Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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ANNO 2020

 

LA SOCIETA’

 

SECONDA PARTE

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

       

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

GLI ANNIVERSARI DEL 2019.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

 

LA SOCIETA’

INDICE PRIMA PARTE

 

GLI ANNIVERSARI DEL 2020.

Cosa resta dell’anno passato. I Festeggiamenti.

Cosa resta dell’anno passato. La Politica.

Cosa resta dell’anno passato. La Cultura. 

Cosa resta dell’anno passato. L’Immigrazione.

Cosa resta dell’anno passato. Le Notizie.  

Cosa resta dell’anno passato. I Fatti.

Cosa resta dell’anno passato. I Personaggi.

Cosa resta dell’anno passato. Le Parole.

Cosa resta dell’anno passato. Le cose.

Cosa resta dell’anno passato. Lo Sport.

Cosa resta dell’anno passato. Gli Eventi.

Cosa resta dell’anno passato. I Disastri.  

Cosa resta dell’anno passato. I Morti sul Lavoro.

Le Previsioni e le Profezie.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

GLI ANNIVERSARI DEL 2020.

Gli anniversari.  

500 anni dalla morte di Raffaello Sanzio.

400 anni dalla nascita di Masaniello.

250 anni dalla morte di Giambattista Tiepolo.

250 anni dalla nascita di Ludwig van Beethoven.

200 anni dalla nascita di Pellegrino Artusi.

200 anni dalla nascita di Vittorio Emanuele II.

150 anni dalla nascita di Maria Montessori.

150 anni dalla morte di Alexandre Dumas.

150 anni dalla nascita di Lenin.

150 anni dalla morte di Charles Dickens.

150 anni dalla nascita di Rosa Luxemburg.

130 anni dalla morte di Carlo Collodi.

120 anni dalla nascita di Eduardo De Filippo.

120 anni dalla nascita di Antoine de Saint Exupery.

120 anni dalla nascita di Ignazio Silone.

100 anni dalla morte di Amedeo Modigliani.

100 anni dalla nascita di Papa Giovanni Paolo II.

100 anni dalla nascita di Carlo Alberto Dalla Chiesa.

100 anni dalla nascita di Emilio Colombo.

100 anni dalla nascita di Carlo Azeglio Ciampi.

100 anni dalla nascita di Salvo D’Acquisto.

100 anni dalla nascita di Charlie Parker.

100 anni dalla nascita di Gianni Rodari.

100 anni dalla nascita di Charles Bukowski.

100 anni dalla nascita di Nilde Iotti.

100 anni dalla nascita di Gesualdo Bufalino.

100 anni dalla nascita di Enzo Biagi.

100 anni dalla nascita di Ray Bradbury.

100 anni dalla nascita di Franco Lucentini.

100 anni dalla nascita di Giorgio Bocca.

100 anni dalla nascita di Federico Fellini.

100 anni dalla nascita di Alberto Sordi.

100 anni dalla nascita di Isaac Asimov.

100 anni dalla nascita di Tonino Guerra.

100 anni dalla nascita e 20 dalla morte di Walter Matthau.

100 anni dalla nascita di Bruno Maderna.

100 anni dalla nascita di Renato Carosone.

100 anni dalla nascita di Helmut Newton.

83 anni dalla nascita dell’Ikea.

75 anni da Hiroshima.

66 anni dalla morte di Eddie Sanders.

60 anni dall'impresa del batiscafo “Trieste”.

60 anni dalla morte di Albert Camus.

60 anni dalla morte di Fausto Coppi.

60 anni dalla morte di Fred Buscaglione.

58 anni dalla morte di Marylin Monroe.

60 anni dalla nascita morte di “Tutto il calcio minuto per minuto”.

60 anni dall’Olimpiade di Roma.

50 anni dalla Woodstock italiana.

50 anni dalla morte di Janis Joplin.

50 anni dalla morte di  Jimi Hendrix.

50 anni dalla separazione dei Beatles.

50 anni dalla morte di Angelo Rizzoli “il Vecchio”.

47 anni dalla morte di Renzo Pasolini.

46 anni dalla morte di Pietro Germi.

43 anni dalla morte di Maria Callas.

43 anni dalla morte di Elizabeth «Lee» Miller.

41 anni dall’uscita di Apocalypse Now.

41 anni dalla morte di Bob Marley.

40 anni dalla morte di Peter Sellers.

40 anni dalla morte di James Cleveland Owens.

40 anni dalla morte di Alfred Hitchcock.

40 anni dalla morte di Steve McQueen.

40 anni dalla morte di Romain Gary.

40 anni dalla morte di Peppino De Filippo.

40 anni dalla morte di Mario Amato, il giudice tradito dallo Stato.

40 anni dall’uscita di “The Blues Brothers”.

38 anni dalla morte di Giuseppe Prezzolini.

38 anni dalla morte di Gilles Villeneuve.

34 anni dalla morte di Elio De Angelis.

33 anni dalla morte di Giovanni Arpino.

32 anni dalla morte di Nico (Christa Päffgen).

32 anni dalla morte di John Holmes.

31 anni dalla morte di Sergio Leone.

31 anni dalla morte di Silvana Mangano.

30 anni dalla morte di Rocky Graziano.

30 anni dalla morte di Keith Haring.

30 anni dalla morte di Ugo Tognazzi.

30 anni dalla morte di Stefano Casiraghi.

29 anni dalla morte di Freddie Mercury.

29 anni dalla morte di Miles Davis.

29 anni dalla morte di Maria Zambrano. la filosofa eversiva.

28 anni dalla morte di John Cage.

27 anni dalla morte di Frank Zappa.

26 anni dalla morte di Massimo Troisi.

26 anni dalla morte di Ayrton Senna.

26 anni dalla morte di Kurt Cobain.

26 anni dalla morte di Aldo Braibanti.

26 anni dalla morte di Moana Pozzi.

25 anni dalla morte di Carlos Monzon.

25 anni dalla morte di Goliarda Sapienza.

25 anni dalla morte di Arturo Benedetti Michelangeli.

25 anni dalla morte di Mia Martini.

24 anni dalla morte di Ivan Graziani.

23 anni dalla morte di Gianni Versace.

23 anni dalla morte di William Burroughs: lo scrittore del Rock.

23 anni dalla morte di Ian Curtis.

22 anni dalla morte di Marcello Geppetti.

22 anni dalla morte di Fabrizio Lucio Battisti.

21 anni dalla morte di Franco Gasparri.

21 anni dalla morte di Stanley Kubrick.

21 anni dalla morte di Robert Bresson.

21 anni dalla morte di Fabrizio De Andrè.

20 anni dalla morte di Vittorio Gassman.

20 anni dalla morte di Enrico Cuccia.

20 anni dalla morte di Attilio Bertolucci.

20 anni dalla morte di Gino Bartali.

20 anni dalla morte di Victor Cavallo.

19 anni dalla morte di Indro Montanelli.

18 anni dalla morte di Francisco Ramón Lojácono.

18 anni dalla morte di Carmelo Bene.

18 anni dalla morte di Joe Strummer.

17 anni dalla morte di Giorgio Gaber.

15 anni dalla morte di Sergio Endrigo.

13 anni dalla morte di Luciano Pavarotti.

12 anni dalla morte di Ruslana Korshunova.

12 anni dalla morte di Tony Rolt.

10 anni dalla morte di Joe Sarno.

10 anni dalla morte di Raimondo Vianello.

10 anni dalla morte di Sandra Mondaini.

10 anni dalla morte di Pietro Taricone.

10 anni dalla morte di Edmondo Berselli.

10 anni dalla morte di Franz-Hermann Bruener.

10 anni dalla morte di Maurizio Mosca.

9 anni dalla morte di Giuseppe D'Avanzo.

9 anni dalla morte di Elizabeth Taylor.

9 anni dalla morte di Leda Colombini.

8 anni dalla morte di Whitney Houston.

7 anni dalla morte di Alberto Bevilacqua.

7 anni dalla morte di Franco Califano.

7 anni dalla morte di Enzo Jannacci.

6 anni dalla morte di Robin Williams.

6 anni dalla morte di Philip Seymour Hoffman.

6 anni dalla morte di Giorgio Faletti.

5 anni dalla morte di Francesco Rosi.

5 anni dalla morte di Pino Daniele.

4 anni dalla morte di Anna Marchesini.

4 anni dalla morte di Bud Spencer.

4 anni dalla morte di Marta Marzotto.

4 anni dalla morte di David Bowie.

4 anni dalla morte di Ettore Bernabei.

4 anni dalla morte di Marco Pannella.

4 anni dalla morte di George Michael.

3 anni dalla morte di Tomas Milian.

3 anni dalla morte di Nicky Hayden.

3 anni dalla morte di Paolo Villaggio.

3 anni dalla morte di Charles Manson.

3 anni dalla morte di Tullio De Mauro.

2 anni dalla morte di Stephen Hawking.

2 anni dalla morte di Sergio Marchionne.

2 anni dalla morte di Bernardo Bertolucci.

2 anni dalla morte di Marco Garofalo.

1 anno dalla morte di Karl Lagerfeld.

1 anno dalla morte di Jeffrey Epstein.

1 anno dalla morte di Massimo Bordin.

1 anno dalla morte di Franco Zeffirelli.

1 anno dalla morte di Luke Perry.

1 anno dalla morte di Nadia Toffa.

In memoria de Bee Gees.

I Compleanni.

I 60 anni di Snoopy.

Lada-VAZ 2101: storia e foto della Fiat 124 sovietica. I suoi primi quarant'anni.  

Fiat Panda: i suoi primi quarant'anni.  

Le auto più brutte.

50 anni fa nasceva lo Statuto dei lavoratori.

L'Sos di 50 anni fa: così Danilo Dolci inventò la radio libera.

25 anni di Ruggito del Coniglio.

Vent’anni di Grande Fratello.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI? (Ho scritto un saggio dedicato)

Le Famiglie influenti.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Le Famiglie Reali.

 

INDICE TERZA PARTE

 

I MORTI FAMOSI.

La sfiga.

Le “Pulizie della Morte”.

La Morte Libera.

Il cervello è l’ultimo a morire.

Effimeri. Dimmi come muori e ti dirò chi sei.

Parlare con i morti.

I complottisti della morte.

La maledizione del "club 27".

E’ morto il musicista Claude Bolling.

È morto lo stilista Pierre Cardin.

È morto Giorgio Galli, professore di Storia delle dottrine politiche.

È morto il wrestler Brody Lee.

E’ morto George Blake, la spia rinnegata.

È morta la modella Stella Tennant.

E’ morto l’attore Claude Brasseur.

E’ morto il Serial Killer Donato Bilancia.

È morto l’ex ministro Enrico Ferri.

Morto lo scrittore John le Carré.

E’ morto il regista Kim Ki-duk.

E’ morto Paolo Rossi. Il Pablito Mundial.

E’ morto Maradona. E’ morto il calcio.

E’ morto Valéry Giscard d’Estaing.

E’ morto Alfredo Pigna.

E’ morto Vincent «Vince» Reffet. Paracadutista jetman.

E’ morta Daria Nicolodi, attrice e sceneggiatrice.

E’ morto Andrea Merloni. 

E’ morta Joan Moncada di Paternò, nata Whelan, vedova del fotografo di moda Johnny Moncada.

E’ morto Dino Da Costa. 

E’ morto Ro Marcenaro.

E’ morto Sergio Matteucci, storico telecronista dei match di Holly & Benji e Mila & Shiro.

E’ Morto Stefano D’Orazio dei Pooh.

E' morto l'ex presidente della Corte dei conti Luigi Giampaolino.

E' morto Gigi Proietti.

È morto Sean Connery.

E' morto Pino Scaccia, storico inviato della Rai.

Morta Diane Di Prima, poetessa e attivista Beat.

E’ morto Lee Kun-hee, presidente di Samsung Electronics.

Morto Frank Horvat, l’ultimo grande fotografo classico del ‘900.

È morto l’attore e cantante Gianni Dei.

E’ morto Enzo Mari: artista e disigner.

E’ morto Alfredo Cerruti, fondatore e voce degli Squallor.

E' morto l'ex bassista degli AC/DC Paul Matters.

È morta la presidente della Regione Calabria, Jole Santelli.

Morto il giornalista Gianfranco De Laurentiis.

È morto il principe Giuseppe Lanza di Scalea.

E’ morto il cantante Anthony Galindo Ibarra.

E' morto Marco Diana, militare in lotta contro lo Stato per l'uranio impoverito.

È morto Johnny Nash.

E’ Morto Eddie van Halen.

E’ morto l’attore Thomas Jefferson Byrd.

Morto lo stilista Kenzo Takada.

È morto Quino, il disegnatore di Mafalda.

Addio a Juliette Greco.

È morto il direttore della fotografia Michael Chapman.

Ron Cobb rip.

Michael Lonsdale rip.

E’ morto il compagno Peppino Caldarola.

E’ morta la compagna femminista  Rossana Rossanda.

Addio a Ruth Bader Ginsburg, icona femminista della Corte suprema.

Addio Enzo Golino, giornalista e critico letterario.

E' morto lo scrittore Winston Groom, autore di "Forrest Gump".

È morta la sessuologa Shere Hite.

E’ morto il regista Marco Vicario.

Morto Toots Hibbert, pioniere del reggae.

E’ morta l’attrice Diana Rigg.

E’ morta l’architetto Maria Cristina Mariani Dameno, coniugata Boeri.

E’ morto Franco Maria Ricci.

Addio a Ronald Bell, fu uno dei fondatori dei Kool & the Gang.

Addio al «re del grano» Pasquale Casillo.

È morto il dj Erick Morillo.

E’ morto Philippe Daverio.

E’ morto l’attore Chadwick Boseman.

È morto il giornalista Arrigo Levi.

E’ morto Sandro Mazzinghi, mito della Boxe.

E’ morto il brigatista Mario Marano.

E’ morto il regista Augusto Caminito.

È morto Ben Cross, l’attore di Momenti di Gloria.

Addio all'attrice barese Mariolina De Fano.

E’ morto il giornalista Stefano Malatesta.

L’attrice Linda Manz rip.

E' morto Cesare Romiti.

Addio a Trini Lopez, il musicista e attore.

E’ morto Stefano Pernigotti.

E’ morto Alberto Bauli.

E’ morto il wrestler James Harris, conosciuto come Kamala.

E’ morta Franca Valeri.

E’ morto Ivo Galletti, il papà della mortadella.

E’ morto Sergio Zavoli.

E’ morto l’attore Reni Santoni.

Addio a John Hume, il Nobel che portò la pace in Irlanda del Nord.

E’ morto l’ingegnere William "Bill" English, l'inventore del mouse.

E’ morta l’attrice hard Alessandra Bregoli in arte Alexy Brey.

E’ morto l’attore Wilford Brimley reso celebre da «Cocoon».

E’ Morta la principessa Giorgiana Corsini.

E’ morto Giulio Maceratini, esponente storico del Msi e di An.

E’ morta Luisa Mandelli, moglie di Guido Crepax.

E' morta Valentina Crepax, nipote di Guido.

Addio a Tataw, capitano del Camerun a Italia '90.

È morto a 76 anni il regista Alan Parker.

E' morta Diana Russell, la sociologa e criminologa che coniò il concetto di femminicidio.

E’ morto Maurizio Calvesi, Storico dell’Arte.

Addio al rapper Malik B, tra i fondatori dei The Roots.

E’ Morto Kansai Yamamoto, lo stilista che ha vestito il rock.

E’ morto l’attore Gianrico Tedeschi.

E’ morto l’attore John Saxon.

È morta Olivia de Havilland, diva di Hollywood.

È morto Regis Philbin, leggendario conduttore della tv Usa.

E’ morto Peter Green: fondatore dei Fleetwood Mac.

Morto Paolo Finzi, l'avvocato anarchico della Milano degli Anni di Piombo.

Morto Massimo Signoretti, voce storica di Radio Rai.

E’ morto a 104 anni Giuseppe Ottaviani: recordman tra i masters di atletica.

E' morto Oreste Casalini, artista e scultore.

È morta Giulia Maria Crespi, la fondatrice del Fai.

E’ morta Zizi Jeanmaire. La regina del music-hall parigino.

È morto John Lewis, icona dei diritti civili negli Stati Uniti.

Addio a Mario Scotti Galletta, baffo d’oro della pallanuoto italiana.

E’ morta Naya Rivera, attrice di «Glee».

E’ Morta Kelly Preston, la moglie di John Travolta.

Addio a Paolo Giovagnoli, Pm delle nuove Br e del caso Pantani.

E’ morto Emanuele Ferrario, presidente di Radio Maria.

E’ morto il norvegese Jagge, sconfisse Tomba ad Albertville '92. 

Addio all'attore canadese Nick Cordero.

Morto l’avvocato Mauro Mellini: il radicale che denunciò il “partito dei magistrati”.

Ennio Morricone è morto.

 

INDICE           QUARTA PARTE

 

Addio a Carlo Flamigni il guru il fecondazione assistita.

E’ morta la ciclista Roberta Agosti.

È morta Ida Haendel, leggenda del violino.

E’ morto il campione di poker Matteo Mutti.

E' morto Loris Meliconi, l'inventore del guscio per il telecomando.

Addio a Carl Reiner, comico da record di Emmy e amico di Mel Brooks.

È morto Freddy Cole, grande jazzista e fratello di Nat King.

È morta Linda Cristal, star dei western e della serie tv "Ai confini dell'Arizona".

E’ morta L'attrice Vittoria De Paoli. Recitò con la Capotondi.

E’ morta Taryn Power, sorella di Romina.

E’ morto il grafico Milton Glaser.

E’ morto “l’immortale” Marc Fumaroli.

E’ morto Alfredo Biondi, storico leader del Partito liberale.

È morto il regista Joel Schumacher.

È morto Charles Webb, l'autore ribelle del Laureato.

E' morto Pierino Prati.

E' morto Mario Corso.

Addio allo scrittore Carlos Ruiz Zafon.

È morto Ian Holm, Bilbo Baggins del "Signore degli anelli".

E’ Morta Jean Kennedy, era l’ultima dei fratelli di Jfk.

È morto Tibor Benedek: lutto nel mondo della Pallanuoto.

E’ morto l’avvocato Gianfranco Dosi, fondatore di Aiaf.

È morto Giulio Giorello.

E’ morto Stefano Bertacco, senatore di FdI.

È morto Luigi Spagnol: scoprì per primo Harry Potter.

E’ morto il cantante Pau Donés dei Jarabe de Palo.

E’ morto Rademacher, il recordman della boxe.

Addio al maestro Marcello Abbado, fratello maggiore di Claudio.

Addio a Chris Trousdale, voce della boyband Dream Street.

E’ morto il semiologo Paolo Fabbri.

E' morto Carlo Ubbiali, leggenda del motociclismo italiano.

È morto Roberto Gervaso.

È morto Tinin Mantegazza, creatore del pupazzo Dodò dell'Albero azzurro.

E’ morto Morrow: fu il primo a eguagliare la leggenda Owens.

È morto l'artista Christo.

Morto Beppe Barletti: volto storico di “90° minuto”. 

È morto il chitarrista Bob Kulick, "quinto" membro dei Kiss.

E’ morto l’attore Anthony James.

E’ morto Franco Raselli, uno degli orafi più importanti nel mondo.

E’ morta Alice Severi: ex bimba prodigio del piano.

È morto Larry Kramer, sceneggiatore.

Addio all'attore Richard Herd, comandante supremo dei "Visitors".

E’ morto Prahlad Jani, l’indiano che sosteneva di non mangiare e bere dal 1940.

E’ Morto Stanley Ho. Addio al re dell'azzardo.

E' morto Bruno Bernardi, storica firma de La Stampa.

È morto Jimmy Cobb, tra i più grandi batteristi della storia del jazz.

È morto John Peter Sloan, il comico insegnante d'inglese più famoso d'Italia.

È morto Alberto Alesina, economista italiano che ha conquistato Harward.

Addio a Sergio Siglienti, ex presidente di Banca Commerciale Italiana.

Morto Carlo Durante, ex campione paralimpico di maratona.

Morta Cristina Pezzoli, la regista che amava la sperimentazione.

E’ Morto Antonello Riva: regista e chef.

È morta Anna Bulgari.

Addio all'editore Piero Manni.

Morto Wilson Roosevelt Jerman, maggiordomo di undici presidenti Usa. 

Addio a Claudio Ferretti, voce storica di "Tutto il calcio minuto per minuto".

È morto padre Adolfo Nicolas, era stato «papa nero» dei Gesuiti.

E’ morto Shad Gaspard ex lottatore di wrestling.

Morta Hana Kimura, la lottatrice di wrestling.

Morto Gigi Simoni.

Tennis: è morto Ashley Cooper, leggenda della racchetta anni '50.

Basket, Nba in lutto: è morto Jerry Sloan, leggenda di Utah.

Morto il giornalista Stefano Carrer.

È morto Mory Kanté: cantante guineano celebre per «Yeke Yeke».

E’ morto l’attore Hagen Mills.

E’ morto il giornalista Cesare Barbieri.

Giorgio Stegani rip.

È morto Gregory Tyree Boyce, attore di Twilight.

E’ morta Ann Mitchell,  la scienziata che decriptò Enigma.

È morto l’attore Michel Piccoli.

E’ morta la fotografa tedesca Astrid Kirchherr.

Addio a Mauro Sentinelli,  il pioniere dei cellulari. Inventò la ricaricabile.

Morta Lynn Shelton, regista di «Little Fires Everywhere» e «Glow».

E’ morto l’attore Fred Willard, da Beautiful a Modern family.

E’ morta Norma Doggett, ballerina di "Sette spose per sette fratelli".

È morto Phil May, frontman e cofondatore dei Pretty Things.

È morto Sandro Petrone, storico conduttore del Tg2.

E’ morto Ezio Bosso.

È morto Giulio Savelli, editore di "Porci con le ali".

Addio a Jerry Stiller.

E’ morta Costanza Rossi in Ichino.

Morta Betty Wright, regina del soul.

È morto Little Richard, principe trasgressivo del rock'n'roll.

E’ morto Piero Gelli, il risvolto snob dell'editoria.

Morto Franco Cordero, il giurista che inventò il "Caimano".

E' morto "El Trinche" Carlovich: idolo di Maradona.

Morto Luca Nicolini, il libraio che inventò il Festivaletteratura di Mantova.

Morto il rapper Ty.

E' morto Bob Krieger, il fotografo di Agnelli e Armani.

E’ morto Vincenzo Abbagnale.

È morto Florian Schneider, fondatore dei Kraftwerk.

Addio a Michael McClure, principe della Beat Generation.

Morto l’attore Mimmo Sepe.

Addio al barese Matteo De Cosmo, art director della «Marvel» a New York.

Morto McNamara: campione Nba di basket.

E’ Samantha Fox, la porno attrice.

È morto Sam Lloyd, l'avvocato di Scrubs.

È morto l'attore BJ Hogg.

È morto il batterista Tony Allen.

Morto Fra' Giacomo Dalla Torre: Gran Maestro del Sovrano Ordine di Malta.

E’ morto l’attore Irrfan Khan.

Addio a Germano Celant.

È morto Giulietto Chiesa, giornalista e politico.

Claudio Risi rip.

Addio al giornalista Nicola Caracciolo.

Addio al regista Luca De Mata.

E’ morto il filosofo Aldo Masullo.

Morto Giuseppe Gazzoni Frascara: Ex presidente del Bologna Calcio.

È morta Shirley Knight, attrice di cinema e serie tv. 

E’ morto Sirio Maccioni: re della cucina italiana in America.

E’ morto a 82 anni Peter Beard, fotografo naturalista.

E’ morto il bassista Henry Grimes.

E’ morto l'attore francese Philippe Nahon.

Se ne va Gene Deitch, 95 anni, regista, disegnatore, produttore di cartoon.

È morto Sergio Fantoni.

Morto l’attore Brian Dennehy: lo sceriffo di "Rambo". 

Addio a Lee Konitz, uno degli ultimi grandi del jazz mondiale.

E’ morto Luis Sepulveda.

E’ Mario Donatone, uno dei cattivi del cinema italiano.

E' morto Franco Lauro, volto noto di Rai sport.

E’ morto Mirko Bertuccioli, detto "Zagor", cantante dei Camillas.

Morta Patricia Millardet, la giudice della "Piovra".

Morto il giornalista Giuseppe Zaccaria.

E’ morto Stirling Moss leggenda dell'automobilismo.

E’ morto Luciano Pellicani.

E' morto il fotografo Victor Skrebneski.

È morto Enzo Carrella, cantautore romano.

E’ morto Armando Francioli.

E’ morto l’architetto Massimo Terzi.

Rip la costumista Brunetta Parmesan.

E’ morto Donato Sabia, fu due volte finalista olimpico.

E’ morta Linda Tripp, la talpa dello scandalo Lewinsky.

Allen Garfield rip.

Morta l'astrofisica Margaret Burbidge.

Morta Susanna Vianello, figlia di Edoardo e Wilma Goich.

Coronavirus: è morta Cinzia Ferraroni, storica attivista del M5s. 

È morto Alessandro Rialti, voce storica della Fiorentina. 

Morta Honor Blackman, la Pussy Galore di James Bond. 

Morto l'ex premier libico Mahmoud Jibril. 

Morto Lorenzo Sanz, ex presidente del Real Madrid.

Morto Bernard Gonzalez, calcio francese in lutto.

Addio ad Ezio Vendrame, il George Best italiano.

Morto Bill Withers, voce di "Ain't No Sunshine".

È morto Sergio Rossi: ucciso dal Coronavirus il maestro della calzatura.

Coronavirus, morto Mario Bresciani, capitano d’industria delle calze.

Turchia, morta Helin Bolek: attivista e cantante.

Addio Gerald Freedman, regista del primo Hair a Broadway.

Addio a Bill Withers, rappresentante della black music.

Morto Piero Gratton, papà del Lupetto della Roma.

Morto Gaetano Rebecchini, fu tra i fondatori di Alleanza nazionale.

Morto Ellis Marsalis, un gigante del jazz.

Morto Goyo Benito: stella del Real Madrid negli anni ’70.    

Morto Andrew Jack della saga di Star Wars.

 Coronavirus, addio al musicista Adam Schlesinger, celebre leader dei Fourtains of Wayne.

E' morta Maria Antonietta Muccioli.

Addio a Franco Crepax.

È morto Filippo Mantovani, il figlio del presidente della Sampdoria.

Morto Attilio Bignasca, leghista ticinese.

Morto Angelo Rottoli, ex campione europeo dei massimi leggeri.

È morto Krzysztof Penderecki, compositore polacco.

E’ morto Luigi Roni: il cantante lirico.

E se n'è andata anche Annunziata Chiarelli, per tutti Mirna Doris.

Morto Michel Hidalgo: c.t. campione d'Europa nell'84 con la Francia.

Morto Massimo Vincenzi de La Repubblica.

Addio a Flavio Campo di Avanguardia.

Morto a Parma Massimo Zannoni, docente e uomo di cultura.

Morto Mark Blum, recitò anche in "Mr. Crocodile Dundee".

Morto il principe Raimondo Orsini d’Aragona.

Perdiamo anche Detto Mariano.

Morto Corrado Sfogli.

È morto Joe Amoruso, il pianista del gruppo di Pino Daniele.

E’ morto Paolo Micai, giornalista e cineoperatore.

Se ne va anche Alfio Contini.  

Bepi Covre è morto: era conosciuto come il “leghista eretico”.

Coronavirus, morto Terrence McNally: scrisse “Paura d’amare”.

Morto il regista americano Stuart Gordon.

E’ morto il sassofonista Manu Dibango.

Fumetti, addio ad Albert Uderzo: era il "padre" di Asterix.

Morto Luigi Pallaro, "el senador" che affondò Prodi II.

E' morto Carlo Casini, fondatore del Movimento per la Vita.

E’ morto Alberto Arbasino.

E’ morta Lucia Bosè.

E' morto il regista Tonino Conte.

É morto Kenny Rogers.

Nazareno (Neno) Zamperla rip.

Morto Gianni Mura, raccontò il calcio e il ciclismo.

Joaquin Peiró è morto.

Addio Eduard Limonov.

Se ne va Stuart Whitman.

E' morto l'architetto Vittorio Gregotti.

Atletica, morta Dana Zatopek.

Bruno Armando è morto.

Morto Max von Sydow.

Morta Suor Germana.

Francesca Milani è morta.

Morto l’attore e culturista David Paul.

E’ morto Perez de Cuellar ex segretario generale dell’Onu.

Morto Ulay. L’artista storico compagno di Marina Abramovic.

Elisabetta Imelio è morta a 44 anni: Prozac+ e Sick Tamburo in lutto.

Addio al fisico e matematico visionario Freeman Dyson.

Egitto, morto l'ex presidente Hosni Mubarak.

Addio a Katherine Johnson, la scienziata della Nasa che portò l'uomo nello spazio.

Lego, morto Nygaard Knudsen inventore degli omini del colosso dei giochi.

Addio a Nando Ceccarini, maestro della cronaca per 20 anni.

Morto a 99 anni Jean Daniel, il fondatore dell'Obs.

Amaretto Disaronno, è morto il patron Augusto Reina.

Napoli, è morto l’ex campione Mario Occhiello. 

È morto lo scrittore Clive Cussler, maestro dell'avventura.

Metropolitana di New York, è morto il padre della mappa iconica.

Si è spenta Claire Bretécher, una delle prime donne ad affermarsi nel mondo dei fumetti.

E’ morta Caroline Flack, uno dei volti più noti della televisione britannica.

È morto José Mojica Marins. Il maestro dell'orrore.

Morto Flavio Bucci, fu Ligabue nella fiction tv.

Addio a Barry Hulshoff, il pilastro dell’Ajax di Cruyff.

Usa, si schianta col suo missile: muore Mike Hughes, sostenitore della Terra piatta.

E’ morta Nikita Pearl Waligwa, l'attrice ugandese vista nel film «Queen of Katwe».

Morto Max Conteddu,  il poeta dei social.

È morto Larry Tesler, il “padre” dei comandi copia-incolla-taglia.

Si è spento Gianni Rotondo, decano dei giornalisti di Taranto.

Addio a Stanley Cohen, Nobel per la Medicina con Levi Montalcini.

Addio a Poeti Norac, astro nascente del surf.

Se ne va anche Dyanne Thorne, cioè Ilsa la belva delle SS.

Addio alla scultrice Beverly Pepper, regina della Land Art.

È morto Luciano Capelli, storica voce di Radio Alice.

La scomparsa di Emanuele Severino.

Morta il soprano Mirella Freni.

Addio a George Steiner, maestro della critica. 

Morto a 100 anni Mike Hoare, il mercenario più famoso del mondo.

Morto il produttore Gianni Minervini.

Luciano Gaucci, morto ex presidente del Perugia.

Morta Germana Giacomelli, la super mamma che curava i bambini.

Addio a Giancarlo Morbidelli, papà di leggendarie moto da corsa.

Morto Benito Sarti, addio allo storico terzino della Juventus.

Morto Giovanni Cattaneo, è stato il primo «Capitan Findus».

Morto Kirk Douglas, aveva 103 anni.

Morto Paolo Guerra, storico agente e produttore.

Harriet Frank Jr rip.

Kobe Bryant è morto.

E' morto Robbie Rensenbrink: fu uno dei fuoriclasse della grande Olanda di Cruyff.

Morto Narciso Parigi.

Addio a Stefano Scipioni, voce di Radio Radio.

È morto Terry Jones, fondatore e regista dei Monty Python.

Morto Gianluigi Patrini, ex calciatore.

È morto Jimmy Heath, in arte Little Bird.

Addio ad Emanuele Severino, gigante della filosofia italiana.

E' morto Pietro Anastasi.

Morto Pietro Antonio Migliaccio, il nutrizionista dei salotti tv.

Morto Christopher Tolkien, figlio dell’autore del «Signore degli Anelli».

Morto Stan Kirsch.

E’ morto il giornalista e scrittore Giampaolo Pansa.

E’ morto il filosofo Roger Scruton.

Morto Giovanni Custodero, l’ex calciatore malato di cancro.

Morto Capuozzo, 40 anni, campione d’Italia nel calcio a cinque.

Dakar 2020: morto il motociclista Edwin Straver.

Dakar, morto Paulo Gonçalves.

Morto Giovanni Paolo Martelli, addio al maestro che scoprì la Xylella.

Addio a Neil Peart, uno dei più grandi batteristi di sempre.

Morto Edd Byrnes, l’attore interpretò Vince Fontaine in «Grease».

Aveva soltanto 27 anni, Harry Hains. 

Lorenza Mazzetti, che se ne è andata a 92 anni.

Se ne va Buck Henry, 89 anni.

Morta Elizabeth Wurtzel.

Musica, è morto a 67 anni Neil Peart: storico batterista dei Rush.

Morto Qaboos bin Said al-Said, sultano dell’Oman.

Morto Francesco Claudio Averna: il suo amaro è famoso in tutto il mondo.

Commissario Montalbano, morta l'attrice Nellina Laganà.

Morto a 86 anni Italo Moretti, storico giornalista Rai.

Morto Alessandro Cocco, il re gentile dei presenzialisti della tv.

Franco Ciani morto suicida.

Addio a Georges Duboeuf «Papa del Beaujolais».

È morto Vittorio Fusari, rinomato chef.

Basket, è morto David Stern: l'uomo che ha reso planetaria l'Nba.

 

 

 

 

LA SOCIETA’

 

INDICE SECONDA PARTE

 

GLI ANNIVERSARI DEL 2020.

·        Gli anniversari.

Raffaello, Masaniello, Beethoven, Dumas e Montessori, tutti gli anniversari storici. Pubblicato mercoledì, 01 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Fallai. Da Rodari a Fellini, da Iotti a Ciampi: nel 1920 sono nati grandi personaggi. Li riconosci? Il genio artistico del Rinascimento: i 500 anni dalla morte di Raffaello Sanzio segnano gli anniversari del 2020, proprio come i 500 anni dalla morte di Leonardo da Vinci hanno accompagnato tutto il 2019. Ma il 2020 sarà contrassegnato da molte altre ricorrenze di rilievo, a cominciare dai 400 anni dalla nascita di Masaniello, protagonista della rivolta napoletana del 1647 o i 150 anni dalla nascita di Lenin. Tra gli artisti saranno ricordati Giambattista Tiepolo, a 250 anni dalla morte del più grande scenografo della pittura italiana e Ludwig van Beethoven, a 250 anni dalla nascita. Ricca la memoria di grandissimi scrittori, a cominciare da Alexandre Dumas, autore de I tre moschettieri e del Conte di Montecristo, a 150 anni dalla morte; e di Charles Dickens, morto anche lui 150 anni fa. Numerosi i personaggi che hanno reso famosa l’Italia nel mondo come Maria Montessori (150 anni dalla nascita) o Carlo Collodi, inventore di Pinocchio (130 anni dalla morte). Nel 2020 saranno anche i 200 anni dalla nascita di Vittorio Emanuele II.

·         500 anni dalla morte di Raffaello Sanzio.

Raffaello Sanzio è stato uno dei più grandi artisti di ogni tempo. Pubblicato mercoledì, 01 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Fallai. Pittore e architetto è diventato come pochi altri un modello per secoli e generazioni a venire. Figlio unico di un pittore di buona fama, Giovanni de’ Santi, Raffaello nacque a Urbino il 6 aprile 1483. Il padre lo ritrasse bambino nella cappella Tiranni che si trova nella chiesa di San Domenico di Cagli, non lontano da Urbino. Raffaello (Sanzio è una declinazione di Santi che deriva in particolare dal latino Sancti con cui l’artista preferiva firmare le sue opere) morì a Roma il 6 aprile 1520, esattamente nel giorno del suo compleanno. Aveva solo 37 anni e nessuno può immaginare la messe di ulteriori opere straordinarie che avrebbe potuto regalarci se avesse avuto una vita più lunga. Anche per questo il 6 aprile dovrebbe essere consacrato ogni anno a Raffaello, non solo in occasione di celebrazioni «rotonde» come nel 2020 quando si ricorderanno i 500 anni dalla sua morte. Sembra accreditato che Raffaello abbia potuto apprendere i primi rudimenti dell’arte pittorica nella bottega paterna. La morte prematura di quest’ultimo, nel 1494 quando Raffaello aveva solo 11 anni, lo costrinse ad affrettare la maturazione in giovanissima età. Una delle prime opere che gli sono attribuite (da critici come Ragghianti, Longhi e Brizio) è l’affresco della Madonna con bambino nella casa natale di Urbino, datato 1498 circa, quando aveva appena 15 anni. Non si conosce come il giovane Raffaello sia entrato in contatto con Pietro di Cristoforo Vannucci, detto il Perugino (1448-1523) che nella sua maturità è stato tra i più importanti e stimati pittori italiani, titolare di due avviate botteghe a Firenze e Perugia. Proprio in Umbria avrebbe seguito il maestro eseguendo i primi interventi nella tavoletta della Natività della Madonna nella predella della Pala di Fano (1497) e in alcune figure degli affreschi del Collegio del Cambio a Perugia (dal 1498). La prima commissione artistica a Raffaello di cui si abbia notizia è datata 1499, quando aveva solo 16 anni: gli venne commissionato da una confraternita locale lo stendardo della Santissima Trinità,un dipinto a olio su tela tuttora conservato nella Pinacoteca comunale di Città di Castello. Raffaello e i suoi collaboratori (come Evangelista da Pian di Meleto, che aveva già lavorato col padre) si fermarono in Umbria fino al 1505, incontrando un crescente successo. A Perugia gli vennero commissionate alcune pale d’altare come la Pala Colonna per la chiesa delle monache di Sant’Antonio e la Pala degli Oddi, per San Francesco al Prato. Nel 1503 Raffaello fece una serie di brevi viaggi che lo portarono ai primi contatti con importanti realtà artistiche. Visitò quasi sicuramente Firenze, dove vide forse le prime opere di Leonardo da Vinci; Roma (dove ad ottobre Giuliano Della Rovere venne eletto Papa Giulio II, che anni dopo avrebbe immortalato in un celebre ritratto) e Siena dove venne invitato dal’ormai anziano Pinturicchio. L’opera che segna la fine dell’apprendistato di Raffaello e la sua definitiva consacrazione - a soli 21 anni - è Lo sposalizio della Vergine, realizzato nel 1504 per la Chiesa di San Francesco a Città di Castello e oggi conservato a Milano alla Pinacoteca di Brera. Il suo maestro Pietro Perugino stava realizzando un’opera sullo stesso soggetto per il Duomo di Perugia e che oggi si trova nel Musée des Beaux-Arts di Caen, in Francia. Il confronto tra le due opere evidenzia la maturità del giovane artista. Attratto dalle notizie sulle opere straordinarie di Leonardo da Vinci e Michelangelo Buonarroti chiamati ad affrescare la Sala del Gran Consiglio di Palazzo Vecchio, rispettivamente con la Battaglia di Anghiari e la Battaglia di Cascina, Raffaello si trasferì a Firenze nel 1504. Ci sarebbe rimasto quattro anni realizzando straordinarie opere di ispirazione sacra, come la «Madonna del Cardellino» realizzata nel 1506, secondo quanto testimonia Vasari, per Lorenzo Nasi, ricco commerciante di panni di lana, e oggi conservata alla Galleria degli Uffizi, o la La Sacra Famiglia Canigiani, del 1507 circa e conservato nell’Alte Pinakothek di Monaco. Il soggiorno fiorentino di Raffaello negli stessi anni in cui nella città lavoravano e vivevano Leonardo da Vinci e Michelangelo fa di questi primi anni del 1500 un’età dell’oro per l’arte che non ha uguali nella storia. A questo periodo fiorentino risalgono i primi ritratti di Raffaello come la Donna gravida, Agnolo Doni e Maddalena Strozzi, dove nella postura è forte l’infuenza di Leonardo, la Dama col liocorno e la Muta. Raffaello coltiverà per tutta la vita la passione per il ritratto, immortalando papi, nobili o letterati come l’amico Baldassarre Castiglione. Alla fine del 1508 Papa Giulio II chiamò a Roma Raffaello a raggiungere i migliori artisti dell’epoca. A Michelangelo affidò il compito di affrescare la volta della Cappella Sistina (che concluderà nel 1512). A Donato Bramante affidò il progetto per la nuova Basilica diu San Pietro. A Raffaello e ad altri artisti tra cui il Sodoma, Bramantino, Baldassarre Peruzzi, Lorenzo Lotto, affidò la decorazione dei nuovi appartamenti papali. Ma dopo aver visto i primi risultati dell’opera di Raffaello nelle sue Stanze decise che avrebbe affidato solo a lui tutto il lavoro. Ne scaturì una serie di capolavori assoluti a cominciare dalla Stanza della Segnatura, dove si trova la Scuola di Atene. Nell’affresco, nonostante il fatto che nel primo cartone preparatorio non comparisse, Raffaello volle inserire un omaggio a Michelangelo dando le sue fattezze al pensoso filosofo Eraclito. E a Leonardo da Vinci, ritratto nel ruolo di Platone. C’è anche lo stesso Raffaello nel grande affresco, ma in una posizione defilata, all’estrema destra., dove è l’unico che rivolge lo sguardo verso noi spettatori. Dopo il 1511 nella Stanza di Eliodoro, Raffaello si dedicò a soggetti che potessero sottolineare la potenza dell’intervento divino. In questa Stanza l’affresco della Liberazione di San Pietro (1513-1514) rappresenta uno straordinario notturno squarciato dalla luce dell’angelo che si rifrange sulle corazze dei soldati. Nel 1513, dopo la morte di Giulio II diventa Papa Giovanni, figlio di Lorenzo de’Medici, che prende il nome di Leone X e conferma a Raffaello l’incarico per gli appartamenti papali. La terza Stanza fu poi detta dell’Incendio di Borgo. Uno degli incarichi più prestigiosi per Raffaello fu quello di decorare l’ultima fascia rimasta libera in basso, della Cappella Sistina, a partire dal 1515 facendo tessere a Bruxelles una serie di arazzi da appendere in occasione delle liturgie più solenni. Dopo la morte di Bramante, Raffaello venne nominato soprintendente dei lavori alla basilica vaticana ma ebbe anche l’incarico dal Papa di custodia e registrazione dei marmi antichi e l’ambizioso progetto di redigere una pianta di Roma imperiale. Anche le Logge che decorano la facciata del palazzo niccolino in Vaticano, avviate da Bramante, vennero proseguite da Raffaello. Il Sanzio arricchì l’articolazione delle pareti e coprì le campate con volte a padiglione, che permisero alla sua bottega di disporre di piani più vasti per la decorazione pittorica. Quest’ultima, avviata nel 1518, vide l’opera di un folto numero di assistenti, e comprendeva una sessantina di storie dell’Antico e Nuovo Testamento. Molti stucchi e affreschi vennero realizzati nello stile della Domus Aurea, scoperta per caso qualche anno prima, con piante e animali mirabolanti, le «grottesche». Uno dei dipinti più famosi di Raffaello, realizzato tra il 1518 e il 1519 e custodito dalla Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini a Roma è la Fornarina. Un nudo di donna che l’artista tenne nel suo studio fino alla fine della sua vita. Molto discussa l’identificazione del soggetto come Margherita Luti, la figlia di un fornaio di Trastevere, ritenuta il grande amore del pittore. Ma se la leggenda è suggestiva, occorre molta prudenza: il nome Fornarina viene collegato al quadro solo nell’Ottocento e le fattezze della modella la fanno apparire in altre opere di Raffaello come «La Velata», che si trova alla galleria Palatina di Palazzo Pitti a Firenze o addirittura la Madonna Sistina. Tra i committenti più prestigiosi dell’ultimo periodo di vita di Raffaello, c’è sicuramente il ricco banchiere Agostino Chigi. Per lui l’artista progettò la Cappella Chigi nella chiesa di Santa Maria del Popolo, e curò gli affreschi nella villa che Chigi si era fatto costruire in riva al Tevere, villa La Farnesina. Qui realizzò tra l’altro gli affreschi del Trionfo di Galatea e il ciclo con le Storie di Amore e Psiche, tratte dall’Asino d’oro di Apuleio. Molte opere di Raffaello sono state «saccheggiate» dalla moderna comunicazione che se n’è appropriata per gli scopi più diversi. Una delle tele più usate è proprio la Madonna Sistina databile al 1513-1514 circa e conservato nella Gemäldegalerie di Dresda. Secondo Vasari l’opera sarebbe stata dipinta per il convento di San Sisto a Piacenza. Ma insieme all’opera nella sua interezza una fortuna particolare l’anno avuta i due angioletti che si trovano alla base del quadro. Quasi appoggiati alla cornice inferiore e con l’espressione di chi osserva forse addirittura annoiato e un po’ perplesso quello che succede intorno. Raffaello muore nella sua casa romana. non lontana dal Vaticano, il 6 aprile 1520, dopo poche settimane di febbre alta. E’ all’apice del successo e della fortuna personale e la sua fine lascia sbigottiti amici e potenti, a cominciare dal Papa. Nella sua stanza l’ultimo quadro cui stava lavorando è la Trasfigurazione, commissionata alla fine del 1516 dal cardinale Giulio de’ Medici per la cattedrale di Narbonne. Il dipinto è diviso in due: in alto Gesù risorto si trasfigura emanando una luce che acceca gli apostoli. In basso si racconta il tentativo degli apostoli di guarire un fanciullo indemoniato, l’ossesso che si trova nella parte destra. Qui a prevalere sono i toni scuri, il nero macchia la scena. Siamo molto vicini ad una pittura che si affermerà solo un secolo dopo. Raffaello venne sepolto al Pantheon, con tutti gli onori. La sua tomba si trova sotto l’edicola della Madonna del Sasso, scolpita dall’allievo di Raffaello, Lorenzetto. Pietro Bembo scrisse l’epitaffio: «Ille hic est Raphael timuit quo sospite vinci, rerum magna parens et moriente mori» (Qui giace Raffaello da lui, quando visse, la natura temette d’essere vinta, ora che egli è morto, teme di morire).

·        400 anni dalla nascita di Masaniello.

Si chiamava Tommaso Aniello d’Amalfi, tutti lo ricordano come Masaniello, protagonista della rivolta napoletana del luglio 1647 contro la dominazione spagnola e le tasse imposte alla popolazione dal viceré. Pubblicato mercoledì, 01 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Fallai. La sua storia si è prestata a molte interpretazioni di parte, per la carenza di fonti dirette e per la grande fama che ha sempre accompagnato il suo nome fino a renderlo proverbiale come ribelle. Non era originario di Amalfi , che per lui era solo un cognome, ma gli spagnoli vollero accreditare questa origine per negare che un ribelle di quel tipo potesse essere nato a Napoli. Invece era nato a Vico Rotto vicino piazza del Mercato, figlio di un pescatore, e dove solo nel 1997 il Comune di Napoli, a 350 anni da quella sommossa popolare, ha posto una targa commemorativa. Un’altra interpretazione dubbia è quella degli storici risorgimentali che videro in lui un eroe repubblicano contro la dominazione straniera. La rivolta del 1647 scoppiò il 7 luglio contro le gabelle in particolare quelle sulla frutta, alimento base per i più poveri. Rivolte di questo tipo erano scoppiate nei mesi precedenti a Messina, Catania e Palermo. Masaniello guidò quella napoletana, giungendo in pochi giorni all’abolizione delle gabelle e ad essere riconosciuto come rappresentante dei rivoltosi anche dallo stesso vicerè. Ma presto venne accusato di pazzia, forse drogato e infine ucciso da un gruppo di sicari pagati dalla corona spagnola. Era il 16 luglio. Masaniello aveva 27 anni.

·        250 anni dalla morte di Giambattista Tiepolo.

I suoi molti estimatori non hanno paura di usare iperboli per definirlo: “il più grande scenografo della pittura italiana”, “il massimo esponente del rococò e del Settecento veneziano”, «genio strabocchevole, strapotentissimo» secondo Camillo Boito. Pubblicato mercoledì, 01 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Fallai. Eppure Giambattista Tiepolo, nato a Venezia nel 1696, era figlio di una famiglia piccolo borghese, il padre era un piccolo armatore Cominciò a dipingere giovanissimo nella bottega di Gregorio Lazzarini, dove apprese la tecnica e la passione teatrale per le grandi composizioni. Tra le sue opere più significative vi sono gli affreschi del Duomo, della Cappella del Santissimo sacramento e del palazzo arcivescovile di Udine (1726-30), le tele per la Scuola del Carmine a Venezia (1743), uno dei suoi capolavori, e gli affreschi per la residenza di Carlo Filippo di Greiffenklau a Würzburg (1751-53). Pittore di grandi affreschi mitologici e di dipinti religiosi, ha lasciato una galleria di straordinari soffitti dipinti. Grazie a lui la tradizione decorativa veneziana tornò a imporsi sulla scena artistica del suo tempo e riscosse un successo in tutta Europa. Nel 1762, Giambattista Tiepolo si trasferì a Madrid in Spagna, con i figli Giandomenico e Lorenzo, che lo aiutarono nel lavoro, rispondendo alla chiamata del re Carlo III, che voleva fossero realizzati affreschi e nuove decorazioni nella sale del nuovo Palazzo Reale. Morì nella capitale spagnola nel 1770, 250 anni fa. Sue opere sono ospitate nei maggiori musei di tutto il mondo.

·        250 anni dalla nascita di Ludwig van Beethoven.

La sua musica fa parte della nostra vita, al di là della nostra passione per i componimenti e la classica. Pubblicato mercoledì, 01 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Fallai.  Film, spot pubblicitari, rivisitazioni moderne hanno fatto delle sue note le più conosciute della contemporaneità. Eppure Ludwig van Beethoven nacque in Germania, a Bonn nel 1770, 250 anni fa: contemporaneo di Goethe, Kant, Schiller; precursore di un modello di artista moderno, capace di produrre se le sue opere non su commissione, ma seguendo un’ispirazione che nasce da una nuova coscienza storica e sociale figlia degli ideali della Rivoluzione francese e che trova la sua espressione artistica. In tutte le classifiche dei brani più conosciuti al mondo compaiono almeno due sue sinfonie: la Quinta e la Nona. Le prime note della Quinta introducevano le trasmissioni in italiano di Radio Londra, durante la seconda guerra mondiale, mentre il suo arrangiamento più famoso in chiave pop compare nel film La febbre del sabato sera del 1977. La Nona e ultima sinfonia composta nel 1824 comprende l’Inno alla gioia (che musicava i versi dell’Ode alla gioia di Friedrich Schiller). Il tema del finale, riadattato da Herbert von Karajan, è stato adottato nel 1972 come Inno europeo. Ripetute volte è stata rielaborata e proposta dal cinema: le sue note sono presenti in Arancia meccanica, ne L’attimo fuggente e nel quarto episodio dell’Era glaciale. Bambino prodigio venne spinto allo studio forzato della musica dal padre, che aveva problemi con l’alcol e molti debiti. I problemi di salute (gotta, reumatismi, cirrosi) gli hanno creato molte difficoltà: soprattutto la perdita dell’udito già intorno ai trent’anni gli creava problemi a gestire una conversazione. Prima dei cinquant’anni era completamente sordo, ma questo pur spingendolo in un progressivo isolamento, non gli impedì di continuare a comporre. Le sue opere, dapprima influenzate dai classici di sempre (Haydn, Mozart) ma già segnate dalla sua forte personalità, nel corso della sua vita si fanno sempre più audaci e innovative. Una delle sue migliori amiche, la scrittrice tedesca Bettina Brentano, riferirà a Goethe come parole di Beethoven: “La musica è il vincolo che unisce la vita dello spirito alla vita dei sensi, ed è l’unico immateriale accesso al mondo superiore della conoscenza. Nella musica l’uomo vive, pensa e crea”. Muore a Vienna il 26 marzo 1827.

I 250 ANNI DI LUDWIG VAN BEETHOVEN: GENIO, SINFONIE E SPIRITUALITÀ. IL COMPOSITORE DI BONN  VISTO DA PESTELLI PROFESSORE EMERITO DI STORIA DELLA MUSICA ALL’ATENEO DI TORINO. Edvige Vitaliano il 15 dicembre 2020. Nel segno di Ludwig van Beethoven diventa un viaggio nella bellezza anche una conversazione in una sera di dicembre che si accende di riverberi sonori, quasi ti ritrovassi all’improvviso in un teatro. A un passo da un’orchestra, dentro una conchiglia di suoni ed emozioni. Dall’altro capo del telefono nella sua casa torinese, Giorgio Pestelli – classe 1938, musicologo, critico musicale e professore emerito di Storia della musica all’università di Torino – raccoglie l’invito con cortesia d’altri tempi. Professore ci avviciniamo ad un anniversario importante: i 250 anni dalla nascita di Ludwig van Beethoven avvenuta a Bonn il 16 dicembre del 1770. Per cominciare le chiedo chi è per lei Beethoven? «Sono stato avviato alla musica da bambino, ma è solo verso i 13-14 anni che la musica (che per me allora voleva dire il pianoforte) ha cominciato a prendermi, a occupare il mio animo; da allora Beethoven ha sempre fatto parte della mia esistenza, quando ero ragazzino era una specie di eroe, un santo; poi, passando gli anni, è diventato quello che per me è ancora oggi: un insieme di valori, un appello all’impegno, alla responsabilità. Conoscere e studiare tutte le sue opere, una per una, tornare a risentirle, è stata, ed è ancora, l’avventura intellettuale ed emotiva della mia vita. Ma tutto ciò, per carità, senza nessun esclusivismo! Sentivo e mi nutrivo di tutta la musica (adoravo e adoro ancora Wagner, Schumann, Chopin, Debussy ecc.), l’amore per Beethoven cresceva assieme a tutti i grandi della musica; considero una forma di dilettantismo, sotto apparenza di competenza, l’atteggiamento di chi dice: “sento solo Bach, solo Mozart”; non posso neanche dire che Beethoven sia “il più grande musicista che sia mai esistito”; per me il più grande è quello che ascolto in ogni momento secondo il mio stato d’animo del momento».

Come lo racconterebbe ad un ragazzo del Terzo millennio?

«Raccontare o spiegare Beethoven a un ragazzo del Terzo Millennio è una impresa ardua: e questo, a differenza dei miei tempi, perché oggi il concetto di musica si è generalizzato in un assieme spesso confuso di musica di ogni genere, leggera, seria, pop, rock; bisognerebbe cominciare a distinguere e limitare il campo; e poi provare a fare capire che nella sua musica, oltre alla “bellezza” delle sue idee (che si può trovare anche in una canzone, o in altri tipi di musica) in lui c’è sempre anche il fascino di un percorso intellettuale, una costruzione che parte in un modo e finisce in un altro, passando attraverso ostacoli e contraddizioni: ogni pagina di Beethoven, oltre alla bellezza, contiene un’avventura dello spirito».

In questo Natale messo sotto scacco dalla Pandemia la bellezza della musica di Beethoven commuove forse anche di più. Da dove arriva questa luce così potente e per certi versi anche consolatoria che attraversa i secoli ogni qual volta si ascolta Ludwig van Beethoven?

«La luce di Beethoven nel momento attuale che attraversiamo viene dal suo messaggio di ottimismo malgrado tutto, dal suo spirito di guardare sempre oltre, di fratellanza umana; il suo esempio di artista colpito dalla sordità, e quindi dalla solitudine, che canta la felicità (interiore) è una dura e continua lezione per noi; la sua musica è un continuo invito all’azione, a fare, a non abbattersi».

Uno dei suoi libri dedicati al compositore si intitola “Il genio di Beethoven. Viaggio attraverso le nove Sinfonie” edito da Donzelli. In che modo il maestro di Bonn ha scompaginato la scrittura contrappuntistica del suo tempo?

«Con tutte le sue opere, con le Sinfonie in modo particolare, Beethoven ha compiuto una vera rivoluzione; ma la sua non è una rivoluzione di ribaltamento, di scardinamento; è una rivoluzione di assorbimento: Bach, Haydn e Mozart, e altri minori, sono da lui assorbiti, accettati e sviluppati; non c’è negazione nella sua opera, ma continuità; anche la scrittura contrappuntistica, generale nel pensiero musicale dell’età precedente alla sua (Bach ad esempio), viene fusa con la nuova visione di un linguaggio musicale basato sull’armonia e l’evidenza ritmica, in una parola sul “carattere” unico e inconfondibile delle sue invenzioni; anche il contrappunto, basta pensare alle sue “fughe” nelle ultime Sonate, agli ultimi Quartetti, alla Nona Sinfonia, alla Messa solenne, diventa una cosa sola con il pensiero sinfonico».

L’altro lavoro, sempre edito Donzelli, si chiama “I concerti di Beethoven. Il genio da pianista a compositore”, quale Beethoven troviamo in quest’ultimo libro?

«Nel mio libro sui Concerti viene fuori il Beethoven del suo tempo: quello che si è fatto una strada di musicista indipendente come “pianista” compositore, che suonava cioè le sue composizioni in pubblico; nei primi due Concerti per pianoforte, attraverso le varie versioni, rifacimenti, miglioramenti, questo processo si vede bene; a partire dal Terzo Concerto per pianoforte il “pianista” lascia il posto al compositore assoluto. Quindi il libro mette in luce non solo il Beethoven genio fuori dal tempo, ma anche il Beethoven del suo tempo, il Beethoven vissuto nella storia, nella sua città, di fronte al suo pubblico concreto».

L’ultimo Beethoven – in particolare l’ultima sonata per pianoforte, l’opera 111 – può essere indicato come il punto di rottura o il punto di svolta?

«Direi che con l’ultima Sonata per pianoforte, l’opera 111, Beethoven rompe con la tradizione “classica” della Sonata ed entra a vele spiegate nell’età “romantica”, quella di Schubert, Schumann, Weber e Chopin. Un po’ tutto Beethoven va inquadrato fra età classica e età romantica: l’opera 111 fa vedere bene le strutture della sonata classica che senza forzature, per misteriosa metamorfosi, diventano un poema musicale; con l’op.111 l’età romantica non è solo additata, è già abitata come nuovo paesaggio dell’anima».

Quando decide di ascoltare Beethoven, lei cosa sceglie?

«Di solito è lui che decide; se il caso mi fa ascoltare una musica di Beethoven, qualsiasi, mi trova sempre pronto, come davanti a una cosa nuova. Ma in generale, se devo scegliere, non vado in cerca di opere troppo aggressive, di grande impatto, tipo Quinta Sinfonia, preferisco quelle della saggezza, dell’uomo che ne ha viste di tutti i colori, e si mette un gradino più su delle circostanze: come nelle ultime Sonate, nei Trii, nei Quartetti; tuttavia c’è anche un’opera d’impatto che sempre mi seduce, la Terza Sinfonia Eroica: se ne sento le prime note, non posso staccarmi e devo arrivare fino alla fine».

Quale partitura può squarciare il silenzio, la solitudine e le angosce di queste notti e giorni difficili così come del resto aveva fatto la musica con la sordità di Ludwig?

«La sordità di Beethoven, cioè una menomazione che lo colpiva nel suo mestiere, non è stata vinta dalla musica ma dalla sua forza morale; per squarciare il silenzio e la solitudine di queste notti noi abbiamo la sua musica a disposizione: quindi sono molte le opere che possono aiutarci e confortarci; ma non mi sottraggo, oggi, alla richiesta di indicarne una: il Trio per pianoforte, violino e violoncello op.97 detto “Arciduca”, c’è un’ampiezza che allarga il respiro e allo stesso tempo una intimità che tocca il cuore».

E infine professore, immaginiamo sia la notte di Natale – di questo Natale così simile a una bufera di neve sulle nostre vite – cosa si potrebbe ascoltare di Ludwig per guardare con speranza al nuovo giorno che sta per arrivare?

«Per la notte di questo Natale un’opera di Beethoven che si potrebbe ascoltare con grande beneficio è la Sinfonia n. 6,  detta “Sinfonia Pastorale”: è pervasa di serenità, e quindi ci prepara alla speranza; e contiene anche una “Tempesta”, che però passa ed è seguita da un inno di ringraziamento per il ritorno alla calma. Proprio quello che ci auguriamo tutti!».

·        200 anni dalla nascita di Pellegrino Artusi.

Era figlio di un droghiere di Forlimpopoli, il paese dove è nato il 4 agosto 1820, e la sua massima aspirazione era quella di fare il critico letterario. Pubblicato mercoledì, 01 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Fallai. Ma quando Pellegrino Artusi scrisse una Vita di Ugo Foscolo, nel 1878, e Osservazioni in appendice a trenta lettere di Giuseppe Giusti, nel 1880, non se ne accorse nessuno. Avrebbe dovuto aspettare il 1891 e la pubblicazione del suo libro «La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene», per raggiungere un successo straordinario che dura fino ad oggi. Peraltro non amava neppure assaggiare i manicaretti risultanti dalle sue più di mille ricette: infatti nella prefazione del suo libro scriveva: «Non vorrei che per essermi occupato di culinaria mi gabellaste per un ghiottone e per un gran pappatore!«. Come scrisse Giulia Borgese sul Corriere della Sera nel 1993, recensendo l’Autobiografia di Artusi pubblicata quell’anno dal Saggiatore, la sua vita era stata sconvolta da una «notte fatale» che aveva provocato il trasferimento suo e della famiglia da Forlimpopoli a Firenze. «Era il 25 gennaio 1851 e al “Comunale” di Forlimpopoli si dava un drammone biblico in sette atti. In teatro ci sono tutti ad eccezione degli Artusi. Ed ecco che dopo l’ ultimo intervallo si alza il sipario e invece degli attori in costume biblico il pubblico vede schierato sul palcoscenico tredici tremendi briganti con i tromboni puntati sulla platea. Sono Stuvane’ , Stefano Pelloni detto il Passatore, con la sua banda. Il Passatore tira fuori l’ elenco dei notabili della città, poiché è analfabeta lo passa a uno dell’ orchestra perché faccia l’ appello. Ciascuno viene spennato di soldi, gioielli, orologi. In casa del droghiere Artusi, il “Passator cortese” cantato dal Pascoli aveva mandato la stessa sera alcuni dei suoi a vuotare casa e negozio.» »Il più brutto fu per le mie povere sorelle - si legge nell’ Autobiografia - al momento poco le malmenarono perché volevano serbarle a più brutta sorte a sfogo della loro libidine... La maggiore di esse Geltrude, che era bella e di lineamenti delicati e gentili, dopo una lotta disperata con alcuni di costoro, manomessa e contaminata era fuggita da un abbaino che metteva sui tetti, colà vagando spaurita... Ci fu condotta a casa dal vicinato in uno stato da far pietà; tutta sciamannata e cogli occhi fuori dalle orbite per lo spavento». La poveretta non si riprese mai più da «quel sì barbaro oltraggio» tanto che «si fu costretti a collocarla nel manicomio di Pesaro». E «colà rimase per dodici anni a tutte mie spese e vi morì demente».

·        200 anni dalla nascita di Vittorio Emanuele II.

Ultimo Re di Sardegna e primo Re d’Italia, dal 1861 al 1878, Vittorio Emanuele II di Savoia è considerato il monarca del Risorgimento, avendo portato a termine con il presidente del consiglio Camillo Benso di Cavour, l’unità d’Italia. Pubblicato mercoledì, 01 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Fallai. Considerato Padre della Patria gli è stato dedicato il monumento di Piazza Venezia a Roma, che in suo onore viene chiamato “Vittoriano” dominato da una statua di Vittorio Emanuele II a cavallo, opera in bronzo progettata da Enrico Chiaradia e completata da Emilio Gallori. Vittorio Emanuele II arriva al trono del regno di Sardegna nel 1849, dopo l’abdicazione del padre Carlo Alberto seguita alla sconfitta di Custoza contro gli austriaci nella prima guerra d’indipendenza. Secondo la storiografia risorgimentale sarebbero stati proprio i suoi primi incontri col generale Radetzki, per ottenere migliori condizioni per l’armistizio, e in particolare il suo essersi opposto alla richiesta austriaca di revocare lo Statuto concesso dal padre (la costituzione che limitava i poteri reali) a fargli guadagnare il soprannome di «re galantuomo». Analisi storiche più recenti mettono in dubbio questa sua difesa delle libertà costituzionali: in realtà i vincitori stessi non avrebbero premuto per la revoca dello Statuto di Carlo Alberto - come ha scritto Denis Mack Smith - per la necessità degli austriaci di «essere generosi per non gettare Vittorio Emanuele tra le braccia della Francia o dei rivoluzionari». Nei giorni successivi la brutale repressione dei moti di Genova contro l’armistizio di Vignale con gli austriaci, che costò 500 morti, fece comprendere l’orientamento del nuovo sovrano. Anche con Cavour, che divenne presidente del Consiglio nel 1852, il rapporto non fu facile e mai improntato a simpatia reciproca. Ma fu proprio Cavour a gettare le basi dell’alleanza con la Francia che portò nel 1859 alla seconda guerra d’indipendenza che si concluse con la vittoria grazie alle battaglie di Magenta e a quella di Solferino e San Martino. Si concluse con l’armistizio di Villafranca (11-12 luglio 1859) e l’Austria fu costretta a cedere alla Francia la Lombardia, girata poi al Regno di Sardegna. La guerra ebbe come effetto il declino del sistema di ingerenze politiche dell’Austria in Italia stabilito dal congresso di Vienna. Come conseguenze portò all’annessione da parte del Regno di Sardegna, oltre che della Lombardia, anche dei territori (Toscana, Parma, Modena e Romagna pontificia) le cui autorità lasciarono il potere a governi provvisori filo piemontesi. Creò le basi per la spedizione dei Mille di Garibaldi che assicurò al Regno di Sardegna anche le regioni meridionali fino alla proclamazione del Regno d’Italia (17 marzo 1861). Vittorio Emanuele, come Re d’Italia, mantenne il numerale II: come ha scritto Antonio Desideri «Secondo non primo (come avrebbe dovuto dirsi) a sottolineare la continuità con il passato, vale a dire il carattere annessionistico della formazione del nuovo Stato, nient’altro che un allargamento degli antichi confini, “una conquista regia” come polemicamente si disse». Per il completamento dell’Unità d’Italia mancavano importanti regioni: Roma e il Lazio, tuttora territorio vaticano, il Veneto, Il Friuli, il Trentino, l’Istria e Trieste. La capitale venne spostata a Firenze nel 1865 e un anno dopo la terza guerra d’indipendenza, la prima proclamata dal Regno d’Italia, nonostante le sconfitte subite contro gli austriaci a Custoza e nella battaglia navale di Lissa, portò all’Italia Venezia, il Veneto, Mantova e parte del Friuli. Rimaneva da conquistare Roma, ma Napoleone III continuava a difendere il papato e solo la caduta dell’imperatore francese nel 1870 aprì la strada all’intervento dei bersaglieri piemontesi che il 20 settembre aprirono la «breccia» di Porta Pia ed entrarono in città. La capitale del Regno venne trasferita a Roma in pochi mesi e Papa Pio IX non volle riconoscere il nuovo Stato italiano, scomunicando Vittorio Emanuele II e i suoi successori. Se Cavour non vide mai Roma capitale d’Italia (era morto nel 1861 poche settimane dopo la proclamazione del Regno), Vittorio Emanuele II vi regnò per sette anni. Morì il 9 gennaio 1878 ed è sepolto al Pantheon. Al suo capezzale c’erano i figli ma non la moglie morganatica, Rosa Vercellin, nota come la Bela Rosin che per molti anni fu l’amante del Re e gli dette due figli. Nel 1855 era morta la prima moglie di Vittorio Emanuele II Maria Adelaide d’Asburgo Lorena , sua cugina, che partorì otto figli, tra cui Umberto che sarebbe salito al trono alla morte del padre. Vittorio Emanuele II sposò Rosa Vercellana nel 1869 con un matrimonio morganatico, che non le dava diritto al titolo di Regina.

