Denuncio al mondo ed ai posteri con
i miei libri
tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le
mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non
essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o
di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio
diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli
editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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NOTIZIE SENZA CENSURA
ANNO 2020
LA SOCIETA’
TERZA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
GLI ANNIVERSARI DEL 2019.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
LA SOCIETA’
INDICE PRIMA PARTE
GLI ANNIVERSARI DEL 2020.
Cosa resta dell’anno passato. I Festeggiamenti.
Cosa resta dell’anno passato. La Politica.
Cosa resta dell’anno passato. La Cultura.
Cosa resta dell’anno passato. L’Immigrazione.
Cosa resta dell’anno passato. Le Notizie.
Cosa resta dell’anno passato. I Fatti.
Cosa resta dell’anno passato. I Personaggi.
Cosa resta dell’anno passato. Le Parole.
Cosa resta dell’anno passato. Le cose.
Cosa resta dell’anno passato. Lo Sport.
Cosa resta dell’anno passato. Gli Eventi.
Cosa resta dell’anno passato. I Disastri.
Cosa resta dell’anno passato. I Morti sul Lavoro.
Le Previsioni e le Profezie.
INDICE SECONDA PARTE
GLI ANNIVERSARI DEL 2020.
Gli anniversari.
500 anni dalla morte di Raffaello Sanzio.
400 anni dalla nascita di Masaniello.
250 anni dalla morte di Giambattista Tiepolo.
250 anni dalla nascita di Ludwig van Beethoven.
200 anni dalla nascita di Pellegrino Artusi.
200 anni dalla nascita di Vittorio Emanuele II.
150 anni dalla nascita di Maria Montessori.
150 anni dalla morte di Alexandre Dumas.
150 anni dalla nascita di Lenin.
150 anni dalla morte di Charles Dickens.
150 anni dalla nascita di Rosa Luxemburg.
130 anni dalla morte di Carlo Collodi.
120 anni dalla nascita di Eduardo De Filippo.
120 anni dalla nascita di Antoine de Saint Exupery.
120 anni dalla nascita di Ignazio Silone.
100 anni dalla morte di Amedeo Modigliani.
100 anni dalla nascita di Papa Giovanni Paolo II.
100 anni dalla nascita di Carlo Alberto Dalla Chiesa.
100 anni dalla nascita di Emilio Colombo.
100 anni dalla nascita di Carlo Azeglio Ciampi.
100 anni dalla nascita di Salvo D’Acquisto.
100 anni dalla nascita di Charlie Parker.
100 anni dalla nascita di Gianni Rodari.
100 anni dalla nascita di Charles Bukowski.
100 anni dalla nascita di Nilde Iotti.
100 anni dalla nascita di Gesualdo Bufalino.
100 anni dalla nascita di Enzo Biagi.
100 anni dalla nascita di Ray Bradbury.
100 anni dalla nascita di Franco Lucentini.
100 anni dalla nascita di Giorgio Bocca.
100 anni dalla nascita di Federico Fellini.
100 anni dalla nascita di Alberto Sordi.
100 anni dalla nascita di Isaac Asimov.
100 anni dalla nascita di Tonino Guerra.
100 anni dalla nascita e 20 dalla morte di Walter Matthau.
100 anni dalla nascita di Bruno Maderna.
100 anni dalla nascita di Renato Carosone.
100 anni dalla nascita di Helmut Newton.
83 anni dalla nascita dell’Ikea.
75 anni da Hiroshima.
66 anni dalla morte di Eddie Sanders.
60 anni dall'impresa del batiscafo “Trieste”.
60 anni dalla morte di Albert Camus.
60 anni dalla morte di Fausto Coppi.
60 anni dalla morte di Fred Buscaglione.
58 anni dalla morte di Marylin Monroe.
60 anni dalla nascita morte di “Tutto il calcio minuto per minuto”.
60 anni dall’Olimpiade di Roma.
50 anni dalla Woodstock italiana.
50 anni dalla morte di Janis Joplin.
50 anni dalla morte di Jimi Hendrix.
50 anni dalla separazione dei Beatles.
50 anni dalla morte di Angelo Rizzoli “il Vecchio”.
47 anni dalla morte di Renzo Pasolini.
46 anni dalla morte di Pietro Germi.
43 anni dalla morte di Maria Callas.
43 anni dalla morte di Elizabeth «Lee» Miller.
41 anni dall’uscita di Apocalypse Now.
41 anni dalla morte di Bob Marley.
40 anni dalla morte di Peter Sellers.
40 anni dalla morte di James Cleveland Owens.
40 anni dalla morte di Alfred Hitchcock.
40 anni dalla morte di Steve McQueen.
40 anni dalla morte di Romain Gary.
40 anni dalla morte di Peppino De Filippo.
40 anni dalla morte di Mario Amato, il giudice tradito dallo Stato.
40 anni dall’uscita di “The Blues Brothers”.
38 anni dalla morte di Giuseppe Prezzolini.
38 anni dalla morte di Gilles Villeneuve.
34 anni dalla morte di Elio De Angelis.
33 anni dalla morte di Giovanni Arpino.
32 anni dalla morte di Nico (Christa Päffgen).
32 anni dalla morte di John Holmes.
31 anni dalla morte di Sergio Leone.
31 anni dalla morte di Silvana Mangano.
30 anni dalla morte di Rocky Graziano.
30 anni dalla morte di Keith Haring.
30 anni dalla morte di Ugo Tognazzi.
30 anni dalla morte di Stefano Casiraghi.
29 anni dalla morte di Freddie Mercury.
29 anni dalla morte di Miles Davis.
29 anni dalla morte di Maria Zambrano. la filosofa eversiva.
28 anni dalla morte di John Cage.
27 anni dalla morte di Frank Zappa.
26 anni dalla morte di Massimo Troisi.
26 anni dalla morte di Ayrton Senna.
26 anni dalla morte di Kurt Cobain.
26 anni dalla morte di Aldo Braibanti.
26 anni dalla morte di Moana Pozzi.
25 anni dalla morte di Carlos Monzon.
25 anni dalla morte di Goliarda Sapienza.
25 anni dalla morte di Arturo Benedetti Michelangeli.
25 anni dalla morte di Mia Martini.
24 anni dalla morte di Ivan Graziani.
23 anni dalla morte di Gianni Versace.
23 anni dalla morte di William Burroughs: lo scrittore del Rock.
23 anni dalla morte di Ian Curtis.
22 anni dalla morte di Marcello Geppetti.
22 anni dalla morte di Lucio Battisti.
21 anni dalla morte di Franco Gasparri.
21 anni dalla morte di Stanley Kubrick.
21 anni dalla morte di Robert Bresson.
21 anni dalla morte di Fabrizio De Andrè.
20 anni dalla morte di Vittorio Gassman.
20 anni dalla morte di Enrico Cuccia.
20 anni dalla morte di Attilio Bertolucci.
20 anni dalla morte di Gino Bartali.
20 anni dalla morte di Victor Cavallo.
19 anni dalla morte di Indro Montanelli.
18 anni dalla morte di Francisco Ramón Lojácono.
18 anni dalla morte di Carmelo Bene.
18 anni dalla morte di Joe Strummer.
17 anni dalla morte di Giorgio Gaber.
15 anni dalla morte di Sergio Endrigo.
13 anni dalla morte di Luciano Pavarotti.
12 anni dalla morte di Ruslana Korshunova.
12 anni dalla morte di Tony Rolt.
10 anni dalla morte di Joe Sarno.
10 anni dalla morte di Raimondo Vianello.
10 anni dalla morte di Sandra Mondaini.
10 anni dalla morte di Pietro Taricone.
10 anni dalla morte di Edmondo Berselli.
10 anni dalla morte di Franz-Hermann Bruener.
10 anni dalla morte di Maurizio Mosca.
9 anni dalla morte di Giuseppe D'Avanzo.
9 anni dalla morte di Elizabeth Taylor.
9 anni dalla morte di Leda Colombini.
8 anni dalla morte di Whitney Houston.
7 anni dalla morte di Alberto Bevilacqua.
7 anni dalla morte di Franco Califano.
7 anni dalla morte di Enzo Jannacci.
6 anni dalla morte di Robin Williams.
6 anni dalla morte di Philip Seymour Hoffman.
6 anni dalla morte di Giorgio Faletti.
5 anni dalla morte di Francesco Rosi.
5 anni dalla morte di Pino Daniele.
4 anni dalla morte di Anna Marchesini.
4 anni dalla morte di Bud Spencer.
4 anni dalla morte di Marta Marzotto.
4 anni dalla morte di David Bowie.
4 anni dalla morte di Ettore Bernabei.
4 anni dalla morte di Marco Pannella.
4 anni dalla morte di George Michael.
3 anni dalla morte di Tomas Milian.
3 anni dalla morte di Nicky Hayden.
3 anni dalla morte di Paolo Villaggio.
3 anni dalla morte di Charles Manson.
3 anni dalla morte di Tullio De Mauro.
2 anni dalla morte di Stephen Hawking.
2 anni dalla morte di Sergio Marchionne.
2 anni dalla morte di Bernardo Bertolucci.
2 anni dalla morte di Marco Garofalo.
1 anno dalla morte di Karl Lagerfeld.
1 anno dalla morte di Jeffrey Epstein.
1 anno dalla morte di Massimo Bordin.
1 anno dalla morte di Franco Zeffirelli.
1 anno dalla morte di Luke Perry.
1 anno dalla morte di Nadia Toffa.
In memoria de Bee Gees.
I Compleanni.
I 60 anni di Snoopy.
Lada-VAZ 2101: storia e foto della Fiat 124 sovietica. I suoi primi quarant'anni.
Fiat Panda: i suoi primi quarant'anni.
Le auto più brutte.
50 anni fa nasceva lo Statuto dei lavoratori.
L'Sos di 50 anni fa: così Danilo Dolci inventò la radio libera.
25 anni di Ruggito del Coniglio.
Vent’anni di Grande Fratello.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI? (Ho scritto un saggio dedicato)
Le Famiglie influenti.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Le Famiglie Reali.
INDICE TERZA PARTE
I MORTI FAMOSI.
La sfiga.
Le “Pulizie della Morte”.
La Morte Libera.
Il cervello è l’ultimo a morire.
Effimeri. Dimmi come muori e ti dirò chi sei.
Parlare con i morti.
I complottisti della morte.
La maledizione del "club 27".
E’ morto il musicista Claude Bolling.
È morto lo stilista Pierre Cardin.
È morto Giorgio Galli, professore di Storia delle dottrine politiche.
È morto il wrestler Brody Lee.
E’ morto George Blake, la spia rinnegata.
È morta la modella Stella Tennant.
E’ morto l’attore Claude Brasseur.
E’ morto il Serial Killer Donato Bilancia.
È morto l’ex ministro Enrico Ferri.
Morto lo scrittore John le Carré.
E’ morto il regista Kim Ki-duk.
E’ morto Paolo Rossi. Il Pablito Mundial.
E’ morto Maradona. E’ morto il calcio.
E’ morto Valéry Giscard d’Estaing.
E’ morto Alfredo Pigna.
E’ morto Vincent «Vince» Reffet. Paracadutista jetman.
E’ morta Daria Nicolodi, attrice e sceneggiatrice.
E’ morto Andrea Merloni.
E’ morta Joan Moncada di Paternò, nata Whelan, vedova del fotografo di moda Johnny Moncada.
E’ morto Dino Da Costa.
E’ morto Ro Marcenaro.
E’ morto Sergio Matteucci, storico telecronista dei match di Holly & Benji e Mila & Shiro.
E’ Morto Stefano D’Orazio dei Pooh.
E' morto l'ex presidente della Corte dei conti Luigi Giampaolino.
E' morto Gigi Proietti.
È morto Sean Connery.
E' morto Pino Scaccia, storico inviato della Rai.
Morta Diane Di Prima, poetessa e attivista Beat.
E’ morto Lee Kun-hee, presidente di Samsung Electronics.
Morto Frank Horvat, l’ultimo grande fotografo classico del ‘900.
È morto l’attore e cantante Gianni Dei.
E’ morto Enzo Mari: artista e disigner.
E’ morto Alfredo Cerruti, fondatore e voce degli Squallor.
E' morto l'ex bassista degli AC/DC Paul Matters.
È morta la presidente della Regione Calabria, Jole Santelli.
Morto il giornalista Gianfranco De Laurentiis.
È morto il principe Giuseppe Lanza di Scalea.
E’ morto il cantante Anthony Galindo Ibarra.
E' morto Marco Diana, militare in lotta contro lo Stato per l'uranio impoverito.
È morto Johnny Nash.
E’ Morto Eddie van Halen.
E’ morto l’attore Thomas Jefferson Byrd.
Morto lo stilista Kenzo Takada.
È morto Quino, il disegnatore di Mafalda.
Addio a Juliette Greco.
È morto il direttore della fotografia Michael Chapman.
Ron Cobb rip.
Michael Lonsdale rip.
E’ morto il compagno Peppino Caldarola.
E’ morta la compagna femminista Rossana Rossanda.
Addio a Ruth Bader Ginsburg, icona femminista della Corte suprema.
Addio Enzo Golino, giornalista e critico letterario.
E' morto lo scrittore Winston Groom, autore di "Forrest Gump".
È morta la sessuologa Shere Hite.
E’ morto il regista Marco Vicario.
Morto Toots Hibbert, pioniere del reggae.
E’ morta l’attrice Diana Rigg.
E’ morta l’architetto Maria Cristina Mariani Dameno, coniugata Boeri.
E’ morto Franco Maria Ricci.
Addio a Ronald Bell, fu uno dei fondatori dei Kool & the Gang.
Addio al «re del grano» Pasquale Casillo.
È morto il dj Erick Morillo.
E’ morto Philippe Daverio.
E’ morto l’attore Chadwick Boseman.
È morto il giornalista Arrigo Levi.
E’ morto Sandro Mazzinghi, mito della Boxe.
E’ morto il brigatista Mario Marano.
E’ morto il regista Augusto Caminito.
È morto Ben Cross, l’attore di Momenti di Gloria.
Addio all'attrice barese Mariolina De Fano.
E’ morto il giornalista Stefano Malatesta.
L’attrice Linda Manz rip.
E' morto Cesare Romiti.
Addio a Trini Lopez, il musicista e attore.
E’ morto Stefano Pernigotti.
E’ morto Alberto Bauli.
E’ morto il wrestler James Harris, conosciuto come Kamala.
E’ morta Franca Valeri.
E’ morto Ivo Galletti, il papà della mortadella.
E’ morto Sergio Zavoli.
E’ morto l’attore Reni Santoni.
Addio a John Hume, il Nobel che portò la pace in Irlanda del Nord.
E’ morto l’ingegnere William "Bill" English, l'inventore del mouse.
E’ morta l’attrice hard Alessandra Bregoli in arte Alexy Brey.
E’ morto l’attore Wilford Brimley reso celebre da «Cocoon».
E’ Morta la principessa Giorgiana Corsini.
E’ morto Giulio Maceratini, esponente storico del Msi e di An.
E’ morta Luisa Mandelli, moglie di Guido Crepax.
E' morta Valentina Crepax, nipote di Guido.
Addio a Tataw, capitano del Camerun a Italia '90.
È morto a 76 anni il regista Alan Parker.
E' morta Diana Russell, la sociologa e criminologa che coniò il concetto di femminicidio.
E’ morto Maurizio Calvesi, Storico dell’Arte.
Addio al rapper Malik B, tra i fondatori dei The Roots.
E’ Morto Kansai Yamamoto, lo stilista che ha vestito il rock.
E’ morto l’attore Gianrico Tedeschi.
E’ morto l’attore John Saxon.
È morta Olivia de Havilland, diva di Hollywood.
È morto Regis Philbin, leggendario conduttore della tv Usa.
E’ morto Peter Green: fondatore dei Fleetwood Mac.
Morto Paolo Finzi, l'avvocato anarchico della Milano degli Anni di Piombo.
Morto Massimo Signoretti, voce storica di Radio Rai.
E’ morto a 104 anni Giuseppe Ottaviani: recordman tra i masters di atletica.
E' morto Oreste Casalini, artista e scultore.
È morta Giulia Maria Crespi, la fondatrice del Fai.
E’ morta Zizi Jeanmaire. La regina del music-hall parigino.
È morto John Lewis, icona dei diritti civili negli Stati Uniti.
Addio a Mario Scotti Galletta, baffo d’oro della pallanuoto italiana.
E’ morta Naya Rivera, attrice di «Glee».
E’ Morta Kelly Preston, la moglie di John Travolta.
Addio a Paolo Giovagnoli, Pm delle nuove Br e del caso Pantani.
E’ morto Emanuele Ferrario, presidente di Radio Maria.
E’ morto il norvegese Jagge, sconfisse Tomba ad Albertville '92.
Addio all'attore canadese Nick Cordero.
Morto l’avvocato Mauro Mellini: il radicale che denunciò il “partito dei magistrati”.
Ennio Morricone è morto.
INDICE QUARTA PARTE
Addio a Carlo Flamigni il guru il fecondazione assistita.
E’ morta la ciclista Roberta Agosti.
È morta Ida Haendel, leggenda del violino.
E’ morto il campione di poker Matteo Mutti.
E' morto Loris Meliconi, l'inventore del guscio per il telecomando.
Addio a Carl Reiner, comico da record di Emmy e amico di Mel Brooks.
È morto Freddy Cole, grande jazzista e fratello di Nat King.
È morta Linda Cristal, star dei western e della serie tv "Ai confini dell'Arizona".
E’ morta L'attrice Vittoria De Paoli. Recitò con la Capotondi.
E’ morta Taryn Power, sorella di Romina.
E’ morto il grafico Milton Glaser.
E’ morto “l’immortale” Marc Fumaroli.
E’ morto Alfredo Biondi, storico leader del Partito liberale.
È morto il regista Joel Schumacher.
È morto Charles Webb, l'autore ribelle del Laureato.
E' morto Pierino Prati.
E' morto Mario Corso.
Addio allo scrittore Carlos Ruiz Zafon.
È morto Ian Holm, Bilbo Baggins del "Signore degli anelli".
E’ Morta Jean Kennedy, era l’ultima dei fratelli di Jfk.
È morto Tibor Benedek: lutto nel mondo della Pallanuoto.
E’ morto l’avvocato Gianfranco Dosi, fondatore di Aiaf.
È morto Giulio Giorello.
E’ morto Stefano Bertacco, senatore di FdI.
È morto Luigi Spagnol: scoprì per primo Harry Potter.
E’ morto il cantante Pau Donés dei Jarabe de Palo.
E’ morto Rademacher, il recordman della boxe.
Addio al maestro Marcello Abbado, fratello maggiore di Claudio.
Addio a Chris Trousdale, voce della boyband Dream Street.
E’ morto il semiologo Paolo Fabbri.
E' morto Carlo Ubbiali, leggenda del motociclismo italiano.
È morto Roberto Gervaso.
È morto Tinin Mantegazza, creatore del pupazzo Dodò dell'Albero azzurro.
E’ morto Morrow: fu il primo a eguagliare la leggenda Owens.
È morto l'artista Christo.
Morto Beppe Barletti: volto storico di “90° minuto”.
È morto il chitarrista Bob Kulick, "quinto" membro dei Kiss.
E’ morto l’attore Anthony James.
E’ morto Franco Raselli, uno degli orafi più importanti nel mondo.
E’ morta Alice Severi: ex bimba prodigio del piano.
È morto Larry Kramer, sceneggiatore.
Addio all'attore Richard Herd, comandante supremo dei "Visitors".
E’ morto Prahlad Jani, l’indiano che sosteneva di non mangiare e bere dal 1940.
E’ Morto Stanley Ho. Addio al re dell'azzardo.
E' morto Bruno Bernardi, storica firma de La Stampa.
È morto Jimmy Cobb, tra i più grandi batteristi della storia del jazz.
È morto John Peter Sloan, il comico insegnante d'inglese più famoso d'Italia.
È morto Alberto Alesina, economista italiano che ha conquistato Harward.
Addio a Sergio Siglienti, ex presidente di Banca Commerciale Italiana.
Morto Carlo Durante, ex campione paralimpico di maratona.
Morta Cristina Pezzoli, la regista che amava la sperimentazione.
E’ Morto Antonello Riva: regista e chef.
È morta Anna Bulgari.
Addio all'editore Piero Manni.
Morto Wilson Roosevelt Jerman, maggiordomo di undici presidenti Usa.
Addio a Claudio Ferretti, voce storica di "Tutto il calcio minuto per minuto".
È morto padre Adolfo Nicolas, era stato «papa nero» dei Gesuiti.
E’ morto Shad Gaspard ex lottatore di wrestling.
Morta Hana Kimura, la lottatrice di wrestling.
Morto Gigi Simoni.
Tennis: è morto Ashley Cooper, leggenda della racchetta anni '50.
Basket, Nba in lutto: è morto Jerry Sloan, leggenda di Utah.
Morto il giornalista Stefano Carrer.
È morto Mory Kanté: cantante guineano celebre per «Yeke Yeke».
E’ morto l’attore Hagen Mills.
E’ morto il giornalista Cesare Barbieri.
Giorgio Stegani rip.
È morto Gregory Tyree Boyce, attore di Twilight.
E’ morta Ann Mitchell, la scienziata che decriptò Enigma.
È morto l’attore Michel Piccoli.
E’ morta la fotografa tedesca Astrid Kirchherr.
Addio a Mauro Sentinelli, il pioniere dei cellulari. Inventò la ricaricabile.
Morta Lynn Shelton, regista di «Little Fires Everywhere» e «Glow».
E’ morto l’attore Fred Willard, da Beautiful a Modern family.
E’ morta Norma Doggett, ballerina di "Sette spose per sette fratelli".
È morto Phil May, frontman e cofondatore dei Pretty Things.
È morto Sandro Petrone, storico conduttore del Tg2.
E’ morto Ezio Bosso.
È morto Giulio Savelli, editore di "Porci con le ali".
Addio a Jerry Stiller.
E’ morta Costanza Rossi in Ichino.
Morta Betty Wright, regina del soul.
È morto Little Richard, principe trasgressivo del rock'n'roll.
E’ morto Piero Gelli, il risvolto snob dell'editoria.
Morto Franco Cordero, il giurista che inventò il "Caimano".
E' morto "El Trinche" Carlovich: idolo di Maradona.
Morto Luca Nicolini, il libraio che inventò il Festivaletteratura di Mantova.
Morto il rapper Ty.
E' morto Bob Krieger, il fotografo di Agnelli e Armani.
E’ morto Vincenzo Abbagnale.
È morto Florian Schneider, fondatore dei Kraftwerk.
Addio a Michael McClure, principe della Beat Generation.
Morto l’attore Mimmo Sepe.
Addio al barese Matteo De Cosmo, art director della «Marvel» a New York.
Morto McNamara: campione Nba di basket.
E’ Samantha Fox, la porno attrice.
È morto Sam Lloyd, l'avvocato di Scrubs.
È morto l'attore BJ Hogg.
È morto il batterista Tony Allen.
Morto Fra' Giacomo Dalla Torre: Gran Maestro del Sovrano Ordine di Malta.
E’ morto l’attore Irrfan Khan.
Addio a Germano Celant.
È morto Giulietto Chiesa, giornalista e politico.
Claudio Risi rip.
Addio al giornalista Nicola Caracciolo.
Addio al regista Luca De Mata.
E’ morto il filosofo Aldo Masullo.
Morto Giuseppe Gazzoni Frascara: Ex presidente del Bologna Calcio.
È morta Shirley Knight, attrice di cinema e serie tv.
E’ morto Sirio Maccioni: re della cucina italiana in America.
E’ morto a 82 anni Peter Beard, fotografo naturalista.
E’ morto il bassista Henry Grimes.
E’ morto l'attore francese Philippe Nahon.
Se ne va Gene Deitch, 95 anni, regista, disegnatore, produttore di cartoon.
È morto Sergio Fantoni.
Morto l’attore Brian Dennehy: lo sceriffo di "Rambo".
Addio a Lee Konitz, uno degli ultimi grandi del jazz mondiale.
E’ morto Luis Sepulveda.
E’ Mario Donatone, uno dei cattivi del cinema italiano.
E' morto Franco Lauro, volto noto di Rai sport.
E’ morto Mirko Bertuccioli, detto "Zagor", cantante dei Camillas.
Morta Patricia Millardet, la giudice della "Piovra".
Morto il giornalista Giuseppe Zaccaria.
E’ morto Stirling Moss leggenda dell'automobilismo.
E’ morto Luciano Pellicani.
E' morto il fotografo Victor Skrebneski.
È morto Enzo Carrella, cantautore romano.
E’ morto Armando Francioli.
E’ morto l’architetto Massimo Terzi.
Rip la costumista Brunetta Parmesan.
E’ morto Donato Sabia, fu due volte finalista olimpico.
E’ morta Linda Tripp, la talpa dello scandalo Lewinsky.
Allen Garfield rip.
Morta l'astrofisica Margaret Burbidge.
Morta Susanna Vianello, figlia di Edoardo e Wilma Goich.
Coronavirus: è morta Cinzia Ferraroni, storica attivista del M5s.
È morto Alessandro Rialti, voce storica della Fiorentina.
Morta Honor Blackman, la Pussy Galore di James Bond.
Morto l'ex premier libico Mahmoud Jibril.
Morto Lorenzo Sanz, ex presidente del Real Madrid.
Morto Bernard Gonzalez, calcio francese in lutto.
Addio ad Ezio Vendrame, il George Best italiano.
Morto Bill Withers, voce di "Ain't No Sunshine".
È morto Sergio Rossi: ucciso dal Coronavirus il maestro della calzatura.
Coronavirus, morto Mario Bresciani, capitano d’industria delle calze.
Turchia, morta Helin Bolek: attivista e cantante.
Addio Gerald Freedman, regista del primo Hair a Broadway.
Addio a Bill Withers, rappresentante della black music.
Morto Piero Gratton, papà del Lupetto della Roma.
Morto Gaetano Rebecchini, fu tra i fondatori di Alleanza nazionale.
Morto Ellis Marsalis, un gigante del jazz.
Morto Goyo Benito: stella del Real Madrid negli anni ’70.
Morto Andrew Jack della saga di Star Wars.
Coronavirus, addio al musicista Adam Schlesinger, celebre leader dei Fourtains of Wayne.
E' morta Maria Antonietta Muccioli.
Addio a Franco Crepax.
È morto Filippo Mantovani, il figlio del presidente della Sampdoria.
Morto Attilio Bignasca, leghista ticinese.
Morto Angelo Rottoli, ex campione europeo dei massimi leggeri.
È morto Krzysztof Penderecki, compositore polacco.
E’ morto Luigi Roni: il cantante lirico.
E se n'è andata anche Annunziata Chiarelli, per tutti Mirna Doris.
Morto Michel Hidalgo: c.t. campione d'Europa nell'84 con la Francia.
Morto Massimo Vincenzi de La Repubblica.
Addio a Flavio Campo di Avanguardia.
Morto a Parma Massimo Zannoni, docente e uomo di cultura.
Morto Mark Blum, recitò anche in "Mr. Crocodile Dundee".
Morto il principe Raimondo Orsini d’Aragona.
Perdiamo anche Detto Mariano.
Morto Corrado Sfogli.
È morto Joe Amoruso, il pianista del gruppo di Pino Daniele.
E’ morto Paolo Micai, giornalista e cineoperatore.
Se ne va anche Alfio Contini.
Bepi Covre è morto: era conosciuto come il “leghista eretico”.
Coronavirus, morto Terrence McNally: scrisse “Paura d’amare”.
Morto il regista americano Stuart Gordon.
E’ morto il sassofonista Manu Dibango.
Fumetti, addio ad Albert Uderzo: era il "padre" di Asterix.
Morto Luigi Pallaro, "el senador" che affondò Prodi II.
E' morto Carlo Casini, fondatore del Movimento per la Vita.
E’ morto Alberto Arbasino.
E’ morta Lucia Bosè.
E' morto il regista Tonino Conte.
É morto Kenny Rogers.
Nazareno (Neno) Zamperla rip.
Morto Gianni Mura, raccontò il calcio e il ciclismo.
Joaquin Peiró è morto.
Addio Eduard Limonov.
Se ne va Stuart Whitman.
E' morto l'architetto Vittorio Gregotti.
Atletica, morta Dana Zatopek.
Bruno Armando è morto.
Morto Max von Sydow.
Morta Suor Germana.
Francesca Milani è morta.
Morto l’attore e culturista David Paul.
E’ morto Perez de Cuellar ex segretario generale dell’Onu.
Morto Ulay. L’artista storico compagno di Marina Abramovic.
Elisabetta Imelio è morta a 44 anni: Prozac+ e Sick Tamburo in lutto.
Addio al fisico e matematico visionario Freeman Dyson.
Egitto, morto l'ex presidente Hosni Mubarak.
Addio a Katherine Johnson, la scienziata della Nasa che portò l'uomo nello spazio.
Lego, morto Nygaard Knudsen inventore degli omini del colosso dei giochi.
Addio a Nando Ceccarini, maestro della cronaca per 20 anni.
Morto a 99 anni Jean Daniel, il fondatore dell'Obs.
Amaretto Disaronno, è morto il patron Augusto Reina.
Napoli, è morto l’ex campione Mario Occhiello.
È morto lo scrittore Clive Cussler, maestro dell'avventura.
Metropolitana di New York, è morto il padre della mappa iconica.
Si è spenta Claire Bretécher, una delle prime donne ad affermarsi nel mondo dei fumetti.
E’ morta Caroline Flack, uno dei volti più noti della televisione britannica.
È morto José Mojica Marins. Il maestro dell'orrore.
Morto Flavio Bucci, fu Ligabue nella fiction tv.
Addio a Barry Hulshoff, il pilastro dell’Ajax di Cruyff.
Usa, si schianta col suo missile: muore Mike Hughes, sostenitore della Terra piatta.
E’ morta Nikita Pearl Waligwa, l'attrice ugandese vista nel film «Queen of Katwe».
Morto Max Conteddu, il poeta dei social.
È morto Larry Tesler, il “padre” dei comandi copia-incolla-taglia.
Si è spento Gianni Rotondo, decano dei giornalisti di Taranto.
Addio a Stanley Cohen, Nobel per la Medicina con Levi Montalcini.
Addio a Poeti Norac, astro nascente del surf.
Se ne va anche Dyanne Thorne, cioè Ilsa la belva delle SS.
Addio alla scultrice Beverly Pepper, regina della Land Art.
È morto Luciano Capelli, storica voce di Radio Alice.
La scomparsa di Emanuele Severino.
Morta il soprano Mirella Freni.
Addio a George Steiner, maestro della critica.
Morto a 100 anni Mike Hoare, il mercenario più famoso del mondo.
Morto il produttore Gianni Minervini.
Luciano Gaucci, morto ex presidente del Perugia.
Morta Germana Giacomelli, la super mamma che curava i bambini.
Addio a Giancarlo Morbidelli, papà di leggendarie moto da corsa.
Morto Benito Sarti, addio allo storico terzino della Juventus.
Morto Giovanni Cattaneo, è stato il primo «Capitan Findus».
Morto Kirk Douglas, aveva 103 anni.
Morto Paolo Guerra, storico agente e produttore.
Harriet Frank Jr rip.
Kobe Bryant è morto.
E' morto Robbie Rensenbrink: fu uno dei fuoriclasse della grande Olanda di Cruyff.
Morto Narciso Parigi.
Addio a Stefano Scipioni, voce di Radio Radio.
È morto Terry Jones, fondatore e regista dei Monty Python.
Morto Gianluigi Patrini, ex calciatore.
È morto Jimmy Heath, in arte Little Bird.
Addio ad Emanuele Severino, gigante della filosofia italiana.
E' morto Pietro Anastasi.
Morto Pietro Antonio Migliaccio, il nutrizionista dei salotti tv.
Morto Christopher Tolkien, figlio dell’autore del «Signore degli Anelli».
Morto Stan Kirsch.
E’ morto il giornalista e scrittore Giampaolo Pansa.
E’ morto il filosofo Roger Scruton.
Morto Giovanni Custodero, l’ex calciatore malato di cancro.
Morto Capuozzo, 40 anni, campione d’Italia nel calcio a cinque.
Dakar 2020: morto il motociclista Edwin Straver.
Dakar, morto Paulo Gonçalves.
Morto Giovanni Paolo Martelli, addio al maestro che scoprì la Xylella.
Addio a Neil Peart, uno dei più grandi batteristi di sempre.
Morto Edd Byrnes, l’attore interpretò Vince Fontaine in «Grease».
Aveva soltanto 27 anni, Harry Hains.
Lorenza Mazzetti, che se ne è andata a 92 anni.
Se ne va Buck Henry, 89 anni.
Morta Elizabeth Wurtzel.
Musica, è morto a 67 anni Neil Peart: storico batterista dei Rush.
Morto Qaboos bin Said al-Said, sultano dell’Oman.
Morto Francesco Claudio Averna: il suo amaro è famoso in tutto il mondo.
Commissario Montalbano, morta l'attrice Nellina Laganà.
Morto a 86 anni Italo Moretti, storico giornalista Rai.
Morto Alessandro Cocco, il re gentile dei presenzialisti della tv.
Franco Ciani morto suicida.
Addio a Georges Duboeuf «Papa del Beaujolais».
È morto Vittorio Fusari, rinomato chef.
Basket, è morto David Stern: l'uomo che ha reso planetaria l'Nba.
LA SOCIETA’
INDICE TERZA PARTE
I MORTI FAMOSI.
· La sfiga.
Forlì, dopo un grave incidente divenne testimonial per la sicurezza stradale: muore in un secondo schianto. Pubblicato lunedì, 28 settembre 2020 da La Repubblica.it. Quasi due anni fa aveva avuto un brutto incidente stradale ma si era salvato: Andrea Saveri aveva quindi deciso di diventare testimonial per la sicurezza stradale nelle scuole, ma un nuovo schianto gli è stato fatale. È accaduto nel Forlivese a un ragazzo di 26 anni: sabato notte, riporta la stampa locale, ha perso il controllo della sua auto nel territorio di Meldola finendo contro un albero. Un impatto violento che non ha lasciato scampo al giovane. Ferita, ma non in pericolo di vita, la fidanzata di 19 anni che era accanto a lui. È stata la ragazza a chiamare i soccorsi ma a quanto risulta il compagno sarebbe morto sul colpo. Sul posto, con le forze dell'ordine e il personale sanitario, è giunto anche il padre, un ex agente delle volanti della questura di Forlì, in pensione da un anno. Andrea, riportano i quotidiani romagnoli, a gennaio 2019 aveva avuto un grave incidente. Con suo padre, pure sopravvissuto a un incidente diversi anni prima, in autostrada, era stato "testimone" davanti a 500 studenti a dicembre per la campagna dell'Ausl Romagna sulla sicurezza stradale.
Gianluca Veneziani per "Libero Quotidiano" il 14 luglio 2020. Siamo solo pedine nelle mani di un dio burlone, distratto, benigno o maligno, a seconda dei casi. Tasselli di un puzzle di cui fatichiamo a intravedere l'insieme, il disegno e il senso complessivo. Pezzi che possono essere tolti o mantenuti sulla plancia di gioco per puro accidente, in nome di un criterio imperscrutabile. Ce ne siamo accorti con evidenza durante l'emergenza Covid. Non c'era una logica oggettiva per cui si veniva contagiati o meno, si contraeva il virus in modo più o meno grave, si sopravviveva o si crepava. Il discrimine tra la salute e la malattia, il contagio e l'immunità, tra la vita e la morte spesso non era dettato dall'efficacia delle cure, dalla tempestività dell'intervento medico, dall'imprudenza o dall'avvedutezza personale, ma da un unico aspetto: la Fortuna. Dipendeva da una botta di culo il fatto di ritrovarsi tra i sommersi o i salvati. Le cronache recenti ci hanno raccontato episodi che hanno fatto incrinare ulteriormente la nostra convinzione in un piano razionale della realtà. Un camionista procede sulla strada facendo come ogni giorno il suo lavoro e si ritrova, per dannata coincidenza, la handbike di Alex Zanardi sotto il suo automezzo. Lui seguiva la sua corsia, non andava a velocità esagerata, non aveva bevuto, non si era distratto, guidava con prudenza. Eppure è stato, suo malgrado, "causa" di un incidente, forse fatale. E ancora: una donna si reca a un centro commerciale coi suoi figli. Dopo aver fatto la spesa, esce dal negozio e viene travolta, insieme ai bimbi, da un cornicione che li schiaccia uccidendoli. E che dire di quella donna in Alto Adige che fa un'escursione in montagna con marito e figli, prosegue in solitaria la camminata sul sentiero tracciato, senza azzardi, ma precipita in un fosso e muore? Domande senza risposte In questi casi fatichi a individuare i pilastri ai quali si affida chi crede nell'esistenza di un ordine logico. Non vedi la Libertà, l'arbitrio umano di scegliere e indirizzare la propria sorte; non vedi un Destino, una volontà divina che piega le cose in una direzione, possibilmente a fin di bene; né vedi la forza della Necessità, il meccanismo deterministico in base al quale le cose non fanno che obbedire a regole certe. No, appare solo l'imperversare del Caso, il dominio dell'Imponderabile, se non addirittura dell'Assurdo. E vedi soprattutto una profonda mancanza di senso. A noi esseri in cerca continuamente di risposte viene naturale chiedersi: Perché loro? Perché così? Chi ha voluto ciò? Un recente e interessante libro, I dadi giocano a Dio? del matematico Ian Stewart, edito da Einaudi (pp. 320, euro 29), dimostra che l'incertezza è la fibra stessa della realtà, non una falla in un sistema per il resto ordinato e razionale. Stewart ci ricorda che «l'universo è intrinsecamente imprevedibile» e che «l'incertezza non è solo un segno di ignoranza umana; è ciò di cui è fatto il mondo». Ciononostante l'uomo da sempre prova ad addomesticare questa imprevedibilità, a rendere comprensibile, gestibile il Caos, affidandosi a realtà garanti di Certezza. All'alba dei tempi furono le divinità e i tentativi di scrutarne le volontà sia per giustificare i fatti già accaduti («lo hanno voluto gli dèi»), sia per anticipare eventi futuri; quindi fu la volta della Scienza, con la sua pretesa di esattezza e il suo sforzo di convincerci che tutto il Reale è Razionale e che il Cosmo può essere ingabbiato entro leggi non solo prevedibili, ma eterne e sempre uguali a se stesse. Nel Novecento tuttavia abbiamo assistito alla crisi dei fondamenti e degli assoluti, al venir meno delle basi su cui si reggeva la realtà e della mèta ultima a cui essa aspirava (la morte di Dio): tutte le certezze si sono incrinate, la scienza stessa si è dimostrata inattendibile di fronte a un mondo di per sé imprevedibile. Questo è valso anche per il macrocosmo (le leggi dell'universo) e per il microcosmo, dominio per eccellenza dell'Irrazionale (vedi gli approdi della meccanica quantistica). Così l'uomo si è ritrovato sospeso sull'orlo del Nulla. Nondimeno, anziché rassegnarci all'Imponderabilità, abbiamo potenziato ulteriormente i sistemi di calcolo, investito in tecnologia e scienze "esatte", messo a punto strumenti avanzatissimi che possano decidere al posto nostro, e in modo certo, infallibile. Siamo così arrivati alla dittatura dell'Algoritmo, al mito dell'Intelligenza Artificiale, di cui ben racconta Renato de Rosa in un altro libro appena pubblicato, il romanzo Osvaldo, l'algoritmo di Dio (Carbonio, pp. 258, euro 16,50). Da qui una nuova domanda di senso: forse Dio coincide con l'algoritmo? Forse Dio non gioca a dadi, come diceva Einstein, ma sono i dadi che giocano a fare Dio? Stewart ci dice di no: anche gli strumenti più avanzati, anche i modelli informatici più all'avanguardia non fanno che affidarsi a un calcolo (sebbene raffinato) delle probabilità. A ipotesi verosimili, non a certezze. Ad esempio, durante la crisi del Covid, le previsioni, gli algoritmi che dovevano illuminarci sull'andamento epidemiologico si sono mostrati contraddittori e quasi sempre sbagliati. Il flusso degli eventi La tentazione facile, di fronte a questo scenario, sarebbe quella di cedere a un rassegnato fatalismo, a una disperata accettazione delle cose. Abbandonarsi al flusso degli eventi, come particelle impazzite. E insieme fare dell'Irresponsabilità il nostro dio, sapendo che nulla dipende da noi. Ma questa sarebbe un'abdicazione alla ragione stessa del nostro esseri umani. Viceversa, come argine alla disperazione, noi suggeriamo due metodi. Il primo è il principio del pessimismo della ragione e dell'ottimismo della volontà. Sappiamo di non poter gestire gli eventi, riconosciamo che l'Imponderabile può abbattersi da un momento all'altro sulle nostre vite, che non siamo in grado di regolare le leggi fisiche e metafisiche e gli imprevisti della Natura (vulcani, terremoti), della Finanza, della Malattia o della Guarigione. Ma, con la consapevolezza della nostra impotenza, ci tocca comunque mantenere un rigore etico, preservare la libertà di orientare le proprie scelte private e pubbliche in base a un criterio di valore. Ci resta questo, come elemento insopprimibile, forse l'unica sfera che non potrà essere soggetta al Caso. La volontà o meno di amare, di tenere o buttare via una vita, di scegliere ciò in cui credere, ciò che è da difendere e custodire è un ambito tutto umano, che riguarda la nostra coscienza e ci permette di non vivere come automi, ma come creature senzienti, pensanti e volenti.
Da "leggo.it" l'8 luglio 2020. Coronavirus, riuscì a salvarsi dal crollo delle torri gemelle di New York l'11 settembre 2001 ma ora il Covid19 non gli ha dato scampo: morto Stephen Cooper, l'uomo che venne immortalato in una delle foto simbolo del dramma dell'11 settembre 2001. Lui, allora, riuscì a scappare dal crollo di una delle torri gemelle del World Trade Center di New York, come documentano le immagini iconiche della Grande Mela colpita dall'attentato che ha sconvolto il mondo. Lui, all'estrema sinistra di quella foto, era in fuga da fumo e detriti mentre la torre sud si sgretolava a un isolato di distanza. Stephen Cooper è morto di Coronavirus, secondo la sua famiglia, come documanta The Palm Beach Post, che ha riferito che l'ingegnere elettrico di New York, che viveva in Florida, è morto al Delray Medical Center a causa del Covid19 all'età di 78 anni. La foto che lo ritrae mentre fugge dal crollo della torre fu scattata da un fotografo dell'Associated Press ed è custodita al 9/11 Memorial Museum di New York. tephen Cooper è morto di Coronavirus, secondo la sua famiglia, come documanta The Palm Beach Post, che ha riferito che l'ingegnere elettrico di New York, che viveva in Florida, è morto al Delray Medical Center a causa del Covid19 all'età di 78 anni. La foto che lo ritrae mentre fugge dal crollo della torre fu scattata da un fotografo dell'Associated Press ed è custodita al 9/11 Memorial Museum di New York.
Da leggo.it l'11 luglio 2020. Due uomini sono morti in un hotel a Marbella vicino a Malaga in Spagna dopo che uno di loro è caduto da un balcone sopra l'altro, che era su una terrazza sottostante a rilassarsi, come ha spiegato il servizio 112 Emergenze Andalusia. La località turistica è molto nota e frequentata da migliaia di turisti provenienti da tutta Europa. La tragedia, come riporta 20minutos.es, è avvenuta questa notte in via José Meliá a Marbella. Verso l'1: 45 del mattino, 112 hanno ricevuto diverse chiamate da cittadini che indicavano che un uomo era caduto da un balcone dell'hotel su una terrazza, schiacciando un altro uomo. Immediatamente avvisate la polizia locale, la polizia nazionale e le ambulanze, che hanno confermato la morte dei due uomini. La polizia nazionale ha avviato un'indagine. Fonti della polizia hanno precisato che l'uomo che è precipitato era di circa 50 anni e originario del Regno Unito e soggiornava nell'albergo in Spagna, mentre la persona su cui è caduto era un cliente spagnolo di 46 anni seduto sulla terrazza dello stabilimento. Tutti i soccorsi si sono rivelati inutili.
Giuseppe Giangrande, la terza vita dell'eroe: “Sono sopravvissuto all'attentato a Palazzo Chigi e ora al coronavirus”. Simona Pletto 21 marzo 2020 su Libero Quotidiano. «Anche questa volta l' ho sfangata. Ho superato pure il Coronavirus". Sfodera tutta l' ironia che gli è rimasta, come fosse un utile antidoto alla cattiva sorte, il maresciallo dei carabinieri Giuseppe Giangrande. Forse lo stesso che nel 2013 lo ha aiutato a superare il terribile attentato di cui è rimasto vittima. Quel 28 aprile era lì, in servizio con altri colleghi fuori da Palazzo Chigi, a piazza Colonna, nel centro di Roma. Era nel posto sbagliato al momento sbagliato. Sì perché quella mattina, giorno della cerimonia di giuramento al Quirinale del governo Letta, Luigi Preiti - condannato a 16 anni - sparò alcuni colpi contro i carabinieri. Giangrande rimase gravemente ferito, fino a perdere l' uso delle gambe. Una tragedia per lui, costretto a vivere su una sedia a rotelle, quando ancora cercava di superare il dolore della morte della moglie avvenuta pochi mesi prima. Accanto a lui, solo la figlia all' epoca 23enne. Ma, come ironizza il rappresentante dell' Arma insignito di vari riconoscimenti tra cui Cavaliere di Gran Croce dell' Ordine al Merito della Repubblica italiana e Medaglia d' oro al valor civile, «il cane morsica sempre lo straccione». Vista dalla sua, come dargli torto. Circa due settimane fa il militare è stato trovato positivo al virus. Un' altra sfida da superare per il 57enne di Monreale (Palermo), da anni residente a Prato.
TORNATO A CASA. Giangrande è appena rientrato a casa dopo 9 giorni di ricovero nel reparto di malattie infettive dell' ospedale Careggi di Firenze. È ancora positivo, ma spera di chiudere anche questo brutto momento quando si sottoporrà al prossimo tampone del 3 aprile. «È stata una esperienza pesantissima, a livello psicologico e fisico», racconta il maresciallo. «Non pensavo mai al mondo di essere positivo, anche perché non avevo né tosse né raffreddore. Niente. Poi all' improvviso mi sono trovato chiuso da solo in una stanza, dove come unico diversivo potevo vedere pochissime volte al giorno gli infermieri che entravano per le terapie. Nessun altro». Giangrande ne approfitta per lanciare un suo appello. «Credetemi, trovarsi isolato in un reparto di malattie infettive, senza neppure poter camminare, è una prova dura. Per me lo è stata. Quindi voglio dire a tutte le persone: state in casa, rispettate il decreto del ministro. Io ho accettato la mia condizione di paraplegico e non capisco come si fa a non accettare di non poter andare a fare jogging o in spiaggia o in palestra. A quelli che si credono furbi e non rispettano le regole per il coronavirus, dico solo che se si trovassero chiusi là dentro capirebbero e gli passerebbe la voglia di uscire». Il maresciallo, che fa vita piuttosto ritirata per via delle sue condizioni, non sa ancora oggi dove ha contratto il virus. «Non ne ho la più pallida idea. So solo che sono rimasto incredulo quando mi hanno detto che ero positivo. Ad ogni modo io uscivo in carrozzina e alcune mattine andavo anche a fare la fisioterapia», precisa. «Avevo la febbre alta, ma mi capita spesso per problemi alla vescica. Quindi pensavo a tutto tranne al Coronavirus». Poi svela: «Ho avuto paura, normale, ma sono stato ottimista perché non presentavo alcun problema respiratorio. Poi per fortuna mi hanno dimesso ed eccomi qui a casa».
«RISPETTATE LE REGOLE». iangrande vive a Prato con la figlia Martina, che a maggio compirà 30 anni. Trascorre le sue giornate al computer, legge e guarda in tv i canali dedicati alla storia oppure i film. «Per fortuna mia figlia, che ha già passato il suo periodo di quarantena, è negativa», sottolinea. «La cosa che più mi è pesata», aggiunge, «è stata quella di dover stare lontano da lei perché non potevamo vederci. Ora che sono tornato a casa è tutto finito, e si va avanti. Cerco di non pensare a com' ero prima di quel 28 aprile, vivo questa nuova vita in modo diverso e l' accetto. Non penso al futuro. La cosa che mi manca? Tutte le cose che avrei voluto fare con Martina, portarla in giro per il mondo. Ma questa è un' altra storia. Ora dobbiamo stare in casa tutti, rispettare le regole». Il sacrificio minore.
Alessandro Fulloni per "corriere.it" il 20 febbraio 2020. Un turista italiano di 32 anni è stato ucciso dalla caduta di massi a Petra, in Giordania, avvenuta in seguito di forti piogge. Lo rendono noto i media locali. Il giovane era in compagnia di altri tre connazionali. Le autorità che indagano sull’incidente hanno supervisionato le immagini a circuito chiuso nella zona ed è emerso che non erano presenti altre persone al momento dell’accaduto. L’edizione online di Libertà fornisce nome e cognome della vittima: si tratta di un ingegnere piacentino, Alessandro Ghisoni, in vacanza con la moglie Sonia e i cognati.
Colpito da masso caduto dall’alto. L’uomo sarebbe stato colpito in testa da un masso caduto dall’alto, staccatosi da una parete rocciosa a causa delle forti piogge. Ghisoni è stato soccorso da due medici che facevano parte della comitiva di escursionisti: inizialmente sembrava che potesse riprendere i sensi, ma il suo cuore ha smesso di battere sull’ambulanza che lo stava trasportando al più vicino ospedale. Le autorità locali stanno cercando di fare chiarezza sulla drammatica dinamica dell’accaduto. Ghisoni — scrivono ancora i colleghi di Libertà — lavorava alla Bolzoni di Casoni di Podenzano, dove era molto apprezzato non solamente per la sua preparazione professionale, ma anche per le doti umane.
Da "ilmessaggero.it" il 20 febbraio 2020. Da giorni non rispondeva alla fidanzata, i suoi amici non lo avevano più visto. Un’assenza sospetta che ha messo in allarme tutti, spingendo un vicino di casa a sfondare la sua porta di casa a Phra Nakhon Si Ayutthaya, in Thailandia. Il cadavere di Supakhet Saraboon, 35 anni, era disteso sul letto con ancora i pantaloncini e la maglietta indossata per giocare a calcetto lo scorso giovedì. A ucciderlo potrebbe essere stata una scarica elettrica: Supakhet, infatti, è stato trovato senza vita lunedì sera con le cuffiette alle orecchie, il filo arrotolato sul petto e attaccato a uno smartphone collegato a una prolunga. Giovedì sera era tornato da un allenamento di calcio e si era sdraiato sul letto. Dal quel momento di lui non si erano più avute notizie. La fidanzata aveva contattato Surawut Sukpanya, un vicino di casa 36enne, preoccupata perché Supakhet non rispondeva alle sue chiamate. Una circostanza che non faceva che alimentare la preoccupazione di Surawut, che da giorni chiamava l’amico per chiedergli di uscire senza ricevere alcuna risposta: «Non avevamo sue notizie da più di tre giorni, era insolito. La sua ex ragazza mi ha inviato un sms per vedere cosa stava succendo. Sono andata a casa sua, ma non mi ha risposto alla porta. Ero molto allarmato e insieme a un altro vicino siamo entrati in casa. Lo abbiamo trovato morto sul letto». Surawut ha contattato l’ambulanza, ma i medici non hanno potuto far altro che constatare il decesso: adesso solo l’autopsia potrà confermare la causa della morte, ma i dottori hanno pochi dubbi. «Non ci sono persone sospette coinvolti nella morte, quindi crediamo che sia un incidente causato dal cellulare - ha detto Surapong Thammapitak, capo della polizia di Phra Nakhon Si Ayutthaya - Le persone devono fare attenzione quando usano le cuffie e ricaricano il telefono allo stesso tempo». Non è il primo caso nel Paese legato all’uso di cuffie e telefoni in carica. Nel novembre dello scorso anno Somchai Singkhorn, un 40enne che lavorava come cuoco in un ristorante, è stato trovato morto con segni di bruciature sul braccio e sul collo: è morto fulminato dal suo telefono in carica. Lo scorso maggio un 22enne è morto in circostanze simili: lo hanno trovato sul letto mentre stringeva il cellulare in carica.
(ANSA-AFP il 16 gennaio 2020) - E' salito a tre il numero dei morti in seguito all'esplosione di ieri sera in uno stabilimento chimico a Tarragona, nel nord-est della Spagna. Uno dei dipendenti della fabbrica è deceduto oggi in ospedale in seguito alle gravi ustioni riportate. Centinaia di vigili del fuoco sono stati mobilitati tutta la notte per controllare l'incendio, che è iniziato martedì sera poco prima delle 19. La prima vittima è morta all'interno di un edificio in una città vicino al parco industriale, che è crollato a causa dell'onda d'urto provocata dall'esplosione. La seconda è morta in ospedale. Si contano anche sette feriti. L'emergenza sul luogo dell'esplosione è definitivamente rientrata questo pomeriggio. Il responsabile dell'azienda, i cui prodotti sono utilizzati per liquidi antigelo, deumidificatori, detergenti e cosmetici, ha reso noto che le cause dell'esplosione non sono ancora note.
Da Reuters il 16 gennaio 2020. - Un grosso pezzo di metallo è stato ''sparato'' dallo stabilimento chimico di Tarragona a due chilometri di distanza, colpendo un edificio in modo così forte da far crollare un piano intero addosso a un uomo che si trovava all'interno, uccidendolo.
Da hdblog.it il 16 gennaio 2020. È stata una giornata di scuola decisamente fuori dall'ordinario per gli alunni di alcuni istituti di Los Angeles, che nella mattinata di oggi, mentre si trovavano in cortile, sono stati "innaffiati" da una pioggia di carburante proveniente dal cielo. A scaricarlo è stato un Boeing 777-200, che si stava preparando ad effettuare un atterraggio di emergenza nell'aeroporto internazionale della città, a qualche chilometro dalle scuole. Il volo passeggeri della Delta Airlines in realtà era decollato proprio da lì per dirigersi in Cina, a Shanghai, ma a pochi minuti dalla partenza aveva riscontrato un problema al motore che l'aveva costretto a fare ritorno allo scalo di partenza. Dunque, iniziate le manovre di emergenza, il velivolo ha scaricato il carburante: un'azione consentita, in questi frangenti, per perdere peso; ma solo in aree designate e ad alta quota, come stabiliscono le regole dell'aviazione. Un passante ha immortalato la scena, caricando poi il video su Youtube. L'incidente ha coinvolto una sessantina di persone, tra cui una ventina di bambini di cinque scuole elementari e una scuola superiore, che hanno dovuto ricorrere alle cure mediche per irritazione alla pelle e problemi respiratori. I problemi tuttavia sono stati circoscritti e le scuole domani apriranno normalmente. La Federal Aviation Administration ha aperto un'indagine sull'accaduto.
· Le “Pulizie della Morte”.
Adelaide Pierucci per “il Messaggero” il 29 ottobre 2020. L' appunto con il giorno del furto. E poi il nome, la data di nascita e di morte delle defunte, tutte giovani e belle, di cui rubava le foto al cimitero. Il necrofilo che ha sottratto al Verano le ceneri di Elena Aubry nascondeva un diario sui furti proibiti. Un taccuino in cui annotava i dati delle tombe violate, riportando in maniera metodica l' elenco delle foto in ceramica strappate dalle lapidi, di giovani affascinanti e per lo più con aspetto vintage, che finivano allestite nella sua camera da letto trasformata in un camposanto privato.
LA COLLEZIONE. «Per me è come una droga, non riesco a frenarmi. Devo rubarle», ha poi spiegato. Chi indaga ha conteggiato 375 violazioni corrispondenti ad altrettante immagini, storie e cimeli. Compresa quella di Elena Aubry, la centaura dagli occhi grandi e dai capelli lunghi, morta a 26 anni a causa dell' asfalto dissestato sull' Ostiense. Il collezionista delle defunte, un quarantottenne di Casal Bertone, solitario e innamorato dei volti delle ragazze morte, con lei aveva fatto un passo avanti. Non si era limitato a ritagliarne la foto attaccata alla lapide, ma direttamente i resti facendo sprofondare la madre nella disperazione e costringendo i carabinieri, che li hanno recuperati il 26 maggio, a una indagine in salita e a tutto campo.
LA DATA. Ora con l' apertura del diario si scopre anche il giorno del furto delle ceneri di Elena. Il 4 marzo 2020, poco prima del lockdown. «4.3.20 Presa Elena Aubry. Nata 28.10.1992 Morta 6.5.2018», annota il necrofilo nel suo diario feticista. Il successivo aggiornamento è del 5 maggio 2020, dopo la riapertura del Verano, il giorno in cui Graziella Viviano, la madre di Elena, si accorge della sparizione delle ceneri della figlia. «Presa Licia Perla», morta nel 65 a trent' anni. E, stessa data, «Presa Alberta Mostacci, nata 14.5.1939 morta 22.9.1970, a 31 anni». L' elenco è lungo, lunghissimo, da brivido. Eppure il necrofilo indagato per violazione di sepolcro, vilipendio di tomba, sottrazione e occultamento di cadavere per le ceneri della motociclista, ma anche della ricettazione delle centinaia di foto di ragazze morte rubate al Verano, assistito dall' avvocato Daniele Bocciolini, potrebbe presto finire a processo.
LA PERIZIA. Dietro alla pulsione irrefrenabile, ha stabilito una perizia, nessuna malattia mentale. «Ogni tanto ho cambiato genere di sottrazione nel camposanto - ha deto l' indagato per giustificare il furto delle ceneri di Aubry - ma mi interessano le fotografie». Rubate con la massima accortezza. Per non essere notato, per eludere la sorveglianza, ha specificato ad Angelo Giannetti, lo psichiatra che lo ha esaminato, «sceglievo giorni e orari e portavo, come escamotage, cibo ai gatti tra le tombe». Le fotografie diventavano pegni per arricchire collezione. «Le più belle - ha sottolineato l' indagato - le tenevo esposte, con le cornici. Per me erano sacre. Altre le nascondevo per non farle vedere troppo». «Il mio assistito - ha dichiarato Bocciolini - risulta pienamente capace di intendere e di volere. Pertanto, sempre nel pieno rispetto delle famiglie dei defunti, sto cercando di approfondire i contorni di questa inquietante vicenda col mio assistito». Una ferita senza fine per Graziella Viviano, la mamma di Ellena. «Mia figlia, ieri, il 28 ottobre, avrebbe compiuto 28 anni. Abbiamo lanciato una lanterna verso il cielo». Quando, l' 11 luglio, ha riavuto i suoi resti, «l' ho riportata su una moto al mare, ma anche sul punto in cui è volata via. C' era un cantiere. Non è morta invano».
Fulvio Abbate per huffingtonpost.it il 31 ottobre 2020. Questa storia funerea e insieme, a suo modo, “d’amore” perturbante, sarebbe piaciuta, così crediamo, a chi, come Leonardo Sciascia, sentì il bisogno di indagare sullo “smemorato di Collegno”, Mario Bruneri, il tipografo (o era forse il professor Cannella?) che nel gelo di marzo del secolo trascorso venne scoperto a trafugare vasi funerari nel cimitero ebraico di Torino, fermato dai custodi mentre, furtivo, cercava di allontanarsi con il suo tetro “bottino”. Un racconto identitario e d’appropriazione indebita che travalica il semplice dato materiale, la medesima piccineria criminale. Nel nostro caso più recente, la notizia tratteggia, come nei fotokit, un quarantottenne ladro di foto-ceramiche, e perfino di ceneri, simulacri di ragazze morte “nel fiore degli anni”. Le cronache locali dei giornali, con vezzo quasi letterario, accennano a un “collezionista di morte”, precisando che l’uomo “schedava” ogni cosa sottratta, raggiungendo in questo modo il numero di 375 ragazze “conquistate”. Una collezione di immagini di fanciulle decedute, meglio, “rubate” al marmo delle tombe e delle cappelle, ogni dato anagrafico meticolosamente segnato nel diario ritrovato: date di nascita e di morte fissate con puntiglio da anagrafe mortuaria a proprio uso fantasmatico. Fra i “reperti”, le ceneri di Elena Aubry, morta il 6 maggio del 2018 lungo via Ostiense, a Roma, il manto stradale dissestato che fa perdere alla 26enne il controllo della moto. Lo scorso marzo dalla sua tomba era stata sottratta appunto l’urna. Lo scorso maggio, i carabinieri sono infine risaliti a un 48enne residente nella borgata romana di Casal Bertone, un luogo già di “Mamma Roma” di Pasolini. Tra le cose ritrovate: le ceneri e una foto di Elena accanto a oltre 375 immagini funerarie di giovani donne, tutte decedute. L’uomo, oltre a tenere traccia di tutto in un taccuino (il cronista precisa che “le icone trafugate erano di ragazze dall’aspetto vintage” sic) arredava la propria camera da letto “come una sorta di cappella privata votiva”. “Adoro ammirare i volti delle giovani donne morte. Dopo un po’, però, mi stufo, butto via le foto e vado a cercare altre immagini,” avrebbe ancora dichiarato. Su una pagina del “suo” registro si legge pure: “4.3.20 Presa Elena Aubry. Nata 28.10.1992 Morta 6.5.2018”. Il lockdown ne aveva interrotto l’attività fino alla riapertura del Verano. È infatti del 5 maggio scorso l’aggiornamento con le foto di “Licia Perla, morta nel 1965 a trent’anni, e quella di Alberta Mostacci, nata il 14.5.1939 e deceduta il 22.9.1970, a 31 anni”. Il nostro, giustificando il furto delle ceneri della 26enne, aveva spiegato che, pur preferendo le foto, ogni tanto, per sviare i sospetti, portava cibo ai gatti che popolano le tombe del Verano. “Le più belle le tenevo esposte, con le cornici. Per me erano sacre. Altre le nascondevo per non farle vedere troppo”. Nelle parole del suo legale, l’assistito risulta tuttavia “pienamente in grado di intendere e di volere”. Resta così da intravederlo a volo d’uccello nella distesa del cimitero monumentale del Verano, a scrutare “fornetti“, individuare nell’infinito catasto funebre visivo i volti delle ragazze da sottrarre, nel trapasso fotografico dal bianco e nero dei decenni trascorsi alle quadricromia dei decessi recenti, e qui la nostra storia, forse l’ho già detto, sembra incontrare soprattutto il capolavoro di Truffaut tratto da un racconto, “L’altare dei morti”, di Henry James, ossia “La camera verde”. Nella storia dell’uomo trafugatore cimiteriale di ragazze brilla infatti un ideale libro dell’amore mai compiuto, mai raggiunto, un diario sentimentale che sposa le vite altrui, come già l’immagine della maschera funeraria della “Sconosciuta della Senna”, che ebbe a affascinare anche Albert Camus. Nella vicenda del trafugamento delle foto sembra di rivedere, come già ne “La camera verde”, un ideale Pantheon di ciò che avrebbe potuto essere, di ciò che non è mai stato: impossessarsi delle esistenze postume delle sconosciute, e così idealmente sposarle, nella formalina del proprio tempo affettivo interiore; chissà se questa persona non abbia in questo modo virtualmente immaginato di portarle proprio tutte sull’altare, il proprio, l’altare della propria impotenza e solitudine, della propria incapacità di relazionarsi davvero con il femminile. Nel 2010, un uomo, allora quarantenne, sempre nel dominio mortuario del Verano, rubava già foto dalle tombe, dichiarando: “Cerco l’amore della vita”. Qualora si trattasse dello stesso individuo recidivo, dovremmo addirittura, perfino a dispetto dell’evidenza del reato reiterato, parlare di eterna “fedeltà”.
Le «pulizie della morte» per diventare grandi quando scompaiono i genitori. Pubblicato domenica, 26 gennaio 2020 su Corriere.it da Antonio Polito. Chiudere la casa di chi non c’è più, svuotarla di mobili e oggetti: un’esperienza che segna. Forse chi invecchia dovrebbe preparare il «lascito» (come fanno in Svezia) e risparmiare ai figli la fatica fisica e psicologica. O forse no. Chi ci è passato sa che è un’esperienza che segna: come spingere il tasto fast rewind e riavvolgere il nastro della tua vita. Chiudere la casa dei genitori che non ci sono più. Svuotarla dei mobili e degli oggetti. Scegliere quale tenere e quale no delle mille cose che hanno accompagnato le giornate della tua infanzia, i fermenti della tua adolescenza, e che avevi lasciato dietro di te quando te ne sei andato, pensando di non rivederle mai più. E invece ecco che riaffiorano dalle nebbie del passato, all’improvviso diradate dalla scomparsa dell’ultimo genitore. Che ci fanno ancora qui quelle collezioni di Rinascita dei primi anni Settanta, testimonianza di passioni politiche giovanili da tempo sopite, conservate per caso affianco a una copia di Valentina di Guido Crepax, memoria di altri e più duraturi interessi? E chi poteva immaginare che mio padre avesse raccolto, giorno per giorno, tutti i numeri del Riformista degli anni in cui l’ho diretto? Una racchetta da tennis di legno e corde di budello, come andavano ai tempi di Panatta, un 33 giri della Premiata Forneria Marconi, un eskimo verde e un loden blu. I miei genitori non avevano buttato niente. C’è invece una pratica in Svezia che ho sempre trovato molto civile e che chiamano dostadning: consiste nel «fare le pulizie della morte» prima del tempo, appena si va in pensione, per liberarsi del superfluo e scegliere l’essenziale, e così risparmiare ai figli, quando sarà il momento, la fatica fisica e psicologica che sto facendo io adesso. Si vede che i miei genitori non la conoscevano. Ma credo che in quel loro accumulare senza fine ci fosse qualcosa di più dell’ignoranza di stili di vita più sobri e nordici, e cioè un molto mediterraneo concetto di focolare, che attribuisce alla casa un valore diverso dalla sua semplice funzione abitativa. Quell’appartamento che noi figli stiamo ora vendendo è stato il primo e l’unico bene di loro proprietà, tre vani e servizi acquistati nel 1969 con un mutuo venticinquennale, salvadanaio di una vita da formiche, in cui il poco che c’era, non riesco ancora a capire come, diventava abbastanza per una esistenza di decoro borghese. In quella casa si sono accumulate non solo le cose, ma anche gli odori, i sapori e le speranze di una intera esistenza. Credo fosse per questo che mia madre non riusciva a disfarsi mai di niente; perché ogni cosa, fosse anche il più insulso dei soprammobili, era stata desiderata come il simbolo di una riuscita, del successo di un sogno di serenità domestica; mentre mio padre riservava la stessa ossessione da collezionista a libri scolastici, diplomi e attestati, onorificenze e memorie dei suoi e dei nostri corsi di studio e poi di lavoro. Mentre mi aggiro tra questi mobili coperti da lenzuoli bianchi, tra questi scatoloni destinati al rigattiere, selezionando le poche cose che terrò con me, rivedo perciò anche le mie idee. Forse farò così anch’io, niente pulizie della morte prima del tempo. Forse bisogna lasciare ai figli questo compito, quasi un rito di passaggio: si diventa davvero adulti solo quando si chiude la casa del padre.
· La Morte Libera.
La Spagna riconosce il «diritto a morire». Alessandro Fioroni su Il Dubbio il 20 dicembre 2020. Approvato in prima lettura alla Camera dei deputati un disegno di legge che consentirà l’eutanasia per i malati che sono gravati da patologie incurabili. «Un momento storico». È questa la definizione che quasi unanimemente è stata data in Spagna ad un atto che cambierà in maniera profonda la storia dei diritti civili nel paese iberico. Giovedì infatti è stata approvato in prima lettura alla Camera dei deputati un disegno di legge che di fatto consentirà l’eutanasia per i malati che sono gravati da patologie incurabili. L’approvazione definitiva dovrebbe avvenire nei primi giorni del prossimo anno al Senato e in molti vedono questo passaggio come una formalità vista la maggioranza governativa che ha promosso e portato avanti il provvedimento. Il disegno di legge è stato infatti presentato dal Partito Socialista guidato da Pedro Sanchez che è anche il primo ministro spagnolo, i voti a favore sono stati 198, contrari 138 e solo 2 le astensioni. Oltre al Psoe si sono espressi in maniera favorevole anche i partner di governo di Unidas Podemos ( coalizione di sinistra), Junts per Catalunya ( indipendentisti catalani di centrodestra), CUP ( indipendentisti catalani di sinistra), e Ciudadanos ( partito di destra liberale, all’opposizione). Hanno votato contro il Partito Popolare ( destra), Vox ( estrema destra) e l’Union del Pueblo Navarro ( partito di centrodestra della Navarra). Una maggioranza che va oltre gli schieramenti tradizionali. Il segno di un’adesione alla cultura liberale e il superamento, tranne qualche non trascurabile eccezione, dell’impianto cattolico che da sempre pervade il paese. Con la depenalizzazione dell’eutanasia è stato approvato «un diritto che ci rende più liberi», commenta in un’intervista al quotidiano El Pais la deputata socialista ex ministra della Salute, Maria Luisa Carcedo. La Spagna dunque andrà ad aggiungersi a Paesi Bassi, Belgio, Lussemburgo, Canada e Nuova Zelanda. Coloro che vogliono avvalersi dell’eutanasia dovranno percorre un lungo iter burocratico che prevede almeno 4 richieste allegate da numerosi referti medici che certifichino la propria malattia irreversibile. La richiesta dovrà essere esaminata e accolta da una commissione apposita, poi il paziente dovrà dare un’ultima volta il suo consenso. La legge prevede comunque il diritto all’obiezione di coscienza da parte del personale sanitario. Solo in fase ultima si potrà scegliere una struttura pubblica o privata dove porre fine alla propria vita volontariamente.
La Spagna ha una legge sull’eutanasia. Roberto Pellegrino il 21 dicembre 2020 su Il Giornale. Il Congreso di Madrid ha approvato con un voto storico la legge che rende possibile fare ricorso all’eutanasia per le persone chi è un malato terminale e incurabile. Il testo, presentato dal Partito socialista, è passato nella serata del 17 dicembre con 198 “sì”, 138 “no” e due astenuti. Oltre ai socialisti hanno votato a favore Unidas Podemos, Junts per Catalunya (indipendentisti catalani di centrodestra), CUP (indipendentisti catalani di estrema sinistra) e Ciudadanos (destra liberale, all’opposizione). Contrari il Partito Popolare (destra), Vox (estrema destra) e l’Union del Pueblo Navarro (partito di centrodestra della Navarra). Anche la Spagna, assieme ad atri sei Paesi al mondo, adotta una legge per disciplinare l’eutanasia. La legge ora dovrà passare al Senato per l’approvazione che, grazie alla maggioranza del PSOE, non avrà problemi per essere approvata: le nuove disposizioni saranno in vigore già all’inizio del 2021. La Spagna è dunque destinata a diventare il sesto Paese al mondo a legalizzare l’eutanasia, dopo Olanda, Belgio, Lussemburgo, Canada e Nuova Zelanda. La legge prevede che le persone affette da una patologia incurabile possano avere accesso all’eutanasia in ospedali pubblici, cliniche private o anche a casa propria, dopo aver chiesto fino a quattro volte di poter ricevere il suicidio assistito e previa presentazione della documentazione medica che certifica la loro condizione. La richiesta dovrà essere esaminata e accolta da un’apposita commissione, poi il paziente dovrà dare il suo consenso definitivo. Si prevede comunque il diritto all’obiezione di coscienza per il personale sanitario.
Da businessinsider.com il 15 ottobre 2020. Il governo olandese ha dato il via libera alla somministrazione di eutanasia per i bambini malati terminali di età compresa tra uno e 12 anni. La decisione arriva dopo mesi di intenso dibattito e prevede varie limitazioni, come quella di essere autorizzata da due medici e non da uno, e sarà somministrabile solo in caso di malattie gravi, incurabili, mortali ed estremamente dolorose. Il ministro della Salute del Paese, Hugo de Jonge, ha detto che è necessario un cambiamento nelle normative per aiutare “un piccolo gruppo di bambini malati terminali che soffrono senza speranza e sofferenze insopportabili”. Il governo stima che le nuove regole, eliminando la minaccia di procedimenti giudiziari da parte dei medici, interesseranno tra i cinque ei 10 bambini all’anno che non hanno alcuna speranza di miglioramento delle loro condizioni. L’Olanda non è il primo Paese a rendere legale questa pratica. Il Belgio lo ha fatto nel 2014 quando ha legiferato per consentire l’eutanasia nei casi in cui il giovane paziente era malato terminale e in forte dolore. Due bambini belgi di nove e 11 anni sono stati i primi a essere sottoposti a eutanasia nel 2016 e nel 2017.
Vaticano, no a eutanasia e suicidio assistito: "Sono crimini contro la vita umana". Pubblicato martedì, 22 settembre 2020 da Paolo Rodari su La Repubblica.it. Vaticano, no a eutanasia e suicidio assistito: "Sono crimini contro la vita umana". L'ex Sant'Uffizio stabilisce la dottrina sul tema come "insegnamento definitivo". La Chiesa si oppone all'accanimento terapeutico: "Procura solo un prolungamento precario e doloroso della vita". "La Chiesa ritiene di dover ribadire come insegnamento definitivo che l'eutanasia è un crimine contro la vita umana perché, con tale atto, l'uomo sceglie di causare direttamente la morte di un altro essere umano innocente". Ha il tono delle definitività la Lettera Samaritanus bonus della Congregazione vaticana per la Dottrina della fede. Dopo dibattiti accesi, negli ultimi mesi soprattutto in Italia, in merito, il Vaticano dice la sua ricordando come a suo avviso "coloro che approvano leggi sull'eutanasia e il suicidio assistito si rendono complici del grave peccato che altri eseguiranno". E ancora: "Costoro sono altresì colpevoli di scandalo perché tali leggi contribuiscono a deformare la coscienza, anche dei fedeli". L'eutanasia, spiega ancora l'ex Sant'Uffizio, "è un atto intrinsecamente malvagio, in qualsiasi occasione o circostanza". "Tale dottrina è fondata sulla legge naturale e sulla Parola di Dio scritta, è trasmessa dalla Tradizione della Chiesa ed insegnata dal Magistero ordinario e universale" e "qualsiasi cooperazione formale o materiale immediata a un tale atto è un peccato grave contro la vita umana". "Dunque, l'eutanasia è un atto omicida che nessun fine può legittimare e che non tollera alcuna forma di complicità o collaborazione, attiva o passiva". Per la Santa Sede "una persona che sceglie con piena libertà di togliersi la vita rompe la sua relazione con Dio e con gli altri e nega se stessa come soggetto morale. Il suicidio assistito ne aumenta la gravità, in quanto rende partecipe un altro della propria disperazione, inducendolo a non indirizzare la volontà verso il mistero di Dio", e "di conseguenza a non riconoscere il vero valore della vita e a rompere l'alleanza che costituisce la famiglia umana". Per questo "aiutare il suicida è un'indebita collaborazione a un atto illecito". "Tali pratiche non sono mai un autentico aiuto al malato, ma un aiuto a morire", spiega l'ex Sant'Uffizio, e "si tratta, dunque, di una scelta sempre sbagliata". "È per questo che l'eutanasia e il suicidio assistito sono una sconfitta di chi li teorizza, di chi li decide e di chi li pratica". La Chiesa ribadisce di stare dalla parte di coloro che favoriscono il diritto a morire "nella maggiore serenità possibile e con la dignità umana e cristiana che le è dovuta". Per questo, "tutelare la dignità del morire significa escludere sia l'anticipazione della morte sia il dilazionarla con il cosiddetto “accanimento terapeutico”. La medicina odierna dispone, infatti, di mezzi in grado di ritardare artificialmente la morte, senza che il paziente riceva in taluni casi un reale beneficio". Nel caso specifico dell'accanimento terapeutico, prosegue il documento, "va ribadito che la rinuncia a mezzi straordinari e/o sproporzionati “non equivale al suicidio o all'eutanasia; esprime piuttosto l'accettazione della condizione umana di fronte alla morte” o la scelta ponderata di evitare la messa in opera di un dispositivo medico sproporzionato ai risultati che si potrebbero sperare". "La rinuncia a tali trattamenti, che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, può anche voler dire il rispetto della volontà del morente, espressa nelle cosiddette dichiarazioni anticipate di trattamento, escludendo però ogni atto di natura eutanasica o suicidaria".
Filippo Facci per Libero Quotidiano il 23 settembre 2020. Gli italiani non leggono - dicono - però secondo il Vaticano dovrebbero leggere l'intera lettera «Samaritanus bonus» a cura della «Congregazione per la Dottrina della Fede sulla cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita» (complimenti al titolista) e tutto per sapere come dovrebbero e dobbiamo morire: 105mila battute infinite (con traduzione in inglese, spagnolo e portoghese) comprese 99 note modernissime che comprendono il Concilio di Trento del 1545; parliamo di uno scritto presentato ieri in una triste conferenza stampa che dovrebbe dare un «orientamento» e farci risapere che l'eutanasia è un crimine, e che, invece, non lo sono le cure palliative e l'obiezione di coscienza. Traduzione nostra: il Vaticano finge d'ignorare che certe cure palliative in pratica sono già un'eutanasia (perché ti addormentano e ti tengono addormentato sinché sei morto) mentre lo Stato italiano finge d'ignorare che l'obiezione di coscienza di cui parla il Vaticano dovrebbe esserlo, un crimine: perché significa che i medici cattolici impallinati rifiutano la legge italiana qualora a loro dire legittimi «sotto qualsiasi forma di assistenza medica, l'eutanasia o il suicidio assistito». C'è una cosa da fare, testuale: «Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini». In Iran, forse. E dove sia un un dio a pagargli lo stipendio. Non è abbastanza chiaro? Allora ecco: «Non esiste il diritto al suicidio né quello all'eutanasia anche quando l'eutanasia fosse richiesta in piena coscienza dal soggetto interessato». È sempre un estratto della «Samaritanus bonus». Chissà che cosa ne penserebbe Sergio Zavoli, morto nell'agosto scorso e autore del poco ricordato «Il dolore inutile» (Garzanti 2005), o chissà che cosa ne penserebbe anche l'oncologo Umberto Veronesi, morto nel 2016 e autore di ben due testi, «Il diritto di morire. La libertà del laico di fronte alla sofferenza» (Mondadori 2005) e «Il diritto di non soffrire» (Mondadori 2012). E chissà che cosa ne pensate voi, perché no, forse non occorre attendere un rapporto Censis per sapere che la maggior parte degli italiani (sani di mente) si ritiene padrona della propria vita o perlomeno titolata a morire - scusate - come stracazzo vuole. Né ci vuole un genio della politica per sapere che molte posizioni «bioetiche» della maggioranza degli italiani, pur attenendo ai diritti individuali, non vengono mai trasformate in legge perché la classe politica che non vuole inimicarsi il Vaticano, come se il Vaticano contasse ancora qualcosa. Così, da un numero insopportabile di anni, finisce che in materia, a legiferare, è indirettamente la magistratura (o la Corte Costituzionale, se fa differenza) come di recente è accaduto con il caso di Cappato e il suicidio assistito, ma come accadde a partire dal caso di Eluana Englaro e in molti altri casi: poi dicono l'invadenza della magistratura. Eh sì, è davvero un peccato che perlomeno una parte d'Italia si sia laicizzata, modernizzzata, e che gli ospedali non siano più come erano nell'era pre-San Raffaele, quando a gestirli era culturalmente la Chiesa e non erano intesi come centri di ricerca e di studio, di previdenza, di assistenza sociale, quando c'erano le cliniche dei baroni che si portavano appresso i malati (ricchi) come dei pacchi, in mano quasi sempre a religiosi accomodanti, oppure, ecco, per il resto erano lazzaretti, casermoni con camerate e file di cinquanta letti, lugubri cronicari con le suore e la cultura del dolore e della penitenza (Sergio Zavoli, appunto, ne ha fatto bellissime inchieste) e insomma: altro che diritti del malato, altro che rispetto sacrale dell'infermo e altre sciocchezze che un laico-religioso come Don Luigi Verzè, da noi, immaginò per primo ottenendone lo scandalo e l'ostracismo di tutte le curie. Si facciano i loro ospedali, le loro cliniche, le loro farmacie e le loro leggi, i cattolici impallinati nonché leggitori integrali della «Samaritanus bonus», che da sola è già una penitenza. In questi ultimi anni la scienza del dolore ha compiuto notevoli progressi (anche se la morfina è disponibile solo dal 2009, dopo iter infernali) e sono stati messi a punto nuovi farmaci che però vengono centellinati sempre in omaggio a una vetusta cultura che quella no, non muore mai. All'estero fanno sempre una gran fatica a capire perché in Italia si affronta con tanta parsimonia la sofferenza dei malati: non capiscono perché esista e resista una «cultura del dolore» che pesca nel torbido e nella labilità dei confini tra le cure di fine vita (lasciar morire) e il suicidio assistito (aiutare a morire) e l'eutanasia (provocare il morire). Solo quando si finisce in ospedale (cioè troppo tardi) ci si accorge che forse qualcosa si poteva fare, legiferare, regolare: come per anni hanno chiesto una parte della società civile, i medici, tutti i livelli della Magistratura, la Corte Costituzionale, il Consiglio superiore di sanità, persino qualche politico nonché l'ex capo dello Stato Giorgio Napolitano, oltre ai soliti e benedetti Radicali. E intanto la società e i medici stessi, da anni e per anni, se la cavano segretamente da soli: altro che «Samaritanus bonus». Da una vita si inseguono i casi di Terri Schiavo, Giovanni Nuvoli, Piergiorgio Welby, Eluana Englaro, dj Fabo, mentre gli anni passano e le leggi non arrivano, sicché la società e i medici stessi, nell'attesa, sono costretti a cavarsela segretamente da soli. L'eutanasia c'è già, manca solo la legge. Si fa, ma non si dice: è il nostro Paese.
La polemica sul Samaritanus bonus. Samaritanus bonus, quel documento Vaticano senza misericordia. Tommaso D'Aquino jr su Il Riformista il 25 Settembre 2020. La Congregazione per la Dottrina della Fede fa il suo mestiere: emana documenti vincolanti dove ribadisce cosa i cattolici possono o non possono fare. Come è accaduto martedì con la Lettera “Samaritanus Bonus”, in cui in sostanza ribadisce diversi divieti: no all’eutanasia, niente sacramenti e via l’assistenza spirituale nel momento letale finale (si tratti di eutanasia o suicidio assistito). Certo si riconosce che dietro tali scelte c’è una “disperazione” esistenziale che deriva da condizioni di dolore fisico o sofferenza psichica. Ma la condanna è netta, compresi i legislatori: «L’eutanasia è un atto omicida che nessun fine può legittimare e che non tollera alcuna forma di complicità o collaborazione, attiva o passiva. Coloro che approvano leggi sull’eutanasia e il suicidio assistito si rendono, pertanto, complici del grave peccato che altri eseguiranno. Costoro sono altresì colpevoli di scandalo perché tali leggi contribuiscono a deformare la coscienza, anche dei fedeli». La Congregazione fa il suo mestiere. Ma lo fa bene? Possiamo discuterne a partire dal titolo della Lettera: “Samaritanus Bonus”. Veramente nel Vangelo di Luca (10, 29-37) si parla di un “Samaritano”, cioè un uomo proveniente da una regione nota per essere abitata da idolatri. La scelta di una figura positiva è un modo che usa Gesù per invitare ad andare oltre le apparenze e le facili etichette. E fin qui tutto chiaro. Resta da dire che “buon” non c’è nel Vangelo; l’aggettivo è un’aggiunta posteriore, una connotazione morale della retorica che guarda alla forma e dimentica la sostanza. Come nel caso di questa Lettera. La retorica usata ci dice che la Chiesa è compassionevole, aiuta, sta vicino, è misericordiosa. Però il sacerdote esce dalla stanza dove si praticherà eutanasia o suicidio assistito perché altrimenti sarebbe colpevole di “collaborazionismo”. E i funerali in chiesa vanno negati (ci ricorda qualcosa?) sempre. Non sembra molto compassionevole. Poi troviamo alcune affermazioni da rimarcare: «In alcuni Paesi del mondo, decine di migliaia di persone sono già morte per eutanasia, molte delle quali perché lamentavano sofferenze psicologiche o depressione. E frequenti sono gli abusi denunciati dagli stessi medici per la soppressione della vita di persone che mai avrebbero desiderato per sé l’applicazione dell’eutanasia. La domanda di morte, infatti, in molti casi è un sintomo stesso della malattia, aggravato dall’isolamento e dallo sconforto. La Chiesa vede in queste difficoltà un’occasione per la purificazione spirituale, che approfondisce la speranza, affinché divenga veramente teologale, focalizzata in Dio, e solo in Dio». Sarebbero state utili la statistica e la metodologia (discipline si sa, molto scomode…) perché “decine di migliaia” non significa niente e se non c’è una fonte affidabile cui appoggiarsi e citare, allora è solo una frase ad effetto. Conta niente – direbbe Giovanni XXIII (ricordate il “discorso alla luna”? «… La mia persona conta niente, è un fratello che parla a voi…»). Bontà della Congregazione riconoscere la presenza di sofferenze psicologiche e depressione, aggravate da isolamento e sconforto. E che fare? Invece di utilizzare gli strumenti della psicologia (del profondo, relazionale, clinica), si fa prima a consigliare la criptica strada della “purificazione spirituale”. In realtà la lettura del testo solleva diverse questioni importanti.
Primo: il linguaggio è normativo, cioè assolutamente non misericordioso. Secondo: che deve fare lo Stato? Si stigmatizzano le legislazioni che aprono alla possibilità di praticare eutanasia e/o suicidio assistito. Si dimentica che lo Stato legifera per credenti e non credenti perché grazie al cielo l’Occidente non è un insieme di ordinamenti confessionali (non più da secoli…). Lo riconosce addirittura il Concilio Vaticano II: «Le modalità concrete con le quali la comunità politica organizza le proprie strutture e l’equilibrio dei pubblici poteri possono variare, secondo l’indole dei diversi popoli e il cammino della storia; ma sempre devono mirare alla formazione di un uomo educato, pacifico e benevolo verso tutti, per il vantaggio di tutta la famiglia umana» (Gaudium et Spes, par. 74). Si dimentica quanti pochi siano i casi in questione (visto che “decine di migliaia” non ha una fonte) dove la legge interviene in maniera rigorosa per definire e circoscrivere le situazioni. L’applicazione è all’interno di limitazioni, controlli, protocolli, dopo aver esperito tutte le strade possibili per evitare di farne ricorso. Certo è una questione che sfugge ai più: i casi di cronaca diventano eclatanti e fanno rumore. Ma si tratta di situazioni estremamente particolari. Certamente abusi possono sempre essere possibili però appunto la legislazione cerca di evitarli ed i protocolli medico-sanitari e le direttive delle associazioni professionali hanno lo scopo di arginare le deviazioni. Dimenticarlo, come fa il documento vaticano, vuol dire “cavalcare” un’ondata di protesta ideologica: formalmente invoca il rispetto della vita (ma solo qui e contro l’aborto, poi si muore sparati a migliaia e va bene!) e manca clamorosamente il doveroso dialogo con scienziati e laici. Che avrebbe evitato di confondere la sedazione palliativa profonda con la «terapia analgesica che usa farmaci che possono causare la soppressione della coscienza». Ignoranza, è il caso di dirlo e tutto l’impianto crolla un bel po’. Nel documento vaticano non si parla dei Comitati di bioetica, che sono nati proprio per dirimere le questioni controverse e le situazioni più difficili. Proprio lo sviluppo della medicina e delle tecnologie hanno portato all’allungamento della durata della vita e alla nascita di molte questioni: rianimare e tenere in vita oggi è possibile molto più di trenta o quaranta anni fa. Ma dopo? Chi si occupa di questi pazienti? E quale è la loro “qualità” della vita? E se non hanno lasciato direttive anticipate, ognuno può trasformarsi in un campo di battaglia tra opposte visioni. Lo abbiamo visto nei casi Englaro, Lambert e pochi altri. Pochi, appunto; hanno diviso la società e non hanno fatto bene ad un sereno dibattito. Altri aspetti problematici del documento vaticano? Collegare le Cure Palliative alla “assistenza medica alla morte” è un grave errore. Accade nel Nord-America (Canada, Usa) in alcune situazioni ma i protocolli internazionali e la definizione internazionale di Cure Palliative non lasciano spazio ad equivoci. Abbiamo di fronte un documento “occidentale” che si riferisce a quanto accade nei paesi del nord benestante del mondo dove tutto si tiene e giustifica in nome della “qualità della vita” in versione individuale. La Lettera lo dice così: «La vita viene considerata degna solo se ha un livello accettabile di qualità, secondo il giudizio del soggetto stesso o di terzi, in ordine alla presenza-assenza di determinate funzioni psichiche o fisiche, o spesso identificata anche con la sola presenza di un disagio psicologico. Secondo questo approccio, quando la qualità della vita appare povera, essa non merita di essere proseguita. Così, però, non si riconosce più che la vita umana ha un valore in se stessa». E allora in nome di questa impostazione, nei paesi poveri cosa dovrebbe accadere? Eutanasia a go-go? Ma no, si tace del tutto sulla disparità terribile sull’accesso alle cure, il che vanifica l’intento del documento stesso: non posso difendere la dignità della vita umana se ho in mente solo un pezzo di mondo, largamente minoritario. Ed eccomi alla tematica di fondo. Siamo sicuri che la visione teologica della Lettera sia l’unica possibile? Il dilemma è serio. Tommaso D’Aquino sottolineava che la legge non è una causa, ma una guida per l’azione di esseri consapevoli e responsabili. Le ragioni per agire (la presenza di Dio, cosa dice la Chiesa ecc.) devono essere introiettate per governare le nostre azioni. L’interiorizzazione porta alla valorizzazione della coscienza personale. E la radice della libertà si trova nella ragione che l’uomo possiede. Ed allora se una persona ha ponderato una scelta, ha effettuato una valutazione di sé, della qualità della vita, delle sue condizioni e possibilità, valutando il futuro che lo attende; e se sa che la scelta da attuare – anche terminare in anticipo la propria esistenza – non danneggia altri, rispetta la coscienza del prossimo (cfr. Catechismo, par. 1789), allora dove sarebbe il problema? Il documento su questo tace. Non ammette che un’altra via è possibile, in situazioni particolari e limitate. Non lo dice perché considera la sofferenza un valore in se stesso, mentre non lo è. La sofferenza, per la Chiesa, è sempre una prova che viene da Dio. Prima la Chiesa cattolica abbandonerà ideologie masochiste, meglio sarà per un dibattito davvero libero da preconcetti e precondizionamenti, speculando nel frattempo sulle condizioni di vita di tanti, pretendendo di dire loro cosa devono o non devono fare. E intanto soffrire.
«Scegliere di morire non è bello, ma per alcuni diventa necessità». Simona Musco su Il Dubbio il 23 settembre 2020. Fine vita, parla Mario Riccio, il medico anestesista che assistette Piergiorgio Welby. «La Chiesa è un’agenzia etica e ha il pieno diritto di esprimere il proprio punto di vista su questi argomenti. Ma deve farlo in maniera logica, avendo rispetto delle leggi di un Paese». A parlare è Mario Riccio, il medico che nel 2006 accettò di interrompere la terapia sanitaria alla quale era sottoposto Piergiorgio Welby, procedendo al distacco della ventilazione, e oggi consigliere dell’associazione Luca Coscioni.
Dottore, cosa ne pensa delle parole del Vaticano?
«Credo che si stia tornando sul principio del “sicario”, come fummo apostrofati noi medici per quanto riguarda l’aborto. E questo mi offende: è un’affermazione ai limiti della querela. Qui si fa confusione tra peccato e reato. L’eutanasia o il suicidio assistito sono un peccato per l’agenzia etica che il Papa rappresenta. Viene tirata in ballo la legge naturale, ma si tratta di un concetto giuridico molto discusso: non si sa se esiste o meno. E così si fa commistione tra teologia e giurisprudenza. Esistono molte morali, ma la legge naturale non esiste».
In un passaggio viene sottolineato che chi compie un atto eutanasico o il suicidio assistito non è soggetto morale…
«È grave, perché soggetto morale è chiunque possa esprimere una propria visione della vita. È una grave offesa anche all’intelligenza. La Chiesa, in questo caso, è solo un soggetto che ha una morale diversa. E poi si parla di atto illecito, ma non è così, come dimostra il fatto che in diversi Stati tale pratica è legge. È solo un atto che, dal punto di vista del Papa, è immorale. Con queste affermazioni, in pratica, si sta affermando che tutti i giudici della Consulta, che hanno definito lecito il suicidio assistito entro certi parametri, non sono soggetti morali».
Crede che il messaggio sia rivolto al legislatore?
«È chiaro: il Vaticano ha già fatto questo gioco con la storia dell’aborto, chiamandoci sicari, appunto, e sostenendo che la donna che decide di ricorrervi non osserva un proprio diritto ma chiede ad un altro di uccidere suo figlio. È un atteggiamento poco rispettoso: io sono un medico che applica una legge e ho il diritto di non essere offeso. Ma qui si va oltre: mi si priva addirittura della coscienza perché applico una legge dello Stato. Non è accettabile questo piano di discussione. Il Papa può continuare ad affermare la propria contrarietà, è un punto di vista rispettabilissimo, ma non può dire che si tratta di un atto illecito. Non è suo compito. Ma la Chiesa ha sempre giocato saltando da un campo all’altro.
