d'ingrandimento i tic e le smorfie dei notabili democristiani e socialisti riuniti a congresso, Pansa si butta su chi la voce l'ha persa nel 1945. Lui, che arriva dall'altra parte, racconta la mattanza di quei mesi, i silenzi, le vergogne inconfessabili di chi è stato protetto troppo a lungo dallo scudo di una presunta superiorità morale. Gli danno del revisionista, del traditore, del venduto. Lui non fa una piega. Gira tutto lo stivale a presentare quel volume e quella pagina di storia che era stata strappata dai sacri testi. Lo contestano, gli gridano insulti, lui scrive e scrive ancora: Sconosciuto 1945 e La Grande bugia. Sempre per Sperling & Kupfer. Sempre con la lente d'ingrandimento e con il piccone in mano. La sua parrocchia lo rinnega, si ritrova a firmare per il Riformista e poi per Libero. Continua a produrre titoli, storie e controstorie, con un ritmo da catena di montaggio. A febbraio pubblica per Rizzoli La destra siamo noi, ovvero il Belpaese da Scelba a Salvini. Attualità e profondità. Ma è già oltre con un altro volume: L'Italiaccia senza pace, sempre per Rizzoli, uno zibaldone di episodi e vicende del Dopoguerra accostati dall'occhio zingaro e acutissimo di uno dei più grandi giornalisti di sempre. Ancora più grande perché leale. Vicinissimo al potere, sempre lontano dai potenti.

Non lasciatevi ingannare dal titolo, Il revisionista, in uscita da Rizzoli (pagine 474), scrive Rino Messina su “Il Corriere della Sera”. Questo non è l'ennesimo libro di Giampaolo Pansa sulla guerra civile italiana. È l'autobiografia di un giornalista che, quando si svolgeva la mattanza raccontata nel Sangue dei vinti, aveva dieci anni. E che è cresciuto a Casale Monferrato, zona di Resistenza, in una famiglia operaia, assorbendo i racconti sulla guerra e l'amore per la cultura: «I miei sapevano che l'unica possibile emancipazione era studiare e non mi facevano mai mancare libri, penne, quaderni». In uno dei brani più commoventi il padre Ernesto confida a suo figlio, da poco entrato alla «Stampa» di Torino: «Ora che scrivi per i giornaloni anche i signori mi salutano». Come fa un libro che contiene queste storie private a non essere definito un'autobiografia? Eppure Giampaolo Pansa nella prefazione dice d'essersi limitato a tracciare il suo percorso di Revisionista. Successi, ma anche attacchi e insulti, a cominciare da quando nel 2002 pubblicò I figli dell'Aquila e soprattutto nel 2003 quando firmò Il sangue dei vinti, un saggio vicino al traguardo del milione di copie. «Il vero motivo per cui l'ho scritto - confida Pansa - è ringraziare le persone che mi hanno apprezzato perché avevo dato loro voce. L'Italia degli sconfitti che prima del Sangue dei vinti non avevano diritto di partecipare al discorso pubblico. A loro ho voluto raccontare il mio percorso di giornalista che ha avuto la fortuna di incontrare tanti maestri. Tra i giornalisti che non appartengono alla sua cerchia, io credo di essere quello che meglio capisce Silvio Berlusconi. E sa perché? Perché sono nato nel 1935, un anno prima di lui, e capisco le paure e le angosce di un settantenne, ma ne condivido anche l'entusiasmo e il percorso generazionale». Il revisionista non è un libro provocatorio, a tesi, né il racconto di una sola parte italiana. È la storia di un percorso e degli incontri che hanno segnato un uomo. La Gianna, la prima fidanzatina di Giampaolo, la prima con cui abbia fatto l'amore. Ricevendone una lezione straordinaria. Gianna era una di quelle ragazze che erano state rapate a zero dopo il 25 aprile: suo padre era un fascista ucciso per vendetta e a lei era toccata quell'umiliazione. Poi Luigi Firpo, il geniale professore alla facoltà di Scienze politiche, Alessandro Galante Garrone e Guido Quazza, i due storici che seguirono la tesi di laurea di Pansa, Guerra partigiana tra Genova e il Po, un malloppo di circa mille pagine che conteneva documenti e testimonianze di prima mano e che sarebbe uscito nel 1967 da Laterza. Guido Quazza usava tenere una scheda sui suoi laureandi. Sulla tesi di Pansa scrisse: «Importante lavoro per la vastità della ricerca... È sempre presente il principio dell'audiatur et altera pars». Siamo nel 1959 e questo è un riconoscimento straordinario: ascoltare sempre l'altra voce. La lezione di Gianna era un seme che cresceva. Quella tesi avrebbe vinto uno dei due premi Luigi Einaudi: sarebbe stato il salvacondotto per entrare subito nel mondo del giornalismo, alla «Stampa» diretta da Giulio De Benedetti. Da «ciuffettino», così era soprannominato il rigoroso direttore del quotidiano torinese, a «barbapapà» Eugenio Scalfari, Il revisionista di Pansa è anche una galleria di direttori e colleghi, ritratti impietosi e affettuosi, in cui la critica non fa mai velo alla gratitudine. Leggete per esempio questo omaggio a Giorgio Bocca, diventato in questi anni l'arcinemico di Pansa in difesa di una Resistenza che ha sentito tradita dal suo più giovane collega: «Giorgio era il primo dei miei maestri indiretti. I giornalisti che leggevo con la matita in mano per prendere appunti e imparare come si doveva scrivere un buon articolo. Avevo recensito con entusiasmo un libro che raccoglieva i suoi reportage italiani. Lui mi aveva ringraziato con un biglietto e io ero andato di corsa a Milano per conoscerlo». Nel 1964, auspice Bocca, era arrivata la chiamata al «Giorno» diretto da Italo Pietra, partigiano e uomo di fiducia di Enrico Mattei. Nella stanza delle riunioni ogni mattina il direttore entrava rivolgendo, tra l'ironico e il minaccioso, questa domanda ai colleghi: chi di voi ha bruciato la mia casa sul monte Penice nel rastrellamento dell'agosto 1944? Perché il gruppo dirigente del «Giorno» era formato per metà da giornalisti che avevano fatto la Resistenza e per metà da saloini che avevano combattuto dall'altra parte, chi nella X Mas, chi nelle Brigate Nere, chi nella Guardia repubblicana. Anche in questo episodio è evidente che «il revisionismo» è il filo conduttore del racconto, ma il genere letterario è quello dell'autobiografia, sull'esempio fortunato del Provinciale di Giorgio Bocca. Trovi lo stesso stupore, la stessa potenza narrativa, tratti simili di sensualità, entusiasmo, stupore della scoperta. A volte di delusione e di stizza. Sentimenti evidenti nel capitolo «Il libertino» dedicato a Eugenio Scalfari, di cui riconosce la tenacia geniale del fondatore di imprese, ma al quale non risparmia pagine amare e impietose. «Via via - scrive Pansa - diventò la statua di se stesso. Con la barba di un biancore marmoreo... Quando morì Rocca (che con Pansa era stato vicedirettore della "Repubblica") nella cerimonia al cimitero del Verano, andai a stringere la mano a Eugenio. Ma lui se ne restò seduto e sembrò non riconoscermi». Pansa ne rimase stupito e addolorato: attribuisce questo atteggiamento all'uscita dei suoi lavori revisionisti, non apprezzati dal fondatore di «Repubblica». Nel libro c'è anche spazio per ritratti di politici, da Giorgio Almirante a Enrico Berlinguer, e soprattutto un invito al revisionismo, a raccontare le verità scomode, anche sugli anni di piombo, la stagione sanguinosa degli anni Settanta che continua a esalare veleni, come dimostrano le scritte contro Luigi Calabresi comparse in questi giorni a Torino. Giampaolo Pansa, che oggi collabora al «Riformista» ma soprattutto scrive libri, a 73 anni è felice della sua vita e continua a dirsi fortunato. Tuttavia ha qualche rimorso: «Non aver fatto abbastanza per difendere Calabresi come avrei dovuto». E qualche delusione: «Non aver mai ricevuto l'invito da una scuola di giornalismo, dove insegnano perfetti sconosciuti. Ma forse le scuole sono in mano alla sinistra e non invitano uno come me bollato a destra. Ma io avrei qualcosa da dire ai giovani: per esempio che il mestiere di giornalista non si impara, ma si ruba, e che il talento serve a ben poco senza l'umiltà e lo spirito di sacrificio».

Giampaolo Pansa, il revisionista impenitente, scrive Gabriele Testi su “Storia in Rete”. Il revisionista che non si pente. Anzi. L’autore che più di ogni altro ha attaccato in Italia miti storiografici del Novecento e l’Accademia, sta per tornare con un libro destinato a rinverdire le polemiche scatenate da «Il Sangue dei Vinti». Le tesi di Pansa? «Il PCI di Togliatti voleva l’Italia satellite dell’Urss»; «la politica di oggi non è interessata a fare i conti con la Storia»; «I miei critici? Scappano…»; «Le celebrazioni? Non mi piacciono mai»; «Il miglior leader italiano? De Gasperi»; «Gli italiani? Non hanno futuro se continuano così…». Forse perché non vogliono avere un passato? C’è sempre una prima volta, anche per Giampaolo Pansa. Quella del giornalista piemontese al Festival Internazionale della Storia di Gorizia, dunque allo stesso tempo su un terreno e in un territorio particolarmente delicato per ogni forma di rivisitazione e di analisi storiografica, non è passata inosservata. Anzi. La dialettica con un pubblico tanto attento quanto sensibile alle vicende degli italiani vissuti (e morti) oltre il Muro, in particolare comunisti di fede stalinista fuggiti in Jugoslavia e diventati «nemici del popolo», e lo scontro verbale con il moderatore Marco Cimmino non saranno dimenticati facilmente dalle parti di Gorizia. L’occasione si è comunque rivelata perfetta per una chiacchierata con un autore che, in polemica con gli accademici italiani e i «gendarmi della memoria» non arretra di un metro sul piano del confronto scientifico su quei temi, il tutto alla vigilia del compleanno che il primo ottobre gli farà oltrepassare la soglia dei tre quarti di secolo e della pubblicazione di un ultimo lavoro che lo riporterà in autunno nei panni a lui del revisionista. È lui stesso a raccontarlo a «Storia in Rete» in un’intervista esclusiva in cui si mescolano Resistenza e Risorgimento, eredità del PCI, meriti e demeriti democristiani, una visione organica della nostra società e le differenze esistenti fra i giovani di oggi e quelli le cui scelte avvennero con la Guerra.

Considerato il soggetto dei suoi ultimi due libri, considera ormai chiusa la parentesi dedicata alla Guerra Civile italiana?

«No, tant’è vero che in novembre uscirà con la Rizzoli un mio nuovo libro sulla Guerra Civile. Il titolo è: “I vinti non dimenticano”. Non è soltanto il seguito del “Sangue dei vinti” e dei miei libri revisionisti successivi. Insieme a vicende che coprono territori assenti nelle mie ricerche precedenti, come la Toscana e la Venezia Giulia, c’è una riflessione più generale, e contro corrente, sul carattere della Resistenza italiana. Dominata dalla presenza di un unico partito organizzato, il PCI di Palmiro Togliatti, Luigi Longo e Pietro Secchia. Che aveva un traguardo preciso: conquistare il potere e fare dell’Italia un Paese satellite dell’URSS».

È rimasto fuori qualcosa – un’osservazione, una storia, un nome – che le piacerebbe aggiungere o correggere?

«Non ho niente da correggere per i miei lavori precedenti. E voglio dirvi che, a fronte di sette libri ricchi di date, di nomi, di vicende spesso ricostruite per la prima volta, non ho mai ricevuto una lettera di rettifica, dico una! E non sono mai stato citato in tribunale, con qualche causa penale o civile. Persino i miei detrattori più accaniti, tutti di sinistra, non sono mai riusciti a prendermi in castagna. Mi hanno lapidato con le parole per aver osato scrivere quello che loro non scrivevano. Però non sono stati in grado di fare altro».

E a proposito di «aggiungere»?

«Come voi sapete meglio di me, nella ricerca storica esistono sempre campi da esplorare e vicende da rievocare. In Italia questa regola vale ancora di più a proposito della Guerra Civile fra il 1943 e il 1948. Parlo del ’48 perché considero l’anno della vittoria democristiana nelle elezioni del 18 aprile la conclusione vera della nostra guerra interna. I campi da esplorare sono molti, anche perché della guerra tra fascisti della RSI e antifascisti non vuole più occuparsene nessuno. I cosiddetti “intellettuali di sinistra” hanno smesso di scriverne perché si sono resi conto che il loro modo di raccontare quella guerra non regge più, alla prova dei fatti e dei documenti. Nello stesso tempo, le tante sinistre italiane non hanno il coraggio di ammettere quella che ho chiamato nel titolo di un mio libro “La grande bugia”. Se lo facessero, perderebbe molti elettori, ossia quella parte di opinione pubblica educata a una vulgata propagandistica della Resistenza. Sul versante di destra constato la stessa reticenza. Un tempo esisteva il MSI, in grado di dar voce agli sconfitti. Oggi i reduci di quell’esperienza, parlo soprattutto del gruppo nato attorno a Gianfranco Fini, si guardano bene dal rievocare il tempo della Repubblica Sociale Italiana. Infine, il Popolo della Libertà ha ben altre gatte da pelare. E a Silvio Berlusconi della Guerra Civile non importa nulla. Di fatto, sono rimasto quasi solo sulla piazza. Questo mi rallegra come autore, però mi deprime come cittadino. Sono ancora uno di quelli che non dimenticano una verità vecchia quanto il mondo: il passato ha sempre qualcosa da insegnare al presente e anche al futuro».

Che cosa risponde a chi nega valore ai suoi libri perché «poco scientifici»? È davvero soltanto una questione di note a margine?

«Mi metto a ridere! Rido e me ne infischio, perché la considero un’accusa grottesca. Questa è l’ultima trincea dei pochi “giapponesi” che si ostinano a difendere una storiografia che fa acqua da tutte le parti. A proposito delle note a piè di pagina, ricordo che tutte le mie fonti sono sempre indicate all’interno del testo, per rispetto verso il lettore e per non disturbarlo nella lettura del racconto. Per quanto riguarda i cattedratici di storia contemporanea, il mio giudizio su di loro è quasi sempre negativo. Ci sono troppi docenti inzuppati, come biscotti secchi e cattivi da mangiare, nell’ideologia comunista. Il Comunismo è morto in gran parte del mondo, ma non all’interno delle nostre università. L’accademia che ho conosciuto nella seconda metà degli anni Cinquanta era molto diversa…».

Com’è un libro di storia «scientifico»? Perché non si toglie lo sfizio e glielo fa? Oppure bisogna necessariamente scriverlo da una cattedra universitaria?

«Se per libro scientifico si intende una ricerca storica fondata su fonti controllate e che racconta fatti veri o comunque il più possibile vicini alla verità, questo è ciò che ho sempre fatto. Anche il libro che uscirà a novembre, se vogliamo usare una parola pomposa che non mi appartiene, è a suo modo un’opera scientifica. Lo è perché l’ho pensato a lungo, ci ho lavorato molto e sono pronto ad affrontare ogni contraddittorio. Ormai la storiografia accademica “rossa” non vuole fare contraddittori con i cani sciolti come me perché ha paura di essere messa sotto. Si nascondono, fanno come le lumache. Mia nonna diceva: “lumaca, lumachina, torna nella tua casina”. Non si fa così: si tengano le loro cattedre sempre più inutili, cerchino di insegnare qualcosa a studenti altrettanto svogliati. Dopodiché quello che posso fare per loro è pagare le mie tasse fino all’ultima lira, come ho sempre fatto. In fondo, io sono tra i finanziatori della ricerca storica universitaria».

A proposito di revisionismo: come giudica quello sul Risorgimento (quello neo-borbonico, ma anche la nostalgia cripto-leghista che ha in mente il Regno Lombardo-Veneto austriaco)?

«Quando ero studente diedi anche un esame di storia del Risorgimento. Non mi ricordo più con chi. Mi appassionava, però confesso di non avere un interesse per quel periodo storico. Mi rendo conto, com’è accaduto per tutte le fasi cruciali, che bisognerebbe andare a vedere anche lì se la storia ci viene raccontata nel modo giusto. Io non santifico nessuno, non mi piace. Non l’ho mai fatto nel mio lavoro di giornalista politico, per cui mi è difficile trovare qualcuno che mi entusiasmi anche tra i leader partitici. E credo che anche sul Risorgimento ci sia molto da rivedere o revisionare. Ma se un partito come la Lega Nord si mette di mezzo e pretende di riscrivere la storia, io me ne ritraggo inorridito…».

Ci fu anche allora, indubbiamente, una guerra civile che prese il nome di «brigantaggio». Ha mai pensato di occuparsene?

«Sul brigantaggio ho letto parecchio, recentemente anche un romanzo bellissimo che racconta di un episodio in Calabria o Campania, adesso non ricordo, della lotta contro i piemontesi. Ritengo che questo fenomeno fosse una forma di resistenza delle classi dirigenti del Mezzogiorno nei confronti dei Savoia per quella che era un’occupazione militare. Lo Stato unitario è certamente nato sul sangue di entrambe le parti, perché non è che i piemontesi siano andati con la mano leggera al sud, e lo dico parlando da piemontese. Del resto, le guerre sono sempre state fatte in queste modo: le vincono non soltanto coloro che hanno la strategia più intelligente, ma anche chi non usa il guanto di velluto. Basti vedere come sono stati i bombardamenti alleati in Italia durante la Seconda guerra mondiale, un altro argomento che gli storici dell’antifascismo e della Resistenza non hanno granché affrontato e che io credo di avere chiarito bene nel prossimo libro, per di più alla mia maniera. Ormai ho imparato che i conflitti bellici sono mattatoi pazzeschi. Ricordo che da bambino vidi passare sulla mia testa, a Casale Monferrato, le “fortezze volanti” americane che andavano a bombardare la Germania. In un primo tempo a scaricare esplosivo sui tedeschi erano gli aerei inglesi del cosiddetto Bomber Command, guidati da questo Harris [sir Arthur Travers Harris, maresciallo dell’aria della RAF, 1892-1984, soprannominato “Bomber Harris” NdR] che anche dai suoi era stato battezzato “Il macellaio” [per la leggerezza con cui mandava a morire i suoi equipaggi NdR]. Anch’io avrei potuto essere un bambino bombardato in Italia, ma grazie a Dio non abitavo vicino ai due ponti sul Po che attraversavano la mia città. Queste sono le guerre. È chiaro che se poi, una volta che sono finite, ci si mettono di mezzo i faziosi che pretendono di raccontarle alla loro maniera, secondo gli interessi di una parte politica, allora non ci si capisce più nulla…».

Come si esce dalle divisioni del passato? Ancora oggi l’ANPI, l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, tessera dei giovani: queste cose hanno senso per lei?

«No, e io sono stato uno dei primi a raccontarlo in qualche mio articolo e anche in un libro. Una sera mi trovavo a Modena, dove mi ero recato a presentare uno dei miei lavori revisionisti, e mi accorsi che sui quotidiani locali c’erano delle pagine pubblicitarie a colori, dunque costose, e delle locandine in cui si invitavano i ragazzi a iscriversi all’ANPI. Tutto questo non ha senso o, meglio, lo ha se si pensa che l’Associazione è oggi un partito politico, minuscolo e molto estremista. Secondo me tutto ciò non ha senso, però se vogliamo capire il fenomeno bisogna dire che l’ANPI è uno strumento nelle mani della Sinistra radicale o, diciamolo meglio, affinché non si offendano, una sua componente: è chiaro che se dovesse fare affidamento soltanto sugli ex partigiani, anche su quelli delle classi più giovani del ’25, ’26 e ’27, oggi i soci sarebbero tutti ultraottantenni. Hanno bisogno di forze fresche e hanno trasformato un’organizzazione di reduci, assolutamente legittima, in un club quasi di partito. Siamo in una situazione di sfacelo delle due grandi famiglie politiche, prima è toccato al centrosinistra e ora sta accadendo per una specie di nemesi al centrodestra, e possiamo immaginarci quanto poco conti l’ANPI in questo scenario. Quando l’Italia diventerà ingovernabile e nessuno sarà in grado di gestirla, ci renderemo conto di come certi leader politici non possano fare nulla».

Come spessore dei personaggi, chi vince tra la Prima e la Seconda Repubblica? E, fra i grandi statisti del passato, chi ci servirebbe oggi?

«È una bella domanda, che però richiede una risposta complicata. Come ho scritto nella prefazione de “I cari estinti”, tanto per citare un mio libro che sta avendo un grande successo, sono un nostalgico della Prima Repubblica. Non ricordo chi lo abbia detto, se Woody Allen o Enzo Biagi, personaggi agli antipodi fra di loro, ma “il passato ha sempre il culo più rosa”. Io sono fatalmente portato a ritenere che i capi partito della Prima Repubblica avessero uno spessore più profondo, diverso, migliore di quelli di oggi, anche se in quel periodo furono commessi degli errori pazzeschi. Prima che quella classe politica si inabissasse per sempre e la baracca finisse nel rogo di Tangentopoli – non tutta naturalmente, perché il PCI fu graziato dalla magistratura inquirente – negli ultimi quattro-cinque anni si accumulò un debito pubblico folle, che è la palla al piede che ci impedisce di correre e, soprattutto, diventa una lama d’acciaio affilata che incombe sulle nostre teste. Non ho mai votato la DC, anche perché sono sempre stato un ragazzo di sinistra, ma ho una certa nostalgia della “Balena Bianca”. Il grande merito della Democrazia Cristiana fu di vincere le elezioni del 18 aprile, perché se nel 1948 avesse prevalso il Fronte Popolare, non so che sorte avrebbe potuto avere questo Paese. Secondo me ci sarebbe stata un’altra guerra civile, se non altro per il possesso del nord Italia, anche se poi la storia non si fa con i “se”. Per fortuna, lì si impose Alcide De Gasperi in prima persona. Ero molto giovane, ma quello è un leader al quale ho visto fare grandi cose nei rapporti con gli elettori. Ma pure i leader dell’opposizione a vederli da vicino erano cosa altra da adesso. Anche di Enrico Berlinguer, che era una specie di “santo in terra”, mi resi subito conto di che pasta fosse da un punto di vista politico, più che umano. Quando lo intervistai per il “Corriere della Sera”, alla vigilia delle elezioni politiche del 1976, mi disse che si sentiva molto più al sicuro sotto l’ombrello della NATO che non “protetto” dal Patto di Varsavia. Queste risposte eterodosse sull’Alleanza Atlantica e il PCI non le pubblicò “l’Unità”, censurando di fatto il segretario del Partito, perché avevano suscitato i malumori dell’ambasciata dell’URSS a Roma. Però gli stessi concetti mi furono ribaditi dal leader comunista, senza battere ciglio, anche in televisione durante una tribuna elettorale. Evidentemente, tutto ciò non doveva finire su “L’Unità”, che era letta come il Vangelo dai militanti comunisti, mentre in tivù si poteva dire qualsiasi cosa».

Secondo lei chi è stato il più grande? E perché?

«Io direi che oggi ci servirebbe un uomo molto pratico ed energico come Amintore Fanfani, che ha curato i nostri interessi sotto molti aspetti, oppure un temporizzatore tranquillizzante come Mariano Rumor. Con tutto il rispetto per la sua figura e la fine che ha fatto, non so invece se ci occorrerebbe un Aldo Moro. A sinistra ci vorrebbe un tipo come Craxi, diciamoci la verità: Bettino aveva un grande orgoglio di partito, ma non pendenze storiche che sarebbero state sconvenienti da mostrare come accadeva a molti leader del PCI. In conclusione, ci servirebbe un leader democratico e liberale in grado di imporsi con autorità e autorevolezza per mettere fine a questa guerra civile di parole di cui in Italia non ci rendiamo troppo conto e che diventa sempre più violenta. Il più grande di tutti resta comunque De Gasperi, un uomo affascinante, brillante e capace: se non sbaglio fece sette governi, si ritirò a metà dell’ottavo per il venir meno della fiducia e fu per undici mesi segretario della DC prima di morire nel 1954. È stato il politico che ha concesso a me e a voi, in un giorno d’estate del 2010, di procedere in quest’intervista senza paura di dire come la pensiamo».

Come giudica, anche da piemontese, il modo con cui l’Italia si appresta a «festeggiare» i primi centocinquant’anni di vita nel 2011 e le dimenticanze su Cavour in questo 2010?

«Vi dirò una cosa: io sono contrario alle celebrazioni, anche le più oneste. Non servono a nulla, se non a far girare un po’ di consulenze, a far lavorare qualche storico, vero o presunto che sia, gli architetti, qualche grafico e chi si occupa di opere pubbliche per tirar su mostre, ripristinare un museo e via dicendo. Non me ne importa nulla e non sono affatto d’accordo. Chi vuole approfondire la storia del Risorgimento, trova già tutto: basta che vada in una buona libreria e si faccia consigliare da qualche bravo insegnante, magari di liceo, che spesso è anche più competente di tanti docenti universitari…».

Che popolo sono gli italiani? È giusto dire che dimenticano tante cose belle e si accapigliano a distanza di secoli sempre sulle stesse cose?

«Io ho un’idea abbastanza precisa di come siamo: un popolo in declino, che non è all’altezza delle nazioni con le quali dovremmo confrontarci. L’Italia è un Paese di “serie B”, che presto scenderà in “serie C”, con una squadra di calcio che non combina più nulla da un sacco di anni. La gente è sfiduciata e non vuole più saperne della politica, anche per come è la politica oggi. I giovani sono in preda ai “fancazzismi” più esasperati e affollano le università per lauree assurde, vere e proprie anticamere della disoccupazione. A un sacco di ragazzi se chiedi che cosa vogliono fare da grandi, non sanno risponderti, perché non vogliono nulla. Questo è un Paese per vecchi che diventano sempre più vecchi e io mi metto in cima alla lista, perché a ottobre di anni ne avrò settantacinque. Quand’ero giovane l’Italia era un contesto più generoso e che osava, baciato da miracoli economici successivi, in cui il figlio di un operaio del telegrafo e di una piccola modista, allevato da una nonna analfabeta come Giampaolo Pansa, poteva andare all’università, laurearsi e fare il giornalista, che era la cosa che avrebbe sempre voluto fare. Adesso l’Italia è un deserto di speranze, ma anche i giovani non si accontentano mai. Oggi se ho bisogno di un idraulico, di un falegname o di un elettricista, o trovo dei signori ultracinquantenni, o mi affido a giovani molto bravi che quasi sempre sono extracomunitari. Vallo a spiegare ai ragazzi italiani che gli studi universitari non garantiscono più nulla…».

Pansa: ogni italiano è figlio di un fascista. Per oltre vent'anni nessuno si oppose al regime del Duce. Solo la conduttrice de "Le invasioni barbariche" sembra ignorarlo, scrive Giampaolo Pansa su “Libero Quotidiano”. Mi ha fatto tenerezza la signora Daria Bignardi nel corpo a corpo con un deputato grillino, Alessandro Di Battista. Era in diretta su La7 per le sue Invasioni barbariche e tentava di mettere in difficoltà il grillino sul padre fascista. Deliziosa ingenuità quella di madamin Bignardi. Risultava chiaro che nessuno le aveva spiegato che per vent’anni, dal 1922 al 1943, tutti gli italiani sono stati fascisti, hanno adorato Benito Mussolini, gli hanno obbedito e si sono fatti accoppare per lui. Fino alla notte del 25 luglio, quando un gruppo di gerarchi, e non un’insurrezione popolare, mandò a gambe all’aria il Duce. Nel mio piccolo, sono stato anch’io un fascista, essendo venuto al mondo il 1° ottobre 1935, in pieno regime mussoliniano. Il giorno successivo alla mia nascita, la sera del 2 ottobre, dal balcone di palazzo Venezia il Duce annunciò all’Italia di aver dichiarato guerra all’Etiopia. Per volere di Benito, il discorso venne trasmesso in tutto il Paese, nelle piazze dove milioni di persone stavano in religiosa attesa del suo verbo. Tra i tantissimi raccolti nella piazza principale della nostra città, doveva esserci anche mio padre Ernesto, operaio delle Poste con la mansione di guardafili del telegrafo. E in quanto dipendente statale precettato per l’adunata in onore dell’attacco al maledetto Negus, al secolo Hailè Selassiè. Però mio padre in piazza del Cavallo non ci andò. Gli era appena nato un figlio, il primo, e questo evento gli sembrava un motivo più che valido per restare accanto alla moglie, mia madre Giovanna. Devo ricordare che in quel tempo le donne partorivano in casa con l’assistenza di una levatrice, ossia di un’ostetrica. Così aveva fatto Giovanna, urlando un paio d’ore poiché ero grosso e lungo. E non volevo saperne di uscire dalla sua pancia. Il giorno successivo, era il 3 ottobre, due della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale si presentarono in casa nostra e chiesero a Ernesto perché mai non fosse andato anche lui in piazza ad ascoltare il Duce. Mio padre spiegò che gli era appena nato un figlio. «Maschio o femmina? », domandarono i militi. «Maschio», rispose Ernesto. E i militi, una coppia di bonaccioni in divisa e camicia nera, si congratularono: «Ottimo! Anche lui diventerà un soldato della Patria fascista». Mio padre gli offrì un bicchiere di Barbera che bevvero alla salute di mia madre e dell’inconsapevole sottoscritto, addormentato nella culla. E l’ispezione finì lì. A vestire la divisa di soldato del Duce non feci in tempo perché il regime cadde molto prima. In compenso, il 1° ottobre 1941, giorno del mio sesto compleanno, divenni un Figlio della lupa. Era il gradino iniziale della scala inventata per la gioventù del regime. A sette anni, in seconda elementare, si restava sempre Figli della Lupa. A otto si diventava Balilla. Si chiamava Balilla anche il giornaletto che leggevo, una specie di concorrente del Corrierino dei piccoli. Lì avevo imparato chi erano i nemici dell’Italia. Re Giorgetto d’Inghilterra. Il ministro Ciurcillone. Rusveltaccio Trottapiano, presidente americano, che ubbidisce alla signora, la terribile Eleonora. Ma i più pericolosi erano i russi che si ammazzavano tra di loro. Il terribile Stalino, l’Orco rosso del Cremlino, dice urlando come un pazzo alle guardie del palazzo: i compagni qui segnati siano tutti fucilati! Nell’estate del 1943, conclusa la seconda elementare, i miei genitori decisero di mandarmi alla colonia montana delle Regie Poste di Alessandria. Era un luogo triste, nascosto fra alture basse vicine a Biella, dove pioveva sempre. Le giornate si aprivano con l’alza bandiera e le preghiera del Balilla, recitata a turno da uno dei ragazzini: «Signore, benedici il Duce nostro nella grande fatica che Egli compie. E poiché l’hai donato all’Italia, fallo vivere a lungo per la Patria e fa’ che tutti siano degni di lui...». Ogni mattina, dopo il caffelatte, cominciava l’ora di dottrina fascista. Ed era l’unica vera attrazione della giornata. Il merito andava all’insegnante: una ragazzona maestosa, un trionfo di capelli rossi e un seno stupefacente, figlia del capostazione della nostra città. Era una cliente della modisteria di mia madre e aveva fatto impazzire il panettiere del negozio accanto. Quando andavo a comprare il pane, il fornaio mi domandava: «Le hai viste quelle tette? Darei mille lire per poterle pastrugnare! ». Ma la maggiorata dai capelli rossi non badava alle occhiate dei maschi, tanto meno alle nostre di ragazzini troppo arditi. E per tenerci a bada, escogitava ogni giorno una preghiera per il Duce. A me ne toccò una che recitava: «Gioventù italiana di tutte le scuole, prega che la Patria non manchi al suo radioso avvenire. Chiedi a Iddio che il ventesimo secolo veda Roma centro della civiltà latina, dominatrice del Mediterraneo, faro di luce per le genti del mondo». Un mese dopo, era la fine del luglio 1943, tutto sembrò sparire con la caduta del Duce. In piazza si videro molte manifestazioni di giubilo, ma la maggior parte della gente se ne restò a casa. La guerra iniziata nel 1940, e i tanti ragazzi morti su troppi fronti, stavano allontanando dal fascismo un numero sempre più grande di italiani. Ma nessuno aveva il coraggio di riconoscere di essere stato un fascista senza pentimento. E di aver sostenuto con entusiasmo un regime che adesso ci aveva portato al disastro. Il nostro fascismo esistenziale lo si constatò sino in fondo in due momenti terribili che confermarono la natura crudele della dittatura di Mussolini. Il primo, nel 1938, fu il varo delle leggi razziali contro gli ebrei. Il secondo l’inizio delle deportazioni nei campi di sterminio nazisti di migliaia di israeliti, quando l’Italia del centro e del nord stava sotto la Repubblica sociale, un regime sostenuto dai tedeschi. Mi rammento bene quel che accadde in quei momenti. Per il motivo che non accadde nulla. Nella mia piccola città, gli ebrei perseguitati e poi uccisi nelle camere a gas li conoscevamo tutti. Erano nostri vicini di casa, insegnanti nelle nostre scuole, medici che ci avevano curato, clienti della modisteria di mia madre. Ma nessuno aprì bocca. Pochi li compatirono. Pochissimi gli offrirono un aiuto. Quando ci ripenso oggi, mi rendo conto di una verità terribile. Pure in casa mia, dove ogni sera si discuteva di tutto, della guerra, del fascismo, di Mussolini e dei suoi gerarchi, della Repubblica sociale e dei tedeschi, nessuno disse anche una sola parola sulla fine di persone identiche a noi. E mi domando se, insieme al nostro fascismo mentale, dentro il cuore di ciascuno non si celasse il mostro dell’indifferenza disumana, della cattiveria, della ferocia. Per tutto questo mi sembra grottesco che nell’Italia del 2014 qualcuno chieda a qualcun altro: tuo padre era fascista, tuo nonno portava la camicia nera? La verità è che tutti eravamo fascisti o ci comportavamo come se lo fossimo. Oggi la mia speranza è che lo sfacelo della nostra classe politica non metta in pista qualche nuovo signore autoritario che ci obblighi a innalzare la bandiera voluta da lui. Il colore non importa. Però mi domando quanti accetterebbero di sventolarla. E temo che anche stavolta non sarebbero pochi.

Prima di “Bella ciao” la canzone più nota era “Eia eia alalà”. La cantavano gli italiani sbarcati in Albania per spezzare le reni alla Grecia. Poi i Figli della Lupa e i piccoli Balilla. “La verità è che tutti eravamo fascisti o ci comportavamo come se lo fossimo” scrive Giampaolo Pansa che quell’Italia l’ha vissuta e poi l’ha raccontata per demolire soprattutto la mitizzazione arbitraria della guerra civile. Perché l’Italia è stata una nazione in grandissima parte attratta dal Fascismo, tutti gli italiani sono stati fascisti, hanno adorato Mussolini e gli hanno obbedito, almeno fino alla notte del 25 luglio 1943 quando un gruppo di gerarchi, e non un’insurrezione popolare, mandò a gambe all’aria il Duce. Nell'Italia del Duemila può presentarsi l'avventura autoritaria di un nuovo Benito Mussolini? Anche oggi siamo un paese strozzato da una crisi pesante, con una casta di partiti imbelli e un possibile conflitto tra ceti diversi. Sono queste assonanze con gli anni Venti del Novecento che hanno spinto Giampaolo Pansa a scrivere "Eia eia alalà", un antico grido di vittoria riesumato dallo squadrismo fascista. Il racconto inizia con la lotta di classe esplosa tra il 1919 e il 1922, guidata dai socialisti e sconfitta dall'inevitabile reazione della borghesia. Il nero nacque dal rosso: l'estremismo violento delle sinistre non poteva che sfociare nella marcia su Roma di Mussolini, il primo passo di una dittatura ventennale. La ricostruzione di Pansa ruota attorno a un personaggio esemplare anche se immaginario: Edoardo Magni, un agrario padrone di una tenuta tra il Monferrato e la Lomellina. Coraggioso ufficiale nella Prima guerra mondiale, finanziatore delle squadre in camicia nera, all'inizio convinto della necessità di una rivoluzione fascista ma via via sempre più disincantato. Sino a diventare un sostenitore del leader squadrista dissidente Cesare Forni, ritenuto da Mussolini un nemico da sopprimere. Magni è il protagonista di un dramma a metà tra il romanzo e la rievocazione storica, gremito delle tante figure che attorniano il Duce, una nomenclatura potente descritta con realismo. In Eia eia alalà Pansa accompagna il protagonista nello scorrere degli anni e nella sfiducia crescente verso il regime. Abbiamo di fronte un ricco signore alle prese con tante incertezze e molti amori: Marietta, Rosa, Anna, Elvira e infine Marianna. Sarà questa giovane donna ebrea incontrata nel ghetto di Casale a fargli scoprire lo sterminio degli israeliti della città, con un viaggio tormentato che alla fine la condurrà a una decisione inaspettata. Grazie alle ricerche di Marianna, Magni conosce una dopo l’altra le storie degli ebrei uccisi ad Auschwitz. Nell’indifferenza gelida dei tanti che si voltavano dall’altra parte e fingevano di non vedere. Eia eia alalà è anche l’affresco di un’Italia che assomiglia non poco a quella di oggi: distratta, egoista e forse pronta ad accettare nuove tragedie.

.. Pansa: "Vi racconto l'Italia in cui tutti, o quasi, gridavano Eia Eia Alalà". Nel suo nuovo libro Giampaolo Pansa autore del «Sangue dei vinti» ricostruisce l'ascesa del fascismo e il consenso di massa al regime. Che molti dimenticano..., scrive Matteo Sacchi su “Il Giornale”. Si chiama Eia Eia Alalà ed è in libreria da oggi. Se non bastasse il titolo (a caratteri cubitali rossi in stile molto littorio), ci pensa il sottotitolo a spiegare che cosa si può trovare in questo volume (Rizzoli, pagg. 378, euro 19,90) a firma Giampaolo Pansa: Controstoria del fascismo. Pansa infatti, usando l'artificio del romanzo - «a me il lettore piace acchiapparlo per la coda, non annoiarlo a colpi di saggio» - mette i puntini sulle «i» della storia italiana della prima metà del '900 per spiegare che cosa sia stato e come sia nato il Ventennio mussoliniano. Il suo espediente narrativo è partire dalla sua terra e raccontare attraverso le vicissitudini del possidente terriero Edoardo Magni (personaggio di fantasia, ma nel libro ce ne sono molti realmente esistiti) come l'Italia sia diventata, convintamente, fascista. E lo sia rimasta a lungo. Non c'è bisogno di dire, viste le scomode verità venute a galla con i suoi precedenti libri (a partire da Il sangue dei vinti) e il tema, che la polemica è garantita. E che qualche gendarme della memoria, per usare un'espressione dello stesso Pansa, avrà qualcosa da dire.

Dunque, Eia Eia Alalà. L'urlo di una generazione?

«Non sai quante volte l'ho sentito gridare quando ero bambino ed ero un Figlio della Lupa. Ho anche una foto in cui, piccolissimo, facevo il saluto romano, davanti al monumento ai Caduti. Non ho fatto in tempo a diventare balilla, però. Il regime è caduto prima. E per quanto in casa dei gerarchi sentissi dire peste e corna. Il sottofondo della vita degli italiani era quello lì».

Per questo l'hai scelto come titolo?

«In parte, volevo anche un titolo che cantasse. Che rendesse l'idea di quello che a lungo il regime è stato per gli italiani. L'avventura del fascismo è stata legata all'idea di vincere, di migliorare il Paese. Rende l'idea di quella giovanile goliardia che affascinò molti. Un fascino che iniziò a incrinarsi solo con le orribili leggi razziali e crollò definitivamente solo con gli orrori della guerra».

Non molti hanno voglia di ricordare che il fascismo ebbe davvero una presa collettiva. Tu invece questo lo racconti nel dettaglio...

«Ho voluto fare un racconto senza il coltello tra i denti. Che cosa rimprovero io a storici, anche molto più bravi di me che di solito scrivono su Mussolini? Ma di avere una partecipazione troppo calda, schierata. Io, anche grazie all'invenzione di un personaggio come Magni, invece ho cercato di fare un racconto neutrale. Per chi c'era è un'ovvietà che il fascismo ebbe un consenso di massa. Tutti erano fascisti tranne una minoranza infima. Gli antifascisti erano una scheggia microscopica rispetto a milioni di italiani. Gli italiani ieri come oggi volevano solo un po' di ordine... E Mussolini glielo diede. Ai più bastò».

Tu attribuisci molte responsabilità ai socialisti che favorirono involontariamente il successo del fascismo, regalandogli il potere... A qualcuno verrà un colpo!

«La guerra perpetua tra rossi e neri creava sgomento. Gli scioperi nelle città, ma soprattutto nelle campagne crearono il caos... Si minacciò la rivoluzione senza essere capaci di farla davvero. Si diede l'avvio alle violenze senza calcolare quali sarebbero state le reazioni. E per di più, esattamente come la sinistra attuale, i socialisti erano perpetuamente divisi. Pochi capirono quanto fosse grave la situazione. Tra questi Pietro Nenni, il quale a proposito della scissione comunista del 1921 scrisse: "A Livorno è cominciata la tragedia del proletariato italiano"».

Però qualche responsabilità la ebbe anche la borghesia italiana, o no?

«Noi non avevamo la tradizione liberale di altri Paesi. Ed eravamo in una situazione economica terribile che a tratti mi ricorda quella di oggi. C'erano dei partiti-casta in cui la gente non si riconosceva e lo scontro tra ceti (o classi) era alle porte... Il nero è nato dal rosso, la paura ha fatto allineare gli italiani come vagoni ferroviari dietro a Mussolini. Non per obbligo, nonostante le violenze degli squadristi. Sono stati conquistati dalla grande calma dopo la marcia su Roma. L'italiano dei piccoli centri, delle professioni borghesi, voleva soltanto vivere tranquillo. Avuta la garanzia di una vita normale e dello stipendio a fine mese, di chi fosse a palazzo Chigi o a palazzo Venezia gli importava poco».

Qualunquismo?

«L'Italia continuava a essere soprattutto un Paese agricolo. Lo sciopero agrario del 1920 rischiò di paralizzare la campagna. Le leghe rosse impedendo la mungitura, nel libro lo racconto, minacciarono di far morire le mucche... Da lì nacque un fascismo virulento e tutto particolare che poi si prese la rivincita. Il fascismo è stato il ritratto di gruppo degli italiani. C'era dentro di tutto. C'erano molte forze vitali e diverse. Poi il criterio dell'obbedienza cieca, pronta e assoluta che tanto propagandava Starace fece sì che nel cerchio di persone più vicine al Duce si andasse verso una triste selezione al ribasso».

In Eia Eia Alalà descrivi la parabola triste di molti fascisti «diversi».

«La scollatura tra italiani e regime iniziò con le leggi razziali, non prima. Lì inizio il male assoluto, la vergogna. Una delle figure più tragiche del libro è Aldo Finzi. Di origine ebraica, aviatore, fascista della prima ora, poi messo ai margini e fucilato alle Fosse Ardeatine. Poi è arrivata la guerra e la rimozione di massa».

Ma davvero vedi così tante assonanze tra l'oggi e l'avvento del fascismo?

«È possibile non vederle? L'unica variante è il terrorismo internazionale. Ed è una variante peggiorativa».

“All’epoca dell’Italia che gridava eia eia alalà, Giampaolo Pansa era un bambino” scrive Federico Guiglia del Messaggero.

«Ma quel grido lo sentivo di continuo», ricorda il giornalista e scrittore. Ha appena pubblicato un libro che proprio quelle parole riporta in copertina: Eia eia alalà, controstoria del fascismo, Rizzoli editore. Un racconto sul passato per dire del presente: guardate che cos’è successo, e può ancora succedere, lui dice. «Quando il fascismo è caduto, io avevo sette anni e mezzo ed ero figlio della Lupa a Casale Monferrato», riprende il filo del discorso. «Ho pure una foto scattata da mio padre davanti al monumento ai Caduti della prima guerra mondiale, in cui apparivo vestito in quel modo un po’ ridicolo con fasce bianche e camicia nera e facevo il saluto romano. Insieme con la canzone «Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza», eia eia alalà era un po’ il “jingle” del fascismo». «Il nero nacque dal rosso» è la riflessione-chiave dei personaggi del libro (dall’immaginario possidente terriero Edoardo Magni al vero edicolante di Pansa citato in prefazione).

Ma socialisti e fascisti erano nemici irriducibili: come fa a imputare ai primi la nascita dei secondi?

«Guardiamo le date. Nel 1915 per noi comincia la prima guerra mondiale, che finisce nel novembre del 1918. I soldati tornano a casa e la grande maggioranza di loro erano poveracci e contadini. S’assiste all’espansione politica e sindacale della sinistra di allora. C’era il Partito socialista. C’erano le leghe operaie e contadine che nell’Italia della pianura padana si svilupparono molto. Dopo la prima vittoria elettorale del Partito socialista, comincia quello che Pietro Nenni chiamò il biennio rosso. Non soltanto una serie di scissioni a sinistra, ma soprattutto questi matti delle leghe che annunciavano l’arrivo del bolscevismo e della rivoluzione. Dicevano che l’Italia doveva fare come Lenin. Violenze dappertutto, in particolare nelle campagne. Basta ricordare il grande sciopero agrario del 1920, quando le leghe rosse, per piegare i proprietari agricoli, ordinarono ai braccianti e ai mungitori di lasciar morire le vacche per non essere munte».

Sta dicendo che, per paura del rosso, gli italiani diventano neri?

«A ogni azione corrisponde una reazione. È quello che non hanno capito le sinistre, la frazione che nel 1921 fondò a Livorno il Partito comunista, i massimalisti. L’hanno capito un po’ i socialisti riformisti e l’hanno scritto sul loro giornale, La Giustizia. Non è che il fascismo è un mostro che nasce per caso. È un mostro che viene creato dai suoi avversari, che fanno di tutto per spaventare la borghesia».

La sindrome per l’uomo solo al comando ha colpito una volta sola o può colpire ancora il sentimento, le paure, il conformismo di tanti italiani?

«La sindrome la vediamo anche oggi. Quando un presidente del Consiglio invece di rivolgersi al Parlamento si rivolge alla gente e vuole essere solo a decidere, il rischio c’è sempre. È proprio uno dei motivi per cui ho scritto il libro. Com’era l’Italia del 1920/21? Stremata dal punto di vista economico dopo una guerra mondiale pazzesca. Aveva una classe politica, oggi diremmo una casta, screditata, ritenuta imbelle e corrotta. E poi c’erano i conflitti sociali. Ci sono affinità con l’Italia di oggi? Temo di sì. E poi gli italiani sono gente che ama essere comandata da un signore solo. Questo non è il Paese dalla tradizione democratica inglese o americana».

Fin dai tempi della storia narrata nei libri di Montanelli, gli storici non amano i giornalisti che si cimentano sul loro terreno. Avendo lei mescolato romanzo e storia non teme di avallare il loro pregiudizio?

«Non me ne frega nulla del pregiudizio. Bisogna avere una patente speciale per scrivere di storia come per guidare la Ferrari? Io ho profonda disistima per la classe accademica degli storici italiani, che è egemonizzata dai postcomunisti. Quando nel 2003 ho pubblicato Il Sangue dei vinti, che ha venduto più di un milione di copie, sono stato bombardato da tutte le parti. Ma io li conosco. Sono stato uno studente diligente, facendo una tesi di laurea – poi pubblicata da Laterza – sulla guerra partigiana. Arrivato a settantanove anni, Pansa ha soltanto uno di cui preoccuparsi: il Padreterno. Non ho ancora capito quanto tempo mi lascerà per scrivere e rompere le scatole al prossimo. Ma non ce l’ho con tutti i professori. Ho un grandissimo rispetto per Renzo De Felice, di cui sono stato allievo indiretto avendo letto tutti i suoi libri. E non solo lui».

De Felice fu il primo a parlare di “anni del consenso” per il fascismo, almeno fino alle vergognose leggi razziali del 1938.

«Il consenso c’era, non l’ha inventato De Felice. Non è vero che Mussolini è arrivato e ha ammanettato milioni di italiani. Gli italiani sono stati quasi tutti fascisti. Tranne una minoranza infima di comunisti, cattolici, socialisti repubblicani, anarchici che stavano in galera o costretti a espatriare. Poi c’era chi si iscriveva al fascio perché obbligato, perché gli conveniva, per quieto vivere. Se oggi spuntasse un altro Mussolini, avremmo un po’ di manifestazioni in piazza, ma la maggioranza degli italiani gli andrebbe dietro. L’attualità del mio libro è proprio questa: guardate un po’ che cosa è successo, come la storia drammatica degli ebrei deportati nella primavera del ’44 che racconto. E la gelida indifferenza di tanti che si giravano dall’altra parte».

"A 10 anni dal "Sangue dei vinti" lotto ancora con le bugie rosse". Il giornalista che per primo ha raccontato gli orrori della guerra civile ha scritto una nuova prefazione al suo "classico". E ci racconta perché, scrive Matteo Sacchi su “Il Giornale”. Dieci anni fa un grosso sasso, quasi un meteorite, precipitò da grande altezza nel piccolo stagno della storiografia italiana. Uno stagno dove a gracidare erano, chi meglio chi peggio, più o meno sempre gli stessi, e da un bel po'. A lanciarlo un «non professionista», in senso accademico, della Storia: il giornalista Giampaolo Pansa. Con il suo Il sangue dei vinti (Sperling&Kupfer) riproponeva il tema delle uccisioni sommarie praticate dai partigiani durante la guerra civile, dall'8 settembre 1943 al 25 aprile 1945. E non solo. Metteva per la prima volta in luce i virulenti strascichi di quello scontro. Le numerosissime esecuzioni sommarie proseguite sino al 1948. Soprattutto in quello che era conosciuto come il «Triangolo della morte» che aveva per vertici Castelfranco Emilia, Piumazzo e Mazzolino. E spesso a morire non erano solo i fascisti, ma chiunque venisse visto come d'ostacolo a una futura rivoluzione comunista. Il libro, come è noto, fu subito aggredito dai "guardiani della memoria" partigiana. Spesso senza nemmeno una lettura sommaria, a prescindere. Oggi a dieci anni di distanza, seppure molto a fatica, la percezione sul tema è cambiata. Ecco perché a questa nuova edizione (Sperling&Kupfer, pagg. 382 euro 11,90) Giampaolo Pansa ha aggiunto una nuova prefazione in cui si leva qualche sassolino dalla scarpa: «"Arrendetevi siete circondati!". Urla così Beppe Grillo... Il suo grido di battaglia mi sembra adatto a descrivere una situazione molto diversa. Anche gli avversari dei miei libri sulla guerra civile sono nei guai. Hanno scelto di farsi circondare da se stessi, rifiutando qualsiasi revisionismo sull'Italia tra in 1943 e il 1945. E dovrebbero arrendersi alla sconfitta». Ne abbiamo parlato con lui.

Ma a dieci anni dal Sangue dei vinti che sensazione ha provato a tornare su quelle pagine?

«Io ho scritto moltissimi libri e di norma non li rileggo mai dopo che ho licenziato le seconde bozze... Ho fatto così anche col Sangue dei vinti: l'ho tenuto lì come fosse il libro di un altro. Rileggendolo ora, quando l'editore mi ha chiesto di ripubblicarlo mi sono reso conto davvero di quanto sia gonfio di sangue, di esseri umani citati per nome e per cognome, di morti terribili. È per questo che ho accettato la ripubblicazione, penso possa avere un senso per i giovani, per chi aveva dieci anni quando è uscito la prima volta e ora ne ha venti... Credo possa raccontare molto anche a questa Italia di oggi cosa sia stato quel conflitto civile che è durato sino al '48. Perché io sono convinto che la guerra intestina sia finita con il 18 aprile del 1948 quando De Gasperi, vincendo le elezioni, mise il Paese su un binario di tranquillità».

All'uscita il libro provocò il finimondo. Se lo aspettava?

«No, si fece molto più "rumore" di quanto all'epoca potessi prevedere. Forse in un certo senso perché il mio libro dimostrava che era errato il principio secondo cui la Storia la fanno soltanto i vincitori. Quella dei vincitori è una storia bugiarda. Solo che questo era inaccettabile per molti, e in parte è inaccettabile ancora oggi. C'era e c'è chi pensa che i fascisti avessero un solo dovere: quello di stare zitti, senza nemmeno poter ricordare i propri morti. Ma soprattutto non scrivere. Ma io non volevo una storia di parte, a me interessavano i fatti, raccontare che l'Italia rischiò di diventare l'Ungheria del Mediterraneo».

E Lei arrivava da sinistra...

«Sì, io non mi chiamavo Giorgio Pisanò. Io di Pisanò ho sempre avuto grandissima stima: è stato un pioniere in questi studi. Ma Giorgio veniva delegittimato perché veniva dal mondo del fascismo... era chiaramente un intellettuale di destra».

Alla fine Il sangue dei vinti è diventato un ciclo. Lei è rimasto a lungo in questo filone.

«Il ciclo è iniziato per essere precisi col libro precedente, I figli dell'Aquila, e poi è proseguito con altri titoli come Sconosciuto 1945, La grande bugia, I gendarmi della memoria. E se io sarò ricordato per qualcosa credo che lo sarò proprio per il ciclo del Sangue dei vinti. Me ne accorgo perché le persone mi fermano per ringraziarmi... Certo se vado in una zona dove dominano i centri sociali è l'opposto. Io dovuto smettere di andare a parlare in pubblico. Per fortuna i libri buoni si fanno strada da soli...».