·        150 anni dalla nascita di Maria Montessori.

Maria Montessori è nata a Chiaravalle (Ancona) il 31 agosto. È stata una delle prime donne italiane a laurearsi in medicina, con specializzazione in neuropsichiatra, ha preso una seconda laurea in filosofia, ed è conosciuta in tutto il mondo come pedagogista e educatrice grazie al «metodo» che porta il suo nome. Pubblicato mercoledì, 01 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Fallai. Come ha detto Grazia Honegger Fresco, sua allieva e interprete della sua eredità scientifica e culturale, che ha curato la collana «Gioca e impara con il metodo Montessori» in edicola con il Corriere della Sera e la Gazzetta dello Sport, «Maria Montessori è partita osservando i bambini: questo è il suo grande segreto. E ha chiesto ai suoi allievi di fare altrettanto. Senza applicare in modo ripetitivo una metodologia come se fosse una normativa astratta. Ecco perché esistono scuole montessoriane poverissime nei boschi della Tanzania, così come scuole modello nelle principali metropoli occidentali». Il principio alla base di questo successo è semplice: «il segreto è seguire il bambino. E, poi, occorre dare le regole giuste, per proteggere il piccolo che fa le sue prime esperienze. Il compito dell’adulto è osservarlo con rispetto e preparargli un ambiente nutriente, che risponda ai suoi interessi. Se vuole stare per terra, non lo posso obbligare sulla sedia. Se vuole stare da solo o con gli amici, devo offrirgli questa duplice possibilità. La conquista di un benessere interiore è la premessa per entrare in relazione con gli altri senza atteggiamenti aggressivi o di prevaricazione. Spesso Maria Montessori avverte i genitori del rischio di trovarsi coinvolti, seppur involontariamente, in quella che definisce una lotta tra adulto e bambino, un braccio di ferro che pone da un lato il bisogno del bambino di apprendere, esplorare, muoversi con i suoi tempi attraverso le tappe della crescita, il suo bisogno vitale di «formarsi» e dall’altro i genitori. «Non si può essere liberi se non si è indipendenti», ma allo stesso tempo il percorso dell’indipendenza è percorribile dal bambino soltanto se si trova libero dai «lacci» che sin dalla prima infanzia inibiscono le sue conquiste autonome. Le regole essenziali sono davvero poche e pochi sono i divieti necessari. Eccedere con l’uso dei no può portare il bambino a pensare che «il bene coincida con l’inattività e il male con l’attività». Nel 1907 a San Lorenzo, Roma, aprì la prima Casa dei Bambini, un modello destinato a moltiplicarsi in Italia e nel mondo. Con l’avvento del fascismo, Mussolini tentò di sfruttare la sua fama mondiale sostenendo in un primo momento la diffusione delle Case dei Bambini. Salvo mal tollerare la sua indipendenza e costringerla ad un lungo esilio. Maria Montessori è stata una antesignana dell’emancipazione femminile e fu tra le prime a chiedere parità salariale tra uomini e donne. Anche la sua vita privata ha vissuto momenti molto difficili. Da una relazione con il collega, Giuseppe Montesano, considerato tra i fondatori della neuropsichiatria infantile italiana, nacque, nel 1898, un figlio, Mario, che Maria partorì di nascosto perché la coppia non era sposata e all’epoca sarebbe stato uno scandalo. Maria affidò il bambino a una famiglia di Vicovaro (un paesino del Lazio), visitandolo ogni settimana presentandosi come una zia, e successivamente lo fece iscrivere in un collegio. Maria poté prendere il figlio a vivere con sé, quando aveva quattordici anni, dicendo che era un nipote. La verità fu rivelata solo nel suo testamento.

·        150 anni dalla morte di Alexandre Dumas.

Ha scandito i sogni di avventura per generazioni di lettori che volevano immedesimarsi nella ingenua spavalderia di D’Artagnan o nella lucida spietata sete di vendetta di Edmond Dantès. Pubblicato mercoledì, 01 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Fallai. Ma lo straordinario successo editoriale della saga dei Tre moschettieri o del Conte di Montecristo, raccontano solo un aspetto della vita eccezionale di Alexandre Dumas, nato il 24 luglio 1802 a Villers-Cotterêts a 85 chilometri da Parigi, e morto il 5 dicembre 1870, 150 anni fa, a Puys de Dieppe nell’alta Normandia. Quando si parla di lui bisogna aggiungere «padre» per distinguerlo dal figlio più noto che si chiamava anch’egli Alexandre Dumas e anche lui destinato a un grande successo soprattutto per il romanzo «La signora delle camelie», a cui si ispira La traviata di Giuseppe Verdi. Quel figlio, che portava il suo stesso nome, era nato nel 1824 da una relazione con una sartina, Catherine Laure Labay, che abitava nel suo stesso palazzo, a pochi passi da Palais Royal nel centro di Parigi. Tra i molti elementi della sua vita che meritano una speciale attenzione, i primi riguardano l’aspetto e le origini. Alexandre Dumas padre era mulatto e aveva i capelli crespi, essendo sua nonna Marie Cessette una schiava di colore di Santo Domingo. Letterariamente è stato l’inventore della moderna serialità narrativa e il primo a usare una squadra di aiutanti che gli hanno consentito di produrre centinaia di opere tra romanzi, libri di viaggio (scritti praticamente su ogni luogo che ha visitato), libri storici, opere teatrali, oltre a venti volumi di memorie e un libro di cucina pubblicato postumo. Queste collaborazioni gli hanno fruttato accuse di plagio e una certa indifferenza da parte della critica ufficiale che ha tardato a riconoscerlo come uno dei più grandi scrittori del suo tempo. Resta il fatto che la maggior parte delle sue opere è stata pubblicata a puntate su quotidiani e riviste con un successo straordinario e Alexandre Dumas può essere considerato uno dei padri del feuilleton, quei romanzi d’appendice precursori del romanzo popolare diffuso non solo sui giornali, ma per radio e televisione, fino alle moderne soap opera. Nel 2002 il bicentenario della nascita dello scrittore è diventato, per volere del Presidente francese Jacques Chirac, il pretesto per il trasferimento delle sue ceneri dal piccolo cimitero di Villers-Cotterêts, al Panthéon, l’ Olimpo dei padri spirituali e culturali della Repubblica. Quella grande cerimonia fu anche la «riparazione di un’ ingiustizia» nei confronti di uno scrittore troppo popolare per essere considerato «grande» anche dagli accademici. Molto importante il ruolo di Alexandre Dumas nella storia d’Italia e nel Risorgimento. Lunghi e intensi sono stati infatti gli «anni italiani» di Dumas, giornalista al seguito dei Mille, che definì Garibaldi «il Messia della libertà» e in lui vide il giustiziere della monarchia borbonica, l’ avversario della camorra, l’ eroe di tutti gli oppressi. Spronato proprio da Garibaldi nel 1860 fondò a Napoli il quotidiano L’Indipendente, per sostenere la causa risorgimentale. Il giornale veniva scritto in francese e tradotto in italiano prima di andare in tipografia. Tra i primi traduttori c’era un giovane Eugenio Torelli Viollier che in poco tempo divenne uno dei principali collaboratori di Dumas. Esperienza che avrebbe messo a frutto nel decennio successivo quando nel febbraio 1876 Eugenio Torelli Viollier fondò il Corriere della Sera. 

·        150 anni dalla nascita di Lenin.

Vladimir Il’ič Ul’janov, uno dei principali protagonisti della rivoluzione russa, nacque nel 1870 a Simbirsk, sul Volga a 800 chilometri da Mosca , città che sarebbe stata rinominata in suo onore Ul’janovsk. Pubblicato mercoledì, 01 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Fallai.  Scelse lo pseudonimo Lenin che lo accompagnerà tutta la vita, ispirandosi al fiume siberiano Lena. I suoi genitori erano insegnanti e il padre raggiunse l’incarico prestigioso di ispettore scolastico. La sua adolescenza venne segnata dalla morte del fratello Aleksandr, che nel 1883 si era trasferito a San Pietroburgo per studiare scienze naturali all’università: arrestato dalla polizia zarista per aver organizzato un attentato fallito contro lo zar Alessandro III, insieme ad altri militanti del gruppo populista Narodnaja Volja (Volontà del popolo), fu impiccato l’11 maggio 1887. Lenin si laureò in giurisprudenza nel 1891, coltivando però lo studio e la conoscenza dei testi marxisti che lo portarono a non esercitare mai l’avvocatura ma a dedicarsi alla politica schierandosi con Plechanov e il suo primo gruppo marxista russo. Centrale in tutta la fase iniziale la sua avversione ai populisti e la convinzione che lo zarismo non potesse essere abbattuto con azioni estremiste e attentati isolati, ma con la rivoluzione di tutte le classi oppresse della popolazione. Arrestato nel 1895 venne deportato in Siberia, dove sposò la socialista Nadezda Kostantinovna Krupskaja (1869-1939), anch’essa deportata. Tornato dalla deportazione viaggiò in Europa dove si impose come uno dei principali teorici rivoluzionari: in Siberia aveva completato l’opera intitolata «I compiti della socialdemocrazia russa», e concepì il progetto di un grande giornale marxista per tutta la Russia. Si trasferì prima a Monaco e poi a Zurigo. In questo periodo adottò lo pseudonimo Lenin, che comparve per la prima volta nel dicembre 1901 in un articolo sulla rivista Zaria. Deciso oppositore della prima guerra mondiale, in aperta polemica con i partiti socialisti che avevano sostenuto i rispettivi stati nazionali, Lenin tornò stabilmente in Russia solo nel 1917 dopo la rivoluzione d’ottobre che portò alla caduta della monarchia zarista. Lenin assunse un ruolo di primo piano nella caduta del governo provvisorio e nella creazione di uno Stato monopartitico guidato dal nuovo partito comunista. Il suo governo abolì l’Assemblea costituente della Russia e ritirò il Paese dalla prima guerra mondiale con la firma del trattato di Brest-Litovsk. Una legge per decreto ridistribuì terreni tra i contadini e nazionalizzò la grande industria. Sotto il suo governo, nel 1922, si costituì l’Unione Sovietica delle repubbliche socialiste, che si sarebbe dissolta solo nel 1991. Lenin morì il 21 gennaio 1924, all’età di 54 anni, raccomandando nel testamento la rimozione di Stalin dalla carica di segretario generale del partito: «Ha concentrato nelle sue mani un immenso potere e io non sono sicuro che egli sappia servirsene sempre con sufficiente prudenza». Quel documento venne reso noto solo nel 1956, tre anni dopo la morte di Stalin.

·        150 anni dalla morte di Charles Dickens.

Se Il circolo Pickwick, Oliver Twist, David Copperfield e Canto di Natale fanno ormai parte del bagaglio di base della letteratura occidentale lo dobbiamo alla penna e all’inventiva straordinaria di questo scrittore inglese nato a Portsmouth nel 1812 e morto 150 anni fa. Pubblicato mercoledì, 01 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Fallai. È sepolto nell’Abbazia di Westminster in quello che è chiamato l’angolo dei poeti, accanto a Henry Fielding. Quando aveva solo 12 anni, il padre venne arrestato per debiti, e la sua famiglia si trovò in uno stato di povertà estrema. Nonostante fosse poco più di un bambino fu costretto a lavorare come manovale e gran parte delle situazioni di sfruttamento descritte in David Copperfield sono vicine a esperienze dirette dello scrittore. Considerato uno dei più importanti romanzieri di tutti i tempi, il suo primo impiego fu da stenografo, per poi occuparsi di cronache parlamentari e poi le cronache con bozzetti di vita quotidiana sul Morning Chronicle che firmerà con lo pseudonimo Boz e saranno il suo primo successo. Il suo primo romanzo, I quaderni postumi del Circolo Pickwick, uscirà nel 1936 a dispense mensili proprio per il Morning Chronicle.

A 150 anni dalla morte di Charles Dickens, lo scrittore che raccontò la fine delle grandi speranze. Matteo Moca su Il Riformista il 9 Giugno 2020. Si sa che Charles Dickens è morto il 9 giugno 1870, accasciato sulle pagine dell’incompiuto Mistero di Edwin Drood, quello che pochi sanno è che ha rischiato di morire qualche anno prima, nel 1865, nello stesso giorno. Il 9 giugno 1865 lo scrittore inglese stava viaggiando nel Kent, in direzione Londra, e il suo treno rimase coinvolto nello spaventoso incidente ferroviario di Staplehurst: quasi tutte le carrozze del treno caddero nel fiume Beult. Quella dove viaggiava Dickens fu una delle poche a rimanere sui binari, lo scrittore prima si adoperò nel prestare soccorso ai feriti e, dopo corse a salvare una sua opera in parte ancora inedita allora, Il nostro comune amico. Il nostro comune amico è l’ultimo romanzo pubblicato in vita da Dickens, «un capolavoro assoluto, d’invenzione come di scrittura» secondo Italo Calvino, certamente una delle sue opere più disperate. Nelle vicende del protagonista, John Harmon, coinvolto in un matrimonio obbligato e in uno scambio di persona, generatore di numerosi colpi di scena, Dickens giunge a uno dei luoghi più cupi della sua riflessione sociale, con la consapevolezza della fine delle «grandi speranze» nel miglioramento della società e il fallimento della classe borghese. Il nostro comune amico è anche l’ultima e definitiva prova della capacità di Dickens nel ritrarre un’intera società con una simile finezza di dettagli e una prosa piana, capace di coordinare plot complessi che molto spesso nascono dalla sua vita e dalle sue esperienze. L’autore inglese Peter Ackroyd ha scritto un poderoso volume sullo scrittore nato a Portsmouth nel 1812, recentemente pubblicato da Neri Pozza, dove riannoda tutti i fili che collegano biografia e finzione romanzesca. Dalle pagine di Ackroyd emerge come Dickens fosse uno dei due maggiori rappresentanti dell’età vittoriana: l’altra è niente meno che la regina Vittoria che infatti lo inviterà a Buckingham Palace per un colloquio, durante il quale lo scrittore, nonostante la malattia, sarà costretto dal protocollo a restare in piedi: «fu così – scrive Ackroyd – che conversarono i due più grandi rappresentanti dell’età vittoriana, come se non fossero consapevoli del posto che occupavano nella storia del loro tempo». La biografia è un ottimo strumento per ripercorrere l’intera opera di Dickens, si ritrovano qui le notizie biografiche che saranno il lievito delle sue storie («Solo Fatti dovete insegnare a questi ragazzi. Nella vita non c’è bisogno che di Fatti.», recita infatti uno dei suoi incipit più memorabili, quello di Tempi difficili), la nascita in una famiglia tutto sommato benestante destinata però alla decadenza e alla povertà, il lavoro da bambino nella fabbrica di lucido da scarpe, caldeggiato dai genitori («un oscuro complotto per precipitarlo nel mondo» scrive Ackroyd citando Oliver Twist) e l’arresto del padre John per debiti, in tempi in cui «un debitore insolvente veniva reputato quasi alla stregua di un vero criminale». E poi, c’è la Londra ottocentesca («non c’è niente a Londra che non sia curioso»), la sua nebbia, le tenebre sinistre che portavano a far correre la fantasia e il grande fiume Tamigi dall’aspetto cupo, «carico di forme indistinte e terrificanti». Vladimir Nabokov ha scritto, parlando di Casa desolata, che «lo studio dell’impatto sociologico o politico della letteratura dev’essere stato escogitato soprattutto per quelli che, per temperamento o educazione, sono immuni dalla vibrazione estetica della vera letteratura, per quelli che non sentono il brivido rivelatore tra le scapole». L’interpretazione dei romanzi di Dickens non deve essere basata solo sul valore sociale, sempre foriero di insegnamenti, ma anche riconoscendo la «vibrazione estetica» della sua scrittura e la sua capacità demiurgica nel plasmare trame così articolate e complesse. Se si riesce a utilizzare questo doppio sguardo, si comprenderanno in maniera ancora più profonda le sue opere, simbolo della fusione perfetta, come ha scritto Pietro Citati, tra «il più folle riso e la più imperterrita discesa nelle tenebre».

Ritratto di Charles Dickens, cantore dell’animo umano. Eraldo Affinati su Il Riformista il 9 Giugno 2020. Stamattina, a Londra, possiamo immaginarlo, nell’angolo dei poeti dell’abbazia di Westminster, qualche turista giapponese fotograferà la tomba di Charles Dickens con una supplementare premura se, consultando Wikipedia, avrà notato che oggi si contano centocinquanta anni dalla sua morte, avvenuta il 9 giugno del 1870 ad Higham, nel Kent. Sarà difficile spiegargli in poche battute chi è stato quello scrittore così importante, scomparso a cinquantotto anni causa emorragia cerebrale, e in quale senso abbia contribuito, nella sua vita breve ma intensa, alla formazione del pensiero occidentale moderno. In fondo l’idea stessa dell’individuo, così come viene declinata nel Vecchio Continente, deriva anche un po’ da questo imprescindibile autore, che non dimenticò mai l’umiltà delle proprie origini, soprattutto la mortificazione subita da bambino quando alcuni tracolli economici familiari lo costrinsero a lavorare nel magazzino di una fabbrica di lucido per scarpe. Studiò poco e male ma scoprì dentro di sé un giacimento inestimabile a cui seppe attingere a piene mani. A ben riflettere dobbiamo a Dickens l’invenzione dell’Infanzia, nella modalità in cui ancora adesso la percepiamo: una stagione, dotata di propria autonomia, da difendere e preservare ad oltranza, come una quintessenza dell’umanità. Insieme a Henry Fielding, altro grande scrittore i cui resti sono conservati accanto ai suoi, col quale idealmente dialoga nel sepolcro di Westminster, Dickens ha fondato davvero il romanzo picaresco, lanciando verso di noi il testimone ricevuto dai grandi spagnoli, l’anonimo autore del Lazarillo e Miguel de Cervantes: non tanto e non solo nel folgorante esordio del Circolo Pickwick (1837), in cui compose i tasselli di un viaggio nel cuore profondo della provincia inglese, quanto nei successivi romanzi di formazione: Le avventure di Oliver Twist (1837) e Nicholas Nickleby (1839) con la progressiva messa a fuoco della figura dell’orfano, vilipeso e maltrattato, temprato dalle più crude esperienze, prima fra tutte quella dell’abbandono. Nelle sue opere, incredibilmente composte quasi tutte per committenze giornalistiche, c’è da baloccarsi sulla passione devastatrice che scuote gli animi dei nostri simili: lo si può fare senza accedere ad alcuna dimensione metafisica, restando con lo sguardo rasoterra, come è caratteristico della cultura inglese. I cartoni scenografici del tradimento e dell’avarizia, dell’egoismo e della volontà di sopraffazione, del raggiro e della truffa, illustrano i nuclei tematici dei suoi testi, pur dentro la persistente euforia degli innumerevoli personaggi che quasi sempre ruotano intorno al protagonista come coriandoli variopinti. La parabola si chiuse sull’orlo dell’abisso, prima che i fantasmi novecenteschi lo risalissero per venire a tormentarci in modo diretto. Dickens ancora adesso, posto di fronte al male umano, fornisce le risposte che il buon senso richiede, ma poi ti resta sempre l’amaro in bocca. Come se egli stesso non riuscisse a trattenere un moto di disappunto. E tuttavia quanta dovizia di particolari e quale enciclopedia di caratteri e situazioni! Ogni lettore potrebbe trovare qualcosa di congeniale. Sei curioso di misurare l’intensità del rapporto fra le generazioni? La bottega dell’antiquario (1841) ti aspetta. Ti piacciono i romanzi storici? Ecco per te un magico trittico: Barnaby Rudge (1841), Martin Chuzzlewit (1844) e Racconto di due città (1859). Hai bisogno di credere nella possibilità di una sia pur illusoria salvezza? Affronta Dombay e Figlio (1848). Pensi a qualcosa di più leggero? Compra i Racconti di Natale (1848). Vuoi sapere come non dovrebbe essere la scuola? Leggi David Copperfield (1850). Senti una vera antipatia per i sistemi giudiziari? Casa desolata (1853) sarà pane per i tuoi denti. Hai l’animo del sindacalista? Orientati su Tempi difficili (1854) e La piccola Dorrit (1857). Se Dickens si fosse fermato qui, sarebbe comunque stato, in prospettiva originale, il Balzac della propria terra: gran burattinaio di una complicatissima e inquietante commedia umana che si fermò all’improvviso bloccando i lavori in corso del Mistero di Edwin Drood (1870), estremo poliziesco rimasto incompiuto. Ma nei due romanzi finali che riuscì a concludere lo scrittore fece qualcosa di più: Grandi speranze (1861) resta, a giudizio di molti, il suo capolavoro. Un sorta di Dostoevskij beneducato, con gli strappi ricuciti. Memorabile è la figura del giovane Pip, il quale nella prima pagina cerca di ricavare il ritratto dei suoi genitori dalle loro pietre sepolcrali: «La forma delle lettere su quella di mio padre mi suggerì la strana idea che egli fosse un tipo tarchiato, corpulento, con i capelli neri e ricciuti. Dai caratteri e dallo stile dell’iscrizione “Ed inoltre Georgiana, moglie del suddetto”, trassi la conclusione infantile che mia madre fosse lentigginosa e malaticcia». Il rapporto d’amore contrastato fra lui e Estella entra come una luce sporca dentro il libro che in un lento e progressivo disfacimento di qualsiasi chimera rinnovatrice svela la natura ambigua e magmatica della paternità, oltre alla dimensione ferina del capitalismo. Tale pessimismo sociale torna peraltro potente e persuasivo nel Nostro comune amico (1865), dove semmai ci fosse stata l’illusione di una missione palingenetica del proletariato, questa viene deliberatamente rigettata sotto l’insegna tristemente accesa della universale cupidigia. Eppure, a conti fatti, Charles Dickens, nonostante la diagnosi impietosa e assai poco consolante sulla natura umana e il sistematico sterminio di qualsiasi programma edificante, non smette di comunicare energia propositiva. Le sue macchine narrative sempre in marcia e funzionanti danno fiducia. Sono come i piccoli eroi che mettono in scena, sempre capaci di rialzarsi in piedi dopo essere caduti a terra.

·        150 anni dalla nascita di Rosa Luxemburg.

Tra gli storici fondatori del Partito comunista tedesco, Rosa Luxemburg era nata il 5 marzo 1870 a Zamość, in Polonia, allora parte dell’Impero russo. Pubblicato mercoledì, 01 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Fallai. I Luxemburg erano ebrei come un terzo degli abitanti della città ma non avevano particolari contatti con la comunità ebraica. In casa parlavano il polacco e conoscevano bene il tedesco e il russo. Prima ancora di compiere vent’anni, in Rosa maturò l’interesse per i problemi del mondo che la portò a impegnarsi in prima persona: divenne una militante del movimento di sinistra «Proletariat». Ma questo movimento venne perseguitato e represso e nel 1895 Rosa fu costretta a lasciare la Polonia emigrando prima in Svizzera e poi in Germania. Qui sposò un tedesco: non c’era amore tra i due ma ciò le permise di ottenere nel 1989 la cittadinanza tedesca. Trasferitasi a Berlino, aderì al partito socialdemocratico, prendendo posizione contro il revisionismo teorico di E. Bernstein Nel 1902-04 lavorò alla Gazeta ludowa («Giornale del popolo») di Poznań; dopo aver criticato aspramente i tentativi di J. Piłsudski per creare difficoltà alla Russia in conflitto col Giappone, passò a Varsavia, ma fu presto arrestata (1906). Dal 1907 al 1914 insegnò economia politica alla scuola di partito di Berlino. Trovandosi sempre più a sinistra in seno alla socialdemocrazia tedesca, finì per polemizzare con K. Kautsky sulla funzione dello sciopero generale e sull’atteggiamento da prendersi verso la riforma elettorale allora proposta da Bethmann-Hollweg. Durante la guerra, nonostante lunghi periodi di prigionia, non interruppe gli studi e la stesura dei suoi scritti, promuovendo manifestazioni pacifiste. L’accumulazione del capitale (1913) è considerata l’opera più importante di Rosa Luxemburg, dedicata all’analisi economica dell’imperialismo. Partendo dalla critica degli «schemi della riproduzione allargata» che si trovano nel II libro de Il Capitale di Karl Marx, Rosa Luxemburg intende dimostrare che, in un ambiente puramente capitalistico (cioè in una società composta esclusivamente da capitalisti e da proletari), l’accumulazione del capitale sarebbe impossibile, in quanto in tale ipotesi non potrebbe mai verificarsi la realizzazione del plusvalore, cioè mancherebbe la domanda per la porzione delle merci prodotte il cui valore corrisponde al plusvalore accumulato. Da qui, secondo Rosa Luxemburg, deriva la necessità per l’economia capitalista di cercare al di fuori di se stessa sempre nuovi acquirenti per le proprie merci. Promosse l’insurrezione spartachista di Berlino del gennaio 1919, durante la quale venne assassinata.

·        130 anni dalla morte di Carlo Collodi.

Si chiamava Carlo Lorenzini (nato a Firenze il 24 novembre 1826 e morto nella stessa città il 26 ottobre 1890) l’inventore di Pinocchio. Pubblicato mercoledì, 01 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Fallai. Dopo una carriera di scritti giornalistici e le prime fiabe, scelse lo pseudonimo Carlo Collodi, ispirandosi al nome del paese in provincia di Pistoia dove era nata sua madre e dove oggi si trova un parco dedicato proprio a Pinocchio. Dal 1837 fino al 1842 entrò in seminario a Colle di Val d’Elsa ma non diventò prete. Fra il 1842 e il 1844 seguì lezioni di retorica e filosofia a Firenze, presso un’altra scuola religiosa degli Scolopi. Dopo aver interrotto gli studi il giovane Collodi comincia a collaborare con il giornale milanese L’Italia Musicale e partecipa come volontario alla prima guerra d’indipendenza. A Firenze fonda uno dei primi giornali umoristici dell’epoca, Il Lampione. Nel 1856, collaborando con il giornale umoristico fiorentino La Lente firmò per la prima volta con lo pseudonimo di Collodi. Tra gli incarichi più prestigiosi vi fu quello ricevuto nel 1868 dal Mistero della Pubblica Istruzione di far parte della redazione del «Novo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze. Ma è negli anni Settanta che si avvicina al mondo delle fiabe, prima traducendo e riadattando le fiabe francesi. Poi cominciarono ad apparire le sue: Giannettino nel 1878 e Minuzzolo nel 1878. Il 7 luglio 1881, sul primo numero del periodico per l’infanzia Giornale per i Bambini, diretto da Ferdinando Martini, uscì la prima puntata de Le Avventure di Pinocchio, con il titolo Storia di un burattino.Nel 1883 pubblicò Le avventure di Pinocchio raccolte in volume. Oggi si contano a milioni le copie vendute, una diffusione e una fama senza confini geografici e con traduzioni in ogni angolo del pianeta, una resistenza a tutte le epoche, le culture, i gusti, le mode, i linguaggi, i costumi. Pinocchio è stato letto e riletto, interpretato, recitato, ridotto per il teatro, trasposto, stravolto, adattato per il cinema, riscritto a fumetti, parodiato, rielaborato, reinventato per nuovi libri. Amato da piccoli e da grandi, adorato da lettori comuni e critici d’ogni tipo, ma non dalla scuola, dove il capolavoro di Carlo Collodi non ha mai avuto troppa fortuna. Eppure - come ha scritto Paolo Di Stefano su La Lettura - di omaggi critici a Pinocchio è pieno il Pantheon della critica italiana e straniera. Primo, nel 1914, venne un francese, Paul Hazard, che ne mise a fuoco il legame con il teatro popolare italiano. Seguì, nel 1921, Pietro Pancrazi, che ne fece un Elogio, rivelando: «Ogni anno, alla cara stagione della neve e delle castagne, cavo dallo scaffale dei miei più vecchi libri Pinocchio; cerco un posto quieto vicino alla stufa, e me lo rileggo». Forse perché gli ricordava l’infanzia, forse per il desiderio di cercarvi nuovi insegnamenti, forse più semplicemente: «perché sento di volergli bene». Benedetto Croce sancì che «il legno in cui è intagliato Pinocchio è l’umanità». Il filologo Gianfranco Contini, inserendolo nel 1968 nella sua Letteratura dell’Italia unita, non esitò: «Questa è letteratura senza aggettivo, non letteratura per bambini, anche se la rappresentazione d’un’infanzia non agiografica, e pur aliena da ogni indulgenza (…) verso il sadismo degli anni verdi, giova a introdurre quel “limite della realtà” che per il De Sanctis è il massimo insegnamento del nostro Ottocento».

·        120 anni dalla nascita di Eduardo De Filippo.

Eduardo De Filippo, 120 anni fa nasceva il gigante “cattivo” del teatro. Emilia Missione su Il Riformista il 24 Maggio 2020. Non è che Eduardo fosse cattivo, come in tanti hanno raccontato. Semplicemente aveva scelto di dedicare tutta la sua vita, tutte le sue energie, tutti i suoi pensieri al teatro. E sull’argomento non concedeva sconti a nessuno. “Magari passava per strada – ha raccontato una volta l’attore Enzo Cannavale – e nemmeno ti salutava. Ma lui, con ogni probabilità, stava pensando a una battuta da mettere in qualche commedia”. Ancora oggi, a 120 anni dalla sua nascita, incasellare Eduardo De Filippo in una categoria è affare complicato. Attore, regista, sceneggiatore, drammaturgo, scrittore, traduttore e poeta con la sua produzione ha messo in scena contraddizioni e debolezze umane. Ha mischiato farsa e tragedia, commedia e dolore con la stessa naturalezza usata dalla vita vera. Ha raccontato Napoli, sottraendola agli stereotipi e trasformandola in un enorme palcoscenico, pieno di possibilità e destini da raccontare. “Figlio d’arte, formatosi giovanissimo nell’ambito del teatro napoletano, ha sperimentato, nel corso della sua vasta e versatile carriera, percorsi inediti che, superando la comicità farsesca fine a sé stessa, hanno trasposto nella rappresentazione scenica i temi della realtà contemporanea, con le incertezze, le aspettative, le illusioni e i disincanti di una umanità segnata da eventi epocali e da forti contraddizioni”. È il ricordo del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella per il drammaturgo napoletano, “un genio creativo” a 120 dalla sua nascita. Per celebrare l’evento oggi il Ministero dello Sviluppo haemesso un francobollo commemorativo  appartenente alla serie tematica “le Eccellenze italiane dello spettacolo” dedicato a Eduardo De Filippo.

"Eduardo, quante lezioni e quanti rimproveri". Il ricordo di Lina Sastri. Pubblicato domenica, 24 maggio 2020 da La Repubblica.it. Oggi si contano centovent'anni esatti dalla nascita di Eduardo De Filippo, l'autore e attore che ha più rispecchiato sui palcoscenici del Novecento una svolta dal grottesco al drammatico nella storia dei legami umani e disumani in società. Le battute delle sue opere sono diventate proverbiali. I suoi testi sono la narrazione del realismo, della solitudine, del disinganno famigliare. "Era un uomo solo, con tante responsabilità, infiniti pesi, e insegnamenti artistici che si traducevano in esempi e fatti più che in parole", sintetizza Lina Sastri, che ebbe il privilegio di fare con lui alcune prime esperienze di pratica della scena. "Io avevo appena debuttato nel Masaniello, abitavo a 300 metri dal Teatro San Ferdinando e mi avvisarono che il Maestro cercava una giovane interprete. Mi scelse, credo, con un criterio fisico, facciale, per fare la comparsa nel Sindaco del rione Sanità, la fidanzatina d'un boss, una in abiti moderni e sfacciati. Portai da casa alcuni vestiti, e fu accettato un modello corto, rosso, su cui dovevo indossare bigiotterie. Io ero molto sicura di me, e una sera, stando in fondo alla tavolata dove teneva banco il sindaco, pensando di non essere vista, non m'agghindai. Eduardo recitando salutò vistosamente le donne con bracciali e collane, e poi guardò me. Mi sentii gelare. Che lezione". Mitiche erano le prime letture dei testi appena scritti, cui Eduardo dava voce davanti alla compagnia. "Lo faceva senza aver assegnato ruoli. Alla fine nominava i personaggi, affidandoli ai presenti. Lui sapeva che io cantavo bene, e per Gli esami non finiscono mai io sperai che mi toccasse la Cantastorie, cui invece fu abbinata giustamente Isa Danieli. Mi capitò una cameriera, con una sola frase. Poi m'aggiunse due battute. E più tardi, per una sostituzione, mi dette pure i compiti di una ragazza del popolo, Bonaria, che tiene testa alla moglie del suo amante. Due volti: una domestica, e una donna in tailleur con infanzia crudele. Meraviglioso". Ma da Eduardo fu anche messa in riga. "In camerino inneggiai a Strehler, e poco dopo in una prova lui mi fulminò 'non sapite manco cammina', e volete andare da Strehler'". Quel che è certo è che Eduardo in una trasmissione di Gianni Minà disse che lei era brava, ma non lo sapeva, e lui l'aveva resa cosciente. Infatti la volle in video nel ciclo scarpettiano del 1975, in tv (su RaiPlay Il teatro di Eduardo nel '77 le riservò accanto a sé il ruolo della figlia in Natale in casa Cupiello (disponibile su RaiPlay nella sezione dedicata al Teatro di Eduardo): "Nel finale tossii e gli sembrai commossa, ma mi sostenne sottovoce mormorandomi 'Non è vero, stiamo recitando'. Tempo dopo mi rimproverò di non aver accettato l'invito di entrare nella compagnia di prosa di Luca. 'Tu rifiuti, Titina avrebbe detto sì'. Gli risposi con modestia che non ero Titina. Poi mi corresse con affetto quando nell'82 esasperavo la figura dell'ubriaca in Mettiti al passo di Brachino con regia sua, facendomi capire che dovevo solo perdere le remore. Mi rimbrottò quando non volevo essere pagata per una settimana di repliche pattuite e non fatte: 'Non rispetti il denaro, te stessa'. E mi ricordò che quando Anna Magnani gli aveva anni prima posto come condizione di scritturare anche il suo compagno, lui aveva difeso la dignità di lei escludendola dal cast". È anche depositaria di un progetto eduardiano non realizzato, Lina Sastri. "Mi convocò per parlarmi d'uno spettacolo in musica con canzoni della prima e seconda guerra mondiale, e io registrai la sua voce che eseguiva a perfezione una serie di brani. Era molto intonato. Che fortuna, averlo conosciuto teatrante e uomo".

·        120 anni dalla nascita di Antoine de Saint Exupery.

Nato a Lione nel 1900 lo scrittore aviatore Antoine de Saint Exupery ha legato il suo nome a una favola allegorica, Il piccolo principe, pubblicata per la prima volta in inglese a New York nel 1943, un anno prima della sua morte avvenuta durante un volo di ricognizione per le Forze areee della Francia libera, quando il suo velivolo venne abbattuto da un caccia tedesco, ma i rottami saranno ritrovati solo nel 2004. Pubblicato mercoledì, 01 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Fallai. Terzo figlio di una nobile famiglia di Lione (città che gli ha intitolato il suo aeroporto), nel 1921 si arruolò nel II reggimento di aviazione di Strasburgo e ottenne il brevetto di pilota dapprima civile, poi militare. Nel 1926 diventa pilota per i voli postali, incarico che nel 1930 lo porta a Buenos Aires dove conosce la moglie Consueto, pittrice e scrittrice salvadoregna. Epici i suoi incidenti aerei: nel 1935 precipita nel deserto, in Egitto mentre tenta un raid aereo Parigi-Saigon, e viene salvato da un beduino e tratto in salvo da aviatori militari italiani. Nel 1938 il suo aereo cade in Guatemala mentre da New York cerca di raggiungere il Cile. La sua biografia comprende numerose pubblicazioni sul volo, ma la notorietà è legata al Piccolo principe, tradotto in oltre 300 lingue e conosciuto in tutto il mondo. La favola racconta l’amicizia tra un pilota di aerei precipitato nel Sahara e un bambino che gli racconta di vivere su un lontano asteroide dove vive solo con una piccola rosa di cui si prende cura. Una allegoria sul senso della vita e sull’amicizia.

·        120 anni dalla nascita di Ignazio Silone.

Nato il 1° maggio 1900 a Pescina dei Marsi (L’Aquila), Secondino Tranquilli, scelse lo pseudonimo Ignazio Silone per la sua attività di scrittore, giornalista e drammaturgo italiano. Pubblicato mercoledì, 01 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Fallai. E’ stato più volte annoverato tra gli intellettuali italiani più conosciuti e letti in Europa e nel mondo. Perse gran parte della famiglia nel terremoto della Marsica nel 1915 e dopo la prima guerra mondiale partecipò alla fondazione del Partito Comunista. La sua vita e la sue attività politica (nel 1927 accompagnò Togliatti a Mosca) venne segnata dall’arresto del fratello Romolo nel 1928, accusato di aver preso parte al fallito attentato di Milano contro Vittorio Emanuele III e che provocò venti morti. Fino al 1930, nascosto sotto il nome di Silvestri, Silone ebbe rapporti segreti con la polizia fascista, emersi da documenti scoperti recentemente: inviò rapporti soprattutto a Guido Bellomo, un ispettore abruzzese che aveva conosciuto negli anni dell’adolescenza. È stato spesso spiegato che la collaborazione di Silone con Bellomo aveva uno scopo umanitario. Serviva a ottenere migliori condizioni per il fratello Romolo, che anche dopo la caduta delle accuse sull’attentato, venne tenuto in carcere e torturato fino alla morte avvenuta nel 1932. All’inizio degli anni Trenta Ignazio Silone lascia il Partito Comunista per dedicarsi completamente alla scrittura: i suoi romanzi più noti sono Fontamara, edito per la prima volta in tedesco nel 1933, e pubblicato in Italia solo nel 1947; Pane e vino (edito in inglese nel 1936 e in tedesco nel 1937), che arriverà in Italia solo nel 1955 col titolo Vino e pane: scritti nel gusto della narrativa verista «raffigurano - sottolinea l’enciclopedia Treccani - per lo più situazioni e ambienti di paesi dell’Italia meridionale nel loro lento processo di redenzione sociale». Durante la resistenza Silone sarà attivo nel Partito socialista clandestino nel 1945 diventa direttore dell’Avanti. Nel 1946 fonda e dirige Europa Socialista. Aderisce al Partito Socialista mantenendo sempre una posizione defilata. Si definisce «socialista senza partito e cristiano senza chiesa» come emerge nei saggi e nei racconti raccolti nel volume Uscita di Sicurezza (apparso per la prima volta nel 1949 e riedito in un’edizione definitiva nel 1965) e nel dramma L’avventura di un povero cristiano (1968). Il 22 agosto del 1978, dopo una lunga malattia, Ignazio Silone muore in una clinica di Ginevra 

Da Rodari a Fellini, da Iotti a Ciampi. Nel 1920 sono nati grandi personaggi. E nel 2020? Pubblicato mercoledì, 01 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Fallai. Il 1920 è stato un anno cruciale del XX secolo. Sono moltissime le nascite illustri in ogni setto della vita sociale, politica, artistica. Cento anni fa nasceva papa Giovanni Paolo II, lo stesso anno di uno dei presidenti della Repubblica più amati dagli italiani, Carlo Azeglio Ciampi. Due militari italiani che hanno pagato con la vita il loro impegno civile, Carlo Alberto Dalla Chiesa e Salvo D’Acquisto, martire della guerra di liberazione dal nazifascismo. Nel 1920 sono nati scrittori come Isaac Asimov e Charles Bukowski, narratori del calibro di Gianni Rodari, poeti come Tonino Guerra, giornalisti come Giorgio Bocca. Registi che ci hanno fatto sognare come Federico Fellini e Erich Rhomer, musicisti come Charlie Parker, artisti che ci hanno fatto sorridere e pensare come Alberto Sordi e Walter Matthau. Il 1920 è anche l’anno che si apre con la morte di Amedeo Modigliani.

·        100 anni dalla morte di Amedeo Modigliani.

Bellissimo, violento, anarchico, folle, amante delle donne e della droga, alcolizzato, malato di tubercolosi che lo ucciderà a soli 35 anni, il 24 gennaio 1920 all’ospedale della Charité a Parigi: questo è stato Amedeo Modigliani, pittore e scultore, tipico “eroe maledetto” romantico ed estremo in una brevissima carriera consacrata a Parigi, dopo aver abbandonato la Livorno dove era nato il 12 luglio 1884, frequentando artisti come Picasso, Chagall, Van Dongen, Duchamp, Braque, Utrillo, Léger, Derain, Severini, Brancusi. Pubblicato mercoledì, 01 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Fallai. E nonostante questi incontri Modigliani resta un grande isolato del XX secolo «distante da gruppi e movimenti – ha scritto Vincenzo Trione su La Lettura - abile nel captare suggestioni spesso dissonanti, dedito a una personale e ossessiva ricerca poetica». «La sua storia – ha detto il critico Giuliano Briganti – inizia e finisce con lui». Protagonista di un’esistenza poverissima in una Parigi ricchissima di talenti, Modigliani ha lasciato un’eredità artistica autentica e una inquietante scia di falsi che lo accompagnano da un secolo.La sua prima esposizione a Livorno si tiene nel 1908, ma è sempre a Parigi che - tranne sporadici ritorni nella sua città - si svolgerà tutta la sua via personale e artistica. Qui conoscerà Jeanne Hebuterne, una giovane pittrice, che lui ritrasse molte volte e con la quale andò a vivere. Nel 1918 nascerà Jeanne, figlia della coppia. All’inizio del 1920 Jeanne Hebuterne è incinta del secondo figlio, ma il 24 gennaio Amedeo Modigliani muore al culmine di una crisi. Il giorno successivo Jeanne, che era ormai all’ottavo mese di gravidanza si suicidò gettandosi da una finestra del quinto piano. Ora riposano uno accanto all’altra nel cimitero parigino di Père Lachaise. Anche dopo la sua morte Modigliani fa parlare di sé: è del 1984 infatti il caso delle false teste, sculture ritrovate nel Fosso Reale di Livorno dove, secondo una leggenda, l’artista le avrebbe lanciate perché criticate da alcuni amici artisti. Molti critici di primissimo livello si affrettarono ad esaltare la bellezza di quelle opere che poi si rivelarono dei falsi clamorosi, realizzati per burla da tre ragazzi livornesi.

·        100 anni dalla nascita di Papa Giovanni Paolo II.

Papa Giovanni Paolo II, nato Karol Józef Wojtyła, in Polonia, a Wadowice, 18 maggio 1920 e morto a Roma, nella Città del Vaticano il 2 aprile 2005, è stato il 264º papa della Chiesa cattolica e vescovo di Roma. Pubblicato mercoledì, 01 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Fallai. Primo papa non italiano dopo 455 anni, cioè dai tempi di Adriano VI (1522-1523), è stato inoltre il primo pontefice polacco nella storia e il primo proveniente da un Paese di lingua slava. Il suo pontificato è durato 26 anni, 5 mesi e 17 giorni ed è stato il terzo pontificato più lungo della storia, dopo quello di Pio IX e quello tradizionalmente attribuito a Pietro apostolo. Fu eletto papa il 16 ottobre 1978. Il 1º maggio 2011 è stato proclamato beato dal suo immediato successore Benedetto XVI e viene festeggiato annualmente nel giorno del suo insediamento, il 22 ottobre; nella storia della Chiesa, non accadeva da circa un millennio che un papa proclamasse beato il proprio immediato predecessore. Il 27 aprile 2014, insieme a papa Giovanni XXIII, è stato proclamato santo da papa Francesco. Lo stesso Papa Giovanni Paolo II, durante il suo pontificato ha proclamato 500 santi e 1350 beati, un numero senza precedenti. Nei suoi 27 anni di pontificato, ha cercato di porre la Chiesa cattolica in dialogo con il mondo contemporaneo, anche grazie a 104 viaggi apostolici in tutto il mondo: più di ottocento giorni, oltre un milione e 247 mila chilometri, 129 Paesi diversi toccati (senza mai arrivare, come sperato, in Cina e a Mosca). Decisa la sua azione politica contro il comunismo, Giovanni Paolo II è considerato uno dei fautori del crollo dei paesi socialisti controllati dall’ex Unione Sovietica, dopo la caduta del muro di Berlino. Allo stesso modo censurò la teologia della liberazione, sviluppatasi soprattutto in Sudamerica contro le dittature militari, con l’avvicinamento di alcuni esponenti del clero alle teorie marxiste. Ma fu anche un severo censore degli eccessi del capitalismo e del consumismo. Considerò decisivo il rapporto con i più giovani e si deve a lui l’istituzione delle Giornate mondiali della gioventù, incontri spirituali che a partire dal 1984 e dal 1985, si sono ripetute ogni due o tre anni in una città scelta dal Papa. Centrale, durante il suo pontificato, la relazione con le altre religioni, in particolare con gli ebrei: ha reso omaggio alle vittime dell’olocausto in molte nazioni. È stato il primo papa ad aver visitato il campo di concentramento di Auschwitz in Polonia, nel 1979. La prima missione in Italia di Wojtyla avvenne invece dopo soli tredici giorni dalla sua elezione: il 29 ottobre del 1978 andò a Mentorella, in provincia di Roma. L’ultimo, il 144esimo, fu a Introd, per le vacanze del luglio 2004. In 27 anni di pontificato ha voluto incontrare 317 parrocchie romane, la prima il 3 dicembre 1978, San Francesco Saverio alla Garbatella, le ultime dal 2002 a causa del peggiorare delle sue condizioni di salute, ricevendole in Vaticano. Il 13 maggio del 1981 in piazza San Pietro, durante l’udienza generale, il turco Alì Agca tentò di ucciderlo, sparando tre colpi di pistola che colpirono il pontefice all’addome. Alle ore 17.17 di quel mercoledì Giovanni Paolo II – l’ex arcivescovo di Cracovia – si trovava a bordo di un’automobile scoperta, la «papamobile», tra migliaia di fedeli che lo acclamavano. Ağca, 23 anni, appartenente all’organizzazione terroristica di estrema destra turca nota come «Lupi grigi», fu bloccato e arrestato dalle Forze dell’Ordine. Wojtyła venne sottoposto a un intervento di 5 ore e 30 minuti. Due anni dopo, nel Natale del 1983, incontrò in prigione il suo attentatore e gli concesse il perdono.

·        100 anni dalla nascita di Carlo Alberto Dalla Chiesa.

È stato un uomo d’azione, il generale dei carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa, nato a Saluzzo il 27 settembre 1920 e morto a Palermo in un attentato di mafia il 3 settembre 1982. Pubblicato mercoledì, 01 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Fallai. Quella sera morirono con lui la giovane moglie Emanuela Setti Carraro (sposata nemmeno due mesi prima, il 10 luglio) e l’agente di scorta Domenico Russo. Come ha ricordato il giornalista del Corriere della Sera, Giovanni Bianconi, Dalla Chiesa fu un uomo «che ha servito le istituzioni nei momenti d’emergenza e che nel pieno di un’emergenza è caduto. Lo spedirono a Palermo nella primavera del 1982, insanguinata dai morti ammazzati nella guerra tra cosche e dall’omicidio del segretario regionale del Partito comunista italiano, Pio La Torre, ucciso insieme all’autista-guardia del corpo Lenin Mancuso il 30 aprile, alla vigilia della festa dei lavoratori. Un delitto mafioso, politico e simbolico pure per la data in cui fu consumato, che spinse il governo ad anticipare l’invio del generale appena nominato prefetto nella “città dei mille morti”, come risposta e segno di riscossa. A un simbolo abbattuto si reagì innalzandone un altro; abbattuto anche quello, poco dopo. Solo a seguito dell’omicidio La Torre la legge che porta il suo nome fu approvata dal Parlamento, mettendo a disposizione dei magistrati il reato di associazione mafiosa e nuovi strumenti per colpire i patrimoni dei boss; ma ci vollero il sacrificio del leader e – cento giorni più tardi – quello di dalla Chiesa, assassinato la sera del 3 settembre. Una strage che determinò, in pochi giorni, il varo della legge Rognoni-La Torre che ancora oggi si applica pressoché quotidianamente nei tribunali di tutta Italia. Non più solo in Sicilia. Il generale-prefetto fu eliminato prima ancora di avere il tempo di affrontare l’emergenza per cui era stato richiamato in servizio, seppure con una carica più adusa a cerimonie e tagli di nastri che a interventi concreti; ma a lui avevano promesso nuovi poteri, che tardarono ad arrivare (e non arrivarono). Tuttavia era logico aspettarsi che dalla Chiesa avrebbe trasformato quell’incarico in qualcosa di diverso e più incisivo, e per questo gli impedirono di cominciare a lavorare. Un delitto preventivo. Con la sua morte dalla Chiesa è diventato un simbolo ancor più sia significativo. Per i “siciliani onesti” che dopo l’omicidio videro perdere la speranza, come scrisse una mano anonima sul cartello che comparse in via Carini, il luogo della strage; e per quella parte di istituzioni che non voleva convivere con la mafia, bensì liberarsene. Un simbolo importante se Giovanni Falcone, il 3 settembre 1985, per un giorno decise di lasciare l’isola dell’Asinara- dove l’avevano deportato insieme a Paolo Borsellino per poter scrivere in condizioni di sicurezza l’ordinanza di rinvio a giudizio del maxi-processo – e partecipare a Palermo alla commemorazione del generale-prefetto, nel terzo anniversario del delitto. Un mese prima i killer corleonesi avevano ammazzato il commissario Ninni Cassarà, e sette anni più tardi sarebbe toccato a loro, Falcone e Borsellino. Altre stragi e altri simboli, come Carlo Alberto dalla Chiesa. Caduti nella guerra combattuta da uomini dello Stato contro Cosa nostra e i suoi complici, annidati anche dentro lo Stato».

·        100 anni dalla nascita di Emilio Colombo.

Il centenario della nascita di Emilio Colombo. Il politico, l’uomo e il suo secolo. Gli snodi nella vita dello statista potentino, tra molte luci (e lunghe ombre). Un excursus tra grandi vicende e storie personali. Rocco Pezzano l'11 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. Come si fa a giudicare – cioè ad averne un giudizio storico – la figura di Emilio Colombo a cento anni dalla nascita, anniversario che cade esattamente oggi? C’è un intervallo molto ampio fra gli estremi di questa figura. Fra il Colombo che dà lustro – come si diceva un tempo – alla sua regione e alla sua città, Potenza, arrivando ai massimi livelli delle istituzioni (è il politico che ha avuto più incarichi di governo della storia repubblicana dopo Giulio Andreotti) e il Colombo che doveva essere votato dai preti e che si accaparra anche i voti dei malati mentali appositamente guidati nell’urna da zelanti suorine. Fra il Colombo che porta lavoro e sviluppo e il Colombo che quel lavoro e quello sviluppo se lo fa pagare ancora una volta in termini di servilismo elettorale. Fra il Colombo che giganteggia, agli occhi dei contemporanei, davanti ai tremebondi balbettii dei politici attuali e il Colombo che ammette, senatore a vita, di fare uso di cocaina, seppure a uso medico. Come sempre, conviene far parlare i fatti. Certo, al di là dei fatti c’è un oceano di voci sulla sua vita, sulle sue abitudini, sulle sue preferenze. Ma ogni voce è – fino a conferma ufficiale, per quanto si cristallizzi come certezza assoluta – un’illazione. E come tale va trattata.

FORMAZIONE. Colombo nasce dunque l’11 aprile del 1920 a Potenza. Da ragazzo entra nella scia spirituale e organizzativa di due monsignori che segneranno la storia recente della chiesa lucana, Augusto Bertazzoni e prima ancora Vincenzo D’Elia, di cui è chierichetto. Quest’ultimo – amico di don Luigi Sturzo – non è solo un pastore di anime: conosce bene quanto conti per la causa cattolica che le pecorelle, quelle più capaci, imparino a destreggiarsi nella politica. Colombo, così ben istruito e che di capacità non difetta, diventa ben presto segretario della Giac, la Gioventù di Azione Cattolica. Il triangolo del giovanotto dalle belle speranze ha i due vertici della base nella sua casa del centro storico e nella chiesa della Trinità (perno del notabilato cattolico, nella quale si troveranno i suoi confessori). Ma il terzo vertice presenta un angolo decisamente acuto: è a Roma, là dove convergono le ambizioni dell’ancora imberbe ma già maturo Emilio, che dopo il liceo (classico, ovviamente, il glorioso Quinto Orazio Flacco del capoluogo lucano) si laurea in Legge nell’Urbe senza perdere neanche una sessione. Dopo aver preso in considerazione la carriera accademica, s’instrada decisamente su quella politica. Si candida all’Assemblea costituente e viene eletto, nonostante Francesco Saverio Nitti lo avesse definito «sagrestanello», quasi non ne presagisse le fortune, o forse per paura di quel ragazzino che si permette di sfidarlo alle elezioni (e che lo batte sonoramente). Di Colombo si potrebbe dunque dire, innanzitutto, che ha contribuito a scrivere la Costituzione italiana. E già ce ne sarebbe d’avanzo. Ma qui comincia tutto, e si può snocciolare il curriculum del nostro, per il quale aggettivi come “impressionante” non danno bene l’idea.

CURSUS HONORUM. Ha avuto 40 incarichi di governo, firmato 1.626 progetti di legge, presentato 140 atti di indirizzo e controllo fra interpellanze, interrogazioni, mozioni e ordini del giorno (e per chi non sia all’opposizione è decisamente tanto), prodotto 140 interventi in aula. E’ stato ministro di Agricoltura e foreste, Commercio con l’estero, Industria e commercio, Tesoro, Bilancio e programmazione economica, Grazia e giustizia, senza portafoglio “con delega per i compiti politici particolari e di coordinamento, con speciale riguardo alla presidenza della Delegazione italiana all’Onu”, Affari esteri, Finanze. Oltre che presidente del Consiglio, dal 6 agosto 1970 al 17 febbraio 1972 (suo vice era il celebre giurista socialista Francesco De Martino). E’ stato presente alla Camera dalla prima alla undicesima legislatura, il che significa che l’aula era praticamente casa sua e vi è entrato e uscito, fra scappellamenti comprensibilmente sempre più deferenti, dall’8 maggio 1948 al 14 aprile 1994: includendo i due anni dell’Assemblea costituente dal 1946, quando fu eletto con 26.000 voti, si sfiorano i 48 anni di presenza continuata. Poi abbiamo degli anni di “buco”, nei quali la sua presenza è più evanescente. Infine il ritorno come senatore a vita, nelle legislature dalla XIV alla XVI, fino alla morte il 24 giugno 2013, quasi una buggeratura del destino che lo ha visto andarsene alla vigilia del giorno in cui si celebra l’anniversario dell’insediamento della Costituente. Ma questa è la carriera vista nel suo chassis, nel telaio istituzionale su cui è stata impalcata. Lo scheletro, diciamo così, della sua esistenza. In mezzo c’è la polpa e l’anima di una vita ben più ricca di avvenimenti (e di dettagli, per non parlare delle sfumature) di quanto possano raccontare gli annuari di Montecitorio o di Palazzo Madama.

LO SVILUPPO LOCALE. Colombo, dicono i suoi estimatori, portò lo sviluppo al Sud. Colombo, dicono i suoi detrattori, usò il potere per portare al Sud scampoli di sviluppo con lo scopo di perpetuare lo stesso potere. Di sicuro gli si può accreditare la contitolarità o l’iniziativa di non pochi piani di sviluppo che ebbero importanza decisiva nelle sorti del Mezzogiorno e della sua Basilicata. Basentana: nome proprio della strada statale 407, nodo viario che ha risolto non pochi problemi di collegamento fra Potenza e lo Jonio, è un suo merito, ad esempio. La sua realizzazione era stata pensata per il vagheggiato sviluppo dell’industria in Valbasento. Il 30 luglio del 1961 l’allora presidente del Consiglio Amintore Fanfani aveva posto la prima pietra nella Valle del Basento del complesso petrolchimico dell’Anic e degli stabilimenti Montecatini e Ceramica Pozzi. Era presente anche un altro gigante di quegli anni, il patron dell’Eni Enrico Mattei. Accanto a loro proprio Colombo, all’epoca ministro dell’Industria. Ma sono ormai decenni che quei progetti occupazionali e di sviluppo sono evaporati, nonostante premesse e promesse. E la Basentana è rimasta lì, strada da cowboy nel deserto, un’auto ogni tanto tranne le domeniche d’agosto quando c’è un po’ di traffico per andare a sciacquarsi nell’acqua di Metaponto. C’è però un’altra strada fondamentale per il meridione, come ricordava in un’intervista del 2009 a Cristina Vercillo del Quotidiano del Sud il politico calabrese Dario Antoniozzi: «La Salerno-Reggio tecnicamente non è un’autostrada, questo nessuno lo sa. E’ una superstrada Anas con caratteristiche autostradali, senza pedaggio. Come spesso succede al Sud, per le solite beghe e le solite liti calabresi, erano stati fatti scadere i termini per la vendita delle obbligazioni Iri con cui si creava il capitale per realizzare le autostrade. Facemmo una riunione privata Mancini, Misasi, Nucci, Colombo e io. Colombo disse a Mancini: “Sono pronto a dare i fondi all’Anas perché faccia la Salerno-Reggio”». E così nacque la strada simbolo del Sud, fondamentale arteria che innerva parte del Mezzogiorno, i cui lavori sono durati decenni.

PENSARE IN GRANDE. Ma è un modo sbagliato di parlarne, quello di limitarsi ai tentativi di far decollare il Sud (in parte riusciti, se l’emigrazione dalla Basilicata, forse anche grazie alle sue iniziative, si arresta negli anni Sessanta). L’appellativo tipico di Colombo – e se ne sarà adontato il fan che, fino a questa riga, non l’ha letto – è “statista”. Quando morì scrisse di lui il britannico Daily Telegraph: «Emilio Colombo (…) è stato uno degli artefici della Comunità europea. E’ stato coinvolto nella creazione della politica agricola comune (Pac), e, con la tedesca Hans-Dietrich Genscher, ha avviato quello che è diventato il mercato unico e il Trattato di Maastricht». Ora, immaginiamoci i ras locali che si riempiono la bocca con paroloni come “governance” alle prese con quei progetti epocali; poi saliamo anche di livello, e figuriamoci anche i massimi esponenti della politica italiana; e poi spingiamoci oltre, e prendiamo a modello gli esponenti della politica internazionale. Onestamente, riusciamo a immaginare qualcuno capace di sognare così in grande? Di compiere miracoli di design istituzionale del genere? Risulta difficile, vengono in mente pochi nomi, fagocitati magari da interessi e meccanismi più grandi di loro. E invece, uno capace di immaginarsi tutto ciò, e di lavorarci seriamente, proveniva dalla piccola città di Potenza, allevato da un paio di monsignori. Non male per il “sagrestanello”.

LO STILE. Non ha il calore dell’uomo meridionale, Colombo. Sembra possedere un aplomb britannico che fa a cazzotti con le origini, un distacco temperato da modi gentili e fare da signore. Ma non è distanza dagli “inferiori”, come li avrebbe definiti Paolo Villaggio, bensì frutto di un’educazione rigorosa, ultracattolica, inaccessibile alle intemperanze dell’affetto e del calore umano. Poi, con gli amici veri, è affabile e dicono anche spiritoso. Non gli si può attribuire grettezza ma al contrario generosità, se è vero che la fila che si registra davanti alla sua porta a ogni suo ritorno in patria non è fatta solo di clientes politici ma anche di questuanti puri, la cui massima aspirazione è sbarcare il lunario per qualche giorno. E Colombo non lesina aiuti.

L’ERRORE POLITICO. Alle elezioni per il senato del 2001, Colombo non viene candidato dal suo Ppi, figlio della Dc. Chissà se per un puntiglio o per calcolo, se per vendetta o per rabbia, abbandona il partito. Due anni più tardi compie quello che oggi potrebbe essere considerato un clamoroso errore di valutazione, un disperato tentativo di restare nel mondo che lo aveva visto protagonista per un cinquantennio o, semplicemente, una gran sciocchezza: cambia partito. Si candida al Senato per Democrazia Europea, il partito dell’ex segretario generale della Cisl, Sergio D’Antoni. Lo annuncia peraltro in un convegno nella sala del Principe di Piemonte, a Potenza, in un’ambientazione poco consona alle passate glorie. La decisione sarà duramente punita dagli elettori: non solo non sarà eletto ma finirà terzo, con poco più di 11.000 voti, lui che era stato presidente del Parlamento europeo, eletto con oltre un milione di voti, e a ogni votazione raccoglieva messi di preferenze. Poi arriva la sanatoria, la spugna che lava via l’onta: la nomina a senatore a vita, il 14 gennaio 2003. E gli ultimi dieci anni di Colombo tornano nell’alveo della politica che conta.

LA MACCHIA. Ma nello stesso anno, il 2003, Colombo si presenta spontaneamente davanti ai sostituti procuratori Giancarlo Capaldo e Carlo Lasperanza che hanno appena arrestato due uomini della Finanza. Avevano con sé della cocaina appena acquistata da una terza persona. «La cocaina era per me. Sono un assuntore da non molto, non più di un anno, un anno e mezzo. I finanzieri non sapevano assolutamente niente, telefonavano soltanto ma non erano a conoscenza di che cosa si trattasse», dichiara Colombo. E perché la prendeva? «A scopo terapeutico», afferma il senatore a vita. La vicenda si chiude ufficialmente là. Qualcuno lo fa sapere ai giornali. Colombo si arrabbia tantissimo, aveva chiesto «massima riservatezza». C’era una prescrizione medica per l’uso terapeutico della coca? Non lo si è mai saputo. Nessuna conseguenza per il politico. Ma il fatto si pianta come un dardo avvelenato, come una freccia infuocata, nel corpo della storia colombiana. Molti dicono: è stato un galantuomo, ha scagionato i due della scorta. Ma può un senatore a vita, uno che per diventarlo ha “illustrato la Patria”, come dice la motivazione, far acquistare della droga a due finanzieri, ignari di cosa stiano facendo? Di domande ce ne stanno tante. Non avranno mai una risposta.

LO SFREGIO. Alla fine di una vita di questo tipo, fra ovazioni di piazza a ogni comizio per lustri e tentativi di boicottaggio da parte dei comunisti che ne conoscevano la potenza elettorale; dopo aver incontrato i grandi della Terra (ed essersi sentito tale); dopo aver immaginato l’Italia e l’Europa del futuro; dopo essere stato osannato al novantesimo compleanno con convegni e celebrazioni; dopo una vita di questo tipo, dunque, quale sarebbe stata la giusta commemorazione nella sua città? Un funerale di dimensioni tali da creare problemi di ordine pubblico, si sarebbe detto. E invece, nella cattedrale di Potenza ci sono più politici, giornalisti e carabinieri in alta uniforme che semplici cittadini. Meno di quelli che vanno al matrimonio della figlia di un qualsiasi notabilucolo di provincia. Perché? Forse la perdita del potere, della potestà decisionale su quanto viene fatto non diciamo a Roma ma in Basilicata. Forse la semplice ingratitudine umana: tanti sono i potentini e i lucani che devono a lui l’impiego in uffici pubblici e privati per sé e per i propri parenti. Chissà.

LA MEMORIA. Nel 2008 Colombo si trasforma in un cartoon, pagato dalla Regione Basilicata, scritto da Gianluca Caporaso, diretto da Gianluca Lagrotta e doppiato, fra gli altri, dallo stesso politico. La sua esistenza è stata ripercorsa, dopo la morte, in “Emilio Colombo – L’ultimo dei costituenti”, volume della Laterza curato da Donato Verrastro ed Elena Vigilante. Nell’impossibilità di organizzare convegni e mostre fisiche per l’emergenza coronavirus, comunque il Circolo Silvio Spaventa Filippi di Potenza, il Circolo La Scaletta di Matera, il Centro Studi Internazionali “Emilio Colombo” (sezione del Centro di Geomorfologia Integrata per l’Area del Mediterraneo che lui aveva creato) e l’Associazione dei Lucani a Roma, con la Regione Basilicata, hanno istituito un comitato promotore per le celebrazioni del centenario della nascita. In particolare il Centro Studi lancia un apposito sito web, in rete da questa mattina alle 11 all’indirizzo centenarioemiliocolombo.it, con una serie di documenti.