La lettera, secondo lei, può influire sull’approvazione di una legge che da tempo è inspiegabilmente ferma?
«È evidente: in Italia è riconosciuta un’unica autorità morale, il Papa, che piace tantissimo a tutti. Si dice sia leader del centrosinistra italiano e a me questo fa sorridere, perché vuol dire che la sinistra è davvero ridotta male se deve trovare la propria leadership in un Papa. Il dibattito è molto interessante, ma va chiarito che è un suo punto di vista. Non si può confondere peccato e reato».
Però arriva anche il no all’accanimento terapeutico. È una buona notizia?
«Non esiste un concetto di accanimento terapeutico, perché è soggettivo, e infatti non esiste altrove, lo si usa solo in Italia. Per alcuni rimanere attaccati ad un ventilatore è accanimento, per altri no. Penso a Welby: per lui era diventato insopportabile. Io sono stato suo medico e ricordo che la Chiesa gli chiuse le porte in faccia, negandogli i funerali, proprio perché assimilò la rinuncia alla terapia all’eutanasia. Quindi mi sembra un’ipocrisia. Quello che emerge, dunque, è il relativismo etico, che riguarda anche la Chiesa: come si comprende, certi concetti si modificano nel tempo e ora riconosce che la rinuncia a terapie a trattamenti ad oltranza, in certe condizioni, è lecita».
Quindi pensa che in futuro possa rivalutare le proprie posizioni?
«Guardi, i valdesi, che sono cristiani ma non cattolici, con molti limiti hanno aperto al suicidio assistito e dell’eutanasia. Quando parliamo di Vaticano parliamo di Chiesa cattolica, ma va detto che il mondo cristiano ha già manifestato la sua disponibilità alla morte medicalmente assistito. I protestanti del nord Europa, ad esempio, hanno già accettato, con molti limiti e condizioni, questa possibilità».
Secondo lei perché questo monito arriva proprio ora?
«Teoricamente Stato e Chiesa non si influenzano, ma praticamente sì. Questa lettera arriva due settimane dopo l’annuncio del capogruppo il deputato del M5s Giorgio Trizzino, medico palliativista, che ha confermato la calendarizzazione del ddl entro ottobre, dopo una sintesi di due anni di audizioni. Ma sarà una coincidenza. La lettera rappresenta una sorta di anatema per chi promuove queste leggi, le osserva o partecipa in maniera attiva. Beh, è evidente che è una fatwa».
Nella lettera viene ribadita la necessità di prevedere l’obiezione di coscienza, esortando il medico a farla valere.
«Sono favorevolissimo all’obiezione di coscienza, perché capisco che c’è un problema morale estremamente delicato. In tutte le legislazioni che hanno riconosciuto la morte clinicamente assistita tale diritto è stato riconosciuto. E per me ciò vale anche per l’aborto. Ma per favore, non mi si chiami più sicario».
Il Parlamento ha disatteso due volte le sollecitazioni della Consulta. Crede che si perderà ancora tempo?
«Anche la sentenza per la morte di Davide Trentini ha ribadito quanto detto dalla Consulta in due occasioni. Le indagini demoscopiche dimostrano che oltre il 90% delle persone è favorevole al suicidio assistito. Se il Parlamento dovesse continuare a temporeggiare allora sarebbe l’ennesima prova di una politica scollata dalla volontà popolare e che chi sta in Parlamento vive in un mondo diverso rispetto a chi lo ha votato. Il politico non è chiamato ad esprimere il proprio parere, nel campo dei diritti civili è chiamato a riconoscere le richieste che vengono dalla cittadinanza. Poi sta al popolo scegliere se usufruire o meno di uno strumento previsto dalla legge. Non c’è l’obbligo al divorzio o all’aborto. E scegliere di morire non è bello, ma per alcuni diventa una necessità».
Il documento "Samaritanus bonus". Eutanasia, così il Vaticano nega i diritti del malato. Marco Cappato su Il Riformista il 24 Settembre 2020. Con la lettera Samaritanus bonus la Congregazione Vaticana per la dottrina della fede fornisce, con l’approvazione del Papa, un contributo alla violazione delle leggi dello Stato italiano e alla negazione del diritto all’autodeterminazione dei malati. La Santa Sede afferma che l’eutanasia è un crimine contro la vita umana, ed arriva a definire “complici” non solo coloro che aiutano i malati a interrompere la propria vita, ma anche i Parlamentari che approvano leggi sull’eutanasia e il suicidio assistito. Con il consenso del Papa, l’ex Sant’Uffizio arriva a spaventare i malati terminali, sostenendo che «una persona che si sia registrata in un’associazione per ricevere l’eutanasia deve mostrare il proposito di annullare tale iscrizione prima di ricevere i sacramenti». La lettera Samaritanus bonus rappresenta un atto di sfida esplicito e frontale contro le sentenze della Corte costituzionale che hanno legalizzato in Italia il suicidio assistito in determinate condizioni e che hanno per due volte richiamato il Parlamento a intervenire per legiferare. Con le loro parole, la Congregazione e il Papa, favoriscono l’aggravarsi delle azioni – quelle sì criminali – che sono concretamente perpetrate ai danni di malati terminali costretti a scegliere tra la violenza di una condizione di sofferenza nella quale non vorrebbero vivere e i rischi dell’eutanasia clandestina. Contro tale crimine, con Mina Welby e Gustavo Fraticelli continuiamo l’azione di disobbedienza civile, come abbiamo fatto con le oltre 1.000 persone – cattolici e non – che si sono rivolte a noi finora per ottenere aiuto a morire. Il XVII Congresso dell’Associazione Luca Coscioni, che si apre online venerdì 25 settembre alle 17.30, discuterà le nuove iniziative da assumere per aiutare i cittadini italiani ad accedere all’aiuto alla morte volontaria seguendo le indicazioni della Corte costituzionale e per richiamare il Parlamento alle proprie responsabilità. Ma quando parliamo di aiuto, di che aiuto stiamo parlando? «Mi chiamo Chiara (nome di fantasia, ndr) ho 55 anni e sono una malata oncologica dal 2012. Purtroppo nel 2018 mi è stato diagnosticato un secondo tumore, un melanoma molto aggressivo. Tre settimane fa mi è stato detto che non ci sono più terapie utilizzabili e che mi restano solo le terapie del dolore e le cure palliative. Conscia della situazione in cui mi trovo, e che per sfortunate circostanze ho dovuto vivere precedentemente come parente, e amica di malati oncologici, vi scrivo questa mail per avere informazioni relative a come poter riuscire a gestire in maniera serena ed indipendente la mia morte». Questo è solo uno dei tanti messaggi che abbiamo ricevuto dall’inizio della disobbedienza civile con la quale aiutiamo le persone ad accedere all’aiuto alla morte volontaria, chiedendo che finalmente il Parlamento discuta la proposta di legge di iniziativa popolare per l’eutanasia legale presentata nel settembre 2013 e firmata da oltre 136.000 italiani. Nel frattempo, tante cose sono cambiate. La scossa data da vicende come quelle di Piergiorgio Welby, Beppino Englaro, Fabiano Antoniani, Davide Trentini hanno portato il Parlamento ad approvare la legge sull’interruzione delle terapie e il testamento biologico, e far muovere la giurisprudenza nel senso di un più ampio riconoscimento del diritto all’autodeterminazione. Ammalarsi fa parte della vita. Come guarire, morire, nascere, invecchiare, amare. Le buone leggi servono alla vita: per impedire che siano altri a decidere per noi. Chi chiede l’eutanasia o il suicidio assistito vuole solo morire con dignità, essere libero di scegliere, dall’inizio alla fine della propria vita. Si tratta solo di riconoscere un diritto umano. Le decisioni di fine vita sono decisioni personalissime e, in quanto tali, devono essere prese con la massima libertà dalla persona per sé stessa. In Italia, la Costituzione riconosce che nessuno può essere obbligato ad alcun trattamento sanitario contro la propria volontà e prevede altresì che la libertà personale è inviolabile. «Mi chiamo Davide, ho 52 anni – scriveva nell’aprile 2017, pochi giorni prima di morire – sono malato di sclerosi multipla dal 1993. […] Le ho provate proprio tutte. Ora da 1.92 sono diventato uno sgorbio con le gambe lunghe, gobbo fino quasi in terra, ma SOPRATTUTTO dolori lancinanti e insopportabili h24. Non ce la faccio proprio più senza nessuna prospettiva, ogni giorno sto sicuramente peggio del giorno prima, e dopo una lunghissima riflessione ho deciso di andare in Svizzera per il suicidio assistito (…). Spero tanto che l’Italia diventi un paese più civile, facendo finalmente una legge che permetta di porre fine a sofferenze enormi, senza fine, senza rimedio, a casa propria, vicino ai propri cari, senza dover andare all’estero, con tutte le difficoltà del caso, senza spese eccessive. (…) Tra poco partirò per la mia tanto sognata “vacanza”!!! Evviva». Davide non aveva i soldi per andare in Svizzera. Ma è tollerabile che il diritto a scegliere di morire senza soffrire dipenda dai soldi o dalla “tecnica” attraverso la quale una persona è tenuta in vita? Il Vaticano e il Papa non credono che tale diritto debba essere riconosciuto in nessun caso. Lo Stato italiano ha fatto dei passi avanti grazie alla Consulta. Noi però crediamo che il diritto alla libertà di scelta debba dipendere dalla valutazione che ciascun malato terminale può fare su quanto ritenga tollerabile la propria sofferenza ed accettabile la qualità della propria vita.
Elisabetta Reguitti per articolo21.org il 9 settembre 2020. Il requisito dei “trattamenti di sostegno vitale” “non significa necessariamente ed esclusivamente dipendenza “da una macchina”. E’ quanto scrive la Corte di Assise di Massa, nelle motivazioni della sentenza che ha portato, lo scorso 27 luglio, all’assoluzione di Marco Cappato e Mina Welby dal reato di istigazione e aiuto al suicidio di Davide Trentini. Con un elemento determinante in più emerso dalla consulenza tecnica del dott. Mario Riccio specialista in anestesia e rianimazione tra i reparti dell’ospedale di Cremona e la sede di Casalmaggiore. E’ lo stesso Riccio – per Articolo21 – a spiegare come la sentenza Trentini abbia chiarito che per “forme di sostegno vitale – cioè l’espressione usata della Corte Costituzionale nel giudicare il caso DJFabo – non si deve intendere solamente le terapie più complesse o raffinate”. Tanto per chiarire: “ L’equivoco dipende dal fatto che l’opinione pubblica in questi anni ha sempre fatto riferimento ai casi storici quali Welby ( ventilazione meccanica ), Englaro ( nutrizione artificiale ), DJFabo ( entrambe ). Oppure – aggiunge Riccio – possiamo fare riferimento ai Testimoni di Geova e al rifiuto delle trasfusioni di sangue che può portare a morte. Siamo cioè portati a pensare che le uniche terapie salvavita siano quelle la cui interruzione portano a morte o in pochi minuti come nel caso di ventilazione o giorni senza nutrizione artificiale e sangue. La sentenza Trentini – conclude lo specialista – fa comprendere invece che la sospensione di molte terapie, pur non causando una morte immediata, può ugualmente determinare il lento e progressivo, talora anche doloroso, decadimento del soggetto fino alla morte”. Nelle motivazioni quindi è specificato come requisito “sia da intendersi qualsiasi tipo di trattamento sanitario, sia esso realizzato con terapie farmaceutiche o con l’assistenza di personale medico o paramedico o con l’ausilio di macchinari medici. Compresi nutrizione e idratazione artificiali”. Piena assoluzione perché “sussistono tutti i requisiti della scriminante configurata dalla sentenza 242 del 2019, incluso quello della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale”, il commento di Filomena Gallo legale segretario dell’Associazione Luca Coscioni, avvocato e coordinatrice nel collegio difensivo di Welby e Cappato. “La decisione – rincara inoltre la legale – aggiunge l’elemento prioritario che il trattamento di sostegno vitale è e “deve intendersi qualsiasi trattamento sanitario interrompendo il quale si verificherebbe la morte del malato anche in maniera non rapida”. Questa – ricorda – era infatti la situazione di Trentini, “sottoposto a una serie di trattamenti sanitari la cui interruzione avrebbe certamente portato al decesso, ma non nell’immediato”. Di seguito alcuni dei principali passaggi della sentenza appena depositata:
– una decisione che è pienamente conforme alla sentenza della Corte Costituzionale 242/2019, che ha creato una nuova causa di giustificazione in presenza della quale l’agevolazione del suicidio non è punibile (cfr. sent. pag. 24).
– “la dipendenza dai trattamenti di sostegno vitale” non significa necessariamente ed esclusivamente dipendenza da una macchina” “(…): il trattamento di sostegno vitale infatti, da intendersi, come emerge dalla sentenza n. 242 del 2019, in base alla legge n. 219 del 2017, si realizza con tutti quei “trattamenti in assenza dei quali si innesca quel processo di indebolimento delle funzioni organiche il cui esito – non necessariamente rapido – è la morte”.
– trattamento di sostegno vitale “deve intendersi qualsiasi trattamento sanitario interrompendo il quale si verificherebbe la morte del malato anche in maniera non rapida (…)
Suicidio assistito, assolti Cappato e Welby per la morte di Davide Trentini. Le Iene News il 27 luglio 2020. “Il fatto non sussiste”. Il tribunale di Massa ha assolto Marco Cappato e Mina Welby che erano accusati di istigazione e aiuto al suicidio del 53enne Davide Trentini, andato a morire in Svizzera. Con Giulio Golia vi abbiamo raccontato in onda la sua storia commovente in giugno. “Assolti perché il fatto non sussiste”. È questa la sentenza del Tribunale di Massa per Marco Cappato e Mina Welby, che erano accusati di istigazione e aiuto al suicidio di Davide Trentini, 53enne che ha scelto di porre fine alle sofferenze causate dalla sclerosi multipla andando a morire in Svizzera tre anni fa come vi abbiamo raccontato in onda in giugno con Giulio Golia nel servizio che vedete qui sopra. “La sentenza di oggi, nell'indifferenza del Parlamento, fa compiere un altro passo avanti verso un più ampio riconoscimento del diritto ad essere aiutati a morire”, hanno dichiarato Marco Cappato e Mina Welby. “La nostra azione di disobbedienza civile proseguirà fino a quando il Parlamento non avrà deciso sulla legge di iniziativa popolare per l'eutanasia legale che attende da 7 anni”. “Io sono serena”, aveva detto prima di entrare in aula Mina Welby questa mattina. “La scorsa notte ho pensato alla mamma di Davide Trentini, la mia battaglia è per lei”. Il pm Marco Mansi aveva chiesto una condanna a 3 anni e 4 mesi per Welby e Cappato: “Chiedo la condanna, ma con tutte le attenuanti generiche e ai minimi di legge. Il reato di aiuto al suicidio sussiste, ma credo ai loro nobili intenti. È stato compiuto un atto nell'interesse di Davide Trentini, a cui mancano i presupposti che lo rendano lecito. Colpevoli sì ma meritevoli di alcune attenuanti che in coscienza non mi sento di negare". Con Giulio Golia vi abbiamo raccontato la storia di Davide e le sue ultime ore prima di morire. Marco Cappato e Mina Welby sono stati al suo fianco lottando per un fine vita davvero per tutti. “Mi chiamo Davide e sono qui in Svizzera per porre fine a tutti i miei dolori”. Questo suo messaggio è stato registrato la sera del 12 aprile 2017. La mattina dopo Davide Trentini, 53 anni, è morto lontano dalla sua città e dalla sua famiglia. Da 24 anni viveva con la sclerosi multipla: “Spero che anche un domani l’Italia che dice di essere un paese civile permetta ai malati come me di non fare un viaggio come ho fatto io che non riesco neanche più a muovermi”. Davide ha registrato un video poche ore prima di morire per documentare i suoi ultimi momenti, così che tutti potessimo capire la sua sofferenza. “Spero che presto i nostri politici si diano una regolata”, dice nel video. “Mi ha accompagnato qui Mina, la moglie di Piergiorgio Welby”, dice Davide nel suo messaggio registrato in Svizzera. Lei gli è stata accanto fino all’ultimo momento, mentre Marco Cappato ha aiutato a raccogliere i soldi per poter partire. Cappato si è poi è autodenunciato ai carabinieri portando al processo che si è concluso oggi.
Davide un anno prima del suo ultimo viaggio contatta Cappato via email. Conosce Mina Welby e insieme cercano una soluzione per lui perché il problema è anche economico. “Io non riesco a fare autonomamente niente. Neanche allacciarmi una scarpa, passo tutto il giorno a fare le stesse cose: in bagno, a fumare thc oppure sdraiato”, raccontava Davide. “Ho solamente dolori e basta, senza nessuna speranza di guarire. Sono sempre più frequenti e forti”. Quando finalmente viene fissata la data viene raggiunto da Mina Welby che ha seguito la battaglia per il diritto a morire del marito Piergiorgio. Insieme hanno fatto l’ultimo viaggio di Davide da Massa Carrara con destinazione Basilea.
Elisabetta Reguitti per articolo21.org il 31 luglio 2020. Nell’ultimo anno di vita il signor Davide Trentini era dipendente anche dalla funzione meccanica manuale evacuativa delle feci, in assenza della quale si sarebbe verosimilmente giunti ad un quadro occlusivo meccanico”. Prosegue il testo: “Il quadro clinico del signor Davide Trentini – nei suoi ultimi anni di vita – era particolarmente deteriorato e compromesso dalla malattia”. Termina con queste considerazioni la perizia medica stilata dal dott. Mario Riccio incaricato dai difensori di Marco Cappato e Mina Welby nel procedimento giudiziario sulla scelta di fine vita di Davide Trentini. Viene peraltro dettagliato come Trentini dipendesse “da due principali forme di sostegno vitale: farmacologico e meccanico. L’interruzione della terapia farmacologica in atto avrebbe infatti comportato sia uno scompenso cardio-circolatorio che un aggravamento della sintomatologia invalidante ed algica”. Pertanto “l’insieme del decadimento delle due componenti ne avrebbe notevolmente compromesso la sopravvivenza”. A chi, all’indomani della sentenza di assoluzione dei due imputati, si è schierato tra i “pro e i contro” denunciando addirittura come la Corte di assise di Massa “avesse addirittura travalicato i confini della sentenza emessa a settembre 2019 dalla Corte costituzionale” Riccio prima risponde: “Aspetto di leggere il dispositivo dei giudici ma ad oggi è ben chiaro il fatto di come non sia più necessario essere attaccati ad una macchina per poter esprimere la propria autodeterminazione in termini di scelta di fine vita”. Poi spiega come i giudici di Massa, anzi, si siano attenuti scrupolosamente ai quattro punti della consulta (patologia irreversibile, la propria volontà, sofferenze fisiche-psicologiche non tollerabili e capacità di prendere decisioni in modo autonomo). Abbiano cioè intenso nella maniera più completa ed estensiva quanto deciso dalla Corte costituzionale che peraltro non si era mai limitata ad indicare solo determinati trattamenti. Il medico poi ribadisce quanto già messo nero su bianco l’8 luglio scorso nella sua perizia in cui si leggono passaggi che con ogni probabilità sono stati determinanti per i togati che dopo soli 45 minuti di camera di Consiglio hanno stabilito la totale assoluzione per Welby e Cappato nel processo per la morte del 53enne affetto da Sla deceduto il 13 luglio 2017 in una clinica Svizzera. I primi sintomi della grave patologia – con la relativa diagnosi – avevano iniziato a manifestarsi nel 1993. “Il signor Davide Trentini era seguito da vari centri e negli anni eseguiva con scrupolo la terapia assegnatagli. Dalla documentazione fornitami e dai colloqui avuti con la madre risulta però che la condizione clinica si era notevolmente deteriorata negli ultimi anni. I dolori generalizzati erano divenuti di difficile controllo farmacologico, così come gli spasmi muscolari e le continue scosse, nonostante assumesse una importante terapia antispastica e antidolorifica che andremo ad esaminare più avanti nel dettaglio. A questo si aggiunga che il signor Davide Trentini aveva sviluppato negli anni un grave stato ipertensivo che lo rendeva dipendente da un farmaco antipertensivo (Carvedilolo) che viene utilizzato come prima scelta per prevenire scompensi cardiaci secondari ad un regime pressorio elevato. “Per il controllo del dolore e degli spasmi già assumeva –come dalla documentazione agli atti– la terapia che riassumo nel seguente schema (in grassetto il nome commerciale, in corsivo il nome della molecola) con una breve spiegazione dell’indicazione terapeutica:
Sativex= cannabinoide (cannabis ) serve a ridurre il dolore e la spasticità muscolare secondaria alla malattia;
Lioresal= baclofen in associazione al cannabinoide riduce la contrattura/spasticità della muscolatura secondaria alla malattia. L’insieme dei due farmaci (sativex+ lioresal) permette pertanto la mobilità del paziente che si traduce in maggiore autonomia, riduce inoltre il rischio di insufficienza respiratoria ed allontana il rischio della necessità di un supporto ventilatorio;
Lyrica= pregabalin serve anch’esso a ridurre il dolore dei nervi periferici tipici della patologia. Svolge inoltre una funzione di ansiolitico.
Nonostante tale regime terapeutico, il signor Davide Trentini nell’ultimo anno dovette ricorrere alle cure specifiche di un terapista del dolore, il dr. Vincenzo Mondello al tempo Responsabile della Struttura Semplice di Terapia del Dolore ed Hospice di Carrara. Stante l’ulteriore peggioramento delle condizioni cliniche ed in particolare della componente dolorifica, questi aggiunse alla terapia anche il farmaco Fentanil –analgesico oppioide di sintesi che rilascia un composto cento volte più potente della morfina- per via trans dermica, ovverossia in cerotto. Tale informazione –come i successivi elementi descrittivi clinico, evolutivi– pur non presente nella documentazione agli atti mi è stata fornita appunto dalla madre durante i nostri colloqui telefonici, come specificato in premessa. Nell’aprile del 2016 il signor Davide Trentini cade – evento tipico della patologia -, fratturandosi alcune coste. Il dr. Mondello decide quindi per un breve ricovero presso il proprio reparto Hospice. Alle dimissioni domiciliari il Trentini è sostanzialmente costretto a letto, in particolare gli viene fornito un letto di tipo ortopedico ospedaliero che gli permette di svolgere alcune funzioni nel corso della giornata. Ma i dolori lamentati dal signor Davide Trentini sono tali che il dr. Mondello è costretto ad incrementare il dosaggio dei cerotti di Fentanil fino ad una sostituzione quasi giornaliera degli stessi, invece che settimanale o al massimo bisettimanale come prassi terapeutica ordinaria. In occasione di una visita domiciliare la madre riferisce che –a fronte della persistente condizione di sofferenza del figlio– il dr. Mondello deve necessariamente spiegare al signor Davide Trentini che un ulteriore incremento del dosaggio avrebbe comportato l’arresto respiratorio e la morte quale conseguenza di un overdose del farmaco”. Mario Riccio è specialista in anestesia e rianimazioni all’ospedale di Cremona e alla Sua sede decentrata di Casalmaggiore. È reduce dal post Covid, che a Cremona ha colpito duro, accetta di parlare perché dice di “aver letto troppe semplificazioni sulla vicenda”. Ha accettato di parlare anche perché il suo auspicio personale, prima ancora che come medico è che “ora chi deciderà di legiferare – con Decreto come taluni giuristi addirittura chiedono o in via parlamentare – sia in grado di superare anche il concetto che la richiesta di morte medicalmente assistita sia subordinata ad un trattamento terapeutico”. Ciò che insomma aveva caratterizzato i casi Englaro, Welby e Dj Fabo non riguardava Trentini. Riccio di avvale addirittura dell’articolo 3 della Costituzione (tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge…) per spiegare ancora meglio: “Sulla base del concetto di autodeterminazione delle persona non può sussistere differenza tra rimane in vita grazie a supporti meccanici rispetto a chi lo è grazie a cure farmacologiche o azioni meccaniche anche manuali”. Nel caso di Davide infatti si legge come: “Trentini presentasse anche un ulteriore grave sintomo clinico legato alla sua specifica patologia. La progressiva paralisi della muscolatura intestinale rende sempre più difficile l’evacuazione delle feci (stipsi cronica). Negli ultimi anni la defecazione risultava sempre più difficoltosa. Nell’ultimo anno era necessario sottoporlo a regolari evacuazioni manuali per prevenire la formazioni di fecalomi e la conseguente occlusione intestinale meccanica. Il fecaloma è il risultato della persistenza delle feci nel tratto finale dell’apparato digerente (colon-retto). Le feci si compattano raggiungendo una consistenza tenace, inoltre la permanenza delle stesse nell’intestino favorisce il riassorbimento della componente idrica del fecaloma che lo rende ancor più duro e quindi ulteriormente difficile da essere espulso. Pertanto, è necessaria la evacuazione manuale. Se non si provvede manualmente – negli stati avanzati della patologia non trovano utilità alcuna gli ordinari farmaci lassativi o i semplici clisteri – il quadro evolve in una condizione di occlusione intestinale meccanica. L’intestino si gonfia fino a provocare due conseguenze letali: prima l’ischemia intestinale – dovuta alla pressione del fecaloma stesso sulle pareti – ed infine la conseguente rottura da scoppio del colon anche favorita dalla mancata fuoriuscita dei gas intestinali. Senza dimenticare la componente tossico – metabolica che consiste nell’inevitabile riassorbimento nell’organismo delle sostanze di rifiuto contenute nelle feci che stazionano nell’intestino, ad esempio – tra i vari fenomeni osservabili – la traslocazione batterica che può determinare una grave sepsi generalizzata. Sia l’ischemia intestinale che – ancor di più – la perforazione intestinale sono condizioni ovviamente incompatibili con la sopravvivenza”. Il dottor Riccio ribadisce quello che ritiene un concetto fondante e di civiltà: “Una legge sul fine vita rispetto ad un paziente affetto da una patologia degenerativa inguaribile che gli procura sofferenze fisiche o psicologiche dovrà superare il concetto che si debba dimostrare di quale sostegno vitale faccia utilizzo. Se la propria vita è un bene disponibile deve essere l’individuo a deciderne. Mi auguro che il legislatore tenga conto di tutto ciò”. I togati di Massa durante l’udienza hanno respinto la richiesta di rinvio – chiesta da pm Marco Mansi – del processo ai sensi dell’articolo 507 del codice di procedura penale per ammissione di nuove prove; nello specifico “di una nuova consulenza d’ufficio, o l’acquisizione di nuove testimonianze”. I giudici hanno impiegato oltre 2 ore a decidere di respingere la richiesta della Procura di rinvio. Quegli stessi giudici hanno impiegato 45 minuti per dichiarare l’assoluzione “perchè il fatto non costituisce reato” dall’accusa di aiuto al suicidio per la morte di Davide Trentini.
Eurispes: il 59,5% degli italiani dice "Sì" ai matrimoni gay. Ma solo il 42% è a favore delle adozioni. Pubblicato venerdì, 17 luglio 2020 da La Repubblica.it. L'eutanasia. Intanto continua a crescere in Italia il "partito" dei pro eutanasia, la cosiddetta "buona morte" consistente nella somministrazione diretta di un farmaco letale al paziente: ben il 75,2% degli italiani si è espresso favorevolmente rispetto a tale pratica, attestando un forte incremento del consenso negli ultimi cinque anni (i favorevoli erano il 55,2% nel 2015). Nel 2020, con 6 punti percentuali in più rispetto al 2019, il 73,8% dei cittadini si dichiara favorevole al testamento biologico, quella norma che permette di redigere anticipatamente un documento con valore legale nel quale viene stabilito a quali esami, scelte terapeutiche o singoli trattamenti sanitari dare o non dare il proprio consenso nel caso di una futura incapacità a decidere o a comunicare. Il suicidio assistito, invece (ovvero l'aiuto indiretto a morire da parte di un medico), trova gli italiani in maggioranza contrari (il 54,6% contro il 45,4% dei favorevoli). Ma i contrari nel 2016 arrivavano al 70,1%.
EUTANASIA - MORIRE CON DIGNITÀ - TRE ITALIANI SU QUATTRO SONO FAVOREVOLI ALL'EUTANASIA. Gabriele Martini per “la Stampa” il 17 luglio 2020. Tre italiani su quattro sono favorevoli all'eutanasia. E' quanto emerge da un'indagine Eurispes, che fotografa lo scollamento tra il paese reale e l'immobilismo della politica sul fine vita. La «buona morte» - consistente nella somministrazione diretta di un farmaco letale al paziente - è una pratica ancora oggi illegale in Italia. Tuttavia ben il 75,2% degli intervistati si è espresso favorevolmente, attestando una forte ascesa del consenso negli ultimi cinque anni (la percentuale era del 55,2% di favorevoli nel 2015). La sensibilità degli italiani riguardo al tema sembra confermare un cambiamento degli orientamenti che si sta facendo strada nel nostro Paese, in linea con la posizione di altri Stati europei. Basti pensare alla svolta della Francia, dove l'eutanasia a domicilio sarà alla portata di tutti mediante la somministrazione di sedativi - ad opera degli stessi medici di base - che inducono il paziente in uno stato di sonno catatonico finché la morte non sopraggiunge. I numeri parlano chiaro e raccontano l'erosione di tabù culturali che per anni hanno caratterizzato la nostra società. Nel 2020, con sei punti percentuali in più rispetto al 2019, il 73,8% dei cittadini intervistati si dice favorevole al testamento biologico, vale a dire quella norma che permette di redigere anticipatamente un documento con valore legale nel quale viene stabilito a quali esami, scelte terapeutiche o singoli trattamenti sanitari dare o non dare il proprio consenso nel caso di una futura incapacità a decidere o a comunicare. E anche sul suicido assistito, sebbene la maggioranza degli italiani rimanga contraria, si registra una sempre maggior apertura. «Che i cittadini italiani siano più aperti del ceto politico sui temi delle libertà civili non è una novità», commenta Marco Cappato. Che mette in guardia: «Ciò che accade su eutanasia e fine vita dovrebbe però destare particolare allarme per la condizione di marginalità nella quale versa il Parlamento italiano». «È facile ipotizzare che in un prossimo futuro si moltiplicheranno i casi nei quali la medicina sarà in grado di rinviare il momento estremo del malato terminale. Di conseguenza è importante, per il bene della società e il rispetto dei valori che ne sono alla base, trovare quanto prima una posizione normativa che possa soddisfare le diverse istanze», spiega Gian Maria Fara, presidente Eurispes. Ma la classe politica italiana continua a eludere il problema. L'ultimatum della Corte Costituzionale rivolto al Parlamento nella vicenda di Dj Fabo è caduto nel vuoto. Nell'ottobre 2018 la Consulta invitò i partiti ad approvare una nuova legge, cosa che puntualmente non è accaduta. E così ora la parola torna ai giudici. Il 27 luglio sarà il Tribunale di Massa, nel silenzio della politica, a decidere se ampliare ulteriormente il diritto al suicidio assistito. La vicenda è quella di Davide Trentini, malato di sclerosi multipla, che nell'aprile del 2017 decise di metter fine a quelle che lui stesso definiva «insopportabili sofferenze». La differenza con il caso di Dj Fabo è cruciale: il 53enne toscano non era tenuto in vita da macchinari. Sul banco degli imputati siedono Marco Cappato e Mina Welby, che accompagnarono Trentini a morire in una clinica svizzera. Rischiano fino 12 anni di carcere. In rete esiste un video che immortala Trentini sdraiato su un letto poche ore prima di morire. Spiega la sua scelta, guarda dritto in camera mentre si contorce dal dolore: «Auguro a tutti tanta serenità. E adesso, buonanotte ». Poi accenna a un sorriso.
Germania, depenalizzato il suicidio assistito anche per chi non è malato terminale. La Corte costituzionale tedesca ha decretato come incostituzionale una legge del 2015 che vieta il suicidio assistito "organizzato" da parte di medici o associazioni. Tonia Mastrobuoni il 26 febbraio 2020 su La Repubblica. E’ una sentenza mozzafiato. Che riconosce a ognuno la libertà piena di decidere come morire. La Corte costituzionale tedesca ha depenalizzato il suicidio assistito. E il diritto a togliersi la vita riconosciuto dai giudici di Karlsruhe include la possibilità di farsi aiutare da terzi. Soprattutto: chi vuole morire, potrà farlo in ogni fase della vita, e non soltanto in presenza di una malattia incurabile. Andreas Vossruhle, presidente dei guardiani del Grundgesetz, ha precisato che “possiamo rammaricarci che qualcuno prenda una decisione del genere, possiamo fare qualsiasi cosa per fargli cambiare idea, ma in ultima analisi dobbiamo accettare la sua decisione”. La sentenza risponde al ricorso di alcuni medici e pazienti contro il paragrafo 217 del diritto penale che nel 2015 aveva introdotto il divieto al suicidio assistito. La Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionale la norma perché limita il diritto di decidere come morire. Un diritto che deve includere, questo il verdetto epocale dei giudici, anche la possibilità di togliersi la vita. Vosskuhle ha specificato che il legislatore potrà introdurre misure per prevenire il suicidio, ma che dovrà accettare il fatto che senza la possibilità di un aiuto esterno, il diritto al suicidio sarebbe limitato. D’altra parte, i giudici precisano che è un diritto e non un obbligo: dunque, nessun medico mai potrà essere costretto ad aiutare qualcuno a morire. "La Repubblica si batterà sempre in difesa della libertà di informazione, per i suoi lettori e per tutti coloro che hanno a cuore i principi della democrazia e della convivenza civile".
Francesco De Remigis per “il Giornale”l'11 febbraio 2020. Fine vita a domicilio? In Francia si può e d' ora in poi sarà più facile. L' autorità nazionale per la salute (Has) ha infatti stabilito che la prescrizione di midazolam - il farmaco che provoca sedazione profonda e continua fino alla morte (SPCJD) - sarà meno macchinosa per i medici di base. I pazienti, in buona sostanza, potranno accedere al trattamento anche al di fuori degli ospedali. Eutanasia? Suicidio assistito? O una soluzione parziale ancora da verificare sul campo? «Non si tratta di provocare la morte (in casa, ndr), ma di mantenere la sedazione fino a quando il decorso naturale della malattia non porta al decesso», spiega il dottor Pierre Gabach, a capo del dipartimento di buone pratiche professionali dell' HAS, che ieri si è pronunciato dopo quattro anni di dibattito. Azione delicatissima: perché una dose eccessiva iniettata immediatamente può causare la morte. Al contrario, se il paziente mostra segni di miglioramento, è possibile tornare indietro interrompendo l' iniezione, chiarisce l' Alta autorità francese. Pubblicate ieri, le nuove raccomandazioni sul fine vita «in casa», ne facilitano evidentemente la prescrizione. Un balzo in avanti nella pratica, dopo l' acceso scontro in Francia sui recenti casi finiti in tribunale. Quello del tetraplegico Vincent Lambert, per esempio. Al di là dell' aspetto tecnico o di coscienza, l' Has dà la possibilità al medico di base di prescrivere midazolam, evitando passaggi che oggi ne limitano il ricorso al di fuori di ospedali o cliniche. «Dormire profondamente fino alla morte è un nuovo diritto», esulta il deputato Jean Leonetti, insieme ad Alain Claeys autore delle modifiche legislative sulla sedazione profonda votate nel 2016 dall' Assemblea nazionale. Finora, infatti, il medico non aveva accesso diretto al prodotto. Ora sarà a sua discrezione dopo consulto con colleghi e con la famiglia del malato. Le nuove raccomandazioni guidano quindi verso l' implementazione del diritto ad «andarsene» senza soffrire: l' alterazione profonda e continua della coscienza fino al decesso è già un diritto Oltralpe, ma ora si potrà ottenere dalla propria stanza. Di cosa si tratta? Un' iniezione che può far addormentare fino a tagliare i legami col mondo esterno. Se inefficace, possono essere utilizzati due antipsicotici: clorpromazina e levomepromazina. Già consentito dalla legge Claeys-Leonetti del febbraio 2016, il trattamento non aveva ancora un quadro preciso. Quattro anni dopo, ecco le procedure per l' attuazione, una sorta di guida. D' altronde i pazienti in fine vita nelle proprie case sono rari ma non eccezionali. E c' è chi teme casi di sedazione fai-da-te. «Immaginate un uomo che soffre di metastasi ossee o cancro alla prostata terribilmente doloroso. È sotto morfina in dosi che a volte fanno spaventare anche i farmacisti», esemplifica il medico generico Pierre-Louis Druais. La decisione di ieri mette i medici di base nelle condizioni di ottenere più facilmente questi farmaci, senza passare cioè dall' ospedale. L' Autorità nazionale francese per la salute (HAS) ricorda che la scelta di avviare il trattamento dev' essere "collegiale". Resta da sapere quale sarà la risposta del ministero della Salute. La legge consente già ai maggiorenni di registrare le direttive sul fine vita e sul rifiuto dell' accanimento terapeutico. Cosa succederà domani? Il 96% dei francesi si era già espresso a favore della sedazione quando a chiederla è il paziente. Il consenso scende all’88% se praticata su decisione del medico qualora il malato non possa esprimere volontà.
Fine vita: la storia di Davide Trentini morto solo in Svizzera. Le Iene News il 16 giugno 2020. Davide Trentini, 53 anni, è uno dei tanti italiani che è morto in Svizzera lontano dal suo Paese e dalla sua famiglia. Dal 1993 viveva con la sclerosi multipla che l’ha costretto a letto con dolori lancinanti e continui. Giulio Golia racconta la sua storia con Marco Cappato e Mina Welby che sono stati al suo fianco lottando per un fine vita davvero per tutti. “Mi chiamo Davide e sono qui in Svizzera per porre fine a tutti i miei dolori”. Questo messaggio è stato registrato la sera del 12 aprile 2017. La mattina dopo Davide Trentini, 53 anni, è morto lontano dalla sua città e dalla sua famiglia. Da 24 anni viveva con la sclerosi multipla. “Ho provato di tutto, niente è riuscito a far niente”, spiega Davide nel suo ultimo, commovente, video registrato poche ore prima di morire. L’ha fatto perché tutti noi potessimo capire e soprattutto per i parlamentari che da troppo tempo rimandano la discussione che riguarda la vita e la morte di centinaia di persone. Davide ha fatto documentare i suoi ultimi momenti e la sua battaglia con al suo fianco Marco Cappato e Mina Welby.
Fine vita: la battaglia di Davide Trentini e la morte in Svizzera. Le Iene News il 16 giugno 2020. Davide Trentini ha scelto di porre fine alle sofferenze causate dalla sclerosi multipla andando a morire in Svizzera. In un video ci racconta le sue ultime ore di vita. Giulio Golia ha parlato con Marco Cappato e Mina Welby che sono stati al suo fianco lottando per un fine vita davvero per tutti. “Mi chiamo Davide e sono qui in Svizzera per porre fine a tutti i miei dolori”. Questo messaggio è stato registrato la sera del 12 aprile 2017. La mattina dopo Davide Trentini, 53 anni, è morto lontano dalla sua città e dalla sua famiglia. Da 24 anni viveva con la sclerosi multipla. “Spero che anche un domani l’Italia che dice di essere un Paese civile permetta ai malati come me di non fare un viaggio come ho fatto io che non riesco neanche più a muovermi”, dice Davide. Ha registrato un videomessaggio poche ore prima di morire per documentare i suoi ultimi momenti perché tutti noi potessimo capire. “Spero che presto i nostri politici si diano una regolata”. Davide è l’ultimo della lunga serie di donne e uomini che hanno deciso di rendere pubblica questa loro storia in nome dei diritti dell’intera collettività. Tra loro c’è dj Fabo che abbiamo conosciuto tre anni fa con Giulio Golia (qui il servizio). “Mi ha accompagnato qui Mina, la moglie di Piergiorgio Welby”, dice Davide nel suo messaggio registrato in Svizzera. Lei le è stata accanto a lui fino all’ultimo momento mentre Marco Cappato l’ha aiutata a raccogliere i soldi per poter partire, poi si è autodenunciato ai carabinieri finendo a processo per aiuto al suicidio. Davide un anno prima del suo ultimo viaggio contatta Cappato via mail per chiedere un aiuto. Conosce Mina Welby e insieme cercano una soluzione per lui perché il problema era anche economico. “Io non riesco a fare autonomamente niente. Neanche allacciarmi una scarpa, passo tutto il giorno a fare le stesse cose: in bagno, a fumare Thc oppure sdraiato”, racconta Davide. “Ho solamente dolori e basta, senza nessuna speranza di guarire. Sono sempre più frequenti e forti”. Dice di aver provato tutti i tipi di farmaci per fermare la malattia ma nessuno ha dato l’esito sperato. “Quando mi sdraio ho dolori dalla punta dei piedi fino alla testa e non riesco più a sopportarli”. Quando finalmente viene fissata la data viene raggiunto da Mina Welby che ha seguito la battaglia per il diritto a morire del marito Piergiorgio. Insieme hanno fatto l’ultimo viaggio di Davide da Massa Carrara con destinazione Basilea. “Io sto sempre peggio, non ho più voglia di cadere ogni giorno”, racconta nel video della sua ultima notte. “Questo è inferno ed è troppo. La cosa principale è dolore, la parola dolore. Di notte mi svegliano in continuazione”. Davide viene ritenuto capace di intendere e di volere. “Ho seguito la storia di Fabo, l’ho invidiato alla fine”, racconta in quella sua ultima notte. “Perché lui era riuscito a venire fino a qua, io non ancora. Invece ora ce l’ho fatta anch’io!”. La mattina dopo chiedono a Davide se avesse avuto dei ripensamenti sulla sua decisione. Non ne ha avuti, i medici gli hanno preparato l’iniezione. “Gli hanno preparato la flebo, lui ha dovuto aprire il bottone perché per legge lo deve fare lui”, spiega Mina Welby. “Subito si è addormentato ed è andato via”. La storia di Davide non è come quella di dj Fabo: “Legalizzare o meno non è una questione ideologica, ma pratica”. Oggi sia Cappato che Mina Welby sono imputati per il reato di aiuto al suicidio. Grazie a dj Fabo con la sentenza della Corte costituzionale si è raggiunto un traguardo storico (leggi qui l'articolo). “Il reato non è punibile se la persona è affetta da patologia irreversibile, in una condizione di sofferenza insopportabile e decide lucidamente e consapevolmente di morire ed è tenuto in vita da trattamento di sostegno vitale”, spiega Cappato. Ma nonostante un’indicazione di legge chiara il processo sulla morte di Davide sta andando avanti. “Perché prendeva farmaci e aveva delle necessità come l’aiuto all’evacuazione delle feci”, aggiunge Cappato. Il prossimo 8 luglio i giudici di Massa si riuniranno per una nuova udienza e potrebbero emettere una sentenza. “Che cosa cambia se a una persona stacco la macchina o faccio un’iniezione letale? Niente se ha deciso di morire per sua scelta”, commenta Cappato. “L’ambiguità è la conseguenza diretta dell’inerzia del Parlamento e della politica. Sette anni fa, abbiamo presentato una legge di iniziativa popolare. Il Parlamento è libero di dire che non è d’accordo, ma si prendesse la responsabilità di discutere e decidere senza nascondersi dietro i giudici della Corte costituzionale”. “Mi riposerò, senza dolore. Questo è l’importante per me. Auguro a tutti tanta salute e tanta serenità”. Con queste ultime parole Davide ha raggiunta quella serenità sperata da 24 anni.
Il comitato bioetico: «No all’accanimento clinico sui bimbi senza speranze di vita». Pubblicato venerdì, 07 febbraio 2020 su Corriere.it da Claudio Del Frate. Nei confronti di bambini piccoli con limitate aspettative di vita vanno evitati «l’accanimento» e «percorsi clinici inefficaci e sproporzionati», tali da «arrecare al paziente ulteriori sofferenze e un prolungamento precario e penoso della vita senza ulteriori benefici». Lo afferma il Comitato Nazionale per la Bioetica (Cnb) in una mozione approvata oggi, sottolineando come l’accanimento clinico «è spesso praticato, per quanto riguarda i bambini piccoli, solo per accondiscendere alle richieste dei genitori o per rispondere a criteri di medicina difensiva». Il documento affronta un tema delicato e doloroso per le famiglie dei piccoli pazienti. Gli estensori del documento parlano di «accanimento clinico »: riguarda «trattamenti che si presumono inefficaci in relazione...al miglioramento di qualità della vita». Ma in questo caso la tenera età dei pazienti non consente di valutarne la volontà, le reazioni: «I bambini piccoli non possono esprimersi in modo autonomo nè sono in gradoi di comunicare la percezione del dolore e della sofferenza». la riflessione va dunque fatta - secondo il comitato - di comune accordo tra medici e genitori tenendo conto del «beneficio complessivo». «L’accanimento clinico è spesso praticato - ecco un passo del documento - perché quasi istintivamente, anche su richiesta dei genitori, si è portati a fare tutto il possibile, senza lasciare nulla di intentato, per preservare la loro vita, senza considerare gli effetti negativi che ciò può avere sull’esistenza del bambino in termini di risultati e di ulteriori sofferenze. Altre volte, invece, l’accanimento clinico viene praticato in modo consapevole, come difesa da possibili accuse di omissione di soccorso o di interruzione attiva delle cure o dei trattamenti di sostegno». Premettendo che ogni situazione deve essere affrontava caso per caso, il comitato bioetico individua alcune linee guida da tenere in caso di bambini colpiti da malattie incurabili. «Il criterio ispiratore è il superiore interesse del bambino... e deve essere definito a partire dalla condizione clinica contingente, unitamente alla considerazione del dolore e della sofferenza (per quanto sia possibile misurarli), e del rispetto della sua dignità, escludendo ogni valutazione in termini di costi economici». L’obiettivo è evitare percorsi clinici definiti «sproporzionati solo per accondiscendere alle richieste dei genitori». Tra le altre misure suggerite ci sono una legge che renda operativi i comitati per l’etica clinica negli ospedali pediatrici, la partecipazione di persone di fiducia delle famiglie nei processi decisionali, la possibilità di un «appello», di una seconda decisione da affidare a figure scientificamente autorevoli, prevedere il ricorso alla magistratura solo cme «extrema ratio», garantire cure palliative a domicilio.Il sofferto parere del comitato bioetico italiano non fa riferimento ad alcun caso specifico ma ricorda la sentenza della Suprema Corte inglese che nel 2017 impose di «staccare la spina» nei confronti del piccolo Charlie Gard, affetto da una rara malattia encefalica . Anche in quel caso i giudici britannici impostarono la decisione sul «best child interest», cioè il supremo interesse del bambino, al quale non dovevano essere inflitte inutili sofferenze.
Bioetica, bambini terminali: "No a cure inutili solo perché chieste dai genitori". Il parere del comitato nazionale: "Spesso accanimento terapeutico per non finire sotto accusa". In caso di disaccordo tra parenti e medici deciderà un giudice. "Potenziare la ricerca sul loro dolore". Caterina Pasolini il 07 febbraio 2020 su La Repubblica. Bambini senza speranza, senza possibilità di futuro sono spesso intubati, sottoposti a cure dolorose e inutili, che non porteranno alla salvezza ma a moltiplicare i giorni di sofferenza. Piccoli sottoposti ad accanimento terapeutico "solo per accondiscendere alle richieste dei genitori", disperati all'idea di perdere il figlio, incapaci di accettare un' ipotesi cosi impensabile, innaturale, o perché i medici temono di ritrovarsi un giorno accusati dai parenti, sospettati di non aver fatto il massimo possibile per salvare quel neonato. In difesa dei più piccoli, che non hanno parole per decidere o dire la loro sofferenza, interviene il Comitato nazionale di Bioetica con un parere appena approvato. Pagine complesse che parlano del dolore di bambini senza futuro, di genitori disperati, di medici impegnati nella lotta contro il male. Bilanciamenti difficili e cercati per trovare un'alleanza, un accordo, un aiuto reciproco nell'interesse dei bambini, di chi non può scegliere né difendersi dal dolore o dall'accanimento deciso dai grandi per amore o per paura. Un parere importante perché parlare di fine vita di neonati o bambini divide l'opinione pubblica, come si è visto nei mesi scorsi sul caso di Charlie Gard, il bambino inglese colpito da una rara malattia genetica e tenuto in vita artificialmente sin dalla nascita. O di Alfie Evans, bimbo di 23 mesi in cura a Liverpool per una gravissima patologia cerebrale i cui genitori si erano opposti al distacco delle macchine, autorizzato dai giudici, chiedendo inutilmente di trasferirlo al Bambin Gesù a Roma. "Nei confronti di bambini piccoli con limitate aspettative di vita vanno evitati "l'accanimento" e "percorsi clinici inefficaci e sproporzionati", tali da provocare "ulteriori sofferenze e un prolungamento precario e penoso della vita senza ulteriori benefici", scrive il professor Lorenzo d'Avack, presidente del Comitato Nazionale per la Bioetica (Cnb) nel parere appena approvato dopo lunghe audizioni di specialisti, pediatri, neonatologi che hanno raccontato, testimoniato la loro esperienza in corsia, nei reparti di rianimazione.
Il testo del parere. Così "per quanto riguarda i bambini piccoli va riconosciuto che nella prassi l’accanimento clinico è spesso praticato perché quasi istintivamente, anche su richiesta dei genitori, si è portati a fare tutto il possibile per preservare la loro vita, senza considerare gli effetti negativi che ciò può avere sull’esistenza del bambino in termini di risultati e di ulteriori sofferenze. Altre volte, invece, l’accanimento clinico viene praticato in modo consapevole, come difesa da possibili accuse di omissione di soccorso o di interruzione attiva delle cure o dei trattamenti di sostegno. Così queste pratiche cliniche vengono prestate principalmente non per assicurare la salute e il bene del paziente, ma come forma di tutela e di garanzia delle proprie responsabilità medico-legali relative all’attività svolta", scrive Il Comitato. Vista la situazione, il Comitato raccomanda che "iI superiore interesse del bambino sia il criterio ispiratore nella situazione e deve essere definito a partire dalla condizione clinica, unitamente alla considerazione del dolore e della sofferenza e del rispetto della sua dignità, escludendo ogni valutazione in termini di costi economici. Si deve evitare che i medici si immettano in percorsi clinici inefficaci e sproporzionati solo per accondiscendere alle richieste dei genitori e/o per rispondere a criteri di medicina difensiva". Chiede poi di istituire attraverso una legge nazionale e rendere operativi i comitati per l’etica clinica negli ospedali pediatrici con ruolo consultivo e formativo, così da favorire la valutazione della complessità di tali decisioni e cercare una mediazione di controversie emergenti tra medici e genitori che potranno chiedere un secondo parere medico. Tali comitati etici dovranno essere interdisciplinari, composti da medici pediatri, specialisti degli ambiti medici oggetto di analisi, infermieri, e figure non sanitarie quali bioeticisti e biogiuristi. In casi estremi il Comitato chiede di prevedere il ricorso ai giudici se il disaccordo tra medici e familiari è insanabile, ma chiede anche di creare un nucleo di professionisti in grado di sostenere i genitori sul piano emotivo e pratico (assistenti sociali, psicologi, esperti di bioetica, associazioni delle famiglie, associazioni di volontariato) e accompagnarli nel difficile percorso, dato dalle condizioni di malattia del bambino. Sempre pensando al bene dei più piccoli il Cnb chiede di garantire cure pallliative, ospedaliere ospedaliere e a domicilio, in modo omogeneo in tutto il paese, "su questo siamo ancora molto carenti, in molte regioni non ci sono proprio nonostante la legge sia del 2010 e sia una legge molto buona" sottolinea il professor D'Avack. Le raccomandazioni del Comitato chiedono così di potenziare la ricerca sul dolore e sulla sofferenza nei bambini, e di evitare che il piccolo, a maggior ragione con prognosi infausta a breve termine, sia considerato un mero oggetto di sperimentazione e ricerca da parte dei medici. "Troppo forte il rischio davanti a casi disperati si rivolegersi a chiunque, a stregoni pur di aver un briciolo di speranza che la scienza nega", ricordando però sempre che in qualsiasi caso, "il divieto di ostinazione irragionevole dei trattamenti" non deve tradursi "nell'abbandono del bambino" che ha invece a diritto a "cure palliative in modo omogeneo sul territorio".
· Il cervello è l’ultimo a morire.
Il cervello non smette di "sentire": cosa succede in punto di morte. Lo studio, pubblicato sulla rivista "Scientific Reports", è stato condotto dai ricercatori dell'università della British Columbia. Maria Girardi, Giovedì 09/07/2020 su Il Giornale. Per gli antichi Greci l'uomo era un essere mortale e, in quanto tale, doveva vivere la morte. Il concetto di limite si sgretolava per accogliere in sé una nuova concezione. Non più impedimento, dunque, ma riscoperta delle proprie potenzialità. Non a caso Socrate consigliava di non perdere tempo in vani passatempi, era bene invece indirizzare la concentrazione verso tutto ciò che si era realmente in grado di compiere. Per i Romani la dipartita veniva considerata impura, al momento del decesso di un congiunto i familiari si occupavano della sepoltura e della purificazione della famiglia stessa. Da sempre il pensiero del trapasso si è acquattato in penombra nell'animo degli esseri umani, suscitando curiosità e al contempo angoscia. Cosa accade al cervello negli ultimi istanti che precedono la morte? A questa domanda hanno cercato di rispondere alcuni ricercatori (guidati da Elizabeth Blundon) dell'università della British Columbia, giungendo alla conclusione che anche quando la fine è prossima e non si risponde più ad alcuno stimolo, il cervello continua a sentire le parole e i suoni che giungono dall'esterno. L'udito sarebbe così l'ultimo dei cinque sensi a spegnersi. Lo studio, pubblicato sulla rivista “Scientific Reports”, è stato condotto sui malati di un hospice di Vancouver sia nel momento in cui erano ancora coscienti, sia quando non lo erano più. Tramite elettroencefalogramma, gli scienziati hanno confrontato i dati di questi pazienti con quelli di soggetti sani. Dagli stessi è emerso che un cervello morente possiede la capacità di rispondere al suono, anche in uno stato di incoscienza, fino alle ultime ore di vita. Ciò ha dell'incredibile se si pensa che nel breve periodo che precede la dipartita, molti individui entrano in una fase di non responsività. La risposta del cervello monitorata con l'elettroencefalogramma ha rivelato che alcuni soggetti, anche a poche ore dal trapasso, rispondevano in maniera simile a quelli giovani e sani. Secondo uno dei ricercatori, Lawrence Ward, si sono potuti identificare degli specifici processi cognitivi in entrambi i gruppi sottoposti a sperimentazione. La scoperta avvalora quanto è stato già rilevato nell'esperienza professionale di medici e infermieri di hospice, ovvero che i suoni e le voci delle persone amate offrono conforto a chi sta esalando gli ultimi respiri. Tuttavia gli studiosi sono cauti. Non sono stati, infatti, in grado di confermare se i morenti comprendono ciò che sentono. Conclude Gallagher, un altro ricercatore: "Non possiamo sapere se stanno ricordando, identificando la voce o capendo il linguaggio pur rispondendo allo stimolo uditivo. L'idea però è che dobbiamo continuare a parlare alla gente quando sta morendo perché qualcosa accade nel loro cervello".
· Effimeri. Dimmi come muori e ti dirò chi sei.
I frammenti sono tratti da “Il mio gatto mi mangerà gli occhi? E altre grandi domande sulla morte” di Caitlin Doughty, edito da Il Saggiatore. Giorgio Dell’Arti per “la Repubblica”. Risposta alla domanda del libro: no, il gatto rimasto solo in casa col cadavere del suo padrone o della sua padrona comincerà dalle parti più morbide. Palpebre, labbra, lingua. Gli occhi, solo dopo.
Carne umana. Numero di calorie fornite da un corpo umano: 125.822, di gran lunga inferiore a quello di altre carni rosse, tipo manzo o cinghiale (calcolo eseguito nel 1946 e nel 1956 da due ricercatori su quattro salme di maschi adulti).
Cannibali. I Neanderthal e gli Erectus, cannibali per ragioni rituali e non dietetiche.
Ceneri. Le ceneri di una donna pesano in media due chili. Quelle di un uomo, tre.
Cannibalismo. Negli Stati Uniti nessuna legge vieta di mangiare carne umana. Però è illegale venderla o comprarla (vilipendio di cadavere, ecc.)
Ore. «Nessun uomo è veramente morto nelle prime ore dopo la morte» (V.N. Shamov, chirurgo sovietico).
Trapianti. Un cuore conservato nel ghiaccio può essere trapiantato ancora quattro ore dopo la morte. Un fegato, dieci. Un rene in forma resiste ventiquattr' ore e a volte persino settantadue, se i dottori usano la strumentazione adeguata. Se la morte è stata improvvisa e la persona era in buona salute, il sangue resta utilizzabile per una trasfusione per sei ore.
Volo. Il problema della morte in volo. Nel 2004 la Singapore Airlines installò sui suoi Airbus A340, in una posizione invisibile ai passeggeri, 500 armadietti per cadaveri, nel caso di morti durante il viaggio. Per la morte di un astronauta (mai accaduto, i diciotto astronauti che hanno perso finora la vita sono sempre rimasti vittime di incidenti e i loro corpi sono stati recuperati sulla Terra in diverse condizioni di integrità) la Nasa ha previsto una procedura di cremazione a bordo, detta Body Back: si infila la salma in una borsa di Gore-Tex a tenuta stagna, poi si sistema la borsa nella camera d' equilibrio dello Shuttle. Qui il corpo viene congelato a meno 270 gradi. Dopo un' ora, un braccio robotico riporta la borsa dentro lo Shuttle e la scuote per quindici minuti, facendo a pezzi il cadavere. I pezzi vengono disidratati e si ottengono così 22 chili di polvere essiccata, che può essere conservata per anni e che una volta tornati a Terra sarà riconsegnata ai familiari.
Uccelli. Solo negli Stati Uniti, i gatti uccidono fino a 3,7 miliardi di uccelli l' anno.
Teschi. Tra il 2012 e il 2013 eBay mise in vendita 454 teschi umani e li piazzò al prezzo medio di 648,63 dollari. In seguito il sito ha vietato questo commercio.
Giappone. Il Giappone ha il tasso più alto di cremazioni al mondo.
Cremazione. Dopo la cremazione di un corpo, i giapponesi lasciano raffreddare le ossa e le dispongono davanti alla famiglia del morto. Mediante certe bacchette bianche, i familiari raccolgono queste ossa, partendo dai piedi e risalendo fino al capo, in modo che il loro caro non debba passare il resto dell' eternità a testa in giù. Poi le depositano in un' urna.
Case. Negli Stati Uniti chi vende una casa deve dichiarare, al momento del contratto, se in quella casa negli ultimi tre anni è morto qualcuno.
Dispersi. Corpi di soldati americani ancora dispersi nel mondo: 73 mila. Di cui settemila nella guerra di Corea.
Soldati. Alla fine della Prima Guerra Mondiale, il governo degli Stati Uniti spedì un questionario a tutte le famiglie dei soldati uccisi per sapere che cosa preferivano per i loro cari. Ne seguì che 46 mila soldati furono riportati in patria e 30 mila furono sepolti nei cimiteri militari in Europa. Il presidente Theodore Roosevelt volle che i resti di suo figlio, un pilota militare, restassero in Germania.
La lezione di Tolstoj, bisogna riconoscere il male e non attribuirlo agli altri. Filippo La Porta su Il Riformista il 4 Novembre 2020. Ieri ho preso dallo scaffale il libro più bello che sia mai stato scritto sulla morte: La morte di Ivan Il’ič (1886) di Tolstoj. Un racconto lungo, o romanzo breve, di straordinaria concentrazione e tensione (per gli amanti del pop, è il libro che in una puntata dei Simpson Lisa acquista in libreria). Ripassiamone la trama. Ivan Il’ič è un membro della Corte d’Appello, con un potere immenso (può mandare in rovina qualsiasi persona). Sposato con due figli, ha ottenuto da poco un’importante promozione e decide così di trasferirsi con la famiglia a San Pietroburgo, in una casa che lui personalmente vorrà arredare con oggetti di lusso presi qua e là. Di carattere gioviale, magistrato equilibrato, buon giocatore di carte, dal giorno della laurea studia da alto funzionario: «il suo dovere era tutto ciò che le persone altolocate ritenevano tale». Con la moglie, capricciosa, nevrotica, ha rapporti burrascosi, ma tutto si ricompone nel tran-tran quotidiano. I figli restano sullo sfondo. Un giorno, per fare una banale manovra fisica in casa, urta con l’anca uno spigolo. Da quel momento si insinua in lui un dolore sordo, logorante, persistente, ineliminabile. Tutto precipita in poche settimane (ha 45 anni). Scopre di avere un cancro all’intestino cieco (anche se Tolstoj non ci dice mai qual è la malattia). I medici minimizzano, così come gli amici, annoiati dal suo perdurante malessere e dai suoi continui lamenti. Viene poco a poco invaso dal terrore. Sa bene che gli uomini sono mortali, ma lui, chissà perché, in fondo era convinto di esserne esentato, con i suoi indelebili ricordi di infanzia, i suoi giocattoli, l’odore della palla di cuoio, i dolci, il bacio alla mano della mamma… Com’è possibile che tutto ciò svanisca? Qui Tolstoj ci ricorda che nessuno riesce davvero a immaginarsi la propria morte: la vita non capisce la morte, le resta estranea. Poi conclude che se c’è la morte – come unico fatto reale, e essa è “la sola verità” – allora tutto il resto sparisce, si svuota, si delegittima, viene ridotto a ricordo o a illusione. Poi ancora di fronte a quell’evento, indubitabilmente certo, Ivan Il’ič, chiamato vezzosamente Jean dalla moglie, passa in rassegna la propria esistenza e la scopre fondata sulla menzogna, sull’ipocrisia, su false sicurezze. Interamente “fuori strada”. Il terrore della morte è il terrore di una vita vissuta come già morta, vissuta come assurdo e nonsenso. Non sopporta la vicinanza di nessuno, tranne che del giovane servo, il mugik Gherasim – schietto, servizievole, dotato di brio della vita e semplice pietas -, che gli sorregge le gambe dandogli sollievo. Quell’azione spontanea, gratuita, di carità individuale – fatta non perché Ivan Ilic è il suo padrone, ma perché è un essere malato, morente e come tutti dovrà morire – non potrà essere verosimilmente sostituita in nessuna società ideale dal più efficiente Welfare. Prima di morire, dopo giorni di grida, di dolori atroci (che faranno dubitare della esistenza di Dio) Ivan Ilic proprio negli ultimi istanti avrà come un momento di luce – «in fondo al buio si illuminò qualcosa» – nel quale la morte stessa si è ritirata: sorprendentemente “non c’è più”. Cosa ricavare oggi dal racconto di Tolstoj? I suoi significati sono inesauribili. Mi limito solo a un paio di sottolineature. Da una parte c’è la denuncia del cinismo, dell’indifferenza generalizzata. Il racconto si apre quando tutto è già successo. Arriva la notizia della morte di Ivan Il’ič: la prima reazione di amici e colleghi è “almeno è capitata a lui non a me” e, appena dopo, “può favorire un mio avanzamento di carriera?”. La moglie stessa si ingegna subito a prenderne la migliore pensione. Voi direte: umano, troppo umano. D’accordo. Infine: una possibile luce interviene per lui solo dopo che ha realizzato tutta l’impostura della propria biografia. E allora: pensiamo che Tolstoj è così moralista da ritenere che si dia una esistenza aliena da ogni menzogna, una esistenza utopica vissuta nella piena trasparenza della verità, o anche una società in cui la morte di un conoscente non possa trasmetterci anche un po’ di sollievo, perché io almeno gli sono sopravvissuto? No, come ogni credente Tolstoj pensava che a causa del peccato originale è impossibile estirpare dal cuore umano la bassezza, l’abiezione, l’egoismo, la recita dei ruoli sociali (io, come non credente, penso lo stesso). Ogni uomo di fronte all’estremo varco si trova come Ivan Il’ič, e come lui ripensa a quanti ha ingannato e imbrogliato e avvelenato. Ma allora qual è la differenza, il salto che potrebbe assecondare quel bagliore di luce un attimo prima della fine? Non tanto pretendere di eliminare il male quanto guardarlo in faccia lucidamente, riconoscerlo, non attribuirlo agli altri, non cercare alibi. E al tempo stesso sapere che il male è la parte non il tutto. Non è l’unica verità. Che se c’è la morte non perciò tutto il resto viene equiparato a sogno, fantasma e illusione. Anzi potrebbe darsi che la morte stessa si riveli essere – in un ultimo colpo di scena – una illusione, non più consistente di altre, fatta della stessa sostanza dei sogni.
Gli amortali di Alessandro D’Avenia su Il Corriere della Sera lunedì 2 novembre 2020. I morti hanno a che fare con i vivi: l’ho imparato sin da bambino. Nella notte tra l’1 e il 2 novembre, nella mia Palermo, la tradizione voleva che fossero i defunti a portare regali, tra questi i caratteristici «pupi di zucchero». Poi nel multicolore freddo autunnale si andava al cimitero. I Greci lo chiamavano necropoli, città dei morti, convinti che dopo la morte diventiamo ombre che si aggirano in una incolore e triste imitazione della vita. Opponevano quindi la solidità delle case-tomba all’oblio: la pietra, fissando il nome, consentiva all’individuo di non sparire del tutto. In fondo erano loro ad aver dato agli uomini il nome del loro destino: «i mortali». Sapere di essere tali era l’origine dell’amore per la vita e quindi della creatività della cultura, che è infatti ciò che l’uomo di ogni epoca oppone alla morte. La morte ci costringe a definire ciò che per noi ha veramente valore. Per loro la morte era anonimato e oblio, e strappare un individuo a queste forze era strapparlo alla morte: l’eroe la sconfiggeva facendosi un nome eterno. Meglio una vita breve ma memorabile che lunga e anonima: in questa scelta c’è tutta la storia greca da Achille ad Alessandro Magno. Poi arrivarono i cristiani e preferirono la parola «cimiteri», perché il cadavere era solo la scorza di un seme nato a nuova vita. Cimitero significa infatti giaciglio come la terra è il letto del seme: la morte è solo il passaggio dal seme al germoglio. Ogni sera noi «moriamo» un poco mettendoci orizzontali, ma è una morte che porta la vita attraverso il riposo. D’altronde erano stati proprio i cristiani a cambiare il modo di indicare gli uomini, tra loro si chiamavano «i viventi», non più i mortali. Sapevano che c’era la morte, ma era solo un «sonno». Anche per la cultura cristiana l’esistenza acquisiva così pieno slancio, perché era il luogo e il tempo in cui la Vita che non muore germoglia in chiunque voglia accoglierla: «Sono venuto perché gli uomini abbiano la vita e la abbiano in abbondanza» dice Cristo. Se l’eroe antico mostra ciò che l’uomo può fare con le sue forze, il santo (l’eroe cristiano) mostra ciò che Dio può fare nell’uomo. In entrambe le visioni, pagana e cristiana, la morte è così presente che genera un effetto creativo e propositivo sulla vita terrena: passione, ricerca, impegno... I «mortali» per guadagnare l’immortalità, i «viventi» per riceverla in dono. E noi oggi che rapporto abbiamo con i morti e quindi con la morte? Ci sono rimasti Halloween e gli zombie dei film, perché abbiamo scelto di considerare la morte la debolezza di un’umanità arcaica e immatura. Per noi progrediti la morte non esiste più. Ma che riflesso ha questo sulla vita? Siamo cresciuti in una cultura di soddisfazione del desiderio ed ebbrezza tecnica senza precedenti. Ci sentiamo liberi: ciò che è permesso e ciò che è possibile non hanno o non avranno presto più confini, libertà e progresso sono per noi un tutt’uno. Poi, all’improvviso arriva il virus, e l’illusione si sgretola: la morte torna reale, vicina, e la paura ha il sopravvento sulla razionalità e l’azione.
La parola paura ha la stessa radice di pavimento. Paveo (in latino: ho paura, da cui pavido e impavido) in origine indicava «l’esser percossi». La paura colpisce il corpo come i passi il suolo. Amo questa strana e antica parentela tra paura e pavimento: il timore ci costringe a puntare i piedi e scoprire su cosa abbiamo costruito. La paura sta mettendo alla prova le fondamenta del nostro vivere: il pavimento della nostra vita. Se camminavamo sulle sabbie mobili affonderemo, ma dalle sabbie mobili si esce aggrappandosi a un elemento esterno e stabile. Il virus ci sta obbligando a cercarlo, ricordandoci che la morte c’è ancora e che la soddisfazione di ogni desiderio unita al progresso senza limiti non bastano per essere felici. La rimozione della morte ci ha reso come bambini che vanno incontro a prese elettriche e finestre aperte come fossero divertimenti. Abbiamo deciso di far finta che la morte non esista: l’abbiamo rimossa dal nostro vissuto quotidiano. Ulisse, Enea, Dante per trovare/tornare a casa devono prima incontrare i morti. Noi i morti li abbiamo fatti sparire. Ma la morte resta lì, limite invalicabile della vita e suo paradossale appello. Senza la consapevolezza e l’accettazione della morte, che crediamo o no nell’aldilà, non si può essere innamorati della vita: l’uomo crea, ri-crea e pro-crea per non morire. L’uomo «a-mortale» di oggi invece spesso «de-crea», cerca la sicurezza, rischia ben poco e quindi non evoca le energie che moltiplicano la vita, che è per lui un oggetto fragilissimo da proteggere da ogni «colpo», da ogni «paura». Ma così si perde il gusto di vivere, perché la vita non è un oggetto ma la ricerca che i vivi conducono per trovare un antidoto alla morte: che cosa è più forte della morte? Essere a-mortali impedisce di trovare la risposta, perché tutto il coraggio per vivere dipende dal saper morire.
Non si può vivere per sempre. O forse sì. Elvira Fratto su Il Quotidiano del Sud l'1 novembre 2020. È una domanda che si è posto perfino Freddie Mercury: “who wants to live forever?”, chi vuole vivere per sempre? Appartiene a quella lunga e fortunata serie di domande retoriche che, un po’ come i gas nobili, non hanno bisogno di mescolarsi ad altre domande né alle svariate possibili risposte, per poter essere valide e considerate. Il loro fascino sta nella sospensione creata tra la prospettiva di una risposta e un’altra. E noi utenti dei social, ad ogni modo, sospesi non ci rimarremo. Non a lungo, perlomeno: chi è alla ricerca dell’immortalità dovrebbe iscriversi a Facebook, dal momento che negli ultimi anni Mark Zuckerberg ha inserito nel social la possibilità di nominare degli account “eredi”, ovvero persone di nostra conoscenza a cui possiamo delegare il potere di gestione dei nostri account social una volta che avremo lasciato questa terra. Zuckerberg allarga di qualche centimetro il famoso “cerchio della vita”, consentendoci quindi di rimanere nel popolo social anche qualora fisicamente non saremo più in grado di parteciparvi attivamente. Questo si verifica nel momento in cui un account diventa “commemorativo”, cioè assume la forma di una sorta di “reliquia digitale” dopo che un utente è defunto. L’account non viene quindi cancellato, ma lasciato esattamente dov’è e con la possibilità, per amici e seguaci, di continuare a postare elementi e saluti sulla sua bacheca: un modo tutto sommato efficace per ingannare dolcemente la mente di chi avverte i morsi della nostalgia, creando l’innocua illusione dell’equazione “account attivo uguale vita”. Impariamo però che spesso il filo che separa l’immortalità come dono dall’immortalità come condanna è fin troppo sottile e perennemente teso, col costante pericolo che si sfilacci da un momento all’altro e trascini con sé conseguenze disastrose. E se da un lato Facebook ci conferisce la possibilità di non essere tagliati fuori da una realtà, quella digitale, che ci rende partecipi a tutti gli effetti di uno scenario multiforme in cui esprimerci, dall’altro spesso lo fa anche senza il nostro consenso. È il caso, ad esempio, del revenge porn e di tutti gli scomodi e pericolosi episodi in cui un contenuto particolarmente privato o sensibile viene pubblicato senza il consenso del proprietario. Come nella tristemente famosa vicenda di Tiziana Cantone, giovane donna morta suicida nel 2016 a causa della diffusione di alcuni video hard che la vedevano protagonista, tutto ciò che pubblichiamo online è potenzialmente virale. Questo significa che una volta che il contenuto in questione prenderà a circolare troppo in fretta, rintracciarlo e bloccarne il corso sarà come pretendere di svuotare il mare con un bicchiere. Uno dei tanti modi che il web ha per ricordarci che non sempre l’immortalità è un qualcosa che ci appartiene, che a volte non siamo noi a diventare immortali ma siamo semplicemente uno strumento attraverso il quale l’immortalità si spiega. E purtroppo non sempre ciò si traduce in gloria e ricordi felici. Del resto, si sa fin dai tempi di Omero che l’immortalità rischia di diventare una fregatura. Achille non perì a causa del tallone scoperto, ma del fatto che ne dimenticò l’esistenza: chi non proteggerebbe costantemente l’unica parte di sé che congiunge la propria vita agli Inferi, per ritardare il più possibile il loro incontro? Forse il segreto non è rincorrere l’immortalità, ma aspirare a una mortalità gloriosa, valevole, che abbia un senso. Forse il senso non è esistere per sempre, ma riuscire in qualche modo a vivere per sempre, che è ben diverso perché esistere, a lungo andare, finisce col comportare una mera staticità; vivere è dinamismo, anche quando lo si esprime attraverso un ricordo. Viva le date di scadenza, quindi, che ci spingono a consumare i prodotti prima che si deteriorino. Viva l’instabilità dell’equilibrista, perché dal bilanciamento derivano la buona riuscita del suo spettacolo e gli applausi del pubblico. E viva anche l’incertezza, l’incompiutezza e l’imperfezione, unici motori del miglioramento e della ricerca: probabilmente il senso dell’immortalità sta in quello che ci capita mentre lavoriamo per raggiungerla. Un biglietto di scuse per Caronte, quindi: il passaggio dall’altro lato dell’Acheronte dovrà aspettare ancora un po’.
Da Pavese a Woolf, la riflessione sugli scrittori che hanno scritto la loro ultima pagina. Marica Fantauzzi su Il Riformista il 15 Ottobre 2020. La storia con la quale inizia questo libro, dice Susanna Schimperna, è in realtà la venticinquesima. Ovvero l’ultima in ordine di tempo. Si sarebbe potuta fermare prima, dopo tutto aveva raccolto già ventiquattro storie di scrittori morti suicidi e, del resto, non aveva mai sentito parlare di questo Eros Alesi. Ragazzo romano, che ha vissuto i suoi vent’anni nel pieno della contestazione degli anni 60 e 70, come uno dei protagonisti del movimento beat italiano mentre scriveva versi. Dopo la militanza, gli scontri e gli arresti, partì per un viaggio lunghissimo alla fine del quale si toglierà la vita. «Dice che gli atomi sono forze tramutabili, non distruttibili». Alesi scriveva queste parole per il padre, chiedendo alla morte di eliminare l’ineluttabilità che la caratterizza, accorciando la distanza che un figlio sentiva verso suo padre. Il lavoro di Schimperna L’ultima pagina (Iacobelli editore, 2020) raccoglie, in qualche modo, l’invito di Alesi. Trasforma qualcosa che per definizione è distruzione, in materia sensibile, ruvida al tatto, sicuramente inesausta. Perché se la morte in sé provoca dolore, il suicidio è, socialmente parlando, dolore allo stato puro. E quando qualcuno osa pronunciare quel termine tende a farlo all’interno di una cornice definita, quella della pietà, o – sottolinea Schimperna – quella della depressione che sfocia in follia. Ma «se l’elemento comune è senza dubbio una insopportabile sofferenza, è bizzarro pensare che questa sia stata per tutti uguale e frutto di depressione». Ogni scrittore narrato all’interno di questo libro, da Sylvia Plath a Vladimir Majakovskij, da Yukio Mishima a Guido Morselli, da Emilio Salgari a Virginia Woolf, offre una risposta diversa al proprio dolore, risposta che il più delle volte risiede, prima ancora che nel gesto finale, nel movimento della sua penna. Il tratto di Hemingway era irruento e spesso, e a fatica si trovavano tentennamenti. L’idea di ciò che fossero il bene e il male, sembrava per lui scolpita nella pietra. Le sue battaglie, come quelle dei suoi protagonisti, erano sempre contro qualcosa di concreto, visibile, chiaramente additabile come nemico. Poi, quell’apparente chiarezza iniziò a vacillare. Gli elettroshock durante i ricoveri, le polmoniti, l’alcool e la paranoia d’esser spiato (rivelatasi non infondata), lo lasciarono con il pensiero che qualcuno gli avesse strappato via per sempre “la parte migliore di sé”. Nel libro si fa riferimento al concetto di “assassino interiore” di James Hillmann (1964), dove per la prima volta si afferma che in ognuno di noi risiede una sorta di assassino, appunto, che tende a eliminare le parti considerate inutili o addirittura dannose per la nostra esistenza. «Agisce in direzione della vita ma alle volte va oltre, perché ritiene che noi stessi siamo gli artefici della nostra sofferenza». Quello che fa Hillmann, nel suo “Il suicidio e l’anima” non è tanto spiegare l’atto di togliersi la vita, quanto provare a comprenderlo. Il sentimento che si fa strada, leggendo le vicende di questi autori, nasce da un tentativo simile. Una sorta di comprensione intima, quasi timida e molto spesso taciuta, di come esista una sofferenza primigenia alla quale tutti, come possono, cercano di reagire. Nella sua autobiografia dedicata a Majakovskij, Esenin e Cvetaeva, Boris Pasternak afferma che «ci si uccide non per tener fede alla decisione presa, ma perché è insopportabile questa angoscia che non si sa a chi appartenga, questa sofferenza che non ha chi la soffra, questa attesa vuota, non riempita dalla vita che continua». Proprio in merito a Marina Ivanova Cvetaeva, Schimperna scrive una delle pagine più delicate e insieme irruenti dell’intero volume. «Quanto può sopportare un poeta?» – si chiede l’autrice – pensando alla vita di questa donna. È possibile «riconoscere negli avvenimenti più tristi la condizione di eccezionalità che gli è propria?». Quello che racconta Schimperna è che donne come Marina Cvetaeva hanno non solo sopportato la miseria, la guerra e l’ingiuria, ma hanno saputo «rifiutare di spegnere la luce che brillava dentro di loro». Sylvia Plath, Pamela Moore e Sara Kane hanno vissuto combattendo contro l’ipocrisia di una società che le aveva etichettate troppo prematuramente come scarti dai quali non poter ricavare nulla. Hillmann definirà la morte come svuotamento, che inizia quando si smette di chiedere qualcosa a sé stessi. A un certo punto queste scrittrici, sembra dire Hillmann, hanno smesso di chiedere. Egli però si opporrà all’analogia fra suicidio e atto di pura rinuncia e anticipa quello che, in modo più esplicito, dirà in un’intervista Roberto Bolaño: «Ogni suicida lascia uno o due misteri dietro la sua morte, ma è anche certo che lascia, inevitabilmente, quattro o cinque risposte, e ciò che di solito temiamo dai suicidi non è il mistero, ovvero le domande che queste morti pongono, ma le risposte che queste morti mettono davanti a noi e di fronte alle quali, automaticamente, chiudiamo gli occhi». Tra quelle risposte ce n’è una che Schimperna definisce un “ridicolo tarlo”: ossia quel “sogno infantile di onnipotenza” che fa pensare che quel suicidio poteva essere evitato. Schimperna interpreta questo “tarlo” come un sentimento personale, che appartiene all’individuo che cerca dentro di sé il male e la possibile cura. La depressione, diceva ancora Hillmann, nasce quando si diventa consci della propria impotenza, ossia «dell’incapacità di attualizzare un possibile che è iscritto nel nostro essere sociale». Nella sua lettera conclusiva Alesi diceva: «Ho visto che tu hai visto l’inizio di un drammatico sfacelo […] ». Mark Fisher, prima di togliersi la vita nel 2017, ha scritto che «le ferite che ci fanno soffrire sono ferite di classe», intendendo che ciò che sembra profondamente personale, è in realtà profondamente sociale. Trovare quelle ferite e poi raccontarle, come ha fatto Schimperna, significa anche rifiutare l’idea che le ragioni della depressione e del suicidio siano tasti dolenti che non appartengono alla società ma all’individuo preso nella sua singolarità. Riconoscere quelle ferite significa, infine, non distogliere lo sguardo davanti a quel “drammatico sfacelo” che ci appartiene.
Nicoletta Orlandi Posti per “Libero quotidiano” il 5 ottobre 2020. «La morte è un' usanza che tutti, prima o poi, dobbiamo rispettare», diceva Jorge Louis Borges. Eppure si tende a non parlarne, oppure quando si affronta l' argomento viene fuori tutto il nostro disagio, soprattutto quando riguarda il personale trapasso. L' appuntamento con il «tristo mietitore» è infatti uno di quelli che vorremmo poter rimandare il più possibile e magari evitare completamente ma, ahimé, non è proprio possibile. E la mente, il nostro inconscio, lo sanno. C' è chi si tocca o si fa il segno della croce, chi fa gli scongiuri e c' è chi sdrammatizza questo tabù con l' umorismo. Come Caitlin Doughty che si presenta come la «necrofora di internet». Lei - che ha lavorato in un crematorio, ha frequentato una scuola di imbalsamazione, ha girato per il mondo per studiare i riti funebri e ha aperto un' agenzia di pompe funebri - ha appena dato alle stampe il libro Il mio gatto mi mangerà gli occhi? (Il Saggiatore, pag. 230, euro 17) con il quale risponde a tutti gli interrogativi possibili su cadaveri, sepolture e funerali svelando al lettore gli aspetti più bizzarri e inaspettati della grande livellatrice. Ma soprattutto fa pensare alla morte in modo diverso, quello più naturale. Compreso il fatto che perfino da morti si possono fare cose molto utili, come ad esempio donare il sangue.
TORNIAMO BAMBINI. Le domande a cui risponde Caitlin Doughty sono quelle più schiette e provocatorie che escono dalla bocca dei bambini per la semplice ragione che la maggior parte degli adulti non le farebbe mai: abbiamo talmente interiorizzato l' idea che interrogarsi sulla morte sia morboso o strano che non ci verrebbe mai di chiedere a qualche esperto se possiamo usare le ossa umane come gioielli dopo la cremazione; se è vero che si vede una luce bianca nel momento in cui smettiamo di vivere o se dopo la sepoltura continueranno a crescere i capelli nella bara. O ancora: se chi vende una casa è obbligato a dire al compratore se là dentro è morto qualcuno, o se è possibile fare un funerale vichingo per la nonna. La Doughty, che nel 2011 ha anche creato il blog Ask a Mortician, risponde alle domande ricorrendo alla scienza e all' antropologia ma con un linguaggio ironico e leggero (anche perché alcune delle domande che le vengono poste sono davvero surreali). Si scopre così che la pellicola da cucina è essenziale per rendere presentabile un cadavere nella camera ardente; che tutte le leggende metropolitane di morti a cui crescono i capelli o che si mettono a sedere nell' obitorio sono, appunto, leggende; che se volete diventare uno scheletro bello pulito dovete farvi seppellire in un terreno umido, argilloso e ricco di microrganismi, mentre se volete diventare una splendida mummia dovete scegliere un suolo arido. E, no, - tornando alla domanda che dà il titolo al libro - quando sarete morti il vostro gatto non vi mangerà gli occhi. O, almeno, non subito. È molto più facile che vi mangi il cane: in alcuni casi gli esperti forensi hanno sospettato prima un omicidio violento, poi hanno scoperto che il danno era dovuto all' attacco di Fido sul corpo già morto. Ma non per cattiveria: lo fa perché prova a svegliarvi. Qualcosa non va nel suo umano, è ansioso e inquieto. In questa situazione potrebbe mordicchiare le labbra del padrone proprio come gli uomini e le donne che si mangiucchiano le unghie o aggiornano la pagina social. Il libro - che è illustrato con deliziosi disegni realizzati da Dianné Ruz - è dedicato «ai futuri cadaveri di ogni età».
Tutte le serie tv maledette. Così sono stati uccisi gli attori. Dopo la morte di Naya Rivera, sono riprese le voci sulla "maledizione" di Glee. Ma questa celebre serie tv americana non è l'unica ad essere "maledetta". Marina Lanzone, Venerdì 17/07/2020 su Il Giornale. Naya Rivera è morta. Il corpo dell’attrice di Glee è stato ritrovato nel lago Piru, in California, il 13 luglio, dopo cinque giorni di ricerche. L’attrice e suo figlio Josey, 4 anni, avevano deciso di passare una giornata al lago, lontano da tutti. Un momento dolce, trasformatosi in tragedia. Naya Rivera è morta per annegamento, spinta dalla forte corrente, dopo aver messo in salvo il suo bambino. Il lago Piru è noto per la fitta vegetazione e per il fondale scuro e melmoso. Questo incidente poteva capitare a chiunque, anche al più abile nuotatore. Ma viene spontaneo pensare che non si tratti solo di una semplice coincidenza. Il 13 luglio è una data che si ripete, infatti proprio in quel giorno, nel 2013, è stato ritrovato il cadavere di Cory Monteith, alias Finn Hudson in Glee. Il giovane attore è deceduto per overdose da farmaci e alcool, dipendenza che non è riuscito mai a superare. Nel gennaio 2015, Mark Salling, anche lui nel cast di Glee nel ruolo di Noah Puckerman, si è suicidato, dopo che fu trovato in possesso di immagini pedopornografiche. Quello di Naya Rivera è quindi il terzo decesso nel cast della serie televisiva-musicale, su cui sembra stata lanciata una vera e propria "maledizione". Glee, però, non è l’unica serie "dannata": la lista delle fiction di successo dal destino infausto è piuttosto lunga.
Il peso della fama. Ad aprire questo elenco ci sono le "Adventures of Superman" (1952-1958). Il suo protagonista, George Reeves, è stato trovato morto a causa di una ferita da arma da fuoco nel 1959. Attualmente si pensa che si sia suicidato: dopo il successo ottenuto nei panni di Superman, la sua fama si era affievolita. La star hollywoodiana non sarebbe riuscita a superare la delusione e avrebbe deciso, quindi, di mettere fine al suo dolore nel più drastico dei modi. Decisamente il peso della fama è una delle sfide più grandi che un giovane attore deve saper affrontare nel corso della sua carriera. Non sempre, però, riesce ad avere la meglio sul suo nemico.
Salute cagionevole e dipendenze. Chiunque conosce "Vita da Strega", la sitcom statunitense prodotta tra il 1964 e il 1972 che narra la storia di una casalinga un po’ speciale. Samantha è una maga, che per amore avrebbe deciso di condurre una vita normale, lontana dalla magia. Ma la sua natura spesso prende il sopravvento. Pochi sanno, però, che dietro quel bellissimo sorriso si nasconde tanta sofferenza. La protagonista Elizabeth Montgomery, ad esempio, ha avuto un cancro al seno, un mostro feroce, diagnosticato troppo tardi. È morta a soli 62 anni. Agnes Moorhead, che interpretava la madre della streghetta, si è ammalata di tumore ed è scomparsa nel 1974, poco dopo il rinnovo della serie. Neanche il protagonista maschile è stato risparmiato: Dick York ha dovuto abbandonare il set durante le riprese per dei gravissimi problemi alla colonna vertebrale che non gli hanno permesso più di recitare. Ma non è tutto: la puntata pilota di "Vita da strega" è stata girata proprio nel giorno dell’omicidio del Presidente Usa John Fitzgerald Kennedy, il 22 novembre 1963. Una coincidenza malaugurante. Anche il maggiordomo di "Family Affairs" (1966) non ha goduto di ottima salute. Sebastain Cabot è morto pochi anni dopo la fine della serie tv a causa di un infarto fulminante. Nel 1976, la piccola Buffy nella fiction, interpretata dall’attrice Anissa Jones, è stata trovata morta all’età di 18 anni. A causare il decesso è stato un cocktail di alcool e droghe di cui abusava abitualmente. 21 anni dopo, Brian Keith, lo zio più famoso del piccolo schermo, si è tolto la vita: a causa della chemioterapia e dei suoi effetti depressivi, non è riuscito a superare la morte di sua figlia, anche lei suicida. Tra le serie tv maledette non può mancare "La famiglia Bradford" (1977) che per anni ha detenuto un vero e proprio primato. L’attrice Diana Hyland si è dovuta ritirare dalle scene dopo aver girato solo i primi quattro episodi a causa di un tumore al seno che l’ha uccisa ancor prima che il pilot fosse trasmesso in tv. Adam Rich (alias Nicholas) e Lany O’Grady (Mary nella serie) hanno sofferto di una forte dipendenza da alcol e droghe, che nel secondo caso ha portato alla scomparsa dell’attrice nel 2001. La bellissima Susan Richardson per anni è stata vittima dell’abuso di cocaina, e dopo esser uscita da questa spirale, si è ammalata di una rara sindrome che le portava forti spasmi allo stomaco e le ha provocato la caduta dei denti. Anche in "Otto sotto un tetto" (1989) i drammi non sono certo mancati. Michelle Thomas, che interpretava Myra, si è ammalata durante le riprese della nona stagione. Inizialmente rifiutò le cure tradizionali per non precludersi la possibilità di diventare mamma. Quando decise di iniziare la chemioterapia era ormai troppo tardi: il cancro ha avuto il sopravvento. Jaimee Foxworth, la piccola Judy, invece, ha avuto una dipendenza da alcool e droghe e ha iniziato a recitare nei film porno, non accettando il declino della sua carriera.
Problemi con la giustizia. Il bambino prodigio Gary Coleman, protagonista de "Il mio amico Arnold" (1978), ha avuto problemi alla crescita, provocati da una grave insufficienza renale che lo ha costretto a due trapianti dei reni e alla dialisi. È morto giovanissimo, all’età di 42 anni, per una brutta caduta. Oltre ai problemi di salute, il giovane attore ha dovuto affrontare una battaglia legale contro i suoi genitori, che hanno sperperato tutti i proventi guadagnati dal figlio durante le riprese. È stato poi accusato varie volte di violenza domestica. Anche Dana Plato (Kimberly nella serie) ha avuto problemi con la giustizia: è stata accusata di rapina a mano armata. Quando aveva 35 anni, è stato ritrovato il suo cadavere in una roulotte parcheggiata vicino la casa del suo ex fidanzato. La morte sembra essere dovuta a un’overdose da farmaci. Todd Bridges (Willi) ha abusato di droghe per anni ed è finito più volte in manette, anche con l’accusa di tentato omicidio.
Le battaglie vinte. Talvolta, però, proprio come nelle fiabe, dopo tanti problemi è giunto il lieto fine. Gli attori di "Baywatch" David Hasselhoff (Mitch), Jeremy Jackson (Hobie) e Yasmine Bleeth (Caroline) hanno abusato di alcool e droghe, dipendenze che sono riusciti a superare. Negli anni gli attori de "Il trono di Spade" hanno dovuto confrontarsi con depressione, alcool, problemi di salute e debiti. Sophie Turner, Cersei Lannister e il protagonista Kit Harington hanno passato momenti di forte sconforto e hanno dovuto fare i conti con la propria fama. Maisie Williams ha abusato di alcool, fin dall’adolescenza. Nikolaj Coster-Waldau ha avuto problemi di liquidità, mentre Emilia Clarke ha avuto due aneurismi. Ma in tutti casi, le battaglie personali sono state vinte. Anche le maledizioni più terribili possono essere sconfitte.