Ecco, allora partendo dal tuo titolo parliamo anche dei “gendarmi della memoria”. Nell'introduzione cita Sergio Luzzatto, che con Lei era stato molto duro, e ora a causa del suo Partigia è finito sotto il tiro incrociato di altri gendarmi...

«Già quando presentai I figli dell'Aquila a Genova Luzzatto mi sottopose a un assalto verbale non indifferente... Ora lui ha scritto Partigia. Io l'ho letto e per me non racconta una storia diversa da molte altre... Certo per uno come lui significa rimangiarsi un atteggiamento che prima non ha mai voluto cambiare. Mi ha dato anche atto di aver scritto i miei libri con rispetto della verità... Ovviamente, però, appena si è messo fuori dal giro dei "gendarmi della memoria", non gliel'hanno perdonata. Infatti cosa è accaduto? Sebbene in modo più soft di come fecero con me, gli sono andati tutti addosso. Ho letto le cose velenose scritte da Gad Lerner, che credo non abbia neppure aperto il saggio. Lo ha demolito senza pietà. Anche con Il sangue dei vinti iniziarono il fuoco di sbarramento sette-otto giorni prima di avere il libro a disposizione. Ne cito due per tutti: Giorgio Bocca e Sandro Curzi... Ma non è elegante far polemica con chi non c'è più. Qualcuno arrivò a dire che avevo scritto Il sangue dei vinti per compiacere Berlusconi che mi avrebbe poi ricompensato con la direzione del Corriere della Sera... Cose deliranti. Provocate da code di paglia chilometriche. Eppure i gendarmi sanno bene che queste cose sono accadute. Io ho ricevuto in dieci anni 20mila lettere che provano quei fatti».

Faccio l'avvocato del diavolo. Non hai mai pensato che le sue inchieste siano state sfruttate, a destra, anche politicamente?

«C'è una destra fatta di persone che hanno subìto per decenni il silenzio. Sono contentissimo di averli aiutati. Ma la destra politica non aveva molti mezzi culturali per sostenere queste battaglie. Già nella Prima Repubblica si diceva che la Dc pensava agli affari, mentre il Pci ai mezzi di propaganda culturale. Le cose non sono cambiate di molto. Io non sono mai stato invitato da Fabio Fazio, e sappiamo quanto questo possa contare per un libro. Ma in fondo questo è niente. Contiamo quante cattedre di Storia contemporanea sono affidate a docenti di sinistra... Ed è una materia fondamentale».

Quanti anni ci vorranno per arrivare a un giudizio equanime su questo periodo?

«Prima o poi succederà. La Storia è una talpa che scava, prima o poi esce fuori. La verità emergerà, ammesso che si abbia ancora interesse a cercarla».

La nostra storia. Illusi e disillusi dal fascismo nel nuovo libro di Giampaolo Pansa, scrive Dino Messina su “Il Corriere della Sera”. Fascismo «autobiografia della nazione», come sostenne Piero Gobetti, oppure parentesi della storia italiana, come scrisse Benedetto Croce? Dopo aver letto il nuovo libro di Giampaolo Pansa “Eia eia alalà”, edito da Rizzoli (pagine 376, euro 19,90), abbiamo rafforzato la convinzione che avesse ragione Gobetti. Attraverso il punto di vista di un personaggio di invenzione, Edoardo Magni, proprietario terriero tra il Monferrato e la Lomellina, Pansa racconta in forma di romanzo, in pagine ricche di fatti reali, di colpi di scena (e anche di sensualità), il dramma di un popolo all’indomani del primo conflitto mondiale. Un Paese, soprattutto al Nord, dilaniato dallo scontro tra le potenti organizzazioni sindacali, un Partito socialista massimalista, e una classe borghese timorosa che l’Italia potesse fare la fine della Russia bolscevica. In questa vicenda, come sa chi ha nozioni di storia (l’autore cita i classici di Renzo De Felice e di Emilio Gentile), ebbero un ruolo fondamentale i reduci della Grande guerra, gli ufficiali che avevano combattuto per più di tre anni e che si trovarono spaesati nella nuova Italia. Reduce è il protagonista immaginario del romanzo, così come lo erano tanti personaggi storici realmente vissuti. A cominciare da Cesare Forni, tenente d’artiglieria tra i primi ad aderire ai Fasci di combattimento, protagonista della reazione agraria, a capo dei manipoli che misero a ferro e fuoco Milano con gli assalti alla sede dell’«Avanti!» e a Palazzo Marino. Un ras locale che presto si mise in contrasto con il regime, al punto da subire un’aggressione davanti alla stazione di Milano dagli stessi sgherri di Mussolini (Amerigo Dumini, in primis) che sequestrarono e uccisero Giacomo Matteotti nel giugno 1924. Due terzi del libro di Pansa sono dedicati agli albori e all’avvento del fascismo, prima che diventasse regime. È la storia di un’illusione e di una rapida disillusione, almeno per i protagonisti messi a fuoco da un grande giornalista che si è saputo reinventare come scrittore, sia di libri importanti di storia (checché ne abbia scritto qualche accademico con la puzza al naso) come “Il sangue dei vinti”, in cui ha messo in luce il lato oscuro della Resistenza, sia di romanzi come questo. La forza di “Eia eia alalà” sta anche in una narrazione della storia del fascismo, o meglio della sua «controstoria», come recita il sottotitolo, da un punto di vista locale, quello delle terre attorno a Casale Monferrato dove Pansa è nato nel 1935 e a cui ha dedicato pagine importanti. Scontri sociali e intrighi politici sono raccontati in maniera del tutto originale: voce narrante, si diceva, è il latifondista Magni, finanziatore di Forni e sempre impegnato in avventure amorose. Le sue emancipate e spregiudicate amanti hanno il ruolo di fargli aprire gli occhi sulla reale natura del regime. Attorno al protagonista si muovono figure realmente vissute come il quadrumviro Cesare Maria Vecchi o i conti Cesare e Giulia Carminati. Uno dei quadretti più spassosi è l’incontro galante fra l’avvenente contessa Giulia e un Mussolini assetato di sesso. Il Duce viene ritratto nei momenti privati, ma anche nelle stanze del potere, circondato da carrieristi e affaristi di cui ha bisogno e che non lo contrastano quasi mai, anche nelle scelte più sciagurate. L’atto conclusivo dell’affresco disegnato da Pansa riguarda le leggi razziali. Davanti alla persecuzione degli ebrei, all’indifferenza degli italiani per la sorte di quei ragazzi che non potevano più frequentare le scuole, dei professori che non potevano più insegnare, dei professionisti cacciati dai loro studi, la disillusione del protagonista diventa totale. Edoardo, un fascista in buona fede, un pavido che non ha mai saputo reagire alle nefandezze del regime, assomiglia ai milioni di italiani che, anche per quieto vivere, applaudirono il Duce e che dopo vent’anni si accorsero del disastro.

Pansa: «Partiti in crisi, sembra l’Italia prima del fascismo», scrive Antonella Filippi su “Il Giornale di Sicilia”. Non serve neppure scavare troppo: le analogie tra l'Italia di oggi e quella del primo dopoguerra, tra il 1919 e il 1922, vengono a galla con facilità. Estrema. Crisi economica, partiti inaffidabili come la casta di governanti litigiosi e inconcludenti, conflitti sociali. Deve essere un paese infrangibile il nostro, capace di resistere a tutto, se ancora, dopo quasi cent'anni, annaspa ma resiste. Nel suo ultimo libro Giampaolo Pansa, racconta quell'Italia cercando questa, contraddice teoremi, avanza ipotesi, ci consegna certezze. Sarà per questo che il suo “Eia Eia Alalà” (ed. Rizzoli), antico grido di vittoria adottato dallo squadrismo fascista, è già un best-seller. Una “controstoria del fascismo” nascosta in un romanzo. Pansa: «A un mese dall'uscita, delle 70 mila copie stampate è già stato venduto il 30%. Per aggirare la noia del saggio, ho usato l'escamotage del romanzo e ho cercato di rendere attraente la storia: Edoardo Magni è un personaggio di fantasia, un possidente terriero, prima sostenitore della rivoluzione fascista ma a poco a poco sempre più disincantato, fino a supportare il dissidente squadrista Cesare Forni che, invece, è realmente esistito. Tante incertezze quelle di Magni, accanto a una sfilza di amor che si chiamano Marietta, Rosa, Anna, Elvira. E Marianna: è lei ad aprirgli gli occhi sulle deportazioni degli ebrei ad Auschwitz». Questo paese e i suoi abitanti resistono a tutto, impermeabili a governi e crisi… «L'Italia è stata in grandissima parte attratta dal fascismo: tutti eravamo fascisti o ci comportavamo come se lo fossimo. Tutti hanno adorato Mussolini e gli hanno obbedito, almeno fino alla notte del 25 luglio 1943. Dopo la marcia su Roma, Mussolini aveva un potere assoluto: il 99% degli italiani era fascista, sbaglia chi sostiene che l'Italia non voleva la dittatura. Il Duce ha commesso errori imperdonabili, avallando le leggi razziali, alleandosi con Hitler ed entrando in guerra: se non lo avesse fatto sarebbe morto nel suo letto, e non a gambe per aria, accanto alla Petacci. Come il generale Franco che tenne la Spagna fuori dalla guerra».

Lei viene accusato di revisionismo…

«E ne sono felice, anzi vorrei esserlo ancora di più. L'accusa viene da vecchi accademici di sinistra, a fronte di un dato incontestabile: in una guerra civile ci sono due antagonisti, uno nero e uno rosso, e i caduti si trovano da entrambe le parti, non solo da quella rossa. Il mio libro “Il sangue dei vinti” ha venduto un milione di copie, e ancora la gente mi fa i complimenti per quello sguardo differente sulla guerra e i suoi morti. Essere un revisionista per me è un vanto: la storia non si può tenere sottovetro, vengono fuori nuovi archivi, si chiariscono dei misteri, emergono personaggi ritenuti secondari».

Cosa ha in comune l'Italia odierna con quella che preparò la dittatura?

«Il nostro era un paese povero, fatto di un'economia agraria. L'Italia di allora, come quella di oggi, era stremata da una crisi economica forte, scoppiata subito dopo la fine di una guerra durata tre anni, che aveva fatto un gran numero di vittime e che aveva cambiato profondamente la società italiana. Allora, come oggi, il sistema dei partiti era screditato. Ed era esploso quello che ora è latente, cioè il conflitto tra ceti. Queste simmetrie mi hanno colpito».

Quella sua convinzione che «il nero nasce dal rosso» è la risposta alla domanda: chi, dopo il mattatoio delle trincee, ha fatto nascere il fascismo?

«Dimostro che il padre del fascismo è il sinistrismo parolaio, quello degli slogan, quello violento che non poteva non sfociare nella marcia su Roma di Mussolini, primo atto verso una dittatura lunga vent'anni. Lo sciopero agrario del 1920 paralizzò le campagne. Esercitando uno strapotere dispotico, le leghe rosse arrivarono a impedire la mungitura, a timbrare le mani dei bovari, minacciando di far morire le mucche. Esplose l'odio di classe: concime che farà spuntare la pianta dello squadrismo. La sinistra si è uccisa da sola, non potevano non aspettarsi una reazione della borghesia agraria».

La nostra è una democrazia debole.

«Si sta costruendo una situazione istituzionale anomala, con un partito unico, senza opposizione: così la democrazia va in tilt. La democrazia, come la giustizia, si regge se i due piatti della bilancia sono in equilibrio o si alternano. Renzi egemonizza, procede a colpi di annunci, promesse mai realizzate, spese per cui non ci sono i fondi. L'Italia è ammalata, è come una persona che rischia una grave crisi, anche se non è esattamente in coma».

Potrebbe allora ri-presentarsi l'avventura autoritaria di un nuovo Benito Mussolini?

«Il rischio non è immediato ma c'è: con gli errori che sta commettendo, la sinistra potrebbe rendersi complice della nascita di una nuova dittatura».

L'innamoramento di Berlusconi per Renzi cosa nasconde?

«Servirebbe uno psicanalista per capirci qualcosa. Berlusconi ha la sua veneranda età: io ho solo un anno più di lui ma non ho la pretesa di dirigere un partito, preferisco stare a casa, scrivere, leggere, guardare il calcio in tv. Berlusconi ha un partito che mia nonna Caterina definirebbe “ai piedi di Cristo”, cioè spappolato, in grande difficoltà: se pensa che Renzi possa essere il suo figlioccio, sbaglia di grosso. Lui ha 78 anni, il premier 39, c'è un abisso di energie, forze. E Renzi se ne frega, cerca di utilizzare Berlusconi come stampella. L'unico punto misterioso è il rapporto di entrambi con Denis Verdini, da dove derivi a Verdini tutto questo potere, non è mai stato scandagliato, raccontato. Per capire se si muove per Berlusconi, come credo possibile, o per Renzi, come qualcuno sospetta».

Vivere è anche conservare i propri ricordi: lei ne mette tanti nel libro

«Io sono stato un orgoglioso figlio della Lupa e, solo per pochi mesi, non sono riuscito a diventare un balilla, come succedeva in terza elementare. In questo libro c'è molto della zona in cui ho vissuto, quella padana, tra Piemonte e Lombardia, ci sono i racconti delle donne che avevo accanto. Mia madre aveva un negozio, una modisteria, sulla via principale di Casale, guadagnava più di mio padre che era un capo operaio delle Poste. Io facevo i compiti in negozio e ascoltavo le chiacchiere con le clienti pettegole: quei discorsi mi tornano sempre alla memoria quando scrivo un libro. Ricordo i ponti bombardati di Casale e la mamma che, per alleggerire la tensione, diceva: “Oggi non si può morire perché dobbiamo mangiare le frittelle”. I bombardamenti sono stati a lungo tra i miei incubi».

Tasselli di verità: piccoli spiragli di luce sugli ultimi giorni di Mussolini. Da Pisanò a Pansa, i tentativi di raccontare la storia senza pregiudizi: ma la nebbia è ancora fitta, scrive Emma Moriconi su “Il Giornale d’Italia”. Ci sono vicende della storia che restano, seppure dopo molto tempo, avvolte dal mistero. Una nebbia fitta che sembra non si possa riuscire a dipanare in nessun modo. Poi, qualche volta, affiora qua e là qualche momento di luce: ma si tratta di piccoli varchi nell’oscurità. La verità, la luce piena, forse non arriverà mai. Nel corso di questi lunghi mesi abbiamo tentato di eviscerare molti aspetti delle vicende patrie che non hanno, nel tempo, trovato la giusta collocazione o che, quando sono stati chiariti ed è riuscita ad emergere la verità, si è cercato di inscatolare a dovere affinché non avessero la giusta risonanza. L’editoria, sia scolastica che non, viaggia a compartimenti stagni: è quasi impossibile reperire certi testi, per esempio. Ce ne accorgiamo quando andiamo alla loro ricerca e ci rendiamo conto che spesso si deve sapere con una certa sicurezza cosa si sta cercando, e nemmeno così è facile trovarli. In compenso, gli scaffali sono pieni di altra roba, quella si che è facile da reperire …Per sollevare un po’ di polverone sui temi scottanti della nostra storia è dovuto arrivare Giampaolo Pansa: il suo egregio lavoro di ricomposizione delle sorti di questo popolo è diventato in breve un varco nel muro del silenzio e della menzogna. Lo ha potuto fare, lui, che nasce di sinistra. Si, perché prima di lui c’è stato un altro giornalista-scrittore che ne ha dette e ne ha scritte di ogni sorta, ma i suoi volumi sono un po’ più difficili da trovare e da diffondere: si chiamava Giorgio Pisanò, ma era un fascista. E, siccome quando a scrivere è un fascista, si può serenamente far finta di nulla, quasi come se non esistesse, se a scrivere è invece uno che nasce e cresce a sinistra e ad un certo punto della sua vita decide di aprire la sua mente e di guardare oltre gli steccati imposti da decenni di demagogia, quello diventa il “nemico” da colpire, il bersaglio perfetto. Pansa non se ne cura, naturalmente, e continua nel suo lavoro di analisi di un’epoca la cui immagine storica esce distorta rispetto alla realtà: il suo recente “Eja Eja Alalà” sarà presto oggetto di un approfondimento su queste pagine. Raccontare la storia, insomma, “da fascista” è difficile, perché c’è questa tendenza diffusa ad ignorare questo tipo di voce, anche quando vengono raccontate verità eclatanti. Quando invece a parlare di “verità nascoste” sono personaggi appartenenti alla “sinistra”, essi vengono attaccati, additati, apostrofati in ogni modo, ma di certo sulle loro parole non cala il silenzio: di questi si deve per forza parlare, e meno male. La scorsa estate il quotidiano Il Giornale ha pubblicato una serie di articoli a firma di Roberto Festorazzi che fanno il punto su alcune novità emerse da documenti e testimonianze recenti: il tema è, ancora una volta, gli ultimi giorni di Mussolini e la sorte delle carte che il Duce portava con sé. Anche su questo spicchio di storia aleggia un alone di mistero, e la ragione è del tutto evidente: tutto ciò che poteva chiarire certi aspetti, e che poteva in qualche modo “riabilitare” la figura di Mussolini e del Fascismo andava fatto sparire. Abbiamo parlato a lungo (e ancora non abbastanza, però) della morte del Duce, delle ore che precedettero quell’evento, di chi orbitava intorno a lui in quei giorni e dei tanti stravolgimenti operati contro la verità di quelle ore. Un argomento sul quale torneremo a tempo debito, facendo un passo alla volta nel tentativo di ricostruire quegli strani meccanismi che andarono ad incastrarsi in quei giorni di primavera del 1945. Eppure le due vicende – la morte di Mussolini e le borse scomparse – sono indissolubilmente legate. Questa premessa è necessaria per il lavoro che ci attende nei prossimi giorni, durante i quali riepilogheremo ai nostri lettori le informazioni di cui Festorazzi è venuto in possesso. Incontreremo, nel piccolo speciale che seguirà, una serie di personaggi che, a vario titolo, sono stati attori di quel dramma: parleremo del famoso carteggio Mussolini – Churchill, dei documenti relativi alla famiglia Savoia, di misteriosi “viaggi” e di carte scomparse. Si tratta di un piccolo tassello che va a comporre l’intricato puzzle di quei giorni, un mosaico che, però, probabilmente resterà incompiuto.

“Il segreto di Italia”? Niente recensioni, è un film fascista, scrive  “L’Ultima Ribattuta”. Non sarà un capolavoro destinato all’Oscar. Ma certamente è un film di grande sentimento che squarcia, anche sul grande schermo, quelle malefatte della Resistenza che fino ad oggi erano rimaste confinate solo nei libri dei “fascisti” e di Giampaolo Pansa. Fino a poco tempo fa, quando tornavano d’attualità le stragi e i massacri compiuti dai partigiani dopo la fine della guerra, si scatenava puntualmente la bagarre: gli intellettuali antifascisti si facevano intervistare, uno dopo l’altro, nel tentativo di demonizzare chi aveva osato dissacrare la Resistenza. “Bella ciao” non poteva in alcun modo essere contraddetta. Perfino un giornalista di sinistra, ma onesto e perbene come Pansa, appunto, ha conosciuto linciaggi mediatici di ogni tipo e il boicottaggio dei suoi libri di denuncia. I vecchi e i nuovi sostenitori dell’ANPI sono arrivati ad impedirgli anche la presentazione dei volumi in varie librerie d’Italia. Non si poteva parlare neppure di guerra civile (come aveva fatto lo storico di sinistra Claudio Pavone), ma solo della “gloriosa lotta di Liberazione”. Ora che questa messa in scena non regge più e anche le nuove generazioni hanno imparato a distinguere e separare il grano dal loglio in tema di Resistenza, la tecnica è cambiata. Meglio rifugiarsi nel silenzio, nell’indifferenza. Così “Il segreto di Italia”, del coraggioso regista Antonello Belluco, non ha potuto usufruire di recensioni da parte di quasi tutti i media: giornali, televisioni (anche se “Porta a Porta” e “Sky Tg 24″ hanno accennato ai buoni contenuti del film) e radio. E nemmeno i cinema, eccezion fatta per il “Fiamma”, hanno voluto proiettare la pellicola. Soltanto qualche trafiletto qua e là, un po’ di interviste a Romina Power (unica attrice nota del cast) e poco altro. Lo stesso “Corriere della Sera” ha relegato la recensione nelle pagine locali della costola “Corriere del Veneto”. Meglio non urtare la suscettibilità dei militanti antifascisti ancora in servizio permanente effettivo. Eppure, le stragi di Codevigo (al confine delle province di Padova e Ravenna), compiute nel maggio del 1945, hanno visto le esecuzioni di centinaia di vittime, anche solo colpevoli di avere avuto simpatie fasciste. Non venne celebrato alcun processo. Uomini, donne e bambini vennero fucilati dai partigiani della “Brigata Garbaldi” sulle sponde del fiume Brenta. Soltanto 110 i corpi ritrovati, ma 365 i dispersi. Persone non “soltanto” uccise. Su alcune donne ci furono accanimenti. Seviziate, violentate e trucidate. Sono stati tanti i tentativi di boicottaggio della pellicola. Ma alla fine, almeno per una volta a prezzo di grandi sacrifici per riuscire a produrla, la verità ha avuto la meglio sul silenzio e la censura. E il film merita di essere visto.

Romina e i partigiani cattivi. Domani all’Adriano il film e il dibattito sulla strage Sul palco l’attrice americana e il regista Belluco, scrive Dina D’Isa su “Il Tempo”. Uno degli episodi più gravi tra quelli avvenuti nell’Italia nordorientale nei giorni a cavallo della resa incondizionata in Italia delle forze tedesche e fasciste repubblicane, effettiva dal 3 maggio 1945, diventa ora un film. La storia dell’eccidio di Codevigo, avvenuto tra il 28 aprile 1945 e la metà di giugno dello stesso anno, fu l’esecuzione sommaria di un numero compreso tra 114 e 136 tra militi fascisti della Guardia Nazionale Repubblicana (GNR), delle Brigate Nere (BN) e civili: questo il tema del film «Il segreto d’Italia» di Antonello Belluco con Romina Power (da giovedì nei cinema) che domani sera sarà all’anteprima del film (al cinema Adriano di Roma) preceduto da un dibattito nel quale sarà presente, oltre al regista, un testimone sopravvissuto a quella strage. La lavorazione del film ha subito diversi arresti: raccontare un crimine partigiano non è stato certo facile, considerando che i partigiani sono considerati sempre eroi. Ma stavolta, dopo 70 anni, la storia, le verità occultate per anni verranno a galla, anche grazie a questa pellicola di Belluco, con il soggetto scritto da Gerardo Fontana, ex sindaco di Covedigo a cui il film è dedicato dopo la sua scomparsa durante le riprese. Romina Power trasporta il pubblico indietro nel tempo, nell’Italia della guerra civile per ricordare la sua storia d’amore sullo sfondo dell’eccidio: lei a 15 anni (interpretata dall’esordiente Gloria Rizzato) era innanorata di un diciottenne, Farinacci Fontana (interpretato da Alberto Vetri), che realmente è stato una delle vittime della strage. «Il segreto di Italia», il nome della protagonista, affonda le radici in un avvenimento del suo lontano passato che, per tutta la vita, le aveva impedito di tornare nel luogo dove è nata. Ma, dopo 55 anni dagli Stati Uniti arriva a Covedigo per il matrimonio della nipote e dovrà per forza fare i conti con i suoi ricordi. «Il mio personaggio si chiama Italia - ha anticipato la Power - Una donna che ha il coraggio di affrontare i fantasmi del passato e di tornare a 70 anni nel suo paese. È stato molto emozionante rievocare questa persona che ha una ferita nell’anima, se la porta dietro dall’età di 15 anni. Dopo 7 anni (dal 2007) sono tornata al cinema perché mi è stato finalmente offerto un film interessante, commovente, profondo, trattato con delicatezza, un ruolo entusiasmante, un copione poetico anche se tragico. La verità non dovrebbe mai essere polemica, è giusto che in ogni Paese vengano fuori le verità nascoste, prima o poi la verità viene a galla, non si può nascondere ed è giusto che la gente sappia. Anche negli Stati Uniti ci sono tanti segreti nascosti che stanno venendo fuori». All’epoca, la Magistratura di Padova trattò la vicenda in numerosi procedimenti dal 1945 al 1950 e poi dal 1961-62 sulla base d’indagini condotte fin dall’inizio dalla polizia Alleata e dai Carabinieri. Furono giudicati anche quattro partigiani della 28ª Brigata Garibaldi, tutti e quattro furono assolti. I Comandi della 28ª e del "Cremona" non furono mai soggetti di procedimenti penali poiché i fatti si svolsero al di fuori e contro gli ordini da loro emanati e a loro insaputa. Alcune fonti sostengono che all’eccidio avvenuto in varie località in prossimità di Codevigo, parteciparono elementi provenienti dalle formazioni partigiane locali e militari inquadrati nel gruppo di combattimento "Cremona", unità dell’esercito italiano alle dipendenze dell’VIII armata Britannica, sotto il cui comando era anche la 28ª Brigata Garibaldi "Mario Gordini", comandata da Arrigo Boldrini, detto Bulow, che divenne segretario nazionale dell’ANPI, poi presidente onorario e, nel dopoguerra, deputato e senatore per il PCI. Ci furono 136 vittime totali, non tutte identificate (ne furono identificate con certezza 114, ma furono probabilmente oltre trecento), trucidate per vendetta, previo giudizio sommario, morte in scontri a fuoco tra cui vittime seviziate. I corpi vennero abbandonati nelle acque, sepolti in fosse comuni, lasciati nei campi: di questi, molti scomparvero. E ora riposano nell’Ossario del cimitero di Codevigo, aperto nel 1962. Gianfranco Stella, autore - tra gi altri - di «Ravennati contro» e di «Crimini partigiani» ricordò che «i testimoni oculari raccontavano come per liberare il fiume Bacchiglione dai cadaveri avessero usato mine anticarro». Mentre Giampaolo Pansa nel suo libro «Il sangue dei vinti» rievoca la maestra del paese, Corinna Doardo, «una fascista non fanatica, piuttosto un’ingenua», che fu rapata a zero e costretta a camminare per le vie del centro con una coroncina di fiori in testa prima di venire uccisa: di lei il medico poté accertare che solo un orecchio era rimasto intatto. Atroce anche il caso di Mario Bubola, figlio del podestà fascista di Codevigo, torturato: la lingua tagliata e infilata nel taschino della giacca, poi evirato dei testicoli che gli furono messi in bocca.

Giampaolo Pansa su “Libero Quotidiano”: "Vi racconto la mia Casale uccisa al rallentatore". L'Eternit una fabbrica della morte? Per chi ha vissuto e vive lo strazio dei poveri cristiani uccisi dall'amianto, è molto, molto di più. E'un inferno che dura da tantissimi anni. Dapprima senza che nessuno se ne accorgesse, poi nell'impotenza di fermare in qualche modo un demonio che finora è stato capace di accoppare duemila persone o giù di lì. Una strage da film catastrofico in una città che non ha mai superato i quaranta mila abitanti. Ma soltanto chi è nato a Casale Monferrato, la sede centrale dell'Eternit, può sentire dentro di sé tutto l'orrore di questo assassinio al rallentatore, impossibile da contrastare. Nel passaggio fra l'Ottocento e il Novecento, i poveri del Monferrato avevano tre possibilità. La prima era di lavorare nelle cave di marna. Lo facevano in condizioni bestiali, consumando la vita sottoterra, senza protezione, rischiando di morire bruciati dallo scoppio del grisou o soffocati sotto una delle tante gallerie franate. Le paghe erano misere e la fatica immensa. I cavatori rientravano a casa di notte, nei paesi del Monferrato, disfatti, terrei, senza altro orizzonte che scendere di nuovo nel buio dopo poche ore. "I sepolti vivi" li aveva chiamati nel 1913 La Fiaccola, il settimanale socialista della città. La seconda occasione di lavoro arrivò dallo sfruttamento delle ottime marne calcaree, portate alla luce dai cavatori. Era la materia prima della calce e del cemento. E regalò alla città il boom dei cementifici. All'inizio del 1900 queste fabbriche erano più di cento. Vista dall'alto della salita di Sant'Anna, un eremo frequentato da morosi in camporella e da amanti clandestini, Casale offriva un profilo infernale. Quello di una sterminata batteria di ciminiere, affilate come missili. Cento bocche di fuoco sparavano un fumo sempre più denso e acre. I tetti delle case diventavano bianchi per la polvere. Nella calura estiva l'aria si faceva irrespirabile. E gli anziani stavano sempre sul punto di morire asfissiati. Nel 1906 emerse una terza possibilità per i poveri della mia città. Un pugno di imprenditori genovesi, "i maledetti" come ringhiava mia nonna Caterina, impiantarono a Casale una fabbrica all'avanguardia. Produceva tegole piane fatte di cemento e di amianto, grazie al brevetto di un austriaco. L'invenzione venne chiamata Eternit poiché garantiva una durata eterna del prodotto. Non era una bufala dal momento che siamo ancora circondati da quella robaccia vecchia di un secolo. Dalle tegole si passò alle lastre ondulate. Poi ai tubi per gli acquedotti e le fognature. E lo sviluppo dell'azienda fu trionfale. L'Eternit arrivò ad occupare 2.400 persone, ma quelle che ci sono passate pare siano state quasi cinquemila. Fu la nostra Fiat. Lavorarci era un privilegio. Anche perché le paghe erano un tantino più alte che in altre aziende. I padri chiedevano alla figlie in età da marito: "Dove lavora questo tuo moroso?". "All'Eternit" rispondeva la ragazza, orgogliosa. "Allora sposalo" concludeva il papà. E spiegava alla moglie: "Il certificato di matrimonio avrà il valore di una polizza a vita". Andò a lavorare all'Eternit anche il fratello più giovane di mio padre, l'ultimo di sei bambini orfani. Francesco Pansa, classe 1901, a quindici anni diventò operaio nella fabbrica dell'amianto. Poi divenne un addetto al montaggio dei grandi tubi, soprattutto in Bassa Italia. Era un ragazzo attivo ed estroso. Ad un certo punto ne ebbe abbastanza dell'Eternit ed emigrò in Argentina. Di lì scriveva a sua madre Caterina che le donne di Buenos Aires erano tutte belle e compiacenti. Però Caterina era analfabeta e doveva farsi leggere le lettere da una delle figlie che saltava sempre le righe dedicate agli amorazzi. Dopo due anni di Argentina, Francesco Pansa ritornò a Casale, sempre nella fabbrica della morte. Da quell'inferno lo tirò fuori la fidanzata, Giuseppina detta Pinota. Era la dodicesima figlia di un pescatore del Po. E aveva una sola dote: la licenza per aprire un'osteria. Nel frattempo Francesco era diventato comunista, il capo della cellula di Porta Po. Quando morì non risulta che sia stato ucciso dall'amianto. Ma il veleno nascosto nell'Eternit seguitava a infettare la città. Da ragazzino me li ricordo anch'io i camion gialli carichi dei tubi e delle coperture ondulate. Li trasportavano dallo stabilimento alla stazione ferroviaria. Viaggiavano attraverso la città senza nessuna protezione, neppure un telone che coprisse il carico. Soprattutto nei mesi caldi gli autocarri procedevano dentro una nube di polvere. Era la schifezza ambulante che tutti respiravamo, senza renderci conto del rischio che si correva. Andò avanti così per molti anni. Passavano i regimi politici. Dal socialismo municipale al fascismo, poi alla Repubblica sociale, quindi si tornava alla democrazia, ossia alla Dc di De Gasperi e al Pci di Togliatti. Soltanto l'Eternit sopravviveva, potente e impenitente. Era la padrona della città. Un esempio del capitalismo senza regole che diventa dittatura. Il mostro chiuse i battenti nel 1986, per fallimento. Si estendeva su 94 mila metri quadrati, metà dei quali coperti con quel prodotto assassino. Era una bomba nucleare sul fianco destro del Po. In seguito si scoprì che la lavorazione dell'amianto aveva creato una nuova spiaggia lungo il fiume. Aveva un colore innaturale, bianco brillante. Un grande velo da sposa che nascondeva un numero spaventoso di cadaveri. Ho detto che l'Eternit ha ammazzato a Casale all'incirca duemila persone. Di queste, duecentocinquanta o trecento erano uomini e donne che non avevano mai messo piede nella fabbrica. Spesso abitavano in quartieri lontani. E facevano altri lavori. Si ritenevano al sicuro, ma si sbagliavano. Il mesotelioma ha ucciso pure chi aveva lasciato la città da giovane, senza più ritornarci. Tra questi c'è anche un giornalista che voglio ricordare: Marco Giorcelli, il direttore del bisettimanale cittadino Il Monferrato. Era l'opposto del capociurma impassibile e cinico. Un uomo cortese, riservato, ma tenace. Sempre in prima fila nella battaglia contro l'Eternit. Aveva pubblicato anche l'elenco di tutte le vittime dell'Eternit, una sterminata Spoon River dell'amianto. In quella lista mancava un nome: il suo. Lui morì ucciso a 51 anni dal mesotelioma, dopo una lunga e crudele agonia vissuta con grande dignità. Il ricordo di Marco mi obbliga a un pensiero sul mio conto. Sono nato a Casale nel 1935 e ho vissuto lì sino al 1960, quando mi sono trasferito a Torino per lavorare alla Stampa. Dunque ho respirato amianto per venticinque anni. Grazie al Padreterno sono ancora qui a scrivere. Sento dire che l'effetto Eternit può presentarsi anche dopo tantissimo tempo. La provano i miei concittadini che seguitano a morire. Certo, sono un sopravvissuto. Ma per quanto tempo ancora?

Guerra civile? Siamo ad un passo, come nel primo dopoguerra..., scrive Aldo Grandi su “La Gazzetta di Lucca”. Ha ragione Giampaolo Pansa, grande scrittore, grande giornalista, amato a sinistra fino a quando scriveva ciò che faceva loro piacere, odiato e ritenuto rincoglionito quando ha cominciato ad aprire gli armadi di un partito, quello comunista, che, al di là di indubbi meriti, ha avuto anche la colpa di nascondere volutamente tante di quelle nefandezze che Dio solo lo sa e, forse, neppure lui. La situazione politica attuale ricorda molto da vicino il primo dopoguerra, poco prima dell'avvento del cosiddetto biennio rosso e della reazione di agrari e industriali che determinò l'avvento del fascismo. Da un lato la piccola borghesia, unitamente alla media e alla grande - ammesso che esistano ancora da qualche parte - assediati e timorosi di perdere tutto ciò che avevano foss'anche quel poco che era loro rimasto. Dall'altro le classi subalterne, operaia in testa, ritornati dalla guerra con un pugno di mosche in mano, abbandonati nelle loro illusioni e delusi dalle promesse mancate. Ebbene, tutti sanno come andò a finire. Oggi, a distanza di un secolo, la situazione non è cambiata di molto. E' vero, non c'è stata una guerra e questa, probabilmente, è una fortuna altrimenti chissà quanti avrebbero già imbracciato il fucile. Tuttavia c'è una classe che potremmo definire eterogenea, ma composta di elementi produttivi che vanno dall'operaio - inconsapevole e strumentalizzato dai sindacati - dell'industria privata al commerciante, dal libero professionista all'imprenditore, dall'artigiano al coltivatore diretto. Tutti questi soggetti contribuiscono al mantenimento dell'altra parte, quella composta dal pubblico impiego, che produce poco o nulla e rappresenta la zavorra che appesantisce lo Stato. Dispiace doverlo rimarcare, ma la realtà, al di là delle distinzioni necessarie, è questa. Il pubblico impiego, nella stragrande maggioranza, è parassita ossia vive a spese dell'organismo produttivo di ricchezza. Se, poi, qualcuno aggiunge che - vedi scandali romani - il privato corrompe il pubblico che a sua volta ricompensa il privato, ha ragione da vendere, ma questa, purtroppo, è la cruda verità alla quale dobbiamo guardare senza indulgenza e senza indugio. Da un lato, quindi, chi paga tasse e imposte guadagnandosi il reddito senza avere alcuna garanzia di averlo ogni 27 del mese, dall'altro chi, tranquillo e rilassato, il 27 del mese si infila in tasca, venga giù anche il diluvio universale, il suo bello stipendio. Operai che vengono licenziati dall'industria privata costretti a farsi difendere da sindacati che appoggiano anche le pretese del pubblico impiego il cui deficit e il cui buco enorme sono all'origine del licenziamento e del fallimento dell'economia italiana rispetto a quella degli altri paesi. Una tassazione al 56 per cento, imposte anche su quante volte uno va sulla tazza del cesso, un assessore, a Lucca, tale Raspini, figlio di un notaio e, probabilmente e presumibilmente senza problemi di natura economica, ex dipendente del ministero dell'Interno, pare in aspettativa per fare l'assessore - il sindaco Tambellini, dicono le malelingue, deve aver ringraziato il papà notaio che gli mise, in campagna elettorale e pare senza spendere alcunché, i locali per la sede del comitato elettorale - il quale sostiene che le tasse vanno pagate e che si tratta di un dovere. E chi lo ha mai messo in dubbio? Ma quali sarebbero i servizi che la sua giunta di bradipi, né più né meno di quelle che l'hanno preceduta, danno in cambio? Che servizio è quello che a S. Alessio, terra natìa dell'agricoltore Tambellini, impedisce a chiunque voglia usare il telefono cellulare, di poterlo fare solo perché il primo cittadino predilige e preferisce, per mandare messaggi e fare opera di comunicazione, il piccione viaggiatore? Troppo semplice, caro Raspini, installare un'antenna? La gente protesta perché ha i villoni e non vuole fastidi? Allora venite a metterla dentro casa del sottoscritto l'antenna, nel suo giardinetto, ma almeno tutti potranno usufruire di un servizio che, in altre città, è una ovvietà. Ma il Raspini, che quando incontra il sottoscritto fa finta di non vederlo per non doverlo salutare - e fa bene - sa cosa vuol dire alzarsi la mattina e non sapere se, a fine mese, hai i soldi non solo per mangiare, ma per mantenere questa classe di parassiti che frequenta il pubblico impiego? Ha soltanto lontanamente idea di cosa significhi giocare tutto su se stessi senza avere lo stipendio garantito? Sa quale senso di frustrazione colpisce ciascuno di noi quando, incassando 100, sa che almeno 60 finisce nelle casse di uno Stato non solo vorace, ma rapace? E noi dovremmo avere il senso dello Stato? Ma di quale Stato? Quello di Andreotti, di Craxi, di Forlani, del Caf di una volta o del Pci e di Berlusconi che anche loro tutto hanno preteso e molto hanno mangiato? Quello di San Matteo che lascia entrare 150 mila clandestini una piccola parte dei quali gira per le strade di Lucca chiedendo l'elemosina? E' questo il vostro esempio di solidarietà e progresso? E avete il coraggio di sparare merda su Grillo: l'unico che, almeno, quando parla e fa un comizio vale il prezzo del biglietto. Chi scrive, caro Raspini, si augura che, finalmente, prima o poi, presto o tardi, il sistema esploda anzi, imploda su se stesso e che saltino tutte le contrattazioni sindacali, saltino i diritti acquisiti che di acquisito non hanno un cazzo per il semplice motivo che la vita non è una condizione di staticità, ma di movimento permanente, che i mediocri e i parassiti vengano assegnati ai ruoli che competono loro, che il lavoro sia, veramente, fonte di soddisfazione, ma anche prodotto di meriti e non soltanto una pretesa. Défault? Magari. Bancarotta? Speriamo. Rimettiamoci tutti in gioco, salvo chi, veramente, è più debole, ma tutti gli altri, i falsi, gli ipocriti, i ladri, i truffatori, i millantatori, mettiamoli, metaforicamente, al muro e, poi, lasciamoceli per un bel po'. Vedrete che anche loro, quando si accorgeranno di essere rimasti indietro, inizieranno a correre.

Si tenga conto che da queste realtà politiche uscite vincenti dalla guerra civile è nata l'alleanza catto-comunista, che ha dato vita alla Costituzione Italiana e quntunque essa sia l'architrave delle nostre leggi, ad oggi le norme più importanti, che regolano la vita degli italiani (codice civile, codice penale, istituzione e funzionamento degli Ordini professionali, ecc.), sono ancora quelle fasciste: alla faccia dell'ipocrisia comunista, a cui quelle leggi non dispiacciono.

Esecuzioni, torture, stupri. Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega scrive Giampaolo Pansa. (scrittore notoriamente comunista osteggiato dai suoi compagni di partito per essere ai loro occhi delatore di verità scomode). C’è da scommettere che il nuovo libro di Giampaolo Pansa, "La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti" (Rizzoli, pagg. 446), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione “Il Giornale” pubblica un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro.

Tanto i partigiani comunisti che i miliziani fascisti combattevano per la bandiera di due dittature, una rossa e l'altra nera. Le loro ideologie erano entrambe autoritarie. E li spingevano a fanatismi opposti, uguali pur essendo contrari. Ma prima ancora delle loro fedeltà politiche venivano i comportamenti tenuti giorno per giorno nel grande incendio della guerra civile. Era un tipo di conflitto che escludeva la pietà e rendeva fatale qualunque violenza, anche la più atroce. Pure i partigiani avevano ucciso persone innocenti e inermi sulla base di semplici sospetti, spesso infondati, o sotto la spinta di un cieco odio ideologico. Avevano provocato le rappresaglie dei tedeschi, sparando e poi fuggendo. Avevano torturato i fascisti catturati prima di sopprimerli. E quando si trattava di donne, si erano concessi il lusso di tutte le soldataglie: lo stupro, spesso di gruppo. A conti fatti, anche la Resistenza si era macchiata di orrori. Quelli che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ricorderà nel suo primo messaggio al Parlamento, il 16 maggio 2006, con tre parole senza scampo: «Zone d'ombra, eccessi, aberrazioni». Un'eredità pesante, tenuta nascosta per decenni da un insieme di complicità. L'opportunismo politico che imponeva di esaltare sempre e comunque la lotta partigiana. Il predominio culturale e organizzativo del Pci, regista di un'operazione al tempo stesso retorica e bugiarda. La passività degli altri partiti antifascisti, timorosi di scontrarsi con la poderosa macchina comunista, la sua propaganda, la sua energia nel replicare colpo su colpo. Soltanto una piccola frazione della classe dirigente italiana si è posta il problema di capire che cosa si nascondeva dietro il sipario di una storia contraffatta della nostra guerra civile. E ha iniziato a farsi delle domande a proposito del protagonista assoluto della Resistenza: i comunisti. Ancora oggi, nel 2012, qualcuno si affanna a dimostrare che a scendere in campo contro tedeschi e fascisti e stato un complesso di forze che comprendeva pure soggetti moderati: militari, cattolici, liberali, persino figure anticomuniste come Edgardo Sogno. È vero: c'erano anche loro nel blocco del Corpo volontari della liberta. Ma si e trattato sempre di minoranze, a volte di piccole schegge. Impotenti a contrastare la voglia di egemonia del Pci e i comportamenti che ne derivavano. Del resto, i comunisti perseguivano un disegno preciso e potente che si è manifestato subito, quando ancora la Resistenza muoveva i primi passi. Volevano essere la forza numero uno della guerra di liberazione. Un conflitto che per loro rappresentava soltanto il primo tempo di un passaggio storico: fare dell'Italia uscita dalla guerra una democrazia popolare schierata con l'Unione Sovietica. Dopo il 25 aprile 1945 le domande sulle vere intenzioni dei comunisti italiani si sono moltiplicate, diventando sempre più allarmate. Mi riferisco ad aree ristrette dell'opinione pubblica antifascista. La grande maggioranza della popolazione si preoccupava soltanto di sopravvivere. Con l'obiettivo di ritornare a un'esistenza normale, trovare un lavoro e conquistare un minimo di benessere. Piccoli tesori perduti nei cinque anni di guerra. Ma le élite si chiedevano anche dell'altro. Sospinte dal timore che il dopoguerra italiano avesse un regista e un attore senza concorrenti, si interrogavano sul futuro dell'Italia appena liberata.

Sarebbe divenuta una democrazia parlamentare oppure il suo destino era di subire una seconda guerra civile scatenata dai comunisti, per poi cadere nelle grinfie di un regime staliniano? Era una paura fondata su quel che si sapeva della guerra civile spagnola. Nel 1945 non era molto, ma quanto si conosceva bastava a far emergere prospettive inquietanti. Anche in Spagna era esistita una coalizione di forze politiche a sostegno della repubblica aggredita dal nazionalismo fascista del generale Francisco Franco. Ma i comunisti iberici, affiancati, sostenuti e incoraggiati dai consiglieri sovietici inviati da Stalin in quell'area di guerra, avevano subito cercato di prevalere sull'insieme dei partiti repubblicani, raccolti nel Fronte popolare. A poco a poco era emerso un inferno di illegalità spaventose. Arresti arbitrari. Tribunali segreti. Delitti politici brutali. Carceri clandestine dove i detenuti venivano torturati e poi fatti sparire. Assassinii destinati ad annientare alleati considerati nemici. Il più clamoroso fu il sequestro e la scomparsa di Andreu Nin, il leader del Poum, il Partito operaio di unificazione marxista. Il Poum era un piccolo partito nel quale militava anche George Orwell, lo scrittore inglese poi diventato famoso per Omaggio alla Catalogna, La fattoria degli animali e 1984. Orwell aveva 34 anni, era molto alto, magrissimo, sgraziato, con una faccia da cavallo. Era arrivato a Barcellona da Londra alla fine del 1936. Una fotografia lo ritrae al fondo di una piccola colonna di miliziani del Poum. Una cinquantina di uomini, preceduti da un bandierone rosso con la falce e martello, la sigla del partito e la scritta «Caserma Lenin», la base dell'addestramento. Orwell stava sul fronte di Huesca quando i comunisti e i servizi segreti sovietici decisero la fine del Poum. Lo consideravano legato a Lev Davidovic Trotsky, il capo bolscevico diventato nemico di Stalin. In realta era soltanto un gruppuscolo antistaliniano con 10 mila iscritti.

L'operazione per distruggerlo venne ordita e condotta da Aleksandr Orlov, il nuovo console generale dell'Urss a Barcellona, ma di fatto il capo della filiale spagnola del Nkvd, la polizia segreta sovietica.

Nel giugno 1937, un decreto del governo repubblicano guidato dal socialista di destra Juan Negrin, succube dei comunisti, dichiaro fuori legge il Poum, sospettato a torto di cospirare con i nazionalisti di Franco. Tutti i dirigenti furono imprigionati. Se qualcuno non veniva rintracciato, toccava alla moglie finire in carcere. Gli arrestati si trovarono nelle mani del Nkvd che li rinchiuse in una prigione segreta, una chiesa sconsacrata di Madrid. Interrogato e torturato per quattro giorni, Nin rifiuto di firmare l'accusa assurda che gli veniva rivolta: l'aver comunicato via radio al nemico nazionalista gli obiettivi da colpire con l'artiglieria. Gli sgherri di Orlov lo trasportarono in una villa fuori città. Qui misero in scena una finzione grottesca: la liberazione di Nin per opera di un commando di agenti della Gestapo nazista, incaricati da Hitler di salvare il leader del Poum. Ma si trattava soltanto di miliziani tedeschi di una Brigata internazionale, al servizio di Orlov. Nin scomparve, ucciso di nascosto e sepolto in un luogo rimasto segreto per sempre. E come lui, tutti i suoi seguaci svanirono nel nulla. Quanto accadeva in Spagna fu determinante per la svolta ideologica di uno scrittore americano di sinistra, John Dos Passos. Scrisse: «Ciò che vidi mi provoco una totale disillusione rispetto al comunismo e all'Unione Sovietica. Il governo di Mosca dirigeva in Spagna delle bande di assassini che ammazzavano senza pietà chiunque ostacolasse il cammino dei comunisti. Poi infangavano la reputazione delle loro vittime con una serie di calunnie». Le stesse infamie, sia pure su scala ridotta, vennero commesse in Italia da bande armate del Pci, durante e dopo la guerra civile.

Il racconto di Giampaolo Pansa: "Così muore una spia fascista".

L'anticipazione di "La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti". Il nuovo racconto dell'orrore che distrugge la leggenda della superiorità morale dei partigiani. E "Il sangue dei vinti" divenne una pioggia rossa. Le anticipazioni del libro di Pansa nel racconto dell'amore impossibile di Anna, iscritta al Pfr, che sfuggì ai camerati per finire in mano ai comunisti. Per gentile concessione dell’editore, su “Libero” pubblichiamo l’introduzione del nuovo libro di Giampaolo Pansa, "La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti" (Rizzoli, pp. 446). Pansa torna ad occuparsi della guerra civile italiana, e lo fa smontando la leggenda rossa per cui i partigiani sono sempre stati considerati moralmente superiori rispetto ai militi della Repubblica sociale. Questo libro, bello e coraggioso, arriva quasi dieci anni dopo Il sangue dei vinti, l’opera con cui il grande giornalista ha incominciato il suo viaggio tra le verità nascoste del periodo storico seguito alla caduta del regime fascista. Quel volume, divenuto un bestseller, attirò a Pansa critiche pesanti e attacchi feroci. Ora La guerra sporca completa il suo appassionato racconto, a metà tra l’inchiesta e il romanzo.

"Questo libro va contro una leggenda che resiste inalterata da un’infinità di anni. La leggenda sostiene che esistano guerre sporche e guerre pulite. La mia opinione è diversa: tutti i conflitti armati sono sporchi delle vite sottratte a chi vi partecipa o ne rimane coinvolto. In ogni caso, su entrambe le parti in lotta cade sempre una pioggia rossa: una pioggia di sangue. Da dove mi arriva questa immagine? Anni fa avevo scritto un libro su un personaggio quasi sconosciuto: il sardo Andrea Scano, un partigiano comunista espatriato di nascosto in Jugoslavia dopo la conclusione della guerra civile. Era ricercato dai carabinieri perché raccoglieva armi e munizioni in vista di una rivoluzione proletaria.

Dopo essere vissuto da latitante a Fiume, ormai diventata una città jugoslava, era finito nel gulag più orrendo del maresciallo Tito, quello creato a Goli Otok, l’Isola Calva. E qui era rimasto per tre anni, torturato da una sequenza infinita di orrori". Inizia così l'introduzione di Pansa de La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti, il racconto degli orrori della guerra civile in cui la celebre firma del giornalismo italiano smonta la leggenda della superiorità morale dei partigiani. L'intera, lunga e appassionante introduzione potete leggerla sul quotidiano in edicola oggi, domenica 7 ottobre.

Noi, intanto, vi proponiamo ampi stralci del prologo del libro, ampi stralci di uno dei racconti, dal titolo La fascista e il partigiano, in cui Pansa racconta come muore una spia fascista di Giampaolo Pansa.

Anna C. era la ragazza fascista. Una maestra elementare di 22 anni, alta, bionda, occhi azzurri, con un viso da madonna e dal contegno riservato. Il suo corpo, invece, era da schianto. Aveva un seno prorompente, fianchi ben torniti, gambe muscolose, caviglie sottili. Assomigliava alle donne di un disegnatore alla moda, Gino Boccasile: le signorine Grandi Firme. Nel volto da ragazza perbene spiccava una bocca sensuale, le labbra perfette, con un contorno accentuato dal rossetto. A renderla ancora più attraente era la castità. Molti non ci credevano, ma Anna era illibata, pudica e senza malizia. La famiglia veniva ritenuta tra le più religiose della città. Il padre dirigeva l’anagrafe comunale. La madre insegnava matematica al liceo scientifico. Tutte le domeniche andavano alla messa grande in Duomo, quella delle undici, celebrata dal vescovo.

(...) Quando ebbe inizio la guerra civile, Anna volle subito iscriversi al Partito fascista repubblicano. I genitori cercarono di dissuaderla.

Era la loro unica figlia e volevano preservarla dalla tempesta che sentivano imminente. Ma i tentativi dei famigliari fallirono. Anna era una fascista convinta. E spiegò ai suoi che aveva il dovere di stare a fianco dei camerati che difendevano la patria dagli inglesi, dagli americani, dai sovietici e dai ribelli comunisti al soldo di Mosca. In quel momento, era il novembre 1943, non esisteva ancora il corpo delle Ausiliarie. Ma il segretario del fascio cittadino accolse Anna a braccia aperte. Era un commerciante sui cinquant’anni, già squadrista, rimasto sempre fedele a Mussolini. Non aveva mai messo in mostra fanatismi né eccessi violenti. E si era mantenuto così pure in un’epoca dove la voglia di uccidere l’avversario sembrava diventata la prima fra le virtù. La ragazza continuò a insegnare alle elementari e cominciò a passare il tempo libero nella sede del Pfr. Qui pensarono di utilizzarla nell’assistenza ai militari che avevano aderito alla repubblica. E nelle opere di beneficenza del partito, come la Befana fascista e l’aiuto alle famiglie bisognose.