IL GIUDIZIO. Alla fine, torna la domanda: come si fa a giudicare la figura di Emilio Colombo? Tante le luci, lunghe le ombre. Quando il giornalista Leonardo Sacco ne scrive in “Il cemento del potere” – usando gli strumenti dello storico al servizio dell’inchiesta giornalistica – documenta lo sviluppo di un “partito dell’edilizia” che governa una specie di feudalesimo urbano vorace, pianifica il potere e il cui personaggio-chiave è proprio Colombo. Forse l’errore è farne mito. Ingigantirne il ricordo facendone una sorta di semidio. Emilio Colombo non fu una “figura”, ma un uomo. «Homo sum, humani nihil a me alienum puto», scriveva il commediografo Publio Terenzio Afro circa 2.200 anni fa. «Sono un essere umano e non considera estraneo a me nulla di ciò che è umano».

Nessuna contraddizione. Un uomo, sospeso come tutti fra il bene e il male.

·        100 anni dalla nascita di Carlo Azeglio Ciampi.

Nato a Livorno il 9 dicembre 1920 e morto a Roma il 16 settembre 2016, Carlo Azeglio Ciampi è stato il decimo presidente della Repubblica Italiana dal 18 maggio 1999 al 15 maggio 2006. Pubblicato mercoledì, 01 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Fallai. Economista, banchiere e politico italiano, è stato governatore della Banca d’Italia dal 1979 al 1993, presidente del Consiglio dei ministri (1993-1994), ministro del Tesoro e del Bilancio e della Programmazione Economica (1996-1997), quindi ministro del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione Economica (1998-1999). Ciampi è stato il primo presidente del Consiglio e il primo capo dello Stato non parlamentare nella storia della Repubblica, fu anche il secondo presidente della Repubblica eletto dopo essere stato governatore della Banca d’Italia, preceduto da Luigi Einaudi nel 1948. È stato anche governatore onorario della Banca d’Italia. «Carlo Azeglio Ciampi aveva un tratto affabile, gentile, uno sguardo limpido, di rara mitezza, ma fermo, che denotava una persona d’acciaio» scrisse Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera il giorno dopo la sua morte. «Fu nominato Governatore nel momento più difficile che la Banca d’Italia ha mai vissuto - aggiungeva Giavazzi - poco dopo che il suo predecessore, Paolo Baffi, e il direttore generale, Mario Sarcinelli (costui addirittura imprigionato) erano stati colpiti da accuse infamanti, che si rivelarono poi costruite ad arte. Al presidente della Repubblica (Sandro Pertini) che gli chiedeva di accettare l’incarico, disse: “Se Mario Sarcinelli dovesse lasciare la banca mi consideri dimissionario”. Frase non ovvia nella Roma dell’autunno 1979, tre mesi dopo l’assassinio dell’avvocato Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore della Banca Privata Italiana, ammazzato da un sicario ingaggiato da Michele Sindona che di quella banca era stato il padrone e del vile attacco alla Banca d’Italia l’ispiratore. In un paese che fa tanta fatica a portare fino in fondo le riforme, era per lui impensabile che le scadenze venissero anche solo rimandate, gli impegni presi non rispettati». Quando fu primo ministro, e il suo governo avviò le privatizzazioni, introdusse i «calendari», grandi fogli a quadretti sui quali le cose da fare per concludere la vendita di un’ impresa pubblica erano elencate, ciascuna con una scadenza precisa. Chi ebbe la fortuna, e il privilegio, di lavorargli accanto in quegli anni ricorda che non si poteva neppure pensare di presentarsi davanti a lui impreparati o, peggio ancora, con una scadenza non rispettata. Così, nel breve arco del suo governo, avviò uno dei più grandi programmi di privatizzazione finora attuati in Europa. Non era un politico, ma nemmeno un alto burocrate, era una persona colta, un “civil servant” fedele allo Stato e forte delle sue convinzioni».

·        100 anni dalla nascita di Salvo D’Acquisto.

È uno degli eroi della guerra di liberazione dal nazifascismo. Nato a Napoli il 15 ottobre 1920, Salvo D’Acquisto, era un vicebrigadiere dell’Arma dei Carabinieri e aveva appena compiuto 23 anni il 23 settembre 1943 quando offrì la sua vita a Fiumicino, nei pressi di Roma, per salvare un gruppo di civili durante un rastrellamento delle truppe naziste. Pubblicato mercoledì, 01 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Fallai. Dopo aver combattuto ed essere rimasto ferito in Libia nel 1941, Salvo D’Acquisto tornò in Italia e venne aggregato prima alla Scuola centrale dei Carabinieri a Firenze. Fu quindi assegnato alla stazione di Torrimpietra, vicino Fiumicino, a una trentina di chilometri da Roma. Dopo l’8 settembre 1943 e l’armistizio dell’Italia con gli alleati le truppe naziste si trasformarono in esercito di occupazione. Tra queste un reparto di paracadutisti tedeschi occupò alcuni locali della Guardia di Finanza nelle vicinanze di Torrimpietra. Qui durante un’ispezione ad alcune casse di munizioni abbandonate si verificò un’esplosione che ne uccise due, ferendone altri due. Quello che era stato un incidente tragico dovuto a disattenzione o imperizia dei giovani paracadutisti, venne classificato come un attentato dal comandante del reparto tedesco. Con una prassi criminale che avrebbe insanguinato l’Italia fino alla fine della guerra le truppe naziste avviarono un rastrellamento e vennero catturate 22 persone scelte a caso fra gli abitanti della zona. Il più giovane aveva 13 anni. Inutilmente, mentre il gruppo veniva portato sul luogo scelto per la fucilazione, Salvo D’Acquisto tentò di convincere il comandante tedesco che non c’era stato nessun attentato, ma solo un terribile incidente. I prigionieri vennero portati presso la Torre di Palidoro e costretti a scavare per ore una grande fossa che avrebbe dovuto contenere i loro cadaveri. Cosa successe pochi minuti prima dell’esecuzione lo ha raccontato uno dei sopravvissuti, Angelo Amadio, creduto dai tedeschi un carabiniere e quindi trattenuto per ultimo: «all’ultimo momento, contro ogni nostra aspettativa, fummo tutti rilasciati eccetto il vicebrigadiere D’Acquisto. ... Ci eravamo già rassegnati al nostro destino, quando il sottufficiale parlamentò con un ufficiale tedesco a mezzo dell’interprete. Cosa disse il D’Acquisto all’ufficiale in parola non c’è dato di conoscere. Sta di fatto che dopo poco fummo tutti rilasciati: io fui l’ultimo ad allontanarmi da detta località.». Il vicebrigadiere, vista l’inutilità di far ragionare il comandante tedesco, si assunse interamente la responsabilità di un attentato che nessuno aveva commesso. I 22 prigionieri vennero rilasciati e Salvo D’Acquisto venne immediatamente fucilato. Gli è stata riconosciuta la Medaglia d’Oro al valor Militare alla memoria.

·        100 anni dalla nascita di Charlie Parker.

Di famiglia umile, Charlie Parker, detto Bird, nato a Kansas City, Missouri, il 29 agosto 1920 e morto a New York il 12 marzo 1955, rivelò da bambino una vivissima intelligenza, ma non particolari doti musicali. Pubblicato mercoledì, 01 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Fallai. Eppure sarebbe diventato un sassofonista e compositore di straordinario talento. Dopo un periodo di studio del sax, si mise alla ricerca di idee improvvisative nuove, lavorando con orchestre di stile convenzionale. Nel corso di una vita vagabonda e caotica, mise genialmente a punto (1940-43) un linguaggio nuovo, poi chiamato bebop, che avrebbe rivoluzionato il jazz. Segnato dalla droga e da una profonda solitudine, nonostante rapporti con colleghi del calibro di Dizzie Gillespie e Miles Davis, Parker fu protagonista a volte di pessime esibizioni. La fama di Charlie Parker esplode nel 1945 proprio nei gruppi in cui milita assieme a Gillespie: le incisioni di Billie’s Bounce, Ko Ko, Now’s the Time, Ornitology (per citare solo le più famose) rappresentano una vera e propria rivoluzione nel mondo musicale afro-americano, segnando per sempre la storia del jazz. In particolare Ko Ko viene generalmente considerata essere la prima registrazione di un brano in stile bebop mai effettuata, oltre che il manifesto musicale del nascente genere. Preda del disordine personale, schiavo dell’alcol per la difficoltà di reperire eroina da cui era dipendente fin dall’adolescenza, Parker ebbe una crisi di follia durante l’incisione di Lover Man (1946). Ricoverato in un ospedale psichiatrico, si riprese; nel 1947-48 diresse un quintetto comprendente Miles Davis e attraversò la sua stagione più serena e feconda. Abbandonato da Miles Davis e Max Roach, stanchi di sopportarne le eccentricità, proprio mentre veniva accettato come stella del nuovo stile e della relativa moda, Parker cadde vittima delle proprie intemperanze verso un ambiente in cui la notorietà ormai raggiunta, i club di classe e le grandi case discografiche esigevano un comportamento adatto alle convenzioni sociali e industriali: di fronte alle esigenze dell’establishment, Parker ormai era completamente indifeso. Morì a soli 34 anni e il medico legale stimò che ne avesse venti di più: non fu neanche in grado di stabilire una causa precisa e alla fine scrisse «polmonite».

·        100 anni dalla nascita di Gianni Rodari.

Cento anni fa la nascita di Gianni Rodari, l'uomo che cambiò la fantasia. Andrea Mazzotta su Il Quotidiano del Sud il 23 ottobre 2020. IL 23 OTTOBRE del 1920, ad Omegna, in Piemonte, nasce Gianni Rodari e tutto cambia. La storia della letteratura italiana, l’approccio e il rapporto di un popolo con la fantasia, con l’immaginario, si rivoluziona e partono le lancette del cambiamento che porterà ad una nuova percezione della dimensione fantastica. A volte basta un solo uomo e il suo pensiero per cambiare ogni cosa. Certo, di uomini come Gianni Rodari ne nasce uno ogni cent’anni… proprio per questo motivo venerdì prossimo la celebrazione dei cento anni dalla sua nascita acquisiscono un valore particolare, unico, speciale. Rivoluzionario. Chi è stato Gianni Rodari, e chi sia tutt’ora, sebbene siano passati quarant’anni dalla sua scomparsa, è domanda impenitente e impertinente, che non tollera una sola risposta, e quelle che accetta non possono rispettare un’etichetta cronologica, né un desiderio di completezza. Rodari lo si può celebrare solo raccontando la sua storia (o parte di essa), di uomo, di scrittore, di pedagogista, di giornalista… di rivoluzionario. Il Rodari che vive nell’immaginario collettivo fu scrittore e affabulatore che raccontava favole al telefono, filastrocche in cielo e in terra, storie e parole per giocare, fiabe e fantafiabe, novelle fatte in macchina e che spiegava come solo lui sa fare perché i re sono re. La sua produzione è come un mare fatto di parole che onda dopo onda si infrangono sulla battigia, lasciando storie al ritirarsi della marea. Rodari fu anche giornalista impegnato, che mise la sua prosa al servizio dei più deboli e di quelle lotte sociali che meritano di essere combattute e raccontate. Ma su tutto, Rodari fu in primo luogo un educatore e un formatore, quando questa parola non aveva ancora il carisma della verità che ha oggi. Era questa la sua più intima essenza. Educò i più piccoli all’immaginazione e i più grandi a capire il valore di quell’immaginazione come linguaggio per parlare ai bambini, come chiavistello per entrare nei loro mondi. Nel suo primo libro, nel 1951, Manuale del pioniere (Edizioni di cultura sociale) Rodari si mostra ideologo del suo tempo. Si sofferma su concetti dalla valenza sociale quale la democrazia, la pace, la ricerca del giusto in un mondo ingiusto, ma lo fa ponendo già da allora la lente di ingrandimento sui bambini e sui ragazzi. Si rivolge agli educatori del tempo e chiede loro la prima rivoluzione di metodo: non l’imposizione, ma l’offerta dell’attenzione, la ricerca di comprensione, di empatia con gli interessi dei ragazzi, in modo da capirne la dimensione esistenziale e trovare il meccanismo con cui far scattare la creatività e il coinvolgimento. Per quell’opera venne “scomunicato” dal Vaticano, che lo definì “Ex-seminarista cristiano diventato diabolico” (Nel 1931 la madre dell’autore lo fece entrare in un seminario, ma comprese ben presto che non era la strada giusta per il figlio). Le parrocchie bruciavano così copie del manuale, ed altri suoi libri, tanto che trovare oggi una prima edizione dell’opera è una vera sfida. Tutto ciò avvenne in seguito alla così detta Scomunica dei comunisti, cioè il decreto della Congregazione del Sant’Uffizio pubblicato il 1 luglio del 1949. Il decreto dichiarava illecita, a detta della Congregazione stessa, l’iscrizione al partito comunista, nonché ogni forma di appoggio ad esso. La Congregazione dichiarò inoltre che tutti coloro che professavano la dottrina comunista erano da ritenere apostati, quindi incorrevano nella scomunica. Rodari al tempo dirigeva la rivista Il Pioniere, il Settimanale di tutti i ragazzi d’Italia legato all’Associazione Pioniere d’Italia (API), realtà che era alla base del crescente interesse e di un progetto ben delineato del PCI per l’educazione delle giovani generazioni. Viene chiamato a Roma da Giancarlo Pajetta per fondare e dirigere quella che si rivelerà un’esperienza da cui germogliò la sua visione. Il settimanale non aveva una politica editoriale edulcorata. Rodari, che fu maestro di fantasia, riteneva che la realtà non dovesse mancare nella formazione dei ragazzi, tanto che Il Pioniere presentò anche fatti cronica, scioperi, scontri tra operai e polizia, con feriti e morti. Al tempo stesso Rodari non tralasciò mai la parte dell’immaginario, tanto che rimase alle cronache un suo scontro con Nilde Iotti , avente a tema il valore dei fumetti. La Iotti sosteneva che i fumetti fossero “tra le cause di irrequietezza, di scarsa riflessività, […] di tendenza alla violenza […] della gioventù”. In realtà la prima donna Presidente della Camera sbagliava ritenendo, e restando influenzata da ciò, che il fumetto fosse stato“Lanciato da Hearst, imperialista cinico e fascista”, dato che il primo a promuoverlo fu Pulitzer (si, proprio colui a cui fu intestato l’ambito premio giornalistico) sulle pagine domenicali del New York World con Yellow Kid. Quella di Hearst fu solo una risposta alla concorrenza, anche se sfruttò i fumetti e il genio dei suoi autori, primo tra tutti Winsor McCay, per fini politici. Ma questa è un’altra storia. Quella che ci piace raccontare è quella di Rodari, che sulle pagine di Rinascita, sostenne che il fumetto aveva la forza di smarcarsi dai canoni statunitensi e conquistare una nuova autonomia espressiva utile alla diffusione di idee progressiste tra le masse. “Accanto ai libri – scrive Rodari in una lettera la direttore – possono i fumetti essere uno strumento, anche secondario, in questa lotta oggi? Se non possono smettiamo di stamparli”. I fumetti non sparirono, nonostante la dura risposta a Rodari di Togliatti, che era appunto il direttore di Rinascita, il quale dichiarò. “Per conto nostro non metteremo a fumetti la storia del nostro partito o della rivoluzione”. Aveva ragione Rodari, visto che di racconti a fumetti dedicati al Comunismo e alla desiderata rivoluzione citata ce ne sono oggi a bizzeffe. Ma il focus non è la solo la figura di un uomo che resta sempre sé stesso anche a fronte del vento che gli soffia contro tanto da destra quanto da sinistra, ma piuttosto la capacità del pedagogista di guardare oltre i suoi tempi. Lo dimostrerà di nuovo nel 1973 con la Grammatica della fantasia. Introduzione all’arte di inventare storie, la sua opera di pura teoria più importante. “Quello che io sto facendo – scriverà l’autore – è di ricercare le ‘costanti’ dei meccanismi fantastici, le leggi non ancora approfondite dell’invenzione, per renderne l’uso accessibile a tutti. Insisto nel dire che, sebbene il Romanticismo l’abbia circondato di mistero e gli abbia creato attorno una specie di culto, il processo creativo è insito nella natura umana ed è quindi, con tutto quel che ne consegue di felicità di esprimersi e di giocare con la fantasia, alla portata di tutti”. Rodari non si limita a codificare alcuni meccanismi narrativi e le genesi da cui derivano. Si rivolge “a chi crede nella necessità che l’immaginazione abbia il suo posto nell’educazione; a chi ha fiducia nella creatività infantile; a chi sa quale valore di liberazione possa avere la parola”. Il racconto diviene dunque educazione, strumento di formazione e la formazione, soprattutto per i più giovani, resta una preghiera alla dea speranza, per un futuro che ci trovi più pronti. Gianni Rodari, a 100 anni dalla sua nascita lo vogliamo ricordare e celebrare così: come l’uomo che sapeva già allora che alla fine saranno i nostri ragazzi a salvarci tutti, magari proprio grazie all’invenzione di una storia fantastica.

Gianni Rodari, pedagogo e giornalista, è considerato il maggiore favolista del Novecento. Nato a Omegna (VB) il 23 ottobre 1920 è scomparso a Roma il 14 aprile 1980. Pubblicato mercoledì, 01 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Fallai. Ottenuto il diploma magistrale e lasciata l’università, insegnò per qualche tempo in alcune scuole elementari della zona di Varese. Nel 1944 aderì alla Resistenza contro il nazifascismo e si iscrisse al Pci, divenne funzionario del partito e ricevette l’incarico di dirigere il settimanale comunista L’Ordine Nuovo. Nel 1950 il Partito comunista lo chiama a Roma a dirigere con Dina Rinaldi il settimanale per bambini, il «Pioniere», il cui primo numero esce il 10 settembre 1950. Ed è in questa occasione che Rodari si trova di impostare e inventare temi, personaggi, storie, un vero e proprio linguaggio, per parlare ai ragazzi di pace, giustizia sociale, razzismo, solidarietà. Nessuno aveva pensato prima di quel momento che si potessero affrontare temi come questi per parlare ai ragazzi. Negli anni ‘50 cominciò a dedicarsi alla scrittura per l’infanzia. Compose filastrocche, poesie, favole e romanzi; tra le sue opere più famose: Il romanzo di Cipollino, Gelsomino nel paese dei bugiardi, La torta in cielo, C’era due volte il barone Lamberto e Filastrocche in cielo e in terra. Nel 1970 ricevette il premio Andersen, il massimo riconoscimento nell’ambito della letteratura per l’infanzia, che lo fece conoscere in tutto il mondo. Nel 1973 uscì il suo capolavoro pedagogico: Grammatica della Fantasia; introduzione all’arte di inventare storie, saggio indirizzato a insegnanti, genitori e animatori nonché frutto di anni di lavoro passati a relazionarsi con il campo della «fantastica». «La parola singola — scrive Rodari nel capitolo dedicato al “binomio fantastico” — “agisce” solo quando ne incontra una seconda che la provoca, la costringe a uscire dai binari dell’abitudine, a scoprire nuove capacità di significare. Non c’è vita, dove non c’è lotta». La tesi del binomio fantastico «sta a Rodari come quella del fanciullino sta a Pascoli» scrisse sul «Corriere» Giulio Nascimbeni nel 1974, «con la differenza che questa è una tesi per la quale non serve essere poeti con l’alloro, ma semplicemente bambini». Per questo Grammatica della fantasia non poteva essere, scriveva su «Paese Sera» Tullio De Mauro, «un accigliato e grave libro sulla meta teorizzazione della struttura epigenetica del favolistico ma un libro che viene voglia di leggere a tutti», un libro in cui «un artista ha messo in tavola le carte del suo gioco». Basta (a Rodari, certo, ma anche a molti bambini, se si ha la pazienza di ascoltare certi loro giochi) prendere due parole come «cane» e «armadio» per inventare una serie di storie straordinarie («Un cane passa per la strada con un armadio sulla groppa. È la sua cuccia, cosa ci volete fare», oppure: «Il dottor Polifemo rincasa, apre l’armadio per prendere la giacca da camera e vi trova un cane»). E tuttavia, come scrive Pino Boero nella sua biografia letteraria «Una storia, tante storie», l’operazione della Grammatica «non ha davvero le caratteristiche dell’improvvisazione». «Le citazioni che emergono quasi in ogni pagina e che sembrano giocate come riferimenti remoti e un po’ casuali della memoria — sostiene Boero — rappresentano in realtà il tessuto connettivo dei capitoli». Perché l’opera di Rodari «non è solo funambolismo inventivo e linguistico, ma è anche — e soprattutto — adesione ai problemi, capacità di elaborazione formale, sicurezza di scrittura».

·        100 anni dalla nascita di Charles Bukowski.

Nato ad Andernach, cittadina tedesca sul Reno a 18 chilometri da Coblenza, il 16 agosto 1920, Charles Bukowski scrittore e poeta, è morto a Los Angeles il 9 marzo 1994. Pubblicato mercoledì, 01 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Fallai. Per lui è davvero difficile trovare confini e definizioni, a cominciare dal nome: era nato Heinrich Karl Bukowski, ma negli Stati Uniti dove arrivò bambino è noto come Henry Charles «Hank» Bukowski, o con lo pseudonimo Henry Chinaski. Maria Luisa Agnese, sul Corriere della Sera lo ha definito «il poeta dalla vocazione barbonesca, che prima ancora di diventare idolatrato in Europa e negli Stati Uniti aveva costruito, del tutto inconsapevolmente, un bel romanzo sulla sua esistenza, aveva fatto della sua vita una biografia letteraria dai toni anarcoidi e maledetti che starebbe in piedi anche se non avesse mai scritto una riga delle sue poesie lapidarie (“Amore è una sigaretta col filtro ficcata in bocca e accesa dalla parte sbagliata”) e non avesse firmato i 40 e oltre libri ancora oggi venduti in tutto il mondo. The dirty old man, insomma qualcosa come il vecchio porco, aveva attraversato la vita standone apparentemente ai margini ma in realtà consapevole di coglierne l’essenza, con le sue frequentazioni dell’altra America, quella degli uomini qualunque che incontri nelle tavole calde e nei coffee bar. La sua vita insomma si intrecciava con quella minima di un’America da suburbia». Charles vive di alcol, vagabondaggio, lavoretti e scommesse alle corse (sua grande passione) per lo più fallite, poi accetta un lavoro alle Poste. È leggendo Céline che si consolidò il suo incondizionato rifiuto per ogni forma di lavoro regolamentato. Intanto piano piano diventava il re della cultura underground, ma in modo parallelo alla beat generation. Vicino a quel movimento (anche se da alcuni per errore ne è stato assimilato), ma vagabondo e solitario era nato e non poteva essere intruppato. Nel 1969 accettò un’offerta dall’editore della Black Sparrow, John Martin: 100 dollari al mese per tutta la vita. Decise perciò di lasciare il lavoro alle poste per dedicarsi alla scrittura a tempo pieno. Il suo credo politico è ben sintetizzato da questa sua frase: «Non ero schierato con nessun gruppo o ideologia. In realtà nell’insieme l’idea della vita e della gente mi ripugnava ma era più facile scroccare da bere a quelli di destra che alle vecchie nei bar. La differenza tra dittatura e democrazia è che in democrazia prima si vota e poi si prendono ordini, in dittatura non dobbiamo sprecare il nostro tempo andando a votare».Tra le sue opere principali Storie di ordinaria follia (da cui Marco Ferreri ha tratto un film nel 1981 con Ben Gazara e Ornella Muti), Pulp. Una storia del XX secolo, Hollywood Hollywood.

·        100 anni dalla nascita di Nilde Iotti.

È stata la prima donna nella storia dell’Italia repubblicana a ricoprire una delle tre massime cariche dello Stato, la presidenza della Camera dei deputati, incarico che mantenne per tre legislature tra il 1979 e il 1992, un primato mai uguagliato nella storia della Repubblica: Nilde (Leonilde) Iotti era nata a Reggio Emilia il 10 aprile 1920 e morì in una clinica a Poli, tra Palestrina e Tivoli, non lontano da Roma, il 4 dicembre 1999. Pubblicato mercoledì, 01 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Fallai. Aveva partecipato alla Resistenza come staffetta e poi nelle fila dei Gruppi di difesa della donna, fondati dal PCI per aiutare le famiglie «dei partigiani, dei fucilati, dei carcerati, degli internati in Germania», e dopo la Liberazione era diventata un’attivista dell’UDI (Unione Donne Italiane). È stata una delle 21 donne elette alla Assemblea costituente e una delle cinque partecipanti (insieme alle comuniste Maria Federici e Teresa Noce, alla democristiana Angela Gotelli e alla socialista Lina Merlin) alla Commissione dei 75, incaricata di redigere il progetto di Costituzione dove si batté per affermare il principio della parità tra i coniugi, del riconoscimento dei diritti dei figli nati fuori dal matrimonio e delle famiglie di fatto, opponendosi all’introduzione del principio dell’indissolubilità del matrimonio nel testo costituzionale; si batté inoltre per l’apertura della carriera in magistratura anche alle donne, un tema che allora incontrava ancora una forte opposizione, soprattutto da parte cattolica. Nel 1946 iniziò a Roma la sua relazione con il Segretario Nazionale del PCI, Palmiro Togliatti, di 27 anni più anziano di lei (e già sposato con Rita Montagnana e padre di Aldo), che terminerà soltanto con la morte del leader comunista, nel 1964. Il loro legame divenne pubblico dopo l’attentato del 1948. Togliatti lasciò a Mosca la moglie Rita Montagnana e il figlio Aldo malato di schizofrenia, che avrebbe poi passato decenni tra cliniche e istituti psichiatrici. Togliatti e Nilde Iotti chiesero e ottennero l’affiliazione di una bambina orfana, Marisa Malagoli, sorella minore di uno dei sei operai uccisi da agenti della Celere il 9 gennaio 1950, a Modena, nel corso di una manifestazione operaia. Quella relazione è costata per anni a Nilde Iotti, non solo gli attacchi degli avversari politici, ma anche la freddezza dello stato maggiore del Partito Comunista. Un ostracismo che di fatto si sarebbe stemperato solo dopo la morte di Palmiro Togliatti nel 1964, ma mai superato del tutto a dimostrazione della diffusa discriminazione bigotta e sessista dell’intera società italiana. Politicamente Nilde Iotti ha legato la sua attività ai diritti civili come il divorzio e alle battaglie per la parità della donna. L’autorevolezza conquistata in anni di attività parlamentare ed una stima trasversale, portarono alla sua elezione alla Presidenza della Camera nel 1979, un anno difficilissimo per la storia della Repubblica, tra terrorismo e crisi economica. Era il 20 giugno: nel suo discorso d’insediamento dichiarò la propria «emozione per essere la prima donna nella storia d’Italia a ricoprire una delle più alte cariche dello Stato» e, rivolta ai deputati, aggiunse: «io stessa, non ve lo nascondo, vivo quasi in modo emblematico questo momento, avvertendo in esso un significato profondo che supera la mia persona e investe milioni di donne che attraverso lotte faticose, pazienti e tenaci si sono aperte la strada verso la loro emancipazione. Essere stata una di loro e aver speso tanta parte del mio impegno di lavoro per il loro riscatto, per l’affermazione di una loro pari responsabilità sociale e umana, costituisce e costituirà sempre un motivo di orgoglio della mia vita».

Nilde Iotti, cento anni dalla nascita. Mattarella: "Simbolo di emancipazione femminile". Nel '46 fece parte della Costituente. Il 20 giugno del '79 fu eletta Presidente della Camera. Il Capo dello Stato: "È stata la madre della Repubblica". Laura Mari il 10 aprile 2020 su La Repubblica. Dalla lotta con le donne partigiane fino agli scranni del Parlamento. Simbolo di imparzialità e paladina nella battaglia per l'emancipazione femminile, Nilde Iotti è stata una delle figure più importanti della storia italiana e della nascita della Costituzione. "Il suo percorso civile e politico reca impressi i caratteri di quella straordinaria crescita democratica, che ha consentito al nostro popolo di liberarsi dal fascismo, di dotarsi di una Costituzione rispettosa degli originari e inviolabili diritti della persona, di progredire nel benessere economico e nella solidarietà sociale", ha sottolineato il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione della ricorrenza dei cento anni dalla nascita dell'esponente comunista.

Chi è Nilde Iotti. Nata a Reggio Emilia il 10 aprile del 1920, figlia di un ferroviere e orfana a 14 anni, dopo la laurea in Lettere e Filosofia, NIlde Iotti insegnò fino al 1946. La sua storia si lega indissolubilmente a quella della Resistenza contro il fascismo. Durante la Seconda Guerra Mondiale, entrò infatti a far parte dei Gruppi di difesa della donna, che sostenevano i Comitati di liberazione periferici durante le agitazioni nelle fabbriche che portavano ai sabotaggi della produzione. Partigiana convinta, con la fine del conflitto mondiale Nilde Iotti divenne, nel luglio del 1945, segretario provinciale dell'Unione donne in Italia. Ma la Nazione pensava già alla ripartenza e alla Ricostruzione e, soprattutto, a dotarsi di un apparato legislativo su cui fondare la nascita della Repubblica italiana. Nel 1946 Iotti entrò a far parte, sotto le fila dell'allora Partito Comunista Italiano (Pci), dell'Assemblea Costitutente presieduta da Giuseppe Saragat. "Fu una delle 21 donne elette nell'Assemblea costituente, una delle cinque chiamate nella Commissione dei Settantacinque. A pieno titolo - ha precisato il Presidente Mattarella - la consideriamo una delle madri della Repubblica, anche perché spese tutta la vita nelle istituzioni per dare piena attuazione ai principi costituzionali e consolidare così i legami tra democrazia e società".

Nilde Iotti e l'emancipazione femminile. Sin dal suo impegno nella Costituente, Nilde Iotti ha mostrato la sua attenzione per la condizione femminile. Entrò a far parte della sottocommissione impegnata a preparare una stesura di articoli dedicati ai diritti e doveri dei cittadini e con il democristiano Camillo Corsanego sostenne la necessità di emancipare la donna all'interno della famiglia e della condizione sociale. La donna, secondo Iotti, doveva essere pensata non più come moglie e madre, ma come cittadina, con pari dignità sociale e si battè, durante i lavori nella Costituente, per affermare il principio di parità tra i coniugi e il riconoscimento dei diritti dei figli nati fuori dal matrimonio e delle famiglie di fatto. La sua fu una battaglia a tutto campo per l'emancipazione femminile, al punto che intervenendo nella sottocomissione più volte si disse contraria all'introduzione, nella Costituzione, di un articolo che sostenesse il principio dell'indissolubilità del matrimonio. In sostanza, fu il primo passo verso la concessione del divorzio.

L'elezione in Parlamento. Membro del Partito Comunista, nel 1962 entrò a far parte della direzione nazionale e nello stesso anno fu eletta per la prima volta in Parlamento. Nell'Aula di Montecitorio si impegnò per la concessione del divorzio, che fu poi introdotto dopo il referendum del 1974. Per 10 anni, dal 1969 al 1974, ricoprì il ruolo di deputato al Parlamento europeo, ma la svolta nella sua carriera politica e nella storia italiana porta la data del 1979. In quell'anno Iotti fu eletta, prima fra le donne, Presidente della Camera dei Deputati e ricoprì l'incarico per tre legislature, fino al 1992. "Nei quasi tredici anni di presidenza svolse il suo compito con rigore, con imparzialità, con un forte senso delle istituzioni: questi grandi meriti sono stati da ogni parte riconosciuti e apprezzati", ha detto il Capo dello Stato. "La sua forte passione politica, a cui mai ha rinunciato nella vita del suo partito e nel dibattito pubblico - ha aggiunto - non ha oscurato in lei la coscienza del bene comune, la piena responsabilità nazionale delle istituzioni democratiche, l'orizzonte europeo che sempre più si mostrava come un cruciale traguardo storico. Il suo impegno e la sua testimonianza rimangono patrimonio della memoria della Repubblica".

La relazione con Togliatti. Alla fine degli anni '40 Nilde Iotti conobbe Palmiro Togliatti, pilastro del Pci. La loro fu sin dall'inizio una relazione scandalosa per l'epoca in cui la vissero. Togliatti era sposato con Risa Montagnana ed era padre di due figli avuti dalla consorte. Nonostante questo, Iotti e Togliatti restarono legati per tutta la vita, al punto che andarono a vivere in un abbaino all'interno della sede del Pci in via delle Botteghe Oscure a Roma e, in seguito, si trasferirono in un'abitazione del quartiere capitolino di Montesacro.

Centenario dalla nascita di Nilde Iotti: le reazioni. Nel giorno del centenario dalla nascita di Nilde Iotti, in tanti hanno voluto ricordare una delle figure più importanti della storia civile e politica italiana. "Testimoniò in tutto il suo percorso una visione alta della politica, come attività nobile e disinteressata e strumento per cambiare la società, promuovendo dignità, libertà e diritti", ha dichiarato la presidente del Senato, Elisabetta Casellati. "Tutto questo - ha aggiunto - rende prezioso e attuale il suo esempio e la sua eredità". Per la vicepresidente della Camera, la cinquestelle Maria Edera Spadoni, Iotti è un "fondamento della nostra società, fu una donna che si distinse per la sua imparzialità e per le sue battaglie in nome della giustizia sociale, per il divorzio e per il diritto all'aborto in un'epoca in cui esisteva ancora il delitto d'onore. Una donna che ha saputo essere se stessa nonostante tutto e tutti". Per Chiara Braga, coordinatrice del programma della segreteria nazionale del Pd, Iotti è "una delle figure più prestigiose del nostro Paese, che ha consegnato soprattutto alle giovani donne, anche a distanza di anni, un testimone prezioso e sempre attuale, una fonte di costante ispirazione per chi vuole impegnarsi per cambiare ogni giorno e rendere migliore e più giusta la nostra societa'. A lei va tutta la nostra gratitudine e il nostro affetto".

Nilde Iotti, 20 anni fa scompariva la prima italiana Presidente della Camera. Roberta Caiano il 4 Dicembre 2019 su Il Riformista. Il 4 dicembre del 1999 scompare all’età di 79 anni Nilde Iotti. Insegnante, dirigente comunista e prima donna in Italia ad essere nominata Presidente della Camera dei deputati è ancora ricordata come una delle donne più famose e influenti della storia del nostro Paese. La sua profusione nella vita politica e sociale attraverso le battaglie di resistenza l’hanno portata ad essere fonte di ispirazione per le generazioni successive. Ma ancor di più, è considerata una pietra miliare nel mondo della parità dei sessi e dell’emancipazione femminile grazie al suo contributo per l’introduzione di molte delle leggi di cui oggi le donne beneficiano.

LA STORIA – Leonilde Iotti, conosciuta solo come Nilde, è nata a Reggio Emilia il 10 Aprile del 1920. Figlia di un ferroviere attivista nel movimento operaio socialista, é cresciuta in un ambiente di gravi difficoltà economiche. Il padre Egidio fu licenziato a causa del suo impegno politico e in seguito fu perseguitato durante il periodo del regime fascista. Ma nonostante le condizioni familiari non agiate, il padre iscrisse la figlia all’Università Cattolica di Milano per permetterle di studiare. Grazie all’ottenimento di borse di studio ha potuto continuare a studiare alla Cattolica laureandosi alla facoltà di Lettere e Filosofia nel 1942, dove ebbe come professore Amintore Fanfani. Nello stesso anno comincia ad esercitare la professione di insegnante in alcuni Istituti Tecnici Industriali della zona emiliana, per poi concludere la sua esperienza nel mondo dell’insegnamento nel 1946. Grazie anche all’esempio di suo padre, Nilde si iscrisse al Partito Comunista Italiano nel 1943, periodo che coincideva con l’adesione dell’Italia alla Seconda Guerra Mondiale. Inizialmente si impegnò come porta-ordini, uno dei ruoli più significativi e pericolosi assunti dalle donne durante la Resistenza attraverso la quale i partigiani lottarono portando l’Italia alla liberazione dall’occupazione nazi-fascista. La sua partecipazione attiva tra i partigiani di Reggio Emilia le consentì poco più che ventenne di essere designata responsabile dei Gruppi di Difesa della Donna, struttura molto attiva nella guerra di liberazione. I Gruppi di Difesa della Donna (GDD) e di Assistenza ai Combattenti della Libertà partirono da Milano per poi estendersi su tutto il territorio italiano ancora occupato dai tedeschi con l’obiettivo di mobilitare, attraverso un’organizzazione capillare e clandestina, donne di età e condizioni sociali differenti per fronteggiare le devastazioni della guerra. Infatti, questi gruppi femminili si occupavano di distribuire indumenti, medicinali, alimenti per i partigiani e si adoperavano per portare messaggi, custodire liste di contatti, preparare case-rifugio, trasportare volantini ed anche armi. E’ proprio dal suo impegno ai Gruppi di Difesa della Donna che Nilde portò avanti le sue idee sull’emancipazione e i diritti per le donne. Il suo nome è molto spesso ricordato anche in merito alla relazione avuta con Palmiro Togliatti guida storica del Partito Comunista e compagno di vita per oltre 18 anni, fino alla morte del politico.

LA VITA POLITICA – Da responsabile dei GDD e segretaria dell’UDI di Reggio Emilia, a soli ventisei anni Nilde entra a far parte del Parlamento italiano ricoprendo il ruolo di semplice deputato. In seguito viene eletta al Consiglio Comunale come indipendente nelle liste del PCI per poi diventare membro dell’Assemblea Costituente. Il ruolo svolto nell’ambito della Costituente a favore dei diritti delle donne e per le famiglie, segnò l’impegno che Nilde profuse nella sua attività parlamentare condotta ininterrottamente per 53 anni. Nel 1948 la Iotti viene eletta per la prima volta alla Camera dei deputati, riconfermata per le successive legislature. Questo fino a quando nel 1979 viene eletta al primo scrutinio e prima donna nella storia parlamentare italiana come Presidente della Camera. Dopo di lei ci sono state soltanto altre due donne a ricoprire questo ruolo: Irene Pivetti nel 1994 e Laura Boldrini nel 2018. Nilde Iotti è stata Presidente sino al 18 Novembre 1999, quando ha deciso di dimettersi per motivi di salute. Non appena ottenne la carica le sue dichiarazioni furono: “Io stessa – non ve lo nascondo – vivo quasi in modo emblematico questo momento, avvertendo in esso un significato profondo, che supera la mia persona e investe milioni di donne che attraverso lotte faticose, pazienti e tenaci si sono aperte la strada verso la loro emancipazione”.  Sin dagli albori della sua ascesa politica, Nilde si è sempre prodigata affinché le donne potessero integrarsi nella società non solo abbattendo i pregiudizi ma soprattutto da un punto di vista legislativo. Infatti, quando entrò a far parte della “Commissione dei 75” predispose la Relazione sulla Famiglia, auspicando il superamento dello Statuto Albertino con una nuova Carta Costituzionale che si occupasse dei diritti della famiglia del tutto ignorati dallo Statuto, ormai disapplicato soprattutto in vista della fine del fascismo. Per la Iotti, dunque, il caposaldo della nuova Costituzione deve essere il rafforzamento della famiglia: “L’Assemblea Costituente deve inserire nella nuova Carta Costituzionale l’affermazione del diritto dei singoli, in quanto membri di una famiglia o desiderosi di costruirne una ad una particolare attenzione e tutela da parte dello Stato”. Altro aspetto fondamentale della relazione riguarda i diritti della famiglia era sicuramente la posizione della donna: “Uno dei coniugi poi, la donna, era ed è tuttora legata a condizioni arretrate, che la pongono in stato di inferiorità e fanno sì che la vita familiare sia per essa un peso e non fonte di gioia e aiuto per lo sviluppo della propria persona. Dal momento che alla donna è stata riconosciuta, in campo politico, piena eguaglianza, col diritto di voto attivo e passivo, ne consegue che la donna stessa dovrà essere emancipata dalle condizioni di arretratezza e di inferiorità in tutti i campi della vita sociale e restituita ad una posizione giuridica tale da non menomare la sua personalità e la sua dignità di cittadina”. In quest’ottica fu una donna lungimirante in quanto sin da quando mosse i primi passi nel Parlamento riuscì a porre l’attenzione sulla donna in quanto tale e sul suo diritto a lavorare. Per questo premette affinché la nuova Costituzione dovesse assicurare il diritto al lavoro “senza differenza di sesso”. Inoltre, sempre nella relazione sul diritto alla famiglia, un altro elemento su cui si focalizzava era la questione dell’indissolubilità del matrimonio “considerandolo tema della legislazione civile”. Infine, arriva all’argomento della maternità che secondo lei non doveva essere più intesa come “cosa di carattere privato” ma come “funzione sociale” da tutelare. Infatti, uno degli articoli di maggiore impatto innovativo della proposta costituente si basava sul principio dell’uguaglianza giuridica dei coniugi. Questi ultimi per lei hanno eguali diritti e doveri nei confronti dei figli per la loro alimentazione, educazione ed istruzione. Nel corso di mezzo secolo vissuto a pieno all’interno delle istituzioni repubblicane, Nilde fu promotrice della legge sul diritto di famiglia del 1975, della battaglia sul referendum per il divorzio del 1974 e per la legge sull’aborto del 1978. Nel 1993 ottenne la Presidenza della Commissione Parlamentare per le riforme istituzionali e nel 1997 venne eletta Vicepresidente del Consiglio d’Europa. La decisione di lasciare l’incarico a metà novembre del 1999 destò grande rispetto da parte di tutto lo schieramento parlamentare che la salutò tra gli applausi. Infatti dopo pochi giorni, il 4 dicembre, Nilde morì per un arresto cardiaco. In molte parti d’Italia al nome di Nilde Iotti sono intitolati, asili e organizzazioni giovanili. L’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in occasione di una giornata commemorativa in memoria di Nilde Iotti di qualche anno fa scrisse: “Nilde Iotti, con la quale ho condiviso una lunga attività parlamentare e intrattenuto un rapporto di feconda amicizia, ha rappresentato un esempio altissimo di rigore morale, di forte passione civile, di intelligente e totale impegno al servizio delle istituzioni del paese. Nella sua vicenda umana e politica si riflette la storia stessa dell’Italia repubblicana, che ella ha accompagnato nel cammino di ricostruzione e di sviluppo dai banchi dell’Assemblea costituente e poi della Camera dei Deputati, di cui per lungo tempo fu presidente unanimemente apprezzata, garanzia di libero confronto per tutti i gruppi politici. La lezione politica di Nilde Iotti, anche nella costante affermazione del principio costituzionale dell’uguaglianza della donna nella società, nel lavoro e nelle professioni, mantiene oggi intatta tutta la sua forza e attualità: una eredità che è patrimonio dell’intero paese”.

LA FICTION – A 20 anni dalla sua scomparsa e a 40 anni dalla sua nomina a presidente, la RAI ha voluto rendere omaggio alla Presidente attraverso la docufiction ‘Storia di Nilde‘, prodotta da Gloria Giorgianni per Anele in collaborazione con Rai Fiction e diretta da Emanuele Imbucci. La protagonista sarà interpretata dall’attrice Anna Foglietta, che ripercorrerà la storia umana e politica di Nilde Iotti. La ricostruzione sarà alternata a materiali di repertorio e testimonianze, tra cui troviamo quella dell’ex Presidente della Repubblica e Senatore a vita Giorgio Napolitano e di Marisa Malagololi Togliatti, figlia adottiva di Nilde e Togliatti. La docufiction andrà in onda giovedì 5 Dicembre come monito e ricordo nei confronti della generazione che l’ha vissuta ma anche delle nuove generazioni che possono solo trarne ispirazione.

Ilviaggiodellacostituzione.it il 3 dicembre 2019. La storia narra che l’amore tra Nilde Iotti e Palmiro Togliatti sia nato in un ascensore. Palmiro Togliatti la vede con indosso un vestito a fiorellini con un colletto bianco di pizzo e chiede subito al cronista dell’Unità che lo accompagna, Emanuele Rocco, chi sia quella deputata: "Si chiama Nilde Iotti, è di Reggio Emilia". Più avanti galeotta sarà una leggera carezza di Togliatti alla sua chioma mentre scendono lo scalone di Montecitorio: seguono poi delle appassionate conversazioni sui poemi cavallereschi di Ariosto e di Boiardo, qualche incontro clandestino e infine l’amore.  Togliatti avverte una «vertigine davanti a un abisso», la Iotti sente «sgomento per questo immenso mistero d’amore che mi dà le vertigini» (come rivelato nel carteggio tra i due, pubblicato nella biografia “Nilde Iotti. Una storia politica al femminile” di Luisa Lama). Palmiro Togliatti, detto il “Migliore”, è più grande della Iotti di 27 anni ed è sposato: la moglie, Rita Montagnana, è un esponente di spicco del Partito Comunista, ha fatto la Resistenza e con Togliatti ha un figlio, Aldo. Nonostante l’avere una relazione extraconiugale sia un reato penale (il cosiddetto “concubinato”), Togliatti e la nuova compagna non riescono a rinunciare al loro amore: il segretario del PCI chiede al compagno di partito Pietro Secchia di trovare una sistemazione per lui e la Iotti ma alla fine i due andranno a vivere in un umido abbaino all’ultimo piano di Botteghe Oscure, sede del PCI, e poi in un villino a Montesacro. Il loro sarà sempre una convivenza more uxorio, mai ufficializzata, sempre contestata dalla legittima moglie ma soprattutto dal partito, il quale arriva a installare delle microspie per sorvegliarli. Pietro Secchia informa anche Stalin della “crisi personale del segretario”, spera di spedire lontano Togliatti al Comintern russo o al Cominform di Praga e arriva ad insinuare dubbi sul comunismo della deputata, la quale ha studiato alla Cattolica e ha preso parte ai comizi del cattolico Giuseppe Dossetti. Questo porterà la Iotti a scrivere un’accorata lettera a Luigi Longo, vicesegretario del PCI, per lamentare la posizione subalterna a cui è relegata per non aver saputo rinunciare al legame con il Migliore: «Sono passati più di sei mesi… nessuna responsabilità di lavoro mi è stata affidata. Questo pone una compagna in una posizione non giusta, quasi di un’intrusa. […] Oggi io chiedo di poter lavorare e di poter rispondere del mio lavoro di fronte al partito e all’organizzazione a cui fin dall’inizio ho dato i miei sforzi, credo con discreto risultato». Il loro amore non sarà mai coronato da un figlio naturale ma dall’adozione di una bambina rimasta orfana, Marisa Malagoli, sorella minore di uno dei sei operai rimasti uccisi negli scontri con le forze dell’ordine il 9 gennaio 1950, a Modena, nel corso di una manifestazione. Aldo, il figlio di Togliatti, sarà la persona che più di tutte soffrirà per la relazione del padre con la Iotti: già sofferente di depressione, dopo la morte della madre Rita sarà internato in un ospedale psichiatrico, dove resterà fino alla sua scomparsa, avvenuta nel 2011. Neanche l’aver fatto scudo a Togliatti gettandosi sul suo corpo, in occasione dell’attentato del 1948 a opera di un esaltato, avrà alcun valore agli occhi degli esponenti del partito: la Iotti dovrà infatti aspettare la morte di Togliatti, nel 1964, per poter essere riconosciuta ufficialmente come sua compagna e vedersi concesso il “privilegio” di sfilare in prima fila dietro al feretro del segretario. Per ottenere il definitivo riconoscimento politico, infine, dovrà attendere il 1979, quando sarà eletta Presidente della Camera, prima donna nella storia della Repubblica.

Da huffingtonpost.it l'8 dicembre 2019. “Era facile amarla perché era una bella emiliana simpatica e prosperosa come solo sanno essere le donne emiliane. Grande in cucina e grande a letto. Il massimo che in Emilia si chiede a una donna”. In questi termini si è espresso Giorgio Carbone, giornalista di Libero, ricordando la figura di Nilde Iotti. Il commento è stato giudicato sessista e misogino, scatenando numerose polemiche contro il giornale. L’Ordine dei Giornalisti ha deciso di deferire Libero per l’articolo. “Sminuire la figura di Nilde Iotti non è solo l’ennesimo insulto a tutte le donne, ma lo è anche per il giornalismo”, hanno dichiarato attraverso una nota le parlamentari del Movimento 5 stelle del gruppo Pari Opportunità alla Camera, “Questo non è giornalismo, ma l’ennesimo articolo denigratorio e privo di contenuto. Non potremo mai raggiungere la piena parità e il rispetto se non si cambia anche la cultura del paese”. Anche il Partito Democratico si è schierato a difesa della Iotti e ha attaccato il quotidiano diretto da Vittorio feltri: “L’articolo di Libero non offende solo la memoria della prima presidente della camera della storia repubblicana, ma tutte le donne italiane, di sinistra e di destra, moderate e radicali, femministe e non”. Sia pentastellati che dem dichiaravano nella nota di voler presentare un esposto all’Ordine dei giornalisti, che è intervenuto sulla vicenda.

La reazione dell’Ordine dei Giornalisti - . “La trasmissione della fiction su Nilde Iotti, a venti anni dalla scomparsa, offre al quotidiano Libero un’altra opportunità per violare le regole principali deontologiche. Sessismo e omofobia: il giornalismo è un’altra cosa. Il riferimento fatto a una grande statista, prima donna in Italia a ricoprire una delle tre massime cariche dello Stato, è volgare e infanga con cinismo e allusioni becere tutte le donne italiane, non solo la prestigiosa figura di Nilde Iotti. Abbiamo già provveduto a segnalare al Collegio di Disciplina territoriale competente questo nuovo infortunio del quotidiano milanese”. Lo dichiarano Carlo Verna e Guido D’Ubaldo, presidente e segretario del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti.  “I contenuti dell’articolo di oggi sono deplorevoli ed infangano la memoria di una grande donna che ha fatto la storia italiana. La competenza delle sanzioni come per tutti gli ordini professionali, in base DPR 137/2012, è passato ai consigli di disciplina, che sono totalmente autonomi rispetto agli Ordini, nei quali riponiamo - come si deve nei confronti di chiunque si veda assegnata da una legge la funzione giudicante - piena fiducia. E ci fa piacere ricordare come pochi giorni fa la giustizia domestica in primo grado abbia disposto la radiazione per l’autore della cosiddetta telecronista sessista contro una guardalinee di calcio. Ancora una volta diciamo no a chi fa male al giornalismo”, hanno aggiunto Verna e D’Ubaldo.

Chi era Nilde Iotti - Staffetta partigiana e storica militante del Pci prima e dei Ds poi, Nilde Iotti è divenuta celebre per essere diventata la prima donna a ricoprire il ruolo di presidente della Camera, nel 1979. La sua figura ha rappresentato un punto di svolta nella politica italiana, segnando il primo passo nel coinvolgimento delle donne all’interno delle istituzioni italiane. A vent’anni dalla scomparsa della Iotti (4 dicembre 1999) e a quarant’anni dalla sua nomina a presidente della Camera dei Deputati, la Rai ha deciso di omaggiarla con la docu-fiction “Storia di Nilde”. Anna Foglietta è l’attrice scelta per interpretare la più longeva presidente della Camera dei deputati della storia della nostra Repubblica (dal 1979 al 1992). Il quotidiano diretto da Vittorio Feltri non ha risparmiato nemmeno lei. Carbone ha infatti proseguito il suo commento sessista facendo un paragone tra Nilde Iotti e Anna Foglietta: “Anna Foglietta, chiamata a raffigurarla sul piccolo schermo (buona scelta, una romana bella e soda, chiamata a interpretare la più in vista della campagna per il divorzio)”. Gli ascolti tv della prima puntata della fiction - Giovedì 5 dicembre è andata in onda la prima puntata di “Storia di Nilde”. La fiction ha registrato un grande successo, conquistando 3.684.000 spettatori pari al 16.2% di share e vincendo la competizione della prima serata con gli altri programmi.

Elisabetta Salvini per huffingtonpost.it l'8 dicembre 2019. Su una cosa ha ragione Giorgio Carbone quando parla di Nilde Iotti: ed è quando dice che era facile amarla. È vero. Era facile amarla, ma non per i motivi stereotipati e sessisti che elenca Carbone e che giustamente hanno suscitato indignazione e rabbia. Era facile perché è sempre facile innamorarsi dell’intelligenza, del garbo, della passione e dell’umiltà. Nilde era così, una donna intelligente, solida e preparata. Una di quelle donne la cui presenza non poteva passare inosservata. La prima ad accorgersene fu Lina Cecchini, la sua insegnante di filosofia che la volle vicina nelle riunioni clandestine della primavera del ’43 per ragionare insieme sul futuro di un’Italia liberata dal fascismo. La stessa anziana professoressa che, orgogliosa ed emozionata, sarà la sola altra donna che le si siederà vicino nel 1946 nel primo consiglio comunale reggiano del dopoguerra. E se ne accorse anche il Prefetto di Reggio Emilia che il 20 agosto 1945, in seguito a una sommossa per il pane organizzata dalle donne reggiane, si trovò davanti a una donna così giovane da suscitare in lui non poche perplessità e tanti pregiudizi, destinati, però, a scomparire come per incanto, non appena Nilde iniziò ad argomentare con “garbo e con parole appropriate” le sue idee. E indubbiamente se ne accorse anche Palmiro Togliatti che fin dal primo momento ne rimase affascinato. Ma più di tutte ad accorgersene furono le donne che la sostennero nella sua battaglia politica e la scelsero come loro portavoce, perché lei, più di tante altre, le parole le sapeva usare bene e le faceva arrivare lontano. Di questo amore Nilde si fece scudo per affrontare i tanti, troppi pregiudizi che per ogni donna erano il pane quotidiano, ma che per le pioniere della politica erano ancora più duri e crudeli. Nilde l’emiliana prosperosa. Nilde la raccomandata amante di Togliatti. Nilde la comunista libertina e rovina famiglia. Chissà quante volte se lo sarà sentita dire alle spalle e quante volte lo avrà letto tra le righe, ma non solo. Eppure quelle malignità sono servite a poco, perché di coloro che le hanno pronunciate la storia se ne è già dimenticata, di Nilde, invece no. Perché lei è la storia della Repubblica come partigiana, come segretaria dell’Unione donne italiane, come madre della Costituzione e come prima donna Presidente del Camera. Anche per la storia, infatti, è stato facile amare Nilde Iotti, tanto quanto sarà facile dimenticarsi di Giorgio Carbone e di quelle sue orrende e inopportune parole sessiste e misogine che insultano tutte le donne, ma prima di tutto insultano lui.

Pietro Senaldi per ''Libero Quotidiano'' l'8 dicembre 2019. Nilde Iotti fu un presidente della Camera saggio e imparziale come pochi prima e dopo di lei. Era facile amarla perché era bella, simpatica e prosperosa. Grande in cucina e a letto». Sono le parole con le quali Libero, sotto il titolo «Hanno riesumato Nilde Iotti», ha recensito la fiction andata in onda giorni fa sulla Rai dedicata alla grande comunista, compagna di Palmiro Togliatti. Inaspettatamente siamo stati accusati da mezza sinistra di sessismo e coperti di fango per avere scritto «grande a letto», come se fosse un insulto anziché un complimento. Sinceramente non avevamo la minima intenzione di criticare sotto l' aspetto personale la Iotti, non ce ne sarebbe stato motivo, e ci spiace se qualcuno ha equivocato. Ci scusiamo pure, benché non ci sia chiaro di cosa. Non siamo sessisti ma neppure sessuofobi e ci sorprende l' indignazione che abbiamo suscitato in spiriti monacali, anche se chi ci ha lapidato non vive in convento ma naviga da lungo corso nelle redazioni e in Parlamento, che non sono templi di virtù né oasi di moralità. Quando vogliamo attaccare qualcuno, lo facciamo a tutta pagina, a caratteri cubitali e mettendoci la faccia, non deleghiamo a un collaboratore suggerendogli di insinuare del veleno tra una riga e l' altra. Pertanto rassicuro tutti: non volevamo atteggiarci a moralisti svergognando Leonilde. Non saremmo il giusto pulpito. Noi abbiamo senso del ridicolo, sappiamo di non essere santi e non indossiamo abiti che non ci appartengono. Il nostro cronista l' ha vista nella fiction sospirare a letto con Palmiro e ha pensato che anche questa scena potesse essere oggetto della sua recensione. Ci auguriamo che l' Ordine non lo passi per le armi per questo. Da direttore responsabile di Libero devo dire però che sono preoccupato per gli attacchi, omologati come un belare di gregge. Mi spiace per le donne del Pd, che pensano che a questo si sia ridotto il loro ruolo. Ritrovarmi vittima del loro conformismo, della loro superficialità, della loro pochezza e della loro arte mistificatoria mi ha aperto gli occhi, svelandomi perché non raccattano più un voto. Nascondono la loro incompetenza dietro battaglie facili. Hanno voluto prendere il potere senza ripassare dalle urne e, non sapendo gestire il Paese, sparano su un cronista ottantenne, che a differenza di Togliatti è rimasto con i figli e la moglie tutta la vita, tenendole la mano in ambulanza nel momento del trapasso. Mi auguro che per una donna di sinistra questo sia ancora un valore. Ma più che dei politici, mi hanno sconcertato gli attacchi dei colleghi, perché tradiscono la professione e si sottomettono ai linguaggi a cui li obbliga una fazione rinunciando alla libertà di critica e d' espressione. E per farlo sparano su chi non può difendersi, un collega in pensione. Contribuiscono a far credere a chi non lo legge che Libero abbia deciso una linea politica d' attacco a Nilde Iotti. Francamente noi, a differenza dei compagni, viviamo in questo secolo e quindi non avremmo mai attaccato la compagna Leonilde, deceduta vent' anni fa. Infatti l' articolo non era un ritratto politico ma una recensione di spettacoli. Per farci la morale Repubblica cita una frase della storica presidente della Camera: «È necessario cogliere negli altri solo quello che di positivo sanno darci e non combattere ciò che è diverso da noi». Complimenti, copiate e non capite. Abbiamo scritto che fu brava e imparziale, bella e simpatica e voi cogliete solo quel che non vi garba, «grande in cucina e a letto», non contestualizzate, fate della parte il tutto e la servite mistificata ai vostri lettori. Leonilde vi sputerebbe in faccia. Non c' è da aspettarsi molto di diverso da chi ogni giorno dà del razzista a Salvini, del bandito a Berlusconi e della coatta alla Meloni - quali profonde analisi - e poi pretende che gli altri si inginocchino adoranti di fronte a chi i padroni dell' informazione ci indicano. Mi appello all' Ordine dei giornalisti, perché difenda i suoi iscritti dalla prepotenza dei politici e dal killeraggio bugiardo di certi colleghi. Difenda la libertà di stampa dall' ottusità faziosa di chi vuol decidere cosa altri possano o non possano scrivere. Non permetta che i giornalisti facciano da bersaglio a politici disperati che parlano di Libero non riuscendo più a parlare ai propri elettori. Abbiamo descritto Nilde Iotti con simpatia, ritraendola migliore di quanto fosse. Avessimo voluto indugiare sulle sue arti amatorie lo avremmo fatto. Non sappiamo di persona se fosse grande a letto, come descritto dalla fiction. Sappiamo però che Togliatti non era un pirla e se, dopo anni di relazione clandestina, mollò moglie e prole per andarci a vivere, supponiamo che gli piacesse e non gli bastasse incontrarla in Parlamento. Dove la signora ha dato gran prova di sé, meritandosi la poltrona presidenziale, sicuramente agevolata dal fatto di essere la donna del capo, che gli avrà elargito molti e utili consigli.

Fulvio Abbate per “il Riformista” il 18 dicembre 2019. La Iotti e l’amore, di più, Nilde e il sesso… Sono trascorsi alcuni giorni dalla querelle venuta su dopo che la Rai ha dedicato una docu-fiction proprio a Nilde Iotti, la prima donna che abbia ricoperto l’incarico di presidente della Camera dei deputati, dirigente comunista. Tutto muove da “Libero”, che in un articolo ne ha tratteggiato la parabola pubblica indicando in lei una “bella emiliana prosperosa, brava in cucina e a letto. Il massimo che in Emilia si chieda a una donna”. Parole forse sessiste, da conversazione maschile, tra sala biliardo e circolo, si fa per dire, dei civili. Pochi giorni dopo, su La7, Pietro Senaldi, direttore responsabile di quel quotidiano, e Concita De Gregorio hanno concesso un supplemento di discussione. A fronte di un Sallusti, giunto in studio a ribadire il carattere delle emiliane-romagnole, a suo dire, segnato da “esuberanza”, orizzonte da “Mondo piccolo” di Guareschi rivisitato nella banalizzazione da pro-loco ulteriore, la De Gregorio ha sentito la necessità di porre ai suoi interlocutori dove avessero tratto i presunti dettagli circa le qualità amatorie della signora: “… come fate a sapere che a letto Nilde Iotti era brava?” Interrogativo innanzitutto politico, deontologico. Se ne verrà a capo? Ha ragione la mia amica Angela, che suggerisce un’obiezione inattaccabile: nessuno mai si riferirebbe a un politico di sesso maschile, forte di una carica pubblica, chiamandone in causa le probabili, prerogative nell’ars amandi. Resta però in tema di insinuazioni grevi da galleria fotografica de “Il Borghese” o vignette di “Candido”, storici trascorsi fogli della convegnistica privata di destra, occorrerà magari rispondere richiamando il principio del diritto al piacere. Sia dunque ritenuto legittimo disporsi a immaginare Nilde Iotti mentre fa l’amore, di più, mentre “fa sesso” con il suo uomo, convivente, compagno di vita e di partito, Palmiro Togliatti, leader-feticcio del popolo comunista post-bellico, quasi a smentire le immagini che li mostrano insieme, coppia che sembra raccontare la compostezza piemontese di lui, aria da provveditore agli studi in principe di Galles, soprabito antracite, talvolta la lobbia sul capo. Così almeno appare nello sfondo marmoreo del Palazzo dei Congressi dell’Eur in un’istantanea del 1962, due anni prima della morte a Yalta. Nilde Iotti gli è accanto, la crocchia o forse un’acconciatura cotonata, propria di quando Mina cantava le “Mille bolle blu”, polpacci e caviglie marcati, una spilla a ingentilire il collo del tailleur; altrove invece una stola di pelliccia da prima teatrale. Sappiamo bene che rivendicare i piaceri del corpo nella storia politica nazionale è cosa rara, ancora meno da comunisti, assai di più in questo genere di libertà individuali dobbiamo, nel tempo, a Marco Pannella e ai suoi radicali, parole in difesa di ciò che gli psicoanalisti chiamano “istinto desiderante”. Andando oltre la prosa da fureria di “Libero”, sarà bene rispondere con la limpidezza di chi appunto, libertario, rivendichi l’esistenza del corpo come luogo di gratificazione. Ben venga allora perfino immaginare a letto proprio “la Iotti”, docu-fiction o meno, scansando la discussione sullo scandalo moralistico che nel Partito comunista italiano del dopoguerra suscitò vedere Togliatti accompagnarsi a una giovane deputata di Reggio Emilia, lasciando moglie e figlio, e qui torna buona la ballata sull’attentato, ripresa perfino da Francesco De Gregori nell'album-canzoniere politico “Il fischio del vapore”, dove la Iotti, benchè al momento degli spari si trovi accanto al suo uomo, è espunta dalla cronaca melodica, diversamente dalla coniuge ufficiale, leggi: “Rita Montagnana che era al Senato, coi dottori e tutto il personale han condotto il marito all’ospedale, sottoposto alla operazion!”, infatti il testo. Nel rivendicare il diritto all’eros anche per Iotti, rispondiamo così sia alla grettezza moralistica comunista che si espresse il 14 luglio del 1948 sia all’implicito dar di gomito di Senaldi e colleghi. Nel far questo, come nei prodigi della memoria archivistica, vediamo altrettanto planare verso di noi un disegno apparso su “Il Male” negli stessi giorni in cui la signora raggiungeva lo scranno più alto di Montecitorio; lì c'è il modo in cui quel giornale di satira volle salutare l’occasione. Lo facciamo ancor di più pensando al seguito della polemica, con Pietro Senaldi che per ribattere a Concita De Gregorio che obietta appunto come faccia “Libero” a conoscere la condotta sessuale di Nilde a letto, il mattino del giorno dopo pubblica un editoriale dove si cita la campagna di lancio de “l’Unità” al tempo in cui a dirigerla trovavamo proprio la De Gregorio. Il manifesto dove Oliviero Toscani, cita se stesso della "scandalosa" campagna dei jeans “Jesus” degli anni Settanta (la stessa che Pasolini così commentò sul “Corriere della Sera”: “Il futuro appartiene alla giovane borghesia che non ha più bisogno di detenere il potere con gli strumenti classici; che non sa più cosa farsene della Chiesa”), fianchi e sedere di ragazza inguainati in una minigonna di denim dalla cui tasca spunta proprio il “nuovo” giornale... L’ “affaire”, al momento, in attesa di nuovi sussulti, non sembra essersi ingrossato ulteriormente. Tra moralismo degli uni e la rodata ottusità degli altri, improvvisamente, chi scrive, si è ricordato appunto di una pagina di un settimanale di satira senza dio né padroni né comitati centrali. Sarà stato proprio il 1979, e al “Male” ritennero doveroso salutare l’elezione della ex compagna di Togliatti con una vignetta di Jean-Marc Reiser, disegnatore satirico francese, firma di “Charlie Hebdo”, amico di strada e di talento di Wolinski; si deve proprio a lui, alla sua disinvoltura situazionista, la tavola che Mario Canale, già del collettivo del “Male”, ci ha prontamente recapitato e che offriamo qui all’attenzione di tutte le persone dotate di senso dell’ironia liberatoria. Un disegno che fa giustizia, di più, un disegno che custodisce la risata che seppellirà Senaldi e soci, e forse anche Concita De Gregorio. Come diceva proprio Togliatti: “Veniamo da lontano, andiamo lontano”. A proposito, a chi dice che invece al "povero" Berlusconi non è stata concessa nessun attenuante sessuale consegniamo le parole della Santanché pronunciate tempo addietro in radio, a “La Zanzara”: “La Minetti? Anche Togliatti aveva come amante la Iotti, poi lei è diventata il primo presidente donna alla Camera, e sicuramente non aveva vinto concorsi. Nessuna delle due ha vinto un concorso, questo è sicuro”. Non tutti, temiamo, sanno andare lontano.