Dimmi come muori e ti dirò chi sei. Riprendere gli ultimi istanti di vita di qualcuno ha sempre valore informativo? La differenza tra la storia di George Floyd e quella dell'infermiere militare Ottavio De Fazio. Elvira Fratto il 7 giugno 2020 su Il Quotidiano del Sud. Dimmi come muori e ti dirò chi sei: è il malinconico epilogo della spettacolarizzazione della morte a cui, ormai, ci stiamo quotidianamente quasi abituando, l’impietoso flusso di notizie che documentano minuto per minuto gli ultimi respiri di un individuo che poi finiranno diffusi in rete; un modo di utilizzare la tecnologia a cui, forse, non eravamo ancora pronti. Nei giorni che stanno infiammando gli Stati Uniti dopo la morte di George Floyd, soffocato a morte da un poliziotto, accade in Italia, a Chieti, che Ottavio De Fazio, infermiere militare 49enne, perda la vita durante un incidente in moto. De Fazio guidava in solitaria la sua Yamaha quando, affrontando una curva, è caduto dalla sella. Per il Luogotenente, che negli ultimi mesi era stato impegnato sul fronte Coronavirus prestando servizio nell’ospedale da campo di Piacenza, non c’è stato nulla da fare: l’uomo ha urtato lo sterno contro il serbatoio della moto e l’emorragia interna che ne è conseguita gli è stata fatale. A nulla sono valsi i soccorsi prontamente prestati da un gruppo di motociclisti che aveva raggiunto il luogo dell’incidente, perché De Fazio ha esalato il suo ultimo respiro sull’asfalto, prima dell’arrivo dell’ambulanza e dell’elicottero del 118, allertati dai soccorritori. Negli stessi attimi in cui si tentava di rianimare il militare, un passante riprendeva la scena con il suo telefonino. Filmava tutto, fino all’ultimo respiro di De Fazio, postando poi il video su Facebook che però, nelle ore successive, è stato rimosso. E mentre in America infuriano le proteste e si susseguono giorni di rivolte accese e Case Bianche spente, mentre sembra che in quelle strade nulla si sia mai mosso dagli anni ’60 e dai tempi in cui Rosa Parks e Martin Luther King rivendicavano pari diritti tra bianchi e neri, una differenza tra i due scenari c’è. Nel primo, George Floyd muore asfissiato a causa del ginocchio dell’agente Derek Chauvin premuto sul suo collo (Chauvin era stato denunciato già 18 volte per atteggiamenti violenti nel corso della sua carriera) e una telecamera riprende il suo implorante “non respiro, per favore, non respiro”, finché non diventa un singulto sempre più flebile: Floyd non viene soccorso e il poliziotto lo lascia morire sotto il proprio peso; nel secondo, Ottavio De Fazio riceve un soccorso rapido e tempestivo, seppure non sufficiente, eppure la sua morte diventa un tragico cortometraggio da diffondere su Facebook. Gli ultimi attimi di vita di un uomo, quelli nei confronti dei quali è d’obbligo il massimo rispetto, divenuti una parentesi di fama (o forse fame?) da social, una morte ripresa per cosa? Puro voyeurismo? Likes facili? Volontà di apparire? Possedere ogni cosa ci ha messo nelle condizioni di non avere rispetto di nulla; poter pubblicare tutto ci ha resi incapaci di distinguere il lecito dal non lecito. Abbiamo disimparato l’amore, il soccorso e il rispetto sostituendoli con la vanagloria delle visualizzazioni, come i doni dei Re Magi che di colpo cambiano a Natale, dopo secoli di consolidata abitudine alla loro preziosità. Il resoconto video della morte di George Floyd diventa così strumento di verità e di inconfutabile colpevolezza, motivo di rivolta, un reclamo di vergogna che nel 2020 tristemente ci troviamo ancora a replicare. Si trasforma in un manifesto di rabbia e indignazione, ritratto fedele della società malata, incompleta e dai valori precari che abbiamo edificato. Gli ultimi istanti di vita di Ottavio De Fazio non possiedono alcun valore informativo, se non quello di ricordarci che male e banalità, come già suggeriva Hannah Arendt, sono due concetti fin troppo assimilabili: in America vige la banalità del male, in Italia il male della banalità. Di fronte a tanta, spiccata – eppur sottile – somiglianza, “Oltreoceano” non sembra più un posto così lontano.
Andrea Marcolongo per “la Stampa - TuttoLibri” il 10 febbraio 2020. «Animo, animo, sconvolto da mali senza rimedio, su, in piedi (…). Conosci quale ritmo domina gli uomini», così cantava il poeta Archiloco. Proprio al senso dell’incedere nella vita Mauro Bonazzi dedica il suo nuovo saggio, Creature di un sol giorno. I Greci e il mistero dell’esistenza, edito da Einaudi. Qual è il senso di ciò che siamo e facciamo? Come dare valore all’esistenza? Bonazzi guarda da filosofo alla luminosa riflessione prodotta dal pensiero greco senza dare una risposta risolutiva, ovviamente. Avanza però proposte per dare significato alla nostra incompletezza, al nostro essere «esseri desideranti» per eccellenza. Ma cosa stiamo cercando per davvero? Ogni ipotesi esaminata nel libro - dall’amore alla vita politica, dalla conoscenza al viaggio - potrebbe apparire incompleta se non si chiarisce prima chi, secondo i Greci, siamo. Ephemeroi sono gli uomini, per dirla con i versi di Pindaro nella Pitica VIII. Effimeri, un aggettivo entrato nel nostro vocabolario dal greco e che propriamente significa «che dura un giorno» (ecco spiegato il formidabile titolo scelto da Bonazzi). In botanica e in zoologia si dicono effimeri i fiori e gli insetti certamente belli, ma destinati a una vita così breve da risultare insignificanti. Sogno di un’ombra è quindi la condizione umana, che non può essere né definita né indagata senza includere a priori la sua fine inevitabile: la morte. Per i Greci era questo lo scandalo supremo, il mistero inaccettabile contro cui hanno sempre combattuto vigorosamente a colpi di poesia, di filosofia, di imprese e di scoperte. Siamo dunque effimeri come farfalle, ecco il punto al centro del saggio di Bonazzi: nasciamo, viviamo, moriamo. Il problema non è tanto la fine - quella è data per il solo essere al mondo -, ma il fatto che l’inevitabilità della morte rischia di togliere valore e significato all’esistenza, sprecata nel piacere o arresa al fato. Una delle questioni che l’autore si pone è il rapporto degli antichi con quell’eros sempre contrapposto a thanatos: può essere l’amore la forza capace di sottrarci alla morte? Del resto, proprio «esseri erotici», concepiti per desiderare l’amore dell’altro, siamo diventati quando abbiamo perduto l’immortalità. Come magistralmente narra Platone nel Simposio, un tempo lontano eravamo simili a sfere, con quattro gambe e quattro braccia e ci muovevamo «come gli acrobati quando fanno le capriole». Eravamo potenti e felici perché completi. Nonché immortali: non morivamo e dunque non avevamo alcun bisogno di amare. Fu dopo aver assaltato il cielo che fummo tagliati in due, come pere o uova, o come sogliole, così che diventassimo più umili. Più manchevoli, quindi più condannati ad anelare. «Siamo prima di tutto mancanza, e dunque desiderio», scrive Bonazzi. Ma cosa cerchiamo attraverso l’amore? Non solo corpo e sesso, opzione già scartata da Platone: «è chiaro che altro la loro anima vuole, altro che non sa dire». È certo che, grazie all’amore e alla procreazione, possiamo sottrarci all’effimero: unendoci generiamo dei figli, la natura può continuare la sua battaglia per la sopravvivenza di generazione in generazione. Dobbiamo dunque considerare l’amore un mero trucco della vita per preservare la specie? Noi non ci saremo, ma resterà una piccola parte di noi, come Hegel tormentato da una mosca dell’anno passato: il singolo insetto muore, ma «le mosche restano uguali a se stesse, come onde del mare», scrive Georges Bataille. Eppure non è in questo artificio che si spiega il nostro disperato, patetico bisogno di amore; non è neppure nell’altro oggetto di amore, conclude Bonazzi. Quando amiamo, non cerchiamo altro che amare noi stessi. Il vero desiderio è quello dell’unità perduta, è «il desiderio di recuperare tutto quello che perdiamo di noi, giorno dopo giorno». Anche gli eroi dell’Iliade sono morti in battaglia nella piana di Troia per sottrarsi alla morte, come dichiara Sarpedone nel canto XII: se fossero stati immortali come gli dei, non avrebbero avuto bisogno di dimostrare il loro valore in battaglia per guadagnarsi l’onore (timé) e la gloria (kleos) in quanto unico modo per sconfiggere il nemico più insidioso, l’oblio della morte. Allo stesso modo, Pericle ricorda (stando alle parole di Tucidide) che i caduti della guerra del Peloponneso non sono morti invano, poiché stavano difendendo Atene, vale a dire la democrazia, e impedirne la fine significa sottrarsi alla singolarità della morte. «Siamo eroici proprio nella nostra fragilità ostinata, per questa capacità di non arrenderci, di continuare a porci domande, tentando di fare ordine nel mondo e in noi stessi», scrive a un certo punto Mauro Bonazzi che, come diceva Archiloco citato all’inizio, con questo saggio rende il ritmo che domina il vivere meno opaco. E che certamente così esorta noi, afflitte creature di un sol giorno: su, in piedi.
Giordano Tedoldi per “Libero Quotidiano” il 4 febbraio 2020. La morte dei grandi è un genere a sé stante e, nonostante l' argomento, sempre vitale. Come è morto Pasolini? E Majorana? E Tchaikovsky? Suicidio, omicidio (e allora chi è l' assassino?), morte naturale: la modalità della fine getta una luce retrospettiva su tutta una personalità, cambia le carte in tavola, le interpretazioni delle opere, le analisi. Petrolio, il grande romanzo incompiuto di Pier Paolo Pasolini non è lo stesso libro se l' autore è stato ucciso dallo Stato, come alcuni sospettano, anziché soltanto dal ragazzo di vita Pino Pelosi. Ma perché il "Palazzo" l' avrebbe ucciso? Perché il poeta sapeva troppo: della fine di Enrico Mattei, delle bombe, e in Petrolio avrebbe svelato, benché in modo cifrato, misteri che tali avrebbero dovuto restare. E la Patetica di Tchaikovsky? Quest' ultima sinfonia del compositore russo è una lettera d' addio di un uomo disperato, e perciò determinato al suicidio, a causa del suo amore, all' epoca assolutamente inaccettabile, per un ragazzo, il nipote Vladimir "Bob" Davydov, cui l' opera è dedicata? Oppure il musicista avrebbe voluto vivere ancora, non fosse stato per il colera? Quanto al grande fisico Majorana, uno dei "ragazzi di via Panisperna" che per primi scoprirono i segreti dell' energia atomica, le ipotesi sulla sua scomparsa sono innumerevoli, e poco ci manca che qualche complottista lo ipotizzi, decrepito ma vivo, su qualche isola misteriosa insieme a Paul McCartney, quello vero, essendo l' altro Beatle solo un sosia. Tra storia e cospirazionismo, difficile districarsi in tali questioni, ma il genere della morte misteriosa (e finalmente, si presume, risolta) continua a prosperare. Di prossima pubblicazione c' è adesso un libro che si occupa degli ultimi giorni del poeta cileno, e premio Nobel, Pablo Neruda. Autore notissimo anche grazie a un celebre film con Massimo Troisi, anche se, crediamo, ben poco letto. Ma sicuramente riscuoterà interesse questo Delitto Neruda di Roberto Ippolito (Chiarelettere, 256 pagg, 17,60 euro), perché a differenza di altri casi (vedi Majorana) gli indizi con cui Ippolito costruisce la sua indagine sono perlomeno plausibili, e hanno il sostegno non di complottisti professionali, ma di Rodolfo Reyes, un nipote di Neruda. Cosa si asserisce nel libro di Ippolito? Che la versione ufficiale circa la morte del poeta, avvenuta il 23 settembre del 1973 nella clinica Santa María di Santiago del Cile, dodici giorni dopo il golpe con il quale Augusto Pinochet scalzò Salvador Allende dal governo, è falsa. Sparita la cartella clinica, la motivazione ufficiale della morte fu attribuita al cancro alla prostata di cui Neruda soffriva da tempo. Una versione, secondo Ippolito, imposta dal regime di Pinochet. Neruda infatti era in procinto di espatriare in Messico, dove avrebbe potuto continuare il suo sostegno alla causa comunista, forte dell' influenza che la sua fama esercitava sull' opinione pubblica. Nel 2013, il giudice cileno Mario Carroza ordinò la riesumazione del corpo di Neruda e, nello stesso anno, l' autista del poeta, Manuel Araya, in un' intervista alla rivista messicana Proceso, raccontò che il poeta l' avrebbe chiamato disperato, di notte, dalla clinica, dicendo di essere stato avvelenato con un' iniezione fattagli mentre dormiva. Sulla base di campioni biologici del cadavere, e delle analisi su di esse svolte in laboratori di genetica forense, nel 2017 un gruppo di sedici scienziati si dichiarò «al cento per cento sicuro» che Neruda non era affatto morto di «cachessia dovuta al cancro alla prostata», come riportato nel suo certificato di morte. Uno degli esperti, Niels Morling del dipartimento di medicina forense dell' Università di Copenaghen, affermò: «Non c' era alcuna traccia di cachessia. Al momento della morte era un uomo obeso. Tutte le altre circostanze nell' ultima fase della sua vita indicano qualche tipo di infezione». A complicare le cose, ci sono le testimonianze di chi vide il poeta in clinica. Alcune riferiscono di un uomo finito, quasi in coma, altre, all' opposto, lo descrivono così vigoroso da essere ancora in grado di dettare le sue memorie al segretario, Homero Arce. E se uno dei nipoti, come abbiamo detto, appoggia la teoria dell' avvelenamento, un altro, Bernardo Reyes, crede che sia una pura speculazione per fare clamore. Forse, come in molti casi analoghi, la verità non emergerà mai, ma l' indagine sugli ultimi giorni dei grandi uomini è pur sempre un modo di studiarli e di approfondirli.
· Parlare con i morti.
LA DONNA CHE SUSSURRA AI MORTI. Brunella Bolloli per “Libero quotidiano” il 9 dicembre 2020. «Le mando le foto degli angeli che ho visto». Susi Gallesi lo dice con naturalezza, la voce calma, l' inconfondibile inflessione emiliana di chi ha messo le radici tra Modena e Piacenza.
Dove li ha visti?
«In casa, in cielo, ovunque decidano di manifestarsi. Loro sono tra noi, sono pura energia, parlano e ci danno prove pratiche».
Che tipo di prove pratiche?
«Nomi, date, segnali».
Che cosa bisogna fare durante questi incontri?
«Ascoltare. Bisogna prendere tutto quello che dicono. Si fanno vedere poco ma parlano più di prima».
Prima di quando?
«Prima, all' inizio».
Susi, quante volte non è stata creduta o, peggio, si è sentita dare della pazza? Silenzio.
«All' inizio tante. Anche mia madre ci ha messo molto tempo. Mi ha creduto soltanto alla fine, quando ormai se ne stava andando, cinque anni fa, ma non è colpa sua, è che ha avuto una vita difficile».
Susanna Gallesi è nata il 4 luglio del '64 a Finale Emilia. Quando aveva solo un anno e mezzo suo padre Giovanni muore in un incidente stradale, ucciso da un automobilista ubriaco. A 3 anni mentre gioca nella cascina della nonna paterna viene attratta da un piccolo passaggio che la conduce a un vecchio mulino e lì trova ad attenderla un giovane sorridente: suo padre Giovanni, che dopo quel primo "contatto" si farà vivo più volte nell' esistenza della figlia, all' inizio come compagno di giochi poi per consigliarla in modo affettuoso. Dopo tanti anni Susi gli parla ancora. «Papà ce l' ho da parte», spiega come si dice di una cosa preziosa custodita in un posto conosciuto solo da noi. È da quell' episodio alla cascina che la donna capisce di possedere un dono, quello di essere un tramite per la persona che desidera ricevere un messaggio da qualcuno che ha perso, oppure per avere conforto, durante una fase drammatica dell' esistenza, da chi si porta sempre nel cuore, ma è ormai oltre. Lei lo chiama "il passaparola dal cielo", uno scambio tra chi è di qua, nell' inferno terreno, e chi è in un' altra dimensione dove va tutto bene, non ci sono dolori, malattie, guerre né tristezze. «Là è molto bello, per questo loro riescono a trasmetterci energia», assicura. Loro sono gli angeli o più precisamente «le anime di luce», che questa medium vede ad esempio nelle forme di una nuvola con fattezze umane, fotografa, sente.
Solo sette sensitivi. Chi è scettico sappia che questa signora ha superato i criteri di accuratezza previsti dal protocollo del gruppo di ricerca italiano sulla medianità riconosciuto dalla Facoltà di Psicologia dell' università di Padova. Test complessi, li definisce il dottor Fernando Sinesio, infatti per ora solo in 7 hanno superato le valutazioni in Italia. Susi ha scritto tre libri, tutti autobiografici, l' ultimo dei quali non a caso si chiama Ho visto un angelo e racconta le testimonianze più toccanti di coloro che come lei hanno avuto la fortuna di dialogare con tali «entità», che a volte possono perfino manifestarsi fisicamente, «spesso sono di sesso maschile e ben vestiti». È sicura che tutti noi possediamo un angelo, non importa se siamo buoni o cattivi, innocenti o pericolosi assassini: la differenza sta nel sapere riconoscere i segni; ma non è una questione di credere nell' aldilà o di essere particolarmente religiosi, «io non conosco neppure una preghiera, non vado in chiesa, eppure a mio modo faccio del bene, aiuto chi mi chiama». La chiamano in tanti, infatti, e se in principio erano soprattutto mamme distrutte dalla perdita di un figlio, donne annichilite dal distacco e desiderose ancora di sentire vicino la propria creatura volata via, da quando il Covid ha seminato lutti e disperazione la platea si è in parte modificata. Ora non mancano i familiari delle vittime del virus, traumatizzati e in colpa perché a causa del contagio non sono neppure riusciti a salutare il loro caro, a tenergli la mano, ad accompagnarlo come si deve. Persone che hanno visto i genitori o i nonni caricati su un' ambulanza e portati in ospedale a morire. Soli. «Sì, mi è capitato di avere questo tipo di richieste», conferma la sensitiva. «Una ragazza si è rivolta a me dopo che ha perso il padre e due settimane fa una signora a cui il virus ha strappato il marito voleva mettersi in contatto, dirgli che avrebbe voluto stare con lui fino alla fine». Lei cosa ha fatto?, chiediamo mentre vengono in mente le scene di Ghost, o la serie tv con protagonista Patricia Arquette e le altre fiction sui poteri paranormali e perfino il famigerato tavolino da seduta spiritica che ha sempre suscitato un mix di timore e curiosità. Ascoltare sempre «Non vado in trance, non cambio voce. Ascolto le loro parole e registro, poi mando tutto alla persona che ha richiesto il mio intervento la quale sentirà la mia voce che riporta ciò che mi è stato detto e in sottofondo altri suoni provenienti da lontano». Si tratta della metafonia, fenomeno dei presunti rumori paranormali che, pur non avendo credito in ambito scientifico, è considerato attendibile dagli appassionati di spiritismo perché consentirebbe di dialogare con l' aldilà, o comunque con un' altra dimensione. Solo autosuggestione? Abuso della credulità popolare? Il tema è da sempre alquanto dibattuto. Di sicuro Susi Gallesi, che prima lavorava nelle strutture per anziani, a differenza di molti sedicenti maghi non ha mai sfruttato il suo dono di «portavoce delle anime che vogliono comunicare» con i cari trapassati. Né si è mai arricchita per i suoi consulti. «Vivo in campagna con 33 gatti e un cane. Non mi sono mai fatta pagare, conosco la povertà, al massimo posso chiedere un' offerta per i miei animali».
· I complottisti della morte.
Marco Molendini per Dagospia il 26 luglio 2020. La lista delle fregnacce del rock è lunga. E rischia di allungarsi ancora. L'ultima (è un riciclaggio, però) viene dal fratello del più spettacolare chitarrista che sia mai apparso sulla scena del musica, Jimi Hendrix: a quasi 50 anni da quel settembre 1970 in cui Jimi venne trovato privo di vita in un albergo di Londra fulminato da un'overdose di tranquillanti, così disse il referto ufficiale, Leon Hendrix, 71 anni, chitarrista anche lui (ma il talento non fa parte del patrimonio genetico), ex disegnatore della Boeing, un libro già scritto circa dieci anni fa, rilancia una vecchia e balzana tesi: «Sono convinto che mio fratello sia stato ucciso». Amen. Chi potrebbe averlo fatto fuori: un chitarrista invidioso, uno spacciatore in credito o come, pare sostenere Leon, un manager avido, oppure uno psicopatico nazionalista offeso per la sua versione distorta dell'inno Star spanled banner? O tutti insieme, in un complotto contro il miglior chitarrista del mondo? Il vizio di non lasciare in pace i morti non è nuovo e non è destinato a svanire. King Elvis ancora si rigira nella tomba, non per essersi rimpinzato di cibo e pillole, ma perchè c'è chi sostiene che a farlo fuori sia stata la mafia americana, che ce l'aveva con lui perché collaborava con l'Fbi e, proprio il giorno della sua morte, avvenuta nell' agosto del ' 77, avrebbe dovuto testimoniare in un processo contro mafiosi accusati di avere emesso lettere di credito e certificati di deposito falsi. Elementare eliminarlo, e il buon re del rock 'n' roll avrebbe dato una mano con i suoi vizi. Anche Kurt Cobain non riposa in pace: non si sarebbe sparato da solo. Un metallaro scoppiato El Duce (vero nome: Eldon Hoke) venne trovato morto otto giorni dopo avere sostenuto che Courtney Love aveva tentato di ingaggiarlo per uccidere il marito (presunta ricompensa: 50 mila dollari). Quanto a Michael Jackson non sarebbe stato un'incidente la somministrazione di Propofol, ma la dose letale gli sarebbe stata iniettata dolosamente. Il motivo è fumoso (come del resto gli altri), ma di mezzo ci sarebbero stati i costi della sua ultima, e mai realizzata, tournée. C'è la politica, invece, a dare fiato ai complottisti sulla morte di Janis Joplin, trovata in una stanza del Landmark Hotel, a Los Angeles, stroncata da una letale miscela di eroina, morfina e whisky. Janis aveva 27 anni: rappresentava un modello fastidioso e pericoloso per il sistema. E, allora, ecco la punturina finale. La stessa (stavolta l'accusa va diretta alla Cia), che per gli infaticabili dietrologi avrebbe eliminato un altro ventisettenne, Jim Morrison. Un restauratore avrebbe invece gettato in piscina Brian Jones,, accusa lanciata dall'ex fidanzata del fondatore dei Rolling Stones, Anna Wohlin che ha risvegliato i propri dubbi 31 anni dopo l'accaduto. E il movente? Affidato alla fantasia: ognuno come gli va. In fondo, poi, anche da noi c'è un caso inesistente che si trascina da 53 anni e che ogni tanto viene rilucidato: il suicidio di Luigi Tenco a Sanremo. Tesi e ricami, tutti a fini editoriali (libri, interviste, narcisismi familiari, speculazioni) che cullano un sentimento popolare: «Il complotto ci fa delirare perché ci libera dal peso di confrontarci da soli con la verità» sosteneva Pasolini. Ma il complotto si accompagna a un altro filone altrettanto liberatorio e strampalato: quello dei morti viventi. Ci sarebbe una vera e propria folla di rockstar, ma anche divi del cinema e comunque famosi scomparsi che si nasconderebbero chissà per quale motivo da qualche parte sotto mentite spoglie: gente, in certi casi longeva, come Elvis, Morrison, Cobain, Lennon, Jacko, Marilyn, Glenn Miller, John Belushi, Heath Ledger, Che Guevara. Anche fra i morti viventi ha c'è un personaggio italiano: Moana Pozzi. Diceva un filosofo come Schopenhauer: «Non v'è rimedio per la nascita e la morte, salvo godersi l'intervallo». Se si allunga l'intervallo, il godimento può diventare eterno.
Da “Il Messaggero” il 26 luglio 2020. Pubblichiamo in esclusiva lo stralcio della prefazione di The story of life. Gli ultimi giorni di Jimi Hendrix di Gentile e Crema. La firma è del fratello, Leon Hendrix. «Quando la mattina del 18 settembre 1970 mio padre mi comunicò per telefono la notizia della morte di Jimi, fu il momento più terribile della mia vita. Ero incredulo, ricordo che restai seduto per ore sul bordo del letto fissando il muro mentre rievocavo gli anni che io e Buster (il nome con cui Jimi si faceva chiamare da bambino) avevamo trascorso insieme, le ore belle e quelle meno belle. Quando ero piccolo era lui che si prendeva cura di me in tutto, tanto che credevo fosse lui mio padre. Era più che un fratello maggiore, molto di più (...). Mio fratello nel fare musica sembrava essere toccato dalla grazia, come fosse stato scelto da un potere superiore: era predestinato a diventare una star. Aveva qualcosa di speciale che lo contraddistingueva da chiunque altro, Jimi era in anticipo sui tempi e lo è ancora. Ricordare i bei momenti con Jimi mi riporta il sorriso, ma quando riaffiorano quelli più difficili mi si spezza il cuore. La mente torna a quel settembre e, per quanto ci provi, non riesco a trattenere le lacrime. Al funerale di Jimi c'erano amici e musicisti: Noel Redding, Mitch Mitchell, Buddy Miles, Johnny Winter, Miles Davis e molti altri, oltre tutti i nostri parenti. Ricordo anche la presenza del sindaco di Seattle. Jimi indossava un abito di broccato di seta verde e aveva l'aria tranquilla e pacifica, quasi come se stesse dormendo o semplicemente pensando con gli occhi chiusi al suo prossimo progetto musicale, è così che mi piace immaginarlo a distanza di cinquant' anni (... ). Dal momento in cui il corpo di Jimi fu calato sottoterra, in quel pomeriggio uggioso, si scatenò una durissima battaglia legale. Tutto quello che possedeva Jimi, dopo la sua morte, sarebbe andato a papà, ma presto si scoprì che era rimasto ben poco da rivendicare: del patrimonio di mio fratello io non mi sono mai potuto occupare. Non ho un'idea precisa nemmeno di cosa accadde quella fatidica notte nella stanza d'albergo di Londra, nessuno lo sa e nessuno probabilmente lo saprà mai davvero. La sintesi è terribile: dopo una serata di festa Jimi tornò in albergo e il mattino seguente era morto. Nello stomaco trovarono tracce di sonniferi, un po' di vino e un panino. Poi ci dissero che era stata un'overdose di tranquillanti. Tutto qui. Ho sentito tante storie e molte erano in contraddizione tra loro: tanta, troppa gente voleva dire la sua. Si saprà mai la verità? Riuscirà un giorno a emergere tra le tante voci di corridoio, tra speculazioni e invenzioni in malafede? Mio fratello lo meriterebbe. Nel tempo mi sono sempre più convinto che Jimi sia stato ucciso. Non credo molto ai complotti, non penso che Mike Jeffery lo abbia fatto uccidere, almeno non prima di aver sistemato le questioni di mio fratello e accaparrarsi un'altra fetta di denaro e magari un'altra polizza sulla vita. È vero che in certi ambienti Jimi era malvisto per la sua figura mitica, per l'influenza che esercitava e anche per la sua interpretazione dell'inno nazionale americano: ma ucciderlo per questo? No, Jimi è stato ucciso da una macchina infernale che lo ha stritolato. Da questo punto di vista sono molti gli assassini di mio fratello: i manager avidi con le pretese di tour estenuanti, i giornalisti assillanti, l'opinione pubblica, i fans e le groupies che non gli davano tregua, i debiti contratti per gli Studios e le cause legali.
· La maledizione del "club 27".
Simona Marchetti per "corriere.it" il 14 ottobre 2020. Quando è morto suicida, sparandosi un colpo d'arma da fuoco durante la festa di compleanno della sua ragazza lo scorso 12 luglio, Ben Keough, figlio di Lisa Marie Presley e nipote del leggendario Elvis, aveva in corpo alcool e cocaina. A rivelarlo è il rapporto dell’autopsia ottenuto dal Sun, che registra il decesso come suicidio causato da una ferita d’arma da fuoco, aggiungendo inoltre che il 27enne è risultato positivo ad alcool e cocaina. Sempre secondo il documento autoptico, Ben aveva già tentato di togliersi la vita cinque o sei mesi prima del disperato gesto di luglio e tre mesi fa aveva sofferto di una grave ricaduta in depressione.
Tre volte in rehab. A quanto pare, non aveva però chiesto aiuto a nessuno per superare i suoi problemi mentali, aggravati anche dall’abuso di alcool e sostanze illecite come la cocaina, dipendenze che aveva inutilmente cercato di curare con diversi ricoveri nei centri di riabilitazione (era stato in rehab tre volte, completando però il programma una sola volta). Nel rapporto si parla anche di un presunto litigio fra l’erede di Elvis e la sua ragazza, Diana Pinto, registrato dalle telecamere di sorveglianza nel cortile della villa di Calabasas di proprietà della Presley e teatro del suicidio, poco prima che Ben andasse in bagno e si sentisse riecheggiare il colpo d’arma da fuoco fatale. Sulla scena del suicidio non è stato trovato alcun biglietto d’addio e il giovane Ben è stato poi sepolto nel Giardino della Meditazione di Graceland, a Memphis, accanto al celebre nonno.
Da "ilmessaggero.it" il 17 settembre 2020. Tre personaggi del mondo dello spettacolo sono morti in Asia, negli ultimi tre giorni, in circostanze misteriose che fanno pensare al suicidio. Tutti avevano 36 anni. L'ultimo a perdere la vita è stato il cantante, attore, conduttore televisivo e imprenditore taiwanese Alien Huang, conosciuto anche come Huang Hong-Sheng o Xiao Gui, morto a 36 anni nella sua casa di Taipei. Prima di lui hanno perso la vita la coreana Oh In-hye e la giapponese Sei Ashina.
Il cantante taiwanese Alien Huang. La polizia locale ha confermato che il corpo di Huang è stato trovato senza vita mercoledì mattina (ora locale) nella sua casa nel distretto di Beitou di Taipei. La causa della morte deve ancora essere determinata ma si sospetta il suicidio. I media locali hanno pubblicato numerosi dettagli che devono ancora essere confermati. Secondo Apple Daily Taiwan, Huang è stato trovato mezzo nudo in casa e sul pavimento c'erano macchie di sangue. Secondo altre ricostruzioni il corpo di Huang è stato trovato disteso nel corridoio fuori dal bagno. Secondo quanto riportato da United Daily News, la vasca da bagno era piena d'acqua. E in casa non sarebbero state trovati droghe, alcol o segni di effrazione. Il filmato della telecamera di sicurezza ha mostrato che Huang è tornato a casa da solo alle 19.15 di martedì e non è più uscito. A trovare il corpo ed avvisare la polizia è stato il padre di Huang, arrivato a casa verso le 11 di mercoledì. Huang ha fatto la sua ultima apparizione sui social media con una storia di Instagram in cui giocava con un cane il 15 settembre. Ex membro della boy band giapponese HC3, e anche della band taiwanese Cosmo, Huang (alias Xiao Gui o Little Ghost) aveva costruito una carriera nel mondo dell'intrettanimento a 360 gradi: aveva recitato in diversi film, tra cui "Din Tao: Leader of the Parade" e il recente "Agire per amore", in moltissime serie tv e come conduttore di show televisivi come "100% Entertainment", che conduceva con un altro cantante, Show Lo (che si è detto choccato sui social), e "Mr. Player" con Jacky Wu. Nel 2008 Huang ha anche fondato Alien Evolution Studio, un marchio di abbigliamento ancora in attività. Huang è la terza celebrità asiatica ad essere morta all'età di 36 anni in tre giorni consecutivi, in circostanze misteriose che fanno pensare al suicidio. Il 14 settembre è morta infatti l'attrice giapponese Ashina Sei ed è di oggi la notizia della morte dell'attrice coreana Oh In-hye.
L'attrice coreana On In-Hye. L'attrice e modella coreana Oh In-hye è morta lunedì all'Inha University Hospital di Incheon, in Corea del Sud, dove era stata trasportata dopo essere stata trovata priva di sensi a casa sua. Aveva 36 anni. La polizia della città di Incheon ha detto ai media locali di aver risposto a una chiamata dell'amica di Oh che aveva trovato l'attrice priva di sensi in casa lunedì. Oh è stata portata all'ospedale universitario ma è morta lunedì sera per un arresto cardiaco. Le circostanze della morte sono oggetto di indagine, anche perché la polizia ha rivelato che Oh soffriva di depressione. Non si esclude nulla, dunque, compresa l'ipotesi del suicidio. La Oh ha fatto il suo debutto nel film drammatico del 2011 "Sin of a Family". Poi ha recitato in titolo di discreto successo del cinema coreano come "Red Vacance Black Wedding" (2011), "Secret Travel (Sowon taeksi)" del 2013 e "Janus: Two Faces of Desire" (2014), nonché in serie televisive come 'Horse Doctor' (2012) e 'Yeonnam-dong 539' (2018). Negli ultimi anni Oh ha lavorato più sporadicamente come attrice in film e in tv e si è dedicata prevalentemente al beauty vlogging su YouTube. La morte di Oh è solo l'ultima tragedia che ha colpito l'industria dell'intrattenimento della Corea del Sud. All'inizio di quest'anno, Yohan, un membro della band di K-pop TST, è morto a 28 anni. E negli ultimi anni diverse altre giovani star si sono suicidate: nel 2017 si è tolto la vita a 27 anni il frontman della boy band Shinee, Kim Jong-hyun; l'anno scorso, la stessa sorte è toccata alla cantante e attrice Goo Hara, che aveva 28 anni, e alla cantante Sulli, che ne aveva 25.
L'attrice giapponese Ashina Sei. L'attrice giapponese Sei Ashina, protagonista del film "Seta" scritto da Alessandro Baricco e diretto dal francese Francois Girard, è stata trovata morta lunedì 14 nel suo appartamento di Tokyo, in quello che i media locali descrivono come un "apparente suicidio". Ashina aveva 36 anni. Secondo quanto riferito dalla stampa nipponica, il suo corpo ormai senza vita è stato scoperto da un parente, allarmato dal fatto che non rispondesse al telefono. A quanto riferito, aveva una corda al collo e il dipartimento di polizia metropolitana di Tokyo ritiene che si sia suicidata, sebbene non sia stato trovato alcun biglietto, né fosse noto alcun problema personale. Nata a Koriyama, città della prefettura di Fukushima, il 22 novembre 1983, Ashina aveva iniziato la sua carriera come modella per poi intraprendere la strada della televisione e del cinema, dove ha recitato in varie serie e realizzato anche numerosi doppiaggi. Ma a consacrarla a livello internazionale era stato proprio il film tratto dal libro di Baricco, adattato per il cinema dallo stesso scrittore, girato nel 2007 e presentato in anteprima in Giappone nel 2008.
Il club dei 27, ribelli maledetti e musicisti inarrivabili: da Jimi Hendrix a Jim Morrison. Paolo Delgado su Il Dubbio il 14 settembre 2020. Tutti accomunati dall’età della loro morte e da un talento unico. Quando morì per avvelenamento da barbiturici, forse ingeriti con consapevole intento suicida, Alan “Blind Owl” Wilson aveva 27 anni. Non era ancora un’età maledetta ma lo sarebbe diventata di lì a poco, con la strage dei musicisti rock, per coincidenza tutti ventisettenni, dei mesi successivi. A cinquant’anni di distanza dalla scomparsa Blind Owl se lo ricordano in pochi. All’epoca la band californiana in cui suonava, i Canned Heat, erano popolarissimi e Wilson, con il suo aspetto inconfondibile, grasso e ornato da un barbone da profeta biblico, lo conoscevano tutti. Con l’armonica era bravissimo, secondo John Lee Hooker il migliore di tutti, aveva scritto e cantato i due principali successi dei Canned Heat, Going Up the Country e On the Road Again, a Woodstock, l’anno prima, e a Monterey, nel 1967, aveva spopolato. Blind Owl era un ragazzo depresso e aveva già tentato il suicidio qualche mese prima. La sua morte suonò comunque come un segnale sinistro per l’intera controcultura di cui era figlio e insieme protagonista. Il rapporto tra le star e il loro pubblico, mezzo secolo fa, era diverso da quello di oggi. Per molti versi opposto. Le rockstar si sforzavano di somigliare al loro pubblico. Vestivano allo stesso modo. Spesso pensavano allo stesso modo e ci tenevano a farlo sapere. Si proponevano e comunque erano considerati non solo musicisti ma, in un certo senso, portavoce. In parte era di certo una recita ma solo in parte. In fondo rockstar e pubblico venivano dallo stesso ambiente, avevano quasi sempre storie e percorsi molto simili alle spalle. Alan Wilson era, per esempio, uno dei primi ecologisti appassionati quando l’ambiente non era ancora un problema in testa alle agende di tutti. La sua morte, sia per overdose che per suicidio, non fu solo la perdita di uno dei migliori musicisti allora in circolazione ma una sorta di segnale più complessivo. Il vento stava cambiando. La lunga stagione della controcultura, degli hippies, dei festival oceanici intesi anche come modelli di vita diversi, aveva passato il suo mezzogiorno, anche se sul momento pochi se ne accorsero. Ma le folate gelide erano iniziate già nel 1969, l’anno di Woodstock, per molti versi ancora più trionfale del ‘ 68 per le culture giovanili ribelli. Il 3 luglio 1969 era morto nella piscina della sua villa Brian Jones, naturalmente a 27 anni. Era sembrata subito una morte misteriosa, frettolosamente archiviata come incidente mentre le testimonianze emerse nei decenni successivi dicono che si trattò invece, quasi certamente, di omicidio. Jones era di fatto già fuori dalla band che aveva fondato, spodestato e sostituito dalla coppia Mick Jagger- Keith Richards, i Glimmer Twins. Era stato distrutto dall’espulsione dagli Stones ed era comunque devastato da droghe di ogni tipo. La sua fine non fu vista sul momento come un’inversione della tendenza che aveva reso gli anni 60, sia in Uk che negli Usa, forse il decennio più creativo e innovativo della storia. Il mese seguente però l’intero mondo rimase sconvolto dall’eccidio di Cielo Drive, l’uccisione dell’attrice Sharon Tate, moglie di Roman Polanski, e di altre quattro persone nella villa del regista in California, seguito la notte successiva dall’uccisione, altrettanto efferata dei coniugi La Bianca. Stavolta non si poteva equivocare. I killer, la “Manson family”, erano a tutti gli effetti hippie, indistinguibili dalle centinaia di migliaia di giovani avrebbero reso il concerto di Woodstock un evento o storico o che manifestavano per le strade d’America. Emergeva nel odio più truce e tragico una componente oscura della controcultura della cui esistenza nessuno si era sino a quel momento accorto. Poi, il 6 dicembre, l’ombra si allungò sul cuore della controcultura, i concerti di massa. La risposta dei Rolling Stones al concerto di Woodstock che erano stati costretti a disertare fu un concerto gratuito, con la partecipazione di numerose altre star, ad Altamont, nella California del Nord. Affidarono la gestione della sicurezza, su consiglio dei Grateful Dead, agli Hell’s Angels e fu in disastro. Gli Angels erano amici dei dead e li rispettavano, ai loro concerti si erano comportati eccezionalmente bene. Con gli Stones fu un’altra storia, picchiarono e bastonarono, coinvolsero nei disordini gli stessi musicisti sul palco. Ci scappò il morto, un ragazzo nero, Meredith Hunter, accoltellato forse proprio dal servizio d’ordine. Ma la tragedia non furono solo gli Angels. Altri due ragazzi morirono in macchina. Un quarto annegò mentre si faceva il bagno in un la-go, in trip di Lsd. Se Wodstock, almeno secondo i partecipanti, aveva dimostrato che centinaia di migliaia di giovani potevano stare insieme senza bisogno di polizia e disposizione a tutela dell’ordine, Altamont rivelò quanto effimera fosse quella speranza. Il 1969 era finito malissimo. Nel 1970 le cose andarono peggio. Nei campus americani manifestazioni e scontri con la polizia erano stati negli ultimi anni innumerevoli. Il 4 maggio 1970 fu versato sangue e ne fu versato parecchio: quattro studenti uccisi a fucilate dalla Guardia nazionale durante una manifestazione. La lunga estate dell’amore era finita e l’autunno era alle porte. In quello stesso anno, del resto, si sciolsero i Beatles. Nessuno, neppure Elvis aveva cambiato più di loro non solo la musica ma l’intero universo giovanile e la cultura popolare in genere, a ogni livello. I Beatles, qualsiasi cosa si pensi della loro musica, erano stati gli anni 60 più di chiunque altro. C’è una certa eloquente pur se casuale simmetria nella loro uscita di scena proprio al volgere del decennio. L’autunno iniziò con la scomparsa di Blind Owl Wilson, proseguì appena due settimane più tardi, il 15 settembre, con la morte di Jimi Hendrix, soffocato dal suo steso vomito a Londra. Hendirx era il simbolo stesso della controcultura: chitarrista geniale, tanto innovativo quanto lo era stato Charlie Parker nel jazz trent’anni prima, partecipe a tutti gli effetti della cultura hippie, caso molto raro per un nero. Jimi Hendrix era americano di nascita e formazione ma culturalmente era anche inglese perché a Londra aveva raggiunto il successo e inglese era la band che lo aveva accompagnato fino al 1969, gli Experience. Era il ponte tra la ribellione dei ghetti neri e quella dei giovani bianchi. Riuniva nella sua musica le due capitali assoluta della controcultura, Gli Usa e la Swingin’ London. Era anche diventato, nell’arco di soli tre anni, il primo e principale tra i guitar heroes del rock. La sua scomparsa, le cui cause non sono mai state del tutto accertate ma che sicuramente consistevano in qualche sostanza psicotropa, forse l’Lsd, più probabilmente barbiturici fu davvero il segnale di una fine. Da quel momento i cadaveri degli eroi della controcultura si contarono uno dopo l’altro. Il 4 ottobre fu il turno di Janis Joplin, anche lei stella di primissima grandezza, la bianca che cantava il blues come una nera, o almeno ci provava sul serio, che non aveva mai superato il dolore di una giovinezza da emarginata nel Texas. Nel suo caso assassina fu una overdose di eroina. Il 3 luglio 1971 a lasciarci la pelle, ancora per l’eroina, fu Jim Morrison, a Parigi. Il cantante dei Door era ingrassato, imbolsito, appesantito da fiumi di alcol, incattivito dai processi per oscenità. Si era trasferito i Europa per provare a ricominciare e probabilmente gli era stata fatale una dose di eroina alla quale non era abituato. Sulla fine di Jim Morrison sono fiorite per decenni leggende. Non si contano quanti sostengono di averlo visto vivo, di avere le prove che la sua morte era stata solo una messa in scena. Nessun dubbio invece sulla scomparsa di Duane Allman, forse il chitarrista più dotato della sua generazione con Hendrix, perito in un incidente in moto il 29 ottobre. Anche lui, come il cantante dei Door anche se per motivi diversi non aveva passato il confine dei 27 anni. L’anno successivo, nello stesso punto, sarebbe morto in moto anche il bassista della band, gli Allman Brothers Band, Barry Oakley, considerato a tutt’oggi uno dei bassisti più dotati di tutti i tempi. Chiuse la triste lista, l’ 8 marzo 1973, Ron “PigPen” McKernan. Aveva fondato con Jerry Garcia la band che resterà per sempre il simbolo stesso della controcultura, i Grateful Dead. Pigpen era un puro musicista blues, non aveva mai accettato del tutto la svolta psichedelica dei Dead. Nella band era il solo a sdegnare l’Lsd rifugiandosi, spesso conl’amica Janis Joplin, nell’alcol, che lo uccise, naturalmente a 27 anni. I Dead erano più che una band: erano una bandiera. I funerali di Pigpen furono seguiti da una folla enorme, probabilmente consapevole di stare partecipando, commossa, alle esequie di un’epoca.
Da lastampa.it il 13 luglio 2020. Il figlio di Lisa Marie Presley, unico nipote di Elvis, è morto. Benjamin Keough aveva 27 anni, e secondo le prime ricostruzioni si sarebbe trattato di suicidio. Il manager della Presley, Roger Widynowski, ha dichiarato domenica all'Associated Press che la donna aveva il cuore spezzato dopo aver appreso della morte di suo figlio. «Ha il cuore spezzato, inconsolabile e al di là devastata, ma cerca di rimanere forte per i suoi gemelli di 11 anni e la figlia maggiore Riley – ha affermato Widynowski –. Adorava quel ragazzo. Era l'amore della sua vita». Tmz riferisce che Keough è morto per una ferita da arma da fuoco autoinflitta domenica a Calabasas, in California. Nancy Sinatra ha twittato le sue condoglianze a Presley, scrivendo: «Ti conosco da prima che tua madre ti partorisse, non sognando mai che avresti avuto un dolore simile nella tua vita. Mi dispiace molto». Anche il giovane era musicista, come il nonno, la madre e il padre Danny, ma aveva sempre tenuto un basso profilo. Più nota la sorella, l’attrice Riley Keough, che ha partecipato a numerosi film indipendenti e horror, incluso The lodge nel 2019.
La maledizione del "club 27". Morto a 27 anni Benjamin Keough, l’unico nipote di Elvis Presley. Redazione su Il Riformista il 13 Luglio 2020. Benjamin Keough è morto all’età di 27 anni. Unico nipote di Elvis Presley, figlio di Lisa Marie Presley, secondo le prime ricostruzioni si sarebbe suicidato anche se le dinamiche della vicenda sono ancora tutte da chiarire. Il manager della Presley, Roger Widynowski, ha dichiarato domenica all’Associated Press che la donna aveva il cuore spezzato dopo aver appreso della morte di suo figlio. “Ha il cuore spezzato, inconsolabile e al di là devastata, ma cerca di rimanere forte per i suoi gemelli di 11 anni e la figlia maggiore Riley”, ha affermato Widynowski, “Adorava quel ragazzo. Era l’amore della sua vita”. Tmz riferisce che Keough è morto per una ferita da arma da fuoco autoinflitta domenica a Calabasas, in California. Nancy Sinatra, cantante e figlia del celebre Frank Sinatra, ha twittato le sue condoglianze a Presley scrivendo: “Ti conosco da prima che tua madre ti partorisse, non sognando mai che avresti avuto un dolore simile nella tua vita. Mi dispiace molto”. Anche il giovane era musicista, come il nonno, la madre e il padre Danny, ma non aveva mai spiccato di notorietà contrariamente a sua sorella, l’attrice Riley Keough, che ha partecipato a numerosi film indipendenti e horror, incluso The lodge nel 2019. Della vita di Ben, infatti si sa ben poco. Si sa solo che, proprio come il nonno, è cresciuto a stretto contatto con il mondo della musica decidendo di intraprendere una carriera come musicista. Nonostante questa scelta, Benjamin ha sempre mantenuto un profilo basso tenendosi lontano dal mondo dei social network e dai riflettori del mondo dello spettacolo. Noto anche per la somiglianza al nonno, si era visto per l’ultima volta in occasione del quarantesimo anniversario della morte di Elvis in durante una veglia tenutasi a Graceland.
IL CLUB DEI 27 – Benjamin Keough è solo l’ultimo tassello della cosiddetta maledizione del club 27, ovvero gli artisti morti all’età di 27 anni. Tutto cominciò tra il 1969 e il 1971 una serie di morti improvvise scosse il mondo della musica. Il 3 luglio del 1969, sul fondo della piscina della sua casa nel Sussex, in Inghilterra, venne trovato il corpo senza vita di Brian Jones, polistrumentista dei Rolling Stones. Jones aveva 27 anni e divenne così il capostipite di un lugubre ed esclusivo club di artisti. Nel 1970 morì Jimi Hendrix, l’artista afroamericano che aveva rivoluzionato il modo di suonare la chitarra elettrica. Nell’ottobre dello stesso anno toccò all’autrice e cantante Janis Joplin. L’anno successivo, a Parigi – curiosamente il 3 luglio, a due anni esatti dalla morte di Jones – venne ritrovato in una vasca da bagno il corpo senza vita di Jim Morrison, frontman e cantante dei The Doors. Anche questi ultimi avevano 27 anni e divennero i più famosi rappresentanti di quello che cominciò a essere chiamato il “Club of 27”. Si tratta di un gruppo di artisti scomparsi prematuramente, spesso all’apice delle loro carriere, e tutti alla stessa età: 27 anni, per l’appunto. Il caso ha scomodato anche la rivista scientifica British Medical Journal, che nel 2011 ha concluso uno studio dichiarando come non esista un aumento del rischio di morte per i musicisti a 27 anni. Questa misteriosa coincidenza ha comunque alimentato una sorta di culto del Club. Spesso vengono avanzate teorie complottiste che tirano in ballo i servizi segreti, la CIA o altri corpi speciali. Secondo tali teorie, infatti, i membri del Club sarebbero stati in molti casi eliminati a causa della loro presunta influenza sovversiva sulle grandi masse di fans. Fatto sta che ogni volta che scompare un’artista di questa età si torna a parlare del fantomatico Club. L’ultima volta che il caso ha riguardato una star di caratura internazionale è stato in occasione della morte di Amy Winehouse, cantante inglese morta nel luglio 2013 a causa di un’intossicazione da alcolici. Un’altra caratteristica che condividono i membri del Club dei 27 sono proprio le morti causate da abusi di alcol e droghe. Ci sono anche casi di morti violente causati da incidenti stradali, suicidi o omicidi. Nel corso degli anni, quello che inizialmente era un circolo riservato quasi esclusivamente a musicisti rock, si è allargato a praticamente tutti i generi musicali. Nel Club vengono fatti rientrare anche l’attrice Masako Natsume e l’artista e street artist Jean-Michel Basquiat. La pagina su Wikipedia raccoglie membri a partire dal 1864 fino ai giorni nostri. Altre personalità di spicco del Club sono Robert Johnson, considerato da molti il padre della canzone blues, e Kurt Cobain, idolo grunge secondo gli inquirenti suicidatosi con un colpo di fucile nel 1994.
La maledizione del “club 27”: morto Harry Hains, star di American Horror Story. Redazione su Il Riformista il 10 Gennaio 2020. E’ morto a soli 27 anni l’attore di origini australiane Harry Hains, celebre attore della famosa serie televisiva American Horror Story. Proprio oggi la serie tv americana è stata rinnovata fino alla tredicesima stagione, ma l’entusiasmo è stato stroncato dal dolore di questa giovane perdita. Conosciuto anche per aver recitato in altre serie tv come The OA e Sneaky Pete, soffriva di depressione e di disordini del sonno. Stando a quanto dichiarato dalla famiglia, nell’ultimo anno il giovane artista aveva assunto un comportamento autodistruttivo e nei mesi precedenti la morte avrebbe affrontato problemi di salute mentale e dipendenza. Morto lo scorso 7 gennaio, il suo funerale si terrà a Los Angeles il prossimo 12 gennaio. A dare il triste annuncio della sua morte è stata la madre, Jane Badler, famosa attrice che ha recitato in Mission Impossible e Visitors. Sul suo account ufficiale su instagram ha scritto: “Il 7 gennaio è morto il mio meraviglioso ragazzo. Aveva 27 anni e una vita davanti. Sfortunatamente è stato sconfitto dalla depressione e dalle dipendenze. Una scintilla brillante che si è spenta troppo presto. Mi mancherai Harry ogni giorno della mia vita”, allegando alla triste dedica anche alcuni scatti dell’attore in compagnia dei genitori e del fratello Sam.
LA STORIA – Nato il 4 dicembre 1992 Harry Hains era originario di Melbourne ma si era trasferito prima a New York ed infine a Los Angeles quando la sua carriera da attore è decollata. Inoltre il 27enne era anche un modello e un musicista, diventando famoso anche per la sua fluidità gender sia nella vita reale che nella sua professione artistica. Aveva iniziato l’università intenzionato a laurearsi in medicina, ma aveva mollato tutto per trasferirsi a Londra. Infine è arrivato a Los Angeles per dedicarsi alla carriera da modello e fare fortuna come attore ad Hollywood.
CLUB 27 – Alla notizia della sua precoce scomparsa, il web ha reagito con sentimenti di dolore e sconcerto. Infatti è rimbalzata subito sui social la cosiddetta “maledizione dei 27”, un’espressione usata inizialmente nella stampa del settore musicale a partire dal 1994 quando, data la coincidenza dell’età, la morte di Kurt Cobain venne posta in relazione a quelle di Brian Jones, Jimi Hendrix, Janis Joplin e Jim Morrison, morti tutti all’età di 27 anni nel breve periodo tra il 1969 e il 1971. Successivamente, l’espressione è stata estesa ad altri esponenti del mondo musicale che sono morti a 27 anni, come Amy Winehouse nel 2011, nonché ad alcuni morti a questa età in epoche precedenti, come Robert Johnson nel 1938. Accanto a questi vengono talvolta ricompresi nel club altri artisti deceduti all’età di 27 anni, come la bassista Kristen Pfaff, componente del gruppo Hole. I motivi dei decessi sono spesso riconducibili ad abuso di alcol o droga, incidenti e suicidio.
La storia. Cosa è il club dei 27. Antonio Lamorte su Il Riformista il 16 Ottobre 2019. Tra il 1969 e il 1971 una serie di morti improvvise scosse il mondo della musica. Il 3 luglio del 1969, sul fondo della piscina della sua casa nel Sussex, in Inghilterra, venne trovato il corpo senza vita di Brian Jones, polistrumentista dei Rolling Stones. Jones aveva 27 anni e divenne così il capostipite di un lugubre ed esclusivo club di artisti. Nel 1970 morì Jimi Hendrix, l’artista afroamericano che aveva rivoluzionato il modo di suonare la chitarra elettrica. Nell’ottobre dello stesso anno toccò all’autrice e cantante Janis Joplin. L’anno successivo, a Parigi – curiosamente il 3 luglio, a due anni esatti dalla morte di Jones – venne ritrovato in una vasca da bagno il corpo senza vita di Jim Morrison, frontman e cantante dei The Doors. Anche questi ultimi avevano 27 anni e divennero i più famosi rappresentanti di quello che cominciò a essere chiamato il “Club of 27”. Si tratta di un gruppo di artisti scomparsi prematuramente, spesso all’apice delle loro carriere, e tutti alla stessa età: 27 anni, per l’appunto. Il caso ha scomodato anche la rivista scientifica British Medical Journal, che nel 2011 ha concluso uno studio dichiarando come non esista un aumento del rischio di morte per i musicisti a 27 anni. Questa misteriosa coincidenza ha comunque alimentato una sorta di culto del Club. Spesso vengono avanzate teorie complottiste che tirano in ballo i servizi segreti, la CIA o altri corpi speciali. Secondo tali teorie, infatti, i membri del Club sarebbero stati in molti casi eliminati a causa della loro presunta influenza sovversiva sulle grandi masse di fans. Fatto sta che ogni volta che scompare un’artista di questa età si torna a parlare del fantomatico Club. L’ultima volta che il caso ha riguardato una star di caratura internazionale è stato in occasione della morte di Amy Winehouse, cantante inglese morta nel luglio 2013 a causa di un’intossicazione da alcolici. Un’altra caratteristica che condividono i membri del Club dei 27 sono proprio le morti causate da abusi di alcol e droghe. Ci sono anche casi di morti violente causati da incidenti stradali, suicidi o omicidi. Nel corso degli anni, quello che inizialmente era un circolo riservato quasi esclusivamente a musicisti rock, si è allargato a praticamente tutti i generi musicali. Nel Club vengono fatti rientrare anche l’attrice Masako Natsume e l’artista e street artist Jean-Michel Basquiat. La pagina su Wikipedia raccoglie membri a partire dal 1864 fino ai giorni nostri. Altre personalità di spicco del Club sono Robert Johnson, considerato da molti il padre della canzone blues, e Kurt Cobain, idolo grunge secondo gli inquirenti suicidatosi con un colpo di fucile nel 1994.
· E’ morto il musicista Claude Bolling.
Marco Giusti per Dagospia il 31 dicembre 2020. Grande pianista jazz, compositore, arrangiatore, autore della musica di oltre cento film, ma soprattutto di quella famosa e orecchiabilisima di un classico degli anni ’70 come “Borsalino” di Jacques Deray con la coppia Delon&Belmondo, se ne va a 90 anni Claude Bolling. Era nato a Cannes nel 1930, aveva studiato al conservatorio di Nizza durante l’occupazione con Marie Louise Colin, che gli consigliò poi di andare a Parigi nel dopoguerra. Bambino prodigio a soli 14 anni, a 16 fonda la sua prima orchestra, a 18 incide il primo disco. Suona il piano, giovanissimo, a fianco di celebrità del jazz come Lionel Hampton, Roy Eldridge e Kenny Clarke. Si sente discepolo di Duke Ellington. Nel 1956 fonda la sua Big Band che porterà avanti fino al 2010. Grazie a Boris Vian, che lo aveva ribattezzato Bollington, arrangiò celebri canzoni per Juliette Greco, Henri Salvador e “La madrague” di Brigitte Bardot, che lui fece esplodere come cantante. Incise anche dischi famosi dove rileggeva in chiave swing la musica del passato insieme al flautista Jean-Pierre Rampal, come “Suite pour flûte et jazz piano trio”, che fu per due anni in cima alle classifiche delle vendite americane di Billboard. Col cinema inizia nel 1960 col bellissimo “Le mani dell’altro” di Edmond T. Greville con Mel Ferrer dove protagonista è proprio un pianista che, dopo un incidente dove perde le mani, si ritrova trapiantate le mani di un pianista. Attivo per tutti gli anni ’60, musica film molto diversi, come “Il mondo nelle mia tasca” di Alvin Rakoff con Rod Steiger, “Il giorno e l’ora” di René Clement con Simone Signoret, “Con la morte alle spalle” di Alfonso Balcazar con George Martin, arriva al vero successo nel cinema solo nel 1970 con il suo ragtime alla francese per “Borsalino” di Jacques Deray con Belmondo e Delon gangster ben vestiti nella Marsiglia anni ’30, campione d’incasso anche grazie al suo famoso leit-motiv che ancora oggi ricordiamo. Da quel film venne spesso chiamato per noir e spy movies, affiancandosi a registi di grande successo popolare come Philippe De Broca, “Come si distrugge la reputazione del più grande agente segreto del mondo” con Belmondo e Jacqueline Bisset, Josè Giovani, “Lo zingaro” con Alain Delon, Jean Girault, “La gang dell’anno santo” con Jean Gabin, e lo stesso Deray, che lo volle sia per “Borsalino&Co” sia per “Flic Story” con Delon e Jean-Louis Trintignant. Negli anni ’70 il sound allegro, brillante, molto jazz di Bolling ebbe un ruolo importante nel cinema francese. Venne chiamato anche per musicare film fuori dalla Francia, come la commedia “California Suite” di Herbert Ross con Walter Matthau, il fantastico “Alla 39° eclisse” di Mike Newell con Charlton Heston e Susannah York, “Uomini d’argento” di Ivan Passer con Michael Caine, “Io, Willy e Phil” di Paul Mazursky, il remake americano di “Jules et Jim”. Nel 1969 ebbe l’onore di musicare il classico del muto di Buster Keaton “The Navigator”. Musicò pure ben 36 puntate del televisivo “Le brigate del Tigre”, con tanto di canzone dei titoli cantata da Philippe Clay e vari episodi del “Lucky Luke” di René Goscinny in versione animata. Lo troviamo anche attore in cinque film. La sua “Temptation Rag” la sentiamo perfino nel recentissimo “Joker”.
· È morto lo stilista Pierre Cardin.
È morto Pierre Cardin, se ne va lo stilista del futuro. Scompare a 98 anni lo stilista di origini italiane naturalizzato francese. Un precursore che ha immaginato tutto quello che oggi amiamo. Serena Tibaldi su La Repubblica il 29 dicembre 2020. È morto a 98 anni lo stilista Pierre Cardin, nell'ospedale americano di Neuilly vicino Parigi. Di origini italiane, naturalizzato francese ha segnato la moda del Novecento con il suo stile innovativo. La notizia della scomparsa è stata data dall'agenzia Afp citando fonti della famiglia. Pietro Cardin nasce il 2 luglio del 1922 a San Biagio di Callalta, un paesino nella provincia di Treviso. Ci resta poco però, perché con la famiglia si trasferisce presto nel centro della Francia. È lì che cresce fino al 1939, quando se ne va a Vichy per diventare apprendista di un sarto: è lì che impara a cucire. Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale presta servizio nella Croce Rossa (la passione per il volontariato non lo abbandonerà mai), e una volta terminati i combattimenti viene assunto da Elsa Schiaparelli. Ma è nel 1947, quando Christian Dior lo mette a capo della sua sartoria (Balenciaga invece lo rifiuta) che la sua carriera inizia davvero. Nel '50 si mette in proprio fondando la maison che porta il suo nome, nel '51 si fa conoscere al grande pubblico grazie alla creazione di numerosi e spettacolari costumi per il ballo in maschera organizzato a Venezia da Carlos de Beistegui, e presenta la sua prima collezione couture nel 1953. Alta moda a parte, Cardin è un vero democratico nell'anima: costantemente proiettato in avanti, intuisce che il futuro della moda è in strada, addosso alla gente "comune", e presto inizia a lavorare con questo obiettivo. È il primo couturier in assoluto a entrare sul mercato giapponese nel '59 e poi a creare una collezione low price per i grandi magazzini francesi Printemps: la Chambre Syndacale de la Couture non apprezza e lo caccia, salvo poi riammetterlo poco dopo. Intanto però il suo percorso continua: negli anni '60 crea una rete di prodotti in licenza per penetrare al meglio nel mercato e nel '66, stavolta di sua volontà, si stacca dalla Chambre Syndacale per iniziare a presentare le sue collezioni all'Espace Cardin: inaugurato nel 1971 è uno dei primi esempi di grandi spazi gestiti dai designer, oggi una consuetudine; lascia spesso lo spazio anche ai giovani creativi più promettenti, facendo così anche da talent scout. Ossessionato con la tecnologia e con l'immaginare come ci si vestirà nei decenni successivi, spinge le sue creazioni sempre oltre, preferendo i tessuti artificiali e le geometrie enfatizzate: è del '67 Cosmos, lungo fourreau circondato da "anelli-satellite", e negli anni successivi arrivano i vestiti di pvc, gli occhiali a mascherina, i pullover-bozzolo, gli shorts e gli stivaloni di vernice. La sua creazione più famosa è forse il Bubble Dress, creato in omaggio alla sua celeberrima casa sulla costiera francese, la Bubble House, costruita in collaborazione con l'architetto Antti Lovag e composta da una serie di "bolle" arredate in puro stile futurista anni '60. Nel 1979 sfila per prima sulla Grande Muraglia cinese, e da allora sfrutta le location più spettacolari per le sue presentazioni, dal deserto sino ai borghi medievali. Instancabile, negli anni conferma la sua abilità con gli investimenti: nel 1981 diventa uno degli azionisti di Maxim's, il celebre ristorante francese (con lui le sedi del ristorante si moltiplicheranno in tutto il mondo), nel 2001 acquista i ruderi del castello di Lacoste, dove un tempo aveva vissuto anche il Marchese De Sade, e lo restaura parzialmente organizzando lì ogni estate un festival di musica per artisti emergenti. Possiede anche un Palazzo a Venezia (forse in omaggio alle sue origini venete), Ca' Bragadin, e nella città lagunare qualche anno fa, progetta di costruire l'inquietante Palais Lumière, una torre di 250 metri con ristoranti e teatri: la sua idea è di inaugurarla per l'Expo del 2015, ma il progetto si chiude con un nulla di fatto. La sua ultima apparizione ufficiale risale al 22 settembre del 2020, al Teatro Chatelet di Parigi dove nel pieno della fashion week parigina, circondato da amici e ammiratori (tutti con le mascherine d'ordinanza), festeggia i 70 anni della sua maison. Entusiasta, costantemente alla ricerca di nuovi progetti, Pierre Cardin resta un esempio unico e forse irripetibile nella moda.
Morto Pierre Cardin: lo stilista aveva 98 anni. «Il mio rimpianto? Un figlio». Morto a 98 anni Pierre Cardin. Inventore della «moda pronta», aveva origini italiane. Michela Proietti il 29/12/2020 su Il Corriere della Sera. Pierre Cardin è morto all’American Hospital di Neuilly, vicino a Parigi. Lo stilista e imprenditore aveva origini italiane (Pietro Costante Cardin nato a Sant’Andrea di Barbarana nel trevigiano, nel 1922) ed era naturalizzato francese. A luglio aveva compiuto 98 anni. Una vita, la sua, dedicata alla moda. A settembre, durante la settimana delle sfilate francesi, il designer aveva festeggiato i 70 anni di carriera con un grande evento al Theatre du Chatelet, accompagnato dai nipoti e insieme ad amici e colleghi, tra i quali lo stilista Jean Paul Gaultier, Christian Louboutin e Inès de la Fressange.
Le origini. Diviso tra la casa di Parigi, la villa di Théoule-sur-Mer in Costa Azzurra e il castello di Lacoste (dove abitò il marchese de Sade) ha riscattato grazie al suo talento una vita nata non sotto i migliori auspici: ultimo di otto figli di un possidente terriero rovinato dalla Grande guerra, costretto a emigrare oltralpe nel 1924, ha avuto nel 1959 l’intuizione che ha cambiato il corso del destino, quella del prêt-à-porter, che fece sfilare nei grandi magazzini parigini Printemps. Pierre Cardin ha partecipato con André Courrèges (1923-2016) e Paco Rabanne alla rinascita dell’haute couture nella Francia del dopoguerra. «Ho sempre avuto la mia testa rivolta al futuro. Ho sempre creato per i giovani», diceva di sé lo stilista. Amato da icone del cinema e del jet set come Elizabeth Taylor, Barbra Streisand, Jeanne Moreau, Lauren Bacall, Jackie Kennedy, Charlotte Rampling, ma anche da gruppi leggendari come i Beatles (per i quali aveva creato l’abito nero con il collo alla coreana) e i Rolling Stones.
I premi. A lui vanno riconosciuti molti primati: fu il primo a creare la collezione moda per l’uomo nel 1960; il primo ad andare in Giappone, in Cina e in Russia aprendo boutique; il primo ad applicare le licenze nella distribuzione di prodotti che non fossero solo abbigliamento; il primo ad allestire mostre; il primo a vestire ogni ambito del vivere, dagli occhiali ai ristoranti, dalle navi agli aerei. Stilista ma anche sarto, abilissimo a cucire, ha dato una impronta sartoriale alla sua moda fin dagli esordi, quando nel 1945 fu assunto da Jeanne Paquin e poi da Elsa Schiaparelli. Tra i primi «grandi» a credere in lui anche Christian Dior che lo ingaggiò: ma Cardin ha intrattenuto rapporti veri con tutto il gotha della moda, da Saint-Laurent a Givenchy e anche con Giorgio Armani, di cui ha sempre ricordato il tratto elegante. Anche lui, a sua volta è stato maestro di astri nascenti come Jean-Paul Gaultier, definito da Cardin «un provocatore nato, dal carattere molto allegro».
Il rimpianto.Omosessuale dichiarato ha sempre ribadito la sua attrazione per Jeanne Moreau, dalla quale avrebbe desiderato anche un figlio, uno dei suoi più grandi rimpianti. «Ti danno prospettiva e offrono l’opportunità di trasmettere loro la tua esperienza». Per questo ha sempre coltivato con grande dedizione il rapporto con il nipote Rodrigo Basilicati, nominato anche designer della maison e suo erede artistico.
Patrizia Vacalebri per "Ansa" il 29 dicembre 2020. Addio a Pierre Cardin, lo stilista italiano nato a Sant'Andrea di Barbarana, frazione del comune di San Biagio di Callalta, in provincia di Treviso, in Veneto, ma cresciuto in Francia, paese dove mosse i primi passi nella moda e crebbe, fino a diventare uno tra i più importanti couturier della seconda metà del Novecento, un gigante della moda e del design morto oggi 29 dicembre a 98 anni. In realtà il cuore di Pietro Costante Cardin, nato il 2 luglio 1922, da una famiglia di facoltosi agricoltori, finiti in povertà dopo la prima guerra mondiale, era rimasto sempre in Italia. Forse tra tutti i couturier del secolo scorso, nati in Italia e cresciuti in Francia, Cardin è stato quello che ha rappresentato al meglio quel mix di stile tra Italia e Francia, motivo determinante del suo successo. A soli 14 anni nel 1936, il giovane Pierre, il cui nome italiano, Pietro, era stato francesizzato, cominciò l'apprendistato da un sarto a Saint-Étienne. Dopo una breve esperienza da Manby, sarto a Vichy, nel 1945 giunse a Parigi lavorando prima da Jeanne Paquin e poi da Elsa Schiaparelli. Primo sarto della maison Christian Dior durante la sua apertura nel 1947 (dopo essere stato rifiutato da Cristobal Balenciaga) fu partecipe del successo del maestro che inventò il New Look. Nel 1950 fondò la sua casa di moda, cimentandosi con l'alta moda nel '53. Cardin divenne celebre per il suo stile futurista, ispirato alle prime imprese dell'uomo nello spazio. Preferiva tagli geometrici spesso ignorando le forme femminili. Amava lo stile unisex e la sperimentazione di linee nuove. Nel 1954 introdusse il bubble dress, l'abito a bolle. Cardin è stato un antesignano anche nella scelta di nuovi mercati e nel firmare nuove licenze. Nel '59 fu il primo stilista ad aprire in Giappone un negozio d'alta moda. Sempre in quell'anno fu espulso dalla Chambre Syndacale francese, per aver lanciato per primo a Parigi una collezione confezionata per i grandi magazzini Printemps. Ma fu presto reintegrato. Tuttavia, Cardin è stato membro della Chambre Syndicale de la Haute Couture et du Pret-à-Porter e della Maison du Haute Couture dal 1953 e si dimise dalla Chambre Syndacale nel 1966. Le sue collezioni dal 1971 sono state mostrate nella sua sede, l'Espace Cardin, a Parigi, prima di allora nel Teatro degli Ambasciatori, vicino all'Ambasciata americana, uno spazio che il couturier ha utilizzato anche per promuovere nuovi talenti artistici, come teatranti o musicisti. Come molti altri stilisti Cardin decise nel 1994 di mostrare la sua collezione solo a un ristretto gruppo di clienti selezionati e giornalisti. Nel 1971 Cardin venne affiancato nella creazione d'abiti dal collega Andrè Oliver, che nel 1987 si assunse la responsabilità delel collezioni d'alta moda, fino alla sua morte nel 1993. Lo stilista amava la mondanità, il mondo del jet set, così nel 1981 acquistò i celebri ristoranti parigini Maxim's. In breve tempo aprì filiali a New York, Londra e a Pechino nel 1983 e vi affiancò una catena di hotel. Tra le licenze della linea Maxim's c'era anche un'acqua minerale che veniva prelevata ed imbottigliata a Graviserri nel comune di Pratovecchio Stia, provincia di Arezzo. La passione degli immobili. Cardin era entrato in possesso delle rovine di un castello a Lacoste abitato nel passato dal Marchese de Sade. Dopo aver ristrutturato il sito, lo stilista vi organizzava dei festival teatrali. Cardin aveva ritrovato le sue radici italiane anche con l'acquisto del palazzo Ca' Bragadin a Venezia dove risiedeva durante i suoi frequenti soggiorni nella città lagunare (nella calle attigua c'è uno spazio espositivo). Negli anni '80 aveva acquistato il Palais Bulles (Il palazzo delle bolle) progettato dall'eccentrico architetto Lovag Antti. Tutto, dal pavimento al soffitto, era riempito da forme sferiche. Con il suo teatro da 500 posti a sedere, le piscine con vista sul Mar Mediterraneo era spesso luogo di feste ed eventi. L'interno era arredato con pezzi di design, le Sculptures utilitaires disegnate dallo stesso Cardin, che dal 1977 ha dato vita a una collezione di mobili eleganti dalle forme sinuose. Nel golfo di Cannes, a Théoule-sur-Mer, a Sud della Francia, quest'opera architettonica nell'88 è stata designata dal Ministero della Cultura quale monumento storico. Anche un docu-film sulla vita di Cardin presentato al Festival del cinema di Venezia nel 2019: House of Cardin di P. David Ebersole, Todd Hughes. Nel luglio 2019, anche una mostra monografica dedicata al "gigante della moda" negli Usa, nel Brooklyn Museum.
Morto lo stilista francese Pierre Cardin. L'annuncio del decesso, avvenuto il 29 dicembre, è arrivato dalla famiglia attraverso l'agenzia France Presse. Novella Toloni, martedì 29/12/2020 su Il Giornale. Il mondo della moda mondiale piange la scomparsa di Pierre Cardin. Lo stilista francese è morto, all'età di 98 anni, nell'ospedale americano di Neuilly, a ovest di Parigi. Figlio di immigrati italiani divenuto un uomo d'affari in giovane età, Pierre Cardin ha segnato la storia della moda con il suo nome e il suo stile inconfondibile. Icona di stile e avanguardia, Pierre Cardin in una intervista al nostro giornale, nel 2018, aveva confessato: "Nel pensiero e nel lavoro sono rimasto molto italiano. Alla Francia, che mi ha ospitato quand'ero povero, volevo dimostrare di avere talento. Io sono una persona molto fortunata. Fortunato in amore, nel lavoro e nella salute: e questo in tutte le fasi della vita. Si è puntualmente realizzato ciò che mi aveva predetto una maga cartomante, che avevo incontrato al mio arrivo a Parigi da piccolo". Pietro Costante Cardin è nato in Italia il 2 luglio 1922, a Sant'Andrea di Barbarana, in provincia di Treviso, da una famiglia di facoltosi proprietari terrieri e mercanti poi caduti in disgrazia dopo la seconda guerra mondiale. A soli due anni si trasferì con i suoi genitori a Parigi in cerca di fortuna. Una città, la capitale parigina, che lo avrebbe reso celebre in breve tempo. A 14 anni inizia a lavorare come apprendista sarto mostrando doti incredibili e grande estro. A soli 24 anno divenne primo sarto della maison Christian Dior ma pochi anni dopo decise di fare il grande salto e fondare la sua casa di moda. Era il 1950 e Pierre Cardin mosse i primi passi in un ambiente, quello della moda internazionale, destinato a lasciare un segno indelebile. Pierre Cardin è noto per il suo stile d'avanguardia ispirato alle forme e ai motivi geometrici. Pur essendo partito dagli abiti femminili, lo stilista francese preferì concentrare la sua creatività sulla moda unisex molto spesso sperimentale e sopra le righe. Fu lui, nel 1954, in un periodo ancora "acerbo" per le innovazioni, a proporre il primo "bubble dress", il vestito a bolle. Anni di soddisfazioni e di primati per lui che nel 1959 fu il primo couturier a sbarcare sul mercato giapponese con le sue creazioni. Ma anche a creare una collezione low price per i grandi magazzini francesi Printemps.
''VUOI FINIRE COME PIERRE CARDIN A FIRMARE LE PIASTRELLE DEL BAGNO?'' Dall'articolo di Fabiana Giacomotti per ''Il Foglio'' il 30 dicembre 2020. Vorremmo poter scrivere cose meravigliose di Pierre Cardin, il couturier della “robe bulle” e di quel sogno che si chiamava Space Age. Vorremmo dire che l’allievo di Elsa Schiaparelli e di Christian Dior fu il primo a immaginare la moda unisex, a vestire i Beatles in tour, ad aprire un negozio in Giappone e non aggiungere altro. Come hanno fatto in molti. Invece ci continua a venire in mente l’epiteto con cui veniva etichettato dopo gli anni Ottanta qualunque stilista esagerasse con le licenze (“vuoi finire come Pierre Cardin a firmare le piastrelle del bagno?”), e ci sovviene una sfilata a cui assistemmo a Firenze nel 2003 grazie a Pitti che, per ragioni sue, aveva deciso di celebrare il cinquantenario di attività del trevigiano che aveva conquistato Parigi e il mondo intero firmando qualunque cosa gli capitasse a tiro. Nel salone di Palazzo Corsini era stata issata una gran passerella, alta come si usava nel Dopoguerra per cui noi, sedute in prima fila, potemmo osservare non solo quegli abiti che sembravano (e in effetti erano) pensati nel loro effetto spaziale, cioè senza tener conto dell’anatomia di chi li indossava e in particolare di quella femminile, ma soprattutto le scarpe, che sfilavano ad altezza del nostro sguardo. Erano tutte modelle degli anni Ottanta, nere col tacco a rocchetto, e quasi tutte avevano i tacchi sbrecciati: lo ricordiamo ancora oggi, quasi diciotto anni dopo, perché alla cena che seguì ci informammo sulle ragioni di quella inaudita sciatteria. Ci venne detto che il maestro aveva voluto usare le scarpe vintage conservate in atelier. Che nulla c’entrassero con gli anni Sessanta della Space Age che aveva contribuito a lanciare, e tanto meno con i vestiti, tant pis.
COME I BEATLES E ANDY WARHOL HA RIVOLUZIONATO LA MODA (POP). Luca Beatrice per ''il Giornale'' il 30 dicembre 2020. Spesso ci si domanda quando la moda diventa arte, aldilà dell' apertura delle porte dei musei per una disciplina capace certo di unire l' abilità artigianale, i cromatismi pittorici e le forme scultoree che lavorano sul corpo, non lontana dalla performance. Oggi che la moda è oggetto di studi, di mostre, di analisi sociale è ancor più importante distinguere i creativi dagli artisti. I primi intuiscono le necessità del loro tempo e le restituiscono consapevoli di lavorare sulla volatilità effimera, gli altri inventano linguaggi, rischiano attraversano le epoche e la storia al punto da concepire un abito - che in genere scompare dal guardaroba - per aspirare appunto all' immortalità dell' arte. Pierre Cardin, morto ieri a 98 anni, alla fine degli anni '50 ha inventato il pret-à-porter sottraendo alla moda quel divario tra le diverse classi sociali e culturali. Mentre a Parigi nasceva la Nouvelle Vague, tra l' Inghilterra e New York si diffondeva la Pop Art, analoga necessità di superare elitarismo e accademia. Moda, arte, musica diventano così fenomeni sociali che le giovani generazioni seguono anche e soprattutto per segnare un' appartenenza e uno stile. Una filosofia che si sintetizza nel completo che i Beatles hanno indossato negli anni del loro successo, abito scuro e camicia con il colletto alla coreana che non prevedeva l' uso della cravatta, accessorio superato per un gruppo pop. Qualcosa di più che un abito di scena, vera e propria «uniforme» di un' epoca. Non è sbagliato affermare che Cardin sta alla moda come i Beatles alla musica e Andy Warhol alla pittura, rivoluzionari all' interno di codici linguistici determinati e facilmente identificabili nella comunicazione di massa. Ovunque nella sua moda si trovano riferimenti all' arte, ispirazioni futuriste - quando il futuro era parola d' ordine - geometrie, optical e appunto tanta Pop. Per buona parte della sua lunga carriera Cardin ha guardato all' arte per capire la moda, fino a considerarsi egli stesso artista. Nel 2018 la sede parigina di Sotheby' s ha proposto le sculture dello stilista italiano - naturalizzato francese - realizzate negli anni '70 come oggetti di design in edizione limitata, stilisticamente prossime al minimalismo. Il Palais Bulles, che prende il nome dal suo abito più famoso, il Bubble Dress disegnato nel 1954, progettato dall' architetto ungherese Antti Lovag e inaugurato in Costa Azzurra nel 1989, si presenta come una casa-museo d' artista, assimilabile a quella di Salvador Dalì, è considerato un monumento all' eccentricità, a svelare una seconda anima di Cardin, più giocosa e surreale di quanto si intravede nel mestiere di stilista. Altra geniale intuizione, estendere la moda ad accessori e merchandising. La griffe Cardin diventa logo su un paio di occhiali o un portafoglio, su profumo e prodotti di bellezza, consapevole che il fashion non si limita all' abito ma invade ogni centimetro di pelle disponibile sul nostro corpo. Anche questa è stata un' innovazione che ha sovvertito le regole del gioco e aperto alla visione contemporanea della moda.
· È morto Giorgio Galli, professore di Storia delle dottrine politiche.
Da it.businessinsider.com il 28 dicembre 2020. Avrebbe compiuto 93 anni a febbraio. L’improvvisa scomparsa di Giorgio Galli, deceduto nella sua casa di Camogli dove trascorreva lunghi periodi dell’anno, è una perdita per la cultura italiana. Politologo, direttore de “Il Mulino” tra il 1965 e il 1969, professore di Storia delle dottrine politiche alla Statale di Milano negli anni ’70, autore prolifico di saggi di storia contemporanea, collaboratore di giornali e riviste, non aveva mai smesso di lavorare. Nonostante l’età avanzata continuava a scrivere e a pubblicare seguendo con vivo interesse le vicende nazionali e internazionali. Ci lascia in eredità svariate decine di testi alcuni dei quali fondamentali per la conoscenza della storia italiana: da “Il bipartitismo imperfetto” tra Pci e Dc , quando la politica si avviava alla polarizzazione tra i due più grandi partiti di massa, alle due storie della Dc e del Pci (quest’ultima appena ripubblicata in occasione dell’imminente centenario della nascita del partito comunista italiano); dai volumi su Mussolini e il fascismo a quelli sugli anni di piombo e il diffondersi del terrorismo; dai libri su esoterismo e politica (Galli era affascinato dalla teoria junghiana sulle coincidenze significative) alle biografie: quelle su Fanfani e Andreotti e quelle su Pasolini e Mattei. Nella vasta letteratura sul fondatore dell’Eni tragicamente scomparso cinquantotto anni fa, i libri di Galli “La regia occulta” e “Petrolio e complotto italiano” rappresentano ancora oggi due pietre miliari. Il secondo fu rieditato nel 2005, con l’aggiunta di alcuni capitoli, al termine dell’inchiesta del magistrato Vincenzo Calia cui va il merito di avere accertato senza più ombra di dubbio che l’aereo su cui volava Mattei precipitò durante la discesa su Linate a causa di un sabotaggio. Lo studioso non aveva mai creduto alla tesi ufficiale dell’incidente a causa del maltempo, e nei suoi studi sull’Eni era sempre rimasto incuriosito dalla figura di Eugenio Cefis, in cui s’era inizialmente imbattuto durante le ricerche sulla “Storia della Dc” e del quale avevamo discusso anche di recente a proposito dell’appartenenza del successore di Mattei alla sezione “Calderini” del Sim e del suo ruolo nella Resistenza. Anche questi mesi di pandemia non erano stati tempo sprecato per Galli. Nelle ultime settimane stava elaborando i dati di Mediobanca sulle multinazionali. Il potere di condizionamento delle imprese transnazionali era infatti divenuto oggetto di riflessione nelle sue più recenti analisi. Egli era convinto che con la loro forza economica queste grandissime imprese avessero contribuito a indebolire le fondamenta della democrazia mettendo in discussione il ruolo dello Stato. In un’intervista a Business Insider aveva accusato il Pd di essere divenuto succube del capitalismo delle multinazionali e aveva spronato la sinistra a battersi affinché i componenti dei Cda delle imprese transnazionali, dalle più grandi industrie alle più grandi banche, fossero eletti a suffragio universale. Nell’intervista Galli dichiarò che la sinistra aveva rinunciato, non solo in Italia, alla critica al capitalismo e che si era fatto spazio nel nostro paese un anticapitalismo in forma di populismo “che può essere confuso con il fascismo, ma che non è il fascismo”. Il politologo invitava a prendere atto, dopo il fallimento del referendum costituzionale di Renzi e dopo la vittoria dei Cinque stelle alle elezioni politiche del 2018, che “il sistema per come lo abbiamo conosciuto non c’è più”, e aveva preconizzato che un governo Lega-M5s sarebbe potuto durare solo attuando un programma economico volto a premiare le eccellenze produttive e a colpire quei ceti parassitari che lo studioso aveva preso di mira ne “Il golpe invisibile” (libro del 2015 contro la borghesia finanziaria-speculativa e contro i ceti burocratico-parassitari che avevano a suo giudizio “saccheggiato l’Italia repubblicana fino a valicare lo stato di diritto”). Egli guardava con sconforto al deterioramento del ciclo economico che colpiva i ceti più deboli e al rischio che le tensioni latenti nella società italiana potessero esplodere all’improvviso; rischio oggi più forte che mai a causa della grave recessione in cui siamo piombati. Con Galli non scompare solo il grande studioso e il fine intellettuale, ma anche l’uomo gentile, mite e prodigo capace di ascoltare come tutti i grandi maestri e di proiettarsi nel futuro nonostante il carico degli anni.
· È morto il wrestler Brody Lee.
Da "leggo.it" il 27 dicembre 2020. È morto Brody Lee, Wrestling sotto choc. Aveva 41 anni. Il mondo del wrestling è sotto choc per la morte di Brody Lee. Sia gli atleti della WWE sia quelli della All Elite Wrestling hanno pubblicato decine e decine di messaggi per ricordare il wrestler scomparso a 41 anni e per sottolineare come fosse una meravigliosa persona oltre ad un talentuosissimo e validissimo lottatore. Subito dopo l’annuncio pubblicato sui canali ufficiali della All Elite Wrestling, la moglie del wrestler AEW, Amanda, ha postato un lungo messaggio in ricordo del marito prematuramente scomparso. «È morto il mio migliore amico - scrive - . Non avrei mai voluto scrivere queste parole. Il mio cuore è a pezzi. Il mondo lo vedeva come il magnifico Brodie Lee (o Luke Harper) ma lui era il mio migliore amico, mio marito e il più grande padre che potevate incontrare. Nessuna parola potrà esprimere l’amore che provo o quanto io sia a pezzi in questo momento. È morto tra l’affetto dei suoi cari combattendo una lunga malattia polmonare non collegata al Covid. La clinica Mayo è la miglior squadra di dottori al mondo e mi ha sorretta con grande e costante amore. Voglio esprimere il mio amore e ammirazione alla AEW che ha supportato non solo mio marito ma anche me e i miei figli. Mi hanno aiutato a rialzarmi e rimettere insieme i pezzi. Sono stata supportata da così tante persone che non posso taggare tutte ma loro sanno chi sono ma non penso sapranno mai quanto le sono grata». Nato Jonathan Huber, a Rochester il 16 dicembre 1979, lottava con il ringname Brodie Lee o Mr. Brodie Lee: ha vinto una volta l'Intercontinental Championship, una volta l'NXT Tag Team Championship (con Erick Rowan) e due volte lo SmackDown Tag Team Championship (una volta con Rowan e una volta con Bray Wyatt e Randy Orton).
· E’ morto George Blake, la spia rinnegata.
Paolo Valentino per "corriere.it" il 26 dicembre 2020. È morto a Mosca, la città dove viveva da oltre mezzo secolo, pochi giorni dopo John Le Carrè. Come se un filo esistenziale legasse lo scrittore che meglio di tutti ha raccontato il mondo delle spie nella Guerra Fredda e la talpa che insieme ad altre lo ispirò. Aveva 98 anni George Blake, l’agente segreto britannico che per nove anni ingannò l’MI6, facendo il doppio gioco con l’Unione Sovietica e portando all’arresto di almeno 42 informatori dell’Est che lavoravano per i servizi occidentali. La sua scomparsa è stata annunciata dall’SVR, l’intelligence esterna della Federazione russa erede del Kgb, che lo definisce «un agente leggendario» e ricorda «il sincero amore di Blake per il nostro Paese». Anche Vladimir Putin ha espresso le sue condoglianze, salutando Blake come un «brillante professionista» e uomo di «coraggio rimarchevole», che ha dato «un contributo inestimabile ad assicurare la parità strategica e preservare la pace». Con George Blake se ne va l’ultimo esponente di una celebre dinastia di spie britanniche, che lavorarono in segreto per il Cremlino e il cui tradimento fece tremare e umiliò il mondo dell’intelligence occidentale al culmine della Guerra Fredda. Ma a differenza dei famosi «Cambridge Five», i cinque ex studenti della prestigiosa università che passarono armi e bagagli al servizio del regime comunista di Mosca, Blake, anche lui studente a Cambridge, non fu mai parte del loro mondo né dell’establishment britannico. Con due di loro tuttavia, Kim Philby e Donald MacLean, anch’essi scappati a Mosca dopo essere stati scoperti, era diventato negli anni amico e frequentatore. Smascherato nel 1961, Blake era stato processato e condannato a 42 anni di carcere, uno per ogni agente tradito, secondo la vulgata del tempo. Ma nel 1966 fu protagonista di una clamorosa fuga dalla prigione londinese di Wormwood Scrubs, grazie all’aiuto di alcuni attivisti pacifisti, per un breve periodo suoi compagni di cella. Il piano di evasione, finanziato dal regista Tony Richardson, prevedeva anche un nascondiglio segreto, dove Blake rimase per alcuni mesi prima di riuscire a passare nascosto in una cassa di legno la Cortina di Ferro e fare il salto finale verso Mosca, lasciandosi dietro una moglie e tre figli. Da quel momento, parole sue del 2017, la Russia divenne la sua «seconda patria». Blake era nato nel 1922 in Olanda, suo padre era un ebreo spagnolo che aveva combattuto nell’esercito inglese durante la Grande Guerra ed era diventato cittadino britannico. All’età di 18 anni, dopo l’invasione nazista della Polonia, si era unito alla resistenza olandese e in piena Seconda Guerra Mondiale era entrato nella riserva volontaria della Royal Navy, dove il suo background poliglotta lo aveva subito segnalato come candidato ideale per lavorare nell’intelligence: cominciò traducendo dall’olandese, la sua lingua madre, i messaggi dei resistenti per i comandi alleati. Finito il conflitto, dopo aver spiato i sovietici nella Germania dell’Est e aver imparato il russo a Cambridge, Blake venne inviato in Corea del Sud e venne anche fatto prigioniero dai nordcoreani quando esplose la guerra. Fu in Estremo Oriente che le sue precedenti simpatie per il comunismo presero forma concreta: «Di fronte ai bombardamenti americani sulla popolazione civile, decisi di cooperare volontariamente e senza compenso con l’intelligence sovietica». Da agente doppiogiochista, Blake passò a Mosca segreti importanti, non ultimo un piano occidentale per ascoltar le comunicazioni sovietiche scavando un tunnel sotto Berlino Est. Ma ha sempre negato che qualcuno degli uomini da lui traditi sia stato giustiziato: «Questo non mi fu contestato al processo a Londra e io lo avevo posto come condizione al momento del passaggio in Urss», disse una volta in una conferenza stampa. C’era un ambiguo candore nella sorda ostinazione di questo maestro di spionaggio, sempre vestito di tweed con un farfallino al posto della cravatta, bon vivant che riceveva volentieri nel suo appartamento. Il comunismo per lui era quasi un’entità metafisica: «Chiunque creda nell’Aldilà mi faccia un esempio di come sarà la vita laggiù: non farete altro che descrivermi una società comunista», mi disse in un’intervista nel 1992 a Mosca, in occasione dell’uscita del libro nel quale raccontò il romanzo della sua vita. La sua analisi del crollo dell’Urss e del fallimento dell’esperimento sovietico non incolpava il modello, ma gli uomini cui ne era toccata in sorte la gestione: «Perché il comunismo possa avere successo occorre gente di altissima integrità morale, capace di mettere gli interessi generali al primo posto». La sua conclusione era adamantina e autoconsolatoria: «Noi che viviamo in questo scorcio del XX secolo non siamo abbastanza maturi per poter costruire una società comunista». Requiem per una spia che andò verso il freddo.
Morto George Blake, il principe dei doppiogiochisti che tradì Londra. George Blake, leggendaria spia dei russi che ha dato filo da torcere agli 007 inglesi per tutta la durata della Guerra Fredda - e forse anche dopo - è morto all'età di 98 anni. Non ha mai tradito i suoi "ideali" marxisti. Davide Bartoccini, Domenica 27/12/2020 su Il Giornale. “Per tradire qualcosa, prima bisogna appartenervi”, ha sostenuto fino al giorno della sua morte, ieri, George Blake; la famigerata spia di Mosca che ha regolato l’orologio con le lancette del Big Ben per quasi vent'anni, e che non si è mai sentito, neanche per un secondo, agente segreto a servizio di Sua maestà. Aveva 98 anni e un sincero, profondo attaccamento agli ideali marxisti-leninisti che lo hanno spinto a diventare una spia doppiogiochista fedele all'Unione sovietica, quando il mondo era diviso da una "cortina di ferro", e la Guerra fredda era un gioco per uomini come lui, che combattevano una guerra di informazioni per prepararsi a un conflitto globale che non sarebbe mai scoppiato. In un periodo quantificato in nove anni, l'agente di quello che all'ora si chiamava Kgb - il servizio di spionaggio sovietico - era riuscito a "bruciare" la copertura di almeno quaranta agenti fedeli ai servizi segreti britannici che operavano nell'Europa orientale; svelando la loro identità dall'interno dell'MI6, il servizio segreto britannico dal quale era stato arruolato al termine della seconda guerra mondiale per occuparsi della sua patria naturale. Nato nei Paesi Bassi ed emigrato nel Regno Unito solo dopo un lungo percorso ideologico all'ombra delle piramidi egiziane - dove era entrato in stretta empatia con il cugino, poi fondatore partito marxista egiziano -, il principe dei "doppiogiochisti", la cui storia di intreccia con quella dei Cinque di Cambridge e le trame dei romanzi del suo "collega" John le Carré, si era definitivamente convertito alla causa marxista durante un breve periodi di prigionia, scontata nelle mani delle truppe nordcoreane appoggiate da Mosca e Pechino - era stato inviato ad acquisire informazioni nel corso della Guerra di Corea. Liberato nel 1953 come altri prigionieri di guerra, operarà per gli anni a venire a favore dei comunisti. Smascherato mentre era sotto copertura in Libano, venne incarcerato nel 1961. Il suo compito allora era quello di "reclutare" agenti doppiogiochisti tra le fila dei sovietici per conto degli inglesi. Fece il contrario, potendo accedere ad una mole considerevole di informazioni di altissimo livello di segretezza che riguardavano proprio gli agenti segreti che operavano sotto copertura in Europa per conto di Londra. Condannato a 42 anni per tradimento, riuscì ad evadere appena cinque anni dopo per rifugiarsi in Russia; il paese che ha sempre amato, stando alle parole del capo dell'odierno servizio segreto russo di intelligence internazionale: il primo a risorgere dalle ceneri del Kgb dopo il crollo dell'Urss del 1991. Alla sua fuga rocambolesca, che avverrà attraverso la DDR e lo vedrà "saltare il muro" di Berlino per l'ultima volta, sarà ispirato uno degli ultimi progetti (mai realizzati) del maestro della settima arte Alfred Hitchcock. Stabilitosi in Russia, dove mise su famiglia, dopo aver abbandonato per sempre la prima, prenderà i gradi di tenente colonnello del Kgb e rimarrà in servizio "attivo" anche dopo il crollo dell'Unione Sovietica e l'arrivo di Putin. Affermerà più volte, nel corso della sua vita, di non essere mai stato davvero un agente al servizio di sua maestà. La sua posizione anti-nazista, essendo lui di origini ebraiche, lo aveva spinto a svolgere un ruolo per conto dei servizi segreti britannici, prima fornendo informazioni sul suo paese di origine, e poi interrogando i comandanti degli U-boat nazisti che avevano affondato decine di navi piene di innocenti, ma lui si è sempre sentito "olandese". Dunque non apparteneva alla corona. E questo, a modo suo, lo faceva sentire un doppiogiochista, come la spia che lo smascherò negli anni '60, ma mai un "traditore".