Tra i suoi incarichi ci fu anche quello di visitare ogni settimana il carcere giudiziario della città. Era una prigione piccola, a pochi passi dal centro, sul limite dei vasti giardini pubblici. Vi stavano rinchiusi delinquenti di mezza tacca. Ladri, ricettatori, borsaneristi pizzicati mentre trafficavano. Insieme a loro, si trovavano quattro o cinque detenuti politici. Erano partigiani o renitenti alla leva, catturati dalla Guardia nazionale repubblicana. Avevano la sorte segnata: prima o poi li avrebbero deportati in Germania. E si sapeva quale destino avrebbero incontrato. Anna andò a visitare anche loro. Ma si rese subito conto che la sua presenza non era per niente gradita. Veniva accolta in malo modo, con insulti e risate di scherno. Non mancavano mai le proposte indecenti e i gesti volgari. La ragazza faceva di tutto per non eccitarli. Indossava grembiuloni grigi, senza forma. Però neppure questo era servito.

Soltanto uno dei detenuti politici la ricevette in modo diverso. Era un partigiano piccolino, magro, con l’aspetto dell’adolescente, anche se spiegò ad Anna di avere 21 anni. Il suo stato spaventò la ragazza. Durante o dopo la cattura, l’avevano pestato senza misericordia. Lo si capiva dal viso, ancora gonfio per le botte. E dalla difficoltà nel restare ritto in piedi. Disse ad Anna di chiamarsi Pietro S. e di essere originario della provincia di Napoli. L’armistizio dell’8 settembre l’aveva sorpreso mentre era sotto le armi, in un reparto di fanteria stanziato ad Alessandria. Dopo essersi nascosto per un paio di mesi, si era aggregato a una delle prime bande della Garibaldi. Di fare il ribelle non gli importava, però non poteva neppure ritornare al proprio paese, ormai al di là del fronte. Dopo le prime visite di Anna, il ragazzo le confessò di vivere nel terrore che lo spedissero in un lager tedesco. Immaginava che lì avrebbe incontrato una fine lenta, tra sofferenze atroci: la fame, la sete, la perdita di ogni volontà, la scomparsa della sua dignità di essere umano. Quando Anna entrava nella cella, Pietro scoppiava in lacrime. Un giorno la pregò di procurargli del veleno per uccidersi. Lei si rifiutò. Allora il partigiano cominciò a implorarla di farlo uscire dalla prigione. Anna replicò che era una proposta folle. Il ragazzo le urlò: «Se è così, lasciami perdere, non venire più a visitarmi!».

Anna non disse nulla a nessuno. Ma continuò a pensare al partigiano e alla sua disperazione. Il pensiero divenne una costante fissa delle proprie giornate. Anche prima di addormentarsi, vincendo l’ansia da ragazza inerme in un mondo pieno di cattiveria, rifletteva sulla richiesta di Pietro. E alla fine maturò una decisione: doveva aiutarlo a fuggire dal carcere. Poiché non era una sciocca, Anna sapeva che, se fosse riuscita nell’intento, anche lei avrebbe dovuto sparire. Lasciando l’esistenza di sempre e gettando i genitori nello sconforto. E forse alle prese con una ritorsione violenta dei suoi camerati, pazzi di rabbia per essere stati traditi.

Poi si chiese perché le importasse tanto la salvezza di quel ribelle.

E si diede una risposta: senza rendersene conto, giorno dopo giorno si era innamorata di lui. Prima di allora non aveva mai conosciuto l’amore. Adesso l’aveva incontrato nella condizione più difficile. (...) Anna ideò un piano di fuga molto semplice. Aveva notato che i tre militi di guardia alla prigione si davano il cambio verso le nove di sera, quando era già buio. Il carcere restava sguarnito per cinque minuti. Non avrebbe dovuto esserlo, ma la città era sempre stata tranquilla, un luogo dove non accadeva mai nulla. La ragazza s’impadronì delle chiavi che aprivano le celle. E una sera del maggio 1944 fece uscire Pietro. Lo trascinò fuori e lo spinse sul retro della prigione, dove aveva nascosto due biciclette.

Le inforcarono e sparirono dentro i grandi giardini pubblici, in quell’ora deserti. Poi presero una strada secondaria che portava alle colline. Pedalarono come forsennati, lei con il cuore in gola, lui pazzo di felicità. Pietro sapeva dove dirigersi perché la banda partigiana stava accampata in una località non lontana. Verso la mezzanotte arrivarono a una piccola cascina isolata. Pietro bussò, gridò il suo nome e un contadino gli aprì. Doveva conoscere il ragazzo perché lo abbracciò e lo fece entrare insieme ad Anna.

L’uomo non gli rivolse domande sul conto della bellezza bionda che lo accompagnava. Diede da mangiare a entrambi. Poi li guidò in un angolo della soffitta dove era sistemato un pagliericcio. Fu alla luce flebile di una lampada a petrolio che Anna e Pietro si amarono. Lei confessò al ragazzo di essere vergine e lui la trattò con delicatezza. Si addormentarono verso l’alba, spossati. La ragazza comprese di essere felice come non lo era mai stata. E ringraziò la Madonna per averle dato il coraggio di compiere quel passo, così intenso e bello.

Il brutto emerse il giorno dopo, quando nessuno dei due se l’aspettava. Nel primo pomeriggio arrivarono al campo della banda partigiana di Pietro. I compagni accolsero il ragazzo con urla di entusiasmo. Era un prigioniero che ritornava libero, grazie all’aiuto di quella ragazzona. Anche lei venne festeggiata. Il clima cambiò quando si fecero vivi il comandante e il commissario politico della banda. Il primo era un giovane ufficiale dell’esercito, il secondo un operaio comunista. Vollero sapere da Pietro in che modo era riuscito a evadere e chi fosse la ragazza che l’aveva aiutato. Lui raccontò la verità. E commise l’errore di aggiungere che Anna era una fascista, decisa a fuggire insieme a lui. I due capi gli fecero ripetere la storia dell’evasione. Pietro obbedì, senza mai contraddirsi. Del resto quanto andava dicendo era tutto vero. Ma nella guerra civile, un conflitto senza pietà per nessuno, poteva essere difficile far trionfare la verità. Pietro lo comprese quando cominciarono a rivolgergli domande gonfie di sospetto. I fascisti non ti avranno mica liberato per farti ritornare alla banda e spiarci? La ragazza non sarà una spia anche lei? Chi ci dice che non ti abbia fatto uscire dal carcere per conto dei suoi camerati? Pietro si difese, mentre Anna cadde in preda al terrore. Il commissario politico sembrava propenso a credere al racconto del ragazzo. Non così il comandante, sempre più diffidente. Pensava di avere di fronte un traditore e una fascista che fingeva di essere un’ingenua mossa soltanto dall’amore. Il partigiano comprese che cosa stava per accadere. Si scaraventò fuori dalla baracca dell’interrogatorio, gridò ad Anna di seguirlo e si mise a correre come un disperato.

Riuscirono ad afferrare le biciclette, però non fecero molta strada.

La fuga sembrò al comando un’ammissione di colpa. Vennero ripresi e rinchiusi in un capanno. Quella stessa notte Pietro e Anna furono condotti in un bosco vicino, con le mani legate dietro la schiena. Li affiancava un ribelle sui trent’anni, incaricato di giustiziarli. Arrivati nella boscaglia, l’uomo accoppò Pietro con una rivoltellata alla nuca. Ma non uccise Anna. Non aveva cuore di ammazzarla. Si limitò a colpirla alla testa con il calcio della pistola.

La ragazza perse i sensi. E non si accorse di venire caricata su un calesse sgangherato, accanto al cadavere di Pietro. Il partigiano li trasportò in un paese vicino. Qui furono scaricati sul selciato della piazza. Con un cartello che diceva: «Così muoiono le spie fasciste».

Così il fascismo ha travolto il debole liberalismo italiano. Il saggio di Vivarelli sugli anni 1918-22 ribalta il luogo comune della storiografia socialista: il movimento del Duce non fu affatto "il braccio armato della borghesia". Così scrive Giampietro Berti su “Il Giornale”. Sebbene sia impossibile sintetizzare, con una citazione, l'imponente ricerca storica portata a termine da Roberto Vivarelli con la sua monumentale opera sulla nascita del fascismo, Storia delle origini del fascismo. L'Italia dalla grande guerra alla marcia su Roma (Il Mulino, pagg. 544, euro 36; i primi due volumi sono apparsi rispettivamente nel 1967 e nel 1991), pensiamo di non forzare il suo pensiero se riportiamo questa frase: «Il carattere distintivo del movimento fascista sin dalle origini, non è l'antisocialismo, ma l'antiliberalismo». Giudizio, come si vede, che rovescia la vulgata della storiografia di sinistra secondo cui il movimento politico creato da Benito Mussolini sarebbe stato il braccio armato della borghesia per arrestare l'avanzata del movimento operaio e socialista. Se si analizzano gli anni del primo dopoguerra, si deve constatare che una parte della borghesia (specialmente gli agrari), spinta dalla paura di un possibile avvento della rivoluzione comunista in Italia, appoggiò Mussolini nella convinzione - del tutto errata - che questi, una volta neutralizzato tale pericolo, si sarebbe «costituzionalizzato», accettando lo Stato liberale. Tuttavia il fascismo non può essere ridotto a una semplice reazione antioperaia; certamente fu anche questo, ma soprattutto fu l'espressione italiana di un fenomeno nuovo della storia europea: il totalitarismo, la cui prima formulazione aveva visto la luce con la vittoria bolscevica in Russia. Il socialismo è stato certamente una vittima del fascismo, ma ancor più lo è stato il regime liberale. Dal lavoro di Vivarelli - la più importante e circostanziata opera storiografica mai realizzata sul quinquennio 1918-1922, basata su ricerche durate oltre mezzo secolo - si evince in modo indubitabile che l'avvento totalitario venne provocato dal logoramento dello Stato liberale, incapace di rinnovarsi. Questa insufficienza spiega la debolezza dei governi del primo dopo guerra - da Nitti a Giolitti, da Bonomi e Facta -, che risultano incapaci di reprimere le crescenti violenze perpetrate da destra e da sinistra; rotture della legalità che hanno avuto il risultato di rendere legittima, agli occhi di un popolo democraticamente immaturo, la sua ripetuta violazione. Di qui una serie di contraccolpi politici, sociali e psicologici intrecciati fra loro: il sentimento patriottico offeso dall'internazionalismo socialista, il terrore dei ricchi per la proprietà pericolante, gli odi della classe media contro gli operai e i contadini, il bisogno diffuso di ordine e sicurezza, il mito della vittoria mutilata, l'isterismo della novità. Il crollo dello Stato liberale parte dunque da qui, cioè da un disfacimento interno accentuato dagli effetti devastanti prodotti del conflitto bellico. Mussolini non avrebbe mai preso il potere senza l'aiuto, del tutto insperato, della guerra (ma ciò vale anche per Lenin e, più tardi, per Hitler). Questa, incrinando la centralità del sistema monarchico, impedendo una giusta sedimentazione del suffragio universale maschile e, per ultimo, accendendo uno scontro civile fra parti opposte, contribuì in modo decisivo a distruggere il potere dell'oligarchia dominate. La guerra mise in moto il fenomeno profondo, insondabile e incontrollabile della violenza. Su quest'onda il fascismo operò un salto di qualità del tutto sconosciuto rispetto ai precedenti governi liberali perché espresse una concezione radicalmente contraria allo spirito borghese e alla società capitalistica, una concezione della vita e del mondo alternativa al liberalismo individualistico ed edonistico, intrisa del culto dell'azione, della forza, refrattaria alla visione materialistica, all'urbanesimo industriale. Si può dire quindi, complessivamente, che nel Novecento la divisione decisiva non passa tra fascismo, nazismo e comunismo, o tra destra e sinistra, ma tra libertà e non libertà, cioè tra la liberaldemocrazia e i totalitarismi. Un insieme interpretativo, come si vede, che esula dall'analisi di classe propria dell'antifascismo di maniera. Vivarelli ci mostra anche che il quadriennio 1919-1922 vide morire la democrazia ancor prima di nascere. Dall'Unità fino all'età giolittiana non è possibile riscontrare un vero sviluppo democratico. Lo confermano, sia pure con modalità diverse, Depretis, Crispi e Giolitti, il cui equilibrismo trasformistico non riuscì ad assorbire le spinte provenienti dal basso. Dopo il 1918 il liberalismo si trova privo di difese perché la vecchia classe dirigente, essendo delegittimata, non ha più la forza e l'autorevolezza per governare, mentre le nuove forze politiche sono, per gran parte, estranee al suo ethos (soprattutto lo sono i socialisti, meno i popolari).È stato possibile attuare un colpo di Stato perché la stragrande maggioranza degli italiani, pur essendo avversa al movimento dei fasci, era indifferente alla vita e al mantenimento dello Stato liberale. Il crescendo di violenze, iniziato con la spedizione di Fiume, trova il suo approdo nella marcia su Roma. Il fascismo è il risultato logico di questo processo.

E con la pace, fino ad arrivare ai giorni nostri.

Il fascismo secondo Giampaolo Pansa. Intervista pubblicata su Il Messaggero di Federico Guiglia. All’epoca dell’Italia che gridava eia eia alalà, Giampaolo Pansa era un bambino. “Ma quel grido lo sentivo di continuo”, ricorda il giornalista e scrittore. Ha appena pubblicato un libro che proprio quelle parole riporta in copertina: Eia eia alalà, controstoria del fascismo, Rizzoli editore. Un racconto sul passato per dire del presente: guardate che cos’è successo, e può ancora succedere, lui dice. “Quando il fascismo è caduto, io avevo sette anni e mezzo ed ero figlio della Lupa a Casale Monferrato”, riprende il filo del discorso. “Ho pure una foto scattata da mio padre davanti al monumento ai Caduti della prima guerra mondiale, in cui apparivo vestito in quel modo un po’ ridicolo con fasce bianche e camicia nera e facevo il saluto romano. Insieme con la canzone “Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza”, eia eia alalà era un po’ il “jingle” del fascismo”.

“Il nero nacque dal rosso” è la riflessione-chiave dei personaggi del libro (dall’immaginario possidente terriero Edoardo Magni al suo - suo di Pansa -, edicolante citato in prefazione). Ma socialisti e fascisti erano nemici irriducibili: come fa a imputare ai primi la nascita dei secondi?

“Guardiamo le date. Nel 1915 per noi comincia la prima guerra mondiale, che finisce nel novembre del 1918. I soldati tornano a casa e la grande maggioranza di loro erano poveracci e contadini. S’assiste all’espansione politica e sindacale della sinistra di allora. C’era il Partito socialista. C’erano le leghe operaie e contadine che nell’Italia della pianura padana si svilupparono molto. Dopo la prima vittoria elettorale del Partito socialista, comincia quello che Pietro Nenni chiamò il biennio rosso. Non soltanto una serie di scissioni a sinistra, ma soprattutto questi matti delle leghe che annunciavano l’arrivo del bolscevismo e della rivoluzione. Dicevano che l’Italia doveva fare come Lenin. Violenze dappertutto, in particolare nelle campagne. Basta ricordare il grande sciopero agrario del 1920, quando le leghe rosse, per piegare i proprietari agricoli, ordinarono ai braccianti e ai mungitori di lasciar morire le vacche per non essere munte”.

Sta dicendo che, per paura del rosso, gli italiani diventano neri?

“A ogni azione corrisponde una reazione. E’ quello che non hanno capito le sinistre, la frazione che nel 1921 fondò a Livorno il Partito comunista, i massimalisti. L’hanno capito un po’ i socialisti riformisti e l’hanno scritto su loro giornale, La Giustizia. Non è che il fascismo è un mostro che nasce per caso. E’ un mostro che viene creato dai suoi avversari, che fanno di tutto per spaventare la borghesia”.

La sindrome per l’uomo solo al comando ha colpito una volta sola o può colpire ancora il sentimento, le paure, il conformismo di tanti italiani?

“La sindrome la vediamo anche oggi. Quando un presidente del Consiglio invece di rivolgersi al Parlamento si rivolge alla gente e vuole essere solo a decidere, il rischio c’è sempre. E’ proprio uno dei motivi per cui ho scritto il libro. Com’era l’Italia del 1920/21? Stremata dal punto di vista economico dopo una guerra mondiale pazzesca. Aveva una classe politica, oggi diremmo una casta, screditata, ritenuta imbelle e corrotta. E poi c’erano i conflitti sociali. Ci sono affinità con l’Italia di oggi? Temo di sì. E poi gli italiani sono gente che ama essere comandata da un signore solo. Questo non è il Paese dalla tradizione democratica inglese o americana”.

Fin dai tempi della storia narrata nei libri di Montanelli, gli storici non amano i giornalisti che si cimentano sul loro terreno. Avendo lei mescolato romanzo e storia non teme di avallare il loro pregiudizio?

“Non me ne frega nulla del pregiudizio. Bisogna avere una patente speciale per scrivere di storia come per guidare la Ferrari? Io ho profonda disistima per la classe accademica degli storici italiani, che è egemonizzata dai postcomunisti. Quando nel 2003 ho pubblicato “Il Sangue dei vinti”, che ha venduto più di un milione di copie, sono stato bombardato da tutte le parti. Ma io li conosco. Sono stato uno studente diligente, facendo una tesi di laurea - poi pubblicata da Laterza - sulla guerra partigiana. Arrivato a settantanove anni, Pansa ha soltanto uno di cui preoccuparsi: il Padreterno. Non ho ancora capito quanto tempo mi lascerà per scrivere e rompere le scatole al prossimo. Ma non ce l’ho con tutti i professori. Ho un grandissimo rispetto per De Renzo De Felice, di cui sono stato allievo indiretto avendo letto tutti i suoi libri. E non solo lui”.

De Felice fu il primo a parlare di “anni del consenso” per il fascismo, almeno fino alle vergognose leggi razziali del 1938.

“Il consenso c’era, non l’ha inventato De Felice. Non è vero che Mussolini è arrivato e ha ammanettato milioni di italiani. Gli italiani sono stati quasi tutti fascisti. Tranne una minoranza infima di comunisti, cattolici, socialisti repubblicani, anarchici che stavano in galera o costretti a espatriare. Poi c’era chi si iscriveva al fascio perché obbligato, perché gli conveniva, per quieto vivere. Se oggi spuntasse un altro Mussolini, avremmo un po’ di manifestazioni in piazza, ma la maggioranza degli italiani gli andrebbe dietro. L’attualità del mio libro è proprio questa: guardate un po’ che cosa è successo, come la storia drammatica degli ebrei deportati nella primavera del ’44 che racconto. E la gelida indifferenza di tanti che si giravano dall’altra parte”.

Per gentile concessione dell’autore e dell’editore, pubblichiamo da “Libero” ampi stralci dell’introduzione al nuovo libro di Giampaolo Pansa, che uscirà l’11 settembre. Si intitola «Sangue sesso soldi», ed è una personale rilettura di sessant’anni di storia italiana, scritto da uno dei testimoni più autorevoli e apprezzati del panorama italiano. Il volume (edito da Rizzoli, 450 pagine, 19 euro, disponibile anche in e-book) è suddiviso in 8 parti: una per ogni decennio dal Dopoguerra a oggi. La narrazione di Pansa è personale, imperniata su figure minori attorno alle quali scorre il grande racconto della storia d’Italia. Il giornalista e scrittore rivive così, da testimone diretto, l’infanzia sotto il fascismo, le ansie del dopoguerra, la transizione. E poi il boom, gli anni Sessanta, il terrorismo vissuto al «fronte», il caso Moro, il crac Ambrosiano, l’era Agnelli, Falcone e Borsellino, Tangentopoli, l’arrivo del Cav. L’ultimo capitolo è l’oggi: la grande crisi, le strambe elezioni 2013, la sorte di Berlusconi, la morte di Andreotti.

Per gentile concessione dell’autore e dell’editore, pubblichiamo anche gran parte del capitolo «Il bluff del Sessantotto. 1968», tratto da Sangue, sesso, soldi. Una controstoria d’Italia dal 1946 a oggi di Giampaolo Pansa, ex inviato del Corriere della Sera, ex vicedirettore di Repubblica e ora firma di punta di Libero.

Su Libero una parte di un capitolo dell'ultimo libro di Giampaolo Pansa, che ricorda il Sessantotto: "Idioti, violenti, ignoranti...". Il grande giornalista demolisce il bluff della stagione rivoluzionaria più pompata dalla retorica: "Fu l'incubatrice del terrorismo rosso". Personale rilettura di oltre 65 anni della nostra storia, scritto da uno dei più autorevoli giornalisti e storici italiani, il libro è suddiviso in otto parti, dall’immediato dopoguerra (dominato dalle figure di De Gasperi e Togliatti) al ventennio berlusconiano. In mezzo, Stalin e la legge Merlin, il boom economico del Belpaese, la tragedia del Vajont, gli anni di piombo, le stragi di mafia, i morti di Tangentopoli e la morte di Andreotti.

"Fu un tragico bluff il Sessantotto. Per di più coperto e difeso da un’ondata di retorica mai vista prima in Italia. Eppure molti politici, molti intellettuali e molti giornalisti lo ritennero un miracolo. A sentir loro, iniziava una stagione fantastica ed esaltante per la democrazia. Il Sessantotto avrebbe cambiato tutto in meglio: la politica, l’economia, la società, la scuola, la cultura, la famiglia, i rapporti tra maschio e femmina, persino l’educazione dei bambini. A conti fatti non accadde nulla di tutto questo. L’unico, vero frutto fu il terrorismo di sinistra, il mostro delle Brigate rosse. (...)"

"C’era una volta un re, seduto sul sofà, che disse alla sua serva: «Raccontami una storia!». E la serva cominciò: «C’era una volta un re, seduto sul sofà, che disse alla sua serva…». E così via sino all’infinito.(Filastrocca del tempo che fu). Sangue, sesso, soldi. Perché dare questo titolo al racconto dell’Italia che ho visto dal 1946 a oggi? Perché sono tre parole, tanto secche da sembrare brutali, che fotografano meglio di altre la natura profonda del nostro paese. Una volta usciti dalla guerra civile, abbiamo continuato a odiarci, sguazzando nel sangue. Le centinaia di assassinati nelle ultime guerre interne, decise dal terrorismo e dalla mafia,  (...)(...) le abbiamo dimenticate. Eppure anche nel nostro passato più vicino campeggiano un’infinità di tombe e di lapidi funerarie. E ancora oggi gli assassini stanno in agguato ovunque, pronti al delitto. Il sesso, praticato, esibito o narrato è un’altra delle nostre bandiere. I media ci presentano di continuo storie di letto che un tempo restavano confinate nelle chiacchiere private. L’erotismo è diventato fonte di nevrosi incontrollabili. Ha perso la normalità allegra di un tempo. Produce ansia, stress, contrasti offerti al pubblico. Il gioco che ho conosciuto nella mia giovinezza si è tramutato in una contesa furiosa, capace di causare persino movimenti di piazza. Come accade oggi per le nozze tra gay. I soldi sono sempre stati un’ossessione non soltanto individuale, ma prima ancora pubblica. La voglia di arricchirsi in modo illecito ha intossicato la vita politica trascinandola nel baratro della criminalità. Gli anni di Tangentopoli, con i tanti processi e le molte vittime, ci hanno svelato un’Italia ributtante. Abbiamo vissuto una tragedia che continua ancora e azzera la credibilità delle istituzioni. La sobrietà, una virtù che i partiti dovrebbero considerare il bene più prezioso, si dissolve ogni giorno sotto lo tsunami di una corruzione invincibile e volgare. Quando è cominciato questo inferno? A mio parere, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, in un’Italia che sembrava destinata a diventare all’istante una democrazia perfetta. Soltanto in seguito ci siamo resi conto che era un traguardo impossibile. Per un motivo che oggi mi sembra più evidente di allora: venivamo da vent’anni di fascismo. La dittatura non era stata una parentesi, un incidente passeggero, bensì una condizione di normalità, accettata senza problemi. 

Tutti fascisti. C’è una verità che non si vuole ammettere: siamo stati quasi tutti fascisti. Lo sono stato anch’io, almeno nei due anni iniziali di scuola elementare. Ho cominciato a frequentare la prima classe nell’ottobre del 1941. Ero un bambino magro, dalle gambe lunghe, sempre vestito con decoro. Così voleva mia madre Giovanna che aveva un negozio di mode e credo mi abbia cucito di malavoglia la divisa da Figlio della Lupa. Per ordine del regime, la dovevano portare tutti i maschi dai 6 agli 8 anni, in attesa di diventare Balilla. La divisa consisteva in una camicia nera, attraversata da due fasce bianche incrociate e da un cinturone alto e anch’esso bianco, pantaloni corti di panno ruvido grigioverde, lo stesso colore dei calzettoni. E infine il fez, un piccolo copricapo di feltro nero a forma di cono tronco, che terminava con un fiocco. Conservo una fotografia del Pansa Figlio della Lupa, forse scattata da mio padre Ernesto. Sul retro c’è una data, scritta a penna: 10 giugno 1943. Era il terzo anniversario della nostra entrata in guerra. (...) Di diverso dal Duce e dal fascismo non esisteva nulla. Nella nostra piccola città si sapeva tutto di tutti. Ma non si conoscevano oppositori del regime. Di certo qualcuno che non la pensava come Mussolini c’era, ma se ne stava al coperto per non rischiare il carcere e la disapprovazione di una maggioranza molto vasta. Dopo la fine della guerra e il crollo definitivo del fascismo, si è scritto tanto sulla presenza di un’opposizione clandestina. Però questa si trovava soltanto nelle carceri. Dove stavano rinchiusi, spesso da anni, i pochissimi avversari del regime. Oppure nelle cellule invisibili dei comunisti, gli unici ad aver conservato un minimo di organizzazione politica. Esiste una prova del fatto che l’Italia fosse un paese quasi del tutto fascista, per convinzione, per obbligo o per quieto vivere. È una prova indicibile, e infatti non viene mai ricordata. Poiché suscita sempre un sentimento profondo di vergogna. Nel settembre 1938 il regime aveva emanato le leggi razziali, un complesso di norme infami destinate a colpire gli ebrei. Anche nella mia città viveva da secoli una comunità israelitica che si ritrovava in una splendida sinagoga oggi restaurata. Era composta da persone che conoscevamo tutti: il commerciante ebreo, l’insegnante ebreo, il medico ebreo, il pensionato ebreo. Ma contro quelle leggi nessuno protestò, s’indignò, si rammaricò. E ci fu anche qualcuno che si congratulò con il Duce. Lo stesso silenzio inerte accolse le razzie degli ebrei, destinati ai campi di sterminio nazisti. A Casale Monferrato iniziarono nel febbraio 1944 e vennero completate in aprile. Alla cattura degli israeliti, in gran parte donne e uomini anziani, provvedevano agenti di polizia del commissariato cittadino. Gli arrestati venivano rinchiusi nel piccolo carcere che sorgeva in fondo alla strada dove abitavo. Di qui erano inviati al campo di transito allestito a Fossoli, in Emilia. E di lì partivano per le camere a gas di Auschwitz e di altri luoghi infernali. (...) L’Italia si è scoperta antifascista soltanto dopo il 25 aprile 1945. Una volta conclusa la guerra, i pochi che nell’ottobre di due anni prima si erano dati alla macchia, e avevano combattuto da partigiani, si trovarono circondati da una marea di ribelli della venticinquesima ora. Gente che aveva scoperto la lotta per la libertà solo quando l’Italia era ritornata libera. Grazie ai soldati inglesi, americani e di tante altre nazionalità che, per salvarci da una dittatura, si erano sacrificati a migliaia nella lenta avanzata dalla Sicilia verso il Nord. Da quel momento diventammo una democrazia con più partiti e un’Assemblea costituente eletta il 2 giugno 1946, incaricata di scrivere la Costituzione. (...) Tutto bene? Per niente. La democrazia è un mestiere che non s’impara in quattro e quattr’otto. Soprattutto in un paese distrutto dalla guerra che dopo vent’anni di dittatura scopre l’asprezza della battaglia tra i partiti. Accadde così nell’Italia che all’inizio del 1948 si avviava alle prime elezioni destinate a decidere il nostro avvenire, ancora in bilico tra una democrazia liberale e un regime autoritario guidato dai comunisti. In tempi di massiccio assenteismo elettorale, è giusto ricordare quanti andarono ai seggi il 18 aprile 1948: il 92,2 per cento degli aventi diritto al voto. Il racconto che i lettori troveranno in questo libro s’inizia con il confronto tra i protagonisti di quella battaglia politica, le due figure simbolo del primo dopoguerra: Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti. Sono loro a introdurci in una lunga storia che arriva ai giorni nostri. E al caos brutale che rende un inferno questo 2013. Perché ho deciso di ripercorrere sessant’anni di vita italiana? (...) A incitarmi è la paura che mi ispira il futuro. Non il mio, quello personale, di un signore ben al di là dei settant’anni. Mi inquieta l’avvenire del nostro paese, oggi immerso in una crisi destinata a durare per un tempo lungo e a diventare sempre più pesante. Invece il passato mi appare meno carico di pericoli del futuro. I rischi che abbiamo corso negli ultimi decenni li abbiamo comunque superati. Mentre le sorprese cattive che ci attendono al varco sono una gigantesca nuvola nera che incombe sulle nostre vite e può generare il peggio. Ecco perché il tempo trascorso mi sembra ben più rassicurante del tempo che ci aspetta.

Il passato che torna. (...) Ho preferito un racconto molto personale. Mettendo in ordine cronologico una sequenza di eventi politici, sociali, di costume, di vita vissuta e dei personaggi che li rappresentavano. Non tutti, perché sarebbe stato impossibile. Ma soltanto quelli che consideravo i più adatti a rievocare le fasi a mio avviso degne di ricordo all’interno di una lunga vicenda. Ogni evento ha dato origine a una storia, proprio come quelle che il re della filastrocca chiede alla sua serva di raccontargli. Voglio fermarmi un istante sulla faccenda della narrazione personale. (...) Qualcuno mi accuserà di presunzione per aver sopravvalutato la biografia di Giampaolo Pansa? Può essere un rimprovero fondato. Ma replico presentando l’attenuante dell’età. Ho scoperto che, con l’avanzare degli anni, è difficile sottrarsi al proprio passato. Ritorna a galla di continuo, bussa alla nostra porta e pretende di essere ascoltato. È per questo che, invecchiando, ripensiamo sempre più spesso ai nostri genitori. Li rivediamo come erano da giovani e, insieme, ritorniamo con la memoria alla nostra infanzia e poi all’adolescenza. Con tutto quello che le accompagna: gli amici, i maestri che ci hanno aiutato a crescere, anche quelli indiretti, come i libri e i giornali che abbiamo letto, la scoperta del sesso, le donne amate. L’aver scelto la parte del testimone mi ha spinto ad andare controcorrente rispetto a molte sacre scritture di storia contemporanea. L’avevo già fatto a proposito della guerra civile, attraverso una serie di libri iniziata con I figli dell’Aquila e Il sangue dei vinti. Un’esperienza che ha segnato la mia età matura, ben più di quanto mi aspettassi. Dieci anni fa non mi rendevo conto di fare del revisionismo scandaloso. Ma quando mi hanno osteggiato, e aggredito anche con azioni violente, per quel peccato imperdonabile, ne sono stato contento. Perché ho compreso di aver battuto una strada che quasi nessuno voleva percorrere. Avevo infranto una cortina di bugie, eretta da tanti sepolcri imbiancati. Politici, intellettuali, docenti di storia, direttori di giornale e opinionisti che per ottusità culturale e opportunismo ideologico non accettavano che qualcuno rifiutasse la grande bugia sulla Resistenza. Una finzione messa sugli altari dentro una teca di vetro. E da venerare con un culto quasi religioso. Officiato con rigore maniacale dai tanti che ho chiamato, ricorrendo a un’immagine beffarda, i Gendarmi della memoria. Pure questo libro è un testo revisionista. Lo è per due motivi. Prima di tutto perché inserisce nella narrazione di molti eventi importanti anche vicende in apparenza minori e personaggi sconosciuti. I racconti che qui troverete consentono di osservare la storia italiana di tanti decenni non soltanto guardando verso l’alto, a personaggi che tutti conoscono, ma pure verso il basso. Ho tentato di farlo attraverso le figure di donne e di uomini che l’accademia non considera mai degne di menzione. Mentre possono aiutarci a sbirciare la grande storia da una prospettiva insolita che ne rivela aspetti sconosciuti. Un esempio per tutti? La mostruosa epidemia dell’Eternit rievocata attraverso una vicenda vera narrata da un amico della mia città che ha perso la madre e la moglie uccise dall’amianto.

Revisionista? Sì. Esiste poi un secondo motivo che mi spinge ad affermare il revisionismo di questo racconto. Qui siamo su un terreno che spingerà molti a rinfacciarmi di aver scritto un libro di destra. Voglio subito dire che l’etichetta non mi spaventa. Anzi, la considero una medaglia, se per destra s’intende l’opposto di una sinistra culturale marmorea e bugiarda che per anni ha spacciato una lettura della storia italiana inquinata dal partito preso. E seguita a spacciarla con la boria di chi si difende aggrappandosi al complesso dei migliori. Ossia alla convinzione di essere il meglio fico del bigoncio e di saperla più lunga di tutti. A questi pennacchioni rossi o rossicci non piaceranno i giudizi che qui troverete. Ne elenco qualcuno. Alcide De Gasperi ha salvato la libertà dell’Italia e non era affatto un lacchè del governo americano. Una vittoria del Fronte popolare guidato da Palmiro Togliatti e da Pietro Nenni avrebbe imprigionato il nostro paese dentro un regime succube dell’Unione Sovietica. L’aiuto degli Stati Uniti nel 1947 e nel 1948 ha impedito che molti italiani morissero di fame e di freddo. Il miracolo economico non è stato il trionfo del capitalismo selvaggio e del consumismo. Ma il risultato del lavoro e della tenacia di tanti signori nessuno che cercavano un minimo di benessere.  Il Sessantotto si è rivelato un tragico bluff che ha distrutto la nostra università. E ha dissolto il principio di autorità indispensabile a qualsiasi ordinamento sociale. La borghesia di sinistra non era per niente illuminata e saggia. Disprezzava chi non apparteneva ai suoi clan, odiava i poliziotti, urlava: «Basco nero – il tuo posto è al cimitero». E firmava appelli mortuari contro il commissario Luigi Calabresi, ritenuto a torto l’assassino dell’anarchico Giuseppe Pinelli. La Meglio gioventù spaccava il cranio agli avversari a colpi di spranga e di chiavi inglesi. Il terrorismo rosso esisteva e non era affatto un’invenzione delle destre reazionarie. I brigatisti erano militanti in carne e ossa che volevano distruggere il capitalismo ammazzando cristiani senza colpa. L’editore Giangiacomo Feltrinelli non è stato eliminato dalla Cia americana, ma si è ucciso nell’inseguire il sogno folle di una rivoluzione proletaria. Un paradosso per un miliardario com’era lui. L’avvocato Agnelli era di certo un gran signore, ma copriva le mazzette pagate ai politici pure dalla Fiat. La violenza verbale era ed è ancora il tratto distintivo dei giornali ritenuti progressisti, per niente diversi dai fogli di centrodestra, e spesso peggiori. La decadenza dell’Italia di oggi non è dovuta soltanto a Silvio Berlusconi, ma va messa in conto all’intero sistema politico. E dunque anche a una sinistra inconcludente e incapace di essere all’altezza delle sfide che ci attendono. (...) Per questo è lecito domandarsi dove stia andando la nostra repubblica. Verso il baratro che di solito inghiotte le nazioni ormai prive di coraggio e incapaci di curare i propri mali? Oppure saprà ritrovare la fiducia e la forza che l’hanno aiutata a superare tante crisi? Spero che i lettori di Sangue, sesso, soldi non cerchino una risposta da me." di Giampaolo Pansa.

Puglia, l’8 settembre tra grida e resistenza, scrive Antonio Vito Leuzzi su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. L’atteggiamento incerto e passivo di Badoglio, dopo l’annuncio ai microfoni dell’Eiar, alle 19,45 dell’8 settembre del 1943, dell’entrata in vigore dell’armistizio e della cessazione delle ostilità contro gli anglo-americani. che da nemici diventarono alleati, alimenta ancora oggi la ricerca e il dibattito storiografico. Con la fuga a Brindisi del re, del capo del governo dei vertici militari e con la scelta di non opporsi ai tedeschi, nella speranza di evitarne la reazione si delineò una situazione caotica che suscitò preoccupazione nei comandi alleati. La fulminea reazione degli uomini di Hitler che riuscirono a prenderne il controllo di Roma - rendendo vana la resistenza di alcuni reparti militari e di consistenti gruppi di civili, mobilitatosi spontaneamente - fu resa possibile per l’assenza di direttive, come ha ben evidenziato Elena Aga Rossi nel volume, Una nazione allo sbando. La situazione determinatasi dalla «mancata difesa di Roma», allarmò gli anglo-americani. Con un telegramma il 10 settembre il generale Dwight D. Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate nel Mediterraneo, invitò Badoglio a mettere da parte ogni «esitazione». Le clausole armistiziali prevedevano, infatti, la tenuta della capitale e la garanzia dell’accesso ai porti navali nell’Italia meridionale. Solo quest’ultima condizione si concretizzò per la forte resistenza di cui furono protagonisti il 9 settembre in Puglia alcuni reparti militari sostenuti dai civili a Taranto e Bari e in diverse altre località della regione tra cui Ceglie Messapica, Putignano, Bitetto, Castellaneta, Noci ed in seguito Barletta e i centri della Capitanata. I reparti germanici stanziati nella regione che avevano predisposto in base al piano «Achse» (mietitura) l’attacco ai porti, alle strutture delle radio-comunicazioni, ai depositi militari, alle più importanti vie di comunicazione ed all’Acquedotto pugliese, si trovarono di fronte una inaspettata e spontanea resistenza italiana. S’impose all’attenzione, il giorno successivo all’armistizio, la resistenza, vittoriosa al porto di Bari, al Palazzo delle Poste e delle Telecomunicazioni, ai grandi magazzini militari di Via Napoli. Intuì il pericolo e si mobilitò immediatamente il popolo di Bari vecchia (il generale Bellomo fu avvertito dalle donne deiquartieri a ridosso del porto) mentre ragazzi e giovani portuali, tra cui il quindicenne Michele Romito lanciavano bombe su un autocolonna tedesca. Militari delle diverse armi, marinai, finanzieri, genieri, ex militi, bersaglieri, carabinieri e vigili urbani, e ancora, impiegati delle Poste, tecnici di Radio Bari, al porto e in diversi altri punti della città nullificarono il piano distruttivo dei tedeschi...L’11 settembre i maggiori quotidiani britannici ed americani, tra cui il Times ed il New York Times dedicarono le prime pagine al felice sbarco delle forze anglo-americane nei porti pugliesi di Taranto e Brindisi ed i sentimenti di amicizia manifestati della popolazione. La resistenza nella realtà pugliese e meridionale trovò in Radio Bari una voce autorevole e rappresentò un vantaggio consistente e inaspettato da parte degli alleati che trovarono sgombri i porti e gli aeroporti e intatti gli apparati delle telecomunicazioni e dell’informazione. La reazione tedesca, tuttavia, fu violenta nel Nord della Puglia, nell’Alta Murgia come nel resto d’Italia. I nazisti commisero orrende stragi soprattutto contro soldati sbandati e cittadini inermi tra le quali vanno ricordate quelle di Barletta, di Murgetta Rossi nel territorio di Spinazzola, e di Valle Cannella nei pressi di Cerignola. Gli avvenimenti di 70 anni fa misero in luce la diffusa volontà di opposizione alla guerra degli italiani ed al contempo la volontà di riscatto e la scelta che fu alla base della lotta di liberazione nazionale.

'Le larghe intese? Hanno 70 anni', scrive  Wlodek Goldkorn su “L’Espresso”.

«È stato l'8 settembre del 1943 che cominciarono la alleanze trasversali. Che durano ancora oggi. Nascoste o palesi che siano». La tesi dello storico Sergio Luzzato.

E' da settant'anni che l'Italia vive di grandi intese. E l'accordo di tutti con tutti - con avversari veri, apparenti, immaginari - fa ormai parte del carattere nazionale. Così pensa Sergio Luzzatto, storico brillante, qualche volta controverso, mai banale. "L'Espresso" è andato a sentirlo a casa sua, una gradevole abitazione a Ferney-Voltaire, vista su Monte Bianco a due passi dal castello in cui ha vissuto il grande filosofo che al paesino ha dato il suo nome. Sono passati appunto sette decenni da quando l'8 settembre 1943 il maresciallo Badoglio annunciava l'armistizio con le forze angloamericane. Il re fuggiva da Roma; i fascisti cercavano la protezione dei cugini nazisti; la meglio gioventù saliva in montagna. Da allora le interpretazioni di come quegli eventi abbiano pesato sulla storia patria si sono sprecate. Particolarmente in voga è quella che vi riconosce l'inizio di una guerra civile, mai cessata, ma diventata "a bassa intensità".

«Guerra civile tra il 1943 e il 1945, c'è stata, eccome», dice Luzzatto, «ma la storia di una guerra civile a bassa intensità di cui saremmo oggi partecipi e testimoni è una bufala. Serve a soddisfare interessi politici contrapposti. Quelli dei moderati che vogliono far passare gli avversari di Berlusconi per dei pericolosi sovversivi; e quelli degli estremisti che sognano una "nuova resistenza". Semmai possiamo definire quello che è successo come la madre delle larghe intese», spiega. «Però, da storico, devo fare una precisazione. C'è una specificità del contesto dell'8 settembre: la guerra mondiale; il cambio di regime e quindi un nuovo patto costituzionale; e una guerra civile vera».

Ha parlato della continuità tra l'8 settembre e oggi. C'è però chi, da anni, sostiene la tesi per cui quel giorno morì la patria.

«Muore la patria fascista. Gli antifascisti la loro patria la perdono nel giugno 1940 quando cade la Francia, pugnalata alle spalle dal fascismo italiano. E' la Francia della Rivoluzione, del Fronte popolare, terra d'asilo. L'8 settembre rinasce la patria degli antifascisti, quindi. Anche se le occorrono circa nove mesi di gestazione:dalla salita in montagna dei primi giovani ribelli fino al consolidamento dei partiti politici e della Resistenza militare».

Pochi mesi dopo l'8 settembre c'è la svolta di Salerno. Togliatti torna dall'Urss: accetta la monarchia, riconosce il governo Badoglio. Chiede ai comunisti di sospendere ogni velleità rivoluzionaria o repubblicana. Un comportamento strano se paragonato a Lenin che tornato a San Pietroburgo nel 1917 in una situazione analoga chiama a rovesciare il regime borghese. Togliatti agisce solo per volontà di Stalin o c'è una ragione intrinseca?

«Togliatti manca dall'Italia da 18 anni ed è meglio preparato ad affrontare le questioni mondiali di quanto siano i compagni che hanno fatto antifascismo all'interno del Paese. Ma attenzione: la svolta di Salerno segna una delega alle istanze sovranazionali dei problemi nazionali. Da 70 anni, l'Italia, per un limite virtuoso della sua classe dirigente, compie le sue scelte facendosi guidare da altri. Da Togliatti e De Gasperi fino a Monti, i nostri leader hanno preferito un ruolo da gestori di linee politiche che vengono da fuori. E mai nella storia repubblicana abbiamo avuto autentiche crisi riguardanti questioni internazionali».

Togliatti diventa il vice di Badoglio, un personaggio che ha usato i gas in Etiopia e che fu tra i firmatari nel 1938 del Manifesto della razza.

«Togliatti è un realista e un fine politico. Penso che vedesse lucidamente quante Italie erano da conciliare: il Sud, il Centro, il Nord; diverse da mille punti di vista, compreso il rapporto con l'istituzione monarchica, con il movimento operaio, con le élites borghesi. Contro i guastafeste, gli azionisti con la loro coerenza morale che implicava la rivoluzione, indica la via del compromesso, delle larghe intese».

Il leader democristiano è De Gasperi. Il riconoscimento reciproco tra lui e Togliatti è conseguenza della sfiducia negli italiani? Sono due ex esiliati. Togliatti in Urss, De Gasperi in Vaticano, dove faceva il bibliotecario.

«Sono due uomini fatti per capirsi, non solo per eccesso di Realpolitk ma perché cresciuti in due scuole dove si sono abituati a vedere l'Italia nel contesto mondiale. Giocano però anche le origini trentine, cioè austro-ungariche, di De Gasperi: era consapevole di quante anime possa avere un Paese».

Nel suo celebre libro del 1991 Claudio Pavone parla della "moralità nella Resistenza". In un altro del 1966, Giorgio Bocca usa parole come: vergogna, dignità, tradimento, minoranza. Una minoranza che prova vergogna e lotta per la dignità...

«I comunisti sapevano cosa volevano fare. Gli azionisti invece agivano soprattutto per protesta valoriale. Il loro era, come si è detto, un "antifascismo esistenziale". Erano come degli ospiti venuti a cena ma che si aspetta che se ne vadano».

Nel 1946, dopo la proclamazione della Repubblica arriva l'amnistia di Togliatti.

«Al di là degli elementi congiunturali (le prigioni erano piene) l'amnistia è fondamentale. Perché rende possibile l'interpretazione della guerra civile come uno scontro in cui ambedue i campi avevano commesso delle nefandezze. E omette non solo la quantità di queste nefandezze, ma anche la loro qualità. Per i partigiani il ricorso alla violenza è un doloroso strumento per arrivare a una società democratica. Non c'è una banda Carità tra i partigiani. Per i nazifascisti coincide con il progetto di società. Ma l'amnistia corrisponde alla percezione diffusa che gli italiani hanno avuto degli anni della guerra: il loro cuore batteva per gli alleati non per la Resistenza. Ecco un altro ingrediente delle larghe intese: l'idea (corretta) che l'Italia sia stata liberata dagli Alleati più che dai partigiani. E anche per questo la politica estera non diventa mai un elemeno di divisione. Del resto i comunisti, sotto sotto, si sentono meglio in Occidente che con l'Urss, fino alla famosa intervista di Berlinguer in cui confessa a metà anni Settanta di sentirsi protetto dall'ombrello della Nato».

Anche nel linguaggio i comunisti assomigliavano ai democristiani?

«Rimando a "L'Orologio " di Carlo Levi, alle pagine in cui da pittore descrive, senza farne i nomi, De Gasperi, Togliatti e, per contrasto, Parri. C'è una larga intesa basata sull'assenza del corpo e del carisma nella politica. Anche la lingua parlata doveva essere ovattata, indiretta, accademica; in contrasto con quella di Mussolini. Romperà questo patto Craxi, ma senza costrutto».

Nel 1956 Togliatti ha difficoltà a digerire l'ondata della destalinizzazione. Appoggia l'intervento sovietico in Ungheria. E' sbagliata l'ipotesi per cui lo fa non per l'amore dell'Urss, ma perché ha paura della destabilizzazione? Vuole l'Italia saldamente in Occidente, per cui niente scossoni.

«A conferma di questa ipotesi sarebbe un fatto speculare: nel '89 il democristiano Andreotti non vuole la riunificazione della Germania. Preferisce lo status quo. I comunisti, nella storia postbellica, sono più inclusi che esclusi. Tanto che hanno potuto esercitare l'egemonia culturale. C'è stato sì il periodo centrista, dal 1948 al 1960. Però le larghe intese hanno funzionato nella vita sociale. E' la Dc che realizza il programma socialdemocratico; costruisce il Welfare State. E comunque la Dc e il Pci si assomigliano. Non solo nella struttura e nella propaganda ma anche per quanto riguarda i consumi e i costumi. Finito il centrismo si arriva al centro-sinistra e alle "convergenze parallele" di Moro: il trionfo delle larghe intese».

Poi arriva il Sessantotto.

«Una generazione fortunata, cresciuta nel benessere, si ribella contro le larghe intese. Non capiscono il buono della socialdemocrazia. Ma operano una cesura sulla questione dei diritti civili: aprono la via alla stagione referendaria. Che il Pci vive malissimo. Asseconda i referendum ma non li vuole. Quella stagione ha visto come prodotto collaterale il terrorismo e le stragi dello Stato (che creano un lutto condiviso e quindi una forma di legame sociale). Ma è la stagione, soprattutto, delle pratiche di emancipazione civile. Il Pci ne trae conclusioni sbagliate. Il compromesso storico, che Berlinguer teorizza nel 1973, diventa una pratica di spartizione delle poltrone: Rai, ospedali, enti locali. E' il trionfo della partitocrazia; fino a Mani pulite».

E così arriviamo al ventennio berlusconiano.

«Che non segna discontinuità. Finiscono i partiti storici di massa; ma si consolidano nuove forme di partitocrazia: lo svuotamento dell'istituto referendario, il sabotaggio delle riforme istituzionali, il consociativismo nei servizi pubblici, la tutela della casta».

E Giorgio Napolitano?

«L'Italia ha avuto la fortuna di avere (da Pertini in poi, con l'eccezione di Cossiga) presidenti della Repubblica all'altezza del ruolo. Napolitano esprime un'idea di patria. che è importante come garanzia identitaria, in un Paese che ha un'identità nazionale debole. Lui era ragazzo a Napoli, quando cominciava tutta questa storia. Ha vissuto con aplomb la presunta esclusione dei comunisti dal potere, perché sapeva che era limitata e non del tutto vera. Così oggi, incarna nel migliore dei modi la storia della Repubblica delle larghe intese».