Pietro Senaldi per “Libero quotidiano” il 13 dicembre 2019. Che culo. Proprio mentre Concita De Gregorio mi dava l'ennesima lezione televisiva su come si devono rispettare le donne, mi sono imbattuto su internet nella pubblicità con la quale pochi anni fa la signora promuoveva il quotidiano che dirigeva e che portò alle soglie del disastro. Un bel fondoschiena femminile, giovane e sodo, con tanto di copia dell' Unità infilata in tasca e aggettivi allusivi tra i quali indomabile, bella, generosa, libera, mini. Che dire, così fan tutti Chissà cosa avrebbe pensato, se fosse stata in vita, l' austera Nilde Iotti, che andò a vivere con Togliatti solo per il piacere di poter parlare con lui di comunismo anche alle due del mattino, dell' iniziativa sessista presa dalla prima, e ultima, direttrice donna del suo giornale di partito. Molti compagni ai tempi non gradirono, ma furono messi a tacere, nello stile della casa. Noi invece difendemmo la foto, ritenendo che non ci fosse modo migliore per diffondere carta da c…Non chiedemmo all' ordine dei giornalisti di radiare la testata, come qualche vecchio tifoso dell' Unità ha fatto ieri in tv con Libero. Aspettammo che lo facessero i lettori. Forse qualcuno se ne andò proprio quando si accorse di come la sinistra, anziché difenderle, prende per il culo le donne e, se si tratta di attizzare le menti dei possibili compratori, non disdegna di puntare sul loro lato B, che in certi perbenisti ipocriti non differisce poi tanto dal lato A. Chissà se qualche compagno non si è sentito svilito intellettualmente dalla pubblicità in questione, che colpiva alle spalle le femministe e mirava alle palle dei maschietti. Non vorremmo mai che la De Gregorio, per quella copertina, venisse messa all' indice oggi dalla sua conventicola che ci ha criticato così tanto per aver scritto che la Iotti, oltre a essere una bravissima presidente della Camera, era pure bella, simpatica e grande in cucina e a letto. Siamo convinti che la collega non rischi molto, visto che la coerenza, oltre a lei, non appartiene ai dem in generale, i quali altrimenti non avrebbero cambiato cinque volte nome e dieci volte segretario negli ultimi vent' anni. Da quelle parti si ritengono da sempre più uguali degli altri. Tuttavia sappia Concita che, se qualcuno la criticherà, avrà tutta la nostra solidarietà. Immaginiamo a quali compromessi terribili con i suoi princìpi sia dovuta scendere in nome degli affari per sbattere questo ritratto di donna sfruttata in prima pagina. Vorrei approfittare per chiarire definitivamente una cosa: della Iotti non ci importa nulla, tantomeno della sua vita sessuale e del suo amore per Togliatti, che, è storia, scandalizzò molti nel Pci quando la sinistra era una cosa seria. La frase che ha indignato tanti perbenisti si trovava nella recensione a una fiction, non in un ritratto della signora. Però non riteniamo onesto che chi per anni è entrato nella camera da letto di Berlusconi oggi si indigni per un inciso in un pezzo, sostenendo che sesso e politica vadano sempre scissi. Se si può indagare la dimensione sessuale di un parlamentare, lo si può fare anche con quella di una parlamentare, e chi si batte per la parità deve accettarlo. Per un uomo non di sinistra, grande a letto, anche se riferito a una donna, non è un insulto; tutt' altro. E questo ce lo hanno insegnato proprio i progressisti, dei quali abbiamo sempre apprezzato la libertà sessuale che propugnavano, prima di andare in cortocircuito morale e uterino. Al liceo, il 50% di quelli che si dicevano di sinistra in realtà lo faceva solo per aver maggior fortuna con le donne. Ora però l' outing politico pro Pd equivale a un voto monacale, sempre che non si decida di farlo in modo strano; anzi, moderno. Forse immemore della pubblicità sulla quale ha messo il suo lato A, la mia amica concitata, con la classe di cui sopra, ieri in tv si chiedeva se io abbia qualche figlia femmina; il sottinteso era: poveraccia, nel caso ne abbia una. Tirare in ballo i minori, uomini o donne, non è il massimo. Temo che i suoi amici che fanno gli assistenti sociali a Bibbiano, nella rossa Emilia dove è così bello essere bambini, decidano, ascoltandola, di togliermi la prole.

·        100 anni dalla nascita di Gesualdo Bufalino.

Ha esordito nella letteratura a 61 anni con Diceria dell’untore che gli valse la vittoria del Premio Campiello. Pubblicato mercoledì, 01 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Fallai. Ne aveva 68 quando nel 1988 con Le menzogne della notte vinse il Premio Strega. Sono due dei titoli più noti della bibliografia di Gesualdo Bufalino, nato a Comiso, vicino Ragusa il 15 novembre 1920 e morto il 14 giugno 1996 a Vittoria. Dopo la guerra si dedica per molti anni all’insegnamento presso l’Istituto magistrale di Vittoria. Sul suo esordio in letteratura gira da anni una leggenda: nel 1978 viene pubblicato da Sellerio un libro fotografico, Comiso ieri, una raccolta di fotografie scattate alla fine dell’Ottocento da due borghesi comisani. Bufalino scrive una lunga introduzione a quel volume, che viene notata da Elvira Sellerio e Leonardo Sciascia che chiedono all’insegnante se avesse un manoscritto inedito. E fu un successo, Diceria dell’untore attrasse lettori e critica, imponendosi al premio Campiello e approdando alla cinquina dello Strega, dove si piazzò ultimo in un’edizione che vide il trionfo di un altro esordio narrativo: Il nome della rosa di un certo Umberto Eco. Convince il pubblico con quella che la critica chiama «l’oltranza lirica della scrittura, disposta a compromettersi con tutte le malizie della retorica, senza per ciò vietarsi di accogliere con partecipe abbandono l’impeto dei sentimenti più ingenui». Dopo il clamore di quell’esordio Bufalino è colto da una frenetica e prolifica frenesia letteraria, che lo porta a produrre grandi quantità di opere, che spaziano dalla poesia (L’amaro miele, 1982) alla prosa d’arte e di memoria (Museo d’ombre, sempre 1982), dalla narrativa (Argo il cieco, 1984, L’uomo invaso, 1986. E ancora Calende greche, 1992, Il Guerrin Meschino, 1993, Tommaso il fotografo cieco 1996, alla saggistica, dagli aforismi (Il malpensante, 1987, Bluff di parole, 1994 ) alle antologie (Dizionario dei personaggi di romanzo, 1982; Il matrimonio illustrato, 1989, scritto insieme alla moglie, Giovanna). Morì a causa di un drammatico incidente stradale il 14 giugno 1996.

·        100 anni dalla nascita di Enzo Biagi.

Tutto iniziò il 9 agosto 1920 a Lizzano in Belvedere, il paesino in provincia di Bologna dove Enzo Biagi nacque da padre magazziniere e madre casalinga. Pubblicato mercoledì, 01 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Fallai. Testimone del secolo che come pochi altri ha saputo declinare la sua vocazione al giornalismo in tutti i media - dalla carta stampata, ai libri, alla tv, ha fatto il giornalista fino all’ultimo giorno della sua vita, a Milano, il 6 novembre 2007. Dopo il diploma in ragioneria seguirono gli anni della gavetta al Resto del Carlino. Diventa professionista a soli ventuno anni. Allo scoppio della guerra è richiamato alle armi. Dopo l’8 settembre 1943, per non aderire alla Repubblica di Salò, varca la linea del fronte aggregandosi ai gruppi partigiani attivi sull’Appennino. Viene assunto nuovamente a Il Resto del Carlino (in quegli anni Giornale dell’Emilia), ricoprendo il ruolo di inviato e di critico cinematografico. Nel 1951 Biagi aderì al manifesto di Stoccolma contro la bomba atomica e, accusato dal suo editore di «essere un comunista sovversivo», fu allontanato dal Resto del Carlino. Qualche mese dopo, fu assunto da Arnoldo Mondadori di cui diventò in breve tempo direttore trasferendosi per la prima volta a Milano. È di quegli anni l’inizio del suo rapporto con la televisione, destinato a rafforzarsi e a durare nel tempo. Nel 1961 l’ingresso in Rai, diventa direttore del Telegiornale e inizia quel difficile rapporto con la politica che non lo ha mai abbandonato. Nel 1963 cura la nascita del telegiornale del secondo canale Rai. Nello stesso anno lancia RT, il primo settimanale della televisione italiana. Ma ben presto arrivarono critiche durissime soprattutto dal Psdi di Saragat e dalla destra, che accusò Biagi di essere un comunista. Nel 1963 fu quindi costretto a dimettersi. Ritorna quindi a La Stampa come inviato speciale, scrivendo anche per il Corriere della Sera e per il settimanale L’Europeo. La sua collaborazione con la Rai, riprende nel 1968 quando chiamato dall’allora direttore generale, Ettore Bernabei ritorna alla tv di Stato, per realizzare programmi di approfondimento giornalistico. Dopo lo scandalo della P2 lascia il Corriere della Sera e collabora come editorialista con La Repubblica, quotidiano che lascerà nel 1988, quando ritornerà al Corriere. Negli anni ‘90 segue attentamente le vicende di «Mani pulite», con programmi come «Processo al processo su Tangentopoli», (1993) e «Le inchieste di Enzo Biagi» (1993-1994). Nel 1995 iniziò la trasmissione Il Fatto, un programma di approfondimento dopo il Tg1 sui principali fatti del giorno, di cui Biagi era autore e conduttore. Nel 2004 Il Fatto, che mediamente era seguito da oltre 6 milioni di telespettatori. Famose resteranno le interviste a Marcello Mastroianni, a Sofia Loren, a Indro Montanelli e le due realizzate a Roberto Benigni. Biagi ha scritto più di ottanta libri, tra cui Testimone del tempo, 1970; I come italiani, 1972; La bella vita, 1996, intervista all’attore Marcello Mastroianni; Come si dice amore, 2000 e Storia d’Italia a fumetti. L’ultimo «Era ieri», un libro di rievocazioni, parte da quelle 842 puntate de Il Fatto che sono state il fiore all’occhiello di una lunga carriera. Un successo bruscamente chiuso quando venne allontanato nel 2002 dopo l’editto «bulgaro del Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Una ferita mai rimarginata.

Enzo Biagi: dieci anni fa se ne andava il testimone del Novecento. Aveva voluto fare il giornalista sin da ragazzo, convinto che «quel mestiere mi avrebbe portato a scoprire il mondo». E così, fedele a se stesso, scrisse pagine indimenticabili guidato sempre dall’istinto del cronista. Leda Balzarotti su Il Corriere della Sera l'8 agosto 2020. Enzo Biagi nasceva cento anni fa: dal pentapartito a Berlusconi, tutte le sue battaglie (con relative epurazioni).

Il primo articolo ancora ragazzo. Enzo Biagi esordì nel mondo del giornalismo a diciassette anni, il suo primo articolo «Marino Moretti è crepuscolare?» venne pubblicato su «L’Avvenire d’Italia» nel 1937. Prese così il via una carriera che dalla carta stampata arriverà alla televisione, passando per la direzione di «Epoca», de «Il Resto del Carlino», di «Novella», e scrivendo per il «Corriere della Sera», per «L’Europeo», «La Stampa», «Repubblica», «Espresso», «Oggi», «Sorrisi e Canzoni». Vero e proprio testimone del secolo conquistò la fiducia di lettori e spettatori con la sua eccezionale acutezza e sensibilità. A vent’anni era già cronista, estensore al «Carlino Sera», riscriveva gli appunti dei reporter sotto lo stretto controllo della censura fascista. Riuscì a evitare la guerra per quei problemi cardiaci che lo accompagneranno poi per tutta la vita. Nonostante il fisico fragile, negli anni del conflitto non rimase a guardare e nel 1944 aderì alla Resistenza fra le fila delle brigate di Giustizia e Libertà. Non sparò un colpo tra le montagne, ma firmò un giornale che voleva informare sul reale andamento della guerra, ma la tipografia saltò in aria sotto i bombardamenti dei tedeschi e le edizioni si fermarono a soli quattro numeri.

Una rapida carriera. Con la fine della guerra, Enzo Biagi tornò a «Il Resto del Carlino» - in quegli anni Giornale dell’Emilia -, come inviato speciale, dove si mise rapidamente in luce per la sua grande versatilità che gli consentiva di passare con disinvoltura dagli articoli sportivi del Giro d’Italia, alla cronaca rosa del matrimonio della futura Regina d’Inghilterra. Lasciò il quotidiano nel 1951, in contrasto con la proprietà che lo considerava un «comunista sovversivo», perché aveva firmato il «Manifesto di Stoccolma» contro la bomba atomica. Ma il suo servizio sul disastro dell’alluvione del Polesine aveva attirato l’attenzione dell’editore Arnoldo Mondadori, che gli offrì il posto di caporedattore a «Epoca». Lasciato alla guida del settimanale dall’allora direttore Renzo Segala, partito per l'America, con una delle sue proverbiali intuizioni, Biagi mandò in edicola il giornale con una copertina dedicata all’assassinio di Wilma Montesi. La scelta si rivelò indovinata: «Epoca» sbaragliò la concorrenza vendendo novantamila copie in una settimana. Così, sul campo, Biagi si guadagnò la nomina a direttore.

Direttore di Epoca. Nella nuova veste, adottò una formula innovativa per il settimanale, trasformandolo da rivista di pettegolezzi a giornale impegnato, arricchito da inchieste e reportage esclusivi. In breve «Epoca» s’impose come nuova realtà editoriale, arrivando a dominare il panorama dei periodici. Un articolo sui controversi scontri di Genova e Reggio Emilia, intitolato «Dieci poveri inutili morti», apertamente critico con il governo Tambroni, gli costò però il posto. Ma la «Stampa» non si fece sfuggire il cronista di razza e lo reclutò come inviato speciale.

L’arrivo in RAI. Nominato direttore del Telegiornale nel 1961, esordì dicendo: «La mia tv sarà al servizio del pubblico e non dei politici». Portò numerose novità: la cronaca nera, i collegamenti internazionali, e nel 1962 lanciò il programma «RT-Rotocalco Televisivo», che ricalcando la formula vincente di «Epoca» si occupava di temi difficili e mai affrontati sul piccolo schermo, come la mafia, la guerra fredda. Ma per le forti pressioni politiche non durò molto, e Biagi definirà lapidariamente l'esperienza: «l'uomo sbagliato al posto sbagliato».

Un nuovo capitolo. Apprezzato dal grande pubblico, Enzo Biagi si trasferì prima al «Corriere della Sera», poi a «La Stampa», firmò inchieste e la critica cinematografica de «L’Europeo», diventò direttore di «Novella», dando al settimanale letterario una veste tutta nuova, cambiandogli il nome in «Novella 2000» e trasformandolo in un settimanale di cronaca rosa, tornò in televisione con nuovi programmi di grande successo. E nel 1969 condusse «Dicono di lei», un formato nuovo di intervista televisiva dove un protagonista della società italiana, affrontava accuse lanciate da colleghi o da esperti davanti a lui passeranno Gianni Morandi, Francesco Morino, Sergio Leone. Un grande successo, che aprirà la strada a futuri programmi televisivi.

In equilibrio tra televisione e carta stampata. Dalla carta stampata, ai libri, alla tv, Biagi, come pochi altri ha saputo declinare la sua maestria in tutti i media. Nel 1971 venne chiamato alla direzione de «Il Resto del Carlino» con l’obiettivo di dare al quotidiano una caratura nazionale. Il primo editoriale, dedicato alle elezioni del Presidente della Repubblica, che si preannunciavano infuocate, non concedeva sconti già nel titolo «Rischiatutto» - verrà eletto Giovanni Leone dopo 23 scrutini, una consultazione che ancora oggi rimane la più lunga della storia italiana -. Tra inchieste e articoli poco apprezzati dall’editore, ancora una volta Enzo Biagi si trovò a fare i conti con le pressioni della politica e un braccio di ferro con il ministro delle finanze Luigi Preti, lo costrinse a lasciare la direzione del quotidiano bolognese. Rientrato a Milano al «Corriere della Sera», troverà il tempo di collaborare con il collega e amico di lunga data Indro Montanelli, al suo nuovo quotidiano «Il Giornale».

Il ritorno in RAI. Nell’anno più caldo della contestazione, il 1977, il giornalista tornò in RAI con la trasmissione «Proibito», affrontando spesso temi scottanti, dalla corruzione alla repressione del dissenso, dalla pornografia ai sequestri di persona. Biagi sempre rigoroso e fermo, intervistò personaggi di primo piano, come Ilona Staller, Giacomo Mancini, il capo dell’antimafia Ferdinando Pomarici, Michele Sindona. Nel 1985 prese poi il via una della trasmissioni più fortunate di Biagi, «Linea Diretta», un appuntamento quotidiano con la cronaca per cinque giorni la settimana. La prima puntata, fu un grande successo, e il botta e risposta con Alì Agca - per la prima volta intervistato in televisione dalla cella della prigione - venne rilanciato dalle grandi reti internazionali. Nel frattempo era scoppiato lo scandalo P2, nelle liste figuravano anche i nomi dei vertici del «Corriere della Sera», e Biagi, senza tergiversare lasciò il quotidiano: «Decisi immediatamente di andarmene perché, e lo dico sinceramente, non mi sentivo più a mio agio». Non rimarrà senza lavoro: l’avvocato Agnelli lo voleva tra le firme de «La Stampa», mentre Biagi scelse di accettare la proposta come editorialista dalla «Repubblica», diretta da Eugenio Scalfari, dove scriverà fino al 1988.

Il «Fatto». Il popolare conduttore, nel 1995 iniziò la trasmissione «Il Fatto», una striscia di approfondimento quotidiano in prima serata dopo il Tg Uno. Quindici minuti dedicati ai principali fatti del giorno indagati attraverso le interviste ai protagonisti. Seguito da oltre 6milioni di telespettatori, fu nominato da una giuria di giornalisti miglior programma giornalistico realizzato nella storia della televisione pubblica. Celebri le interviste a Cesare Previti, ad Antonio Di Pietro, Marcello Mastroianni poco prima della scomparsa, a Sophia Loren, a Indro Montanelli e le due realizzate a Roberto Benigni, l'ultima delle quali nel 2001, in piena campagna elettorale. Le battute del comico toscano scatenarono polemiche roventi contro Biagi, accusato da Silvio Berlusconi di avere fatto, con Luttazzi e Santoro un uso criminoso della televisione pubblica. «Cari telespettatori, questa potrebbe essere l’ultima puntata del Fatto. Dopo 814 trasmissioni, non è il caso di commemorarci. Eventualmente è meglio essere cacciati per aver detto qualche verità, che restare al prezzo di certi patteggiamenti». Fu un commiato pacato ma deciso, quello con cui Biagi chiuse, amaramente, l’esperienza in Rai. La vicenda passerà alla storia come «Editto Bulgaro», e sollevò indignazione per le sorti del giornalista in tutta la Penisola.

«Un intervallo di cinque anni». A Biagi non mancarono atti di solidarietà, come l’invito, declinato, di Adriano Celentano a partecipare al suo «Rockpolitik». Solo dopo anni di silenzio televisivo, accettò di essere intervistato da Fabio Fazio a «Che tempo che fa». E il 22 aprile 2007, ormai ottantaseienne, tornò a fare il «mestiere» di sempre, in tv con «RT - Rotocalco Televisivo». Le sue prime parole rimarranno a lungo nella memoria di molti spettatori: «Buonasera, scusate se sono un po' commosso e, magari, si vede. C'è stato qualche inconveniente tecnico e l'intervallo è durato cinque anni. Mi aveva avvolto la nebbia della politica». Biagi si spense pochi mesi dopo, il 6 novembre 2007. E per il suo ultimo viaggio aveva voluto appuntato sul bavero il distintivo dei partigiani di Giustizia e Libertà, ed essere accompagnato dalle note di «Bella Ciao».

L’ultimo saluto. Autore prolifico, popolare conduttore, giornalista seguitissimo, la sua lunga carriera è stata densa di successi professionali ma anche di dolorosi momenti «ogni tempo ha una sua Resistenza» aveva scritto e che bisogna amare la verità «anche quando è scomoda». «Lavorare era il suo unico hobby - scrisse Giangiacomo Schiavi sul Corriere della Sera in un lungo servizio all’indomani della sua scomparsa, il 6 novembre 2007 - Giornali, tv, riviste, libri, saggi, romanzi, rubriche, fumetti, audiovisivi: in settant’anni ha fatto tutto. Giornalista interdisciplinare, divulgatore straordinario. Il numero uno».

Vittorio Feltri e il ricordo dell'amico: "Chi era davvero Enzo Biagi e quelle nostre liti". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 09 agosto 2020. Enzo Biagi se fosse ancora tra noi compirebbe cento anni, parecchi, ma non molti più di quanti ne ha vissuti. Infatti morì nel 2007, quando ne aveva 87. Una cifra importante se si considera che egli ebbe il primo infarto a 49. Aveva un cuore matto che gli creò molti problemi, tutti risolti brillantemente. Fu operato di by-pass in Inghilterra quando questo tipo di intervento chirurgico era ancora pericoloso, nel senso che i medici non avevano in materia grande esperienza. Lui se la cavò. Tornò in Italia più forte che pria. Fu al Corriere della Sera, dove teneva una rubrica settimanale il cui titolo era "Strettamente personale", che conobbi Enzo Biagi. L'eccelso giornalista sceglieva un argomento e lo sviscerava con uno stile personale ed efficace nonché con quelle sfumature umoristiche, battute spesso irresistibili, che caratterizzavano il suo modo di fare giornalismo. Toccava a me passare i suoi pezzi, ossia rileggerli e sistemare eventuali improprietà, ma non ce n'era bisogno perché Biagi era molto attento e meticoloso. Lo definirei un impressionista, peraltro molto affascinante, in quanto non approfondiva mai i concetti, ne dava una pennellata, eppure riusciva a trasmettere delle sensazioni forti e penetranti grazie alla sua abilità descrittiva. Ci presentammo nello stanzone albertiniano. Enzo Biagi era uno dei decani del nostro ordine allora, io un giovane giornalista. Alcune volte ci si sentiva per telefono in relazione ai suoi scritti, altre veniva in redazione, sebbene avesse uno studio suo personale non in via Solferino, ma prima su corso Matteotti, dopo in galleria Vittorio Emanuele. Ebbe la curiosità di vedermi e di stringermi la mano, così un giorno venne alla mia postazione del tavolone e facemmo quattro chiacchiere, Biagi voleva sapere chi fossi e da dove venissi. Trascorsero alcuni mesi e nel passare un suo pezzo notai un punto non molto chiaro, perciò gli telefonai facendogli presente il piccolo inconveniente, che fu così risolto in 5 secondi. Non posso affermare che da quel momento nacque una sorta di sodalizio, ma Enzo mi fu molto grato e mi manifestò una certa simpatia. Così, quando gradiva un mio articolo, mi chiamava per complimentarsi. "Sei il meglio figo del bigoncio", mi disse una volta. Non conoscevo il senso di quella strana espressione, che ho mutuato da Biagi e che oggi uso ogni tanto ricordandomi di lui, ma lo intuii, restandone felice.

L'INTERVENTO. Enzo soffriva di cardiopatia. A 49 anni aveva avuto il primo infarto. Nel periodo di cui sto narrando ne aveva 57 o 58 e la sua situazione cardiaca andava peggiorando, tanto che decise di recarsi a Londra per farsi sistemare il cuore sottoponendosi ad un'operazione di by-pass. Raggiunse la capitale inglese con la figlia Bice e, prima di entrare in sala operatoria, scrisse a mano il pezzo destinato alla sua rubrica annotandolo su un taccuino. Stavolta l'argomento era se stesso nonché ciò a cui stava andando incontro. Fu un articolo struggente, sempre ben scritto, Biagi non sbagliò neanche le misure, aveva il senso delle lunghezze. Quel pezzo mi fu consegnato da Bice, lo passai e lo titolai vinto dalla commozione. Si trattava di un'operazione estremamente delicata, non sicura come quelle dello stesso tipo che si fanno oggi dopo decenni di pratica chirurgica. Biagi uscì incolume dalla sala operatoria e in poco tempo si riprese, ricominciando presto a scrivere per il Corriere, sebbene fosse ancora affaticato. Non appena rientrò in Italia, Enzo mi invitò a colazione a casa sua, all'ultimo piano di un edificio in via Vigoni. Fu un pranzo luculliano. Biagi mangiava come un assassino di pasta asciutta. Il piatto forte erano le tagliatelle alla bolognese, ed era facile aspettarselo dato che lui era nativo di Pianaccio, in provincia di Bologna, sull'appennino tosco-emiliano. Il giornalista si tuffò nella pasta fresca e distolse il volto dal piatto solo dopo che ne ebbe divorato tutto il contenuto. Era un personaggio un po' pletorico. Dopo la mattanza delle tagliatelle iniziammo a frequentarci con assiduità, finché un giorno Enzo, che conduceva programmi tv di successo, mi propose di entrare a fare parte della sua équipe televisiva. Cominciai così a fornire il mio supporto per il format intitolato "Film dossier", che consisteva nella proiezione di una pellicola, la quale introduceva un tema che costituiva poi il fulcro del dibattito in studio. Occorreva selezionare gli ospiti e preparare le domande da sottoporre a ciascuno di essi. Io ero addetto a questa attività. Poi Biagi in televisione faceva la sua intervista e sembrava un prete. Il suo modo di fare, semplice e colloquiale, suscitava nel telespettatore sentimenti di fiducia. Il suo successo si spiegava benissimo, era un uomo serio e quindi benvoluto. Per alcuni anni mantenni il contratto con la Rai, arricchendo le mie competenze, perché Biagi era di un'abilità diabolica nel trovare soluzioni giornalistiche di grande impatto e, stando accanto a lui, ho avuto modo di carpire molti segreti, poi utilizzati con grande vantaggio. Enzo è stato per me un altro maestro, dopo Di Bella, Nutrizio, Palumbo. Mi affascinava la sua capacità di farsi pagare bene. Per una prefazione si fece corrispondere all'epoca 10 milioni di lire, una cifra astronomica che un giornalista normale poteva incassare in tre mesi. Cercai di capire come riuscisse a realizzare questi incassi stratosferici e alla fine appresi la tecnica. Del resto, è cosa nota che non lavoro mica gratis. Il segreto è farsi desiderare, tirarla un po' per le lunghe, non manifestare troppo entusiasmo davanti ad un'offerta, un po' come le donne che si fanno corteggiare, aumentando il desiderio nel corteggiatore. Questo accade anche nei rapporti professionali. Era un egoista notevole, Biagi pensava solo a se stesso, lui era il sole, noi i satelliti. Agiva come un despota, si imponeva con le maniere forti su coloro che lavoravano per lui. Lo sentii anche bestemmiare qualche volta e la cosa mi fece un certo effetto nonostante non ci fosse nulla di deplorevole, dal mio punto di vista. Durante la convalescenza Enzo scrisse un libro, ne dava alle stampe uno o due ogni anno, si diceva che avesse degli schiavi neri che sgobbassero per lui, ma non è vero. Io ho scritto qualcosa in sua vece, ma Biagi ci metteva sempre il suo zampino, aveva dei tic nervosi nella scrittura che lo caratterizzavano e rendevano la lettura molto piacevole. Non era uno che le mandava a dire neanche ai superiori. Le liti con la Rai, che cercava di imporgli una linea, erano copiose.

LA CARRIERA. Enzo era testardo e presuntuoso. Iniziò molto giovane, a 17 anni, prima ancora di finire le superiori. Diplomatosi in ragioneria, si iscrisse alla facoltà di Economia e commercio che frequentò per un solo anno. Il richiamo per la scrittura era irresistibile ed Enzo ci si buttò a capofitto come sulle tagliatelle, cominciò così a lavorare per Il Resto del Carlino in qualità di cronista, diventando professionista da giovanissimo. Durante la guerra era retribuito non solo dal suo giornale, ma prendeva compensi anche dal regime fascista, ma guai a ricordarglielo, cadeva nell'imbarazzo, non voleva che si sapesse in giro. Enzo era fascista allora, come tutti del resto. Questo non mi sorprende né mi scandalizza. Non aveva ancora trent' anni quando fu nominato caporedattore di Epoca, settimanale che ha fatto la storia dei rotocalchi italiani insieme a L'Europeo. Dopo pochi mesi, era stato già promosso direttore e portò Epoca a vendere il record di 500 mila copie. Fu un successo strabiliante. Caratteristica di Biagi era quella di realizzare un giornale popolare eppure di livello, servendosi anche di fotografie importanti. Aveva un senso cinematografico, una tecnica che credo non sia ancora tramontata, anche se oggi i giornali sono stati sostituiti dagli aggeggi tecnologici. Nel 1961 Biagi divenne direttore del Tg1, che allora era una sorta di gazzetta ufficiale, lui lo trasformò, applicando il suo metodo, ossia dando meno spazio alla politica e più spazio ad altri aspetti e problematiche della vita degli italiani. Giovarono anche alcune eccellenti assunzioni, come quella di Piero Angela, Enzo era molto bravo a scoprire i talenti. Fece un contratto anche a Giorgio Bocca, al suo caro amico Indro Montanelli, Enzo Bettiza, Emilio Fede. Durò alla Rai solo un anno, perché Biagi era disubbidiente, ribelle, non riusciva a stare agli ordini di scuderia. Così iniziò il lungo pellegrinaggio da un giornale all'altro, finché non fu chiamato a dirigere Il Resto del Carlino. Ma anche questa fu una parentesi. Lo penalizzava il suo caratteraccio, Enzo non si piegava, eppure svolse una carriera strepitosa e pubblicò libri che furono capolavori, tra questi uno mi restò in testa, "Disonora il padre". Continuò sempre ad essere un giornalista molto ambito, tutti lo volevano, ma con le direzioni ha sempre avuto conflitti più o meno accesi. Provavo per Enzo una grande ammirazione, ero tentato a volte di fargli un po' il verso, di imitarlo nella scrittura. Lui se ne era accorto, non mi ha mai rimproverato per questo, ne era lusingato. Spesso scrivevo dei testi al posto suo e sembrano redatti dalla sua penna. La mia stima nei suoi confronti era ricambiata. Enzo mi teneva in grande considerazione, oggi succede anche a me di avere dei giovani apprendisti in cui ravvedo e riconosco un piglio particolare. Ciò che lo indispettiva verso di me era l'amicizia che avevo instaurato con sua figlia Bice. Arrivò ad incazzarsi per questo ed io andai via, salvo poi tornare quando Enzo mi richiamò.

L'ARTICOLO SU SCALFARO. La nostra amicizia non si ruppe mai, ma si guastò, o cambiò, quando divenni direttore de L'Europeo. Enzo sembrava quasi un po' indispettito ed io non ne capivo il motivo. Forse per quanto mi considerasse un giornalista decente, non aveva messo in conto o immaginato che avrei potuto tenere le redini di un giornale incrementandone la diffusione. Ci si vedeva ancora, ci si parlava, ma avvertivo che era infastidito. Lasciato L'Europeo, andai a dirigere L'Indipendente. Il presidente della Repubblica era diventato Oscar Luigi Scalfaro e alla fine dell'anno tenne il discorso di rito. Biagi scrisse per Il Corriere un articolo di fondo per elogiare il neo-capo dello Stato raccontando banalità, come il fatto che Scalfaro avesse ricevuto in regalo dalla figlia una cravatta. Non persi l'occasione di prenderlo in giro per questo pezzo stucchevole e zeppo di luoghi comuni, più degno di un parroco che di un giornalista brillante quale era. Enzo se la prese a morte, non gradì di essere spernacchiato da un collega che era stato una specie di discepolo. Andare a dirigere Il Giornale al posto di Montanelli fu considerato da parte di Enzo quasi un torto al suo amico. Non lo digerì. Ma forse era più esterrefatto per la mia vertiginosa ascesa che stizzito. Gli venne un altro infarto e fu ricoverato all'ospedale di cardiologia Monzino, a Milano. Nonostante tutto, continuava ad essere un caro amico ed andai a trovarlo. In quell'occasione Enzo mi disse: «Il più grande dispetto che potevi fare a Montanelli non era quello di andare a dirigere il Giornale al posto suo, ma di raddoppiarne le copie». Mi fece capire che Montanelli ci soffriva. Dopo un anno e mezzo mi accorsi della vicenda di Affittopoli, ossia che moltissime belle case romane e di altre città erano state cedute in locazione a politici e sindacalisti, alla nomenclatura insomma, a prezzi stracciati. Feci un'inchiesta micidiale che fece guadagnare al giornale nel giro di 15 giorni 30-40 mila copie, i lettori restavano attaccati, si fidelizzavano. Questa cosa fece incazzare Enzo. Mi riferirono che diceva: quelle di Feltri non sono inchieste, bensì pratiche di sputtanamento dei politici. Insomma, Biagi criticava il mio modo di fare giornalismo. Si era instaurato tra noi questo rapporto di odio e amore. Intanto iniziai a vederlo sempre più di rado, soprattutto a causa dei miei impegni lavorativi. Un giorno facemmo un pranzo a casa di Bice. Si capiva che era meravigliato del fatto che io prendevo in mano i giornali e li portavo alle stelle. Forse molti pensavano di me fossi un bravo giornalista e basta, nessuno si aspettava che sarei riuscito anche a dirigere. Avevo quasi spodestato i grandi, superati nelle vendite di sicuro.

TRA LUI E MONTANELLI. Quando fondai Libero nel 2000, venni sottovalutato ancora, suscitai l'ilarità generale. Mi telefonò Biagi una sera in cui ero a cena dalla figlia insistendo sul fatto che io dovessi tornare al Corriere ed aggiungendo che si sarebbe dato da fare per questo. Ma io a Libero stavo benissimo. Era ancora l'inizio e faticavo parecchio, ma credevo in ciò che stavo organizzando ed ero carico di entusiasmo. Ben presto portai il quotidiano a 120 mila copie. Enzo riteneva che stessi perdendo tempo, ancora una volta non credeva che potessi farcela. Non si è mai complimentato con me per i successi di Libero, in fondo, ciò rientrava nel suo caratteraccio. Durante la campagna elettorale che poi si concluse con il trionfo di Silvio Berlusconi su Romano Prodi nel 2001, tra me e Biagi si inasprì l'antagonismo. Io sostenevo Silvio, lui il suo caro amico Romano. Nonostante queste ostilità ho sempre voluto bene ad Enzo, e lui a me. Ero l'ultimo arrivato ed ero diventato importante. Era normale che suscitassi sconcerto. Tuttavia era difficile per Enzo, come per Indro, sostenere che io fossi un pirla. I risultati erano evidenti. Biagi mi ha insegnato l'arte della sintesi, non solo quella di farmi pagare bene. Mi raccomandava di non scrivere per i finti intellettuali, e neanche per quelli veri, ma solo per la gente; di cercare di raccontare ciò che incuriosisce e non quello che sembrava importante a me. «I tuoi gusti personali lasciali perdere, Vittorio, entra nel cuore del lettore», mi ripeteva, spingendomi sempre alla ricerca della battuta capace di alleggerire il discorso. Insomma, mi esortava a essere lieve per acchiappare il pubblico. Volevo essere come lui, ed era questo ciò che provavo anche per Montanelli, eppure mi sentivo più vicino al primo nei sentimenti, come nel modo di vedere e leggere la realtà. Se Indro era un po' aristocratico, un patrizio, Enzo era più popolare, un plebeo, quanto me.

·        100 anni dalla nascita di Ray Bradbury.

Un genio della letteratura fantastica straordinariamente prolifico: questo è stato Ray Bradbury (nato nell’Illinois a Waukegan il 22 agosto 1920 e morto a Los Angeles il 5 giugno 2012) lo scrittore che ha ispirato generazioni di lettori a sognare, pensare e creare. Pubblicato mercoledì, 01 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Fallai. È autore di centinaia di racconti e di una cinquantina di libri oltre a numerose poesie, saggi, opere teatrali e sceneggiature per il cinema. Le sue opere più famose, solo per citarne alcune, sono Fahrenheit 451, Cronache marziane, Il popolo dell’autunno . Nel 2007 ha vinto il Premio Pulitzer alla carriera. La casa editrice «Piano B» nel 2018 ha pubblicato una raccolta di dodici suoi saggi dedicati all’arte della scrittura. Il libro, intitolato Lo Zen nell’arte di scrivere, è denso di suggerimenti ed esempi pratici, ma è davvero molto più di un semplice manuale per l’aspirante scrittore: è una celebrazione dell’arte di scrivere, una biografia letteraria, un’esortazione a seguire la via dell’istinto e dell’entusiasmo e che conduce al luogo dove dimora il proprio genio interiore. Ogni indicazione parte dall’esperienza individuale di Ray Bradbury, fin dall’esortazione iniziale: «Ogni mattina salto giù dal letto e metto i piedi su una mina. La mina sono io. Dopo l’esplosione, passo il resto della giornata a rimettere insieme i pezzi. Ora è il tuo turno. Salta!». Rifiutando ogni regola Ray Bradbury ne enuncia tre fondamentali: lavoro, rilassamento, non pensare. E si comincia sempre dal lavoro: «Questa è la parola intorno alla quale la vostra carriera ruoterà per tutta la vita. A partire da oggi tu dovresti diventare non il suo schiavo, termine fin troppo meschino, ma il suo partner. Quando il lavoro e l’esistenza si fondono in un’esperienza condivisa, la parola perderà i suoi aspetti repellenti. Spesso indulgiamo nel lavoro, nei finti affari, solo per evitare di annoiarci. O peggio ancora, concepiamo l’idea di lavorare solo per i soldi. È una menzogna scrivere per essere ricompensati con il denaro del mercato commerciale. È una menzogna scrivere per essere ricompensati dalla fama offerta da qualche gruppo snob semi-letterario nelle gazzette intellettuali. Qual è la più grande ricompensa che uno scrittore può desiderare? È il giorno in cui qualcuno ti corre incontro, con il volto che esplode di onestà e gli occhi ardenti di ammirazione, ed esclama: “Questa tua nuova storia era davvero bella, era meravigliosa!”. Allora, e solo allora, scrivere sarà valso a qualcosa». Definirlo solo scrittore di fantascienza è riduttivo. È lui stesso a spiegarlo quando riflette proprio su cosa sia la fantascienza e come abbia potuto affermarsi. «Sono stati gli studenti, i ragazzi, i bambini - scrive in un saggio - a guidare la rivoluzione nella scrittura e nella pittura. Sono stati loro a insegnare a leggere a bibliotecari e insegnanti. I ragazzi sapevano, senza che neppure osassero sussurrarlo, che tutta la fantascienza è un tentativo di risolvere i problemi fingendo di guardare da un’altra parte». «Ovunque guardiamo: problemi. Ovunque gettiamo uno sguardo approfondito: soluzioni. Come possono i figli degli uomini, i figli del tempo, non essere affascinati da queste sfide? Ecco qua la fantascienza e la sua storia recente».

·        100 anni dalla nascita di Franco Lucentini.

È stato uno scrittore sperimentale Franco Lucentini, prima di avviare il sodalizio letterario con Carlo Fruttero, ma forse pochi ricorderanno la sua appartenenza al Gruppo 63 e il suo romanzo neoavanguardistico «Notizie dagli scavi» (1964). Nato a Roma il 24 dicembre 1920, si è tolto la vita, a Torino il 5 agosto 2002. Pubblicato mercoledì, 01 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Fallai. Franco Lucentini aveva esordito in realtà già nel 1951, quando pubblicò il romanzo breve «I compagni sconosciuti», eppure il suo cognome è noto al grande pubblico come parte di una coppia indistinguibile che rimane tra le più consolidate e fortunate della narrativa italiana. Una coppia amata dal pubblico ad ogni titolo e consacrata dalle classifiche dei best seller, per la capacità lucida ed intelligente di commentare il quotidiano con la lente dell’ironia e per saper guardare allo «strano» e all’ inconsueto con una tutta particolare raffinatezza e curiosità. La formula del racconto perfetto è sempre stata per loro: «Tenere il lettore col fiato sospeso con una storia sempre imprevedibile». Lucentini amava come il suo compagno di lavoro la letteratura codificata in un «genere», come il giallo o la fantascienza, e non a caso ebbe insieme a Fruttero per lunghi anni la responsabilità della collana della Mondadori, Urania, e anche della rivista omonima. Il genere era per loro «uno schema apertamente preordinato che permette di gestire con più facilità la materia del romanzo». E a queste categorie appartengono quasi tutti i volumi, scritti rigorosamente a quattro mani, come «La donna della Domenica» (72), «A che punto è la notte» (79), «Il palio delle contrade morte» (83), «L’amante senza fissa dimora» (86), «La verità sul caso D.» (89), «Enigma in luogo di mare»(91), «La morte di Cicerone» (95). Traduttore come anche il collega Fruttero, Lucentini sperimentò insieme a lui le più diverse forme: dalla radio, con radiodrammi e conduzioni; al cinema, al teatro, alla tv, fino alla prova delle prose satiriche, come quelle di «La prevalenza del cretino». L’intento è pero sempre stato unico: rendere il lettore protagonista vero della loro narrativa, dove sono solo le sue emozioni a dettare le leggi che regolano la storia e il ritmo. A loro volta lettori insaziabili ed esigentissimi, hanno curato insieme molte antologie come «I libri della fantascienza». Dicevano, negli ultimi anni in cui libri si sono sempre più diradati, che forse la fantascienza stava morendo «incalzata dalla realtà, con cui tende a confondersi. Ma nessuna scomparsa, nella letteratura - sostenevano - è una scomparsa definitiva, la letteratura è sempre imprevedibile».

·        100 anni dalla nascita di Giorgio Bocca.

È morto nel giorno di Natale del 2011, nella sua casa di Milano, dopo una breve malattia, Giorgio Bocca. Pubblicato mercoledì, 01 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Fallai. Era nato a Cuneo il 18 agosto 1920, aveva 91 anni. Tra i grandi protagonisti del giornalismo italiano, Bocca ha raccontato nei suoi articoli e nei suoi libri l’ultimo mezzo secolo di vita italiana con rigore analitico e passione civile, improntando sempre il suo stile alla sintesi e alla chiarezza. Bocca iniziò a scrivere già a metà degli anni 30, su periodici locali e poi sul settimanale cuneese La Provincia Grande. Durante la guerra si arruolò come allievo ufficiale alpino e dopo l’armistizio fu tra i fondatori delle formazioni partigiane di Giustizia e Libertà. Nel 1976 fu, insieme con Eugenio Scalfari, tra i fondatori del quotidiano la Repubblica, con cui da allora collaborò ininterrottamente. Tenne ininterrottamente sul settimanale L’Espresso la rubrica L’antitaliano che sospese solo un mese prima di morire a seguito del peggioramento della malattia che lo affliggeva. Nel ricordarlo per il Corriere della Sera, Francesco Cevasco, ricordava le sue ultime parole: «La politica, il parlar di politica come interminabile, ossessivo fiume di oscenità, come accadeva nella fanciullezza quando ci scambiavamo parole “sporche” persuasi che quello fosse il segno della raggiunta maturità, che eravamo uomini capaci di essere uomini. Giornali e televisioni sembrano dominati dalla foia delle immagini lubriche, dell’umorismo da caserma». Ci ha lasciati così Giorgio Bocca, con queste ultime, le sue solite, parole dure, cattive, arrabbiate. Mica le inutili smancerie di chi è consapevole di essere arrivato agli ultimi giorni della sua vita e te la mena con se stesso, con quanto è stato grande, bravo e bello e un primo della classe nel suo mestiere di giornalista. No - proseguiva Cevasco - Bocca ha preferito il suo, solito, stile ruvido, contadino, duro come la terra del Piemonte da cui è arrivato in quella città chiamata Milano che gli è entrata talmente nel cuore e nel lavoro e negli affetti e nell’amore che ci ha scritto pure quel libro dal titolo Il Provinciale dove di provinciale non c’è niente, ma c’è la conquista di un mondo che allora era il mondo attorno al quale girava l’Italia intera. Milano. La Milano di Mattei, quella che nel giornalismo si chiamava Il Giorno. Di quella Milano il Provinciale Giorgio era uno dei protagonisti ma faceva finta di essere sempre quel contadino ruvido, quel partigiano che aveva sfidato la morte nazista, quel giornalista che sfidava questori, prefetti, magistrati, poliziotti, spioni, padroni, burocrati, imprenditori esentasse, inventori di dossier tarocchi eccetera. Faceva finta di essere un bastian contrario ottuso, come i suoi compaesani di Cuneo che per far bella figura tenevano accese le luci sulle strade pubbliche anche di giorno, per tirare le sue stoccate (anche con male parole) ai democristiani, socialisti, comunisti, missini di turno».

Giorgio Bocca, partigiano. Nato il 28 agosto del 1920, oggi avrebbe compiuto cento anni. Dalla Resistenza iniziata sulle montagne del Piemonte e continuata per i 66 anni successivi, con la penna e l'inchiostro al posto del fucile. L'omaggio che Roberto Saviano ha scritto per il grande giornalista dopo la sua morte nel 2010. Roberto Saviano il 19 agosto 2010 su L'Espresso. Ho capito una cosa, molto semplice ma forse decisiva: gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi certamente pagati dai cittadini non sono altro che i loro elementari diritti. Assicuriamoglieli, togliamo questo potere alla mafia, facciamo dei suoi dipendenti i nostri alleati... Quelli che parlavano erano due piemontesi e discutevano delle radici profonde del male meridionale, loro lo avevano capito e l'analisi che si scambiavano come un testimone che l'uno affidava all'altro non era disprezzo colonialista verso un popolo schiavo che non aveva la forza di riscattare i suoi diritti. No, il loro era amore per il Sud, da italiani che sapevano di essere parte di quella stessa terra così lontana dai portici delle città sabaude, costruiti per proteggere da un clima europeo che il sole della Sicilia e della Campania non sa immaginare: un amore che andava oltre il senso del dovere o della professione e che per questo si trasformava in denuncia, nella metodica, sistematica analisi di quanto il male fosse profondo nella vita della gente che non sapeva, non voleva, non poteva ribellarsi. Quel colloquio tra Carlo Alberto Dalla Chiesa e Giorgio Bocca è stato importante per me e per quelli della mia generazione che hanno sempre chiesto di capire. Noi che abbiamo cominciato a fare domande dopo la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, per riscoprire così il sacrificio del carabiniere diventato prefetto che aveva rinunciato alle scorte e alle blindate per essere parte della vita di Palermo, l'altra capitale del Sud, e si era imposto di cominciare la sua missione proprio dalle scuole, dal consegnare ai giovani meridionali la speranza in un futuro di legalità. Noi volevamo capire perché senza capire non si può cambiare; capire anche a costo di specchiarsi nell'orrore di una realtà che non poteva più restare nascosta dietro slogan logori e paesaggi da soap: guardarsi in faccia, scoprire il proprio volto a costo di rendersi conto di quanto fosse brutto. Questo è quello che Giorgio Bocca mi ha insegnato, a raccontare senza avere scrupoli né sentirmi un traditore. Lo hanno accusato di essere razzista, antimeridionale, di odiare il Sud. Sono le stesse cose che hanno detto di me, contro di me, "il rinnegato". Ci hanno dato degli "avvoltoi" che si arricchiscono con il dolore altrui. Bocca invece ha fatto dell'essere "antitaliano" una virtù, il metodo per non arrendersi a luoghi comuni. Da lui ho capito che non bisognava mai lasciarsi ferire, né abbassare gli occhi: gli insulti sono spinte ad andare oltre, a entrare più in profondità nei problemi. La mia strada per l'inferno l'ha indicata lui, "Gomorra" si è nutrito della sua lezione: guardare le cose in faccia, respirarle, sbatterci contro fino a farsele entrare dentro e poi scrivere senza reticenze, smussature, compiacenze. Bocca lo ha sempre fatto, da fuoriclasse, lo continua a fare oggi a novant'anni con la curiosità e la tenacia di un ventenne; sempre pronto a mettersi in discussione come quel ragazzo che nel 1943 salì in montagna superando il suo passato e scegliendo il suo futuro. E quando lui e Dalla Chiesa parlavano di un popolo da liberare lo facevano con l'anima dei partigiani, di chi aveva combattuto lo stesso nemico in nome dello stesso popolo. Avevano rischiato la vita e ucciso anche per consegnare un domani diverso a chi accettava passivamente la dittatura fascista e la dominazione nazitedesca; sono stati partigiani anche per chi non aveva il coraggio, la forza, la volontà, la possibilità o la capacità di lottare per i propri diritti. La loro vittoria è stata la Costituzione, quel documento vivo che dovrebbe essere il pilastro della nostra democrazia, un monumento di libertà troppo spesso ignorato o bollato di vecchiaia. No, è un testo modernissimo, come ancora oggi lo sono gli interventi di Giorgio Bocca. Essere partigiano prima con il fucile e poi per altri 65 anni con l'inchiostro significa avere la misura della libertà, saperla riconoscere ovunque. A sud di Roma è difficile ascoltare racconti partigiani. La guerra di liberazione è stata più a nord e anche questo ha contribuito a non risvegliare coscienze già rassegnate. Napoli con le sue quattro giornate è stata una fiammata d'eroismo, l'unica metropoli europea a cacciare i tedeschi, ma la sua levata d'orgoglio è bruciata in meno di una settimana. Sembrava quasi che ad animare i napoletani diventati guerriglieri ci fosse lo stesso sentimento del tassista che Bocca descrive nell'incipit del suo "Napoli siamo Noi": "Lui che è più intelligente del forestiero. La maledetta presunzione individualista per la quale un napoletano è pronto a dannarsi". Dopo, la rivolta della dignità in armi ha lasciato spazio all'umanità prostituta di Curzio Malaparte. Scriveva Bocca in quei mesi dell'autunno 2006 quando ancora una volta Napoli tornava a essere sinonimo di abisso criminale: "Una grande città può accettare un'occupazione delinquenziale? La risposta è sì: la grande città che dovrebbe ribellarsi all'occupazione è purtroppo composta da troppi cittadini impigliati nei vizi della camorra. Napoli dovrebbe ribellarsi contro se stessa e questo francamente è impensabile. In definitiva noi crediamo che almeno per ora la criminalità abbia vinto. Napoli ha toccato il fondo". Il Sud non ha speranze? Da solo, difficilmente può farcela, ma senza il Sud non c'è più l'Italia. I partigiani lo avevano capito, Dalla Chiesa lo aveva capito, Bocca continua a ripeterlo. E nel titolo del suo libro c'è la chiave per decifrarne il significato: "Napoli siamo noi, il dramma di una città nell'indifferenza dell'Italia". Lui non è antimeridionale, non è razzista ma da italiano dimostra un amore vero per questa terra devastata. Per Bocca la guerra di liberazione era stata battaglia per salvare anche l'unità, contro i tedeschi, i francesi gaullisti e i comunisti titini; contro i "moti separatisti siciliani e calabresi, di Portella della Ginestra e di Caulonia, ci fu una spontanea offerta partigiana di riprendere le armi a difesa dell'unità nazionale. Il vento del Nord, come fu chiamata la presenza partigiana nei primi governi di Parri e di De Gasperi, guardasigilli il comunista Togliatti, fu chiaramente unitario e risorgimentale. Sentimento condiviso dagli italiani che si strinsero attorno a quei padri fondatori della Repubblica". Oggi anche lui guarda con sospetto alla chiamata federalista: sa che le mafie non chiedono altro e non soltanto al Sud. Perché lui, quello che chiamano "razzista piemontese", quello che tra i primi ha saputo scorgere le istanze positive della Lega, non si fa scrupolo nel dire il male che vede al Nord, i frutti malati di quella colonizzazione criminale che ha trovato terreno fertile sulle due sponde del Po grazie anche alla distrazione spesso complice degli amministratori leghisti: "La presenza della criminalità organizzata, per sua storia e natura antistatale, è qualcosa di visibile, di onnipresente, di impudente. Ci sono ristoranti, mercati, club, sezione di partito, amministrazioni della Padania equamente divise fra la novità politica della Lega anti-unitaria e le cosche mafiose che di patria conoscono solo quella della rapina e delle consorterie criminali". Eccolo Bocca, in quello che parlando dei suoi maestri definì : "Lo stesso modo di vedere il mondo, senza retorica ma senza rassegnazione". Vedere il mondo a testa alta, la sua lezione, che mi accompagnerà sempre.

Dal "Provinciale" a "Noi terroristi", i capolavori con Repubblica. La nuova collana Gedi comprende gli otto capolavori di Giorgio Bocca. Ogni venerdì sarà in edicola un volume insieme a Repubblica al prezzo di 9,90 euro. Si comincia appunto il 28 agosto. Anna Briganti su La Repubblica il 25 agosto 2020. Un combattente di carattere, un uomo che non ha mai badato ad altro che a cercare la verità e quando era turpe, come spesso è, la denunciava senza badare a rischi o convenienze" nel ricordo di Eugenio Scalfari. "Un provinciale con una idea testarda di libertà" nelle parole di Ezio Mauro. L'antitaliano, dal nome della sua rubrica sull'Espresso, profondamente italiano, profondamente piemontese, come amava definirsi. Il partigiano di Giustizia e Libertà, che ha combattuto la "guerra povera" e che si è formato in quei venti mesi sulle montagne del Cuneese, dov'era nato nel 1920. Il cronista che tutti, in particolare i giovani, dovrebbero leggere. Il giornalista, lo scrittore e lo storico testimone del XX secolo, fondatore di Repubblica. Il 28 agosto 2020 Giorgio Bocca, scomparso quasi nove anni fa, avrebbe compiuto cento anni e da venerdì nasce una collana dedicata a lui: otto libri allegati ogni settimana a Repubblica per leggere/rileggere le sue opere principali. Il primo titolo della collana Giorgio Bocca, che si può trovare da venerdì in edicola, è un classico della sua produzione: l'autobiografia tra pubblico e privato Il Provinciale (edizione speciale GEDI, in accordo con Feltrinelli). Dagli "anni della neve e del fuoco", la guerra partigiana - che ha sempre considerato l'esperienza più importante della sua vita, l'unica occasione che secondo lui l'Italia non ha sprecato - , alla scelta che avrebbe cambiato la sua esistenza. "\[Nel dopoguerra\] mi chiesero se avessi delle ambizioni politiche, se desiderassi una carica pubblica, una candidatura alle elezioni. No, niente politica. Dissi che preferivo fare il giornalista" scrive Bocca, che poi avrebbe raccontato vizi e virtù dell'Italia e del mondo, dal terrorismo ai potenti italiani, dalla guerra dei Sei giorni in Israele alla guerra fredda, mai schiavo delle ideologie, anzi, facendo arrabbiare tutti, a destra e a sinistra, perché non riuscivano a dargli una etichetta. Il Provinciale potrebbe essere un romanzo di formazione, con la realtà che come sempre supera la fantasia: dall'"allegra sana povertà" della gioventù alla fama grazie alla scrittura, prima a Torino e poi a Milano. Tra i tanti passaggi significativi di questo volume, che attraversa la Storia, c'è il dietro le quinte dell'intervista più famosa di Bocca, quella a Carlo Alberto dalla Chiesa. Il generale cerca Bocca perché vuole fare sapere al Paese di essere stato lasciato solo, dallo Stato, nella lotta contro la mafia. Un mese dopo dalla Chiesa e sua moglie, Emanuela Setti Carraro, sarebbero stati uccisi, "crivellati di colpi da un commando mafioso in motocicletta". Altre parti notevoli sono quelle nelle quali Bocca abbandona per un attimo la sua corazza, e racconta qualcosa di personale: un primo matrimonio finito, con lei, ballerina della Scala, che se ne va e gli lascia la figlia di un anno, le uscite in barca con un altro figlio, che sarebbe diventato skipper, e una considerazione sul passare del tempo. "Da ragazzo tutti mi amavano, abbracciavano, sorridevano...; nell'età media hai chi ti ama, chi ti è amico ma i più ti temono, ti invidiano, ti sorvegliano, ti usano, sono o nella tua cordata o sull'altra trincea; da anziano, se ti è andata bene, sei quello che deve dare senza chiedere o chiedendo poco, quello da cui tutti si aspettano qualcosa" leggiamo. La collana prosegue con il saggio/reportage Partigiani della montagna, scritto nel 1945. E poi, È la stampa bellezza! sulla sua "avventura nel giornalismo", un modo di raccontare il mondo sul campo, on the road, andando a vedere, consumando le suole delle scarpe, guidato sempre dalla libertà e dalla ricerca della verità; Miracolo all'italiana; Italia anno uno; Il viaggiatore spaesato, altro suo libro molto amato; Il secolo sbagliato e Noi terroristi.

VITTORIO FELTRI per Libero Quotidiano il 27 agosto 2020. Giorgio Bocca era un mio vicino di casa. Abitavamo sulla stessa strada, ossia in via Giovannino De Grassi, in zona Magenta, a Milano. Lo incontravo quasi tutte le mattine, uscendo per andare al giornale. E non mancavamo mai di fermarci per salutarci e fare quattro chiacchiere. Si parlava di tutto, soprattutto di politica. La passione allora era fervente. Erano i primi anni Novanta. Avevo conosciuto lo scrittore proprio in quel periodo, nella sua dimora, in occasione di un'intervista allo stesso che mi fu commissionata da una rivista mensile con la quale collaboravo nei medesimi anni in cui dirigevo l'Indipendente, ossia Prima Comunicazione. Nonostante io non gradisca dedicarmi alle interviste, che mi annoiano particolarmente, il pezzo riuscì abbastanza bene. Del resto, Bocca era un personaggio con un certo fascino ed ascoltarlo risultava stimolante. Quel dì inaugurammo un rapporto di conoscenza non superficiale. Giorgio era piccolo di statura e nerboruto. Possedeva un carattere di ferro, tuttavia si distingueva per i modi cordiali e gentili. La sua dote era la lungimiranza. Come tutti i veri grandi uomini, aveva la capacità di vedere più avanti degli altri. Fu il primo a capire che la Lega sarebbe stata un movimento importante. Inoltre il giornalista era particolarmente dotato per la saggistica politica. L'indole scontrosa gli rendeva difficile il rapporto con gli altri. Del resto, chi possiede personalità di solito ce l'ha pessima. Lo leggevo volentieri e mi scoprivo sempre concorde. Di Bocca apprezzavo soprattutto la prosa non raffinata. La sua scrittura era torrentizia, potente, coinvolgente, straripante, ti travolgeva come un fiume in piena. Affogarvi era un piacere. Giorgio riusciva a cogliere molto bene le situazioni e a rappresentarle in tutta onestà, eccellendo per questo nell'analisi politica, a differenza sia di Indro Montanelli, il quale era più superficiale ed irridente, sia di Enzo Biagi, che non ci capiva un granché di politica ed era una sorta di orecchiante. Mentre gli altri cronisti non avevano capito ancora nulla, Bocca aveva già capito tutto, in particolare davanti al fenomeno Lega. Egli era il saggista politico per antonomasia: fotografava la realtà e sapeva interpretarla. Memorabili le sciabolate di Montanelli nonché la classe della sua prosa, indimenticabile lo spirito spumeggiante di Biagi. Bocca, invece, si distingueva e restava inciso perché era duro e crudo. Senza orpelli inutili.

IL SUO PASSATO. Bisogna ricordare però anche il suo passato. Bocca era stato un ufficiale fascista e aveva compiuto atti di guerra che prevedevano persino la fucilazione del nemico, cosa che non esitò a fare. Sì, era fascista, è cosa nota, poi divenne partigiano. Dopotutto cambiare idea è ammesso, può succedere alle persone davvero intelligenti. Tuttavia, questa transumanza da uno schieramento all'altro seccava più di tutti Bocca stesso. Non sopportava che venisse rivangato il suo passato, che viveva come un marchio ignominioso. Non si accorgeva però che era rimasto fascista, e lo rimase per tutta la sua esistenza. Bocca era fascista nel temperamento, quantunque non più nei principi. Era fascista anche nel mentre vestiva e parlava da partigiano. Andò avanti con la teoria del manganello ed era un manganellatore persino da giornalista: menava con la sua prosa. Ad un certo punto, Giorgio si stancò della Lega e si schierò ancora e sempre a sinistra. La sua bandiera era un furioso antiberlusconismo, che lo avvicinava ai suoi amici: Montanelli e Biagi. Il trio si ritrovava di frequente, anche perché gestiva il premio "È Giornalismo", fondato nel 1995 dai tre giornalisti e dal mio caro amico Giancarlo Aneri, che hanno consegnato la vincita di oltre 15 mila euro sempre e solo a penne di sinistra. Con le mie direzioni negli anni Novanta ottenni risultati soddisfacenti nel mondo della carta stampata. Bocca non mancò di rendermene atto e merito in un articolo per La Repubblica. Giorgio sosteneva che di me se ne potessero dire di tutti i colori meno che non sapessi fare il direttore. Fu l'unico a riconoscerlo pubblicamente. Agli altri doleva troppo il fegato per poterlo fare. Tale ammissione mi fece alquanto piacere, cioè l'apprezzai. In fondo, non si era mica trattato di un gesto di generosità, bensì di obiettività, la quale non vale meno della prima, in particolare di questi tempi. Quello stesso anno sorse il problema: a chi assegnare il prestigioso e lauto premio? Giancarlo con un atto di coraggio propose il mio nome. Montanelli non fece i salti di gioia per l'entusiasmo, eppure non si oppose, dato che aveva quel freddo e sano cinismo di cui deve essere dotato un bravo giornalista. Anche Biagi non si oppose, ma non per le stesse ragioni. Enzo era uno che si adattava alle situazioni, camaleontico, furbo. Il nocciolo duro fu Bocca, il quale affermò con la sua solita obiettività: «Sì, è proprio vero: il premio lo meriterebbe Vittorio Feltri». E poi aggiunse furioso: «Ma è fascista!». Risi a crepapelle quando questo fatto mi fu raccontato da Aneri. E ancora oggi mi viene da ridere. Non sono mai stato fascista. Ovviamente fui escluso. Feci un pezzo su Il Giornale scrivendo di codesto riconoscimento che si scambiavano i giornalisti di sinistra. Lo chiamai sarcasticamente "Premio Stalin". Se me lo avessero dato allora, lo avrei accettato con gioia; oggi, invece, dopo che lo hanno preso cani e porci, non lo accoglierei. Ovviamente con una punta di dispiacere dato che al vincitore vanno 15 mila euro.

LA MIA MILITANZA. Poco prima di morire, Giorgio rilasciò un'intervista, nella quale, affaticato eppure sempre livoroso, rispondendo ad una domanda dell'intervistatore che gli chiedeva un'opinione su di me, disse: «Di Feltri non voglio parlare in quanto ne ho paura fisica». Insomma, come se io fossi uno che picchia. Restai perplesso. Anche perché ho sempre avuto rispetto, stima e considerazione di Bocca, nonostante la sua vita non omogenea. Mi accusava di essere fascista, eppure, a differenza sua, fin da giovane ero iscritto al Partito Socialista, già dai 17 anni, tanto da diventarne segretario della Federazione giovanile bergamasca. Questa mia militanza mi costò addirittura la non ammissione all'Arma dei carabinieri. Desideravo farne parte perché mi piacevano i cavalli ed i carabinieri avevano eccellenti strutture equine, per questo feci il concorso, che vinsi. Tuttavia, poi fui respinto. Restai avvilito. Fui convocato presso la caserma di Bergamo, dove senza troppi giri di parole mi comunicarono che avevo sì passato il concorso, ma che l'Arma non avrebbe potuto accettarmi per motivazioni che i carabinieri non erano tenuti a spiegarmi. Non seppi mai la ragione per la quale ero stato rifiutato, finché, parecchi anni dopo, diventato ormai giornalista, strinsi amicizia con un ufficiale importante, al quale una sera a cena raccontai questa triste vicenda senza nascondergli il fatto che il non conoscere il motivo che determinò la mia esclusione ancora mi pesava. Il comandante approfondì la questione dando un'occhiata al mio fascicolo che ancora giaceva negli archivi. E fu così che venni a conoscenza della verità: ero stato respinto in quanto iscritto al PSI, che era considerato alla stregua delle Brigate rosse. Insomma, Bocca non voleva darmi il premio poiché mi dava del fascista ed i carabinieri non mi volevano perché socialista. Essere ritenuto fascista proprio da Bocca era troppo. Sono stato tutto nella vita meno che fascista. E l'unico motivo per cui non sono antifascista ora è perché non c'è il fascismo. Sono sempre stato invitato alla consegna dell'onorificenza "È Giornalismo" e non ho mai nutrito invidia nei confronti dei miei colleghi che ne sono stati insigniti. Mi tocca ammettere che, se una volta questo genere di situazioni mi dava un pizzico di dolore, oggi ritengo che non ricevere codesti riconoscimenti vuol dire soltanto che non faccio parte del club dei fighetti. Nei gruppi e nelle categorie ci sto stretto. È un merito esserne esclusi. Al diavolo i premi. Io amo il mio giornale spettinato. Quando Bocca morì feci un pezzo in cui mi dichiarai sinceramente dispiaciuto: era morto il mio miglior nemico.

Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera” il 27 agosto 2020. «Dormo in una stanza del Dugento, pranzo in un salone del Dugentocinquanta, cammino su un selciato, nuovo nuovo, del Trecento e mi informo sui fiorini d'oro incassati dalla Salimbeni e figli, commerciando sete lungo la via Francigena e raccogliendo le decime per conto di Onorio IV. È colpa mia se qui, il miracolo economico è avvenuto sette secoli or sono?». Cento anni dopo la sua nascita a Cuneo il 28 agosto 1920, non si può ricordare Giorgio Bocca senza partire da uno dei suoi incipit. Straordinari. Figlio di due insegnanti, tirato su dalla scuola fascista (tipico temino alle elementari: «Il Maestro ci ha spiegato che gli italiani, siccome sono i più richiamati dalla Santa Provvidenza, hanno tredici comandamenti. I primi dieci della tavola di Mosè e poi c'è Credere, Obbedire, Combattere»), campioncino di sci col culto del Monviso («un totem dominante»), premiato dal Duce per una vittoria nella staffetta ai Littoriali del Guf («Arrivò nel salone di palazzo Venezia con un'ora di ritardo, passò rapido fra noi inneggianti, guardandoci a muso duro e un po' sdegnoso, e lasciò ad altri il compito di distribuire i distintivi»), allievo ufficiale degli alpini, giovanotto invasato tanto da scrivere a 22 anni su «La Provincia Grande» un paio di articoli sulla razza («Questo odio degli ebrei contro il fascismo è la causa prima della guerra») e sui Protocolli dei savi di Sion che gli sarebbero stati rinfacciati a vita, messo in crisi dalla guerra e dallo sfascio dell'8 settembre, quando decise di unirsi ai partigiani passò per casa e la mamma, che non capiva, gli corse dietro «sulle scale con una maglia di lana e ripeteva: "Mi raccomando, non far tardi stasera". Mi avrebbe rivisto dopo venti mesi». Non bastò una vita intera di reportage e inchieste e denunce sul «Giorno», «L'Europeo» e «la Repubblica» contro i mafiosi (memorabile l'ultima intervista a Carlo Alberto Dalla Chiesa sulla sua solitudine), i neofascisti, i mazzettari, i camorristi, i servizi deviati, i padreterni della cattiva politica, i razzisti, i palazzinari, i razziatori dell'economia («Il crollo del comunismo si è dimostrato una fregatura: quel modello opposto almeno obbligava anche il capitalismo a stabilire regole e un ordine di valori. Adesso invece contano solo i soldi») per risparmiargli attacchi e reprimende su quegli sventurati esordi. Ancor meno certe sortite successive tipo la convinzione che le Brigate Rosse fossero manovrate dai neri («Bisogna ammettere che abbiamo preso una bella cantonata», confesserà) o il provocatorio «Grazie barbari» rivolto ai leghisti (votati) per avere scardinato un sistema che aveva «fatto il suo indecoroso tempo». Commise degli errori? Sì. Cambiava idea? Sì. Cocciuto sulle vecchie come sulle nuove opinioni? Sì. Era però un uomo libero. Capace di essere scomodo anche con sé stesso. Un fuoriclasse assoluto. Al punto da guadagnarsi alla morte, tra grandinate di critiche, l'onore delle armi d'un arcinemico come Giuliano Ferrara: «La sua lingua letteraria scoppiava di umanità provinciale, balzacchiana se ce n'era una...». E chi li ha più visti, certi incipit? Sul boom a Vigevano: «Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi: se esistono altre prospettive, chiedo scusa, non le ho viste». Su un re della medicina: «Inseguo il professor Achille Mario Dogliotti per cliniche, ospedali, aule universitarie: oscuro e importuno scriba, nella scia di un sovrano...». Sui Marzotto: «Barba e baffoni per il bisnonno fondatore, soltanto baffoni per l'onorevole nonno, appena baffettini a spazzola per il beneamato genitore e guance lisce, menti d'alabastro, sottonasi rasati per i figli...». Chapeau.

“LA STORIA DEL FASCISMO E’ UNA STORIA DI FAMIGLIA”. Marcello Veneziani per “la Verità” il 26 agosto 2020. Cent' anni fa nasceva Giorgio Bocca, scarpa grossa e penna acuta del giornalismo di sinistra. Non tirerò fuori gli scheletri fascisti dal suo armadio, premiato da Mussolini, il suo razzismo conclamato in uno scritto del 1942, la recensione empatica dei Protocolli dei savi anziani di Sion, bibbia dell' antiebraismo, e nemmeno le successive crudeltà di capo partigiano, i suoi vizi proverbiali, i suoi brontolii antimeridionali, l' attaccamento arcaico al soldo o la sommaria grossolanità di certi suoi libri. Ma riprenderò un aspetto totalmente rimosso: il suo revisionismo storico in tema di fascismo. Bocca precedette Pansa nel rivedere il giudizio negativo sul fascismo, e in modo radicale. Nel 1983 pubblicò con Garzanti un testo revisionista, Mussolini socialfascista, in cui il partigiano era ormai archiviato e l' antifascismo militante non pesava più sul giudizio storico. L'autore più citato era un ragazzo di destra, il sottoscritto, per un saggio su Mussolini. Nello stesso anno - era il centenario della nascita di Mussolini - Bocca dialogò cordialmente con Giorgio Almirante su Storia Illustrata diretta allora da Giordano B. Guerri (se ben ricordo c' erano anche Indro Montanelli e Oreste Del Buono). Poco tempo prima aveva dialogato con me sull' Espresso condividendo la necessità di sdoganare la destra e aprire il dialogo con la sinistra (il servizio seguente sullo stesso tema era firmato da Paolo Mieli). Poi c' è stata la regressione in cui viviamo. Ma soprattutto Bocca scrisse risposte sorprendenti per un libro collettaneo, Il fascismo ieri e oggi a cura di Enzo Palmesano, che pubblicai nel 1985 in una collana dell' editore Ciarrapico. Vi offro una sintesi virgolettata, senza commenti, del suo revisionismo.

«La cultura italiana si è resa conto che la storia del fascismo, così come è stata scritta dagli antifascisti in questi anni, è storia da rivedere. È una storia che io chiamerei di famiglia». «Il più grave errore mi sembra quello di aver raccontato la storia del fascismo come la storia di un movimento autoritario, violento Ma la realtà del fascismo nascente è tutt' altra: il fascismo è un movimento violento e autoritario che reagisce a un' altra minoranza, altrettanto violenta e autoritaria, come quella socialcomunista». «Tra socialismo e fascismo c' è una matrice culturale comune, ci sono delle illusioni comuni: che gli uomini possano essere cambiati in breve spazio di tempo». «Nel 1936, all' epoca dell' impero credo che il 90% degli italiani approvasse quello che rappresentava anche il loro sogno». «Il consenso ci fu per tutto il periodo, diciamo così riformistico del fascismo, fino al patto con la Germania». «Gli intellettuali italiani, secondo la loro tradizione millenaria, passarono subito al servizio del fascismo. Si sa che i professori universitari che non giurarono fedeltà al fascismo furono tre e non di più (in realtà erano 11, diventarono 12, ndr). Tutti gli altri si misero dalla parte del fascismo che verso di loro, in verità, a differenza di altri regimi totalitari, fu piuttosto morbido. Il fascismo si differenziò proprio nell' essere largo nel lasciare autonomia alle scienze e alle arti». «C'era una posizione abbastanza permissiva da parte del fascismo». «Mussolini in campo culturale è stato un grandissimo giornalista e un politico professionale del suo tempo come Gramsci, Togliatti, Nenni. Rispetto agli altri dittatori totalitari Mussolini era un uomo di mondo, aveva letto i libri giusti, aveva dei rapporti corretti con la cultura, mentre Hitler e Stalin non li avevano». «Al di fuori del giornalismo non ha mai preso un soldo dallo Stato». «Per il delitto Matteotti non credo che si possa parlare di mandante diretto, credo che sia stato interpretato in modo estensivo un suo scatto di malumore... Mussolini diede in escandescenza contro di lui ma senza mai dire "uccidetelo"». «La politica sociale del fascismo fu nei primi anni una politica riformista normale, furono introdotte alcune leggi che facilitavano l' agricoltura, mettevano un primo ordine nei luoghi di lavoro; assicuravano con l' Iri un industrialismo assistito, una rinuncia al capitalismo feroce». «Eravamo un Paese arretrato, con una classe imprenditoriale anch' essa arretrata, e ad un certo punto fu giocoforza fare un' economia protezionista». «Il fascismo, nato come regime di massa, fece partecipare alla vita politica un numero maggiore di persone. I ceti medi, infatti, che nel regime liberale non avevano contato, sotto il fascismo, pur nei modi e nei limiti previsti, partecipavano alla vita politica». «Non è esistito un razzismo degli italiani diverso dal razzismo di tipo coloniale era politica di dominio non di sterminio». «Il popolo italiano le leggi razziali non le ha sentite per niente; l' adozione delle leggi razziali per adeguarsi alla Germania nazista furono una prova di subalternità rispetto alla Germania». «In tutto il fascismo fino al 1935, non c' è la minima traccia di razzismo antisemita». «Le affinità tra nazismo e fascismo sono pochissime e sono affinità di metodo: sono due regimi di massa, a partito unico, autoritari; ma le differenze sono molto più grandi delle somiglianze. Veramente fra fascismo e nazismo non c' è alcuna parentela». «La concezione della razza resta fondamentale per differenziare il fascismo dal nazismo». «Mussolini dell' ultimo periodo è stato un Mussolini con le mani legate, indubbiamente. Io credo che il motivo dominante dell' alleanza con la Germania sia stata la paura». Erano le tesi di Renzo De Felice. Poi il Bocca, ormai vecchio, si adeguò al clima di rinnovata caccia alle streghe fasciste e condannò il revisionismo del suo collega e rivale Pansa, di cui era stato precursore. In realtà Bocca rivide il giudizio sul fascismo mentre Pansa ripescò gli orrori della guerra partigiana. Ma con i giudizi qui riportati, oggi Bocca sarebbe accusato d'apologia di fascismo. Altro che il male assoluto di Mattarella...

·        100 anni dalla nascita di Federico Fellini.

Il 31 ottobre del 1993 ci lasciava Federico Fellini, uno dei più grandi registi della storia del cinema. Pubblicato mercoledì, 01 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Fallai. Era nato a Rimini il 20 gennaio 1920. Considerato uno dei maggiori registi della storia del cinema, vincitore di 5 premi Oscar (4 per il miglior film straniero, uno alla carriera) nell’arco di quasi quarant’anni - da Lo sceicco bianco del 1952 a La voce della Luna del 1990 - ha «ritratto» in decine di lungometraggi una piccola folla di personaggi memorabili. Definiva se stesso «un artigiano che non ha niente da dire, ma sa come dirlo». Da Rimini Fellini arrivò a Roma diciannovenne con la scusa di frequentare l’università, ma non sostenne neanche un esame. La sua ambizione era fare il giornalista, uno dei suoi sogni fare il fumettista. Riuscì a fare entrambe le cose dal 1939 sul Marc’Aurelio, la principale rivista satirica italiana, nata nel 1931 e diretta da Vito De Bellis. Il successo nel Marc’Aurelio gli offrì inaspettate occasioni di lavoro. Fellini fa conoscenza con personaggi a quel tempo già noti. Comincia a scrivere copioni e gag di sua mano, per Macario e Aldo Fabrizi. Scrive anche per la radio dove incontra e si lega affettivamente a Giulietta Masina. Grazie a Renzo Rossellini, Fellini collabora alle sceneggiature di Roma città aperta e Paisà, film che aprono, la stagione del Neorealismo. L’esordio alla regia cinematografica avviene nel 1950 con Luci del Varietà (insieme ad Alberto Lattuada) Due anni dopo Le luci del varietà, Fellini giunge all’esordio assoluto come regista, con Lo sceicco bianco, con Antonioni coautore del soggetto, Ennio Flaiano coautore della sceneggiatura e una grande interpretazione di Alberto Sordi. Nasce anche la collaborazione con Nino Rota che scriverà le musiche per diciassette suoi film. Il film viene bocciato dalla critica e snobbato dal pubblico. Il successo arriva col successivo I vitelloni che racconta la vita di provincia di un gruppo di amici a Rimini. Il film conquista il Leone d’argento alla Mostra del cinema di Venezia del 1953. La consacrazione internazionale arriva nel 1954 con La strada che nel 1957 vincerà l’Oscar come miglior film in lingua straniera, istituito per la prima volta in quella edizione. Dopo l’insuccesso de Il bidone, Fellini torna vincere nel 1958 l’Oscar come miglior film in lingua straniera con Le notti di Cabiria. È del 1960 il più celebre film di Fellini, La dolce vita, campione d’incassi in Italia e all’estero, opera che ha segnato profondamente la storia del cinema. Il film è interpretato da Marcello Mastroianni, giornalista-scrittore in crisi morale fra i locali notturni e i monumenti di Roma. Indimenticabile la scena di Anita Ekberg che fa il bagno nella fontana di Trevi, mentre il personaggio Paparazzo darà il nome alla categoria dei fotografi di gossip. Il film ottenne innumerevoli premi tra cui la Palma d’Oro a Cannes e un Oscar per i migliori costumi. Nel 1963 è la volta di 8½, altro capolavoro che gli permette di ottenere un nuovo Oscar. Nel 1965 Fellini passa al colore col film Giulietta degli spiriti. La produzione successiva di Fellini vede I clowns (girato per la TV, 1970), Roma (1972) e Amarcord (1973) sono tutti incentrati sul tema della memoria. E con Amarcord (mi ricordo, in dialetto romagnolo) vince nuovamente l’Oscar per il miglior film straniero. L’ultima fase della sua vita artistica lo vede firmare E la nave va (1983), Ginger e Fred (1986), Intervista (destinato alla TV, 1987), e il lavoro dell’addio al cinema: La voce della luna (1990), liberamente tratto da Il poema dei lunatici di Ermanno Cavazzoni. Nel 1993 l’Academy di Los Angeles decide di conferire a Federico Fellini il premio Oscar alla carriera. Morirà il 31 ottobre. Cinque mesi dopo morirà anche Giulietta Masina, con cui è stato sposato per cinquant’anni. Come ha scritto Paolo Mereghetti sul Corriere della Sera il suo mito continua a dominare incontrastato il cinema italiano. E non solo. Non ci sono altri nomi, né vivi né scomparsi, che possano insidiare questo suo privilegio. Forse solo Rossellini, ma nel circoscritto mondo della cinefilia critica, tra gli addetti ai lavori e per giunta nemmeno tanto giovani. Per tutti gli altri, in excelsis c’è Fellini. In un complice ritratto su Epoca, nel 1974, Cesare Garboli scriveva che «si possono anche discutere i film di Fellini. Ma nessuno come lui, con la macchina da presa, riesce a vedere “tutto”, e a far vedere tutta la “vanità” di ciò che si vede [...] Fa esistere le cose nello spazio di un prodigio, afferrandole un momento prima che si affloscino, a un passo dalla loro apparenza. Più di Bergman, più dello stesso Buñuel. Fellini “è” il cinema».

Aldo Grasso per il Corriere della Sera il 22 maggio 2020. Steiner si rivolge a Marcello con una battuta tipica di Ennio Flaiano: «Io sono troppo serio per essere un dilettante, ma non abbastanza per diventare un professionista». A 60 anni esatti dalla Palma d’oro, Rai Movie ha trasmesso La dolce vita per inaugurare il ciclo «Federico Fellini, realista visionario». Più passa il tempo, più si rivede il film e più la distanza tra Fellini e Flaiano prende corpo. Non tanto per lo sgradevole incidente che avrebbe rotto il sodalizio (il famoso viaggio in aereo a Los Angeles che vede Fellini seduto in prima classe con Angelo Rizzoli e Flaiano in economica), quanto perché tra i due c’era una profonda distanza culturale che, tra le pieghe, il film lascia trasparire. Ne La solitudine del satiro, Flaiano scrive: «Sto lavorando, con Fellini e Tullio Pinelli, a rispolverare una nostra vecchia idea per un film, quella del giovane provinciale che viene a Roma a fare il giornalista… Il film avrà per titolo La dolce vita… Uno dei nostri luoghi dovrà essere forzatamente via Veneto... Il giovane provinciale è già ben piazzato, guadagna, e uno di quei giornalisti prodotti dalla civiltà della sensazione, cioè racconta gli scandali, le fesserie che fanno gli altri. Si è lasciato adottare da quella stessa società che lui disprezza». Ma quando Flaiano vede in proiezione alcune scene del film commenta: «Il gongorismo, l’amplificazione di Fellini nel ritrarre quel mondo di via Veneto fa pensare al museo delle cere, le immagini dei quaresimalisti quando descrivono la carne che si corrompe e imputridisce… Fellini quaresimalista? É un’ipotesi tentatrice». Una delle tante chiavi di lettura del film potrebbe essere proprio questa: il contrasto tra la scrittura barocca, composita, grondante metafore di Fellini e lo stile aforistico di Flaiano, tra il mondo «caricaturale» del regista e quello intellettuale dello scrittore (e del gruppo del Mondo, cui apparteneva).

Giulia Zonca per ''La Stampa'' l'11 settembre 2020. Si ride a Venezia. Succede quasi alla fine e con un nome che chiama deferenza, Rossellini: voce che si abbassa subito sotto tonnellate di fama. Pura storia del cinema, la mostra celebra due maestri in un giorno solo. Fellini con La verità su la Dolce Vita e The Rossellinis, il titolo che capovolge il Festival. Via i timori, le ansie da prestazione, i confronti: il documentario elaborato per cinque anni dal nipote di Roberto Rossellini, Alessandro, è una liberazione. Non è da vedere per la saga che racconta un pezzo di Italia (e di mondo) ma per quello che dice sulla famiglia di ognuno di noi. «In casa di chiunque c' è uno più bello, uno autorevole, uno che incute timore». Alessandro non fa il regista di professione e forse è logico che l' unica voce lieve in un coro di drammi e spremute di problemi sia di qualcuno che sta fuori dal cinema. Pure essendoci nato più dentro di chiunque altro. Alessandro Rossellini, quasi 57 anni, passato complicato da anni di tossicodipendenza superati «con un lungo e attento ricompattamento». Mancava solo un pezzo, la tribù e lui l' ha rimessa insieme in un documentario che ha un nome troppo importante per reggere pure un soggetto serioso. Lo sguardo è autoironico e gioca sul fatto che ogni essere umano abbia la stessa sindrome: «la rossellinite», declinata in qualsiasi modo. Tutti colpiti dallo struggente bisogno di sentirsi amati e approvati, tutti intenti a reggere, superare o stracciare aspettative, a riannodare relazioni. I Rossellini sono figli e nipoti di tante passioni: «mi sono trovato in difficoltà, la morale oggi è aperta, ma diversa e il giudizio sul maschio è feroce». Un uomo che abbandona, fa il despota e richiama figli di matrimoni infranti per avere il controllo riceverebbe acidi commenti ora «io non posso proprio dire che nonno era un maschilista. Non era monogamo, era ancora padre e padrone e ci ha amato molto. A 11 anni mi ha spiegato il sesso dicendomi che prima di chiedere piacere a una donna bisogna darne due volte tanto a lei». Età sbagliata magari per un discorso così, però nei Rossellinis tutto è confuso. Per fortuna. Radici miste, parenti sparpagliati tra gli Usa, Roma, il Qatar, la Svezia e poi si scopre che questi rapporti non erano poi un continuo Vulcano. Eruzioni al momento dei tradimenti e poi tranquillità ricomposta con una continua estensione della stessa sicurezza: «Basta un colpo di genio». Motto del capostipite Rossellini e tormento per la dinastia: «Come se ognuno potesse tirare fuori una Roma città aperta all' improvviso». No, pure se il padre di Alessandro ha fatto il regista, se la zia Isabella si è tolta ogni sfizio di notorietà tra la carriera di modella e quella di attrice, niente sarebbe stato abbastanza per essere come Roberto Rossellini e Ingrid Bergman. E nel documentario si scopre che nessuno voleva seguire orme così definite. Oggi i Rosselinis sono una famiglia allargata e più che multietnica. Alessandro ha una madre afroamericana, «la hanno allontanata, non perché nera, allora era alcolista e umorale ma lei e mio padre si sono voluti bene davvero», c' è il ramo indiano con Raffaella che è diventata musulmana e si chiama Nur «e c' è questo strano sguardo su di noi che io non avevo mai visto prima». La vena malinconica non è nel film è nelle inevitabili considerazioni che si fanno guardandolo: «Eccoci lì: meticci, mulatti, misti, atei e convertiti, etero e gay, c' è tutto in una sola unitissima famiglia eppure la gente mi guarda storto quando entro in un negozio. Fino a che non tiro fuori al carta di credito». Se ognuno curasse la propria «rossellinite» forse sarebbe un po' più semplice.

Marco Giusti per Dagospia il 10 settembre 2020. In una delle scene più di culto, ma assolutamente vere, della docu-fiction che Giuseppe Pedersoli ha messo in scena sulla vita e sul ruolo fondamentale di suo nonno Peppino Amato sulla costruzione della Dolce Vita di Federico Fellini, “La verità su la Dolce Vita”, mostrato a Venezia oggi, vediamo il produttore napoletano come prima mossa andare da Padre Pio a Pietrelcina e chiedergli se faceva bene o no a produrre il film. Cosa gli disse davvero, il vecchio Alvaro Mancori, amico fraterno di Amato che era presente all’incontro, non riuscì a afferrarlo, ma certo da lì in poi il produttore prese il film come una missione da portare a termine. Personaggio leggendario già negli anni dei Telefoni Bianchi, “Pareva un dio”, ricordava Paolo Stoppa, “faceva cadere le cose dall’alto”, ricordava Aldo Fabrizi, “ma ci aveva l’occhietto clinico”, Peppino Amato, che si chiamava in realtà Giuseppe Vasaturo, nato a Napoli nel 1899, aveva dedicato l’intera vita al cinema. Star sulle scene del cinema muto napoletano dal 1914 agli anni ’20, protagonista di film come “Pupatella”, “Reginella”, “Napule ca se ne va”, era diventato produttore nei primi anni ’30 legandosi a registi come Mario Bonnard, Carmine Gallone, Gennaro Righelli, e a un finanziatore forte come Angelo Rizzoli, che ritroveremo proprio su “La Dolce Vita”, a uomini di partito illumnati come Luigi Freddi. La sua prima fissa fu di portare i De Filippo dal teatro al cinema, pensando, forse ingenuamente, di far diventare Eduardo e Peppino i nuovi Stanlio e Ollio. Li fa esordire in “Tre uomini in frac”, e arriva al grande successo popolare con “Il cappello a tre punte” di Mario Camerini, malgrado fosse stato attaccato dallo stesso Mussolini, che interruppe la visione a metà, criticando il film per il suo antifascismo. Malgrado i tanti tagli che si fecero per renderlo meno duro contro il potere, il film andò benissimo e aprì la strada alla non così breve stagione cinematografica dei De Filippo. Al tempo stesso produsse film importanti come “Batticuore”, “Grandi magazzini”, “Una romantica avventura”, “La cena delle beffe” di Alessandro Blasetti con celebre seno nudo di Clara Calamai. Produsse nel 1940  il primo film da regista di Vittorio De Sica, “Rose scarlatte”, che codiresse soprattutto per le parti tecniche. Ma Giuseppe Porelli ricordava che sul set, dovendo spiegare all’attrice francese Renée Saint-Cyr cosa voleva che facesse se ne uscì con un imbarazzante “Je voudrai vos fesses”, cioè “Voglio le vostre chiappe”, che scandalizzò l’attrice. Dopo aver lanciato De Sica regista, che ritroverà dopo la guerra come produttore di un capolavoro del neorealismo come “Ladri di biciclette”, lanciò Aldo Fabrizi con “Avanti c’è posto” e “Campo de’ Fiori” diretti da Bonnard, veri film che già odorano di neorealismo. A Fabrizi offrì 70 mila lire più l’opzione per un secondo film. Ma è dopo la guerra che inizia la sua grande stagione, producendo appunto “Ladri di biciclette” di De Sica, “Francesco giullare di Dio” di Roberto Rossellini, una delle primissime commedie all’italiana, “Natale al campo 119”, “Parigi è sempre Parigi” di Luciano Emmer e, soprattutto, “Umberto D” di De Sica. Da regista e produttore diresse Totò nel suo primo film dramatico, “Yvonne la Nuit” con Olga Villi e la bellissima Linda Darnell in “Donne proibite”. Finanziato da Angelo Rizzoli produsse “Don Camillo” e “Il ritorno di Don Camillo” con Gino Cervi e Fernandel ottenendo un incredibile successo internazionale grazie alla distribuzione della Dear di Roberto Haggiag. Per lo stesso Haggiag fu produttore esecutivo di “La contessa scalza”, che Joseph Mankiewicz girò in Italia con Ava Gardner. In un’Italia che stava cambiando arriviamo a film drammatici importanti come “Un maledetto imboglio” di Pietro Germi, “Nella città l’inferno” di Renato Castellani e “La Dolce Vita” di Federico Fellini, un film considerato infernale, impossibile, pericoloso da tutti i produttori italiani. Per farlo, visto che era di Dino De Laurentiis, lo scambiò con “La grande guerra” di Mario Monicelli, che portò un Leone d’Oro a Venezia al produttore. Ma, certo, non era “La Dolce Vita”. Il documentario di Giuseppe Pedersoli racconta appunto il calvario di Peppino Amato per arrivare alla fine di quello che oggi salutiamo come un capolavoro, ma che costò al produttore napoletano un infarto e un budget che esplose dai 400 milioni di lire previsti agli 800 milioni di lire effettivi. Pedersoli tra fuori dai cassetti del nonno le lettere che Amato scambiò con Fellini, i documenti sulla lievitazione dei costi e i mille intoppi che ci furono. Ma il film non è solo questo, perché Pedersoli, figlio del celebre Carlo Pedersoli alias Bud Spencer, che aveva sposato una delle tre figlie, Maria, di Amato, cerca anche di restituire al nonno la dignità del grande uomo di cinema che era, al di là delle battute che Ennio Flaiano e il mondo del cinema italiano avevano fatto per anni sul suo buffo modo di parlare e sugli svarioni anche molto divertenti che faceva, raccolti proprio da Flaiano col titolo “Catalogo Peppino Amato” (“Apriamo una paralisi”, “In quanto ad idee politiche io e lei siamo agli antilopi”, o un completo d’inferiorità, ecc). Abbandonato da Rizzoli proprio dopo l’esplosione del budget, non aiutato da Fellini, che ha sempre visto i produttori come il nemico, Peppino Amato si trovò solo a affrontare una situazione di disastro produttivo che solo il grande successo immediato del film salvò. Ma la grande fatica per arrivare alla fine della “Dolce Vita” in qualche modo gli fu fatale, visto che morirà di infarto nel 1964, avendo portato a termine solo altri due film.

Arianna Finos per “la Repubblica” il 6 settembre 2020. La verità su La dolce vita era nascosta in quattro scatoloni pieni di muffa e ragnatele. Migliaia di fogli, telegrammi, contratti, note, bozze, ricevute, ingiunzioni, cambiali. Soprattutto un carteggio a tre colori: l'inchiostro rosso usato da Federico Fellini, la firma in verde di Angelo Rizzoli e il sobrio carattere scuro di Giuseppe Amato, produttore caduto nell'ombra del capolavoro di sessant' anni fa. A scoprire il tesoro di memorie è stato è stato il nipote materno Giuseppe Pedersoli (figlio di Carlo, in arte Bud Spencer, la madre è Maria Amato, figlia di Giuseppe), facendone la base per il docufilm La verità su La dolce vita , fuori concorso alla Mostra di Venezia il 10 settembre e poi in sala. «Mi sono sempre chiesto perché nonno, dopo aver prodotto La dolce vita , non ne avesse cavalcato il successo e a 64 anni, poco tempo dopo le vicissitudini del film, fosse venuto a mancare», non prima di aver depositato un soggetto dal titolo La verità su La dolce vita , «forse la sua versione sul capolavoro ». Studiando quei documenti, rimettendoli a posto cronologicamente, racconta Pedersoli, «ne è scaturita una sceneggiatura naturale basata sul carteggio a tre intercorso tra l'estate del 1958 fino al 1960, con l'uscita del film: Fellini che era autore del progetto, Amato che lo aveva apprezzato quando tutti gli altri produttori lo avevano rifiutato e Angelo Rizzoli, socio storico di Amato». La storia parte con il viaggio di Amato a San Giovanni Rotondo per avere la benedizione da Padre Pio, per dipanarsi lungo l'infernale avventura produttiva. Alcuni personaggi, tra cui Amato, sono interpretati da attori, ad altri le voci sono prestate da doppiatori. E poi i video di uno strepitoso duetto Vittorio De Sica - Amato, le testimonianze di Marcello Mastroianni, Sandra Milo e Dino De Laurentiis. Per Pedersoli si tratta anche di restituire verità alla figura del nonno, che «all'epoca molti descrivevano come un guappo napoletano ignorante, basti pensare al ritratto che ne fa Carlo Lizzani in Celluloide , che ha offeso mia madre e le sue sorelle». Attore famoso del cinema muto, conquistatore di dive hollywoodiane, produttore e distributore - ha fatto arrivare lui in Italia i disneyani Cenerentola e Bambi , ha portato sullo schermo il teatro dei fratelli De Filippo, ha tenuto a battesimo il debutto alla regia Vittorio De Sica, l'unica volta che Amato ha rivelato scarso fiuto è stato in famiglia: «Nonno si lamentava perché i colleghi avevano le grandi stelle in casa - Loren e Mangano - e lui doveva pagarle. Non sapeva che suo genero, mio padre Carlo Pedersoli, pochi anni dopo sarebbe diventato un attore popolare. Mio padre ha anche lavorato per nonno nella produzione e nella gestione degli studi cinematografici dal '59 al '62. Mio padre descriveva nonno come un uomo elegante, che non si fermava davanti a nessun ostacolo e così è stato per La dolce vita ». Eppure quel film, sofferto e complicato al di là degli aspetti economici (costò il doppio del preventivato), finì per costargli la salute: «Continuò a lottare malgrado un primo infarto lo avesse colto durante i primi mesi della post produzione. Una sua collaboratrice dichiarò: "Peppino Amato è morto a causa della Dolce vita ". Ad amareggiarlo più che gli scontri con Fellini, «entrambi personalità fortissime, ma sapevano di lottare entrambi per il bene del film», fu quello che considerò un tradimento dell'amico e socio Rizzoli, «che prospettando il fallimento del film gli chiese indietro i soldi e lo mise in ginocchio. Nonno è stato dimenticato, è bello oggi poter restituire la sua impresa a chi non lo ricorda o non lo conosce».

Carlo Verdone per “la Lettura - Corriere della Sera” il 6 settembre 2020. Il miglior giudice resta e resterà sempre il tempo. Il tempo farà brillare un'opera ingiustamente declassata alla sua apparizione, il tempo condannerà senza appello un'opera troppo esaltata dalla maggior parte della critica di quel tempo. L'affidabilità del critico, dello storico del cinema (in questo caso, visto che l'argomento è La dolce vita di Fellini), è quello di afferrare al volo la novità narrativa, il coraggio di esplorare sentieri inediti proposti dal regista e, non ultimo, di liberarsi dall'«ideologia» che pone un ostacolo insormontabile nel percepire la verità, l'autenticità poetica e drammatica del tema sviluppato dall'autore.  Se c'è un film che spaccò in due il mondo della critica e la platea degli spettatori in modo nevrastenico, parossistico, questo fu La dolce vita del 1960. Per comprendere bene il terremoto che provocò mi è venuto in aiuto un libro, un grosso volume, conservato nella biblioteca di mio padre Mario dal titolo La dolce vita. Raccontato dagli Archivi Rizzoli a cura di Domenico Monetti e Giuseppe Ricci, edito dal Centro Sperimentale di Cinematografia e dalla Fondazione Federico Fellini. Sono quasi ottocento pagine in cui si raccolgono tutte le recensioni su quello che oggi definiamo un capolavoro assoluto. Iniziando a sfogliare il libro, si resta attoniti dal putiferio che scatenò quella pellicola. Questi i primi titoli che appaiono voltando le pagine: «Film confezionato con gli elementi più deteriori della pornografia», «Pattumiera cinematografica», «La sporca vita del culturame sinistro», «Povera vita, povera capitale», «Il Centro cattolico cinematografico bolla La dolce vita tra i film esclusi», «Verso il sequestro della Dolce vita ?», «Forse il Papa vedrà La dolce vita », «Lo scrittore Staino chiede il sequestro de La dolce vita », «Basta! Basta!», titola enorme «L'Osservatore Romano», «La nobiltà e la borghesia accusano Fellini», «Il Centro cattolico chiede il licenziamento in tronco del critico del "Quotidiano"». Mio padre. «Il critico del "Quotidiano" licenziato su due piedi». Fu così che papà rimase senza lavoro per aver scritto: «Le prime qualità del film sono nella fantasia sfrenata, nell'ambientazione scavata con lo stesso ardire e la stessa succulenza di uno Stroheim e di uno Sternberg nel modo sorprendente della evocazione, come una favola surreale di Hoffmann; ma tutto quel che Fellini ci mostra è rigorosamente vero, còlto in alcuni ambienti della Roma notturna...». Papà e Fellini erano già amici, si stimavano a vicenda e avevano una passione comune: la storia del circo e dei clown. Quando Federico seppe del licenziamento di papà rimase molto avvilito e gli propose di entrare come ufficio stampa in quella che doveva essere la sua prima casa di produzione: la Federiz (nata da un'alleanza con la Rizzoli). Progetto che fu chiuso dopo circa un anno. In ogni caso papà era già impiegato al Centro Sperimentale e non avrebbe potuto accettare. Ma rimase molto commosso dal gesto di Fellini, da vero amico. Sarebbe comunque ingiusto non ricordare altri critici e scrittori che invece compresero il coraggio di raccontare un mondo che esisteva e che molti non volevano vedere nelle sue fragilità, nei suoi vizi, nella depressione, nell'euforia, nell'immoralità e direi anche nella sua spiritualità. Il cardinale Siri se ne accorse e comprese la grandezza del film. Padre Taddei, sacerdote intellettuale, idem (rimosso per questo dall'incarico di capo della comunicazione e della cultura nella Compagnia di Gesù) e poi Giuseppe Marotta, Tullio Kezich, Pietro Bianchi, Sergio Frosali, Pasolini e Moravia e altri. La dolce vita , non seguendo gli schemi di una pura dottrina neorealista e marxista, volando invece nella totale libertà dell'autore (mai schierato), pagò duramente l'attacco che gli venne scatenato dai più oltranzisti. Lo storico del cinema Guido Aristarco in prima fila (al quale Fellini mandò per Natale un biglietto: «Auguri stronzetto!»). Ma, alla fine, vinse lui. Il tempo lo risarcì di ogni offesa. Il pubblico affollò le sale. Fellini si apprestava a diventare tra i più grandi registi che il cinema abbia mai avuto. Quel film aveva aperto la pagina su una nuova era. Un affresco rappresentato con assoluta verità e impressionante sensibilità.

«La dolce vita» e la distanza di pensiero tra Fellini e Flaiano. Pubblicato giovedì, 21 maggio 2020 su Corriere.it da Aldo Grasso. Steiner si rivolge a Marcello con una battuta tipica di Ennio Flaiano: «Io sono troppo serio per essere un dilettante, ma non abbastanza per diventare un professionista». A 60 anni esatti dalla Palma d’oro, Rai Movie ha trasmesso La dolce vita per inaugurare il ciclo «Federico Fellini, realista visionario». Più passa il tempo, più si rivede il film e più la distanza tra Fellini e Flaiano prende corpo. Non tanto per lo sgradevole incidente che avrebbe rotto il sodalizio (il famoso viaggio in aereo a Los Angeles che vede Fellini seduto in prima classe con Angelo Rizzoli e Flaiano in economica), quanto perché tra i due c’era una profonda distanza culturale che, tra le pieghe, il film lascia trasparire.

Ne La solitudine del satiro, Flaiano scrive: «Sto lavorando, con Fellini e Tullio Pinelli, a rispolverare una nostra vecchia idea per un film, quella del giovane provinciale che viene a Roma a fare il giornalista… Il film avrà per titolo La dolce vita… Uno dei nostri luoghi dovrà essere forzatamente via Veneto... Il giovane provinciale è già ben piazzato, guadagna, e uno di quei giornalisti prodotti dalla civiltà della sensazione, cioè racconta gli scandali, le fesserie che fanno gli altri. Si è lasciato adottare da quella stessa società che lui disprezza». Ma quando Flaiano vede in proiezione alcune scene del film commenta: «Il gongorismo, l’amplificazione di Fellini nel ritrarre quel mondo di via Veneto fa pensare al museo delle cere, le immagini dei quaresimalisti quando descrivono la carne che si corrompe e imputridisce… Fellini quaresimalista? É un’ipotesi tentatrice». Una delle tante chiavi di lettura del film potrebbe essere proprio questa: il contrasto tra la scrittura barocca, composita, grondante metafore di Fellini e lo stile aforistico di Flaiano, tra il mondo «caricaturale» del regista e quello intellettuale dello scrittore (e del gruppo del Mondo, cui apparteneva).

"La dolce vita", 60 anni fa la Palma d'oro a Cannes. Valeria Ciangottini: "Un film e un set irripetibili". Pubblicato mercoledì, 20 maggio 2020 da Rita Celi su La Repubblica.it. L'attrice ricorda il suo esordio nel capolavoro di Fellini in cui interpreta la ragazzina che sogna di fare la dattilografa. "C'erano quattromila giovanissime che volevano quel ruolo. Appena mi ha vista, il regista ha detto subito: "è lei". Il cinema all'epoca era così". Era il 20 maggio del 1960 quando Federico Fellini vinceva la Palma d'oro a Cannes con La dolce vita, il film con Marcello Mastroianni diventato il manifesto dell'epoca, tra paparazzi e star nella Roma di via Veneto. Il finale è su una spiaggia dove il protagonista ritrova la giovane cameriera che un giorno in trattoria gli aveva confessato il suo sogno di diventare dattilografa. Il rumore del mare copre le parole della ragazzina, lui la saluta da lontano e va a raggiungere gli amici. Lei rimane a guardarlo, e su quel sorriso si chiude il film. Valeria Ciangottini aveva 14 anni quando girò quella scena, non sapeva nulla del cinema e degli strani personaggi che ci lavoravano. Per i suoi occhi di adolescente La dolce vita era un film bellissimo, un'esperienza che ricorda ancora con gioia a sessant'anni di distanza. All'epoca non sapeva che il suo volto avrebbe chiuso il film. "Quando abbiamo girato sulla spiaggia, la macchina da presa era abbastanza lontana quindi non mi sono resa conto", ricorda l'attrice. "Quando poi mi sono vista sullo schermo, mi sono impressionata a vedere il mio faccione" dice ridendo. Il ruolo di Paola, la cameriera umbra, aveva solo due sequenze e quindi ha potuto vivere al meglio il suo debutto cinematografico. "Ho girato solo due scene con Mastroianni e ho frequentato poco il set. Sapevo che c'erano stati dei problemi, però quando ho girato erano ormai gli ultimi giorni di lavorazione. Eravamo alle ultime riprese e l'atmosfera era rilassata, anche molto piacevole. Fellini era una persona stupenda, chiamava tutti con nomignoli, Marcellino, e mi chiamava Paolina, come il mio personaggio, era molto dolce". Valeria Ciangottini è stata scelta tra migliaia di ragazzine. "Era uscito una specie di messaggio sui giornali in cui si diceva che Fellini cercava una ragazzina dai 12 ai 14 anni. Poi lo disse anche in una rubrica di cinema alla Rai e intorno a me tutti mi dicevano che ero la persona giusta e che dovevo provare. Ho convinto mia madre e siamo andate. Appena mi ha vista, Fellini ha detto subito: "è lei". Poi ho fatto comunque i provini e dopo un po' sono stata scelta. C'erano quattromila ragazzine che volevano quel ruolo. Il cinema all'epoca era così". Ricorda ancora la folla alla prima proiezione a Roma e poi a Milano. "A Roma è andata abbastanza bene, i fischi erano pochi rispetto agli applausi, a Milano invece è stato un disastro, fischi, urla, insulti, una cosa vergognosa. Ero sbalordita, io lo trovavo un film bellissimo e il fatto che reagissero così male non riuscivo a capirlo. Era una reazione violenta, esagerata". Dopo La dolce vita ha continuato a studiare e ha iniziato a fare l'attrice girando molti film negli anni 60. È stata diretta da Valerio Zurlini in Cronaca familiare, incontrando di nuovo Mastroianni, e da Roger Vadim in Il vizio e la virtù. È stata anche la fidanzata del figlio di Peppone in Don Camillo monsignore... ma non troppo. "Ho un ricordo bellissimo del set di Fellini, erano tutti dolci e gentili ma non è che sia stato sempre un idillio lavorare nel cinema, però da ragazzina è andato tutto bene. Dopo Vadim ho fatto altri film di respiro internazionale, ho lavorato parecchio in Francia e in Germania, poi ho capito che dovevo fare teatro, avevo voglia di crescere artisticamente. Ho fatto una scuola di teatro e da quel momento in poi quella è stata la mia vita". È stato comunque un debutto travolgente per la giovanissima Ciangottini. "La dolce vita è stato un film folgorante a livello internazionale, c'erano proiezioni continue dalla mattina all'una di notte, sempre con la fila ai botteghini. Un esordio così, oggi sarebbe impensabile, però speriamo che capiti di nuovo alla prossima ragazzina cui faccio tutti i miei auguri, perché tutto sommato mi considero una persona fortunata. Quel film è stato un grande trampolino, fondamentale anche nelle mie scelte successive: aver fatto l'attrice per tutta la vita mi dà gioia, sono contenta per quello che ho fatto".

Prefazione di Milan Kundera a “Dizionario Intimo” di Federico Fellini (Piemme), pubblicata da “la Repubblica” il 5 novembre 2019. Il mio amore per i film di Fellini è senza limiti. Il nome di Fellini è sempre grande, ammirato, celebre, è diventato perfino un simbolo. Amarcord è stato tuttavia il suo ultimo film la cui bellezza poetica ha messo tutti d' accordo. Poi l' immaginazione di Fellini si è scatenata ancora di più e il suo sguardo si è fatto ancora più acuto: la sua poesia è diventata antilirica, il suo modernismo antimoderno. I sette film dei suoi ultimi quindici anni sono stati un ritratto implacabile del mondo in cui viviamo. Il Casanova, l'immagine di una sessualità esibita, condotta fino ai suoi limiti estremi, grottesca; Prova d' orchestra ; La città delle donne ; E la nave va, un addio all' Europa la cui nave, accompagnata da alcune arie operistiche, se ne va verso il nulla; Ginger e Fred; Intervista, grande addio al cinema, all'arte moderna, all' arte in generale; La voce della luna, addio finale. Nel corso di quegli anni, irritati dalla sua estetica molto esigente e dallo sguardo disincantato che poneva sul mondo contemporaneo, i salotti, la stampa, il pubblico e anche i produttori se ne sono allontanati; non dovendo più nulla a nessuno, Fellini allora assapora la «gioiosa irresponsabilità» lo cito «di una libertà fino a quel momento sconosciuta». Qualche giorno fa io e mia moglie Vera abbiamo rivisto Intervista . Alla fine del film ci siamo detti: «Sapeva già tutto». L' ultimo periodo dell' arte di Fellini ha rappresentato la vetta delle vette, la fusione del sogno e della realtà di cui sognavano i surrealisti. Fellini l' ha realizzata nei suoi ultimi film con una forza incomparabile, effettuando allo stesso tempo un' analisi lucidissima del mondo contemporaneo. I film di Fellini dell' ultimo periodo rappresentano l'apice dell' arte moderna, l' immagine più rivelatrice che conosco del nostro mondo così com'è. Negli ultimi decenni, dopo Picasso, dopo Stravinskij, dove possiamo trovare un' opera più bella, di un' immaginazione più potente? Dove possiamo trovare un'opera più importante in grado di interrogare, domanda dopo domanda, tutto il destino europeo, le viscere stesse di questo destino? Quando ho saputo che Fellini aveva deciso di girare America di Kafka, ho avuto la strana impressione di una sorpresa che non era tale: la cosa mi è parsa tanto inattesa quanto logica e necessaria. Infatti, solo Fellini poteva, grazie alla sua interpretazione, svelare in modo brutale l'essenza (sempre trascurata, elusa, non compresa) della grande rivoluzione estetica di Kafka: la liberazione radicale dell' immaginazione che, con la facilità del sogno, trasgredisce tutte le regole della verosimiglianza. L' arte moderna, per me, è la storia di questa immaginazione, che Fellini ha condotto verso cime inaccessibili (e forse verso il suo compimento, il suo compimento orgiastico).

Maurizio Porro per il “Corriere della Sera” il 13 dicembre 2019. Oltre a essere un regista che ha rivoluzionato il modo di far cinema, che è diventato un aggettivo e un sinonimo di qualità italiana nel mondo, oltre a essere l' artista di 8½ , film che ha portato al massimo livello espressivo i mezzi artistici del cinema, come Joyce e Proust che fingeva di non aver letto, oltre a essere colui che divise l' Italia in due a parlare della Dolce vita (non si può credere cosa fu l' uscita di quel film), Federico Fellini era anche un uomo di grande spirito, di umorismo raffinato e profonda gentilezza, il meno vanitoso che abbia calcato Cinecittà e dintorni, il genio che più amava nascondersi. Forse consapevole, ma lo teneva per sé. Ma 8½ è un film che non riesce a fare, come Proust nella Recher che arriva all' ultima pagina per dirsi pronto. Casi junghiani di sincronicità. Sono invitato ad andare sul personale e confesserò quindi che col Fellini che ho conosciuto io, per caso un pomeriggio molestandolo al teatro Nuovo per un' intervista laggiù nel '72 o giù di lì, finendo per accompagnarlo a un appuntamento stipandolo nella mia non linda 500, era arduo parlare dei suoi film. Sorrideva, scantonava, assentiva, ma era anestetizzato di fronte a qualunque elogio. Io lo tormentavo su come 8½ potesse cambiare la vita e il mio modo di vedere il cinema, ripetendo un rosario di complimenti che sapeva a memoria, ma a lui piaceva parlar d' altro. Parlava come nessuno, l' accostamento e la scelta dei vocaboli erano personali e originali, faceva dell' impressionismo col linguaggio, disegnava con parole e aveva ragione Orson Welles che nella Ricotta dice: «Egli danza». Gli piaceva andare a zonzo in auto senza meta, gustare il famoso risotto giallo, assaggiare piatti, sguardi, stare al riparo dalla popolarità usa e getta, sentirsi a casa. Era curioso di tutto, venne una sera nello stupore di una platea rockettara a vedere Rocky horror picture show , nel defunto cine teatro Cristallo, e sembrava un musical sulle sue misure immaginifiche. E raccontava di Rol e dei suoi prodigi di sdoppiamento, sempre con humour e quando era con la Masina parevano proprio la coppia italiana medio borghese, quanto di più lontano in realtà fossero. Naturalmente amava, quando nascevano per caso, chiacchierando, i ricordi e ne aveva pronti all' uso alcuni magnifici, sulla sua prima esperienza all' opera, col timpano offeso da un acuto, mentre stava in braccio a papà (magari era meno grave, ma lui era spettacolo) e di ritorno dal Giappone era sconvolto perché «in un dischetto non ci crederai ci sono tutti i miei film». Lo portai una sera, lui e Mastroianni, a sfogliare vecchi programmi di teatro, trovando non a caso quelli di Zio Vanja e del Commesso viaggiatore , spettacoli di Visconti interpretati dal suo, nostro, attore preferito. Fu un irresistibile inseguimento di memorie e aneddoti che restituivano il sapore dello spettacolo nel suo farsi e tramandarsi, il quotidiano del corpo del mestiere, qualcosa che andava oltre qualunque professorale giudizio di merito che sta dall' altra parte della barricata. Ridevano come bambini. Fellini era sempre il primo a fare gli auguri a Natale, anche in orario da insonne cronico come quando telefonava per raccomandare un libro che magari aveva letto durante la notte (ricordo la Tamaro) e mi pento di non aver conservato un suo affettuoso messaggio dall' ospedale: cancellai il nastro per portargli fortuna, ma dovevo capire che era quasi un salutino in finale di partita. Ripensando ai film, credo che Fellini sia stato davvero un profeta, nel senso biblico del termine. Nella Dolce vita aveva intuito senza sentenze tutto il peggio che sarebbe arrivato, dalla moda dei paparazzi (una delle tante parole finite nei dizionari) quindi della vita rubata, fotografata e virtuale, alla teocrazia dell' immagine televisiva alla crisi dell' intellettuale, allo strapotere della cronaca, a quello del sesso. Ma soprattutto in quasi tutti i suoi film c' era la richiesta gentile di fare un po' di silenzio. È l' ultima battuta della Voce della luna ma già prima ci aveva avvertito, inascoltato. Era profetico il suo sguardo sul mondo, quando aveva anticipato la guerra balcanica nella Nave va , le moto selvagge in corsa alla fine di Roma , l' amore con la ballerina meccanica robot in Casanova , nel Bidone i trafficoni diventati di moda; quando scopriva facce sconosciute (Nico, la musa di Warhol nella Dolce vita , dove c' era anche Celentano, Pina Bausch nella Nave ) e quando chiedeva appunto di ascoltare solo il rumore dentro, quello che lui riusciva a esprimere nelle immagini di un suo rumoroso e inimitabile teatrino.

Federico Fellini, 100 anni fa la nascita: oggi è un genio del nostro tempo, ma all’epoca gli diedero del «grossolano»...Pubblicato sabato, 18 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Beltramin e Maurizio Porro. Un’intervista inedita a Tullio Kezich, grande critico del “Corriere”: “Per anni fu osteggiato dai marxisti, poi dalla destra e dai cattolici”. Tra le poche voci fuori dal coro, Montanelli. «Questa non l’ho mai raccontata a nessuno», mi scrisse a un certo punto, «ma è una storia proprio divertente...». I fogli con le risposte battute a macchina mi arrivarono dentro una busta. Era il 2002 e Tullio Kezich, il grande critico cinematografico del Corriere che sarebbe scomparso nel 2009, aveva accettato di farsi intervistare da me, giovane studente dell’Università di Padova impegnato in una tesi in Storia del cinema. A quasi dieci anni dalla morte di Federico Fellini, di cui era stato amico e biografo, Kezich tornò con la memoria agli inizi della carriera del regista. Anni complicati. Perché è facile dire adesso che è stato un gigante del cinema mondiale, forse il più grande di tutti. Allora le cose andarono diversamente. I guai cominciarono già con la prima opera tutta sua, Lo sceicco bianco. «Un film talmente scadente per grossolanità di gusto, deficienze narrative, convenzionalità di costruzione, da rendere legittimo il dubbio se tale prova di Fellini regista debba considerarsi senza appello» (Nino Ghelli, Bianco e nero, settembre-ottobre 1952). Ma il vero disastro fu La strada: l’autore «non si è reso conto nell’involucro della sua decantata solitudine, di aver portato, con questo suo film, l’attacco più a fondo, dall’interno, al realismo cinematografico italiano. E per realismo intendiamo umanità, solidarietà, affetto e interesse per la vita, senso di responsabilità nel contribuire, con l’arte, alla comprensione dei nostri simili» (Ugo Casiraghi, l’Unità, 8 settembre 1954). Meno male che con La strada Fellini avrebbe vinto il primo dei suoi cinque Oscar. Poi arrivò nelle sale Il bidone. «L’assurdità della trama, la narrativa sghemba e slegata, la volgarità dei fatti rappresentati si sommano in un’opera totalmente mancata. Che è tra le più sgradevoli e infelici di tutta la storia della cinematografia» (così Umberto Barbaro, sommo critico di vocazione marxista e tra i fondatori del Centro Sperimentale di Cinematografia, su «Vie Nuove», settembre 1955). Quindi uscì nelle sale Le notti di Cabiria. «Siamo di fronte a caricature di personaggi, caricature di emozioni, simulazioni di poesia» (Corrado Terzi, «l’Avanti!», 12 maggio 1957). Ma a Hollywood è un altro Oscar. La prima della Dolce vita, il 5 febbraio 1960 al Capitol di Milano, finì sui giornali nelle pagine di cronaca. «Un tale mi ha sputato sul collo — raccontò l’indomani Fellini al Giorno — e quando mi sono voltato mi ha gridato in faccia: “Si vergogni! Si vergogni!”». Palma d’oro a Cannes, La dolce vita diventa anche il maggiore successo di pubblico nella storia del cinema italiano. Ma questo è l’editoriale del Secolo d’Italia del 7 febbraio: «Che cos’è dunque questa Dolce vita? Sarebbe facile dire, e dicendo il vero, che è una menzogna e un insulto e, per usare il linguaggio del film stesso, una “schifezza”. Ma questo film merita più paziente attenzione. Perché è un film importante, come è importante un attentato alla nazione, alla società, alla morale». «Basta!», è il titolo dell’editoriale dell’Osservatore Romano l’8 febbraio, primo di una serie di articoli (tutti non firmati) contro il film, scritti secondo alcuni dal direttore, conte Giuseppe Della Torre, e per altri da un collaboratore illustre, Oscar Luigi Scalfaro. Tullio Kezich nel 1960 aveva 32 anni ed era già una firma di peso nel dibattito culturale, oltre che sceneggiatore e commediografo. Durante le riprese della Dolce vita era stato accanto a Fellini praticamente ogni giorno. «Vista la fama di disimpegno che circondava Federico — rifletteva 42 anni dopo —, La strada fu bollato sull’Unità e dintorni come film spiritualista criptocattolico. Del resto anche Miracolo a Milano di De Sica, avversatissimo a destra, fu accolto con sospetto da una certa sinistra in quanto pareva che le favole non dovessero avere diritto di cittadinanza nel mondo reale; e che ai sottoproletari si dovesse opporre la figura dell’“operaio cosciente”. I marxisti non capirono che l’opera di Fellini, anche sotto il profilo dei modi di produzione, era filiazione diretta del neorealismo rosselliniano, la loro fu vera ottusità critica. L’opposizione clerico-fascista a La dolce vita ebbe in un altro momento motivazioni più serie: gli scribi della destra sentirono che quel film rifletteva il cambiamento della società che avrebbe visto la fine del potere reazionario e ridicolizzato le smanie di bigotti e nostalgici». Non tutti per fortuna seguivano la corrente. Montanelli dopo aver visto La dolce vita scrisse: «Non siamo più nel cinematografo, qui. Siamo nel grande affresco. Fellini secondo me non vi tocca vette meno alte di quelle che Goya toccò in pittura, come potenza di requisitoria contro la sua e la nostra società». Giudizi indigesti per i critici militanti dell’epoca. «Chi ballava da solo, ispirandosi a esperienze e scelte personali, in quegli anni era guardato con sospetto — ricordava Kezich nell’intervista — : bastava non essere onnipresenti nella campagna delle proteste e delle firme, o non concedersi facilmente alle frequenti mobilitazioni della sinistra o della destra, per venire iscritti d’ufficio nel partito opposto. In ogni epoca il lavoro culturale rischia di impigliarsi nei luoghi comuni: è compito degli artisti veri quello di ignorare o rovesciare i canoni correnti». E la rivalità con Visconti, quanto si detestavano davvero? «Ai tempi la guerra fra Fellini e Visconti fu una cosa seria, con cazzottature e interventi della polizia. Fu uno sfogo di antipatia provvisoria e un gran divertimento per i gazzettieri che ci intingevano il pane. Certo, le poetiche di Federico e Luchino erano agli antipodi, tant’è vero che anche dopo la riconciliazione (sulle prime forse poco convinta, poi caratterizzata da improvvisa stima e affetto reciproco) ognuno restò della sua opinione. Visconti criticava i film di Fellini e Fellini evitava di vedere i film di Visconti; e anche quelli di quasi tutti gli altri colleghi, a eccezione (ma non sempre) di Kurosawa e Bergman». Nel libro «La dolce vita con Federico Fellini», Kezich descrive le riprese della scena della conferenza stampa di Anita Ekberg, girata improvvisando, con veri giornalisti a interpretare se stessi e il regista a inventare domande surreali: «È vero che lei fa il bagno nuda nel ghiaccio?», «Le piacciono gli uomini con la barba?». In realtà le domande le scrisse Kezich. «Sì, non l’avevo mai fatto ma è arrivato il momento di confessare: ero su un praticabile sovrastante il salone dell’albergo ricostruito a Cinecittà, e su richiesta di Fellini improvvisavo le domande annotandole su foglietti che buttavo dall’alto. Divertito come tutte le volte che il lavoro diventava un gioco, Federico leggeva ad alta voce i messaggi e sceglieva quelli che gli piacevano. A un certo punto suggerii di far chiedere a un finto giornalista: “Per Cinema Nuovo: il neorealismo italiano è vivo o morto?”. Federico chiese ad Anita di restare perplessa, consultarsi smarrita con l’interprete, e dopo l’imbeccata (“Say: alive!”) rispondere intensamente: “Oh... alive!”».

Marco Giusti per Dagospia il 25 gennaio 2020. Mai sentito parlare di un film intitolato I cavalieri del deserto? Aveva anche altri titoli, Gli ultimi tuareg, I predoni del Sahara, i predoni del deserto… Girato in piena guerra, nell’autunno del 1942 da non si sa bene chi tra un gruppo di non registi come Osvaldo Valenti, doveva essere la sua opera prima, e il montatore Gino Talamo. Ma, forse, si dice, pare, anche da un giovanissimo Federico Fellini, che firma il film come sceneggiatore assieme al prestigioso  “Tito Silvio Mursino”, anagramma guarda un po’ di Vittorio Mussolini, cioè il figlio del Duce, che del film è anche produttore come direttore dell’A.C.I., società specializzata soprattutto in film di propaganda militare, come è direttore, da pochissimo, del Centro fotocinematografico della Real Aeronautica, che fornirà supporto aereo per riprese e spostamenti. Fellini lavora, tra il 42 e il 43, proprio all’ufficio soggetti dell’A.C.I. di Vittorio Mussolini. E’ lì che conosce per la prima volta Roberto Rossellini, già co-sceneggiatore di Luciano Serra Pilota di Goffredo Alessandrini, del 1938, e regista, proprio nel 1942, di Un pilota ritorna, prodotto dall’A.C.I., sceneggiato da Michelangelo Antonioni e Massimo Mida da un soggetto di Tito Silvio Mursino alias Vittorio Mussolini. In pratica tutto il grande cinema italiano del dopoguerra lavorava per Vittorio Mussolini su film di propaganda militare. Siamo in guerra, e, dopo anni di telefoni bianchi e di commedie più o meno riuscite, sono lo stesso Mussolini padre assieme al ministro della cultura Alessandro Pavolini, a chiedere film di propaganda, anzi “tutto un cinema di guerra o per meglio dire in guerra. In guerra cioè con gli ebrei di Hollywood, con l’asservimento pellicolare per cui maniere di vita a noi estranee si imponevano a casa nostra attraverso gli schermi” (“Corriere della Sera, 13 febbraio 1942). Ecco così che il cinema italiano, attraverso soprattutto l’A.C.I. e la figura di Vittorio Mussolini, si scatena con storie di piloti e marinai coraggiosi o con film anticomunisti o antiamericani. Cosa che non aveva fatto prima. Già alla Mostra di Venezia nell’agosto del 1942, troviamo parecchi film di propaganda, da Noi vivi di Goffredo Alessandrini a Bengasi di Augusto Genina, lanciato come “grande affresco propagandistico” e vincitore della Coppa Mussolini, ma ci sono anche I tre aquilotti di Mario Mattoli con un giovane Alberto Sordi, dedicato ai cadetti dell’aeronautica, sempre su soggetto di Tito Silvio Mursino alias Vittorio Mussolini che è anche produttore con l’A.C.I. Lo stesso Vittorio è il supervisore anche di Gente dell’aria diretto da Esodo Pratelli, prodotto dalla Cines e ideato prima da Mussolini padre in persona, poi, caduto il figlio pilota Bruno (7 agosto 1941), attribuito come ideazione e sceneggiatura proprio a lui. Insomma. All’interno dell’A.C.I., tra tanti progetti e film di propaganda militare di un gruppo di grandi futuri cineasti, ma un po’ imboscati in questo ufficio soggetti in Via Francesco Crispi a Roma, nel 1942 parte anche questo strampalato progetto tratto da un romanzo di Emilio Salgari e sceneggiato dal giovane Federico Fellini e da Tito Silvio Mursino alias Vittorio Mussolini. Sul listino dell’A.C.I., 1 luglio 1942, il titolo è I predoni del Sahara, la regia è di Roberto Rossellini, che se la scampa andando a girare altro, i protagonisti sono Adriana Benetti e Folco Lulli. Ma giò al 4 luglio 1942, con lo stesso titolo, la regia passa a Paolo Moffa, un modesto tuttofare che seguiterà a fare film avventurosi anche nel dopoguerra e, infine, ma siamo già al 25 settembre del 42, allo stesso protagonista Osvaldo Valenti, che è già in Libia assieme alla sua compagna e coprotagonista Luisa Ferida, a attori come Guido Celano, Luigi Pavese, Piero Lulli e al pugile Erminio Spalla. Ma ci sono anche il direttore di produzione Luigi Giacosi, responsabile anche dei precednti film di guerra dell’A.C.I. Notizia subito smentita sul “Corriere” del 26 settembre dove il film viene attribuito al montatore Gino Talamo. Nell’ottobre ’42 diventa Gli ultimi Tuareg e il 25 novembre, leggiamo sulla rivista “Cinema”, che col titolo I cavalieri del deserto (Gli ultimi tuareg), dopo un mese di riprese in Libia, il film ha spostato il suo set in italia per proseguire le riprese degli interni nello stabilimento dell’A.C.I. della Farnesina a Roma. Sarà vero? Mah…Guido Celano, uno dei pochi a sapere la storia, che nel film faceva il capo dei Tuareg, padre della Ferida, racconta in “Cinecittà Anni Trenta”, al critico Francesco Savio, figlio di Corrado Pavolini, parte della storia in altro modo. Intanto Valenti non era in grado di fare la regia, che era passato di mano in mano fino al montatore del film, Gino Talamo. “Poi Talamo si ammalò, anzi ebbe un incidente automobilistico… e allora tra me e Valenti cercavamo di fargli fare la regia a Fellini”. Fellini, pensiamo con quanta voglia, parte per Tripoli pronto a diventare regista e salvare il film. Perché lo fa? Ce lo ricorda Tullio Kezich nella sua biografia di Fellini: “solo per ottenere l’ennesima proroga dal richiamo alle armi: dovendo ormai raggiungere il reparto sul fronte greco, sceglie l’alea non meno inquietante di un volo in Africa con un aereo della LAI in partenza dall’aeroporto Salario”. Così scende a Tripoli accolta da Luigi Giacosi come un salvatore. Ma Tripoli è bombardata giorno e notte. “La troupe”, scrive Kezich grazie ai ricordi di Fellini”, dovrebbe girare nel deserto a una ventina di chilometri, ma passa la maggior parte del tempo nei rifugi sotterranei del Grand Hotel. La Ferida incinta è in preda a crisi isteriche, Valenti si consola con la cocaina e Celano si esercita a fare l’irlo dello sciacallo. I registi sono diventati tre: l’ex montatore Gino Talamo, un certo Barboni e l’organizzatore generale Franco Riganti che non ha perso la speranza di salvare il film”. Fellini comunque qualcosa gira, almeno nei ricordi di Celano. “Venne a girare le prime scene… Facemmo questa roba di fantasia con i cavalli, con gli arabi, con me”. Ma, a parte bombe e cannoni che si fanno sentire tutti i giorni, manca la pellicola, infuria il ghibli, gli inglesi sono “a venti centimetri”, come ricordava Fellini, e  Giacosi, non reggendo più la situazione, va dal generale Bastico, al comando di Tripoli che gli dice che devono andar via perché sono sbarcati gli Americani a Bona. Si prepara la fuga. Rapidamente. Ma nell’ultimo aereo per Roma da Tripoli, che cadrà nel gennaio ’43, ci sono solo 26 posti. Non bastavano per tutti. Fellini, Celano, Giacosi e un ispettore di produzione si rifiutano di partecipare a un sorteggio su chi si doveva salvare e restano a terra. Prenderanno un aereo militare tedesco. Ma fu un viaggio disastroso. Ricorda Celano: “gli Spitfires mitragliavano e noi dovevamo volare a fior d’acqua”. Sul momento Fellini “si rammarica solo di aver abbandonato in Africa un carico di ciabatte di pelle, braccialetti e tappeti comperato per rivenderlo a Roma”. I quattro vengono sbarcati dai tedeschi a Castelvetrano, in Sicilia, e lì parte una nuova avventura, perché il viaggio dura un’enormità e si svolge in un’Italia in piena guerra dove è quasi impossibile muoversi. Solo da Reggio Calabria a Roma ci vogliono dieci giorni di viaggio. Un po’ di questa non così eroica avventura la racconterà lo stesso Fellini il 14 novembre del 1942 sulle pagine del “Marc’Aurelio” in un articolo intitolato “Il primo volo”, che inizia più o meno così: «….Volavo, ero in cielo, e le case, le strade, gli amici, la macchina da scrivere, il giornale, voi tutti restavate piccini e dimenticati su questa cosa rotonda che si chiama terra».. Curiosamente, e non posso che dare ragione a Tullio Kezich, tutta la situazione del film continuamente interrotto e l’aereo dove è possibile morire da un momento all’altro, sembrano quasi la fonte dell’ispirazione per il grande progetto mai realizzato di Fellini, Il viaggio di G. Mastorna. Di tutto il cast, solo Guido Celano era rimasto a raccontare la storia. Osvaldo Valenti e Luisa Ferida moriranno fucilati a Milano dai partigiani il 30 aprile del 1945. Gino Talamo diresse altri tre film, ma in Brasile, per poi tornare il Italia nel 1959. Il direttore della fotografia, Angelo Jannarelli figura nel 1945 tra gli operatori di Giorni di gloria, il documentario sulla Liberazione girato da Giuseppe De Santis, Luchino Visconti, Mario Serandrei e Marcello Pagliero. Fellini, tra il 1942 3 il 1943, ha occasione di lavorare come sceneggiatore a una serie di film che verranno più o meno interrotti e malamente ripresi. Quanto a I cavalieri del deserto non se ne è saputo più niente. Nessuno lo ha visto perché, come pensa Tatti Sanguineti, non si è mai finito. Probabilmente nel viaggio, assieme alle ciabatte di pelle di Federico sono state scordate anche le pizze di pellicola del girato a Tripoli e dintorni. 