· È morta la modella Stella Tennant.
Valeria Pagnonico per fanpage.it il 23 dicembre 2020. È morta Stella Tennant, la supermodella britannica che ha spopolato negli anni '90, arrivando a calcare le passerelle delle più grandi Maison di moda, da Alberta Ferretti a Chanel, fino arrivare a Jean Paul Gaultier e Burberry. Aveva 50 anni, a dare l'annuncio della sua scomparsa è stata la famiglia, che ha diffuso una nota in cui ha scritto: "È con grande tristezza che annunciamo la morte improvvisa di Stella Tennant il 22 dicembre 2020. Stella era una donna meravigliosa e un'ispirazione per tutti noi. Ci mancherà moltissimo". I funerali verranno celebrati in forma privata.
Stella Tennant aveva origini aristocratiche. Stella Tennant nacque a Chatsworth nel 1970, era la nipote di Andrew Cavendish e di Deborah Mitford, Duca e Duchessa del Devonshire. Debuttò nel mondo della moda a 23 anni dopo essere stata scoperta da Plum Sykes, un giornalista di Vogue UK, che la presentò ai fotografi Steven Meisel e Bruce Weber. All'epoca i suoi progetti erano completamente diversi, dopo essersi diplomata alla St Leonards School di St Andrews, cominciò a studiare scultura alla Winchester School of Art ma, dopo aver cominciato a spopolare, abbandonò tutto per dedicarsi al 100% alla carriera da modella. A renderla iconica fu la sua bellezza androgina e il suo stile punk, al debutto, infatti, portava il mullet cut in stile "The Cure" e il piercing al setto. Conquistò innumerevoli copertine ambite, da Vogue ad Harper's Bazaar, fino ad arrivare alla rivista francese Numéro.
Dalla prima sfilata per Chanel alle passerelle internazionali. Il debutto in passerella, invece, ci fu nel 1994, quando fece scalpore a causa della sua magrezza con indosso un microbikini di Chanel. Da allora non smise più di avere successo, sfilando per grandi nomi come Alberta Ferretti, Alexander McQueen, Calvin Klen, Dolce&Gabbana, Fendi, Gianni Versace, Miu Miu. Insomma, presto divenne una delle supermodelle degli anni '90. Nel 2012, oltre a partecipare ai Giochi Olimpici di Londra al fianco di Kate Moss e Naomi Campbell, indossando abiti di stilisti britannici creati appositamente per lei, venne anche inserita nella Scottish Fashion Awards Hall of Fame.Per quanto riguarda la sua vita privata, si sposò nel 1999 con il fotografo francese David Lasnet, dal quale ebbe 4 figli.
Stella Tennant fu tra le prime sostenitrici della moda sostenibile. Stella Tennant fu tra le prime a impegnarsi in prima linea in tema di ecologia, facendo il possibile per ridurre al minimo l'impatto ambientale del fashion system. Non a caso, non esitava a dichiarare con orgoglio di riciclare regolarmente i vestiti, acquistando solo 5 nuovi capi ogni anno. Nel 2009 collaborò con Global Cool, un'organizzazione che sostiene la moda green, promuovendo la riduzione di ogni spreco di energia. La modella divenne uno dei volti della campagna "Turn Up The Style, Turn Down The Heat".
Stella Tennant, la bellezza androgina dell'icona degli anni '90. Il segreto del successo di Stella Tennnant? Non solo la sua eleganza aristocratica ma anche la sua bellezza androgina fuori dal comune. A differenza della maggior parte delle colleghe dell'epoca, infatti, lei vantava uno stile punk-rock contraddistinto da mullet cut e piercing al naso. Negli anni successivi ha sempre continuato a portare i capelli cortissimi ed è stato proprio quella sua "distanza" dagli stereotipi a renderla tanto apprezzata dagli stilisti internazionali. Oggi il mondo della moda non può fare a meno di piangere la sua scomparsa: ha perso una delle icone degli anni '90.
Morta Stella Tennant, icona degli anni '90. Ma è mistero sulle cause. Cinque giorni dopo aver compiuto 50 anni è morta in circostanze ancora da chiarire la modella icona degli anni '90 Stella Tennant. Roberta Damiata, Mercoledì 23/12/2020 su Il Giornale. Il mondo della moda è in lutto. È morta, in circostanze ancora da chiarire, la modella scozzese Stella Tennant, una vera icona degli anni ’90, definita da molti come la “regina delle passerelle”. Nata a Chatsworth in Scozia era figlia della duchessa Deborah Mitford, vedova di Devonshire, l’ultima delle sorelle Mitford e nipote di Andrew Cavendish, undicesimo duca di Devonshire. Cinque giorni dopo aver compiuto 50 anni, la modella se ne è andata in circostanze misteriose, nonostante la rassicurazione di un portavoce della polizia che ha escluso “cause esterne”. Il primo a darne notizia è stato Il Guardian che non ha però saputo spiegare la causa della morte. La famiglia della donna ha diramato il comunicato per annunciare la sua scomparsa: “È con grande tristezza che annunciamo la sua morte improvvisa. Era una donna meravigliosa e un’ispirazione per tutti noi” si legge. Scoperta all’età di 23 anni da una giornalista di Vogue UK che la presentò al grande fotografo Steven Meisel, Stella Tennant si era subito fatta notare per il suo strano taglio di capelli, il piercing al naso e per la sua bellezza androgina che in poco tempo l’avevano fatta diventare la musa di tanti stilisti che la definivano la “punk aristocratica”. Nel 1996 scandalizzò il mondo sfilando magrissima con un microbikini per Chanel e venne scelta dall’allora direttore creativo Karl Lagerfeld in esclusiva per la maison per la sua somiglianza con Coco Chanel. Sfilò inoltre per Versace, Valentino, Calvin Klein, Alexander McQueen e Burberry. Nel 2012 è tornata a calcare le passerelle davanti a milioni di spettatori per la chiusura delle olimpiadi di Londra come testimonial del British Style. Sposata con il fotografo parigino David Lesnet, era madre di quattro figli Iris, 15, Jasmine, 17, Cecily, 20, e Marcel, 22 e si era ritirata dalle passerelle nel 1998 quando aspettava il primo. Di tanto in tanto veniva richiamata nelle sfilate come simbolo iconico. L’ultima passerella proprio nel 2020 per la collezione Haute Couture 2020 di Valentino. La modella viveva con la famiglia vicino a Duns, nel piccolo villaggio di Edrom nel Berwickshire, negli Scottish Borders.
· E’ morto l’attore Claude Brasseur.
Marco Giusti per Dagospia il 23 dicembre 2020. Un centinaio di film, due Cèsar, grandi successi, tanto teatro, perfino un passato da sportivo, tra ciclismo, bob e automobili. Se ne va Claude Brasseur, 84 anni, ottimo attore, capace di passare dalla commedia al noir senza nessuna difficoltà. Figlio d’arte, il padre era il grande Pierre Brasseur e la madre Odile Joyeux, nella sua infanzia gli amici di famiglia erano stelle come Louis Jouvet, Jean-Paul Sartre, André Malraux, suo padrino addirittura Ernest Hemingway. Per tutta la vita ha dovuto sostenere il peso del confronto con un padre importante e egocentrico e ha risposto con una modestia assoluta. “Se tu cerchi di somigliare a me o di non assomigliarmi, rischi di fuggire dalla tua vera natura e di diventare un attore bastardo”, gli aveva detto Pierre Brasseur. Nato a Neully sur Seine nel 1936, cerca di fare il giornalista, ma con quel nome è inevitabile che diventi attore. Il suo esordio a teatro è nel 1955, nel cinema un anno dopo in “Rencontre à Paris” di Georges Lampin seguito da “Il fantastico Gilbert” di Marcel Carné. Nel 1957 fa il militare in Algeria come paracadutista. Torna e seguita a dividersi fra cinema e teatro. Lo vediamo come figlio di Jean Gabin in “Mio figlio” di Denys de la Patellière, poi nel capolavoro di Georges Franju “Gli occhi senza volto” con Edith Scob. Nel 1961 si sposa con Peggy Roche. Ma il matrimonio durerà poco. E la moglie diventerà la compagna di Françoise Sagan. Si risposerà nel 1970 con Michele Cabon e avranno un figlio, Alexandre, attore. Negli anni ’60 lo troviamo attivissimo al cinema, “Le distrazioni” di Jacques Dupont, “A briglia sciolta” di Roger Vadim con Brigitte Bardot, “La casa del peccato” di Edmond T. Greville, il film ad episodi “I sette vizi capitali”, “Confetti al pepe” di Jacques Baratier, “Buccia di banana” di Marcel Ophuls. Jean Renoir lo chiama per “Le strane licenze del caporale Dupont”. Henri-Geroges Clouzot lo vuole a fianco di Romy Schneider nel mai finito “L’enfer”, mentre Jean-Luc Godard lo sceglie per il ruolo di Arthur, copratogonista assieme a Anna Karina e Sami Frey di “Bande à part”. I tre percorrerrano in 9 minuti e 43 secondi la Grande Galerie del Louvre in una delle sequenze più celebri della Nouvelle Vague. «Claude Brasseur ha l’innocenza e la follia dei ragazzi che giocano a biglie o alla guerra. Cioè ha sia la brutalità necessaria che il candore sufficiente”. E’ uno sportivo, tenta col ciclismo, eccelle nel bob, ma ai Giochi Olimpici Invernali del 1964 il suo casco esplode e rischia la vita. Non si perderà d’animo e lo ritroveremo nel 1983 correre e vincere come copilota di Jacky Ickx la Paris-Dakar. Dopo Godard lavora anche con Michelle Deville in “Lucky Jo” dove lo troviamo a fianco di suo padre, poi con François Truffaut in “Mica scema la ragazza”, con Costa Gavras in “Il 13°uomo”, ma il vero successo arriva dalla tv, grazie al ruolo di Rouletabille in “Le Mistére dela chambre jaune”, a quello di Sganarallo a fianco di Michel Piccoli nel “Don Juan” e a quello di François Vidocq in “Les nouvelles aventures de Vidock”, dove prende il ruolo che aveva interpretato Bernard Noel. Ha successo anche al cinema. “Esecutore oltre la legge” di Georges Lautner con Alain Delon e Mireille Darc lo rilancerà nel noir e nel poliziesco. “Certi piccolissimi peccati” di Yves Robert, un film corale con Jean Rochefort, Guy Bedos, Victor Lanoux e la bellissima Annie Duperey, modello per cento altri film francese, lo lancerà nella commedia. Accetta il ruolo dell’omosessuale a patto che non sia una macchietta, che sembri un eterosessuale. Diventa così uno dei primi gay positivi del cinema francese e vince così il suo primo César, il secondo lo vincerà per il polizisco “La guerra delle polizie” di Robin Davis. Gira subito dopo il sequel con lo stesso cast. Si divide presto fra Francia e Italia, Lo troviamo ne “Il genio” di Claude Pinoteau con Yves Montand e Agostina Belli, in “Barocco” di André Techné e in film italiani come “Gli eroi” di Duccio Tessari, “Quando la coppia scoppia” di Steno e, soprattutto, “Aragosta a colazione” di Giorgio Capitani dove recita assieme a Enrico Montesano e Claudine Auger. Arrivano grandi successi di pubblico, come “La banchiera” di Francis Girod a fianco di Romy Schneider, e soprattutto “Il tempo delle mele” di Claude Pinoteau, dove è il padre della ragazzina Vic di Sophie Marceau. Lavora nei noir di José Giovanni, Philippe Labro, Alexander Arcady, Gilles Grangier, adatto sia a fare il poliziotto come il bandito o il detective privato. Jean-Luc Godard lo richiama per “Detective” a fianco di Nathalie Baye e Johnny Holliday. Ma sono lontani i tempi di “Bande à part”. Lo massacra durante la lavorazione. "Mio povero Claude," gli dice, "vent'anni fa avevi ancora delle buone qualità, ora hai perso tutto. Non hai più niente”. E poi prosegue sui Cahiérs du cinéma: "Claude è un bravo attore ma sopravvalutato, uno che non sa più cosa fare, che fa solo brutti film ...". Brasseur risponde così: “Sono passati vent’anni. Ora fa psicoterapia. Spinge i suoi attori al limite per vedere quando scoppieranno”. Seguita a lavorare moltissimo. Ritrova Romy Schneider in “Une histoire simple” di Claude Sautet, uno dei suoi migliori film. Lavora con un altro figlio d’arte, Bertrand Blier, in “Un, due, tre, stella!” e “Actors”. In Italia gira “Matrimoni” di Cristina Comencini e più recentemente il televisivo “Soraya” di Ludovico Gasperini. Ha grande successo recentemente a fianco di Franck Dubosc nella saga di “Camping”, dove è Jackie Pic, innamorato del pastis. Il suo ultimo film è “Tutti in piedi” di e con Franck Dubosc. Schivo, serio, per tutta la vita ha mantenuto un certo distacco dal suo lavoro e dal mondo dello spettacolo. "Non mi piace parlare di me", ha detto. “Non è un argomento entusiasmante. Il lavoro di una vita è definire il margine tra ciò che vuoi e ciò che puoi."
· E’ morto il Serial Killer Donato Bilancia.
Morto Donato Bilancia, il "serial killer dei treni". Donato Bilancia, noto come "il serial killer dei treni", è morto per Covid all'età di 69. È stato condannato a 13 ergastoli. Rosa Scognamiglio, Giovedì 17/12/2020 su Il Giornale. Il serial killer Donato Bilancia, 69 anni, nato a Potenza il 10 luglio del 1951 e conosciuto come il "Mostro della Liguria" o "serial killer delle prostitute", è morto per Covid nel carcere Due Palazzi di Padova. I suoi problemi con la giustizia iniziano fin dall'adolescenza, quando viene fermato prima per furto e in seguito per rapina. Successivamente cade nella dipendenza del gioco d'azzardo. Nel 1984 un tremendo evento lo segna per sempre. Il fratello con in braccio il figlio di appena quattro anni si suicida buttandosi sotto un treno a Genova. Tra i delitti più efferati quello commesso il 12 aprile '98, sull'Intercity La Spezia-Venezia, quando scassinò la porta del bagno del vagone e sparò a Elisabetta Zoppetti, uccidendola. Venne arrestato nel 1998, a tradirlo fu una Mercedes nera, l'auto usata per alcuni suoi spostamenti. Il primo omicidio, che confessa lui stesso, risale al 16 ottobre 1997 quando Bilancia uccide il gestore di una bisca Giorgio Centanaro nella sua casa, soffocandolo con le mani e con del nastro adesivo. Il secondo pochi giorni dopo, il 24 ottobre, in piazza Cavour per motivi analoghi quando uccide nella loro casa Maurizio Parenti cui doveva dei soldi e la moglie Carla Scotto, sottraendo 13 milioni e mezzo di lire in contanti e alcuni orologi di valore. Tre giorni dopo, il 27 ottobre, uccide sempre a scopo di rapina i coniugi Bruno Solari e Maria Luigia Pitto, titolari di un'oreficeria e il 13 novembre a Ventimiglia, Luciano Marro, un cambiavalute, a cui ruba 45 milioni di lire.
Andrea Pasqualetto per il “Corriere della Sera” il 18 dicembre 2020. Uccideva con una P38, le prime volte per vendetta personale, poi forse per il solo piacere del sangue. Nessuno ha mai trovato una vera logica in quei 17 omicidi commessi quasi tutti in Liguria da Donato Bilancia tra il 1997 e il 1998 in meno di sette mesi. Ragione per cui anche i cronisti di nera lo definivano in vari modi, «serial killer dei treni» ma uccideva anche sui marciapiedi, «mostro della Liguria», ma talvolta sconfinava, «serial killer delle prostitute», ma fra le sue vittime c'erano biscazzieri, cambiavalute, commercianti, metronotte. Una cosa è certa: Bilancia è stato uno dei più spietati criminali della storia d'Italia. Siamo qui a scriverne al passato perché da ieri non c'è più. È morto nel carcere Due Palazzi di Padova dopo 22 anni di reclusione, per mano di un killer molto più seriale e invisibile di lui, contro il quale non avrebbe potuto nulla neppure la sua P38: il Covid. Bilancia aveva 69 anni, era nato a Potenza e per quella lunga scia di delitti la giustizia lo condannò a 13 ergastoli. La sua fu una confessione piena. Successe subito dopo l'arresto del 6 maggio 1998, quando decise di raccontare tutto, fin dalla sua difficile infanzia, il rapporto complicato con i genitori, l'omicidio-suicidio del fratello, il gioco d'azzardo e i primi furti per saldare i debiti. Poi spiegò la furia omicida. Che ebbe inizio il giorno in cui capì di essere stato tradito dal suo miglior amico, Maurizio Parenti. Nell'estate del 1997 Parenti lo portò in una bisca clandestina, ambiente familiare a Bilancia che era un appassionato di gioco d'azzardo. Dopo un paio di vincite, iniziò a perdere pesantemente. Una sera, nel bagno del locale, sentì una conversazione fra l'amico e il gestore, Giorgio Centenaro. «Hai visto in che modo sono riuscito ad agganciarlo e a portarlo qui da noi?», disse Parenti all'altro. Bilancia uscì sconvolto dal locale e qualche giorno dopo, il 14 ottobre 1997, bussò alla porta di Centenaro, lo legò con il nastro adesivo, e lo soffocò. Unico delitto commesso senza sparare. Il 24 ottobre fu la volta di Parenti, freddato con la moglie a colpi di pistola. Consumata la vendetta, qualcosa di ossessivo e incomprensibile scattò nella sua mente. Da allora Bilancia iniziò infatti a uccidere in modo apparentemente casuale. Il 27 ottobre toccò ai coniugi Bruno Solari e Maria Luigia Pitto, titolari di un'oreficeria, il 13 novembre a Luciano Marro, cambiavalute, il 25 gennaio 1998 a Giangiorgio Canu, metronotte... Il delitto più efferato fu forse quello commesso il 12 aprile successivo, sull'Intercity La Spezia-Venezia, quando scassinò la porta del bagno del vagone e sparò a Elisabetta Zoppetti che non ebbe scampo. La caccia all'uomo che terrorizzava Liguria e Piemonte si spostò sui treni, dove lui colpì più volte. E terminò il giorno in cui gli investigatori scoprirono che i luoghi delle contravvenzioni della Mercedes con cui viaggiava coincidevano con quelle di alcuni delitti. Per incastrarlo bastò il Dna su un mozzicone di sigaretta lasciato accanto al cadavere di una delle vittime. Poi venne il carcere. Una reclusione ultraventennale e un cammino di rieducazione personale con un diploma in ragioneria e addirittura una laurea in Progettazione e gestione del turismo culturale. «Quando ho ricominciato a studiare la professoressa che mi seguiva ha preteso che durante la nostra lezione la porta della mia cella rimanesse aperta - ha detto in un'intervista al Mattino di Padova -. Ci sono voluti tre anni, ma alla fine è stata lei a volerla chiudere. Queste attività ci aiutano a non morire dentro».
Edoardo Montolli per gqitalia.it il 18 dicembre 2020. La trovano morta nella toilette dell’Intercity 631 La Spezia-Venezia, all’altezza della tratta Brescia-Verona. Elisabetta Zoppetti, 32 anni, doveva scendere a Milano, dove faceva l’infermiera all’Istituto dei Tumori e dove alle 22 avrebbe iniziato il turno. Era salita a Chiavari, poco prima delle 14,30, accompagnata dal marito e dalla figlia, pronti a raggiungerla a casa nella giornata successiva. Invece qualcuno le ha sparato un colpo di pistola alla nuca e l’ha lasciata lì, prima di dileguarsi. È la Pasqua del 1998, esattamente il 12 aprile. L’episodio viene subito messo in relazione alla scia di sangue che sta gettando nel panico la Liguria da quasi duecento giorni. Anche se, fino a questo momento, si stava cercando l’assassino di alcune prostitute. Mentre qui, si tratta di una vittima scelta a caso negli scompartimenti. Non si fa in tempo a mettere giù un piano d’azione per capire con chi si abbia a che fare, che sei giorni più tardi, un’altra donna, Maria Angela Rubino, viene uccisa nel bagno di un treno, stavolta a Ventimiglia. Prima di arrivare all’esecutore bisogna attendere così il 6 maggio. A tradirlo è un errore commesso il 24 marzo a Novi Ligure, quando ferisce al ventre la transessuale John Alberto Zambrano Idrovo, alias Lorena, che finge di essere morta a fianco dei metronotte Candido Randò e Massimo Gualillo, uccisi con una calibro 38. Sarà lei a incastrarlo in un drammatico faccia a faccia, cinque delitti più tardi. L’assassino si chiama Donato Bilancia, 47 anni, e diverrà noto come il più feroce serial killer italiano. Confessa nel giro di pochi giorni. E confessa molto di più di ciò che gli inquirenti si aspettano. Ladro professionista, giocatore d’azzardo e viveur di casinò noto nell’ambiente con il nomignolo di Walter, ha ucciso la prima volta il 13 ottobre ’97, soffocando con un nastro adesivo Giorgio Centenaro, quando i debiti di gioco lo stavano facendo soccombere; unico omicidio per il quale non ha usato le pallottole. Ed anche unica vittima che conosceva unitamente ai coniugi Maurizio Parenti e Carla Scotti. Le altre vittime sono state in effetti scelte a caso: una coppia di orafi, due cambiavalute, tre metronotte, quattro prostitute, un benzinaio e le due passeggere ferroviarie Elisabetta Zoppetti e Maria Angela Rubino. Nel cercare di spiegare la personalità del serial killer, si fa una gran fatica. Se ne scopre l’infanzia densa di umiliazioni, la vita carente di affetti, il trauma per il suicidio del fratello Michele nel 1987, gettatosi sotto un treno con il figlioletto in braccio. Ma nessuno riesce a spiegare a fondo i moventi per tutti i delitti commessi da Bilancia, tanto che verrà considerato dai criminologi il serial killer italiano dalla personalità più complessa. L’omicidio di Elisabetta Zoppetti, Bilancia, il 15 maggio 1998, lo spiega infatti così: «Ho preso il treno a Genova. In uno scompartimento di prima classe c’era una donna, che io chiaramente non ho mai visto e conosciuto…Preciso che io non mi sono mica seduto con lei, ero in piedi in fondo al corridoio. Questa mi ha detto: “Mi scusi, per andare in bagno?”». Ed è successo: «Aveva la borsa con sé quando si è alzata. Io ho aperto la porta con una chiave falsa. È una normalissima chiave a quattro, una femmina a quattro ecco. L’ho buttata via dopo il secondo episodio, e preciso che l’avevo fatta io stesso, è... una sciocchezza. Questa qua s’è messa ad urlare e io le ho messo la giacca sulla testa e le ho sparato. L’ho fatto per non vedere cosa succedeva al momento dello sparo. L’unica cosa che ho preso è il biglietto, perché spuntava lì dalla borsa e io non avevo biglietto perché avevo preso il treno così, senza mete». Condannato a tredici ergastoli per 17 omicidi, dall’isolamento in una cella della prigione di Padova nell’aprile 2001 scrive una lettera al settimanale Cronaca Vera offrendo 500mila lire al mese a qualsiasi donna che abbia voglia di andare a trovarlo una volta al mese: “poi non si sa mai, potrei diventare anche molto più generoso, abitando a Genova Cogoleto, le sarà facile fare un breve sondaggio e scoprire che in effetti sono sempre stato molto generoso. Quest’insolita richiesta è dovuta alla figura che i media hanno fatto voler credere, e che mi ha determinato un totale abbandono da parte di tutti”. È il primo tentativo del serial killer di aprire un rapporto con i mass media. Tempo più tardi, rilascerà alcune interviste, una anche televisiva a Paolo Bonolis, annunciando rivelazioni sui suoi delitti e l’esistenza di complici nel duplice omicidio Scotto e Parenti, tali da poter chiedere la revisione del processo. Non gli hanno creduto. A gennaio 2012 la Procura di Genova chiede l’archiviazione. Negli ultimi anni si torna a parlare di lui. Accade quando Beppe Grillo porta il Movimento 5 Stelle in politica. Vien fuori che i due, da ragazzi, erano vicini di casa. Scherzerà il comico: «Ero ragazzino, abitavamo a Genova, ed il nostro vicino di casa era il killer Donato Bilancia, aveva 3 anni più di me. Quando la sera stavo fuori mia mamma mi diceva, “torna con Donato così sto più tranquilla». In carcere il serial killer non sta fermo. Si mette a studiare. E nel 2016 si diploma ragioniere con 83 centesimi. Poi tenta la sorte chiedendo la commutazione dell’ergastolo in 30 anni, sostenendo di non aver potuto chiedere il rito abbreviato in quanto soppresso all’epoca dei suoi processi, ma rimesso in gioco da una sentenza della Corte di Strasburgo. Ci fosse riuscito, sarebbe stato un primo decisivo passo verso la richiesta di benefici carcerari. Ma, ne dà notizia la Gazzetta del Mezzogiorno, prima il tribunale di Padova, e poi, a maggio 2017, la Cassazione, respingono la sua richiesta.
Franca Leosini per “la Stampa” il 18 dicembre 2020. Nella vicenda giudiziaria di Donato Bilancia, responsabile di 17 omicidi soprattutto di giovani donne, per lo più dedite al piu antico mestiere del mondo, pesa un "troppo tardi". Morto ieri a 69 anni per Covid nel carcere di Padova, Bilancia sarà consegnato alla storia criminale di questo Paese come "il mostro dei treni" e "il serial killer delle prostitute". Per la cadenza quasi rituale degli omicidi, avvenuti tra il '97 e il '98, nonché per la loro tipologia, Bilancia poteva forse essere fermato prima. Quando parlo di tipologia pressoché rituale dei delitti intendo riferirmi alla scelta delle vittime, nonché alla realtà ambientale nella quale Bilancia dava sfogo alla sua furia omicida. Con il dovuto rispetto per gli inquirenti, per le forze dell'ordine, va detto che nel caso di Donato Bilancia esiste un "troppo tardi": un "troppo tardi" nell'individuazione della mano omicida. Di contro, se da una parte ci si rammarica per quel "troppo tardi" (17 delitti in sei mesi), dall'altra, si plaude, per rigore della magistratura, al mancato riconoscimento a Bilancia di una possibile infermità mentale, vale a dire nessuna forma di attenuante che potesse ridurre i termini della condanna. Donato Bilancia, stava infatti scontando la pena definitiva di 13 ergastoli più un'aggiuntina di 16 anni per un tentato omicidio. Una indubbia devianza mentale, quella di Bilancia, suggerita dalla tipologia ricorrente e ossessiva dei suoi delitti: vittime infatti sempre giovani donne, giovani prostitute. Nel caso di Bilancia, al quale non é stata saggiamente riconosciuta in sede processuale l'attenuante dell'infermità mentale, si deve fare riferimento a un individuo che uccideva perché dominato da un'ossessione insopprimibile. Ossessione che trova riscontro anche nel comportamento che ha fatto seguito al suo arresto per l'omicidio della giovane prostituta nigeriana. La confessione di Bilancia, avvenuta a due giorni dall'arresto, più che un'ammissione di colpa appare quasi uno sfogo al pm che nel raccogliere le sue parole veniva a conoscenza anche di chi fosse il responsabile di delitti rimasti fino ad allora senza autore. A conferma dell'orrifica confessione di Bilancia, anche l'identikit perfettamente aderente tracciato agli inquirenti da una vittima fortuitamente mancata. La scaltrezza diabolica del killer, ha sicuramente pesato sulle indubbie carenze delle indagini. Bilancia, va detto con rammarico, rappresenta infatti un insuccesso sul piano investigativo: due mozziconi di sigaretta e l'abilità nel disegno di una giovane donna, vittima scampata, hanno per buona sorte consegnato alla giustizia uno dei più spietati assassini della storia del crimine. Breve l'arco di tempo in cui hanno avuto luogo i delitti, a cavallo tra il 1997 e il 1998. É dell'aprile del 1998, sull'Intercity La Spezia-Venezia il più efferato dei suoi omicidi: per raggiungere la vittima prescelta, come sempre una giovane donna, Bilancia sfonda addirittura la porta del bagno del vagone e con un colpo di pistola la uccide. Nel caso di Donato Bilancia, va riconosciuta alla magistratura una sentenza di massimo equilibrio: nessuna apertura per una possibile nonché richiesta infermità mentale. Per lui nessuno sconto per tante colpe senza remissione.
Donato Bilancia: "Se fosse stato libero avrebbe ucciso ancora". Il criminologo Carmelo Lavorino racconta di Donato Bilancia, il "killer dei treni": "Errori nelle indagini, avrebbero potuto catturarlo già al secondo omicidio". Rosa Scognamiglio, Sabato 19/12/2020 su Il Giornale. "Un super serial killer che aveva la cosiddetta 'coazione a ripetere'. Se fosse tornato a piede libero avrebbe continuato a uccidere, ne sono certo". È così che il criminologo Carmelo Lavorino descrive Donato Bilancia, uno degli assassini più prolifici della storia italiana, deceduto per Covid all'età di 69 anni lo scorso giovedì 17 dicembre. Tredici condanne all'ergastolo e 17 omicidi, Bilancia è passato alle cronache come "il serial killer delle prostitute" e "il mostro della Liguria" per aver dato seguito, tra 1997 e il 1998, a una attività delittuosa, quasi "compulsiva", tra Liguria e basso Piemonte.
Che tipo di seriar killer è stato Donato Bilancia?
"Bilancia è stato un serial killer del tipo complesso, atipico e multiforme perché, anche se usava sempre la stessa arma per uccidere, le vittime erano di psicologia diversa, così come lo erano i moventi e il modus operandi. Il suo profilo risponde a tutte le caratteristiche delle diverse tipologie di serial killer comprendendo, tutte insieme, la categoria degli assassini seriali vendicativi, quella dei narcisisti, collezionisti e vendicativi".
Quale era il suo modus operandi?
"Bilancia aveva più di un modus operandi, a seconda della vittima che intendeva colpire. In linea generale, lo schema che seguiva era il seguente: ideazione del delitto, sopralluogo della scena del crimine, modalità di approccio alla vittima e, successivamente all'azione omicidiaria, trasferimento del corpo da luogo del delitto".
Come "siglava" gli omicidi?
"Sceglieva pallottole grosse, un colpo solo al petto, alla tempia o alla nuca. Scaricava più colpi di pistola solo se era sopraffatto dalla rabbia".
Un criminale prolifico che ha ucciso 17 persone in un solo anno. Chi erano le sue vittime?
"I primi tre omicidi li commise per vendetta diretta - quello nei confronti dei due biscazzieri e della moglie di uno di questi - poi uccise un cambiavalute e un orefice perché aveva bisogno di soldi. Dopodiché passò alle prostitute per ragioni afferenti alla sfera sessuale e infine colpì vittime occasionali sui treni per puro edonismo".
Nel mirino soprattutto prostitute. Perché?
"Bilancia ha ucciso prostitute di diversa nazionalità, quasi tutte straniere, e due donne in treno. Le uccideva con un colpo solo di pistola o alla nuca o alla tempia, però faceva attenzione a coprire loro il volto perché aveva il terrore del sangue e non voleva fissare le vittime negli occhi".
Per quale motivo non fissava le vittime negli occhi?
"Perché se le avesse fissate negli occhi non avrebbe più avuto il coraggio di ucciderle. Tanto è vero che una volta ha risparmiato una potenziale vittima per questo motivo. Stava puntando l'arma contro una prostituta ma, nel momento in cui questa donna lo ha fissato, mostrandogli la foto di un bambino che ha spacciato per suo figlio, Bilancia ha gettato via la pistola risparmiandole la vita. Questo accade perché i serial killer tendono a disumanizzare le vittime, a trattarle come oggetti. Ma nel momento in cui la vittima riesce a fare capire loro che sono esseri umani, anche i serial killer crollano. Ovviamente non sempre".
Qual è stato il movente degli omicidi?
"Ha cominciato ad uccidere, pare, nel 1997. In realtà, credo che abbia slantetizzato (sopito, ndr) un istinto omicida che già covava da tempo. Dieci anni prima, nel 1987, il fratello si suicidò gettandosi sotto un treno insieme al proprio figlioletto di 4 anni perché la sua ex aveva ottenuto l'affidamento del bambino. Quella tragedia rappresentò un vero e proprio trauma per Bilancia che cominciò a covare rabbia nei confronti della cognata, desiderava inconsciamente ucciderla. Ma non è l'unico movente, ve ne sono svariati: dalla ferita di tipo narcisistica a quella sessuale".
Quanto ha inciso il rapporto turbolento con il padre?
"Moltissimo. Quando era bambino, Bilancia veniva spesso umiliato dal padre perché non tratteneva l'urina, sicché il papà lo derideva alla presenza dei cuginetti, calandogli le braghe per schernirlo sessualmente. Un'umiliazione che ha interiorizzato e di cui si è vendicato da adulto. Le prostitute con cui si intratteneva, dopo averle uccise, venivano scaricate in prossimità dell'abitazione dei suoi genitori, a mo' di biglietto da visita destinato in primis al padre, ma anche alla mamma che non lo aveva mai difeso".
C'è un numero ricorrente nei delitti messi a segno da Bilancia: il 32. Un caso?
"No, affatto. Bilancia era un grandissimo giocatore d'azzardo, associava ai numeri un valore simbolico. Ornella, la cognata, aveva 32 anni quando è morto il fratello, la stessa età della moglie del secondo biscazziere che ha ucciso. Così come 32 era il numero della Mercedes con cui si spostava. Quelli di Bilancia sono delitti dal valore fortemente simbolico".
Un assassino freddo e spietato ma che poi commette degli errori. Bilancia è stato catturato a seguito di una multa pervenuta alla persona che gli aveva venduto l'auto. Come è possibile?
"Perché era un assassino lucido e spietato nella parte organizzativa del crimine ma, sostanzialmente, non era così astuto. Dopo aver commesso il crimine aveva un crollo, quello che in psicologia si chiama crisi ossessivo-compulsiva, ovvero la fase in cui il killer perde completamente il controllo di se stesso e ciò che ha fatto. Ecco perché dico che era intelligente ma non aveva un particolare 'talento criminale', se vogliamo dirla in maniera spiccia".
Se è vero che non fosse così astuto, come mai l'ha fatta franca per ben 17 volte?
"C'è stata una gestione sbagliata delle indagini, questo è l'unico motivo. Bilancia commetteva molti errori, imprecisioni e leggerezze. Se gli inquirenti avessero notato alcuni dettagli, tipo quello della Mercedes nera che si spostava nei luoghi in cui erano stati commessi i primi tre delitti senza mai pagare il pedaggio autostradale, lo avrebbero catturato già al secondo omicidio. Ma erano i tempi in cui in Italia mancava l'idea che dietro una sequenza di crimini, tutti uguali, potesse esserci la mano di un serial killer. Ma ormai, c'è poco da ragionarci su".
Bilancia è morto due giorni fa in carcere, per Covid. Cosa ha pensato quando ha appreso la notizia?
"Che è morto laddove avrebbe dovuto trascorrere tutta la sua intera esistenza, in carcere. Di fronte a un numero così elevato di vittime, c'è ben poco di cui dispiacersi".
Un inedito di Donato Bilancia: «Condannato anche all’ergastolo mediatico». Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 21 dicembre 2020. Donato Bilancia, detenuto nel carcere di Padova e morto di Covid il 17 dicembre scorso, scrisse quest’articolo che diede a Carmelo Musumeci. Pubblichiamo un articolo, mai reso pubblico e quindi inedito, a firma di Donato Bilancia. Non servono presentazioni. Parliamo del serial killer che fra il 1997 e il 1998 terrorizzò il Nord Italia con 17 omicidi. Il 6 maggio del ’98 viene arrestato e infine condannato all’ergastolo. Arriva la pandemia, il Covid irrompe anche al carcere di Due Palazzi di Padova dove Bilancia è recluso. Si contagia, lo stato di salute si aggrava e finisce in ospedale. Secondo la ricostruzione della Gazzetta di Padova avrebbe rifiutato le cure per lasciarsi morire il 17 dicembre scorso. Una sorte, la sua, uguale a quella di un altro serial killer. Parliamo de “Lo squartatore” dello Yorkshire, vicenda trattata da una docuserie appena uscita su Netflix. È incentrata sugli omicidi da lui commessi a fine anni 70 nei confronti di tredici donne. Secondo la polizia britannica di allora – complice la loro sottocultura maschilista -, le donne che uscivano da sole di notte non potevano che essere delle prostitute. Invece, tante di loro non lo erano affatto. Quindi, sbagliando il profilo del killer, non sono riusciti ad identificarlo subito e per 5 anni ha potuto agire con tranquillità. Solo per un caso fortuito sono riusciti a prenderlo. Peter Sutcliffe, così si chiamava il killer, è risultato positivo al Covid 19 il mese scorso. Si è aggravato, ma anche lui, come Bilancia, ha rifiutato le cure per combattere questa malattia ed è morto. Molto probabilmente entrambi non avevano un motivo sufficiente per lottare per la vita e forse l’ergastolo in questo ha avuto un ruolo determinante.
Il ricordo di don Marco Pozza. Come ha scritto recentemente Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti, non esistono i “mostri”, «ma uomini in grado di fare cose mostruose, che però non esauriscono la loro umanità in quei gesti ». Don Marco Pozza, sacerdote del carcere Due Palazzi ha ricordato cosa Donato Bilancia gli disse una volta: «Andrò all’inferno, ma prego Dio che mi dia un istante di tempo per passare da loro a chiedere scusa». Di recente Bilancia aveva chiesto dei permessi per poter assistere un ragazzo disabile, ma non gli sono stati concessi. La sua è una figura ancora incomprensibile per gli stessi psichiatri e criminologi. Intelligente sopra la media, con un QI di 120, eppure disorganizzato. Nato in Basilicata, ma cresciuto in Liguria, segnato dagli abusi fisici ed emotivi del padre, che lo umiliava in pubblico mostrando i suoi genitali per schernirlo, finisce due volte in coma per due diversi incidenti stradali. Alla fine degli anni Ottanta, a 37 anni, resta scioccato dal suicidio del fratello, lanciatosi sotto un treno con in braccio il figlioletto di 4 anni. Giocatore compulsivo, nell’ambiente delle bische clandestine diventa noto con il nome di “Walterino”. Vince soldi, li perde, gioca di nuovo. È allora che comincia a uccidere creditori e nemici del mondo delle bische. Cambiando vittimologia e schema per poi passare alle prostitute e infine, ai viaggiatori dei treni.
L’articolo di Bilancia consegnato a Carmelo Musumeci. L’ex ergastolano ostativo e scrittore Carmelo Musumeci è stato nello stesso carcere di Bilancia, lo ha conosciuto ed è lui che ha dato a Il Dubbio questo articolo inedito che pubblichiamo integralmente. Di lui parlano libri e serie Tv – per questo nel suo articolo inedito parla dell’ergastolo “mediatico”, senza riuscire a spiegare quello che lui stesso ignorava. A tal proposito l’ex ergastolano Musumeci ci ha raccontato questo aneddoto: «Una volta l’avevo rimproverato per i reati che aveva fatto e lui mi aveva risposto che non lo sapeva neppure lui perché li aveva commessi. L’ho sentito sincero».
L’articolo di Donato Bilancia. Qualche tempo fa ho letto un articolo scritto da un compagno di detenzione il cui nome è Carmelo Musumeci. Pur apprezzandone l’esposizione dei contenuti, non mi trovo affatto d’accordo quando sostiene vi siano solo due tipi di ergastolo, quello normale e quello ostativo. Ho ragione di credere che ne esista un terzo che paradossalmente si chiama ergastolo “mediatico”. Senza fare inutili esempi entrando nello specifico, posso comunque affermare con fondata certezza che, dopo aver parlato per i primi anni successivi alla tragedia che mi ha visto responsabile di fatti gravissimi, tutti i mezzi d’informazione hanno continuato e continuano a parlare di me attaccandomi. Da sempre, per qualsiasi cosa che di clamoroso accada a Genova come a Padova, vengo tirato in ballo pur non entrandoci mai per nulla. Sono sicuro che in questi ultimi diciassette anni non siano mai trascorsi ininterrottamente sei mesi senza che giornali, riviste, talk televisivi, persone che hanno scritto libri ed altri, non abbiano parlato di me. Si pensi che addirittura viene persino proiettato periodicamente anche il film realizzato sulla mia storia. Questo tanto feroce quanto ingiustificato accanimento mediatico penalizza ulteriormente in tutto e per tutto il mio già non facile percorso penitenziario. Il continuo parlare di me soprattutto a vanvera, serve soltanto ad acuire l’acrimonia in tutte le persone con le quali a vario titolo devo confrontarmi giornalmente all’interno della struttura penitenziaria, figuriamoci l’impatto che avrà in quelle al di là del muro di cinta. Pur di sottrarmi definitivamente a questa gogna mediatica, qualche anno fa, favorito dalla condizione d’isolamento durato per ben undici anni, durante i quali presi anche coscienza di ciò che mi era capitato, colto da grande sconforto avevo pensato di farla finita ma poi, solo per mera vigliaccheria, mi è mancato il coraggio di mettere in atto il gesto estremo. Come potrò mai dare un briciolo di dignità al rimanente non lunghissimo percorso di vita rimastomi (ho 64 anni) se tutte le possibilità mi verranno precluse a prescindere solo perché mi chiamo Donato Bilancia? Come portò mai porvi anche un piccolo rimedio al male fatto se il muro di mattoncini che riesco a costruire pian pianino mettendone lì uno dopo l’altro con enorme fatica, viene subito abbattuto senza alcuna apparente ragione? Con grande difficoltà ho iniziato da tempo un complicato percorso per riuscire a riconquistare la fede, questo mi porta a credere che perfino il nostro Papa Francesco si ribellerebbe se venisse a conoscenza di questo infinito attanagliamento mediatico posto in atto nei miei confronti. Certo, come già detto, i fatti dei quali mi sono reso responsabile sono gravissimi, questo è indiscutibile, che vi sia poi stata la volontà oppure no, in questo preciso momento non ha alcuna rilevanza. Tuttavia l’Art. 27 della Costituzione italiana parla chiaro in relazione allo scopo che deve avere la detenzione di qualsiasi persona condannata in via definitiva, ed in vero non ricordo di aver letto che in calce vi sia scritto: “Asterisco, Donato Bilancia escluso”. Donato Bilancia Carcere di Padova luglio 2015
· È morto l’ex ministro Enrico Ferri.
È morto Enrico Ferri, il ministro del limite dei 110 km in autostrada. Enrico Ferri a destra stringe la mano al segretario del Psdi Antonio Cariglia. La Repubblica il 17 dicembre 2020. Aveva 78 anni ed era da tempo malato. Dirigente del Psdi, ne è stato anche segretario. Dopo Tangentopoli approdò a Forza Italia e all'Udc e fu eletto europarlamentare. È stato anche leader della corrente di Magistratura indipendente. È morto stasera, nella sua casa di Pontremoli (Massa Carrara), l'onorevole Enrico Ferri. Aveva 78 anni ed era malato da tempo. Magistrato e politico, fu esponente del Psdi, Partito socialdemocratico italiano, ed è ricordato ancora da molti perché nel 1988, da ministro dei Lavori pubblici, impose con un decreto legge il limite di velocità di 110 chilometri all'ora sulle autostrade italiane. Una decisione che divise gli italiani, era il 7 luglio, proprio alla vigilia del grande esodo estivo. Ferri è stato dirigente e anche segretario del Partito socialdemocratico italiano. Dopo Tangentopoli e lo scioglimento del partito ha partecipato a diversi tentativi di ridare vita al Psdi e in compagnia di un altro socialdemocratico storico come Luigi Preti. Poi approdò a Forza Italia e ai centristi dell'Udc e fu eletto anche all'Europarlamento nel 1999.È stato per diversi mandati anche sindaco di Pontremoli. Infine si avvicinò alle posizioni di Clemente Mastella e dell'Udeur, formazione allora collocata nel centrosinistra, prima di rientrare nei ranghi della magistratura. Fece parte anche del Csm ed è stato leader di Magistratura indipendente, la corrente conservatrice della magistratura, diretta poi da suo figlio Cosimo Ferri, oggi deputato di Italia Viva, coinvolto nello scandalo Palamara.
È morto Enrico Ferri, l’ex ministro che impose il limite di 110 chilometri orari in autostrada. Fanpage il 18 dicembre 2020. È morto Enrico Ferri, l'ex ministro conosciuto per aver fissato il limite dei 110 chilometri orari in autostrada. Aveva 78 anni e da tempo era malato: si è spento nella sua casa a Pontremoli (Massa Carrara). Magistrato e politico, alla fine degli anni Ottanta Ferri ricoprì la carica di ministro dei Lavori pubblici. È stato esponente di Forza Italia e di Udeur, ma non solo. Deputato ed europarlamentare, è stato più volte anche cittadino di Pontremoli tra il 1990 e il 2004. Nella sua esperienza a Palazzo Chigi si è guadagnato il soprannome di "ministro dei 110 all'ora", in quanto fu durante il suo ministero, durante il governo De Mita, che si decise di porre il limite di velocità in autostrada proprio a 110 chilometri orari. Una decisione che suscitò anche un'accesa discussione tra l'opinione pubblica. A ricordarlo è Gianfranco Rotondi, che scrive: "Mi addolora la scomparsa di Enrico Ferri, gentiluomo della politica e della magistratura, ministro dei Lavori Pubblici, socialdemocratico idealista e grande amico della migliore Democrazia Cristiana. Fu amico di Fiorentino Sullo, e fu il solo – venti anni fa – ad accettare di commemorarlo rompendo il silenzio che circondava una delle figure più scomode della prima Repubblica. Esprimo al figlio Cosimo, collega parlamentare, le condoglianze mie personali e della fondazione ‘Fiorentino Sullo' che ho l'onore di presiedere". E ancora, Raffaella Paita, presidente della commissione Trasporti a Montecitorio: "La notizia della scomparsa di Enrico Ferri ci addolora molto, non solo per le qualità umane delle persona ma anche perché con lui se ne va una figura fondamentale per la cultura della sicurezza stradale in Italia. Ferri, da politico di grande spessore, trovò il coraggio per andare controcorrente e introdurre quella che fu una vera e propria rivoluzione, ovvero il limite dei 110 km/h in autostrada. È stato grazie a quel provvedimento se la cultura della sicurezza stradale ha potuto attecchire e diffondersi nel Paese, ponendo le basi per altre norme che antepongano il valore della vita alla velocità".
· Morto lo scrittore John le Carré.
Antonio Carioti per il “Corriere della sera” il 14 dicembre 2020. Sarebbe non solo riduttivo, ma profondamente ingiusto, confinare il romanziere inglese John le Carré, scomparso all' età di 89 anni, nell' ambito della letteratura di genere, considerarlo in sostanza l' alternativa colta e sofisticata, nell' ambito delle storie di spionaggio, a Ian Fleming e al suo 007. Bisogna invece riconoscere che David Cornwell (questo era il suo vero nome), è stato in assoluto uno degli autori di lingua inglese più importanti nella seconda metà del Novecento. L' efficacia del suo periodare, l' accurata introspezione psicologica, la capacità di costruire intrecci complessi e sorprendenti, in cui nulla è come sembra, ne facevano un narratore di prim' ordine. Ottimo conoscitore dell' universo spietato e cinico dei servizi segreti, di cui (come peraltro Fleming) aveva fatto parte, le Carré ne aveva fornito un quadro realistico, lontanissimo dall' eroismo patinato di James Bond, ma al tempo stesso attraente per la massa dei lettori, che avevano premiato il suo talento sin dal suo primo bestseller mondiale del 1963, La spia che venne dal freddo (Longanesi, 1964). Critico dell' establishment inglese, le Carré era un uomo di sinistra e non aveva una visione manichea della guerra fredda: era stato tra l' altro invitato a Mosca in epoca gorbacioviana, anche se nei suoi romanzi più famosi alla fine il servizio segreto britannico prevale su quello sovietico. Dopo la caduta dell' Urss aveva dichiarato che a quel punto bisognava «combattere i mali del capitalismo». E in seguito si era schierato con la massima energia contro la Brexit, posizione che si rifletteva già nel romanzo Un passato da spia (Mondadori, 2017) e poi in La spia corre sul campo (Mondadori, 2019). David Cornwell era nato in Inghilterra, nella cittadina meridionale di Poole, il 19 ottobre 1931. I suoi genitori si erano separati quando era bambino e non aveva più rivisto la madre fino all' età di 21 anni. Assai difficile era stato poi il suo rapporto con il padre Ronald Cornwell. A un certo punto era intervenuta la ribellione del ragazzo, che era riuscito a farsi mandare a studiare in Svizzera. Fu una svolta: sia perché a Berna si era manifestata la sua passione per la cultura tedesca, che caratterizza anche il personaggio di maggior spicco dei suoi romanzi, George Smiley; sia perché proprio nella capitale elvetica, pullulante di spie, era avvenuta l' iniziazione al mondo dei servizi segreti. Mentre lavorava in Germania per l' intelligence sotto copertura diplomatica, aveva scritto e pubblicato nel 1961 il suo primo romanzo, Chiamata per il morto (Feltrinelli, 1965). Qui entra in scena subito Smiley, individuo pingue e sgraziato, sempre vestito con abiti di taglio scadente, umiliato dalla moglie infedele e dai capi arroganti, ma dotato a profusione di intuito, memoria e capacità investigative. È lui che risolve il primo intrigo. La fama planetaria e l' agiatezza per l' autore inglese, che scrive sotto pseudonimo come si conviene a un diplomatico (e per di più agente segreto), arriva nel 1963 con La spia che venne dal freddo . Un bestseller che in Gran Bretagna vende mezzo milione di copie in tre mesi e negli Stati Uniti rimane in testa alla classifica per 43 settimane consecutive. Nel 1965 ne viene tratto un film omonimo con l' attore Richard Burton. Nel romanzo Smiley ha stavolta un ruolo secondario, ma il protagonista Alec Leamas, vittima di una intricata girandola d' inganni nella Berlino del Muro, ne condivide il grigiore di fondo. L' affermazione come romanziere aveva consentito a le Carré di chiudere la sua carriera al servizio della Corona e di dedicarsi soltanto alla scrittura. Un' attività che aveva toccato l' apice con la cosiddetta «trilogia di Karla», dal nome in codice del capo dei servizi segreti sovietici che è il rivale di Smiley in una lunga partita a scacchi destinata a dipanarsi appunto per tre libri di enorme successo: La talpa (Rizzoli, 1975), L' onorevole scolaro (Rizzoli, 1978) e Tutti gli uomini di Smiley (Rizzoli, 1980). Il duello passa attraverso diverse fasi: viene scoperto un insospettabile infiltrato del Kgb, la cosiddetta «talpa», al vertice dell' intelligence britannica; Smiley passa da momenti di grande difficoltà ad altri in cui si ritrova alla guida del «Circus» (nome convenzionale che le Carré usa per il servizio segreto del suo Paese). Alla fine del terzo romanzo Karla è in trappola e si consegna sconfitto al suo avversario di sempre. Smiley avrebbe fatto un' altra fugace apparizione nel romanzo Il visitatore segreto (Mondadori, 1991), per poi tornare di nuovo, a molti anni di distanza, nel libro del 2017 Un passato da spia. I giudizi sulla seconda parte dell' opera di le Carré variavano: alcuni ritenevano che con romanzi come La spia perfetta (Mondadori, 1986) e La casa Russia (Mondadori, 1989), l' autore avesse raggiunto la piena maturità; altri erano più critici, ritenevano che fosse entrato in una fase involutiva. Ma non gli si poteva certo contestare un eccezionale primato. Nessun altro aveva saputo raccontare con tanta efficacia l' atmosfera ambigua e soffocante dell' ambiente spionistico.
Morto di polmonite lo scrittore John le Carré. È morto a 89 John le Carrè, scrittore famoso in tutto il mondo per i suoi romanzi di spionaggio. Luisa De Montis, Domenica 13/12/2020 su Il Giornale. È morto a 89 John le Carrè, scrittore famoso in tutto il mondo per i suoi romanzi di spionaggio. A darne la notizia Jonny Geller, ceo del Curtis Brown Group. Il suo vero nome era David Cornwell. "È stato un gigante della letteratura inglese. L'ho rappresentato per 15 anni, ho perso un amico", le parole di Geller in una nota. La famiglia ha confermato che Le Carrè è morto di polmonite al Royal Cornwall Hospital, a Treliske, la notte di sabato. La malattia, si legge in un comunicato della sua agenzia letteraria, non era collegata al Covid-19. Lascia la moglie Jane e 4 figli. "Per sei decenni - si legge nella nota - John Le Carrè (il cui vero nome era David Cornwell, ndr) ha dominato le classifiche dei bestseller con il suo monumentale corpus di opere". Attraverso il suo personaggio George Smiley, Le Carrè ha descritto in moltissimi romanzi gli intrighi spionistici della guerra fredda, forte di una personale esperienza come agente dei servizi segreti britannici. La fama mondiale giunse quando aveva 32 anni, nel 1963, con il terzo romanzo, "La spia che venne dal freddo". Il lavoro di Le Carré è per molti versi una risposta critica e ragionata al sensazionalismo che contraddistingue il più celebre esponente letterario del genere: James Bond. I suoi protagonisti sono tridimensionali e l'interazione con il mondo che li circonda è complessivamente più realistica e meno "glamour". George Smiley, uno degli agenti segreti più amati dai lettori di tutto il mondo, nasce nel 1961 con il primo romanzo "Chiamata per il morto". Nei romanzi di Le Carré spesso risalta la fallibilità dei sistemi di spionaggio occidentali, con la considerazione implicita che Unione Sovietica e NATO sono sostanzialmente i due lati della stessa moneta, in cui i protagonisti sembrano votati allo spionaggio più che all'ideologia che dovrebbero difendere. I romanzi successivi, in quello che si potrebbe definire il ciclo di Smiley, La talpa, L'onorevole scolaro, Tutti gli uomini di Smiley, consacrano Le Carré come uno dei massimi esponenti della narrativa di spionaggio. La fine improvvisa della Guerra Fredda con il crollo del Patto di Varsavia, mette in crisi tutto il genere, non risparmiando neppure l'autore inglese, che sembra incapace di trovare una nuova vena creativa. Tuttavia, con Il sarto di Panama (1996) e Il giardiniere tenace (2001) dove si ispira ad una vicenda realmente accaduta, ritorna al successo, adattando lo spionaggio a nuove necessità, comiche nel primo titolo dichiaratamente ispirato a Graham Greene e al suo Il nostro agente all'Avana, sociali nel secondo in cui attacca lo strapotere delle multinazionali farmaceutiche e denuncia la tragica situazione africana.
Il lutto. Morto lo scrittore John le Carré, re dei romanzi di spionaggio. Carmine Di Niro su Il Riformista il 14 Dicembre 2020. E’ morto a 89 anni John le Carré, scrittore famoso in tutto il mondo per i suoi romanzi di spionaggio. A darne la notizia Jonny Geller, ceo del Curtis Brown Group. Il suo vero nome era David Cornwell. “E’ stato un gigante della letteratura inglese. L’ho rappresentato per 15 anni, ho perso un amico”, le parole di Geller in una nota. Le Carrè è scomparso a causa di una polmonite, non legata al Covid-19, al Royal Cornwall Hospital sabato sera. La sua fama mondiale è dovuta alla sua firma su alcuni dei più grandi romanzi thriller e di spionaggio dell’ultimo secolo: romanzi diversi rispetto a quelli di Ian Fleming, creatore del ‘patinato’ James Bond. Le Carrè da profondo conoscitore dei servizi segreti, di cui aveva fatto parte proprio come Fleming, ne aveva fornito infatti un quadro ben più realistico. Nota anche la sua militanza di sinistra: dopo la caduta dell’Unione Sovietica il suo ‘nemico’ era diventato “combattere i mali del capitalismo”. Nato nel 131 a Poole, nell’Inghilterra meridionale, si laurea al Lincoln College di Oxford in letteratura tedesca e diventa docente all’Eton College, poi nel 1959 diventa funzionario del Foreign Office, il Ministero degli Esteri britannico. Inizialmente riceve la carica di Secondo Segretario presso l’Ambasciata del Regno Unito a Bonn e successivamente viene trasferito al Consolato di Amburgo, come Consigliere politico. In questo periodo viene reclutato dall’MI6. Il suo primo romanzo è del 1961, quando è ancora membro dei servizi segreti: “Chiamata per il morto”. Il successo planetario arriva due anni più tardi con “La spia che venne dal freddo”, bestseller che in Gran Bretagna vende mezzo milione di copie in tre mesi e negli Stati Uniti rimane in testa alla classifica di diffusione per 43 settimane consecutive.
Addio Jhon Le Carrè, con lui la spy story divenne letteratura. Lo scrittore britannico Jhon Le Carrè è morto di polmonite a 84 anni. Il Dubbio il 14 dicembre 2020. Lo scrittore britannico David Cornwell, meglio conosciuto con il suo pseudonimo John Le Carrè, è morto all’età di 89 anni. Ad annunciarlo il suo agente. Lo scrittore, diventato famoso in tutto il mondo per i suoi romanzi thriller e di spionaggio è morto a causa di una polmonite. Il suo agente Jonny Geller lo ha descritto come “un gigante indiscusso della letteratura inglese e ha detto di aver perso “un mentore, un’ispirazione e, soprattutto, un amico. Non lo rivedremo più”.
La storia di John Le Carrè. Nel gelido inverno del 1948, mentre Le strade delle città europee erano ancora ingombre delle macerie della Seconda Guerra Mondiale, un ragazzo di 17 anni combatte già un’altra guerra, che sarebbe andata avanti per un altro mezzo secolo e di cui sarebbe riuscito a vedere la fine, uscendone vivo e straordinariamente celebre. Il suo nome è David Cornwell, ed è un ragazzo prodigio, tanto che a 16 anni è già iscritto all’università’ a Berna. Ma, anche se studia in Svizzera, era pur sempre nato nel Dorset e il suo talento viene notato in patria, dove uno sguardo molto particolare lo tiene sotto osservazione. Sono gli occhi dell’MI6, il servizio di intelligence britannico, che decide di mandare un agente a reclutarlo. Due anni dopo, a nemmeno 20 anni, fa il servizio militare nei servizi segreti dell’esercito britannico in Austria, ma per mandarlo sul campo bisogna ricostruirgli una verginità, così va prima a Oxford, dove impara, e poi a Eton, dove insegna: alla creme dei rampolli della nobiltà e dell’alta borghesia inglese. Lo spionaggio è una cosa che richiede tempo e così David ha quasi 27 anni quando finalmente entra nell’MI5 (il controspionaggio). Il suo compito è – finalmente – sul campo: deve pedinare agenti stranieri, intercettare telefoni ed entrare nelle case dei sospettati senza che se ne accorgano. Passa poco e l’Mi6 lo rivuole indietro: nel 1960 si trasferisce dall’intelligence interna a quella esterna. Ed è in quel momento, secondo gli studiosi che hanno esaminato a fondo Le sue opere, che David Cornwell diventa John Le Carrè. Non sulla carta, ancora, ma secondo Timothy Garton Ash – autore nel 1999 di un articolo su Life and Letters dedicato allo scrittore/spia – è alla minuziosità del lavoro nell’intelligence che si deve molto dello stile di Cornwell diventato Le Carrè. Le Carrè ha scritto gran parte del suo primo romanzo, “Chiamata per il morto”, mentre era ancora in servizio, usando lo stile dell’Mi6: stile asciutto, nemico degli aggettivi e imperniato sul verbo. In realtà Le Carrè non è un agente di rilievo e cerca di superare questa frustrazione creando la sua versione del mondo segreto in cui lavora, dando corpo sulla carta al desiderio di sognare il sogno della grande spia, di essere al centro del grande gioco raccontato da Kipling in “Kim”. E lo fa inventando un mondo spettrale più adatto alle sue esigenze, un mondo che si alimenta della paranoia che percorre il mondo dagli anni Cinquanta agli anni Settanta, quando praticamente tutti, ovunque, sono sospettati di essere spie sovietiche. Per Le Carrè, Le questioni di tradimento e paranoia hanno radici che vanno più in profondità della sua esperienza professionale come spia. Possono essere ricondotti alla sua vita familiare, e in particolare al rapporto con suo padre, Ronnie Cornwell, che gli studiosi descrivono come “un truffatore picaresco, energico, affascinante, di livello mondiale”. Era stato per sfuggire all’influenza del padre che il giovane Le Carrè si era trasferito a Berna. Ma era una fuga impossibile perchè Ronnie avrebbe tentato in tutto i modi di sfruttare la fama del figlio: ad esempio presentandosi nel più grande studio cinematografico di Berlino Ovest millantando di rappresentare il figlio per l’adattamento cinematografico di “La spia che venne dal freddo” o facendogli causa per ottenere il rimborso delle spese sostenute per la sua istruzione. Ma quale sarebbe il libro migliore per conoscere Le Carrè? Publisher Weekly, che nel 2006, 43 anni dopo la sua pubblicazione, lo aveva definito “il miglior romanzo di spionaggio di tutti i tempi” non avrebbe dubbi: “La spia che è venuta dal freddo”.
Scritto al culmine della Guerra Fredda, ritrae i metodi di intelligence dei Paesi occidentali e comunisti come vili e moralmente insensati. La trama dipende da una serie di capovolgimenti: mentre lo si legge, bisogna rivedere continuamente l’idea che ci si è fatti di quello che sta succedendo, il che fa parte del divertimento, ma lo rende schematico come il disegno di un architetto. Eppure “La talpa” è il più divertente. Uscito nel 1974, quando tutti ricordavano ancora quanto l’intelligence britannica fosse stata compromessa negli anni Quaranta, Cinquanta e Sessanta da agenti doppiogiochisti come Kim Philby e Guy Burgess, dice molto poco su come inizia il tradimento, ma crea un racconto fittizio di come potrebbe essere chiuso. Come Raymond Chandler, un altro scrittore di genere, Le Carrè offre una visione peculiare della vita, ma così persuasiva che molti lettori iniziano a vedere Le cose a modo suo. Tanto Chandler era un maestro della squallida e seducente amoralità di Los Angeles, quanto Le Carrè è riuscito a creare un mondo e un gergo – soave, spietato, tagliente – da inglese istruito che in alcuni tratti è mutuato dalle spie vere. Secondo Philip Roth, un altro libro di Le Carrè, “Una spia perfetta” del 1986, è non solo il suo migliore ma “il miglior romanzo inglese del dopoguerra”. Con buona pace di George Orwell, Graham Greene, Muriel Spark e Anthony Burgess. Le Carrè ha sempre disprezzato lo spionaggio americano. Gli americani mancano di stile, sottigliezza, pazienza, diceva e non si divertono a spiare come in un gioco insidioso. Pensano di salvare il mondo, mentre i britannici sanno che, a parte gli interessi della Gran Bretagna, non c’è niente da salvare, se non la stessa, interminabile, eterna guerra tra spie.
Dagospia il 14 dicembre 2020. Dal Daily Mail. Il capo dell'MI6 Richard Moore ha reso omaggio con un tweet all'ex agente John le Carré: “Un gigante della letteratura che ha lasciato il segno” nei servizi segreti britannici “attraverso i suoi brillanti romanzi''. Il predecessore di Richard Moore una volta aveva affermato che i suoi libri elettrizzanti avevano dato ai servizi segreti britannici una "cattiva reputazione". Lo scrittore, padre di 4 figli, è morto sabato in Cornovaglia dopo una breve battaglia con la polmonite, ma non aveva il Covid-19. L'89enne aveva trascorso un isolamento in Cornovaglia ed era stato molto critico nei confronti della gestione del governo della pandemia, descrivendo Boris Johnson come "più ignorante del maiale". Ha anche affermato di sperare che la pandemia porti a una "società più giusta" con una "distribuzione più equa della ricchezza". Le Carré, che ha rifiutato onori letterari e un cavalierato, ha detto in un'intervista del 2017 a ‘’60 Minutes’’ di essere ‘’così sospettoso del mondo letterario che non voglio i suoi riconoscimenti'', aggiungendo: ``e meno di tutto voglio essere chiamato Comandante dell'Impero britannico o qualsiasi altra cosa dell'Impero britannico”. "Non voglio assumere la posizione di qualcuno che è stato onorato dallo stato e deve quindi in qualche modo conformarsi allo stato, e non voglio indossare l'armatura". "La mia Inghilterra sarebbe quella che riconosce il suo posto nell'UE. L'Inghilterra sciovinista che sta cercando di farci uscire dall'UE, è un'Inghilterra che non voglio conoscere". Laureato a Oxford nel 1956 con una laurea in lingue moderne, iniziò a insegnare all'Eton College. Dopo essersi unito ai servizi segreti dell'esercito britannico nel 1950, ha lavorato di nascosto per l'MI5, spiando i gruppi di sinistra al Lincoln College di Oxford, per individuare eventuali potenziali agenti sovietici. Nel 1958 divenne ufficiale dell'MI5 dove condusse interrogatori e svolse attività più segrete come intercettare linee telefoniche ed effettuare irruzioni. Le Carre fu attratto dallo spionaggio da un'educazione superficialmente convenzionale ma segretamente tumultuosa. Suo padre, Ronnie Cornwell, era un truffatore che era un socio di gangster e ha trascorso del tempo in prigione per frode assicurativa. Sua madre lasciò la famiglia quando David aveva 5 anni; non l'ha incontrata di nuovo fino all'età di 21 anni. Ha iniziato a scrivere romanzi mentre lavorava come spia britannica. Lo pseudonimo di John Le Carre è stato creato da Cornwell al momento della pubblicazione del suo primo libro, Call for the Dead, come mezzo per aggirare il divieto al personale del Foreign Office di pubblicare lavori a proprio nome. La sua carriera di spia finì nel 1963 quando Kim Philby, uno dei famigerati Cambridge Five, aveva rivelato la sua vera identità con la Russia sovietica. Le opere di Le Carre sono state spesso elogiate per aver spogliato della vita affascinante di una spia spesso raffigurata nel romanzo di James Bond e concentrandosi invece sugli aspetti più grintosi e oscuri del lavoro. Margaret Atwood ha twittato che i romanzi di Cornwell Smiley erano la ”chiave per comprendere la metà del 20° secolo’', mentre il brasiliano Paulo Coelho ha detto: "Non sei stato solo un grande scrittore, ma un visionario. Goditi la tua nuova casa". Stephen King ha twittato: "John le Carré è morto all'età di 89 anni. Quest'anno terribile ha rivendicato un gigante letterario e uno spirito umanitario. Little Drummer Girl è stato uno dei migliori romanzi che abbia mai letto’'. Il romanziere Robert Harris ha definito le Carre "uno di quegli scrittori che non era solo uno scrittore brillante, ma è anche penetrato nella cultura popolare - e questa è una grande rarità". Il suo ultimo romanzo, Agent Running in the Field, è stato pubblicato nell'ottobre 2019. David ha scritto venticinque romanzi e un volume di memorie, The Pigeon Tunnel (2016), e ha venduto più di sessanta milioni di copie del suo lavoro in tutto il mondo."
Enrico Franceschini per “la Repubblica” il 14 dicembre 2020. Picchiato dal padre, abbandonato dalla madre, adottato per così dire dal servizio britannico, salvato dalla scrittura, dissidente per vocazione. Potrebbe riassumersi così l'autobiografia di John le Carré, uno dei più grandi scrittori del dopoguerra, che ha deciso di raccontare se stesso nel suo prossimo libro. Per quanto si sapesse già molto dell' autore di "La spia che venne dal freddo" e tanti altri best- seller tradotti in tutto il mondo, le sue memorie aggiungono rivelazioni e particolari illuminanti sulla vita e sull' arte di un romanziere che abita da 40 anni in un' isolata villa sulla costa della Cornovaglia, concede rare interviste, sta lontano dai talk show televisivi, dai festival di letteratura e dai corsi di scrittura creativa. In David Cornwall, questo il suo vero nome, c' è sempre stato qualcosa di enigmatico, e la nuova opera conferma il senso di mistero a partire dal titolo: "The pigeon' s tunnel" (Il tunnel dei piccioni). Si riferisce - come spiega lui stesso- a un club di tiro al piccione a Montecarlo che visitò insieme a suo padre quando era bambino. I piccioni venivano immessi in un tunnel, da cui sbucavano prendendo il volo e finendo nel mirino dei tiratori. Quelli che sfuggivano alle fucilate ritornavano sul tetto del casinò che organizzava l'evento, dopodiché venivano infilati di nuovo nel tunnel per un altro volo verso una probabile morte. «Per quale motivo questa immagine mi abbia perseguitato per così tanto tempo è qualcosa che il lettore può giudicare meglio di me», scrive le Carré. Il difficile rapporto con il genitore è uno dei passaggi più intimi del libro. L' 84enne scrittore descrive il padre Ronnie come «un imbroglione, un sognatore e un avanzo di galera», che picchiava selvaggiamente la madre. «Picchiava anche me, ma solo ogni tanto e senza troppa convinzione», aggiunge, ricordando che Ronnie gli telefonava da varie prigioni all' estero chiedendogli soldi. La mamma lo abbandonò quando aveva 5 anni: «Non ricordo di avere provato affetto per nessuno durante la mia infanzia, tranne che per mio fratello maggiore (Rupert, diventato un noto giornalista, da tempo corrispondente estero del quotidiano Independent, ndr.), che a tratti era come il mio unico genitore». Una carenza di affetti che può avere influito sui suoi comportamenti da adulto: «Non sono stato né un marito né un padre modello e non ho interesse a cercare di sembrare tale», confida le Carré. Degli anni in cui lavorò per l'Mi6, il servizio di spionaggio britannico, afferma: «Mi sento uno scrittore a cui a un certo punto è capitato di essere una spia piuttosto che una spia che a un certo punto si è messa a scrivere». Confessa che preferisce rimanere fedele «alla tradizione secolare della scrittura non meccanizzata», trovando meglio l'ispirazione con penna e quaderno, «durante passeggiate, sul treno e al caffè». Scrivere, ribadisce, è comunque quello che gli «piace fare», dividendo la sua vita tra il periodo prima della pubblicazione di "La spia che venne dal freddo", il romanzo che gli ha dato fama e successo, e tutto quello che è venuto dopo. Nelle memorie le Carré non risparmia dettagli sui suoi incontri con personaggi famosi. Ricorda un invito a colazione da Margaret Thatcher, in cui chiese all' allora premier britannico di fare di più per la causa dei palestinesi: «Mi rispose freddamente che i palestinesi avevano addestrato i guerriglieri nord-irlandesi dell' Ira, i quali avevano assassinato un suo amico». Il magnate dei media Rupert Murdoch voleva sapere da lui chi fosse responsabile della morte dell' editore rivale Robert Maxwell, misteriosamente affogato dopo essere caduto in mare dal suo yacht: quando Le Carrè risponde di non saperlo, Murdoch perde interesse e se ne va. Lo scrittore esprime scarsa simpatia per Kim Philby, l'agente segreto britannico che faceva il doppio gioco per l' Urss e fuggì a Mosca, mentre è più solidale con Edward Snowden, l'ex-agente della Cia autore delle rivelazioni sul Datagate: «Siamo diventati troppo mansueti riguardo alle violazioni della privacy». La sua, finora, l'ha difesa puntigliosamente. Fino a quando ha deciso di scrivere un libro di memorie.
"Scrivere è come spiare". Parola dell'autore-talpa. Lo scrittore britannico è morto a 89 anni. Nei suoi thriller, l'opposto di 007: l'agente Smiley. Alessandro Gnocchi, Martedì 15/12/2020 su Il Giornale. John Le Carré, morto sabato notte all'età di 88 anni, era nato nel 1931, nel Dorset. Lo scrittore è deceduto a causa di una polmonite al Royal Cornwall Hospital, a Treliske. La malattia, si legge in un comunicato della sua agenzia letteraria, non era collegata al Covid-19. Lascia la moglie Jane e 4 figli. «Per sei decenni - si legge nella nota - John Le Carré ha dominato le classifiche dei bestseller con il suo monumentale corpus di opere». In effetti Le Carré ha scritto 25 romanzi e un'autobiografia. In tutto il mondo sono state vendute più di 60 milioni di copie dei suoi libri. Nel 1965 il regista Martin Ritt dirige il primo di una lunga serie di adattamenti cinematografici dei suoi romanzi, scegliendo La spia che venne dal freddo, attore protagonista Richard Burton. All'epoca si chiamava David John Moore Cornwell. Dopo essersi laureato in letteratura tedesca al Lincoln College, a Oxford, viaggia per la Svizzera, per perfezionare la pronuncia. Viene avvicinato per la prima volta dai servizi segreti. In seguito è docente di lingue a Eton. Negli anni Cinquanta, è reclutato dal Foreign Office. Trasferito al Consolato d'Amburgo, diventa agente del servizio segreto MI6. Dal tranquillo insegnamento in università elitarie del Regno Unito al rischio di beccarsi una pallottola dai sovietici. Un bel salto. Tre anni fa, aveva spiegato la sua decisione con queste parole: «Non so perché sono diventato una spia. Magari per assaporare quell'infanzia felice che non ho avuto». Il padre Ronnie era un truffatore di professione, galeotto e sospettato di essere un agente della Stasi: «Tanti indizi mi fanno credere che lo fosse, ma resterà un mistero. Di certo è stato lui ad avvicinarmi ai servizi segreti, conosceva bene quel mondo». Nel 1964, è costretto a lasciare a causa dell'infiltrato più famoso di tutti i tempi, Kim Philby, un agente di alto profilo, peccato fosse un uomo del KGB sotto copertura dal 1936. Nel frattempo Le Carré ha scritto il suo primo romanzo nel 1961, Chiamata per il morto (in Italia uscì per Feltrinelli nel 1965). Nel 1963 pubblica il romanzo che lo consacra come bestsellerista e scrittore di caratura mondiale: La spia che venne dal freddo (prima edizione italiana, Longanesi, 1964). Insomma, l'addio ai servizi non lo trova impreparato. Il caso Philby finisce al centro de La talpa (Mondadori, 1974), forse il romanzo di Le Carré oggi più noto. Il protagonista è l'agente George Smiley, timido, dimesso, tradito dalla moglie, insomma il contrario di James Bond, altra creatura di uno scrittore, Ian Fleming, dai trascorsi nei servizi britannici. Le Carré: «È il meglio di me, ammiro il suo senso del dovere, il suo impegno e la responsabilità che sente verso il prossimo. Siamo cresciuti assieme, io e Smiley, era presente nella prima pagina del mio primo romanzo. Ma quando è diventato troppo famoso, l'ho accantonato». Smiley torna in Un passato da spia (Mondadori, 2017). Come scrittore, Le Carré esalta due fattori fondamentali. Il primo: la routine: «Fa parte della mia quotidianità. Quando termino un libro, comincio subito quello successivo. Inizia tutto dai due o tre personaggi che ho in testa. Posso avere un'idea generale, mentre la trama nel suo dettaglio emerge solo durante la scrittura. Ma fin da subito conosco l'immagine finale che voglio raggiungere con il libro, e la ricerco attraverso la storia». Secondo: l'informazione: «Sono stato ovunque per raccogliere informazioni per i miei libri. Ho incontrato chiunque avesse qualcosa da dirmi, millantatori o capi. Sempre a disposizione, a qualsiasi ora del giorno e della notte. La regola era trascrivere tutto, il prima possibile, per non dimenticare nulla. D'altronde essere una spia non è poi così diverso dallo scrivere libri». Niente di strano, eppure Le Carré riesce a essere inimitabile. Nei suoi libri, spesso, la trama è affidata al dialogo serrato tra pochi personaggi, che ricordano, spiegano, depistano, cercano di ingannarsi... Di fatto la storia è già avvenuta o sta avvenendo altrove. Eppure, la bravura di Le Carré è tale da sopperire alla mancanza di azione in presa diretta (in alcuni romanzi echeggia al massimo un colpo di pistola). I dialoghi sono elettrizzanti, tengono sulla corda, sottintendono raffinatezza psicologica ed esprimono una fantastica ironia british. Legato al mondo della guerra fredda, Le Carré ha saputo descrivere anche la lotta al terrore e il nuovo mondo ultraviolento dei mercenari. Era rimasto aggiornato: «Non sono un vecchio con il vizio di rimpiangere il passato. Ma ho avuto la fortuna di vivere lo spionaggio non violento. Oggi è tutto cambiato, il mondo è più inquieto di prima, è più difficile distinguere i buoni dai cattivi. Il maggiore rischio oggi non è una nuova Guerra fredda, ma il fattore imprevedibilità. Come la Corea del Nord, e per certi versi anche l'Isis, che sfugge alle logiche d'ingaggio di un tempo. Minacce terribili, perché ogni sforzo, militare o diplomatico che sia, rischia di risultare inutile». Radical chic, ospite fisso alle proiezioni di casa Kubrick, Le Carré ogni tanto eccedeva nelle dichiarazioni politiche. Fece molto discutere la sua presa di posizione su Salman Rushdie ai tempi della fatwa scagliata da Khomeini contro lo scrittore dei Versi satanici (1989). La ex-spia definì Rushdie un «cretino» prima di lanciarsi in un'aperta polemica contro lo scrittore rivale: «Non esiste una legge di natura o dello Stato secondo la quale le grandi religioni possono essere insultate impunemente». E aggiunse che la maggior preoccupazione di Rushdie erano i «diritti d'autore». Iniziava così una delle faide letterarie più lunghe di tutti i tempi: «Rushdie piega la verità ai propri comodi» diceva Le Carré; «Le Carré è un inutile borioso ignorante» rispondeva Rushdie. La pace fu suggellata soltanto nel 2012.
· E’ morto il regista Kim Ki-duk.
Marco Giusti per Dagospia l'11 dicembre 2020. Kim Ki-duk, geniale e controverso regista sud-coreano, autore di una trentina di film come “Pietà”, “Ferro-3”, L’isola”, “Arirang”, forti, controcorrente, anche sgradevoli ma premiatissimi a ogni festival da Venezia a Berlino a Cannes, ci lascia oggi in un ospedale di Litva, in Lettonia, fulminato dal Covid, a soli 59 anni. Sembra che fosse arrivato in Lettonia per comprarsi una casa sul mare a Jurmala, vicino a Riga, dove intendeva vivere in tranquillità. Sfortunatamente non è andata così. Lo ricordiamo bene quando si presentò sul palco in ciabatte, vestito da cacciatore sul palco del Festival di Venezia nel 2012, dove era stato premiato con il Leone d’Oro il suo notevole e durissimo “Pietà”, a discapito di “The Master” di Paul Thomas Anderson, cantare a una esterrefatta platea “Ariran”. Tendeva sempre a stupire Kim Ki-duk, fin dall’inizio, sia con “Ag-o” nel 1996 che nel 2000 con “L’isola”, altro film difficile, ma a suo modo anche divertente, che aveva molto colpito Alberto Barbera che lo volle in concorso a Venezia già nel 2000. Ci furono poi “Shiljie Sanghwang”, girato tutto in 200 minuto, “Indirizzo sconosciuto” del 2001, “Spring, Summer, Autumn, Winter... and Spring”, 2003, “La samaritana”, che vinse l’Orso d’Argento a Berlino nel 2004, “Ferro-3”, che molto piacque al pubblico italiano più snob. Ricordo come reagirono i poveri critici al Lido di Venezia nel 2012 di fronte al suo “Pietà”, che andava avanti a martellate e coltellate su gambe e piedi, che già dal titolo e dal bellissimo manifesto cerca di rimandarci al capolavoro di Michelangelo. La pietà a cui rimandava il film era quella che avrebbe dovuto mostrare Dio nei confronti di una società e di una umanità distrutta dal capitalismo e dall’inutile sogno di poter rimediare a tutto solo col denaro. Una umanità che sembrava non avere altro futuro che la morte e la distruzione. Violentissimo, impiccagioni, amputazioni, stupri, al punto che dopo mezzora molti scappavano dalla sala. Il tutto ambientato in uno dei quartieri più degradati di Seoul, l’impronunciabile Cheonggyecheon, che era poi il quartiere dove era cresciuto il regista, che stava per essere assorbito dai ricchi centri commerciali della città. Non ci faceva sconti Kim ki-duk. Rispetto a altri celebri registi della Corea del Sud, come Park Chan-wook o Bong Joon-ho, non si riteneva in grado di poter adattarsi al cinema più popolare e di cassetta. “Penso di essere un elemento diverso da quei registi. Se loro sono più legno o metallo, io sono suolo. Loro potrebbero essere trasformati in qualcos'altro, ma io non posso. Non ho la capacità di trovare una via di mezzo con il mio pubblico, e lo so troppo bene. Ho girato 18 film e nessuno di loro aveva una via di mezzo. Penso che ciò sia dovuto principalmente al fatto che non ho studiato regia e non ne so molto di come si fa un film come loro. Non so altro a parte girare. Quindi il pubblico può scegliere se seguirmi o non seguirmi, e non li biasimo se scelgono di non guardare”. Nato a Bonghwa in Corea del Sud nel 1960 aveva studiato Belle Arti a Parigi nei primi anni ’90 e era arrivato al cinema, quindi, non in maniera tradizionale. Pronto a colpire lo spettatore, per arrivare al cuore della sua ricerca, ebbe problemi su un film quando venne accusato da un'attrice di aver esagerato con le scene di sesso che la riguardavano ben oltre quello che era stato stabilito in sceneggiatura. La grande platea dei cinefili di tutto il mondo si divise, ma in molti seguitarono però a vederlo come un maestro. Presentando “Moebius” nel 2013 era già chiaro che stava facendo un cinema violento e sessualmente forte. “Noi non siamo mai liberi dal desiderio fisico per tutta la nostra vita. E a causa di ciò, ci auto-torturiamo, maltrattiamo o diventiamo maltrattati. E nel mezzo di tutto questo si trovano i nostri genitali”. In anni di femminismo e di #metoo il suo approccio alla sessualità creò non poco imbarazzo. Ma quello che realmente gli interessava era l’umanità, in tutte le sue distorsioni, che seguitò a essere il tema anche dei suoi film successivi, come “Il prigioniero coreano”, sui rapporti tra il sud e il nord della Corea o il recentissimo “Din” del 2019.
· E’ morto Paolo Rossi. Il Pablito Mundial.
Addio Paolo Rossi, campione del mondo. A soli 64 anni ci lascia l'uomo che portò l'Italia alla vittoria nell'82. Un eroe del calcio che non ha mai voluto essere Dio. Ma che ci ha regalato la gioia pura. Gianfranco Turano su L'Espresso il 10 dicembre 2020. Paolo Rossi è morto a 64 anni nel modo in cui faceva gol. Ha sorpreso tutti tranne chi lo conosceva bene. Ci ha messo a sedere, come ha fatto per tre volte con il numero uno del Brasile Waldir Peres il 5 luglio 1982 ai Mondiali di Spagna,e se ne è andato da una porta senza rete con il suo sorriso meraviglioso, specchio di un'anima che non sapeva essere cattiva. Prima della vittoria del 1982, e un po' anche dopo, Paolo Rossi era argomento di lite. C'era tutta una famiglia umana a sostenere che non era buono perché segnava gol facili mentre qualcuno diceva che lui era buono proprio perché segnava i gol facili, com'è dovere di ogni grande attaccante. Alla fine, è sempre il solito discorso. Un fuoriclasse come è stato Paolo – sempre detestato il termine Pablito – faceva sembrare tutto semplice. La sua storia è nota a chi segue il gioco più bello del mondo. Rossi inizia come ala destra nelle giovanili. Poi un po' il dribbling si appanna, il dribbling si perde presto. Soprattutto ci si accorge che il ragazzo martoriato dagli infortuni, dalle botte da orbi che allora si prendevano, è nato per fare gol. E quello non si perde mai. Trasforma in grandi due squadre di provincia come il Vicenza, al tempo LaneRossi Vicenza, e il Perugia con la sua capacità di segnare tutti i gol facili cioè quei gol che, essendo frutto di un buon gioco di squadra, ne sono la conclusione logica. Enzo Bearzot lo porta in Argentina al Mondiale del 1978 dove forse si è vista la più bella Nazionale italiana da quando esistono le dirette tv. Due anni dopo, il buco nero del calcioscommesse. Rossi, calciatore famoso e strapagato, viene squalificato nell'incredulità generale per una storia da quattro soldi all'apice della carriera. Quando torna è un fantasma. Ma la testa dura di Bearzot lo vuole in Spagna. Gliene dicono di tutti i colori al ct friulano perché Rossi non tocca palla per le prime tre partite. Gioca bene per la prima volta contro l'Argentina di Diego Armando Maradona ma non segna. Con il Brasile nessuno scommetterebbe, se non per tifo, una lira sull'Italia. Ma lo squadrone giallo-oro ha un centravanti, si chiama Serginho, che quando sbaglia un gol si mette a ridere. Rossi invece fa piangere la torcida. Poi ne fa due in semifinale alla Polonia e segna il primo, il più importante, in finale alla Germania, dopo che Antonio Cabrini ha sbagliato il rigore. Il telecronista brasiliano lo celebra con la o di gol urlata per mezzo minuto, capolavoro da melodramma, e chiude con “Paulo Hossi, o artilheiro do Mundial”. Strilla un po' per dovere contrattuale e un po' perché intanto sta cercando di capire chi ha segnato nell'ammucchiata sotto la porta di Harald Schumacher. Non conosce l'aforisma di Gianni Agnelli: «Quando non si capisce chi ha segnato, ha segnato Rossi». Adesso sarebbe facile mettersi a piangere sui migliori anni della nostra vita e un altro dio del calcio che se ne va dopo Maradona. Paolo Rossi non ha mai voluto essere dio. È stato un simbolo, però, forse contro la sua stessa volontà, di momenti terribili della storia italiana e del mondo, quando ci si svegliava e si poteva scegliere fra minaccia nucleare, terrorismo di destra e di sinistra, l'occasionale guerra di mafia. Ma sono stati anni di divertimento immenso, difficili da spiegare, quando un attaccante magro, non troppo alto, poteva rubare palla a Leovegildo Lins da Gama detto Juniore portare l'Italia in strada. Pura gioia. Questo è stato Paolo Rossi. Questo abbiamo perso oggi.
L'Italia piange Pablito: a 64 anni muore Paolo Rossi, l'eroe del Mundial '82. Francesco Ridolfi su Il Quotidiano del Sud il 10 dicembre 2020. A soli 64 anni è morto Paolo Rossi, per tutti era Pablito, l’eroe dei Mondiali del 1982, i mondiali della “pipa” di Enzo Bearzot in panchina e di Sandro Pertini in tribuna a Madrid al fianco di re Juan Carlos. I mondiali che hanno riscoperto una Italia vincente oltre i pronostici, i mondiali del riscatto, dell’urlo di Tardelli dello scopone in aereo tra il Presidente e i Nazionali. Il mondiale di Pablito. Anche se quel nome, Pablito, era eredità del mondiale precedente, Argentina 78…Paolo Rossi è venuto a mancare afflitto da un male incurabile. L’annuncio della sua scomparsa è stato dato dalla moglie, Federica Cappelletti, con un post pubblicato su Instagram e una foto che ritrae i due coniugi stretti e sorridenti ed è accompagnata dal commento “Per sempre”, seguito da un cuore. Paolo Rossi è diventato un simbolo per gli italiani dopo che 38 anni fa con i suoi gol trascinò gli Azzurri di Enzo Bearzot a vincere i campionati del Mondo in Spagna. Tre gol al Brasile, due alla Polonia, uno alla Germania in finale. Il trionfo, il titolo di capocannoniere, il pallone d’oro. E un posto indelebile nella storia sportiva del Paese che cancella quello che era avvenuto prima. A quei Mondiali, i primi della storia con 24 squadre, Rossi ci era arrivato dopo due anni di squalifica per il calcio scommesse e in lui in sostanza credeva solo Bearzot. Molte erano state le critiche di chi lo vedeva spento e ormai fuori dai giochi ma il ct Bearzot lo difese da tutto e tutti convinto che un campione resta un campione e ne fu ripagato da una prestazione scritta nella storia del calcio. Da giocatore Rossi era un attaccante pure, un rapace dell’area di rigore, un centravanti piccolo di statura ma veloce e, soprattutto, furbo, capace di apparire dal nulla alle spalle del difensore e superarlo per trasformare un pallone spizzato e sporco in un gol. La sua carriera era esplosa nel Vicenza poi, passando dal Perugia, era approdato alla Juventus. Tra le sue esperienze anche un periodo al Milan mentre a Verona arriva la chiusura della carriera. Con Vieri e Baggio poteva vantare il record azzurro di nove reti siglate ai Mondiali, mentre fu il primo nella storia del calcio, seguito poi da Ronaldo, a vincere nello stesso anno campionati del Mondo, titolo di capocannoniere della fase finale e pallone d’oro. Con la Juventus ha conquistato due scudetti, una coppa delle coppe, una Supercoppa e una Coppa dei Campioni. Fu anche capocannoniere della Serie B con il Vicenza. Chiusa la carriera di calciatore è stato a lungo opinionista in Tv, prima che la malattia lo allontanasse dagli schermi. Lascia la moglie Federica e tre figli: Sofia Elena, Maria Vittoria e Alessandro. Nel 2004 era stato inserito nel Fifa 100, una lista dei 125 più grandi giocatori viventi, selezionata da Pelè’ e dalla Fifa in occasione del centenario della federazione.
Addio a Paolo Rossi, «un ragazzo come noi». L’ex campione del mondo era afflitto da un male incurabile. Il Dubbio il 10 dicembre 2020. Per tutti era Pablito, l’eroe del Mundial ’82. Paolo Rossi è morto a 64 anni, era afflitto da un male incurabile. L’annuncio è stato dato dalla moglie, Federica Cappelletti, con un post su Instagram. La foto ritrae i due coniugi stretti e sorridenti ed è accompagnata dal commento «Per sempre», seguito da un cuore. E nel cuore di tutti gli appassionati di calcio italiani Rossi era entrato in quell’estate di 38 anni fa quando con i suoi gol trascinò gli Azzurri di Enzo Bearzot a vincere i campionati del Mondo in Spagna. Tre gol al Brasile, due alla Polonia, uno alla Germania in finale. Il trionfo, il titolo di capocannoniere, il pallone d’oro. E un posto indelebile nella storia sportiva del Paese. A quella competizione Rossi era arrivato dopo due anni di squalifica per il calcio scommesse. Nonostante le critiche di chi lo vedeva spento, Bearzot lo difese contro tutto e tutti e ne fu ripagato. Tutta l’Italia scese in piazza per festeggiare. Nell’immaginario del paese brilla ancora il presidente della Repubblica, Sandro Pertini, esultante in tribuna a Madrid al fianco di re Juan Carlos. A rendere Rossi un’icona ci ha pensato anche la musica: «Paolo Rossi era ragazzo come noi», è il verso di una famosissima canzone di Antonello Venditti (che adesso saluta con queste parole il campione su Facebook) . «Eravamo trentaquattro, adesso non ci siamo più, e seduto in questo banco ci sei tu. Era l’anno dei Mondiali quelli dell’86, Paolo Rossi era un ragazzo come noi». Rossi era un rapace dell’area di rigore, un centravanti piccolo e furbo, capace di apparire alle spalle dello sventurato difensore di turno per trasformare un mezzo pallone in un gol. Era esploso nel Vicenza. Poi, dal Perugia era passato alla Juventus. Tra le sue maglie figura anche quella del Milan. A Verona la chiusura della carriera. Con Vieri e Baggio condivide il record azzurro di nove marcature ai Mondiali. Fu il primo, seguito poi da Ronaldo, a vincere nello stesso anno campionati del Mondo, titolo di capocannoniere della fase finale e pallone d’oro. Con la Juventus ha conquistato due scudetti, una coppa delle coppe, una Supercoppa e una Coppa dei Campioni. Fu anche capocannoniere della Serie B con il Vicenza. Dopo la carriera di calciatore è stato a lungo opinionista in Tv, prima che la malattia lo allontanasse dagli schermi. Lascia la moglie Federica e tre figli: Sofia Elena, Maria Vittoria e Alessandro. Nel 2004 era stato inserito nel Fifa 100, una lista dei 125 più grandi giocatori viventi, selezionata da Pelè e dalla stessa Fifa in occasione del centenario della federazione.