Pansa l'11 Febbraio 2012 su Libero Quotidiano: Trencentomila italiani traditi dal Pci. l'Istria e le foibe macchia nera della sinistra. Gli esuli di Quarnaro e Dalmazia, in fuga dalla Jugoslavia del compagno Tito: un massacro, ma per i compagni erano fascisti. Qualche giorno fa, una radio mi ha chiesto: «Perché le sinistre italiane non amano ricordare gli assassinati nelle foibe e l’esodo istriano, fiumano e dalmata?». Ho risposto d’istinto: «Perché hanno la coscienza sporca». Il giornalista mi rimproverò: «Dottor Pansa, lei vede comunisti dappertutto!». Gli replicai, sorridendo: «Non dappertutto, per fortuna. Ma in quella vecchia storia c’erano, stia sicuro». Nel Giorno del Ricordo, l’altroieri, sono state rammentate soprattutto le vittime delle foibe di Tito, quasi niente la tragedia dei trecentomila italiani costretti ad andarsene dall’Istria, dal Quarnaro e dalla Dalmazia. Nel complesso, l’esodo durò una decina d’anni. Ma ebbe un picco all’inizio del 1947, quando il Trattato di pace, imposto all’Italia dai vincitori, stabilì che le terre italiane sulla costa orientale dell’Adriatico dovevano passare alla Jugoslavia. Perché tanta gente se ne andò? Ridotti all’osso, i motivi erano tre. Il più importante fu il terrore di morire nelle foibe com’era già accaduto a tanti altri italiani. Il secondo fu il rifiuto del comunismo come ideologia totalitaria e sistema sociale. Il terzo fu la paura speciale indotta dal nazional-comunismo di Tito e dalla decisione di soffocare con la violenza qualunque altra identità nazionale. La prima città a svuotarsi fu Zara, isola italiana nel mare croato della Dalmazia. Era stata occupata dai partigiani di Tito il 31 ottobre 1944, quando il presidio tedesco aveva scelto di ritirarsi. La città era un cumulo di macerie. Ad averla ridotta così erano stati più di cinquanta bombardamenti aerei anglo-americani. Le incursioni le aveva sollecitate lo stato maggiore di Tito. Era riuscito a convincere gli Alleati che da Zara partivano i rifornimenti a tutte le unità tedesche dislocate nei Balcani. Non era vero. Ma le bombe caddero lo stesso. Risultato? Duemila morti su una popolazione di 20.000 persone. Molti altri zaratini vennero soppressi dai partigiani di Tito dopo l’ingresso in città. Centosettanta assassinati. Oltre duecento condanne a morte. Eseguite con fucilazioni continue, dentro il cimitero. Oppure con due sistemi barbari: la scomparsa nelle foibe e l’annegamento in mare, i polsi legati e una grossa pietra al collo. Intere famiglie sparirono. Accadde così ai Luxardo, ai Vucossa, ai Bailo, ai Mussapi. Gli italiani di Zara iniziarono ad andarsene in quel tempo. Nel 1943 gli abitanti della città erano fra i 21.000 e il 24.000. Alla fine della guerra si ritrovarono in appena cinquemila. Poi fu la volta di Fiume, la capitale della regione quarnerina o del Quarnaro, fra l’Istria e la Dalmazia. L’Armata popolare di Tito la occupò il 3 maggio 1945, proclamando subito l’annessione del territorio alla Jugoslavia. Da quel momento l’esistenza degli italiani di Fiume risultò appesa a un filo che poteva essere reciso in qualsiasi momento dalle autorità politiche e militari comuniste. L’esodo da Fiume conobbe due fasi. La prima iniziò subito, nella primavera 1945. Il motivo? Le violenze della polizia politica titina, l’Ozna, dirette contro tutti: fascisti, antifascisti, cattolici, liberali, compresi i fiumani che non avevano mai voluto collaborare con i tedeschi. Bastava il sospetto di essere anticomunisti, e quindi antijugoslavi, per subire l’arresto e sparire. All’arrivo dei partigiani di Tito, gli italiani di Fiume erano fra i 30 e i 35.000, gli slavi poco meno di 10.000. I nuovi poteri che imperavano in città erano il comando militare dell’Armata popolare, un’autorità senza controlli, e il Tribunale del popolo, affiancato dalle corti penali militari. Dalla fine del 1945 al 1948 vennero emesse duemila condanne ai lavori forzati per attività antipopolari. Molti dei detenuti non ritornarono più a casa. Ma il potere più temuto era quello poliziesco e segreto dell’Ozna, il Distaccamento per la difesa del popolo. A Fiume la sede dell’Ozna stava in via Roma. Un detto croato ammoniva: «Via Roma - nikad doma». Se ti portano in via Roma, non torni più a casa. In due anni e mezzo, sino al 31 dicembre 1947, l’Ozna uccise non meno di cinquecento italiani. Un altro centinaio scomparve per sempre. Il primo esodo da Fiume cominciò subito, nel maggio 1945. Per ottenere il permesso di trasferirsi in Italia bisognava sottostare a condizioni pesanti. Il sequestro di tutte le proprietà immobiliari. La confisca dei conti correnti bancari. Chi partiva poteva portare con sé ben poca valuta: 20 mila lire per il capofamiglia, cinquemila per ogni famigliare. E non più di cinquanta chili di effetti personali ciascuno. Il secondo esodo ci fu dopo il febbraio 1947, quando Fiume cambiò nome in Rijeka e divenne una città jugoslava. Ma erano le autorità di Tito a decidere chi poteva optare per l’Italia. Furono molti i casi di famiglie divise. Nei due esodi se ne andarono in 10.000. E gli espatri continuarono. Nel 1950 risultò che più di 25.000 fiumani si erano rifugiati in Italia. Per il 45 per cento erano operai, un altro 23 per cento erano casalinghe, anziani e inabili. Ma per il Pci di allora erano tutti borghesi, fascisti, capitalisti e plutocrati carichi di soldi. Provocando le reazioni maligne che tra un istante ricorderò. La terza città a svuotarsi fu Pola, il capoluogo dell’Istria, divenuta in serbocroato Pula. A metà del 1946 la città contava 34.000 abitanti. Di questi, ben 28.000 chiesero di poter partire. Gli esodi si moltiplicarono nel gennaio 1947 e subito dopo la firma del Trattato di pace. L’anno si era aperto sotto una forte nevicata. Le fotografie scattate allora mostrano tanti profughi che arrancano nel gelo, trascinando i poveri bagagli verso la nave che li attende. In poco tempo Pola divenne una città morta. Le abitazioni, i bar, le osterie, i negozi avevano le porte sigillate con travetti di legno. Su molte finestre chiuse erano state fissate bandiere tricolori. Fu l’esodo più massiccio. Dei 34.000 abitanti se ne andarono 30.000. Dopo Pola, fu la volta dei centri istriani minori, come Parenzo, Rovigno e Albona. Le autorità titine cercarono di frenare le partenze con soprusi e minacce. Ma non ci riuscirono. Da Pirano, un centro di settemila abitanti, il più vicino a Capodistria e a Trieste, partirono quasi tutti. Sfuggiti al comunismo jugoslavo, gli esuli ne incontrarono un altro, non meno ostile. I militanti del Pci accolsero i profughi non come fratelli da aiutare, bensì come avversari da combattere. A Venezia, i portuali si rifiutarono di scaricare i bagagli dei “fascisti” fuggiti dal paradiso proletario del compagno Tito. Sputi e insulti per tutti, persino per chi aveva combattuto nella Resistenza jugoslava con il Battaglione “Budicin”. Il grido di benvenuto era uno solo: «Fascisti, via di qui!». Pure ad Ancona i profughi ebbero una pessima accoglienza. L’ingresso in porto del piroscafo “Toscana”, carico di settecento polesani, avvenne in un inferno di bandiere rosse. Gli esuli sbarcarono protetti dalla polizia, tra fischi, urla e insulti. La loro tradotta, diretta verso l’Italia del nord, doveva fare una sosta a Bologna per ricevere un pasto caldo preparato dalla Pontificia opera d’assistenza. Era il martedì 18 febbraio 1947, un altro giorno di freddo e di neve. Ma il sindacato dei ferrovieri annunciò che se il treno dei fascisti si fosse fermato in stazione, sarebbe stato proclamato lo sciopero generale. Il convoglio fu costretto a proseguire. E il latte caldo destinato ai bambini venne versato sui binari. A La Spezia, gli esuli furono concentrati nella caserma “Ugo Botti”, ormai in disuso. Ancora un anno dopo, l’ostilità delle sinistre era rimasta fortissima. In un comizio per le elezioni del 18 aprile 1948, un dirigente della Cgil urlò dal palco: «In Sicilia hanno il bandito Giuliano, noi qui abbiamo i banditi giuliani». Rimase isolato il caso del sindaco di Tortona, Mario Silla, uno dei protagonisti della Resistenza in quell’area. Quando lo intervistai per la mia tesi di laurea, mi spiegò: «Io non sono mai stato un sindaco comunista, ma un comunista sindaco». I suoi compagni non volevano ospitare i mille profughi destinati alla caserma “Passalacqua”. Ma Silla s’impose: «È una bestialità sostenere che sono fascisti! Sono italiani come noi. Dunque non voglio sentire opposizioni!». La diaspora dei trecentomila esuli raggiunse molte città italiane. I campi profughi furono centoventi. Anno dopo anno, le donne e gli uomini dell’esodo ritrovarono la patria, con il lavoro, l’ingegno, le capacità professionali, l’onestà. Mettiamo un tricolore alle nostre finestre in loro onore. Giampaolo Pansa

Il linciaggio di Pansa: a sinistra era un dio a destra è un infame. Per anni i salotti di sinistra hanno acclamato Pansa come un dio. Ma da quando non dice più quello che piace loro, lo hanno relegato tra i reietti della penna, scrive Vittorio Feltri, Domenica 08/03/2015, su "Il Giornale". Giampaolo Pansa, noto giornalista che ha lavorato alla Stampa, al Giorno, al Corriere della Sera, alla Repubblica, all'Espresso, al Riformista (ora è a Libero), ha scritto un altro libro: La destra siamo noi. Ne ha pubblicati tanti e ne ho perso il conto. Il titolo dell'ultimo fa capire subito il contenuto: pendiamo tutti da qualche parte, dipende dai momenti e dalla convenienza. Giampaolo è stato povero. Da ragazzo era molto studioso, obbediente alla famiglia e si è laureato con una tesi pubblicata da Laterza (che è un editore e non il numero delle scopate messe a segno in un sol giorno dall'autore). Finita l'università trovò subito un posto in redazione e cominciò l'attività di cronista, quella in cui è riuscito meglio. Si è guadagnato da vivere con le virgole, ha svirgolato per anni e anni e seguita a svirgolare come un pazzo. Credo che per lui riempire fogli di parole sia come bucarsi per un drogato: non può farne a meno. Senza la «roba» nero su bianco, Pansa non campa. Se sta tre ore senza picchiettare sui tasti, va in crisi di astinenza. Il mestiere di scrivere è il peggiore. Quando ti dedichi a esso, ti ammali di una malattia grave, pensi che la tua esistenza abbia un senso solo se la racconti; altrimenti non ha significato, sei morto. Giampaolo è stato un maestro inimitabile di giornalismo finché ha dato l'impressione di essere di sinistra, stando cioè dalla parte dei vincitori, sempre di moda. I suoi articoli sul Corriere e sulla Repubblica erano considerati gioielli, giustamente. Egli in effetti si era inventato un modo di narrare i fatti italiani e le gesta dei protagonisti talmente originale da piacere a chiunque, anche a coloro che lo invidiavano. Per lustri e lustri fu indicato al popolo come il più bravo della categoria. Poi, dato che il tempo è democratico, invecchiò e iniziarono per lui i guai. Guai si fa per dire. Poiché non era direttore (l'unica figura professionale non soggetta a licenziamento per questioni anagrafiche), fu cortesemente invitato a sloggiare dall' Espresso, testata che fornisce a chi vi lavora il certificato di autentico progressista. Se ne andò in pensione, ma non smise di scrivere. E furono libri, uno dietro l'altro, uno più dissacrante dell'altro e, per giunta, di successo. Il sangue dei vinti ebbe sui lettori un effetto clamoroso: quelli di destra lo apprezzarono, soddisfatti di constatare che finalmente uno scrittore dicesse il contrario rispetto alla vulgata sinistrorsa; quelli di sinistra, automaticamente, lo condannarono con una sentenza inappellabile: Pansa si è rovinato, è diventato fascista. Da quel momento, il maestro è stato collocato fra i reietti della corporazione degli scribi, espulso dall'elenco degli autori di qualità, meritevole di uscire dal club dei grandi maestri e di entrare in quello dei cattivi maestri. I libri di Giampaolo si vendono, eccome se si vendono, ma sono giudicati dagli intelligentoni merce avariata. La vicenda di quest'uomo talentuoso e perbene è paradigmatica dell'imbecillità italiana; il tuo voto in pagella non dipende da ciò che fai, bensì dalla consorteria cui appartieni. Pansa di sinistra era un dio; Pansa di destra è una grandissima testa di cazzo. I cittadini (non solo italiani) hanno opinioni variabili, tanto è vero che una volta votano di qua e un'altra di là, ma si arrogano il diritto di dare della banderuola ai giornalisti che mutano fede pur non avendone una e che si limitano a osservare la realtà con spirito laico, riferendo ciò che vedono e sentono, filtrando il tutto attraverso il proprio spirito critico. Una realtà complessa e in continuo divenire la cui valutazione non può avvenire sempre con lo stesso metro, ma necessita di costanti revisioni e aggiornamenti. Non c'è nulla di statico a questo mondo, tantomeno il cervello degli uomini che s'imbottisce quotidianamente di nuove informazioni e, perché no, suggestioni. Pansa, che conosco da 40 anni, non è mai stato fermo nelle proprie convinzioni come un paracarro; è stato ed è un coltivatore di dubbi, disponendo di un'intelligenza superiore alla media. Quando era di sinistra aveva qualche pensiero di destra; ora che dicono sia di destra ha qualche inclinazione a sinistra e la manifesta senza ipocrisia. Non fosse che per questo, Giampaolo è da ammirare. Uno della cui onestà bisogna fidarsi. La sua prosa non è contraddittoria; è frastagliata, ricca di umori e di amori. Va accettata per quello che è: lo specchio del casino nel quale ci dibattiamo in Italia da secoli.

L'ipocrisia dei "no Cav". Giornalismo malato da una guerra civile. L’odio nei confronti di Berlusconi trasuda sulla stampa di sinistra che rivendica anche la propria egemonia culturale, scrive Paolo Guzzanti su “Il Giornale”. Su «Carta straccia» Giampaolo Pansa offre di giornali e giornalisti di oggi uno spettacolo spesso grottesco, ma più spesso desolante. Che il giornalismo italiano sia diverso da quello degli altri Paesi è un fatto storico: per lo più scritto con pretese letterarie e molta retorica supponente si sta trasformando sempre più in una brodaglia di violenza e imprecisione che lascia spesso sbalorditi i colleghi stranieri: «Davvero potete scrivere usando il condizionale senza prove? Da noi ci sbatterebbero in galera…». A nessuno, mai, nel Regno Unito o negli Stati Uniti, in Francia o in Svizzera, ma neanche in Polonia o in Romania, verrebbe in mente di inserire (come è accaduto in questi giorni) nell’articolo di un cattedratico un lungo brano ignoto all’autore ma spacciato come autentico e difendere poi un tale arbitrio come libertà d’informazione. Non sono di quelli che esaltano il giornalismo «anglosassone» immaginato come asettico e impersonale, ma ho un grande rispetto per il giornalismo americano e britannico e per il modo accurato in cui trattano i fatti anche quando le testate si schierano politicamente: del resto in quei Paesi la pagina dei commenti è di competenza dell’editore, perché il direttore si deve preoccupare soltanto delle notizie e curare che siano complete e corredate dalle fonti. Quel giornalismo, che non è certo esente da difetti, ha però prodotto antidoti e anticorpi che ancora funzionano bene, attraverso scandali e processi sulla cattiva informazione. Walter Lippmann, che influenzò il presidente Wilson alla fine della Grande Guerra e che morì criticando Lyndon Johnson per la politica bellicosa nel Vietnam, creò la parola «stereotipo» – oggi si direbbe «politicamente corretto» – per indicare il pericolo delle opinioni automatiche e moralmente prefabbricate. Fu lui del resto a dire che «la salute della società dipende dalla qualità delle informazioni che riceve» affermazione non contestabile ma priva di riscontro in Italia. Lippmann ricordava anche che la notizia e la verità non sono la stessa cosa e questo perché l’informazione e la comunicazione non sono la stessa cosa: spacciarle l’una per l’altra produce una forma di giornalismo che si vieta di pensare, anticipando così, come ha scritto Marco Bardazzi su «Ttl», il monito di Hannah Arendt: «quando gli uomini rinunciano a dire quel che pensano, spesso smettono anche di pensare». Da noi, peccato, niente Hannah Arendt e niente Walter Lippmann, ma tutt’al più un composto Umberto Eco che nel suo «Costruire il nemico» riconosce che Julien Assange, la primula rossa di WikiLeaks, ha finalmente certificato che il re è nudo ponendo la stampa di fronte alla responsabilità di decidere, senza ricorrere a Internet, che cosa sia reale e meriti di essere stampato. Di «Carta Straccia» condivido il giudizio positivo su Antonio Padellaro direttore del Fatto Quotidiano, e su Marco Travaglio come fenomeno di straordinaria efficacia e qualità, a prescindere dalle differenze di opinione. Del resto è stato proprio il direttore del Fatto Quotidiano a dire a Laura Cesaretti, sul Giornale del 1° novembre 2010, che «la sinistra ha una grande suscettibilità nei confronti della libertà di stampa. Una suscettibilità che può raggiungere livelli insopportabili, in-sop-por-ta-bi-li!». E lo stesso Padellaro, ricorda Pansa, considerò la campagna sulla casa di Montecarlo un’operazione giornalistica efficace e ineccepibile. Anche a me la nascita e il successo del Fatto hanno entusiasmato al di là della linea politica, perché quel successo dimostra che esistono segmenti di opinione pubblica in attesa di essere rappresentati sia sui giornali che in politica. Ma ecco che mi imbatto, fra i documenti di «Carta straccia» in alcune parole di Marco Travaglio che ignoravo, pubblicate sul blog di Beppe Grillo e che, sorpresa, esaltano e rivendicano il diritto all’odio. Così: «Chi l’ha detto che non posso odiare un politico? Chi l’ha detto che non posso augurarmi che il Creatore se lo porti via al più presto? Non esiste il reato di odio». Che cosa rispondere? Che è vero, il reato di odio non esiste sui codici, ma dovrebbe esistere nelle coscienze. Oggi l’odio trasuda dalle pagine stampate di entrambi i fronti, ma con una sperimentata prevalenza dell’odio di sinistra, che è più antico, raffinato e velenoso. Sul Giornale io stesso alcuni anni fa denunciai la categoria degli «odiatori professionisti», come nuova mutazione giornalistica: gente che non attacca soltanto con le notizie, ma che incita all’odio e, di conseguenza, alle sue applicazioni pratiche. Una volta rivendicato il diritto di esprimere l’odio, è difficile prendere le distanze da atti di violenza come il famoso duomo sulla faccia di Berlusconi, a causa del quale Sabina Guzzanti è stata violentemente attaccata avendo lei, antiberlusconiana, espresso disagio alla vista del sangue. Ma la pratica dell’odio e del disprezzo non è una novità fra giornalisti e intellettuali: ricordo che quando da giornalista certificavo che Francesco Cossiga non era affatto matto (come voleva invece il comitato degli intellettuali che seguivano le indicazioni di Eugenio Scalfari) amici e colleghi cominciarono a cambiare marciapiede quando mi vedevano. Ricordo Tullio de Mauro, il celebre linguista, che mi sibilò: «Ma che cazzo scrivi Paolo? Ma non ti vergogni?». E non mi rivolse più la parola. Il giornalismo è da molto tempo al limite della guerra civile latente, sicché berlusconismo e antiberlusconismo sono diventate due categorie del cattivo spirito dei tempi, uno Zeitgeist al limite della malattia mentale. Ma, ancora una volta, non si tratta di una novità dovuta alla discesa in campo dell’uomo descritto come il «Grand Villain», o «Caimano» perché prima di Berlusconi esistevano altri «grand villain» contro i quali la stessa macchina da guerra funzionava attaccando Bettino Craxi e Andreotti, e prima ancora Forlani e Fanfani senza escludere Aldo Moro. Anche allora, con appena una misura di maggior pudore, il clima era quello di una guerra civile giornalistica agli ordini di quella politica è sempre stata coltivata con genialità da personalità della sinistra estremamente colte e raffinate anche se crudeli, come Palmiro Togliatti (sotto lo pseudonimo di «Roderigo de Castilla») o geniali e letterarie come «Fortebraccio» (Mario Melloni). La sinistra nata dai lombi del Pci si presenta poi sempre come un unico campione etico rivendicando di conseguenza una egemonia culturale che interviene alla fine sulle carriere, i finanziamenti, i premi, i festival, le legittimazioni e le delegittimazioni. E questo è un mestiere che il giornalismo di destra, per sua colpa o per un suo limite genetico, non ha mai saputo o voluto correggere, limitandosi a protestare in maniera inconcludente e anche un po’ isterica. L’Italia che Pansa descrive in «Carta Straccia» è un caso grave ma non unico perché l’egemonismo giornalistico di sinistra è universale dagli Stati Uniti alla Francia dove il politico italiano di sinistra Dario Franceschini può veder pubblicato il suo ottimo romanzo presso un editore come Gallimard, cosa che difficilmente potrebbe accadere ad un politico di centrodestra di pari valore. E così nella letteratura: se Gabriel Garcia Marquez, ritenuto di sinistra e amico personale di Fidel Castro, ebbe il Nobel per la letteratura nel 1982, il vecchio e cieco Jorge Luis Borges, accusato di essere un reazionario aspettò invano per tutta la vita. E infatti ha fatto discutere l’anomalia grazie alla quale il premio Nobel sia andato nello scorso ottobre a Mario Vargas Llosa, considerato di destra ma nato a sinistra, autore col figlio anche di un folgorante «Manual del Perfecto idiota Latino-Americano» che ha spellato il giornalismo sinistrese del suo mondo. In Italia, Paese da cui scaturiscono o sono scaturiti cattolicesimo, fascismo e il più influente partito comunista occidentale, la sostituzione del giornalismo con la propaganda è stata una strada obbligata: soltanto da noi si poteva inventare l’espressione «linea editoriale» per giustificare nel servizio pubblico televisivo l’uso di un linguaggio di propaganda, la censura e l’eccesso, sia di sinistra che di destra. La «verità» stessa, come premessa dell’informazione corretta e completa, in Italia è relegata al rango di «arroganza». Ed è questo il motivo per cui, senza dover aspettare Berlusconi, i politici italiani hanno sempre avuto nei confronti del giornalismo un atteggiamento padronale creando il ridicolo fenomeno del politico «di riferimento», padrino-padrone che promette carriere e direzioni nei telegiornali «d’area». Ci fu un tempo in cui Giampaolo Pansa ed io chiudevamo di notte la seconda edizione di Repubblica in tipografia. Una notte arrivarono in redazione, piangendo disperati, i parenti di alcune persone morte avvelenate. Li ascoltammo e Pansa disse: «Avete ragione, è una tragedia immane, guardate qui: “familia” nel titolo senza la “g”! Santo cielo, che catastrofe…». Mentre i parenti delle vittime se ne andavano stizziti per la nostra insensibilità ci precipitammo a correggere il titolo. Un episodio minimo, che però Pansa e io ricordiamo ogni volta che ci parliamo perché contiene forse la misura dell’aneddoto buffo, del mestiere minore, la corsa in tipografia, i casi della vita, quel modo semplice e casuale che costituiva la cifra del nostro mestiere. Eravamo in fondo dei proletari della notizia e appartenevamo a una generazione che si poteva permettere un giornalismo tutt’altro che neutrale, anzi schierato e combattivo, ma usando sempre e soltanto rigorosamente i fatti.

Giampaolo non ha nessuna intenzione di accedere - come molti suoi coetanei - a una vecchiaia omaggiata e sacrale, scrive Luca Telese su “Il Fatto Quotidiano. Non aspira a entrare nel novero dei vecchi saggi che invecchiano bene, centellinano il talento e le esternazioni, amano farsi benvolere da tutti, si risparmiano molto e si fanno celebrare di più. Nel suo ultimo libro, per esempio, Pansa spara su Fabio Fazio, su Ezio Mauro, su Nichi Vendola, su Michele Santoro sul nemico (di sempre!) Giorgio Bocca e tanti altri (ma, stranamente, parla bene di questo quotidiano). E risparmia la destra. Il fatto è che Giampaolo Pansa ha scritto un altro libro sul giornalismo (si intitola Carta Straccia), e ha - diciamo la verità - un caratteraccio: gli piace che nella sua scrittura si indovini il ghigno dei cattivi del cinema francese in bianco e nero, un Jean Gabin marsigliese tutto sangue e inchiostro. In questa parte della sua vita, per dire, Pansa ama farsi nemici, tirare freccette al curaro su alcuni bersagli privilegiati, fra cui svetta Repubblica, il quotidiano che lo ha consacrato. Non è elegante, ma lui se ne frega. Giampaolo è romantico, passionale, viscerale vendicativo, ma anche cameratesco: ora è a Libero, e "i due mastini" della coppia di direzione si trovano effigiati in un capitolo celebrativo che li mostra un po' canaglie, ma simpaticissimi. Pansa, temo, ci seppellirà tutti con uno sberleffo o con una scudisciata a mezzo stampa. Giampaolo, in fondo - se passi ai raggi X la sua bibliografia di ben 45 tomi - ha scritto praticamente trenta libri su due soli argomenti: il giornalismo (e la propria vita); e poi la Resistenza e il fascismo (prima e dopo "il ciclo dei vinti"), su cui ha cambiato clamorosamente idee. Non lo nega, anzi. Ma l'amore ne esaltava la Resistenza e l'eroico partigiano "Infuriato", il ciclo dei vinti è dedicato alla demolizione della Resistenza (prima "quella comunista", poi tutte "le altre"). Insomma, questi libri Pansa li ha scritti raccontando sempre la stessa storia (e talvolta persino gli stessi aneddoti) ma virandoli in maniera diversa, in nome di un revisionismo esistenziale che è uno dei motivi per cui una sterminata tribù di lettori almanacca i suoi libri. Meravigliosa contraddizione: un titolo dispregiativo per officiare il culto della stampa. Anche in questo libro, per esempio, c'è la storia del suo binocolo Zeiss, c'è la redazione de La Stampa conosciuta da ragazzo, e raccontata anche ne Il Revisionista (2009), ma pure nel ''Romanzo di un ingenuo'' (2000) che è stata la sua prima autobiografia. C'è di nuovo l'intervista a Enrico Berlinguer che è stata già raccontata in ''Ottobre addio'' (1982) e - ancora - ne Il Revisionista (2009). E così c'è da esser certi che arriveranno anche un altro libro e un altro ritorno, perchè Pansa riscrive se stesso cambiando continuamente lo scenario che gira intorno,la fissità del demiurgo che scruta il mondo nel circo immaginario del suo Bestiario. Giampaolo è meticoloso, a volte maniacale. Un altro, in un capitolo dedicato alla demolizione sistematica e feroce di Fazio non metterebbe mai una frase come questa: "Non mi ha mai voluto nel suo salotto per una colpa imperdonabile: il mio presunto anti-antifascismo, attestato dai libri che andavo scrivendo sulla guerra civile. Però aveva accolto col tappeto rosso quel collaudato fascista di Fini". Fazio non lo ha voluto e lui ratatatà - squaderna la sua arma più micidiale, l'archivio. Una volta me lo fece vedere, senza compiacimento, come un chirurgo che apre la teca dei bisturi. Un garage della sua casa di San Casciano, un arsenale pronto per essere usato a ogni occorrenza, contro chiunque: "Ho una cartellina anche su di te", e rideva. Pansa è un vecchio cronista cresciuto nella religione del "cartaceo": ritaglia anche le lettere dei lettori. Oppure estrae dal garage la raccolta de ''Il dito nell'occhio'', la rubrica che 15 anni fa Nichi Vendola teneva su Liberazione, infilando una antologia antidalemiana: "Massimo è gravemente atlantico", "cinicamente spoglio di dolore", "goffamente demagogico", "con una spocchia da statista neofita", "livido come i neon del metrò". Conclusione dell'autopsia: "12 anni fa il deputato Vendola era un polemista dal pensiero violento e dal linguaggio stridulo". In fondo ''Carta straccia'', il potere inutile dei giornalisti italiani (Rizzoli, 427 pagine 19.50) è la fusione di uno strumento perfetto e di un umore sulfureo. E' un viaggio nel garage di San Casciano con intenzioni contundenti, ed effetti sorprendenti. Ad esempio nel capitolo su Il Fatto, che dopo tre pagine sugli strafalcioni dei giornali italiani e un paio di scotennamenti senza rete ti potresti stupire: "Nella Grande crisi della carta stampata un solo giornale si rivelò capace di andare contro la corrente: Il Fatto".A Giampaolo questo giornale non piace, ma dopo aver tratteggiato i medaglioni di "Beriatravaglio" (copyright di Staino) e di Antonio Padellaro, rende un onore delle armi al successo ottenuto: "Di chi era il merito? Prima di tutto del direttore, Padellaro. Poi della star del giornale, Travaglio. Infine della redazione". Memorabile l'episodio di un collega di La Repubblica - unico non citato per nome - che propone una brillante intervista al segretario del Psdi Luigi Longo. Il giorno dopo Pansa, all'epoca vicedirettore riceve questa telefonata di Longo: "Ho letto l'intervista. Mi sembra molto fedele, rispecchia bene il mio modo di considerare il momento politico. Ha un solo difetto. Io non ho mai dato nessuna intervista". Per colpire Bocca (per lui ha la stessa passione che Achab ha per Moby dick) estrae dal'articolo una "intervista doppia" del 1980 sul terrorismo raccolta da un giovanissimo Lucio Caracciolo. Bocca sosteneva che i covi delle Br erano una invenzione, Pansa che le Br erano attive dal 1971. Sul quotidiano di Mauro un intero capitolo, e una sentenza feroce: "Perché non fare di La Repubblica una vera formazione politica? I militanti c'erano. I Soldi pure. Anche il leader non mancava. Era un direttore-segretario caparbio, aggressivo, più carismatico di moti big della casta partitica".

Giampaolo Pansa è uomo di furori, non di convenienze, scrive Stefano Di Michele su “Il Foglio”. Pure di rancori, ma non di ipocriti ritegni. E nemmeno di malafede. Forse si è sentito ferito, Pansa – anzi, sicuramente è stato ferito. Una ferita non medicata, la sua, né dagli amici che furono né dai compagni che l’amarono – ché loro, soprattutto, si fecero assalitori. Piuttosto, ognuno a versare sale, su quella ferita, a lanciare stupide accuse, ad attruppare becere squadracce iperdemocratiche (l’iperdemocrazia essendo la china che conduce prima a un’eccessiva considerazione di sé, quindi al fanatismo) per impedirgli di presentare i suoi libri su quella che lui – con ostinazione sempre più ostinata ogni volta che qualcuno gliela rinfaccia – chiama la “guerra civile”. Si è aperta con “Il sangue dei vinti” la seconda vita (da scrittore di gran successo) di Pansa. E con “Il sangue dei vinti” ha avuto inizio la seconda esistenza (di gran disdegno) di Giampaolo agli occhi dei suoi detrattori. Quelli fanatici e offesi, lui cocciuto. E il suo sarà, c’è da pensare, il secondo paradosso giornalistico-politico di quest’Italia da Seconda Repubblica e di ancestrali collere. Se Montanelli, icona del giornalismo di destra, è finito sugli altari davanti ai quali compie riti gente di ogni sfumatura di sinistra, probabilmente tra cento anni (nei giorni caldi della Ventinovesima Repubblica), quando Pansa non ci sarà più, sarà lui, antica icona del giornalismo di sinistra, issato sull’altare davanti al quale s’aduneranno manipoli di destrorsi incontinenti. Essendo uomo di carattere, Pansa ne ha uno pessimo – e la mai sopita intelligenza delle cose (movente, opportunità, aggressori) lo costringe a una tignosa, divertita e (magari) dolente ricapitolazione. Perché fa i conti con i suoi nemici, Pansa, e fa anche i conti con se stesso. Un pugno di anni, e un intero orizzonte è mutato. E in fondo, come è stato con il suo precedente libro “Il revisionista”, anche questo “Carta straccia. Il potere inutile dei giornalisti italiani” (Rizzoli), è un altro pezzo della sua resa dei conti – con l’antico universo che l’ha amato e poi espulso; con se stesso, che quell’universo ha prima attraversato e poi rinnegato. E’ un libro divertente, perfido, feroce – scritto divinamente, quindi scritto da Pansa. Ma le oltre quattrocento pagine, alla fine, lasciano un senso di amarezza: nell’area della sinistra decente e civile, che il Pansa che fu rimpiange, ma lo stesso ama il Pansa che è, innanzi tutto. E forse, nello stesso autore. Perché il libro è scanzonato, “libraccio carogna” come piace dire a lui, che marcia e macina – facce, parole, giudizi impertinenti. Ma non è un libro sul giornalismo e sui giornalisti: non così ampio, non così riduttivo. E’ un libro su Pansa e sul suo mondo di giornali e giornalismo. Su ciò che fu (con qualche eccesso di sottovalutazione, e forse qualche giudizio ingeneroso) e su ciò che è (con qualche eccesso di partecipazione, e forse qualche giudizio eccessivamente generoso). Una sorta di (nuova) autobiografia professionale, dove Pansa getta via quel che ancora conservava di ricordi affettivi sul fondo di un polveroso cassetto, e abbraccia – con la generosità di sempre, quella che ogni giovane cronista che ha avuto a che fare con lui ha sperimentato – il nuovo mondo: Belpietro invece di Scalfari, Feltri invece di Bocca “l’uomo di Cuneo” (in realtà da un pezzo, al posto di Bocca chiunque andava bene), e Lerner e l’Ingegnere e la ex direttrice dell’Espresso, e la Gruber, ed Ezio Mauro, e la Concita – per tacer, senza tacere, di quel Fazio lì… Ha invece pagine bellissime, commoventi, quando ricorda vecchi colleghi come Gaetano Scardocchia e Gianni Rocca. Fino all’eruzione finale: mai votato il Cav!, Pansa – solo i cretini pensano che le persone intelligenti possano cambiare idea facendo mercato di se stessi – ma se continuano a fargli girare i santissimi… Gran libro di cenere e furie – e pernacchie e (qua e là) persino risate.

"Carta straccia. Il potere inutile dei giornalisti italiani" (Rizzoli, pagg. 412) di Giampaolo Pansa. Nel saggio sull’informazione del grande giornalista, un capitolo devastante sui conduttori-divi dei talk targati Rai (e dintorni). Da Santoro alla Dandini, da Gruber a Lerner, dalla Annunziata a Floris, Pansa ne ha per tutti. Peccato che la faziosità politica di costoro è stata pagata da tutti con il canone obbligatorio, anche da coloro che odiavano quella ideologia politica.

Un ritratto impietoso del mondo dell’informazione, dalla carta stampata alla televisione. I giornali, nessuno escluso, sono sempre più faziosi. Eppure c’è chi non vuole ammetterlo e si presenta come immune da ogni partigianeria. È il caso di testate come la Repubblica, L’espresso e, talvolta, del Corriere della Sera. Spesso, dietro alla millantata obiettività si cela l’ossessione anti-Cavaliere, la volontà di distruggerlo con ogni mezzo, incluse le inchieste scandalistiche sulla vita privata (cinicamente tirate fuori per motivi di tirature: il gossip «politico» ha risollevato le vendite di Repubblica). Storia personale (Pansa è uno dei più grandi giornalisti italiani) e pubblica si intrecciano in un affresco accurato. Non mancano parti esilaranti, come l’incredibile rassegna delle smentite pubblicate dai quotidiani colti in castagna. Presentiamo, in queste pagine, due stralci dal libro, il primo dedicato ai telepredicatori di sinistra, il secondo a Carlo De Benedetti, editore di Repubblica ed Espresso, giornali nei quali Pansa ha lavorato per molti anni, ricoprendo cariche importantissime.

"Michele Santoro si era sempre fatto notare per lo stile e le qualità del leader politico. Per cominciare, risultava il più anziano dei sultani rossi. Nel luglio 2011 quella parte d’Italia che lo ama festeggerà a dovere il suo sessantesimo compleanno. Poi era il televisionista rosso di più lunga durata. Stava sugli altari dal 1987, quando aveva 36 anni e ancora esisteva la Prima Repubblica. Il successo iniziale fu Samarcanda, seguito da Il rosso e il nero del 1992, entrambi su Rai 3. In quel tempo Michele era magro, astuto e ambiguo quanto occorreva. Nell’ottobre del 1991 andai a intervistarlo per l’Espresso. E mi resi conto che era sicuramente di sinistra, ma la sua fedeltà andava a un solo partito rosso: quello di Santoro. Con un timbro anarco-populista, forse derivato dalla militanza giovanile in un gruppo maoista: Servire il popolo. Per la Prima repubblica erano tempi tragici. I politici apparivano stremati e si trovavano sull’orlo dell’abisso di Tangentopoli. Santoro me li descrisse con la sicurezza del ras televisivo che si sente sempre più forte. Disse: «I partiti non saranno così stupidi da tagliare la lingua a Samarcanda. Noi siamo matti, imprevedibili e liberi. E continueremo a rompere. Io rompo o sto zitto: non vedo vie di mezzo». Poi mi spiegò: «Non è vero che il successo di Samarcanda mi abbia dato alla testa. Io sono un topo in mezzo agli elefanti dei partiti. Saltello per evitare che le loro zampe mi schiaccino. Se mi salvo, continuerò a rompere. I politici possono starne sicuri». Santoro si sentiva il capo di una forza personale che poteva decidere con chi allearsi o no. Per questo, all’improvviso, scelse di passare sul fronte opposto alla Rai: Mediaset, la corazzata di Berlusconi. Anche nel fortino del Cavaliere mise in mostra un’invidiabile capacità nel trattare gli affari. Ottenne uno stipendio da nababbo, più l’assunzione di tutta la sua squadra con il massimo dei compensi. E costruì un altro talk show di successo: Moby Dick nel 1996. Ma al Cavaliere, più furbo di tanti suoi dirigenti, Michele non piaceva. In lui fiutava l’avversario, ben piazzato su un terreno insidioso: la televisione. Per di più, gli stava sui santissimi per la sua aria da padrone. Lo liquidò. E Santoro divenne il primo dei Grandi epurati, messi fuori dalla tv grazie agli editti del Cavaliere. Michele ritornò in Rai. Poi la sinistra, sempre generosa con i divi della tv, gli offrì una exit strategy di lusso: il 14 giugno 2004 lo fece eleggere deputato europeo. Ma il Parlamento di Strasburgo era il posto più noioso del mondo per una star da battaglia come lui. Santoro sopportò per meno di due anni il fastidio di doverlo frequentare. Poi si dimise. E nel 2006 decise di rincasare in viale Mazzini. E diede vita a un nuovo programma: Annozero. Sotto questa bandiera, Santoro inaugurò un’altra stagione personale: il conduttore da guerra. Contro chi? Ma che domanda! Contro il suo vecchio padrone privato: Berlusconi. Il nemico da sconfiggere, il demonio da scacciare, il caimano da uccidere. Divenne il più mussoliniano fra i sultani rossi dei talk show. E ogni giovedì, in prima serata su Rai 2, riprese a imporci il proprio comandamento: credere, obbedire e combattere. Sempre con lo stesso obiettivo: mandare a gambe all’aria il tiranno di Arcore. Il pubblico di sinistra continuò ad adorarlo. Santoro era la prova vivente che il regime fascista del Cavaliere esisteva, ma poteva essere battuto. Nella scala gerarchica della Rai, Michele iniziò a contare più di dieci Paolo Garimberti, il presidente. E più di Mauro Masi, un direttore generale senza un potere reale nei confronti di Annozero. Ma nel paese dei balocchi televisivi, tutto è volatile. La forza di un programma e di un conduttore può sparire di colpo, o attenuarsi a ritmi terrificanti. È quel che accadde a Santoro verso la metà del novembre 2010. Quando il nuovo spettacolo di Fazio & Saviano cominciò a fare ascolti mirabolanti, confinando Annozero nell’angolo dei perdenti, sia pure provvisori. [...]

Giovanni Floris, il conduttore di Ballarò, mi appariva il Santoro dei poveri, formato Festa dell’Unità, quella del tempo che fu. Aveva di continuo l’ansia di non poter risultare abbastanza rosso. Ma ci riusciva ogni volta. La scelta degli ospiti era bipartisan. Non così il suo atteggiamento. Il compagnone di Ballarò si mostrava sempre amichevole nei confronti degli invitati di sinistra. Nei momenti di difficoltà, costoro sapevano di poter contare sul suo aiuto, offerto con lo zelo di un croce-rossino fedele nei secoli. Ma con gli interlocutori di destra, la musica cambiava di colpo. Con loro Floris sfoderava l’altro lato di se stesso. Diventava gelido e spesso scioccamente irridente. Li interrompeva, li silenziava, li metteva alle strette. Insomma, un capoclasse perfetto: buono con i buoni, cattivo con i cattivi. E in molti casi pomposo. Con il vezzo ridicolo di celebrare se stesso: lo vedete quanto sono imparziale, liberale, democratico?

Una sua gemella era Lucia Annunziata, la regina di In mezz’ora. Di lei rammento l’affanno di mandare al tappeto l’ospite che aveva di fronte per trenta minuti filati. Se chi s’azzardava a sedersi davanti a lei apparteneva al giro politico opposto al suo, anche un bambino avrebbe subito intravisto il difetto di Lucia. A lei non interessavano le risposte dell’interlocutore, ma soltanto le proprie domande. Che dovevano sempre risultare aggressive, grintose, insomma cazzute, se posso usare per una signora questo lessico da bettola. Una sola volta toccò a Lucia di andare ko. Accadde con quel satanasso di Berlusconi. Il Caimano si alzò e la piantò in asso, sola e abbandonata in piena diretta tv.

Un’altra dama sinistra era Serena Dandini, la regina di Parla con me , famosa per il divano rosso. E dal martedì al venerdì sempre disposta ad accogliere chiappe eccellenti dell’opposizione al cavaliere. Da lei erano passati Eugenio Scalfari, Ezio Mauro, Bill Emmott, l’ex direttore dell’ Economist, Stefano Rodotà, Massimo Cacciari, Carlo Azeglio Ciampi, Guglielmo Epifani, Sabrina Ferilli, Antonio Tabucchi, Corrado Augias e tanti altri avversari del Berlusca. Davanti a Scalfari e alla sua sacra barba bianca, Serena cadde in deliquio. Era seduta accanto a lui, ma sembrava in ginocchio. Pronta a incoronare ogni risposta, anche la più banale, con la sua entusiastica risata. Un giorno, Pietrangelo Buttafuoco disse di lei:«Ha l’espressione un po’ così, di quelli che ridono pure in un cimitero». Aldo Grasso, il critico televisivo del Corriere della Sera, il più acuto tra quelli a disposizione dei lettori di quotidiani, fu spietato con madama Dandini. Scrisse: «Ride in continuazione per sottolineare la sua ironia e la sua intelligenza, caso mai fossero sfuggite». Poi aggiunse: «Da un programma che impiega tredici autori e la consulenza di altri quattro, ci si aspetterebbe qualcosa di più di una mini fiction dopolavoristica». Risultato? Un continuo calo d’ascolti.

A Santoro & C. si potevano aggiungere altre eccellenze rosse che non dipendevano dalla Rai. Consideriamo il caso di La7, una rete privata e senza obbligo di canone per l’utente. Qui a dominare era Lilli Gruber, già parlamentare europea di sinistra, che ogni sera metteva in mostra la propria militanza. Sempre piacevole a vedersi, ma soltanto per la sua bellezza e per l’eleganza by Armani. Confesso che ad affascinarmi era l’eterna giovinezza della conturbante Dietlinde, con quel viso di porcellana senza età, un’attrazione irresistibile per un maschio dai capelli bianchi. Anche per questo dettaglio, mi domandavo perché mai dimenticasse il proprio ruolo. Per tramutarsi da conduttrice in uno dei litiganti inviati al suo Otto e mezzo. Con il risultato di far scrivere all’implacabile Grasso del Corrierone: «La Gruber rappresenta un vecchio modo di fare giornalismo. Nel suo programma non c’è mai un percorso di conoscenza, ma solo uno scontro di opinioni, una parata di idee contrastanti». In questo scontro, Lilli voleva sempre vincere. Per arrivare a questo risultato, adottava spesso il sistema del due contro uno. I due, tutti anti-Cav, erano lei e uno degli invitati, entrambi nemici giurati del Caimano. L’uno era un ospite di centrodestra, destinato fatalmente a soccombere. E non metto nel conto il filmato di Paolo Pagliaro che, ogni sera, offriva il proprio soccorso rosso.

Più o meno lo stesso era quel che pensavo a proposito di un altro programma di La7: L’Infedele di Gad Lerner. Ecco l’ennesimo talk show da combattimento. Sempre contro il maledetto Cavaliere. E per questo noioso e banale, da non guardare. Mai una sorpresa né un guizzo di genialità imprevista. Ma in fondo era il ritratto del suo autore. Da tempo Lerner stava immerso in una fantastica regressione politica. Che lo aveva sospinto all’indietro nel tempo. Ossia agli anni Settanta, quando Gad s’illudeva di fare la rivoluzione proletaria nelle file di Lotta continua. Allora aveva perso e la sconfitta si era mutata in un incubo destinato a perseguitarlo. Come una condanna a cercare di continuo una vittoria che l’ascolto ridotto seguitava a negargli. [...]

Molto più interessante di Serra ( Michele, ndr ), risultava il personaggio di Fabio Fazio, la cui presa di posizione a vantaggio della sinistra era scoperta, scopertissima. Nonostante questo, amava interpretare il ruolo opposto al televisionista settario. Era quello dell’abatino estraneo a qualsiasi parrocchia, amico di tutti e nemico di nessuno. Con l’aria dimessa, l’espressione sempre stupita, il vestito strafugnato del ragazzo di provincia capitato per caso in un posto e in una funzione che non ritiene di meritare. In realtà, nella Rai odierna frantumata in sultanati, Fazio era il più sultano di tutti. Un signore gelido, capace di muoversi senza guardare in faccia nessuno, curatore attento dei propri comodi. E all’occorrenza anche cattivo. Con la manina avvolta nella flanella grigia e lo stiletto avvelenato ben nascosto. Era con questa lama che Fazio, nel suo programma abituale, Che tempo che fa, praticava una censura inflessibile. Truccata da libertà di scelta, quella che spetta a tutti i conduttori di talk show. In realtà, il pallido Fabio non sceglieva, ma discriminava. Gestendo in modo autoritario il potere di promuovere libri e autori. Un regime accettabile in una tv privata, però non alla Rai. Che è pur sempre pagata dal canone sborsato dai «tutti» ai quali Saviano voleva parlare."  

Il Paese dell'odio: un libro svela i segreti della macchina del fango. Giampaolo Pansa rilegge la guerra civile tra giornali. Nel 2008 Berlusconi vince le elezioni e Repubblica  si vendica con il caso Noemi. Incendiando il clima, scrive Marco Zucchetti  su “Il Giornale”. Sarà perché - come scriveva Balzac ­«non si esce puri dall’inferno della stampa », che Giampaolo Pansa ha dato alle stampe questo «libraccio da vera carogna » sul giornalismo italiano. Oppure sarà perché, dopo mezzo secolo passato nella categoria, ormai si è fatto un’idea chiara delle ipocrisie che scorrono sotto la palta dei titoloni. D’altronde, sempre per rimanere in metafora infernale, nel fango della palude Stigia erano puniti gli iracondi. E l’odio è decisamente il peccato favorito della stampa italiana. È il livore politico e personale la linfa che tiene in vita il quarto potere. Pansa ne segue il fluire in « Carta straccia - Il potere inutile dei giornalisti italiani», terza sua fatica sul mondo dei media, edita da Rizzoli e in libreria dal 4 maggio. Parte da lontano, dalle sorgenti dell’egemonia giornalistica di area Pci, Potere Operaio e Lotta Continua a fine anni ’70. E seguendo il corso della cattiveria settaria di sinistra, approda all’ultimo triennio, al delta di quel fiume che è l’anti-berlusconismo mediatico. E come in ogni foce che si rispetti, ecco tornare il fango. Quello che da mesi viaggia in tandem con Il Giornale nei monologhi di Saviano, nelle surreali denunce per stalking di Bocchino e negli anatemi della stampa progressista: la «macchina del fango» di cui saremmo spregevoli inventori. Pansa, che nel brago è stato sommerso per aver osato raccontare le ombre della Resistenza, affronta l’argomento senza manicheismi, perché mettere il dito nelle piaghe gli è sempre piaciuto. Tutto prende il via tra 2008 e 2009, dopo la vittoria elettorale di Berlusconi, offesa inaccettabile che causa una furia isterica nell’opposizione. Tutte le armi per deporre il Cav sono buone, e Repubblica usa l’intero arsenale nella campagna ossessiva sul caso Noemi. Intercettazioni, foto, interviste, 2.200 citazioni dell’affaire : una nube velenosa che invade i media. E che incendia il clima fino agli odiosi e inquietanti episodi dell’attentato di Tartaglia, delle scritte contro Marchionne, del pestaggio a Capezzone, dei petardi a Bonanni, dei raid contro Schifani e Dell’Utri. All’attacco del quotidiano di Ezio Mauro, che cavalca lo scandalo di «papi» Silvio anche per recuperare copie, replicano le tre testate di centrodestra, Il Giornale, Libero e Il Tempo : «Tre mosche bianche su fondo rosso, isolate nel coro imponente dei media anti berlusconiani ». Ad azione, reazione. Solo che, se l’inchiesta parte da destra, subito diventa killeraggio, dossieraggio, insulto, servilismo, chiacchiera da bar, «neogiornalismo» da ultrà. È l’«avversione rossiccia» per il lavoro altrui, quella supponenza elitaria da Migliori, unici con diritto di cittadinanza nel mondo dorato degli eroi della libertà stampata. Sono Repubblica , «quotidiano di guerriglia», e Il Fatto , «setta infuriata » capitanata da Beria-Travaglio. Sono loro a imbarbarire il clima, salvo poi urlare al crucifige per il «caso Boffo», per Pansa uno scoop che ogni direttore avrebbe pubblicato. Fatto sta Il Giornale finisce nel tritacarne, messo all’indice come una Spectre di fascistoni. La furia cieca dilaga in maniera grottesca nel caso del presunto «dossier Marcegaglia », occasione in cui Bocchino conia il termine «macchina del fango»: «Chi è prigioniero di una nevrosi - e secondo Pansa l’antiberlusconismo ormai è patologico - non ragiona più». E quindi aprite le gabbie, ognuno dia fondo al peggio: credere, obbedire e combattere il Cav. E pazienza se anche giornalisti avversi al premier come Antonio Padellaro riconoscono che l’inchiesta sulla casa di Montecarlo è «eccellente ». Ogni cosa pubblicata dalle «mosche bianche» è automaticamente feccia, linciaggio, ventriloquio del Padrone. Campione di queste tesi pre-fabbricate, secondo Pansa, è Repubblica, che dall’esplodere dei sexy-gate berlusconiani ha guadagnato decine di migliaia di copie. Ripetere di continuo un unico concetto, secondo Pansa, giova: «Il pensiero unico (ma modesto) funziona». E in questo disco rotto gorgheggiano un po’ tutti, dall’Ingegner De Benedetti, arcinemico del Cav, fino all’antipatico Gad Lerner; dai «sultani Rai» Santoro e Fazio fino a D’Alema; da Floris a Di Pietro. Tutti smaniosi di bisbigliare parole d’ordine violente alle pericolose frange lunatiche della sinistra. Insomma, Berlusconi causerà anche imbarazzo con il suo comportamento non consono a un presidente, ma è obiettivamente vittima di una persecuzione gonfia di eccessi da parte di certi giornalisti militanti: «Hanno svenduto la loro libertà a un settarismo incontinente, prigionieri inconsapevoli della faziosità». Eppure, conclude Pansa, «lo hanno battuto come un materasso, ne hanno assassinato la figura pubblica, ma non lo hanno sconfitto». Il loro potere è «inutile », la loro carta è «straccia». E il sangue del Cav non è ancora quello dei «vinti».

La vedova di Pansa: «Il mio Giampaolo è rimasto di sinistra». Pubblicato sabato, 25 gennaio 2020 su Corriere.it da Aldo Cazzullo. Adele Grisendi: «Ma anche adesso che è morto a starci vicino è stato solo il mondo dei vinti. Ci conoscemmo su un treno nel 1989, io era una sindacalista della Cgil».

Signora Adele Grisendi, dove ha conosciuto suo marito, Giampaolo Pansa?

«In treno. Era il 22 novembre 1989. Io stavo andando a Reggio Emilia dai miei genitori, lui a Firenze a presentare un libro. Allora ero una sindacalista della Cgil. Lo fermai perché avevo letto i suoi articoli su Repubblica sulla svolta di Occhetto; quel giorno c’era il comitato centrale del Pci che doveva chiudere la vecchia ditta, volevo sapere come sarebbe andata a finire. Lui aveva appena litigato con Scalfari»

Perché?

«Aveva criticato i suoi articoli, troppo favorevoli a Occhetto. Così Giampaolo gli aveva detto: “Alle Botteghe Oscure mandaci qualcun altro”. E se n’era andato. Quel giorno in treno mi parlò per tutto il tempo del viaggio: non solo del Pci ma di sé, della sua famiglia. E mi fece un sacco di domande. Era fatto così, ti investiva con la sua curiosità».

Chi chiamò per primo?

«Lui. Due settimane dopo mi telefonò in Cgil a Roma: “È già impegnata a cena? Posso prenotarla per stasera?”».

E lei?

«Scoppiai a ridere: non è che avessi tutti questi impegni... Cenammo al ristorante dell’hotel Ambasciatori, dove il giornale gli passava una junior suite. Era la notte di Santa Lucia. Da allora ci siamo visti tutte le sere. E abbiamo cominciato fin da subito a vivere insieme».

Lei Adele era libera?

«Sì, ero divorziata da anni e non avevo nessuno. Ma Giampaolo era sposato. La famiglia abitava a Milano, suo figlio Alessandro era ancora single, anche se aveva fissato le nozze per il luglio 1990. Si prospettava un bel pasticcio. Ma non ci fu niente da fare. Ha presente quando apri le finestre, fuori c’è un gran vento, tira la tramontana, e non riesci più a chiuderle? Tu provi, insisti, ma il vento è troppo forte, tiene tutto spalancato, anche contro la tua volontà. Ecco, per entrambi fu impossibile chiudere le finestre».

Quando lasciò la moglie?

«Le farò una confidenza che farà arrabbiare le femministe: lui dalla moglie non si è mai separato. E io ho accettato la sua decisione. Non volevo creargli ulteriori problemi. Sapevo che c’erano territori per me vietati; ma sapevo anche che c’erano territori soltanto nostri. Alessandro, il figlio di Giampaolo, la prese male. Ma io ho sempre rispettato “la signora di Milano”, come la chiamavamo; e lei ha sempre rispettato me».

Vi siete mai incontrate?

«No. Sentivo la sua voce quando parlava con Giampaolo; e si parlavano spesso, lui non è mai sparito dalla sua vita. Siamo sempre rimaste l’una per l’altra una voce al telefono. Lei è mancata nel novembre 2015. Con Giampaolo ci siamo sposati il 14 gennaio 2016. E il 14 gennaio 2020, nel quarto anniversario di matrimonio, l’ho portato al camposanto».

Pansa ha dovuto sopravvivere al suo unico figlio.

«Alessandro è morto nel novembre 2017. Novembre è un mese fatale per la nostra famiglia larga. Fino ad allora, Giampaolo era invecchiato dolcemente, poco a poco. Aveva accettato il declino, senza fare storie, continuando a leggere e a scrivere. La morte di Alessandro fu per lui uno strazio. Lo diceva sempre: “Se non ci fosse Adele, sarei morto”».

Disse anche: «Se non ci fosse Adele, mi sarei ucciso».

«Non ha mai accettato la morte del figlio. Reagì rifugiandosi ancora di più nel rapporto con me».

Nessuno sapeva che Giampaolo Pansa fosse ammalato.

«Un ostacolo che si sarebbe potuto risolvere facilmente, una diverticolite, si è rivelato insormontabile. Forse doveva operarsi prima. Quando l’ha fatto era tardi. Non si è ripreso, non riusciva più a mangiare. Si è consumato. In questi tre mesi non l’ho lasciato solo un minuto, in ospedale e a casa, di giorno e di notte. Credevo avessimo ancora del tempo. Non ero preparata».

La morte ha rinfocolato le polemiche.

«È abbastanza vergognoso insultare una persona che non può più rispondere. Mi chiedo quale umanità portino dentro. Sono cose che qualificano chi le dice. Hanno scritto volgarità: che non sapeva fare il suo lavoro, che scriveva male. Suvvia, come si può dire che Pansa scrivesse male?».

Molti l’avevano criticato anche da vivo.