Andrea De Carlo per lastampa.it il 6 novembre 2020. È interamente dedicato a Federico Fellini, nel centenario della nascita, il numero di novembre di Linus, in uscita lunedì prossimo. Nella rivista - oltre a disegni, fumetti e testi inediti del regista (tra cui un progetto sull’Inferno dantesco, reinterpretazione in chiave comica delle proposte che gli arrivavano di continuo da parte dei produttori americani per convincerlo a trasformare la Divina Commedia in un kolossal hollywoodiano), un contributo di Andrea De Carlo, che nel 1983, poco più che trentenne, gli fece da assistente per il film del 1983 E la nave va. Ne anticipiamo un ampio stralcio. La preparazione di E la nave va si era rivelata un processo lunghissimo, perché mettere insieme un film di Fellini era estremamente complicato, oltre che costoso da far paura. La sua scarna sceneggiatura iniziale di poche decine di pagine si arricchiva giorno dopo giorno di annotazioni, appunti, schizzi a matita e a pennarello, disegni più elaborati, fotografie che si allineavano su un tabellone di sughero appeso a una parete del suo ufficio al primo piano del Teatro Cinque, il più grande di Cinecittà, dove lui aveva girato gran parte dei suoi film. [...] Per identificare gli attori del suo film Fellini si basava su sogni, disegni, chiacchierate con collaboratori e amici, convocazioni, segnalazioni di agenzie, consultazioni con maghi, viaggi di ricerca. Lo stesso processo discontinuo ma inarrestabile valeva per le scenografie, i costumi, le musiche. I costi dell’impresa salivano di giorno in giorno con il mutare delle sue idee, i produttori alternavano distacco a fatalismo a pessimismo nero. Le giornate della preparazione si dilatavano tra discussioni convulse, liti, distrazioni, perplessità, telefonate interrotte da escursioni in carovane di macchine verso un ristorante dei Castelli Romani, dove la nostra corte felliniana consumava pasti interminabili. A un certo punto avevo calcolato con sgomento che tra pranzo e cena passavamo ogni giorno dalle cinque alle sei ore seduti a tavola; d’altra parte la tavola era uno dei luoghi in cui Fellini si dedicava più volentieri all’arte del racconto, rielaborando vecchie storie e creandone di nuove, mescolando verità, immaginazione e bugie con stupefacente, inarrestabile capacità affabulatoria. Ho continuato a fargli da assistente e testimone per mesi e mesi, mentre la sua idea di cosa dovesse essere E la nave va continuava a evolversi e le costruzioni andavano avanti. Il set principale consisteva nel ponte di una nave a grandezza naturale montato su quattro giganteschi pistoni idraulici costruiti in Svezia, che lo facevano rollare e beccheggiare come il ponte di una nave vera. I produttori avevano tentato in tutti i modi di convincere Fellini che sarebbe stato infinitamente più semplice muovere la macchina da presa invece dell’intera scena, ma lui era irremovibile, continuava a ripetere che solo un ponte rollante e beccheggiante avrebbe dato agli attori la sensazione di essere su una nave. Il che era paradossale, considerando quanto poco gli importava delle sensazioni degli attori, e quanto poco realistica fosse la rappresentazione della crociera funebre che aveva in mente, con un cielo finto e un mare di plastiche azzurre smosse dagli attrezzisti per simulare le onde. In realtà lo divertiva avere a disposizione un giocattolo gigantesco, che forse avrebbe potuto suggerirgli idee interessanti e inaspettate. L’ispirazione dell’ultimo minuto e l’improvvisazione erano fondamentali nel suo modo di fare film: utilizzava attori, comparse, scenografie, luci come un pittore che afferra pennelli e colori a seconda dell’estro del momento. Mi ricordo il suo sguardo trionfante e beffardo quando l’ho visto per la prima volta lassù in alto, appoggiato al parapetto del ponte della finta nave raggiungibile solo con una lunga scala retrattile su cui dovevano avventurarsi ogni volta tecnici, attori e comparse. Non ho idea di come fosse stato possibile assicurare un set così assurdamente pericoloso, ma quando si trattava di Fellini c’era sempre la possibilità di un’eccezione alle regole. Il cast non avrebbe potuto essere più eterogeneo, una miscela di tipi strani e mezzi matti che si presentavano a ogni convocazione, gente presa dalla strada, professionisti collaudati, attori di nome trovati attraverso le più importanti agenzie europee. I raffinati interpreti inglesi del teatro di Shakespeare oscillavano tra sgomento e incredulità quando si rendevano conto di non avere quasi battute da imparare a memoria, e di dover recitare insieme a personaggi scelti unicamente in base al loro aspetto, a cui Fellini faceva pronunciare numeri perché muovessero le labbra. Del resto per lui gli attori erano soprattutto facce e corpi, maschere da usare nella sua commedia: la loro abilità era quasi irrilevante, tutti sarebbero stati doppiati a montaggio finito. Bastava che riuscissero a replicare i gesti e le espressioni che lui mimava durante le riprese, mentre gridava «Guarda in su, guarda in là, in là! Gira quella capoccia, sorridi, sorridi!». Una volta mi aveva fatto vedere un disegno in cui si era ritratto come un gigantesco burattinaio che teneva appesi ai fili sua moglie Giulietta e Marcello Mastroianni. Ogni cambio di scena richiedeva laboriosi, lentissimi spostamenti dei riflettori da migliaia di watt attaccati alle impalcature. Attori e comparse scivolavano nel vuoto di attese interminabili, vestiti e truccati in modo da non essere più sé stessi, e restavano in quello stato di sospensione fino al momento in cui Fellini li avrebbe richiamati in vita, mentre meccanici ed elettricisti si indaffaravano e il direttore della fotografia inseguiva la luce giusta. A seconda dei giorni e dei momenti il set era un circo, un teatro dell’arte, un sogno guidato, un incubo, un luogo di psicodrammi, un contenitore di rivelazioni miracolose. Al centro c’era sempre lui, con il suo cappello, la sua sciarpa, il suo grande cappotto e il megafono in mano, come un domatore che tiene a bada i leoni con la frusta, come un Nerone che suona la lira mentre Roma brucia, come un compagno di viaggio illimitatamente comprensivo, come un dio greco che passa con naturalezza assoluta dalla benevolenza alla crudeltà, stupito lui stesso del suo potere sugli altri e dell’attenzione che suscitano le sue azioni, assorto in quello che fa e distaccato, tremendamente serio e sempre pronto a una battuta smitizzante, pronunciata a bruciapelo con il più straordinario senso del tempo. 

«Amarcord Fellini», un alfabeto visionario. In viaggio nell’universo di Federico Fellini con il libro di Iarussi: ne pubblichiamo la premessa per gentile concessione dell’Editore. Oscar Iarussi il 18 Gennaio 2020. È nelle librerie per i tipi del Mulino, «Amarcord Fellini. L’alfabeto di Federico» del giornalista e critico cinematografico della «Gazzetta». «Il visionario è l’unico vero realista». È un magnifico paradosso di Federico Fellini, come la sua esistenza affollata di incontri e ricca di onori, eppure segnata dalla solitudine di una perenne ricerca: nello specchio dell’infanzia e nei labirinti del desiderio, non meno che nella realtà quotidiana di un’Italia in radicale trasformazione che egli fu tra i pochi a saper cogliere e raccontare in divenire. Un’opera, la sua, spesso incompresa o avversata, puntualmente equivocata sotto il segno della presunta nostalgia goliardica, laddove invece illumina il presente o addirittura capta il futuro. Un’opera, infine, prepensionata dal mercato cinematografico, non più interessato a produrla. Fellini nasce a Rimini il 20 gennaio 1920 e muore a Roma all’età di 73 anni, il 31 ottobre 1993. Era il giorno dopo il cinquantesimo anniversario delle nozze con Giulietta Masina, che sarebbe mancata solo pochi mesi più tardi, il 23 marzo 1994.

«Dolce come Verlaine, come Beatrice

e maledetto come James Dean

casto della purezza di Euridice

intelligente come Rin Tin Tin.

M’han detto che era morto, ebbi uno shocche

come se fosser morte le albicocche».

Fellini come le albicocche: frutto della terra, dono della natura, delizia dei sensi. È la chiosa del poetico commiato di Roberto Benigni, cui Federico il Grande consegna una sorta di lascito testamentario chiamandolo a interpretare, nel 1990, il personaggio di Ivo Salvini in La voce della luna: «Eppure credo che se ci fosse un po’ più di silenzio, se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse qualcosa potremmo capire...». Un invito a tacere tanto profetico quanto disatteso, considerando il caos e la mancanza di pudore che oggi imperano. L’autore italiano più amato nel mondo, vincitore nel corso del tempo di cinque premi Oscar, è stato un raffinato antropologo del Novecento nel suo farsi e disfarsi. Egli colse la prevalenza dell’abnorme, del beffardo, del bizzarro, di un onirismo/onanismo di massa che discende dal «virus dannunziano» diagnosticato da Alberto Savinio o dal fascismo come eterna adolescenza (vedi Amarcord), una tentazione con ogni evidenza mai sopita. Tale primato del grottesco scandisce il progressivo – meglio, regressivo – declino di una società invecchiata e impecorita, rassegnata e stanca, forse paga del ricordo o della pallida imitazione, spesso parodistica, della sua fioritura leggendaria nelle stagioni del boom anni Sessanta, ovvero della Dolce vita. D’altronde, Fellini per il suo Casanova (1976) sceglie quale protagonista il canadese Donald Sutherland – «un candelone spermatico», lo definisce –, scatenando discussioni a non finire sulla presunta lesa maestà del Grande Seduttore veneziano. Si radicalizza allora la vena funerea di Fellini, più palpabile in Prova d’orchestra (1979), concepito all’indomani dell’omicidio dello statista democristiano Aldo Moro per mano delle Brigate rosse, in cui il Nostro e il compositore Nino Rota tessono l’apologo dell’innocenza perduta di un paese che non riesce più ad accordare i suoni e i toni. È la prima elegia di un «lungo addio» visionario: E la nave va, Ginger e Fred e La voce della luna. Fellini aveva indovinato tutto dell’Italia entrata nel terzo millennio, come se fosse il terzo secolo avanti Cristo: all’insegna del fescennino in salsa «bunga bunga» (il Fellini Satyricon tratto da Petronio è del 1969). Un gigantesco passatempo da Bar Sport on line «per legioni di imbecilli» – disse Umberto Eco – scandisce questa deriva, che Silvio Berlusconi ha interpretato per primo con l’irruenza mercantile e la libido senile che sappiamo. Poi, sono arrivati i giovanotti. Fellini confidava sardonico e rassegnato: «Mio babbo voleva che facessi l’avvocato e mia mamma sperava che facessi il dottore, ma io ho fatto l’aggettivo: il felliniano». Eppure, Federico non fu mai felliniano, a dispetto del talento da neologista: vitellone e paparazzo, dolce vita e amarcord. Anzi, Fellini tentò di sottrarsi allo stereotipo di situazioni e personaggi caricaturali, eccessivi o carnascialeschi. Caso mai satireggiava le macchiette erotomani e le signore prosperose da Anita Ekberg alla Saraghina, dalla Tabaccaia alla Gradisca, sebbene con la tenera complicità che, per altri versi, riservava alla Masina. Fanno testo le quattro lettere inedite di Federico alla moglie del 1992, pubblicate nel 2018 da «Famiglia Cristiana»: «Giuliettina mia adorata, sei sempre una ragazzetta in gambissima e insieme con il tuo vecchierello faremo ancora qualche pastrocchio. Con te vicino sono ancora capace di fare capriole. Coraggio». Senza le struggenti invettive di Pasolini contro la modernità e senza alcun moralismo, il Riminese è un lungimirante testimone sul campo delle metamorfosi sociali. Intervistato dall’amico Georges Simenon, Fellini confessa: «In fin dei conti lei e io abbiamo sempre raccontato delle sconfitte. Ma voglio, devo riuscire a dirle... Credo che l’arte sia questo, la possibilità di trasformare la sconfitta in vittoria, la tristezza in felicità. L’arte è un miracolo...». Nella nostra realtà mosaicata, eterogenea, contraddittoria, vige la disperata ricerca di un insieme, di una speranza, di un appiglio contro la solitudine, sì, forse di «un miracolo». Metaforicamente, siamo tuttora sull’ultima spiaggia nel finale di La dolce vita con Mastroianni. Al cospetto del mostro marino arenato, Marcello non riesce a cogliere le parole della ragazzina nel vento e le risponde con un sorriso impotente. Oggi come minimo sarebbe oggetto di una serie di tweet sarcastici con l’hashtag #machestaiadì? Abbiamo cercato le parole per dire di Fellini e di noi rispetto al suo cinema. Una parola-chiave per ogni lettera dell’alfabeto, o quasi, dalla A di Amarcord alla Z di Zampanò. Un «alfabeto di Federico» che non ha pretese di completezza, né mai potrebbe, considerando oltretutto che la vastissima bibliografia felliniana è continuamente alimentata da studiosi di ogni dove. Meno vividi, purtroppo, sono i suoi film agli occhi del pubblico più giovane, ma confidiamo che le iniziative nel centenario della nascita ne favoriscano la conoscenza. Anzi, per cominciare, provate a trovare su YouTube alcune delle scene qui citate e vedrete se non vi assale la voglia di recuperare l’intero film, perché un’opera d’arte è tale solo nella sua integrità (e in certe condizioni di visione, ma questo è un altro discorso). Per ogni voce del nostro dizionarietto portatile abbiamo fatto scelte soggettive, quindi opinabili, guidati dalle suggestioni, dalle emozioni o dai ricordi personali. Un esempio? La lettera K è stata «in ballo» tra Kafka, perché Fellini lo amò e coltivò l’idea di realizzare una trasposizione del suo romanzo incompiuto America (secondo il semiologo Paolo Fabbri in realtà l’ha realizzata, eccome, in Intervista), e Kubrick o Kurosawa, colleghi di pari rango con i quali echeggia talvolta un dialogo a distanza. Ma al dunque la K è di Kezich, critico cinematografico, biografo e amico di Federico, i cui «diari» contribuiscono a guidare lo spettatore nel labirinto... kafkiano delle sue immagini. Ricordiamo però, con Fellini, che il filo di Arianna non è mai uno solo, come nella vita quotidiana del nostro tempo così incerto. Anche nel corpo delle singole lettere dell’alfabeto abbiamo seguito percorsi non canonici, assecondando ora l’affresco dell’ambiente culturale o lo stralcio storico-sociale; ora l’analisi di una sequenza felliniana poco nota ovvero celeberrima, dal prologo di I clowns all’apparizione del piroscafo Rex lungo il filo dell’orizzonte di Rimini, girata a Cinecittà.

Da “Avvenire” il 18 gennaio 2020. Pubblichiamo la confessione inedita del grande cineasta romano al collega francese Gérald Morin, che di Federico fu aiuto regista «A 18 anni scrissi un film sulla mia giovinezza, però Federico fu più veloce di me e uscì il suo primo capolavoro» Proponiamo in questa pagina due inedite confessioni rilasciate nel lontano 1977 al regista Gérald Morin, storico collaboratore di Federico Fellini, da Sergio Leone e da Alberto Lattuada. Della rivelazione a Morin del cineasta romano, reso famoso soprattutto dai cosiddetti "spaghetti western" e di cui sono appena ricorsi i novantanni dalla nascita e i trent' anni dalla morte, riportiamo qui un ampio stralcio riguardante l' inizio della propria carriera e il primo contatto con il collega riminese. Nell' altro articolo viene riportata, a firma dello stesso Morin, una intervista a Lattuada che con Fellini ebbe una lunga e proficua collaborazione negli anni Quaranta e nei primi anni Cinquanta. Devo dire che io ho incontrato lui, ma Fellini non ha incontrato me, in quanto la prima volta che l' ho visto, fui invitato da un montatore a vedere, a Cinecittà, La dolce vita. Mi ricordo che uscendo, me lo presentarono. Fu una presentazione fugace, io non avevo ancora fatto niente, ero un giovane aiuto regista, e uscendo mi fermai con la macchina, stavo con mia moglie, davanti all' Istituto Nazionale Luce, dopo aver fatto pochi metri e dissi: «Mio povero Federico, ma che farà d' ora in avanti?», perché ebbi la sensazione, specialmente in quel periodo (oggi forse rivedendolo accusa un po' di tempo), che in quel film c' era tutto; c' erano tutti i concetti, eppure espressi magicamente. Questa era una certa posizione limitativa, in quanto mi sembrava che ci fosse la magia del cinema dentro, tutti i sentimenti, tutte le percezioni, tutti gli umori di quel periodo che attraversavamo. Poi io con Federico ho una certa congenialità, perché lei deve sapere che Federico è in un certo qual modo il primo personaggio che mi ha fatto piangere. Perché io a 18 anni scrissi un film che era il film della mia giovinezza, della mia infanzia, che si chiamava Viale Glorioso, e stranamente questo nome è alle pendici del Gianicolo vicino a Villa Sciarra, dove io ho passato tutta la mia infanzia. Era di una ingloriosità totale, perché c' eravamo mescolati a tutti i ragazzi trasteverini, proprio al milieu, un certo milieu trasteverino, ladri, ecc. ... e facevamo una specie di doppia vita come il Dr. Jekill e Mr. Hyde, a casa e fuori; e quindi scrissi questa storia che era la storia di sette, otto ragazzi, io compreso, autobiografica, che era i Vitelloni a Roma. La scrissi contemporaneamente a lui, ma poi quando la finii, io ero ancora troppo giovane per poter affrontare la regia a quei tempi, e me l' ero riservato come il mio primo film, il film del debutto; invece poi uscì I vitelloni; e ho pianto di rabbia perché poi soprattutto gli umori erano gli stessi, anche se il luogo diverso. C' era dentro tutto, il mio leggermente più drammatico, che finiva con la morte di uno di questi ragazzi, ma l' atto del film era quasi identico. Stranamente, senza conoscerci; nessuno dei due aveva raccontato qualcosa all' altro, dunque senza possibilità di fuga di idee; avevamo pensato tutti e due allo stesso modo di cominciare la carriera.

Natalia Aspesi per “Robinson - la Repubblica” il 17 dicembre 2019. Me lo ricordo il Fellini che incontravo per le interviste, forse ai tempi della Città delle donne o anche prima: un uomo gentile, affettuoso, un tesoro per un giornalista perché evocava cose sorprendenti e l' articolo si faceva da solo: un uomo stanco, grassoccio, seduto in un angolo, con quella vocetta infantile, un fiume fantasioso di parole e di immagini; noi arpie del giornalismo detto chissà perché di costume lo adoravamo per la dolcezza con cui voleva farci credere, ma non lo credevamo, quanto ci stimasse. Ci appariva molto accogliente, piacevole, ma del tutto privo di fascino di quel tipo là, e un po' ne ridevamo, pentendoci subito perché chiunque fossero le femmine vere che accoglieva o spingeva in un letto, o quelle di fantasia che raccontava sullo schermo, i suoi film, una parte dei suoi film, sarebbe stata meravigliosa per sempre. Si può a 27 anni dalla sua morte, nel centenario della sua nascita, in un tempo, oggi, smemorato e capovolto, chiedersi ancora delle sue donne, vere o immaginarie, dopo che negli anni, a ogni occasione ne è spuntata una che si è dichiarata la sua donna, e lui pazzo d' amore, e lei pazza di lui: ne vivono ancora con questa medaglia, signore a cui in passato se si chiedeva, E la Masina?, sempre rispondevano, Contenta. Tutto ormai è evaporato nella leggenda e non conta più, e sono certo più reali le donne della fantasia che quella vere ormai defunte o tuttora parzialmente vegete. Per esempio la Carla di 8 e 1/2, la bionda burrosa e sempre sorridente a cui Guido alzandosi dal letto chiede di fare la faccia da porca, e lei pigola, nella sua adorabile scemenza, voglio scrivere a mio marito; oppure Fanny di Giulietta degli spiriti, amante ideale delle fantasie maschili d' epoca, polposa e un po' ridicola, tutta in bianco con velo come una sposa, ma già in mutande. Oggi, più di mezzo secolo dopo, Sandra Milo, una settantina di film e qualche apparizione sconcertante in tivù tipo Isola dei Famosi, deve la sua gloria ai soli due film con Fellini, l' uomo che è stato il suo distratto amato amante per 17 anni: senza che lei mai lasciasse marito e figli anche se in certe interviste ha sostenuto che a un certo punto lui, marito di ferro della sua Giulietta, le aveva comunque chiesto di sposarlo. Certo i film di Fellini e forse davvero anche la sua vita, sono zeppi di donne, madri, puttanoni, spose, beghine, fanciulle, serve, sante, cori di belle sciocchine maliziose e inafferrabili con i visi vacui incorniciati da meravigliosi e stupidi cappelli: che raccontano l' ossessione italiana e ancor più, forse, romagnola di allora per una femminilità divisa in due: quella di una moglie poco vistosa che ogni giorno all' alba si alza per tirare la pasta fresca e rimestare un indigeribile ragù, mentre su una spiaggia, in una tabaccheria, in un vicolo, in un letto a baldacchino, lo attende ubbidiente e indifferente, una bellissima donna, un corpo sontuoso e muto: oppure una sua degenerazione, una Gradisca, una Gigantessa, una Rosina, una Tabaccaia, una Paciocca, una Saraghina, una mostruosità cattiva e inesistente, due palloni al posto del seno, una montagna al posto del sedere, un viso diabolico: come nei disegni preparatori per i suoi film ( I disegni di Fellini di De Santi, Laterza) che rivelano il disprezzo, e la paura che può suscitare quel costante mistero che è la femmina. Ma poi c' è La Moglie, che è per sempre, che non si cambia, almeno per Federico, e quindi non ha bisogno di quegli orpelli carnali perché il suo ruolo è un altro, vuoi angelo del focolare ma anche mamma inflessibile che ti soccorre, che ti controlla, che ti urla se bevi troppo, se mangi troppo, se un' amante ti ha piantato: non è stato proprio così il ruolo di Giulietta Masina, sposata, tutti e due ventenni, tutti e due emiliano-romagnoli, quando Fellini era ancora magro magro (secondo Alberto Sordi che gli era già amico, per fame) e con una gran capigliatura nera: bello, come una volta accasato è stato per poco, da quasi subito infedele come era ovvio, la moglie però non addomesticata secondo tradizione, sua musa e interprete per i personaggi angelicati, sia di piccola barbona come Gelsomina, sia di ingenua prostituta come Cabiria. E quanto alla fedeltà obbligatoria della Moglie, non ne esistono prove certe, anzi, Roma pullulava in quegli anni, di immensi intrecci di corna. In Anita Ekberg Fellini aveva trovato la splendida rara immagine della bellezza eterna da lui sognata: esuberante, ridente, lattea, dispensatrice di felicità, tutto ciò che una dolce vita può dare, e che rimase gelida nei suoi confronti, giudicandolo dal suo moralismo nordico, un provinciale, una donnetta, un despota, un invidioso, come rivelò in varie interviste. Anche un' altra signora che lui voleva in Casanova, questa volta con sprezzo anglointellettuale lo atterrò in una intervista a Leonetta Bentivoglio: stravaganza felliniana perché Germaine Greer, femminista bellicosa e autrice dell' epocale L' eunuco Femmina, se lo portò a letto tanto per passare una serata o due, rimanendone delusa. «Quando si infila nel letto col pigiama di seta, telefona subito alla moglie mandandole bacini» concludendo dopo una serie di dispregiativi, «di atleti del sesso ce ne sono tanti e a buon mercato». A Roma si sapeva del vero grande amore di Federico Fellini, che lui portava nei ristoranti e ovunque senza che, fantastica ipocrisia italiana, la cosa fosse considerata vera: non un tradimento coniugale insomma, ma una casualità imposta dalle regole della sopravvivenza: per 36 anni Anna Giovannini fu la sua amante segreta, un' altra moglie, la realtà di quell' amore carnale che scorreva come un sogno nei suoi film. Una luminosa bellezza formosa e grande, incontrata casualmente in una pasticceria, che vestita di rosso e molto scollata, lo aveva folgorato per sempre. Era il 1957, dopo Il bidone e Federico non riusciva a liberarsi da una delle sue depressioni. Due anni dopo la morte del regista, la signora che allora aveva 79 anni (4 più di lui) concesse una intervista ad Adele Cambria, per rivelarsi, finalmente: «Federico era molto geloso, non voleva che la nostra storia venisse inquinata dalle chiacchiere». Anche perché il rifugio della passione clandestina gli consentiva un' altra serie di vite senza fastidi: professionale, sociale, di coppia ufficiale e certo di corna. In casa ho trovato questo librino di carta povera e già ingiallita, Caro Federico, edito da Rizzoli nel 1982, sulla copertina azzurra, sotto il solito immenso cappello rosa, occhiali neri e gesto stupidino, Sandra Milo, l' autrice, con probabile ghost writer; quando il suo Fellini, ormai perduto per lei, stava preparando E la nave va. Una specie di romanzo, gentile e spiritoso in terza persona, in cui la protagonista si chiama Selana. A pagina 61: camera da letto di gusto barocco, lenzuola di lino ricamate, lui nudo si stende sul letto, le fa indossare un mantello nero e sotto niente: «Ti senti la castellana che nel buio raggiunge il cavaliere errante che le ha chiesto asilo per la notte? È un cavaliere o uno stregone? Ti amerà o farà un crudele incantesimo? Sì così, fai quella bella bella faccia da porca, mostrami la lingua». Tutte le donne si innamoravano di lui, ricorda Sandra: in ogni caso da quel passato di multiple e roventi passioni, mai un eco di molestie. Insomma contente tutte, più o meno.

Gloria Satta per “il Messaggero” il 24 novembre 2019. L' umanità è condannata ad avere la memoria sempre più corta? Non sembrerebbe: a cent' anni dalla nascita, il mondo intero si prepara infatti a celebrare per tutto il 2020 Federico Fellini scomparso il 31 ottobre 1993 dopo aver firmato film-capolavoro come La strada, Le notti di Cabiria, La Dolce Vita, Otto e mezzo, Giulietta degli spiriti, Prova d' orchestra, La voce della Luna, vinto cinque Oscar (record imbattuto) e segnato l' estetica cinematografica e la cultura del Novecento, in una parola l' immaginario del nostro tempo. L' omaggio-kolossal si snoda in quattro tappe. La prima è il convegno internazionale Ricordiamo il maestro promosso dal Comune di Milano a Palazzo Reale il 20 gennaio 2020, giorno della nascita di Fellini: accanto a intellettuali e cineasti ci sarà Donald Sutherland, l' indimenticabile Casanova felliniano. Seguirà (marzo-dicembre) la mostra itinerante sostenuta dal Ministero degli Esteri in 10 città del mondo: San Paolo del Brasile - dove il Banco do Brasil ha prestato la propria sede - Berlino, Mosca (nel Museo della Musica), San Pietroburgo, Toronto, Tirana, Vilnius, Buenos Aires, Lubiana - dove inaugurerà la Cineteca Nazionale Slovena - Hong Kong. Da settembre a novembre si terrà poi a Palazzo Reale di Milano la monumentale esposizione del centenario Fellini, le donne, i film curata da Vincenzo Mollica e Alessandro Nicosia con Francesca Fabbri Fellini, erede del maestro, e con la collaborazione di Simonetta Tavanti, nipote di Giulietta Masina. C' è poi il libro Federico Fellini - Dizionario Intimo a cura di Daniela Barbiani con prefazioni di Milan Kundera e Pietro Citati, in uscita da Piemme: raccoglie le parole, le espressioni, gli amori e i ricordi del grande regista in 203 voci destinate a restituirne l' immagine sfrontata, geniale, sempre viva.

IL COMITATO. Regista delle celebrazioni del centenario è Alessandro Nicosia, 500 mostre all' attivo in oltre 30 anni di attività e numerosi eventi dedicati proprio al maestro di Rimini: la prima esposizione in assoluto da lui curata a Roma nel 1995 con Mollica e Lietta Tornabuoni, l' omaggio del 2003 al Guggenheim di New York, il tributo ospitato dall' Academy a Los Angeles e quello del Puskin di Mosca. «Il nome di Fellini, che ho avuto il privilegio di conoscere, suscita tuttora un' enorme emozione nel mondo intero», spiega Nicosia che ha riunito per l' occasione un comitato di eredi, amici ed estimatori del regista in cui spiccano i nomi di Milo Manara, Giuseppe Tornatore, Rosita Copioli, Citati, Kundera, Mario Longardi, Sutherland, Milena Vukotic, Fiammetta Profili, Carlo Patrizi. E aggiunge: «Organizzare oggi, con l' amico fraterno Mollica, le celebrazioni del centenario significa mantenere viva la memoria del regista e farlo conoscere ai giovani che, nell'era di internet e della cultura usa-e-getta, rischiano di dimenticarlo».

I DOCUMENTI. Molti saranno gli inediti della mostra in programma a Palazzo Reale e incentrata su disegni, schizzi, documenti, fotografie, molte delle quali scattate da Gideon Backman, frammenti di film mai montati, oggetti di scena, manufatti, indumenti, curiosità. Tra le chicche, il disegno che il regista regalò all' amico Giulio Andreotti per i suoi 70 anni, il pianoforte verticale di casa Fellini su cui Nino Rota accennava le sue celebri colonne sonore, i biglietti di auguri spediti da Federico alla nipote e i ritratti degli amici, le immagini del futuro genio del cinema da bambino con i fratelli Riccardo e Maddalena. Si vedranno per la prima volta anche alcuni spettacolari costumi confezionati da Danilo Donati per Casanova (e ci sarà una grande testa di cartapesta realizzata per il film) nonché le mutandine e i reggiseni indossati dalle interpreti de La città delle donne e restaurati per la mostra. Ciliegina sulla torta, i disegni che Fellini e Charles M. Schultz si scambiarono in occasione della mostra organizzata a Roma nel 1992 da Nicosia in onore del padre dei Peanuts di cui il regista era un fervente estimatore. Tanto da esclamare, osservandolo disegnare in una saletta dell' Hotel Hassler: «Mi sento come quel piccolo manovale che guardava Michelangelo mentre dipinge la Cappella Sistina».

Dagospia il 24 novembre 2019. Estratto della prefazione di Milan Kundera a “Dizionario Intimo di Federico Fellini” a cura di Daniela Barbiani (Piemme). Il mio amore per i film di Federico Fellini è senza limiti. L' ultimo periodo dell' arte di Fellini ha rappresentato la vetta delle vette, la fusione del sogno e della realtà di cui sognavano i surrealisti. Fellini l' ha realizzata nei suoi ultimi film con una forza incomparabile, effettuando allo stesso tempo un' analisi lucidissima del mondo contemporaneo. I film di Fellini dell' ultimo periodo rappresentano l' apice dell' arte moderna, l' immagine più rivelatrice che conosco del nostro mondo così com' è. Negli ultimi decenni, dopo Picasso, dopo Stravinskij, dove possiamo trovare un' opera più bella, di un' immaginazione più potente? Dove possiamo trovare un' opera più importante in grado di interrogare, domanda dopo domanda, tutto il destino europeo, le viscere stesse di questo destino?

Riccardo De Palo per il Messaggero l'8 gennaio 2020. Dove comincia la realtà e finisce il sogno? La domanda che si pone Daniel Pennac, nel suo ultimo romanzo La legge del sognatore (dal 16 in libreria per Feltrinelli), è la chiave per leggere questo libro labirintico, onirico, accattivante, che ha un solo, vero, protagonista: Federico Fellini. L'autore francese (all'anagrafe, Daniel Pennacchioni), ammette di non aver mai avuto occasione di conoscere il suo «regista preferito», di cui si celebra il prossimo 20 gennaio il centenario dalla nascita; ma è attraverso film come Amarcord e 8½ che è cresciuto, e questo libro rappresenta un omaggio alla sua impareggiabile capacità creativa, alla sua fervida immaginazione.

LA PSICANALISI. Il libro (uscito lo scorso 3 gennaio in Francia, edito da Gallimard, che abbiamo letto nella versione originale), è dedicato non a caso a un amico psicanalista dello scrittore, Jean-Bertrand Pontalis, scomparso qualche anno fa; e, naturalmente, la storia inizia proprio da un sogno. Tutto da interpretare. Pennac si ritrova, bambino di dieci anni, nella casa di montagna dei genitori, con il suo amico immaginario Louis. Il padre gli ha spiegato le meraviglie dell'energia idroelettrica; e fatalmente, mentre sta per addormentarsi, rivela al compagno che «la luce è acqua»; così, d'incanto, si accorge che una lampada comincia a colare come se ne contenesse veramente. Presto tutte le sorgenti di luce cominciano a presentare il medesimo problema, e a inondare il paese come durante un'alluvione, fino a trascinare con sé auto e detriti. Ma dov'è finito Louis? Dove sono i genitori?

IL DISEGNO. «Lo spettacolo cominciava appena chiudevo gli occhi». I ricordi (veri? sognati) si susseguono, da quella camera da letto con un disegno felliniano alla nuotata in un lago, più di cinquant'anni più tardi, alla ricerca della fondatezza di quel sogno. Dove è inevitabile trovare un intero universo che si credeva perduto. In fondo cosa c'è in un ricordo, falsato irrimediabilmente dalla distanza, dalla fantasia, dall'emozione di un tempo? Siamo veramente fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni? E, soprattutto: «Sappiamo veramente quando comincia un sogno?» Le coincidenze diventano piccole illuminazioni, tracce da seguire, indizi che prendono la forma di punti segnati in una mappa; alla ricerca di una pista inconscia, di una verità nascosta. C'è posto anche per una visione onirica nata da un incidente: quando Pennac cade e rimane per ore in coma, in seguito al colpo ricevuto. Al risveglio si chiede, da romanziere: qual è la proporzione di realtà dei sogni, e quindi del libro? Al massimo, un dieci per cento.

INDELEBILI. In fondo, ammette Pennac, ci si dimentica sempre di ciò che è «utile», mentre i sogni più antichi restano ricordi indelebili. Ma è Fellini ad averci aperto la «caverna favolosa delle sue immagini», ed è sempre il grande regista romagnolo ad averci regalato le sue visioni, che annotava ogni giorno appena sveglio, e che prendevano corpo in forme disegnate febbrilmente sulla carta - raccolte poi in un altro volume memorabile, Il libro dei sogni. Quando Fellini cominciò a faticare a trovare produttori - ma come, possibile? Davvero non andavano più a vedere i suoi film? - si rese conto, con amarezza, di non riuscire ormai neanche a sognare; e Pennac si chiede se non sia morto proprio per questo, il 31 ottobre del 1993. Un uomo che trasformava le sue fantasie oniriche in set cinematografici aveva perduto, d'un tratto, la sua ragione di vivere, la sua bacchetta magica.

RITORNO AL REALE. Finzione a parte, la cosa più vera del libro, ammette l'autore, è proprio lo spettacolo che bisogna mettere in piedi per «resuscitare» il regista; sempre ammesso che il maestro lo voglia, che possa «sopportare questa prova». Pennac vorrebbe intitolarlo Federico Fellini è pronto a ricevere tutti coloro che vogliono vederlo, come quelle grandi adunate al mitico Studio 5 di Cinecittà, in cui si faceva ressa per avere udienza con il maestro. 

GLI AMICI. Dal sogno alla realtà, il passo è breve. Così Pennac ha contattato gli amici italiani di sempre del centro Funaro di Pistoia, la regista teatrale Clara Bauer, la figlia compositrice Alice Pennacchioni, e tanti altri. Il risultato è uno spettacolo, ancora da mettere a punto, prodotto da Intesa Sanpaolo, che debutterà il 20 al Piccolo teatro Giorgio Strehler di Milano, giorno in cui, se fosse ancora vivo, Fellini avrebbe compiuto cent'anni (ricordiamo anche la tappa a Bologna, il 19, con Silvia Avallone alla Biblioteca Salaborsa per incontrare i lettori). Come in precedenti show dell'autore francese, si tratta di mettere in tre dimensioni il testo sulla carta, con qualche attore sulla scena e lo stesso Pennac sul palco. L'evento si sposterà il giorno dopo a Torino, presso l'Auditorium del grattacielo Intesa Sanpaolo, per approdare il 22 a Rimini, al Teatro Galli, nell'ambito della settimana di festeggiamenti per il compleanno del maestro romagnolo. Nato da un sogno, da un libro dei sogni, lo spettacolo celebrerà la definitiva risurrezione di Fellini.

Dagospia il 20 gennaio 2020. Tratta da ''Gli Antipatici'' di Oriana Fallaci, Oscar Mondadori, Milano 1963 e pubblicato oggi da Giorgio Dell'Arti nella sua rassegna stampa ''Anteprima'', oltre che da libreriacristinapietrobelli.it. Conosco Fellini da molti anni, ad esser precisa da quando lo incontrai a New York per la prima americana del suo film Le notti di Cabiria e diventammo un po’ amici infatti andavamo spesso a mangiare le bistecche da Jack’s o le caldarroste in Times Square dove si poteva anche sparare al tirassegno. A volte, poi, capitava nell’appartamento che dividevo in Greenwich Village con una ragazza di nome Priscilla per chiedermi un caffellatte: il caffellatte alleviando, non ho mai capito perché, le nostalgie della patria e la lontananza della moglie Giulietta. Entrava massaggiandosi affranto un ginocchio, «Quando son triste mi fa sempre male il ginocchio: Giulietta! Voglio Giulietta!» e Priscilla correva a vederlo come io sarei corsa per veder Greta Garbo. Inutile dire che, a quel tempo, Fellini non aveva nulla di Greta Garbo, non era il monumento ch’è oggi. Mi chiamava Pallina, si faceva chiamare Pallino, in certi casi Pallone, si abbandonava a stravaganze innocenti come piangere al bar del Plaza Hotel perché il critico del New York Times aveva scritto male di lui, o passare da prode. Frequentava infatti la bionda di un gangster e questi gli telefonava ogni giorno all’albergo dicendo «I will kill you», ti ammazzerò. Lui non sapeva l’inglese e rispondeva «Very well, very well»: alimentando la fama di prode. La fama durò fino a quando io non gli spiegai che «I will kill you» vuol dire «Ti ammazzo». Mezz’ora dopo la spiegazione, Fellini era sopra un aereo e viaggiava alla volta di Roma. Faceva anche altre cose come girare la notte in Wall Street, esaminare con l’aria di un ladro le banche, indurre al sospetto i poliziotti più sospettosi del mondo che finalmente gli chiesero i documenti, lo arrestarono perché non li aveva, e lo chiusero fino alle sei del mattino in una cella dove rimase a gridare l’unica frase che conoscesse in inglese: «I am Federico Fellini, famous Italian director».  Alle sei del mattino un poliziotto italoamericano che aveva visto non so quante volte La strada lo udì: "Se sei davvero Fellini, esci fuori e fischia il motivo de La strada". Fellini uscì fuori e con un filo di voce, lui che non distingue una marcia da un minuetto, fischiò tutta la colonna sonora del film. Un trionfo. Con affettuosi pugni allo stomaco che lo indussero a bere brodini per almeno due settimane, i poliziotti gli chiesero scusa, lo riaccompagnarono in albergo scortandolo con motociclette ed auto blindate, lo salutarono con uno strombettare di clacson che si udì fino ad Harlem. A quel tempo Fellini era proprio simpatico. Quando lo avvicinai per questa intervista lo era un po’ meno sebbene mi salutasse, com’è sua abitudine, sollevandomi in un ardentissimo abbraccio, palpandomi dal collo ai ginocchi, giurando che se non fosse stato sposato a Giulietta avrebbe sposato subito me. «A proposito, perché non ci amammo a New York? Ah, quanto fosti cattiva a negarti!». E fingeva di scordare, s’intende, che nemmeno una volta durante le nostre scorribande a New York m’era giunto da lui un romantico cenno, una adulterina proposta che ci distraesse dai reciproci flirt. Aveva girato La dolce vita, un film per cui lo paragonavano a Shakespeare, stava per presentare Otto e mezzo, un film di cui si parlava senza averlo visto come della Divina Commedia, e pur non confessandolo era conscio della gloria che lo illuminava: il suo volto aveva un piglio quasi mussolinesco, i suoi occhi eran gravi, si capiva che non avrei più potuto chiamarlo Pallino o Pallone. Del resto, esauriti gli abbracci, me lo fece capir quasi subito. M’aveva ricevuto, disse, solo perché io ero io; aveva pochissimo tempo e l’unico modo di far l’intervista era farla mangiando. M’invitava per questo nel ristorante dove in quel momento entravamo. Tentai di distoglierlo da un così orrendo progetto. Il magnetofono funzionava elettricamente, la presa di corrente non c’era, se c’era non era vicino alla tavola: non servì a niente. O al ristorante mentre mangiavamo o in nessun altro luogo e mai più. Cercai dunque una tavola accanto a una presa di corrente, sistemai il magnetofono fra i piatti e i bicchieri, il vassoio degli antipasti, cominciai l’intervista che subito interrotta da innumerevoli telefonate proseguì con la lievità di uno zoppo che corre; tra un rumore di forchette, bottiglie, masticazioni volgari. Riascoltandola risultavano frasi come la seguente «Con questo film ho inteso narrare... tu vuoi il prosciutto o il salame? Io piglio il salame. Quelli che parlano di dialettica metafisica... no, le pastasciutte non le voglio, fanno ingrassare. Una bistecca senza sale, ecco quello che prendo... è così stupido chiudere gli occhi al mistero... crack! din din..., il silenzio che ti circonda e diventa chiarore... le patatine! Perché non mangi le patatine?» Nessun dubbio che bisognava ripeterla. E sospirando, gemendo, Fellini rispose d’accordo: poiché io ero io sarebbe venuto l’indomani alle dieci al mio albergo. «Ma in albergo non stiamo tranquilli, Federico». «Lo saremo. Salirò in camera tua». La mia camera all’Excelsior non era grandissima e un letto a due piazze la riempiva fino a sfiorar le pareti. Conoscendo la seduzione che i letti esercitano su Federico Fellini, per addormentarvicisi è chiaro, chiesi al manager un appartamento con salotto: «Aspetto Fellini». «Fellini, signorina Fallaci? Oh! Ma certo! Ma sì». E mi dettero l’appartamento dove avevano abitato lo scià di Persia e Soraya: con un salotto che era piuttosto un salone da ballo. Qui mi trasferii, con violentissima spesa, e alle nove e mezzo del mattino seguente ero già pronta a riceverlo: con le sigarette su un tavolo, i fiori su un altro tavolo, un cameriere pronto a portarci il caffè: «Al signor Fellini piace forte e caldo, mi raccomando». Sembravo un seduttore che aspetta la sua nuova vittima per rivelarle le meraviglie del sesso, non mancava che un poco di musica. Ma le dieci vennero e di Fellini nemmeno la traccia. Vennero anche le undici e poi mezzogiorno, l’una, le due, ma di Fellini neanche la voce. Il telefono suonò che eran le tre e mezzo passate ed io inghiottivo insieme alla mortificazione un tè coi biscotti. «Tesorino, amorino, Orianina, bambina, è da stamani che chiamo per dirti che sono in ritardo. Ma dove sei, dove vai, perché non stai mai in albergo. Be’, ti perdono, e alle cinque sono da te: non un minuto più tardi». Deposi convinta il ricevitore: era un bugiardo ma sarebbe venuto. Scesi a prendere aria. «E Fellini?» chiese con un indefinibile sorriso il portiere. «Sarà qui alle cinque» risposi spavalda. Ma le cinque giunsero e Fellini non venne. Non venne neppure alle sei, neppure alle sette, neppure alle otto, e mentre il buio calava sul salone dove aveva abitato Reza Pahlevi, sulla mia attesa delusa, sul mio prestigio schiacciato, sull’impazienza sempre più irritante del mio direttore che da Milano chiamava dicendo allora a che punto siamo, allora è venuto?, suonò liberatore il telefono. «Tesorino, amorino, Orianina, bambina...» Una complicazione imprevista gli aveva impedito, materialmente impedito, di venire da me. Ne era addolorato, confuso, ma lo sapevo che era un uomo con mille impegni. A chiunque altro avrebbe detto non posso, era già molto che non si negasse e rimandasse l’impegno. Comunque mi avrebbe visto quella sera stessa alle undici alla proiezione privata del film in via Margutta. «Guarda, Federico, che sono in ritardo, un ritardo di almeno due giorni, il direttore è arrabbiato, le pagine aperte, guarda Federico...» «Ah! Come osi dubitare di me? Come puoi pensar che non vengo?!? È offensivo, malvagio...». Eccomi dunque, alle undici di sera, che col mio magnetofono aspetto su un portone di via Margutta Federico Fellini, famous Italian director. So che alle undici non verrà: ma lo aspetto. So che non verrà neppure a mezzanotte: ma lo aspetto. So che non verrà nemmeno all’una: ma lo aspetto. Il film, in sala di proiezione, è incominciato da un’ora, da un’ora e mezzo, da due, da due e mezzo, è finito, la gente esce, si ferma al rinfresco, è finito anche il rinfresco, la gente va via, qualcuno chiude il portone, io mi sposto sul marciapiede, continuo ad aspettare, con gli occhi che mi si chiudono, le gambe che mi si piegano, i teddy boy che mi molestano, continuo ad aspettare: finché passa un tassì e ci salgo. È ormai l’una e mezzo del mattino, rientrando dico al portiere di prenotarmi il primo aereo per Milano. In camera, cado sfinita sul letto. Mi addormento di colpo. Mi risveglio col suono del telefono e una melliflua voce che canta: «Tesorino, amorino, Orianina, bambina, ma perché non sei venuta?!» «Perché parto» rispondo. «Dovevo far le valige: il mio aereo parte domattina alle otto». «Ma è il mio aereo! Anch’io parto alle otto! Non è straordinario? Comodissimo? Parleremo in aereo». Inutile dire che perse l’aereo. Oh, il biglietto l’aveva, e anche la prenotazione. Quel volo era il suo, a Milano lo aspettavano cronisti e fotografi, perché non lo perdesse il suo produttore gli aveva mandato la Cadillac con l’autista. Ma perse l’aereo lo stesso. E quando esso giunse a Linate, i fotografi corsero alla scaletta, sulla scaletta c’ero io che scendevo e due americani dell’Oklahoma, quattro francesi di Nimes, due industriali lombardi di Concimi Chimici e Affini. Fellini giunse a mezzogiorno col mio benvenuto rilasciato a un amico: che andasse all’inferno, e ci restasse. Ammesso che anche all’inferno non fosse sgradito. Italiani e cinesi, norvegesi e cileni, messicani e francesi, indiani e groenlandesi, popoli tutti della terra, ricordate. Non si manda all’inferno Federico Fellini sennò Federico Fellini si arrabbia, si arrabbia come una bestia e vi telefona insultando il babbo, la mamma, la zia, la nonna, i cognati, i nipoti, i cugini, e vi ricorda che lui è un grande regista, un artista, un grandissimo artista, e in virtù di questo può mancare a tutti gli appuntamenti che vuole, perdere tutti gli aerei che vuole, anzi gli aerei farebbero bene ad aspettarlo perché Federico Fellini si aspetta, ciascuno di noi è nato per aspettare Federico Fellini eccetera eccetera, amen. Ero al giornale quando telefonò e gridava tanto che tutti lo udirono mentre mi ricordava che Federico Fellini è un grande regista, un artista, un grandissimo artista, tirando fuori una voce che avrebbe fatto morir di spavento il gangster che aveva fatto morir lui di spavento, insultandomi a morte mentre immaginavo il suo piglio mussolinesco, la sua saliva che copriva come rugiada il telefono, il suo faccione sudato d’ira ed orrore per la blasfemia che avevo osato commettere. Tentai di girare con garbo gli insulti, di spiegargli quel che pensavo in quel momento di lui. Non mi udì, non mi udiva. E mentre tutti ridevano commentandone gli urli, dolcemente deposi il ricevitore. Cominciò allora una crisi: giacché non è cattivo, lo giuro. Gli è andata male ad andar così bene, ecco tutto: nemmeno sant’Antonio resisterebbe alla sciagura di tanta fortuna, e ciò sveglia la violenza emiliana che cova sotto quell’aria di pacifico gatto. Però dopo gli dispiace moltissimo, fino alle lacrime, è capace di chiamar cento persone per dirvi che il suo cuore è straziato, che vi vuol bene come a Giulietta, che vi ha sempre voluto un gran bene, che ve ne vorrà finché resta al mondo eccetera eccetera, amen. Finché, come un ipnotizzato o un sonnambulo, vi trovate a salire sulla Cadillac che vi ha inviato per andare da lui, a percorrer la strada pensando che la colpa è vostra e non sua, a entrare in ascensore dicendovi come farà a perdonarmi, infine ad aprire la porta della sua stanza d’albergo col volto di Giuda che ha venduto Gesù. Qui trovarlo disteso come Ibn Saud sopra un letto, beato, ronfante, che dice con la sua vocetta melliflua «Tesorino, amorino, Orianina, bambina...», poi essere stretti in un abbraccio sinistro e ascoltarlo durante una ancor più sinistra serata. L’intervista che segue Fellini volle rileggerla e la rilesse tre volte: ogni volta apportando alle sue risposte correzioni diverse, opinioni nuove, pentimenti improvvisi. È l’intervista meno genuina di tutta la serie, non una frase di essa è stata scritta senza pensarci e ripensarci. Il Codice napoleonico e la Costituzione americana costarono certo meno fatica di questo documento prezioso. Io gli volevo bene davvero a Federico Fellini. Dopo quel tragico incontro gliene voglio assai meno, ho anche smesso di dargli del tu. Lui può anche negarlo. Ma, come dice Jeanne Moreau un po’ più in là, egli è un tale bugiardo che la menzogna diventa alla sua buona fede verità sacrosanta.

Oriana Fallaci. Allora facciamoci coraggio, signor Fellini, e parliamo di Federico Fellini: tanto per cambiare. Le costa fatica, lo so: lei è così schivo, così segreto, così modesto. Ma parlarne è nostro dovere: anche di fronte al paese. Ancora un poco e la storia della sua vita, il significato della sua arte diventeranno materia di insegnamento in tutte le scuole della repubblica: come la matematica, la geografia, la religione. I libri di testo, non esistono già? Federico Fellini, Storia di Federico Fellini, Il mistero di Fellini... Nemmeno su Giuseppe Verdi s’è scritto tanto. Eh, sì: a pensarci bene lei è il Giuseppe Verdi dell’Italia d’oggi. Vi assomigliate perfino: nel cappello. No, la prego: perché nasconde il cappello? Giuseppe Verdi lo portava proprio così: nero, a tese larghe...

Federico Fellini: «Disgraziata. Screanzata. Ballista. Maleducata».

Perché? Anche Verdi era bravo, sa? Per la prima delle sue opere accadeva esattamente quello che accade per le prime dei suoi film. Io credo che solo per La Traviata gli italiani abbiano fatto il fracasso che hanno fatto per il suo Otto e mezzo: con le poltrone prenotate da mesi, le signore con l’abito nuovo, i critici che intrecciano corone di alloro...

«Già. Come se Lo Sceicco Bianco non fosse stato un insuccesso clamoroso, e Il bidone non fosse stato accolto con freddezza glaciale, e La strada non avesse ricevuto sghignazzate e insolenze. E La dolce vita? Cosa credi, ragazzi’, che abbia avuto solo lusinghe ed elogi?»

Oddio! A Milano volò uno sputacchio. A Roma venne la Celere. Ma anche a Verdi gettavano ogni tanto verdura e uova fresche. Signor Fellini! Non sarà mica preoccupato? Mi scusi, sa: ma a vederlo così placidamente disteso sul letto, con la sua aria da gatto soriano, mi sembrava tanto tranquillo...

«Son tranquillissimo. Dopotutto ho fatto quel che avevo in testa di fare: riesco a non preoccuparmi troppo che il film possa piacere o no. L’attesa non mi lascia indifferente, è ovvio. Ma non mi emoziona nel senso che puoi credere tu: l’ansia e la trepidazione che provo sono le stesse di quando feci il primo film. Voglio dire che i successi precedenti non mi danno l’affanno di pensare: aiuto, ora pretendono da me il triplo salto mortale. Non è presunzione se ti dico che l’unica inquietudine può venirmi dal timore che il film sia equivocato: non certo dall’idea che la gente si aspetti da me più di quanto io possa dare. Perché dovrei preoccuparmi di non deludere quei tipi che mi guardano come una soubrette che ogni volta deve salire un gradino più alto ed esibire altre piume?».

Signor Fellini, guardiamoci negli occhi: per uno cui non importa un bel niente lei ha fatto abbastanza rumore. Tutto quel mistero sulla trama perché la gente morisse di curiosità, quel fare a nascondino coi giornalisti, quel tacere perfino agli attori la parte che stavano recitando, insomma quella segretezza che era diventata come gli occhiali di Greta Garbo...

«Ah sì? Ognuno paga lo scotto dell’ambiente in cui vive: è il cinematografo che traduce tutto in forme volgari».

Tesorino mio: sono abbastanza abile da inventare storie e se avessi voluto ricorrere ad accorgimenti pubblicitari... Se non ne parlavo era perché non sapevo che dirne: nemmeno oggi so cosa dirne. Non è un film di cui si possa raccontare la trama. Quando mi chiedono la trama io mi stringo nelle spalle e rispondo ecco, fai conto che una sera incontri un amico in vena di confidenze e questo amico ti narra sgangheratamente, disordinatamente, quello che fa, quello che sogna, i suoi ricordi d’infanzia, i suoi disordini sentimentali, le sue incertezze professionali, e tu lo stai a sentire, e alla fine hai ascoltato una creatura umana, e forse viene voglia anche a te di cominciare a raccontare qualcosa... Capito? È una chiacchierata confusa, caotica, una confessione fatta con abbandono, a volte perfino insopportabile...»

Sì, in fondo c’è qualcosa di proustiano. Proust tradotto in cinema puro.

«Proust? Mah! Io sono molto ignorante... Che vergogna, eh? Una sana, vasta, solida, coriacea ignoranza. Non so nulla di nulla. E il discorso non vale solo pei libri. Vale anche pei film».

Lo so, lo so. Lei non va a vedere che i film di Federico Fellini. Quelli degli altri mai, vero? «È così vero che ho il coraggio di dirlo. Non riesco a organizzarmi per il rituale che esige lo spettacolo uscire di casa, salire in macchina, sedersi fra tante persone, star lì a farsi solleticare da emozioni collettive. Se esco di casa per andare al cinema o a teatro, stai sicura che durante il tragitto vedo qualcosa che mi interessa di più. Se poi vedo il film di un altro e mi accorgo che quest’altro ha realizzato una cosa che volevo realizzare io... ci resto male. Certo ho visto i film di Charlot: che artista favoloso. Ma per i quarantenni come me Charlot appartiene alla mitologia della nostra vita: il babbo, la mamma, la maestra, il prete, Charlot. Charlot... l’ho incontrato una volta a Parigi. Aveva visto La strada: mi fece, credo, complimenti a mezza voce. Mi parve piccolissimo, con due manine piccine piccine. Parlava un francese che non capivo, lui non capiva il mio inglese: mi sentivo a disagio, in soggezione...»

Lasciamo stare Charlot: siamo qui per Fellini. Il protagonista di Otto e mezzo...

«L’hai visto? T’è piaciuto?»

Certo che m’è piaciuto. Che film triste, però. Tutti quei vecchi, tutti quei preti, quell’aria di disfacimento e di morte... Sono morti anche i vivi, in quel film. «Ma allora hai capito poco, non è un film triste. È un film dolce, aurorale. Malinconico, semmai. Però la malinconia è uno stato d’animo nobilissimo: il più nutriente e il più fertile...»

Se le fa piacere: diciamo pure che ho capito poco.

«Tesorino, hai fame? Hai sete? Vuoi sdraiarti un po’?»

Non ho fame, non ho sete, e non voglio sdraiarmi per niente. Mi lasci continuare, la prego. Dunque dicevo: il protagonista del film ha quarantatré anni, è un regista, ed è Federico Fellini. Anche se lei lo ha chiamato Guido Anselmi...

«Davvero non hai bisogno di nulla? Un caffè...»

Non ho bisogno di nulla. Per favore, signor Fellini: lasci stare il mio magnetofono. Se continua a toccarlo, lo rompe. Perché vuole romperlo? Tanto lo sappiamo tutti, ormai, che il suo film è autobiografico: sfacciatamente, indiscutibilmente autobiografico. Perfino il cappello di Guido Anselmi è identico al suo. Perfino il modo di buttarsi il cappotto sulle spalle, di camminare, di sorridere. Lasci stare il mio magnetofono. Perfino...

«Ma quello è un regista fallito, che sta fallendo. Oh, bimba!? Ti sembro un regista fallito, io? Guido Anselmi ha quarantatré anni come me, va bene, ma potrebbe averne quarantuno o quarantasette o trentacinque come quell’altro grande regista. “Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai in una selva oscura / ché la diritta via era smarrita”. È un uomo perduto in una boscaglia intricata e buia...... perfino nella stessa capacità di dire bugie. «Menti come respiri», gli dice sua moglie. Oddio: non che a somigliargli lei faccia una gran bella figura. Il ritrattino è spietato: «Pulcinella ipocrita e vigliacco». «Debole, abulico e mistificatore». «Presuntuoso, incerto e imbroglione». «Un tipo che non vuol bene a nessuno». E, per finire, quella ammissione terribile: «Non ho proprio nulla da dire ma lo dico lo stesso».

«E va bene. E con questo? Con questo non si può certo dire che il film sia autobiografico: in senso spicciolo. E se anche lo fosse? Non voglio fornire allo spettatore una interpretazione in chiave aneddotica, biografica. In chiave biografica il film diventerebbe solo una inutile, fastidiosa esibizione narcisistica.

Magari lo è. Una splendida, impudica chiacchierata narcisistica.

«Mi dispiace, ma non credo che sia così. È la storia di un uomo come ce ne sono tanti: la storia di un uomo giunto a un punto di ristagno, a un ingorgo totale che lo strozza. Io spero che dopo i primi cento metri lo spettatore dimentichi che Guido è un regista, cioè un tipo che fa un mestiere insolito, e riconosca in Guido le proprie paure, i propri dubbi, le proprie canagliate, viltà, ambiguità, ipocrisie: tutte cose che sono uguali in un regista come in un avvocato padre di famiglia».

Senta, signor Fellini: l’avvocato padre di famiglia potrà anche riconoscersi in Guido, però resta il fatto che Guido è Fellini. Ma via: sembra un atto testamentario, quel film, un tirare le somme. A parte il fatto che tirare le somme della propria vita a quarantatré anni mi sembra un po’ esagerato.

«Perché? Meglio tirarle presto che tirarle tardi: quando non c’è più tempo di cambiar nulla. Quarantatré anni non sono un’età precoce per tirare le somme della propria vita. Proprio per questo il film mi ha fatto un gran bene: mi sento come liberato, ora, con una gran voglia di lavorare. È un film testamentario, hai ragione, eppure non mi ha svuotato. Al contrario, mi ha arricchito: fosse per me, ricomincerei a farne un altro domattina. Davvero. E certo se mi dicono che bravo Fellini, che ingegno, mi fa un gran piacere: ma non sono i complimenti che cerco con Otto e mezzo. Vorrei... vorrei che questo senso liberatorio si trasmettesse a chi lo va a vedere, che dopo averlo visto la gente si sentisse più libera, avesse il presentimento di qualche cosa di gioioso...».

Oddio, signor Fellini: non mi venga a dire che a lei importa della gente che va a vedere il suo film. Se c’è un uomo che se ne frega del prossimo e non ha spiriti evangelici, questo è proprio lei. Lasciamo perdere, per carità, e prendiamo atto dell’importante ammissione: le somme che tira in Otto e mezzo sono quelle della sua vita e non di un personaggio fantastico.

«Uffa, che noiosina. Ma cosa vuoi che ti dica? Tante cose... si capisce... son vere. Quello che è successo nel film è successo un po’ a me... a un certo punto non sapevo più cosa fare, non mi ricordavo più niente. Lavoravo con Flajano, Pinelli, Rondi, senza convinzione. Avevo l’episodio della Saraghina, quello del cardinale, ma erano cose staccate, che nuotavano nel vuoto: e non mi ricordavo più niente, davvero. Quelli della produzione stavano lì, mi guardavano con occhi imploranti, sospettosi, e io avevo una gran voglia di dire al produttore lasciamo perdere, non facciamolo più questo film. Poi m’è sembrato che questo smarrimento fosse un invito, l’aiuto di un collaboratore invisibile che mi diceva racconta la verità, racconta questo. E così m’è venuta l’idea di fare un film su un regista che vuol fare un film e non se lo ricorda più. Sì, Guido Anselmi non fa che vivere ciò che ho vissuto in parte anch’io in questo film. E la conclusione, se conclusione si può chiamare, è questa: non bisogna accanirsi nel capire ma tentar di sentire, con abbandono. Bisogna accettare se stessi: io sono questo e sono contento di essere questo. Voglio smetterla di costruire miti sopra di me, voglio vedermi come sono: bugiardo, incoerente, ipocrita, vile... Voglio piantarla di problematizzare la vita, voglio mettermi in condizioni di amarla, di saper amare tutto. Parlo sempre di Guido, s’intende... E insomma lo dice anche sant’Agostino: “Ama e fai quello che vuoi”. Be’, non dice proprio così ma quasi...»

Per uno che non ha letto nulla, mica male la citazione di sant’Agostino.

«È che ogni tanto mi capita di entrare in libreria, di aprire un libro e di buttare gli occhi sopra una pagina che dice una cosa così. Poi, magari quella cosa così non la capisco neanche, subito...»

Bugiardo. Mi dica piuttosto come mai non ha più scelto Laurence Olivier per il ruolo di Federico, pardon, di Guido. Sarebbe stato perfetto.

«Laurence Olivier... Un inglese, un baronetto, un grandissimo attore. Come si fa? Ti intimidisce. Io avevo bisogno di un italiano, di un amico che accettasse con umiltà di essere come un’ombra rispettosa, che non venisse fuori in modo eccessivo. Così ho preso Mastroianni, lo conoscevo già, ed è stato bravissimo: così allusivo, discreto, simpatico, antipatico, tenero, prepotente. C’è e non c’è. Perfetto».

Già, lei si affeziona agli attori che adopra. E Giulietta? L’ha persa per la strada, Giulietta?

«Ho un paio di film in testa: che derivano da Otto e mezzo come la pera dal pero. Nel prossimo c’è anche Giulietta. Giulietta per me è un personaggio evocatore di un mondo che non si è scolorito o intiepidito: riprenderò quel personaggio con nuova voglia, nuova fantasia. Girerò questi due film in Italia... In America continuano a rivolgermi inviti, a offrirmi somme da capogiro, ma perché dovrei andare fuori?

Non ho bisogno di stimoli esteriori: il mio paese, le mie campagne, la gente che conosco è ancora sufficiente a stimolarmi, che ci vo a fare a New York o a Bangkok. Sono un pessimo viaggiatore, quando viaggio tutto diventa un caleidoscopio di colori e di suoni, non capisco nulla, torno sempre con un dettaglio inutile o straziante. E poi come ci si può abbandonare a un viaggio se devi dare notizie a chi è rimasto, e infine devi tornare indietro? Forse mi piacerebbe andare in Egitto, in India: ma ci penso stando seduto. Il mio posto è in questa Italia cattolica».

Sì, in fondo lei è un inguaribile cattolico: o, almeno, assai più legato al cattolicesimo di quanto si creda. Lo si capisce bene anche da questo film su cui le autorità ecclesiastiche non han trovato a ridire.

«Ma tu conosci qualche italiano che sia completamente laico?! Io no. Ma come è possibile? Ce l’abbiamo nel sangue, il cattolicesimo, da secoli. Quanti? Il tentativo di liberarsene è un tentativo necessario, nobilissimo, che tutti dobbiamo fare: ma dimostra che l’ammaccatura esiste, evidente. Se non esistesse l’oggetto della rivolta, perché dovremmo ribellarci? Guido è una vittima di un cattolicesimo medievale che tende a umiliare l’uomo anziché restituirlo alla sua grandezza divina, alla sua dignità: quel cattolicesimo che ha riempito manicomi e ospedali e cimiteri di suicidi, che ha mostruosamente partorito una umanità infelice, separato lo spirito dal corpo che invece sono una cosa sola. Insomma quel cattolicesimo degenerato che questo Papa combatte in maniera così eroica e stupenda. Ti è piaciuto l’episodio del bambino e di Saraghina?».

È indiscutibilmente il più bello del film. La punizione del bambino, soprattutto. Quei preti gelidi, senza pietà. M’è sembrato di rivedere certi disegni del Goya: l’Inquisizione, la strega martoriata... Tanto più patetico in quanto la strega, qui, era un bambino. Era lei quel bambino?

«In un collegio a quel modo non ci sono mai stato, un’estate però sono stato in un convento di salesiani ed era press’a poco così. Sai, questa educazione basata sulla mortificazione del corpo, le bacchettate sui geloni, che male, l’esser costretto a inginocchiarsi sul granoturco, che male, e quel sentirsi continuamente giudicati da Dio... Tu credi d’essere solo, ti ripetono, ma Dio ti vede, ti vede sempre. Sai, queste in un bambino sono vere ferite e se ne guarisce a fatica. No, non riesco a scindere dalla mia vita il ricordo delle chiese, delle monache, dei preti, le voci dal pulpito, le voci dal confessionale, i funerali... Ma quale italiano può fare a meno di questo paesaggio, di questa coreografia?»

Eppure, malgrado questa educazione spietata, terrorizzante, lei riesce ancora a pregare. Vero?

«Certamente. Ché tu non preghi? La preghiera è un colloquio con se stessi, con la tua parte più segreta, più genuina, più misteriosa, e quando ti rivolgi a quella c’è sempre il caso che venga fuori qualcosa di buono perché chiedi aiuto a ciò che v’è di più prezioso in te, di più vergine... Oddio, piantiamola: dette così certe cose diventano ridicole. Io volevo dire soltanto che non capisco come una non possa pregare, non essere affascinata dal mistero, è così stupido chiudere gli occhi al mistero, così disumano, un atteggiamento da bestie. Il mistero di tutto... il silenzio che ti circonda e diventa chiarore... Oria’! Ma che mi fai dire?!»

Io nulla: è lei che parla. E sa chi mi ricorda quando parla così? Ingmar Bergman. Straordinario quanto vi sia in comune tra lei e Bergman: lei così romagnolo, Bergman così nordico, lei così sanguigno, Bergman così ascetico. A parte i vostri film, che mi sembra abbiano molti punti in contatto, anche lui non riesce a far niente fuori del proprio paese, anche lui è un peccatore ossessionato dal peccato...