Paolo Tomaselli per il "Corriere della Sera" l'11 dicembre 2020. Ha fermato il tempo un' altra volta, Paolo Rossi. Ha fatto tornare tutti ragazzi o bambini, fanatici del pallone e semplici appassionati di uno sport che grazie a lui e ai campioni del Mondo del 1982 è diventato una parte felice e condivisa della storia d' Italia. Stavolta non c' è lieto fine, Pablito (ribattezzato così dal giornalista Giorgio Lago al Mondiale argentino di quattro anni prima) è morto all' ospedale Le Scotte di Siena nella notte tra mercoledì e giovedì, dopo una battaglia contro un tumore ai polmoni scoperto un anno fa, al rientro da una vacanza alle Maldive. «Mercoledì era entrato in coma, fino al giorno prima sorrideva anche se aveva perduto la forza di parlare - ha raccontato il fratello maggiore Rossano a La Nazione - . Dalla malattia originaria se ne sono sviluppate altre, anche alle ossa, indotte dalla debilitazione che ogni giorno lo rendeva più vulnerabile. No, il Covid non lo ha colpito». Rossi, che viveva a Bucine in provincia di Arezzo se ne è andato tra le braccia della moglie Federica Cappelletti dalla quale ha avuto due bambine di 11 e 8 anni. È stata lei a dare notizia della morte di Paolo nella notte di mercoledì, attraverso i social. L' ex campione lascia anche il figlio Alessandro avuto dalla prima moglie Simonetta Rizzato nel 1982: «È stato un papà fantastico, semplice ed umile. Abbiamo sperato fino all' ultimo che le cose andassero meglio ma alla fine il male ha vinto. La routine lo aiutava a pensare un po' meno alla malattia. Il calcio, che è stata la sua vita, lo ha aiutato anche in queste ultime settimane». Pablito aveva comunicato la malattia solo ai famigliari e agli amici più stretti, anche se in tanti avevano capito che c' era qualcosa che non andava, perché alla ripresa delle partite della Nazionale aveva lasciato il suo ruolo di commentatore Rai ed era uscito dalla chat dei compagni del Mundial. «Noi familiari annunciavamo che si era operato alla schiena - ha spiegato il fratello -. E non era una bugia, perché in questi mesi si è sottoposto anche a un intervento alla vertebra. Prima dell' ultima sua presenza in tv, collegato con la Domenica Sportiva, aveva dovuto fare una puntura». Pablito ha seguito negli anni diverse attività imprenditoriali e aveva avviato da poco una scuola calcio in Umbria, della quale andava orgoglioso. Tra le città dove aveva giocato, Vicenza gli era rimasta nel cuore, anche perché fu lì che la sua carriera prese il volo grazie all' intuizione di G.B.Fabbri, che lo spostò da ala a centravanti. Da oggi pomeriggio allo stadio Menti sarà aperta la camera ardente. I funerali si terranno domani alle 10.30 nel Duomo: saranno ammessi solo gli invitati della famiglia, ma l' addio a Pablito sarà trasmesso in diretta Rai.
DOPO MARADONA QUESTO 2020 DI MERDA SI PORTA VIA ANCHE PAOLO ROSSI. Da gazzetta.it il 10 dicembre 2020. La tragica notizia della morte di Paolo Rossi arriva dal profilo Instagram di Federica Cappelletti, moglie di Pablito. Con una foto postata poco dopo la mezzanotte, la moglie di Rossi ricorda "per sempre" il suo Paolo. Giornalista professionista, scrittrice, sceneggiatrice, esperta in comunicazione internazionale, la Cappelletti era sposata con Rossi dal 2010. Anche su Facebok Federica ha ricordato il suo Pablito: "Non ci sarà mai nessuno come te, unico, speciale, dopo te il niente assoluto....".
Aldo Cazzullo per corriere.it il 10 dicembre 2020. «El hombre del partido es Paolo Rossi (ITA)». La scritta sul tabellone del Camp Nou – che allora era nuovo davvero – comparve mentre le squadre stavano ancora giocando. Era l’8 luglio 1982, a Barcellona l’Italia stava battendo la Polonia nella semifinale del Mundial con una doppietta del centravanti: quasi normale amministrazione dopo la vera impresa, i tre gol rifilati al Brasile. Quella scritta non celebrava soltanto un calciatore. Non soltanto una Nazionale, e una nazione, la nostra. Quella scritta chiudeva un’epoca, e ne inaugurava un’altra. Tre giorni dopo, lo stesso Rossi apriva le marcature nella finale con la Germania, e le feste in un’Italia all’improvviso irriconoscibile, stravolta dalla gioia e dall’emozione. Grazie a Paolo Rossi, che tutti da quel momento e per sempre chiamarono Pablito – pareva davvero un ragazzino, e così l’abbiamo pensato sino all’ultimo, tanto che la notizia della sua morte ci pare impossibile -, l’Italia cambiò umore. Nella percezione comune, finivano gli anni di piombo e cominciavano davvero gli Anni 80: il riflusso, la febbre del sabato sera, il campionato di calcio più bello del mondo, la Milano da bere, eccetera eccetera. Era una percezione; non la realtà. Il 1982 fu un anno terribile per il terrorismo. Ma quella festa collettiva era il segno che il Paese voleva voltare pagina, chiudere il tempo degli scontri di piazza, della violenza politica, della battaglia ideologica. Libero ognuno di distinguere il confine tra levità e superficialità, di coltivare nostalgie, di stilare graduatorie di valore, di dare il proprio giudizio; resta il fatto che è andata così. Paolo Rossi si era affacciato alla ribalta già quattro anni prima, al Mondiale argentino. Non era un calciatore appariscente. Al contrario, la sua principale qualità era che non lo vedevi arrivare. Rapidissimo. Con un senso unico della posizione e del gol. Con un nome e un cognome talmente diffusi da avere migliaia di omonimi, da consentire a chiunque di rivedersi in lui. Cresciuto in provincia: l’esplosione nel Vicenza, poi l’approdo a sorpresa al Perugia, quindi la squalifica per il coinvolgimento (marginale) nello scandalo scommesse, infine l’arrivo alla Juve: il tempo di festeggiare lo scudetto del 1982 con una manciata di minuti in campo, e di partire per la Spagna. Bearzot lo aspettò. Lo difese da tutto e da tutti, nelle prime tre deludenti partite. Gli diede fiducia anche dopo una prova non brillante con l’Argentina di Maradona. Gioì con moderazione quando Pablito si sbloccò contro il Brasile. Solo alla fine della semifinale con la Polonia non si trattenne, ed entrò in campo ad abbracciarlo. C’è un’immagine in cui Rossi, tra una stretta e l’altra, si accorge di quella frase luminosa sul tabellone del Camp Nou, e la indica sorridendo felice. L’ha scritto lui stesso, nella sua autobiografia: “Ecco, mi piacerebbe si ricordassero di me con un solo fotogramma: maglia azzurra addosso, braccia aperte al cielo: Paolo Rossi, el hombre del partido”. E così noi lo ricordiamo: eternamente giovane. Altro che “scomparso ieri a 64 anni”; un ragazzino – Pablito – per sempre.
L’ADDIO DELLA MOGLIE DI ROSSI. Da gazzetta.it il 9 dicembre 2020. La tragica notizia della morte di Paolo Rossi arriva dal profilo Instagram di Federica Cappelletti, moglie di Pablito. Con una foto postata poco dopo la mezzanotte, la moglie di Rossi ricorda "per sempre" il suo Paolo. Giornalista professionista, scrittrice, sceneggiatrice, esperta in comunicazione internazionale, la Cappelletti era sposata con Rossi dal 2010. Anche su Facebok Federica ha ricordato il suo Pablito: "Non ci sarà mai nessuno come te, unico, speciale, dopo te il niente assoluto....".
La triste rivelazione della moglie di Rossi: "Gli ultimi istanti di vita di Paolo". Federica Cappelletti, moglie di Paolo Rossi, ha svelato: "Gli ho preso la sua mano e me la sono appoggiata sulla mia testa. Gli ultimi istanti sono stati atroci, disumani". Marco Gentile, Sabato 19/12/2020 su Il Giornale. La morte di Paolo Rossi ha gettato nello sconforto tutto il mondo del calcio italiano. Le immagini dei campioni del mondo nel 1982 che portano a braccio il feretro di Pablito all'interno del Duomo di Vicenza e le parole della moglie Federica Cappelletti resteranno in maniera indelebile nel cuore, nelle orecchie e nelle menti dei suoi tifosi, e non solo, per tempo immemore.
Il ricordo di Federica. La moglie di Rossi ai microfoni di Sportweek, settimanale della Gazzetta dello Sport, ha raccontato gli ultimi istanti di vita del marito: "Lo amerò per l’eternità, perché Pablito non si può dimenticare, ma nemmeno Paolo. Gli ultimi sono stati attimi disumani, atroci, nei quali avevo in pugno la sua e la mia vita. Lasciarlo andare avrebbe significato non vedere più i suoi occhi, la sua bocca, i suoi capelli che ho tanto accarezzato, i suoi piedi gentili; avrebbe voluto dire non poterlo più toccare, non sentire più la sua voce rassicurante e la sua risata felice. Così ho preso la sua mano e me la sono appoggiata sopra la testa,per sentire ancora una volta la sua protezione". Federica ha poi continuato: "Ho avuto la sensazione che in pochi istanti fosse davvero uscito da quel corpo, un corpo che aveva già perso colore e vibrazioni. Anche il profumo della sua pelle era sfumato".
Gli amici del 1982. Il tanto affetto da cui è stato travolto Paolo hanno lasciato senza parole Federica che parlando dei suoi ex compagni di squadra del Mondiale del 1982 ha svelato: "Paolo amava i suoi amici, quelli scelti fuori dal calcio ma anche la sua “squadra”. I ragazzi dell’82 con i quali conservava una chat e si sentiva ogni giorno. Il primo messaggio, dopo la sua morte, è stato proprio per loro. Non ne potevo fare ameno. Non me lo avrebbero perdonato. E, forse, nemmeno Paolo me lo avrebbe perdonato se non lo avessi inviato. Perché sapevo quanto voleva rivederli e riabbracciarli. Perché sapevo quanto ci teneva a tutti loro".
La moglie di Rossi: "Paolo voleva venire a Napoli, quando è morto Maradona ha pianto". La Repubblica l'11/12/2020. "Il rifiuto al Napoli? Paolo mi ha sempre spiegato che non ha mai rifiutato Napoli", racconta Federica, la moglie di Rossi, all'indomani della morte del campione che ha fatto sognare l'Italia. "Paolo chiese a Ferlaino di fare una squadra vincente, Ferlaino disse che non avrebbe fatto una squadra vincente ed allora rifiutò. Ma, Paolo adorava Napoli ed il popolo napoletano - continua Federica - gli è sempre dispiaciuto non vestire la maglia azzurra". "Quando è morto Maradona, Paolo ha iniziato a singhiozzare come un bambino, è stato un momento doloroso. Spero che adesso stiano assieme", dice Federica. "Le nostre figlie? Sono molto brave, hanno fatto un percorso di crescita, le abbiamo spiegato tante cose. Paolo era il papà eroe per loro: ma, abbiamo fatto una promessa a Paolo. Andremo avanti con la Paolo Rossi Accademy, spero con la collaborazione di Tardelli e Cabrini, anche con borse di studio internazionali", conclude.
La squalifica per il totonero. "Abbiamo ricostruito questa vicenda, avrei giurato che non avesse fatto nulla del genere - dice la vedova di Pablito - non era attaccato ai soldi. Abbiamo trovato tutti i documenti: anche gli accusatori di allora lo hanno dovuto scagionare, lo hanno trascinato dentro perché era il nome più importante".
Il rapporto con Bearzot. "Bearzot? L'ultimo incontro prima che Bearzot morisse gli disse: 'Ho sempre creduto in te e nella tua innocenza. E sapevo che mi avresti fatto vincere il mondiale'", racconta. "Cabrini? Ho sentito Antonio e Tardelli non riescono neppure a parlare, con tutti quelli dell'82 c'è un rapporto bellissimo, ma con Marco ed Antonio c'è un rapporto speciale. Tardelli mi diceva tutti i giorni: 'Ricordati che è mio fratello, non mi mentire sulle sue condizioni'", rivela.
Paolo Rossi alla moglie: “Sei unica, grazie per quello che stai facendo”. Notizie.it l'11/12/2020. "Non riesco a dormire, sono agitato. Sei davvero unica. Spero che il Signore ti possa riconoscere tutto questo", sono le ultime parole di Pablito. Una folla di mani e bandiere tricolore, un brivido d’emozione si alza tra gli spalti del Bernabeu. L’Italia è campione del Mondo. Pablito Rossi, capocannoniere di Spagna ’82 con 6 reti, contempla quel sussulto di commozione e di gioia incontenibile. “Guardavo la folla e i compagni. Dentro sentivo un fondo di amarezza. “Adesso dovete fermare il tempo”, mi dicevo. Non avrei più vissuto un momento del genere. Mai più in tutta la mia vita. E me lo sentivo scivolare via. Ecco: era già finito”. Ma il suo talento, un portento in un corpo tanto gracile, resta eterno. Dopo 24 mesi di stop e una carriera quasi stroncata, a salvarlo ci pensarono Boniperti e Bearzot. Boniperti lo convoca un anno prima della fine della squalifica. Il Vecio, invece, lo porta al Mondiale del 1982. Il resto è storia. Era un idolo, fu squalificato, tornò e divenne mundial. Di fronte alla sua morte così prematura l’intero Paese (e non solo) si stringe attorno al dolore della famiglia. Moltissimi i messaggi di cordoglio. Tantissimi i tifosi, i calciatori e gli storici compagni che hanno dedicato a Paolo Rossi un ultimo saluto: tra i più commoventi, è il messaggio della moglie Federica. A inviare un ultimo pensiero al campione toscano ci hanno pensato anche Antonello Venditti e Barbara D’Urso, che sui suoi social ha pubblicato una foto in compagnia di Rossi. Profondamente toccanti anche le parole del figlio Alessandro, avuto con la prima moglie. Strazianti, infine, le ultime parole dell’intramontabile campione. Il mondo del calcio nazionale e internazionale commemora Paolo Rossi, la cui scomparsa ha sconvolto un intero Paese. Simbolo di quella Nazionale che è stata collante di un’Italia al catafascio, esausta e disunita all’indomani dei drammatici anni di piombo, Paolo Rossi ha segnato un’epoca e il suo ricordo resterà eterno. Lo sa bene la moglie Federica, innamorata di lui e del suo sorriso, della sua gentilezza e della sua bontà. Difficile trovare le parole per raccontare cos’è successo al marito, descrivere la forza con cui ha resistito fino all’ultimo respiro, nonostante la potenza di una malattia disarmante. Paolo Rossi era ricoverato nel reparto di Neurochirurgia dell’ospedale Le Scotte di Siena. A prendersi cura di lui c’era il primario Giuseppe Oliveri, lo stesso specialista che ha operato Alex Zanardi. Insieme hanno visto in tv il derby della Mole. Pablito era un grande tifoso della vecchia signora. Il dottore, invece, ha il cuore granata. Ora portava avanti la “partita della nostra vita, il nostro Mondiale. Ma questa volta non l’abbiamo vinto“, sono le parole strazianti pronunciate dalla moglie. Paolo e Federica si erano conosciuti nel 2003. Lei, giornalista e scrittrice, aveva curato insieme ad altri colleghi il libro “Razza Juve”. Sette anni più tardi il matrimonio. Dalla loro storia d’amore sono nate le figlie Maria Vittoria (11 anni) e Sofia Elena (8 anni). All’indomani della scomparsa di Pablito, la moglie racconta: “Mi sono innamorata subito del suo sorriso, della sua generosità, della intelligenza con cui riusciva a vedere le cose. Con Paolo ogni momento è stato bello. Affrontava le cure con coraggio, la riabilitazione con volontà”. Confidando la paura per un momento così delicato e di grande sofferenza, Paolo Rossi non si è mai arreso e fino all’ultimo ha lottato per restare aggrappato a una vita che amava profondamente. Come immenso era l’amore per Federica e i suoi figli. Alla moglie che gli è stata affianco fino alla fine, ha detto: “Purtroppo non riesco a dormire e sono agitato. Guardo le foto che mi invii e penso al nostro grande amore. Vorrei solo dirti grazie per quello che stai facendo, per me e per le nostre meravigliose bambine. Sei davvero unica per le energie che profondi e per l’amore che riesci a dare in ogni cosa. Spero che il Signore ti possa riconoscere tutto questo. Darti tutto quello che meriti”.
Paolo Rossi, le parole del figlio Alessandro: “Mi occuperò di loro”. Notizie.it il 10/12/2020. “Ci sarò sempre io per le mie sorelline”. Queste le commoventi parole di Alessandro Rossi primogenito di Paolo Rossi. “Papà non si preoccupi, ci sarò sempre io per le mie sorelline e per la nostra famiglia”, queste le emozionate parole di Alessandro Rossi il figlio 38enne di Paolo Rossi e avuto dalla relazione con Simonetta Rizzato che davanti ai microfoni di Rai Sport non ha mancato di ricordare il padre. Nelle parole di Alessandro si traspare dolore eppure allo stesso tempo una consapevolezza di ciò che ha lasciato il padre il Paolo non solo al mondo dello sport, ma anche e soprattutto ai suoi familiari. “Papà è sempre stata una persona umile, generosa, sempre presente”, ha dichiarato il figlio di 38 anni Alessandro. Il grande calciatore Paolo Rossi è stato nella vita un uomo forte e con un carattere da combattente, anche e soprattutto nel periodo della lotta contro il male che lo attanagliava specialmente negli ultimi mesi. Questo è il ritratto del calciatore che il primo figlio di Paolo Rossi Alessandro ha raccontato davanti ai microfoni di Rai Sport che ha voluto tenere vivo il ricordo del padre. Il figlio ha poi annunciato che i funerali di Paolo Rossi si terranno sabato 12 dicembre in forma privata a Vicenza. Così come voluto da lui stesso e dalla seconda moglie Federica il corpo verrà cremato e riposto nell’abitazione nella quale risiedeva. Poi un impegno solenne vale a dire quello di prendersi cura delle sue sorelline Maria Vittoria e Sofia Elena e avute dal secondo matrimonio. “È una promessa che gli ho fatto. Gli ho detto che non mancherò mai, glielo devo”, ha dichiarato.
Giancarlo Dotto per il Corriere dello Sport l'11 dicembre 2020. Senza tregua. Rieccola, la smorfia dello stupore, la traccia del dolore. A seguire, immancabile, ripartirà l’apparato del lutto di massa che non ha ancora smesso l’icona di Diego e già deve lucidare quella di Pablito. Come sempre non sapremo cogliere l’attimo, interrompere quando è il momento, quando l’emozione sbiadisce nell’esibizione e poi nella ripetizione, quando il sacro diventa simulacro. L’inerzia del gesto. L’immutabilità del gregge. Pablito, lui sì, avrebbe saputo cogliere l’attimo. Accendere quando serve e spegnere quando si deve. Lui era il re dell’attimo. Il suo calcio era l’apoteosi dell’attimo fuggente. Paolo Rossi era l’opposto di Diego Armando Maradona. Difficile immaginare due più diversi. Poche cose in comune, l’aver vinto un mondiale, i palloni d’oro nei loro continenti, l’essere star planetarie, ancora di più, l’incarnare la sinossi esemplare, scritta da zampa caprina, di come la vita possa dare e togliere allo stesso uomo e alla stessa storia. La celebrità, lo scandalo, poi ancora la gloria, una vita da invidiare e una morte da compatire. Crudelmente precoce. Avevano in comune anche le ginocchia a pezzi, non riuscivano quasi più nemmeno a camminare. Ventenne, Paolo non ancora Pablito, e già la fama del talento fatto di vetro. Inaffidabile. Tre menischi in tre anni, una specie di record planetario, quando i menischi erano un guaio serio. Uno dei motivi per cui smise il pallone a trent’anni, l’età in cui oggi, a uno come Ibra, per dire, gli avrebbero strizzato i pannolini. I due erano una versione estrema dello zolfo e dell’acqua santa. Diego fornicava da sempre con le lusinghe di Satana dentro un cuore unico, sempre stato gigantesco nelle passioni prima ancora che nelle dimensioni. Diego si è assunto fino in fondo la croce sublime dell’essere Diego. Senza calcoli o riserve. L’ebbrezza e il calvario della dismisura. Diego era eccesso allo stato puro. Paolo Rossi, da oggi più che mai Paolino, meno che mai Pablito, era minimalismo totale. Tanto più stupefacente se contrapposto al boato di trofei, medaglie e titoli sparsi. Un uomo amabile e carezzevole, che non ha mai creduto fino in fondo alla balla mitologico dell’essere “Paolo Rossi”, “il fidanzato d’Italia” e via straparlando. Anche quando ci ha creduto, sempre per un attimo, non ha mai saputo né voluto esserne all’altezza. Che, in questo caso, significava anche spocchia, vanagloria, esibizione. Pablito era, è, uno degli italiani più famosi al mondo. L’abbiamo saputo con certezza il giorno in cui Mick Jagger in concerto, a Torino nell’82, si presentò sul palco con la sua maglia azzurra numero 20, vaticinando, da strega qual era: “Vincerete la finale 3 a 1”. Infinite conferme. Due anni dopo il mondiale, capito a Tokyo e non credo ai miei occhi quando un cuoco di Shinjuku mi mostra umido di commozione la foto di Pablito che teneva sotto il cuscino. O lo stesso Rossi che mi racconta di quando un tassista di Rio lo riconosce all’aeroporto e lo fa scendere dalla macchina per punirlo dello strazio che gli aveva inflitto. Mille altre di queste storie, quanto basta e avanza per avvertirsi un semidio, ma lui nisba, niente da fare. Nulla che potesse scalfire l’atrofia impermeabile del suo ego. L’anima dimessa era il suo limite ma anche la sua forza. Lo ha sempre tenuto al riparo dalle grandi ustioni, ma non dalla crudeltà, della vita. Paolino è rimasto davvero fino in fondo quello dei primi gracili dribbling dell’oratorio. Destinato a un avvenire da onesto ragioniere o da sacerdote ispirato, si è ritrovato in cima al mondo, senza nemmeno soffrire di vertigine, perché la vertigine è un lusso dell’immaginazione. La foto che più racconta Paolo Rossi non era la sua: papà e mamma che si fanno quasi mille chilometri per andare a vedere il loro ragazzo con la maglia della Juventus, da Prato a Torino, andata e ritorno, con la loro vecchia Nsu Prinz e il santino sul cruscotto. L’unica vicenda infernale fu quella del calcio scommesse ma, anche lì, ci finì dentro più per inerzia che altro, per un difetto di coinvolgimento che il contrario, per quella sua attitudine ad assecondare chi desidera più forte di lui. Anche nelle conseguenze del fattaccio non si smentì. Due anni di squalifica, senza meritarli. Due anni di vita. Chiunque altro avrebbe dato quanto meno un’occhiata alla canna del gas o si sarebbe sfondato di benzodiazepine. Lui niente. Depressione? Nemmeno a parlarne. Accettazione placida del destino. “Le cose nella vita ti succedono, positive e negative, e non puoi farci niente. Quella fu orribile. Hanno estratto un numero e sono uscito io. Mi hanno tolto due anni di vita, ma sono stato ripagato con gli interessi”. Un tratto luciferino ce l’aveva anche lui, Paolino. Rubava l’attimo. Con lucidità e destrezza. Il passo del tempo rubato nel jazz. Un talento innato. Da centravanti molto atipico anticipava tutto, l’attimo, il pensiero, l’avversario. Non aveva il fisico di Cristiano Ronaldo. Doveva prevalere con la testa, in difetto di quadricipiti e testosterone. Quasi tutti i suoi gol erano le imprese di una volpe. Chiedere a Falcao e compagni. Quella volpe ancora popola i loro incubi. In quel ritiro della Galizia, nell’82, arrivò la pallida controfigura di Paolino Rossi, palpeggiando il proprio teschio tra bordate moralistiche e improperi. Lo scarto umano riemerso da due anni di cancellazione. Se non nella psiche, annichilito nel fisico. Ferocemente voluto da Bearzot con una testardaggine eroica e apparentemente suicida. Fu così che, tra tutti i soldatini di piombo, fu quello claudicante, senza una gamba e dall’anima ferita, che diventò l’eroe principale della favola. Grazie specialmente alle amorevoli attenzioni di papà Enzo. Come ricorda Francesco de Core nel suo volume sui mondiali dell’82, Dalla polvere alla gloria, Gallego, il difensore dell’Argentina, s’era lasciato crescere apposta le unghie per graffiarlo in partita. Ma non servì. Le unghie di Gallego erano un’inezia al confronto di quelle che aveva sopportato per due anni da una nazione intera. A 64 anni, avendo ceduto al desiderio dell’amatissima moglie Federica (una giornalista, lui che i giornalisti li scansava, prima per timidezza, poi per diffidenza) di scrivere finalmente la sua autobiografia (fosse stato per lui…), l’eterno ragazzo non aveva nulla di più da chiedere alla vita. Si guardava intorno e trovava tutto quello che amava. La campagna toscana, la moglie Federica, le due figlie, Maria Vittoria e Sofia Elena. Più lontano ma comunque vicino Alessandro, il figlio nato dalla prima moglie, lo stesso anno in cui il padre diventò una star mondiale. Si prestava da opinionista in tivù ma, anche qui, senza molta convinzione. Il calcio lo guardava solo per dovere, per lo più lo annoiava (faceva un’eccezione per il suo Vicenza a cui si era ravvicinato negli ultimi tempi), lontano anni luce dai compulsivi maniaci dei giorni nostri. Il resto del tempo tra il suo agriturismo nel Valdarno, l’attività vinicola condivisa con il figlio, la scuola calcio e la mostra itinerante con tutti i suoi cimeli, anche questa all’inizio più subita che voluta. L’idea di studiare da allenatore non lo ha mai sfiorato. Non si sentiva caratterialmente portato. Capiva che fare l’allenatore oggi è un mestiere spietato, troppo per lui. Gestire più di venti professionisti, spesso capricciosi, e tutto l’andazzo che li circonda. Bisogna essere molto duri dentro e fuori. Troppo stress. Troppe ulcere. Non era cosa per lui. “Devo ancora incontrarlo un allenatore felice”, mi diceva. Paolino, padre affettuoso, ha avuto un padre naturale e tre padri putativi, l’allenatore Fabbri, il presidente Farina, Enzo Bearzot su tutti. L’uomo che lo guardava negli occhi. La prima volta: “Ti porto in Spagna con me, ma devi giurarmi sul tuo onore che non c’entri nulla con quella storia schifosa…”. Quattro anni dopo: “Ti porto in Messico con me perché fai gruppo, ma non ti farò giocare”. Paolino si sentiva protetto dalla sua lealtà. Ora se n’è andato. Ha raggiunto quasi tutti i suoi padri, portandosi dietro la sua natura placida e pochi dubbi che non lo hanno mai tormentato più di tanto. Uno di questi, se ci sia una vita dopo la morte. “Diamoci una speranza - mi disse l’ultima volta che ci siamo parlati - altrimenti quale sarebbe il senso di tutto questo?”. La certezza è che di Paolino resteranno, su questa terra, i ricordi di chi gli ha voluto bene, dei tanti che quella notte di luglio si sono buttati vestiti e felici nelle fontane di tutta Italia, e il suo cordone ombelicale ancora seppellito nel giardino della casa materna. Così usavano fare le famiglie di un tempo.
Grazie Pablito per quel mondiale che ci fece scordare Rebibbia. Lanfranco Caminiti su Il Dubbio l'11 dicembre 2020. Gioimmo dei gol di Pablito, uno per uno, sembravano impossibili sembravano così facili – come pazzi, in quei pochi metri quadri, ci abbracciavamo, saltavamo sulle brande, facevamo un casino infernale, sbattendo le cose, quelle poche che non erano cementate o imbullonate. Ci sentivamo vivi. In quell’estate del 1982 ero a Rebibbia. C’ero arrivato per un processo. Dai carceri speciali, il circuito dei camosci: li avevo girati quasi tutti, Cuneo, Fossombrone, Palmi, Trani, Badu ‘e Carros. Mi avesse dato ognuno il suo adesivo di ricordo, li avrei collezionati sul mio zaino e ora sarebbero stati in bella mostra. M’avevano messo in un reparto isolato, “in transito”, i miei coimputati stavano tutti assieme da un’altra parte: una banda che si era sciolta da un pezzo, quasi tutti rientrando nei ranghi, e che adesso un paio di pentiti chiamavano a render conto dei reati. Non ciascuno per quello che aveva commesso, ma tutti per quello che ognuno aveva commesso – si chiamava «concorso morale». Io ero in cella con Valerio. Morucci. Eravamo entrambi stanchi – ci sembrava ormai tutto finito, tutto impazzito. Cercavamo una via d’uscita. E non era facile: lui se n’era andato portandosi dietro soldi e armi- e quegli altri non è che l’avessero presa proprio bene. Io avevo tutta un’altra storia ma gli esiti sembravano uguali. S’era provato a discutere, erano girati dei documenti: scritti su una carta velina più velina delle cartine da sigaretta. Ma nessuno aveva voglia e capacità di discutere – un piano inclinato su cui si rotolava lentamente, inesorabilmente. Dopo Moro, non c’era più via d’uscita. Un esito suicida e mortale. C’era un caldo infernale – un’estate di quelle che si scrivono nelle serie storiche. Noi non avevamo modo di andare all’aria, non c’era neanche un cortiletto in quel reparto, e la cella era rovente. Peraltro, infestata di zanzare. Subito al di là delle sbarre – eravamo a un primo piano – vedevamo della sterpaglia e degli scoli di qualche tubatura. Valerio, che si innamorava facile dei marchingegni, aveva avuto la balzana idea di chiedere un aggeggio che emettendo un ultrasuono le allontanasse. Garantito. Aveva fatto la sua brava domandina – brigadiere, domandina – e in direzione ci avevano pensato su parecchio: chissà cosa poteva combinarci con quella diavoleria, ma poi s’erano convinti che fosse innocua e gliel’avevano data. Ovviamente, sembrava invece richiamarle come suoni d’amore. Un inferno. La geometrica potenza, mah. Stavo sempre con i piedi ammollo in una bagnarola striminzita: dopo due minuti l’acqua era già calda. Così, bagnavo degli asciugamani, poi li strizzavo e li tenevo addosso. Ci dormivo a volte. Per ammazzare il tempo, giocavamo a ricordarci i film – quelli del carcere li sapevamo tutti, anche le battute. «Ehi boss, mi levo la maglietta». «Ehi boss, sto togliendo il cappellino». Nick mano fredda, Quella sporca ultima meta. Ma anche se hai visto tutti i film del mondo sul carcere, del carcere non sai una sega. L’avevamo capito presto. Oppure, giocavamo alle strade di Roma, i vicoli, gli incroci, gli slarghi, le edicole. Ma se sui film litigavamo alla pari (una volta non ci parlammo per giorni, per via di Michael Sarrazin, che sta in Non si uccidono così anche i cavalli? ma adesso non mi ricordo più perché, forse perché era fidanzato a Jacqueline Bisset e ne eravamo entrambi gelosi), su Roma era imbattibile, sapeva pure i tombini delle strade. D’altronde. C’era un televisore piccolo piccolo, in bianco e nero, che stava appollaiato come un gufo su un trabiccolo in alto che per vederci qualcosa dovevi starci vicino in piedi. Eravamo incollati lì. È lì che vedemmo il mondiale di Spagna. Valerio di calcio non ci ha mai capito niente e con i piedi era un disastro, troppo legnoso – anche se poi gli facemmo fare il falso nueve, quando riuscimmo a stare in mezzo agli altri e c’era un campetto e mettemmo su le squadre e avemmo anche un pezzetto di gloria nel torneo con gli altri reparti. Con i “comuni”. Fu un mese di passione. Sentimenti a vagonate, saliscendi emotivi. L’inizio lo sapete tutti – tre pareggi pasticciati con formazioni che non erano certo fulmini di guerra e una squadra completamente in panne. Bearzot che decide il silenzio stampa – e quel Rossi, nella polvere e sull’altare, che s’era portato dietro a tutti i costi e che sembra dormire in mezzo al campo.
Poi, i miracoli, uno dietro l’altro – che non è vero che i miracoli non si ripetono nello stesso luogo e nello stesso tempo. L’Argentina, il Brasile, la Polonia e infine la Germania, smentendo la dannata battuta di Lineker: «Il calcio è un gioco semplice: 22 uomini rincorrono un pallone per 90 minuti, e alla fine la Germania vince». Beh, se c’è l’Italia con la Germania, alla fine vince l’Italia. Gioimmo dei gol di Pablito, uno per uno, sembravano impossibili e sembravano così facili – come pazzi, in quei pochi metri quadri, ci abbracciavamo, saltavamo sulle brande, facevamo un casino infernale, sbattendo le cose, quelle poche che non erano cementate o imbullonate. Ci sentivamo vivi, stupidamente felici. Una volta venne pure la squadretta delle guardie – magari gli rodeva il culo che eravamo così entusiasti e volevano menarci ma, giuro, mi pare di ricordare che abbracciai pure il capoguardia gridando gol gol gol.
Per me Pablito è questa storia qua e lui non saprà mai quanto io gli possa essere stato grato.
Antonello Piroso per la Verità l'11 dicembre 2020. «Paolo Rossi? Fratello?». Era la notte della finale dei Mondiali di Spagna, nel 1982.L'Italia aveva battuto la Germania con i gol di Rossi-Tardelli-Altobelli. Pablito aveva vinto il titolo di capocannoniere con 6 reti, a scalare: tripletta al Brasile, doppietta alla Polonia, una appunto. Ai tedeschi. La Nazione intera aveva perso ogni freno inibitorio, e si era ritrovata assembrata - diremmo oggi - in un'unica, enorme piazza. E... stop. Anche «basta» con la retorica patriottarda, l'amarcord con l'occhio umido, il necrologio condito con la sociologia e la storia da piazzisti della riflessione («Venivamo fuori, ancora ragazzi, da anni di terrorismo, paura, infelicità»: è l'inizio di un tweet standard, alla fiera dell'ovvio dei popoli), che in occasioni come queste deflagrano a livello mediatico. Ecco perché, memore anche di quanto scritto dal campione nell'incipit della sua autobiografia del 2002 («Non vivo nel ricordo, non ho nostalgia, non ho malinconie»), ora che è morto all'età di 64 anni sconfitto da un tumore, preferisco raccontarlo partendo dal dopo quel match, con la disavventura capitata all'omonimo Paolo Rossi, il comico. Che, insieme a un amico con cui si era gustato la partita in tv, in una serata euforica anche per via dell'alcol e dell'«erba spinella» (il racconto sul palco era dello stesso artista), viene fermato dai carabinieri, a bordo della sua utilitaria, mentre sta festeggiando per strada con i milanesi tutti. I militi chiedono i documenti, e ritrovandosi in mano la patente su cui leggono «Paolo Rossi», guardano il guidatore, poi di nuovo la foto sul documento, e infine chiedono: «Paolo Rossi? Fratello?...». A quel punto il teatro esplodeva in una risata corale, per quell'epilogo da «barzelletta sui carabinieri», che in seguito fece ridere lo stesso calciatore. Il Paolo Rossi che invece aveva fatto piangere il Brasile, come da titolo dell'opera citata, in cui si mette a nudo vent' anni dopo l'evento, «ritrovata l'intimità interiore». Perché fu quell'incontro con la squadra verdeoro, il 5 luglio (prima ancora della conquista della Coppa, avvenuta l'11) a fare da spartiacque nella sua vita e nella sua carriera. «Sarà una festa da ricordare, della quale ancora parleranno quando saranno trascorsi molti anni e i suoi principali protagonisti saranno ormai solo nomi legati alla mitologia del calcio», dirà il 7 luglio, a botta ancora calda, il premio Nobel per la letteratura Mario Vargas Llosa, peruviano naturalizzato spagnolo (se volete approfondire la storia di quell'epico incontro, vi rimando volentieri alle 600 pagine di ricostruzione dettagliata del prima, durante e dopo di Piero Tellini La partita: il romanzo di Italia-Brasile). Chiariamo intanto un punto: Rossi non diventa Pablito in Spagna, ma addirittura prima dei Mondiali di Argentina del 1978.Convocato tra gli azzurri dal c.t. Enzo Bearzot per due amichevoli preparatorie, con il Belgio e la Spagna, non segnò (come invece stava facendo in campionato con il Vicenza) ma convinse tutti, perfino il selezionatore delle furie rosse Lazlo Kubala: «Me gustò muchissimo Rossi». Sul volo di ritorno da Madrid, Giorgio Lago - allora capo dello sport al Gazzettino - seduto vicino a Piero Dardanello, direttore di Tuttosport, e a Sandro Ciotti, voce della Rai, commenta: «L'Italia ha trovato il suo centravanti per il Mondiale, d'ora in poi possiamo chiamarlo Pablito». E così sarà, ben oltre i tornei del '78 e dell'82. Anno in cui gettò un Paese intero nell'incubo, e questo davvero senza esagerazioni. La dimensione della tragedia collettiva sta tutta nell'immagine, oggi la definiremmo «iconica», di un bambino di 10 anni che piange, con addosso la maglietta del Brasile in tribuna allo stadio, immortalato dal pluripremiato fotoreporter Reginaldo Manente, anche lui brasiliano tra le lacrime per la sconfitta, il quale distoglie lo sguardo dal campo, vede e scatta. Così il primo giornale a uscire in Sudamerica, il Jornal da tarde di San Paolo, avrà quella foto a tutta pagina, con una semplice didascalia come epitaffio: «Barcelona, 5 de julho de 1982».
Racconterà Pablito: «Quando nel 1989 sono tornato in Brasile per partecipare alla Coppa Pelè, una specie di Mondiale per over 34, mi sono ritrovato in uno stadio con 35.000 persone che mi urlavano qualunque cosa, perché per loro ero O carrasco do Brasil, il boia del Brasile. Non potevo avvicinarmi alla linea laterale perché mi tiravano di tutto: noccoline, bucce di banana, monetine. Tanto che, all'intervallo, ho deciso di non rientrare per il secondo tempo». E dire che la competizione dell'82 non era iniziata benissimo per l'Italia, tanto da indurre tecnico e atleti a trincerarsi in un coriaceo silenzio stampa viste le critiche che si abbattevano sulla squadra e le sue prestazioni. Con un sovrappiù che riguardava proprio Rossi, portato in Spagna dopo aver ripreso a giocare in campionato solo da poco, vista la squalifica di tre anni, ridotta poi a due, che gli era stata inflitta per il suo coinvolgimento nel calcioscommesse del 1980. Rossi fu accusato di aver intascato 2.000.000 di lire dell'epoca (oggi sarebbero 4.000 euro) per partecipare alla combine che blindava il pareggio tra Avellino e Perugia, in cui al momento militava. Unica condizione che Rossi avrebbe posto: «Devo segnare una doppietta», cosa che in effetti avvenne. Al processo ci fu un confronto tra Massimo Cruciani, l'organizzatore del «Totonero», e lo stesso Rossi. Cruciani: «C'incontrammo prima della partita e si parlò in termini chiarissimi, io mi resi garante che l'Avellino avrebbe consentito le due reti. Rossi allora si rivolse al suo compagno di squadra Della Martira dicendogli: Mauro, fai tu, per me va bene». A distanza di anni, Rossi ancora non si capacitava: «A Della Martira, reo confesso (di aver preso gli 8 milioni da smistare a 4 giocatori del Perugia, di cui appunto 2 a Rossi, ndr) 5 anni, e a me 3? E quelli dell'Avellino? Tutti assolti!». Comunque la si pensi, valgono le dichiarazioni successivamente messe agli atti da Cesare Bartolucci, complice di Cruciani: «Rossi non c'entrava nulla, non ha preso una lira», e da Fabrizio Corti, il contabile della banda di cui gestiva il libro mastro. Torchiato da Oliviero Beha e Roberto Chiodi per il settimanale Epoca, nel 1985 Corti confesserà: «Rossi era innocente. Ho avuto la colpa di dar retta a Cruciani, che alla fine lo ammise pure lui: aveva messo in mezzo Rossi perché serviva (un capro espiatorio, ndr), colpendo l'emblema del calcio italiano si chiudeva la bocca a tutti coloro che pretendevano la pulizia dell'ambiente. Cruciani staccò un solo assegno di 8 milioni a favore di Della Martira. Le due reti Rossi le segnò non perché d'accordo, ma solo perché era in forma, perché era... Paolo Rossi». Capace di resuscitare dalle sue ceneri, autoironico (quando gli fu riferito il gossip sulla sua presunta «affettuosa amicizia», non solo di spogliatoio, con Antonio Cabrini, Rossi commentò, adeguandosi al livello: «Sì, stavamo insieme, ma per fortuna io facevo la parte dell'uomo»), era una persona di grande sensibilità. La conferma l'ho trovata nelle sue parole dopo la fine del match con la Germania: «Eravamo campioni del mondo. Feci solo mezzo giro di campo coi compagni: ero distrutto. Mi sedetti su un tabellone a guardare la folla entusiasta e mi emozionai. Ma dentro sentivo un fondo di amarezza. Pensavo: fermate il tempo, non può essere già finita, non vivrò più certi momenti. E capii che la felicità, quella vera, dura solo attimi». Attimi che talvolta valgono una vita intera.
Raffaella Silipo per "la Stampa" l'11 dicembre 2020. «Oggi continuiamo a rivedere le immagini mitiche dei gol di Paolo Rossi al Mondiale 1982, credo che dovremmo rivedere anche come ha giocato male le partite appena prima: è una lezione da non dimenticare». Alessandro Baricco si definisce «grandissimo tifoso di calcio», ne scrive con amore e competenza, lo guarda con passione e talvolta sofferenza da cuore granata, lo gioca con la maglia numero 10 nella nazionale scrittori Osvaldo Soriano Football Club, da lui fondata qualche anno fa.
Quale è la lezione che dobbiamo imparare da Paolo Rossi, Baricco?
«Primo: che il calcio è irragionevole, irrazionale, misterioso. Il calcio ci stupisce sempre, proprio come quell' immagine di Paolo Rossi che appare dal nulla in area e subito scompare. Secondo: che nella vita si può venir fuori anche dai tombini più profondi. Per fortuna, per ostinazione, forse anche per destino. È un incoraggiamento per tutti: magari senti di non averne fatta nemmeno una giusta e, appena girato l' angolo, le cose cambiano. Non soltanto si raddrizzano un po', addirittura puoi finire sul tetto del mondo ».
A onor del vero non capita spesso... ma è forse per questo che l' Italia del 1982 si è identificata in Paolo Rossi?
«Certo quella squadra e quella vittoria coincidevano con l' immagine che avevamo di noi stessi come popolo. Non eravamo all' altezza di altre squadre, prima di tutto fisicamente. Abbiamo vinto in rimonta, da outsider, da perdenti. Non eravamo degli dèi, gli dèi erano altri, noi eravamo provinciali e magrolini, come Paolo Rossi, appunto. È stata la vittoria del talento e di un' astuzia sapientemente nascosta e saltata fuori in area all' ultimo».
Una vittoria simbolica anche perchè ha aperto una nuova fase nella vita nazionale?
«L' Italia del 1982 aveva un disperato bisogno di gioco, di leggerezza. Gli Anni Settanta sono stati durissimi, quasi un' anomala guerra civile. La gente aveva fame di allegria, per questo è così forte ancora oggi la gratitudine per Paolo Rossi che, come un giocoliere, è riuscito a regalarci momenti di felicità perfetta. No è un caso se è rimasto così profondamente impresso nella coscienza collettiva».
La felicità di gioco era una caratteristica di Paolo Rossi?
«Sì, e penso soprattutto al Paolo Rossi del Lanerossi Vicenza. Grandissimo, imprendibile in campo, molto più veloce e più leggero degli altri, l' incarnazione della rapidità, con un tocco di follia che prima si era visto solo nei giocatori olandesi, alla Crujiff per intendersi. Era l' alfiere di un calcio nuovo».
Lei dove era la sera di quella finale?
«Ero in un momento un po' strano della mia vita, ospite nell' entroterra ligure di intellettuali comunisti che non sapevano assolutamente nulla di calcio. Mi sono ritrovato per tutta la partita a dover spiegare persino le regole base del gioco, dal contropiede al catenaccio. E quando abbiamo vinto, intorno c' era il silenzio più totale, esultare sembrava così inelegante... Dal terrazzo vedevo le luci della costa e la gente, lontano, che festeggiava. Insomma, quel Mondiale me lo sono perso alla grandissima. Per questo forse non ne ho mai scritto».
E gli Anni 80? Come li ha vissuti Alessandro Baricco gli anni della Milano da bere?
«Mi sono perso alla grandissima anche la Milano da bere. Mi sono laureato nel 1981 e poi è iniziato un periodo matto e disperatissimo di studio, lavoro e concorsi. Allora il mio scopo era insegnare all' università, poi mi sono accorto che per me era un mondo allo stesso tempo troppo noioso e troppo difficile. A parte il mio caso, penso che la Milano da bere sia stata un' esperienza per pochi, dilatata nella memoria collettiva grazie a cinema e tv. Un po' come è successo con la Dolce Vita negli Anni Sessanta: un' esperienza élitaria, mentre la gran parte della gente faticava. Insomma, dire che gli Ottanta sono gli anni dell' edonismo è una semplificazione, non mi pare che dessero tutte queste chances, se si esclude una certa fiducia di tipo economico. Io penso che gli anni determinanti per l' Italia siano stati i Novanta».
Diego Armando Maradona e Paolo Rossi hanno condiviso i giorni della fine, oltre che quei campi di gioco di Spagna 1982.
«È impossibile non subire il fascino di Maradona, un fascino che nasce proprio da quel suo essere sghembo, sbagliato, eccessivo. Mi annoiano gli sportivi a tutto tondo, troppo perfetti, alla Federer per intendersi. Mi piacciono gli sghembi, quelli che cadono e si rialzano».
Anche Paolo Rossi è un po' sghembo, no?
«Molto meno: nel calcio scommesse è finito quasi per caso, apparso dal nulla, come in area, e subito scomparso».
Che scrittore sarebbe Paolo Rossi?
«Un incrocio tra vari scrittori, una creatura mitica a più teste: ha la malinconia di uno Stefano Benni, l' astuzia di un Sandro Veronesi e un pizzico di follia tondelliana».
Enrico Vanzina per il Messaggero l'11 dicembre 2020. Lo ricordo come se fosse oggi quel mio 11 luglio del 1982. Ricordo la tensione, la paura, la speranza, la fede, la gioia, le lacrime. E poi quella sera, io in giro come un matto per via del Tritone, con in mano il tricolore, a sventolare la nostra bandiera tra la folla in preda al delirio. Eravamo Campioni del Mondo. Dietro a questi ricordi indelebili c' era un gruppo formidabile di persone. Le conosciamo a memoria. Grandi atleti, grandi sportivi, grandi politici, ma soprattutto grandi uomini. Quelli, come si dice, che fanno la storia. E tra di loro, un quasi ragazzino, un talento nostrano che riuscì a riportarci un po' tutti con le mani levate al cielo, come usava fare lui quando segnava, il capocannoniere dei Mondiali, dal soprannome esotico Pablito, toscano dalla gentilezza insolita, timido, riservato, un bravo ragazzo italiano, semplice nel cognome e coraggioso nei fatti: Paolo Rossi. Adesso che ci ha lasciati fa tenerezza ricordare la sua vita, le sue imprese, con l' alone di malinconia per la sua scomparsa precoce che lo accompagnerà verso un' altra vita. Eterna. Se ci chiedessimo cosa ha rappresentato Paolo Rossi per il nostro paese mi verrebbe da dire: grazie a lui, dopo una stagione di sangue e terrore, noi italiani, con due anni di ritardo, siamo entrati negli Anni 80. Sì, quella sera allo stadio Bernabeu, Paolo Rossi, alla testa dei suoi compagni, ha strappato definitivamente la cappa di dolore che pesava da anni sul nostro paese. Ci ha avvicinati al cielo. Un cielo azzurro come la sua maglia. Un cielo finalmente rischiarato dalla voglia di rinascere e di ripartire. E infatti tutto si rischiarò e ripartimmo. Con quel biglietto da visita di carattere sportivo l' Italia rialzò la testa e intorno a noi cominciarono a guardarci come vincenti. E infatti vincemmo. Iniziò la grande stagione del made in Italy, della moda italiana che sbarcava in tutto il pianeta, il cibo, il vino, la Ferrari che riprendeva a vincere nel campionato costruttori, il mare italiano che attraeva il mondo intero, l' Italia come luogo iconico della migliore qualità della vita. Quella dell' 11 luglio del 1982 fu qualcosa di più di una partita di calcio, fu il passaporto per entrare nella leggenda del paese davvero più bello del mondo. Insieme a Paolo Rossi, simbolo calcistico di quel trionfo epocale, c' era un grande presidente: Sandro Pertini. Tutti i presidenti dicono di voler essere il presidente di tutti, ma non me ne vogliamo alcuni se ad esserlo per davvero fu proprio Sandro Pertini. Lui, il presidente socialista e partigiano, che ebbe la forza di sdoganare il valore del tricolore dopo anni cupi di massimalismo politico. Perché quella sera, sulle finestre di tutti gli italiani, apparve dopo anni di inutili sospetti nazionalistici e di violenta contrapposizione ideologica, la bandiera italiana. Fu grazie a Sandro Pertini e a Paolo Rossi. Ritrovammo l' orgoglio, a destra, al centro e anche a sinistra, di sentirci uniti da quel tricolore vincente. Da allora, nei momenti più difficili per il nostro paese, quel tricolore risalta fuori sui balconi e sui davanzali, a testimoniare una unità non solo necessaria ma veramente sentita. Forse oggi non ce ne rendiamo più conto ma allora fu qualcosa di straordinario. Nel decennio dopo, quegli Anni 80 durante i quali l' Italia salì di grado, sono stati criticati usando dei pregiudizi di nuovo ideologici. L' edonismo, il berlusconismo, il craxismo, insieme alle parabole di Margaret Thatcher e Ronald Reagan, hanno monopolizzato tutto e il decennio 80 è stato messo all' indice come momento di decadenza reazionaria. Oggi, però, soprattutto i giovanissimi, hanno riscoperto quegli anni che fanno da sotto testo alla loro visione estetica. E in cima a quel periodo, in verità per molti versi formidabile, svetta la figurina Panini di Paolino Rossi, con le sue braccia esili rivolte verso il cielo. Peccato che Rino Gaetano, il quale aveva cantato quasi come una premonizione il cielo è sempre più blu , era scomparso un anno prima senza poter vedere che quel cielo, e stavolta sul serio, era tornato a colorarsi con la vena cromatica della gioia. Grazie Pablito. Grazie per aver reso veri, per Italia e per tutti noi , quei bellissimi sogni che non svaniranno mai più.
Giulia Zonca per "la Stampa" l'11 dicembre 2020. L'estate del 1982 è una promessa di felicità che ancora riesce a inebriare. L' Italia ci arriva stravolta: anni di piombo e petrolio, anni scuri, da sopportare una crisi dopo l'altra e all'improvviso solo azzurro, un colore abbagliante in mesi di caldo torrido che scioglie le inibizioni. In strada, a torso nudo, con le macchine scoperte e le bandiere, ma pure prima di vincere, quel mondiale si vede così: poco vestiti, con le finestre aperte, mescolati, con una casa che risponde all' altra, in un Paese che si dà appuntamento. È tutto pieno, saturo di colori, di cibo, di musica e di possibilità. E quando arrivano le notti di Pablito, la nazione si sovrappone al proprio idolo come non era mai successo prima e come non è più capitato. I tre gol al Brasile sono l' unità di misura di quel tempo, il formato maxi. «Rocky 3», le prove di «Fantastico 3», «Thriller», il disco più venduto della storia che sarebbe uscito in quell' autunno, Armani sulla copertina di «Time» e il Mondiale in tasca, in tasche che si scoprono ricche perché i soldi girano ed è quasi strano. In effetti ci stiamo indebitando, un buco che dobbiamo ancora riassorbire, ma allora non lo sapevamo, le previsioni di crescita erano infinite e ci si correva dietro. Il Paese sente di meritare la leggerezza che respira, fino a essere a semplicemente frivolo, eppure non è così superficiale come lo si dipinge proprio perché non abbiamo la faccia di Reagan, non siamo cowboy con il copione, siamo Paolo Rossi. Un tipo che esulta per gol storici come fa chiunque altro alla partita del dopolavoro, uno che ha letteralmente il nome di chiunque altro e che si pianta in quel luglio mai più uscito dalla testa. L' estate del 1982 la ricorda pure chi non era nemmeno nato, se non altro perché di sicuro a un certo punto se l' è trovata tra i piedi, nel sorriso beato di un genitore perso nella propria infanzia, nel paragone infinito con un benessere di cui non si ricorda il gusto, ma se ne conosce il potere. Ben oltre quello d' acquisto. Non ricchezza, scelta. Non sicurezza, riparo. Nel ritiro dell' Italia in Spagna si sente «Sotto la pioggia» di Antonello Venditti, una pioggia che non ci bagna e invece ci racconta: «Il presidente dietro i vetri un po' appannati/ fuma la pipa/ il presidente pensa solo agli operai» ed è pure il presidente che giocherà a scopone con gli azzurri, con l' Italia intera. Fiducia, sempre in quella canzone, diventata casualmente tormentone nelle stanze da mundial, c' è la colomba che vola, la stessa paloma di Picasso disegnata sul campo di Barcellona nella cerimonia inaugurale che dà il via all' avventura. In realtà c' è lo scandalo del Banco Ambrosiano, non stiamo in un Eden senza problemi, però abbiamo allargato gli orizzonti e sembra tutto meno ridotto, meno scontato. Se prima ogni brutta notizia usciva dalla tv per piazzarsi direttamente in salotto, ora c' è altro a cui pensare. Si diffondono i personal computer, non li ha ancora quasi nessuno nella case sintonizzate sui 44 gradi spagnoli eppure è già un oggetto del desiderio, una ventata di futuro che spinge le angosce dove non danno più fastidio. E poi c' è «E.T», non lo abbiamo ancora visto perché in Italia esce in dicembre, ma l' 11 giugno è entrato nelle sale americane ed è già l' extraterrestre da scoprire, la favola che cambia la dimensione dei sogni. Si tende verso l' infinito, si sta per vedere «Blade Runner» e non ci sono limiti se segni tre gol al Brasile, se batti l' Argentina, se vai in finale dopo 44 anni. Dopo tanta di quella tristezza da digerire che ogni singola rete di Rossi è una liberazione, una soddisfazione, è un motivo per festeggiare, volare, esagerare. Undici luglio, giorno della sfida con la Germania Ovest e pure del concerto dei Rolling Stones a Torino. Loro, come noi, vengono da anni complicati, dopo il successo più sfrenato, si sono sentiti sopraffatti, si sono drogati troppo, confusi, stancati. Poi Mick Jagger sale sul montacarichi tappezzato di bianco, rosso e verde con la maglia azzurra. Non mette solo quella di Pablito, ma quando indossa la sua, ci somiglia persino un po'. La faccia lunga, le spalle strette, le caviglie sottili che sbucano dai fuseaux che Rossi non avrebbe indossato mai. L' omaggio esalta, sfida la scaramanzia. Le labbra più sexy di sempre annunciano: «Vincete 3-1». La butta lì e gli riesce. Se ne vanta il giorno dopo, quando l' introduzione gliela fa Gentile, campione del mondo. E per questo il numero cambia dal 20 al 6, ma sono tutte cifre su cui puntare, da sfoggiare, esibire. In mezzo a tanta gioia capita di inventarsi persino altre vite: «Un bel giorno, senza dire niente a nessuno, me ne andai a Genova e mi imbarcai su un cargo battente bandiera liberiana», tra i Rolling Stones che in azzurro sembrano persino avvicinabili e i ragazzi che hanno vinto la Coppa del Mondo c'è il Verdone di «Borotalco». Un film in cui il protagonista finge di essere più brillante e di quanto sia e non è il solo, ma ci si vanta senza cattiveria: siam tutti figli di Bearzot. Tutti orfani di Paolo Rossi e di quell' estate che ci ha stregato.
Emiliano Guanella per "la Stampa" l'11 dicembre 2020. La notizia della morte dell' amico Paolo Rossi ha raggiunto Zico in Giappone, dove si trova per lavoro. Il «Galinho» ricorda la gentilezza di Pablito e gli incontri diventati sempre più assidui quando entrambi hanno smesso di giocare a calcio. Le vacanze in Sardegna, il calcetto con i figli, le visite in Brasile. La prima partita risale al 1979, l' Argentina campione più Maradona contro la selezione del resto del mondo della Fifa.
«Ero con Paolo e giocavamo contro Diego. Sembra incredibile che in due settimane abbiamo perso entrambi. Maradona è stato il migliore della mia epoca, Paolo l' anima della nazionale che ci eliminò dai mondiali».
Al Sarria eravate i favoriti, quale fu la molla in più di quell' Italia?
«La qualità, eccelsa, dei suoi giocatori, con la base della Juventus che poi sarebbe diventata campione d' Europa. La classe di Paolo esplose proprio contro di noi. I nostri errori, poi, fecero il resto».
Per il Brasile fu un grande trauma nazionale, per la generazione post Pelè quella Seleçao è stata la più bella in assoluto da vedere. Come fu assorbire la sconfitta?
«Ai brasiliani non piace perdere, molti dissero che non ci eravamo impegnati abbastanza, che avevamo sottovalutato un' Italia partita così sottotono. Non credo che fu così, nel calcio si vince e si perde, l' Italia meritò di andare avanti e infatti divenne campione del mondo».
Col tempo è nata una forte amicizia con Pablito; cosa vi legava?
«Il rispetto, prima di tutto. Paolo non si è mai vantato di aver battuto quel Brasile, era consapevole di cosa avesse rappresentato per noi quella sconfitta. Io riconoscevo in lui lo spirito gentile, la passione per il calcio come sport di persone per bene. I suoi viaggi in Brasile lo hanno aiutato a capire la nostra gente, non ha mai voluto infierire, aveva sempre quel sorriso che ti dava molta serenità. Amava raccontare del tassista di San Paolo che lo fece scendere dall' auto quando lo riconobbe. Oggi i brasiliani soffrono quanto voi questa perdita».
Vi siete visti a Rio nel 2018 e poi recentemente nei pressi di Firenze per una premiazione. La pandemia, però, vi ha tenuti distanti quest' anno.
«Avremmo dovuto trovarci in ottobre, ma siamo tutti bloccati. Non sapevo che stesse male, la notizia è stata una doccia fredda per me. Restano i buoni ricordi dei momenti vissuti insieme. Ho buoni rapporti anche con altri protagonisti di quell' epoca come Causio o Cabrini. L' Italia è sempre nel mio cuore».
È morto Paolo Rossi: il calcio e l'Italia piangono il simbolo della nazionale Mondiale del 1982. L'ex attaccante nel 1982 fu capocannoniere del Mondiale vinto dagli Azzurri di Bearzot e vinse anche il Pallone d'oro. Morto a 64 anni per un male incurabile. Mimmo Cugini il 10 dicembre su Gazzetta.it. Paolo Rossi aveva 64 anni. Una notizia terribile, nel cuore della notte. Che sconvolge il mondo del calcio, italiano e mondiale. E gli italiani tutti insieme. A 64 anni è morto Paolo Rossi, sconfitto da un male inesorabile, l’eroe dell’Italia campione del mondo del 1982, quella che battè il Brasile di Zico, l’Argentina di Maradona, la Polonia di Boniek e in finale la Germania di Rummenigge. L’Italia di Zoff e Bearzot. Il protagonista principale fu Pablito, che veniva dalla squalifica per calcio scommesse e dopo un brutto inizio di Mondiale, decollò e con lui l’Italia di Collovati e del giovane Bergomi, di Tardelli che diventerà l’uomo dell’urlo e di Gentile attaccato ai pantaloncini di Diego, di Antognoni e del fantastico Bruno Conti.
CHE ANNO, IL 1982...In quella estate del 1982 l’Italia intera scese in piazza per far festa, a Madrid per la finale volò anche il presidente Pertini, esultante in tribuna al fianco del re di Spagna. Paolo Rossi era un centravanti da area di rigore che viveva per il gol. Esplose nel Vicenza, passò al Perugia e poi alla Juventus per i suoi anni migliori. In nazionale fu il simbolo dell’Italia di Bearzot e alla fine di quella magica cavalcata vinse il Pallone d’Oro. Tre gol al Brasile, due alla Polonia, uno alla Germania in finale e così l’Italia conquistò il terzo titolo di campione del mondo. Dopo la Juve andò al Milan prima di chiudere la carriera a Verona. Insieme a Baggio e Vieri detiene il record di gol azzurro ai Mondali con 9, è stato il primo giocatore, poi eguagliato da Ronaldo, a vincere nelle stesso anno il Mondiale, il titolo di capocannoniere e il Pallone d’oro. Con la Juve ha vinto due scudetti, una coppa delle coppe, una Supercoppa Uefa e una Coppa dei Campioni, con il Vicenza un campionato di serie B nel quale fu capocannoniere. Conclusa la carriera di calciatore è stato a lungo opinionista per Mediaset e la Rai. Lascia la moglie, Federica, e tre figli: Sofia Elena, Maria Vittoria e Alessandro.
LA MORTE DI PABLITO. A dare la notizia della scomparsa dell'eroe del Mundial è stata la moglie Federica Cappelletti, con un due commoventi post sui social.
Dal profilo facebook di Marino Bartoletti il 10 dicembre 2020. È morto Pablito! E il sangue ti si gela. No, lui no! Il più mite, il più gentile, l'amico più fraterno degli eroi del Mundial (è il secondo che se ne va dopo Gaetano). E la mente si blocca. E le mani si paralizzano. L'unica cosa che mi sento di fare è riproporre, senza cambiare una virgola, il pensiero che gli dedicai per i suoi 60 anni (per il quale ebbe, come sempre, la non dovuta delicatezza di ringraziarmi). Era un uomo sereno e finalmente felice. Ma, porca miseria, non si fa così! Quando gli parlai per la prima volta, il Rossi “bravo” si chiamava Renzo. Giocavano entrambi in Serie A nel Como e lui, a 19 anni, sembrava davvero un bimbo: educato e timido. E comunque le partite le guardava quasi sempre dalla tribuna, perché in campo ci andavano, oltre all’”altro” Rossi, Guidetti, Garbarini, Correnti, Pozzato, Scanziani, il vecchio Renato Cappellini e Rigamonti, il portiere che tirava i rigori. E in panchina, oltre al portiere di riserva ci stavano solo altri due giocatori. Nel dicembre del ’75 lo vidi per caso scendere in campo contro la Fiorentina di Mazzone: fu l’unica delle 6 partite disputate quell’anno in cui entrò nella formazione titolare. Non segnò mai. La Juventus, che ne era proprietaria, lo mandò a farsi le ossa (peraltro fragiline) nel Vicenza in Serie B. Quando gli parlai per la seconda volta era già quasi Paolo Rossi: stava esplodendo appunto nel Vicenza dell’indimenticabile GB Fabbri e Azeglio Vicini lo aveva chiamato nella sua bellissima Under 21, con Galli, Cabrini, Manfredonia, Di Bartolomei, Giordano e persino - udite udite - Francesco Guidolin. Da allora ci saremmo parlati tante, tante e tante altre volte ancora: a cominciare dagli esordi in azzurro nella meravigliosa Nazionale che Bearzot, suo “padre”, assemblò e inventò per i Mondiali d’Argentina del 1978, gettando le basi del trionfo di quattro anni dopo. Lì, all’”Hindu Club”, sede del ritiro della spedizione azzurra, nacque “Pablito”. Ora “Pablito” compie 60 anni: ma non li ha. Non li ha nel cuore, non li ha nell’animo, non li ha nella sua bellezza interiore mai compromessa né dalle (tante e immeritate) amarezza e neanche dalle, a volte ingannevoli, scariche di felicità. Forse li ha nelle ginocchia, martoriate dalle operazioni, dall’usura e dal tempo. Ma per fortuna il cervello è più di un metro sopra ai menischi. Ed è quello di un ragazzo che continua a nuotare nella serenità che si è costruito con amore e tenacia, senza che nessuno gli abbia MAI regalato nulla. Quando, da campione del mondo e da eroe nazionale, andò da Boniperti a chiedere un piccolo aumento, se ne uscì con un 20% in più che gli garantì 135 milioni all’anno (l’equivalente dello stipendio di un terzo portiere di un attuale top team di Serie A): e Boniperti gli tenne pure il muso per aver osato tanto. Non è mai diventato ricco: e se ha navigato in un accettabile benessere è perché ha sempre investito con intelligenza il suo denaro, dando soprattutto al “mattone” quella fiducia che è tipica di chi ama la concretezza (il suo gioiello è l’agriturismo di Poggio Cennina, un paradiso alla cui inaugurazione mi invitò in una dolcissima notte d’estate di qualche anno fa). Di lui, in questi giorni, scriveranno (e in parte stanno già cominciando a scrivere) di tutto. Anche chi lo ha visto solo nei filmati o conosciuto solo su Wikipedia. Io non mi avventuro né in riassunti statistici, né in epinici storici, né in scontati trionfalismi calcistici: lo ringrazio semplicemente per avermi regalato la genuinità - rarissima - della sua gentilezza e del suo sorriso.
Maurizio Crosetti per repubblica.it il 10 dicembre 2020. Le care, vecchie icone mondiali si tolgono vent'anni di dosso in molti modi. Oriali sta comodo in una bella canzone di Ligabue. Tardelli mette tristezza nella pubblicità delle pillole contro la pancia. E Paolo Rossi detto Pablito, l'italiano per lunghi anni più famoso al mondo si è messo a raccontare una storia, la sua. Ne è uscito un libro che s'intitola "Ho fatto piangere il Brasile" (edizioni Limina), scritto con il giornalista Antonio Finco. Prima prova letteraria per il centravanti più rapido di ogni tempo: lui segnava in un milionesimo di secondo, invece per scrivere si è preso un po' di tempo.
Perché?
«Perché non volevo le solite memorie commerciali, oppure il libello con lo spunto polemico messo apposta perché se ne parli. Nessuno si aspetti scandali o rivelazioni clamorose. Si trattava di scrivere la storia della mia carriera, che è anche quella della mia vita, e per farlo servivano pazienza, memoria e voglia di verità. Ci abbiamo messo due anni e sono soddisfatto delle parole usate, mi sembrano giuste».
Anche lei aveva un messaggio da chiudere nella bottiglia?
«Forse sì. Di sicuro volevo che quella bottiglia la aprissero i giovani, i ragazzini. Spero che lo trovino istruttivo, mi sono rivolto soprattutto a loro».
Per dire cosa?
«Che uno qualsiasi, uno normale, può farcela. Non ero un fenomeno atletico, non ero neanche un fuoriclasse, ma ero uno che ha messo le sue qualità al servizio della volontà. Mi pare un buon messaggio, non solo nello sport».
Nel libro si parla molto delle scommesse, cioè il grande buio della sua carriera. Una scelta coraggiosa.
«Non ho scheletri nell' armadio. Mi sono fatto due anni di squalifica senza colpe, ma una morale della favola esiste: si può essere stritolati da qualcosa che ci cattura senza che noi abbiamo fatto nulla perché accadesse. Si può diventare vittime e non riuscire a dimostrarlo».
Il libro è anche un racconto di ombre: perché?
«Perché è sincero. Uno normale può riuscire, se lo vuole, ma non deve dimenticare che esistono i "se" e i "ma". Si deve mettere in conto il dolore, la delusione».
Il titolo parla del Brasile, di quel pomeriggio al Sarrià: il cuore della sua storia?
«Sì. Io sono il centravanti che fece tre gol ai brasiliani. Sono anche altre cose, ma essenzialmente quella. Mi rivedo con la maglia azzurra numero venti, e mi fa piacere perché la Nazionale unisce mentre le squadre di club dividono. A volte passano anni senza che mi arrivino telefonate speciali, ma quando mancano due mesi al Mondiale comincia a squillare il telefono. E tutti mi chiedono del Brasile, anche se è passata una vita».
Ma che vita è passata?
«Bella, senza nostalgia né rimpianti. Oggi mi occupo di edilizia, vivo sempre di corsa».
Come in campo, insomma.
«Ho detto di corsa, non veloce. Il calcio lo vedo quando posso e non mi diverte granché, almeno quello italiano. Troppo tatticismo. Per lo spettacolo, meglio guardarsi le Coppe internazionali. Barcellona-Real è il calcio che non morirà mai».
Il suo amico Platini sostiene che il calcio attuale non solo non diverte il pubblico, ma non diverte neppure se stesso.
«È vero, anche se si rischia sempre di passare per tromboni. Ma io, lo ripeto, sono fuori dal giro e parlo senza interessi. Questo è uno sport divorato dall' eccesso, non solo economico. Tutto è troppo».
Anche i soldi? Non siete un po' invidiosi, voi dell'altra generazione?
«Nel libro c'è un capitolo in cui racconto le battaglie con Boniperti per il rinnovo dei contratti. Una volta impiegai due mesi per avere dieci milioni d'aumento: ascoltati adesso, certi aneddoti non sembrano di vent'anni fa ma di cinquanta. Eppure io sono contento di essere stato Paolo Rossi nel 1982 e non nel 2002».
Dipende dal cosiddetto "aspetto umano"?
«Direi di sì. Allora i rapporti erano più semplici con tutti, c'era meno veleno, anche se poi potevi restare fregato com'è successo a me con le scommesse. Un'epoca senza paragoni, ed è per questo che ho preferito uscirne del tutto, senza voltarmi».
Da storiedicalcio.altervista.org il 10 dicembre 2020. I primi tempi ebbe la stessa reazione di Gregor Samsa nella Metamorfosi di Kafka. E’ un incubo, un lungo incubo, prima o poi mi sveglio e tutto sparisce. No, non sono io, quello che mi sta succedendo è irreale. Invece era terribilmente vero. Paolo Rossi non si era trasformato in uno scarafaggio ma in un campione di calcio senza calcio. Di più: un traditore della fedeltà dei tifosi; un giocatore dalla faccia pulita, ricco e realizzato, che si era venduto per un paio di milioni e un paio di gol. Mese di marzo, anno di grazia 1980. Il fruttivendolo Massimo Cruciani, stanco di pagare giocatori e perdere soldi in scommesse per risultati di partite che non si avverano, fa un esposto alla magistratura. Chiama in causa il suo compagno di merende, il ristoratore Alvaro Trinca, e denuncia 27 giocatori di A e B di aver preso assegni dai 10 ai 15 milioni per truccare partite. Domenica 23 marzo il blitz dei carabinieri: vengono arrestati, negli stadi, il presidente del Milan, Felice Colombo, e 12 giocatori. Il 29 aprile anche Rossi entra ufficialmente nella pagina più squallida del calcio italiano, il Calcioscommesse. Essendo il giocatore più famoso, ne diventa la copertina. Viene sospeso dalla Disciplinare, non può più giocare nel suo Perugia e tantomeno in nazionale. Poi arrivano i processi e le condanne. Le più dure: Milan e Lazio in B; Colombo, Albertosi (Milan) e Cacciatori (Avellino) radiati. Cinque anni di squalifica per Della Martira, compagno – galeotto nel Perugia, e Pellegrini (Avellino). Per Rossi e Zecchini gli anni sono tre. Poi la Caf aumenterà il castigo per alcuni, come Giordano e Manfredonia (Lazio) che passano da nove mesi a tre anni e sei mesi, e lo diminuirà per altri, come Rossi: due anni. Siamo in luglio. Paolo Rossi ha capito che non è un incubo. Comincia la più brutta estate della sua vita. E’ proprio lui, uno dei giocatori che non giocheranno, che perde 24 mesi di una carriera in ascesa, di ingaggi milionari. E quando ritorno, come sarò? Ho perso tutto, forse? E’ proprio lui che viene guardato di sottecchi, che capta commenti sottovoce: “Chi se lo aspettava da Paolo Rossi, un così bravo ragazzo. E poi che gli fregava di due milioni e due gol in più?“. Qui sta il punto: Rossi ancora oggi non riesce a capire come abbiano potuto credere a loschi figuri e non a lui. Soprattutto, come abbiano potuto credere che si sarebbe venduto per così poco. Condannato per testimonianze e una partita: Avellino – Perugia 2-2, doppietta sua. Uno dei pochi risultati finiti come Trinca e Cruciani desideravano. Paolo Rossi riesce a sorridere di tutta la faccenda, anche perchè il futuro subito dopo gli ha riservato un’ estate da resurrezione, un’estate da re al mondiale di Spagna. Risarcimento del destino? Forse. Forse Pablito ha trovato la legge e non la giustizia. La verità, spesso, è solo un desiderio. E’ rimasta tale. Colpevole con dolo? Colpevole d’ingenuità? Innocente? Qui non si giudica, si ricorda. E la memoria è la cosa più umana che ci sia. Rimuove delle cose, ne porta a galla delle altre. Rossi racconta, e dice anche qualcosa che non aveva mai detto. L’estate più brutta ha origine nell’inverno. Si parte dalla famosa tombola di Vietri sul Mare, ritiro del Perugia che prepara la gara con l’Avellino. Paolo Rossi sorseggia un’aranciata e racconta: “Sto giocando coi compagni quando arriva Della Martira e mi dice: “Paolo, vieni un attimo che ti presento qualcuno”. Mi alzo e penso ai soliti tifosi, con Della Martira ci sono Crociani, Cruciani, come si chiamava? e un altro tipo (Bartolucci, amico di Cruciani, ndr.). Il mio compagno mi dice: “Sai, L’Avellino sarebbe d’accordo per pareggiare”. Io gli rispondo: “Cosa vuoi che ti dica, poi ne parliamo con la squadra”. Alt. Un passo indietro. Eccola qui, la cosa che non aveva mai detto. Al processo, Cruciani affermò che Rossi aveva accettato a patto che lui segnasse due reti. E che poi divise con Rossi, Zecchini e Casarsa l’assegno da otto milioni. Bartolucci confermò il colloquio (in un secondo tempo ritrattò tutto). In un drammatico faccia a faccia con Cruciani, un Rossi imbarazzato si difese dicendo che l’incontro durò pochi secondi, il tempo di sbuffare e andarsene per poi rimproverare Della Martira di avergli “presentato dei balordi“. Ma la frase “poi ne parliamo con la squadra” non la riferì allora. Poteva peggiorare la situazione? Forse no. Perchè ora spiega: “Io pensavo alle solite partite che si concordano tra due squadre. Se a tutti va bene il pari, si pareggia. Ci sono sempre state nel calcio e sempre ci saranno, anche adesso. Ma al Calcioscommesse non ho pensato mai, non sapevo nemmeno che esistesse. La sera ne parlammo con la squadra ma nessuno era d’accordo, volevamo vincere, il punto non ci interessava. Sfortuna volle che pareggiammo 2-2, con due reti mie. Ma fu partita vera, basta andare a rivederla. Botte, tante, nessuno si è risparmiato. Altro che accordo“. Ma il processo, e la storia, l’hanno infilata tra le partite marce. “Quella domenica di marzo, nel famoso blitz agli stadi, giocavamo a Roma. Quando i carabinieri arrestarono Zecchini e Della Martira, io e i miei compagni ci chiedemmo cosa mai potessero aver combinato. Non ci sfiorava il pensiero che fosse collegato al calcio. Poi ho saputo e purtroppo sono stato coinvolto pure io. Ma durante tutto il periodo, dalla mia sospensione ai processi, ogni giorno pensavo: adesso salta fuori la verità, l’incubo finisce, non può che andare così. Ho vissuto come se tutto accadesse a un altro. Aspettavo il processo come una liberazione, invece… Lo giuro, mai ho immaginato di poter avere nemmeno un giorno di squalifica. Quando poi la Caf mi ha soltanto tolto un anno, mi è crollato il mondo addosso. Sono scappato a casa a Prato, e ho visto mio padre disperato e mia madre che piangeva: lì ho realizzato davvero cosa mi era capitato. Mi avevano tolto due anni di lavoro, due anni di vita. E ripensai alle parole di Simonetta, allora mia fidanzata: “Paolo, attento, ti vogliono incastrare”. Anche ora sono convinto di essere stato strumentalizzato. Federazione e giustizia sportiva hanno voluto usare la mano pesante: non potevano scagionare il più famoso e condannare gli altri“. Ripensa ai suoi compagni del Perugia. “Sono convinto che anche Zecchini fosse innocente. Della Martira? Un ragazzo piacevole, affabile. Qualcosa avrà combinato, per ingenuità. Facili guadagni? Ma erano cifre ridicole. Forse voleva farsi grande davanti a qualcuno facendo credere di poter truccare le partite. No, mai più visto nè sentito. Certo, un pò di rancore lo provo“. Paolo Rossi ride, ma dentro rivede l’inferno. E i pensieri girano come un vortice. Li butta lì, come vengono. “Quell’estate mi allenai qualche volta con il Vicenza (al Perugia era in prestito, ndr) ma senza voglia. Provavo disgusto per il calcio. Ho pensato di andar via dall’Italia, di smettere. Dissi: “Non mi vedrete più in nazionale”. Mi diedi all’abbigliamento sportivo, con Thoeni. Le cose peggiori? Il sospetto della gente, quegli sguardi… e le notti del sabato, sapendo che al risveglio non c’erano partite ad aspettarmi. Mi ha salvato la consapevolezza di essere innocente. E la Juve“. La Juventus: nel marzo 1981 acquista Rossi. Manca più di un anno alla fine della squalifica. “Boniperti mi chiamò: “Verrai con noi in ritiro, ti allenerai con gli altri, anzi più degli altri”. Mi sono sentito di nuovo calciatore. La lettera di convocazione adesso farebbe ridere. Diceva di presentarsi con i capelli corti, indicava cosa mangiare e cosa bere. Boniperti era un mago in queste cose. Quando arrivai mi disse: “Paolo, se ti sposi è meglio, così sei più tranquillo“. Mi sono sposato a settembre. L’avrei fatto lo stesso, diciamo che sono stato un pò spinto (ride, ndr). Comunque devo ringraziare lui, Trapattoni e Bearzot. Il Trap mi ha allenato con la sua grinta, ci ha messo molta dedizione, Bearzot mi chiamava spesso. Non mi faceva promesse ma mi incoraggiava a lavorare bene, perchè lui mi teneva sempre in considerazione. E arrivò il mese del ritorno, maggio 1982. La Juve gioca e vince a Udine, c’è anche Paolo Rossi in campo. Trapattoni dice: “E’ quello di un tempo”. E lui: “Non ricordavo più l’emozione di un partita vera. Due anni di silenzio mi hanno maturato. Proprio in questo momento mi dico: non c’è solo il calcio“. Ma per lui di calcio, e che calcio, ce ne sarà tanto. La nazionale che stenta in zona gol ha bisogno di lui, Bearzot lo chiama per i mondiali di Spagna. La memoria svolta sull’estate della gioia. “La convocazione me l’aspettavo, Bearzot aveva fiducia in me, in Argentina ero andato bene“. Ma le prime partite sono un disastro. Tre pari con Polonia, Perù e Camerun: qualificazione per differenza reti. Critiche, polemiche e Rossi che non segna. Anzi, è un disastro. “Non ero in forma, anzi. Un fantasma. Trovavo difficoltà a fare tutto, era anche un blocco mentale. Ma la fiducia dei compagni e del ct mi hanno dato una carica eccezionale. I ragazzi scherzavano sul fatto che mi reggessi a stento in piedi. Era importante anche la presa in giro. Per lo stress ero dimagrito 5 chili. Mi facevano stimolazioni elettriche alle gambe. E ricordo che il cuoco tutte le sere, alle 22.30, mi portava in camera un bicchiere di latte e una brioche. Finita ogni gara Bearzot mi diceva: “Stai tranquillo, ora preparati per la prossima”. Anche dopo la sostituzione col Perù. Eravamo un gruppo eccellente, la prova fu il silenzio stampa di Vigo. Accettavamo le critiche tecniche, ma non le cattiverie gratuite. Si scrisse di tutto: bella vita, casinò, Graziani che aveva perso 70 milioni. Che io e Cabrini stavamo insieme. Per fortuna io facevo la parte dell’uomo (ride, ndr). Non ne potevamo più di stupide illazioni e decidemmo di starcene zitti“. Dal silenzio alle vittorie. Strepitose: con Argentina, Brasile, Polonia e Germania in finale. Dalle figuracce a un gioco bellissimo. Dal fantasma Rossi al Pablito uomo mondiale. Sei reti, capocannoniere. “La gara con l’Argentina è stata decisiva, vinta giocando bene. Io non segnai, ma stavo meglio. Non pensavamo certo di vincere il mondiale, però ci convincemmo di poter giocare alla pari con chiunque. Forse nel ’78 eravamo più forti, io compreso, ma questa squadra era un concentrato di carattere. Il primo gol al Brasile, lo ricordo come il più bello della mia vita. Non ho avuto il tempo di pensare a nulla: ho sentito come un senso di liberazione. E’ incredibile come un episodio possa cambiarti radicalmente: niente più blocchi mentali e fisici. Dopo quel gol, tutto è arrivato con naturalezza. Ma non pensate che ci siamo goduti le vittorie. Una volta qualificati per la semifinale, Bearzot disse solo: “Pensiamo alla Polonia”. Sempre concentrati, sempre in apnea fino alla finale. Per questo forse il ricordo più nitido che ho è la sensazione al fischio finale contro la Germania. Eravamo campioni del mondo. Feci solo mezzo giro di campo coi compagni: ero distrutto. Mi sedetti su un tabellone a guardare la folla entusiasta e mi emozionai. Ma dentro sentivo un fondo di amarezza. Pensavo: “Fermate il tempo, non può essere già finita, non vivrò più certi momenti”. E capii che la felicità, quella vera, dura solo attimi“.
Mario Sconcerti per corriere.it il 10 dicembre 2020. Paolo Rossi era mio amico. Forse è per questo che non riesco a scrivere la sua morte. Non so scegliere tra i ricordi. Cominciare dai tre gol al Brasile è facile ma non mi sembra corretto. Paolo è stato molto altro, un uomo buono, un eroe dei tempi, leggero come una piuma e disinteressato alla sua bravura. La conosceva, e più passava il tempo e più l’amava. Ma non gli ho mai sentito dire una volta che è stato un grande giocatore. Prendersi poco sul serio era il suo modo allenarsi, quasi un clandestino dell’area di rigore, aveva imparato a nascondersi perché non aveva il fisico, arrivava come un tradimento, rubava un metro ed era gol. A Madrid, la notte del Mondiale, ne fece uno alla Germania indescrivibile senza moviola. Oriali mise da destra un pallone al centro che non sembrava niente di che. Cabrini, che marcava Kaltz, fu il primo a tuffarsi per andare a prenderlo. Foerster, un difensore magnifico e scolpito, capì il pericolo e si buttò per anticipare Rossi, ma quando aprì gli occhi, Paolo gli era già sopra le spalle e aveva colpito con la fronte. Era gol. Stavamo diventando campioni del mondo. Dalla tribuna non capimmo niente, si era visto solo un mucchio di uomini accartocciati e la palla in rete due metri più avanti. Ricordo che il grande Schumacher non fece in tempo nemmeno a muoversi. Poi, dalla polvere della terra, si alzarono al cielo le braccia magre di Rossi. Quello era il suo mestiere, rubare il tempo. Aveva grande tecnica, giocava benissimo a calcio e non aveva mai pensato di essere un centravanti. Ma quando G.B. Fabbri a Vicenza gli disse che il suo ruolo era quello, lui cominciò a studiarlo. Era magro, aveva un’altezza normale, poteva solo contare su controllo e scatto, colpo d’occhio, posizione. Finì per farlo meglio di chiunque altro. Ci sono stati anni in cui è stato celebre come i Beatles, ambasciatore di qualunque cosa. Lo invitavano dovunque, lo premiavano e lo ascoltavano come un reduce dallo spazio. Un giornalista che seguiva i ministri italiani mi raccontò che in Cina i diplomatici, per rompere il ghiaccio della conversazione ufficiale, parlarono un quarto d’ora di Paolo Rossi. In Brasile per quei tre gol lo hanno odiato, un sentimento reale, sincero, mai nascosto. Pochi anni dopo il mondiale Paolo fu invitato in Brasile per una partita di beneficienza. Giocò solo un tempo. Ogni volta che si avvicinava alle tribune con la palla gli tiravano di tutto, monete, noccioline, bucce di banana. Raccontava poi che un tassista, quando capì chi era, accostò e voleva imporgli di scendere. Paolo non sapeva arrabbiarsi, riuscì a trovare un compromesso. Il tassista non lo avrebbe portato a destinazione, ma solo riaccompagnato all’hotel da dove erano partiti. Paolo era soprattutto una bella persona. Diceva di sì a tutti, passava dagli inviti di Stato alle cene di paese. Era un allegro pensieroso, come i toscani furbi, che mandano via la malinconia con la voglia di passare il giorno, uno per volta. Stava dovunque ma era di pochi. Gli piaceva che tutto finisse a cena, col vino che faceva lui sulla collina di Bucine, sopra la valle dell’Arno, dove aveva preso dei ruderi e la terra e aveva trasformato tutto in un grande agriturismo, una quindicina di villette indipendenti, autosufficienti in tutto. Con intorno una grande piscina e il campo da calciotto. E una signora che faceva da cuoca nella vecchia cucina per chi ne avesse bisogno e solo se erano amici di Paolo. Di fianco la sua casa, quella con Federica, la moglie della maturità, che è riuscita a dargli tre figli in pochi anni facendolo padre quando era già nonno. Era stato un amore profondo Federica, così come il suo bisogno dei figli. A quasi sessant’anni si era abbandonato all’idea di quella deriva paterna. Non si faceva domande, cercava altre vite e le chiudeva nella sua collina fuori dal mondo, senza una casa intorno e col vino più buono da lì a Montalcino. Ha avuto molte cose in comune con Baggio: la popolarità, il Vicenza e i ginocchi. Paolo si operò tre volte già quando era un ragazzo nella Primavera della Juve. Allora si diceva che si era rotto il menisco, non c’era artroscopia. Per capire davvero dovevi aprire. Ed erano quasi sempre legamenti saltati. I dolori lo hanno accompagnato sempre, diventarono non resistibili. A ventotto anni smise di essere se stesso. A trenta chiuse la carriera. L’ultima prodezza erano stati due gol all’Inter con la maglia del Milan, gli unici due gol di quella stagione. Dopo divenne la memoria di se stesso. Cercò altre strade, non era uno che buttava via i soldi. Aveva una società a Vicenza con il suo vecchio compagno Salvi, assicurazioni, imprese edili. Aveva un figlio di quarant’anni che dava una mano. Non ha mai pensato di fare l’allenatore, il calcio non lo ha mai cercato troppo. Pesava troppo e non era di nessuno. Con la Juve aveva vinto un campionato segnando 13 gol, ma anche perso una finale di Champions. E comunque quella era la Juve di Platini, Boniek e Boniperti, non la sua. Non aveva retroterra come ex se non a Vicenza. Così è diventato opinionista, tanti anni a Sky altri alla Rai. Credo non fosse esattamente il suo mestiere, il calcio alla televisione fondamentalmente lo annoiava. Però con quell’aria quasi svogliata tirava sempre fuori un concetto ardito, sorprendente. Ha avuto un momento molto brutto nel 1980, quando prese due anni di squalifica per il caso delle scommesse clandestine. Lui lo racconta molto bene nei due libri sulla sua vita. Pensava si accennasse a uno di quei pareggi che erano convenienti a tutte e due le squadre. Non restò più di cinque minuti in quella compagnia, portato da un compagno mentre giocava a tombola. La domenica fece due gol, questo lo condannò, fece sembrare il pareggio convenienza. Ma di gol ne aveva fatti tanti anche prima. Il processo penale assolse lui e tutti gli altri giocatori, lui si fece in silenzio i due anni di squalifica. Il secondo lo passò ad allenarsi con la Juve che lo aveva rivoluto. Io lo attaccai spesso in quel periodo, ero un colpevolista. Quando ci ritrovammo a Torino a pranzo cercai di spiegare. Lui mise l’indice sul naso e mi pregò di stare zitto. «È finita. Restiamo amici». Perché Paolo era così, non voleva complicazioni, accettava tutto. Forse tutti noi non eravamo che piccoli elementi della sua voglia di vivere sereno, non tranquillo ma sereno. Come se un po’ per uno, tutti contribuissimo a difenderlo. Non si arrabbiò nemmeno quando in tutto il mondo le agenzia di stampa rimbalzarono la storia che lui e Cabrini erano fidanzati, nel senso vero del termine. Erano in camera insieme ai mondiali e amici di sempre. Un giornalista italiano scrisse che nell’ora di libertà Rossi e Cabrini stavano sul balcone mano nella mano come due fidanzatini. Era una battuta innocente, ma non esiste l’innocenza nella comunicazione di un mondiale. Il giorno dopo, quando andammo a prendere il Brasile all’aeroporto di Barcellona, la prima cosa che disse Socrates fu: «Ma è vero che Rossi e Cabrini sono maricones?». Cioè gay. Lui la prese così poco sul serio che venticinque anni dopo, al suo matrimonio, sulla collina, nel villaggio sopra Bucine, al tavolo con Cabrini, mi raccontò ridendo che a Vigo si erano messi paura: avevano avuto lo stesso fungo su parti opposte del torace, come se uno l’avesse attaccato all’altro. Ridemmo molto e continuammo a bere. Ciao Paolo, non dimenticarmi.
Paolo Rossi e la malattia, la moglie Federica: «La diagnosi dopo il viaggio alle Maldive, sembrava una cosa risolvibile». Marco Gasperetti e Marco Letizia su Il Corriere della Sera il 10/12/2020. Federica Cappelletti e la malattia del bomber del Mundial. Racconta Federica che Paolo non voleva andarsene da questo mondo che amava moltissimo e che quegli ultimi istanti di vita sono stati i più strazianti. Ha lottato sino alla fine, convinto di farcela. Forse voleva fare gol anche al destino, malgrado il pronostico avverso. Ci era già riuscito tante volte in campo. La moglie di Paolo Rossi, Federica Cappelletti, 48 anni, giornalista e scrittrice, ricorda che poco prima che il marito morisse tra le sue braccia in un letto dell’ospedale di Siena è riuscita sussurrargli una frase. «Sono sicura che l’ha capita», dice ora lei in lacrime.
Che cosa gli ha detto?
«”Sappi che io crescerò le nostre bambine e sarò vicina al tuo primo figlio Alessandro”, che in quel momento era accanto a me. Poi gli ho detto di portarsi via tutto il mio amore e quello dei figli e di cercare di stare bene, di essere felice per sempre. Ci siamo amati ogni giorno, siamo stati sempre vicini. E anche Paolo me lo ha ricordato nell’ultimo messaggio che mi ha scritto».
Cosa le aveva scritto?
«Le leggo il testo integrale: “Purtroppo non riesco a dormire e sono agitato, guardo le foto che mi invii e penso al nostro grande amore. Vorrei solo dirti grazie per quello che stai facendo, per me e per le nostre meravigliose bambine. Sei davvero unica per le energie che profondi e per l’amore che riesci a dare in ogni cosa. Spero che il Signore ti possa riconoscere tutto questo. Darti tutto quello che meriti”. Era la prima volta che non parlava anche di sé. C’era Dio ma Paolo non c’era più, anche se coscientemente lui era certo di potercela fare. L’altro giorno aveva visto il derby Juve-Torino alla tv come un tifoso».
Da solo?
«No, era ricoverato nel reparto di neurochirurgia e accanto aveva il primario Giuseppe Oliveri, lo stesso medico che ha operato Alex Zanardi, una persona speciale. Il professore Oliveri stavolta non era solo un dottore con il suo paziente, ma un appassionato di calcio. Lui tifava Torino e Paolo Juventus. Si sono divertiti molto».
Quando era stato ricoverato suo marito?
«Pochi giorni fa, ma tutto era iniziato un anno fa, improvvisamente, durante un viaggio alle Maldive dove avevamo deciso di rinnovare il nostro amore e di sposarci per la seconda volta, dopo la cerimonia nuziale del 2010 in Campidoglio a Roma. Sono stati giorni straordinari. Tornati in Italia, la diagnosi. Ma sembrava una cosa assolutamente risolvibile. Poi sono arrivati altri problemi».
Quali?
«Mio marito si è rotto il femore, è stato operato alla schiena. È stata una terribile escalation. Nella nostra casa di Bucine, in provincia di Arezzo, abbiamo cercato di superare i problemi e lui sembrava più forte di prima. Quindi l’ultimo ricovero al Policlinico Le Scotte: aveva il tutore, liquido nei polmoni, ma niente avrebbe potuto farci pensare a un epilogo così improvviso, nessuno in famiglia se lo aspettava, né io né le mie bambine».
È stato difficile dare loro la notizia della morte del papà?
«Sono tornata di notte a casa. Le ho abbracciate senza svegliarle. E stamani ho acceso la tv. C’erano le foto e i video del loro papà. Ho detto loro che Paolo è ovunque e che il suo ricordo meraviglioso sarà sempre nel loro cuore. Maria Vittoria ha 11 anni, Sofia Elena 8. Hanno pianto, ma sono bambine forti come il loro padre».
Come ha conosciuto Paolo Rossi?
«A Perugia nel 2003, a una presentazione del libro “Razza Juve” che avevo scritto insieme ad altri colleghi giornalisti. Non lo conoscevo personalmente ma lo avevo precedentemente chiamato per invitarlo alla presentazione. Mi aveva chiuso il telefono in faccia, ma poi era venuto, ci siamo conosciuti. Mi sono innamorata subito del suo sorriso, della sua generosità, della intelligenza con cui riusciva a vedere le cose. Con Paolo ogni momento è stato bello, e non è retorica. Anche questi giorni in ospedale lo vedevo sempre bello, il campione di sempre. Affrontava le cure con coraggio, la riabilitazione con volontà. Certo, il morale andava giù a volte, ma io ho sempre cercato di spingerlo a continuare a combattere. Era la partita della nostra vita, il nostro fatidico Mondiale. Ma stavolta non l’abbiamo vinto».