«E lui l’aveva previsto. Non si arrabbiava neppure, dava per scontato che chi reagiva in quel modo non avrebbe potuto avere una reazione diversa. Una cosa del genere, in piccolo, era accaduta anche a me, quando scrissi La famiglia rossa, la mia storia dentro la Cgil. Passai da una rapida ascesa a un capitombolo rovinoso: mi misero in un sottoscala. La mia colpa? Rispettare la componente socialista del sindacato. “Se fossi stata in Unione Sovietica, saresti finita nel gulag. E io con te” mi diceva Giampaolo. È la malattia della sinistra italiana: il furore ideologico».

Il problema è che della Resistenza molti sanno poco. Anche tra coloro che hanno letto i libri di Pansa, tanti ignorano quello che i «vinti» avevano fatto prima del 25 Aprile.

«Giampaolo ha sempre detto che la Resistenza era la sua patria morale. Era un uomo di sinistra e si può dire che lo sia rimasto sino alla fine, su posizioni più moderate ma pur sempre democratiche. Non è mai diventato di destra. Non ha mai votato a destra una sola volta in vita sua. Alla fine non andava più a votare perché disprezzava questa classe politica. Compreso Salvini, cui ha dedicato un libro molto critico fin dal titolo: Il dittatore. Ma proprio perché era un uomo di sinistra sentiva il dovere di raccontare tutto quello che era accaduto in Italia durante e dopo la guerra. Guerra civile, come ormai la chiamano quasi tutti. Io so perché nel 2003 è stato fatto Il sangue dei vinti».

Perché?

«La preparazione era cominciata tre anni prima. Con Giampaolo abbiamo fatto tanti di quei sopralluoghi... Sono tutti scritti nelle sue agende. Ogni weekend andavamo a cercare fonti, pubblicazioni locali, testimoni... L’ha fatto perché a 58 anni dalla Liberazione pensava che fosse venuto il momento, per la sinistra non schiava dell’ideologia, di guardare le cose per come erano accadute. Di passare il Rubicone. Di riconoscere che, accanto alla barbarie dei fascisti, anche una parte dei vincitori aveva commesso delle barbarie. Giampaolo considerava il massimo esempio di barbarie la rapatura delle donne in piazza: la simulazione pubblica di uno stupro. Pensava che fosse venuto il momento. Invece il momento non è venuto. Siamo ancora lì».

Pansa però incontrò un altro pubblico.

«Io avevo passato la vita tra gli operai comunisti. Diffidavo di chi stava dall’altra parte. Con Giampaolo ho incontrato impiegati, manager, medici, avvocati e anche operai dell’altra parte; ed era gente come quella che conoscevo bene. Anche nell’ora della sua morte, il mondo dei vinti ci è stato più vicino del suo mondo di prima. Di loro non ho visto e sentito quasi nessuno. Mentre tantissimi dall’altra parte mi hanno espresso solidarietà e gratitudine. E sa perché? Perché Giampaolo aveva dato voce alle loro sofferenze, tenute a lungo nascoste. E il fatto che fosse un uomo di sinistra a riconoscerle, quelle sofferenze, aveva ai loro occhi un particolare valore».

Cosa pensava davvero Pansa di Craxi?

«Diceva che si conoscevano da quando lui portava ancora i pantaloni alla zuava e Bettino aveva i capelli. A Roma all’inizio scendeva nello stesso hotel, il Raphael. Andò via perché ogni sera Craxi lo aspettava per lamentarsi di quel che scriveva Repubblica. Ora una rivista ha fatto un parallelo, ha scritto contro “la santificazione di Pansa e Craxi”. Ma è un parallelo che non regge. È vero che sono state entrambe in qualche modo due figure tragiche. Ma uno era un uomo di potere; l’altro era semplicemente un giornalista libero. Giampaolo non ha mai amato quelli che si intascavano “il malloppo”, come lo chiamava lui. Altri hanno scritto che smaniava per fare il direttore. Una menzogna: gli hanno offerto più di una direzione, e ha sempre rifiutato. “Non voglio né ubbidire né comandare” diceva. Voleva semplicemente scrivere quel che pensava».

E di Bocca cosa pensava?

«L’ha sempre considerato un maestro. Uno dei suoi maestri professionali. L’aveva conosciuto da ragazzo, a Casale Monferrato. Giampaolo aveva fondato con gli amici un circolo intitolato a Gobetti. Amava raccontare quel primo incontro...».

«Bocca arrivò su un’auto sportiva, mangiò e bevve come un orco, si informò sulle ragazze più belle, tenne la conferenza e ripartì sgommando nella nebbia verso Milano...».

«Sì, decisamente non si può dire che Pansa scrivesse male. Magari colorando un po’. Con Bocca ebbero un dissidio sulla genesi del terrorismo rosso. La vera rottura avvenne prima del Sangue dei vinti, durante la guerra per il controllo del gruppo Espresso. Bocca, che era un anticomunista viscerale, si schierò con Berlusconi, mentre Giampaolo stava dall’altra parte».

E di Scalfari cosa diceva?

«Lo considerava un grande giornalista e un grande direttore. Ma Scalfari ora sbaglia a sostenere di aver scoperto lui Giampaolo. Quando fu chiamato a Repubblica, rifiutò; preferì restare al Corriere, dove non a caso ha chiuso il suo percorso di giornalista ramingo. Accettò un anno dopo, quando se ne andò Ottone e la P2 stava mettendo le mani sul giornale. Ma insomma aveva già raccontato piazza Fontana, aveva già fatto l’intervista in cui Berlinguer diceva di sentirsi più tranquillo con la Nato che con il Patto di Varsavia...».

Lei come lo ricorderà?

«Come lo ricordano tanti vecchi redattori di Repubblica. Ho aperto un vecchio telefonino di Giampaolo e ho trovato il messaggio di uno di loro, Michele Smargiassi, che ricordava il suo primo giorno di lavoro. Pansa non lo conosceva, ma si era alzato, gli era andato incontro, gli aveva stretto la mano, gli aveva augurato buona fortuna. Faceva così perché è un uomo buono e generoso. Potrei raccontarle mille episodi che lo confermano».

Lei ne parla ancora al presente.

«Non riesco a parlarne al passato. Giampaolo è qui. Non è da nessun’altra parte. Gli parlo, anche se non sento la sua voce. Non sono diventata matta, anche se a volte la tristezza prevale. Giampaolo è sempre presente, mai opprimente. Sapeva colmare tutti i vuoti. È stato ed è l’amore della mia vita».

Giampiero Mughini per Dagospia il 25 gennaio 2020. Caro Dago, era inevitabile che in morte di Giampaolo Pansa molti gli rimproverassero i libri da lui scritti nell’ultimo comparto della sua lunga vita professionale, quelli in cui lui raccontava con passione e commozione il “sangue” versato dai “vinti” della guerra civile del 1943-1945, quelli che erano stati massacrati a guerra finita. Qualcuno ci è andato pesante in questi rimproveri, su tutti lo storico dell’arte Tomaso Montanari, al quale va il Premio Nobel della volgarità espressa contro Giampaolo, contro uno che non si poteva più difendere. Vedo adesso, maestosa come sempre, l’intervista sul “Corriere” di Aldo Cazzullo ad Adele Grisendi, compagna e moglie di Giampaolo negli ultimi trent’anni della sua vita. Quando ha conosciuto Giampaolo, Adele era una sindacalista della Cgil, una che era ed è rimasta di sinistra, come del resto era rimasto fondamentalmente di sinistra Giampaolo. (Entrambi collaboratori di “Libero” ci dicevamo al telefono quel che ci piaceva e il tanto che non ci piaceva di questo quotidiano che così liberalmente ci ospitava.) Adele racconta come nacque il primo dei tanti (forse troppi) libri che Giampaolo ha scritto sul “sangue dei vinti” e come nacque la sua compassione per quegli uomini e quelle donne: “Pensava che fosse venuto il momento di raccontarlo” dice Adele Grisendi. Al che Cazzullo le si rivolge dicendole che in questo modo Giampaolo aveva scelto di rivolgersi a un pubblico diverso da quello che era stato il suo. E Adele risponde: “Io avevo passato la vita tra gli operai comunisti. Diffidavo di chi stava dall’altra parte. Con Giampaolo ho incontrato impiegati, manager, medici, avvocati, e anche operai dell’altra parte ed era gente come quella che conoscevo bene”. Eccoci arrivati al punto cruciale. Gli italiani che andavano alle presentazioni dei libri di Pansa e che li compravano, ossia gli italiani sentimentalmente legati in un modo o in un altro alle esperienze e alle ragioni dei “vinti” del 1945 erano per questo italiani da rigettare in punta di principio, italiani di serie B, italiani che non avevano diritto a provare commozione per quelli della loro parte che erano stati trucidati barbaramente a combattimenti finiti? Prendiamo il caso di uno di loro, il giornalista fascista Giorgio Pini, uno che aveva creduto in Mussolini dall’inizio e per tutta la Repubblica di Salò ivi compresa, e tuttavia un personaggio adamantino cui nessuno potrebbe rimproverare qualcosa. Ebbene il 30 aprile 1945 Pini venne arrestato e condannato a sei anni. Aveva un figlio diciassettenne che ogni tanto da Bologna inforcava la bicicletta e lo andava a visitare in carcere. Una di queste volte e mentre tornava a Bologna venne intercettato da un gruppo di partigiani che gli chiesero come si chiamasse. Il suo cadavere non è mai stato più ritrovato. Pini è morto nel 1987, quando Pansa non aveva ancora cominciato la sua saga sui “vinti”. Fosse stato vivo, Pini avrebbe avuto il diritto di assistere alla presentazione di un libro di Pansa, ossia al libro di uno che reputava gli assassini di suoi figlio dei delinquenti e dei boia e niente affatto dei “partigiani” cui portare rispetto e da celebrare il 25 aprile? Oppure prendiamo un episodio più grosso, quello di Codevigo, di cui aveva scritto a lungo Giorgio Pisanò, un altro i cui libri io giudico preziosi per chi voglia conoscere tutti i colori e tutte le sfumature della “guerra civile” italiana 1943-1945. A Codevigo le cose andarono più o meno così. A guerra finita, il 29 aprile 1945 gli uomini0 della 28° Brigata Garibaldi “Mario Gordini” (comandata dal trentenne Arrigo Boldrini, detto “Bulow”) arrivano a Pescantina e Bussolengo, nel veronese. E’ una zona dove sanno trovarsi parecchi ravennati appartenenti alle disciolte formazioni della Repubblica Sociale. In un solo giorno quelli di “Bulow” prelevano 276 fascisti a Pescantina e 53 a Bussolengo. Altri 20 militi vengono prelevati da due partigiani del CLN di Bussolengo, caricati su un camion e consegnati direttamente ai partigiani di Ravenna. Di loro non si saprà mai la fine. I fascisti prelevati dagli uomini di Boldrini vengono immediatamente portati a Codevigo, dove nel frattempo sono stati ammassati molti altri militi rastrellati nelle zone limitrofe. Giunti a Codevigo, e dopo essere stati sottoposti a sevizie e depredati di ogni loro avere, vengono fucilati a gruppetti. Nella sola Codevigo verranno rinvenute 104 salme, di cui 77 in una fossa comune e le restanti in altre quattro fosse. La versione ufficiale dice che dal 29 aprile al 15 maggio i morti assassinati - uomini e donne - sono stati 137. Raccontare questo orrore era qualcosa che cozzava contro i sacri valori dell’antifascismo e dunque di Tomaso Montanari, o invece il fatto che a raccontarlo fosse un giornalista e uno scrittore di sinistra aiuta l’Italia tutta a cicatrizzare le piaghe ancora sanguinanti della guerra civile di 75 anni fa? C’è posto o non c’è posto, nella Repubblica italiana nata dalla fine della Seconda guerra mondiale per la memoria delle sofferenze e delle atrocità subite da tutti, anche dai “vinti” del 1945?

Macchina del fango? "Invenzione". L'anti-Saviano si chiama Pansa. "Carta straccia" è primo in classifiche davanti a "Vieni via con me". Spiega ciò che la sinistra ignora, scrive Francesco Borgonovo su “Libero Quotidiano”. Da mesi, forse anni, il centrodestra si arrovella per trovare un “anti-Saviano”, un giornalista o uno scrittore che sia in grado di offrire al pubblico una lettura della realtà differente dalle consuete invettive contro il governo oppressore, contro la Lega che interloquisce con la mafia e contro i giornali “di regime” che agiscono a comando del premier per annichilire i suoi nemici politici. Adesso è chiaro che un antidoto alle dissertazioni savianesche sulla Macchina del fango esiste, e pensare che l’avevamo qui a portata di mano. I lettori di Libero lo conoscono bene, per la verità anche quelli di Repubblica e tutti gli altri: si chiama Giampaolo Pansa, un signore che ha firmato articoli per i principali giornali italiani e che da due settimane è in testa alle classifiche di vendita con il suo nuovo libro. “Carta straccia. Il potere inutile dei giornalisti italiani” (Rizzoli) è al primo posto della lista dei bestseller di Arianna, probabilmente la più attendibile delle graduatorie. Nel fine settimana svettava in cima alla classifica della Stampa, era secondo in quella di Repubblica, di nuovo primo in quella del Corriere. Ha surclassato non solo i libri di cucina della Parodi, ma pure le tirate indignate di Stephane Hessel e di Don Gallo.  Ha lasciato indietro lo stesso Saviano, che da settimane imperversava con “Vieni via con me” (Feltrinelli), il volume che raccoglie gli interventi letti in tivù durante la trasmissione realizzata in coppia con Fabio Fazio. Pansa ha venduto oltre centoventimila copie in quindici giorni, per un totale di nove edizioni: un successo clamoroso anche per un autore conosciuto come lui. Il dato più interessante, però, riguarda il contenuto del suo libro. Che ovviamente non si riduce a una risposta all’autore di “Gomorra”, tuttavia presenta un quadro della situazione italiana molto diverso da quello dipinto ogni giorno dalle testate del gruppo Espresso, dai Santoro e dai Travaglio. Saviano ha conquistato le folle ripetendo ad libitum la sua tiritera sulla Macchina del fango, cioè “il meccanismo con cui si arriva a diffamare qualsiasi persona”. Ha spiegato che “c’è differenza fra diffamazione e inchiesta” e ha gridato che “la democrazia è letteralmente in pericolo” poiché i media asserviti alla dittatura imperante di centrodestra hanno assaltato prima il direttore di “Avvenire” Dino Boffo, poi il cofondatore del Pdl Fini. I servizi di Libero e del Giornale, dunque, non erano inchieste, ma diffamazione. Anche se nel caso Boffo c’era una condanna e in quello di Fini si parlava di una casa sottratta al partito (Alleanza Nazionale) e di soldi pubblici da versare nelle tasche di amici e famigliari. “Cosa succede in Italia quando si dà fastidio a chi comanda?”, teorizzava Saviano, “Si attiva una macchina fatta di dossier, di giornalisti conniventi, di politici faccendieri che cercano attraverso media e ricatti di delegittimare gli avversari”. Bene, Pansa in “Carta straccia” analizza la vicenda Boffo e le sue conseguenze. Mettendo in fila i fatti, dimostra che si è trattato di un’inchiesta a tutti gli effetti. Stesso discorso per la famigerata casa di Montecarlo. Racconta il clima di ostilità feroce che si è sviluppato attorno a Vittorio Feltri, Maurizio Belpietro e a tutti gli altri giornalisti che non si limitavano a prendere per oro colato il vangelo di Repubblica. Suggerisce che i giornalisti conniventi al potere economico e giudiziario vanno cercati in altre redazioni che la nostra. Va oltre: si concentra sul ruolo politico che Carlo De Benedetti, patron del giornale di Largo Fochetti, ambisce ad esercitare. Narra come Ezio Mauro abbia trasformato il suo quotidiano in un organo di orientamento ideologico, in una corazzata militante. Va a toccare i santini progressisti come Santoro, Fazio e Travaglio, non risparmia nessuno. Infatti l’Espresso e Repubblica hanno bellamente ignorato la sua opera. Sono argomenti che Pansa tante volte ha affrontato nel suo Bestiario su Libero, ma che raccolti in un solo tomo hanno interessato migliaia di persone. Tra i suoi lettori ci saranno sicuramente tanti simpatizzanti del centrodestra, ma visto il numero di copie vendute devono essercene per forza anche parecchi che votano a sinistra e magari sono stanchi del “giornale guerrigliero” di Ezio Mauro, dei “postriboli televisivi” di Lerner e Santoro, delle notizie a senso unico del Tg3. Gente che magari ha comprato “Vieni via con me” e i libri di Travaglio e che desidera sentire una campana che non suoni a morto. In queste ore di nuovo si parla di invasione dei mezzi di comunicazione da parte di Berlusconi, di campagna elettorale dai toni drammatici per colpa del Pdl e della Lega, si ripetono i copioni raffermi già squadernati in prima serata su Raitre e Raidue. Beh, chi ha letto Pansa ha capito che la Macchina del fango non esiste, che i giornalisti puntano ad esercitare un’azione politica ma spesso e volentieri falliscono (e non per questo cessano di azzannare il Cavaliere) e che le divinità progressiste non sono infallibili, anzi, spesso raccontano balle fin troppo evidenti. Centomila e più italiani - e speriamo che il numero sia destinato ad aumentare - hanno compreso come funzionano davvero i media qui da noi e quanto poco Berlusconi possa fondare su di essi il proprio consenso. La risposta agli show manettari e ai video processi ce l’abbiamo sotto il naso. E non si paga milioni di euro come alcuni programmi televisivi nei quali il centrodestra ha investito le sue speranza di rivalsa. Costa 19 euro e 90 centesimi più qualche ora di tempo da dedicare alla lettura. E un pò di coraggio, perché a mettersi contro alla macchina del ridicolo di Saviano e soci ce ne vuole.

Pansa intervista Pansa su “Libero Quotidiano”: "Devo tutto alla guerra".

Caro Giampaolo, come ti senti adesso che hai compiuto gli ottant' anni?

«Tutto sommato, mi sento bene, a parte qualche acciacco inevitabile alla mia età. Ma il resto funziona e non posso che ringraziare il Padreterno. La testa è ancora lucida e la voglia di scrivere tanta. Devo confessare che il piacere di scrivere, invece di diminuire, con l'età è cresciuto. La mattina mi alzo presto e una delle prime cose che faccio è accendere il computer. Poi mi dedico a un articolo, al capitolo di un mio nuovo libro, a una lettera da inviare a un amico. Impegnarmi ogni giorno in questo esercizio mi gratifica molto. E mi ricorda che sono sempre stato un uomo fortunato».

In che cosa consiste la tua fortuna?

«Prima di tutto, nella data di nascita. Sono un ex ragazzo del 1935. L' essere venuto al mondo in quell' anno mi ha regalato molte opportunità. La prima è stata di vedere con i miei occhi il disastro di una guerra mondiale. È iniziata nel 1940 quando avevo cinque anni ed è finita nel 1945 quando mi avviavo a compierne dieci. Quello che ho visto, sia pure con lo sguardo di un bambino, mi ha insegnato che non bisogna mai lamentarsi di quanto ci accade, perché il peggio può sempre arrivare».

Il tuo ricordo più orribile del tempo di guerra?

«I bombardamenti aerei. Casale Monferrato, la mia città, non era un obiettivo strategico, ma aveva due ponti sul Po, uno pedonale e l'altro ferroviario, abbastanza vicini al centro. A partire dall' estate del 1944, gli apparecchi angloamericani tentarono di distruggerli come avevano iniziato a fare con tutti i ponti della Pianura padana. Nella convinzione che, dopo la liberazione di Roma, la guerra stesse per finire e dunque fosse necessario ostacolare la ritirata dei tedeschi. Il ponte pedonale lo colpirono subito, quello ferroviario mai. Per questo i bombardieri alleati ritornavano di continuo all' assalto».

E allora?

«Allora ho nella memoria lo schianto delle bombe. Un rumore da film degli alieni, che si insinuava dentro di te, si impadroniva del tuo corpo e ti faceva temere di morire. Invece l'andare nei rifugi antiaerei durante la notte, per me era divertente. Può sembrare una bestemmia, lo so. Ma da ragazzino precoce mi sentivo attratto dalle donne sempre un po' discinte. Se qualcuno mi chiedesse quando ho cominciato a osservare l'altro sesso, risponderei: nel grande rifugio della marchesa della Valle di Pomaro, situato a cento metri dal nostro appartamento, un palcoscenico straordinario di varia umanità».

Ma non avevi paura?

«Dopo il primo bombardamento sì, ho provato il terrore di essere ucciso. Poi mi sono abituato. Tanti anni dopo, nel leggere quel che era accaduto in Gran Bretagna, ho compreso che l'Italia, soprattutto nelle piccole città, era stata una specie di paradiso. Gli abitanti di Londra e di altri centri inglesi, come Coventry avevano vissuto l'inferno dei continui bombardamenti tedeschi. Gli inglesi stavano assai peggio di noi. Hanno sofferto la fame, da loro il tesseramento è rimasto in vigore sino agli anni Cinquanta. Noi ce la siamo cavata molto meglio».

Che cosa dicevano i tuoi genitori della guerra?

«La consideravano un castigo di Dio e speravano che finisse presto. Ma non hanno mai lasciato trasparire le loro paure con me e a mia sorella Marisa. Mio padre Ernesto, classe 1898, da giovanissimo si era sciroppato gran parte della Prima guerra mondiale, nel Genio radiotelegrafisti della III Armata, quella del Duca d' Aosta. E aveva visto gli orrori di quel conflitto. Gli inutili assalti alla baionetta, i cadaveri straziati dalle cannonate, i tanti feriti, i mutilati, i soldati con la malaria e il colera abbandonati in lazzaretti di fortuna. Era un uomo buono e pessimista, rimasto orfano di padre da bambino, insieme a cinque tra fratelli e sorelle. Mia madre Giovanna, invece, era una donna ottimista. Aveva un negozio di mode in centro, guadagnava tre volte lo stipendio di papà, operaio guardafili delle Poste. Insieme mi hanno insegnato come si deve stare al mondo».

Quando hai scoperto che ti piaceva scrivere?

«Alla conclusione della terza media. Eravamo nell' estate del 1947 e avevo dodici anni e mezzo, poiché nelle elementari avevo fatto insieme la quarta e la quinta. Come premio per un'ottima pagella, papà mi regalò una macchina per scrivere di seconda mano: una Underwood del 1914, fabbricata in America. Ho imparato subito a usarla e mi sono accorto di avere una vocazione: quella di diventare un giornalista. Cominciai presto a collaborare al settimanale della mia città, Il Monferrato. Non mi pagavano, però mi lasciavano fare. Quando sono andato all' università di Torino, a Scienze politiche, ho dedicato tutto il mio tempo alla tesi di laurea. L'argomento era la guerra partigiana tra Genova e il Po. L' avevo iniziata per partecipare a un concorso indetto dalla Provincia di Alessandria. Divenne un malloppo pazzesco, di ottocento pagine».

E che cosa accadde?

«Mi laureai con il massimo dei voti e la dignità di stampa. Era il luglio del 1959 e avevo 23 anni e nove mesi. Nel novembre del 1960 la mia tesi vinse il Premio Einaudi che mi fu consegnato dall' ex capo dello Stato, Luigi Einaudi, nella sua villa di Dogliani, con una cerimonia solenne. Quel premio convinse il direttore della Stampa, Giulio De Benedetti, a convocarmi per capire che tipo ero. Il nostro incontro durò meno di un quarto d' ora. E lui mi assunse, come in seguito fece con altri giovani laureati. Voleva svecchiare la redazione, così mi venne detto».

Un altro colpo di fortuna…

«Sì. Ma anche il risultato di una serie di circostanze che non riguardavano soltanto me. Quando iniziai a lavorare alla Stampa era il gennaio 1961. L' Italia era appena uscita del suo primo boom economico. I grandi quotidiani andavano a gonfie vele. A insidiarli non esisteva la televisione e meno che mai il maledetto web. Vendevano molte copie, raccoglievano tanta pubblicità, avevano la cassa piena di soldi».

Condizioni oggi irripetibili...

«Non c' è dubbio. Gli stipendi erano più che buoni, compresi quelli dei redattori alle prime armi. In compenso bisognava lavorare, o ruscare come diciamo noi piemontesi. Dieci ore di presenza dalle due del pomeriggio a mezzanotte. Nessuna settimana corta. Un rigore assoluto, garantito dai capi servizio, a loro volta onnipotenti. De Benedetti era un dittatore indiscusso. Quando entrava nella grande sala della redazione, tutti ci alzavamo in piedi. Soltanto quando Gidibì ringhiava: "Signori, seduti!", il lavoro riprendeva».

Fammi un esempio del rigore della «Stampa»…

«Eccone uno. Lavoravo da parecchio al notiziario italiano, quando Carlo Casalegno, il giornalista assassinato nel 1977 dalle Brigate rosse, mi chiese una recensione per la terza pagina, quella culturale. Riguardava un libro appena uscito in Italia: Il giorno più lungo di Cornelius Ryan, sullo sbarco alleato in Normandia nel giugno del 1944. La scrissi e la riscrissi con il cuore in gola. La consegnai al direttore e Gidibì la tenne nel cassetto per una settimana. Poi mi convocò e ruggì: "Questa non è una recensione, ma una cattiva cronaca dello sbarco in Normandia". Quindi iniziò a stracciarla in pezzi sempre più piccoli. E li fece nevicare sotto gli occhi».

Poi hai lasciato la «Stampa». Come mai?

«È un altro esempio della fortuna che assisteva un ragazzo del 1935. Negli anni Sessanta, un direttore che apprezzava il tuo lavoro aveva il potere assumerti da un giorno all' altro. Una circostanza irreale se guardiamo ai giorni nostri. Italo Pietra, allora direttore del Giorno, nel 1964 mi offrì un contratto da inviato speciale. Mi chiese: "Dove vuoi essere mandato in servizio: a Voghera o nel Golfo del Tonchino dove sta per cominciare una guerra che si estenderà al Vietnam?". Da monferrino sveglio risposi: "A Voghera, direttore". Pietra sorrise: "Risposta esatta. Ti assumo. Ecco il contratto da firmare. Se dicevi il Tonchino, non ti avrei mai assunto"…».

Quanto sei rimasto al «Giorno»?

«Sino alla fine del 1968. Poi Alberto Ronchey, il successore di Gidibì, mi rivolle alla Stampa, sempre come inviato. La mia base era Milano, una metropoli sconvolta dalla violenza e dagli attentati. Cortei militanti a tutto spiano, l'omicidio dell'agente di polizia Annarumma, la strage di Piazza Fontana, la fine oscura dell'anarchico Pinelli, l'arresto di Valpreda, i primi segni di vita delle Brigate rosse. Ho imparato a conoscere l'Italia, un paese ingovernabile, travolto dall' estremismo politico».

Se non sbaglio, nel 1973 sei passato al «Messaggero» dei Perrone…

«Sì, a fare il redattore capo, un mestiere che non era il mio. Ma la fortuna continuò ad assistermi. Piero Ottone mi volle al Corriere della sera. Ci rimasi sino al 1977, poi Eugenio Scalfari mi assunse a Repubblica, nata l’anno precedente. Rimasi con Barbapapà un'infinità di tempo. Quindi andai all' Espresso con Claudio Rinaldi, ero il suo condirettore. Nel 2008 lasciai il gruppone di Scalfari e mi arruolai nel Riformista di Antonio Polito. Di lì sono passato a Libero, dove sto con grande soddisfazione mia e, spero, del direttore Maurizio Belpietro e dell'editore Giampaolo Angelucci».

In tanti anni di professione, immagino che tu sia stato costretto ad affrontare non poche delle emergenze che hanno tormentato l'Italia. Quale di loro ricordi?

«Almeno tre. La prima è il terrorismo, soprattutto quello delle Brigate Rosse. Oggi non ce ne ricordiamo più, ma è stata una seconda guerra civile durata quasi un ventennio. Con un'infinità di morti ammazzati, centinaia di feriti, allora si diceva gambizzati, e un delitto che ricordo come fosse avvenuto ieri: il sequestro e l'assassinio di Aldo Moro. Tuttavia l'aspetto peggiore, e infame, di quel mattatoio fu il comportamento di una parte importante della borghesia di sinistra. Eccellenze della cultura, dell'università, del giornalismo, delle professioni liberali. E della politica comunista e socialista. Per anni negarono l'esistenza del terrorismo rosso. Sostenevano che si trattava di fascisti travestiti da proletari. Soltanto qualcuno ha fatto ammenda di quella farsa tragica. Ma pochi, per non dire pochissimi. Molti pontificano ancora e si considerano la crema dell'Italia».

E la seconda emergenza?

«È la corruzione, un cancro che intacca, con una forza sempre più perfida, partiti, aziende, pubblica amministrazione. È un virus che si estende anno dopo anno. Ha avuto un picco al tempo di Mani Pulite o di Tangentopoli. Era il 1992 e allora sembrò che le indagini del pool giudiziario di Milano avessero la meglio. Invece era soltanto una pausa breve. Infatti tutto è ricominciato alla grande. Devo dire la verità? L' Italia è una repubblica fondata sulla mazzetta. Non può consolarci il fatto che tante nazioni siano uguali a noi».

La terza emergenza?

«È il discredito sempre più devastante che ha mandato al tappeto il sistema politico italiano. Per anni ho seguito da vicino e ho raccontato la crisi dei nostri partiti. Li ho visti ammalarsi, peggiorare, arrivare vicini all' estinzione. Adesso mi sembrano malati terminali. Molte parrocchie politiche sono già morte. E altre moriranno. Alla fine resteranno in piedi soltanto pochi personaggi, i più scaltri, i più demagoghi. È facile prevedere che saranno loro a comandare in Italia».

Stai pensando a Matteo Renzi, il nostro presidente del Consiglio?

«Certo, penso al Fiorentino, ma non soltanto a lui. Renzi oggi comanda e temo che continuerà a comandare per parecchio tempo. Avremmo bisogno di un nuovo De Gasperi, ma l'Italia del 2015 è messa peggio di quella del 1948. Allora eravamo un paese senza pace, alle prese con tutti i guai del dopoguerra. Ma avevamo fiducia in noi stessi, voglia di rinascere, capacità di sacrificio, entusiasmo politico, anche faziosità all' ennesima potenza. Oggi siamo una nazione di morti che camminano, non parlano, non si occupano di quello che un tempo veniva chiamato il bene pubblico. Prevale la paura di diventare sempre più poveri».

Come vedi il futuro dell'Italia?

«Buio e tempestoso. Adesso qualche gregario di Renzi dirà che sono un vecchio gufo menagramo, ma è proprio il personaggio del Fiorentino a indurmi al pessimismo. Non è un leader politico poiché non ha la statura intellettuale e umana per esserlo. È soltanto l'utilizzatore finale di una crisi antica della Casta dei partiti, cominciata molti anni fa. Renzi sta dominando su uno scenario di macerie. A lui interessa soltanto il potere. Non è un generoso come sanno esserlo i veri numero uno. È un piccolo demagogo, egoista, vendicativo, che si è circondato di una squadra di yes man incompetenti, pronti a obbedirgli e a seguirlo fino a quando resterà in sella. Nessuno lo scalzerà dalla poltrona e lui seguiterà a vincere per abbandono di tutte le controparti».

Nemmeno il centrodestra riuscirà a scalzare Renzi?

«Ma non raccontiamoci delle favole! Il centrodestra mi ricorda l'ospizio dei poveri della mia città. Sono convinti, o fingono di esserlo, che soltanto loro abbatteranno il Fiorentino. Ma è un pio desiderio, nient' altro. In realtà tutti i capetti di una volta si combattono per spartirsi il poco che è rimasto dell'impero di Silvio Berlusconi. Giocano con il pallottoliere e, sommando una serie di piccoli numeri, si illudono di sconfiggere Renzi. Il loro futuro è persino più nero di quello italiano. Ce lo conferma la crisi drammatica del Cavaliere. Ha un anno meno di me e nel 2016 taglierà il traguardo degli ottanta. Gli auguro di conservare la villa di Arcore e di non sentire che un giorno, all' alba, bussa alla sua porta qualche scherano di Renzi con un'ordinanza di sfratto».

Sei certo che gli oppositori attuali di Renzi non siano in grado di fermarlo?

«Forse potrebbe farcela un'alleanza che oggi sembra una chimera. Quella fra Grillo, Salvini, la Meloni e quanto resta di Forza Italia. Ma nel caso molto improbabile che questo asse prenda forma, chi può esserne il leader? Viviamo in un'epoca che considera la figura del capo un fattore indispensabile per contendere il potere politico, con la speranza di conquistarlo. Però dove sta il nuovo leader del centrodestra? Io non lo vedo».

E del centrosinistra che cosa mi dice?

«Che sta peggio del centrodestra. Quando esisteva ancora la Democrazia cristiana, un anziano deputato doroteo di Caltanissetta mi disse: "Il mio partito ricorda la masseria dello curatolo Cicco: il primo che si alza, pretende di comandare". Non rimpiango di certo la scomparsa del Pci, ma la sua fine ha lasciato un vuoto enorme. Si sta realizzando una profezia del vecchio Pietro Nenni: rischiamo di diventare una democrazia senza popolo. È quello che accade in Italia, pensiamo al grande numero di elettori che non vanno più alle urne».

Nella prima e nella seconda Repubblica tu hai votato sempre a sinistra, se non sbaglio…

«Sì, ho votato per il Pci, per il Psi e per i radicali. Poi non sono più andato a votare, da quando ho scoperto la vera natura della sinistra italiana. Me ne sono reso conto del tutto nel 2003, dopo aver pubblicato il mio libro dedicato a quanto era accaduto dopo il 25 aprile 1945: Il sangue dei vinti. Un lavoro minuzioso, che non ha mai ricevuto una smentita o una querela. Posso definirlo una prova di revisionismo storico da sinistra? Eppure la sinistra italiana, in tutti i suoi travestimenti, mi ha maledetto. E non ha smesso di sputarmi addosso nemmeno quando si è resa conto che quel libraccio aveva un successo enorme. A tutt' oggi ha venduto un milione di copie».

Tu fai il giornalista dal 1961, ossia da cinquantaquattro anni. Ha ancora senso questo nostro mestiere?

«Penso di sì, anche se è diventato una professione proibita ai giovani. Nessuno li assume, i compensi per chi vuole iniziare sono minimi. Ma io sono difeso dalla mia età. A ottant' anni mi protegge un antico imperativo del filosofo tedesco Immanuel Kant. Recita: fai quel che devi, avvenga quel che può».

La grande ipocrisia vien da lontano. “I Vinti non dimenticano” (Rizzoli 2010), è il titolo del volume di Giampaolo Pansa. Ci si fa largo tra i morti, ogni pagina è una fossa e ci sono perfino preti che negano la benedizione ai condannati. E poi ci sono le donne, tante, tutte ridotte a carne su cui sbattere il macabro pedaggio dell’odio. È un viaggio nella memoria negata, quella della guerra civile, altrimenti celebrata nella retorica della Resistenza.. Le storie inedite di sangue e violenza che completano e concludono "Il sangue dei vinti", uscito nel 2003. Si tenga conto che da queste realtà politiche uscite vincenti dalla guerra civile è nata l'alleanza catto-comunista, che ha dato vita alla Costituzione Italiana e quantunque essa sia l'architrave delle nostre leggi, ad oggi le norme più importanti, che regolano la vita degli italiani (codice civile, codice penale, istituzione e funzionamento degli Ordini professionali, ecc.), sono ancora quelle fasciste: alla faccia dell'ipocrisia comunista, a cui quelle leggi non dispiacciono.

Esecuzioni, torture, stupri. Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega scrive Giampaolo Pansa. (scrittore notoriamente comunista osteggiato dai suoi compagni di partito per essere ai loro occhi delatore di verità scomode). C’è da scommettere che il libro di Giampaolo Pansa, "La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti" (Rizzoli, pagg. 446), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione “Il Giornale” pubblica un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro.

Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"

Rabbia e armi nascoste Così il Pci voleva fermare la democrazia. Molti partigiani non accettarono la vittoria della Dc. La guerra civile non scoppiò solo perché Stalin si oppose, scrive Giampaolo Pansa su "Il Giornale". La guerra civile, in apparenza finita nell'aprile del 1945, non si era affatto spenta. I delitti politici continuavano impuniti. Avevano quasi sempre mandanti ed esecutori di un solo colore: il rosso. Tra i partiti ritornati sulla scena, il Pci era l'unico in grado di dettare legge dovunque. A renderlo forte, e in tanti casi prepotente, provvedeva la rabbia di molti partigiani scontenti per come si era conclusa la Resistenza. Spirava un vento di delusione irosa che sosteneva la necessità di un secondo tempo della guerra interna, questa volta con un obiettivo radicale: la conquista del potere in Italia. Tante bande delle Garibaldi si erano rifiutate di consegnare le armi alle autorità militari inglesi e americane. Nell'Italia settentrionale e centrale stava crescendo il numero degli arsenali clandestini. Tra il 1945 e il 1946 molti depositi venivano scoperti dalle forze dell'ordine, ma era sempre poca cosa rispetto a quelli esistenti. La voglia di una vittoria definitiva divideva persino un partito in apparenza monolitico come il Pci. Anche un leader dal grande carisma come Palmiro Togliatti era costretto a non decidere nulla a causa dell'opposizione di un'ala estremista che sosteneva la necessità di una resa dei conti con gli angloamericani. E di conseguenza con i partiti moderati. Prima fra tutti la Democrazia cristiana. Guidata da un personaggio che la sinistra odiava: Alcide De Gasperi. Dipinto come un servo del capitalismo e un lacchè del Vaticano. L'Italia del triennio 1945-1947 era davvero un'Italiaccia, un Paese sottosopra. Dove poteva accadere di tutto. Persino che qualche gruppo di giovani reduci della Repubblica sociale cercasse di vendicarsi della sconfitta patita e delle angherie che stavano soffrendo per mano dei partigiani rossi. Erano tentativi modesti e destinati a fallire. Ma dimostravano una realtà che pochi erano capaci di vedere: se Mussolini era un cadavere appeso a piazzale Loreto, chi aveva creduto in lui non era scomparso. Nel frattempo la società italiana cambiava, e non sempre in peggio. Dopo aver ottenuto il diritto di votare, nel 1946 le donne si erano presentate in massa alle elezioni per l'Assemblea costituente e nel referendum per la scelta tra monarchia e repubblica. E avrebbero fatto sentire il loro peso nelle prime consultazioni politiche del dopoguerra: quelle del 18 aprile 1948. Fu un passaggio cruciale per la giovane democrazia italiana. Ma anche un azzardo per la Dc e le altre forze moderate che si opponevano al Fronte democratico popolare, l'alleanza fra i comunisti e i socialisti. Una volta superato questo muro, l'Italiaccia si trovò in grado di intraprendere la strada che le avrebbe consentito di diventare un Paese normale. Da quel momento sono trascorsi sessantasette anni. Anche quanti allora erano ragazzi, come nel mio caso, non rammentano più che il 1948 fu ancora un'epoca di guerra. Le condizioni del Paese restavano quelle precarie che ho descritto. Imperava sempre il mercato nero. Vigeva il razionamento per il pane, la carne, la pasta, il latte. Non tutti erano in grado di mettere insieme il pranzo con la cena. Tre anni dopo la fine della guerra, risultarono essenziali gli aiuti alimentari inviati dagli Stati Uniti per favorire la vittoria dello Scudo crociato.

Li ricordo anch'io quei pacchi che ci venivano recapitati a casa. Mia madre non li ha mai respinti. Diceva: «Gli americani ci tirano su il morale chiedendoci soltanto di non votare per i comunisti e i socialisti fedeli a Stalin. Per quello che mi riguarda, ho già deciso: non darò mai una mano al Fronte popolare!». La mamma accettò anche un taglio di stoffa con la cimasa tricolore. E mi confezionò un cappotto marrone. Era un colore che odiavo, ma il tessuto made in Usa si rivelò ottimo e mi tenne caldo per tre inverni. Nella primavera del 1948, mentre il Fronte popolare era sicuro di vincere, la Democrazia cristiana temeva di perdere. In un santuario del Monferrato, De Gasperi incontrò il ministro degli Esteri francese, Georges Bidault, e gli presentò una richiesta che da sola testimoniava l'asprezza dello scontro. E ottenne che, in caso di sconfitta della Dc, la Francia avrebbe accolto come rifugiati politici tutti i dirigenti del suo partito, famiglie comprese. Come era accaduto nel 1946 per l'elezione dell'Assemblea costituente, pure nelle consultazioni del 18 aprile si rivelò decisivo il voto delle donne. Furono le protagoniste della rinascita dopo la guerra. Anche nella vita delle famiglie e nei rapporti di coppia, le loro decisioni prevalevano sempre più spesso su quelle dei maschi. Era una novità sconvolgente che non venne subito compresa. Ma cambiò abitudini e atteggiamenti rimasti gli stessi per secoli. A cominciare dai rapporti sessuali. Per molti uomini fu uno choc scoprire che persino a letto le donne volevano avere l'ultima parola. Il 18 aprile lo Scudo crociato stravinse. De Gasperi rimase alla guida del governo. E fu in grado di superare anche il trauma dell'attentato a Togliatti. Il 14 luglio 1948 poteva segnare l'inizio di una nuova guerra civile. Ma il vertice del Pci sapeva bene che un'insurrezione rossa non era possibile. Lo aveva già spiegato Giuseppe Stalin a Pietro Secchia, il leader dell'ala militarista del partito. Andato a Mosca per incontrare il nuovo zar, quel biellese secco, dal volto sparuto, sempre con i capelli in disordine e l'abito stazzonato, tornò a mani vuote. Il compagno Stalin gli confermò che in Italia la rivoluzione proletaria era nient'altro che un'illusione.

"L’italiaccia senza pace" di Pansa. Delitti politici rimasti senza colpevoli. Pugno di ferro sui fascisti sconfitti. Reduci di Salò che si vendicano. Fanatismi barbarici. Partiti divisi dall’odio. Il potere crescente delle donne, imposto anche nelle storie di sesso. Misteri ed enigmi che diventano incubi. Il primo dopoguerra italiano è stato tutto questo. Un inferno durato tre anni, sino alle elezioni del 18 aprile 1948 e all’attentato a Palmiro Togliatti subito dopo il trionfo di Alcide De Gasperi sul Fronte popolare rosso. Da allora sono trascorsi tanti anni e quasi nessuno rammenta quel tempo feroce. Ma Giampaolo Pansa l’ha vissuto con lo sguardo attento di un ragazzino curioso. E non l’ha dimenticato. Lui ha una tesi: l’Italia di questo 2015 è ancora figlia del primo dopoguerra, dei vizi e delle faziosità che lo inquinavano. Allora i comunisti sognavano di fare un colpo di Stato. Adesso i reduci del Pci rimasti sulla piazza hanno scoperto degli alleati imprevisti: i movimenti che vogliono il nostro distacco dall’Europa. Gli italiani di oggi sono più in frantumi degli italiani di allora. I partiti soffrono di un discredito che nel dopoguerra affiorava già, ma non li paralizzava. Purtroppo non abbiamo un De Gasperi che ci guidi verso una nuova rinascita. Siamo vittime di paure più cattive di quelle che fra il 1945 e il 1948 devastavano i sonni di un paese che aveva ben poco da perdere. Mentre oggi abbiamo il terrore di perdere tutto e di ricadere nella povertà. È questa convinzione che ha spinto Pansa a creare un affresco dal titolo ruvido: L’Italiaccia senza pace. Perché Italiaccia? Perché nel primo dopoguerra eravamo una nazione sottosopra, incapace di ritrovare una condizione di normalità e rapporti umani non inquinati dalla violenza. Si sente dire che il passato annoia, ma di certo non quello narrato da Pansa. Questo suo libro è un’incalzante sfilata di vicende osservate dal basso, dove il privato di tanti protagonisti diventa la spia di un’epoca senza misericordia. L’autore ha scovato nella propria memoria le sequenze di un dramma che nasce da un enigma: chi ha consegnato ai tedeschi l’ebreo Samuele Segre, un direttore di banca ucciso ad Auschwitz? La verità si scoprirà nelle ultime pagine dell’Italiaccia senza pace.

Case, scuole e ospedali distrutti tra strade e ferrovie bloccate Le aziende stentavano a riprendere fiato e a dare stipendi, scrive Mario Bernardi Guardi su “Il Tempo”. Un’"Italiaccia" quella tra il '45 e il '48? Con ogni possibile carità di patria e umana comprensione, siamo d'accordo con Giampaolo Pansa che nel suo ultimo libro la chiama così, raccontando misteri, amori e delitti di un affannato dopoguerra («L'Italiaccia senza pace», Rizzoli, pp. 351, euro 20). Un’"Italiaccia". Dove, dopo cinque anni di guerra, non si riesce a ritrovare "una condizione di normalità, un modo di vivere tranquillo, rapporti non inquinati dalla violenza, notti prive di incubi". Povera "Italiaccia"! Macerie e ammassi di rottami dappertutto. Case, scuole, strutture ospedaliere in gran parte distrutte. Strade, ponti, viadotti, linee ferroviarie spesso non utilizzabili. Aziende che stentano a riprendere fiato. Criminalità politica e delinquenza comune imperversanti. Malattie già sconfitte - come la tubercolosi e la scabbia - che celebrano il loro inquietante ritorno. Prostituzione trionfante. Metropoli, a cominciare da Napoli - raccontata da Malaparte nella "Pelle" con feroce iperrealismo - e trasformate in bordelli a cielo aperto. Povera Italia, poveri corpi, poveri cuori. Malandati, malati, avvelenati. Guerra e guerra civile hanno scatenato le loro furie e se, da una parte, c’è una disperata voglia di dimenticare, dall’altra odi, rancori e desideri di vendetta covano uova di serpente. Pietà l’è morta e continua a morire. Lo sa bene Pansa che sul "Sangue dei vinti", a partire dal libro che reca proprio questo titolo, ha scritto più volte. E più volte ha ricordato i volumi dedicati da Giorgio Pisanò alla guerra civile, con il terribile contrassegno "sangue chiama sangue". Una spirale perversa. I vinti non dimenticano i loro morti. E certe volte, per trovare consolazione, non basta attingere all’archivio della memoria. Bisogna colpire. Così, in una storia raccontata nell’"Italiaccia", c’è un vinto, Luigi, un giovane fascista già sottotenente della Divisione San Marco, che si trasforma in spietato killer, facendo fuori, uno dopo l’altro, e con un misterioso rituale (a ognuno degli assassinati viene messa una mela in bocca), cinque partigiani della "Garibaldi", responsabili dello stupro e della morte di sua madre. Un evento atroce cui aveva fatto seguito il suicidio del padre. Il quale, capitano dell’esercito repubblicano, impegnato sulla frontiera orientale a combattere contro i partigiani di Tito, si era sentito in colpa per non essersi trovato accanto alla moglie e non averla protetta. Tante le storie di quell’Italia sotto sopra e senza pace. Pansa le racconta intrecciandole a quelle di una famiglia ebrea, i Segre Foà, ben radicata nella cittadina piemontese (Casale Monferrato, la "piccola patria" dell’Autore, microcosmo "esemplare" da cui leggere la più vasta storia del Novecento italiano), fino alla proclamazione delle leggi razziali. Allorché, tutt’a un tratto, Samuele, direttore della filiale del Credito Italiano ed Elisa, professoressa di lettere, diventano corpi estranei alla comunità. Peggio: nemici. Guerra e persecuzione razziale infuriano: Samuele ed Elisa, insieme ai loro figli, abbandonano Casale e cercano scampo. Lui morirà ad Auschwitz; lei e i figli torneranno alla loro cittadina, ma come chiusi in una bolla d’aria che li separa dagli altri. Perché se, quando sono stati costretti ad andarsene, la stragrande maggioranza ha fatto finta di non vedere, per non essere compromessa, adesso la solita maggioranza è come disturbata da questi inattesi "spettri": che cosa vogliono? Che cosa pretendono? Quali sofferenze "in più" hanno da esibire rispetto a quelle patite da tutti gli altri? Sarà dura farsi capire e rispettare, senza chiedere elemosine di affetti. Ecco, dal ’45 al ’48, Elisa, i suoi figli, i nuovi amici "seguono" per noi e ci raccontano, dall’osservatorio della piccola città, le vicende dell’Italia nuova. Grava su loro il peso di quello che non si può dimenticare. E che rende complessa la loro "umanità". Appartengono, senza dubbio, alle schiere dei vincitori, ma sono anche dei vinti: nella memoria hanno ferite che non si rimarginano e l’istinto parrebbe invocare in certi momenti decisioni "forti". Nel nome di quel "sangue chiama sangue" che ha ispirato le vendette di Luigi, il giovane fascista "giustiziere". E tuttavia la storia corre, si compiono scelte pubbliche e private, si ragiona sulle idee e sui fatti, si ama e si odia all’insegna di nuove passioni. E si ride e si piange, e la carne, con i suoi appetiti, grida in tutti i modi e imbandisce vicende bollenti, mescolandole alla voglia di tenerezza. Intanto, il lettore "ripassa": il piano Marshall, il Fronte Popolare, la vittoria DC nell’aprile del ’48, l’attentato a Togliatti… "Quante storia, quante facce nella memoria, tanto di tutto, tanto di niente, le memorie di tanta gente", per dirla con le parole di una canzone scritta dall’ex- repubblichino Mario Castellacci per la mitica Gabriella Ferri! E allora ascoltiamo. Impariamo ad ascoltarlo, il tempo.