«Bergman, sì: di lui ho visto anche un film, Il volto. Mi è piaciuto moltissimo. Bergman è il più grande autore cinematografico che esista oggi».

Dopo Fellini? Prima di Fellini? O contemporaneamente a Fellini?

«Mascalzona, che ne so? Come faccio a dirlo? Per me è un fratello. Egli è ciò che deve essere un uomo che parla agli altri: la tonaca del profeta, e in testa il cilindro coi lustrini del pagliaccio. Ecco: Bergman ha tutti e due: la tonaca e i lustrini».

E Federico Fellini?

«Mah! Forse io ho meno tonaca e più lustrini».

Interessante: quando intervistai Bergman, anche lui mi parlò a lungo di lei. Voleva sapere un mucchio di cose: come viveva e come parlava...

«E tu, le solite balle: chissà che gli hai detto. Le mie bugie mischiate alle tue... Oddio! Mi piacerebbe conoscerlo, Bergman. Fino ad oggi ci siamo scritti soltanto. C’è un produttore simpatico e irresponsabile che voleva fare un film a episodi con me, Bergman e Kurosawa: quello straordinario regista di I sette samurai. Mi pregò di scrivere a Bergman al quale del resto avevo sempre mandato saluti attraverso giornalisti svedesi. Così gli scrissi caro Bergman, ti ammiro tanto e ti voglio bene come ad un fratellino, c’è questo produttore che vuol fare questa cosa, secondo me è un progetto un po’ avventato ma proprio perché pazzo vale la pena di tentare. Bergman mi rispose una bellissima lettera dove diceva che avrebbe fatto questa cosa con gioia e infatti non s’è fatto ancora nulla».

Un’altra caratteristica di Bergman è che se ne frega completamente di ciò che scrivono i critici su di lui: ma in questo non vi assomigliate. So che lei ci bada parecchio a certe critiche con le parole difficili che finiscono in ismi, asmi, e parlano di dialettica, etica, estetica... Qualcosa del genere: legga un po’  questo articolo.

«Ma che dice questo qui? Ma che vuole? Non ha mai capito i miei film nonostante gli piacciano: ne sono sicuro. E a dirtela chiara mi dispiace che gli piacciano. Io ho un vocabolario scarso, dinanzi a queste parole resto sconfortato. Del resto il cinema, tranne cinque o sei confortanti eccezioni, ha la critica che si merita: è un’arte giovane, sgangherata. Tutti fanno la critica in senso libresco, mai umanisticamente, ma che me ne importa? Io non sono uno di quelli che corrono all’edicola per sapere cosa ha scritto il critico Tale; a proposito, cosa ha scritto Marotta di Otto e mezzo? Io leggo volentieri quelli che parlano bene di me. So bene che anche la critica negativa può essere costruttiva, ma la sola che capisco è quella materna, fatta di bacetti, di carezze, di paroline lusinghiere...»

Infatti, nel film, quel rompiscatole che non le dà i bacetti finisce impiccato. Quante volte ha sognato di impiccare chi non le dice che è bravo, signor Fellini?

«Tante volte. La critica espressa così è per me pericolosissima perché uccide la spontaneità».

Io mi chiedo cosa avrebbe potuto fare lei se il cinema non fosse esistito, insomma se fosse nato quando il cinema non esisteva. Il confine tra fantasia e realtà è così labile in lei...

«Cosa avrei potuto fare? Non lo so davvero. Scrivere, no. Scrivere è una disciplina ascetica, lo scrittore deve essere circondato di solitudine, di silenzio: a ciò non potrei abituarmi. Di sicuro mi sarei dedicato a qualcosa che avesse avuto a che fare con lo spettacolo o avrei tentato di inventare il cinematografo. Il cinema mi piace perché col cinema ti esprimi mentre vivi, racconti il viaggio mentre lo fai. Sono fortunatissimo, anche in questo: sono stato portato per mano a scegliere un mestiere che è l’unico mestiere per me, l’unico che mi permetta di realizzarmi nella forma più gioiosa, più immediata...»

Certo non lo vedo un Fellini nascosto, pensatore solitario. Noi dei giornali abbiamo inventato la divinizzazione dei registi: ma a pochi tale divinizzazione si addice quanto a lei. Lei ha sempre bisogno di un palcoscenico che la illumini, di un’orchestra che le suoni una marcetta.

«Può anche darsi che esista questa componente di vanità: d’altra parte lo spettacolo si fa coi riflettori accesi. Però ti dirò che sono assai timido. Sì, lo sono anche se non ci credi e sghignazzi, proprio timido. E ne sono contento perché non credo che possa esistere un artista senza la timidezza, la timidezza è una sorgente di ricchezza straordinaria: un artista è fatto di complessi».

 E quell’altra ricchezza? Quella terrestre, volgare, fatta di un delizioso conto in banca? Lei è ricco, ormai.

«No, e poi no, e poi un’altra volta no. Tesorino mio, ma quante volte devo ripeterti che il produttore della Dolce vita non sono io? Sai, a me importa poco dei soldi. Mi servono, ecco tutto. Che me ne faccio di una villa con la piscina? L’importante è non aver debiti».

Senta, signor Fellini: il cardinale del film dice una agghiacciante realtà. «Nessuno viene al mondo per essere felice». Lei è felice? È almeno soddisfatto?

«Felice? Mah!... Sì... Sto volentieri al mondo, sto volentieri con gli altri. Mi interessa quel che mi succede, lavoro volentieri: tanto più che il mio non mi sembra neanche un lavoro. Soddisfatto... Mah! Spero di non essere mai completamente soddisfatto: perché allora sarebbe la fine. M’è andata benissimo, certo. Ma è andata come doveva andare».

Vuol dire che le sembra giusto avere avuto il successo che ha avuto? Vuol dire che non ha alcun dubbio sulla legittimità di questo successo? Vuol dire che non giudica con nessuna modestia il fatto d’essere esaltato come «il fenomeno cinematografico più importante del nostro tempo»? Che insomma trova sacrosanto il trionfo della Dolce vita, questa venerazione da Greta Garbo che la circonda, il particolare che basti un annuncio sul giornale perché orde di pazzi le vengano a offrire pei suoi film nonne moribonde, zie paralitiche, mogli virtuose?

«Come faccio io a dire fino a che punto questo è giusto o ingiusto? I dubbi ce li ho durante il lavoro e sono i dubbi di uno che crea, che inventa. Dopo, quando il film è finito, non riesco ad oggettivarmi, a tenere un atteggiamento distaccato. Sarebbe come se tu mi invitassi a parlare della mia vita, di un amore, di una avventura, di un viaggio. Come la giudico? Mah! Non giudico, dico che mi era necessario. Tutto ciò che ci è capitato di bene e di male era necessario. La dolce vita è un film che ho fatto tanti anni fa: mi è stato più faticoso liberarmene perché era una specie di mostro, che continuava a crescere. Se il suo successo è giustificato non lo so: evidentemente il film aveva una carica che giustificava tale emozione. Quanto alle nonne moribonde, alle zie paralitiche che mi offrono pei film... Io sono un romantico: mi piace vedere la vita sempre in chiave di fantasia. Potrei dunque dire che il cinema è una sirena dalla seduzione infinita e per questo gli regalano le nonne moribonde. Invece mi piace pensare che la gente me le porta per aiutarmi a fare un film. Toh! Piglia».

Che sublime diplomatico. Che celestiale mistificatore. Questa non è risposta. Recentemente, se ben ricordo, noi due abbiamo avuto un violento scontro telefonico: in seguito al quale le risponderò sempre col lei. E in quell’occasione sì che mi ha dato una risposta. Io le ho ricordato che i giornalisti l’hanno sempre trattata con stima ed affetto e lei ha replicato che i giornalisti l’avevano sempre trattata come si merita perché lei è Federico Fellini ed un grande artista.

«Disgraziata. Screanzata. Ballista. Maleducata».

Maestro, queste parolacce bisognerà toglierle dai testi scolastici quando i bambini delle elementari studieranno la vita di Giuseppe Verdi. Pardon, di Federico Fellini.

Geniale, "finto", nostalgico. Fellini, l'italiano perfetto. Un dizionario racconta il grande regista. La cui vita e film svelano il meglio e il peggio del nostro carattere. Luigi Mascheroni, Martedì 21/01/2020, su Il Giornale. Cento anni di Federico Fellini - a proposito, «Auguri» - e cento possibili modi di raccontarli. Saggi, nuove biografie e vecchie interviste, mostre, cataloghi, convegni, rassegne cinematografiche, francobolli (ieri il ministero dello Sviluppo Economico ne ha emesso uno appartenente alla serie «Le Eccellenze italiane dello spettacolo», valore 1,10 euro), speciali televisivi...E ricordi, quanti ricordi. Amarcord. Ognuno ha il suo. Chi conobbe bene il Maestro, chi lo incontrò appena, chi ci lavorò, chi ci litigò. Fellini visse 73 anni (1920-93), ne avrebbe compiuti cento ieri, ma l'immaginario che ha creato, diventato parte della nostra quotidianità, non ha tempo. È strano. La sua opera non è così vista ormai: Amarcord - per esempio - non si vede in prime time dal 2001. Eppure Fellini è uno degli autori italiani in assoluto più amati e famosi all'estero. La dolce vita non è solo un film: è il cinema italiano nel mondo. Di più: è il modo italiano di vivere, per il mondo. E «Paparazzo» non è soltanto uno dei suoi neologismi più fortunati, ma il nome di centinaia di negozi, ristoranti e attività varie, ovunque. «Marcello, come here!». L'Italia di Fellini è un marchio turistico - «Stranieri, venite qui!» - e Fellini è l'italiano perfetto. Tutta l'italianità, nel bene e nel male, sta dentro Fellini e il suo cinema. Così come Fellini e il suo cinema hanno dentro di sé i vizi e il genio del carattere italiano. Per l'anniversario felliniano sono usciti e continueranno ad arrivare molti libri. Ma, in qualche modo, nell'«alfabeto» compilato dal critico cinematografico Oscar Iarussi dal titolo Amarcord Fellini (il Mulino), fra curiosità, aneddoti e riflessioni che incrociano arte e vita, c'è tutto: dalla «A» di Amarcord, appunto, alla «Z» di Zampanò, passando per la «B» di Borgo (cioè Rimini, cioè la spiaggia degli stranieri d'Italia), la «C» di Clown (il senso italiano per la comicità...), la «D» di Dolce vita, la «E» di Ekberg (Anita, la straniera più italiana di tutte), la «F» di Flaiano (il più grande antitaliano d'Italia)... e c'è soprattutto l'idea (ma non è detto che l'autore del dizionarietto federiciano sia d'accordo: è una lettura nostra) che Fellini sia persino più che un «antropologo del '900», «un testimone sul campo delle metamorfosi sociali» del Paese. Ma che lui stesso - il suo corpus e il suo spirito - sia addirittura l'autobiografia di un popolo. Il nostro. Ecco perché F.F., Federico Fellini (i francesi hanno B.B.), piace tanto agli stranieri e inquieta molto gli italiani, ai quali guardare i suoi film fa l'impressione di rivedersi su un grande specchio. Fellini è pigro e sognatore, mammone e puttaniere, fedifrago e attaccatissimo alla famiglia. Visionario inguaribile e feroce realista, provinciale e hollywoodiano. E poi moderatamente cinico, disincantato, nostalgico, anche se non sa neppure lui bene di cosa...Fellini è il prototipo dell'italiano sempre circondato da tanta, troppa gente: da compagni di giovinezza e di avventure, Vitelloni e colleghi, fan, adulatori, falsi amici - e ancora: vagabondi, saltimbanchi, matti e lunatici - tutte persone divertentissime, ma che ti fanno sentire perso in una solitudine indefinibile. Ecco, forse, perché adoriamo feste, marcette, circhi, trenini e girotondi. Cose bellissime e tristi. Le sue donne - senza le quali il «Pianeta Fellinia», per usare una definizione di Gian Piero Brunetta, perderebbe una «fonte energetica» fondamentale - sono le nostre donne, burrose (come Gradisca, il cui ruolo in un primo momento doveva essere di Edwige Fenech, poi Fellini ci ripensò: «Scusami, mai sei troppo magra, ti dispiace se dò la parte a un'altra?», le chiese), donne materne e generose, donne da amare e dalle quali fuggire, da inseguire e da temere. Il suo borgo - Rimini, el bôrg, che doveva essere il titolo di Amarcord, poi cambiato - è uno dei mille campanili d'Italia, la provincia da cui scappi per poi tornarci, anche solo con il ricordo. E se pure il regista fu di casa a Hollywood, vincendo cinque Oscar, «la sua vena aurea non potrebbe essere più italiana e provinciale, più estranea al cuore dell'Impero», come ammette anche Iarussi. E del resto quando Vittorio De Sica vide La dolce vita, sbottò: «È una cafonata, il sogno di un provinciale». Fellini è come Marcello, il suo Marcellino, e viceversa. Cioè come tutti noi vorremmo sentirci, e un po' ci illudiamo di essere, da italiani: scanzonati, scettici, autoironici, seduttori (Il Casanova di Federico Fellini, 1976), ma alla fine così pigri, rinunciatari, in balia del colpo di genio, che vaghiamo tra feste immobili e decadenti. È la grande bellezza del suo cinema. Fellini è così autentico, come l'Italia e gli italiani, perché l'arte è sempre più vera della realtà. Artifici, prospettive, barocchismi, sogni, illusioni e inganni: con questa roba ci abbiamo a che fare da secoli... Nei film di Fellini la quasi totalità delle scene di mare e della riviera adriatica è girata sul Tirreno o a Cinecittà. L'unica cosa vera del «Rex» è il fumo dei fumaioli. E la strada più famosa del cinema italiano, via Veneto, fu ricostruita in studio. Come sanno illuderti e illudersi gli italiani, nessuno. «Non è necessario che le cose mostrate siano autentiche. In genere è meglio che non lo siano. Ciò ce dev'essere autentico è l'emozione nel vedere e nell'esprimere» amava dire il «dottor» Fellini, che non prese mai la laurea. Fellini e il suo cinema, a partire dagli anni Cinquanta, accompagnano il passaggio - scandito dalle musiche di Nino Rota - dell'Italia povera e contadina, cattolica e comunista, all'Italia modana e del boom, laica e benestante. Dall'Italietta fascista al fascino del cinema. Dux et Rex. E anche in questo Fellini è l'italiano perfetto: da ragazzo pubblica un po' di cose su un settimanale fascista di Firenze e disegna vignette satiriche per il Marc'Aurelio, poi però riesce a scampare la tragedia della guerra, un po' per questioni di studio un po' di salute, e alla fine le delusioni del Ventennio, complice la magia del cinema, diventano speranze antifasciste. Anche se tutto sommato a Fellini - come agli italiani - la politica non interessa così tanto. L'importante è lo spettacolo, che da noi di solito coincide con la vita stessa. Naturalmente restandone sempre «più grande».

Gianmaria Tammaro per lastampa.it il 30 agosto 2020. Federico Fellini, dice Milo Manara, era un uomo estremamente libero, e viveva la sua libertà nel cinema, nelle cose che faceva, nel mondo che ogni volta costruiva e decostruiva, metteva insieme, demoliva, provava a rievocare. Il cinema di Fellini era sempre sospeso, sempre a metà: tutti i suoi film parlavano di viaggi (fisici, interiori, mentali) e di sogno. Perché «non c’è niente di più sincero di un sogno», spiegava. In “Fellini degli spiriti” di Anselma Dell’Olio, al cinema con Nexo Digital il 31 agosto, l’1 e il 2 settembre, quello che viene raccontato non è solo il regista o il poeta o il visionario; è soprattutto l’uomo con la sua fede e le sue convinzioni, con la sua visione unica, immensa, del mondo. È un mosaico di interviste e di confessioni. Stupendo, enorme, travolgente. Fatto di voci che sfumano, di particolarità, di aneddoti, di un’onestà che sa di amicizia. La cosa più vera la dice Vincenzo Mollica all’inizio. «Era un grande seguace della casualità». E la casualità sorprendeva Fellini, sottolinea il giornalista; proprio come voleva farsi sorprendere dalla vita. Spiriti e spiritualità, psicologia e fede, uomini e donne: sono tutte facce di una medaglia multiforme, infinita, piena di spicchi e di angolature, piena di significati e di essenze, e soprattutto piena di Fellini, di ciò che amava, di ciò che lo incuriosiva, di quello che voleva mettere in scena e offrire al suo pubblico. Era il primo di molti: il primo a farsi certe domande, il primo a provare a rispondere, il primo a dubitare. Un profeta, per qualcuno. Un mago, per qualcun altro. Come dice Nicola Piovani: non è di socialismo o di lotte politiche che parlava. Nei suoi film, c’è una fitta rete di simboli e di riferimenti, di Madonne candide ed innocenti, di estrema umanità e di una bellezza – per quanto assurdo possa suonare – bruttissima. Fellini vedeva, immaginava e sognava. E poi raccoglieva tutte queste cose – le strade e le persone delle sue passeggiate senza meta, le intuizioni ad occhi aperti, l’altro mondo in cui viveva quando dormiva – nelle sue opere, nella sua poetica, nella sua filosofia. Era un seguace di Jung, dell’interpretazione del subconscio, delle cose che non succedono ma che si sentono (o forse, proprio perché si sentono, succedono?). «Un uomo», diceva Fellini, «quando parla di una donna non fa altro che parlare della sua parte più oscura». E quindi non fa altro che parlare di sé stesso, di quello che non si vede, che non si conosce, che non si può toccare con mano. Fellini immortalava le cose nella loro doppia esistenza: quella di ogni giorno, dell’uso quotidiano, e quella ultraterrena, sospesa, incapsulata anch’essa nel concetto di viaggio. Gli piacevano le stazioni dei treni e gli aeroporti. Gli piaceva meno doverli prendere gli aerei e sospendersi sulle teste degli altri. Era radicato nella sua realtà, nella sua Italia, nel suo mondo, e diceva: ogni volta che parto, non imparo niente di nuovo; vengo travolto da cose molto spesso inutili, che so già, vengo schiacciato dalla confusione, e non faccio nessuna scoperta. Con il suo documentario (prodotto da Mad Entertainment con Rai Cinema, in collaborazione con Walking the dog, Arte e Rai Com), Dell’Olio riesce nella missione difficile, ma non impossibile, di mostrare aspetti inediti di uno dei registi più amati e più celebrati, e in un certo senso, con la sua eredità, con le interpretazioni che vengono costantemente date delle sue opere, delle sue scelte, del suo sguardo, più discussi di sempre. Quando si parla di Fellini, si parla dei suoi film, degli alter-ego che vivevano nei suoi attori, di Mastroianni, delle donne; si parla del successo (e poco del successo contestato, urlato, preso d’assalto dalla Chiesa e dall’opinione pubblica, a cui, invece, la Dell’Olio concede grande spazio), e del talento. Resta comunque un angolo nascosto, oscuro, lontano dalle luci e dai racconti, che in “Fellini degli spiriti” viene magnificamente fotografato. Il documentario stesso, con la sua struttura fatta di scatole cinesi, di argomenti che si uniscono ad argomenti, di concretezza che sconfina sempre di più nell’immateriale e nello spirituale, è un viaggio. Partiamo subito, al primo minuto, con i titoli di testa animati; e non sappiamo dove ci stiamo dirigendo. È un viaggio bellissimo, ricco di testimonianze e di piccoli dettagli (e Fellini, come dimostrano i video d’epoca, era attentissimo ai dettagli: contava i respiri, i gesti, misurava i movimenti dei suoi attori, li riprendeva come un maestro di scuola se non erano come li aveva immaginati). Anche se incastonato in una cornice precisa ed elegante, in “Fellini degli spiriti” resiste una dimensione intima, di memorie e sincerità, in cui Fellini non è quasi mai il grande maestro – spesso grande poeta, spesso geniale indovino – ma sempre l’uomo, sempre il curioso, quello delle sedute spiritiche, dell’oroscopo («ho preso tutti i difetti del Capricorno e dell’Acquario»), l’amico che ti costringeva a gare assurde; che ti trascinava in giro per Roma e che poi ti chiedeva di fermarti davanti a San Pietro, davanti all’abbraccio del colonnato e di ascoltare; quello che vedeva e sentiva mille presenze nei vicoli più bui, che nell’umanità verace cercava le risposte alle domande più alte. Nell’esistenza Fellini voleva sapere della non-esistenza, e i suoi film, così straordinari, così potenti, facevano da testa di ponte, un po’ qua e un po’ là, un po’ radicati nel vivo, nel concreto, nel mondano, e un po’ rivolti agli spiriti, alle sfumature, alle sensazioni, ai dubbi. Fellini sapeva e non sapeva, vedeva e non vedeva; e come un pittore – lui che aveva iniziato come vignettista al Marc’Aurelio – dipingeva, colorava e disegnava ciò che sentiva, ciò che voleva, ciò che, specialmente, cercava. Il cinema era il suo viaggio, il suo percorso, non la sua meta; e nel cinema, come dice Manara, riversava tutta la sua libertà. “Fellini degli spiriti” apre uno scorcio nella fitta coltre di celebrazioni e di frasi tutte uguali, di ritornelli critici e servili, e porta la luce dove, per tanto tempo, c’è stata solo l’ombra: su Federico e non solo, e semplicemente, su Fellini.

Ilaria Ravarino per “il Messaggero” il 4 settembre 2020. «Sono pentita. Forse non dovevo scriverlo». Si rigira il suo libro tra le mani, Marina Ceratto Boratto, con lo sguardo fisso all' uomo in copertina: Federico Fellini, il genio e l' amico, come recita il sottotitolo del volume pubblicato a maggio e su cui, adesso, ha qualche dubbio. Per tutti il Maestro, per i collaboratori il Faro, per Marina che lo conobbe a 16 anni grazie alla madre, la bellissima Caterina Boratto, la Signora Misteriosa di 8 e mezzo Fellini fu qualcosa di più. Un padre, una guida. Un sensitivo. «Federico era un mago bianco», dice Boratto inseguendo l' ombra di un ricordo nella sua bella casa ai Parioli, a Roma, lei che di Fellini fu la cartomante (questo il titolo del volume: La cartomante di Fellini). Fellini «vedeva oltre le persone», Giulietta Masina no. Fellini amava le donne, Giulietta solo lui. Fellini, scrive Boratto, la tradiva. Giulietta soffriva. Beveva. Lo insultava. Nell' anno del centenario della sua nascita, è un' immagine di rottura quella che di Fellini emerge dalle 470 pagine del libro di Boratto, per anni alla corte di un genio che lei stessa descrive satiro e dominatore, tormentato dai fantasmi e narciso. Sperimentatore di Lsd. Pessimo cuoco. Superstizioso. Ma affascinante «come un dio».

Perché è pentita?

«Per quello che ho scritto su Giulietta. Spero che si capisca che il rapporto tra loro, anche se travagliato, aveva qualcosa di sacro e misterioso. Quando facevo le carte a Federico mi chiedeva sempre di fare un giro anche per lei. Era preoccupato che non la facessero lavorare, ne era ossessionato. Per lui era come una madre e una figlia. Invece era la moglie».

La tradiva?

«Voleva essere libero di vivere le esperienze erotiche di un adolescente in ritardo anagrafico. Giulietta era mortificata e ferita dalle bugie che le raccontava, ma sapeva che non l' avrebbe mai lasciata. Fellini poteva essere molto crudele. Con le donne era disinibito: le pacche sul sedere erano una consuetudine tollerata».

Ha conosciuto le sue donne?

«Si era innamorato della Cardinale, aveva un' ossessione per la sua segretaria di edizione, la Viperetta. Sandrocchia, Sandra Milo, per lui era una donna-totem. Masina fu gelosa di Francesca Dellera e di Anna Magnani. E poi c' era Anna Giovannini, la farmacista, detta la Paciocca. Un giorno entrai nel suo negozio e lo sorpresi con lei. Lui mi disse: hai visto che hai dei poteri magici? E mi volle come cartomante. Anna era diversa da Giulietta: in casa sua non trovavi nemmeno un cespo di insalata, doveva cucinare tutto lui. Faceva delle frittate inimmaginabili, indigeribili. Invece, quando con mamma andavamo a trovare i Fellini a Fregene, Giulietta viveva in cucina».

Le piaceva?

«Sì. Una volta successe un casino con Tognazzi. Ugo, che era una persona molto positiva, decise di mettersi a cucinare a casa loro. Giulietta odiava le intromissioni. Ma lui iniziò a spadellare, usando tonnellate di panna. Osò mettere in discussione la pasta e fagioli di Giulietta. Pensava di creare atmosfera, finì che i coniugi Fellini lo piantarono in asso lasciando Fregene».

Lo facevano spesso?

«Fellini dava delle buche clamorose. Alle cene arrivava sempre in ritardo. A volte si negava al telefono: lo chiamavi e faceva la voce della governante. Oppure imitava Giulietta e diceva che non era in casa. Altre volte era adorabile, nemmeno aprivi bocca e già indovinava che giornata avevi avuto. Era sensitivo».

Com' era il suo quadro astrale?

«Capricorno in Saturno. Molto malinconico, ma dotato di una personalità fortissima».

Lo ha mai visto arrabbiato?

«Una volta su un set chiese una spada e gli portarono una scimitarra. Si arrabbiò parecchio».

Ha mai mentito facendogli le carte?

«Non potevo. Anche lui le sapeva leggere. Gli dissi che non sarebbe mai riuscito a girare Il viaggio di Mastorna. Il problema con le carte è che non è detto che gli altri ti credano. Feci i tarocchi anche a Pasolini: gli dissi che vedevo una grande minaccia per lui nascosta nella notte».

Perché Fellini era attratto dall' occulto?

«Era superstizioso. Quando poteva passava sempre in via Lutezia, la strada in cui aveva incontrato Giulietta. Pensava gli portasse fortuna. Quando ha cambiato l' ufficio a Roma, ha fatto fare il giro delle sette chiese ai furgoni con tutti i mobili. Per Giulietta degli spiriti girò l' Italia, conoscendo maghi, medium e sensitivi. Quando nel 1963 provò l' Lsd, sotto la guida di uno psicoterapeuta, disse di aver parlato per delle ore con gli spiriti. Ma non ricordava nulla».

Con i soldi che rapporto aveva?

«Era generosissimo, Giulietta più concreta. Gli dava una paghetta giornaliera che lui disperdeva quasi immediatamente».

Ma Giulietta lo tradiva?

«Aveva questo amico, Salvato Cappelli, che era più presente di Federico. Fellini si rilassava con i massaggi e la sauna, Salvato faceva le flessioni in giardino nella loro villa a Fregene. Ma non credo ci sia mai stato molto fra loro».

E lei con Fellini è mai stata?

«No. Diffidavo profondamente. Ero tra rapimento, estasi e blocco. C' erano 27 anni fra noi: poteva essere mio padre. Mi corteggiò Alberto Sordi, un altro gigante. Mi fece un po' di corte, mandandomi a casa scatole di cioccolatini, sempre più piccole man mano che lo respingevo. Era un po' come nei suoi film».

Fellini aveva amici?

«Mastroianni. Fu lui a ricomporre l' incidente diplomatico tra Giulietta e Ugo. Lo dipingono tutti come un dandy, ma veniva da una fame nerissima, un' infanzia terribile. Per questo il lavoro è diventato centrale nella sua vita. Per Federico era indispensabile. Anche a livello emotivo. Si completavano l' un l' altro. La mamma di Marcello veniva spesso sul set».

Era così terribile, Fellini?

«Era una persona straordinaria, ma spiazzante. Quanto lo sentivi vicino, era invece lontanissimo. Quando lo pensavi lontano ti chiamava. Dovevi abituarti ai suoi cambiamenti, velocissimi. Poteva stare un mese senza telefonarti, e poi imputava a te il fatto. È difficile accettare che sia stato, anche e soprattutto, un uomo».

Ha secondo lei un erede?

«No. Ci sono dei registi bravissimi come Paolo Sorrentino, che ha subito molto l' influenza di Federico. Ma lui è Paolo Sorrentino. Federico era un mare, un lago, un tramonto. Era tutto».

Cinzia Romani per "Il Giornale" il 21 agosto 2020. Non cominciava un film se, prima, non aveva consultato la cartomante di fiducia. Si sa che la gente di cinema è superstiziosa, ai limiti del grottesco, ma Federico Fellini, il Mago di Rimini del quale ricorre il centenario della nascita, faceva sul serio. Egli aveva, cioè, un severo approccio olistico a quanto non è dato vedere e studiava con scrupolo ogni enigma, o qualsiasi avventura senza soluzione: i suo film, zeppi di figure femminili inspiegabili, lo dimostrano. E procedeva da visionario illuminato attraverso la propria esistenza, perché la magia, i poteri paranormali e le atmosfere soprannaturali lo avevano sempre attratto. Fino al punto di affrontare un viaggio, lui pantofolaio e pigrotto, in California e in Messico, alla ricerca del romanziere-guru Carlos Castaneda, che l'aveva affascinato con i suoi racconti. Peccato che l'uso delle droghe avesse messo fuori gioco l'autore di A scuola dello stregone, ma per Fellini la vita avrebbe avuto sempre il colore del sogno. A disvelare tale lato oscuro del regista riminese arriva adesso un bel film documentario di Anselma Dell'Olio, intitolato Fellini degli spiriti, che il 23 agosto verrà presentato, in anteprima internazionale, al XXXIV Festival del Cinema Ritrovato, a Bologna. «Se pensate che tutto sia stato detto sul grande riminese di Roma, dovete vedere Fellini degli spiriti, perché vi farà scoprire un Fellini nuovo, intimo e più vicino ad ognuno di noi», dice Gian Luca Farinelli della Cineteca di Bologna. Tra l'altro, il docufilm uscirà nelle sale, con Nexo Digital, il 31 agosto e l'1 e il 2 settembre. Attraverso straordinari materiali d'archivio di Rai Teche e Istituto Luce, tra immagini dei film felliniani e interviste esclusive, il docufilm racconta la profondità della passione di F.F. per quello che egli definiva «il mondo non visto». E indagando altre dimensioni e altri viaggi dello spirito, Anselma Dell'Olio illumina esperimenti e Tarocchi, il gusto per la pratica I Ching e l'incontro con il grande veggente Gustavo Rol, conosciuto durante le riprese di Giulietta degli spiriti, i segreti dell'inconscio, inizialmente indagati con lo psicanalista junghiano Ernst Bernhard e le più intime cose di un artista non dimenticabile. Selezionato dal Festival di Cannes «Cannes Classics Sélection officielle 2020» e prodotto da Mad Entertainment, con Rai Cinema, Walking the Dog, Arte e Rai Com, questo ritratto di Fellini aggiunge un elemento importante alla conoscenza di un autore che il mondo ci invidia. Così William Friedkin, intervistato dalla Dell'Olio, si sofferma a lungo sull'attrazione per le leggi dell'aura e sulla tecnica per guardare dentro alle persone che il cineasta americano avrebbe appreso dallo studio dei film di Fellini. Confermando la tesi di un altro grande genio visionario, Edgar Allan Poe, secondo il quale quanto più l'assunto di una storia è pazzesco, tanto più bisogna saperla raccontare in modo che i dettagli risultino credibili e convincenti. Anche Nicola Piovani, che ha scritto le musiche di diversi film felliniani, è convinto che Fellini fosse un mago, o un profeta. Mentre sorprende venire a sapere che il compositore Nino Rota, storico collaboratore del Mago di Rimini, fosse uno dei più importanti collezionisti italiani di libri esoterici. Ne La voce della luna c'è una scena ispirata a una teoria del musicista, il quale sosteneva che determinate sequenze di note operano miracoli sulla materia. Certo, la Roma dei Sessanta del secolo scorso pullulava di spunti misteriosi, colti al balzo da Fellini che spesso infilava pretini levitanti e suorine nei suoi film, quasi a ribadire un afflato più alto. Tanto Giulietta Masina, amatissima moglie di F.F., era solidamente ancorata alla concretezza della vita quotidiana, quanto il regista aspirava a scoprire il mondo dell'invisibile. Infilandosi nei retrobottega dei ciarlatani e frequentando Gustavo Rol, il medium che lo iniziò all'evocazione degli spiriti, dopo che lo scrittore Dino Buzzati glielo aveva fatto conoscere. E furono quadri che si dipingevano da soli, mani che trapassavano le porte come fossero burro, tavoli che sparivano fino a diventare gelatinosi, materializzazioni di persone scomparse. A Rol Fellini chiedeva sempre «la formula», finché Rol gli disse: «È semplicissimo: il colore verde, la quinta musicale e il calore».

Alessandra Levantesi per “la Stampa” il 21 luglio 2020. Sebbene il titolo in terza persona possa sviare, La cartomante di Fellini è la stessa Marina Ceratto Boratto, autrice di un libro tanto affascinante quanto impossibile da definire. Un ritratto ravvicinato del maestro riminese? Un'autobiografia celata fra le righe di un'altrui biografia? Un flusso di coscienza? Lo spaccato di un momento magico del cinema italiano? Una confessione, una sorta di terapia junghiana? Fluviale e appassionato, La cartomante di Fellini (Baldini+Castoldi) è tutte queste cose. E pur procedendo nel tempo e nello spazio per scarti, ricordi, assonanze, parentesi, è ondivago solo in apparenza: perché non perde mai di vista il suo baricentro, o meglio il suo Faro, ovvero Federico. La cornice è la Roma in gran fermento artistico e culturale degli anni Sessanta, l'io narrante una timida studentessa della scuola prestigiosa cattolica Cabrini, così religiosa che pensa di farsi suora. Il deus ex machina è l'incontro del destino fra Fellini e la mamma di Marina, l'attrice Caterina Boratto ritiratasi dalle scene per via del matrimonio con il gelosissimo Armando Ceratto, proprietario della clinica Sanatrix di Torino. Colpito dalla bellezza incontaminata di Caterina, il Maestro le inventa un ruolo, La Signora Misteriosa, nel film che si appresta a girare. Ed è così che, con indosso un tubino verde smeraldo degno dell'occasione, Marina approda sul set di 8 e mezzo, nei corridoi del Palazzo delle Civiltà dell'Eur dove le si palesa un uomo alto, magro, la giacca nera sbadatamente gettata sulla spalla che subito la abbraccia e apostrofa con i nomignoli «tesorino, Marinella, Marinotta, pastrocchia, bambocciona» con cui la chiamerà sempre. All'adolescente il maestro appare: «Un testimone, un profeta o un apprendista stregone al primo incontro, lo ammetto, sospettai che fosse il diavolo incarnato». Ma è subito amore, seppur un amore sublimato: su quel set-harem orchestrato dal regista con piglio di giocoliere e popolato di divi, attori, comparse e straordinari collaboratori come Nino Rota, Gianni di Venanzo, Piero Gherardi, Marina capisce che «accetterà Fellini per sempre, difetti inclusi». Nel corso di quasi cinquecento pagine, che tuttavia volano, la Ceratto annota tutto quel che ha visto e sentito sull'arco di una frequentazione interrotta solo dalla scomparsa di Fellini - il metodo di lavoro e gli insanabili contrasti con Giulietta (Masina), i complicati rapporti umani e le scivolate depressive - delineando la figura di un seduttore esplosivo, vitalissimo, spiazzante, poetico, dietro il quale si cela un uomo umbratile, tormentato, saturnino. Poco a poco, Marina scopre di condividere con l'adorato regista la sensibilità per l'arcano, il magico, il trascendente, l'analisi junghiana; e Federico, perennemente circondato da maghi (a partire da Gustavo Rol) e indovini, la nomina sua lettrice di tarocchi. «Sopravvalutando le mie facoltà di sensitiva» scrive lei, ma è proprio grazie al suo radar di percettiva che un giorno entra nella farmacia di Anna Giovannini, la compagna segreta di Fellini. «Occhi turchini, fisico da signora grandi firme, voce melodiosa e avvolgente», Annina è una donna dalla sensualità materna che Federico ama in modo esclusivo e possessivo: ogni volta che può va da lei, quando lavora la inonda di telefonate e bigliettini. Nella sua esistenza di «traditore seriale», l'amante Anna così come la moglie Giulietta rappresentano punti fermi e inamovibili: «C'è qualcosa di eterno e necessario nell'unione di due esseri» confida; le donne sono un pianeta misterioso su cui non cessa di proiettare sogni e incertezze. E del resto per Fellini la vita stessa è sostanzialmente materia artistica, «un'amalgama incandescente» da esorcizzare e tradurre visionariamente sullo schermo. Vuoi in film «sortilegio» come 8 e mezzo, in film mai realizzati come il Mastorna; o in quel viaggio archetipo nella Roma antica che è il Satyricon. Un'opera, quest' ultima, dalla lunga e difficile lavorazione nel corso della quale Fellini «smantella gran parte del suo calore» nei riguardi di Marina. Lei ne soffre; ma se quella sorta «di pugno ricevuto in pieno volto» le da la spinta per affrancarsi, l'ammirazione e l'affetto rimangono intatti. Come si evince dalla lettura di questa torrenziale lettera d'amore che, restituendo con vividezza di Fellini il contraddittorio carisma, aiuta a penetrane lo straordinario mondo poetico. Un esempio? «Gli piacevano le stazioni ferroviarie adorava il mare d'inverno, perder tempo nei ristoranti deserti, meditare nelle chiese vuote e cos' altro gli piaceva? Il suono delle campane, i letti molto alti, i fratelli Marx, Buster Keaton, John Ford, Bunuel, James Bond, Matisse, Piero della Francesca i romanzi di Simenon e Dickens, le ciliegie amava attendere anche se invano la donna che desiderava».  

Franco Giubilei per “la Stampa” il 21 luglio 2020. Sondare il mondo magico di Fellini è un po' come avventurarsi nell'inconscio del maestro, la cui fascinazione per il mistero e l'occulto risale all'infanzia, quando i suoni della campagna riminese si trasformavano nelle strane visioni di Federico bambino. Episodi che sono stati raccontati dallo stesso regista, segni precoci di una passione che non lo lascerà mai più e che ispirerà tutta la sua produzione, nella ricerca di un senso delle cose in cui immaginazione e realtà si sovrappongono continuamente. Ora questo aspetto, centrale nella sua opera come nella sua biografia, viene esplorato nel documentario Fellini degli spiriti di Anselma Dell'Olio che sarà presentato in anteprima dalla Cineteca di Bologna il 23 agosto alla rassegna «Il cinema ritrovato». Selezionato dal Festival di Cannes nella sezione «Classics Sélection officielle», dal 31 agosto sarà distribuito nelle sale da Nexo Digital. Fra i protagonisti ci sono la cartomante che Fellini consultava regolarmente, Marina Ceratto, e poi Giuditta Mascioscia, la sensitiva che porta direttamente a un altro personaggio fondamentale in questo viaggio nei rapporti del maestro con il soprannaturale, cioè Gustavo Rol: «Fellini lo conobbe nel 1965 (l'anno di Giulietta degli spiriti, ndr), durante il viaggio di Dino Buzzati in cui lo scrittore raccontava per il Corriere l'Italia del mistero, e ne restò affascinato - spiega Marco Leonetti, direttore della Cineteca di Rimini -. Di fatto, Rol, che era un noto sensitivo, nella sua vita prese il posto dello psicanalista junghiano Ernst Bernhard, morto poco tempo prima e figura molto rilevante per lui». Un ruolo importante, quello giocato dall'occultista torinese nella vicenda umana e artistica del regista: «Rol è stato decisivo nel dare una svolta al film Casanova, la cui lavorazione, prolungatasi per tre anni, si era impelagata nelle difficoltà di Fellini con un personaggio che detestava - aggiunge Leonetti -. Grazie ad alcune sedute spiritiche col sensitivo, in cui sarebbe stato evocato Giacomo Casanova, il maestro sarebbe riuscito a trovare la chiave giusta per raccontarlo. Sarà ancora Rol a convincere Fellini ad abbandonare il progetto del film su Mastorna». Il documentario di Dell'Olio chiama in causa anche collaboratori e amici stretti del regista, oltre a colleghi come William Friedkin (autore de Il braccio violento della legge e L'Esorcista) e Damien Chazelle (Oscar per La La Land), tutti contributi alternati a preziosi materiali d'archivio di Rai Teche e Istituto Luce. Il fil rouge resta lo sguardo di Fellini verso quell'Oltre che affiora puntualmente nella sua opera sotto forma di apparizioni enigmatiche e strettamente imparentate col sogno, un'altra dimensione tanto amata dal nostro da trasformarsi nell'omonimo Libro, che raccoglie i disegni delle sue visioni notturne: «Nei film di Fellini compaiono come Epifanie, in un incrocio fra visibile e invisibile - conclude Leonetti -, si tratti dell'immagine del Rex in Amarcord come di Sordi in altalena nello Sceicco bianco o del Cristo trasportato dall'elicottero della Dolce vita: sono cancelli di comunicazione con un mondo altro».

Federico Fellini, il mito in 100 tappe: ecco chi era l'uomo dietro al genio. Aneddoti, curiosità e informazioni: 100 cose da sapere su Federico Fellini. Con la consapevolezza che lui stesso diceva: "Mi sono inventato quasi tutto: un'infanzia, una personalità, nostalgie, sogni, ricordi per il piacere di poterli raccontare". Chiara Ugolini il 19 gennaio 2020 su La Repubblica.

1. È nato il 20 gennaio del 1920 in Via Dardanelli a Rimini alle ore 21.30, Capricorno ascendente Vergine.

2. La mamma, romana, era casalinga, il padre, romagnolo, era commesso viaggiatore per una ditta di dolci.

3. Aveva due fratelli, Riccardo di un anno più giovane di lui e Maddalena, nata sette anni dopo.

4. Il primo film di Fellini è Luci del varietà, realizzato a quattro mani con Alberto Lattuada.

5. Il progetto iniziale di Lattuada doveva essere una sorta indagine di costume su Miss Italia ma poi diventa una commedia su un capocomico interpretato da Peppino De Filippo.

6. Lo sceicco bianco, primo film a firma solo sua, all’uscita andò malissimo: boicottato dagli editori dei fumetti, non vinse nulla a Venezia. Ora è un film di culto e torna in versione restaurata.

7. Per il centenario tornano in sala anche I vitelloni, 8 e ½ e Amarcord.

8. Fellini e Alberto Sordi erano amici prima del cinema. Dopo aver sposato Giulietta Masina Fellini andò a vederlo a teatro e dal palco Sordi disse al pubblico: “Non sono andato alle nozze di questo mio amico perché stavo qua, fategli un regalo che costa poco: un applauso”.

9. Galeotta fu la radio. Fellini incontrò Masina nel ’43: interpretava Pallina, personaggio ideato proprio da Federico, nella commedia radiofonica Le avventure di Cico e Pallina.

10. Nel 1945 ebbero un bambino che morì a poche settimane.

11. Insieme hanno realizzato sette film: il primo ruolo fu per Lo sceicco bianco, una prostituta di nome Cabiria che avrà poi il film tutto suo.

12. L’ultimo è stato Ginger e Fred del 1986, in cui Giulietta torna a lavorare con il marito a vent'anni da Giulietta degli spiriti.

13. Per Le notti di Cabiria Fellini dovette ricorrere all’aiuto di un cardinale molto potente, dopo che la censura aveva proibito il film.

14. Giulietta è morta cinque mesi dopo Fellini.

15. La tomba di Fellini, a Rimini, è sovrastata da una scultura di Arnaldo Pomodoro, Le vele, ispirata al film La nave va.

16. Il primo amore di Fellini è stato a 16 anni: la sua dirimpettaia 14enne Bianca, un amore osteggiato dai rispettivi genitori.

17. Tra le sue letture preferite di ragazzo c’erano Robinson Crusoe, Oliver Twist e L’isola del tesoro.

18. Fellini è stato qua e là anche attore: una delle prime apparizioni sul grande schermo è con Anna Magnani in un film a due episodi di Rossellini, L’amore.

19. Nei primi tempi a Roma, insieme all'amico pittore Riccardo Geleng, Fellini per guadagnare qualcosa lavorò come comparsa nell'Aida alle Terme di Caracalla.

20. Assistente volontario di Rossellini su Paisá e Roma città aperta diceva: "Rossellini mi ha insegnato a girare un film come fosse una gita in campagna con amici”.

21. Dopo l’insuccesso de Lo sceicco bianco Fellini si prese una grande rivincita. L’anno dopo, 1953, portò I vitelloni alla Mostra del Cinema di Venezia e vinse il Leone d’Oro.

22. A causa però del flop dello Sceicco i produttori non vollero che nei poster e nelle prime venti copie del film sui titoli di testa ci fosse il nome di Alberto Sordi.

23. I vitelloni ebbe successo anche all’estero: fu campione di incassi in Argentina.

24. Quattro dei suoi film hanno vinto l’Oscar come miglior film straniero. Sono La strada, Le notti di Cabiria, 8½ e Amarcord.

25. Nel 1993, pochi mesi prima di morire, ha ricevuto l’Oscar alla carriera dalle mani di Sophia Loren e Marcello Mastroianni.

26. Il giorno dell’annuncio al posteggio dei taxi di piazza del Popolo un gruppo di autisti è uscito dalle macchine, ha circondato Fellini che passava di lì e invece di dirgli “sei bravo” dissero “Federi’, siamo forti” e si sono congratulati fra loro.

27. Il suo discorso sul palco dell’Academy terminò con “Giulietta, don’t cry” rivolto alla moglie che in sala non smetteva di piangere.

28. Fellini ha iniziato la sua carriera nel mondo dei fumetti. A soli 19 anni ha iniziato a lavorare al Marc’Aurelio, la principale rivista satirica di quegli anni.

29. Ancora a Rimini aveva lavorato come caricaturista per il gestore del cinema Fulgor, che gli commissionava i ritratti degli attori più famosi per appenderli in sala.

30. Al cinema Fulgor Fellini ha visto il suo primo film, Maciste all’Inferno, seduto sulle ginocchia di suo padre.

31. A sette anni era fuggito di casa sperando di unirsi al circo esaltato dall’esibizione del clown Pierino.

32. Nell'estate del 1937, Fellini fondò insieme al pittore Demos Bonini la bottega Febo, dove i due eseguivano caricature per i turisti.

33. A Roma si era trasferito con la scusa di iscriversi a Giurisprudenza all’Università, ma non diede mai esami.

34. Fellini ha vissuto a Rimini dal gennaio 1920, quando è nato, al gennaio 1939, quando è partito per Roma.

35. Topolino nel 1991 ha dedicato al regista una storia intitolata La strada, disegnata dal maestro Giorgio Cavezzano. Si raccontava di Fellini che arrivava a Hollywood a ritirare l’Oscar.

36. Gelsomina e Zampanò erano Topolino e Minnie. Del fumetto Disney Fellini fu così contento che volle regalare a Topolino uno suo schizzo di ringraziamento.

37. Aveva una vera adorazione per Walt Disney che aveva conosciuto a Hollywood quando era andato a ritirare l'Oscar per La strada. Per lui e Giulietta il mago dell'animazione aveva organizzato una piccola festa a Disneyland con una banda che suonava il motivo del film.

38. Fellini aveva una passione per le vignette erotiche: una serie di personaggi che mettono a nudo i propri genitali - sempre enormi, esagerati, irrefrenabili - protagonisti di giochi di parole e significato, tra doppi sensi e metafore.

39. “Anche io disegno per mostrare come voglio qualcosa in un mio film, ma Fellini disegnava per comunicare con sé stesso”. Parola di Wes Anderson in Fantastic Mr. Fellini.

40. Di disegni e appunti è fatto anche il Libro dei sogni, l’album dove su suggerimento dell'analista junghiano Ernst Bernhard, ha trascritto per quasi trent’anni le proprie visioni notturne.

41. Per i suoi disegni Fellini utilizzava solo i pennarelli giapponesi Tombow, che ordinava con mesi di anticipo.

42. Dopo il fumetto la scuola successiva per Fellini fu quella dell’avanspettacolo: scriveva per comici di successo come Macario e Aldo Fabrizi.

43. “Solitamente Fellini dava appuntamento alle 8 di mattina da Canova e riceveva le persone a piazza del Popolo. Il bar diventava il suo ufficio quando lui non poteva essere a Cinecittà”: parola di Fiammetta Profili, per 13 anni segretaria del regista.

44. Per La strada il budget era basso per cui Anthony Quinn, che interpretava Zampanò, accettò un cachet ben inferiore agli standard ma non se ne pentì mai.

45. Quando uscì La strada il regista ricevette molte recensioni negative dai critici di sinistra che lo accusarono di aver tradito il neorealismo.

46. Amarcord in un primo tempo il film avrebbe dovuto intitolarsi È Bourg (il borgo): “Se si uniscono amare, core, ricordare e amaro, si arriva a Amarcord”, diceva Fellini.

47. La notizia della vittoria dell’Oscar per Amarcord gli arrivò mentre era sul set de Il Casanova. Fellini decise di non andare a ritirare il riconoscimento che venne consegnato al produttore.

48. Per Il Casanova Donald Sutherland aveva letto tutto quello che era stato scritto sul personaggio, ma Fellini gli chiese di dimenticare tutto perché non era la figura storica che voleva.

49. Per interpretarlo l’attore ha dovuto indossare 40 costumi, 10 parrucche e 300 nasi finti.

50. Fellini non rivedeva mai i suoi film. “Appena ho terminato il lavoro il film se ne va per la sua strada e io per la mia” diceva.

51. Quasi tutti i suoi film sono stati girati allo Studio 5 di Cinecittà.

52. Allo Studio 5 aveva due camere, bagno e cucina: ci dormiva, si faceva cucinare, ci mangiava. Era come una seconda casa.

53. Anche la camera ardente si è svolta in quegli stessi studi.

54. 8 e ½ nasce da una crisi di ispirazione. Fellini stava andando dal produttore Angelo Rizzoli per comunicargli che era ad un punto morto col film, quando a Cinecittà un capo macchinista invitò il regista a festeggiare il compleanno di un collega. E lì, mentre tutti gli facevano gli auguri per il nuovo film, Fellini ha un'illuminazione: farà un film su un regista che deve fare un film ma non sa più quale.

55. Claudia Cardinale racconta che sul set di 8 e ½ non c’erano copioni: solo dei pezzettini di carta con qualche battuta che arrivava all’ultimo momento.

56. Un attimo prima di girare il regista si metteva al posto di Mastroianni, parlava e improvvisava, Cardinale gli rispondeva e quello diventava il dialogo del film.

57. Paul McCartney avrebbe voluto Fellini per il video di una nuova canzone alla fine degli anni '80, ma poi per questioni di marketing saltò tutto.

58. Fellini diresse Totò solo per una scena, quella finale di Dov'è la libertà?, perché Rossellini si era ammalato.

59. Rivelò poi che avrebbe voluto farlo recitare nel film mai realizzato Viaggio di G. Mastorna.

60. Viaggio di G. Mastorna è il film non realizzato più famoso della storia cinema italiano: il protagonista avrebbe dovuto essere Paolo Villaggio.

61. L’ultimo film di Fellini, La voce della luna, con Roberto Benigni valse a Paolo Villaggio un David di Donatello.

62. Con Benigni Fellini girò solo quel film, il regista lo chiamava Pinocchietto.

63. Da ragazzino la passione più grande di Fellini era stare in piedi su una sedia, il Corriere dei Piccoli contro il vetro della finestra e sopra un foglio per ricopiare le illustrazioni.

64. Del rapporto con il disegnatore Milo Manara sono rimaste diverse testimonianze tra cui i manifesti di Intervista e La voce della luna.

65. Fellini aveva un cane che si chiamava Arcibaldo che era uguale allo Snoopy di Schultz e quando il regista faceva riunioni di sceneggiatura stava sempre ad ascoltarle.

66. Ha lavorato tutta la carriera con il commediografo Tullio Pinelli, morto a 101 anni.

67. Giulietta Masina ne La strada è stata chiamata un Charlot al femminile ma non dai critici bensì dallo stesso Chaplin: un complimento a cui sia Masina che Fellini tenevano tantissimo.

68. Negli anni in tanti gli avevano chiesto il significato di 8 e ½, così un certo punto cominciò a dare questa risposta: “Parla di te, proprio di te, del tuo mestiere, di quello che fai, dei tuoi sogni, dei tuoi rapporti con le donne”.

69. Dal suo cognome è nato il termine 'felliniano', del quale diceva: “Essere felliniano è il ruolo più difficile perché nonostante sia lusingato di essere diventato anche un aggettivo, non so cosa voglia dire”.

70. A Rimini in piazza Cavour per fargli festa ci sarà la Torta dei sogni, alta due metri, realizzata dal maestro pasticcere Roberto Rinaldini che ha personalmente reinterpretato il dolce più amato dal regista: la zuppa inglese.

71. Nella sua carriera ha anche realizzato spot pubblicitari, tra cui uno del 1985 per Barilla in cui la protagonista ordina "rigatoni" al cameriere che decanta i piatti della Nouvelle Cuisine.

72. Fellini era un buongustaio: amava le polpettine di bollito con uvetta, gli spaghetti al tonno e il polletto alla cacciatora che faceva sua mamma.

73. Giulietta era una gran cuoca e cucinava in quantità industriali perché il marito era capace di chiamare alle 9 e dire "non siamo quattro a cena ma 15".

74. Il lungo rapporto con l'analista junghiano Ernst Bernhard iniziò per caso: il numero di telefono del dottore rimase nelle tasche del regista finché un giorno lo chiamò credendo che si trattasse di una tale Maria.

75. Per anni poi il regista lo avrebbe frequentato nel suo studio di via Gregoriana, a Roma.

76. Con La dolce vita, nel febbraio del 1960, il cinema arriva per la prima volta in prima pagina su un quotidiano. È Il Giorno, che titola sugli applausi e i fischi.

77. La scena più famosa, quella di Anita Ekberg che fa il bagno nella fontana di Trevi, fu girata a febbraio. Faceva talmente freddo che Mastroianni aveva una muta da sub sotto il vestito.

78. Il film vinse la Palma d’Oro a Cannes. In occasione della presentazione al festival si tenne una festa in piscina dove le ospiti si buttavano in acqua vestite, in omaggio alla Ekberg.

79. La dolce vita avrebbe dovuto essere prodotto da Dino De Laurentiis ma sulla scelta del protagonista, Mastroianni, produttore e regista litigarono: De Laurentiis avrebbe voluto Paul Newman.

80. Il termine 'paparazzi' deriva da un personaggio di nome Paparazzo, un giornalista che fotografava le celebrità, interpretato da Walter Santesso.

81. Il personaggio di Paparazzo era ispirato a Tazio Secchiaroli, fotografo a via Veneto e amico di Fellini. Dopo quel film lo seguì su tutti i set.

82.  Il dolcevita, il maglioncino a collo alto, fu ribattezzato così dopo che Mastroianni lo indossò nel film, vincitore dell'Oscar per i migliori costumi creati da Piero Gherardi.

83. Il film Prova d’orchestra (1979), racconto delle prove di un concerto sinfonico interrotto da proteste sindacali e infine da un'enorme palla di ferro che sfonda i muri, Fellini decise di girarlo quando seppe dell’assassinio di Aldo Moro.

84. Per tutta la lavorazione di 8 e ½ tenne un’etichetta "ricordati che è un film comico” come monito applicato macchina da presa.

85. Arrivato a Roma voleva fare il giornalista ma la causa era sempre il cinema. "Avevo visto tanti film americani in cui i giornalisti era personaggi affascinanti".

86. Per Roma fece costruire a Cinecittà un pezzo del grande raccordo anulare.

87. Amava molto il circo e diceva che se il cinema non fosse esistito avrebbe voluto essere direttore di circo.

88. Quando i giornalisti lo chiamavano a casa spesso faceva finta di essere la cameriera, camuffava la voce e diceva “il maestro non è in casa”.

89. Nel cinema di Fellini il circo è molto presente, completamente dedicato a quel mondo è un documentario per la tv del 1970, I clowns.

90. Nino Rota ha scritto la musica di gran parte della filmografia del regista: le sue colonne sonore sono entrate nella storia, ma ancor più stretto è stato il rapporto personale fra regista e compositore.

91. Dopo la morte del musicista Fellini scelse di far comporre le colonne sonore dei suoi film a Nicola Piovani, che riconosceva come erede di Rota.

92. Nel 1990 ricevette il Praemium dell’Imperatore del Giappone, in un viaggio con Giulietta a Tokyo che lo lasciò entusiasta del paese e dell’accoglienza.

93. Uno dei film preferiti di Fellini era Uomini contro di Francesco Rosi.

94. Il logo di Fellini 100, che raccoglie tutte le iniziative per il centenario del regista, mostra il regista con in mano una frusta (sul set  di 8 e ½): lo ha disegnato Paolo Virzì.

95. Per il compleanno si inaugura lunedì a Roma Federico Fellini, Ironico, beffardo e centenario: la mostra fotografica è visibile fino al 28 febbraio presso la Biblioteca l'Angelica.

96. Cinecittà omaggia il maestro con un'esposizione speciale: la palazzina a lui nominata verrà allestita dallo scenografo Dante Ferretti – che lavorò con lui in cinque film – e Francesca Lo Schiavo.

97. Lunedì dalle 10 del mattino fino a mezzanotte alla Cineteca di Bologna si avvicenderanno per raccontarlo Marco Bellocchio, Franco Maresco, Giorgio Diritti, Gianni Zanasi, lo scrittore e sceneggiatore Ermanno Cavazzoni, che con Fellini ha lavorato all’ultimo film, La voce della luna, il pianista e autore di colonne sonore Daniele Furlati.

98. Esce Federico Fellini, Dizionario Intimo per parole e immagini, di Daniela Barbiani, nipote di Federico Fellini e sua assistente alla regia dal 1980 al 1993, negli ultimi suoi quattro film: E la nave va, Ginger e Fred, Intervista, La voce della luna.

99. Sempre lunedì la Rai dedica una programmazione che propone su tutte le reti grandi film (da Ginger e Fred a E la nave va, da La città delle donne al Casanova), reportage, interviste e riletture dell’immaginario felliniano e dei suoi protagonisti, come quella di Eugenio Cappuccio con immagini delle Teche Rai in Fellini fine mai.

100. Per il centenario sarà stampato un francobollo che riproduce  un autoritratto di Federico Fellini dal Libro dei sogni.

Prefazione di Milan Kundera a “Dizionario Intimo” di Federico Fellini (Piemme), pubblicata da “la Repubblica” il 5 novembre 2019. Il mio amore per i film di Fellini è senza limiti. Il nome di Fellini è sempre grande, ammirato, celebre, è diventato perfino un simbolo. Amarcord è stato tuttavia il suo ultimo film la cui bellezza poetica ha messo tutti d' accordo. Poi l' immaginazione di Fellini si è scatenata ancora di più e il suo sguardo si è fatto ancora più acuto: la sua poesia è diventata antilirica, il suo modernismo antimoderno. I sette film dei suoi ultimi quindici anni sono stati un ritratto implacabile del mondo in cui viviamo. Il Casanova, l'immagine di una sessualità esibita, condotta fino ai suoi limiti estremi, grottesca; Prova d' orchestra ; La città delle donne ; E la nave va, un addio all' Europa la cui nave, accompagnata da alcune arie operistiche, se ne va verso il nulla; Ginger e Fred; Intervista, grande addio al cinema, all'arte moderna, all' arte in generale; La voce della luna, addio finale. Nel corso di quegli anni, irritati dalla sua estetica molto esigente e dallo sguardo disincantato che poneva sul mondo contemporaneo, i salotti, la stampa, il pubblico e anche i produttori se ne sono allontanati; non dovendo più nulla a nessuno, Fellini allora assapora la «gioiosa irresponsabilità» lo cito «di una libertà fino a quel momento sconosciuta». Qualche giorno fa io e mia moglie Vera abbiamo rivisto Intervista . Alla fine del film ci siamo detti: «Sapeva già tutto». L' ultimo periodo dell' arte di Fellini ha rappresentato la vetta delle vette, la fusione del sogno e della realtà di cui sognavano i surrealisti. Fellini l' ha realizzata nei suoi ultimi film con una forza incomparabile, effettuando allo stesso tempo un' analisi lucidissima del mondo contemporaneo. I film di Fellini dell' ultimo periodo rappresentano l'apice dell' arte moderna, l' immagine più rivelatrice che conosco del nostro mondo così com'è. Negli ultimi decenni, dopo Picasso, dopo Stravinskij, dove possiamo trovare un' opera più bella, di un' immaginazione più potente? Dove possiamo trovare un'opera più importante in grado di interrogare, domanda dopo domanda, tutto il destino europeo, le viscere stesse di questo destino? Quando ho saputo che Fellini aveva deciso di girare America di Kafka, ho avuto la strana impressione di una sorpresa che non era tale: la cosa mi è parsa tanto inattesa quanto logica e necessaria. Infatti, solo Fellini poteva, grazie alla sua interpretazione, svelare in modo brutale l'essenza (sempre trascurata, elusa, non compresa) della grande rivoluzione estetica di Kafka: la liberazione radicale dell' immaginazione che, con la facilità del sogno, trasgredisce tutte le regole della verosimiglianza. L' arte moderna, per me, è la storia di questa immaginazione, che Fellini ha condotto verso cime inaccessibili (e forse verso il suo compimento, il suo compimento orgiastico).

Maurizio Porro per il “Corriere della Sera” il 13 dicembre 2019. Oltre a essere un regista che ha rivoluzionato il modo di far cinema, che è diventato un aggettivo e un sinonimo di qualità italiana nel mondo, oltre a essere l' artista di 8½ , film che ha portato al massimo livello espressivo i mezzi artistici del cinema, come Joyce e Proust che fingeva di non aver letto, oltre a essere colui che divise l' Italia in due a parlare della Dolce vita (non si può credere cosa fu l' uscita di quel film), Federico Fellini era anche un uomo di grande spirito, di umorismo raffinato e profonda gentilezza, il meno vanitoso che abbia calcato Cinecittà e dintorni, il genio che più amava nascondersi. Forse consapevole, ma lo teneva per sé. Ma 8½ è un film che non riesce a fare, come Proust nella Recherche arriva all' ultima pagina per dirsi pronto. Casi junghiani di sincronicità. Sono invitato ad andare sul personale e confesserò quindi che col Fellini che ho conosciuto io, per caso un pomeriggio molestandolo al teatro Nuovo per un' intervista laggiù nel '72 o giù di lì, finendo per accompagnarlo a un appuntamento stipandolo nella mia non linda 500, era arduo parlare dei suoi film. Sorrideva, scantonava, assentiva, ma era anestetizzato di fronte a qualunque elogio. Io lo tormentavo su come 8½ potesse cambiare la vita e il mio modo di vedere il cinema, ripetendo un rosario di complimenti che sapeva a memoria, ma a lui piaceva parlar d' altro. Parlava come nessuno, l' accostamento e la scelta dei vocaboli erano personali e originali, faceva dell' impressionismo col linguaggio, disegnava con parole e aveva ragione Orson Welles che nella Ricotta dice: «Egli danza». Gli piaceva andare a zonzo in auto senza meta, gustare il famoso risotto giallo, assaggiare piatti, sguardi, stare al riparo dalla popolarità usa e getta, sentirsi a casa. Era curioso di tutto, venne una sera nello stupore di una platea rockettara a vedere Rocky horror picture show , nel defunto cine teatro Cristallo, e sembrava un musical sulle sue misure immaginifiche. E raccontava di Rol e dei suoi prodigi di sdoppiamento, sempre con humour e quando era con la Masina parevano proprio la coppia italiana medio borghese, quanto di più lontano in realtà fossero. Naturalmente amava, quando nascevano per caso, chiacchierando, i ricordi e ne aveva pronti all' uso alcuni magnifici, sulla sua prima esperienza all' opera, col timpano offeso da un acuto, mentre stava in braccio a papà (magari era meno grave, ma lui era spettacolo) e di ritorno dal Giappone era sconvolto perché «in un dischetto non ci crederai ci sono tutti i miei film». Lo portai una sera, lui e Mastroianni, a sfogliare vecchi programmi di teatro, trovando non a caso quelli di Zio Vanja e del Commesso viaggiatore , spettacoli di Visconti interpretati dal suo, nostro, attore preferito. Fu un irresistibile inseguimento di memorie e aneddoti che restituivano il sapore dello spettacolo nel suo farsi e tramandarsi, il quotidiano del corpo del mestiere, qualcosa che andava oltre qualunque professorale giudizio di merito che sta dall' altra parte della barricata. Ridevano come bambini. Fellini era sempre il primo a fare gli auguri a Natale, anche in orario da insonne cronico come quando telefonava per raccomandare un libro che magari aveva letto durante la notte (ricordo la Tamaro) e mi pento di non aver conservato un suo affettuoso messaggio dall' ospedale: cancellai il nastro per portargli fortuna, ma dovevo capire che era quasi un salutino in finale di partita. Ripensando ai film, credo che Fellini sia stato davvero un profeta, nel senso biblico del termine. Nella Dolce vita aveva intuito senza sentenze tutto il peggio che sarebbe arrivato, dalla moda dei paparazzi (una delle tante parole finite nei dizionari) quindi della vita rubata, fotografata e virtuale, alla teocrazia dell' immagine televisiva alla crisi dell' intellettuale, allo strapotere della cronaca, a quello del sesso. Ma soprattutto in quasi tutti i suoi film c' era la richiesta gentile di fare un po' di silenzio. È l' ultima battuta della Voce della luna ma già prima ci aveva avvertito, inascoltato. Era profetico il suo sguardo sul mondo, quando aveva anticipato la guerra balcanica nella Nave va , le moto selvagge in corsa alla fine di Roma , l' amore con la ballerina meccanica robot in Casanova , nel Bidone i trafficoni diventati di moda; quando scopriva facce sconosciute (Nico, la musa di Warhol nella Dolce vita , dove c' era anche Celentano, Pina Bausch nella Nave ) e quando chiedeva appunto di ascoltare solo il rumore dentro, quello che lui riusciva a esprimere nelle immagini di un suo rumoroso e inimitabile teatrino.