Ha già pensato al luogo dei funerali?
«Sì, sarà Vicenza, dove ha iniziato la carriera da campione. Dopo la cerimonia sarà cremato e l’urna starà sempre accanto a me».
Paolo Rossi ricorda Paolo Rossi: «Che dispiacere: quell’omonimia che mi ha portato fortuna (e qualche imbarazzo)». Il Corriere della Sera il 10/12/2020. «Stamattina mi sono arrivate telefonate, messaggi, whatsapp, come se fosse morto un mio parente. E chissà forse un po’ lo era». Uno strano lutto quello del secondo Paolo Rossi più famoso d’Italia, l’attore che imparammo a conoscere nei leggendari programmi in seconda serata su Raitre all’inizio degli anni’90. Dove uno dei suoi pezzi più celebri era proprio quello in cui scherzava sull’omonimia col calciatore scomparso, come quando veniva fermato dai carabinieri («ah lei è il fratello?» «Mi scusi ma come avrebbe fatto nostra madre a chiamarci allo stesso modo?»)
«Pa-o-lo Ros-si, Pao-lo Ros-si». «Oggi mi viene difficile scherzarci ancora, quando uno muore bisognare rispettare la giusta distanza. E ho pensato che non rifarò più quel pezzo, se non quando sarò molto vecchio e mi chiederanno una serata in suo onore» racconta Paolo l’attore, 67 anni, in una delle pause delle prove del nuovo spettacolo che sta preparando. Quel pezzo gli ha portato però fortuna a inizio carriera: «È stato uno dei primi sketch di stand up che ho fatto e che mi ha dato un po’ di spinta per intraprendere questo percorso». E quell’omonimia ha creato una serie di altri equivoci, prima che le apparizioni in tv gli dessero una fama diciamo autonoma: «Nell’estate del Mundial, i promoter giocavano su questo fraintendimento: ricordo una serata ad Ancona, i manifesti scritti a mano:”Questa sera cabaret mundial con Paolo Rossi” e poi la gente che lanciava oggetti quando scopriva la verità». Mundial che Paolo l’attore ricorda molto bene del resto: «Dopo il Brasile, andai in Piazza Duomo e non nascondo che mi fece un certo effetto sentire il mio nome scandito all’unisono: Pa-o-lo Ros-si, Pa-o-lo Ros-si».
Incontri cordiali. Perché il Paolo Rossi calciatore rappresentava molto per il Paolo Rossi attore (tra l’altro notoriamente interista, vedi altro celebre monologo su Beccalossi): «Beh, avrei dato tutti i miei spettacoli per segnare tre quei gol al Brasile. Un idolo , come per molti. Con cui mi sono poi incontrato più avanti, tre o quattro volte, in occasioni televisive. Incontri cordiali, rapidi, dove non abbiamo mai scherzato però su quell’omonimia. Anche perché in fin dei conti non ci sembrava così incredibile: sia io che lui, non abbiamo avuto bisogno di pseudonimi strani per farci strada, pur avendo il nome più comune di Italia. Per dire, c’era un altro Paolo Rossi noto, filosofo della scienza: capitava mi mandassero libri a suo nome ricordandosi di fantomatiche vecchie bevute insieme». E Paolo se l’immagina così l’altro Paolo, ora: «Stara sicuramente palleggiando con Maradona, chissà che spettacolo». Sarebbe proprio da farci un monologo...
Il dolore per la morte di Paolo Rossi tra ricordi e lacrime: «Un grande uomo, mai sopra le righe». Massimo Baiocchi giovedì 10 Dicembre 2020 su Il Secolo D'Italia. Anche la Camera dei deputati si unisce al ricordo di Paolo Rossi, che ha perso la sua ultima battaglia contro una lunga e inesorabile, malattia. Molti deputati, in apertura di seduta, intervengono per commemorare brevemente Pablito, tributando, in piedi, un lungo applauso all’eroe calcistico di Spagna 82.
Il grande dolore per Paolo Rossi. Il dolore colpisce tutti, dal mondo dello sport al mondo della politica e dello spettacolo. «Campione del mondo, Campione del mondo… Campione del mondo». Sono le uniche parole in cima alla foto più famosa di Paolo Rossi che Angelo Branduardi posta su facebook.
Lollobrigida: «Quando accadde l’impossibile». «Spagna ’82… accadde l’impossibile. Il mito di Paolo Rossi e di quella nazionale imparata a memoria ha segnato l’esistenza di una generazione. Quella squadra è stata simbolo moderno di una Nazione capace di cose straordinarie. A Dio Campione del Mondo!». Lo scrive su Facebook il capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, Francesco Lollobrigida.
Le lacrime di Boniek e Dossena. «Lo ammetto… piango. Facevi parte dei gruppo di “Amici Veri”… con Te non solo ho vinto… ma anche vissuto…». Sono le parole dell’ex attaccante della Juventus Zbigniew Boniek su Twitter. «Alla notizia», dice Beppe Dossena, «mi mancava l’aria e il fiato e sono dovuto uscire di casa. Ho avuto anche un rapporto particolare con lui, nel 1982-83 abbiamo fatto una campagna pubblicitaria insieme. Avevano un ristorante insieme, abbiamo passato le vacanze insieme a Ibiza e a Forte del Marmi. Siamo stati a casa di Miguel Bosè, sono tanti i ricordi».
Salvini: «Un campione, dentro e fuori». «Mamma mia, questo è stato un anno terribile, speriamo passi presto», dice Matteo Salvini a Radio Anch’io. Quella vittoria azzurra resta negli occhi di ogni italiano. «Avevo 9 anni ed ero al campo scout in Trentino, festeggiammo tutta la notte. Ricordo quella gioia pazzesca che regalò a tutti gli italiani e poi, da milanista, ricordo anche qualche gol segnato nel derby. È stata una persona eccezionale, mai sopra le righe, umile. Un campione in campo e fuori». Lo ha detto a ‘Radio Anch’io’ su Radio Raiuno il leader della Lega, Matteo Salvini, ricordando Paolo Rossi, protagonista delle vittoria azzurra ai mondiali di calcio di Spagna ’82.
Pietro Vierchowood: «In area di rigore…». «È stato un grande giocatore del Mondiale ’82. E soprattutto era una persona molto sensibile, una brava persona. Ci siamo visti nella Nazionale master. Era anche molto a modo, era un bravo “ragazzo” anche se aveva 64 anni. Il 2020 è stato un anno veramente infausto, nato male e finito peggio». È il ricordo di Pietro Vierchowod all’Adnkronos. «Rossi l’ho visto dagli esordi fino a quando ha smesso, era un centravanti atipico. Si vedeva poco durante la partita ma in area di rigore come arrivava il pallone faceva gol. Giocatori con queste caratteristiche di “rapina” non ce ne sono. Lui aveva la capacità di capire prima dove arrivava la palla anche dopo un rimbalzo o una carambola. È una grande perdita per il calcio mondiale. Avevo letto che non stava bene ma non pensavo che potesse lasciarci così presto».
«Paolo Rossi nei nostri cuori». «Nei nostri cuori, per sempre. Addio Pablito», scrive Matteo Renzi su Twitter. E Giovanni Toti aggiunge: «Gli italiani perdono il loro eroe del Mundial, Paolo Rossi. Il fuoriclasse timido ma implacabile che nel 1982 trascinò gli azzurri alla conquista della coppa del mondo. Addio Pablito, resterai nella storia dell’Italia più bella».
Zaia e Fontana, l’addio a Paolo Rossi. «Ciao grande campione. Riposa in pace». È il messaggio che insieme a due foto di Paolo Rossi, il presidente del Veneto Luca Zaia ha postato sul proprio. «Addio Paolo, in quel 1982 ci hai regalato un sogno. Riposa in pace’», dice a sua volta il governatore della Lombardia, Attilio Fontana.
Antonella Clerici: «Ci ha fatto sognare». «Anche Paolo Rossi se ne va in questo terribile 2020», dice Antonella Clerici. «Un uomo gentile, un indimenticabile calciatore che ci ha fatto sognare. Per sempre campione del mondo nel cuore di tutti gli italiani».
Matteo Nava per gazzetta.it il 10 dicembre 2020. Pronunci Paolo Rossi e pensi al Campionato del Mondo del 1982, al trionfo in Spagna della leggendaria Nazionale di Enzo Bearzot e ai suoi gol nei match decisivi dopo l’incerta fase a gironi. Il collegamento con il soprannome Pablito è immediato, logico, visto il tenore del successo azzurro e della terza stella mondiale nel cuore degli italiani. Ogni tanto, però, la logica inganna: Paolo Rossi, infatti, non è diventato Pablito nel 1982. L’attaccante ha sicuramente visto il suo nomignolo consacrato con i 6 gol in Spagna e il conseguente Pallone d’Oro, ma l’appellativo è già pronto all’uso da ben quattro anni: con la Nazionale di Bearzot del 1982 quel Pablito viene ripescato, perfetto per l’assonanza con la lingua della nazione ospitante. La realtà racconta però che nel 1978 il Mondiale è ospitato da un altro Paese ispanofono, l’Argentina. Gli Azzurri si fermano alle porte della finale, ma la prima fase a gironi (ce n’erano due in quel format) è memorabile, nel segno di Pablito. La squadra lo chiude a punteggio pieno contro Francia, Ungheria e Argentina. Nel match d’esordio contro i transalpini è proprio la punta del Lanerossi Vicenza a pareggiare il fulmineo vantaggio di Bernard Lacombe, permettendo poi a Renato Zaccarelli di completare il sorpasso a inizio ripresa. Anche nel 3-1 su i magiari il primo gol azzurro è di Paolo Rossi, mentre il delicato incrocio al Monumental contro la nazionale ospitante è deciso dal solo Roberto Bettega. Nella seconda fase a gironi arriva una sola vittoria per l’Italia - sull’Austria - con un 1-0 firmato proprio dall’attaccante che in quei giorni diventa Pablito. Essendo il talento più cristallino del Vicenza, infatti, Rossi riceve sempre uno speciale occhio di riguardo dalle testate regionali venete, in particolare Il Gazzettino. Il quotidiano non perde giustamente occasione di celebrarlo e Giorgio Lago, futuro direttore della testata veneziana, lo appella Pablito. Viene automatico, visto che si gioca in Argentina: il piccolo Paolo, o Paolino, a quelle latitudini si declina così. Come nei migliori romanzi, è con una sconfitta che si gettano le basi per un clamoroso successo e il caso vuole che anche quattro anni dopo il Campionato del Mondo si disputi dove Paolino è Pablito per eccezione, in Spagna. Convocato nuovamente da Bearzot tra le critiche (l’attaccante era fermo dopo la squalifica per calcioscommesse e il commissario tecnico rinuncia a Roberto Pruzzo per fargli posto), nello zoppicante girone iniziale Rossi rimedia solo un assist contro il Camerun, ma negli ultimi tre match ripropone quel suo soprannome a suon di gol, pesantissimi. L’indimenticabile tripletta al Brasile nel secondo girone, la doppietta alla Polonia in semifinale e la rete alla Germania al Santiago Bernabeu di Madrid, quella del vantaggio azzurro. Risultato: il titolo di capocannoniere del torneo, la Coppa del Mondo alzata al cielo, il Pallone d’Oro. E Pablito è tornato Pablito, per sempre.
Giampiero Mughini per Dagospia il 10 dicembre 2020. Caro Dago, ringrazio il cielo di poter usufruire della tua amicizia e della tua ospitalità a ospitare i miei pensierini in questo giorno per me luttuosissimo su tutti, il giorno attiguo alla morte di Paolo Rossi e di Elena Marco, amica cara e moglie di Mario Bellini, uno dei maestri della mia generazione. So che sulle tue pagine posso accostare i due personaggi diversissimi, e che sono invece tutt’uno nel giorno del mio dolore. Al momento della finale Italia-Germania al campionato del mondo del 1982, al momento in cui ho acceso il televisore ero solo in casa. Un’amica aveva ventilato la possibilità di esserci anche lei. Non s’era fatta più viva. Guardavo quella partita drammatica da solo e in silenzio. Nel primo tempo Antonio Cabrini aveva sbagliato un rigore che un po’ c’era e un po’ non c’era. Meglio così, a ragionare col senno di poi. I tedeschi che ci fronteggiano erano rocciosi. All’inizio del secondo tempo arriva una punizione a favore dell’Italia, a una decina di metri fuori dall’area tedesca. La batte Gentile, se non vado errato. Parte il cross, su cui si avventano cinque o sei fra italiani e tedeschi. Fra gli italiani Paolo Rossi che fisicamente non era strabocchevole per niente, solo che ce l’aveva dentro il cento per cento del tempo e dell’istinto del gol. Succede che in quell’avventarsi gli dia fastidio alla sua sinistra la presenza di un altro azzurro, mi pare fosse Cabrini, tanto che lui lo spinge via per trovare l’agio e il tempo di colpire di testa prima che gli arrivasse addosso lo stopper tedesco, il quale sino a quel momento aveva sotterrato tutti i punteros che aveva avuto contro, nessuno dei quali era riuscito a metterla dentro. E’ il gol più bello del Paolo Rossi “hombre del partido” nel Mundial 1982, il più importante e decisivo ancor più che i tre magnifici gol inflitti al Brasile. Dopo la partita (vinta dall’Italia 3-1 con i gol uno più bello dell’altro di Tardelli e Altobelli) scesi giù in strada a immettermi nel mezzo dell’ “assembramento” il più gioioso e spettacolare degli anni Ottanta, i ragazzi e le ragazze italiane che celebravano il terzo dei quattro mundial vinti dalla nazionale italiana. Ti ripeto, era lo spettacolo della gioia assoluta vissuta e condivisa da tanti. Da tantissimi. Irripetibile. Assolutamente irripetibile. Elena Marco, che di mestiere faceva la giornalista e che era la moglie del maestro Mario Bellini e che è morta lo stesso giorno di Rossi, era un po’ meno nota al grande pubblico. Solo che nel mio animo lei e Mario avevano e hanno lo stesso posto di Paolo Rossi in quella che è ai miei occhi la storia più avvincente del mondo, la storia della bellezza. La loro casa milanese era ed è uno dei musei del Novecento più belli d’Italia. Elena era triestina, e per me Trieste è una città molto più importante che non la Catania in cui sono nato. Tanto che ho scritto su Trieste uno dei libri miei di cui sono più orgoglioso. Quanto a Mario, un maestro forse meno citato che non Enzo Mari Ettore Sottsass Alessandro Mendini, ai miei occhi è stato per cinquant’anni un protagonista micidiale di quella storia del design moderno italiano di cui io sono un tossico dipendente. Appena disegnò il suo primo tavolo, non ricordo più se ultimi Cinquanta o primi Sessanta, subito vinse il primo Compasso d’Oro. Quando lavorava alla Olivetti - a fianco e in rivalità con Sottsass - Steve Jobs gli propose di venire da lui in America. Lui rispose di no, che gli piaceva l’Italia. Mario è stato in Giappone più che un centinaio di volte. E’ un maestro internazionale. Quando gli chiesi di disegnarmi il tavolo su cui sto battendo al computer, lui venne a casa mia. Si sedette accanto a me. Io gli spiegavo le mie necessità, lui con un occhio mi ascoltava e con una mano aveva preso a disegnare. Non mi fece pagare nemmeno un euro per il tavolo che adesso ospita il mio computer. Per garbo ed eleganza lui e Elena erano ospiti unici al mondo nella loro casa milanese nel centro di Milano. Elena era una giornalista accorta e consapevole. Nel mio telefonino ho i messaggi che ci scambiavamo, l’ultimo dei quali alcuni mesi fa in cui mi diceva che quanto alla sua “salute” me ne avrebbe parlato un’altra volta. Il segno garbato che le cose non erano le migliori possibili, anzi. Paolo (Rossi) ed Elena sono morti lo stesso giorno. Dio, il mio dolore. Dio che lutto per la bellezza del vivere e dell’essere l’essere privati di due personaggi così
IL RICORDO DI PAOLO ROSSI MORTO a 64 ANNI. Walter Veltroni su Il Corriere della Sera il 10/12/2020. Questo anno maledetto sembra voglia strapparci dalla vita che abbiamo vissuto ogni istante di gioia. Voglia toglierci il colore dei giorni in cui siamo stati felici, in cui ci siamo abbracciati. In questo mondo in bianco e nero, mascherato e distanziato, anche il ricordo della gioia diventa quasi eversivo, innaturale. Per Paolo Rossi, grazie a Paolo Rossi, gli italiani hanno vissuto il momento di allegria collettiva più importante che possano ricordare. Quattro anni prima che la meravigliosa nazionale di Bearzot vincesse i mondiali di Spagna Aldo Moro veniva rapito e ucciso, due anni prima la stazione di Bologna saltava in aria con il suo carico di corpi straziati. Erano anni di piombo. Non solo quello con cui si fabbricavano le pallottole che con grande facilità venivano conficcate nelle gambe o nel cuore delle persone ma quello che gravava sull’atmosfera della nostra vita che si era fatta grigia, scura, pesante. Poi arrivò quell’estate, l’estate del 1982. E tutto cambiò. Paolo Rossi fu il simbolo di quella impresa sportiva magnifica. Anche per lui, quelli appena trascorsi, erano stati anni di piombo. La sua magnifica carriera di goleador interrotta dallo scandalo del calcio scommesse, la squalifica, la mortificazione di una delle tante gogne pubbliche di questo paese. Tornò un giorno di maggio del 1982, dopo due anni in cui era stato fermo. Lui, con il suo corpo esile, le sue gambe magre e il suo talento per il gol. Tornò, dopo gli anni con il Lanerossi e il Perugia, con la maglia della Juventus, quel giorno inopinatamente blu. Tornò e segnò. Puntuale come un orologio. Un vecchio friulano, la faccia scolpita, lo aspettava. Enzo Bearzot, commissario tecnico della nazionale, lo aveva perso per gli infausti europei del 1980, ma non voleva succedesse lo stesso per i mondiali di Spagna. Lo aveva aspettato, memore delle meraviglie vissute con lui al centro dell’attacco in Argentina, dando a Paolo serenità e sicurezza. Quella nazionale era la più forte che io ricordi di aver visto. Eppure nel girone eliminatorio stentò e Paolo sembrava imbrigliato. Non un gol in tre partite, una stranezza per lui che ne segnava sempre, comunque. Non essendo potente fisicamente suppliva con una innata capacità di essere sempre dove bisognava essere, sembrava che il pallone lo cercasse per essere deposto in fondo alla rete. Alla fine del girone con Polonia, Perù e Camerun tutta la stampa si scagliò contro la nazionale, Bearzot e, in particolare, contro Rossi reo di non fare il suo mestiere, segnare. Furono usati toni belluini, secondo la cattiva abitudine di esagerare. Gli urlatori spesso sono poi costretti a rimpiangere di aver gridato. Così fu. Mentre tutti sgranavano il rosario e preparavano la consueta cassa di pomodori da tirare all’aeroporto pensando a quello che ci aspettava nei quarti avendo nel girone l’Argentina di Maradona e il Brasile di Falcao e Zico, i giocatori si ruppero le scatole, anche perché furono attaccati sul piano personale, e iniziarono un silenzio stampa. A incontrare i giornalisti andava ogni giorno il capitano Zoff, l’uomo più taciturno che si possa immaginare. La nazionale taceva e si preparava a due partite campali. Bearzot trasmetteva fiducia, specie a Paolo che era frustrato dall’assenza del gol e dagli attacchi subiti. Con l’Argentina ci pensarono quei due fenomeni di Tardelli e Cabrini, mentre Gentile imbrigliava Diego Maradona. Poi arrivò la partita, decisiva, con il Brasile. Segnatevi questa data. Cinque luglio del 1982, ore 17,15 nello stadio del Sarrià di Barcellona. E se vi capita andate a cercare su You Tube un bellissimo servizio di Michele Plastino girato dagli spalti, come un tifoso qualsiasi. Paolo segnò di testa, su cross perfetto di Cabrini, poi rubò un pallone ai brasiliani e volò verso la rete, infine aggiunse una zampata a un tiro di Tardelli segnando il gol decisivo. Se chiedete a chiunque era in età della ragione nel 1982 vi descriverà quelle azioni come se le avesse viste ieri. Poi i gol con la Polonia, in semifinale. Uno di astuzia, uno di testa, come inginocchiato in preghiera sul campo. Gli urlatori batterono immediatamente in ritirata e ovviamente diventarono aedi, perché in Italia in fondo è sempre l’otto settembre. Il reprobo Rossi diventò l’eroe assoluto, con la rapidità di un baleno. Gli italiani impazzirono per lui e per quella nazionale. E tornarono finalmente per strada, spezzando il piombo nel cielo e ritrovandosi abbracciati e uniti. Ebbri di una gioia bambina, come quella che lo sport sa dare. Poi arrivò la finale, quella in cui Pertini in piedi diceva “Non ci prendono più”. Una volta Paolo mi descrisse così quei momenti. Gli chiesi: “Se lei potesse rivivere un momento, uno solo, di quel mondiale, quale sceglierebbe? “Non ho dubbi. Il finale della finale. Mentre le parlo lo rivedo. Noi che facciamo il giro del campo, con la Coppa in mano e una gran confusione in testa. Io vengo preso dai crampi. Mi fermo, mi siedo sui cartelloni. Alzo lentamente la testa e vedo la folla, la gente che piange, le bandiere tricolori che sventolano, persone che si abbracciano e i miei compagni che sorridono. Tutto in una volta. Capisco che cosa vuol dire davvero la parola felicità. Mi piacerebbe poter fermare questo istante per sempre. Invece so che passerà, ma ora non ci voglio pensare. So che quella felicità è anche per merito mio. E mentre guardo quei sorrisi e quelle lacrime, seduto su quei tabelloni, mi tornano in mente le mie figurine, il primo pallone, la maglia giallorossa, l’oratorio, i miei con la Prinz che viaggiano verso Torino. E capisco che la gioia degli altri è anche merito della mia fatica, dei miei sacrifici e anche del dolore, tanto, patito in una strana carriera. Eccolo, il momento che vorrei rivivere”.
Noi, che quel momento abbiamo vissuto, ora proviamo solo un gran dolore e una grande riconoscenza per Paolo Rossi. Per il nostro Pablito. Mario Sconcerti su Il Corriere della Sera il 10/12/2020. Paolo Rossi era mio amico. Forse è per questo che non riesco a scrivere la sua morte. Non so scegliere tra i ricordi. Cominciare dai tre gol al Brasile è facile ma non mi sembra corretto. Paolo è stato molto altro, un uomo buono, un eroe dei tempi, leggero come una piuma e disinteressato alla sua bravura. La conosceva, e più passava il tempo e più l’amava. Ma non gli ho mai sentito dire una volta che è stato un grande giocatore. Prendersi poco sul serio era il suo modo allenarsi, quasi un clandestino dell’area di rigore, aveva imparato a nascondersi perché non aveva il fisico, arrivava come un tradimento, rubava un metro ed era gol. A Madrid, la notte del Mondiale, ne fece uno alla Germania indescrivibile senza moviola. Oriali mise da destra un pallone al centro che non sembrava niente di che. Cabrini, che marcava Kaltz, fu il primo a tuffarsi per andare a prenderlo. Foerster, un difensore magnifico e scolpito, capì il pericolo e si buttò per anticipare Rossi, ma quando aprì gli occhi, Paolo gli era già sopra le spalle e aveva colpito con la fronte. Era gol. Stavamo diventando campioni del mondo. Dalla tribuna non capimmo niente, si era visto solo un mucchio di uomini accartocciati e la palla in rete due metri più avanti. Ricordo che il grande Schumacher non fece in tempo nemmeno a muoversi. Poi, dalla polvere della terra, si alzarono al cielo le braccia magre di Rossi. Quello era il suo mestiere, rubare il tempo. Aveva grande tecnica, giocava benissimo a calcio e non aveva mai pensato di essere un centravanti. Ma quando G.B. Fabbri a Vicenza gli disse che il suo ruolo era quello, lui cominciò a studiarlo. Era magro, aveva un’altezza normale, poteva solo contare su controllo e scatto, colpo d’occhio, posizione. Finì per farlo meglio di chiunque altro. Ci sono stati anni in cui è stato celebre come i Beatles, ambasciatore di qualunque cosa. Lo invitavano dovunque, lo premiavano e lo ascoltavano come un reduce dallo spazio. Un giornalista che seguiva i ministri italiani mi raccontò che in Cina i diplomatici, per rompere il ghiaccio della conversazione ufficiale, parlarono un quarto d’ora di Paolo Rossi. In Brasile per quei tre gol lo hanno odiato, un sentimento reale, sincero, mai nascosto. Pochi anni dopo il mondiale Paolo fu invitato in Brasile per una partita di beneficienza. Giocò solo un tempo. Ogni volta che si avvicinava alle tribune con la palla gli tiravano di tutto, monete, noccioline, bucce di banana. Raccontava poi che un tassista, quando capì chi era, accostò e voleva imporgli di scendere. Paolo non sapeva arrabbiarsi, riuscì a trovare un compromesso. Il tassista non lo avrebbe portato a destinazione, ma solo riaccompagnato all’hotel da dove erano partiti. Paolo era soprattutto una bella persona. Diceva di sì a tutti, passava dagli inviti di Stato alle cene di paese. Era un allegro pensieroso, come i toscani furbi, che mandano via la malinconia con la voglia di passare il giorno, uno per volta. Stava dovunque ma era di pochi. Gli piaceva che tutto finisse a cena, col vino che faceva lui sulla collina di Bucine, sopra la valle dell’Arno, dove aveva preso dei ruderi e la terra e aveva trasformato tutto in un grande agriturismo, una quindicina di villette indipendenti, autosufficienti in tutto. Con intorno una grande piscina e il campo da calciotto. E una signora che faceva da cuoca nella vecchia cucina per chi ne avesse bisogno e solo se erano amici di Paolo. Di fianco la sua casa, quella con Federica, la moglie della maturità, che è riuscita a dargli due figli in pochi anni, (un altro lo aveva avuto dalla moglie precedente, Simonetta) facendolo di nuovo padre quando aveva già l'età per essere nonno. Era stato un amore profondo Federica, così come il suo bisogno di altri figli. A quasi sessant’anni si era abbandonato all’idea di quella deriva paterna. Non si faceva domande, cercava altre vite e le chiudeva nella sua collina fuori dal mondo, senza una casa intorno e col vino più buono da lì a Montalcino. Ha avuto molte cose in comune con Baggio: la popolarità, il Vicenza e i ginocchi. Paolo si operò tre volte già quando era un ragazzo nella Primavera della Juve. Allora si diceva che si era rotto il menisco, non c’era artroscopia. Per capire davvero dovevi aprire. Ed erano quasi sempre legamenti saltati. I dolori lo hanno accompagnato sempre, diventarono non resistibili. A ventotto anni smise di essere se stesso. A trenta chiuse la carriera. L’ultima prodezza erano stati due gol all’Inter con la maglia del Milan, gli unici due gol di quella stagione. Dopo divenne la memoria di se stesso. Cercò altre strade, non era uno che buttava via i soldi. Aveva una società a Vicenza con il suo vecchio compagno Salvi, assicurazioni, imprese edili. Aveva un figlio di quarant’anni che dava una mano. Non ha mai pensato di fare l’allenatore, il calcio non lo ha mai cercato troppo. Pesava troppo e non era di nessuno. Con la Juve aveva vinto un campionato segnando 13 gol, ma anche perso una finale di Champions. E comunque quella era la Juve di Platini, Boniek e Boniperti, non la sua. Non aveva retroterra come ex se non a Vicenza. Così è diventato opinionista, tanti anni a Mediaset, Sky altri alla Rai. Credo non fosse esattamente il suo mestiere, il calcio alla televisione fondamentalmente lo annoiava. Però con quell’aria quasi svogliata tirava sempre fuori un concetto ardito, sorprendente. Ha avuto un momento molto brutto nel 1980, quando prese due anni di squalifica per il caso delle scommesse clandestine. Lui lo racconta molto bene nei due libri sulla sua vita. Pensava si accennasse a uno di quei pareggi che erano convenienti a tutte e due le squadre. Non restò più di cinque minuti in quella compagnia, portato da un compagno mentre giocava a tombola. La domenica fece due gol, questo lo condannò, fece sembrare il pareggio convenienza. Ma di gol ne aveva fatti tanti anche prima. Il processo penale assolse lui e tutti gli altri giocatori, lui si fece in silenzio i due anni di squalifica. Il secondo lo passò ad allenarsi con la Juve che lo aveva rivoluto. Io lo attaccai spesso in quel periodo, ero un colpevolista. Quando ci ritrovammo a Torino a pranzo cercai di spiegare. Lui mise l’indice sul naso e mi pregò di stare zitto. «È finita. Restiamo amici». Perché Paolo era così, non voleva complicazioni, accettava tutto. Forse tutti noi non eravamo che piccoli elementi della sua voglia di vivere sereno, non tranquillo ma sereno. Come se un po’ per uno, tutti contribuissimo a difenderlo. Non si arrabbiò nemmeno quando in tutto il mondo le agenzia di stampa rimbalzarono la storia che lui e Cabrini erano fidanzati, nel senso vero del termine. Erano in camera insieme ai mondiali e amici di sempre. Un giornalista italiano scrisse che nell’ora di libertà Rossi e Cabrini stavano sul balcone mano nella mano come due fidanzatini. Era una battuta innocente, ma non esiste l’innocenza nella comunicazione di un mondiale. Il giorno dopo, quando andammo a prendere il Brasile all’aeroporto di Barcellona, la prima cosa che disse Socrates fu: «Ma è vero che Rossi e Cabrini sono maricones?». Cioè gay. Lui la prese così poco sul serio che venticinque anni dopo, al suo matrimonio, sulla collina, nel villaggio sopra Bucine, al tavolo con Cabrini, mi raccontò ridendo che a Vigo si erano messi paura: avevano avuto lo stesso fungo su parti opposte del torace, come se uno l’avesse attaccato all’altro. Ridemmo molto e continuammo a bere. Ciao Paolo, non dimenticarmi.
Paolo Rossi, l’ultima intervista al Corriere. «Volevo fare l’astronauta, ho messo la famiglia prima di tutto». Gaia Piccardi su Il Corriere della Sera l'11/12/2020. Il 2 marzo il grande bomber dell'Italia si raccontava: «Colleziono i cimeli dell'Italia del Mondiale, volevano comprarli tutti ma non li vendo. Ai figli ho insegnato la semplicità». Il 2 marzo scorso, alla sua maniera, guidando scanzonato tra le colline di Bucine con la linea che andava e veniva, Paolo Rossi ci aveva dato questa intervista. Era destinata a un inserto del Corriere della Sera che, causa lockdown, non ha mai visto la luce. La pubblichiamo perché, dentro, c’è tutto Pablito. Origini, amori, sogni realizzati e ancora da sognare. L’insostenibile leggerezza dell’essere Paolo Rossi: da Prato al mondo senza prendersi troppo sul serio. «Sono nato in casa di domenica alle tre, mentre mio padre ascoltava la telecronaca della Fiorentina», racconta in «Quanto dura un attimo», la biografia firmata con la moglie Federica Cappelletti. Il destino già scritto di un Paolo Rossi non qualunque. Sono passati 38 anni dal giro di campo al Bernabeu accanto a Zoff serissimo, Causio a petto nudo, Selvaggi e Massaro con la tuta delle riserve, Tardelli rauco per l’urlo, Bergomi baffuto, Bearzot venerabile vecio. La notte più bella della nostra vita. E della sua.
Come è stata l’infanzia di un bambino venuto al mondo il 23 settembre ‘56, l’anno dei Giochi di Cortina, della prima seduta della Corte Costituzionale, dell’Oscar alla Magnani, dell’affondamento dell’Andrea Doria?
«Felicissima. Papà Vittorio ragioniere in una ditta di tessuti, mamma Amelia sarta. La casa era un porto di mare: io entravo e uscivo per andare nel campo di ulivi, lì accanto, a giocare a pallone».
Mai avuta la tentazione di diventare qualcos’altro?
«L’idea di fare l’astronauta l’ho avuta: l’immagine di Neil Armstrong sulla luna, il 20 luglio ‘69, mi rimase scolpita dentro. Avevo 12 anni. Nonno, ma come hanno fatto? E lui: hanno asfaltato la strada e sono andati su… Geniale!».
Che potere esercitò su di lei un pallone che rotola?
«Essere magrolino non è mai stato un impedimento: era un calcio diverso, si poteva sopperire con altre doti. Quando mi sono diplomato in ragioneria, ho letto negli occhi dei miei il desiderio che mi trovassi un posto sicuro, con la tredicesima e la quattordicesima a fine anno: la banca. Ma io volevo il calcio».
Il sacrificio più grande?
«I sacrifici li fa chi lavora in miniera. Il calcio è stato prima un piacere, poi una graditissima professione. Il sacrificio lo fece la mia famiglia: vedermi uscire di casa a 15 anni, senza sapere se e quando sarei tornato. Mia madre so che ha sofferto. Ma lì prevalse il bene per il figlio: lasciamolo fare la sua strada, si disse».
Moderna, mamma.
«Mah in realtà eravamo una famiglia tradizionalista, però i miei non sono mai stati invadenti. Un miracolo, se penso a certi genitori oggi».
Come li ricompensò con i primi guadagni?
«Alla Juve comprai una Fiat 127 per papà, scontata al 50%. Ma il nostro affetto non è mai stato fatto di cose materiali. Si viveva, molto dignitosamente, di quello che c’era».
Quali valori dei suoi genitori ha voluto passare ai figli?
«La semplicità: per me è un valore. I miei erano così facili da leggere, da interpretare: onesti, con principi importanti. E così sono io con i miei tre figli. Da papà ho preso la precisione nel fare le cose, da mamma volontà e bontà».
Paolo Rossi è un papà ingombrante?
«In famiglia ho sempre cercato di sminuire le conquiste dello sport, però senza sentirmi in colpa: mi piaceva il calcio e ho provato a vincere tutto quello che potevo. Alessandro ha 38 anni, è nato nell’anno del Mundial: forse è quello che ha patito di più la mia popolarità. Maria Vittoria e Sofia Elena sono cresciute con il Pallone d’oro come soprammobile, scherzandoci sopra».
Di cosa va più fiero?
«Della famiglia, e non è retorica. Se sei sereno dentro casa, hai tutto. Alla fine è la vita quotidiana che ti riempie, non un Mondiale, per quanto straordinario. Quello evapora. Ho il privilegio di poter fare ciò che mi piace: la scuola calcio, l’agriturismo, il vino, la tv, il cda del Vicenza Calcio».
Il cimelio a cui è più legato?
«La maglia azzurra numero 20 della partita contro il Brasile, quella della tripletta al Mundial. Ho raccolto i cimeli in una mostra itinerante, due tir che vanno in giro per l’Italia. Ho richieste da Dubai!».
Tornando indietro rifarebbe tutto, Paolo?
«Ogni singola cosa. A cercare il pelo nell’uovo vorrei rigiocare il Mondiale ‘78 in Argentina: quell’Italia in finale poteva arrivarci. Però è vero che il Mondiale perso è servito a vincere il titolo nell’82, che tanta gioia ha regalato».
E tra mille anni come vorrebbe essere ricordato?
«Come Pablito. O Paolorossi. Tutto attaccato».
Intervista di Giancarlo Dotto a Paolo Rossi per "Diva e Donna" – dicembre 2019. Dal suo rifugio protetto della Valdarno, Paolo Rossi arriva per quello che è, un uomo amabile e carezzevole, conciliato con il mondo anche quando il mondo si manifesta incomprensibilmente crudele (ne sa più di qualcosa, Pablito). Minimalismo tanto più seducente, il suo, per quanto gli fa da contraltare il boato di trofei, medaglie e titoli sparsi. A 63 anni, il ragazzo si guarda intorno e trova quello che ama, nulla di più da chiedere alla vita. La campagna toscana, la moglie Federica, le due figlie, Maria Vittoria e Sofia Elena, 10 e 8 anni. Più lontano ma vicino Alessandro, il figlio nato dalla prima moglie Simonetta nell’82, lo stesso anno in cui il padre diventò una star mondiale. Capitai l’anno dopo a Tokyo e non credevo ai miei occhi quando un cuoco di Shinjuku mi mostrò umido di commozione la foto di Pablito che teneva sotto il cuscino. Paolo Rossi è così, prendere o lasciare, io prendo. La vita poteva fare di lui un onesto ragioniere o un prete ispirato, ne ha fatto un campione del mondo, un pallone d’oro, ma il suo modo di stare al mondo non è cambiato. L’immagine che più di tutte lo racconta: papà e mamma che si fanno quasi mille chilometri per andare a trovarlo, da Prato a Torino, andata e ritorno, con la loro vecchia Nsu Prinz e il santino sul cruscotto. “Quanto dura un attimo” (Ed. Mondadori), ottima strenna per tutti ma soprattutto per i tanti che quella notte si sono buttati nelle fontane di tutta Italia, conferma l’atrofia rassicurante del suo ego. Un’autobiografia in terza persona, già questo una rarità, scritta da Federica Cappelletti, moglie e complice, giornalista e scrittrice. La mano femminile c’è tutta nel raccontare un mondo che più maschio non si può. Dal Paolino dei primi gracili dribbling dell’oratorio al celebrato Pablito del Santiago Bernabeu, fino al precocissimo ritiro. “Quanto dura un attimo”. Titolo molto pertinente. Il tuo era il calcio dell’attimo fuggente. Il passo del tempo rubato nel jazz. “Fa riferimento a questo. Anticipare l’attimo, il pensiero, l’avversario. Io ero un centroavanti atipico, non avevo il fisico di Cristiano Ronaldo. Dovevo prevalere con la testa prima che col fisico. Quasi tutti i miei gol nascono così”.
Chi è il signore che sta abbaiando con questo entusiasmo?
“Si chiama Black, un bastardino. Ma noi qui abbiamo uno zoo, dentro e fuori, un pastore maremmano, due pony, le galline…”.
Si dicono cose paradisiache del vostro agriturismo a Poggio Cennina.
“È soprattutto Federica che ci si dedica. Viviamo qua con le due bimbe da undici anni. La qualità della vita è ottima. Non cambierei questo posto con nessun altro al mondo”.
Come ti hanno convinto a raccontarti?
“È stata Federica. Lei il mondiale dell’82 non l’ha vissuto. Era una bambina di dieci anni. I miei racconti l’hanno sempre affascinata e incuriosita. Pensare di farne un libro, ripercorrendo la mia vita, è venuto naturale”.
Quindici anni di calcio e una storia incandescente, tra abissi e paradisi. A cominciare da quando eri un ragazzo alla Juve. Tre menischi in tre anni. Un record planetario.
“Oggi i menischi sono una sciocchezza, ma allora erano guai seri. Stavi fermo dei mesi. Nonostante ciò ho fatto in tempo a esordire con la Juventus a diciassette anni”.
La fama era quella del talento fatto di vetro, dunque inaffidabile.
“Mi ero posto un limite. Riuscire a giocare con continuità e capire quello che sarei riuscito a fare. La mia grande fortuna fu andare a Vicenza a vent’anni. Ci ho vissuto più di vent’anni, ho ancora casa lì, in primavera mi daranno la cittadinanza onoraria”.
Marco Tardelli, altro eroe dei mondiali, ha scritto il suo libro con la figlia Sara. Mi raccontava di come l’avesse tormentato per indurlo a raccontare.
“Nel caso nostro è stato il contrario. È stato tutto molto facile. Siamo stati su anche la notte a scriverlo. Federica è una che si butta nelle cose con passione. Senza di lei non l’avrei mai fatto. Ci ha molto aiutato l’enorme archivio storico che tengo qui a casa”.
La passione travolgente per il pallone fino a che l’hai giocato. Oggi fai l’opinionista in Rai. Sbaglio se dico che a guardarlo, il calcio, sembri molto meno coinvolto?
“Non sbagli. Se è una partita bella partecipo, altrimenti mi annoio. Non sono un appassionato dei dettagli. Prendo appunti per il mio lavoro, ma non sto lì a studiare e ad approfondire maniacalmente. Il calcio oggi non è la mia unica ragione di vita”.
Cosa ti coinvolge oggi?
“La famiglia su tutto. Prima viaggiavo spesso, oggi ho rallentato per stare con loro. Agriturismo a parte, faccio tante cose. Mi restano la scuola calcio e la mostra itinerante che gira per l’Italia da tre anni con tutti i miei cimeli. Aggiungi la collaborazione anche affettiva con il Vicenza calcio e l’attività vinicola che ho con mio figlio”.
L’idea di fare l’allenatore ti ha mai sfiorato?
“Mai. Non sono caratterialmente portato. Fare l’allenatore oggi è un mestiere totalizzante. Dover gestire più di venti professionisti a certi livelli, bisogna essere molto duri dentro e fuori”.
Mourinho è il prototipo dei duri.
“Gli allenatori di oggi, i più grandi, li vedo tutti arrabbiati, nervosi o molto pensierosi, se non depressi. Devo ancora incontrarlo un allenatore felice”.
Ti ha impressionato la storia di Ancelotti a Napoli?
“Mi dispiace per lui, Carlo è un amico. Ecco, lui è un’eccezione. Pacato, corretto, sempre equilibrato, anche nei frangenti più duri. Resta la sua carriera straordinaria”.
Che padre sei?
“Molto affettuoso. Avere due bambine a più di cinquant’anni vuol dire molto. Hai più gioia, più consapevolezza, più attenzioni. Con Alessandro, sei mesi l’anno li vivevo lontano da casa”.
Hai avuto tre grandi padri putativi. Bearzot su tutti, Fabbri e il presidente Farina.
“Fabbri è stato il primo. L’allenatore che più mi ha seguito e insegnato. L’ho vissuto come un papà. A Vicenza, con lui, era una gioia allenarmi. Il presidente Farina vedeva i giocatori come un business, ma su di me ha mollato. “Sei l’unico giocatore che ho amato”, mi ha detto”.
Dimmi di Enzo Bearzot. C’eri anche tu il giorno del suo funerale, con Zoff, Cabrini, Tardelli e Conti, a portare il feretro sulle spalle.
“Bearzot aveva un carattere spigoloso, per niente facile. Entrava a gamba tesa quando doveva. Le cose non te le mandava a dire. Ma era un uomo di una lealtà assoluta. Prima dei mondiali ’86 mi chiamò e mi disse: “Ti porto con me perché fai gruppo, ma non ti farò giocare”.
Ti è stato molto vicino anche nella vicenda del calcio scommesse.
“Ha voluto sapere da me tutta la storia, guardarmi negli occhi e avere la conferma che non c’entrassi niente. Avesse avuto il minimo dubbio non mi avrebbe chiamato per i mondiali. Per lui le doti morali erano più importanti di quelle tecniche”.
Eri il suo preferito?
“Lui non aveva preferenze, difendeva tutti. Forse, in cuor suo, aveva un legame speciale con Zoff. Avevano le stesse radici, la stessa estrazione”.
Hai smesso giovanissimo. Poco più che trentenne.
“I danni alle ginocchia erano una storia che mi portavo dietro da ragazzo. Ancora oggi mi fanno malissimo, non ce la faccio nemmeno a corricchiare. Oggi il calcio è completamente cambiato. Penso a Ibrahimovic trentotto anni, Ronaldo trentacinque. Sono ancora dei ragazzi...”.
Di quel gruppo mitico è mancato anche Gaetano Scirea.
“Tutto il bene che puoi dire di lui è sempre troppo poco. Era un modello per tutti. Un grande giocatore e un ragazzo buono che si faceva voler bene da tutti. Mai una parola di troppo”.
Una persona esemplare e una fine atroce. Storie così non fanno vacillare la tua fede?
“I dubbi ti vengono, ma resto convinto che dopo questa vita ce ne sia un’altra. Diamoci una speranza, altrimenti quale sarebbe il senso di tutto questo? E comunque, la chiesa e la fede mi danno tutt’ora un senso di tranquillità”.
Tua mamma Amelia, tuo fratello Rossano in tribuna quella sera della finale al Santiago Bernabeu, vicini a Sandro Pertini. Non c’era tuo padre Vittorio.
“Me li portò a Madrid il sindaco di Prato. Papà rimase a casa, a guardarla in televisione. Non si fidava degli aerei. Ho avuto due genitori meravigliosi, mai ingombranti. Mio padre, soprattutto, era molto riservato. Amava il calcio, ma non è mai entrato nelle mie vicende”.
La vicenda della squalifica. Due anni fuori dal calcio. Hai rischiato la depressione?
“Mai. Le cose nella vita ti succedono, positive e negative, e non puoi farci niente. Quella fu orribile. Hanno estratto un numero e sono uscito io. Mi ha salvato avere la coscienza pulita. Mi hanno tolto due anni di vita, ma poi sono stato ripagato con gli interessi”.
Torniamo indietro. A quel giorno. Stavi in ritiro con il Perugia…
“Viene da me un compagno e mi fa: ti presento un signore. Questo mi dice: i giocatori dell’Avellino sarebbero d’accordo sul pareggio e tu potresti fare uno o due gol”.
E tu?
“Risposi che io da solo non sarei in grado di fare niente. Il tutto durò un minuto, questo è stato il mio contatto. La sera parlammo e nessuno della squadra era d’accordo. Io feci due gol, pareggiammo, ma fu una partita normale. Mai saputo che c’era questo giro di scommesse dietro”.
Avresti potuto segnalare il tentativo di combine…
“Avrei dovuto denunciare il mio compagno. Non è nella mia indole. La beffa vuole che riprendo a giocare per il mondiale, lo vinciamo grazie anche ai miei gol e vengono condonate le squalifiche di tutti gli altri”.
La tua amicizia con Antonio Cabrini. Ci hanno ricamato sopra all’epoca. Allusioni pesanti di omosessualità.
“Con Antonio ci conoscevamo da sempre. Ai mondiali stavamo in stanza insieme, quel giorno ci affacciamo sul davanzale e ci scattano una foto. Fanno un pezzo ironico su di noi, Pablito l’hombre e Cabrini la muchacha. I giornali stranieri riprendono la cosa e ne fanno un gossip mondiale”.
Giornalisti felloni. Il destino vuole che ti sposi poi proprio una giornalista.
“Ho sposato una donna bella e intelligente che con il calcio c’entra poco. Oggi, poi, si occupa d’altro”.
Mick Jagger in concerto a Torino nell’82 che si presenta con la maglia numero 20 di Paolo Rossi.
“Fantastico. Ha pure indovinato il risultato della finale. “Stasera vincete 3 a 1”. Un mito”.
Il più forte con cui hai giocato?
“Ho avuto la fortuna di giocare con Michel Platinì, il più bravo di tutti. Tra gli avversari, Maradona il più grande, dopo di lui Zico”.
Il tuo cordone ombelicale è ancora seppellito nel giardino di casa?
“Penso di sì. Era usanza fare così nelle famiglie vecchio stampo. Venivano i miei fans all’epoca a chiedere di averlo come cimelio”.
Si parla poco di donne nel libro.
“La parte del leone all’epoca la facevano Antonio Cabrini e Marco Tardelli”.
Si parla poco anche della tua prima moglie, Simonetta. Fai capire che il matrimonio fu quasi imposto dalla Juventus.
“Imposto no, suggerito e forse anticipato. Magari l’avrei fatto l’anno dopo”.
Era vero amore o un calesse?
“Poi si è rivelato un calesse. Sai, eravamo così giovani, però siamo rimasti in buoni rapporti”.
Cosa ti lega a Federica?
“L’amore che resta intatto dopo quindici anni. Penso di aver fatto la scelta giusta. Stiamo davvero bene insieme”.
Tardelli nel suo libro scrive che eri il più taccagno del gruppo.
“È bugiardo. Mi sa che lo querelo. Quando stiamo insieme sono sempre io a offrire. La storia nasce dal fatto che mangiavo le caramelle e lui sosteneva che le scartavo in tasca per non dividerle. Marco ha mentito, ma gli voglio bene lo stesso”.
Rossi, Zoff e quei giorni condivisi: "Ho saputo, e mi è mancato il fiato". Matteo Pinci su La Repubblica l'11/12/2020. Intervista al portiere, capitano dell'Italia '82 e della Juventus: "Paolo era davvero divertente". "Mi ero appena svegliato, ho acceso la tv e ho visto il tg. E mi è mancato il fiato". La notizia della morte di Paolo Rossi l'ha appresa così Dino Zoff. Di quell'Italia del 1982 era il capitano, le sue mani sulla coppa sono uno dei due simboli di quel trionfo, insieme ai gol di Pablito.
Zoff, vi eravate sentiti negli ultimi giorni?
"E' un colpo notevole, e alla mia età fa ogni volta più male. L'ultima volta ci eravamo visti lo scorso anno: lui era a Roma per uno dei suoi impegni in tv e mi aveva chiamato ed eravamo andati a cena al Circolo Aniene, io, lui e Tardelli. Una serata bellissima, come una volta: ci eravamo presi in giro, avevamo scherzato sui comportamenti, sai loro sembravano ragazzini, con questi telefonini, le attrezzature elettroniche a cui io non riesco a stare dietro. Ma avevamo un feeling particolare, come ha solo chi ha vissuto qualcosa di irripetibile".
Lei e Pablito siete stati forse i due simboli del Mundial del 1982, ne parlavate?
"Non solo siamo stati i due simboli, ma quelli con più pressione addosso. Entrambi ci sentivamo responsabili delle critiche che venivano rivolte al ct Bearzot per averci convocato: io per l'età, Paolo perché veniva da un anno in cui non aveva giocato".
E Rossi ne soffriva?
"Certamente la sentiva tanto. Avvertiva forte questa pressione, ma è meglio dire responsabilità di dimostrare che la scelta di puntare su di lui fosse giusta. Anche perché entrambi eravamo fortemente legati al Vecio: con lui non c'era blocco Juve o altro, c'era la Nazionale, una squadra. Era un uomo che sapeva tenere il gruppo, puntando su una cosa, sempre: l'educazione".
E con lei ne parlava, si confidava?
"No, ma era una sensazione che aleggiava, poi col silenzio stampa che appesantiva ancora il clima. C'era un'aria tesa, che poi proprio Paolo trasformò in una festa con i tre gol al Brasile che fecero esplodere l'entusiasmo: quello della gente in Italia, certo. Ma anche il nostro eh".
In più eravate legati anche dalla maglia della Juventus.
"A volte ancora mi chiamava capitano, ma mica per rispetto, per prendermi in giro. Appena capitava a Roma, per delle promozioni o per commentare una partita, cercavamo di organizzare per vederci: erano momenti belli, intensi, profondi. Avevamo un bel rapporto, e poi Paolo era davvero una persona straordinaria: un generoso, e poi simpatico, fresco. Forse non lo sa, ma c'è una cosa che non gli mancava: l'ironia. Paolo era davvero divertente".
Quando vi siete visti l'ultima volta non stava ancora male?
"Era qualche tempo che non ci sentivamo, non ero del tutto al corrente della sua malattia, non sapevo che le condizioni fossero peggiorate così tanto. È stato un colpo inaspettato, dolorosissimo: credo non volesse farlo sapere per discrezione, per proteggere la sua intimità. E della sua famiglia".
Paolo Rossi, la struggente lettera di Roberto Baggio. Notizie.it l'11/12/2020. In questa lettera scritta a cuore aperto Roberto Baggio ricorda Paolo Rossi, grande idolo d'infanzia e amico. In una commovente lettera a cuore aperto Roberto Baggio scrive al compianto Paolo Rossi, idolo d’infanzia del divin codino. In questo flusso di coscienza, Baggio racconta i suoi sogni di diventare un grande campione sulle orme di Pablito: “Facevo 12 chilometri in bici per venire a vederti. Ti imitavo per poter diventare come te“. Tutta l’Italia è in lutto per la scomparsa di Paolo Rossi, soprattutto il grande Roberto Baggio che sulla Gazzetta dello Sport ha voluto pubblicare una lettera in cui a cuore aperto parla del suo idolo di infanzia. ” Paolo, PABLITO, PAOLO ROSSI, quasi si dovesse sempre chiamare con nome e cognome: lui non era Rossi lui è, e sempre sarà, PAOLO ROSSI. Tornano in superficie i dolci ricordi di quando avevo 10 anni, conservati per decenni in uno dei tanti album della mia memoria“, così inizia il divin codino. “Con il mio adorato papà Fiorindo, mancato solo qualche mese fa, percorrevamo quasi 12 chilometri, in due su una bicicletta, per andare allo stadio Menti a vedere il grande Paolo Rossi. Poi, per tutta la partita, mi aggrappavo alla rete per vederlo giocare e segnare“. Tanta ammirazione e affetto per Pablito, trasformate poi nell’ambizione di diventare come lui, nel replicare le sue gesta: “Pensavo che un giorno avrei anche io giocato in quello stadio, imitando Paolo Rossi avrei potuto realizzare quanto lui è riuscito a realizzare. Vincere un campionato del mondo in finale contro il Brasile. Come Paolo Rossi ha fatto contro la Germania. Vincere il Pallone d’oro. Come Paolo Rossi”. A quasi fine lettera, Baggio parla di un incontro quasi fortuito avvenuto in Cina, dove ovviamente oggetto della conversazione non poteva che essere il calcio: “Un meraviglioso viaggio in Cina recentemente ci ha fatto rincontrare. Abbiamo parlato a lungo su quanto avessimo vissuto in comune, e su quanto si sarebbe dovuto fare per un futuro migliore. Soprattutto nel calcio”. In conclusione, un ultimo e dolcissimo saluto all’amico scomparso, e a quel sorriso che ha reso Paolo Rossi un’icona immortale del nostro calcio: “Ciao Paolo, chissà se infilerai le tue scarpette da calcio quando sarai in cielo. Spero che il tuo sorriso arrivi anche li. Noi qui lo ricorderemo a lungo“.
Indimenticabile, grande Pablito: il ricordo di Paolo Rossi. Paolo Rossi è stato il punto più luminoso di quella rivoluzione «cultural-calcistica» messa in opera da Enzo Bearzot a cavallo fra gli anni ‘70 e gli anni ‘80. Fabrizio Nitti su La Gazzetta del Mezzogiorno l'11 Dicembre 2020. È il 5 luglio del 1982 (anno indimenticabile) e al «Sarrià» di Barcellona fa caldissimo. Il cross di Cabrini «gira» da sinistra a destra, profondo, nell'area brasiliana. Lacera la difesa dei sudamericani, la prende alle spalle. Dietro a tutti c'è lui, Paolo Rossi. In quei pochi secondi, dalla palla che lascia il piede di Cabrini fino all'impatto con la testa e il gol, c'è tutto «Pablito». C'è tutta la storia dell'attaccante più forte che il calcio italiano abbia mai conosciuto. In quel preciso istante nasce il «Mito». Rossi diventa Rossi, quello che ha affossato il Brasile in semifinale e lanciato l'Italia verso il titolo di campione del Mondo. Quello che fu costretto a scendere da un taxi, in Brasile, perché riconosciuto come il «killer» dei carioca anche a distanza di anni. Dannato, dannatissimo 2020. S'è portato via anche il «Re Mida» delle aree di rigore, dopo «el pibe de oro», oltre a migliaia di persone incolpevoli. Speriamo finisca presto, questo disgraziatissimo anno. Paolo Rossi è andato via in silenzio, vinto da un avversario ancora, purtroppo, ingestibile. Un uomo perbene, oltre che un fuoriclasse, etichetta che mai ha fatto pesare. Un uomo dal sorriso contagioso e dai modi pacati. Paolo Rossi è stato il punto più luminoso di quella rivoluzione «cultural-calcistica» messa in opera da Enzo Bearzot a cavallo fra gli anni ‘70 e gli anni ‘80. Quando l'Italia scelse di rifondarsi e di ripensarsi in maniera decisa dopo la cocente delusione di Germania 1974. Un po' come quello che sta accadendo di questi tempi con gli Azzurri di Mancini. I Mondiali del 1978 in Argentina hanno consegnato alla storia del pallone italiano, la miglior Nazionale in fatto di qualità di gioco. C'è poco da discutere. Perfino l'Italia-Mondiale del 1982 e quella di Lippi del 2006, pur giocando un buon calcio, sono state inferiori quanto a varietà di schemi e proposta di gioco. Di calciatori come Rossi non ne sono più nati. Certo, qualcuno ha provato ad assomigliargli. Pippo Inzaghi, ad esempio, uno che ha fondato la sua carriera da calciatore vivendo perennemente in bilico fra la vita e il fuorigioco. Ma «Pablito» resterà un dipinto unico nel panorama del calcio italiano. Come l'urlo di Tardelli (Pertini show in tribuna) nella finale Mondiale del 1982. Veloce, intuitivo, mentalmente un passo avanti a tutti, difensori e compagni. Chi lo aveva in squadra se lo teneva stretto, chi lo trovava da avversario provava a fare altrettanto, senza riuscirci. Chi non lo ha visto giocare dal vivo s'è perso uno spettacolo. Compariva dal nulla, sbucava improvviso come la nebbia. Alle spalle di stopper, terzini, portieri. Non c'era palla vagante in area di rigore che non si trasformasse in pepita d'oro. Cioé in gol. Ladro di attimi, rapinatore di secondi. Paolo Rossi è stato amato anche perché era una persona a modo, con una educazione d'altri tempi. E le brave persone si possono solo amare. Rimase impigliato nella brutta storia del calcioscommesse degli anni ‘80, una storia poco chiara nella quale lui c'entrava nulla. La sua carriera da opinionista non è mai stata trascinata da polemiche per fare audience o da giudizi gridati. Era uno di quelli che sapeva cosa dire in ogni occasione. Con calma e serenità. Pungente e gentile allo stesso tempo. A pensarci bene, la stessa «tattica» usata per fare gol. Sì, ci mancherà. Mancherà a chi ama il calcio, a chi ama lo sport. Perché «PaoloRossi», tutto attaccato, è entrato in silenzio nella storia degli italiani, conquistandoli tutti, amici e nemici. È un pezzo di storia. E anche di vita che se ne va.
Paolo Rossi, il ricordo dell’ex moglie Simonetta Rizzato. Notizie.it il 12/12/2020. Paolo Rossi e Simonetta Rizzato, l'ex moglie di Pablito ricorda gli anni passati insieme al campione di Spagna '82. L’ex moglie di Paolo Rossi, Simonetta Rizzato, ha concesso un’intervista al Corriere della Sera nella quale ha raccontato dell’amore che per tanti anni l’ha unita a Pablito con il quale hanno messo al mondo il loro primogenito, Alessandro. Parla di una relazione nata quando entrambi erano molto giovani, lui 20enne lei 17enne, a Vicenza, città dove Pablito era appena arrivato per iniziare la sua personale carriera nel calcio che conta. “Ci presentarono alcuni amici comuni – dice la Rizzato – eravamo piccoli, molto teneri. Io il calcio non lo seguivo granché, non ero una tifosa. In fondo quando l’ho conosciuto, per me, era soltanto Paolo. Fu un colpo di fulmine. E dopo quell’incontro ci sono stati diciotto anni d’amore”. Poi il ricordo dell’ex moglie di Paolo Rossi va al momento più importante della carriera di Pablito, quel mondiale in Spagna nel 1982 che lei seguì da casa perchè incinta: “Fu un’esperienza pazzesca, ma io ero incinta e rimasi a casa temendo rischi per la gravidanza. Ricordo i tifosi sotto le finestre, fu tutto bellissimo. Ma – precisa la Rizzato – c’è un episodio che descrive bene che persona fosse Paolo: quando i giornalisti gli chiesero come si sentiva, lui rispose ‘Questo è un anno importante per me: nascerà mio figlio e ho vinto un Mondiale‘. Ecco, per lui erano più importanti gli affetti“. “Paolo – prosegue – è stato il primo amore, quel sentimento puro che si può vivere soltanto a quell’età. Poi, siamo cresciuti e maturando siamo cambiati. Lui era spesso lontano per lavoro e alla fine, dopo tanti anni insieme, abbiamo deciso di lasciarci e prendere strade diverse”. Malgrado la fine del loro matrimonio tra i due è rimasta una grande stima e la voglia di non far gravare il fallimento della loro unione sul figlio Alessandro. “Paolo era una persona così dolce che non aveva senso escluderlo dalla mia vita. Io – continua l’ex moglie di Pablito – mi sono risposata e anche lui ha conosciuto Federica, una donna stupenda e che gli è stata accanto in modo straordinario in questo periodo così doloroso. Anche dopo la separazione, l’ho sempre sentito parte della mia famiglia”. Poi il racconto dell’ultimo incontro prima della fine: “L’ho visto il giorno prima che morisse. Sono andata a trovarlo in ospedale a Siena e ci siamo detti addio. Nel suo cuore – conclude – la famiglia veniva prima di tutto e ora che se n’è andato mi lascia con un dolore immenso e con la consapevolezza di aver avuto il privilegio di passare la prima parte della mia vita con un uomo straordinario”.
Vi racconto Paolo Rossi, chi era prima di essere Pablito. Luciano Moggi su Libero Quotidiano il 12 dicembre 2020.
Luciano Moggi nasce a Monticiano il 10 luglio 1937. Dirigente di Roma, Lazio, Torino, Napoli e Juventus, vince sei scudetti (più uno revocato), tre Coppe Italia, cinque Supercoppe italiane, una Champions League, una Coppa Intercontinentale, una Supercoppa europea, una Coppa Intertoto e una Coppa Uefa. Dal 2006 collabora con Libero e dal 13 settembre 2015 è giornalista pubblicista.
Da fuori non si può capire quanto possa essere costellata di imprevisti la vita calcistica di un giocatore, soprattutto a livello di infortuni. Chi vi scrive ha costruito la sua carriera andando a scovare i giovani talenti in qualità di osservatore, per poi gestirli in tutte le loro esigenze per farli diventare insieme uomini ed atleti. In quest'ottica capitava di tutto: che alcuni mancassero caratterialmente, che altri non studiassero marinando la scuola. E anche che qualcuno, dotato magari di tecnica calcistica non comune, dovesse essere seguito attentamente per sopravvenute carenze fisiche. È il caso di Paolino Rossi che, venuto giovanissimo alla Juve, ho seguito come si fa con un figlio, certo della sua riuscita come uomo e come calciatore. Non mi ero sbagliato. Dicendolo solo a me stesso, penso di essere stato l'artefice della riuscita della sua grande carriera proprio per la mia cocciutaggine nel perseguire l'obiettivo. Lo vidi giocare, appena quindicenne, in un torneo in Abruzzo e poi lo andai a vedere nelle competizioni della sua squadra, la Cattolica Virtus di Firenze. Non ebbi mai dubbi sul suo acquisto, ma solo qualche problema nell'ambito familiare per il trasferimento a Torino, dove giocava già suo fratello che proposi di rimandare a Firenze. Inizialmente il padre oppose delle resistenze, ma poi, rassicurato dalle mie parole circa l'avvenire di Paolo, diede il suo benestare e così i due fratelli poterono scambiarsi la residenza. Paolo venne a Torino e mise in mostra tutte le sue grandi qualità.
I GUAI ALLE GINOCCHIA. Poi però, con l'andar del tempo, cominciarono ad affiorare in lui problemi fisici notevoli: era infatti debole nelle ginocchia per mancanza di menischi. Per questo fu difficile trovare una società che lo potesse far giocare e curare. Provai a darlo al Como con un diritto di riscatto della comproprietà, che alla fine i lariani non esercitarono. Non mi persi però di coraggio e l'occasione capitò quando GB Fabbri, allenatore del Lanerossi Vicenza, telefonò a Boniperti per chiedergli Vinicio Verza, un giocatore che lui aveva avuto a Cesena con ottimi risultati ma che io, nel frattempo, stavo trattando con il Varese di Guido Borghi, con il quale intrattenevo buoni rapporti per aver acquistato da lui Claudio Gentile. Tentai allora di forzare la mano a GB Fabbri facendogli capire che gli avrei dato Verza solo se avesse preso in prestito anche Rossi, e l'allenatore vicentino, pur di prendere Verza, accettò la proposta. Paolo fece la riserva per tutto il girone di andata ma poi, a seguito della morte del centravanti Vitali (in un incidente automobilistico), venne promosso titolare e con 24 reti al suo attivo iniziò la sua carriera di grande campione. Io in quel momento provai la gioia di chi si sentiva ripagato per aver creduto in qualcosa che stava prendendo corpo. In quel tempo fui chiamato dal presidente Anzalone a dirigere la Roma e Boniperti, che evidentemente non aveva molta fiducia nelle condizioni fisiche di Rossi, acquistò Virdis dal Cagliari e perse le buste con il Vicenza di Farina che si assicurò così la totale proprietà di Paolo. Ma ormai la carriera di Rossi era diventata inarrestabile e il Campionato del Mondo del 1982 in Spagna, vinto dalla nostra Nazionale, rappresentò il suggello delle doti da gran campione di Paolo che poi vinse il Pallone D'Oro. Pochi mesi addietro Paolo e la moglie Federica vennero a Torino per intervistarmi rievocando quei bei momenti per un docufilm che stavano girando sulla sua vita di calciatore. Ricordo la gioia di quell'incontro che ripercorreva le fasi iniziali della sua carriera, rivedo il sorriso e la felicità di Federica nel rivivere le tappe essenziali che poi hanno costituito l'asse portante della carriera di suo marito. Poi di colpo, e del tutto inaspettata, la tristezza nell'apprendere della morte. In quel momento non ho potuto che piangere al pensiero che le persone buone come Paolo non dovrebbero mai andarsene. E non parlo del campione, mi riferisco all'uomo.
Addio Rossi, Vicenza saluta il suo Pablito. Lutto al braccio e minuto di silenzio in A. La Repubblica l'11/12/2020. Oggi Paolo Rossi è tornato nella sua Vicenza. Il feretro del campione scomparso mercoledì all'età di 64 anni, ha lasciato la camera mortuaria dell'ospedale Le Scotte di Siena su un carro funebre con la bara coperta da una corona di rose bianche della moglie Federica. Nel pomeriggio, intorno alle 15, lo stadio Menti ha accolto poi Pablito per l'omaggio dei tifosi e dei cittadini con la camera ardente che resterà aperta fino alle 20 di questa sera. L'ultimo saluto all'eroe dell'Italia che conquistò il mondo calcistico, nel 1982, verrà celebrato domani, alle 10.30, nel Duomo di Vicenza. Morto Paolo Rossi, il figlio Alessandro: "Era un papà fantastico. Ha combattuto la malattia con l'amore per il calcio". La Lega Serie A e tutti i club lo ricorderanno e gli renderanno omaggio attraverso una serie di iniziative in occasione del prossimo turno di campionato. I calciatori scenderanno in campo indossando una fascia nera al braccio sinistro e prima del calcio d'inizio di ogni partita sarà osservato un minuto di raccoglimento. Prima delle gare, inoltre, verrà diffuso all'interno di ciascun impianto un audio storico che ricorderà le gesta di Rossi al Mondiale del 1982. Sui maxischermi di tutti gli impianti sarà proiettata un'immagine commemorativa del campione e, infine, verrà realizzata una virtualizzazione del cerchio di centrocampo che riporterà una sua immagine.
Vicentini in fila per rendere omaggio. Vicenza era stata eletta da Paolo Rossi come la sua "seconda casa" e il sindaco Francesco Rucco ha proclamato il lutto cittadino fino a domani, con bandiere a mezz'asta nei palazzi comunali. Proprio Rucco aveva consegnato lo scorso il 18 febbraio la cittadinanza onoraria a Pablito, primo sportivo nella storia a ottenerla. Il sindaco ha confermato oggi l'intenzione di dedicare in tempi brevi all'ex campione una parte dello stadio (già intitolato a Romeo Menti, morto nella strage di Superga) o la via in cui si trova l'impianto, via dello Stadio. All'esterno del Menti, quando mancava ancora un'ora all'apertura della camera ardente, sono arrivate tantissime persone. La bara, di noce chiaro, è stata sistemata all'uscita degli spogliatoi, sotto la tribuna centrale. E' riparata da una struttura metallica di color nero, alta circa 3 metri, con quattro grandi mazzi di fiori, bianco e Rossi, adagiati a terra all'altezza dei sostegni. Inoltre, decine di cartelli e striscioni con la scritta "ROSSI GOL" sono stati esposti alle finestre e sui terrazzi della città veneta. Lutto cittadino anche a Prato, città natale di Rossi. "Invito tutti i pratesi a ricordare Paolo Rossi mettendo sui propri balconi e alle proprie finestre una bandiera italiana, esattamente come in quella splendida estate", ha proposto il sindaco Matteo Biffoni. Sempre il Comune di Prato si appresterebbe a valutare la possibilità di intitolare a quest'ultimo il proprio stadio, che attualmente porta il nome di Lungobisenzio. L'idea è già partita da alcuni consiglieri comunali pratesi e deve ora seguire un iter politico che non dovrebbe conoscere ostacoli ma che prevede alcuni giorni perché diventi ufficiale. A Perugia due monumenti-simbolo della città, la Torre degli Sciri e la Fontana Maggiore, saranno illuminati di rosso, in ricordo di Pablito.
Prandelli: "Un amico, non lo accetto"
"Per me è un amico, un amico sincero: non riesco a trovare le parole, non l'ho ancora accettato" ha detto Cesare Prandelli. Il tecnico della Fiorentina è andato a Vicenza alla camera ardente: "E' la testimonianza di come ha vissuto Paolo la propria professione, la gente viene a salutare Paolo non il calciatore. E' riuscito come pochi al mondo a riprendersi da momenti sempre difficili ricordando i valori dell'amicizia. Non è mai stato un personaggio, lo è diventato perché nel calcio ha fatto quello che ha fatto. Come persona è sempre stato di grande umanità e sensibilità".
Malagò: "Bella idea dedicargli la classifica cannonieri". E' partita inoltre in queste ore l'idea di dedicare a Paolo Rossi il titolo di capocannoniere della Serie A. "E' una bella idea", ha detto il presidente del Coni, Giovanni Malagò. "È un diritto che devono esercitare la Figc e la Lega Serie A. Non mi permetto di prevaricare ma mi sembra che l'idea sia straordinaria - ha commentato Malagò -. Abbiamo il dovere di ricordarlo: è stato lui, con un lavoro di squadra in un meraviglioso gruppo e con un grande allenatore, che ci ha permesso di battere le leggende del calcio e di farci salire sul tetto del mondo, e di renderci, una delle poche volte, orgogliosi e uniti, un unico Paese. Purtroppo la storia dell'Italia non è stata spesso caratterizzata da situazioni analoghe. Il merito di Paolo Rossi, non solo per quel motivo, va molto, molto oltre le gesta sportive".
Francesco Persili per Dagospia il 12 dicembre 2020. “Paolo Rossi era un uomo che univa. Non a caso è un simbolo della Nazionale. Ironico, dolce, perbene. Era un leader con il sorriso, oggi non ce ne sono più”. Marco Lollobrigida si fa portavoce del “grande dolore” di Raisport per la scomparsa di Pablito e si commuove nel ricordare viaggi a Sarajevo, cene, partite della Nazionale commentate con Rossi. “Non aveva l’insofferenza delle prime donne, era sempre disponibile con tutti. Non si risparmiava con quelli che gli chiedevano autografi, foto, video. A un ragazzo che gli chiese che valore avesse la maglia azzurra, rispose da innamorato della Nazionale: “Ho vissuto un sogno. Indossare la maglia azzurra è la cosa più bella che può capitare a uno sportivo. Sono stato un privilegiato. Ancora oggi quando la indosso mi sento come riparato…”. Un sentimento di gratitudine immenso nei confronti di Bearzot: “Lo considerava un papà”. Lo aveva aspettato dopo la squalifica di due anni per il calcioscommesse, lo aveva protetto e imposto a dispetto di chi voleva a tutti costi la convocazione di Pruzzo. Paolo sentiva la responsabilità per quello che il ct aveva fatto per lui e doveva ripagarlo”. La stampa parlò di fughe al casinò, notti con majorette, si inventò una presunta love story tra Rossi e Cabrini. E lui si fece una risata. “Io e Cabrini stavamo insieme ma per fortuna io facevo la parte dell’uomo”. “Se c’era una polemica la stemperava con una battuta. Sapeva fare gruppo”. Uno dei suoi più grandi amici, Marco Tardelli, lo saluta con le parole di Francesco De Gregori: “sempre e per sempre dalla stessa parte mi troverai”. Ha sofferto delle ingiustizie, si è beccato una squalifica da innocente, è diventato un capro espiatorio, l’Enzo Tortora del calcio italiano. “Ma non aveva nessuna amarezza, ha avuto una carriera breve ma ha vinto tutto quello che poteva vincere. Forse è rimasto dispiaciuto della coppa campioni dell’Heysel…”
Da corrieredellosport.it il 12 dicembre 2020. Sono ore di cordoglio per la famiglia di Paolo Rossi, tra i messaggi degli ex compagni e colleghi ci sono quelli strazianti di Paola Ferrari. La conduttrice Rai, via Twitter, ha espresso la sua tristezza per la scomparsa dell'amico e collega con tre messaggi, il primo è stato quello più forte: "Voglio morire anche io con lui #paolorossi". Poi, altra dedica: "Il mio cuore si ferma con il tuo. Sei e sempre sarai la persona più bella vera semplice sincera che ho abbia mai avuto al mio fianco #paolorossi #amico #vita". Infine, un messaggio sui momenti passati insieme: "Questa notte non si può dormire. Eri un uomo meraviglioso. Mi parlavi sempre della tua famiglia ,della sorpresa che ti aveva emozionato di tua moglie alle Maldive, delle colline del Chianti e di come eri felice .#unico #campiondelmondo".
Paolo Rossi, Matarrese: «Unico, splendida persona». «Un campione “strano”, nel senso che non ha mai fatto pesare il suo nome. E comunque un fuoriclasse, anche nella vita». Fabrizio Nitti su La Gazzetta del Mezzogiorno il 12 Dicembre 2020. «Unico». È l’aggettivo che Antonio Matarrese appiccica a Paolo Rossi. «Un campione “strano”, nel senso che non ha mai fatto pesare il suo nome. E comunque un fuoriclasse, anche nella vita. Troppi dolori in questo 2020, troppi. E due grandi giocatori andati via, scomparsi all’improvviso. Di Maradona si è detto tutto... Quello di Rossi, però, lo avverto come un lutto “famigliare”. Era una persona squisita». Antonio Matarrese nella sua trentennale esperienza calcistica ha ovviamente avuto modo di conoscere da vicino anche Paolo Rossi. Anche se l’impatto non fu proprio dei migliori. Quell’impatto oggi è diventato tema di risate e rimpianti. «Io questi azzurri li prenderei a calci nel sedere». Se la ricorda questa frase dettata durante i Mondiali del 1982? Accadde il finimondo. «E certo (ride, ndr). Ero appena stato eletto alla presidenza della Lega. I primi risultati di quell’Italia non furono proprio esaltanti. Diciamo che quelle mie parole contribuirono alla rincorsa verso il titolo?. Da quel momento gli Azzurri si scatenarono. E pure Rossi. Pensate che in quei giorni, a causa anche di altre e più roventi polemiche, perfino il presidente federale Sordillo chiedeva il permesso al capo delegazione De Gaudio per salutare la squadra. Bearzot coprì a puntino i suoi uomini. Altra scelta azzeccata». Insomma, meno male che nessuno li prese a calci. Quelli furono i Mondiali di «Pablito». E di una vittoria nel nome di Paolo Rossi. «Non lo conoscevo di persona, all’epoca. Ma dalle mie mani “passavano” tutti gli incartamenti dei giocatori della A. Bearzot fece bene a portarlo in Spagna, nonostante la situazione complicata che si era creata per le vicende post calcio scommesse. Il cittì forzò la mano ed ebbe ragione. Era una squadra di campioni. Ma lui, Rossi, cercava di non farsi notare. Rimaneva quasi in disparte. Poi, quando vinsero il titolo, mi si avvicinò dicendomi: “Presidente, io sono Rossi. Ora mi darà un po’ di considerazione?”. Ma nelle sue parole non c’era spirito di rivalsa, anzi. Leggevo in quella frase, invece, una voglia di protezione e tanta semplicità Nacque un rapporto stupendo e simpatico, andato avanti nel corso degli anni».
Omaggio del Vicenza a Paolo Rossi: tutti i calciatori con la maglia numero 9. Notizie.it il 12/12/2020. Il Vicenza ha reso omaggio a Paolo Rossi nel giorno dei suoi funerali: tutti i calciatori in campo hanno indossato la leggendaria maglia numero 9. I calciatori del Vicenza, impegnati in una partita contro il Pescara, hanno deciso di onorare il leggendario Paolo Rossi indossando tutti la maglia numero 9. La partita Pescara-Vicenza si è tenuta alle ore 16:00 di sabato 12 dicembre e ha visto trionfare la squadra veneta con un punteggio di 2-3. L’incontro si è tenuto nello stesso giorno in cui sono state celebrate le esequie di Paolo Rossi, deceduto a causa di un tumore ai polmoni il 9 dicembre. Per l’occasione, i giocatori del Vicenza allenati da Mimmo Di Carlo hanno omaggiato l’attaccante scomparso scendendo in campo, nel pre-partita, con la casacca numero 9 e il cognome ‘Rossi’ stampato sulle spalle. Il gesto è stato accompagnato anche dal saluto «Ciao Paolo. Per sempre con noi…». La commozione dei presenti allo Stadio Adriatico di Pescara, poi, ha raggiunto l’apice durante il minuto di raccoglimento celebrato in onore dell’ex-calciatore, prima del fischio d’inizio. Il Vicenza ha ricordato Paolo Rossi anche facendo realizzare una fascia da capitano appositamente personalizza. Paolo Rossi ha giocato nel Vicenza per tre stagioni, dal 1976 al 1979, segnando 60 in 94 presenze e vincendo un campionato di Serie B. Innegabile, quindi, il fortissimo legame tra l’ex-calciatore e la squadra veneta. Da allora, la carriera da attaccante è apparsa in costante ascesa e costellata di successi che lo hanno consacrato come una delle leggende del calcio italiano.
Aldo Cazzullo per il Corriere della Sera il 13 dicembre 2020. Oggi abbiamo finalmente capito perché l' Italia vinse il Mondiale del 1982. L' immagine straziante di Marco Tardelli e Antonio Cabrini, invecchiati e addolorati, che portano la bara di Paolo Rossi; il racconto di calciatori che non erano mai stati suoi compagni in un club, e ai quali lui aveva tolto il posto in Nazionale, come Ciccio Graziani e Sandro Altobelli; le parole di campioni venuti dopo, da Paolo Maldini - «era il mio eroe» - a Roberto Baggio: «Rossi ha regalato il Mondiale agli italiani, cosa che non è riuscita a me». Tutti dicono in sostanza la stessa cosa: quella del 1982 era una vera squadra; ed era un gruppo di amici. (Chiunque abbia visto come si comportava qualche convocato al ritiro brasiliano del 2014, avrebbe potuto facilmente dedurne che l' Italia non avrebbe vinto i Mondiali). La rivalità fa parte dello sport. In uno sport di squadra come il calcio, la rivalità di solito divide, soprattutto quando non c' è un leader riconosciuto; ma a volte può unire. L' Italia del 1982 si unì dietro due friulani silenziosi, Enzo Bearzot e Dino Zoff. Aveva, come da tradizione, una difesa formidabile; ma poi serviva qualcuno che la mettesse dentro. Non a caso, ieri campioni meravigliosi come Fulvio Collovati e Beppe Bergomi l' hanno ripetuto: «Paolo Rossi ci ha fatto vincere il Mondiale». Si è parlato molto più di Maradona, è vero. Perché Maradona, calciatore immenso, è stato un uomo divisivo, amato e odiato, benedetto e maledetto. Odiare Paolo Rossi era impossibile, forse persino per il tassista brasiliano che lo lasciò a piedi. Ogni italiano si è sentito chiamare con il suo nome - paolorossi - almeno una volta nella vita, in molti Paesi e per molti estati. Per questo, se è vero che a ogni funerale ognuno piange anche la propria morte, al funerale di Paolo Rossi non solo i ragazzi dell' 82, ma pure noi abbiamo perso qualcuno e qualcosa: una persona cara, e una parte di noi stessi.
GIUSEPPE ALBERTO FALCI per ilquotidianodelsud.it il 12 dicembre 2020. Un destino tricolore quello di Paolo Rossi. Nella Nazionale, si sa. Ma il suo impegno in Alleanza nazionale – candidato alle Europee nelle liste di Gianfranco Fini – passa quasi sotto silenzio. Nessuno ne parla in queste ore di amarcord del «ragazzo come noi». Corre l’anno 1999, il centrosinistra è al governo con il primo esecutivo a guida Massimo D’Alema, il centrodestra di Silvio Berlusconi studia come ritornare a Palazzo Chigi ma deve cimentarsi alle elezioni per il rinnovo del Parlamento di Strasburgo. Nel frattempo gli eredi del Movimento sociale italiano capitanati da Gianfranco Fini, leader di Alleanza nazionale e alleato del Cavaliere, si cimentano nell’esperienza non proprio felice dell’Elefantino: una lista unica assieme al Patto Segni con un esplicito richiamo al partito repubblicano statunitense, sul cui modello Fini e Segni avrebbero voluto investire per far nascere in Italia un grande partito liberale di centrodestra. Ecco, proprio in quei giorni nasce la candidatura di un certo paolorossi tutto attaccato, il capo cannoniere del Mundial di Spagna del ‘82, l’autore della celebre tripletta al Brasile di Falcao, il centravanti di Vicenza, Juventus, Milan e Verona. Gastone Parigi, europarlamentare e dirigente pordenonese di An, si mette in testa che ci sarebbe voluto un bomber di razza, per di più campione del mondo, per sbancare nella circoscrizione del Nord-Est. Il primo pensiero di Parigi è: «Qui ci vuole Pablito». E Pablito si tuffa come se dovesse colpire una palla di testa nell’area piccola di rigore. Gastone incontra Paolo e poi entrambi si recano da Gianfranco Fini. Dalle parti di An si leva subito un’esultanza da curva. Perché Paolo Rossi è un eroe nazionale, riconosciuto dal mondo intero per le sue gesta calcistiche, per la sua acclarata moderazione. Mai un’uscita fuori luogo, sempre elegante, sempre sincero, sempre puntuale. Ammette l’ex segretario di An: «Per noi fu un orgoglio anche perché la sua candidatura è nata in prima luogo da una certa simpatia nei nostri confronti». Ricorda ancora Fini: « Era una persona simpatica, intelligente, equilibrata. Fu una sorpresa per tutti noi e si fece ben volere». Un altro protagonista di quella stagione, come Ignazio La Russa, racconta con un filo di malizia che «si è rivelato un signore anche in quella circostanza». Perché? «Perché se candidi Pablito devi lottare per farlo eleggere. Ebbe tanti voti ma ce ne sarebbero voluti di più per farsi eleggere. Tuttavia non si trova una sua dichiarazione del tipo: “Ho commesso un errore a candidarmi”. Un signore in campo e fuori. Punto». Il legame con il partito di via della Scrofa rimane anche negli anni a seguire ma sempre con il garbo e con il distacco del signor Paolo Rossi. Eppure c’è un dettaglio che più di ogni altro rivela la grandezza del «ragazzo come noi»: «Se avessimo candidato chiunque altro – osservano da via della Scrofa – sarebbe stato tacciato di fascismo. Ma nel caso di Paolo non fu possibile perché Paolo era un mito».
Da sport.virgilio.it il 12 dicembre 2020. Roberto Baggio omaggia Paolo Rossi con una lettera pubblicata dalla Gazzetta dello Sport. Più che il calciatore, da questa struggente lettera emerge il lato umano, esaltandone il mito che resterà immortale nella memoria di tutti quelli che hanno vissuto quei momenti speciali. “Il mio risveglio un’altra mazzata. Un grande pilastro del calcio italiano ci saluta. Paolo, PABLITO, PAOLO ROSSI, quasi si dovesse sempre chiamare con nome e cognome: lui non era Rossi, lui e, e sempre sarà, PAOLO ROSSI. Tornano in superficie i dolci ricordi di quando avevo 10 anni, conservati per decenni in uno dei tanti album della mia memoria. Oggi, grazie a Pablito, sfoglio quell’album e tornano a farsi sentire il freddo pungente e la dura canna della bicicletta. Con il mio adorato papa Fiorindo, mancato solo qualche mese fa, percorrevamo quasi 12 chilometri, in due su una bicicletta, per arrivare a Vicenza partendo da Caldogno. Per andare allo stadio Menti a vedere il grande Paolo Rossi. Poi, per tutta la partita, mi aggrappavo alla rete per vederlo giocare e segnare. Erano gli anni dell’Austerity e delle targhe alterne. Erano gli anni in cui cullavo i miei sogni. Pensavo che un giorno avrei anche io giocato in quello stadio, che avrei indossato quella maglia bellissima con la grande R sul petto. Imitando Paolo Rossi avrei potuto realizzare quanto lui e riuscito a realizzare. Vincere un campionato del mondo in finale contro il Brasile. Come Paolo Rossi ha fatto contro la Germania . Vincere il Pallone d’oro. Come Paolo Rossi. Vincere sulla sofferenza di ginocchia doloranti. Come Paolo Rossi. Vincere in un mondo che ha sempre più bisogno del sorriso di Paolo Rossi. Un meraviglioso viaggio in Cina recentemente ci ha fatto rincontrare. Abbiamo parlato a lungo su quanto avessimo vissuto in comune, e su quanto si sarebbe dovuto fare per un futuro migliore. Soprattutto nel calcio. Oggi Paolo e volato in cielo lasciandoci tutto quello che il calcio di buono sa offrire. Paolo ha regalato un sogno a milioni di italiani, cosa che a me non e riuscita. Oggi comprendere il mistero della vita, e dare un perchè alle cose che ci accadono, non e mai semplice. Cosi, come il vuoto che lascia Paolo nel cuore di sua moglie e dei suoi tre figli a cui va il mio pensiero e la mia comprensione. Ciao Paolo, chissà se infilerai le tue scarpette da calcio quando sarai in cielo. Spero di si, spero che il tuo sorriso arrivi anche li. Noi qui lo ricorderemo a lungo. Buon viaggio Paolo , nell’eterno cielo della luce tranquilla”.
Funerali Paolo Rossi, le lacrime di Roberto Baggio. Notizie.it il 12/12/2020. Nel Duomo di Santa Maria Annunciata a Vicenza è stato dato questa mattina, 12 dicembre, l’ultimo saluto a Paolo Rossi, il campione di Spagna ’82, l’attaccante dei gol al Brasile che ha fatto gioire una nazione intera. Ai funerali di Pablito, così come era stato soprannominato proprio durante quel Mondiale, erano presenti molti dei suoi ex compagni di nazionale e dei vari club in cui ha giocato. Circa 300 persone, radunatesi nel rispetto delle attuali norme anti covid. Tra loro c’era anche Roberto Baggio, in lacrime per la scomparsa di un grande campione del calcio. Paolo Rossi e Baggio hanno in comune molte cose: l’amore per il calcio, l’istinto del gol e il Vicenza, punto di partenza della carriera di entrambi. Per il Divin codino la maglia bianco rossa del settore giovanile era arrivata nel 1980, Rossi invece più o meno in quel periodo andava via, direzione Perugia. Molti anche i messaggi d’amore da parte di altri campioni del mondo dell”82, come quello di Cabrini che ha così ricordato Pablito: “Non ho perso solo un compagno di squadra ma un amico e un fratello. Insieme abbiamo combattuto, vinto e a volte perso, sempre rialzandoci anche davanti alle delusioni”. Dopo i funerali, la salma sarà cremata per poi essere riportata a Bucine, in provincia di Arezzo, per volontà della famiglia. In Val d’Ambra Rossi riposerà vicino alla moglie e alle figlie.
Funerale Paolo Rossi, Cabrini: “Perdo un amico e un fratello”. Notizie.it il 12/12/2020. Si sono tenuti questa mattina, 12 dicembre, nel Duomo di Vicenza i funerali di Paolo Rossi, il campione di Spagna ’82 che con i suoi famosi gol permise alla rappresentativa italiana di portare in patria la Coppa del Mondo. Alla cerimonia, riservata a pochi intimi per via delle normative anti contagio, erano presenti molti ex compagni di squadra di Pablito, tutti visibilmente commossi dall’ultimo saluto. A portare in spalla il feretro di Paolo Rossi c’erano alcuni suoi ex compagni del Mondiale del 1982: Tardelli, Cabrini, Antognoni, Collovati, Altobelli, Causio, Oriali, Dossena, Massaro, Bergomi, Franco Baresi e Galli. Ad accompagnare il loro cammino il coro delle persone che da lontano gridano “Paolo, Paolo…”. Molte anche le dichiarazioni da parte dei suoi ex compagni di squadra rilasciate prima della cerimonia, tra queste quelle commosse di Antonio Cabrini. “Non ho perso solo un compagno di squadra – ha detto Cabrini – ma un amico e un fratello. Insieme abbiamo combattuto, vinto e a volte perso, sempre rialzandoci anche davanti alle delusioni. Siamo stati parte di un gruppo, quel gruppo, il nostro gruppo. Non pensavo ti saresti allontanato così presto, ma che avremmo camminato ancora tanto insieme”. “Già mi manchi – continua l’ex Juve – le tue parole di conforto, le tue battute e i tuoi stupidi scherzi. Le tue improvvisate e il tuo sorriso. Mi manca proprio tutto di te, oggi voglio ringraziarti perché se sono quello che sono lo devo anche al meraviglioso amico che sei stato. Io non ti lascerò mai, ma tu stai vicino a tutti noi, come io starò vicino a Federica e ai tuoi figli. Ma tu – conclude – resta vicino a me”.