Marco Benedetto per Blitzquotidiano.it il 13 febbraio 2020. A un mese dalla morte di Giampaolo Pansa la polemica che fu molto accesa in quei giorni sembra evaporata, come accade in Italia quasi sempre. Ma non vorrei lasciare ai self appointed tutori della ortodossia laica democratica e anti fascista, come Tomaso Montanari e Paolo Flores d’Arcais, l’ultima parola. Non conosco Montanari, ne leggo articoli interessanti, ne diffido come giusto si faccia con quel mondo di intellettuali, di sinistra come di destra, che ti giudica prima ancora di processarti. Significativo il fatto che la sua urticante stroncatura professionale morale e politica di Pansa non abbia trovato ospitalità sul Fatto, come di solito accade per le sue denunce ma su Micromega, la rivista che Paolo Flores d’Arcais ha fondato 34 anni fa. Conosco Flores da quando fondo Micromega, lo stimo e lo ammiro. Lo considero intellettualmente onesto anche nei suoi momenti di faziosità estrema. Ed è una delle rare persone che quando sbagliano lo ammettono, come nel caso dell’innamoramento grillino. A volte non lo sopportavo, ma gli sono sempre stato vicino con affetto. Credo che anche lui mi ricambi, ancora oggi, nell’oblio obliterante del mio tramonto. Significativo che l’articolo di Montanari sia stato pubblicato su Micromega: segno di una totale apertura di Flores a tutte le opinioni, di una sua adesione assoluta al l’imperativo categorico della libertà di manifestazione del pensiero come da articolo 21 della Costituzione. Libertà garantita su tutti i mezzi possibili, 50 anni prima che internet fosse di massa. Forse dipende dallo scarso interesse che provo nella lettura dei giornali, ma non mi pare di avere trovato interventi in difesa di Pansa da parte di chi forse aveva un dovere morale per farlo. Così ci provo io. Qualche anni fa mi ero procurato le copie di una serie di vecchi articoli di Pansa sulla Stampa. In questi giorni ne ho riletti scavando nell’archivio storico del quotidiano, che affonda la memoria fino al 1867. Vi consiglio l’esperienza. Se l’editore ne facesse un libro, penso che avrebbe un buon successo. Conoscevo Giampaolo Pansa dal 1972. Lavoravo nella redazione di Genova dell’agenzia Ansa (2 professionisti, 1 “abusivo” e 3 fotografi), punto d’appoggio degli inviati dei grandi giornali del Nord che in quegli anni di grande nera e terrorismo nascente scendevano spesso facendo il percorso inverso di Paolo Conte. Era morto sul traliccio di Segrate Giangiacomo Feltrinelli. Pansa, che con Piazza Fontana aveva fatto il salto da inviato speciale di provincia a grande reporter di terrorismo e trame nere, piombò a Genova per raccogliere sul terreno gli elementi per i suoi articoli. Mi chiese di aiutarlo e accompagnarlo, lo feci con entusiasmo e interesse nonché beneficio per i miei resoconti per l’Ansa, con accumulo di punti per la mia tappa successiva a Londra. Per me, cresciuto in quella angusta provincia, fra Castelletto e piazza De Ferrari, andare a cercare notizie con Pansa,  fra Questura e Procura, avvocati, fu come un master alla Columbia University. Per un lungo tratto di tempo Pansa (e a un livello un po’ più locale Camillo Arcuri del Giorno), fu un modello per il mio lavoro di cronista anche se impossibile da eguagliare. Mi consolavo pensando che facevo fino a quattro articoli, per Ansa e Stampa ( di cui ero corrispondente locale) nel tempo in cui Pansa stendeva la prima versione del suo, che avrebbe riscritto all’alba del giorno dopo. Poi capii che non ero così bravo a scrivere come Pansa e anche come tanti altri bravi e bravissimi giornalisti e imboccai un’altra strada che mi portò maggiore fortuna. Le nostre strade si sono incrociate più volte in questo mezzo secolo. Decisiva per fare conoscere al pubblico italiano di sinistra la tragedia della Fiat fra sindacalismo estremo all’inglese e terrorismo fu l’intervista a un capetto di Mirafiori che Pansa pubblicò su Repubblica nel 1979. L’intervista si svolse nel mio ufficio in corso Marconi a Torino. Lasciai intervistatore e intervistato soli, nessuno interruppe, nessuno chiese notizie, nessuno ne seppe nulla fino al mattino dopo. Tanto era il rispetto che portavo per Pansa. Tanta era la fiducia nella sua onestà di cronista. Quando l’intervista uscì su Repubblica, fu come una bomba anche per i vertici del Pci. Anche se una parte di loro (come il torinese Adalberto Minucci) erano consapevoli della situazione vera della Fiat, e il Pci fosse fra i partiti quello più aperto (torinesi a parte) per i più la conoscenza della vita in fabbrica si arrestava ai muri esterni di Mirafiori. Pansa, nato socialista ma che ai tempi del Corriere aveva flirtato intensamente con i comunisti, per loro era un profeta. Il suo articolo fu un salutare choc. Seguì un intervento su Rinascita di Giorgio Amendola che diede l’altolà alle ambiguità rispetto all’estremismo sindacale e politico e la sua debolezza verso il terrorismo e per nostra fortuna la storia d’Italia prese un’altra piega. Quello era Pansa, un grande cronista. Raccontava quello che vedeva, implacabile. Faceva opinione con i fatti. Come opinionista era uno dei tanti e non dei più bravi. All’opposto c’è un altro grande, Giorgio Bocca. Bocca guardava, capiva, intuitiva, sentenziava e di rado sbagliava. Avevo rapporti affettuosi anche con lui. Mi chiamava col cognome, come a scuola o sotto le armi. Quando Carlo Caracciolo e Eugenio Scalfari vendettero le loro azioni Espresso alla Mondadori all’epoca di Carlo De Benedetti, Bocca mi telefonò per chiedermi cosa ne pensassi (ero all’epoca consigliere delegato del vecchio Espresso) poi sentenziò, mezzo in piemontese (era di Cuneo): “La verità è che a l’an avuto nen i cuillon”. Ritrovai Pansa a Repubblica negli anni ‘90, prima che passasse all’Espresso di Claudio Rinaldi come vice direttore (aveva collaborato con Rinaldi a Panorama, era poi passato all’Espresso di Giovanni Valentini, sempre come editorialista quando entrambi gli editori dei due settimanali erano azionisti di Repubblica). Poi a Repubblica arrivò direttore Ezio Mauro, che volle la firma di Pansa come un adulto nato povero vuole cose che l’infanzia gli ha negato. Fu un errore, anche mio, che resi possibile la collaborazione, ma è sempre stata una mia regola assecondare il più possibile i direttori nell’arricchimento del loro giornale. Per Mauro come per me Pansa è un mito di gioventù. Quando si recava a Torino da Milano dove risiedeva dai tempi della Stampa (fu prima redattore alle cronache provinciali della Stampa, poi inviato speciale del Giorno, poi di nuovo alla Stampa e poi al Corriere della Sera di Piero Ottone, infine a Repubblica), Pansa si appoggiava alla Gazzetta del Popolo dove Mauro faceva i primi passi. Avere Pansa nostro “dipendente” credo fosse per Mauro e per me e per le nostre umili origini come per Guglielmo il Conquistatore diventare re d’Inghilterra. L’esperienza di Pansa a Repubblica è raccontata con sostanziale aderenza alla verità nel libro “La Repubblica di Barbapapa”. Volevo proporvene ampi stralci ma i giudizi su di me sono troppo lusinghieri perché li possa riportare senza vergogna. Ormai però Pansa non era più quello degli anni ‘70 e nemmeno Mauro e il rapporto fini come è finito. Come tutti i giornalisti Pansa aveva un sogno. Scrivere editoriali e influire sulla politica. Il modello era Eugenio Scalfari. Vi piacciano o meno l’uomo le sue grandezze e i suoi difetti, i suoi errori e comunque giudichiate gli effetti del suo giornalismo sulla storia d’Italia, su una cosa non vorrei ci fossero esitazioni: che è stato il più grande giornalista della storia d’Italia. Albertini e Frascati operarono su giornali già affermati, forse il confronto è retto da Alberto Bergamini. Non da Montanelli. Ne fa testo l’eredità. Confrontate il Giornale con Repubblica e quello che c’è attorno. Scalfari nel mestiere è stato tutto: reporter (e che reporter), direttore di Espresso, fondatore e direttore di Repubblica, editore. Pansa non era Scalfari. Più bravo come scrittore ma la superiorità si ferma lì. Penso che Pansa il meglio di sé lo abbia dato sulla Stampa di Alberto Ronchey dei primi anni 70. Poi è stato sempre bravissimo ma come Manzoni dopo i Promessi Sposi o Norman Mailer dopo il Nudo è il morto. Per una serie di ragioni la visione dell’Italia di Pansa si è modificata negli anni, non diversamente da milioni di italiani. Se pensate che nel 1977 i giornalisti della Stampa impedirono l’uscita del loro giornale perché il direttore Giorgio Fattori non volle togliere di pagina la notizia che in cinque righe annunciava un prossimo comizio a Torino dell’ex repubblichino Giorgio Almirante. E che ancora nel ‘93 la candidatura a sindaco di Roma dell’ex fascista e missino Gianfranco Fini faceva urlare di indignazione e rabbia, al limite della crisi di nervi, Scalfari. Pronti poi tutti a trasformare Fini in un martire di Belfiore quando si ribellò a Berlusconi. Pansa non ha mai trasformato Fini in un maitre à penser della democrazia post moderna. Non credo che cambiò mai idea. Da cronista, che poi sarebbe anche da storico onesto, cercò di capire le ragioni degli altri, sollevando il coperchio che per decenni aveva impedito una auto analisi nazionale. O meglio di quella parte della nazione, il Nord, che visse sulla sua pelle occupazione tedesca, lotta di liberazione e repressione nazifascista. Credo che la trasformazione di Pansa sia stata più in sintonia con una parte degli italiani. Dopo la guerra solo i tedeschi hanno fatto peggio di noi, spolverandosi dalle spalle la quasi generale e entusiasta adesione al nazismo come con semplice colpo di spazzola. Capire meglio la natura e la capacità e la sottomissione di quel popolo non sarebbe male oggi che siamo loro colonia, sottomessi due volte, nella politica europea e nella produzione industriale. Ma anche noi in Italia abbiamo ibernato i precedenti 50 anni, spaventati dall’idea di aprire il vaso. Per paura di capire quanto di fascismo ci sia nel nostro Dna abbiamo imbalsamato l’infame ventennio come un male alieno. E per paura di capire le vere cause dei nostri mali presenti, avendo esorcizzato il fascismo, abbiamo anche innalzato a religione i dogmi fondanti della nostra Repubblica. Abbiamo preferito accettare la tesi della guerra civile piuttosto che analizzare le componenti della Resistenza e la sua trasformazione da rivolta di popolo a una brutale occupazione militare (definizione del partigiano Giorgio Bocca) a tentativo di instaurazione di una Repubblica popolare stile jugoslavo da cui ci salvò solo Yalta. Così è stato possibile che Flores e se non proprio lui tante altre persone a lui vicine di grande valore ma un po’ troppo assolutiste definissero la nostra vigente Costituzione la più bella del mondo, rifiutando di vedere in essa gli effetti di un compromesso, inevitabile senza dubbio, fra componenti politiche opposte, in un Paese occupato dagli americani, con l’Armata Rossa al confine orientale o poco più in là, con un esercito rosso armato fino ai denti e un esercito nero sconfitto ma non domo. Se prendete in mano i libri di quegli anni sul “caso italiano” (Cavazza, Levi e un po’ anche Ronchey) vi rendete conto che tutte le analisi prescindono dal dato di partenza: un Meridione contadino che poco ha patito dalla guerra, un Nord, industriale ma anche contadino, che aveva rimosso i feroci ricordi di un ventennio nell’euforia della ricostruzione e del boom. Ma che nella pancia teneva i germi di una grande infezione. Fino a quando non ci guarderemo dentro, ben poco capiremo dei nostri mali di oggi. In questi 70 anni, io allora infante sono diventato vecchio e l’Italia è diventata un’altra cosa. I fascisti non ci sono più (e questo è un merito che prima i poi dovremo riconoscere a Berlusconi). Se a uno che conoscevate per comunista gli chiedete della sua fede passata lui vi risponderà: mai stato. Molti di loro, che oggi godono vantaggi e privilegi del mondo capitalista, penso che vivano fra i loro incubi peggiori sogni di un’Italia costituita in repubblica popolare. Inconsciamente vorrebbero portarci ancora lì ma speriamo che gli vada male. Il Pci ha subito già due mutazioni e oggi è nel mondo simbolo di stabilità e moderazione. Se il mix di post-comunisti, cattolici, liberali e ecologisti che oggi lo guida non si fa irretire dal richiamo della foresta può essere baluardo contro e alternativa di buon governo a una Lega oggi sporcata dall’ombra della subordinazione agli interessi del grande gioco zarista della Russia. Attaccare Pansa oggi, da morto, in questa Italia ricca, sì ricca come solo chi ha conosciuto la povertà può misurare, è quasi maramaldesco. Lo è un po’ anche tacere da parte di chi lo ha amato e ammirato. Pansa, cantore in gioventù del più puro antifascismo, onesto cronista degli anni di piombo, portatore di notizie e non firmatario al buio di manifesti, aveva tutti i titoli per guardare anche dentro l’altra parte. Non ha diffuso, come si dice ora, fake news, come non lo ha fatto quando ricordava gli eccidi fascisti. Dice che nei suoi libri non c’erano note a sufficienza. Perdonatemi: ma quella è roba da professori, quegli stessi o i loro eredi che nel ‘68 inveivano contro i baroni e che in questo mezzo secolo hanno poi ridotto scuola e università come possiamo constatare (le eccezioni e le eccellenze confermano la regola). Pansa ha raccontato con l’ossessione del cronista una parte di storia d’Italia che si voleva occultata. Invece è giusto che lo si sia fatto e che a farlo sia stato uno di sinistra. Quelli della mia generazione, nati entro cinque anni dalla Liberazione, nel Nord Italia, tante storie le hanno sentite. Percepivi, nei racconti dei vecchi, che costituivano il grande popolo non schierato di quella Italia proletaria anche se non fascista di cui siamo figli e nipoti, odio e paura per i tedeschi, disgusto per i fascisti, disprezzo per quei partigiani che avevano infangato l’onore della Resistenza. È bene che questa particella di memoria sia stata conservata. Aiuterà, spero, i giovani a capire che mai il bene e il male stanno da una sola parte, anche se le porzioni di bene e di male da assegnare non sono uguali. E che la politica non è espressione di idee sublimi ma incontro scontro e mediazione di più o meno ampli e profondi interessi di classe. Si, di classe: non sono forse più quelle di una volta, ma la società senza classe è una scemenza. A Pansa, invece di lapidarne la memoria, va riconosciuto questo merito. Ha fatto cadere un dogma, che per essere di sinistra devi essere “organico” e seguire il pensiero dominante anche se ormai senza fonte autentica o comunque adeguarti al conformismo. Sinistra è libertà anche di dire quello che ai più non piace. Io non avrei scritto quei libri, anche a esserne capace. La pancia mi avrebbe detto di no. Ma sono stato e sono sempre un buon cronista, di quelli che in ciclismo chiamano “routier”. Non un grande cronista tutto maiuscolo. E ho letto solo uno o due di quei libri perché il genere non mi va. Ma quella parte di me che si è alimentata nella fede della libertà, testimoniata nella sua umile dimensione da una famiglia sempre coerente nel suo a-fascismo e anche, per quanto ho potuto, dalla mia stessa vita, mi dice che Pansa ha avuto ragione. Ha esagerato? Lo ha fatto per avidità di denaro? Perché no? Chi gli nega questo diritto mi fa paura come Robespierre. Nessuno è stato obbligato a comprare o leggere i suoi libri. Il buon gusto è un metro soggettivo che varia nel tempo. Internet amplia la possibilità di dialogo e polemica e anche questa è una bellissima cosa. La fake news? Ci sono sempre state, leggete Manzoni. La storia è stata deformata? Livio, Tacito, Svetonio, per stare nei miti laici, sono tre grandi imbroglioni per citarne sono tre. Haters e….? Pensate all’ostracismo greco o alle bocche veneziane. Meglio oggi dove tutto si stempera, gli insulti sono pubblici e non ti svegliano le guardie per una denuncia anonima e segreta. Sono per la libertà assoluta. Abbiamo gli anticorpi per distinguere il vero dal falso. Sono il conformismo e l’intolleranza i morbi che uccidono la libertà e la democrazia, quella di oggi, popolare e populista, da tenere d’occhio ma sempre meglio delle finte democrazie greche o romane. Non è un libro di Pansa sui misfatti di alcuni esaltati criminali ai danni di chi non fu certo pecorella smarrita a mettere in gioco i nostri valori. E non ci riusciranno nemmeno Salvini o la Meloni. Calma e barra al centro.

·        E’ morto il filosofo Roger Scruton.

L'eredità di Sir Scruton è fondamentale ma l'Europa la ignora. Il filosofo ha sempre difeso le nostre radici cristiane e la tradizione. Senza estremismi. Francesco Giubilei, Martedì 14/01/2020, su Il Giornale. Pochi uomini nella seconda metà del Novecento hanno avuto la capacità di dar vita a un pensiero organico e strutturato che non tenesse in considerazione le mode, le influenze e le convenienze della nostra epoca dominata dal politicamente- corretto come Roger Scruton. Filosofo, polemista, scrittore, professore, in una parola intellettuale tout court, Scruton è stato senza dubbio il massimo interprete del conservatorismo europeo contemporaneo, fedele alla lezione di Edmund Burke, T.S. Eliot e della secolare tradizione conservatrice inglese, ha saputo coniugare al rigore del proprio pensiero la capacità di divulgarlo attraverso una fittissima attività editoriale, giornalistica e convegnistica. La sua morte rappresenta una grave perdita non solo per i conservatori europei ma anche per tutti gli occidentali perché ci ha lasciato un uomo che ha difeso fino all'ultimo la tradizione, la cultura e le radici cristiane dell'Europa senza scendere a compromessi ma al tempo stesso evitando di cadere in posizioni estremiste, velleitarie o reazionarie. Scruton ha saputo con genialità interpretare battaglie all'avanguardia come quella sull'ambiente, sintesi di un conservatorismo moderno, ben saldo sui propri valori e critico nei confronti delle derive della società contemporanea. Su tutte la denuncia dell'oicofobia che attanaglia la nostra epoca, un termine coniato da Scruton nel 2004 definendo così «l'esigenza di denigrare i costumi, la cultura e le istituzioni che sono identificabili come nostri», in parole povere l'odio per la nostra storia e cultura. L'oicofobia mette in discussione i fondamenti del pensiero conservatore che, al contrario, ha a cuore la propria civiltà e nazione a partire dal concetto di comunità, intesa come un insieme di persone che condividono gli stessi valori e idee. L'oicofobia fa del multiculturalismo il cardine della propria azione, un concetto che Scruton rifiuta e mette in discussione già dai primi anni Ottanta quando avviene un episodio destinato a segnare la sua carriera e premonitore di quanto sarebbe poi accaduto a distanza di più di trent'anni. Si tratta del caso Honeyford, il preside di una scuola media di Bradford che si esprime contro il modello multiculturale e per questo viene licenziato. Secondo Scruton, Honeyford è vittima dell'establishment britannico intenzionato a eliminare ogni segno di patriottismo dalle scuole. Lo scrive sulla sua rivista Salisbury Review venendo a sua volta attaccato, emarginato ed etichettato come razzista, un insulto utilizzato con frequenza dalla sinistra nei suoi confronti in assenza di risposte ai cambiamenti prodotti dall'immigrazione di massa e paragonata a quella di essere un borghese in Russia durante il periodo di Lenin o un émigré nella Francia rivoluzionaria. Questo episodio lo porta ad abbandonare la carriera accademica e a comprendere il significato di appartenere a una minoranza culturale perseguitata e disprezzata dall'opinione pubblica progressista. Chissà se Scruton, diventato nel frattempo Sir, si sarebbe aspettato nella primavera del 2019 di venire cacciato dal governo britannico (per giunta conservatore) dalla commissione che presiedeva «Building Better, Building Beautiful» per un'intervista rilasciata a New Statesman in cui criticava l'islam e Soros con affermazioni rielaborate e pubblicate parzialmente al punto da indurre la redazione della rivista a scusarsi con lui. Eppure gran parte del mondo politico conservatore inglese, la premier May in primis, gli aveva voltato le spalle. Un atteggiamento comune ai governi dell'Europa occidentale, tra cui quello italiano, che in vita hanno ignorato Scruton, mentre in Ungheria Orbán lo ha premiato per il suo impegno culturale contro il comunismo, così come il governo polacco e quello ceco, segno di un'Europa dell'Est che conserva valori da noi ormai perduti. Che cosa rimane oggi della sua lezione? Un'eredità importante per l'Occidente che potrebbe attingere a piene mani dai suoi scritti ma, anche da morto, la politica non è stata in grado di ricordarlo, salvo rare eccezioni. Lo ha fatto il Primo Ministro inglese Boris Johnson, che ci è stato presentato come un pericolo per l'Europa ma che è in realtà un uomo di grande cultura e lo ha dimostrato anche in questa occasione, e in Italia Giorgia Meloni con un tweet in cui lo ha definito «una delle menti più brillanti e acute del nostro tempo». Per fortuna in Italia è vivo un lucido e profondo pensiero conservatore che ha saputo raccontare la figura di Scruton negli scritti di Luigi Iannone (che gli ha dedicato un libro), nelle parole di Gennaro Malgieri, negli articoli di Giulio Meotti e nelle riflessioni di Marco Respinti, solo per citare alcuni studiosi del conservatorismo nostrano che si sono interfacciati con la sua figura. È compito di tutti noi fare in modo che la lezione di Scruton non solo non sia dimenticata ma venga applicata in ogni ambito del quotidiano; Sir Roger ha tracciato la strada, sta a noi proseguirla tenendo accesa la fiammella del conservatorismo.

Addio a Scruton, il conservatore che ci ha insegnato a pensare in modo politicamente scorretto. Aldo Di Lello martedì 14 gennaio 2020 su Il Secolo d'Italia. Chi erano i contestatori del ’68? «Una folla di hooligans benestanti viziati che professavano assurdità marxiste». Questa frase spiega al meglio chi era Roger Scruton, il grande conservatore morto domenica scorsa. Scruton non era un conservatore qualsiasi. Era qualcosa di più. Uno snodo essenziale della cultura di destra occidentale. L‘ultimo dei grandi maestri del pensiero. Non per niente il New Yorker lo ha definito il filosofo più influente al mondo. Scruton era un’alternativa potente ai vari Bauman e ai pensatori della società liquida e senza identità. Era  l’opposto esatto del politically correct. Ma non per  il piacere fine a se stesso di andare controcorrente. Quanto per adesione alla verità naturale dell’uomo e ai valori storici della civiltà europea. Dell’Europa vera. Non certo dell’Europa tecnocratica di Bruxelles. Contro la quale Scruton ha peraltro scritto le sue accuse più dure. E ne fanno fede la cinquantina  di libri che ha scritto. Ecco alcuni dei titoli più noti: Guida filosofica per tipi intelligenti, L’Occidente e gli altri. La globalizzazione e la minaccia terroristica, Manifesto dei conservatori, La cultura conta, Confessioni di un eretico. I suoi maestri erano Edumnd Burke e Thomas Stearns Eliot. Il cui insegnamento a cercato di adattare al nostro tempo. Scruton aveva 75 anni. Il suo primo incarico, come docente, fu al Birkbeck College di Londra, nel 1971. Poi fondò il “Gruppo filosofico conservatore”. Il suo impegno anticomunista fu costante. Operò anche al di là della Cortina di ferro. Soprattutto in Cecoslovacchia.  Conobbe anche le carcere comuniste. Cercava di  costruire network accademici segreti nell’Europa dell’est. Negli ultimi anni Scruton approfondì il suo rapporto con il sacro. «La crocefissione dà così tanto senso alla mia vita e mi mette in rapporto con gli altri. Mi ci è voluta una vita per capirlo». Questo il suo testamento spirituale. L’anima del mondo. Libro dedicato al senso del sacro. Quel “mistero che la scienza di oggi vuole negare”. Anche per questo Scruton è diventato una bestia nera per la sinistra. Tant’è che, della sua scomparsa, hanno parlato in pochi.

Scruton, tutto tradizione e credo filosofico. “Essere conservatore”. Gennaro Malgieri il 14 gennaio 2020 su Il Dubbio. Fu fondatore della rivista “The Salisbury review”, ha scritto oltre 50 libri. Negli anni ottanta contribuì a stabilire rapporti con I dissidenti dell’est europeo, attività per la quale gli venne conferita da Vaclav Havel la medaglia al merito della Repubblica Ceca. La morte di Roger Scruton, il più grande filosofo conservatore contemporaneo, avvenuta il 12 gennaio, all’età di 75 anni ( era nato il 27 febbraio 1944 a Buslingthorpe, nel Lincolnshire, dove si è spento), non ci ha colti impreparati. Sapevamo da sei mesi del terribile male che lo aveva aggredito, ma la speranza di rivederlo, magari in Italia, Paese che amava, era sempre vivo. Con lui se n’è andata una delle voci più alte del pensiero critico contemporaneo. Anni fa il New Yorker lo definì il “più influente filosofo contemporaneo”. Fondatore e redattore della rivista trimestrale conservatrice The Salisbury Review, Scruton ha scritto oltre 50 libri su filosofia, arte, musica, politica, letteratura, cultura, sessualità e religione. È stato autore anche di romanzi e di due opere musicali. Tra le sue pubblicazioni più importanti ricordiamo ( tradotte in italiano) “Guida filosofica per tipi intelligenti”, “L’Occidente e gli altri. La globalizzazione e la minaccia terroristica”, “Manifesto dei conservatori”, “La cultura conta”, “Bevo dunque sono. Guida filosofica al vino”, “La Bellezza”, “Il suicidio dell’Occidente” ( libro- intervista curato da Luigi Iannone), “Il bisogno di nazione”, “Essere conservatore”, “Confessioni di un eretico”. Ha collaborato regolarmente con The Times, The Spectator, New Statesman. Scruton abbracciò il conservatorismo nel 1968, a 24 anni, come reazione alla contestazione, nel segno di Burke e di Elliott. Poi intraprese una brillante carriera accademica, e negli anni Ottanta contribuì a stabilire rapporti con i dissidenti dell’Est europeo, attività per la quale gli venne conferita da Vaclav Havel la medaglia al merito della Repubblica Ceca. La rivista Salisbury Review cercava di fornire una base intellettuale per il conservatorismo ed era fortemente critica nei confronti delle questioni socio- culturali, tra cui la campagna per il disarmo nucleare, l’egualitarismo, il femminismo, il multiculturalismo e il modernismo. Scruton la scriveva quasi da solo, aiutato da pochi collaboratori, usando numerosi pseudonimi. Con la sua vasta produzione intellettuale Scruton ha dimostrato di essere un conservatore reattivo e proiettato verso l’avvenire, ovviamente senza rinnegare il passato, o meglio rivendicando la forza della Tradizione, rispetto agli stravolgimenti che il politically correct ha prodotto nelle società affluenti rendendo l’ideologia egualitaria il parametro di riferimento comportamentale collettivo ed individuale. In particolare con “Essere conservatore” offre una sorta di vademecum non soltanto a uso dei conservatori stessi in senso stretto, ma soprattutto a beneficio di chi li denigra aprioristicamente. E ribadisce che “le persone hanno bisogno di radici senza le quali invecchiano e poi muoiono”. A tal fine Scruton passa in rassegna tutto ciò che non va nel vecchio Occidente per potersi difendere e proporsi ancora come motore di storia. Scrive: "Il conservatorismo che io professo afferma che noi, in quanto collettività, abbiamo ereditato delle cose buone e dobbiamo sforzarci di conservarle". Quali sono? La Tradizione, la concezione organica della società, la ricostruzione di una comunità fondata su valori non negoziabili. Alle classi dirigenti Scruton si rivolge, sia pure indirettamente, esortandole alla difesa delle specificità e delle differenze contro l’indifferentismo ed il relativismo culturale. E ribadisce, inoltre, che lo Stato- nazione, dato per morto dagli universalisti, è la garanzia primaria dell’ordine civile, politico e culturale verso il quale tendere. Così come non si può prescindere dal restaurare la concezione della bellezza a fronte di una tecnologia invasiva e totalitaria. L’indole conservatrice, sostiene, "è una proprietà acquisita delle società umane ovunque si trovino". Disperderla, come sta avvenendo, è un crimine contro noi stessi. Il tracollo degli Stati nazionali, almeno in Europa, è risultato evidente negli ultimi anni quando le istituzioni comunitarie hanno inteso affrontare la crisi delegittimando ulteriormente i governi nazionali piegati alle logiche tecnocratiche di Bruxelles e di Francoforte. E si è cominciata a fare strada la considerazione che la fedeltà alla propria comunità è certamente prioritaria rispetto a quella di chi agisce in assenza di un vincolo nazionale. Che ciò porti alla scoperta di un neo- patriottismo è ovviamente prematuro per sostenerlo ancorché auspicabile. Ed in questo spirito va letto il volume di Roger Scruton, “Il bisogno di nazione” ( Le Lettere), contributo rilevantissimo alla riscoperta dell’idea di nazione in chiave democratica e come elemento fondante il governo del popolo costituzionalmente riconosciuto da coloro che vivono su uno stesso territorio e nutrono un attaccamento al sentimento dell’appartenenza, al di là dei fattori etnico- religiosi che contribuiscono la falsare la nozione stessa di nazionalità esaltando piuttosto il tribalismo e l’intolleranza. Perciò le istituzioni sovranazionali che abusano del potere di delega, secondo Scruton minacciano seriamente l’indipendenza dei popoli e allo Stato nazionale, che pure ha bisogno di essere migliorato nelle sue strutture, e, dunque, per lui non v’è alternativa a meno di non voler diventare genti prive di autonomia e spodestate delle prerogative storico- territoriali che ne hanno legittimato l’esistenza. Insomma, la suggestiva difesa della nazione da parte di Scruton, è una lezione di sano realismo in tempi in cui l’avversione dello Stato nazionale e, più in generale, il rifiuto della stessa idea nazionale sono largamente diffusi e riflettono uno stato d’animo che Scruton definisce “oicofobia” cioè la tendenza che in qualsivoglia tipo di conflitto si denigrano usi, costumi, istituzioni, cultura “nostri” ripudiando così la lealtà o la fedeltà nazionale, prendendo sempre e comunque le parti di organismi transnazionali supportandone le direttive, come capita, per esempio, quando si sostengono sempre e comunque le decisioni dell’Unione europea o delle Nazioni Unite. L’appassionata difesa della nazione Scruton la completa con un lucido atto d’accusa allo “Stato mercato” che concepisce il legame tra cittadino ed istituzioni come un contratto dal quale il primo si attende benefici in cambio di obbedienza. E’ l’anticamera del totalitarismo moderno. Il trionfo del relativismo culturale applicato alla sfera della politica. Il bisogno della nazione implica coscienza identitaria e cultura dell’appartenenza. Su questi pilastri si reggono comunità capaci di affrontare le minacce del dispotismo e dell’anarchia.

Silvia Guzzetti per Avvenire il 14 gennaio 2020. È morto domenica il pensatore e scrittore britannico considerato fra i più incisivi intellettuali degli ultimi decenni, molto critico col marxismo e ostracizzato a sinistra. Impegnato nella difesa dei popoli oppressi, aveva riscoperto la fede ed era convinto che l' uomo e la civiltà non potessero farne a meno «La crocefissione dà così tanto senso alla mia vita e mi mette in rapporto con gli altri. Mi ci è voluta una vita per capirlo». Con queste parole Roger Scruton, scomparso domenica, a 75 anni, dopo sei mesi di lotta contro il cancro, aveva presentato ad 'Avvenire' il suo testamento spirituale. Quelle duecento pagine, intitolate L' anima del mondo, e dedicate al senso del sacro, a quel «mistero che la scienza di oggi vuole negare», come aveva detto lo stesso Scruton. Credente, anglicano, arrivato a Dio ascoltando le Passioni di Bach, odiatissimo dalla sinistra perché conservatore, l' intellettuale lascia un vuoto incolmabile nella scena culturale britannica e in quella mondiale. Definito dal New Yorker «il filosofo più influente nel mondo» Scruton era una figura poliedrica, editore, avvocato, romanziere e anche autore di due opere liriche. A rendergli tributo sono, tra tanti, lo storico Timothy Garton Ash, che racconta il suo «instancabile sostegno a favore dei dissidenti dei Paesi dell' Europa centrale durante il comunismo» e la Bbc che, nel programma “Today” del mattino, ha spiegato come il filosofo sia stato praticamente perseguitato, per quasi tutta la vita, da un “establishment” intellettuale di sinistra non disposto a concedergli spazio. Nato a Buslingsthorpe, nel Lincolnshire, nord d' Inghilterra, il 27 febbraio 1944 Scruton frequentò Cambridge e divenne conservatore durante le proteste studentesche del 1968 che definì «una folla di hooligans benestanti viziati che professavano assurdità marxiste». Il suo primo incarico, come docente, fu al Birkbeck college di Londra, nel 1971 e tre anni dopo Scruton fondò il “Gruppo filosofico conservatore” al quale partecipava anche Margaret Thatcher. Il suo impegno contro il comunismo, soprattutto in Cecloslovacchia, fu instancabile e nel 1985 il filosofo finì in prigione a Brno, prima di venire espulso dal Paese. Il suo lavoro per costruire network accademici segreti nell' Europa dell' est, negli anni della Cortina di ferro, venne riconosciuto dal presidente Václav Havel che lo insignì della medaglia al merito della Repubblica Ceca nel 1998. Per un periodo Scruton, autore di una cinquantina di libri su filosofia, arte, musica, politica, letteratura, cultura, sessualità e religione, emigrò anche a Boston, in America, quasi in esilio da quell' Inghilterra che tanto amava, perché non si sentiva apprezzato davvero nel Regno Unito. Un rifiuto che continuò fino alla fine, come ricordava con amarezza, lui stesso, in un diario dell' anno passato, appena pubblicato dal settimanale Spectator. «Il mio 2018 è finito con una tempesta d' odio, in risposta al mio incarico come presidente della nuova commissione 'Building better, building beautiful' (Costruire meglio, costruire bello), ma il nuovo anno è cominciato con più calma e spero che il Grande Inquisitore, alimentato dai social media, troverà un altro obiettivo », scriveva Scruton. Da quell'incarico, infatti, in una commissione pensata per promuovere un' edilizia migliore, in armonia con le comunità che la abitano, l' intellettuale venne allontanato per alcune frasi da lui pronunciate sul filantropo ungherese di origini ebree George Soros, riprese dal settimanale New Statesman e usate dalla sinistra laburista per chiedere le sue dimissioni. «La sinistra del Regno Unito mi odia e userebbe qualsiasi accusa possibile per delegittimarmi - spiegò allora Scruton ad 'Avvenire' - . Non è vero che io abbia promosso cospirazioni antisemite in una conferenza dedicata a Soros. Si tratta di pura invenzione». Parole che vennero vendicate, quando la rivista fu costretta a scusarsi e ad ammettere che le parole erano state usate al di fuori del giusto contesto, e il ministro responsabile della commissione, James Brokenshire, chiese a Scruton di ritornare. Nello stesso diario il filosofo racconta l' amarezza che gli aveva procurato questo ennesimo attacco e il dubbio che gli era tornato ancora: «Appartengo davvero al Regno Unito se anche membri del partito conservatore non la pensano così?», aveva scritto. Nelle interviste concesse ad Avvenire Scruton aveva raccontato la sua visione del mondo, di una difesa della tradizione non come chiusura nel passato ma come fonte di saggezza per il presente e il futuro. «L' Islam ha così successo perché offre ai giovani una via d' uscita dal caos», aveva detto il filosofo, «È anche la ragione per cui molti ritornano alla religione, perché abbiamo bisogno di appartenere a una comunità di credenti». E parlando della sessualità aveva usato parole scomode: «Il consenso non è l' unico aspetto importante per una sessualità ricca e positiva. Uomo e donna devono essere capaci di donarsi veramente l' uno all' altra e si tratta di una dimensione molto complessa». Della sua conversione religiosa aveva detto che era arrivata tardi, dopo una vita di dubbi e aveva preso la forma di una «sottomissione religiosa». «Perché sono un intellettuale e, come tale, sempre scettico, sempre ai margini della religione», aveva detto Scruton. «Tuttavia la scienza ci ha consegnato una visione del mondo scoraggiante. Sappiamo che siamo su questo piccolo pianeta, in un angolo minuscolo di una galassia, ma non esiste una risposta alla domanda perché esistiamo e se c' è davvero un Essere che si preoccupa di noi». Per questo occorre piegarsi al sacro. «Arrendersi a questo mistero e sentirci, finalmente, in pace col mondo. Questo è quello che ci dà la religione e che, nel mondo di oggi, rischia di andare perduto».

·        Morto Giovanni Custodero, l’ex calciatore malato di cancro.

Morto Giovanni Custodero, l’ex calciatore malato  che aveva scelto  la sedazione profonda. Pubblicato domenica, 12 gennaio 2020 su Corriere.it da Ferruccio Pinotti. Il giovane portiere di Fasano era malato di sarcoma osseo. La scorsa settimana la decisione di ricorrere alle cure palliative. Il guerriero sorridente ha terminato la sua ultima battaglia, la lotta cui milioni di persone in questi giorni hanno partecipato: Giovanni Custodero, 27 anni, il coraggioso calciatore di Fasano (Brindisi) si è spento nel sonno nelle scorse ore dopo aver scelto l’opzione della sedazione profonda per lenire il dolore della malattia. Giovanni aveva commosso l’Italia con un post nel quale annunciava l’intenzione di chiedere ai medici di porre in essere le cure palliative atte ad accompagnarlo nel suo ultimo tratto di vita. Custodero si era ammalato di sarcoma osseo nel 2017, ma aveva lottato coraggiosamente con la malattia, accettando l’amputazione di una gamba, ma soprattutto continuando a comunicare ad amici, conoscenti e follower il suo amore per la vita e la sua capacità di apprezzare ogni singolo momento che l’esistenza poteva ancora donargli. La generosità con la quale ha saputo incoraggiare gli altri ad accettare il suo stesso doloroso destino ha generato delle bellissime testimonianze di affetto e di riconoscenza. Nel suo ultimo post Giovanni aveva scritto: «Eccoci arrivati alla battaglia finale, siamo io e lui, uno davanti all’altro e lo guardo in faccia... ho deciso che non posso continuare a far prevalere il dolore fisico e la sofferenza su ciò che la sorte ha in serbo per me».

Brindisi, Custodero calciatore malato di cancro dice stop: «Troppo dolore, vado in sedazione». Il sostegno per la sua scelta spopola sul web: tra i tanti anche Pio e Amedeo che in un video gli mandano un grande abbraccio. La Gazzetta del Mezzogiorno. Giovanni Custodero, portiere di 27 anni, pugliese, gravemente malato di cancro ha annunciato su Facebook la scelta di fermarsi con la chemio: «Non posso continuare a far prevalere il dolore fisico e la sofferenza su ciò che la sorte ha in serbo per me». Tre anni fa gli fu diagnosticato un sarcoma osseo e da allora la sua vita è cambiata per sempre. «Ebbene sì, eccoci arrivati alla battaglia finale, siamo io e lui, uno dinanzi all'altro», scrive Custodero. Da una parte c'è il calciatore guerriero, sostenuto da familiari, amici e da varie squadre calcistiche tra cui il Lecce (che ha raccolto fondi dalla vendita di magliette dello "Smiling warrior", simbolo dell'atteggiamento combattivo di Custodero, durante la partita con la Juventus disputata a ottobre 2019 - ndr), dall'altra il cancro che ha costretto il brindisino all'amputazione della gamba sinistra, a sedute di chemio e alla radioterapia. Cure non risolutive poiché il tumore si è esteso in altre parti del corpo. «Sono ormai stanco. Ho deciso di trascorrere le festività lontano dai social ma accanto alle persone più importanti. Ora che le feste sono finite, al pari della mia forza, ho deciso che non potrò continuare a far prevalere il dolore fisico e la sofferenza su ciò che il destino ha in serbo per me. Sarò sedato e potrò alleviare il mio malessere». Il post shock di Custodero dà il senso delle sue condizioni di salute. In molti hanno pianto e abbracciato virtualmente l'ex portiere di calcio a cinque, in C2 con la maglia del Fasano. Il suo addio al pallone, dopo aver scoperto la malattia, è stato l'inizio di una straziante lotta documentata sui social. E proprio dai social che è partito un gigante abbraccio virtuale da fan e amici, tra loro anche gente dello spettacolo come Pio e Amedeo che in un video hanno salutato affettuosamente la scelta di Custodero. «Come sempre ci tengo a essere io a raccontarvi lo sviluppo del mio stato di salute. Negli ultimi post vi avevo accennato che la situazione non è delle migliori. Sarò indotto in coma farmacologico e terminerò così il mio percorso sperando di essere stato d'aiuto a molte persone. Per questo voglio per l'ultima volta ringraziarvi per ciò che siete stati. Siete e sarete sempre la mia forza».

E' morto Giovanni Custodero, l'ex calciatore di 27 anni che aveva scelto la sedazione profonda. Ha combattuto per anni contro un tumore alle ossa, poi lo scorso 6 gennaio ha affidato ai social la sua decisione di mettere fine alla sofferenza. L'ultimo messaggio: "Spero di essere stato di aiuto per molte persone"., Luca Guerra il 12 gennaio 2020 su La Repubblica. Giovanni Custodero, il guerriero sorridente, ha deposto le armi. Si è spento nella notte tra sabato 11 e domenica 12 gennaio, dopo aver lottato per quattro anni contro un sarcoma osseo che prima l'ha costretto all'amputazione di una gamba, poi si era ripresentato aggredendo femori, clavicola sinistra e cranio e costringendolo a cinque interventi e sedute di chemio e radioterapia. Nel giorno dell'Epifania il 27enne originario di Pezze di Greco, ex portiere di calcio a 5 con la maglia del Fasano, aveva annunciato la fine della sua partita per la vita: "Sarò sedato - aveva scritto il giovane su Facebook - e potrò alleviare il mio malessere". Una decisione che ha suscitato la commozione di centinaia di persone, amici o semplici conoscenti che hanno seguito la battaglia di Giovanni e che sui social hanno inondato la sua bacheca di messaggi d'affetto e sostegno. Ricambiati virtualmente da Custodero: "Spero di essere stato di aiuto per molte persone. Voglio per l'ultima volta ringraziarvi per ciò che siete stati, siete e sarete sempre: la mia forza". "Ho deciso di trascorrere le feste lontano dai social ma accanto alle persone per me più importanti. Però, ora che le feste sono finite, e con loro anche l'ultimo granello di forza che mi restava, ho deciso che non posso continuare a far prevalere il dolore fisico e la sofferenza su ciò che la sorte ha in serbo per me". Erano state queste le ultime parole di Giovanni. Un'ultima lezione lasciata in eredità a tutti: prepararsi alla fine ed esserne coscienti, senza esitazioni. Il 27enne di Fasano non ha mai perso il sorriso nel corso della sua battaglia, passata anche per la vendita di magliette con l'elmo di Leonida, simbolo dello "smiling warrior", per raccogliere denaro e sostenere cure molto costose. Giovanni ha scelto la sedazione continua e profonda, un trattamento sanitario al quale si ricorre per consentire a un paziente terminale di non provare dolore dopo che le altre terapie sono risultate inefficaci. "Ora riposa tranquillo, circondato dall'affetto delle persone più care, e consapevole del fatto che tutti voi state facendo il tifo per lui", scriveva la famiglia qualche giorno fa in una lettera postata in rete. Ora di Giovanni Custodero restano il coraggio, l'orgoglio e il messaggio che ha sempre voluto diffondere: "Amate la vita".

Brindisi, si è spento Giovanni Custodero, calciatore malato che ha scelto la sedazione. In tanti l'avevano sostenuto sul web in queste ore dopo l'annuncio. La Gazzetta del Mezzogiorno il 12 Gennaio 2020. Giovanni Custodero, il calciatore che qualche giorno fa aveva annunciato sul web la scelta di sottoporsi alla sedazione terminale per non soffrire più a causa dei dolori che il cancro gli stava provocando, ha messo la parola 'fine' alla sua agonia. Il 27enne, infatti, si è spento poche ore fa. Immense le dimostrazioni d'affetto che stanno arrivando in queste ore sulle sue pagine social. «Ebbene sì, eccoci arrivati alla battaglia finale, siamo io e lui, uno dinanzi all'altro», scriveva Custodero pochi giorni fa. Da una parte c'è il calciatore guerriero, sostenuto da familiari, amici e da varie squadre calcistiche tra cui il Lecce (che ha raccolto fondi dalla vendita di magliette dello "Smiling warrior", simbolo dell'atteggiamento combattivo di Custodero, durante la partita con la Juventus disputata a ottobre 2019 - ndr), dall'altra il cancro che ha costretto il brindisino all'amputazione della gamba sinistra, a sedute di chemio e alla radioterapia. Cure non risolutive poiché il tumore si è esteso in altre parti del corpo. «Sono ormai stanco. Ho deciso di trascorrere le festività lontano dai social ma accanto alle persone più importanti. Ora che le feste sono finite, al pari della mia forza, ho deciso che non potrò continuare a far prevalere il dolore fisico e la sofferenza su ciò che il destino ha in serbo per me. Sarò sedato e potrò alleviare il mio malessere». Il post shock di Custodero aveva dato il senso delle sue condizioni di salute. In molti hanno pianto e abbracciato virtualmente l'ex portiere di calcio a cinque, in C2 con la maglia del Fasano. Il suo addio al pallone, dopo aver scoperto la malattia, è stato l'inizio di una straziante lotta documentata sui social. E proprio dai social che era partito un gigante abbraccio virtuale da fan e amici, tra loro anche gente dello spettacolo come Pio e Amedeo che in un video hanno salutato affettuosamente la scelta di Custodero. Un giovane coraggioso, che difficilmente verrà dimenticato.

SINDACO DI FASANO: SIMBOLO DI CHI LOTTA - «Giovanni Custodero è diventato in questi anni il simbolo di quanti lottano ogni giorno contro la malattia e la sofferenza, con una forza d’animo che è di esempio per tutti. A nome mio personale e di tutta la città, che in queste ore sta manifestando alla famiglia tutta la sua vicinanza, con un calore e un affetto che mi rendono orgoglioso di esserne alla guida, voglio abbracciare idealmente lui, i suoi cari e tutti quanti stanno affrontando un percorso di dolore, dandoci esempio di amore per la vita, supremo bene». E' il messaggio di cordoglio di Francesco Zaccaria, sindaco di Fasano, il paese del giovane calciatore morto oggi. «I nostri affanni quotidiani e le nostre discussioni - afferma ancora - appaiono trascurabili piccolezze di fronte ad un attaccamento alla vita e ai valori umani come quello che il nostro 'Guerriero' ha dimostrato, avvalendosi dei nuovi strumenti di comunicazione che affascinano i giovani: invito pertanto tutti a stare ancora più vicini ai tanti guerrieri che, ogni giorno, vivono nella sofferenza ma nella speranza. Coraggio!». 

Giovanni Custodero non ce l’ha fatta, addio al guerriero sorridente: “Amate la vita”. Redazione Web de Il Riformista il 12 Gennaio 2020. Non ce l’ha fatta Giovanni Custodero. Il guerriero sorridente è volato via a 27 anni nella notte tra sabato 11 e domenica 12 gennaio dopo aver lottato per quattro anni contro una rara forma di sarcoma osseo.

Dopo le festività natalizie, nel giorno dell’Epifania, aveva annunciato di essere “stanco da domani sarò sedato e potrò alleviare il mio malessere”. Era stato questo il suo ultimo post pubblicato sui social. Il portiere di calcio a 5 del Fasano (Brindisi), sua città originaria (viveva nella frazione di Pezze di Greco), ha affrontato con grande tenacia la ‘bestia‘ che, nonostante i cicli di chemio e radioterapia e nonostante l’immediata amputazione di una gamba, si era ulteriormente diffusa raggiungendo femori, clavicola sinistra e scatola cranica. Giovanni aveva scelto il coma farmacologico per non soffrire. Nei giorni scorsi, l’8 gennaio, la sua famiglia aveva pubblicato una lunga lettera dove ripercorreva, passo dopo passo, gli ultimi quattro anni del Guerriero di Fasano. Un giovane che da quando gli è stata diagnosticato il sarcoma osseo ha iniziato a godersi ogni momento della sua vita con la sua famiglia, la fidanzata e gli amici. Giovanni è un ragazzo come tanti, che nel 2015 all’età di 23 anni inizia ad avvertire un gonfiore alla caviglia sinistra, mentre giocava in qualità di portiere nella squadra di calcio a 5 del Cocoon di Fasano. Dopo diversi mesi, gli viene consigliato di recarsi a Firenze e a marzo 2016 viene a conoscenza della dura realtà: è stato colpito da una rara forma di sarcoma osseo in stadio avanzato. Chiunque sarebbe crollato, ma lui no. Lui decide di amputare l’arto fin sotto il ginocchio, se questo significa poter continuare a vivere, e di lì inizia a godersi ogni momento con la sua famiglia, la fidanzata e gli amici. Con l’aiuto del suo amico Luigi realizza delle magliette con l’immagine dell’elmo, convinto che ognuno di noi abbia all’interno di sé la forza e la capacità di affrontare qualunque ostacolo si incontri nella vita. Questo messaggio viene condiviso sui social da tutti, diventa l’esempio di grandi e piccoli ed un punto di riferimento per chi sta combattendo la sua stessa battaglia. Nel corso di questi anni le sfide sono tante: in seguito all’amputazione e si trova ad affrontare altri 5 interventi, seguiti da cicli di radioterapia e chemioterapia, ma lui non smette mai di sorridere. Vive col sorriso perché pensa che la sua vita sarebbe finita con la prima diagnosi, ma da quel giorno ogni alba è per lui un regalo dal valore inestimabile. “Chi non sorriderebbe di fronte ad un dono del genere? Cosa c’è di più bello di trascorrere un giorno in più con le persone che ami, di passare del tempo con quegli amici di una vita, di ascoltare e cantare a squarciagola quella canzone che ti piace, di sentire il rumore della pioggia in una giornata di tempesta o delle onde contro gli scogli in una serata in riva al mare? Che senso ha stare a pensare alle cose brutte che la vita ci mette davanti quando basta solo aprire gli occhi e guardare oltre le nostre paure per accorgerci di quante cose belle ci circondano? Molte delle cose che alla maggior parte delle persone appaiono ovvie, sono in realtà determinanti. Ad esempio, non mi ero mai accorto di quanto fosse bello il sole finché non sono stato in una stanza di ospedale per 20 giorni, di quanto indispensabile fosse l’amicizia finché non mi è servito un sincero abbraccio, di quanto importante fosse la famiglia fino a quando non è diventata il mio unico punto fermo…di quanto fondamentale fosse Amare, finché Amare non è diventata la mia unica ragione di vita”. Questo è Giovanni, il guerriero sorridente che nei momenti “no” ha bisogno di affetto e di sapere di non essere mai solo, di essere presente sempre nei cuori di tutti, motivo per cui decide di rendere la sua bacheca di Facebook una sorta di diario, sul quale confidare le sue emozioni più profonde. Per questo nel post di dicembre sottolinea che da un mese è bloccato nel letto all’estremo delle forze: “non augurerei questa sofferenza neanche al mio peggior nemico, ma qualcuno doveva pur beccarsela” ironizza. Fino a quando a gennaio, dopo aver trascorso le feste insieme alle persone più importanti della sua vita, comunica a tutti la sua decisione di farsi sedare per alleviare i suoi dolori. La sedazione continua e profonda è un trattamento sanitario al quale si ricorre per consentire a un paziente terminale di non provare dolore dopo che le altre terapie sono risultate inefficaci. Ora riposa tranquillo, circondato dall’affetto delle persone più care, e consapevole del fatto che tutti voi state facendo il tifo per lui, senza mai dimenticare il messaggio che ha voluto diffondere in questi anni: amate la vita!

Giovanni Custodero, un elmo sulla bara e palloncini bianchi per l'addio al 'guerriero'. Ai suoi amici: "Vivete ogni istante". Migliaia di persone all'interno e all'esterno della chiesa di Santa Maria del Carmine a Pezze di Greco, per l'addio al 27enne che aveva scelto la sedazione profonda. L'ultimo messaggio affidato all'amico Davide. Lucia Portolano il 13 gennaio 2020 su La Repubblica. BRINDISI - Migliaia di persone a Pezze di Greco (Fasano) hanno tributato l'ultimo saluto a Giovanni Custodero, l'ex portiere di calcio a 5 morto domenica 12 gennaio dopo 4 anni di lotta con un tumore osseo. La chiesa di Santa Maria del Carmine gremita di parenti e amici. In prima fila la fidanzata Luana e la sorella Mariana, che in questi giorni hanno raccontato all'Italia la scelta di Giovanni: quella di smettere di soffrire, attraverso la sedazione profonda. All'esterno neanche il sagrato è riuscito a contenere la folla di persone accorse per il funerale del 27enne celebrato da don Antonio Esposito che, nella sua omelia, ha ricordato il coraggio che ha avuto Giovanni nell'affrontare la malattia con il sorriso. Sulla bara fiori bianchi, un elmo da battaglia, impresso anche sulla maglietta. Simbolo di un guerriero e della raccolta fondi sostenuta per affrontare le cure. Il suo amico di sempre, Davide De Franco, ha letto una lettera per raccontare i momenti più belli vissuti insieme testimoniare l'ultimo messaggio lasciato da Giovanni: quello di vivere la vita in ogni istante. All'esterno i palloncini bianchi e gli applausi dei tifosi del Fasano.

La fidanzata di Custodero: “Il brindisi di Capodanno intorno al letto di Giovanni. Eravamo straziati e ci diceva di sorridere”. "Ha chiamato tutti gli amici per salutarli e ha spronato anche me: Luana, vai, vivi e spacca tutto". Maria Novella De Luca il 15 gennaio 2020 su La Repubblica. "Sapete qual è il ricordo più pazzo? Giovanni e io lanciati con una carrucola tra due montagne, in Basilicata, per fare il "volo dell'angelo". Era il 2017, a Giovanni avevano già amputato la gamba, ma era ancora forte e bellissimo. Volavamo felici, mano nella mano, sicuri di aver sconfitto la malattia". Luana dice che se tornasse indietro rifarebbe tutto, attimo dopo attimo. "Dopo il primo ricovero Giovanni me lo chiese: ho il tumore, sei sicura di voler restare con me? Domanda assurda, lui era il mio amore". Ha soltanto ventidue anni Luana Amati, fidanzata di Giovanni Custodero, l'ex calciatore del Fasano morto quattro giorni fa, per un sarcoma osseo, dopo aver scelto la sedazione profonda. "Ero una ragazzina quando l'ho incontrato, la nostra storia mi ha reso adulta". Insieme agli amici più cari, alla mamma Elena e alla sorella Mariana, Luana ha accompagnato Giovanni nel lungo sonno verso la morte.

Luana, riesce a raccontare i vostri ultimi giorni?

"I più belli e i più tristi della nostra vita. All'inizio di dicembre Giovanni ha saputo dai medici che davvero non c'era più nulla da fare, la malattia era all'ultimo stadio. Così ha scelto come vivere i suoi ultimi giorni".

Nell'intensità di ogni momento, aveva scritto su Facebook.

"Ha deciso di comunicare a tutte le persone più care lo stato della sua malattia e la volontà di morire. Non ne poteva più di soffrire. Se fosse stata legale, Giovanni avrebbe chiesto l'eutanasia".

Ne avevate parlato?

"Sì. Ha chiesto alla sorella Mariana di portare avanti, in suo nome, la battaglia per l'eutanasia legale".

I giorni dell'addio.

"Non facevamo altro che salutarci. Ci siamo isolati, lontani dai social e con i telefoni spenti, per non buttare via nemmeno l'ombra del tempo. Giovanni ha voluto accanto a sé gli amici più cari, per ognuno una battuta, un ricordo, un abbraccio".

Tutti insieme intorno al suo letto.

"Una tribù. Francesco, Davide, Vito, Ardit, Luigi, la mamma, la sorella, io. Sempre lì. Eravamo straziati ma c'era una strana allegria. Ci diceva: "Sorridetemi". A Capodanno abbiamo cenato e brindato nella sua stanza. E lui a incitarci di non avere paura".

E lei?

"Quando Giovanni mi ha detto di voler morire, mi sono stesa accanto a lui. Mi girava la testa. Siamo stati ore in silenzio. Poi, però, mi ha spronato: "Luana, vai e spacca tutto, realizzati, vivi"".

Lei ha appena finito la specializzazione da estetista.

"Giovanni sapeva quanto tengo la mio lavoro. Ma adesso, dopo tutto quello che ho visto nei reparti oncologici, ho deciso che farò un corso di estetica particolare per le donne in chemioterapia. Quando si perdono i capelli, le sopracciglia, ma si ha voglia, invece, di sentirsi ancora belle".

Il vostro è stato un amore intenso, durato, purtroppo, soltanto quattro anni.

"Ho conosciuto Giovanni in un ristorante di Savelletri dove lui faceva il cameriere. Mi avevano colpito la sua spensieratezza e l'allegria. Sorridi che il mondo sorriderà a te, era il suo motto. Il mare, il sole, il cibo buono, il calcio, l'amore. Giovanni era così. Diceva che il vero coraggio era guardarsi negli occhi".

Il sarcoma osseo gli viene diagnosticato nel 2016.

"Ha reagito da guerriero. Quando gli amputarono la gamba mi chiese se lo volevo ancora".

La sua risposta?

"Con una gamba in più o meno - avevo detto - sei sempre il mio Giovanni".

Ci vuole coraggio a 18 anni.

"Per me è stato naturale. Ero innamorata. Partivo da Fasano e lo raggiungevo in ospedale a Firenze. Diceva che ero la sua aria, il suo ossigeno. Con la protesi siamo andati anche in viaggio a Parigi. Mi aveva chiesto di prenotare il nostro viaggio di nozze in Islanda. Giovanni non lo fermava nessuno".

Infatti era diventato un simbolo.

"Ha scelto di condividere la sua battaglia sui social. La sua forza d'animo colpiva. La sfida per trovare i soldi delle cure per cui nel 2018 aveva lanciato le magliette con il disegno di un elmo, da guerrieri, appunto.  Lo seguivano migliaia di malati. Chi aveva bisogno di conforto andava da Giovanni. E lui utilizzava il raccolto delle donazioni per portare allegria e giocattoli ai bambini dei reparti oncologici".

Un ragazzo speciale, Luana.

"Durante la sedazione, ogni tanto apriva gli occhi e mi mandava un bacio. Il giorno in cui è morto, nel dormiveglia, mi ha abbracciato con una forza pazzesca, pensavo che i miei capelli lo soffocassero. Poi piano piano mi ha lasciato e ho capito che non c'era più".

Giovanni Custodero, le ultime parole alla famiglia: “Abbracciami mamma”. Debora Faravelli il 16/01/2020 su Notizie.it. La famiglia e la fidanzata ricordano gli ultimi istanti di vita di Giovanni Custodero, morto dopo un abbraccio alla mamma. A distanza di qualche giorno dalla sua morte, la sorella e la fidanzata di Giovanni Custodero, il calciatore 25enne malato di sarcoma osseo che ha scelto la sedazione profonda per alleviare i suoi mali, hanno rivelato come il ragazzo abbia trascorso gli ultimi attimi della sua vita. Nei giorni precedenti la seconda aveva già diffuso su Facebook il testo della lettera scritta dalla famiglia. Un invito a fare il tifo per il giovane e a diffondere il messaggio su cui si è basato in questi anni, ovvero di amare la vita.

Gli ultimi istanti di vita di Giovanni. Abbracciato alla mamma che gli cantava la ninna nanna: così se n’è andato Giovanni stando al racconto di Mariana, la sorella a cui era molto legato e che l’ha sempre aiutato durante la malattia. Queste le ultime parole da lui pronunciate prima di addormentarsi per sempre: “Mamma abbracciami“. La donna ha dato seguito alla sua richiesta e gli ha cantato una canzone che gli rievocasse la sua infanzia. “Poi non si è più svegliato”, ha dichiarato la sorella. Ad aggiungere dettagli agli ultimi momenti trascorsi da Giovanni è stata anche la sua fidanzata Luana Amati. La giovane ha raccontato che durante la sedazione ogni tanto apriva gli occhi e le mandava un bacio. Il giorno in cui è morto, nel dormiveglia, l’ha anche abbracciata con forza tanto che ha pensato che i suoi capelli avrebbero potuto soffocarlo. “Poi piano piano mi ha lasciato e ho capito che non c’era più“, ha detto addolorata. Le due ragazze hanno affermato che insieme condurranno la battaglia che hanno promesso al loro caro, ovvero quella dell’eutanasia per i malati gravi. Hanno infatti spiegato che, se fosse stata legale, lui vi avrebbe fatto ricorso “perché era stanco“.

La lettera della famiglia di Giovanni Custodero. Innanzitutto hanno spiegato chi è Giovanni, vale a dire un ragazzo come tanti che nel 2015 all’età di 23 anni ha iniziato ad avvertire un gonfiore alla caviglia sinistra mentre giocava come portiere nella squadra di calcio a 5 del Cocoon di Fasano. Dopo diversi mesi è venuto a conoscenza di essere stato colpito da una rara forma di sarcoma osseo in stadio avanzato. “Chiunque sarebbe crollato, ma lui no. Decide di amputare l’arto fin sotto il ginocchio, se questo significa poter continuare a vivere, e di lì inizia a godersi ogni momento con la sua famiglia, la fidanzata e gli amici“, hanno scritto per evidenziare il coraggio e la voglia di vivere del 25enne che non ha mai smesso di sorridere nemmeno di fronte a radioterapie e chemioterapie. Hanno parlato di lui come di un guerriero sorridente che nei momenti “no” ha bisogno di affetto e di sapere di non essere mai solo, motivo per cui ha deciso di rendere la sua bacheca di Facebook una sorta di diario sul quale confidare le sue emozioni più profonde. Per questo a dicembre aveva raccontato di essere bloccato nel letto allo stremo delle forze e a gennaio ha rivelato la sua decisione di farsi sedare per alleviare i dolori. Una scelta che gli permetterà di riposare tranquillo, circondato dall’affetto delle persone più care, e consapevole del fatto che tutto il web sta facendo il tifo per lui. In conclusione il messaggio che la famiglia prega gli utenti di diffondere il più possibile: “Amate la vita!“.

Luana, la fidanzata di Giovanni Custodero: «Prima di morire mi disse: che fortuna averti così». Pubblicato mercoledì, 15 gennaio 2020 su Corriere.it da Ferruccio Pinotti. «Permettimi di cadere, ma ora devi reggermi tu… se no non stiamo pari, angelo mio meraviglioso». È questo l’addio che Luana Amati, 22 anni, ha affidato ad un post condiviso su Facebook al suo fidanzato, Giovanni Custodero, l’ex calciatore 27enne della provincia di Fasano morto nei giorni scorsi a causa di un sarcoma osseo e dopo aver deciso di ricorrere al coma farmacologico. Il Corriere ha voluto chiedere a Luana un ricordo più personale e diretto di Giovanni, il «guerriero sorridente» che nonostante la terribile prova ha saputo infondere a familiari, parenti ed amici un messaggio meraviglioso di speranza e di amore per la vita. Raggiungiamo Luana mentre è assorta sulla tomba di Giovanni a Pezze di Greco, la frazione di Fasano (Brindisi) dove il ragazzo è sepolto.

Luana, dove trovava Giovanni la forza di sorridere e di amare che gli ha valso il soprannome di «guerriero sorridente»?

«Giovanni è sempre stato un ragazzo solare, che non se la prendeva mai per nulla, che lasciava scorrere le cose, che non si arrabbiava mai, per nulla. La malattia gli ha donato in seguito un coraggio incredibile: la corazza se l’è costruita a poco a poco, ha trovato una forza che probabilmente già aveva ma che forse non sapeva di avere. Gli affetti intorno a lui — quello della sua famiglia, dei suoi amici ed il mio — sono stati importanti nel costruire questa sua incredibile forza, ma molto è stato dovuto al suo temperamento meraviglioso».

Quando e come vi siete conosciuti?

«Nel 2015, a Villa Imperiale, una struttura alberghiera dove Giovanni lavorava. Eravamo lì a pranzo il giorno di Pasqua, con la famiglia. I nostri sguardi si sono incrociati , hanno iniziato a inseguirsi. Da allora abbiamo iniziato a conoscerci e ci siamo innamorati. Un anno bellissimo e spensierato insieme, poi purtroppo la malattia ha fatto irruzione nelle nostre vite».

Come avete appreso del tumore osseo?

«All’inizio si è manifestato come un dolore alla caviglia, che ha iniziato a gonfiarsi. Poi nel febbraio 2016 è venuta la terribile diagnosi del sarcoma osseo e nell’aprile 2016 gli è stata amputata la gamba».

Come avete affrontato questa terribile notizia?

«La malattia ha accresciuto e rafforzato l’amore che ci legava. Quando ci siamo conosciuti lui aveva 23 anni e io 18, affrontare insieme questa situazione è stata una svolta: non sapevamo a cosa andavamo incontro, ci siamo incamminati in punta di piedi su questo percorso, di fronte alla malattia. Nonostante la tremenda diagnosi, in noi non si è affacciata subito l’idea della morte: tanti guariscono, ci dicevamo: “non può succedere di affrontare una prova come la morte”».

Giovanni ti ha sin da subito incoraggiata? Cosa ti diceva del suo male?

«Mi diceva “Tu sei ingenua, forse non ti rendi conto del male che mi ha colpito. Ma io sono fortunato ad averti così”. Cercavamo di vivere normalmente, di fare progetti, ma lui era costretto a fermare il mio entusiasmo: «Lo sai che sono in chemioterapia, che non posso programmare viaggi e altre cose belle. Ma grazie di questa gioia, del fatto che mi dai la speranza di potercela fare».

Come si è evoluta la sua malattia?

«Dopo l’amputazione della gamba sinistra nell’aprile 2016, il tumore si è presentato con una recidiva alla testa nell’ottobre 2016. Sono seguiti di cicli di radio e chemioterapia all’ospedale Careggi di Firenze, ma purtroppo la tipologia del suo tumore era molto aggressiva. Inizialmente i medici pensavano che sarebbe vissuto solo un anno, mentre è riuscito a resistere per quasi quattro. Il sarcoma si è quindi ripresentato nuovamente, alla colonna vertebrale e al femore. Dal novembre scorso in poi il suo corpo era invaso, purtroppo».

Giovanni ha scelto la sedazione profonda, come ha maturato questa scelta comunque così difficile?

«Non voleva più continuare a soffrire, un giorno mi ha detto “stacca tutto. Voglio che quando non ci sarò più tu sorrida comunque, non meriti di vivere con le lacrime agli occhi”. Anche quando i farmaci lo hanno lentamente avviato al coma, Giovanni trovava il modo di comunicare e di parlarmi a suo modo. Durante la sedazione poteva aprire gli occhi, darmi dei segnali del suo amore. Ha fatto capire a tutti quelli che gli erano vicini - i suoi genitori, sua sorella e i suoi amici -, di essermi vicino anche dopo, quando sarebbe scomparso. La mia forza ora sono i suoi amici, che sanno quanto sono fragile in questo momento. Le dimostrazioni di affetto per Giovanni sono state incredibili, c’erano migliaia di persone al suo funerale, a dargli l’ultimo saluto».

In Rete è nata la proposta di intitolare a lui il nuovo palazzetto dello sport di Fasano. Che ne pensi?

«Sì, è nata l’idea di chiamarlo Palacustodero, é un sogno che spero si realizzi, per continuare ad affermare il messaggio che Giovanni ha voluto diffondere in questi anni: amate la vita».

·        Morto Capuozzo, 40 anni, campione d’Italia nel calcio a cinque.

Morto Capuozzo, 40 anni, campione d’Italia nel calcio a cinque: ipotesi malore. Pubblicato domenica, 12 gennaio 2020 da Corriere.it. Antonio Capuozzo, campione d’Italia di calcio a cinque con il Pescara nella stagione 2015 ed ex giocatore della Nazionale, è morto a Montesilvano (Pescara) per un probabile malore, a due passi dalla sua auto, non lontano dall’abitazione dove viveva. Il corpo senza vita dell’ex portiere della formazione abruzzese, è stato trovato alle 4 da un passante che ha allertato Polizia e il 118, ma quando i sanitari sono arrivati hanno potuto solo constatare il decesso dell’uomo che a marzo avrebbe compiuto quarant’anni. Sul corpo non c’erano segni di violenza. Il pm Salvatore Campochiaro al momento non ha disposto l’autopsia, ma solo alcuni esami. Sgomento e dolore nel mondo sportivo cittadino del futsal nazionale e nella sua città natale Napoli. Sposato, due figli, lavorava nella multisala di Montesilvano: ex portiere del Pescara, aveva vinto uno scudetto, due Coppe Italia, due Super Coppe con il Pescara, dopo aver giocato anche con l’Acqua&Sapone e il Loreto Aprutino. A dare la terribile notizia è la pagina Facebook Punto5.it: «Ci siamo svegliati con un’altra terribile notizia. Ci ha lasciato improvvisamente Antonio Capuozzo, napoletano, cresciuto come portiere in Campania dove ha vestito le maglie di Aversa, Bellona, Marcianise, Marigliano e Napoli Vesevo, da anni si era trasferito in Abruzzo dove aveva fatto la fortuna di molti club tra cui il Pescara. È stato anche in Nazionale». 

·        Dakar 2020: morto il motociclista Edwin Straver.

Seconda vittima della Dakar 2020: morto il motociclista Edwin Straver. Lorenzo Sangermano il 24/01/2020 su Notizie.it.  Durante l’undicesima tappa della famosa corsa nel deserto della Dakar 2020, Edwin Straver ha subito una grave caduta. Nonostante le cure ricevute, il pilota è deceduto il 24 gennaio a causa delle ferite. Il motociclista è la seconda vittima della gara, preceduto da Paulo Goncalves. Il 16 gennaio il motociclista stava correndo la tappa tra Shubaytah e Haradh. In seguito alla caduta, Straver ha lottato per una settimana finché non ce l’ha più fatta. La stessa organizzazione della Dakar ha riportato la notizia della tragedia sul loro account Twitter: “Siamo stati informati dalla famiglia Straver che Edwin è morto a causa delle ferite riportate durante la caduta: tutta l’organizzazione della Dakar porge le sue condoglianze alla famiglia e agli amici di Edwin”.  Percorrendo a circa 50 km/h una zona caratterizzata da numerose dune, Edwin Straver è caduto, causandosi la frattura di una vertebra cervicale. Poco dopo, un elicottero di soccorso dell’organizzazione l’ha raggiunto. In quel momento il pilota era già in arresto cardiaco e i medici hanno dovuto rianimarlo. Spostato in terapia intensiva, nei giorni seguenti è stato trasportato in Olanda, la sua patria, dove due giorni dopo è deceduto. Il pilota olandese stava gareggiando per la terza volta la famosa gara. Nel 2019 ottenne uno dei suoi maggiori risultati, trionfando nella categoria “Original by Motul”.

·        Dakar, morto Paulo Gonçalves.

Dakar, Paulo Gonçalves: chi era il motociclista portoghese morto nella settima tappa. Pubblicato domenica, 12 gennaio 2020 da Corriere.it. Paulo «Speedy» Gonçalves — morto domenica durante la settima tappa della Dakar — era un veterano, un pilota esperto alla sua 13ª Dakar, nella quale aveva esordito nel 2006, era arrivato 4 volte nei primi dieci, aveva vinto tre trappe (nel 2011, nel 2015 e nel 2016) e aveva raggiunto uno straordinario secondo posto dietro il grande Marc Coma in 2015. Portoghese, 40 anni, due figli, rider affermato appassionato anche di sci, carte e cinema, Paulo era pure uno dei pochi motociclisti che hanno corso la Dakar in tutte le sue sedi. Un particolare che lo inorgogliva, come aveva raccontato ai media prima di iniziare l’avventura: «È bello essere parte della storia. Ho corso due volte in Africa, 11 volte in Sud America e ora in Arabia Saudita. Sono pochi ad averlo fatto...». A questa edizione il portoghese partecipava con un nuovo team, lo Hero Motorsports Team Rally, scelto dopo cinque anni di successi con il Monster Energy Honda Team, con il quale aveva vinto il titolo di campione del mondo fuoristrada nel 2013. «Una nuova sfida per nuove motivazioni», l’aveva definita. Una scelta per cambiare, per trovare nuovi stimoli e per correre assieme al cognato Joaquim «J-Rod» Rodrigues. Costretto a saltare l’edizione del 2018 per un doppio infortunio al ginocchio e alla spalla, nel 2019 Gonçalves si era ritirato dalla Dakar in seguito a una caduta nella quinta tappa. Due uscite positive al Silk Way Rally e al Rallye du Maroc lo rendevano però fiducioso di ritornare quest’anno sui livelli del 2017, quando aveva chiuso al sesto posto. «Io non mi arrendo mai», amava ripetere. La sua è la prima morte di un partecipante al rally raid più pericoloso del mondo dopo cinque anni: l’ultima vittima risaliva al 2015, quando il motociclista polacco Michal Hernik morì di disidratazione. 

·        Morto Giovanni Paolo Martelli, addio al maestro che scoprì la Xylella.

Giovanni Paolo Martelli, addio al maestro che scoprì la Xylella. Fondatore della scuola barese di patologia vegetale, morto a 85 anni. Tonio Tondo l'11 gennaio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Era lo scienziato che denominava i virus delle piante, un gentiluomo e un grande maestro. Giovanni Paolo Martelli, fondatore della scuola barese di patologia vegetale, morto a 85 anni, era conosciuto e stimato in Italia e all’estero. Ieri, nella cappella dell’Ateneo in piazza Umberto I a Bari, insieme al folto gruppo che continua il suo lavoro, c’erano anche ex allievi, oggi professori nelle migliori università statunitensi ed europee. Decine i messaggi da tutto il mondo. Fino all’ultimo giorno è stato coerente con uno stile di rigore e umanità. «Vorrei ringraziare, una per una, tutte le persone che hanno contribuito alla mia formazione», ha detto alla moglie Nicoletta e a chi gli è stato vicino. Luisa Rubino, virologa anche lei e sua allieva prediletta, ha tenuto il discorso di addio. Parole profonde, di riconoscenza in primo luogo. «Siamo stati fortunati a studiare e a lavorare con il professore, siamo tutti figli suoi». I maestri del pensiero, purtroppo, sono conosciuti dal grande pubblico soprattutto dai necrologi. Se riuscissimo a riconoscere il loro valore in vita saremmo tutti più preparati ad affrontare le avversità e l’intera società ne trarrebbe un grande vantaggio di prosperità. Gli uomini di scienza più bravi sono schivi ed evitano, fino a quando è possibile, di essere coinvolti nel dibattito pubblico. E quando questo accade non mancano le delusioni. È capitato anche al professor Martelli, l’uomo che per primo tra settembre e ottobre 2013 indicò nel batterio Xylella fastidiosa la causa del disseccamento degli ulivi salentini. Non mancarono reazioni rabbiose, ignoranti e soprattutto stupide. Negare l’evidenza scientifica può anche capitare. Ma attribuire a uno scienziato scopritore di un batterio o di un virus la responsabilità delle infezioni che essi provocano è da dementi. Martelli ha dedicato la sua vita alla salute delle piante. Oggi questo è un tema molto sentito dall’opinione pubblica, anzi è di moda parlarne perché la nostra stessa esistenza di umani è strettamente legata al benessere degli alberi e di ogni pianta che abita la Terra. Il professore, stimato anche dai virologi che si interessano della salute umana, ha lavorato in silenzio per decenni con risultati straordinari, anche per la nostra regione. Pochi sanno che lo sviluppo del distretto delle barbatelle di Otranto è stato ottenuto grazie al controllo continuo della sanità di tutti i materiali vegetali nei vivai come condizione di forza e produttività delle piante. Martelli e Vito Nicola Savino, docente fino a novembre e direttore del centro ricerca Basile Caramia, sono stati i protagonisti insieme ai produttori fino a ottenere, grazie alla loro credibilità, il via libera della Ue alla commercializzazione delle barbatelle. Valore e credibilità dello scienziato, come accade spesso, sono riconosciuti prima di tutto all’estero. Martelli ha fatto parte del comitato per la tassonomia mondiale dei virus. Ieri si è appresa la notizia che un ordine nella classificazione sistematica dei virus prenderà proprio la denominazione di Martellivirales, come riconoscimento del lavoro di rilievo universale svolto dallo scienziato. Una scelta di prestigio per la scienza italiana e di esempio per i giovani che amano la ricerca. Nella cappella dell’Ateneo erano presenti docenti dell’Università Aldo Moro, i ricercatori del Cnr (Consiglio nazionale delle ricerche), in testa Donato Boscia, Maria Saponari, Pierfederico La Notte e Donato Gallitelli, studenti e amici di famiglia. Tutti accolti dalla moglie Nicoletta e dai figli Maria Carla e Giuseppe. Quest’ultimo vive e conduce un’azienda vivaistica in Nuova Zelanda. È sposato e ha quattro figli. Ha trascorso il Natale e il Capodanno a Bari. «Papà sapeva di essere alla fine – ha detto Giuseppe -, mi ha salutato con grande dignità. Mi ha insegnato l’amore per la libertà e mi ha trasmesso il senso di responsabilità. So che in cuor suo ha sperato in un mio ritorno». Martelli padre del suo Giuseppe ha parlato con chi scrive questo articolo al ritorno dalla Nuova Zelanda, dal suo ultimo viaggio. Aveva visto cosa Giuseppe aveva realizzato e come viveva in serenità con la famiglia. Sempre austero e con grande stile, questa volta però con un filo di orgoglio per il figlio che aveva avuto il coraggio di interrompere la genealogia accademica della famiglia (il nonno paterno, Giuseppe, ordinario di Agraria, il padre Giovanni Paolo professore e scienziato). Il giovane Giuseppe prima era andato a lavorare in Australia, poi si era innamorato delle distese e della civiltà della Nuova Zelanda dove ha incontrato la moglie e ha formato famiglia e realizzato il vivaio sul modello Puglia. Martelli lascia un grande ricordo anche nella più piccola comunità salentina: Giovanni Melcarne, laureato in scienze agrarie a Padova e imprenditore oleario, Angelo Delle Donne, laureato con il professore e dirigente apprezzato della Regione Puglia e Francesco Specchia, ricercatore al Cnr di Lecce, tutti e tre impegnati nella lotta contro la malattia degli ulivi sulla linea indicata da Martelli.

·        Addio a Neil Peart, uno dei più grandi batteristi di sempre.

Addio a Neil Peart, uno dei più grandi batteristi di sempre: i 3 album cult. Un gigante della musica che ha espresso tutto il suo talento nei leggendari dischi dei Rush. Gianni Poglio l'11 gennaio 2020 su Panorama. "Con il cuore spezzato condividiamo la terribile notizia che il nostro amico, fratello e partner Neil ha perso martedì la sua battaglia di 3 anni e mezzo contro il glioblastoma". Così i Rush, su Twitter, hanno annunciato la scomparsa del loro geniale batterista, Neil Peart, 67 anni. "Coloro che desiderano esprimere le proprie condoglianze possono scegliere un'organizzazione di ricerca sul cancro e fare una donazione per conto di Neil", ha proseguito la band canadese nata nel 1968 e a cui Peart si era unito nel 1974 in sostituzione di John Rutsey, iniziando così la sua avventura con il cantante-bassista Geddy Lee e il chitarrista Alex Lifeson. Assieme ai suoi compagni nei Rush Geddy Lee e Alex Lifeson, Peart è stato nominato Ufficiale dell'Ordine del Canada, il 9 maggio 1996. Il trio è stato il primo gruppo rock a ricevere tale onorificenza. Come membro dei Rush è stato introdotto nella Rock and Roll Hall of Fame nel 2013. A Peart è stato anche intitolato un asteroide individuato nel 1990. Era assolutamente geniale l'approccio di Peart alla batteria, potente ed estremamente tecnico al tempo stesso. Tra le sue influenze principali, Keith Moon degli Who il batterista jazz Buddy Rich e John Bonham dei Led Zeppelin. Ci piace ricordarlo con tre dischi che contengono alcune delle sue performance più brillanti ed innovative. Peart apparteneva infatti ad una generazione di batteristi che facevano la differenza. Nel senso che il loro drumming era un tratto distintivo del gruppo, un ingrediente imprescindibile nell'economia della band. Per questo vi consigliamo di riascoltarlo in tre album-capolavoro dei Rush:

1) Exit Stage Left - 1981. Un live monumentale, tra rock, hard rock e progressive. Raffinatezza, tecnica e potenza vanno a braccetto in classici come The spirit of the radio, Red Barchetta, Tom Sawyer e La Villa Strangiato. Album fondamentale per chiunque ami la musica suonata per davvero. 

2) Hemispheres - 1978. Suite, ritmi intricati e complessi. Un album perfetto per chi vuol ascoltare musica che vada oltre gli standard e gli schemi. La conferma che dal punto di vista tecnico i Rush non avevano molti rivali. 

3) Signals - 1982. Il disco segna l'evoluzione del sound del gruppo con l'introduzione massiccia di tastiere e sintetizzatori. I brani si accorciano rispetto al passato e si avvicinano alle sonorità tipicamente 80's. Ma anche nella breve durata dei pezzi, la classe e la maestria della band di Peart emergono in ogni singola canzone.  

·        Morto Edd Byrnes, l’attore interpretò Vince Fontaine in «Grease».

Morto Edd Byrnes, l’attore interpretò Vince Fontaine in «Grease». Pubblicato venerdì, 10 gennaio 2020 da Corriere.it. È morto a 87 anni l’attore statunitense Edd Byrnes, noto per aver interpretato Vince Fontaine, il conduttore di una gara di ballo nel film «Grease» (1978), pellicola di Randal Kleiser con John Travolta e Olivia Newton-John. Byrnes è scomparso all’improvviso mercoledì scorso, per cause naturali, mentre si trovava nella sua casa di Santa Monica, in California. L’annuncio della scomparsa è stato dato dal figlio Logan Byrnes, anchorman di una televisione californiana di San Diego via Twitter: «È con profonda tristezza e dolore che condivido con voi la scomparsa di mio padre Edd Byrnes. Era un uomo straordinario e uno dei miei migliori amici», ha scritto. Orfano di padre dall’età di 13 anni, nel 1962 Byrnes sposò l’attrice Asa Maynor, da cui ebbe un figlio, Logan. La coppia divorziò nel 1971: si fidanzò con Catherine Gross. Edd Byrnes, nome d’arte di Edward Breitenberger, iniziò la carriera attore alla metà degli anni ’50, diventando celebre nel ruolo di Kookie nella serie televisiva poliziesca «77 Sunset Strip», di cui interpretò 137 episodi tra il 1958 al 1963. Sull’onda del successo televisivo Byrnes fu ingaggiato dalla Warner Brothers per tre film: «Un dollaro d’onore» (1959), «Colpo grosso» (1960) e «Pugni, pupe e pepite» (1960). Alla metà degli anni ’60, ci fu anche una breve parentesi artistica in Italia: a Cinecittà girò alcuni spaghetti western come «7 winchester per un massacro» (1967) e «Vado… l’ammazzo e torno» (1967). Nel 1999 si ritirò dalle scene dopo essere apparso anche in tre episodi della «La signora in giallo». 

Marco Giusti per Dagospia l'11 gennaio 2020. Un altro attore degli anni ’60 che venne a cercare fortuna in Italia come il Rick Dalton di Quentin Tarantino se ne va. E’ Edd Byrnes, 87 anni, noto al grande pubblico americano per il fortunato personaggio di Kookie, ragazzotto biondo che sta sempre a sistemarsi il ciuffo e collabora con due detective nella serie “777 Sunset Strip”, intitolata da noi “Indirizzo permanente”. Lo stesso Byrnes ricordava: “Io ero uno dei primi giovani a comparire in tv, uno con cui i ragazzi si potessero identificare”. Il suo successo, come Kookie, era tale che gli arrivavano anche 15 mila lettere di fan a settimana, pronte a intasare gli uffici della Warner Bros e con connie Stevens fece un disco, “Kookie Kookie, Lend Me Your Comb”, che arrivò quarto nelle classifiche del Maggio 1959. Nessuno, a quel tempo, era cool come Kookie. Era arrivato a 22 anni a Los Angeles da New York, dove era nato nel 1933. Il padre era un alcolista che era morto quando Edd aveva solo 13 anni. Dopo aver fatto piccoli ruoli a Hollywood, fu notato per il vezzo di mettersi a posto continuamente il ciuffo in un filmetto, Girl On The Run, cosa che lo portò alla serie “77 Sunset Strip”. Ma la fama gli portò anche qualche vizio, diciamo alcol e droga. Si riprese, ma quando la serie finì nel 1963 si ritrovò esattamente con il culo per terra come il Rick Dalton di Leonardo Di Caprio in C’era una volta a Hollywood. Doveva scegliere tra piccoli ruoli al cinema, film di guerra, western scrausi, e l’Europa. Andò in Europa. Fu a Roma che venne notato dalla produzione del primo film da regista di Enzo G. Castellari, 7 winchester per un massacro. Enzo avrebbe voluto Robert Redford, che allora era del tutto sconosciuto. Ma questo chi è? Non ha faccia, non è nessuno, gli disse il produttore. Presero invece Edd Byrnes, che con Castellari girò prima questo western e poi in Spagna il più fortunato Vado… l’ammazzo e torno, dove divideva la scena con George Hilton e Gilbert Roland. Hiton si ricordava che sul set Edd Byrnes se la tirava moltissimo da star. Possibile. Byrnes, nella sua intervista a “Psychotronic”, oltre a raccontare che in Italia “si lavorava sei giorni alla settimana, incluso il sabato” si lamentava che venne doppiato da un altro attore per la versione inglese. “Tolsero tutte le mie battute e ci misero un’altra voce. Io ho fatto tutte le mie scene d’azione senza stunt per il film. Ho pure fatto le coreografie delle scene di scontri. Le ho riprese da quelle di Burt Lancaster in Flame and the Arrow (1950)”. Gira un terzo western con Nando Cicero, Professionisti per un massacro, ma non funzionò mai granché come star del genere. Ritorna in America e troverà nuova fortuna solo col personaggio di Vince Fontaine in Grease nel 1974. Questo gli porterà una serie di partecipazioni la serie tv e telefilm di ogni tipo. Niente di importante, diciamo, a parte forse Stardust di Michael Apted, ma del lavoro sicuro.

·        Aveva soltanto 27 anni, Harry Hains. 

Cristina Migliaccio per tpi.it il 10 gennaio 2020. Aveva soltanto 27 anni, Harry Hains. La star di American Horror Story soffriva di depressione e di disordini del sonno. Nell’ultimo anno, stando a quanto dichiarato dalla famiglia, l’attore aveva assunto un comportamento auto-distruttivo e si è spento il 7 gennaio 2020. E, proprio oggi che American Horror Story è stato rinnovato fino alla tredicesima stagione, la famiglia della serie tv è costretta ad abbracciarsi attorno al dolore di questa giovane perdita. L’attore, di origini australiane, ha recitato in diverse serie (The OA, Sneaky Pete), ma quella rimasta maggiormente impressa nel cuore dei telespettatori è sicuramente AHS (American Horror Story): l’abbiamo visto recitare nella quinta stagione, Hotel. A dare il triste annuncio della sua morte è stata la madre, Jane Badler (conosciuta per aver recitato in Mission: Impossible e Visitors). “Aveva 27 anni e una vita davanti. Sfortunatamente combatteva con problemi di depressione e dipendenza. Era una scintilla luminosa e brillante finita troppo presto. Mi mancherai Harry, ogni giorno della mia vita”, ha comunicato la donna via Instagram, allegando alla triste dedica anche alcuni scatti dell’attore in compagnia di mamma, papà e il fratello Sam.

Harry Hains, chi era il giovane attore. Attore, musicista e modello. Harry Hains, nato il 4 dicembre 1992, era originario di Melbourne (Australia). Aveva iniziato l’università, intenzionato a laurearsi in medicina, ma aveva mollato tutto per trasferirsi a Londra, poi è arrivato a New York dove ha studiato recitazione e ha coltivato la sua passione per la musica. Infine è arrivato a Los Angeles per dedicarsi alla carriera da modello e sperare di fare fortuna in quel di Hollywood. Nella sua breve carriera, Hains ha recitato in diverse serie tv ma ha anche pubblicato una canzone sotto pseudonimo, ANTIBOY. “È un personaggio che ho creato, è un robot gender-fluido che viene dal futuro, bloccato nella realtà di un mondo virtuale che è affetta da un malfunzionamento”, ha spiegato tempo fa Harry Hains. “Ho creato Antiboy perché rappresenta il mondo futuro che prevedo, un mondo dove non soltanto ci fonderemo con la tecnologia (l’intelligenza artificiale e l’estensione della vita), ma anche un mondo dove la completa decostruzione delle etichette”.

·        Lorenza Mazzetti, che se ne è andata a 92 anni.

Marco Giusti per Dagospia il 9 gennaio 2020. Lorenza Mazzetti, che se ne è andata a 92 anni, era molto più di una regista di cinema, di una scrittrice, di un’artista e di una creativa burattinaia. Basterebbero il suo romanzo autobiografico, Il cielo cade, pubblicato nel 1962 da Garzanti grazie all’amicizia e alla stima di Cesare Zavattini e di Attilio Bertolucci, i suoi primi film inglesi, K e Together, il suo lavoro sul documentario a fianco di Cesare Zavattini nei primi anni ’60, la sua amicizia con Lindsay Anderson, Tony Richardson e Karel Reisz, coi quali fondò il Free Cinema inglese, il suo legame con gli artisti della London School, da Lucien Freud a Michael Andrews protagonista anche dei suoi film, qualche sua opera è presenta nella mostra romana su Bacon e Freud, a farne un personaggio leggendario. Leggendaria, del resto, era stata da subito anche la sua vita. E terribile. Nata nel 1927 a Firenze assieme alla gemella Paola, perde durante il parto la madre, Olga Liberati. Il padre, Corrado Mazzetti, affida le figlie a una nurse che non le tratta bene. Così il padre decide di affidarle alle cure della zia, Nina Mazzetti, sposata con Robert Einstein, cugino di Albert, che viveva con le figlie Anna Maria e Luce a Rignano sull’Arno. Le due gemelle crescono con le cugine in questa casa frequentata da artisti come Giacomo Balla, che dipinse un ritratto di Luce, quando scoppia la guerra e i tedeschi prima occupano la villa di Rignano, poi, il 3 agosto del 1944, non trovando Robert Epstein, che si era nascosto nei boschi, uccidono tutta la sua famiglia, Nina e le sue bambine. Si salvano le due gemelle solo perché non si chiamano Epstein. Ma la ferita rimane. Profonda. Robert Epstein si ucciderà un anno dopo, nel 1945, sconvolta dalla fine della sua famiglia. Nel dopoguerra le ragazze rimangono a vivere nella villa di Rignano con il guardiano, che le deruba. Ma negli anni ’50 Lorenza, che già si occupa d’arte con la sorella Paola, tanto che espongono nella loro piccola galleria sul Lungarno a Firenze una primissima personale di Bob Rauschberg, si trasferisce a Londra. I primi tempi si arrangia come può, fa anche la cameriera, ma entra in contatto con i giovani registi e i giovani artisti del tempo. Nel 1953 dirige K con Michael Andrews protagonista, una sorta di variazione sulle Memorfosi di Kafka, girato a costo zero e con qualche furto. “A un amico d’università bellissimo chiesi di interpretarlo e ad altri amici di darmi una mano; ero convinta che in me capacità e forza di volontà fossero sufficienti, non avevo bisogno di lezioni o apprendistato: per me fare cinema significava prendere la cinepresa, scendere in strada, filmare. In una stanzetta della Slade presi le attrezzature necessarie e firmai a nome dell’Istituto cambiali false per pellicola, costumi e montaggio. Il direttore andò su tutte le furie, minacciò di mandarmi in galera, ma lo convinsi a organizzare una proiezione e K fu un successo. Volle conoscermi il capo del British Film Institute, mi disse di fargli una proposta, così nacque Together». Nel 1956 esce così Together, suo secondo film, sempre con Andrews e lo scultore Eduardo Paolozzi, storia di due sordomuti dell’Reast End di Londra, col quale arriverà a Cannes, dove vincerà un premio. Sono gli anni d’oro del Free Cinema che fonda assieme a Tony Richardson, Karel Reisz e Lindsay Anderson, che resteranno per sempre i suoi amici del cuore. Torna in Italia, dove, grazie a Cesare Zavattini, fa un po’ di cinema, I cattivi vanno in paradiso, uno degli episodi di Le italiane e l’amore nel 1961 dedicato a “L’educazione sessuale dei figli”, I misteri di Roma, fa anche regia tv per la Rai, ma soprattutto pubblica il suo fondamentale libro Il cielo cade, 1962, con Garzanti, poi ripubblicato da Sellerio, dove ha la forza di raccontare la sua tragica storia. Molti anni dopo i fratelli Frazzi, con la sceneggiatura di Susi Cecchi D’Amico e Isabella Rossellini protagonista, ci faranno un film. Nei primi anni ’60 si lega a Bruno Grieco, figlio di Ruggero Grieco, fondatore del Partito Comunista Italiano. Sempre nei primi anni ’60 alterna al cinema e ai romanzi una serie di saggi per la rivista comunista “Vie nuove”. Pubblica altri libri, “Con rabbia”, che doveva diventare un film con la regia di Damiano Damiani e Catherine Spaak protagonista “Uccidi il padre e la madre”. Lascia il cinema, troppo difficile da frequentare per una ragazza in Italia, troppi compromessi, e si mette a lavorare nel teatro dei burattini, fondando il pueppet Teathre. Sposa l’ex partigiano Luigi Galletti, che lavora con lei a teatro. Infaticabile, ha vissuto per molti anni a Roma con la sorella Paola, pittrice, e la ritroviamo nel 2016 a Venezia per presentare un film sulla sua vita, Perché sono un genio, che le dedica Steve Della Casa. E’ lì che intervistandola per Stracult, mi incantò quando alla banale domanda “Come sei entrata nel cinema?”, mi rispose con un meraviglioso racconto di un’ora dove c’era tutta la sua vita. 

·        Se ne va Buck Henry, 89 anni.

Marco Giusti per Dagospia il 9 gennaio 2020. Se ne va uno dei più grandi geni comici del cinema e della tv americano, Buck Henry, 89 anni, attore, sceneggiatore, regista, anche semplicemente battutaro. Dietro capolavori del New Cinema americano, Il laureato, Comma 22, Ma papà ti manda sola?, Il paradiso può attendere, dietro centinaia di serie tv comiche, da Get Smart al Saturday Night Live, troviamo sempre Buck Henry. Raramente scriveva sceneggiature da soggetti suoi, ma era favoloso a lavorare sulle battute di personaggi che non aveva inventato. Registi come Mike Nichols, Peter Bogdanovich, Milos Forman e, soprattutto, Warren Beatty, col quale scrisse e co-diresse Il paradiso può attendere, la sua seconda nomination agli Oscar dopo Il laureato, lo sapevano bene. Nato a New York nel 1930, unico figlio di un generale dell’aeronautica, Paul Steinberg Zuckerman, e di una star del muto, Ruth Taylor, che aveva lavorato con le Bathing Beautis di Mack Sennett, Buck Henry si fa le ossa come umorista in una rivista dove scrivevano anche il Dr Seuss e Budd Schulberg alla fine degli anni ’50. Fa la guerra di Corea nel 1961, torna e fonda un teatro di improvvisazione, The Premise, dove lavorerà anche George Segal. Come Mel Brooks, Neil Simon e Woody Allen, lavora alla tv sui testi dei comici del momento, da Steve Allen a Garry Moore, scrive un film per Theodor J. Flicker mai arrivato da noi, The Troublemaker, 1964, si inventa con Mel Brooks una delle serie comiche parodistiche più divertenti della tv americana, Get Smart, che avrà una vita lunghissima, per poi esplodere nel cinema come sceneggiatore de Il laureato, 1967, diretto da Mike Nichols e interpretato da Dustin Hoffman e Anne Bancroft. Henry e Nichols riscrivono il libro di Charles Webb e ne fanno una sorta di manifesto della nuova commedia americana. Ironica, anarchica, controcorrente. Ritroveremo lo stesso spirito nei film scritti e quasi sempre anche interpretati da Buck Henry negli anni successivi, a cominciare dal buffo e scombinato, ma divertente Candy, scritto assieme a Terry Southern, girato in Italia da Christian Marquand, protegée di Marlon Brando, con un cast stellare, da Walter Matthau a Ringo Starr, dalla nuova scoperta Ewa Aulin allo stesso Brando. Nelle idee del produttore, Roberto Haggiag, avrebbe dovuto essere qualcosa di esplosivo. Ma saranno di certo più riusciti e significativi Comma 22, tratto dal romanzo antimilitarista di Joseph Heller, forse il suo lavoro migliore, e Il giorno del delfino, diretti ancora da Mike Nichols, o Il gufo e la gattina di Herbert Ross, che riscrive a partire da un copione teatrale di Bill Manhoff con Barbra Streisand e George Segal protagonisti. Fu un grande successo anche Ma papà ti manda sola?, diretto da Peter Bogdanovich e interpretato sempre dalla Streisand e da Ryan O’Neal. Come attore lo troviamo, oltre che nei film che scrive, anche nel divertentissimo Taking Off? di Milos Forman in un ruolo da protagonista, poi in L’uomo che cadde sulla terra di Nicolas Roeg, Eating Raoul, Gloria di John Cassavetes. Fine umorista, bravissimo attore, Buck Henry diventa una presenza costante nel cinema e nella tv americana più coraggiosi. Scrive, ad esempio, il copione di To Die For di Gus Van Sant con Micole Kidman nel ruolo di una giornalista che vuole arrivared a tutti i costi, ritrova Warren Beatty nella tarda commedia Town&Country, passata un po’ inosservata. Lavora tanto e compare spesso in tv come guest star. Uno dei suoi ultimi film da sceneggiatore è il divertente The Humbling di Barry levinson con Al Pacino, passato a Venezia e mai uscito in Italia.

·        Morta Elizabeth Wurtzel.

Vins Gallico per “il Fatto quotidiano” il 9 gennaio 2020. L' idea di avere tantissimo, troppo tempo da un lato, e l' idea di averne poco, pochissimo dall' altro: da un estremo all' altro è passata Elizabeth Wurtzel, prima di non avere più tempo. È morta il 7 gennaio a Manhattan, per un cancro al seno che aveva intaccato anche cervello e midollo. Aveva 52 anni e un quarto di secolo fa, nel 1994, era venuta alla ribalta letteraria con un testo irriverente ed epocale. Prozac Nation fu il best-seller di una ventisettenne che si permetteva, primo, di scrivere un memoir a ventisette anni, e secondo, di parlare di depressione e trattamento farmacologico nell' America bene. La temutissima critica del New York Times Michiko Kakutami commentò che a leggere il libro di quell' autrice narcisista, viziata e sopravvalutata veniva voglia di darle uno scossone e di ricordarle che poteva capitare di peggio che crescere a New York negli anni Settanta da una famiglia ebrea e studiare all' Università ad Harvard. Allo stesso tempo però Kakutami riconosceva a Wurtzel di aver scritto un libro unico, dove riusciva a investigare il proprio narcisismo con una dose di autoironia e leggerezza tanto da mettere in secondo piano le parti lagnose e commiserevoli. E tirava fuori paragoni importanti: Joan Didion, Sylvia Plath, Bob Dylan. Che esistesse un legame fra letteratura e depressione non era niente di nuovo: da Mark Twain a Charles Dickens, da William Faulkner a Joseph Conrad, da Edgar Allan Poe a Hermann Melville, da Isaac Asimov a Stephen King, la lista degli autori depressi potrebbe occupare intere pagine del quotidiano. Ma quello che aveva fatto Elisabeth Wurtzel era stato percepire un nuovo slittamento terapeutico in quegli anni: si stava superando l' elemento psicoanalitico con il supporto chimico. Bye bye Freud, cam' n Prozac. Era la medicina, il principio attivo Fluoxetina Cloridato ad avere la meglio sulle sedute sul lettino. Non era facile ammetterlo: perché la chimica andava bene per aprire le porte della percezione, ma non per mettere dei fermaporta. In Italia Rizzoli pubblicò Prozac Nation due anni dopo traducendo con il titolo La felicità difficile, oscurando l' aspetto sociologico della diffusione del Prozac negli United States of Depression. Bisognerà aspettare altri due anni perché una punk band di Pordenone (luogo non propriamente ridente, come dimostrano anche i Tre allegri ragazzi morti) abbia successo con un singolo dal titolo Acida e sdogani il tema: erano i Prozac +. In musica l'importanza di un medicinale salvifico ed equilibratore era già stata intuita dai Nirvana, con Lithium all'interno dell' album Nevermind (1991). Litio o no, Kurt Cobain si era comunque ammazzato due anni dopo. Erano un'epoca strana, zoppicante, malconcia quegli anni Novanta, timorosi di nuove guerre, sballottati dai lustrini del decennio precedente. Era caduto il Muro di Berlino, la Russia non era più il nemico o il competitor degli americani. Ai muscoli di Rocky Balboa e ai balletti di Madonna si rispondeva con jeans che strisciavano a terra e maglioni extralarge e dei tuffi nel cesso alla Trainspotting. Ribelli negli anni 70, consumisti negli anni 80, disorientati e depressi all' inizio dei '90. Nel 1998 Elizabeth Wurtzel pubblicò un secondo libro: Bitch, mai tradotto in italiano: cinque saggi in cui dà voce alle grandi donne che dovrebbero stare dietro ai grandi uomini, da Zelda Fitzgerald e Margaux Hemingway fino a Hillary Clinton. Il risultato è una silloge di neofemminismo, con l' autrice che posa nuda nella copertina del libro (di spalle sulla copertina rigida, di lato sul tascabile). Del 2001 è More, Now, Again sulla dipendenza da Ritalin, la droga contenente metilfenidato che viene prescritta a chi ha un deficit dell' attenzione. Ma il grande spolvero è lontano. Wurtzel frequenta la facoltà di legge a Yale, si laurea, scrive ancora per qualche rivista (anche di David Forster Wallace, che nel frattempo si è suicidato), si sposa. Scopre che suo padre non è il suo vero padre, ma stavolta non ha più il tempo per raccontarlo in un nuovo memoir. Di lei si è detto che era una Sylvia Plath in un video di Mtv, una Virginia Woolf sotto speed, sempre qualcun' altra in combinazione con qualcosa. Forse perché quella combinazione la proponeva la prima copertina del suo esordio: una giovane depressa di talento, una ragazza che tremava e raccontava se stessa, con l' aiuto di una piccola pillola.

·        Musica, è morto a 67 anni Neil Peart: storico batterista dei Rush.

Musica, è morto a 67 anni Neil Peart: storico batterista dei Rush. Jacopo Bongini il 10/01/2020 su Notizie.it. Lutto nel mondo della musica; è morto all’età di 67 anni il batterista e scrittore canadese Neil Peart, conosciuto per la sua storica militanza nella band rock progressive dei Rush. Peart è morto lo scorso 7 gennaio, ma la notizia è stata diffusa dai media soltanto nella giornata di venerdì 10. Il batterista stava combattendo tra ormai tre anni con un cancro al cervello per il quale era stato costretto ad abbandonare la band, ma di cui non aveva sempre preferito non parlare in pubblico. Nato ad Hamilton nel 1952, Neil Peart era considerato uno dei migliori batteristi rock di tutti i tempi. Dopo aver vissuto per un periodo in Inghilterra a partire dall’età di 18 anni, nel 1974 entra a far parte dei Rush in sostituzione del precedente batterista John Rutsey. Nella band si occupa anche della stesura dei testi delle canzoni, apportando numerose innovazioni nel sound che traghettano i Rush dal rock progressivo all’hard rock fino all’heavy metal. È Peart ad esempio ad introdurre un utilizzo massiccio dei sintetizzatori a partire dagli anni ’90. Nella serata del 10 gennaio, sulla pagina ufficiale del Rush è stato pubblicato un toccante messaggio di cordoglio da parte di tutti i membri della band: “È con il cuore spezzato e la più profonda tristezza che dobbiamo condividere la terribile notizia che martedì il nostro amico, anima gemella e compagno di band per oltre 45 anni, Neil, ha perso la sua incredibilmente e coraggiosa battaglia di tre anni e mezzo con il cancro al cervello (un glioblastoma). Chiediamo che amici, fan e media rispettino comprensibilmente il bisogno di privacy e pace della famiglia in questo momento estremamente doloroso e difficile. Coloro che desiderano esprimere le loro condoglianze possono scegliere un associazione per la ricerca sul cancro o benefica a loro scelta e fare una donazione a nome di Neil Peart”.

·        Morto Qaboos bin Said al-Said, sultano dell’Oman.

Morto Qaboos bin Said al-Said, sultano dell’Oman. Pubblicato sabato, 11 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Foschi. Il sultano dell’Oman, Qaboos bin Said al-Said,è morto nella tarda serata di venerdì 10 gennaio. Era malato di cancro da tempo. Soprannominato «il padre dell’Oman», aveva 79 anni ed era alla guida del Paese del 1970. Era considerato un “modernizzatore” per le riforme adottate nel campo della sanità e dell’istruzione. La notizia è stata annunciata dalla tv di Stato e rilanciata su Twitter. «È con tristezza che il sultanato dell’Oman piange il nostro sultano Qabus bin Said, richiamato a Dio venerdì sera», si legge in un comunicato diffuso dalla agenzia di stampa ufficiale Ona.

Qaboos era salito al trono con un colpo di Stato (senza spargimento di sangue) spodestando il padre, Said bin Taimur, con il decisivo aiuto di Londra. Accentrò il potere nelle sue mani, ma governando in maniera illuminata e diventando uno dei pilastri della politica in Medio Oriente negli ultimi 40 anni e riuscendo a mantenere un ruolo neutrale nelle dispute geopolitiche, ma decisivo nella mediazione delle situazioni conflittuali. Adesso si apre una delicata fase per la successione: il sultano non aveva figli e almeno pubblicamente non aveva designato un erede. Come riferito dall’agenzia Agi, il sultano aveva scritto il nome del suo successore su un foglio in una busta chiusa che dovrà essere aperta 72 ore dopo la sua morte se i membri della famiglia regnante non dovessero accordarsi sul nome del nuovo sultano. Nel caso di fumata nera a corte, ad aprire la busta con le volontà di Qaboos saranno il consiglio di difesa della nazione, il capo della corte suprema e il capi delle due camere del consiglio consultivo, come previsto da uno statuto del 1996. Il prescelto sarà poi informato e messo sul trono dell’Oman. Tra i papabili successori ci sono Assad bin Tariq al-Said, cugino del sultano e vice primo ministro con delega alla Cooperazione internazionale, Haitham bin Tariq al-Said, fratellastro di Assad e ministro della Cultura, e Shihab bin Tariq, ex capo della Marina.

Irene Soave per “il Corriere della Sera” il 12 gennaio 2020. Quando senza spargimenti di sangue Qaboos bin Said detronizzò il padre Said, sultano dell' Oman, mandandolo per sempre in esilio in due stanze all' hotel Dorchester di Londra, il Paese di cui prendeva le redini aveva in tutto due scuole e dieci chilometri di strade. La schiavitù era diffusa; non c'era elettricità, era proibita la radio e pure per portare gli occhiali serviva un permesso del sultano. Era il 1970 e Qaboos aveva 29 anni. Ieri è morto dopo un lustro di malattia, forse un cancro al colon. Il Paese che lascia nelle mani del suo successore, il cugino Haitham bin Tariq al-Said, ha ospedali, autostrade, porti, stadi e persino un' orchestra sinfonica, costruiti coi proventi del petrolio, che Qaboos ha nazionalizzato. È un piccolo impero del turismo in espansione: per il 2020, il governo punterebbe a 5 milioni di turisti l'anno (nel 2019 ci sono stati anche circa 50 mila italiani: tra loro l' ex ministra Maria Elena Boschi, che ci ha trascorso il Capodanno). Ma soprattutto ha un ruolo strategico nella Penisola Araba: il Sultanato, grande come la Polonia e vicino allo stretto di Hormuz, nei 50 anni di neutralità di Qaboos si è ritagliato un ruolo di «Svizzera del Medio Oriente», cioè di mediatore moderato della regione. Lo stesso accordo sul nucleare del 2015 fra gli Usa di Obama e l' Iran è nato qui: nelle ville del sultano sulla costa della capitale Muscat si erano svolti i colloqui preliminari. Qaboos studiò in Gran Bretagna all' Accademia Militare di Sandhurst; nel 1965 il padre lo fece rientrare in patria, e forse capendo di avere allevato un delfino lo rinchiuse nel sontuoso palazzo di Salalah, a mille chilometri dalla capitale. Amici da Londra gli inviavano musicassette: dentro, al posto della musica, c' erano le istruzioni dei servizi segreti inglesi per rovesciare Said. Grazie anche alla corrente ibadita dell' Islam che vige in Oman, Qaboos riuscì a mantenersi equidistante dai conflitti fra sciiti e sunniti nella regione; tra le sue imprese diplomatiche ci sono la pace fra Iran-Iraq, di cui fu pontiere, la liberazione di tre americani incarcerati in Iran, i rapporti eccellenti con Iran e Israele e infine l' accordo sul nucleare del 2015. Nel 2011 delle primavere arabe resisté alla chiamata alle armi dei sunniti per sedare una rivolta sciita in Bahrein, e più avanti dei sauditi che lo volevano attivo in Yemen; in compenso accontentò i manifestanti scesi in piazza in Oman, che brandivano cartelli con lo slogan «Qaboos aiutaci!», con un sussidio di disoccupazione e un rimpasto di governo. Con tutto ciò, Qaboos è stato un sultano autoritario, che pur avendo scritto la prima Costituzione nel 1996, e concesso il suffragio universale, aveva assunto i ministeri di Difesa, Finanze, Esteri e il comando delle Forze Armate. La stampa in Oman non è libera; ma tra i sudditi è stato amatissimo, e la frase «C' è ancora bisogno di te» è rimbalzata ieri migliaia di volte sui social. La sua vita privata fu invece enigmatica. Aveva sposato una cugina nel 1976; separati già dalla settimana delle nozze, in tre anni divorziarono. Lui non si risposò mai, alimentando dicerie di omosessualità - ma in Oman i gay sono fuorilegge, e «dare scandalo» costa fino a tre anni di reclusione - e non ebbe figli. Quando il Sultano muore, 50 maschi della famiglia scelgono il successore; se non ci riescono in tre giorni, aprono una lettera lasciata da lui, che indica un nome. Ieri la famiglia ha deliberato: sale al trono il cugino Haitham, ex ministro della Cultura. Ha già promesso: «Seguiremo la linea pacifica e neutrale di Qaboos». Il Golfo sta a guardare.