Dagospia il 13 dicembre 2020. Da “Campioni del Mondo – Radio 2”. Grazie Paolo per avermi insegnato ad amare, nella semplicità della quotidianità, del dolore e della sofferenza. Grazie di avermi dato due figlie speciali, di avermi reso migliore. Il tuo amore mi aiuterà a sopravvivere e a crescere al meglio le nostre Maria Vittoria e Sofia Elena. Francesco Persili per Dagospia il 13 dicembre 2020. “Tardelli grande amatore, Cabrini bello, lui Paolo Rossi. Pensate la fatica che facevo io con le donne…”. Il bon vivant Domenico Marocchino ricorda a “Campioni del mondo” su Radio 2 l’amico Paolino, compagno di squadra ai tempi della Juve e prima ancora nelle giovanili bianconere. “Quando l’ho visto giocare nella prima partita ho pensato di smettere. Faceva delle cose stratosferiche. Non aveva un fisicaccio, veniva un po’ sottovalutato. In campo era scaltro, rapido, sembrava che non facesse fatica. Leggero come una piuma, una di quelle che ti entra nel naso e ti manda in tilt”. Avrà avuto anche qualche difetto. “A scopa era scarso. Aveva un po’ il braccino al ristorante ma era una persona indimenticabile anche fuori dal campo. Aveva delle affinità a livello comportamentale con Scirea, che non era un musone. Dino Zoff era il papà di tutti, io ero il figlio un po’ cattivello…”. “No, il papà in ambito Nazionale era Bearzot”, lo corregge Zoff, il capitano della Nazionale del 1982. “Rossi? In campo era l’uomo giusto al momento giusto. Faceva le cose che andavano fatte. La serenità, la freschezza di favella, i toni sempre adeguati”. Un altro mondo. “Adesso si vive tutto con esagerazione. Appena c’è uno scontro, si va per terra. il calcio è uno sport di contatto ma il Var ha condizionato tutto e tutti ne approfittano. Per me sono cose insopportabili”. Ciccio Graziani ripercorre la cavalcata del Mundial e l’intervista che Paolo Rossi gli fece sull’aereo che riportava in Italia gli azzurri dopo la conquista della Coppa del mondo. Pablito si sentiva come “il primo uomo sulla luna”, il bomber di Subiaco sente ancora addosso l’entusiasmo di quei momenti: “Non avevo rivincite particolari, quella vittoria mi aveva ripagato dei tanti sacrifici che avevo fatto per il mondiale del 1978 che non era andato come avrei voluto. Abbiamo vissuto un’avventura meravigliosa in Spagna. Italia-Brasile non fu solo la tripletta di Rossi ma anche il miracolo di Zoff. “Fece la parata della vita. Oscar, il difensore centrale lo dovevo marcare io, Cerezo mi fece un blocco, e io lo persi. Meno male che c’era San Dino…”
Giancarlo Dotto per il Corriere dello Sport il 12 dicembre 2020. Per capire ma anche per farmi un po’ male, sono andato a riascoltare la sua voce registrata della nostra ultima telefonata, esattamente un anno fa, 12 dicembre 2019, 9 e 41 del m attino. 81 minuti e 13 secondi di amabile conversazione, pretesto l’uscita in libreria della sua biografia, Quanto dura un attimo (Ed. Mondadori), scritta per e con la moglie Federica (“Senza di lei non l’avrei mai fatta”). Lui nella sua fattoria in compagnia dei suoi animali, cani, pony, oche e galline. Come fosse una seduta spiritica. Ho ascoltato e ho capito. Ho capito che non bastava. Che bisognava tornarci sopra, che il caso “Paolino Rossi” non lo potevi liquidare con la doverosa eruzione del giorno dopo, di una o cento pagine. Funziona così con i morti di successo, i coccodrilli sono spesso già apparecchiati, si va giù a tavoletta con le iperboli, ma la voglia dentro è quella di andare oltre. I vivi hanno fretta di tornare alla vita. La morte di Maradona è stata sconvolgente, un brivido in tutto il pianeta, quella di Paolo Rossi cova un confessabile segreto. Basta saperlo spiare. La sua vera grandezza. Detesto la parola umiltà. Sa di superbia. Paolino non era umile, era innocente. Inverosimilmente, scandalosamente innocente. Nell’Italia di oggi, uno come lui era un freak. Un’anomalia socialmente riprovevole. Uno fuori dall’andazzo. In un Paese dominato dallo schiamazzo del vacuo. Delle ideologie divise in bande, prima e della vanità infondata sul vano, dopo. Nullità bercianti che ammazzerebbero Woody Allen, e in qualche caso ci hanno provato, per meno di un quarto d’ora di celebrità. Paolino era come l’amico Gaetano, altro esclamativo campione del mondo, Scirea. Paolino e Gaetano non hanno mai esibito nulla di esclamativo, nemmeno quando alzavano la coppa in mondovisione. Nemmeno quando sono morti e nemmeno quando la morte è stata atroce. Uno, Paolino, che poteva andare a morire solo con la sua amata donna, i suoi adorati figli, i cani, i cavalli, le oche e le galline. Lo ascolto. Ascolto la sua voce soave, la conoscete tutti, i corpi se ne vanno, le voci restano. Sono ovunque, nella testa, nei muri e nelle cose. La voce di Paolino non ha quasi corpo, non ha testosterone, è la voce da cherubino che trovi nei cori implumi delle parrocchie di provincia. Una voce mai scontrosa, mai minacciosa, mai urlante, mai maligna e mai allusiva, a volte pigra o reticente, sì, a volte banale. Era una voce che non usava mai le parole e nemmeno i silenzi per far male, era una voce da cui non ti dovevi mai difendere. La bellezza di Paolino era la sua totale assenza di ego. Tatuato solo dal dono di un’elementare disposizione al dovere. Con quel suo cognome così genialmente qualunque, Paolino ha sempre fatto quello che doveva. Mai farsi domande, senza mai protestare o lamentarsi, senza iscriversi a nessun partito, meno che mai a quello della vanità. Che fosse il chierichetto, il calciatore, il padre, il compagno, l’amico, l’opinionista o il contadino. Che fosse il morente, anche quando il tumore gli mangiava le ossa. Lui era sempre Paolino. Gli davano i compiti e lui eseguiva. Senza menischi e senza padrini. Quando si trattava di portare il feretro di Bearzot, lui, insieme a Zoff, Tardelli, Bruno Conti e gli altri, di quello che era stato il suo padre putativo. Paolino non aveva bisogno di essere un pazzo o un disperato per essere un samurai. Di italiani come Paolino ne trovi a migliaia. I tanti samurai che stanno anonimi dietro quelle finestre, sotterrati nella corvée del giorno dopo giorno, a fare le cose che vanno fatte. Testardi senza gloria. La grandezza di Paolino, il segreto che si è portato chi sa dove, non erano i tre gol al Brasile, ma i tre menischi infranti, quando stava appena nascendo come calciatore e la storia sembrava già finita. Ricominciare da zero, mesi di calvario, ma senza croci e senza bestemmie, senza darsi addosso per tanta zella. Non so se lui ha letto Borges, ma certo Borges ha letto lui e tutti quelli come lui quando scriveva che “un destino non è migliore di altri, ma ognuno deve compiere quello che porta in sé”. Paolino portava in sé il senso naturale del dovere, delle cose che andavano fatte. Che si tratti di diventare campione del mondo o raccogliere la cacca di Bleki, il suo cagnolino. Con la stessa enfasi. Zero. Paolino non ha fatto altro. Come il soldatino di piombo, claudicante, senza una gamba e a volte spaventato, ma senza mai arretrare. Ascolto questa sua voce così gentile. Quando ti dice quello che ti deve dire e quando ride perché c’è da ridere. L’uomo senza ginocchia. L’uomo squalificato perché troppo avulso dalla mischia. Defilato, non per abulia, ma per difetto di strategia. Perché Paolino non ha la più pallida idea di essere quello che è. Non l’ha mai avuta, anche quando subiva lo stalking dei titoli e delle lusinghe. Su uno come Paolino forse non scrivi un romanzo epico, ma certo una magnifica storia.
Da Corriere.it il 12 dicembre 2020. Già venerdì 11 dicembre erano migliaia i fan e i cittadini in coda, allo stadio Menti di Vicenza, a rendere omaggio al grande Pablito, il campione che ha fatto sognare l’Italia ai Mondiali dell’82. I funerali di Paolo Rossi, morto dopo una lunga malattia il 10 dicembre, si tengono oggi 12 dicembre. Ad accompagnarlo, verso la Cattedrale della città, tanti cartelloni di ricordo alle finestre, sui balconi e sugli alberi. Ma anche i tanti compagni di squadra del campione e non solo. Il mondo del calcio si è raccolto per dirgli addio. A Vicenza come negli stadi. Tutta la serie A gli dedicherà un minuto di silenzio. «Paolo, Paolo, Paolo». Così i suoi tifosi hanno accolto l’arrivo del feretro di Paolo Rossi, portato a spalla dai suoi ex compagni della nazionale vincitrice dei Mondiali dell’ 82 in Spagna, entrato nel duomo. Il presidente della Figc, Gravina, ha appoggiato sopra la bara una maglia azzurra della nazionale italiana con il numero 20. I funerali sono iniziati alle 10.30. Poco prima, alcuni degli ex calciatori presenti hanno raccontato ai microfoni dei cronisti il loro ricordo di Paolo Rossi.
Il ricordo di Altobelli. L’altra sera quando la moglie ci ha mandato il messaggio dicendo che Paolo se ne era andato con lei che lo ha accompagnato stringendogli la mano ho invidiato quel momento, avrei voluto essere lì anche io ad accompagnarlo», ha detto Alessandro Altobelli, ex attaccante dell’Italia e compagno di squadra nella vittoria al Mondiale del 1982 a Sky. «La nostra è una chat dove parliamo, siccome era un periodo che non rispondeva più ho provato a mettere delle foto per farlo intervenire. Visto che non interveniva ho provato a capire cosa fosse successo e invece Marco (Tardelli, ndr) mi ha detto che sarebbe presto tornato. Poi avevamo sentito delle voci ma speravamo non fossero vero, ma purtroppo erano vere», ha aggiunto l’ex calciatore. «Con Paolo siamo stati insieme in Nazionale fino all’86’. Lui era molto più forte di me. Io in allenamento ho sempre cercato di copiare qualcosa, anche se era molto difficile perché aveva qualità naturali ed era difficile. Lui era sempre nel posto giusto nel momento giusto».
Il ricordo di Collovati. Si aggiunge poi il ricordo di un commosso Fulvio Collovati, anche lui eroe azzurro del mondiale del 1982. «Se ne è andato con dignità, voleva essere il Paolo Rossi che ho sempre visto, sempre sorridente. Noi siamo andati al Mondiale come l’armata brancaleone, Paolo arrivò dopo due anni di inattività. Era deriso da tutti, il suo riscatto e la sua rivincita hanno coinciso con la nostra rivincita. Io se sono campione del mondo lo devo a lui».
Maldini: «Per me un eroe, un esempio e un compagno». «Per me è stato tante cose: un eroe da 14enne quando ha vinto i Mondiali con mio papà che faceva parte di quella spedizione, un compagno di squadra al Milan che mi ha dato tanti consigli», ha detto Paolo Maldini, direttore tecnico ed ex bandiera del Milan e della Nazionale, appena prima dei funerali. «Per tutti gli italiani era un mito, un supercampione conosciuto in tutto il mondo, ma era una persona normale. Mi rimarrà sempre in mente la sua leggerezza, senza sentirsi una star. È stato di grande esempio», ha aggiunto. «Di lui parlano i numeri, ci dimentichiamo la sua grandezza: ha vinto un Mondiale, il Pallone d’oro e il titolo di capocannoniere. Questo già basta», ha concluso.
Emanuela Audisio per la Repubblica il 13 dicembre 2020. È stato l' addio a un uomo felice. Non solo a un grande giocatore e a un campione. Il primo della generazione '82 (a parte Scirea) a fare i conti con il tempo e la malattia. Paolorossi se n' è andato sulle spalle dei suoi compagni, ormai quasi tutti uguali, con i capelli bianchi, sopra la mascherina e sotto i corpi di un calcio antico, ma ancora vincente per dignità e rispetto. Con i fiori del figlio e della moglie, con le rose delle sue ragazze. E con l' affetto di una famiglia allargata, fatta di persone e di calciatori, con la disperazione del fratello, con il dolore di tutti. Bearzot dieci anni fa era stato l' addio al patriarca, Rossi al figlio più importante, scomparso troppo presto. C' è stata compostezza, umiltà (bara a terra), nessuna pomposità. Tutti si sono inginocchiati, per sentirlo ancora vicino, anche le sue bambine Maria Vittoria e Sofia Elena, e anche Alessandro, ormai il suo ex ragazzo, che è andato a consolarle. Verrebbe da dire: guardatelo questo addio per capire cos' è lo sport, un gioco di squadra come la vita, per decifrare cos' è stato il calcio e quella Nazionale, una famiglia dove ci si aiuta, per comprendere come si possano costruire affetti, innamorarsi, separarsi, risposarsi, senza perdere il sentimento di un viaggio comune. E come allora fosse possibile, con un fisico scarno, partire da una parrocchia per arrivare in cima al mondo. Anche nel giorno del suo addio Paolorossi ha vinto: molta delicatezza, poca retorica, la sua maglia azzurra numero 20 e la sciarpa del Lanerossi Vicenza, l' Italia e la provincia. E non uno dei suoi compagni che dica una parola di più. Forse perché capiscono che con Paolo, sempre veloce nel rubare il tempo, se ne va il primo di loro, quello di una generazione con i calzoncini corti e con le maglie che non si allungavano. Non un divo, ma un eroe discreto del quotidiano. Rossi non seminava palloni ma piuttosto la terra: il suo futuro l' aveva costruito in un pezzo di Toscana, tra vigne e ulivi. E molta di quella sincerità c' era in chiesa: occhi gonfi, come il cuore, volti segnati, tanta condivisione. È vero quello che dice Nabokov, che nel proprio passato ci si sente sempre a casa. E loro, quelli dell' 82, c' erano quasi tutti: Cabrini, Tardelli, Conti, Gentile, Antognoni, Bergomi, Oriali, Collovati, Massaro, Marini, Dossena, Galli. E anche la generazione dopo: Galderisi, Baggio, Baresi, Paolo Maldini. Perché certi legami non c' entrano con la marea del tempo, con le vittorie, ma piuttosto con la durezza di certe salite. Che diversità dall' addio a Maradona: lì a Baires c' erano famiglie che litigavano e urlavano su un cadavere, i selfie sciagurati con il morto, figli veri e presunti che reclamavano, risse nella camera ardente, accuse tra le parti, funerale chiuso e frettoloso, senza chiesa, quasi un dribbling per scappare dalla gente, dai tifosi, da un popolo. Diego se n' è andato da privato cittadino, perché così hanno voluto ex moglie e figlie, in quel momento doveva essere finalmente solo loro. Federica, la seconda e ultima moglie di Paolo, è stata più generosa: ha preferito che Rossi fosse di tutti. Come sempre. Perché sa che a lei e alle figlie ne resterà comunque tanto. Non c' erano isterie, né riscatti o orgogli da lucidare. Paolo s e n' è andato tra molto amore che in questi tempi di odio facile e di offese volgari vale molto. Senza perdere la magia. E rendendo dopo 38 anni ancora bella l' Italia.
Paolo Rossi e l'amico giovanissimo, "sapete chi sono questi due ragazzini?". Il dramma dietro questa foto straziante. Libero Quotidiano il 14 dicembre 2020. Una foto commovente, due destini incrociati. Paolo Rossi da una parte, morto a 64 la scorsa settimana. Dall'altra un volto amatissimo del cinema italiano, Francesco Nuti. Entrambi giovanissimi, in tenuta da calciatori Andrea Scanzi del Fatto quotidiano ripercorre sui social la loro storia parallela: "Entrambi di Prato. Francesco ha un anno in più. Prima di un provino a Coverciano, dormono nella stessa stanza. In campo Francesco è centrocampista e Paolo attaccante. Francesco è bravino, ma quando vede giocare Paolo pensa: 'Non sarò mai forte come lui. Meglio che cambi aspirazioni, va'. Passano gli anni e i due si rivedono ogni tanto. Sempre con affetto. Entrambi raggiungono l’apice. Sono due fenomeni. Poi Francesco vive il calvario che sappiamo, e che dura ancora". Pochi sanno che proprio Pablito ha voluto partecipare in prima persona al docufilm su Nuti, da molti anni malato, realizzato due anni fa dal regista Enio Drovandi, "dialogando" a distanza con l'amico d'infanzia. Nel film in uscita, dopo la scena della sforbiciata di Nuti nel celebre Tutta colpa del paradiso la palla arriva a Rossi, che, rivela, Scanzi, per l'occasione ha voluto indossare la stessa maglia numero 20 del Mondiale 1982, quella con cui ha segnato il gol in finale alla Germania. Una dimostrazione di spessore umano e dolcezza incommensurabile. "L’ultimo gol della sua vita - scrive Scanzi -, Paolo l’ha segnato due anni fa. Con quella maglia lì. Su assist di un vecchio amico, che di nome fa Francesco".
Da liberoquotidiano.it il 13 dicembre 2020. Ultimo saluto a Paolo Rossi ieri, sabato 12 dicembre, nel Duomo di Vicenza con 300 persone. «Caro Paolo, da oggi sarai nella Coverciano del cielo per giocare con la Nazionale di lassù», ha detto nell'omelia don Pierangelo Ruaro, delegato dal vescovo. Commovente il ricordo di Antonio Cabrini: «Già mi manchi, le tue parole di conforto, le tue battute e i tuoi stupidi scherzi, il tuo sorriso. Oggi voglio ringraziarti perché se sono quello che sono lo devo anche al meraviglioso amico che sei stato». Al termine dei funerali, con il feretro portato in spalla dai compagni di un tempo tanti applausi e il coro "Pablito Pablito". E però proprio ieri la sua casa di Bucine, nella campagna toscana, è stata svaligiata. Lo ha scoperto la moglie Federica al rientro. Tra gli oggetti mancanti, l'orologio di Rossi, un Rolex a cui era molto legato. Uno sfregio, una bassezza ancor più grave: approfittando dell'assenza della famiglia, i banditi hanno potuto agire indisturbati e mettere a segno il loro colpo. Stando a quanto trapelato sembra che i malviventi abbiano rubato anche gioielli, come detto in particolari degli orologi e non avrebbero toccato dei cimeli sportivi, che si può immaginare siano numerosi on considerazione la strepitosa carriera di Paolo Rossi, che nel 1982 vinse il Mondiale, è stato capocannoniere di quella edizione e conquistò anche in quello stesso anno il Pallone d'Oro. E a verbale vanno messi anche i premi ottenuti singolarmente e quelli che ha vinto con la Juventus, con cui vinse anche la Coppa dei Campioni. Ladri senza onore né pudore, contro i quali si è scagliata la moglie di Paolo Rossi, Federica Cappelletti, che interpellata da QN ha tuonato: "Il furto? Sì, è vero. Ma scusate, non ho neppure la forza di parlare. Non bastava la morte di Paolo, non bastava lo stress di queste giornate massacranti, non bastava il dolore di tutti noi. Hanno voluto infangarlo anche nel giorno in cui tutta Italia piangeva". E ancora: "Non mi importa di quello che hanno rubato. Potrebbero essersi portati via anche 100mila euro e non me ne fregherebbe niente. Ma è il gesto che stordisce". Successivamente, si è appreso che i banditi sarebbero entrati nella villa-agriturismo da una finestra, ritrovata spaccata. All'interno della casa, avrebbero sfasciato tutto, alla ricerca di oggetti da rubare. Anche se, come detto, il bottino non sarebbe stato particolarmente ricco.
Da gazzetta.it il 12 dicembre 2020. Furto in casa dei Paolo Rossi. I ladri pare abbiano agito nel corso del funerale, portando via dall'abitazione di Bucine in provincia di Arezzo alcuni gioielli. Tra questi un orologio appartenente a Rossi. Per fortuna non sono stati rubati gli oggetti più preziosi legati alla carriera dell'ex calciatore. Al rientro da Vicenza nell'agriturismo in Toscana, la moglie Federica ha trovato il caos conseguente a un furto. Sono in corso i rilievi da parte della Polizia scientifica.
Furto a casa di Paolo Rossi durante il funerale: rubati gioielli ma non i suoi cimeli sportivi. Il Corriere della Sera il 13/12/2020. Volevano oro e soldi e soprattutto i trofei di Rossi. Hanno messo a soqquadro l’intera casa, hanno rovistato ovunque provocando anche danni. Non hanno risparmiato neppure la camerette delle figlie di Pablito: Maria Vittoria ha 11 anni, Sofia Elena 8. E alla fine sono scappati con un centinaio di euro e un orologio d’oro dileguandosi nelle campagne aretine. Ad accorgersi del furto è stato un collaboratore della famiglia che ha trovato la finestra forzata e spalancata, si è insospettito e ha telefonato ai carabinieri del comando di Arezzo. Appena la moglie del campione, Federica Cappelletti è tornata a casa, dopo aver assistito al funerale del marito, ha trovato le stanze a soqquadro. Fine a tarda notte si cercava di capire che cosa avessero rubato i banditi e probabilmente solo stamani si riuscirà ad avere un quadro dei danni subiti da una famiglia già duramente provata. Sembra che i trofei e i ricordi di Rossi non siano stati depredati, per fortuna. Oggi la famiglia Rossi sarà a Perugia per la cremazione. «Lo porterò sempre con me», aveva detto la moglie commossa.
Dagonews il 14 dicembre 2020. “Sono stati dei vigliacchi. Non si sono fermati neanche davanti al dolore”. Federica Cappelletti, moglie di Paolo Rossi, interviene nella trasmissione di Rai2 “A tutta rete” per parlare del furto subito in casa, nella campagna toscana, durante i funerali a Vicenza dell’eroe del Mundial ‘82. “È stato rubato un Rolex a cui Paolo era molto affezionato oltre a una statuetta. Questo mi ha fatto molto male. Ma anche lui diceva che i sentimenti valgono più delle cose materiali. Per fortuna i cimeli sportivi non li hanno rubati perché non erano in casa, li conservavamo da un’altra parte”. Una lunga storia d’amore quella tra Federica e Pablito iniziata nel 2003. La ricorda anche il giornalista ed editore Francesco Bogliari su Facebook: Nell’aprile di quell’anno, Libri Schweiller, di cui ero amministratore delegato pubblicò un libro sulla Juventus (“Razza Juve, 15 uomini che hanno fatto la storia bianconera”) nato su iniziativa di Giancarlo Mazzuca”. Uno degli autori di quel volume era Federica Cappelletti, giornalista de “La Nazione”. In giugno il libro fu presentato a Perugia. Federica e Paolo si conobbero in quell’occasione. Parlando degli ultimi giorni di Rossi, la moglie ha spiegato di aver cercato di “proteggerlo” fino all’ultimo. Sandro Altobelli confessa che gli sarebbe piaciuto “accompagnarlo negli ultimi momenti. “Avrei voluto chiamarvi – risponde Federica - ci ho pensato molto ma per lui sarebbe stato troppo, vedendovi avrebbe capito di essere vicino alla fine”. “Spillo” definisce “inimitabile” Paolino. “Mai nessuno potrà fare quello che ha fatto lui nonostante i problemi alle ginocchia. Gli mancavano tre menischi. Noi gli dicevamo: ma come fai a giocare?” Paolo Rossi, il giocatore di tutti. Si parla dell’idea di intitolargli lo Stadio Olimpico di Roma? La moglie appoggia l’iniziativa. “La maglia azzurra se la sentiva cucita addosso…”
Estratto dell'intervista di MARIA NOVELLA DE LUCA PER LA REPUBBLICA il 14 dicembre 2020. (...)
Federica Cappelletti, cosa vi hanno rubato?
«L'oggetto a cui tenevo di più era l'orologio che Paolo indossava tutti i giorni, per fortuna i trofei ci sono ancora tutti, così le maglie e i ricordi. Ma ci vorrà del tempo per capire davvero cosa ci hanno portato via».
Come si è sentita quando ha saputo del furto?
«Addolorata, sconvolta. Hanno voluto infangare la cerimonia dell'addio di un uomo amato da tutti. Sciacalli del dolore. Ma permetterò a queste miserie di oscurare il fiume d'amore che ha circondato Paolo e noi in questi giorni. Paolo non l'avrebbe voluto. Lui riusciva sempre a sorridere alla vita. Anche durante la malattia».
Eravate tornati da un viaggio alle Maldive con le bambine.
«Sì, a marzo 2020, per festeggiare i nostri dieci anni di matrimonio e i nostri diciotto anni d'amore. Dopo la gioia del viaggio, la scoperta del tumore. Una beffa del destino. Ma sembrava risolvibile. Dicevo sempre: "Paolo, la battaglia contro la malattia è il nostro Mundial, mica possiamo perderlo". Un campionato nostro, di noi due, così come il 1982 era stato la vittoria di tutti gli italiani. Invece la speranza è andata via via spegnendosi».
(...)
Ci saranno stadi, ma anche vie e piazze intitolate a suo marito.
«È vero, ed è bellissimo. Ci sono proposte da Prato, Vicenza, per il settore giovanile dello stadio di Perugia. E intitoleranno a Paolo il premio per il miglior capocannoniere dell'anno».
Si parla anche dell'Olimpico.
«Sarebbe un onore. Ma forse Totti poi potrebbe dispiacersi».
Roberto Baggio ha detto a Giampaolo Visetti di Repubblica che "il sorriso di Pablito era come l'amore materno".
«Baggio è un grandissimo amico. Sua moglie Andreina mi ha chiamato e mi ha detto che Roberto non smette di piangere».
Estratto dall'articolo di Massimo Fini per ''il Fatto Quotidiano'' il 15 dicembre 2020. Paolo Rossi, per tutti Pablito, è stato sempre molto amato dagli italiani, e continuerà a esserlo, perché principale artefice della vittoria della nostra Nazionale ai Mondiali del 1982 (…) Vedo però che anche con Rossi si sta ripetendo l’errore fatto con Diego Armando Maradona. (…) Lo si descrive innanzitutto come “uomo probo”. Bene, Rossi fu uno dei protagonisti del calcioscommesse nel quale noti malviventi si mettevano d’accordo con i calciatori per truccare le partite. All’epoca mi colpì in particolare un episodio, uno di questi malviventi era andato nel ritiro del Perugia, dove allora giocava Rossi. Avvicinò un giocatore perugino per trovare un accordo e quello gli disse “chiedilo al ‘nove’, è lui che decide”. E il ‘nove’ era Paolo Rossi, “l’uomo probo”. Fu squalificato per due anni e forse fu proprio questo lungo digiuno che lo rese, lui che aveva come massima dote grandi riflessi, non la tecnica, ancora più reattivo del solito. (…) Ogni volta che muore qualcuno per un qualche accidente umano che arriva alla cronaca coloro che conoscevano il “caro estinto”, e con essi i media riportanti, lo descrivono sempre come “marito esemplare”, “padre affettuosissimo”, “gran lavoratore”. Ora se così è non si capisce perché mai siamo immersi in un mondo di canaglie. (…)
· E’ morto Maradona. E’ morto il calcio.
LA MALATTIA
Da liberoquotidiano.it il 4 novembre 2020. Dopo l'operazione riuscita per Diego Armando Maradona inizia la fase di recupero. "Siamo felici che tutto sia andato per il meglio", ha dichiarato il figlio Diego. "L'ultimo contatto che ho avuto è stato con una mia zia alle 8 di stamattina in Italia: è stata una nottata insonne, per il trascorso clinico di mio padre ogni operazione diventa sempre un po' preoccupante. Ci tengo a dire che papà ha reagito benissimo, è nelle mani di un'equipe medica di altissimo livello", ha precisato. Sulle origini dell'edema: "Sono state scritte tante cose inesatte, anche brutte e senza rispetto. Noi come familiari abbiamo sofferto molto della dipendenza di mio padre in passato, ora ne è uscito alla grande e il suo passato con quanto accaduto non c'entra niente", taglia corto Maradona jr ai microfoni di Sky Sport. "Alla base di questo trauma c'è una botta riportata in una caduta o in qualche situazione domestica, della quale non ci eravamo mai accorti. La Tac ha rivelato questo edema che è stato rimosso tempestivamente", conclude Diego jr.
Da gazzetta.it il 4 novembre 2020. L’operazione al cervello per rimuovere il coagulo si è conclusa ed è andata a buon fine. “L’intervento a Maradona è stato un successo”, ha detto il portavoce del campione argentino Sebastian Sanchi. Che aggiunge: “Tutto è andato come previsto, Diego sta bene e sta riposando nella sua stanza”. Maradona è stato operato dal suo medico personale Leopoldo Luque, che ha detto: “Siamo riusciti a rimuovere il coagulo di sangue. Diego ha affrontato bene l’operazione. È sotto controllo. C’è un po’ di drenaggio. Rimarrà sotto osservazione”. Inizialmente Maradona era stato ricoverato per quella che pareva soltanto una forma di anemia, con un persistente stato di ansia e depressione. Poi invece è emersa la necessità di andare sotto i ferri. Diego è stato dunque trasferito nella clinica Olivos di Buenos Aires e l'ingresso dell'ambulanza è stato accompagnato da un corteo di mezzi delle forze dell'ordine, come si vede dalle immagini trasmesse sui social da TyC Sports, e di tifosi, alcuni con fumogeni azzurri. L'ematoma subdurale è un coagulo di sangue che fuoriesce dalle vene e mette sotto pressione il cervello. Può ferire o lacerare il tessuto cerebrale vicino. In altri casi, la quantità di sangue non è abbastanza significativa e si ha una prognosi migliore. Il quadro clinico di Maradona è peggiorato nelle ultime settimane ed è esploso in vista del suo 60° compleanno. Era in pubblico nei pochi minuti in cui ha potuto essere presente sul campo del Gimnasia per il debutto della sua squadra in Coppa. Altri dettagli arrivano da Stefano Ceci, amico e manager di Diego Armando Maradona, che ha parlato a Kiss Kiss Napoli: "Sarà operato, gli è stato trovato dopo una Tac un ematoma al cervello dovuto a un trauma. Avrà sbattuto la testa e non se ne sarà reso conto, capita dopo le pillole che prende per la mancanza del sonno. Erano diversi giorni che era abbattuto, è molto giù a livello psicologico e a questo si è aggiunta anche l'anemia. Il suo corpo negli anni è stato molto provato dalla vita sregolata che ha condotto e anche la pandemia a livello psicologico non l’ha aiutato. È stato rinchiuso da mesi solo con la cuoca e un aiutante, non incontra neanche i familiari da inizio pandemia".
Maradona operato, salvo «solo per l’intuizione di un medico». Ma restano i problemi. Marco Bonarrigo su Il Corriere della Sera il 5 novembre 2020. Rimosso l’edema, adesso Diego è in rianimazione. Il neurologo: «Parametri ottimali, recupero avviato». Il racconto dell’ex fidanzata sull’abuso di alcol e i tanti ricoveri. Se l’è cavata anche questa volta, il vecchio Maradona. Martedì notte i chirurghi della Clinica Olivos di Buenos Aires (un sanatorio di proprietà svizzera per argentini ricchi come lui) hanno impiegato 80 minuti (dieci in meno di una partita di calcio) per asportargli un pezzo della calotta cranica, rimuovere l’edema che faceva pressione sul cervello e richiudere tutto. Poi l’hanno spostato in rianimazione (ci resterà qualche giorno) dove già nel pomeriggio avrebbe sorriso e stretto la mano al dottor Luque, il neurologo che lo segue e che ha rassicurato il mondo parlando di «parametri neurologici ottimali, stato del paziente eccellente, recupero avviato». Pochi ammettono che Diego è vivo solo per «una felice intuizione medica», come ha dichiarato Matias Morla, il suo avvocato, che ha ribaltato la diagnosi iniziale e consolatoria di stress. La varia e abbondante umanità che da martedì sera (quando l’ambulanza con Diego a bordo è arrivata da La Plata) sosta adorante davanti al sanatorio di avenida Maipù ha tirato un sospiro di sollievo: l’Argentina non è pronta a lasciarlo andare, non a sessant’anni appena compiuti. Idealmente, attorno al suo letto si sono stretti gli otto figli, capi di stato (i presidenti argentino Fernández e venezuelano Maduro), colleghi come Messi, (che però non gli aveva fatto gli auguri per il compleanno, «Tutta la forza del mondo con te, Diego»), milioni di like e post di tifosi. Ma, come ha scritto su Facebook Fernando Signorini, il suo storico preparatore atletico, «la migliore cura per Diego sarebbe isolarlo, soprattutto per dargli la pace interiore di cui ha bisogno e che merita». Una pace che non ha trovato tuffandosi sulla panchina del glorioso ma decaduto Gimnasia La Plata, prima divisione del campionato nazionale, da cui si alzava a fatica, passando da un farmaco all’altro per combattere la depressione o abusando di alcool, come sostiene la sua ex fidanzata Rocio che ha parlato di recenti, ripetuti ricoveri in clinica completamente infruttuosi perché all’uscita «tanto Diego torna a bere, disidratarsi e cadere nella depressione». Non l’aiutano i rapporti pessimi con la ex moglie Claudia e le figlie, in particolare con Giannina, con cui da anni è in causa per questioni di soldi col contorno di orrende liti via social. Per sfuggire da una routine che lo stava opprimendo, lo scorso anno Maradona ha accettato di allenare pur non avendo forza fisica ed equilibrio mentale per gestire una squadra, lui che da mister anarchico ne ha combinate di tutti i colori anche quando era abbastanza in forma e lucido. Quando uscirà dalla clinica (se va bene la prossima settimana) dovrà decidere il suo futuro. O potrà come sempre delegarlo alla sua variopinta cricca di avvocati, medici, agenti e improbabili tuttofare. Senza un vero percorso di guarigione (Cuba sarebbe di nuovo pronta ad ospitarlo) la sua salute resterà a forte rischio di ricadute e il mondo di perdere per sempre un fenomeno irregolare, irraggiungibile.
Maradona ha 60 anni: ecco i 7 «miracoli» del Pibe de oro a Napoli. L’arrivo in una città simile alla sua Buenos Aires, la promessa di lottare per i poveri come lui, tanti ricordi-simbolo da far scorrere più di trent’anni dopo...Fiorenzo Radogna su Il Corriere della Sera il 29/10/2020. Travolgente e viscerale; folkloristica e multicolore; vincente eppure dolente. Simbiosi - oltre il calcio - di riaffermazione identitaria; di riscatto (non solo sportivo) di un popolo intero e la sua metropoli. Bellissima, affastellata e incompresa (anche da sé stessa) nelle proprie enormi potenzialità. È la storia di Diego Armando Maradona (60 anni questo 30 ottobre) a Napoli.
Marco Bonarrigo per il “Corriere della Sera” il 5 novembre 2020. Se l' è cavata anche questa volta, il vecchio Maradona. Ieri notte i chirurghi della Clinica Olivos di Buenos Aires (un sanatorio di proprietà svizzera per argentini ricchi come lui) hanno impiegato 80 minuti (dieci in meno di una partita di calcio) per asportargli un pezzo della calotta cranica, rimuovere l' edema che faceva pressione sul cervello e richiudere tutto. Poi l' hanno spostato in rianimazione (ci resterà qualche giorno) dove già nel pomeriggio avrebbe sorriso e stretto la mano al dottor Luque, il neurologo che lo segue e che ha rassicurato il mondo parlando di «parametri neurologici ottimali, stato del paziente eccellente, recupero avviato». Pochi ammettono che Diego è vivo solo per «una felice intuizione medica», come ha dichiarato Matias Morla, il suo avvocato, che ha ribaltato la diagnosi iniziale e consolatoria di stress. La varia e abbondante umanità che da ieri sera (quando l' ambulanza con Diego a bordo è arrivata da La Plata) sosta adorante davanti al sanatorio di avenida Maipù ha tirato un sospiro di sollievo: l' Argentina non è pronta a lasciarlo andare, non a sessant' anni appena compiuti. Idealmente, attorno al suo letto si sono stretti gli otto figli, capi di stato (i presidenti argentino Fernández e venezuelano Maduro), colleghi come Messi («Tutta la forza del mondo con te, Diego»), milioni di like e post di tifosi. Ma, come ha scritto su Facebook Fernando Signorini, il suo storico preparatore atletico, «la migliore cura per Diego sarebbe isolarlo, soprattutto per dargli la pace interiore di cui ha bisogno e che merita». Una pace che non ha trovato tuffandosi sulla panchina del glorioso ma decaduto Gimnasia La Plata, prima divisione del campionato nazionale, da cui si alzava a fatica, passando da un farmaco all' altro per combattere la depressione o abusando di alcool, come sostiene la sua ex fidanzata Rocio che ha parlato di recenti, ripetuti ricoveri in clinica completamente infruttuosi perché all' uscita «tanto Diego torna a bere, disidratarsi e cadere nella depressione». Non l' aiutano i rapporti pessimi con la ex moglie Claudia e le figlie, in particolare con Giannina, con cui da anni è in causa per questioni di soldi col contorno di orrende liti via social. Per sfuggire da una routine che lo stava opprimendo, lo scorso anno Maradona ha accettato di allenare pur non avendo forza fisica ed equilibrio mentale per gestire una squadra, lui che da mister anarchico ne ha combinate di tutti i colori anche quando era abbastanza in forma e lucido. Quando uscirà dalla clinica (se va bene la prossima settimana) dovrà decidere il suo futuro. O potrà come sempre delegarlo alla sua variopinta cricca di avvocati, medici, agenti e improbabili tuttofare. Senza un vero percorso di guarigione (Cuba sarebbe di nuovo pronta ad ospitarlo) la sua salute resterà a forte rischio di ricadute e il mondo di perdere un fenomeno irregolare, irraggiungibile.
Paolo Galassi per la Repubblica il 5 novembre 2020. L'operazione alla testa, nella notte fra lunedì e martedì, è andata bene. Almeno sembra. Per Diego Armando Maradona si prevede una degenza di una settimana e un periodo indefinito di riposo. Forse non era il caso di farlo sfilare in campo, il giorno del suo 60° compleanno. Forse, per la sua salute, non era nemmeno il caso di mettergli in mano una squadra, come se alla fine non fosse il suo vice Sebastián Méndez a dirigerla e metterla in campo. Difficile dirgli di no, certo. Difficile anche rinunciare ai ghiotti contratti che lo accompagnano ovunque, inevitabilmente destinati a solleticare chi lo circonda. Finché dura, meglio essere nel posto giusto al momento giusto. Gli hanno mandato abbracci il presidente argentino Alberto Fernández e l'ex presidenta Cristina Kirchner, passata più o meno per lo stesso problema sei anni fa. Evo Morales, Nicolás Maduro e pure un figlio di Fidel Castro. Una carovana di devoti è partita da La Plata in direzione Buenos Aires, con l'idea di stazionare fuori dalla Clinica Olivos per il cosiddetto aguante , ennesimo termine che fuori dal Rio de la Plata è difficile spiegare. Un po' come il culto del Diego e del dizionario Maradoniano, un'antologia di metafore con cui immortalare luci e ombre di un paese intero. El perfume del pasto, il profumo dell'erba, è l'immagine con cui negli ultimi tempi era solito spiegare la sua nostalgia per il campo da pallone. L'odore del cuoio, il sapore del fútbol. Se non giocato, almeno accarezzato a bordocampo, come un nonno che porta il nipote a veder passare i treni. Un Maradona acciaccato, portato in giro dal Diego fanciullo, immune al tempo e alle stagioni. Dalla panchina dei Dorados di Sinaloa, in Messico, a quella del Gimnasia di La Plata, strategia di mercato costruita attorno a lui dai personaggi che ne gestiscono l'immagine, i telefoni, l'agenda e che ne filtrano persino le relazioni familiari. Almeno così pare, stando agli sfoghi di Dalma e Gianinna, figlie del suo primo e unico matrimonio (con Claudia Villafañe), capostipiti di un clan infinito, oggi sul piede di guerra con l'altro clan, quello dei «chupasangre». I succhiasangue che badano solo a «spremere il limone fino all'ultima goccia», secondo l'espressione usata da Fernando Signorini, storico preparatore atletico di Diego tra Barcellona e Napoli. Uno dei pochi a mettere in guardia il pibe Pelusa dall'idolo capace di inghiottirlo. Cupio Dissolvi, il motto latino sul'autodistruzione attribuito a San Paolo, che non a caso a Fuorigrotta ha il suo tempio pagano. «Scrivi un messaggio a Maradona, qualcuno lo legge per lui e ti blocca », ha detto lunedì il Negro Enrique, ex compagno di nazionale, abituato a scherzare sul presunto assist servito a Diego per il gol del secolo agli inglesi nell'86. In pratica, l'ultimo a toccare la palla prima del miracolo. Lo stesso reclamo burlone di Eraldo Pecci sull'impossibile punizione segnata da Diego alla Juve, il 3 novembre del 1985. Lo stesso giorno in cui, 35 anni dopo, finirà sotto ai ferri. Oggi come allora, il nucleo dell'affaire Maradona si riassume con un concetto spesso associato a Johan Cruyff (parentesi: la sua prima volta con il leggendario numero 14 sarà un 30 ottobre del '70, giorno del compleanno di Diego, ma questa è un altra storia). Da allenatore del Barça, il divino Johan parlò di entorno, per definire tutto ciò che circonda e influenza un calciatore o una squadra. Un parametro utilizzato per spiegare la Messi-novela di qualche tempo fa, e per giustificare l'ultima deriva di Diego. Ormai abituato ai fantasmi di certe notti buie, e spesso sporche.
Da ansa.it il 6 novembre 2020. "Per prima cosa vorrei dire che Diego sta bene. E anche la tomografia a cui è stato sottoposto è andata bene. Abbiamo perfino ballato...sì, ballato". Lo ha detto poco fa il dottor Leopoldo Luque, il medico neurologo che segue da anni Diego Maradona e che due giorni fa lo ha operato per un ematoma al cervello. "A margine di tutto questo - ha aggiunto Luque - abbiamo rilevato degli episodi di 'confusione' e, assieme ai colleghi del reparto di terapia intensiva, li abbiamo associati a un quadro di astinenza. Quindi pensiamo debba rimanere ancora qui, è la cosa migliore per Diego e lui lo sa". Il problema di Maradona sarebbe di dover 'pulire' il corpo dagli effetti collaterali dei farmaci che prende da anni e che, in qualche caso, non facendo quasi più effetto arriverebbero ad essere tossici. L'ex fuoriclasse ha bisogno di riposo ma ha comunque ribadito al suo avvocato, e amico, Matias Morla, che lo è andato a trovare, di voler continuare a fare l'allenatore del Gimnasia La Plata. Il club, da parte sua, ha fatto sapere che lo aspetterà.
Da repubblica.it il 6 novembre 2020. Nessuna complicazione e il recupero procede a passi spediti. Arrivano buone notizie dalla clinica privata di Buenos Aires sulle condizioni di Diego Armando Maradona dopo l'operazione al cervello per rimuovere un coagulo di sangue a cui l'ex Pibe de Oro si è dovuto sottoporre martedì dopo un malore improvviso. "L'ho appena visto, è di ottimo umore. Siamo stupiti di come sta guarendo", ha detto il medico, Leopoldo Luque, che nella notte italiana ha fornito un aggiornamento sulle condizioni del campione, oggi 60enne. "Dobbiamo essere cauti, perché siamo ancora nel periodo post-operatorio - ha ammonito il dottore parlando con i giornalisti -. Ma è chiaro che non ha complicazioni neurologiche. Ci sono altri parametri che aspettiamo di valutare perché è ancora molto presto. Ma la ripresa è ottima". I commenti hanno suscitato forti applausi e cori di incoraggiamento da parte dei sostenitori di Maradona che attendono notizie fuori dalla clinica. Maradona era stato portato all'ospedale di La Plata - dove è l'allenatore della squadra Gimnasia ed Esgrima - lunedì per una serie di test dopo essersi sentito male. Una tac ha rivelato il coagulo di sangue. Il "Pibe de Oro" ha già sofferto di problemi di salute. È sopravvissuto a due attacchi di cuore, ha anche contratto l'epatite e ha subito un intervento di bypass gastrico. Per questi motivi è considerato ad alto rischio in relazione alla pandemia di coronavirus, che ha colpito duramente l'Argentina. Diverse volte negli ultimi otto mesi è stato in isolamento ed è stato costretto a rimanere a casa la scorsa settimana dopo che una guardia del corpo ha mostrato sintomi del Covid, anche se in seguito è risultato negativo. La figlia Dalma ha detto di avergli fatto visita dopo l'operazione, ma non ha fornito ulteriori dettagli sulle sue condizioni. "Voglio solo ringraziare tutti per le continue dimostrazioni di amore per mio padre, per mia sorella e per me, grazie a tutti coloro che hanno pregato per lui", ha twittato.
Maradona, ex medico: “Ingestibile, ha sostituito la droga con l’alcool”. Notizie.it l'08/11/2020. Maradona deve fare i conti con l’astinenza: “Le sue condizioni ricordano quelle di quando fu costretto a ricoverarsi a Cuba". L’ex campione del mondo argentino Diego Armando Maradona è ancora ricoverato in ospedale dopo l’operazione al cervello di qualche giorno fa per rimuovere un edema subdurale. I medici, durante una conferenza stampa, hanno aggiornato tutti gli appassionati sulle sue condizioni, raccontando dei suoi “progressi costanti e l’eccellente decorso post operatorio”. “Si sente molto debole anche per la dieta alla quale si è sottoposto – hanno continuato i medici -. La realtà è che per Diego è stata una settimana particolare. Ha subito molte pressioni dal punto di vista emotivo e queste cose hanno influito sulla sua condizione generale”. Durante il lungo ricovero, però, Diego Armando Maradona deve fare i conti con l’astinenza: “Le sue condizioni oggi ricordano molto quelle di quando fu costretto a ricoverarsi a Cuba per disintossicarsi dalla cocaina. Maradona ha sostituito la droga con l’alcool. Così è ingestibile“, ha svelato Alfredo Cahe, ex medico che curò Maradona. E ancora: “Un problema dovuto allo stile di vita passato. Maradona resta sedato per via endovenosa, anche se stiamo progressivamente diminuendo le dosi. Ma non ci saranno grandi cambiamenti di terapia nei prossimi giorni. Resterà ricoverato almeno fino a lunedì”. Infine: “La riabilitazione richiederà tempo“. Intanto qualche utente ha scritto un Tweet dai toni poetici: “Forza, Diego. È come contro l’Inghilterra, anche questa sfida tocca vincerla ‘un poco con la cabeza y otro poco con la mano de Dios‘”.
Da ansa.it il 12 novembre 2020. Diego Armando Maradona è stato dimesso ieri dalla clinica di Olivos, dove otto giorni fa era stato operato per un ematoma subdurale. L'ex fuoriclasse del calcio è stato portato in una casa affittata nel centro residenziale Villanueva a Tigre, località a nord dell'area metropolitana di Buenos Aires. Qui Maradona si sottoporrà ai trattamenti necessari per curare la sua dipendenza dall'alcol e da alcuni farmaci. La località dove Maradona trascorrerà questo periodo non è stata scelta a caso, in quanto a poche centinaia di metri vive Giannina, figlia dell'ex Pibe de oro e autentica 'capofamiglia' in questo delicato momento. Sarà lei a occuparsi del padre e a stargli vicina.
Da sport.sky.it il 12 novembre 2020. A rassicurare sulle condizioni di Maradona in seguito all'intervento di rimozione di un edema subdurale era già stato nel pomeriggio di mercoledì il suo avvocato-manager Matias Morla: "Quella a cui è stato sottoposto Diego non è stata affatto un'operazione di routine, per me è un miracolo che sia vivo. Credo che Diego abbia vissuto il momento più duro della sua vita. Per fortuna la settimana scorsa questo pericolo è passato perchè l'intervento del dottor Luque è stato tempestivo. Diego è una roccia e ora credo che oggi verrà dimesso, ma non so a che ora. Con lui ho parlato e so che ha tanta voglia di tirarsi fuori dai problemi personali che ha. Intanto bisogna che ci sia una riunione con i suoi familiari e con i medici che si occupano di lui. Con attorno i dottori e la sua famiglia, Diego tornerà felice come dovrebbe essere. Insieme dovremo fargli ritrovare amore e serenità".
Salvatore Riggio per corriere.it il 13 dicembre 2020. Proseguono le indagini sulla morte di Diego Armando Maradona, morto il 25 novembre a Tigre in circostanze ancora da chiarire. Come riportano i media argentini, gli investigatori hanno raccolto tutto il materiale requisito nelle perquisizioni fatte nei domicili e negli studi professionali dei due indagati: il neurochirurgo Leopoldo Luque e la psichiatra Agustina Cosachov. Dove dormiva. «I magistrati hanno aperto le scatole e i faldoni in cui sono stati classificati i documenti e gli oggetti requisiti, compresi cellulari», ha spiegato l’avvocato dell’ex psichiatra del Pibe de Oro, Vadim Mischanchuk. Nei prossimi giorni saranno analizzati i cellulari e le conversazioni intercorse tra Luque e Cosachov: «Da quanto ho potuto constatare io, tra la mia cliente e gli altri specialisti che seguivano Maradona c’era una comunicazione costante e fluida. So per certo che c’erano in tutto sei infermieri a darsi il cambio e con tutti c’era totale collaborazione circa il trattamento da fornire a Maradona. Il coordinamento tra medici, infermieri e famiglia è sempre stato massimo», ha continuato il legale.
I soccorsi chiamati in ritardo da un medico che non era con Diego. Intanto, proseguono anche la lotta per l’eredità dell’ex fuoriclasse del Napoli e quella per il riconoscimento di altri sei presunti figli sparsi tra Argentina e Cuba (oltre ai cinque legittimi). Sempre secondo quanto riporta la stampa argentina, le primogenite di Diego – Dalma e Giannina – sono disposte a eseguire una prova del Dna per capire se Santiago Lara e Magalì – i due argentini da poco maggiorenni che sostengono di essere figli di Diego – dicano il vero.
Pillole, alcool e sigari: il video di Maradona prima del ricovero. Notizie.it il 13/12/2020. Sigaro in mano, alcool e pillole: ecco come viveva Maradona pochi giorni prima dell'intervento alla testa. In un video esclusivo pubblicato dalla trasmissione “Confrontados” dell’emittente televisiva “El Nueve” Maradona canta e balla con un amico, e si intravedono sul tavolo alcool, sigaro in mano e un tubetto di pillole. Secondo l’emittente argentina, così viveva l’ex pibe de oro pochi giorni prima dell’operazione alla testa. In un video pubblicato dalla Gazzetta dello Sport Diego Armando Maradona canta con l’amico Mariano Castro, ma preoccupa la presenza di alcool, sigari e un tubetto di pillole sul tavolo accanto. Questo video di pochi secondi è un estratto di un documentario pubblicato dalla trasmissione “Confrontados” dell’emittente televisiva argentina “El Nueve”. Secondo quanto dichiarato nel programma, pare che queste immagini risalgano a pochi giorni prima dell’operazione alla testa e conseguente ricovero. Intanto gli inquirenti continuano nelle indagini sulla morte del diez argentino. In particolare, questa volta si prevede una perizia accurata dei cellulari dei due medici attualmente indagati come primi responsabili della morte di Maradona. In corso l’esame delle conversazioni telefoniche tra il medico Leopoldo Luque e la psichiatra Agustina Cosachev. Entrambi sono accusati di negligenza, e nel caso le indagini portassero a prove schiaccianti, potrebbero essere accusati di omicidio colposo. “Da quanto ho potuto constatare io, tra la mia cliente e gli altri specialisti che seguivano Maradona c’era una comunicazione costante e fluida. Il coordinamento tra medici, infermieri e famiglia è sempre stato massimo“, ha commentato Vadima Mishancuk, il legale della Cosachov.
Salvatore Riggio per corriere.it il 2 novembre 2020. Possibile che Lionel Messi non abbia fatto gli auguri a Diego Armando Maradona? Sì, possibile. Due giorni fa, venerdì 30 ottobre, l’ex Pibe de Oro ha compiuto 60 anni e tutto il mondo del calcio (e non solo) lo ha osannato ricordando le sue meravigliose imprese con l’Argentina e, soprattutto, con il Napoli. Il demone che ha portato il calcio in Paradiso con le sue giocate, i suoi dribbling, i suoi gol. Il fuoriclasse che ha saputo contrastare nel migliore dei modi ogni avversario. All’appello degli auguri, però, non sono presenti quelli di Messi. Tra tutti, proprio quello che è considerato il suo degno erede, nonostante gli manchi il grande successo con l’Albiceleste, sfiorato in quattro occasioni, una volta al Mondiale 2014 in Brasile (sconfitta ai supplementari contro la Germania) e tre volte in Coppa America (2007, 2015 e 2016). Come si può ben comprendere, il silenzio dell’attaccante del Barcellona non poteva passare inosservato. Perfino Cristiano Ronaldo, acerrimo rivale della Pulce in campo, ha elogiato Maradona, nonostante in passato si fosse autoproclamato il calciatore migliore di tutti i tempi, anche al di sopra di Maradona stesso o di Pelé. Le ipotesi In Argentina sono divisi sul mutismo di Messi. C’è chi lo difende, spiegando che la Pulce non è mai stato molto presente sui social per eventi del genere, c’è chi però gli ricorda gli auguri dell’ex Pibe de Oro il 24 giugno, quando Leo ha compiuto 33 anni: «Il mondo ti saluta, Leo Messi, che tu sia felicissimo». C’è chi parla di gelosia verso il più grande, c’è chi spiega di litigi o incomprensioni, magari mai realmente avvenuti. Ma c’è chi fa della sana ironia. E se Messi si fosse dimenticato il compleanno del suo maestro, suo c.t. al Mondiale di Sudafrica 2010? Chissà. Magari un fraintendimento tra il campione del Barcellona – in questo momento affaccendato in altre faccende, dopo le dimissioni del nemico Josep Maria Bartomeu, oggi ex presidente dei catalani – e il suo social manager, uno dei tanti elementi di spicco del proprio entourage. Non lo sapremo mai, se non sarà lui stesso a spiegarlo. Intanto, forse, suonano a pennello le parole di Quique Setien, ex allenatore dei blaugrana. Per lui non è stato facile allenare Messi, come ha rivelato a El Pais: «È il migliore di sempre. Ci sono stati altri grandi calciatori, ma la continuità che ha avuto lui nel corso degli anni non ce l’ha avuta nessuno, neanche Pelè. È molti riservato, ma ti fa capire quello che vuole. Non parla molto, ma con lo sguardo ti dice tutto. La verità è che ci sono calciatori complicati da gestire e Leo è uno di quelli. È il migliore di sempre e chi sono io per cambiarlo?». Basteranno queste parole per giustificare l’assenza di Lionel nel giorno del 60esimo compleanno di Maradona?
Da itasportpress.itil 27 ottobre 2020. Diego Maradona, ha detto che considera l’attaccante del Barcellona Lionel Messi e l’attaccante della Juventus Cristiano Ronaldo i migliori calciatori del mondo. “Messi e Ronaldo, Ronaldo e Messi … Per me, questi due sono superiori agli altri. Non vedo nessuno che si avvicina a loro. Nessuno fa nemmeno la metà di quello che fanno i due”, cita Maradona, France Football. Poi l’ex campione del mondo con l’Argentina ricorda l’episodio della ‘mano di Dio’ nel 1986: “Sogno di segnare un altro gol all’Inghilterra, ma questa volta con la mano destra!”. Maradona nei quarti di finale della Coppa del Mondo 1986, realizzò un gol alla nazionale inglese con la mano sinistra. L’arbitro ritenne che la palla fosse stata colpita con la testa e assegnò il gol. In quella partita, la nazionale argentina batté l’Inghilterra 2-1 e successivamente vinse la finale con la Germania. Maradona è stato nominato il miglior giocatore del campionato del mondo in Messico.
Maradona ha 60 anni: Diego simbolo di liberazione, ha giocato il calcio più bello di sempre. Mario Sconcerti su Il Corriere della Sera il 30/10/2020. È impossibile giudicare Maradona solo come calciatore. Si può fare per Di Stefano, Pelè, non per lui. Maradona. è stato un simbolo di liberazione, uno che attraverso il calcio guidava la gente a riscattarsi, che dentro di sé non tollerava regole ma le portava agli altri. Era un sole dell’avvenire prosaico ma reale. Ha portato felicità concreta sbattendo Napoli in faccia all’Italia, ne ha descritto la grandezza moderna, l’ha scossa dalla sua distrazione e rimessa al centro del mondo. Maradona non è un eroe positivo né ha mai voluto esserlo. Credo si sia sempre sentito un martire della sua diversità, il mondo era cattivo perché la rifiutava, perché lui era eccessivo, melodrammatico, esagerato da sopportare. Viveva in mezzo a una corte di amici che lo aiutava a farsi re, una corte fraterna e golosa, fra concubine e cocaina. Poi alle prime luci dell’alba le prostitute di strada lo vedevano arrivare malinconico, meditando sui suoi errori. Gli si mettevano intorno e lo ascoltavano, dicono si commuovesse.
Momenti scioccanti di un uomo «scioccante». Tutti gli hanno sempre perdonato tutto perché Maradona ha preso e dato tutto. Commiserandosi, piangendo, gridando, non rispettando né il calcio né se stesso, ma dicendo sempre sì agli altri. Ho parlato con tanti suoi ex compagni di squadra, lo adorano ancora. Perché li ha fatti vincere dove nessuno aveva vinto e perché era davvero un compagno di strada, era generoso, esagerato. Un leader mai sospettoso ma dirimente, sentivi che aveva ragione perché lo diceva lui. È andato oltre il calcio, ha preso la vita a dosi massicce, ne è stato qualche volta travolto, è rimasto sempre ben dentro al mondo, sempre certo di due cose: che erano giuste le sue visioni e che non avrebbe mai potuto essere come gli altri. Ha sbagliato molto, si è entusiasmato anche di più. Credo sia un buon risultato. Il giocatore è stato unico, questo è facile, lo abbiamo visto tutti. Il calcio si stava organizzando e lui era un solista naturale. Scelse di farlo in mezzo agli altri. Il Napoli vinceva, dei valori si rovesciavano, bastava poco per chiamarla rivoluzione. Nessuno ha mai giocato al calcio come Maradona. Alcuni hanno fatto di più, vinto di più, vissuto meglio. Ma il calcio di Maradona resta il calcio più bello, scolaro della migliore grammatica tecnica. Si può interpretarlo diversamente come Cruyff, o in altri ruoli come per esempio Guardiola in panchina, ma non si può fare di meglio.
Maradonapoli. Ha vinto tutto, è riuscito ad appaiare Pelè come miglior giocatore del Novecento nelle classiche ufficiali della Fifa, lui che è stato sospeso dal calcio due volte per doping. Ha avuto il Pallone d’oro alla carriera perché inesistente quando giocava lui (era riservato solo agli europei). Ha segnato un gol all’Inghilterra che è ancora il più bello e nella stessa partita ne ha segnato un altro d’inganno con la mano. Questo era Maradona, le due facce della medaglia. Ma quando mi sono trovato solo con lui dietro i palcoscenici di Sky a parlare di vita, dopo quarant’anni di mestiere sentii che ero in soggezione. Avevo davanti un uomo sbagliato e magico che sembrava travolgerti ad ogni idea. Era piccolo e grasso, allora tanto grasso, ma sentivi solo il rumore del fascino. Buon compleanno Diego. Non ti scusare mai. Siamo tutti pari.
Claudio De Carli per “il Giornale” il 27 ottobre 2020. Ho sempre detto a Diego di smettere di mangiare troppo. Gli dico sempre che è grasso, sono la sua mamma, so quando certe cose sono sbagliate, adesso si è fatto una bella indigestione, comunque gli faranno una flebo e tutto tornerà a posto. Forse la vita del Pibe si può riassumere in questa reazione di mamma Tota quando quel giorno le telefonano da Punte de l' Este in Uruguay per avvisarla che il figlio è ricoverato per arresto cardiaco. Senza altri particolari. Quante cose nascoste e quante ne ha nascoste lui: Hai voluto vedere come palleggio con un' arancia, ha detto a un cronista ficcanaso, ti è piaciuto? Ti sei accorto che mentre palleggiavo l' ho toccata anche con la mano? No?
Neanche l' arbitro quel giorno contro gli inglesi. Con quel bel faccione d' argentino di casa nostra. Adesso ne fa sessanta e il meglio lo abbiamo visto qui noi, compreso il suo miglior mondiale, ne ha vinti uno ma quello che ha lasciato giù all' Olimpico per una ingiusta decisione del signor Codesal, è stato il suo, con una gamba sola e dieci modesti amici che ha portato in finale. Se ne era sorpreso anche Pelè: Questa Argentina è radicalmente cambiata da Messico '86, così mediocre non l' avevo mai vista, povero Maradona, deve sentirsi così solo...O' Rey ha fatto male i conti, non era iniziata bene a Milano con quel gol di Oman Biyik, ma El Diez non si era scosso: arriviamo fino in fondo. Per uno che se va a una festa in smoking bianco e dal cielo piove un pallone infangato lo stoppa col petto, dichiarazione di Cornejo il suo scopritore ufficiale, niente è già scritto. Nuvole sopra Baires, Lanus, una ventina di chilometri dalla capitale, qui Dona Tota regala al mondo un bambino che resta solo suo per pochissimo tempo e le ha dato più gioie e dolori di qualunque altro figlio sulla terra. Diego quando è cresciuto e ha fatto i soldi l' ha ricompensata per non farle mancare niente e a Villa Devoto, il quartiere periferico più pulito di Baires, ha costruito una residenza con un enorme parco attorno e una piscina dove la mamma galleggia mentre alza gli occhi e vede le nuvole passare. Lui è andato al quartiere Palermo, appartamento al decimo piano in Avenida Libertador 2.800, nel viale dove passeggia l' upper class argentina, e anche se ha volentieri cambiato letto, Dona Tota è sempre stata la prima a saperlo, prima che Coppola le desse un colpo di telefono e prima che uscisse la storia triste sulle edizioni straordinarie. Attorno a lui tutto è straordinario, immenso, gol di destro, di sinistro, di testa, capolavori, il rigore camminando che schianta Walter Zenga nella semifinale di Napoli non lo dimenticheremo mai. Con un rispetto poco consono sui campi per gli avversari, ne ha prese tante, falciato, insultato, non si ricordano reazioni. A Napoli volevano che lui li toccasse, erano e sono tuttora convinti che possa fare miracoli, volevano essere benedetti. Come quella volta che si trova nel parco divertimenti di Edenlandia in fuga dalla folla che lo circonda. Entra in un bar, c' è una signora in stato interessante che lo osserva: Ma che bel pancione, esclama, e le posa una mano sul grembo: Signora le faccio i miei complimenti e tanti auguri per il suo bambino. Bè, si racconta che quel bambino a due anni già palleggiava come un adulto, e tutti i mariti volevano portare le loro signore in gravidanza da Diego per ricevere una carezza sul pancione. «Guagliò, che vi siete persi», c' è scritto sui muri del cimitero. Poi da Napoli è dovuto scappare, brutte faccende, camorra, cocaina, un figlio, è arrivato dal cielo sopra un elicottero sceso dritto dritto sul cerchio del San Paolo quel giorno strapieno. Si è messo a palleggiare e non la finiva più, lo hanno interrotto perché stava andando a scatafascio il cerimoniale. Le Notti Magiche sono sue, con la Romania gioca con una caviglia gonfia contro il parere del medico, arriva il Brasile e Alemao, compagno al Napoli, prega gli altri nazionali: Niente calci al principale. Poi all' 82' dopo una partita dominata dai brasiliani, inventa una magia e manda Caniggia solo davanti al portiere, 1-0, avanti Argentina. E quando quella maledetta semifinale contro l' Italia si è giocata a Napoli, non è mai stato chiaro da che parte stava la gente. Lui uno degli scugnizzi che girano per il Maschio Angioino, uno come loro abituati a vendere tutto, soprattutto quello che non hanno, l' importante è confondere le idee e impacchettarle col fiocco. Lui bambino lo è sempre rimasto, facile incunearsi nelle sue debolezze. Prima della sfida con gli azzurri tira fuori le tre carte e incanta tutti. Poi è arrivata la Germania a Roma, lacrime durante l' inno argentino e quel rigore trasformato da Brehme: Un complotto contro di noi, hanno strappato anche la nostra bandiera. Ospiti a Trigoria? Il presidente della Roma veniva ogni giorno a vedere se avessimo fatto danni, per chi ci aveva preso? Sconfitti dalla mafia e da un rigore che non ha visto nessuno. Poi in America lo trattano da latinos, prima lo invitano con tante mille grazie, poi quando vedono che può andare a vincere il Mondiale lo squalificano per uso di sostanze stupefacenti. Tutti sapevano e conoscevano le sue abitudini. Adesso sul web non girano bei filmati, ma la gente gira la testa: È lui? Mah, io non ci credo.
LA MORTE
E' morto il calcio.
Dagospia il 25 novembre 2020. Ultim'ora drammatica proveniente dai media argentini: Diego Armando Maradona, il miglior calciatore di tutti i tempi, è morto questo mercoledì all'età di 60 anni dopo aver subito un arresto cardiorespiratorio. Inutlie il soccorso di tre ambulanze al Barrio San Andres, suo domicilio attuale a Buenos Aires.
Dal sito anteprima.news a cura di Giorgio Dell'Arti. Diego Armando Maradona, nato a Lanús (Buenos Aires, Argentina) il 30 ottobre 1960 (58 anni). Allenatore. Attualmente, tecnico dei Dorados de Sinaloa (dal 2018). Dirigente sportivo. Ex calciatore, di ruolo centrocampista, al suo apice nel Napoli (1984-1991) e nella Nazionale argentina (1977-1994). «Diego, fra Napoli e il mondo, vince tutto. Campionato mondiale, tre scudetti – uno con il Boca, due sotto il Vesuvio. Una Coppa Uefa, due coppe e due supercoppe nazionali con Barcellona e Napoli. Vince sei volte la classifica cannonieri, cinque in Argentina e una in Italia. Non vince un Pallone d’oro perché a quel tempo gli extraeuropei non potevano vincerlo. Nel 1995 glielo danno alla carriera» (Germano Bovolenta).
«Se anche fossi a un matrimonio vestito di bianco e vedessi un pallone infangato venire verso di me, lo prenderei di petto senza pensarci» «Se si conosce Buenos Aires, […] e soprattutto quel sud di Buenos Aires, rigorosamente povero, […] si capirà meglio il paesaggio urbano e umano in cui era cresciuto il mito Diego Armando Maradona, nato a Lanús il 30 ottobre 1960, quinto figlio di Dalma e Diego Maradona. Il padre disse appena lo vide: “Questo è un maschio: puro muscolo”» (Manuel Vázquez Montalbán).
«Il barrio di Maradona a Buenos Aires era Villa Fiorito, negli anni ’60 una giungla corrotta. […] Tutti i dieci Maradona vivevano in una baracca di tre stanze in cui l’unica acqua corrente era quella che arrivava dal tetto (“Ti bagnavi di più dentro che fuori”). L’ossessione per il calcio sembra assolutamente innata; non ci sono memorie che la precedono, e nessun interesse a sfidarla. Quando il bambino Diego andava a fare le commissioni, lo faceva palleggiando con un’arancia. Quando aveva tre anni il cugino gli regalò la sua prima palla di cuoio (“Dormivo con la palla e l’abbracciavo al mio petto”). E quando si recò al suo primo provino, all’età di nove anni, era così avanti che l’allenatore credette veramente di avere davanti un nano» (Martin Amis). «Il quadrilatero composto dalle strade Gavilán, Juan Agustín García, San Blás e Boyacá racchiude uno stadio vecchio e arrugginito, casa dell’Argentinos Juniors, che oggi porta il nome di […] Diego Armando Maradona. È in questo fazzoletto di terreno che è cominciata la carriera del “Pibe de Oro”. Fu lì che per la prima volta Maradona attirò l’attenzione su di sé e il suo nome comparve in un articolo: nel 1971, quando si mise a palleggiare durante l’intervallo di una partita per il piacere del pubblico presente, e il giorno dopo il principale quotidiano argentino, El Clarín, parlò di un giovane fenomeno chiamato “Diego Armando Caradona”. Un errore di battitura o di stampa che nessuno avrebbe più ripetuto» (Antonio Moschella).
«Anche la tv […] si era occupata di lui. Sábados circulares, un rotocalco dell’Atc, la televisione di Stato, aveva realizzato un servizio che ritraeva l’undicenne Dieguito impegnato a palleggiare davanti alla sua umile casa di Villa Fiorito. Al microfono del conduttore del programma, Pipo Mancera, una sorta di Pippo Baudo d’Argentina, quel bimbetto avrebbe rilasciato dichiarazioni incredibilmente premonitrici: “Il mio sogno è giocare un Mondiale e vincerlo”. […] Da quel 20 ottobre 1976, il mondo (del calcio) non sarebbe più stato lo stesso. […] Esordiva a 15 anni, 11 mesi e 20 giorni Diego Armando Maradona, […] stellina dell’Argentinos Juniors pronto a entrare nella storia. Nella storia non sarebbe entrato Rubén Aníbal Giacobetti, che in quella partita di campionato contro il Talleres di Córdoba sarebbe uscito alla fine del primo tempo per far spazio all’emergente Dieguito. L’Argentinos Juniors stava già perdendo in casa 0-1, e neppure l’ingresso del piccolo Maradona sarebbe servito a cambiare il risultato. Prese 4, quel giorno, Giacobetti nelle pagelle del settimanale sportivo El Gráfico. Un bel 7 invece per Maradona, sfacciato al punto da fare subito un tunnel al suo marcatore Juan Domingo Cabrera. Il giornalista Héctor Vega Onesime appioppò nel suo articolo tre aggettivi all’esordiente Diego che non hanno bisogno di traduzioni: “sorprendente”, “habilidoso” e “inteligente”» (Matteo Dotto).
«Diventa subito una piccola stella, "más grande", "pibe de oro", "divino". Va al Boca Juniors e in Europa: Barcellona. Quando arriva al Barça, il "Don Balón" titola: "Boom Maradona: 15 miliardi che parlano, corrono e segnano". Lui incanta, ma la Spagna non lo ama. Un giocatore basco, Andoni Goikoetxea, gli sfascia la caviglia sinistra. Due ore di operazione, alcune viti, e il piede, il magico sinistro, ricostruito. Goikoetxea squalificato 18 giornate. A Napoli Corrado Ferlaino e Antonio Juliano lo corteggiano e riescono a prenderlo. Si dirà: una cifra pazzesca, più di 13 miliardi di lire per un piccolo re, triste e massacrato. Ma anche: una lucida, meravigliosa follia. Giovedì, 5 luglio 1984, ore 18.31, Fuorigrotta. "Buonasera, napolitani. Sono molto felice di essere qui con voi", dice Diego Armando Maradona, e palleggia dentro il grande San Paolo. La sua voce rimbomba da sette altoparlanti. Alla presentazione ci sono 70 mila tifosi, prezzo d’ingresso mille lire. Ha i pantaloni lunghi di una tuta grigia e una sciarpa azzurra. Calcia forte e il pallone va in cielo. Poi dice: "A Barcellona mi sentivo in catene. Napoli sarà la mia città". Comincia quella sera il romanzo di un’esistenza dorata e amara, dell’uomo e del suo numero. Il dieci. Napoli è la sua città e lui diventa Maradonapoli, spettacolo degli spettacoli» (Bovolenta). «Il genio si manifestò su un campo di calcio il 3 novembre. […] Punizione a due in area di rigore, quando ancora venivano fischiate, stagione 1985/86. Attacca il Napoli, che da un anno si gode le magie di Diego Armando Maradona. Non è ancora il fenomeno che conquisterà il mondo in Messico: comincerà a diventarlo quel giorno. Difende la Juventus, la squadra più forte d’Italia, abituata a vincere lo scudetto tutti gli anni e vogliosa di ricucirsi il tricolore sul petto dopo il colpo grosso del Verona di Bagnoli l’anno prima. A un quarto d’ora dal termine viene fischiata una punizione a due in area. Maradona sistema la palla alla sinistra di Tacconi, è all’altezza del dischetto, 10-12 metri. La barriera è vicina al punto di battuta, forse 7 metri, più probabilmente 5. Maradona parlotta con Pecci: “Eraldo, passamela un pochino indietro”. Il centrocampista lo prende per matto: “Diego, da qui non passa”. “Tu toccala, e non preoccuparti”. Il resto della squadra continua a protestare, Bruscolotti è inviperito, Maradona lo avvicina: “Beppe, tranquillo: faccio gol lo stesso”. Il resto è una parabola magica, la punizione divina (copyright Ottavio Bianchi). Diego disegna un cucchiaio nell’aria, una palombella, il pallone carico d’effetto scavalca la barriera di 6 juventini e gira fino ad insaccarsi tra palo e traversa, col povero Tacconi che rischia l’osso del collo per raggiungerlo.
[…] Napoli-Juventus di quel 3 novembre 1985 doveva essere la sfida tra Maradona e Platini. Segnerà anche un passaggio generazionale: il tramonto di Le Roi e l’alba del Pibe. È un gol dal significato simbolico fortissimo, per i tifosi azzurri. Si diceva in città che lo scudetto è un mare che non bagna Napoli. Qualche secondo e terzo posto in sessant’anni di storia, poca roba. Quel giorno, Maradona guida la rivoluzione calcistica, dice ad un intero popolo che vincere, sì, è possibile. Per i napoletani è come il gol di mano all’Inghilterra per un argentino: la rivincita della storia in un campo di calcio» (Marco Caiazzo). «In mezzo all’esperienza napoletana, ci fu il Mondiale del 1986, giocato e vinto da Diego con la famosa doppietta all’Inghilterra, con il primo gol siglato di mano (la famosa “mano de Dios”) e il secondo che fu definito il gol del secolo: Maradona partendo dalla sua metà campo riuscì a dribblare tutti i calciatori che gli si pararono davanti e a insaccare il raddoppio per l’Argentina. A Napoli, Diego vinse due campionati, una Coppa Italia, una Supercoppa italiana e una Coppa Uefa, facendo diventare quel Napoli il più vincente della storia» (Luca Pagano). «Ma il 17 marzo 1991 la coca spunta nella provetta del doping, dopo Napoli-Bari: un addetto dimentica di urinare al suo posto. Il 5 aprile abbandona Posillipo di notte e torna in Argentina. Più che vergogna, una fuga dal suo inferno. S’illudeva. "Non sei tu che cerchi la droga: è lei che cerca te", dirà in uno squarcio. Tocca i 143 kg, "il suo cuore è quello di un ottantenne", dice un medico a Punta del Este mentre lo scarica l’ennesima ambulanza. […] Dal 1991 cade e si rialza, avvilito e spergiuro, promette e ricade. Si era ripreso nel 1994, ultimo mondiale da calciatore. Ma l’urlo dissennato, quel faccione felice e feroce ripreso in tv dopo il gol alla Grecia, inquieta gli americani. Temono che sia l’involontario testimonial del cartello colombiano di Medellín: dimostra che con la coca si vince. Possibile? Due crocerossine, gelide come agenti federali, lo portano per mano dal campo alla sala doping. Verdetto annunciato: fuori. Quel mondiale poteva salvargli carriera e vita, peccato. È il 1994, the end, partita finita a 34 anni. Ricomincia uno dei suoi disperati tramonti. "Lo faccio per le mie figlie, voglio curarmi per la felicità mia e della mia famiglia, parto in cerca di aiuto", polemizza con il presidente argentino Menem, suo amico che però "non aiuta chi incappa nella droga". Non gli perdonano i tifosi del Boca Juniors lo scudetto perso con il quinto rigore fallito. Una polemica e via. Vola verso la sua nuova Lourdes, entra come in un santuario nella clinica svizzera di Montreux. Sembra guarito. […] Amici e Cuba, Fidel Castro e il medico personale Alfredo Cahe contro tutti e sempre accanto a lui, golf e cure all’Avana ma anche in Svizzera, si risolleva sempre fino al 18 aprile 2004, l’ultimo drammatico ricovero alla Sacre Coeur. Esce dalla sala di rianimazione e racconta in tv alla show-woman argentina Susana Giménez: "Ho visto la morte, ho visto El Barba". Che per lui è Dio. Ha pregato e prega ancora» (Antonio Corbo).
Conclusa ufficialmente la sua carriera da calciatore nelle file del Boca Juniors il 25 ottobre 1997 (dopo essere passato per il Siviglia e per il Newell’s Old Boys), una volta ristabilitosi ha tentato senza successo di reinventarsi allenatore, guidando dapprima la Nazionale argentina, collassata dopo quattro reti («dure come quattro pugni di Alì») segnate dalla Germania ai quarti di finale dei Mondiali sudafricani del 2010, per finire poi negli Emirati Arabi e, da ultimo, in Messico. Tipico suo movimento di gioco la «rabona», «intreccio di gambe per fare di sinistro il cross che il manuale del calcio pretenderebbe di destro» (Edmondo Berselli) «Nell’America del Sud si dice a volte, o si suppone, che la chiave per capire il carattere degli argentini si trovi nella loro valutazione dei due gol di Maradona nella Coppa del Mondo dell’86. Per il primo gol, battezzato “la mano di Dio”, Maradona era lievitato in maniera incredibile su un cross e aveva mandato la palla in porta con un intelligentemente nascosto colpo della mano sinistra. Ma il secondo gol, che arrivò pochi minuti dopo, fu uno di quelli che Bobby Robson chiama un “maledetto miracolo”: raccogliendo un passaggio da una punizione nella sua stessa area, Maradona, come in un’espiazione, chinò la testa e sembrò volesse aprirsi una strada attraverso tutta la squadra inglese prima di mandare a terra Shilton con una finta e di mandare la palla in rete. Ebbene, in Argentina è il primo gol, e non il secondo, quello che piace veramente. Per il macho argentino (o così dice almeno questa calunniosa generalizzazione), i modi furbi danno molta più soddisfazione di quelli corretti» (Amis)
Storicamente conflittuale il rapporto con Pelé, da sempre visto da Maradona come l’unico ostacolo alla sua unanime incoronazione quale miglior calciatore della storia. «Pelé cortese ed elegante, […] quello che Maradona non è mai voluto diventare: un uomo rispettabile. Pelé, che a Rio, quando Diego era ragazzo e doveva vincere il mondiale giovanile, gli disse: “Non ti credere mai il migliore: anche se lo sei, il giorno che ti ci sentirai smetterai di esserlo”. Ignorando che Diego proprio quello voleva: stare in cima, sentirsi in cima, godere senza misura di se stesso, come molti di quelli che sono nati in una famiglia numerosa, sotto un tetto di latta, due stanze e cucina» (Emanuela Audisio).
«Per decenni ancora si discuterà se Maradona sia stato o meno il più grande giocatore mai esistito, accanto a Pelé e Di Stéfano. Incontestabilmente, è comunque il fuoriclasse più dotato di talento dell’ultimo quarto di secolo. Mai campione è stato così grande e insieme così scellerato: di certo, per quello che ha fatto vedere sul campo ha incarnato l’essenza stessa dello spettacolo applicato al gioco del calcio, piegandone la modernità degli schemi e del fattore atletico a un estro semplicemente inarrivabile» (Marino Bartoletti) • Due figlie dal ventennale matrimonio con Claudia Villafañe, finito nel 2004; altri tre figli (due maschi e una femmina) da altrettante relazioni, tra cui il calciatore Diego Armando Maradona Sinagra (1986), nato da una ragazza napoletana e riconosciuto dal campione solo nel 2007, dopo lunghe battaglie legali. Oggetto di autentica idolatria sia a Napoli sia in Argentina, dove è stata persino istituita la «Iglesia Maradoniana». «La Chiesa è stata fondata nel 2001 a Rosario, 200 km dalla capitale, da due aficionados del campione argentino. In quindici anni di vita ha raggiunto i 120 mila fedeli in tutto il mondo, dall’Argentina alla Cina. Il culto del “D10s” Maradona ha i suoi dieci comandamenti, celebra matrimoni e battesimi e ha il suo Natale il 30 ottobre, giorno di nascita del messia, e l’anno 1960 dà il via al calendario maradoniano. La Pasqua cade ogni 22 giugno, anniversario della “mano de Dios”» (Roberto Pellegrino)
«Guardo la sua faccia grassa e triste con un immancabile principio di groppo in gola. Gli occhi sono piccoli, tondi, neri. Le labbra tumide, i denti come perle rade nelle gengive alte, abbondanti. La piega amara della bocca testimonia l’angoscia di molte generazioni umiliate dagli uomini e mortificate dalla fame. Il collo scompare nell’unione fin troppo anticipata dei cucullari con gli sterno-cleido-mastoidei. Il petto è del bagonghi predestinato. L’addome è del bevitore di birra (qualche volta ricorda Bibendum). Le gambe sono corte e ipertrofiche…Morfologicamente, sembra uno sgorbio irrecuperabile: ma, non appena in lui si accende l’uranio, quel goffo anatroccolo assurge a cigno solenne. Allora devi escluderlo dal genere umano e trovargli d’urgenza una specie differente. Sia dunque il leone andino, e in definitiva re Puma» (Gianni Brera). «Maradona rappresenta l’avventura contro le convenzioni, è il caos contro l’ordine. Sniffava cocaina, andava per night, si dedicava a nottate folli sempre circondato dal suo pittoresco clan. Era ed è molto sudamericano, molto populista: per questo è amato dai populisti. I fan di Maradona sono anche quelli che adorano il subcomandante Marcos, Diego è visto come il difensore dei deboli contro lo strapotere dei ricchi» (Edmondo Berselli)
«"Il gol più bello è quello contro l’Inghilterra ai Mondiali, dove scartai tutti fino ad arrivare in porta, ma anche i gol alla Juve piacevano tanto ai napoletani". E quello di mano? "Non ho mai segnato con le mani e non lo farei mai. Quella fu la mano di Dio e vinse il migliore, con l’altro gol fantastico"» (Tommaso Cerno) • «Povero, vecchio Diego. Abbiamo continuato a dirgli per tanti anni “Sei un dio”, “Sei una stella”, e ci siamo scordati di dirgli la cosa più importante: “Sei un uomo”» (Jorge Valdano).
GIORGIO DELL’ARTI, scheda aggiornata al 29 ottobre 2018 (fonte Anteprima)
Dall'Argentina. Com’è morto Maradona, la causa del decesso del Pibe de Oro. Antonio Lamorte su Il Riformista il 25 Novembre 2020. È morto a 60 anni Diego Armando Maradona. L’ex calciatore argentino, campione del Mondo con l’Albiceleste e d’Italia con il Napoli aveva 60 anni. Era stato ricoverato agli inizi di novembre a causa di un ematoma subdurale cronico. Era stato quindi operato al cervello per un accumulo di sangue e prodotti di decomposizione del sangue di origine venosa. Era stato dimesso lo scorso 11 novembre. L’operazione, avevano detto i medici, era andata bene e le sue condizioni erano buone. A dare la notizia della morte il quotidiano argentino Clarín. Maradona si trovava nell’abitazione di Tigre, nella provincia di Buenos Aires. Secondo il giornale è stato un arresto cardiorespiratorio a causare la morte di El Pibe de Oro. Vani i tentativi di rianimarlo. La morte sarebbe avvenuta intorno alle 12:00 locali. Nove ambulanze sarebbero state inviate presso l’abitazione presso la quale si trovava in convalescenza. Secondo la ricostruzione del giornale argentino Clarin, il primo a dare la notizia della morte del Pibe de oro, Maradona si era alzato verso le 10, sentendosi male e tornando a letto. I suoi più stretti collaboratori, Maximiliano Pomargo e Johnny Esposito, si erano dunque messi in contatto immediatamente col medico Leopoldo Luque, con l’amico e avvocato Matias Morla e con le tre figlie che vivono in Argentina: Dalma, Gianinna e Jana. Verso mezzogiorno le prime ambulanze sul posto, nel quartiere di San Andre’s, al confine tra Tigre ed Escobar, con la notizia della morte. A quanto scrive Clarin, Diego negli ultimi giorni era ansioso, depresso e angosciato. Maradona, ha confermato il procuratore generale di San Isidro, John Broyard, è morto per cause naturali. In una breve dichiarazione alla stampa argentina rilasciata fuori dalla casa in cui è morto l’ex fuoriclasse del Napoli, il procuratore ha precisando che “sul corpo non sono stati rilevati segni di violenza“. La camera ardente del fenomeno argentino sarà aperta invece alla Casa Rosada, il palazzo della presidenza argentina, secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa statale Telam e come confermato poi da un portavoce della Casa Militare di Buenos Aires. Maradona è considerato il più grande calciatore di tutti i tempi. La Fifa lo ha eletto miglior calciatore del XX secolo al pari del brasiliano Pelé. Ha segnato il gol del secolo ai mondiali del 1986 in Messico – che vinse con l’Argentina – contro l’Inghilterra. Nella stessa partita segnò un gol di mano: da cui il nome La Mano de Dios, come la ribattezzò lui stesso. Una sorta di vendetta anche per la guerra delle Malvinas che vide contrapposti i due Paesi. L’ultima intervista l’aveva rilasciata alla rivista francese France Football in occasione dei suoi 60 anni. Era nato a Villa Fiorito, un barrio popolare, povero, di Buenos Aires.Alessio Morra per fanpage.it il 27 novembre 2020. Gli ultimi giorni della sua vita Diego Armando Maradona li ha vissuti nella cittadina di Tigre, non lontano da Buenos Aires dove si era stabilito quand'era uscito dall'ospedale a inizio novembre. Diego era assistito da degli infermieri che lo seguivano sempre. Nei giorni scorsi il campione aveva deciso di fare una passeggiata, e una vicina di casa ha immortalato quella passeggiata in un video, che la donna ha poi diffuso sul suo profilo Instagram. E si vede Maradona, aiutato da un infermiere, saluta un bambino. Non si sono incrociati i due, il piccolo era a casa sua, ma qualche parola con il Pibe de Oro l'ha scambiata e da Maradona è stato salutato. Immagini tenere che sono le ultime pubbliche dell'ex capitano dell'Argentina. Dunque una vicina di casa di D10S ha visto nei giorni scorsi Maradona uscire dalla sua abitazione e ha deciso di filmare Diego, che era accompagnato molto probabilmente da uno degli infermieri che lo assisteva. Una passeggiata, una cosa semplice, probabilmente voleva stare un po' all'aria fresca. La signora stava effettuando quel video perché voleva immortalare il saluto a distanza di Maradona al figlio, un bambino che vede uno dei suoi eroi e lo saluta. Diego risponde con affetto. Un momento davvero bello, dolce. Poi i due si scambiano qualche battuta e Maradona continua a camminare, anche se poi è costretto a fermarsi e si siede, su una sedia portata da un altro accompagnatore. Quelle immagini, purtroppo, diventano storiche perché quelle sono le ultime del più grande calciatore di ogni tempo che qualche giorno dopo, il 25 novembre, muore all'età di 60 anni. L'Argentina gli ha dato tutti gli onori, e anche il suo mondo quello del calcio gli ha regalato tanto affetto, con messaggi, post, fotografie che da ogni parte sono piovuti e hanno fatto capire quant'era amato Diego Armando Maradona.
L'Argentina, Napoli e il mondo piangono il campione: tensioni a Buenos Aires. Funerali Maradona, Diego sepolto vicino ai genitori: l’ultimo saluto ripreso dai droni. Redazione su Il Riformista il 27 Novembre 2020. Diego Armando Maradona è stato sepolto vicino ai genitori, Dona Tota, morta nel 2011, e Don Diego, scomparso nel 2015, nel cimitero privato Jardìn de Bella Vista, a 35 chilometri da Buenos Aires. Una cerimonia intima e religiosa disturbata dalla presenza di alcuni droni delle tv che hanno immortalato l’ultimo saluto dei familiari al campione. La bara è stata avvolta in una bandiera argentina. Tra i presenti c’erano le figlie Dalma, Gianina e Jana, l’ex moglie, Claudia Villafañe, e la sua ex compagna Verónica Ojeda. Presente anche il nipote Johnny, che viveva con lui e che è stato una delle ultime persone a vederlo in vita. La cerimonia è terminata poco dopo le 20 (ora locale, mezzanotte in Italia). Ad accogliere il feretro, una folla di persone con striscioni e bandiere, che ha intonato cori e salutato il ‘Pibe’ con lunghi applausi. Nei pressi del cimitero si sono registrati dei disordini.
L’ABBRACCIO DELLA SUA GENTE – L’ultimo saluto assomiglia tanto a una processione. Anche se la polizia si è dovuta impegnare non poco per tenere a bada diversi ‘fedeli’ scalmanati, alcuni dei quali in veglia tutta la notte sulla soglia della Casa Rosada, il palazzo presidenziale, uno dei simboli di Buenos Aires. Quasi quanto Diego. Uomini e donne, anziani e bambini, tifosi del Boca e del River uniti sotto un’unica bandiera: quella dell’Argentina. La camera ardente di Maradona si trasforma così in una sfilata dove si incontrano sofferenza e orgoglio (di un paese intero), fiori e magliette numero 10, silenzi e lacrime, commozione – dentro la Casa Rosada – e tensioni fuori. C’è tutto e il contrario di tutto, proprio come avvenuto nella vita del diez più conosciuto del pianeta. Per qualche ora la pandemia passa in secondo piano. Se non fosse per le mascherine probabilmente non se accorgerebbe nessuno. Perché non c’è restrizione che tenga al cospetto del mito. Migliaia di persone hanno voluto omaggiare Diego: la bara, chiusa, diventa ben presto un blocco biancoazzurro: sono ammessi sprazzi di blu notte e giallo, i colori sociali del Boca Juniors. In giornata arriva poi anche una maglietta del Napoli. Ma questa è una cerimonia tutta argentina, di un popolo che si stringe attorno al suo idolo nell’ultimo viaggio. Prima di Maradona le porte della Casa Rosada, per una personalità sportiva, si erano aperte esclusivamente nel 1995 per Juan Manuel Fangio, pilota di Formula 1 cinque volte campione del mondo. Un simile onore, dieci anni fa, era toccato all’ex presidente Nestor Kirchner. La massa di gente – la sua gente – che è riuscito a richiamare Diego ricorda però un altro funerale, quello nel 1952 di Eva Peron, venerata e celebrata ancora oggi. L’apertura pubblica della camera ardente è stata preceduta da una funzione riservata a parenti e amici. Assente Diego Maradona Junior, alle prese con il Covid-19 (“il capitano del mio cuore non morirà mai”, ha scritto dall’Italia su Instagram) e l’ultima compagna Rocio Oliva, non senza un velo di polemica. “Non so perché stanno facendo questo”, ha raccontato la donna, rimasta accanto al diez fino a due anni fa, indicando come responsabile l’ex moglie di Maradona Claudia Villafane, presente insieme alle figlie. “Avevo diritto quanto gli altri di dirgli addio – ha aggiunto – Volevo solo salutarlo”. Hanno omaggiato l’ex stella del Napoli anche diverse personalità del mondo del calcio – tra cui Carlos Tevez, in rappresentanza del Boca – e in particolare dell’Argentina campione del mondo nel 1986. Un messaggio di preghiera è arrivato anche da un altro grande argentino, Papa Francesco, che – secondo l’emittente Radio Mitre – ha inviato un rosario e una lettera di condoglianze alla famiglia. Su Instagram poi il Papa ha ricordato “con affetto” gli incontri avvenuti in Vaticano negli anni scorsi, pubblicando una foto che ritrae entrambi sorridenti.
LE FOTO CON LA SALMA – Scoppiano le polemiche in Argentina e sul web dopo che Diego Molina, un impiegato dell’impresa funebre Funeraria Pinier, si è fatto scattare una foto con il cadavere di Diego Armando Maradona nella bara. L’avvocato del calciatore, Matias Morla, ha dichiarato di essere pronto a portarlo in tribunale “perché paghi questa aberrazione”, come si legge sul suo profilo Twitter.
FRANCESCO BATTISTINI per il Corriere della Sera il 3 dicembre 2020. Nemmeno Pantani. Neppure la morte solitaria del Pirata, in quella stanzetta spoglia d'un residence vuoto che tanto inorridì Maradona e tutti noi, era uno squallore simile. «Cabezòn , testina, se fossi entrato dove viveva Diego, saresti morto anche tu!», confida al telefono l'ex moglie Claudia Villafane a un amico, Oscar Ruggeri, vecchio eroe Mundial. Escono le foto e guardatela, cabezones che l'avete prima abbandonato e poi osannato, l'ultima casa del D10s nel ricco quartiere tutto bosso, dobermann e domestici di San Andres. La sua prima tomba è presto descritta: un materasso matrimoniale nero, senza lenzuola, con un televisore mezzo incellofanato e rovesciato sopra; l'affaccio su un canale e le finestre prive di tapparelle; un angolo cottura e box di panini sbocconcellati; scaffali vuoti e sul pavimento sporte di carta piene di panni, vicine a sacchi di plastica con effetti personali Niente che somigli a un'assistenza ospedaliera domiciliare. Nessun defibrillatore, né bombole a ossigeno. Nulla che servisse ad assistere un paziente grave e incapace di badare a se stesso. Maradona in vita aveva posseduto decine di case lussuose, ma nell'ora della morte non stava neanche in una vera camera: lo facevano dormire, quando i dolori e la depressione gli permettevano di riposare, nella stanza destinata al biliardo. Al piano terra. Sistemato alla bell'e meglio, di fianco a un cesso chimico e al cucinotto. Il più grande giocatore del mondo buttato in una sala giochi. «È perché non poteva salire le scale», si giustifica adesso il suo amico-avvocato Matias Morla, quello che gestisce gran parte delle proprietà immobiliari all'estero e che una settimana fa accusava i soccorritori d'inesistenti ritardi (l'ambulanza arrivò in 11 minuti). Il contratto d'affitto l'avevano firmato lui e una delle figlie di Diego, Jana, scadenza 31 gennaio 2021. Doveva essere un'abitazione provvisoria, di convalescenza, e forse per questo s' era risparmiato sui soldi. Nelle parole di Claudia, «una vergogna». A sentire la descrizione di Morla, un lusso: «Non è poi così piccola. Ha la vista lago, una poltrona massaggiante, tv 32 pollici, aria condizionata. E al piano sopra ci sono quattro camere, una col bagno privato. Il letto stava nella sala giochi al piano sotto, perché Diego non ce la faceva ad andare di sopra. Aveva le ginocchia malridotte. E dopo l'intervento si sentiva fragile». Si prevede che Morla sia il prossimo indagato, assieme ai due medici Leopoldo Luque e Agustina Cosachov. «Quando siamo entrati in quel posto - rivela una fonte di polizia -, tutto era molto precario e sconcertante. Le prove, le testimonianze, i rilievi indicano che le condizioni di salute di Maradona sono state gestite in maniera disastrosa. Un caos». Urgono risposte. Confrontate a quelle dello staff medico, le miserie dei familiari non sono da meno. E nella guerra per l'eredità, già dichiarata, s' incrociano le accuse tra ex compagne, figli, nipoti: una delle sorelle di Diego è finita in tv a rispondere del sospetto d'avere passato la vita a spennare il fratello ricco. Ma una domanda resta: con tanti disinteressati affetti intorno, che ci faceva Maradona da solo in quello squallore? «Può sembrare forte dire che l'hanno lasciato morire, ma è così», dice tramite il suo avvocato l'infermiera Gisela Madrid, sulla quale i medici han provato a scaricare tutte le colpe. La donna era l'ultima arrivata (dieci giorni) e non si tiene col clan Maradona, accusa Luque e la Cosachov, si pente d'aver dato retta a chi le ha consigliato di falsificare il primo rapporto sui soccorsi. I magistrati della procura di San Isidro stanno controllando i due cellulari, il tablet, il notebook e i dodici ricettari sequestrati nello studio della Cosachov: si parla d'un cocktail di psicofarmaci prescritto senza tener conto del cuore gonfio e malato di Diego, un mix che potrebbe averlo stroncato. I difensori hanno chiesto ai pm di risparmiare ai due medici il carcere: c'è già stato un tentativo di depistaggio, però, e il pericolo d'inquinamento delle prove rimane alto. Anche perché l'esame delle urine e dei tamponi, prelevati nell'autopsia, richiedono un tempo supplementare. Se si scopre che Maradona ancora beveva, o peggio, dovranno risponderne un po' tutti.
Stefano Chioffi per il Corriere dello Sport il 3 dicembre 2020. L’inchiesta della magistratura, gli interrogatori dei medici e dell’infermiera che seguivano Diego nella villa presa in affitto, la battaglia per l’eredità: sono giornate infinite. L’ultima accusa arriva da Ana Maradona, una delle sorelle maggiori dell’ex campione argentino. “Le figlie Dalma e Giannina quando sono venute a trovarlo? Mai, mai”. Una denuncia grave: il Pibe, negli ultimi tempi, era stato abbandonato. E’ intervenuta poche ore fa durante il programma “Los Angeles de la Mañana” su Canale 13. Ana ha parlato dei suoi rapporti con Diego. Un legame forte, dettato solo dagli affetti e mai dagli interessi, come ha sottolineato nel corso dell’intervista, ripresa anche dal Diario Olé: “Non accetto speculazioni. Nessuno viveva con i soldi di Diego, nessuno. Era molto generoso, sì, era generoso, a volte ci aiutava, ci dava qualcosa, ma niente di più. Non vivevamo sulle sue spalle. Mai è stato così. Troppi parlano invece di stare zitti. Mi auguro che si rispetti il dolore che abbiamo”.
Rapporti gelidi con Dalma e Giannina. Gelidi i rapporti con Dalma e Giannina, le due figlie avute da Diego durante il matrimonio con Claudia Villafane, che ora ha 58 anni, si è dedicata a soap opera e teatro, ha fatto la produttrice tv, la concorrente a MasterChef e si è fidanzata qualche tempo fa con l’attore Jorge Taiana: “Quando andavamo a trovarlo (Diego, ndr) - ha continuato Ana Maradona - era solo perché volevamo stare con lui. Era stato abbandonato dalle sue figlie. Noi non siamo contro di loro, sono loro contro di noi, e non so perché. Lascia che mi spieghino e mi chiamino. Se fossero state le figlie di un signore qualunque, di uno dei tanti Juan Pérez, chi le avrebbe portate dove sono? Chiedete alle figlie quando lo hanno visto. Non le abbiamo mai incontrate”.
"Lasciateci in pace". Ana ha spiegato che non vedeva Diego da marzo, a causa della pandemia, ma sostiene di essere informata su ogni dettaglio della vita del Diez perché si sentivano spesso al telefono. E ha chiarito che l'ultima a vederlo è stata l’altra sorella, Kitty (Rita), il giorno in cui Maradona ha lasciato l’ospedale dopo l’operazione alla testa. “Voglio che tutti ci lascino in pace, perché non diamo fastidio a nessuno e nemmeno vogliamo niente. Noi parliamo di lui con amore, con affetto e con il rispetto che gli abbiamo sempre dimostrato”.
Da ilnapolista.it il 2 dicembre 2020. Ecco dove è morto Maradona. Ad un certo punto, dove non arrivano le parole, le descrizioni, arrivano le immagini. Era solo questione di ore. La casa “senza gabinetto” è ora una gallery sul quotidiano argentino Olé, e da lì rimbalza velocissima su tutti i media del mondo, con il “sottofondo di sospetti, accuse e domande su cui sta lavorando la Giustizia”. Il luogo della morte, la casa nel quartiere di San Andrés, la stanza dei giochi attrezzata per la degenza, ora gli obiettivi sono concentrati lì. Olé scrive e fotografa: non aveva le condizioni necessarie. “L’immobile affittato ha un piano superiore con quattro camere da letto e bagni privati. Ma dato che Diego non poteva né salire né scendere le scale, questa stanza al pianterreno era stata adattata per lui”. C’è un letto matrimoniale, una da 32 pollici, un bagno chimico portatile, una poltrona massaggiante e l’aria condizionata. Le finestre chiuse con assi Durlock per bloccare la luce naturale. C’era anche una porta scorrevole per dare a Maradona un po’ di privacy. Come scrive il Clarìn, “non ci si può credere che lo abbiano mandato in una stanza dietro la cucina, dove c’erano rumori tutto il giorno. E senza bagno in camera. Non è così che ti prendi cura di una persona che era nello stato di Diego, qualunque sia il suo nome. Perché non hanno affittato una casa che aveva una stanza con bagno al pianterreno? Maradona aveva abbastanza soldi per stare in un luogo comodo e confortevole. Non meritava una cosa del genere”. Olé ricostruisce la dinamica burocratica: Diego è stato trasferito in questa casa l’11 novembre, quando è stato dimesso dalla Clinica Olivos, dopo otto giorni di ricovero dopo essere stato operato per un ematoma subdurale. La sua dimissione è stata firmata dal Dott. Leopoldo Luque, dalla Dott.ssa Agustina Cosachov, e da Dalma e Gianinna, seguendo le indicazioni di entrambi i professionisti. La Procura Generale di San Isidro – guidata dai procuratori Laura Capra, John Broyard, Patricio Ferrari e Cosme Iribarren – sta conducendo un’indagine che mira a scoprire se c’è stata negligenza nelle cure mediche fornite a Maradona. Non per niente, il giudice di garanzia, Orlando Díaz, ha cambiato il titolo della causa della morte: è passato da “indagine e causa di morte” a “morte ingiusta”. E le prime prove, rivelano che sono state fatte cose decisamente sbagliate.
Diego Maradona, l'ex medico personale: "Per me si è suicidato. Ci aveva già provato a Cuba". Libero Quotidiano il 21 dicembre 2020. Più di un mese dopo, la morte di Diego Armando Maradona continua a far parlare e continua a far sorgere sospetti (il Pibe de Oro se ne è andato il 25 novembre 2020). Ora, l'ultima bomba, la sgancia Alfredo Cahe, storico medico personale del fuoriclasse argentino (lo ha avuto in cura per circa 30 anni), il quale si spinge a parlare di suicidio. Intervistato da due trasmissioni televisive argentine, dove si è speso sui disturbi del linguaggio di Diego, ha poi criticato le cure degli ultimi mesi di vita. Ma, soprattutto, ha rivelato un presunto tentato suicidio di Maradona a Cuba. Cahe ha raccontato che Maradona si sarebbe lanciato con la sua auto contro un autobus, a Cuba: "Lì gli autobus pubblici sono chiamati guagua. In un’occasione Diego ne puntò uno con la sua auto cercando di uccidersi - afferma -. A noi disse: Non l’ho visto, me lo sono trovato di fronte. Ma è stato salvato per miracolo". E ancora, il medico ha sostenuto che le ultime cure a Maradona fossero sbagliate, nella fattispecie ha affermato che le sostanze psicofarmacologiche che assumeva non sarebbero state idonee alla sua situazione sanitaria. Tanto che, secondo Cahe, si sarebbe lasciato morire: "Per me la sua morte è stata un suicidio. Diego era stanco di vivere e si è lasciato andare. Non ce la faceva più". E ancora: "Non si sono presi cura di lui come avrebbero dovuto", ha concluso. Parole che faranno, ancora una volta, molto discutere.
Da ilnapolista.it il 21 dicembre 2020. Maradona è morto su un materasso a terra, accanto a un wc chimico, dopo un cocktail di farmaci. Repubblica ripercorre le ultime ore di Diego Armando Maradona in un lungo reportage di Maurizio Crosetti. Abbiamo scelto di riportarvi alcuni stralci. Maradona ha il cuore che pompa al 38% ma comunque il suo medico e il direttore sanitario della clinica Olivos autorizzano il suo ritorno a casa, come fortemente voluto da Diego.
Diego, prima, pensa di scappare: Dopo qualche giorno già smania, il ricovero gli pesa, vuole tornare a casa. A un altro paziente propone, per gioco, di scambiarsi i vestiti. «Amico, se mi presti i tuoi, io scappo». Ma quell’altro lo gela: «Mi dispiace, io non vorrei essere Maradona neanche per un minuto». E qui Diego ha un guizzo come ai tempi belli: «A volte, neppure io» risponde. Poi, riesce a uscire dall’ospedale. La famiglia (l’ex moglie Claudia, le figlie Dalma, Gianinna e Jana) e i medici decidono per l’assistenza domiciliare, ma prima occorre un domicilio perché, incredibilmente, Maradona non possiede una casa a Buenos Aires, neppure in affitto. Ci pensa Jana, che firma il contratto di locazione di un immobile, la villetta a due piani che si trova nella cittadina di Tigre. Lì vicino abita Giannina Maradona: si pensa che questo servirà a Diego ad essere meno solo, ma è un abbaglio. Lei andrà a trovarlo una volta sola. Nello staff sanitario entra a far parte la dottoressa Agustina Cosachov, 34 anni, psichiatra. Sarà lei a prescrivere a Maradona un cocktail di farmaci che comprende due antiepilettici (Gabapertin e Levetiracetam), un antipsicotico (Lurasidone), un antagonista degli oppiodi, inibitore del desiderio dell’alcol (Naltrexone), un farmaco per la schizofrenia e il disturbo bipolare (Quetiapina) e un antidepressivo (Venlafaxina). Una terapia per un malato psichico grave, ai limiti del ricovero coatto. Un peso notevole si qualunque organismo. Diego poteva reggerlo? Ci hanno pensato? Il primo giorno a casa è già un tumulto. L’infermiera va a misurargli la pressione, Diego si scoccia, è abituato a certi scatti nervosi. In meno di un’ora licenzia Gisela Madrid. «Cosa devo fare?», domanda la donna ai suoi superiori. Le chiedono di restare, per vigilare sulla somministrazione dei farmaci anche senza varcare la porta della camera di fortuna nella quale hanno sistemato Maradona, la sala giochi al piano terra tra karaoke e Playstation. Manca la bombola dell’ossigeno ma c’è il karaoke. È un paziente difficile. Caratteriale, compulsivo. Da sempre è abituato a essere il re che non chiede ma ordina. Vuole una pizza, e il giorno prima di morire riuscirà a ottenerla.
Il racconto prosegue: Adesso Diego dorme per ore, o prova a farlo, su un materasso appoggiato a terra, senza lenzuolo né coperta. È primavera. Maradona è un uomo malato, scosso e confuso. (…) Diego sta sdraiato sul materasso quasi tutto il tempo, è apatico, sfinito, non ha più voglia di niente. È il penultimo giorno della sua vita. La governante Monona lo aiuta a lavarsi, al piano terra un bagno ci sarebbe ma è scomodo, Diego va sorretto, non riesce a usare la tazza e per questo gli procurano un wc chimico portatile. Lo sistemano vicino al materasso, coperto da un cartone. Ed è così che il leggendario Diego Armando Maradona trascorre le ultime ore della sua vita terrena, accanto a un gabinetto di fortuna, accucciato a un passo dai suoi bisogni.
Da corrieredellosport.it il 21 dicembre 2020. Diego Maradona è morto circa un mese fa, ma le polemiche su stato, condizioni e cure non si placano. Alfredo Cahe, storico medico personale del Pibe de Oro, ha spiegato nel corso delle trasmissioni"Intratables" e "Confrontados" le ragioni dei disturbi del linguaggio del Diez, ma ha soprattutto criticato le cure adottate e raccontato di un tentato suicidio a Cuba. Maradona si sarebbe lanciato con la propria auto contro un autobus. Secondo Cahe, che lo avuto in cura per oltre 30 anni: "Diego era stanco di vivere e si è lasciato andare".
Le parole di Cahe su Maradona. Queste le parole di Alfredo Cahe:"Maradona aveva una lesione cerebrale, ma non l'Alzheimer come si diceva. E il farmaco psicofarmacologico che stava assumendo non era adeguato. Diego aveva bisogno di pace e tranquillità e non riusciva a raggiungerle attraverso i farmaci". Cahe voleva far tornare Maradona Cuba, dopo l'operazione subita il 4 novembre; suggerì a Leopoldo Luque di riportarlo all'Avana. Poi il racconto del tragico episodio successo proprio a Cuba: "Lì gli autobus pubblici sono chiamati guagua. In un'occasione Diego ne puntò uno con la sua auto cercando di uccidersi. A noi disse: "Non l'ho visto, me lo sono trovato di fronte". Ma è stato salvato per miracolo". Ma Chae si è spinto ancora oltre: "Per me la sua morte è stata un suicidio: Diego era stanco di vivere e si è lasciato andare, non ce la faceva più. E ha avuto intorno persone che non si sono prese cura di lui come avrebbero dovuto. L'ultima volta che l'ho visto Diego era completamente sedato e non mi è stato permesso di parlare con nessuno".
Da sportmediaset.mediaset.it il 23 dicembre 2020. A un mese dalla scomparsa di Diego Armando Maradona sono stati resi noti dei dettagli della sua autopsia. Secondo quanto riporta il giornale spagnolo AS, sarebbe emerso come nell’organismo non fossero presenti tracce di alcol o droga, mentre è stata riscontrata la presenza di psicofarmaci: si tratterebbe di antidepressivi, antiepilettici e di un farmaco contro l’astinenza da alcol. Nessuna presenza di tracce delle medicine per la sua cardiopatia. Secondo le analisi Maradona non sarebbe morto immediatamente ma avrebbe sofferto per ore nella sua stanza, addirittura 6 o 8, prima dell'edema polmonare dovuto a un’insufficienza cardiaca riacutizzata, con annessa scoperta di una miocardiopatia dilatata. Tutti particolari utili per le indagini sui presunti colpevoli del decesso. I risultati dell’autopsia, insomma, rafforzerebbero l’ipotesi di reato per coloro che monitoravano le condizioni di salute dell’ex fuoriclasse. Dopo aver appreso questi dettagli, la figlia Gianinna ha pubblicato un messaggio polemico su Twitter: "A tutti i figli di p... che aspettavano l'autopsia di mio padre per avere droghe, marijuana e alcol. Non sono un dottore, ma sembrava molto gonfio. La voce era robotica. Non era la sua voce. Stava succedendo ed io ero la pazza fuori di testa".
Paolo Manzo per “il Giornale” il 24 dicembre 2020. «Tutti i figli di puttana aspettando che l' autopsia di mio padre abbia (sic) droghe, marijuana e alcol. Non sono un dottore e sembrava molto gonfio. La voce robotica. Non era la sua voce. Se ne stava andando ed io ero la PAZZA FUORI DI TESTA». Questo il tweet sgrammaticato ed illogico di Giannina Maradona, la figlia del Pibe de Oro, quando l' altroieri notte è stato diffuso in Argentina l' esito degli esami tossicologici, l' ultima parte dell' autopsia che mancava per capire come sia morto Diego. Niente coca né altre droghe dunque e, soprattutto, zero alcol, ma un' agonia infinita, atroce, dalle sei alle otto ore, senza nessuna assistenza. Un tweet sgrammaticato perché lo spagnolo della 31enne Giannina fa a pugni con i congiuntivi ma, soprattutto, illogico perché a firmare le dimissioni di suo padre dalla clinica Olivos, lo scorso 11 novembre, era stata proprio lei con Jana, l' altra figlia italiana riconosciuta da Diego. Inoltre Giannina e Jana, insieme a Dalma e a Diego Jr (che però causa Covid19 proprio nell' ultima settimana prima della morte di Maradona era ricoverato) dopo le dimissioni del padre si scambiavano informazioni con la psichiatra Agustina Cosachov ed il neurochirurgo Leopoldo Luque su una chat di Whatsapp. Da quelle conversazioni uscite sui media argentini si evince che la gestione medica di Maradona è stata, come minimo, carente. Dalma aveva centrato il problema sin dal 14 novembre, nove giorni prima della morte di Maradona: «Gli manca un medico di famiglia» che «coordini» le terapie. «Sono appena stata contattata da una persona che si occupa del ricovero domiciliare così si sfogava Dalma in chat mi ha detto che papà ha vomitato (ha mangiato gamberetti con aglio e broccoli) ma non vuole che un' ambulanza vada a vederlo. Mi ha detto che ha parlato con Agustina (la psichiatra Cosachov, nda) e lei le ha detto che era una decisione della famiglia! Ecco perché scrivo. Penso che ci sono decisioni che noi parenti non possiamo prendere. Per quello ci vorrebbe un medico di famiglia». Purtroppo il medico di famiglia storico che ha seguito Maradona per 33 anni, Alfredo Cahe, non solo non è stato coinvolto ma, quando si era recato alla clinica Olivos per vedere Maradona sabato 10 novembre, il giorno prima delle sue dimissioni, era stato addirittura bloccato al cancello d' entrata per non meglio specificati timori di contagio da Covid19». Di sicuro né i figli, né Cosachov, né Luque hanno risolto il problema del «medico di famiglia» che si assumesse responsabilità che loro non volevano assumersi mentre, da ieri, i magistrati che indagano sulla morte per «omicidio colposo» hanno un elemento in più, il rapporto tossicologico e istopatologico, che mostra uno scenario clinico disastroso di Maradona. Diego soffriva infatti di ben cinque patologie gravi: cirrosi, insufficienza renale cronica acuta, cardiomiopatia ischemica, coronaropatia aterosclerotica e malattia polmonare cronica con segni acuti compatibili con l' insufficienza cardiaca. Per ora al centro dell' attenzione dei magistrati, che hanno istituito una «Giunta Medica» per analizzare il caso, ci sono sempre Luque e Cosachov, che con Gianinna e Jana avevano autorizzato il trasferimento di Diego nella casa dove poi è morto. E questo nonostante la Swiss Medical, l' assicurazione medica di Maradona, avesse negato «l' alta medica» (in italiano, «le dimissioni») raccomandando in caso di trasporto fuori dalla clinica di «continuare invece le cure psichiatriche, cliniche, riabilitative e tossicologiche secondo la modalità del ricovero in un centro di riabilitazione con un' équipe psichiatrica di supporto».
Emiliano Guanella per “la Stampa” il 24 dicembre 2020. Nei suoi ultimi giorni di vita Diego Armando Maradona era imbottito di psicofarmaci, non ha fatto consumo di alcol o sostanze stupefacenti, ma non stava nemmeno ricevendo un' adeguata terapia per controllare i suoi problemi cardiaci. Questa la sintesi degli studi patologici su sangue e urina del campione argentino scomparso un mese fa a Buenos Aires. Nessuna traccia di droga Un referto che complica, nell' ambito dell' inchiesta aperta per omicidio colposo, la posizione dei due medici che lo avevano in cura, il neurochirurgo Leopoldo Luque e la psichiatra Agustina Cosachov. L' analisi ha rivelato la presenza del cocktail di psicofarmaci che Maradona stava assumendo regolarmente. Tra questi vi è la quetiapina, un antidepressivo, il levetatiracetam, un tranquillante che opera sul sistema nervoso, la naltrexona, usata per combattere stati di dipendenza a sostanza alcoliche. Farmaci che risultano nel registro delle ricette somministrate dalla Cosachov per curare l' alcolismo del paziente ed evitare crisi d' astinenza. Non è stata trovata traccia, però, di un trattamento cardiaco, nonostante Maradona da anni soffrisse di scompensi e aritmie. Il cuore di Diego, che è stato analizzato dai medici forensi pesava 500 grammi, il doppio del normale per una persona della sua età, conseguenza della cardiomiopatia dilatativa, una malattia del muscolo cardiaco che si manifesta con dilatazione e disfunzione ventricolare e comporta scompensi cardiaci e un serio rischio di trombosi. Maradona, secondo quando rivelato di chi lo ha visto negli ultimi mesi riuscendo a penetrare nel rigido cordone di sicurezza che lo accompagnava, appariva spesso stanco e assente, sedato dai farmaci e con forti sbalzi d' umore. Secondo Luque, che lo ha operato per rimuovere un edema al cervello ai primi di novembre, Maradona era un paziente difficile, che non accettava le cure. «Io l' ho operato - ha dichiarato Luque subito dopo la morte - ma non ero il coordinatore del pool di medici». Agli inquirenti è parso fin dall' inizio molto strano che non ci fosse un cardiologo di riferimento capace di verificare la compatibilità dei farmaci che stava prendendo con le sue condizioni. Luque e la Cosachov, a questo punto, dovranno fornire spiegazioni. A sfogarsi subito dopo la diffusione dei risultati è stata anche Gianinna Maradona. «Penso a tutti quei "figli di.." che speravano che si trovassero resti di droga o alcol. Io vedevo mio padre molto gonfio, la sua voce sembrava quella di un robot, non era la sua. Mi davano della matta». Le figlie hanno attaccato il clan che ha accompagnato Maradona negli ultimi mesi, ad iniziare dal suo avvocato personale Matias Morla, a cui fu precluso l'accesso ai funerali. Una guerra che continuerà nelle aule dei tribunali per l' eredità del campione.
Giancarlo Dotto per il “Corriere dello Sport” il 5 dicembre 2020. Le foto pubblicate dal “Clarin” del luogo dove Diego ha vissuto le sue ultime ore, ammesso che sia stato vivere, lo raccontano più di tanto inutile chiacchiericcio. Ci vuole il dono per raccontare uno come Diego. Pochi ce l’hanno. Quelle immagini raccontano. La grandezza e la miseria. Lo stesso uomo. Una casa vista lago, nel quartiere San André di Tigre, lotto 45. Più che una casa, la sistemazione di un accampato che arrangia i suoi ultimi, faticosi patti con la vita. Mobilacci sparsi di pessima fattura, di quelli che i poveri comprano a rate per l’eternità, confidando che resistano almeno il tempo della loro vita residua. Il pavimento in qualche resina o plastica di terz’ordine, color vomito. Un divano letto dozzinale, buono per cimici di lusso e quel che resta del Pibe, il materasso matrimoniale, la tristissima tivù 32 pollici, un gabinetto chimico, una sala giochi quando non c’è più niente da giocare. Un’ancor più triste poltrona con massaggio incorporato, di quelle che sostituiscono in molti casi l’abbraccio e le carezze di una donna, probabilmente l’ultimo che ti sarà dato. C’è un piano superiore, più confortevole e spazioso, ma inaccessibile per le ginocchia ridotte in briciole di Maradona. Uno che era caduto tante volte nella vita ma ora, dopo l’operazione al cervello, non poteva più permettersi di cadere. Salire una scala? L’equivalente dell’Everest. Ma quella che più stringe il cuore è l’immagine della cucina. Le tue sinapsi non ce la fanno a mettere insieme la star planetaria, celebrata dalle folle e dai capi di stato, il divo che si affacciava dai palazzi presidenziali e dalle suite di alberghi pentastellati, con quell’opprimente bugigattolo dove galleggiano sparsi una vecchia caffettiera, un thermos bluastro, orrende scodelle, un fornello da battaglia, ai suoi ultimi fuochi. Stai lì per declamare l’inevitabile stupore, l’ovvio sdegno, ma poi capisci in tempo che la miseria di Diego era la sua grandezza. Ciò che lo ha reso unico e irripetibile. A dirla tutta, la fedeltà commovente, irriducibile alle sue radici. Al suo piccolo mondo antico di Villa Fiorito, nome che la dice lunga su quanto si può essere crudeli nell’assegnare un nome. Il quartiere dov’è cresciuto. Niente fogne, niente luce, strade il minimo indispensabile, quanto serviva per i corrieri della droga. Ma, in quelle case al confine della baracca Diego deve aver conosciuto una qualche felicità, frugolo pirotecnico tra i piedi di un padre analfabeta ma dal cuore grande come una casa e una madre che lo ha amato come nessun’altra donna mai più. Domandate a Diego se trovate il modo di comunicare con lui: dove hai vissuto i giorni più belli nel tanto inferno dei tuoi ultimi anni, dove le ore più serene? Lui non avrà esitazioni: “Nelle due stagioni in cui ho allenato i “Dorados de Sinaloa” un club della serie B messicana”. Tutti. Ci siamo dati di gomito alla notizia: è andato nella terra del Chapo e dei narcos come Pinocchio nel Paese dei balocchi. A fare scorpacciate. Guardatevelo e stupite “Maradona in Messico”, la serie di Netflix, e scoprirete finalmente chi è Maradona, dopo averlo celebrato per quello che non è. Un ragazzo che, alla fine della sua vita, cercava l’unica cosa che aveva veramente perduto. Il suo piccolo, semplice, mondo antico.
PAOLO MANZO per il Giornale il 3 dicembre 2020. È iniziato ieri l'esame tossicologico sulle spoglie mortali di Maradona. Estratti capelli, sangue, urina, campioni del tessuto di cuore, polmoni e fegato del campionissimo e i test, rigorosamente top secret, potranno presto dirci se Diego aveva assunto alcol, droghe o farmaci in eccesso, causando il blocco cardiorespiratorio che lo ha poi portato via. Quando ieri sono entrati nella sala dell'istituto di medicina legale per presenziare alla procedura, tutti i periti di parte ma anche i procuratori che indagano per «omicidio colposo» il decesso di Diego hanno dovuto lasciare fuori i cellulari per evitare la fuoriuscita di materiale video compromettente visto che i mass-media argentini seguono in modo spasmodico ogni vicenda del Pibe de Oro, anche post mortem. Ieri Repubblica scriveva che la morte del 10 sarebbe stata causata da un cocktail di 6 psicofarmaci ma la notizia in Argentina non l'ha data nessuno visto che gli esiti autoptici usciranno solo la prossima settimana. Ciò che invece si vocifera a Buenos Aires, invece, è che se venissero trovate nel sangue o nei capelli di Diego tracce di cocaina, allora vorrebbe dire che qualcuno della ventina di persone che avevano accesso all'ultimo rifugio di Maradona e che dovevano proteggerlo, lo ha invece rifornito di droga, visto che lui non era in grado neanche di camminare da solo nelle ultime settimane. Di certo c'è che le disposizioni date dal neurochirurgo Luque e dalla psichiatra Cosachov all'infermiera che aveva il compito di tenere d'occhio Maradona al Tigre - «Non faccia nulla e non si avvicini» fanno impressione. Questo almeno ha detto la paramedico agli inquirenti. Che ieri hanno ribadito come il ricovero al Tigre di Diego sia stato inadeguato. Per questo hanno già convocato il dottor Cahe, per 33 anni medico personale di Maradona e che già poche ore dopo la morte del 10 aveva accusato con veemenza la pessima assistenza data al campionissimo dalla sua famiglia e dal suo entourage. Oggi tutte le strade della giustizia vanno contro la psichiatra Cosachov e, soprattutto, il dottor Luque, ma anche i famigliari hanno gravi responsabilità. A scegliere la casa del Tigre assolutamente inadatta, con Diego costretto a stare in stanza con un bagno chimico sarebbero state infatti Dalma, Giannina e Jana, le tre figlie riconosciute di Maradona. A metterlo a verbale è la psicologa Sandra Borghi, anche lei interrogata dai magistrati e che nell'ultimo mese accompagnava la fragile salute mentale del campione, insieme a Cosachov. Per i biografi del 10, tuttavia, la notizia forse più importante di ieri è la rivelazione fatta da Carlos Fren, già compagno di Diego nell'Argentinos Juniors e al Mondiale giovanile vinto nel 1979 in Giappone con la Selección bianco-celeste: «Maradona assumeva cocaina già dal 1981, quando giocava nel Boca». Un uso prolungato che, a detta degli esperti, spiega perché il cuore di Maradona pesava oltre mezzo Kg e non 250 grammi, come qualsiasi normale sessantenne.
Maurizio Crosetti per repubblica.it il 30 novembre 2020. Maradona è morto in crisi di astinenza ed è caduto in casa una settimana prima di morire, ha battuto la testa ma nessuno lo ha portato all'ospedale. Lo rivela l'avvocato di Gisela Madrid, l'infermiera che si occupava del campione. "Maradona è caduto il mercoledì della settimana precedente la sua morte. E' caduto e ha battuto la testa, ma non l'hanno portato in ospedale per una risonanza magnetica o una Tac ...", ha detto l'avvocato, citato dai media argentini. Nello specifico, Baquè ha spiegato che Maradona ha battuto il lato destro della testa, la parte opposta a quella interessata dall'operazione, e poi ha aggiunto: "Maradona non era in grado di decidere niente: dopo la caduta è rimasto da solo tre giorni nella sua stanza, senza essere visto da nessuno e senza essere aiutato". L'infermiera ha poi rivelato di avere avuto contatti con l'ex calciatore solo una volta, il venerdì prima della morte, dopodiché Maradona l'ha licenziata, e sebbene sia rimasta su richiesta dell'entourage del pibe non gli ha più rilevato la pressione né controllato in alcun modo. "Ha solo consegnato i farmaci, è rimasta alla porta e ha controllato che gli fossero somministrati", ha spiegato l'avvocato Baqué. Ma c'è dell'altro. Al momento delle dimissioni dalla clinica Olivos, dopo l'operazione al cervello, Diego Maradona presentava chiari segni di astinenza da sostanze. Lo ha scritto la psichiatra Agustina Cosachov, che poi ha seguito Diego nella casa di Tigre dov'è morto. La specialista aveva consigliato anche la presenza continua di un'ambulanza, inutilmente. Rischia intanto di aggravarsi la posizione giudiziaria del dottor Leopoldo Luque, il medico personale di Maradona indagato per omicidio colposo dalla procura di San Isidro. Dagli atti è infatti emerso che la dottoressa Cosachov aveva chiesto per l'ex campione un'assistenza specialistica e infermieristica 24 ore su 24, ma Luque questa assistenza non l'aveva predisposta. "Se la dottoressa Cosachov mi avesse scritto una relazione precisa, avremmo potuto internare Diego in una clinica psichiatrica" si è difeso Luque. "Ma senza questo documento, nessun paziente può essere sottoposto a trattamenti sanitari obbligatori. E Maradona non voleva più mettere piede in ospedale, aveva deciso di farsi curare in casa: stava meglio, io non l'ho certo abbandonato, è morto d'infarto e non era prevedibile". "Non è vero", ha ribattuto l'avvocato dell'infermiera: "Il cuore di Maradona aveva mandato precisi segnali di sofferenza, ma nessuno li ha ascoltati". Si è dunque scatenata una triste guerra tra medici, mentre la prima moglie di Diego, Claudia Villafane, e le figlie Dalma e Gianinna accusano a loro volta il dottor Luque: "Era lui il responsabile, toccava a lui organizzare l'assistenza per Maradona che invece è stato lasciato solo". Però Luque ha dichiarato che Diego a volte non voleva neppure alzarsi dal letto per ricevere le figlie, e che di fatto era ingestibile. Anche l'avvocato di Maradona, Matias Morla, è convinto che l'inchiesta dovrà chiarire molti aspetti oscuri e punire quelli che lui chiama "idioti criminali".
Carlos Passerini per corriere.it il 17 dicembre 2020. Ora spunta fuori anche l’autista bugiardo. Perché ha mentito? A quasi un mese dalla morte, il giallo sugli ultimi giorni di Diego Maradona s’infittisce sempre più. Emerge ora un nuovo personaggio, quello dello chaffeur personale del Diez, un certo Maximiliano Trimarchi, 44 anni. I tre magistrati della procura di San Isidro hanno disposto un supplemento d’indagini nei suoi confronti.
Incastrato dal telefono. Agli inquirenti Trimarchi avrebbe testimoniato di non esser stato presente sul luogo del decesso, il 25 novembre scorso nella villa di Tigre, ma telecamere e celle telefoniche lo incastrano. Dicono che ha raccontato il falso. Lui quella mattina c’era. La domanda è: perché ha mentito? Nasconde qualcosa? Di certo ora rischia grosso. Al momento non figura ancora nel registro degli indagati ma potrebbe finirci nelle prossime ore. Intanto i magistrati hanno sequestrato il suo telefono.
Il terzo uomo. Gli indagati per omicidio colposo sono Leopoldo Luque e Agustina Cosachov, rispettivamente neurochirurgo e psichiatra di Maradona. Trimarchi potrebbe diventare il terzo. Oltre a essere autista di Diego, è anche il fratello della contabile che gestiva diverse società dell’ex campione.
Presente in casa. «Trimarchi è stato ripreso più volte a entrare e uscire dall’abitazione di Tigre in cui Maradona si è spento la mattina del 25 novembre. Lo dicono i dati del suo cellulare e le immagini delle telecamere a circuito chiuso. Faremo luce su tutto», ha dichiarato Mario Baudry, il legale che difende gli interessi di Diego Fernando, l’ultimogenito di Maradona.
Questione di paternità. Eredità e verità: il giallo Maradona, purtroppo, è ancora tutto da scrivere. Non si esauriscono infatti le serie di complicazioni legali legate alla comparsa di presunti nuovi figli. In merito alla questione della paternità, il tribunale argentino ha accolto la richiesta della giovane Magalí Alejadra Gil, che vuole conoscere la sua identità e sapere se l’ex campione è suo padre oppure no. Nella delibera del Tribunale Civile Nazionale Gil richiede che l’esame di istocompatibilità sia effettuato subito come prova. Pertanto il cadavere di Diego Armando Maradona non può essere cremato al momento dato che il corpo serve per effettuare il test di paternità.
Salvatore Riggio per corriere.it il 5 dicembre 2020. Ennesimo mistero su Diego Armando Maradona, morto mercoledì 25 novembre a Tigre in circostanze ancora da chiarire, tanto che è stata aperta un’inchiesta che vede coinvolti i sanitari che dovevano vegliare sulla salute del Pibe de Oro. Non sarà facile far luce su tutta la vicenda, mentre gli argentini sono ancora in lutto per la perdita del più grande calciatore di sempre. Adesso è arrivata un’altra indiscrezione, che riguarda l’eredità del Pibe de Oro. Una vera e propria battaglia, come anticipato dal Corriere della Sera. Un intrigo, un mistero. Sono tanti a voler mettere le mani sul patrimonio dell’ex fuoriclasse del Napoli. Sono i discendenti diretti a promettere battaglia. Si tratta dell’ex moglie Claudia Villafane – il divorzio con Maradona arrivò dopo 24 anni di matrimonio – e le due figlie, Dalma e Giannina. Ma da quanto sostengono in Argentina sono proprio loro che rischiano di restare senza. Lo riporta il Clarin, rispolverando un’accesa battaglia legale tra Diego e Claudia. Questa è una vicenda che risale a cinque anni fa, nel 2015. Sempre secondo quanto sostiene il Clarin, Maradona scoprì un ammanco di circa sei milioni di dollari oltre alla sparizione di 458 cimeli collezionati in carriera (trofei, magliette autografate e oggetti preziosi). Il Pibe de Oro si infuriò e accusò l’ex moglie, all’epoca sua tutrice legale. Da qui arrivarono denunce, due sentenze dall’esito opposto, tanto che la causa si è trascinata fino a oggi, che Diego non c’è più. Una causa, però, che impedirebbe di fatto a Claudia di beneficiare della porzione di eredità che le spetterebbe. Non solo. Sempre quanto sostengono in Argentina giornali e televisioni, Maradona qualche anno fa avrebbe rivisto il testamento. Escludendo da qui proprio Claudia, Dalma e Giannina dall’asse ereditario. Ma le tre promettono battaglia contro il circolo intimo che, negli ultimi anni, si muoveva accanto al Pibe de Oro. Per loro colpevole di averlo lasciato solo in un grave momento di difficoltà. Sarà una lotta senza precedenti.
Da leggo.it il 6 dicembre 2020. "Nessuno aveva il controllo del paziente". Diego Armando Maradona abbandonato a se stesso. È questo, secondo una fonte investigativa citata dal quotidiano La Nacion, il quadro che si delinea attorno alla morte del Pibe de oro, deceduto 10 giorni fa per un'insufficienza cardiaca. Nel mirino, il neurochirurgo Leopoldo Luque e la psichiatra Agustina Cosachov. "Ogni nuovo elemento che viene acquisito nell'indagine rafforza l'ipotesi provvisoria che ci sia stata una gestione lacunosa nel trattamento che ha ricevuto Maradona. Siamo davanti alla possibilità che sia stato commesso un reato. E' possibile dire che potremmo trovarci davanti ad un omicidio colposo", aggiunge la fonte. Il codice penale, all'articolo 84, prevede una pena tra 1 e 5 anni di carcere per chi, nell'esercizio della propria professione, causi la morte di qualcuno per imprudenza, negligenza o imperizia. L'indagine è affidata al procuratore generale di San Isidro, John Broyad, che coordina un team speciale di inquirenti. Si attende l'esito degli esami supplementari legati all'autopsia, in particolare quelli tossicologici, che verranno poi sottoposti ad una commissione di periti: la loro valutazione sarà determinante per stabilire la qualità delle cure ricevute da Maradona. Per La Nacion ha un ruolo decisivo il documento firmato il 3 novembre, quando Maradona è stato dimesso dalla Clinica Olivos dopo l'intervento per la rimozione di un ematoma subdurale. Il documento reca la firma di Luque, di due figlie di Maradona -Gianinna e Jana- e del direttore medico della struttura, Pablo Dimitroff. Il documento in sostanza non determinava le dimissioni e sollecitava la prosecuzione di terapie psichiatriche, cliniche e riabilitative in un centro specializzato. Il Pibe, invece, è stato trasferito nella casa del barrio San Andres dove è morto dopo poche settimane. Il trattamento domiciliare, secondo gli inquirenti allestito "in una disorganizzazione totale", sarebbe stato proposto da Luque e Cosachov e accettato dalla famiglia. "Non c'era nessun sistema di controllo del paziente, abbiamo accertato che un medico è andato un paio di volte a vedere Maradona -sostiene la fonte- ma non sappiamo cosa abbia fatto. Non è accertata la presenza di un cardiologo nella casa, di uno specialista che si occupasse delle patologie cardiache".
Carlos Passerini per il “Corriere della Sera” il 7 dicembre 2020. «Grave incuria da parte dei medici, nessuno si occupava del paziente». Non che ci fossero grossi dubbi, le fotografie dell' indegno letto di morte nella villa di Tigre le abbiamo purtroppo viste tutti, ma a dieci giorni dalla morte di Diego Maradona l' inchiesta penale sugli ultimi giorni del Diez e sulle responsabilità di chi gli stava accanto potrebbe essere a una svolta. Stando al quotidiano La Nacion prende infatti sempre più corpo l' ipotesi di «morte derivata da mala gestione del paziente». Si complicano quindi sempre più la posizione del medico Leopoldo Luque e della psichiatra Agustina Cosachov. «Nessuno aveva il controllo del paziente» ha riferito una fonte investigativa, parlando di «disorganizzazione totale» nella gestione postoperatoria. Nelle prime relazioni dei giudici della Procura di San Isidro si nota che «il paziente non era monitorato, non era sottoposto a continuo controllo medico come le sue condizioni avrebbero richiesto e non assumeva alcun farmaco per le sue patologie cardiache». In sostanza sta emergendo in maniera sempre più chiara che Diego non doveva essere dimesso dalla clinica Olivos, ma andava portato in un centro specializzato per proseguire la riabilitazione. E non di certo una squallida stanza senza nemmeno le ante, senza un bagno vero. «Siamo davanti alla possibilità che sia stato commesso un reato, è possibile dire che potremmo trovarci davanti a un omicidio colposo» ha aggiunto la fonte investigativa. L' inchiesta penale sta prendendo insomma la piega più prevedibile, la più scontata: è stato chiaro fin da subito che qualcuno ha sbagliato, che Diego è stato lasciato solo, abbandonato a se stesso. Il processo sarà però tortuoso, innanzi tutto bisognerà attendere l' esito degli esami supplementari legati all' autopsia. Ma il rimpallo di responsabilità è già cominciato, l' accusa è pesante: una condanna potrebbe costare cinque anni di prigione. Sarà una battaglia lunga e senza esclusione di colpi, come per l' eredità, una telenovela triste che ogni giorno riserva episodi nuovi. Ora prende corpo l' ipotesi che i resti del Diez vengano addirittura riesumati. A richiederlo è uno dei presunti figli segreti, Santiago Lara, che ha bisogno del dna per effettuare il test e dimostrare la parentela. «Voglio solo la verità» dice, ma in ballo c' è una fortuna da 70 milioni di dollari e la sua richiesta ha scatenato una battaglia nella battaglia. L' ex moglie Claudia con le figlie Dalma e Giannina non ne vogliono sapere: il corpo non si tocca. Da una parte i cinque figli riconosciuti, dall' altra i sei che da ogni parte del mondo stanno avviando azioni legali: in mezzo, ovvio, i soldi di Diego, il suo tesoro maledetto, in vita come in morte.
Dagospia il 7 dicembre 2020. Stanno destando grande scalpore i risultati dell’inchiesta sulla morte di Diego Armando Maradona: secondo i giudici, i medici sarebbero colpevoli di una grave incuria che avrebbe causato il suo decesso. E a commentare le ultime vicende oggi è stato l’avvocato Angelo Pisani, ex legale di Maradona. Intervenuto tramite collegamento a Storie Italiane, su Rai1, ospitato da Eleonora Daniele, Pisani ha sottolineato: “La droga non centra nulla con la morte di Diego. La situazione è molto più chiara di quella che può sembrare. C’è stata negligenza, perciò i medici dovranno assumersi le loro responsabilità”. Parlando, invece, di Matias Morla, l’attuale legale di Diego Armando Maradona, l’avvocato Pisani ai microfoni di Storie Italiane ha dichiarato: “In Italia un legale che si intesta i diritti del cliente o che subentra nel suo patrimonio verrebbe radiato immediatamente dall’albo. È una cosa illegittima […] Io ho dovuto lasciare Maradona altrimenti mi sarei dovuto trasferire a Dubai. Nel 2017 hanno preso il mio posto l’avvocato Morla e una serie di consiglieri che hanno allontanato Diego dalla famiglia e dagli amici. Da quel momento nessun calciatore del Napoli ha più potuto chiamarlo. Addirittura io stesso non sono mai più riuscito a parlare con lui: mi è sempre stato detto che non c’era”. Le rivelazioni dell’avvocato Pisani hanno lasciato di sasso Eleonora Daniele e gli ospiti di Storie Italiane. “Lei sta lanciando una bomba enorme” ha infatti commentato la conduttrice. “Diego è stato isolato. Nessuno dei suoi amici è mai più riuscito a parlare con lui” ha ribadito Pisani. “Le sue dichiarazioni faranno il giro del mondo” ha replicato, visibilmente sbalordita, Eleonora Daniele, sottolineando: “Sia della gestione dell’eredità che della stipula del contratto per la cessione del brand se ne quindi è occupato l’avvocato Morla a Dubai quando lei non ha più potuto seguire fisicamente Maradona”. Pisani ha dunque ribadito: “Dal 2017 nessuno è più riuscito a parlare con Diego, nessun calciatore, nessun amico e neppure io”. Dichiarazioni, quelle che l’avvocato Angelo Pisani ha rilasciato in esclusiva a Storie Italiane, che gettano senza dubbio una nuova luce sull’intricata vicenda della morte del calciatore argentino.
Da ilmessaggero.it il 26 novembre 2020. Diego Maradona, l'autopsia sul suo corpo fa luce sulle cause della morte: «Insufficienza cardiaca ha generato un edema del polmone». I medici legali che hanno realizzato ieri sera l'autopsia sul cadavere di Diego Maradona nell'Ospedale di San Fernando, in provincia di Buenos Aires, hanno diffuso un referto con i risultati del loro lavoro. Il decesso, si legge nel documento, è stato attribuito a «insufficienza cardiaca acuta, in un paziente con una miocardiopatia dilatata, insufficienza cardiaca congestizia cronica che ha generato un edema acuto del polmone». Si è infine appreso che lo studio realizzato per determinare le cause della morte sarà completato con analisi tossicologiche che nel giro di una settimana preciseranno se Maradona, prima di morire, ha ingerito farmaci, droghe o alcol.
Sei medici. I media argentini hanno indicato che l'autopsia è durata circa tre ore, fra le 19.30 e le 22.30, e che vi hanno partecipato cinque sanitari convocati dall'Ufficio del Pubblico ministero di San Isidro, guidati dal direttore del Corpo medico forense di San Isidro, Federico Corasaniti. A questi cinque si è unito un sesto medico designato dalla famiglia.
Da leggo.it il 26 novembre 2020. Alle 6.18 locali (le 10.18 italiane) in punto di oggi sono state aperte le porte della camera ardente nella Casa Rosada presidenziale di Buenos Aires dove si trova il feretro che contiene il corpo di Diego Armando Maradona. Numerosi tifosi erano in fila dalla notte. Alla vigilia si parlava di un omaggio che doveva durare 48-72 ore, ma la famiglia ha disposto che l'ingresso delle persone avvenga solo per dieci ore, ossia fino alle 16 (le 20). Nelle ore precedenti all'apertura della camera ardente al pubblico, nella sala dove si trovano i resti di Diego Maradona sono entrati i famigliari (la ex moglie Claudia Villafañe e le figlie Dalma e Giannina) e numerosi calciatori ed amici storici del "pibe de oro" (Carlos Tevez, Martin Palermo, i membri della nazionale argentina vittoriosa a Messico 1986, e Guillermo Coppola). Nella notte è stata nella sala dove dieci anni fa fu reso l'estremo omaggio all'ex presidente Nestor Kirchner anche l'ultima fidanzata di Maradona, Vernica Ojeda, con il figlio Dieguito Fernando. Secondo il quotidiano Clarin il corpo di Maradona non sarà visibile, per cui la bara sarà chiusa. La famiglia di Maradona non ha fatto richieste particolari per le modalità della cerimonia, si è infine appreso, indicando solo l'utilizzazione di una bandiera argentina vicino o sopra il feretro.
C.Pass per il "Corriere della Sera" il 27 novembre 2020. Crisi cardiaca provocata da un edema polmonare: così è morto Diego Maradona stando all' autopsia preliminare effettuata sul suo corpo all' ospedale di San Fernando poche ore dopo il decesso. La formula esatta è «insufficienza cardiaca acuta con cardiomiopatia dilatativa». E la crisi, hanno potuto accertare i medici durante le tre ore dell' esame, è stata provocata da un «edema polmonare acuto», secondo quanto scrive il quotidiano argentino Clarìn , il primo a dare la notizia della scomparsa del campione mercoledì pomeriggio. L' autopsia c' è, ma il mistero resta. Anzi i misteri, al plurale. Bisognerà attendere infatti le analisi tossicologiche che, entro una settimana, faranno luce sulla domanda che tutti si fanno: prima di morire, Diego ha ingerito farmaci, droghe o alcol? Negli ultimi tempi era soprattutto quest' ultimo, il suo problema. Beveva troppo. E abusava di psicofarmaci. Se questo è collegabile alla crisi fatale, lo dovrà chiarire l' analisi tossicologica. L' altro mistero riguarda invece le cure alle quali Diego era sottoposto negli ultimi giorni. Perché dopo l' intervento dello scorso 3 novembre per rimuovere un coagulo al cervello era stato subito dimesso? Ad accusare la gestione post operatoria è stato l' ex medico dell' argentino, Alfredo Cahe: «Un decesso quantomeno insolito - ha detto, con tono volutamente polemico a Telefe - nel senso che Maradona non è stato curato a dovere. Prima di tutto, avrebbe dovuto restare ricoverato. Non esiste che un paziente nelle sue condizioni venga dimesso una settimana dopo quel tipo di intervento. Mandarlo a casa è stata una stupidaggine. In secondo luogo avrebbe dovuto avere un medico adeguato accanto, che fosse in grado di assisterlo in caso di emergenze, cosa che evidentemente non è accaduta. Non so perché ci fosse tanta urgenza di operarlo, ho molti dubbi. Non era necessario intervenire subito». Cahe è stato per 33 anni responsabile della salute di Maradona, salvo poi allontanarsi negli ultimi tempi. Ora il suo medico era Leopoldo Luque, che mercoledì è arrivato nella villa di Tigre quando Diego era già morto. Momenti drammatici, convulsi, sui quali la polizia di San Isidro sta cercando di fare luce. L' inchiesta penale è solo all' inizio e per ora ha solo escluso la morte violenta. Ma lo scenario è caotico, somiglia molto a un tutti contro tutti. L' avvocato di Maradona, Matias Morla, ha denunciato ritardi nei soccorsi: «L' ambulanza ha tardato più di mezz' ora, non è una cosa che può passare sotto silenzio, bisogna indagare». Morla ha poi emesso un comunicato in cui si specifica che nelle dodici ore antecedenti alla morte, Maradona «non avrebbe avuto le attenzioni e i controlli da parte del personale sanitario deputato». Quello che si sa è che Diego negli ultimi giorni della sua vita desiderava soltanto tornare nell' amata Cuba. Stava programmando il viaggio. Ma era debole, depresso e angosciato. E solo, dannatamente solo.
Emiliano Guanella per “la Stampa” il 2 dicembre 2020. Il cuore di Maradona, che pesava il doppio del normale, non è più con lui, ma sul tavolo di un laboratorio specializzato a La Plata dove oggi sarà analizzato a fondo dai medici forensi che stanno indagando sulla sua morte. I migliori esperti in materia condurranno sotto gli occhi dei procuratori Laura Capra e Cosme Iribarren un accurato esame istologico per approfondire il risultato della prima autopsia, che determinava un edema polmonare ed insufficienza ventricolare. Si vuole andare a fondo e per questo sono stati estratti frammenti di altri organi, oltre a urina, sangue e una ciocca di capelli. L'esame tossicologico scoprirà se c' erano nel suo corpo tracce di alcool o sostanze stupefacenti, quello su organi e tessuti se c' erano delle patologie che non sono state curate come meritavano. L'Argentina è ancora stravolta dalla perdita del campione, la sensazione è che si voglia arrivare ad un colpevole, un responsabile di quanto è successo. Nessuno può accettare che il maggior idolo nazionale sia stato abbandonato a se stesso, alla sua depressione, al suo delicatissimo stato di salute. Convalescente dopo un' operazione al cervello Diego soffriva di un quadro di depressione e d' alcolismo, ma è morto per un attacco di cuore. Per il neurochirurgo Leopoldo Luque non c' erano problemi cardiaci, ma le sue parole cozzano con quanto dice l' infermiera Dahiana Gisela Madrid, che si sta rilevando una fonte importante per la procura. Mediante il suo avvocato la Madrid ha detto che Maradona aveva battuto la testa il 18 novembre e che il giorno dopo stava soffrendo di tachicardia, con il cuore a 115 battiti per il minuto. «Il battito alto è una conseguenza delle pastiglie che prendeva per la depressione, ma nessun cardiologo lo ha visitato». Per gli inquirenti risulta chiaro che c' è stata una negligenza da parte dei medici. Il cerchio si chiude, oltre che su Luque, anche sulla psichiatra Agustina Cosechov il cui studio è stato perquisito ieri pomeriggio. La si considera responsabile delle scelte che venivano prese, ad iniziare dal «ricovero domiciliare» poco adatto al trattamento di un paziente nel suo stato. L'ex compagno di squadra Oscar Ruggeri ha riportato in televisione quanto gli ha detto Claudia Villafane. «Viene da morire nel vedere il posto dove l' hanno messo». L'avvocato dell' infermiera ha rincarato la dose. «La casa non era preparata per accoglierlo, non c' era un piano per un'emergenza. Non si capisce perché non l' abbiano portato a casa sua, a Brandsen, dove si sarebbe sentito più a suo agio». Le figlie Giannina e Jana, oltre all' ex fidanzata Veronica Ojeda, assieme al piccolo Diego Fernando sono andate e visitarlo, ma lui non aveva voglia di parlare, sembrava un leone malato chiuso in una gabbia. La giustizia ha esaminato anche le conversazioni del gruppo di whatsapp composta da Dalma, Giannina, Jana, Diego Junior e la psichiatra Cosachov. Il 14 novembre Dalma propone di cercare un medico che coordini il pool, Giannina chiede come sta il padre, Jana risponde che sta vedendo video di vecchie partite, ma che si lamenta perché vorrebbe più privacy. Mentre le indagini proseguono e si attende il risultato degli esami ci si chiede che fare con i resti di Diego. Lui voleva essere sepolto accanto agli amatissimi genitori, ma c' è il rischio di trasformare il cimitero Bella Vista, ancora presidiato dalla polizia e chiuso agli estranei, in un mausoleo non autorizzato, oltre al timore che la tomba sia profanata. La storia argentina ha una lunga tradizione di necromania; nel 1987 fu profanata la tomba del generale Peron, il cadavere della moglie Evita fu nascosto per 13 anni sotto mentite spoglie al cimitero Musocco di Milano per paura di atti vandalici. Per ora, comunque, non si può fare molto: la legge argentina impedisce la cremazione quando c' è un' inchiesta aperta e poi ci sono le istanze di riconoscimento di altri presunti figli di Maradona, tra Argentina, Cuba e la Colombia. Dopo una vita vissuta a mille all' ora per Diego non c' è pace nemmeno dopo la morte.
Da corrieredellosport.it il 2 dicembre 2020. Il cuore completo di Diego Armando Maradona, prelevato durante l'autopsia pesava il doppio di quello normale. Domani in diversi laboratori argentini saranno effettuati vari test come parte delle perizie complementari richieste dai medici forensi che hanno eseguito l'autopsia. Lo hanno riferito fonti giudiziarie citate dall'agenzia di stampa statale Telam. Si tratta di studi tossicologici, attraverso i quali si cercherà di determinare se Maradona avesse tracce di alcol, droghe o qualche altra sostanza nel corpo nelle ore precedenti la sua morte, e analisi istopatologiche, che studiano gli organi e tessuti. La maggior parte delle perizie degli esperti inizierà mercoledì presso la sede della Soprintendenza della Polizia Scientifica nella città di La Plata.
Il cuore di Maradona. La sezione di patologia lavorerà sul cuore di Maradona che, secondo quanto osservato dai medici forensi che hanno eseguito l'autopsia, soffriva di "cardiomiopatia dilatativa" e pesava più di 500 grammi, quasi il doppio del peso di un cuore normale. Nello stesso laboratorio, domani inizieranno anche le analisi dei campioni di urina, sangue e tamponi nasali prelevati dall'autopsia per gli studi tossicologici. Le fonti della magistratura hanno chiarito che questo mercoledì non si conoscerà il risultato di nessuno degli studi, nemmeno quelli che verranno effettuati sui prelievi di urina e sangue, che solitamente sono i primi a essere ottenuti.
Da corrieredellosport.it il 2 dicembre 2020. La magistratura argentina continua a indagare sulla morte di Diego Maradona, per capire se l'ex calciatore sia stato assistito in maniera adeguata dopo l'operazione alla testa di inizio novembre: nelle ultime ore i magistrati hanno messo sotto sequestro i dialoghi su una chat di Whatsapp di cui facevano parte le figlie di Maradona, Dalma e Giannina, il figlio italiano Diego Junior e due degli specialisti che seguivano l'ex fuoriclasse, la psichiatra Agustina Cosachov e lo psicologo Carlos Diaz. Dalla chat emerge la preoccupazione di Dalma sulla necessità di mettere a un medico a controllare la condizioni del padre: "Sono appena stata contattata da una persona che si occupa dei ricoveri domiciliari e mi ha detto che papà ha vomitato (ha mangiato gamberi con aglio e broccoli) - sono le parole di Dalma in una chat - non vuole che un'ambulanza vada a controllarlo. Mi ha detto che ha parlato con Agustina (Cosachov, n.d.r.) e che lei gli ha detto che era una decisione della famiglia! Ecco perché scrivo. Credo che ci siano cose che i famigliari non debbano decidere. Per questo servirebbe un medico clinico o almeno un medico che risponda per lui". Intanto, in un programma tv, spunta anche l'ultimo audio di Diego Maradona, in cui raccomanda all'attuale compagno dell'ex fidanzata Veronica Ojeda, di occuparsi del figlio di 7 anni Diego Fernando, l'ultimo di quelli riconosciuti.
Indagata la psichiatra: perquisiti ufficio e casa. La casa e l'ufficio di Agustina Cosachov, psichiatra di Maradona, sono stati perquisiti dagli investigatori sulla morte dell'ex stella del calcio. Lo hanno riferito fonti giudiziarie citate dall'agenzia di stampa statale Telam. La Cosachov si trova nella stessa situazione del neurologo Luque: è indagata, sospettata, ma non ancora formalmente imputata nel procedimento giudiziario per l'ipotesi di omicidio colposo. "La misura è assolutamente normale. Si stanno cercando la storia clinica e qualche altro tipo di documentazione. Per conoscere la responsabilità del mio cliente devo avere accesso al caso", ha dichiarato l'avvocato della psichiatra, Vadim Mischanchuk, citato dal quotidiano Clarin. Il legale ha detto che la sua cliente si sente "tranquilla" riguardo alle "decisioni mediche che ha preso" sul trattamento di Maradona. Al momento delle perquisizioni, Cosachov non si trovava in nessuno dei due luoghi, ma successivamente ha raggiunto la sua abitazione. Cosachov e Luque sono coloro che hanno firmato la dimissione di Maradona dalla Clinica Olivos dopo l'intervento per un ematoma subdurale al cervello, e i pubblici ministeri stanno esaminando le loro responsabilità, anche per il ricovero domiciliare nella casa di Tigre.
Maurizio Crosetti per repubblica.it il 30 novembre 2020. Il medico personale di Maradona è indagato per omicidio colposo. La procura di San Isidro ha perquisito lo studio e l'abitazione del dottor Leopoldo Luque, 39 anni, il neurochirurgo che il 3 novembre scorso aveva operato Diego al cervello e che, soprattutto, ha gestito le fasi delle dimissioni e dell'assistenza domiciliare. Svolta, secondo i magistrati, con incuria e negligenza. "Ma io so di avere fatto tutto il possibile", si è difeso con veemenza il medico nel corso di una conferenza stampa improvvisata. "Maradona è morto di cuore, la cosa più comune al mondo. Quel mondo che Diego odiava, lui odiava tutto e tutti ma io sentivo la responsabilità di volergli bene, io ero suo amico e lui aveva bisogno di aiuto". La tesi difensiva del chirurgo è che nessuno può essere curato contro la propria volontà: "Maradona era un paziente molto difficile. Perché adesso non indagano su chi era quest'uomo? A volte mi cacciava di casa, poi mi richiamava indietro. Non potevo certo internarlo in manicomio senza l'autorizzazione di uno psichiatra, e neppure potevo obbligarlo ad entrare in una clinica di riabilitazione. Quando è stato dimesso c'era l'autorizzazione, abbiamo dei filmati in cui si vede chiaramente che stava bene. Non ho fatto meno del dovuto per lui, ma di più: ho le prove, ho i documenti e lo dimostrerò. A volte Diego non si alzava neppure dal letto per ricevere le figlie". Eppure restano ampie zone d'ombra sulla fine di Maradona e sul dottor Luque, colui che chiamò l'ambulanza alle 12.23 di mercoledì 25 novembre con una voce assai calma, come se tutto fosse già accaduto, e senza neppure fare il nome di Maradona. Luque nella telefonata di soccorso con gli operatori parlò solo di un paziente di 60 anni in arresto cardiocircolatorio. Il campione si era molto legato a questo giovane medico di vent'anni più giovane, ma come spesso gli accadeva anche nei rapporti umani importanti passava dall'amore all'odio e di nuovo all'amore con grande disinvoltura, e con quegli sbalzi d'umore che spesso accompagnano le sindromi depressive. Nell'inchiesta appena aperta si dovranno chiarire quelle cinque ore di cui si sa ancora troppo poco. A che ora è morto davvero Maradona? I soccorsi sono stati chiamati subito? Perché, chi era in casa, telefonò al dottor Luque e non al pronto soccorso? Forse Diego aveva già smesso di vivere? E come mai è stato dichiarato morto soltanto dopo le 13? Come mai Gisela Madrid, l'infermiera che lo accudiva, ha ritrattato la prima testimonianza in cui asseriva di avere assistito Maradona per tutta la mattinata, quando forse non lo aveva neppure visto? Chi l'ha costretta a mentire, e soprattutto perché?
Melania Rizzoli per "Libero Quotidiano" il 29 novembre 2020. Un decesso, quello di Diego Armando Maradona, quantomai insolito e che ha lasciato sconcertato il mondo intero. La crisi fatale che lo ha condotto a morte è stata accertata e certificata dal referto dell' autopsia durata tre ore, eseguita nella serata di giovedì 26 novembre da un team di sei medici anatomopatologi dell' ospedale San Fernando di BuenosAires: "arresto cardiocircolatorio provocato da un edema polmonare acuto", diagnosi riportata anche dal quotidiano argentino Clarin, il primo a dare la notizia della scomparsa del campione mercoledì scorso. Naturalmente bisognerà attendere i referti delle analisi tossicologiche post-mortem per accertare se Maradona prima di morire abbia ingerito psicofarmaci, droghe od alcool, ma la domanda resta ed è questa: perché nessuno si è accorto in tempo delle gravi condizioni cliniche e cardiache di Diego? L'edema polmonare acuto infatti, non è una complicanza che insorge in un solo giorno all'improvviso in un paziente cardiopatico, perché è una patologia che abbisogna di alcune settimane di decorso per completarsi e manifestarsi in tutta la sua gravità, per poi accelerare e comparire con le sue note manifestazione cliniche, i cui sintomi e segni fisici inequivocabili sono riconoscibili facilmente anche da uno studente di medicina. Perché il paziente in preda a questa grave insufficienza respiratoria di origine cardiaca presenta innanzitutto la diaforesi, ovvero una sudorazione eccessiva che imperla la fronte di gocce di sudore freddo, come il resto del corpo, che al tatto appare di temperatura marmorea, in contemporanea a dispnea parossistica, cioè un grave affanno accompagnato da tosse, ansia, dispnea, cianosi con labbra scure ed ortopnea, al punto che il malato ha importante difficoltà a parlare e respirare sdraiato nel letto e deve assumere la posizione seduta per la grave fame d' aria che accusa, con l' angoscia e la paura che gli si legge negli occhi. Inoltre il soggetto in crisi di edema polmonare acuto presenta, all' ascoltazione cardiaca, aritmie, con ritmi di galoppo diastolico e sistolico del cuore, espettorato di colore rosato da emoftoe, dovuto alle tracce di sangue nello sputo che sgorga dalla bocca, e ipotensione, ovvero pressione arteriosa che tende ad abbassarsi pericolosamente, cosa che aggrava di molto la prognosi infausta ed imminente se non si interviene tempestivamente. Non solo. In presenza di un medico che sospetti tale complicanza e visiti il paziente, anche l' auscultazione polmonare non lascia dubbi, poiché i rumori 'umidi' o i 'crepitii', rantoli sempre presenti in tale patologia, dalle basi polmonari agli apici, indirizzano e rappresentano inequivocabilmente il quadro clinico succitato, come anche una una radiografia del torace, l'esame di elezione per confermare la diagnosi clinica di edema polmonare, non può lasciare dubbi, in quanto esplicita nelle immagini le opacità delle basi respiratorie e l' aspetto sfumato ed offuscato dei profili dei vasi e dei bronchi polmonari, ai quali spesso si associa la presenza di versamento pleurico più o meno evidente (acqua nei polmoni) sempre ben visibile radiologicamente. L' elettrocardiogramma, in grado di identificare le tachiaritmie, spesso causa del peggioramento dell' insufficienza cardiaca o causa determinante della stessa, insieme all' emogasanalisi del sangue, confermano l'insufficienza e l' acidosi respiratoria, ed impongono, nei casi di edema polmonare, di procedere immediatamente alla somministrazione di ossigeno al 100%, di sedare l'ansia del paziente che non respira anche con la morfina solfato in dosi determinate dalla gravità del momento, e di infonderlo di diuretici ad azione immediata (furosemide) per favorire il deflusso e la conseguente eliminazione attraverso le urine dei liquidi trattenuti in eccesso, quelli che il cuore, in difficoltà di pompa contrattile, non riesce ad eliminare. Infatti il cardine del trattamento farmacologico dell' edema polmonare acuto è rappresentato principalmente dai diuretici (Lasix) che agiscono sul versante renale e vascolare, insieme ai farmaci vasodilatatori e alla morfina, arrivando finanche al salasso di sangue se necessario, per ridurre il volume di carico di liquidi che arriva al cuore, tentare di migliorare la sua performance contrattile e non aumentare l'ansia del paziente in pericolo di vita, il quale, ingorgato nel respiro, nella pressione e nella tachicardia, percepisce l'imminenza della fine. La mortalità dell' edema polmonare acuto di norma dipende solo ed esclusivamente dalla tempestività dell' intervento medico, dalla immediata ospedalizzazione e dalla presenza di comorbilità, poiché l' aumento e l' accumulo dei liquidi nello spazio extra vascolare a livello del parenchima polmonare ( dove dovrebbe esserci solo aria ossigenata) è da solo in grado di far perire soffocato il paziente che si avvia all' arresto cardiaco irreversibile. Nessun essere umano, a meno che non sia sedato o indotto in coma farmacologico, muore addormentato nel sonno per edema polmonare acuto, perché la fame d'aria ed il bisogno impellente di respirare tiene svegli, non consente lo stato saporoso, ma impone quello vigile in quanto drammaticamente bisognoso di aiuto e di aria da inalare nei polmoni. Nei casi complicati ed accertati di cardiomiopatia dilatativa, ovvero affaticamento ed aumento patologico di volume del cuore, come nel caso di sofferenza riferito di Maradona, a maggior ragione l' attenzione medica e clinica sarebbe dovuta essere alta e continuativa, soprattutto dopo un recente intervento al cervello per la rimozione di un ematoma subdurale cronico, come quello subìto due settimane prima dal campione, che invece è stato dimesso lo scorso 11novembre, dopo pochi giorni dall' operazione e rimandato a casa in convalescenza sotto le luci accese delle telecamere, in compagnia di un giovane nipote, Johnny Esposito, figlio della sorella Maria Rosa, l'unico esponente del numeroso clan familiare ad averlo visto l' ultima volta prima che morisse. Secondo la ricostruzione del giornale argentino Clarin, Maradona la mattina del 25novembre si sarebbe alzato poco prima delle dieci accusando affanno e dolore al petto, manifestando malore e nausea e lamentando debolezza estrema, e per questo era tornato a letto, mentre i due suoi più stretti collaboratori si mettevano in contatto con il suo medico curante Leopoldo Luque ed il suo amico avvocato Matias Morla, ma le prime ambulanze sul posto, nel quartiere di Sant' Andre's, al confine tra Tigre ed Escobar, risultano arrivate verso mezzogiorno, quando il paziente era già morto da solo nella sua camera, con due ore di grave ritardo dall' inizio della sintomatologia conclamata. Un lasso di tempo non più utile per contenere e risolvere, in un soggetto con miocardiopatia dilatativa complicata da scompenso, una crisi cardiaca in rapida evoluzione verso l' edema polmonare acuto, aggravato certamente da altre criticità preesistenti, che ha stroncato il numero 10 del calcio mondiale alle ore 11,30, quando è stato trovato senza vita nel suo letto, e quando a nulla sono serviti i tentativi di rianimazione. Maradona ha smesso di vivere a 60anni, un'età ancora giovane per morire, in una casa che non era la sua, in una camera dove era da solo, senza alcun familiare accanto, senza nemmeno un medico che invece avrebbe dovuto essere sempre presente in quella villa in affitto, e nonostante i soccorritori arrivati a mezzogiorno gli abbiano somministrato atropina ed adrenalina direttamente e con diverse iniezioni tra le costole sul cuore già fermo, quel suo cuore non ha ripreso vita, non ha risposto ai potenti stimoli farmaceutici nemmeno con un accenno di battito, poiché forse quel cuore poteva essere aggredito ed assistito diversamente nei giorni precedenti, quando certamente aveva dato segni di sofferenza, manifestando sintomi chiari e indicativi, non recepiti o compresi dal paziente stesso e da chi lo aveva in cura.
Carlos Passerini per corriere.it il 29 novembre 2020. Tanti, troppi misteri. E una sola, unica, drammatica, certezza: Diego quella notte era solo, abbandonato a se stesso. L’inchiesta della procura di San Isidro sta cercando di far luce su una storia che fa acqua da tutte le parti e che, anche a distanza di giorni, continua a essere piena di dubbi, incongruenze, misteri. Troppi, gli interrogativi. Che in fondo però si riassumono in uno solo: è stato davvero fatto tutto quanto era possibile per salvare la vita a Maradona oppure qualcuno ha sbagliato? Col passare delle ore il giallo è sempre più fitto. Troppi episodi oscuri, come il fatto che in casa mancasse un defibrillatore, troppe figure contraddittorie. Due, soprattutto. Quella del medico Leopoldo Luque, il chirurgo che l’ha operato al cervello il 3 novembre, onnipresente da anni ma assente nella casa al momento della morte di Diego. Dov’era? A Buenos Aires, un’ora di macchina. Perché non era con lui? C’entra forse il fatto che, come raccontano due testimoni, avessero litigato di brutto il 19 di novembre, cioè una settimana prima del malore fatale del 25? Secondo fonti giudiziarie, Diego avrebbe anche dato uno spintone al dottore e lo avrebbe sbattuto fuori di casa, dopo averlo insultato. «È la prova di quanto fosse difficile discutere con Maradona» ha raccontato all’agenzia Télam la stessa fonte giudiziaria. La procura sta cercando di capire se effettivamente, come pare, quella è stata l’ultima visita da parte del dottor Luque a Maradona nella villa di Tigre.
I soccorsi chiamati in ritardo da un medico che non era con Diego. Figura chiave, quella del dottore. Ieri il sito El Dia ha diffuso l’audio della chiamata del dottor ai soccorsi: «Ciao, c’è una persona che da quanto mi dicono è in arresto cardiorespiratorio — si sente — . Un dottore lo sta assistendo. È un uomo di esattamente 60 anni». Luque non fa mai il nome del paziente: perché? Poi: la telefonata è stata fatta alle 12.16 e secondo i pubblici ministeri la prima ambulanza è arrivata alle 12.28, questo quindi sconfessa la denuncia dell’avvocato Morla che aveva parlato di «più di mezz’ora di ritardo». L’ambulanza era arrivata invece in soli 11 minuti. L’altra figura oscura è quella dell’infermiera Dahiana Gisela Madrid, che ha fornito due versioni clamorosamente discordanti circa gli orari dei controlli nella stanza. Perché? Davvero solo per le «pressioni dei datori di lavoro»? Gli inquirenti vogliono capire cosa sia accaduto in quel buco di sei ore dalle 6 alle 12, ma anche nei giorni precedenti. Primo interrogativo: mentre era solo Diego ha abusato di alcol o farmaci? Qui una risposta arriverà a giorni, grazie all’esame tossicologico. Secondo interrogativo, sollevato dall’ex medico Alfredo Cahe: perché aveva lasciato l’ospedale? Chi lo ha deciso? Ma soprattutto: se ci fosse rimasto anziché tornare a casa oggi sarebbe ancora vivo?
Da huffingtonpost.it il 27 novembre 2020. Un selfie accanto alla bara aperta di Diego Armando Maradona: questo il gesto compiuto da tre dipendenti dell’impresa di pompe funebri Pinier, incaricata delle esequie del campione scomparso il 25 novembre. Uno dei dipendenti è già stato identificato e licenziato. Gli altri due attendono una decisione. A riportarlo è la testata argentina La Nacion. Il lavoratore licenziato si chiama Diego Molina e, insieme ai colleghi, si era fatto fotografare accanto alla salma durante il trasporto dall’abitazione di Tigre, luogo in cui è avvenuta la morte di Maradona, fino al palazzo presidenziale nella capitale. Le foto sono state diffuse dai media argentini e condannate duramente da Matias Morla, avvocato del campione scomparso: “Pagherà per l’aberrazione”. L’impresa di pompe funebri Pinier ha fornito la sua versione dei fatti, riportata da La Nacion: “Il corpo è stato preparato da tre di noi: siamo quattro fratelli e gestiamo l’impresa insieme a nostro padre. Mentre siamo usciti dalla sala per parlare con la polizia e coordinare la traslazione della salma alla Casa Rosada, quelle persone hanno scattato le foto. È successo nei due minuti in cui sono rimasti soli”. I proprietari dell’impresa hanno poi cercato di rintracciare i tre autori dello scatto, che però si erano resi irreperibili non facendosi trovare a casa e spegnendo i telefoni cellulari. “Sentiamo vergogna perché Diego era tutto per tutti. È una cosa che non avremmo mai pensato potesse accadere”, sono state le parole dell’impresa funebre riportate dalla testata La Nacion. Rimane da chiarire come sia stato possibile per i tre dipendenti introdurre telefoni cellulari all’interno della sala, visto che la famiglia di Maradona aveva imposto a chiunque (comprese le forze di polizia) di lasciare il telefonino all’ingresso.
Ipotesi omicidio colposo. Maradona, indagato il medico che lo ha operato: “Non doveva tornare a casa”. Redazione su Il Riformista il 29 Novembre 2020. Nuovi sviluppi nell’indagine sulla morte di Diego Armando Maradona. La magistratura argentina ha disposto una perquisizione della casa e dell’ufficio del medico personale del Pibe de Oro, Leopoldo Luque. Secondo quanto riferisce La Nacion da fonti giudiziarie qualificate, il medico sarebbe indagato per omicidio colposo in seguito a presunte irregolarità nel ricovero domiciliare di Maradona. Le perquisizioni sono state disposte dalla procuratrice di Benavídez, Laura Capra, e dai sostituti procuratori generali di San Isidro, Patricio Ferrari e Cosme Irribaren. Sempre secondo La Nacion, quando sono arrivati gli ufficiali giudiziari e il personale di polizia, Luque è rimasto sorpreso e avrebbe esclamato: “non me l’aspettavo”.
POOL SPECIALE DI PM – L’idea di formare una squadra speciale di investigatori è stata una decisione presa dal procuratore generale di San Isidro, John Broyad, poco dopo aver appreso della morte di Maradona mercoledì scorso 25 novembre. Le indagini mirano a trovare elementi per determinare eventuali responsabilità del medico di Maradona dopo che era stato dimesso dalla clinica dove era stato operato al cervello per un "ematoma subdurale". Mercoledì scorso il dottore non era a casa quando Maradona è morto, ma ha chiamato il numero di emergenza 911 per richiedere un’ambulanza alle 12.16. Gli investigatori vogliono capire quante volte il dottor Luque è andato a casa per controllare il suo paziente. Finora, il neurochirurgo era l’unico membro dell’entourage di Maradona a non essere stato ascoltato come testimone. “Ieri abbiamo proseguito con le indagini prendendo anche alcune dichiarazioni testimoniali di parenti diretti di Maradona”, ha spiegato in un comunicato il procuratore generale di San Isidro.
DIMISSIONI PRECOCI – E’ proprio sulle dimissioni dalla clinica considerate troppo repentine che parte l’accusa di Alfredo Cahe, storico medico di Maradona per 33 anni. “Mi è sembrato sbagliato – ha raccontato in una intervista all’argentina Telefe – Doveva restare in una struttura diversa, non è stato curato come si doveva“.
GLI ULTIMI ISTANTI DI VITA – Secondo una prima ricostruzione del Clarin l’ultima persona a vedere da vivo Maradona nella sua casa di Tigre era stato il nipote, Jonathan Esposito (figlio di Maria Rosa, la sorella di Diego), alle 23 di martedì, prima di addormentarsi. Eppure per Cahe “con lui in casa doveva esserci un medico, per le condizioni in cui si trovava. E poi il controllo cardiovascolare non è stato fatto in maniera completa – ha evidenziato – Non so quanto tempo abbia impiegato il medico ad arrivare con il defibrillatore: Diego non avrebbe dovuto trovarsi in quel posto, questo è ciò che penso”.
Gli ultimi giorni di Maradona tra litigi, botte e tè con biscotti: “Ingestibile, non voleva vedere le figlie”. Giovanni Pisano su Il Riformista il 29 Novembre 2020. “Non posso obbligare un paziente e ricoverarlo in un manicomio se non ho un parere in questo senso da uno psichiatra. Per Maradona ho fatto più del dovuto, non meno”. Queste le parole di Leopoldo Luque, 39 anni, il neurochirurgo che a inizio novembre ha operato al cervello Maradona per un ematoma subdurale e che oggi è stato iscritto nel registro degli indagati con l’ipotesi di omicidio colposo da parte della procura di San Isidro che vuole far luce sulla morte del campione argentino. “Ogni volta ci riunivamo per capire cosa fosse meglio per Maradona, e non potevamo andare contro la sua volontà. Senza Diego niente poteva essere fatto. Perché adesso non indagano su chi era Maradona?” si difende Luque che spiega: “Non ci sono errori medici, Maradona ha avuto un attacco cardiaco, un infarto, e purtroppo è la cosa più comune del mondo morire così”. La polizia, su disposizione del pool di magistrati istituito dal procuratore generale di San Isidro, John Broyad, ha perquisito la casa e la clinica del neurochirurgo. L’accelerazione nelle indagini arriva dopo che gli inquirenti hanno acquisito le testimonianze di un infermiere dello staff di assistenza di Maradona e della sua cuoca fidata, Monona, e dopo aver ascoltato le tre figlie di Maradona (Dalma, Giannina e Jana). Quelle figlie che il fuoriclasse argentino non voleva vedere negli ultimi tempi, compreso il 30 ottobre scorso, giorno del suo 60esimo compleanno, perché era depresso. “Gli ho chiesto di alzarsi per ricevere le figlie, perché non le voleva ricevere – racconta Luque -. Il controllo neurologico era buono, non stava bevendo alcol e i farmaci che stava assumendo erano stati predisposti da una equipe di sanitari e psicologi. Diego era un paziente difficile, a volte mi cacciava di casa, poi mi telefonava chiedendomi di tornare”. Maradona è stato dimesso dalla clinica dove è stato operato l’11 novembre scorso e dalle prime indagini è emerso che Luque non si era più recato nella villa del quartiere di San Andres, nella zona di Tigre, dove Maradona trascorreva la sua convalescenza. Alla base ci sarebbe stato un furibondo litigio avvenuto il 19 novembre, sei giorni prima del decesso, con grida e insulti. Una lite che sarebbe arrivata anche alle mani, secondo quanto riferito dall’infermiere e anche dalla cuoca. “Con Diego era così – spiega il neurochirurgo – lui odiava i medici, odiava gli psicologi, ma con me era diverso. Diego aveva tanti problemi prima che lo incontrassi, Diego aveva bisogno di aiuto, non era un pazzo”. “Maradona era caduto e aveva battuto la testa, ma nessuno lo ha fatto controllare”, la rivelazione sugli ultimi giorni del Pibe. “Non so perché stiano cercando un colpevole” ha detto Luque intervistato dalla stampa argentina. “Sono rimasto sorpreso – aggiunge – perché quando Diego e’ morto io sono arrivato sul posto e le forze dell’ordine stavano lavorando. Ero a loro disposizione. E’ il loro lavoro, sono procedure legali che non ho intenzione di criticare. So cosa ho fatto, so come l’ho fatto. Sono assolutamente sicuro di aver fatto del mio meglio”. Per Luque “Diego era un paziente dimesso. Sono io che l’ho accompagnato in clinica. Il mio ruolo era quello di riuscire a far capire le cose a Diego. Non poteva essere portato in un ospedale neuropsichiatrico perché non c’erano criteri medici e un centro di riabilitazione richiede la volontà di Diego” ma “non voleva, né voleva un accompagnamento terapeutico”. Sulla presunta raccomandazione della Clinica Olivos, dove Maradona è stato operato il 3 novembre scorso, di non dimetterlo, Luque ha chiarito: “E’ una bugia. La clinica ha funzionato perfettamente. Lo abbiamo operato, era in condizione di dimissione e nonostante ciò prima di farlo uscire lo abbiamo trattenuto ancora un pò”. Poi, tra le lacrime, ha concluso: “Se io sono responsabile di qualcosa, è di aver amato Diego, di essermi preso cura di lui per prolungare la sua vita il più a lungo possibile, fino all’ultimo. Ho amato Diego, era un padre per me. Ho fatto quello che doveva essere fatto e anche di più. Non ho niente da nascondere, niente. Sono orgoglioso”.
LE PAROLE DI MONONA – La domestica ha raccontato alla giornalista argentina Luciana Geuna le ultime ore di vita di Maradona. “L’ultima notte ha chiesto un te e dei biscotti”. Monona ha poi riferito di averlo visto “arrabbiato, perché l’infermiere voleva cambiargli la maglietta e lui non voleva. Voleva restare solo”. Dopo l’operazione Monona raccontò che Diego aveva “un comportamento bipolare, alcuni giorni stava bene, era socievole e gli ultimi tre giorni era chiuso in camera e voleva stare solo. Addirittura le chiese di colpire il medico”, racconta ancora la giornalista argentina. “Monona e Johny entravano a dargli le medicine perché Diego non voleva gli infermieri. Apriva la porta solo a Maxi e Monona”. L’ultimo a vedere in vita Diego Armando Maradona è stato il nipote, Johnny Espósito, figlio della sorella Maria Rosa. Erano le 23 di martedì 24 novembre, molte ore prima del decesso ufficiale, avvenuto nella tarda mattinata di mercoledì 25 novembre (le 15.30 in Italia) nella casa del quartiere San Andres, nella località di Benavidez, nel dipartimento di Tigre in provincia di Buenos Aires.
L'ipotesi di reato. Chi è Leopoldo Luque, il medico di Maradona indagato per omicidio colposo. Antonio Lamorte su Il Riformista il 30 Novembre 2020. È ancora al centro della cronaca e delle polemiche la morte di Diego Armando Maradona. E sotto i riflettori c’è il suo medico, ora indagato per omicidio, Leopoldo Luque. Il campione argentino è morto lo scorso 25 novembre, a 60 anni, all’improvviso. È stato sepolto al Jardin de Bella Vista. Soltanto l’11 novembre era stato dimesso dopo esser stato operato al cervello. Luque ha 39 anni, è neurochirurgo specializzato in interventi al cervello e alla colonna vertebrale. L’ipotesi di reato mossa nei suoi confronti e di omicidio colposo. “Sto molto male perché è morto il mio amico. Non posso credere al fatto che si continui a dire che non sono stato con lui – ha detto Luque ai giornalisti nel patio della sua casa dove ha improvvisato una conferenza stampa – Tutto quello che ho fatto per Diego è stato più del dovuto, non meno. Ogni volta ci riunivamo per capire cosa fosse meglio per Maradona, e non potevamo andare contro la sua volontà, perché senza di lui niente poteva essere fatto. Allora perché adesso non indagano su chi era Diego?”. La Procura di San Isidro ha ordinato la perquisizione e dell’ambulatorio privato del medico. Gli sono stati sequestrati documenti, computer e cinque telefoni cellulari. Luque è nato a Lanús (dov’è nato anche Maradona) e vive ad Adrogué. È sposato e ha due figli. Curiosità: è omonimo di un altro calciatore, peraltro campione del Mondo ai Mondiali in Argentina del 1978, Leopoldo Luque, attaccante di Santa Fe.
IL RAPPORTO – Il rapporto professionale cominciò nel 2016. Come ricostruisce il Clarin, il giornale che ha dato per primo la notizia della morte di Maradona, il telefono di Luque squillò: era un collega che gli riferiva che il Pibe de Oro cercava un neurologo. Il pensiero era andato proprio a lui e al suo socio Ariel Sainz, con il quale guidano il centro medico Columna Baires, che punta a risolvere patologie spinali con interventi mininvasivi e con recupero rapido. “Non riuscivamo a crederci – ha raccontato in seguito Luque – ‘Quale Diego? Diego Maradona?’ ci chiedevamo. Fino al giorno in cui lo incontrammo non dicemmo niente a nessuno, avevamo dubbi. La notte prima dell’appuntamento nessuno dei due ha dormito, prima di arrivare prendemmo un miorilassante (rilassante muscolare, ndr) perché eravamo molto nervosi”. La missione principale del medico in questi anni è stata occuparsi del miglioramento delle capacità deambulatorie di Maradona. L’ex campione e allenatore soffriva infatti dolori alle ginocchia e alle caviglie. Negli anni la relazione, anche personale, tra i due è diventata molto più intima dopo il suo ritorno in Argentina. Prima di tornare Maradona aveva infatti allenato negli Emirato Arabi e in Messico. El Pibe de Oro si è sottomesso a più stringenti controlli e cure motorie. Nel luglio 2019, si sottomise a un’operazione al ginocchio destro, al quale venne applicata una protesi. Dopo un paio di mesi divenne allenatore del Gimnasia Esgrimia La Plata.
LA CARRIERA – Luque ha ricevuto un diploma onorario per i suoi studi dall’Università di Buenos Aires, dove ha cominciato una carriera universitaria alla Cattedra di Neurochirurgia della Facoltà di Medicina. Ha lavorato sei anni alla Fundación Barceló e dal 2017 all’Ospedale Tedesco e al Cruce. Dal 2019 è uno dei direttori di Columna Baires. Dopo l’operazione dei primi di novembre, Luque era stato al centro delle attenzioni dei media. “Diego è incredibile – aveva detto il medico – ma dobbiamo continuare a lavorare su di lui. Troveremo un posto adatto alla sua convalescenza”. Maradona era stato operato, ai primi di novembre, per un ematoma subdurale che aveva generato un coagulo nel cervello. La Nación scrive che “in virtù delle prove che si stanno accumulando è stata decisa la perquisizione. Se verranno confermate le irregolarità nel ricovero domestico di Maradona, si potrebbe configurare il reato di omicidio colposo”. Le perquisizioni sono state ordinate dal procuratore di Benavidez Laura Capra e dai giudici e dai procuratori aggiunti di San Isidro, Patricio Ferrari e Cosme Irribaren.
LO SFOGO – “Diego era un paziente che poteva essere dimesso – si è difeso Luque – Aveva l’autorizzazione di andarsene, per la parte neurochirurgica, dalla clinica. Poi è cominciato un dibattito su scelte per le quali il paziente deve collaborare, io non posso obbligare un paziente e ricoverarlo in un manicomio se non ho un parere in questo senso da uno psichiatra”, così come non “posso portarlo in un centro di riabilitazione se lui non vuole. Perché poi il paziente se ne sarebbe potuto andare via a suoi piacimento. Ci sono video in cui si vede che sta bene. Ancora non sono stati diffusi, ma lo saranno presto”. L’ultima immagine di Maradona in vita lo mostra zoppicante, accompagnato da due persone, mentre saluta un bambino che lo chiama da lontano. “Tutto quello che ho fatto per Diego – ha detto il medico – è stato più del dovuto, non meno. Ogni volta ci riunivamo per capire cosa fosse meglio per Maradona, e non potevamo andare contro la sua volontà, perché senza di lui niente poteva essere fatto. Allora perché adesso non indagano su chi era Diego?” Un vero e proprio sfogo quello di Luque, nel punto stampa nei pressi della sua abitazione: “Non ci sono stati errori medici. Maradona ha avuto un attacco cardiaco, e purtroppo è la cosa più comune del mondo morire così, voglio dire che può succedere – ha aggiunto – In ogni momento sono stato con lui. E ho visto molta gente che prima non avevo mai visto. Sono un neurochirurgo, Diego odiava i medici, odiava gli psicologi, odiava tutto il mondo, Ma era mio amico e io stavo sempre con lui. Aveva bisogno di aiuto, ma era difficile convincerlo a fare certe cose. Lui aveva autonomia e lui decideva”.
I dubbi sul decesso del Pibe de Oro. Maradona, il giallo sulle ultime ore di vita: infermiera “obbligata” a dichiarare di averlo controllato. Redazione su Il Riformista il 28 Novembre 2020. Quando e in che circostanze è morto Diego Armando Maradona? La scomparsa del Pibe de Oro si tinge di giallo, con le prime ricostruzioni che iniziano a vacillare. Il mistero nasce da quanto scrive il quotidiano argentino Clarin che cita gli infermieri che si sono occupati del numero dieci di Napoli e Agentina nella notte del martedì e nelle prime ore del mercoledì, giorno in cui è deceduto il campione argentino. Se da una parte non sembrano in discussione i risultati preliminari dell’autopsia effettuata sul corpo di Diego, ovvero una morte causata da insufficienza cardiaca acuta in un paziente con cardiomiopatia dilatativa, dall’altra qualcosa non torna sugli orari. Torniamo all’infermiere. Quest’ultimo ha dichiarato al Clarin che prima di lasciare il turno alle 6.30 del mattino, ha verificato che Diego era vivo. Entra quindi in gioco una seconda infermiera, quella del turno successivo, che racconta di “averlo sentito muoversi all’interno della stanza alle 7:30”, senza però entrare a controllare. L’infermiera spiega quindi che “l’hanno obbligata” a scrivere nel rapporto di aver controllato il D10S, quando in realtà non l’aveva fatto. Maradona è stato operato al cervello lo scorso 4 novembre per la rimozione di un edema subdurale per poi essere dimesso dalla Clinica Olivos otto giorni dopo. Da qui parte l’accusa di Alfredo Cahe, storico medico di Maradona per 33 anni. “Mi è sembrato sbagliato – ha raccontato in una intervista all’argentina Telefe – Doveva restare in una struttura diversa, non è stato curato come si doveva“. Secondo una prima ricostruzione del Clarin l’ultima persona a vedere da vivo Maradona nella sua casa di Tigre era stato il nipote, Jonathan Esposito (figlio di Maria Rosa, la sorella di Diego), alle 23 di martedì, prima di addormentarsi. Eppure per Cahe “con lui in casa doveva esserci un medico, per le condizioni in cui si trovava. E poi il controllo cardiovascolare non è stato fatto in maniera completa – ha evidenziato – Non so quanto tempo abbia impiegato il medico ad arrivare con il defibrillatore: Diego non avrebbe dovuto trovarsi in quel posto, questo è ciò che penso”. Se confermata, la ricostruzione del Clarin apre diversi interrogativi sulla scomparsa del Pibe. L’ultima persona ad averlo visto vivo non sarebbe stato il nipote Johnny Esposito, che lo aveva visto in vita alle 23.30 di martedì notte, bensì l’infermiere la mattina di mercoledì. Smentita anche l’accusa di Matias Morla, avvocato di Maradona, che aveva accusato l’ambulanza di essere arrivata “in ritardo di mezz’ora”. Alle 12:17 la segretaria personale di Maradona, Maxi Pomargo, ha richiesto un’ambulanza della società +Vida che è giunta alla villa della località di Tigre, dove si trovava l’ex calciatore, alle 12:28: un viaggio di solo 11 minuti.
Le dichiarazioni dell'infermiera. “Maradona era caduto e aveva battuto la testa, ma nessuno lo ha fatto controllare”, la rivelazione sugli ultimi giorni del Pibe. Antonio Lamorte su Il Riformista il 30 Novembre 2020. Diego Armando Maradona era caduto una settimana prima della morte, ha battuto la testa, ma nessuno lo ha portato all’ospedale per una risonanza o una TAC. È soltanto l’ultima rivelazione che alimenta le polemiche sulla morte del campione argentino, deceduto lo scorso mercoledì 25 novembre, a 60 anni. E l’incidente si sarebbe verificato proprio una settimana prima, di mercoledì. La dichiarazione arriva da Rodolfo Barqué, avvocato difensore di Dahiana Madrid, l’infermiera che si occupava del Pibe de Oro nella casa di San Andrés, Tigre, nella provincia di Buenos Aires dove Maradona è morto. Madrid avrebbe anche specificato: nella caduta Maradona aveva battuto il lato destro della testa. Soltanto a inizio novembre aveva subito un intervento sul lato sinistro, al cervello, per via di un ematoma subdurale. Il Clarin, quotidiano che ha dato per primo la notizia della morte del campione, ha comunque consultato fonti nell’entourage di Maradona; nessuno ha registrato l’incidente nella storia clinica del paziente, hanno dichiarato. “Quando è caduto lo hanno rimesso in piedi – ha continuato Baqué a Todo Noticias – e ha continuato la sua vita normale. Ma a decidere se doveva essere visitato è il medico”. L’avvocato ha anche osservato che il paziente non era in condizioni di decidere cosa fare ed è rimasto chiuso nella sua stanza per tre giorni. Al pubblico ministero l’infermiera aveva dichiarato di aver sentito Maradona muoversi nella sua stanza intorno alle 7:30, il giorno del decesso, e di non essere mai entrata. Il legale ha insistito: mancava un medico di base, le condizioni cardiache peggioravano e non era stata prescritta “nemmeno una pastiglia” – “aveva frequenza cardiaca a 115 e il giorno prima della morte a 109. E tutti sappiamo che un paziente con problemi coronari non deve superare le 80 pulsazioni” – e che quell’appartamento non era il luogo adatto alla convalescenza. La sua assistita ha fatto quindi sapere che avrebbe potuto avere contatti con l’ex calciatore solo una volta, il venerdì prima della morte, dopodiché Maradona l’ha licenziata e sebbene sia rimasta su richiesta dell’entourage, non gli ha più rilevato la pressione né controllato in alcun modo. “Ha solo consegnato i farmaci all’assistente di Maradona: lei rimaneva sulla porta della stanza del campione a controllare”.
LA POSIZIONE DEL MEDICO – Altre dichiarazioni mettono al centro delle attenzioni il medico Leopoldo Luque. La dottoressa Agustina Cosachov, psichiatra che aveva avuto in cura Maradona nelle ultime settimane, aveva chiesto per l’ex campione un’assistenza specialistica e infermieristica di 24 ore su 24, che Luque non ha predisposto. È quanto sarebbe emerso dagli atti dell’inchiesta. La stessa psichiatra ha rivelato che il campione presentava evidenti segni di astinenza da sostanze dopo l’operazione. “Se la dottoressa Cosachov mi avesse scritto una relazione precisa, avremmo potuto internare Diego in una clinica psichiatrica – si è difeso Luque – Ma senza questo documento, nessun paziente può essere sottoposto a trattamenti sanitari obbligatori. E Maradona non voleva più mettere piede in ospedale, aveva deciso di farsi curare in casa: stava meglio, io non l’ho certo abbandonato, è morto d’infarto e non era prevedibile”.
LA FAMIGLIA – Ad accusare il medico anche la famiglia di Maradona. La prima moglie Claudia Villafane e le figlie Dalma e Gian