Oman, morto a 79 anni il sultano Qabus. Era il più longevo del mondo arabo, al potere da 50 anni. Non aveva figli. Il successore è Haitham bin Tariq al-Said, già ministro della cultura. La Repubblica l'11 gennaio 2020. È morto a 79 anni Qabus bin Said al Said, sultano dell'Oman. Lo ha reso noto il palazzo reale omanita. Il sultano dell'Oman, stato ricco di petrolio della penisola arabica, classe 1940, era il sovrano più longevo del mondo arabo. Era salito al trono nel 1970 con un colpo di Stato (senza spargimento di sangue) che ha spodestato il padre, Said bin Taimur, con il decisivo aiuto di Londra. Ha accentrato il potere nelle sue mani, unificato il sultanato e governato in modo illuminato. Qaboos è considerato uno dei pilastri della politica in Medio Oriente negli ultimi 40 anni: ha mantenuto un ruolo neutrale nelle dispute geopolitiche ma decisivo nella mediazione delle situazioni conflittuali. Grande appassionato di fiori e cavalli, ha dato spazio alle donne, costruito l´università Sultan Qaboos, specializzata in facoltà scientifiche e realizzato la grande moschea moderna di Muscat, una delle poche aperte ai turisti, con un tappeto unico, 60 per 70 metri, lavorato a mano da 600 donne iraniane e un lampadario di cristalli Swarovski lungo ben 14 metri. Fra le curiosità nella vita del sultano, che somiglia vagamente all´attore Omar Sharif, spiccano l´acquisto di una Ferrari station vagon ordinata "su misura" e realizzata apposta per lui nel 1996 dalla scuderia di Maranello. I meccanici Ferrari l´hanno recapitata nel suo palazzo dell´Oman dopo il pagamento di una cifra esorbitante dato che aveva fra gli "optional" la carrozzeria corazzata antimissile, i vetri antiproiettile e il cruscotto tempestato di diamanti. Altra eccentricità quando, per celebrare i 25 anni del sultanato, ha affittato per due concerti l´orchestra della Bbc Philarmonic di Manchester ed ha fatto andare a prendere i 101 musicisti, e i direttori Pascal Tortelier e Sir Edward Downes, dal suo aereo personale per fargli suonare due sere Beethoven, Rossini e Ciaikovski.

Chi è il successore di Qaboos. Il successore, Haitham bin Tariq al-Said, ha prestato giuramento come nuovo sultano dell'Oman. Qaboos non aveva figli e, come prevede il protocollo, non aveva nominato pubblicamente un successore. Haitham bin Tariq al-Said erà già ministro della Cultura dell'Oman. In base a quanto prevede lo statuto omanita, il sultano deve essere "musulmano, maturo, razionale e figlio legittimo di genitori musulmani omaniti".

Le sue visite in Italia, tra folclore e beneficienza. Nel 2012 aveva donato cinque milioni di euro ai baresi. Due erano stati destinati al reparto di cardiochirurgia dell'ospedale pediatrico Giovanni XXIII, che nel giro di un anno aveva acquistato un angiografo digitale e altri macchinari fondamentali per i piccoli pazienti. Gli altri tre, destinati a borse di studio, avevano fatto discutere. Si parla di un patrimonio personale stimato in mezzo miliardo di dollari, aveva la fama di munifico benefattore della quale ha dato prova anche nelle sue vacanze in Italia, a Bari - dove aveva distribuito rolex d'oro e mance a molti zeri - a Napoli e a Palermo.

Le riforme dopo manifestazioni di protesta. Nel 2011 aveva deciso di cedere poteri legislativi a un consiglio consultivo, dopo che anche nell'Oman si erano svolte diverse manifestazioni per chiedere riforme politiche, con un crescente malcontento sociale sullo sfondo. Con un decreto pubblicato dall'agenzia ufficiale Ona, il sultano aveva ordinato di conferire "i poteri legislativi e quelli di controllo" dell'azione di governo al "Consiglio d'Oman", formato da un Consiglio Consultivo (Shura), eletto, di 83 membri e da un Consiglio di Stato, una sorta di Senato, di 57 membri designati dal sultano. Le due camere hanno un ruolo puramente consultivo presso il governo, che si occupa invece di mettere in pratica la politica generale definita dal sultano. Nello stesso decreto, Qabus aveva chiesto a una commissione di presentare entro 30 giorni un emendamento alla Costituzione che consentisse di conferire i poteri legislativi all'Assemblea consultiva. Il sultano aveva inoltre ordinato forti aumenti delle pensioni, tra il 50 e il 100%, secondo la Ona e ha raddoppiato lo stipendio ai dipendenti pubblici. 

·        Morto Francesco Claudio Averna: il suo amaro è famoso in tutto il mondo.

Morto Francesco Claudio Averna: il suo amaro è famoso in tutto il mondo. Pubblicato giovedì, 09 gennaio 2020 su Corriere.it da Silvia Morosi. È morto giovedì a Milano Francesco Claudio Averna, ex presidente dell’omonima società produttrice del noto amaro. L’imprenditore, 66 anni, era ricoverato all’Istituto Tumori per una malattia che non gli ha dato scampo. Insignito nel 2012 dal Quirinale dell’onorificenza di Commendatore al merito della Repubblica Italiana, aveva gestito la società assieme al cugino Francesco Rosario fino al 2014. Lascia la moglie Francesca e la figlia Alessandra. I funerali verranno celebrati lunedì a Caltanissetta. Soprannominato in gioventù il «Duca», ha contribuito, come presidente oltre che componente della famiglia Averna, a far diventare icona di successo in Italia e nel mondo l’amaro, «il gusto pieno della vita». Come si legge sul sito dell’azienda, la storia imprenditoriale della famiglia Averna comincia nel 1854, quando a Caltanissetta il commerciante di tessuti Salvatore Averna riceve dall’amico Fra’ Girolamo, frate cappuccino, una ricetta segreta a base di erbe, radici e agrumi da tutto il mondo. Nel 1868, così, Salvatore realizza — in piccolo — un amaro da far degustare agli ospiti di casa Averna, a villa Xiboli. Il figlio Francesco decide di dedicarsi alla produzione dell’amaro su vasta scala e nel 1921 Anna Maria Averna, moglie di Francesco, prende le redini dell’ azienda. Con la terza generazione (i quattro figli di Francesco e Anna Maria: Salvatore, Paolo, Emilio e Michele) si arriva al successo: nel 1958 viene creata dalla famiglia la «Fratelli Averna Spa» che, dal 1968, grazie anche alle campagne pubblicitarie, raggiunge la notorietà a livello mondiale. L’azienda Averna è stata venduta al Gruppo Campari nel 2014.

Milano, morto il re dell'amaro Averna. Francesco Averna era l'ex presidente della società di liquori. L'imprenditore nisseno aveva 66 anni era ricoverato all'Istituto tumori. La ricetta segreta a base di erbe, radici e agrumi da tutto il mondo. La Repubblica il 10 gennaio 2020. È morto a Milano dove era ricoverato all'Istituto tumori l'imprenditore nisseno Francesco Claudio Averna, ex presidente della Averna, la società produttrice dell'amaro che dal 2014 è di proprietà del gruppo Campari. Insignito nel 2012 dal Quirinale dell’onorificenza di Commendatore al merito della Repubblica Italiana, aveva gestito la società assieme al cugino Francesco Rosario fino alla cessione. Lascia la moglie Francesca e la figlia Alessandra. I funerali verranno celebrati lunedì a Caltanissetta. La storia imprenditoriale della famiglia Averna comincia nel 1854, quando a Caltanissetta il commerciante di tessuti Salvatore Averna riceve dall’amico Fra’ Girolamo, frate cappuccino, una ricetta segreta a base di erbe, radici e agrumi da tutto il mondo. Con la terza generazione (i quattro figli di Francesco e Anna Maria: Salvatore, Paolo, Emilio e Michele) si arriva al successo: nel 1958 viene creata dalla famiglia la "Fratelli Averna Spa" che, dal 1968 con la quarta generazione e grazie allo sbarco del marchio su Carosello, raggiunge la notorietà prima in Italia e poi a livello mondiale.

Addio a Francesco Claudio Averna. Il suo amaro famoso in tutto il mondo. All'età di 66 anni si spegne Francesco Claudio Averna, ex imprenditore e titolare del marchio "Amaro Averna". Carlo Lanna, Venerdì 10/01/2020, su Il Giornale. La notizia è di qualche ora fa ed è stata rilasciata da Il Corriere. All’età di 66 anni, è morto a Milano Francesco Claudio Averna. Il suo nome è celebre ai più perché è stato il presidente dell’omonima società produttrice del celeberrimo "Amaro Averna". Originario di Caltanisetta, l’imprenditore da tempo era affatto da una grave forma di tumore, tanto da essere costretto al ricovero a Milano presso l’Istituto Tumori. Era il volto di una società famosa in tutto il mondo, un onesto lavorare che si è guadagnato il plauso di tutti. Francesco Claudio Averna nel 2012 è stato insignito dal Quirinale dell’onorificenza di Commendatore al merito della Repubblica Italiana. La sua società è stata gestita insieme al cugino Francesco fino al 2014, dopo che nello stesso periodo è stata venduta al Gruppo Campari. Era sposato e avevo una figlia di nome Alessandra. I funerali si celebreranno nella sua amata Caltanisetta il prossimo lunedì. Da tutti in città era soprannominato il Duca, perché apprezzato per le sue doti da uomo d’affari, l’unico che ha creduto in un marchio Made in Italy e che ha trasmesso nel mondo "il gusto pieno della vita". La storia imprenditoriale della società di Francesco Claudio Averna ha radici ben profonde. L’amaro Averna nasce ufficialmente nel 1854, quando il commerciante di tessuti Salvatore Averna, riceve dall’amico fra’ Girolamo, una ricetta segreta a base di erbe, radici e agrumi da tutti il mondo. Solo qualche anno più tardi Salvatore riesce a far degustare i sapori del suo amaro. Ad inizio degli anni ’20, è il figlio Francesco che decide di prendere in mano le redini dell’attività del padre e compiere il salto di qualità. Nel 1921 infatti l’attività spicca il volo. Con la terza generazione, ovvero i quattro figli di Francesco e Anna Maria, creano la "Fratello Averna SPA" nel 1958. Dieci anni dopo, grazie ad una massiccia campagna pubblicitaria che tv e giornali, la società raggiunge il successo in Italia e nel resto del mondo. Nel 2014 il marchio è stato venduto al Gruppo Campari. Con la morte di Francesco Claudio Averna si spegne un altro pezzo di quell’Italia che era capace di scommettere su se stessa.

·        Commissario Montalbano, morta l'attrice Nellina Laganà.

Commissario Montalbano, morta l'attrice Nellina Laganà. Uno degli ultimi post: Salvini "verme nel formaggio". Libero Quotidiano il 9 Gennaio 2020. L'attrice di teatro Nellina Laganà è morta la scorsa notte a 72 anni. Era da tempo malata, tanto da dover interrompere qualche settimana fa le repliche dei Giganti della Montagna, in cui interpretava il ruolo di Sgricia al fianco di Gabriele Lavia. Come ricorda Il Tempo, una delle sue ultime apparizioni "pubbliche" è stato un post di pessimo gusto contro Matteo Salvini, poche ore prima di morire. Su Twitter la Laganà aveva pubblicato una foto del leader della Lega in un caseificio, con la didascalia "Il verme nel formaggio". Ne era nato un vivace alterco con un sostenitore leghista che l'attrice aveva liquidato con un significativo "Salutami a soreta". In carriera aveva recitato anche nella serie sul Commissario Montalbano.

Catania, morta l'attrice Nellina Laganà. Il suo ultimo grande successo lo aveva ottenuto poche settimane fa con i "Giganti della Montagna". Fra le ideatrici dell'accoglienza con gli arancini per i migranti della nave Diciotti. La Repubblica il 09 gennaio 2020. L'attrice Nellina Laganà è morta la notte scorsa nella sua casa di Catania all'età di 72 anni. Era da tempo malata. Siracusana di nascita e catanese d'adozione aveva dedicato la propria vita al teatro. Il suo ultimo grande successo lo aveva ottenuto poche settimane fa con i "Giganti della Montagna": recitando al fianco di Gabriele Lavia aveva ricevuto applausi e critiche entusiastiche nel ruolo di Sgricia. La malattia l'aveva costretta a interrompere le repliche di quella che era stata l'ultima di una serie di fortunate tournee nazionali, come quella de "La vita che ti diedi" con Massimo Serato e Valeria Ciangottini, del 1985. Nellina Laganà era una di quelle donne di teatro capaci sempre di stupire: nel 1983, con la regia del compagno d'arte e di vita Gianni Scuto, mise in scena "Attrice", monologo da lei scritto per ricordare Anna Magnani e che fu il primo lavoro di prosa rappresentato nel tempio della lirica catanese, il Teatro Massimo Bellini. Uno spettacolo fortunatissimo, più volte ripreso fino a pochi anni fa, con tournee in Italia e all'estero per oltre seicento repliche. Nella sua lunga carriera, per la quale aveva ricevuto nel 2019 il Premio Danzuso, aveva lavorato nel cinema, in tv - nella serie sul Commissario Montalbano di Alberto Sironi dipinse un celebre cameo ne "Le ali della sfinge" - ma soprattutto in teatro. Ha lavorato, per lo Stabile etneo e l'Inda, con registi come Luca Ronconi, Mario Missiroli, Romano Bernardi, misurandosi con i Luigi Pirandello, Giovanni Verga, Giuseppe Fava, Tomasi di Lampedusa, ma anche con i tragici greci e il teatro sperimentale. Nota anche per il suo impegno civile, Nellina Laganà sapeva conquistare tutti con la sua umanità e la sua garbata ironia, oltre che con la carismatica presenza scenica. Nello scorso agosto Nellina Laganà con l'attore catanese Silvio Laviano e altri colleghi ideò l'iniziativa che portò i cittadini catanesi ad andare al porto di Catania con un arancino in mano in segno di amicizia verso i 177 migranti bloccati da Salvini sulla nave Diciotti.

·        Morto a 86 anni Italo Moretti, storico giornalista Rai.

Morto a 86 anni Italo Moretti, storico giornalista Rai. Redazione de Il Riformista il 9 Gennaio 2020. È morto questa mattina a Roma Italo Moretti, grande inviato Rai. A renderlo noto è il sito di Rainews. Nato a Giulianova, aveva 86 anni. La sua è stata una carriera giornalistica iniziata da giovanissimo, a 17 anni a Perugia collaborando con le redazioni locali di quotidiani nazionali. Nel 1966 entrò in Rai presso la sede umbra, per poi trasferirsi a Roma quello stesso anno, diventando radiocronista del Giornale Radio, dove, anche come inviato speciale, si occupò di sport, cronaca, politica interna, politica estera. Nel 1968 l’inizio della sua esperienza professionale in America Latina, raccontando le complesse vicende politiche, fatte di periodi democratici che si alternavano in Cile, Argentina e Uruguay ai regimi militari e golpisti. E nel settembre del 1973 fu tra i primi giornalisti ad arrivare a Santiago dopo il golpe di Pinochet. Nel 1976 il passaggio al Tg2, dove lo volle l’allora direttore Andrea Barbato, e lì continuò a dedicarsi alle complesse realtà del Sud America ma anche alle vicende politiche di Portogallo e Spagna, alternando l’esperienza di inviato speciale con la conduzione della edizione principale del telegiornale. Nel 1987 il passaggio, come vice direttore, al Tg3, testata di cui assunse la direzione nel 1995, per poi diventare dal 1996 al 1998 condirettore della Tgr, la testata giornalistica regionale della Rai.

Morto Italo Moretti, storico volto del Tg3: raccontò il golpe di Pinochet. Pubblicato giovedì, 09 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Conte. È morto Italo Moretti, storico giornalista e inviato della Rai. Nel 1995 fu anche direttore del Tg3. Moretti è morto a 86 anni, molti dei quali dedicati a una carriera fortunata e lunghissima. Per diversi anni, era stato anche inviato in America Latina, lui che era nato a Giulianova, in Abruzzo, nel 1933. Era stato in assoluto tra i primi giornalisti a recarsi a Santiago, nel  1973, dopo il colpo di stato di Pinochet. Il giornalismo è sempre stato il suo grande amore: aveva iniziato a lavorare già a 17 anni, a Perugia, proponendosi per collaborare con le redazioni locali di diversi quotidiani. Poi, la svolta, con l’ingesso in Rai, nel 1966. Da allora, l’ascesa è stata continua. Dieci anni dopo passava alla redazione del Tg2, iniziando una carriera alternata tra quella di inviato e quella di conduttore del telegiornale, fino alla direzione del Tg3. È lì che il suo volto è diventato per molti famigliare.

È morto Italo Moretti, ex direttore del Tg3, Da giornalista e inviato Rai raccontò l'America Latina delle dittature. Aveva 86 anni. Ha sempre inseguito la verità sul caso Alpi-Hrovatin, presiedendo il premio per il giornalismo televisivo intitolato alla memoria della giornalista assassinata in Somalia. La Repubblica il 09 gennaio 2020. È morto il giornalista Italo Moretti, per anni inviato della Rai in Sud America, dove ha raccontato guerre civili e gli effetti delle dittature in Cile, Argentina e  Nicaragua. Aveva 86 anni. È stato conduttore del Tg2 e direttore del Tg3. Nato a Giulianova il 29 ottobre 1933, aveva iniziato la sua carriera giovanissimo. A 17 anni già collaborava a Perugia con le redazioni locali dei quotidiani nazionali. Entrò in Rai nel 1966. Nella sua lunga carriera si è occupato di sport, cronaca, politica interna ma soprattutto politica estera. Nel 1968 iniziò il suo lavoro in America Latina. Da Cile, Argentina e Uruguay, ha raccontato i regimi golpisti e autoritari di quei paesi.  Nel 1976 Italo Moretti entrò nella redazione del Tg2 continuando a dedicarsi al Sud America, ma anche alla politica di Portogallo e Spagna. Nel 1987 fu nominato vide-direttore del Tg3 di cui diventò poi direttore nel 1995. Dal '96 al '98 fu condirettore della Tgr, la testata che raccoglie i telegiornali regionali. È sopravvissuto a una sciagura aerea nello scalo di Addis Abeba, vicenda di cui fece un resoconto giornalistico che gli valse il Premio Saint-Vincent. Ha sempre inseguito la verità sul caso Alpi-Hrovatin, e non a caso è stato anche presidente del Premio Ilaria Alpi per il giornalismo televisivo. Italo Moretti è stato anche scrittore, documentando nei suoi libri la storia moderna del Cile e dell'Argentina. Diversi i riconoscimenti ottenuti nel suo percorso di giornalista e saggista. In ambito internazionale, le onorificenze dell'Ordine di Maggio e dell'Ordine di Bernardo O'Higgins attribuitegli, dopo il ritorno della democrazia, dal presidente dell'Argentina Raùl Ricardo Alfonsìn e dal presidente del Cile, Eduardo Frei Ruiz-Tagle. Inoltre, la Colomba d'Oro per la pace, il Microfono d'Argento, il Premiolino, il Premio Scarfoglio. Nel 2001 è stato iscritto nell'Albo d'Oro del Comune di Perugia.

·        Morto Alessandro Cocco, il re gentile dei presenzialisti della tv.

Alessandro Cocco, il re gentile dei presenzialisti della tv. Pubblicato martedì, 07 gennaio 2020 su Corriere.it da Aldo Grasso. Addio a Alessandro Cocco, il re dei presenzialisti in tv: era comparso 30000 volte. Se n’è andato Alessandro Cocco, «il re dei presenzialisti tv», aveva 78 anni. Era nato a Valdagno, ma giovanissimo si era trasferito a Gornate Olona, nel Varesotto, e aveva cominciato a lavorare come operaio, poi aveva avviato un’attività in proprio. L’incontro con la televisione era avvenuto per caso nel 1976, due biglietti per assistere a una trasmissione di TeleAltomilanese («Schiaffo e bacio», condotta da Raffaele Pisu). Da allora, resta affascinato da quel mondo, le sue presenze tra il pubblico diventano frequenti, nelle emittenti private, fino ad arrivare negli anni successivi in Rai e a Mediaset. Cocco era l’intruso che tutte le trasmissioni avrebbero voluto ospitare perché si era fatto la nomea di portare bene. È entrato nel libro dei Guinness per essere stato ritratto per più di 4000 volte accanto a dei vip, stile Forrest Gump. Dal 1976 ha partecipato a oltre 2000 programmi televisivi (in alcuni casi registrando per ciascuno più puntate), per un totale accertato di circa 30.000 apparizioni. Nel marzo 1986, nella stessa serata, è riuscito ad andare in onda in quattro programmi diversi indossando però lo stesso abito. È stato presentato al pubblico televisivo da Mike Bongiorno, Teo Teocoli, Gerry Scotti e Pippo Baudo. Non ha mai fatto distinzioni ideologiche: «Per me non fa alcuna differenza andare ospite in studio a un programma di una tv grande tipo quello di Celentano o quello di una tv locale, tra “Rockpolitick” e “Festa in piazza” ho scelto il programma di Antenna 3». Alessandro Cocco non apparteneva alla genia dei disturbatori, tipo Gabriele Paolini o Mauro Fortini (quel signore che finge di essere un giornalista e ha sempre una biro in bocca) o Niki Giusini, quel ragazzo un po’ rotondetto che si autodefinisce «disturbatore televisivo per antonomasia». No, Cocco era gentile, chiedeva il permesso per una foto e a Natale mandava sempre un bigliettino d’auguri. Fino allo scorso anno.

·        Franco Ciani morto suicida.

Il cantante Franco Ciani morto suicida. Oberato dai debiti, era stato sposato con Anna Oxa. Pubblicato domenica, 05 gennaio 2020 su Corriere.it da Mario Luzzatto Fegiz. Il cantante aveva 62 anni. Il corpo è stato trovato in un albergo di Fidenza, si sarebbe tolto la vita con un sacchetto di plastica. È morto Franco Ciani, musicista, cantante autore e produttore, primo marito di Anna Oxa e autore di successi come Tutti i brividi del mondo (scritto proprio per Anna Oxa) e Ti lascerò (cantato da Fausto Leali e Oxa, vinse il Festival di Sanremo 1989). Il corpo è stato trovato dal personale di un albergo di Fidenza venerdì mattina. L’artista si sarebbe tolto la vita con un sacchetto di plastica e prima di compiere il tragico gesto ha modificato l’account di WhatsApp sostituendo la sua foto con quella di un angelo. In un biglietto destinato al suo impresario Nando Sepe ha spiegato le ragioni del suo gesto riconducibili a problemi economici e professionali, ultimo dei quali il fatto che una sua canzone affidata alla ex Matia Bazar Roberta Faccani non sia stata accettata al Festival di Sanremo. Oberato dai debiti Franco Ciani si era visto pignorare i diritti Siae sulle sue canzoni di successo, mentre il produttore Nando Sepe stava cercando di reinserirlo nel mondo della musica leggera italiana. A ritrovare il corpo del musicista è stata la cameriera che aveva invano bussato alla sua porta. La morte, secondo le prime notizie, sarebbe avvenuta la sera di giovedì per soffocamento con un sacchetto di plastica. Ciani, 62 anni, era nato a Bologna il 17 agosto 1957, aveva collaborato con molti artisti — fra cui Lucio Dalla e Marina Fiordaliso — e da tempo non aveva più rapporti con la sua ex moglie Anna Oxa (si erano sposati nel 1982).

È morto il musicista Franco Ciani, ex marito di Anna Oxa, oberato dai debiti si è suicidato. L'artista non ha retto le condizioni economiche precarie: si è tolto la vita in un hotel. Oxa: "Ho saputo ma faccio fatica a credere a questo gesto...". La moglie di Ciani: "La sua risposta mi fa venire il vomito!" La Repubblica il 05 gennaio 2020. Franco Ciani, l'ex marito di Anna Oxa, si è tolto la vita mentre si trovava in un hotel di Fidenza, in provincia di Parma, nella sera di giovedì scorso, 2 gennaio: da tempo era gravato dai debiti. Aveva 62 anni. Gli erano stati pignorati i diritti Siae dei suoi vecchi successi e quelli di un nuovo brano, che doveva essere cantato da Roberta Faccani, ex Matia Bazar, e che era stato scartato dal Festival di Sanremo. Musicista, cantante e produttore, nel 1982 era convolato a nozze con Oxa, Ciani si sarebbe suicidato soffocandosi con un sacchetto di plastica. Prima, però un ultimo gesto: cambiare la foto profilo dell'account WhatsApp sostituendola con quella di un angelo. "Ho saputo che si è suicidato. Faccio fatica a credere a questo gesto, da parte di Ciani: sapeva molte cose, se fossi un familiare io approfondirei", ha detto Anna Oxa a Il Corriere della Sera. Subito pronta la risposta della moglie di Ciani, Manuela Falorni, ex pornostar nota come la Venere Bianca, che ha scritto su Facebook: "Dopo 30 anni che non si scambiano neppure un ciao e sentire la sua risposta mi fa venire il vomito!!". Falorni ha quindi accusato la cantante di essere andata a "chiedere alla sua prima moglie un parere su ciò che è successo". Ieri, l'addio di Falorni su Facebook, recitava: "E tutto si chiude così.... con un mare di perché che non avranno mai risposte.... indelebilmente si chiude e la mia mente è confusa, il mio cuore sanguina. Dovremmo sempre riflettere a lungo prima di compiere azioni. Ogni azione porta dietro altre azioni altre ed altre... in un vortice di dolore che non ha fine...". E ancora: "Mi rimbocco le maniche, come sempre ho fatto. Sarà dura. Sarà durissima. Tra un urlo di dolore e di una risata x non morire dentro... Nulla e nessuno potrà regalarmi tutto il bello e tutto il brutto che tu mi hai dato". Ciani aveva composto grandi successi come Ti lascerò, il brano interpretato da Anna Oxa e da Fausto Leali che vinse l'edizione del Festival di Sanremo del 1989 e Tutti i brividi del mondo. La Siae, in serata, ha diffuso una nota per esprimere cordoglio per la scomparsa e precisare che "non può purtroppo sottrarsi, perché lo dice la legge, a pignoramenti effettuati da terzi".

“ERA PIENO DI PROGETTI PER IL FUTURO” - ROBERTA FACCANI, EX CANTANTE DEI MATIA BAZAR, È SCONVOLTA DOPO IL SUICIDIO DI FRANCO CIANI: “SIAMO SENZA PAROLE. NIENTE CI HA FATTO SUBODORARE UN COSÌ FORTE DISAGIO. MI HA CONTATTATO PER PRESTARE LA MIA VOCE A UN DUETTO CON BARBARA DE SANTIS E ABBIAMO CANDIDATO IL BRANO A SANREMO”. Dagospia il 7 gennaio 2020. Comunicato stampa. "Sono profondamente rattristata, sconcertata e attonita; di lui conservo un ricordo di uomo buono, gentile e simpatico. Niente di lui, nemmeno un istante, ci ha fatto subodorare un così forte disagio, un momento di cotanta fragilità evidentemente pregressa e maturata per altre circostanze. Siamo tutti senza parole, profondamente dispiaciuti, ma Franco fino a pochi giorni prima del suo gesto era allegro, ironico, dolce e pieno di progetti per il futuro" racconta Roberta Faccani (ex Matia Bazar) dopo il tragico evento. L'autore e musicista Franco Ciani, ex marito di Anna Oxa (autore di grandi successi tra cui "Ti lascerò", brano interpretato dalla stessa Oxa e Fausto Leali, vincitore dell'edizione del Festival 1989), suicida il 2 gennaio in un hotel di Fidenza in provincia di Parma, aveva forse tentato un'ultima carta per tirarsi fuori dai debiti che lo stavano perseguitando da tempo, proponendo ad Amadeus il duo Faccani - De Santis per il Festival di Sanremo 2020. Prosegue la Faccani: "Franco Ciani mi ha contattato qualche settimana fa tramite un nostro caro comune amico, Nando Sepe, per prestare la mia voce a un duetto con la giovane cantante lirica Barbara De Santis da lui prodotta. Entusiasti del risultato abbiamo deciso di candidare il brano a Sanremo Big in vista anche di una mia nuova progettualità artistica con il produttore Gianni Testa".

Morto il cantautore Franco Ciani: l'ex marito di Anna Oxa si è suicidato. Il musicista si è tolto la vita con un sacchetto di plastica. A causare il folle gesto sarebbero stati i debiti accumulati dall'uomo e il rifiuto di partecipare al prossimo Festival di Sanremo. Novella Toloni, Domenica 05/01/2020, su Il Giornale. Il corpo senza vita di Franco Ciani é stato trovato nella stanza di un albergo di Fidenza venerdì mattina. Il cantante, musicista e produttore musicale, ex marito di Anna Oxa, si è suicidato presumibilmente con un sacchetto di plastica nella notte tra giovedì 2 e venerdì 3 gennaio. A fare la macabra scoperta è stato il personale di servizio dell'albergo. La cameriera, che doveva occuparsi della camera, non avendo ottenuto risposta è entrata nella stanza del musicista, trovandolo privo di vita. Sul posto sono intervenute le autorità competenti. Secondo quanto riportato dal Corriere della Sera, l'artista bolognese di 62 anni avrebbe modificato la foto del suo profilo WhatsApp poco prima di suicidarsi, mettendo l'immagine di un angelo al posto della sua fotografia. Ciani ha lasciato un biglietto per spiegare il perché del gesto compiuto. A spingere Franco Ciani a commettere il gesto estremo sarebbero stati motivi economici e professionali. Il cantante ha lasciato un ultimo messaggio di addio al suo manager, Nando Sepe, spiegando i motivi del suo suicidio. La negativa situazione economica sarebbe stata la prima causa che lo ha spinto a togliersi la vita, ma anche il recente rifiuto di partecipare al prossimo Festival di Sanremo. Inquietante quest'ultimo dettaglio lasciato scritto nella nota da Ciani. Il cantautore, infatti, sarebbe rimasto fortemente deluso per non essere stato accettato al Festival di Sanremo, in programma dal 4 all'8 febbraio. Il musicista aveva presentato una canzone scritta per l'ex voce dei Matia Bazar, Roberta Faccani che però non è stata accettata dalla direzione artistica. Come riporta ancora il Corriere, Franco Ciani sarebbe stato oberato di debiti, tanto che negli ultimi tempi i diritti Siae delle sue canzoni di maggior successo sarebbero stati addirittura pignorati per sanare la sua profonda crisi finanziaria. Il manager Sepe, al quale il cantante ha rivolto l'ultimo messaggio di addio, stava cercando di reinserirlo nel mondo dello spettacolo e della musica. Proprio Sanremo avrebbe potuto rappresentare il primo passo verso la possibile rinascita per il musicista emiliano. Nato a Bologna nell'agosto del 1957 e primo marito della cantante Anna Oxa, Franco Ciani è stato autore di successo di brani come "Tutti i brividi del mondo" e "Ti lascerò", che la Oxa cantò in coppia con Fausto Leali al Festival di Sanremo del 1989 e che valse loro la vittoria della kermesse musicale. Celebri sono state anche le sue collaborazioni con artisti del calibro di Lucio Dalla e Marina Fiordaliso.

Morte di Franco Ciani, parla Anna Oxa: "Fatico a credere al suicidio". Raggiunta dal Corriere della Sera, Anna Oxa ha detto la sua sulla morte del suo ex marito Franco Ciani e mette in dubbio possa trattarsi di un suicidio. Francesca Galici, Domenica 05/01/2020 su Il Giornale. È di poche ore fa la notizia della morte di Franco Ciani, ex marito di Anna Oxa. Stando alle prime informazioni, pare che l'uomo si sarebbe suicidato. La cantante di origini albanesi ha poco fa commentato il fatto e ha sollevato dei dubbi sull'effettiva dinamica della scomparsa. "Faccio fatica a credere a questo gesto da parte di Ciani: sapeva molte cose, se fossi un familiare io approfondirei", ha detto Anna Oxa al Corriere della Sera ribaltando tutte le ipotesi fatte fino a questo momento. Franco Ciani e Anna Oxa sono stati compagni di vita per oltre un decennio. Il loro matrimonio risale al 1982 ed è durato fino alla prima metà degli anni Novanta, quando i due hanno poi preso strade personali e professionali diverse. Il loro fu un amore forte, passionale e travolgente. Quasi totalizzante per Franco Ciani che, come racconta Mario Luzzato Fegiz sul Corriere della Sera, rinunciò completamente alla sua carriera di cantautore per seguire e supportare quella di Anna Oxa. Paroliere e musicista dotato di grande genialità, Franco Ciani è l'autore di alcuni dei più grandi successi della sua ex moglie. Ti lascerò, per esempio, una delle canzoni che hanno consacrato la voce e lo stile della Oxa. Con quella canzone, cantata in coppia con Fausto Leali a Sanremo nel 1989, la cantante vinse il festival e conquistò definitivamente il pubblico. Il distacco artistico da Anna Oxa segnò l'inizio della fine per Franco Ciani. Avendo abbandonato la sua carriera più di dieci anni prima, l'uomo dovette reinventarsi professionalmente ma fu molto difficile. Dopo il divorzio, sposò una grande star cinema del porno dell'epoca, ma fu letteralmente schiacciato dai debiti e non riuscì a risollevarsi, nemmeno quando tentò di aprire un'edicola in Versilia, che non decollò. Accanto al suo corpo è stato rinvenuto un biglietto con le ragioni del suo gesto, pertanto per gli inquirenti la sua morte è imputabile a un atto personale e volontario. I debiti e il conseguente pignoramento dei diritti delle sue canzoni da parte della Siae pare siano alla base del gesto estremo. A incidere sulla sua presunta decisione potrebbe essere stato anche il rifiuto di una sua canzone a Sanremo, che sarebbe stata portata da Roberta Faccani, ex dei Maria Bazar. Sulla questione del pignoramento è intervenuta direttamente la Siae, che ha chiarito la sua posizione tramite una nota: "La Siae non effettua pignoramenti nei confronti dei suoi associati. Non può purtroppo sottrarsi, perché lo dice la legge, a pignoramenti effettuati da terzi. Siae esprime cordoglio per la scomparsa così drammatica di un suo associato."

L'ex moglie di Franco Ciani contro la Oxa: "Non lo vedeva da 30 anni". Parla Manuela Falorni, ultima moglie di Franco Ciani suicidatosi in una camera d’albergo a Fidenza. Si scaglia contro la Oxa e anche con parte della stampa che considerava Franco solo per il suo matrimonio con la cantante. Roberta Damiata, Domenica, 05/01/2020 su Il Giornale. È furente Manuela Falorni, la Venere Bianca moglie di Franco Ciani, morto suicida in una camera d’albergo a Fidenza. Manuela aveva risposato Franco dopo la fine del rapporto con Anna Oxa e con lui ha passato gli ultimi trenta anni di vita, insieme al figlio avuto da una precedente relazione. Non le sono piaciute le dichiarazioni della Oxa e di parte della stampa che ha associato Franco solo al suo rapporto con la cantante, "dimenticando" che il loro matrimonio è durato 10 anni mentre il suo oltre trenta. Ha affidato il suo dolore alla sua pagina Facebook dove ha scritto parole piene di rabbia e di dolore, ma lo ha fatto anche con noi che l’abbiamo raggiunta telefonicamente per provare a capire cosa di questa tristissima vicenda la renda così arrabbiata.

Signora Falorni oltre il dolore per la scomparsa di Franco tanta rabbia, perché?

"Sto leggendo le cose che stanno scrivendo i giornali, Anna Oxa non vedeva Franco da trenta anni. Non si sono mai detti neanche un ciao, e come fa lei a dire delle cose? Da una parola ne stanno facendo una telenovela".

Come si sente in questo momento?

"Ho tanto dolore, anche perché sembra che la vita di Franco si sia risolta nei dieci anni di matrimonio con Anna e in questi ultimi mesi di ritorno alla musica, ma nel mezzo ci sono trenta anni con me con mio figlio con una storia molto intensa fatta di tanti alti di tanti bassi e che adesso sta lasciando una lacerazione in me nel mio essere e nella mia famiglia".

Cosa ha letto che le ha provocato questa reazione?

"Il fatto che alcuni giornalisti scrivono solamente perché Franco è stato affiancato ad Anna Oxa. A me non interessa che scrivino della Venere Bianca, che scrivono di me, perché non voglio neanche andare a rimettermi in piazza e chi mi conosce lo sa, ma che speculino su una morte e su un dramma di qualcuno che arriva a suicidarsi, senza neanche capire che sta vivendo comunque un dramma, e dietro a lui lo stanno vivendo tutte le persone che veramente gli sono state vicine, gli sono vicine, e gli vogliono bene e tutto questo solamente perché è stato marito e autore della signora Anna Oxa”.

Sono state anche riportate delle dichiarazioni molto forti della signora Oxa.

“Adesso afferma che la famiglia dovrebbe indagare perché è impossibile che lui si sia suicidato e ci sarà qualcosa magari un omicidio. Ma che vuole la signora Anna Oxa? Che stia zitta, che dica che sono trenta anni che non lo vede e non lo sente, e dica solo: Mi spiace. Ecco una persona dovrebbe dire questo ma non dire Andate ad indagare, suggerisco alla famiglia… lei non deve suggerire niente a nessuno”.

Cosa si sente di dirle?

"Che suggerisca a se stessa di non rompere la famiglia di Franco. Questo è quello che io mi sento di dire, anche perché la famiglia di Franco per trenta anni siamo stati io e mio figlio, questa è la verità".

Morgan sconvolto per il suicidio di Franco Ciani: "Che dall'alto venga fulminato all'istante quel magistrato". Libero Quotidiano il 6 Gennaio 2020. Il suicidio di Franco Ciani ha sconvolto anche Morgan. L'ex marito di Anna Oxa si è tolto la vita in una stanza di hotel a Fidenza, un tragico gesto sembra legato ai debiti che lo opprimevano. E Marco Castoldi, ex leader dei Bluvertigo che versa in situazione economica non facile a causa di un debito contratto col Fisco, forse anche per questo è durissimo. A Ciani erano stati pignorati i diritti Siae, a Morgan la casa. "La famosissima legge anti-suicidi, un vero disastro, una legge che è una burla di fronte alle incongruenze anti uomo di cui il nostro stato democratico è promotore e attuatore", si sfoga sui social il giudice di The Voice. "Una legislazione a dir poco anticostituzionale piena zeppa di meccanismi inarrestabili dove una volta che il cittadino anche solo per sbaglio mette mezzo piede viene trascinato ed inghiottito, spellato vivo, vilipeso, derubato legalmente, messo in ginocchio e infine fagocitato una volta che non ha neanche più un briciolo di energia per aprire le finestre al mattino". Ciani, ricorda Morgan, era "un artista, un musicista, un autore di canzoni. Spero in una legge dall'alto che fulmini all'istante il primo magistrato che canticchia una delle sue canzoni anche sovrappensiero".

·        Addio a Georges Duboeuf «Papa del Beaujolais».

Addio a Georges Duboeuf da venditore in bicicletta a «Papa del Beaujolais». Pubblicato domenica, 05 gennaio 2020 da Corriere.it. Il successo del Beaujolais Nouveau è andato di pari passi alla sua notorietà. Milioni di bottiglie di un vino rapido che sbarca ogni terzo giovedì di novembre nelle enoteche del monde. Un fenomeno di moda soprattutto negli anni Ottanta, che i produttori italiani hanno inseguito producendo infinite versione di vino Novello. Per anni questo mondo è ruotato attorno alle capacità imprenditoriali di Georges Duboeuf, morto a 86 anni domenica 5 gennaio, a causa di una emorragia cerebrale, nella sua casa di Romanèche-Thorins (Francia centro-orientale). Il giornale “Le Figaro” lo ricorda come “Il Papa del Beaujolais”. La rivista americana “Wine Spectator” spiega che “il suo nome è sinonimo di Beaujolais”. Lo chef stellato Georges Blanc ha raccontato alla France Press la tristezza per aver preso “un compagno di viaggio, l’instancabile ambasciatore del Beaujolais”. Aveva iniziato a vendere vino in bicicletta a 18 anni. Si era dato da fare fin da ragazzo, dopo aver perso il padre in età così precoce da non conservare alcun ricordo di lui. Negli anni Ottanta aveva organizzato memorabili festival, con attori, politici e campioni dello sport, in occasione del rilascio dell’annata del Beaujolais Noveau. E’ arrivato a vendere 30 milioni di bottiglie, più di un quinto dei vini della denominazione. L’azienda era stata fondata nel 1964. Ogni anno è visitata da migliaia di enoturisti, grazie al “Borgo del vino” al suo interno, con negozio e sala di degustazione. Nel 2018 aveva passato il timone della cantina al figlio Franck. Beaujolais e Novello sono frutto della stessa tecnica, la macerazione carbonica, che consente di ottenere vino già pronto a poche settimane dalla vendemmia (in una cisterna si chiude l’uva, si immette anidride carbonica e si accelera così la fermentazione). Vini a bassa gradazione, da consumare subito, che non si affinano con il tempo (la versione francese è a base di Gamay). Ma i limiti sono stati trasformati in punto di forza grazie soprattutto all’idea di trasformare il giorno di uscita sul mercato in una festa mondiale in contemporanea nel mondo. Un fenomeno fino agli Novanta, poi in graduale diminuzione.

·        È morto Vittorio Fusari, rinomato chef.

È morto Vittorio Fusari, rinomato chef tra Brescia, Bergamo e Milano. È stato anche allievo di Gualtiero Marchesi nonché uno dei protagonisti della cucina italiana contemporanea. Eleonora Cozzella e Marco Trabucco l'1 gennaio 2020 su La Repubblica. "Il mio lavoro è anche al di fuori delle cucine: tramandare la sapienza millenaria della gastronomia italiana è la mia vita. Perché il buon mangiare avvicina le persone, aiuta a trovare punti di vista comuni, aiuta ad essere felici". Così si presentava su Identità Golose nel suo profilo, questa era la sua filosofia di cucina. Non era uno "chef star" ma era un grande chef Vittorio Fusari, morto a 66 anni in ospedale a Chiari, dove era ricoverato da qualche giorno in seguito a un principio di infarto. A ucciderlo una embolia che lo ha colpito nella tarda mattinata. Figlio di un ferroviere  - e a sua volta capostazione in gioventù  - Fusari aveva studiato filosofia, ma poi aveva aperto il suo primo ristorante il Volto di Iseo nel 1981, un'osteria che aveva creato e che, tra i primi se non primo in Italia, univa l'alta cucina a un ambiente rilassato e rilassante. Dal Volto erano nate le Maschere, ristorante di cucina d'autore, per poi tornare nel '95 alla prima esperienza, alla sua osteria di Iseo. Poi l'importante parentesi milanese al Pont de Ferr, dal 2015 al 2017 e il ritorno in Franciacorta, di cui Fusari è stato un simbolo in cucina, a Adro con la Dispensa Pane e vini. L'ultima esperienza a Bergamo con il ristorante Balzer, storico bar cittadino, che con Fusari è diventato simbolo di convivialità e di comunità del cibo. "Qui - raccontava con orgoglio - sono vietati i preparati, gli additivi e i conservanti a vantaggio delle materie prime fresche, delle biodiversità locali, i prodotti da agricoltura biologica".  Di lui è doveroso sottolineare la missione che spesso ripeteva: "Bisogna nutrire non solo il corpo ma anche lo spirito", come ha messo in pratica nel recente libro La felicità ha il sapore della salute edito da Slow Food scritto in collaborazione col prof. Luigi Fontana. Era il suo invito a tornare in cucina, in un mondo fatto di fast food e delivery, un inno al mercato, ai produttori, ai contadini, una proposta a provare l'autoproduzione, per recuperare quella conoscenza del cibo che è fondamentale per la nostra salute e quella dell'ambiente. Perché, diceva, il nostro rapporto con l'alimentazione e soprattutto la consapevolezza di come il cibo arrivi fino a noi può garantire salute e longevità come e più di una dieta. Non a caso Carlo Petrini lo aveva nominato benemerito della gastronomia. Ecco perché era considerato un maestro di vita oltre che un grande cuoco, ed era amatissimo nell'ambiente per il suo carattere schietto e vivace, ma mai sotto i riflettori. Scrivevano Enzo e Paolo Vizzari: "Si parla troppo poco di lui, cuoco umile con lo sguardo buono che all'inizio degli anni '80 s'inventò il mitico Volto a Iseo, il locale di ritrovo dei pionieri della Franciacorta dove, affianco ai fedeli calicisti, approdavano i primi curiosi attratti in zona da piccole e promettenti cantine come Bellavista o Cà del Bosco. Un passaggio nella brigata di Gualtiero Marchesi fece poi cambiare a Vittorio il modo di pensare la cucina, e da allora le sue idee non sono più rimaste ferme, filtrate attraverso stimoli sempre nuovi e aperture di varia natura". Tra i suoi piatti mitici uno tra tutti la sfogliatina di patate con caviale destinato a entrare nel catalogo dei capolavori della cucina italiana e che univa come nessun altro la sua anima popolare con il suo amore per i prodotti raffinati e la grande cucina. Ma anche il suo manzo all'olio, la tradizione tradita. O ancora L'Anatra in verza, con crema di castagne e praline di fegato di anatra avvolte in acciughe e verza, è un piatto dedicato al patrono del lago di Iseo, san Vigilio. Sono solo alcune delle ricette che gli sono valse la stella Michelin, nel 1992, conservata fino al 2007. Era anche grandissimo intenditore e appassionato di vini, nei suoi locali si beveva benissimo. Ma la cucina e la cultura del cibo, per la cui diffusione tanto si è prodigato, erano la sua seconda passione. Prima ancora metteva la famiglia. Quando, dopo tre anni di felice collaborazione con Maida Mercuri, lasciò il Pont de Ferr, spiegò: "Amo questo lavoro profondamente ma oggi so che sono chiamato altrove e so che devo posporlo alla famiglia, a mio figlio, a mia moglie, alle loro e alle mie esigenze. Perché anche di loro si nutre la mia ispirazione".  Fusari lascia la moglie Anna Patrizia Ucci e un figlio di 15 anni. 

Ilaria Del Prete per leggo.it il 2 gennaio 2020. Lo chef Vittorio Fusari è morto ieri, poco dopo le 19, all'ospedale di Chiari. A tradirlo è stato il cuore, quello che metteva nella sua cucina e aveva fatto diventare anche il suo motto: "un cibo di cuore e pensato". Lo chef era ricoverato per problemi cardiaci da una ventina di giorni. Proprio nel giorno di Capodanno, quando stava per essere dimesso, è stato colto da un ultimo malore che gli è stato fatale. Vittorio Fusari si è spento nel reparto di Rianimazione dell’ospedale Mellini di Chiari a 66 anni, compiuti in dicembre. Fusari lascia la moglie Anna Patrizia Ucci e il figlio quindicenne. Proprio per amore della famiglia, lo chef aveva abbandonato due anni fa la sua esperienza milanese a Al Pont de Ferr. Ora chef del rinomato ristorante Balzer di Bergamo, Fusari è stato ricordato dalla sua brigata con un post su Facebook. «Ciao Vittorio - scrivono dal locale storico del Sentierone -. Sei nei nostri cuori. Il nostro grande Maestro, ci mancherai tanto». Anche sul profilo Instagram dello chef è apparso un messaggio: «Non vi ho lasciati, avete in eredità le mie ricette che raccontano le mie idee. Copiatele e fatele vivere costruendo attraverso il cibo un mondo migliore».

Licia Granelli per repubblica.it il 2 gennaio 2020. “Ciao meraviglia!”. E poi un abbraccio di quelli veri, cuore a cuore, affetto e allegria da vendere. Vittorio Fusari mi salutava così da sempre, da quando Gianni Mura (che Vittorio adorava) mi aveva portato a mangiare al Volto di Iseo. Un’amicizia solida, fatta di chiacchierate lunghissime, assaggi e riassaggi, brindisi di bollicine – rigorosamente franciacortine, hai voglia a dirgli che lo Champagne era meglio – e consigli sui libri, analisi politiche e progetti sul cibo di domani. Fusari era bello, di una bellezza virile accesa da due occhi azzurri febbrili, a cui era difficile sfuggire. Aveva avuto una prima moglie, con cui aveva condiviso gli inizi del Volto. Poi, durante un Salone del Gusto praticato da militante Slow Food della prima ora, aveva incontrato Patrizia, dentista salernitana trapiantata a Bergamo. Fulminati dalla passione, uniti nel credo del cibo buono-pulito-e-giusto, hanno condiviso un figlio, Giacomo, e gli ultimi vent’anni sempre uno a supporto dell’altro. Poco dopo averla conosciuta, le aveva dedicato uno dei suoi piatti più celebri, il salmastro sensuale e goloso dell’insalata di mozzarella e ostriche per far rivivere un bacio appassionato sugli scogli della Costiera. Nel frattempo, Vittorio è diventato una delle migliori teste pensanti del mondo della cucina. Perché a lui non bastava inventare ricette e tradurle in piatti che funzionano. Al contrario, era certo che le ricette dovessero nascere come conseguenza creativa di un pensiero, figlie di storie raccontate o vissute, memorie rilette con lo sguardo colto di chi divorava letteralmente i libri. In vacanza o nei momenti di pausa lavorativa, infatti, Vittorio spariva. Lo trovavi in un angolo qualunque, accucciato su un gradino o appoggiato a un muro, che leggeva, leggeva, leggeva. Oppure, ma questo atteneva ai momenti sociali, giocava a carte. Un po’ ci rideva e molto si incazzava, liberando la parte selvaggia che teneva compressa in qualche parte del corpo. Amava le persone, senza distinzioni di alto e basso, spesso fidandosi troppo. Quel non sapersi/volersi difendere dai furbacchioni che abitano il mondo della ristorazione è stato forse il suo limite maggiore. Si stupiva della cattiveria come di un inciampo della vita, cercando sempre di capire, di spiegare. E soprattutto si confrontava, sempre. Un piatto, un sapore, un profumo: non era tanto l’analisi sensoriale stretta ad attrarlo, quanto l’armonia, i rimandi, l’energia che sprigionava. Era stato malato ed era guarito, portandosi appresso la certezza che il cibo potesse funzionare come medicina. Si era avvicinato al lavoro di due nutrizionisti importanti, Franco Berrino e Luigi Fontana, e pubblicato un libro sulla longevità tra scienza e cucina. Da ieri sera, lungo la dorsale dell’Italia del cibo corre un tam tam doloroso e stupefatto di cuochi italiani, osti e super stellati, e dei tanti ragazzi che lo hanno incrociato nelle cucine o nelle aule di Pollenzo (l’Università di Scienze Gastronomiche di Slow Food). Tutti un po’ più soli. Costa fatica alzare il bicchiere di bollicine per un brindisi in suo onore. Ma sicuramente a lui piacerebbe un sacco.

·        Basket, è morto David Stern: l'uomo che ha reso planetaria l'Nba.

Basket, è morto David Stern: l'uomo che ha reso planetaria l'Nba. Aveva 77 anni, non si era più ripreso da una recente emorragia cerebrale. Per trent'anni, dal 1984 al 2014, ha guidato i professionisti Usa, risultando fondamentale per l'espansione del movimento. La Repubblica l'1 gennaio 2020. L'Nba perde il più storico e carismatico commissioner.  E' morto all'età di 77 anni David Stern: lo scorso 12 dicembre era stato colpito da emorragia cerebrale dalla quale non si era ripreso. Lo ha reso noto l'attuale commissioner Adam Silver attraverso una nota ufficiale. Stern è stato alla guida del basket professionistico americano per trent'anni, dal 1984 al 2014. Ha avuto un ruolo di primo piano nell'espansione della Nba, sia negli Stati Uniti nel resto del mondo, dopo la sua elezione. Con l'ex segretario generale della Fiba Boris Stankovic è stato anche l'artefice dell'apertura ai giocatori Nba delle competizioni internazionali, tra cui le Olimpiadi, dal 1992. L'ex avvocato è stato sostituito dal suo ex braccio destro, Adam Silver, nel febbraio del 2014. "A titolo personale e a nome della Federazione Italiana Pallacanestro, il presidente FIP Giovanni Petrucci esprime il proprio sincero cordoglio e la vicinanza del nostro movimento alla moglie Dianne, alla famiglia Stern e alla NBA" si legge sul sito della Fip. "David Stern è stato uno dei più grandi e rispettati dirigenti sportivi di tutti i tempi: ha reso la NBA una lega globale ed è stato fra le figure preminenti che hanno permesso che la Nazionale USA fosse composta da giocatori professionisti per partecipare alle manifestazioni FIBA e in particolare ai Giochi Olimpici a partire dall'edizione di Barcellona 1992".