Natalia Aspesi per “Robinson - la Repubblica” il 17 dicembre 2019. Me lo ricordo il Fellini che incontravo per le interviste, forse ai tempi della Città delle donne o anche prima: un uomo gentile, affettuoso, un tesoro per un giornalista perché evocava cose sorprendenti e l' articolo si faceva da solo: un uomo stanco, grassoccio, seduto in un angolo, con quella vocetta infantile, un fiume fantasioso di parole e di immagini; noi arpie del giornalismo detto chissà perché di costume lo adoravamo per la dolcezza con cui voleva farci credere, ma non lo credevamo, quanto ci stimasse. Ci appariva molto accogliente, piacevole, ma del tutto privo di fascino di quel tipo là, e un po' ne ridevamo, pentendoci subito perché chiunque fossero le femmine vere che accoglieva o spingeva in un letto, o quelle di fantasia che raccontava sullo schermo, i suoi film, una parte dei suoi film, sarebbe stata meravigliosa per sempre. Si può a 27 anni dalla sua morte, nel centenario della sua nascita, in un tempo, oggi, smemorato e capovolto, chiedersi ancora delle sue donne, vere o immaginarie, dopo che negli anni, a ogni occasione ne è spuntata una che si è dichiarata la sua donna, e lui pazzo d' amore, e lei pazza di lui: ne vivono ancora con questa medaglia, signore a cui in passato se si chiedeva, E la Masina?, sempre rispondevano, Contenta. Tutto ormai è evaporato nella leggenda e non conta più, e sono certo più reali le donne della fantasia che quella vere ormai defunte o tuttora parzialmente vegete. Per esempio la Carla di 8 e 1/2, la bionda burrosa e sempre sorridente a cui Guido alzandosi dal letto chiede di fare la faccia da porca, e lei pigola, nella sua adorabile scemenza, voglio scrivere a mio marito; oppure Fanny di Giulietta degli spiriti, amante ideale delle fantasie maschili d' epoca, polposa e un po' ridicola, tutta in bianco con velo come una sposa, ma già in mutande. Oggi, più di mezzo secolo dopo, Sandra Milo, una settantina di film e qualche apparizione sconcertante in tivù tipo Isola dei Famosi, deve la sua gloria ai soli due film con Fellini, l' uomo che è stato il suo distratto amato amante per 17 anni: senza che lei mai lasciasse marito e figli anche se in certe interviste ha sostenuto che a un certo punto lui, marito di ferro della sua Giulietta, le aveva comunque chiesto di sposarlo. Certo i film di Fellini e forse davvero anche la sua vita, sono zeppi di donne, madri, puttanoni, spose, beghine, fanciulle, serve, sante, cori di belle sciocchine maliziose e inafferrabili con i visi vacui incorniciati da meravigliosi e stupidi cappelli: che raccontano l' ossessione italiana e ancor più, forse, romagnola di allora per una femminilità divisa in due: quella di una moglie poco vistosa che ogni giorno all' alba si alza per tirare la pasta fresca e rimestare un indigeribile ragù, mentre su una spiaggia, in una tabaccheria, in un vicolo, in un letto a baldacchino, lo attende ubbidiente e indifferente, una bellissima donna, un corpo sontuoso e muto: oppure una sua degenerazione, una Gradisca, una Gigantessa, una Rosina, una Tabaccaia, una Paciocca, una Saraghina, una mostruosità cattiva e inesistente, due palloni al posto del seno, una montagna al posto del sedere, un viso diabolico: come nei disegni preparatori per i suoi film ( I disegni di Fellini di De Santi, Laterza) che rivelano il disprezzo, e la paura che può suscitare quel costante mistero che è la femmina. Ma poi c' è La Moglie, che è per sempre, che non si cambia, almeno per Federico, e quindi non ha bisogno di quegli orpelli carnali perché il suo ruolo è un altro, vuoi angelo del focolare ma anche mamma inflessibile che ti soccorre, che ti controlla, che ti urla se bevi troppo, se mangi troppo, se un' amante ti ha piantato: non è stato proprio così il ruolo di Giulietta Masina, sposata, tutti e due ventenni, tutti e due emiliano-romagnoli, quando Fellini era ancora magro magro (secondo Alberto Sordi che gli era già amico, per fame) e con una gran capigliatura nera: bello, come una volta accasato è stato per poco, da quasi subito infedele come era ovvio, la moglie però non addomesticata secondo tradizione, sua musa e interprete per i personaggi angelicati, sia di piccola barbona come Gelsomina, sia di ingenua prostituta come Cabiria. E quanto alla fedeltà obbligatoria della Moglie, non ne esistono prove certe, anzi, Roma pullulava in quegli anni, di immensi intrecci di corna. In Anita Ekberg Fellini aveva trovato la splendida rara immagine della bellezza eterna da lui sognata: esuberante, ridente, lattea, dispensatrice di felicità, tutto ciò che una dolce vita può dare, e che rimase gelida nei suoi confronti, giudicandolo dal suo moralismo nordico, un provinciale, una donnetta, un despota, un invidioso, come rivelò in varie interviste. Anche un' altra signora che lui voleva in Casanova, questa volta con sprezzo anglointellettuale lo atterrò in una intervista a Leonetta Bentivoglio: stravaganza felliniana perché Germaine Greer, femminista bellicosa e autrice dell' epocale L' eunuco Femmina, se lo portò a letto tanto per passare una serata o due, rimanendone delusa. «Quando si infila nel letto col pigiama di seta, telefona subito alla moglie mandandole bacini» concludendo dopo una serie di dispregiativi, «di atleti del sesso ce ne sono tanti e a buon mercato». A Roma si sapeva del vero grande amore di Federico Fellini, che lui portava nei ristoranti e ovunque senza che, fantastica ipocrisia italiana, la cosa fosse considerata vera: non un tradimento coniugale insomma, ma una casualità imposta dalle regole della sopravvivenza: per 36 anni Anna Giovannini fu la sua amante segreta, un' altra moglie, la realtà di quell' amore carnale che scorreva come un sogno nei suoi film. Una luminosa bellezza formosa e grande, incontrata casualmente in una pasticceria, che vestita di rosso e molto scollata, lo aveva folgorato per sempre. Era il 1957, dopo Il bidone e Federico non riusciva a liberarsi da una delle sue depressioni. Due anni dopo la morte del regista, la signora che allora aveva 79 anni (4 più di lui) concesse una intervista ad Adele Cambria, per rivelarsi, finalmente: «Federico era molto geloso, non voleva che la nostra storia venisse inquinata dalle chiacchiere». Anche perché il rifugio della passione clandestina gli consentiva un' altra serie di vite senza fastidi: professionale, sociale, di coppia ufficiale e certo di corna. In casa ho trovato questo librino di carta povera e già ingiallita, Caro Federico, edito da Rizzoli nel 1982, sulla copertina azzurra, sotto il solito immenso cappello rosa, occhiali neri e gesto stupidino, Sandra Milo, l' autrice, con probabile ghost writer; quando il suo Fellini, ormai perduto per lei, stava preparando E la nave va. Una specie di romanzo, gentile e spiritoso in terza persona, in cui la protagonista si chiama Selana. A pagina 61: camera da letto di gusto barocco, lenzuola di lino ricamate, lui nudo si stende sul letto, le fa indossare un mantello nero e sotto niente: «Ti senti la castellana che nel buio raggiunge il cavaliere errante che le ha chiesto asilo per la notte? È un cavaliere o uno stregone? Ti amerà o farà un crudele incantesimo? Sì così, fai quella bella bella faccia da porca, mostrami la lingua». Tutte le donne si innamoravano di lui, ricorda Sandra: in ogni caso da quel passato di multiple e roventi passioni, mai un eco di molestie. Insomma contente tutte, più o meno.

Gloria Satta per “il Messaggero” il 24 novembre 2019. L' umanità è condannata ad avere la memoria sempre più corta? Non sembrerebbe: a cent' anni dalla nascita, il mondo intero si prepara infatti a celebrare per tutto il 2020 Federico Fellini scomparso il 31 ottobre 1993 dopo aver firmato film-capolavoro come La strada, Le notti di Cabiria, La Dolce Vita, Otto e mezzo, Giulietta degli spiriti, Prova d' orchestra, La voce della Luna, vinto cinque Oscar (record imbattuto) e segnato l' estetica cinematografica e la cultura del Novecento, in una parola l' immaginario del nostro tempo. L' omaggio-kolossal si snoda in quattro tappe. La prima è il convegno internazionale Ricordiamo il maestro promosso dal Comune di Milano a Palazzo Reale il 20 gennaio 2020, giorno della nascita di Fellini: accanto a intellettuali e cineasti ci sarà Donald Sutherland, l' indimenticabile Casanova felliniano. Seguirà (marzo-dicembre) la mostra itinerante sostenuta dal Ministero degli Esteri in 10 città del mondo: San Paolo del Brasile - dove il Banco do Brasil ha prestato la propria sede - Berlino, Mosca (nel Museo della Musica), San Pietroburgo, Toronto, Tirana, Vilnius, Buenos Aires, Lubiana - dove inaugurerà la Cineteca Nazionale Slovena - Hong Kong. Da settembre a novembre si terrà poi a Palazzo Reale di Milano la monumentale esposizione del centenario Fellini, le donne, i film curata da Vincenzo Mollica e Alessandro Nicosia con Francesca Fabbri Fellini, erede del maestro, e con la collaborazione di Simonetta Tavanti, nipote di Giulietta Masina. C' è poi il libro Federico Fellini - Dizionario Intimo a cura di Daniela Barbiani con prefazioni di Milan Kundera e Pietro Citati, in uscita da Piemme: raccoglie le parole, le espressioni, gli amori e i ricordi del grande regista in 203 voci destinate a restituirne l' immagine sfrontata, geniale, sempre viva.

IL COMITATO. Regista delle celebrazioni del centenario è Alessandro Nicosia, 500 mostre all' attivo in oltre 30 anni di attività e numerosi eventi dedicati proprio al maestro di Rimini: la prima esposizione in assoluto da lui curata a Roma nel 1995 con Mollica e Lietta Tornabuoni, l' omaggio del 2003 al Guggenheim di New York, il tributo ospitato dall' Academy a Los Angeles e quello del Puskin di Mosca. «Il nome di Fellini, che ho avuto il privilegio di conoscere, suscita tuttora un' enorme emozione nel mondo intero», spiega Nicosia che ha riunito per l' occasione un comitato di eredi, amici ed estimatori del regista in cui spiccano i nomi di Milo Manara, Giuseppe Tornatore, Rosita Copioli, Citati, Kundera, Mario Longardi, Sutherland, Milena Vukotic, Fiammetta Profili, Carlo Patrizi. E aggiunge: «Organizzare oggi, con l' amico fraterno Mollica, le celebrazioni del centenario significa mantenere viva la memoria del regista e farlo conoscere ai giovani che, nell'era di internet e della cultura usa-e-getta, rischiano di dimenticarlo».

I DOCUMENTI. Molti saranno gli inediti della mostra in programma a Palazzo Reale e incentrata su disegni, schizzi, documenti, fotografie, molte delle quali scattate da Gideon Backman, frammenti di film mai montati, oggetti di scena, manufatti, indumenti, curiosità. Tra le chicche, il disegno che il regista regalò all' amico Giulio Andreotti per i suoi 70 anni, il pianoforte verticale di casa Fellini su cui Nino Rota accennava le sue celebri colonne sonore, i biglietti di auguri spediti da Federico alla nipote e i ritratti degli amici, le immagini del futuro genio del cinema da bambino con i fratelli Riccardo e Maddalena. Si vedranno per la prima volta anche alcuni spettacolari costumi confezionati da Danilo Donati per Casanova (e ci sarà una grande testa di cartapesta realizzata per il film) nonché le mutandine e i reggiseni indossati dalle interpreti de La città delle donne e restaurati per la mostra. Ciliegina sulla torta, i disegni che Fellini e Charles M. Schultz si scambiarono in occasione della mostra organizzata a Roma nel 1992 da Nicosia in onore del padre dei Peanuts di cui il regista era un fervente estimatore. Tanto da esclamare, osservandolo disegnare in una saletta dell' Hotel Hassler: «Mi sento come quel piccolo manovale che guardava Michelangelo mentre dipinge la Cappella Sistina».

Dagospia il 24 novembre 2019. Estratto della prefazione di Milan Kundera a “Dizionario Intimo di Federico Fellini” a cura di Daniela Barbiani (Piemme). Il mio amore per i film di Federico Fellini è senza limiti. L' ultimo periodo dell' arte di Fellini ha rappresentato la vetta delle vette, la fusione del sogno e della realtà di cui sognavano i surrealisti. Fellini l' ha realizzata nei suoi ultimi film con una forza incomparabile, effettuando allo stesso tempo un' analisi lucidissima del mondo contemporaneo. I film di Fellini dell' ultimo periodo rappresentano l' apice dell' arte moderna, l' immagine più rivelatrice che conosco del nostro mondo così com' è. Negli ultimi decenni, dopo Picasso, dopo Stravinskij, dove possiamo trovare un' opera più bella, di un' immaginazione più potente? Dove possiamo trovare un' opera più importante in grado di interrogare, domanda dopo domanda, tutto il destino europeo, le viscere stesse di questo destino?

·        100 anni dalla nascita di Alberto Sordi.

Dagospia l'1 ottobre 2020. Da I Lunatici Radio2. Paola Comin, storica collaboratrice di Alberto Sordi, è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte alle sei del mattino. La Comin è stata l'addetta stampa di Alberto Sordi per molti anni e sull'Alberto nazionale ha dichiarato: "Il rapporto di Sordi con la notte? Buono, poteva fare tardi se la compagnia era piacevole e la serata era divertente. Poteva andare avanti a oltranza, a parte le nottate di lavoro. Lui però aveva una regola alla quale non poteva soprassedere, quella della pennica pomeridiana. Si chiudeva in camera, anche se eravamo in giro per il mondo, a casa sua o in albergo, veniva che venissero chiuse tutte le persiane, e doveva fare il suo riposino, completamente al buio. Si metteva il pigiama e andava a dormire, se entrava la luce gli dava fastidio. Quando girava dormiva nel camper o in camerino, mangiava velocemente e poi si faceva mezzora, quaranta minuti di riposino. Altrimenti non riusciva a reggere la giornata".

Altri aneddoti su Sordi: "Si svegliava presto, vedeva Unomattina. La prima volta che l'ho incontrato? Mi ero preparata tutto, lui era un mito, sciolse tutto alla prima stretta di mano, alla prima occhiata, ci siamo dati subito del tu. Aveva una serie di collaboratori e due grandi amici, Piero Piccioni e Rodolfo Sonodo. Con tutti i collaboratori aveva un rapporto di grandissimo affetto e di grande rispetto. Devo essere sincera, era un maschilista, figlio della sua generazione. Ma aveva un grande amore e rispetto per le donne. Era maschilista perché sosteneva che il regno della donna fosse la casa, pensava che solo a casa la donna potesse essere realizzata. La sua villa a Roma, aperta al pubblico il 16 settembre e visitabile fino al 31 gennaio, era meravigliosa, quella casa è stata acquistata da lui, con i suoi guadagni, ma è stato il regno delle sorelle, Aurelia era la regina di quella casa. A casa lui era rimasto il figlio più piccolo, il fratello attore, aveva verso le sorelle un rispetto, quasi una sottomissione, direi commovente".

Ancora Paola Comin: "Sordi disse a Costanzo che il Maurizio Costanzo Show sarebbe stato un flop. Pensava che stare seduti in un teatro davanti al pubblico non avrebbe funzionato. Poi è andato ospite tante volte. Per la sua generazione star seduto davanti al pubblico non andava bene. Aveva un rispetto totale e assoluto per il pubblico. Ha rifiutato contratti miliardari per la pubblicità, diceva che non sarebbe stato corretto nei confronti della gente, era consapevole che tutto quello che aveva lo doveva all'amore della gente. Pensava che poi il pubblico non lo avrebbe più rispettato. Per Alberto Sordi era assolutamente impossibile fare una passeggiata in giro per Roma. Una volta andammo vicino a Piazza del Parlamento, da un ottico, immediatamente lo riconobbero, volevano gli autografi, non c'erano ancora i selfie. Lui non camminava mai per Roma, non era possibile".

Sui rimpianti di Alberto Sordi: "Non ne aveva. Gliel'ho chiesto parecchie volte, lui ha scelto con tutto se stesso di fare questa professione. Si è dedicato al lavoro e al pubblico, diceva che si se si fosse sposato non avrebbe potuto essere un buon marito, diceva che c'erano troppe tentazioni nel suo lavoro. E aggiungeva che se avesse avuto un figlio, lui avrebbe voluto educarlo. Ma come avrebbe fatto se doveva stare fuori per mesi a girare dei film? I suoi film erano i suoi figli".

Sulla leggenda legata all'essere tirchio: "Conosceva il valore dei soldi, era parsimonioso, ma anche molto generoso. Faceva beneficenza, ma in modo anonimo e silenzioso. Viveva in una villa, con sette persone di servizio. Non si faceva mancare nulla. Cosa mi disse prima di morire? 'Non ti preoccupare, sta arrivando la bella stagione e io starò meglio'".

Storia di Alberto Sordi, una carriera nata da un fallimento. Redazione de il Riformista il 15 Giugno 2020. Il 15 giugno del 1920, a Trastevere, nasce Alberto Sordi. Fin dalle scuole medie, mostra già tutti i suoi talenti: gira l’Italia con la compagnia del Teatro delle marionette e canta nel coro di voci bianche nella Cappella Sistina. In seguito, però, abbandonerà la scuola, per inseguire il mondo dello spettacolo, incidendo a 16 anni un disco di fiabe per bambini. Si iscrive poi all’Accademia dei Filodrammatici di Milano, dalla quale sarà espulso proprio per la forte inflessione romanesca. Sarà quell’insuccesso a spingerlo a fare del suo difetto un punto di forza. Tornato a Roma, avrà il suo primo contatto con il cinema, partecipando come comparsa al film “Scipione l’Africano” di Carmine Gallone, presentato alla Mostra di Venezia nel 1937. Nel frattempo, come doppiatore, diventa la voce italiana di Oliver Hardy per il suo personaggio Ollio, mentre alterna al doppiaggio, il teatro, il cinema e alla radio, raggiungendo un grande successo radiofonico con il suo programma “Vi parla Alberto Sordi”. Dopo aver fondato nel 1950 una casa di produzione con il suo amico Vittorio De Sica e dopo un tentativo di film scritto da lui “Mamma mia che impressione”, arrivano i primi successi. Federico Fellini lo sceglie come protagonista di “Lo sceicco bianco” (1952) e “I vitelloni” (1953) e in teatro si esibisce accanto a Wanda Osiris in “Gran Baraonda”. Nel 1965 esordisce come regista con “Fumo di Londra”. E arrivano anche numerosi riconoscimenti: nel ‘55 il presidente Truman, a Kansas City, gli le chiavi della città, mentre, nel ‘58 l’allora presidente Giovanni Gronchi lo investe della prestigiosa carica di cavaliere della Repubblica Italiana. Nel 2000, in occasione del suo 80esimo compleanno, il sindaco di Roma lo investe della carica di “Sindaco per un giorno”. Vinse per esser stato un grande interprete della commedia all’italiana e classico esempio di romanità, ben 4 Nastri d’argento, un Orso d’argento a Berlino, un Leone d’oro alla carriera e un David di Donatello alla carriera nel 1999. È stato nominato ambasciatore della cultura italiana. Nella sua villa di piazza Numa Pompilio, affetto da diverse forme di polmoniti e bronchiti, muore all’età di 82 anni. Ma il suo mito non è ancora tramontato.

Gianluca Veneziani per “Libero Quotidiano” il 21 giugno 2020. Qualcuno potrebbe definirlo "cent' anni di solitudine" questo secolo dalla nascita di Alberto Sordi, essendo lui il grande solista del cinema italiano, senza padri e senza eredi, unico per talento e genere di comicità. Ma sarebbe più corretto chiamarlo "cent' anni di moltitudine", perché la cifra del "molto" è quella che più connota Sordi. Alberto fu tante cose prima di diventare il Sordi nazionale: comparsa, cantante, teatrante, doppiatore, personaggio radiofonico. E fu tante cose anche quando fu consacrato dal successo: lo dimostra la sua capacità di adattarsi ai ruoli più diversi e di fare di ogni personaggio un archetipo, reale più che ideale: il Vigile, il Medico, il Soldato, il Borghese, il Marchese sono tutt' oggi la quintessenza dell'italiano medio. Sta proprio nella capacità di raccontare i mille e uno Sordi la bellezza del libro A Roma con Alberto Sordi. Da Trastevere a Kansas City (Giulio Perrone, pp. 288, euro 18) in cui l'autore Nicola Manupelli si insinua, con grande conoscenza ed empatia, nelle pieghe biografiche e cinematografiche del celebre attore: un dedalo di identità e aneddoti come le vie di Roma lungo le quali lui si inoltra, ripercorrendo i passi di Sordi. Tra le tante maschere indossate da Albertone, la più decisiva fu quella dell'"ameromano", un po' romano e un po' americano. La parlata simil-inglese tornò utile a Sordi allorché ottenne il suo primo vero ruolo per il cinema, il compito di doppiare Oliver Hardy. E si rivelò essenziale quando si trattò di interpretare la parte del protagonista in Un americano a Roma, che lo portò al successo. In quel film, ricorda Manupelli, tra un «you take la tua street» e un «Attention, nun annà a destra», Sordi «mescola romanesco e idiomi inglesi storpiati, creando una vera e propria lingua». Un'altra maschera, meno nota ma importante, di cui all'inizio della carriera lui si avvalse, fu quella del finto mussoliniano. Alla nascita di Cinecittà, nel 1937, Sordi "sfruttò" la figura di Mussolini per ottenere qualche ruolo di comparsa, atteggiandosi ad amico del Duce. «Per fare la comparsa», raccontava Sordi, «bisognava avere il bijetto e tutto era in mano ai capigruppo» che «ci comandavano a bastonate. Per evitare le botte mi inventai che ero amico di Mussolini. Conosci il Duce? Me lo puoi presentare?, mi disse il capogruppo. Come no! risposi. Se mi dai quarche bijetto in più e quarche botta de meno!». Fu anche grazie a quella simulazione che Sordi ottenne la possibilità di entrare nel circuito e prendere parte a pellicole come Scipione l'Africano e Il feroce Saladino. Erano gli anni, d'altronde, in cui Sordi viveva la spettacolarizzazione del regime come fosse la sceneggiatura di un film: «Ognuno aveva un ruolo», diceva lui, «c'erano le comparse e i comprimari, gli attori e le attrici, e Mussolini era il capo comico, il primo attore. Lo spettacolo era in costume, infatti tutti vestivamo una divisa. Questo successo era inebriante per noi che non ci siamo mai resi conto di quello che stava succedendo davvero». A ciò contribuiva il suo arruolamento nell'esercito in modo soft: durante la guerra Sordi fu assegnato alla Banda Presidiaria; anziché imbracciare il fucile, suonava il sassofono. Fu solo dopo il bombardamento di San Lorenzo del 19 luglio 1943 che l'attore prese consapevolezza del dramma in cui era precipitata l'Italia. Lo sperimentò lui stesso all'indomani dell'Armistizio, quando rischiò di essere caricato su un camion tedesco. Ma la sua fortuna fu presentarsi in borghese in caserma: Sordi sfruttò il tempo di tornare a casa a mettersi la divisa per darsela a gambe e disertare. Un trucco simile a quello che adottò nel Dopoguerra, quando dovette presentarsi a teatro, in uno sketch satirico, con una divisa fascista. Il pubblico tuttavia non ne voleva più sapere del regime. «Una sera in pieno spettacolo», raccontò Sordi, «vedo entrare in sala un gruppo di scalmanati che, al grido di Bandiera Rossa, cominciano a vuotare latte di benzina sul pavimento. Successe il finimondo. Tirarono perfino una bomba. Io mi misi in borghese di corsa e mi mischiai a quelli che tumultuavano nella platea, fingendo di essere uno di loro». In questi atteggiamenti del Sordi uomo, tra scaltrezza, opportunismo, sagace vigliaccheria e repentini cambi di casacca per salvarsi la pellaccia si anticipano i tic e i trucchi che poi saranno propri del Sordi attore e ne decreteranno il successo. Forse non è così sbagliato pensare che gli italiani che Sordi interpretò erano un po' gli italiani che lo stesso Sordi era. In questo disincanto ironico e in questa capacità camaleontica stava d'altronde la sua grandezza, che lo portò a essere invidiato da alcuni totem della comicità italiana e a prendersi gioco degli idoli del tempo. Manupelli ricorda il rapporto conflittuale di Sordi con Aldo Fabrizi, il quale era convinto che l'altro, pur molto più giovane di lui, gli rubasse la scena e anche alcune idee, come quella in cui Sordi fa il gesto dell'ombrello nel film I vitelloni. Allo stesso modo Totò era geloso dell'attore romano di cui aveva intuito il talento e la voglia di protagonismo. E così, durante le riprese di un film, Totò e i re di Roma - come confida Enrico Vanzina -, «all'improvviso Totò sputò sul collo di Sordi. Improvvisando. Era un modo per riprendersi la scena». La mancanza di timore reverenziale di Sordi nei confronti dei grandi del cinema era palese anche nella sua abitudine di fare scherzi telefonici. Manupelli racconta di quando Sordi chiamò Amedeo Nazzari, attore noto per i film strappalacrime, fingendosi un suo fan: «Sono un suo grande ammiratore», gli disse. «Ho visto tutti i suoi film. Se mi potesse fare il piacere di incontrarla per un autografo». E quando quello accettò, Sordi aggiunse: «Be', perché sa una faccia da stronzo come la sua non è mica tanto facile incontrarla!». Un'altra volta Albertone chiamò De Sica, facendo la voce di Nazzari: «Vittorio sono rovinato», gli disse, «non ho più una lira». Siccome Nazzari veramente non se la passava bene, De Sica prese sul serio la richiesta di aiuto e organizzò una colletta. Quando Nazzari lo seppe, si arrabbiò moltissimo e sporse denuncia contro ignoti. Vittime delle beffe di Sordi furono anche Carlo Vanzina, svegliato in piena notte dall'attore che il giorno dopo sul set si prendeva pure il lusso di sbeffeggiarlo dicendo «Ahò, guarda com' è stanco». E Giulietta Masina, moglie di Federico Fellini, a cui Sordi telefonava facendo finta di essere un'amante del regista e minacciando di andare a trovarla a casa. Goliardie che possono sembrare gli scherzetti di un borghese piccolo piccolo e invece erano le manifestazioni di un attore grande grande. riproduzione riservata.

Andrea Scarpa per il Messaggero il 15 settembre 2020. Diceva spesso, Albertone, che non gli piaceva andare in tv. In quella famosissima puntata di Studio Uno, anno 1966, quella dello sketch con Mina e della battuta che oggi qualcuno potrebbe addirittura definire politicamente scorretta - «Mina, Minona, quanto sei bella, sei la più brava cantante del mondo. Sei grande, grande, sei na fagottata de roba, sei» - poco prima aveva raccontato il suo rapporto con il piccolo schermo.  «Io non vado tanto volentieri in televisione perché ho iniziato con la radio e lì è tutto diverso. Chi ascolta segue in religioso silenzio, oggi quando guardano la tv le persone parlano al telefono, mangiano, litigano... Alberto Sordi? A me quello nun me fa ride.... Ao! Che ve siete ammattiti?».  E giù a ridere tutto lo studio, con Mina piegata in due. In realtà ci andava poco, è vero, ma lo faceva sempre con piacere, calibrando giustamente le apparizioni per lasciare sempre il segno. Ovunque e con tutti: da Mina alle gemelle Kessler, a Raffaella Carrà. Con quest' ultima, nel 1971, scrisse addirittura una piccola grande pagina di storia del costume italiano. Che cominciò sul primo canale della Rai il 13 novembre di quell' anno, due settimane prima del suo intervento. A raccontarcelo è proprio lei, la Raffa nazionale, 77 anni.

Durante la sesta puntata di Canzonissima, la popolare gara canora legata alla Lotteria di Capodanno, che lei conduceva per il secondo anno consecutivo con Corrado, cosa fece?

«Presentai Tuca tuca, canzone e balletto, assieme a Enzo Paolo Turchi. Le parole erano di Gianni Boncompagni, le musiche di Franco Pisano, le coreografie di Don Lurio. Scoppiò il finimondo».

Troppo sexy?

«Per l' Italia bacchettona di quegli anni, sì. I dirigenti Rai mi proibirono di ripresentarlo. In tv per il Tuca tuca non ci sarebbe mai più stato posto. Per loro era indecente e provocatorio. E poi erano arrivate lamentele anche dal Vaticano... Per mia fortuna, però, c' era Alberto Sordi».

Che intende dire?

«Prima dello scandalo aveva già accettato di venire in trasmissione come ospite, così lo invitai a cena a casa mia, gli raccontai tutto, e dopo aver mangiato misi su la canzone e gli feci vedere le mosse, esibendomi da sola per lui, per poi fargli la proposta: balleresti il Tuca tuca con me? Mi sarei aspettata una risposta tipo: Raffae', fammece pensa' un po'. E invece...».

E invece?

«Mi disse subito di si: Vengo al Delle Vittorie solo se ballo il Tuca tuca. Rimasi a bocca aperta dalla felicità: nessuno avrebbe detto no ad Alberto Sordi».

Come andò?

«La serata fu memorabile. Iniziai l' esibizione con Enzo Paolo Turchi e a metà del ballo entrò in scena Alberto. Mi sfiorò con le dita i seni e l' ombelico. In quel momento pensai che mi avrebbero sicuramente cacciata dalla Rai e non avrei mai più lavorato in tv. Invece fu un trionfo. Dopo lo sdoganamento di Sordi non ebbero più il coraggio di dire no al Tuca tuca, che era una trovata geniale, semplice e innocente. Lo ballavano pure le suore coi bambini negli asili. Un successo che va avanti da allora. Nel 2012 anche Madonna gli ha reso omaggio in un suo tour».

La prima cosa che le viene in mente del suo Sordi qual è?

«La battuta pronta. Era simpatico e gentile, Alberto. E non si dava mai arie da divo. Anche se avrebbe potuto farlo: era il numero uno».

Quando vi siete incontrati la prima volta?

«Tantissimi anni fa in uno studio tv. Eravamo lì per ragioni diverse ma finimmo per mangiare insieme in mensa. Alla fine mi chiese una sigaretta e da quel giorno ogni volta che c' incontravamo me ne chiedeva una, per lui era diventato un gesto scaramantico, quasi un portafortuna».

Secondo lei è stato grande per quale motivo?

«Perché ha saputo raccontare gli italiani come nessun altro. Ha descritto la nostra natura in profondità utilizzando gli strumenti della simpatia, ma anche della viltà, del cinismo, del coraggio, della seduzione... Tutti quei sentimenti, vizi e virtù che ci appartengono, lui li ha messi nella sua arte in maniera tanto generosa ed efficace quanto implacabile».

Il suo film preferito qual è?

«Se devo citarne uno: La grande guerra di Mario Monicelli, un capolavoro».

Cosa resterà di lui?

«I suoi lavori, che non invecchieranno mai, e anche l' affetto e la stima di chi lo ha conosciuto. Quando è morto, di nascosto, andai di sera in Campidoglio a rendergli omaggio. Aiutata dalle guardie della sicurezza, gentilissime, pregai per lui, lo guardai a lungo, e poi lo salutai. Sono sicura che mi abbia sentito. Fu emozionante. Come sempre, con lui. Ciao Alberto, grazie di tutto».

DAGOREPORT il 19 giugno 2020.  L'Italia è molte cose. Ma cos'è, veramente l'Italia? Da Garibaldi a Berlusconi, da Pasolini ad Alberto Sordi, le risposte sono varie ed avariate, e anche la letteratura ci ha messo bocca (da "I promessi sposi" di Manzoni a "Fratelli d'Italia" di Arbasino). Ma se volessimo un'Italia da identificare senza esitazioni, un crogiolo (possibilmente umano) nel quale vedere l’etica e la cotica, l’ingenuità e il cinismo, il Vaticano dello Spirito e il Vesuvio della carne, la forza e la scorza, le pippe e le frappe, io credo che un "nume" più potente e lampante di Alberto Sordi non si potrebbe trovare. Il suo nome è finito nella storia dell'avanspettacolo, del cinema (solo post-mortem), della televisione (solo per le repliche estive), della commedia dell'arte. Era invece nella storia dei cataclismi d'Italia che andava messo Albertone. Un cataclisma ben vivo, benché centenario. Perché un ciclone, un tornado non muore mai, al massimo cambia nome, ma gira attorno a noi, muta l'aspetto, abbassa la guardia, si addolcisce nelle metamorfosi, poi torna a colpire, distruttivo. Sordi, come tutte le cose pericolose (la sua antica, meravigliosa, dignitosa cattiveria), prescinde dalle trame, non ha mai bisogno di alibi contenutistici/ideologici, come succede a gran parte dei nostri Nanni Moretti. La sua arte rappresenta sempre e solo una disposizione dello spirito, ambigua, sfuggente, volgare, quindi autentica, scandalosa, quindi totalmente amorale ma viva. Di qui ha origine il malcelato disprezzo verso Sordi, con le solite accuse idiote di essere stato sempre un ‘’fascista” (Monicelli), un “balilla della piccola borghesia’’ (Furio Scarpelli), un ‘’trombone’’ (Tognazzi e Villaggio), avanti il Moretti di “Te lo meriti Alberto Sordi”, per finire con Pasolini: “Della sua comicità ridiamo solo noi italiani, ridiamo, e usciamo dal cinema vergognandoci di aver riso, perché abbiamo riso sulla nostra viltà, sul nostro qualunquismo, sul nostro infantilismo”. Invece Sordi è stato molto importante per noi tutti, negli anni passati. Ci ha mostrato come eravamo. Come eravamo conformisti e tracotanti; come eravamo mammisti e piagnoni. Mostrandocelo ci ha consentito non dico di eliminare ma certo di contrastare, di limitare questi difetti del “carattere nazionale”. Di esserne consapevoli, quanto meno. Di più: da tempo penso che il nostro paese dovrebbe pagare i diritti ad Albertone e al suo mitico sceneggiatore, il veneto Rodolfo Sonego. Sono loro che hanno inventato le terribili macchiette che gli italiani hanno assunto a modelli di vita (vedi lo straordinario libro di Tatti Sanguineti, “Il cervello di Alberto Sordi – Rodolfo Sonego e il suo cinema”, Adelphi). “Te lo meriti Alberto Sordi”, mi frullava nella testa caracollando verso la Chiesa degli Artisti di Piazza del Popolo, dove l’esimio avvocato Giorgio Assumma aveva invitato un drappello di amici per una messa in gloria del centenario di Sordi il Buono: tutti in ginocchio, da Gianni Letta a Vittorio Storaro con figlio, da Pippo Baudo a Lino Banfi, da Rutelli & Palombelli a Milly Carlucci, da Angiola Armellini a Dante Ferretti & Francesca Lo Schiavo, per chiudere con la prezzemolona Marisela Federici. Tutti calzavano la mascherina, soprattutto nera e l’effetto era proprio da film di Sordi nei panni di Zorro. La scelta della chiesa non è stata casuale: qui si trova una straordinaria cappella, a lato della sacrestia, che fu restaurata dal “taccagno” de Trastevere. Che avaro non era per nulla ma non aveva la vanità di fare comunicati ai giornali per le sue opere di bene, vedi la donazione del terreno dove oggi sorge il Campus Biomedico dell’Opus Dei. Dopo messa con coro e comunione, ricordi e aneddoti di Assumma e Baudo, l’aitante don Walter Insero ci ha accompagnato sul terrazzo della chiesa per un aperitivo di crodini e patatine rinforzato da una torta rustica eccellente. Chiacchiere e gnam-gnam. Colpiva che lo sguardo dei presenti sfuggiva di sbirciare la tristezza di piazza del Popolo che alle 20 era già semideserta. Essì, deve passa’ ‘a nuttata. Meglio godersi la bellezza immortale di Villa Medici e Trinità dei Monti. Essì, mejo Sordi che stronzi.

Caro Nanni avevi ragione: Alberto Sordi ce lo meritiamo davvero. Il filo rosso che va da Leopardi a Sorrentino passa per Flaiano e Albertone. Uno scrittore spiega perché servono cinismo e cattiveria per raccontare gli italiani. Giuseppe Culicchia il 15 giugno 2020 su L'Espresso. «Ve lo meritate, Alberto Sordi». Così Nanni Moretti in “Ecce Bombo”, correva l’anno 1978. E oggi possiamo dire che sì, ce. «Ve lo meritate, Alberto Sordi». Così Nanni Moretti in “Ecce Bombo”, correva l’anno 1978. E oggi possiamo dire che sì, ce lo siamo meritato l’Albertone Nazionale. Perché tra i tanti Mostri Sacri del cinema italiano, da Gassman a Mastroianni a Manfredi, passando per la Loren la Lollo e la Vitti, nessuno come lui ha saputo raccontare le nostre ipocrisie, il nostro conformismo, la nostra vigliaccheria, la nostra piaggeria, la nostra doppiezza all’insegna del sempiterno Franza o Spagna purché se magna, il nostro immarcescibile “tengo famiglia”. Tuttavia Alberto Sordi non è stato soltanto un grande attore italiano, se non forse il più grande in assoluto, ma anche un grande antropologo, capace di impersonare i sempiterni caratteri di un popolo intero in film tragicomici ma a ben vedere soprattutto cattivi, addirittura feroci nel loro mettere a nudo le viltà e le debolezze di un’Italia, quella del dopoguerra, ansiosa di lasciarsi alle spalle il fascismo e la guerra civile senza mai far davvero i conti con se stessa e di abbracciare con il Boom e il passaggio da Paese agricolo a potenza industriale la nuova religione del consumismo: vedi non solo le “Lettere Corsare” di Pier Paolo Pasolini ma per l’appunto anche Alberto Nardi, il personaggio interpretato da Sordi ne “Il vedovo”. Un progetto inedito conservato come un segreto di Stato. Dagli archivi di Furio Scarpelli affiora una storia rimasta in sospeso. Insieme al mistero di una telefonata: di Cossiga. In questo film girato nel 1959 da quell’altro gigante del cinema italiano che è stato e che rimane Dino Risi, vediamo il Nostro al suo meglio - al fianco di una straordinaria Franca Valeri - nei panni di un improbabile imprenditore roso dall’invidia nei confronti della ricca moglie milanese, lei sì capace di condurre come si deve la sua azienda ancorché consapevole di aver sposato un “cretinetti”. C’è, in quel personaggio convinto che per avere successo nella vita bastino solo “la fortuna e le conoscenze”, il ritratto impietoso dell’italiano medio che confidando nello stellone s’arrangia, s’arrabatta, s’improvvisa, e a suon di cambiali finisce fatalmente indebitato fin sopra i capelli, visto che oltretutto si è fatto l’amante e conduce una vita alquanto al di sopra delle proprie possibilità. Di modo che progettando di uccidere la moglie per ereditarne le cospicue fortune, l’industriale fallito Alberto Nardi finisce per portare sul grande schermo con una mimica e una comicità straordinarie il peggio di un Paese intero, destinato di lì a poco a dimostrarsi incapace di progetti seri e di lungo periodo, e rivelandosi poi pronto a fare cassa nei decenni successivi - finito da un pezzo il Miracolo Italiano e svanito il sogno berlusconiano di un remake - svendendo e/o privatizzando aziende e servizi: nel caso della pellicola, e non casualmente, i terreni agricoli e le vacche, di cui quando s’illude che la moglie sia deceduta in un incidente ferroviario il Nardi vuole disfarsi per fare “una bella speculazione edilizia”. Già nel 1953 del resto il giovane Alberto diretto da Federico Fellini ne “I Vitelloni” fa il gesto dell’ombrello a un gruppo di operai cantonieri al lavoro su una strada, apostrofandoli col celebre «Lavoratori?!». In quella scena, ecco l’Italia che da sempre si ritiene depositaria della furbizia e in fondo disprezza chi si guadagna il pane onestamente: dopotutto, siamo pur sempre il Paese ai vertici delle classifiche mondiali in fatto di evasione fiscale. Ben prima dello scandalo che travolse l’allora ministro della Sanità Poggiolini, ecco Sordi nei panni del dottor Tersilli ne “Il medico della mutua”. Uscito per la regia di Luigi Zampa e con la colonna sonora di Piero Piccioni nel fatale 1968 - l’anno che segnò la fine del Boom e l’inizio di una contestazione poi sfociata nei cosiddetti Anni di Piombo - il film denuncia con largo anticipo l’italica malasanità, e lo fa prendendo di mira non solo una classe medica pronta a tutto pur di mettere le mani sul prezioso patrimonio costituito da un popolo di mutuati, ma altresì il potere capillare delle case farmaceutiche, ingolosite d’altronde da masse di ipocondriaci con gli stipetti stracolmi di medicinali spesso destinati a rimanere inutilizzati. Di nuovo, pur di ritagliarsi il suo posto al sole il dottor Tersilli si mostra disposto a qualsiasi cosa, e passando dalla Vespa all’utilitaria e poi alla moglie bella e ricca con tanto di attico con vista sui tetti della Capitale, prima abbandona la fidanzata innamorata ma onesta e perciò povera, poi illude la consorte di un medico in punto di morte dotato di un nutritissimo parco mutuati - interpretata da una bravissima Bice Valori - per accaparrarsi il parco mutuati medesimo, e infine, nel seguito girato da Luciano Salce nel 1969 e intitolato “Il prof. Dott. Guido Tersilli primario della clinica Villa Celeste convenzionata con le mutue”, apre una struttura privata tutta sua arricchendosi ulteriormente a scapito di malati veri e immaginari. E poi ancora nel 1959 ecco il Sordi che diretto da Giorgio Bianchi ne “Il moralista” interpreta l’irreprensibile Agostino, Segretario Generale per la Moralità Pubblica e dunque censore dai modi assai democristiani ma a capo di un florido giro di prostituzione; e un quindicennio più tardi, nel 1974, il Sordi che diventato regista di se stesso gira “Finché c’è guerra c’è speranza”, nel quale il protagonista fa soldi vendendo armi illegalmente ad alcuni Paesi africani. Insomma: l’attore (e regista) nato nel cuore di Trastevere il 15 giugno del 1920 è parente stretto del Leopardi del “Discorso sopra i costumi degli italiani”, del Flaiano del “Diario notturno”, dell’Arbasino di “Paesaggi italiani con zombi”: a loro volta capaci di uno sguardo antropologico sugli italiani, e dunque in grado di individuare tratti destinati a restare immutati nel carattere di questo nostro popolo fatto non solo di santi, poeti e navigatori. Se Leopardi sottolinea degli italiani la mancanza di “buon tuono”, rilevando come in Italia si rida di tutto, e Flaiano mette in scena una Roma decadente e corrotta pressoché identica a quella poi portata al cinema da Paolo Sorrentino col suo La Grande Bellezza, le “mignottone tivù” categorizzate da Arbasino restano come sappiamo un evergreen. Ma Alberto Sordi se ne sta lì, di fianco a loro: e sì, davvero ce lo siamo meritato.

Alberto Sordi, storia di un italiano in 100 tappe. Pubblicato lunedì, 15 giugno 2020 da Rita Celi e Chiara Ugolini su La Repubblica.it. Il 15 giugno di cento anni fa nasceva uno dei volti più importanti e amati del nostro cinema. Tra aneddoti, citazioni e curiosità, ripercorriamo la sua straordinaria carriera.

1. Alberto Sordi è nato il 15 giugno 1920 in via San Cosimato 7 a Trastevere in una casa che non c'è più, ma al suo posto c'è una targa che lo ricorda.

2. La mamma è maestra, il papà è professore di musica e basso tuba dell'orchestra del Teatro dell'Opera di Roma.

3. Aveva tre fratelli, le sorelle Savina e Aurelia cui era legatissimo e il fratello Giuseppe, detto Pino. In realtà lui era il quintogenito perché prima di lui era nato un altro bambino, chiamato pure Alberto, che era morto dopo pochi giorni.

4. Alle elementari già iniziava a coltivare la passione per la recitazione, infatti faceva parte del Teatrino delle marionette, diretto dal professor Parodi un insegnante di ginnastica con la passione per il teatro.

5. Da bambino ha fatto parte del coro delle voci bianche della Cappella Sistina finché un mattino, da un giorno all'altro, gli cambiò la voce e dovette abbandonare il coro.

6. Alberto Sordi nel 1927: "Ero un fusto, ero bello come er sole, un pupone bello e riccio, me chiamavano 'faccia d'angelo'. Non c'era ragazzina che non s'innamorasse de me. Quando, a sette anni, vinsi il concorso 'Bimbi belli', non potevo più uscì, più annà in giro. Le ragazze me strappavano i vestiti, come fecero a Tyrone Power quando venne a Roma per sposarsi con Linda Chistian" (Costanzo Costantini, Superveleno [...], Roma, Newton Compton, 1989).

7. Nel 1936 incise un disco di fiabe per bambini per la casa discografica Fonit e con il ricavato partì per Milano, dove si iscrisse al corso di recitazione all'Accademia dei filodrammatici dove però venne espulso per la sua cadenza romana.

8. Tornato a Roma cominciò a fare la comparsa a Cinecittà, fu un soldato romano nel film Scipione l'africano.

9. Ricordava "dovevo trovarmi tutti i giorni alle 4 in piazza Tuscolo, lì arrivavano dei camion che ci caricavano e ci portavano fino a Cinecittà. C'era tutta Roma, mi stupii che ci fosse tanta gente con la passione per il cinema. Solo dopo capii che in realtà la maggior parte di loro era lì per le 10 lire del compenso, ma io no. Io avrei fatto qualsiasi sacrificio per riuscirci".

10. La grande occasione gli venne offerta dal concorso bandito dalla Mgm nel 1937 per il doppiaggio di Laurel & Hardy. Lo vinse e da allora, per più di dieci anni, prestò la sua voce a Oliver Hardy. Ma ha doppiato anche Robert Mitchum in Notte senza fine, Anthony Quinn in Buffalo Bill, e anche Marcello Mastroianni in Domenica d'agosto.

11. Del 1950 l'incontro con il vero Oliver Hardy in una serata a Villa Aldobrandini in cui  l'attore si esibì dietro il sipario per far emozionare i presenti sentendo Ollio parlare in italiano e poi, terminata la performance, uscì per rivelarsi e godersi gli applausi.

12. Sordi cominciò a lavorare nella rivista, nel teatro leggero ma quando finalmente cominciava a ingranare venne chiamato militare. Entrò nella banda militare del regio Esercito, era il 1940, dove suonava i piatti e i timpani.

13. Tra i suoi primi sostenitori ci fu il nonno materno Primo Righetti che gli diede un po' di soldi e gli comprò il suo primo smoking.

14. Tra i suoi primi ruoli ci fu anche quello dello stilé, che nel gergo dell'epoca era chi in frac bianco o nero e distribuendo sorrisi accompagnava la soubrette della rivista sul proscenio a prendere gli applausi.

15. La sua prima grande occasione nel cinema gli viene data da Mario Mattoli nel film I tre aquilotti su un soggetto del figlio del Duce, Vittorio Mussolini (sotto pseudonimo), sull'amicizia tra tre allievi aviatori.

16. La sua ultima partecipazione sul palcoscenico fu nel 1953 con Wanda Osiris, ma alla rivista rimase molto legato tanto che nel 1973 ha diretto poi un suo film da regista con Monica Vitti, Polvere di stelle dedicato proprio a quel mondo.

16. È del 1969 il primo film della coppia Sordi-Vitti, Amore mio aiutami. Quella che tutti ricordano è la sequenza sulla spiaggia di Sabaudia in cui il personaggio di Monica Vitti viene schiaffeggiata. Era però una giovanissima Fiorella Mannoia la controfigura.

17. Tra i titoli più celebri della coppia c'è Polvere di stelle con la indimenticabile Ma 'ndo Hawaii, testo di Alberto Sordi, musica di Piero Piccioni, canzone simbolo del film.

18. Nella seconda metà degli anni Quaranta Sordi fece fortuna in radio, con personaggi ispirati al mondo dell'Azione Cattolica che confluirono nella satira I compagnucci della parrocchietta.

19. Sul personaggio di Alberto, innamorato perso della "signorina Margherita" (ricordate il celebre grido?), goffo e infantile, verrà scritto anche il film (in collaborazione con Cesare Zavattini) Mamma mia, che impressione (1951).

20. Per quel film fonda con Vittorio De Sica una sua casa di produzione, la P.F.C., Produzione Film Comici, ma il film verrà accolto freddamente.

21. Un altro personaggio nato in radio e che avrà anche la sua versione cinematografica è invece Mario Pio, che farà capolino anche nel film Ci troviamo in galleria di Mauro Bolognini.

22. Nel 1948 ebbe un programma radiofonico tutto suo, Vi parla Alberto Sordi, all'epoca il divismo in radio non esisteva e faticò non poco a convincere il direttore della rete a concedergli una trasmissione tutta sua.

23. Come miglior attore radiofonico del 1949 ricevette la Maschera d'argento, riconoscimento che riconquistò anche in seguito.

24. Alla fine degli anni Quaranta compose e incise anche molte canzoni Nonnetta, Il carcerato, Il gatto, Il milionario.

25. Sordi si è esibito anche a Sanremo come ospite nel 1981 con il brano E va', e và di Migliacci e Mattone.

26. Federico Fellini e Alberto Sordi avevano la stessa età ed erano amici prima del cinema. Dopo aver sposato Giulietta Masina, Fellini andò a vederlo a teatro e dal palco Sordi disse al pubblico: "Non sono andato alle nozze di questo mio amico perché stavo qua, fategli un regalo che costa poco: un applauso".

27. Lo sceicco bianco, primo film che Fellini firmò solo, all'uscita (1952) andò malissimo: boicottato dagli editori dei fumetti, non vinse nulla a Venezia. Ora è un film di culto e per il doppio centenario è tornato in versione restaurata.

28. Sordi era stato il primo sostenitore di questo racconto e di questo personaggio "che conoscevo molto bene, uno che non sapeva neppure parlare, pronunciare una parola ma vestito da Sceicco bianco faceva innamorare tutte le lettrici dei giornali a fumetti" diceva l'attore.

29. Nonostante il poco successo dello Sceicco bianco Fellini riuscì a imporre Sordi ai produttori anche per I vitelloni però il nome dell'attore romano non si trovava né sulla locandina né sui titoli di testa delle prime venti copie.

30. Per il ruolo di uno dei vitelloni Alberto vince il Nastro d'argento come miglior attore non protagonista.

31. Il 1954 è l'anno della consacrazione cinematografica per Sordi: in un solo anno escono 13 film da lui interpretati, fra cui I vitelloni, Il seduttore, Il matrimonio e Un americano a Roma di Steno.

32. Di quell'annata pazzesca il film che sicuramente rimane nella mente è quello di Steno. Il personaggio di Ferdinando "Nando" Mericoni era stato creato in un film dell'anno precedente Un giorno in Pretura ma si era conquistato un film tutto suo.

33. La celebre battuta "Maccarone, m'hai provocato e io ti distruggo adesso, maccarone! Io me te magno..." è una delle più famose del cinema italiano. Sordi raccontava che fosse stata girata in un solo ciak.

34. Dopo Un americano a Roma Sordi partì per gli Stati Uniti con il produttore Goffredo Lombardo, perché doveva girare Un romano a New York ma poi il film saltò.

35. L'anno dopo tornò negli Stati Uniti e andò a Kansas City, patria di Nando Mericoni, dove ricevette le chiavi della città e diventò governatore onorario.

36. Tra il 1959 e il 1960 interpretò due film sui due conflitti mondiali, La grande guerra di Mario Monicelli e Tutti a casa di Luigi Comencini.

37. Nel 1960 firmò un contratto di esclusiva con Dino De Laurentiis, era un contratto per tre film l'anno, contratto pare fosse molto buono. Con lo storico produttore si alternarono momenti di accordo e altri di tensione.

38. Uno dei personaggi a cui era più legato è il protagonista di Una vita difficile di Dino Risi (1961) era il giornalista Silvio Magnozzi. Raccontava che Togliatti lo ringraziò per "quel ritratto di italiano idealista vessato dalla realtà".

39. Con Il diavolo (1963) raggiunse la notorietà negli Stati Uniti dove ricevette il Globo d'oro e con lo stesso film vinse anche L'Orso d'oro a Berlino.

40. Il film svedese fu uno dei primi passi verso la regia, già sceneggiatore di se stesso Sordi in questo film, firmato da Gian Luigi Polidoro, improvvisò moltissimo.

41. Ha curato la regia di una ventina di film (calcolando anche i film a episodi), il primo fu Fumo di Londra nel 1966, che era il suo film da regista cui era più affezionato.

42. Tra le tante colleghe con cui ha fatto coppia rimane famoso il duetto con Mina durante la trasmissione televisiva Studio Uno. L'attore romano alla Tigre: "Quanto sei bella... sei la più grande cantante del mondo. Sei grande grande grande... sei 'na fagottata de roba".

43. Con Franca Valeri, che a fine luglio compie 100 anni, ha girato sette film, i più famosi sono Il vedovo e Un eroe dei nostri tempi. Di lui la straordinaria attrice dice: "Sembrava svagato, ma era molto professionale e dedito al lavoro".

44. Nel '67 finalmente gira il suo film americano, si intitola Un italiano in America, ne cura la regia da una sceneggiatura firmata con Rodolfo Sonego. Nel film è il figlio di Vittorio De Sica.

45. Il medico della mutua di Luigi Zampa, storia della scalata di un dottore neolaureato fino a primario di una clinica di chirurgia estetica, fu il maggior incasso della stagione del '68-'69 con più di 3 miliardi di lire al botteghino.

46. Quel saltino, inconfondibile passo di Guido Tersilli, è diventato un passo riconosciuto. In alcune scuole di danza romane ci si riferisce a quel saltello come "il passo di Sordi".

47. Nell'ultima parte della sua carriera Sordi ha regalato opere di larghissima diffusione come Il marchese del Grillo del 1981 di Mario Monicelli, con la battuta più celebre e rappresentativa del personaggio: "Perché io so io, e voi nun siete un c..."

48. Il tassinaro del 1983 racconta gli incontri di un tassista con vari viaggiatori tra cui Federico Fellini e Giulio Andreotti.

49. Nella sua lunga carriera ha ricevuto 9 David di Donatello, 6 Nastri d'argento, un  Orso d'oro e un Orso d'argento a Berlino, un Golden Globe e il Leone d'oro alla carriera alla Mostra del cinema di Venezia.

50. Aveva però un rimpianto, quello di non essere mai stato candidato dall'Italia agli Oscar. Nel marzo del 2003, un mese dopo la sua morte, venne ricordato tra le grandi star che ci avevano lasciato durante la cerimonia degli Academy Award.

51. Negli Stati Uniti però Sordi riscosse grande successo. Nel '97 Los Angeles e San Francisco gli dedicano una rassegna di 24 film con grandissimo successo e soddisfazione dell'attore.

52. Con il suo film Nestore - ultima corsa, storia di un vetturino, la sua carrozzella e il suo cavallo ormai vecchio, girò per molto tempo le scuole italiane. Il film fu scelto dal ministero della Pubblica istruzione per promuovere una campagna di sensibilizzazione sulle problematiche degli anziani e del rispetto degli animali.

53. Aveva una grande passione per gli animali. Partecipò anche al progetto Nestore per costruire sulla Aurelia una ricovero per i cavalli anziani.

54. Storia di un italiano, programma tv che Sordi ha realizzato dal 1979 al 1986 con l'intento di illustrare il Novecento italiano con spezzoni dei suoi lungometraggi e filmati Luce e Rai Teche. Diventa lo storiografo d'Italia.

55. Sordi è stato sindaco onorario di Roma per un giorno: Francesco Rutelli gli ha ceduto la fascia tricolore il 15 giugno 2000, in occasione del suo ottantesimo compleanno.

56. La grande villa in via Druso, davanti alle Terme di Caracalla, diventa la sua casa a partire dal 1958. Pare che se ne sia innamorato subito e abbia deciso di acquistarla il giorno stesso che l'ha vista.

57. Ora è diventata una casa museo e la mostra per il centenario (che avrebbe dovuto essere da marzo a giugno) sarà inaugurata il 16 settembre.

58. Tra le curiosità e i segreti di casa Sordi che verranno rivelati ci sono tantissimi oggetti preziosi di antiquariato di cui l'attore era appassionato e memorabilia cinematografici come ciak e elementi di scena.

59. Tra gli ambienti più interessanti della casa ci sono il teatro e la sala cinematografica ma anche la barberia di Sordi dove poteva preparare i trucchi dei suoi personaggi.

60. Alberto Sordi ha avuto 18 cani, sono tutti sepolti nella sua villa romana. Sopra ogni sepultura c'è una pianta di rose.

61. Tra Sordi e Carlo Verdone si creò un rapporto molto forte ma il ricordo del primo incontro non è sereno perché Verdone, bambino a Venezia, gli chiese un autografo e Sordi lo prese in giro dicendogli "non te lo faccio perché sei russo", alla fine gli fece uno scarabocchio ma il ragazzino Carlo finì in lacrime.

62. La coppia cinematografica sbancherà i botteghini nel Natale del 1982 con In viaggio con papà, dove sono un padre e un figlio, scontro - incontro tra due diverse generazioni di comicità "alla romana". Dirige Sordi.

63. Quattro anni dopo la coppia si ribalta. Con Troppo forte è Sordi a essere diretto da Carlo Verdone.

64. In tv Sordi è stato don Abbondio nella versione per il piccolo schermo dei Promessi sposi su Rai 1 con la regia di Salvatore Nocita.

65. Alberto Sordi è stato tra gli attori più prolifici del cinema italiano: oltre 150 film in quasi sessant'anni di carriera, toccando tutti i generi.

66. Tra le tante attività filantropiche di Sordi c'è stata la creazione del Campus Biomedico di Trigoria che è stato eretto sui 25 ettari di terreno regalati dall'attore.

67. È stato premiato nella Giornata mondiale del gatto per le sue iniziative a favore degli animali.

68. Nel 1997 in occasione delle Passeggiate romane i vigili urbani della città gli conferiscono un casco d'ordinanza, un'onorificenza e un fischietto.

69. È morto il 25 febbraio 2003 nella sua casa. La camera ardente allestita al Campidoglio viene visitata da migliaia e migliaia di persone che si mettono in coda per ore per un ultimo saluto.

70. La sua ultima apparizione pubblica è stata in video durante una serata organizzata in suo onore al Teatro Ambra Jovinelli di Roma il 17 dicembre 2002. La malattia gli impedì di partecipare di persona e la sua ultima parola rivolta al pubblico fu: "Addio".

71. Alle sue esequie, il 27 febbraio nella Basilica di San Giovanni in Laterano, parteciparono oltre 250 mila persone.

72. Nel dicembre di quell'anno la galleria Colonna, nel centro di Roma, diventa galleria Alberto Sordi.

73. Nello stesso anno anche una dedica cinematografica. Ettore Scola, che lo aveva diretto diverse volte da Riusciranno i nostri eroi a Romanzo di un giovane povero, gli dedica il suo film Gente di Roma.

74. Ha ricevuto la laurea honoris causa in Scienze delle comunicazioni dall'università di Salerno e dallo Iulm di Milano.

75. Sordi era, ovviamente, tifoso della Roma. Alla Gazzetta dello sport nel 2001 dichiarò "Sono giallorosso fin da quando giocavo con una palla di stracci. Lo scudetto dell'83? Imbandierai le finestre di giallorosso. La mia casa è in una via di scorrimento mi faceva piacere far vedere che anche io partecipavo ai festeggiamenti".

76. Non si è mai sposato. "Per me la fase più bella dell'amore è quella del fidanzamento, proprio lo stato primo diciamo, è al momento in cui devo timbrare, allora m'impaurisco e con grande sincerità dico che non me la sento. Non sono contrario al matrimonio, anzi a me fa piacere quando qualcuno mi annuncia: mi sposo, dico sposatevi, addio mia bella signora, va pure, segui pure il tuo destino" diceva.

77. L'unica relazione ufficiale è di cui si ha notizia è stata quella iniziata nel 1942 e durata nove anni con la collega Andreina Pagnani che aveva 14 anni più di lui.

78. Moltissime le celebrazioni in tv. Il 15 giugno RaiMovie manderà in onda il capolavoro di Federico Fellini I vitelloni.

79. Su RaiPlay disponibili una selezione di dodici film - da Fumo di Londra a Troppo forte - oltre Storia di un italiano e Sordi, un italiano a Roma e alla recente fiction Permette? Alberto Sordi.

80. Luca Manfredi (figlio del grande Nino), regista della fiction Permette? Alberto Sordi, ha spiegato che il suo è stato "un omaggio affettuoso" a un artista che "con più di duecento film ci ha regalato personaggi indimenticabili".

81. Edoardo Pesce così racconta il lavoro che ha fatto per interpretare Alberto Sordi nella fiction: "Mi sono messo 'la mascherà di Sordi, come un napoletano indosserebbe quella di Pulcinella. Era l'unico modo per interpretarlo. Anche il suo famoso saltello mi è venuto naturale. Il primo provino è durato otto ore, utile per tre scene fondamentali".

82. RaiStoria propone Un eroe dei nostri tempi di Mario Monicelli, musiche di Nino Rota, con Alberto Sordi, Franca Valeri e Giovanna Ralli. Martedì 16 seguirà il documentario di Enrico Salvatori Alberto Sordi che abbraccia e analizza 150 film e mezzo secolo di carriera tra cinema, radio e televisione.

83. Rai Premium celebra il grande attore con In nome del popolo sovrano (1990) di Luigi Magni, ambientato nella Roma papalina di metà Ottocento, seguito dal documentario Alberto Sordi - Un italiano come noi di Silvio Governi, un ritratto delineato attraverso materiali inediti, storie, aneddoti, testimonianze, spezzoni di film raccontati da Sabrina Impacciatore.

84. Cine34, il canale Mediaset dedicato al cinema, dedica sei serate dal 15 al 20 giugno con la rassegna Sordi 100 con tre film al giorno per un totale di 18 titoli tra cui Il vigile, Tutti dentro, Quelle strane occasioni, Il comune senso del pudore Io so che tu sai che io so Polvere di stelle in versione restaurata  e molti altri.

85. Su Rai 1 a mezzanotte di domenica 14 giugno Speciale Tg1 Paolo Sommaruga e Claudio Valeri ripercorrono la vita dell'attore dalla sua casa natale nel cuore di Trastevere alla villa che ospiterà la grande mostra per il centenario. Con ricordi e aneddoti di Carlo Verdone, Walter Veltroni, Enrico Vanzina e Stefania Sandrelli, Giovanna Ralli e Paola Comin.

86. Rai5 propone una serata evento con la trasposizione teatrale di uno dei film più importanti nella carriera di Sordi, Un borghese piccolo piccolo, tratto dall'omonimo romanzo di Vincenzo Cerami, con Massimo Dapporto. Regia di Fabrizio Coniglio, musiche di Nicola Piovani.

87. In occasione del centenario anche Infinity propone una selezione di titoli diretti e interpretati da Sordi, da Finché c'è guerra c'è speranza a In viaggio con papà, Lo sceicco bianco e molti altri.

88. Sky Cinema Collection apre la collezione Classic da lunedì 15 giugno con una giornata interamente dedicata ad Alberto Sordi con una serie di film tra cui Il medico della mutua di Luigi Zampa e Romanzo di un giovane povero di Ettore Scola.

89. Nel giorno del centenario La7 propone Riusciranno i nostri eroi  a ritrovare l'amico misteriosamente scomparso in Africa (1968) di Ettore Scola.

90. Molti anche i libri usciti a giugno in occasione dei 100 anni dalla nascita: Alberto Sordi. Una vita tutta da ridere è un ritratto dell'attore a cura del regista e storico del cinema Italo Moscati (Castelvecchi editore), un percorso lungo le strade del cinema, davanti e dietro la macchina da presa, per cercare di scoprire i segreti che lo hanno condotto al successo e poi al mito.

91. In libreria anche La Roma di Alberto Sordi di Valeria Arnaldi (Edizioni Olmata) che racconta il simbolo della romanità dell'attore che ha incarnato l'anima della Città eterna. Tra pubblico e privato, lo studio dell'immagine che Sordi ha costruito di se stesso, personalizzando ogni ruolo interpretato, ma anche della vita personale, che ha tutelato per privacy e pudore, ricostruita attraverso "indizi" celati nei film.

92. Giancarlo Governi in Storia di un italiano (edizioni Fandango) rievoca l'omonimo programma andato in onda su Rai 2 tra il '79 e l'86 che ha realizzato insienme a Sordi.

93. Il giornalista, critico e storico del cinema Alberto Anile nel suo Alberto Sordi (edizione Sabinae con Csc) ripercorre la carriera dell'attore, con la prefazione di Carlo Verdone.

94. Alberto Sordi segreto - amori nascosti, manie, rimpianti, maldicenze (Rubettino Editore) è il volume scritto dal giornalista, conduttore e soprattutto cugino di Sordi, Igor Righetti che lo ha definito "un po' una biografia corale, un po' libro inchiesta".

95. Paola Comin è stata addetta stampa degli ultimi dieci anni di vita di Alberto Sordi, gli ha filtrato le telefonate, le interviste e lo ha accompagnato nei vari festival in tutto il mondo, e racconta di aver provveduto sempre, quando arrivavano nei vari hotel di lusso, anche a sincerarsi che dalle tapparelle non filtrasse la luce "perché per la sua irrinunciabile pennichella quotidiana, rigorosamente in pigiama, l'attore voleva il buio assoluto".

96. In occasione del centenario della nascita di Albertone, Stefano Andreotti, figlio dell'ex leader della Dc, Giulio Andreotti, ha pubblicato su Facebook la lettera che l'attore scrisse nel 1990 al padre, all'epoca presidente del Consiglio, ringraziandolo per gli auguri: "Grazie presidente per il suo affettuoso pensiero. Tratteniamoci a lungo e bene altri tre o quattro decenni (dall'espressione del S.Padre) con la sua apostolica benedizione. Cento di questi giorni presidente dal suo dev.mo Alberto Sordi".

97. Nanni Moretti aveva inveito contro Alberto Sordi nel film Ecce bombo del 1978 ("Ma che siamo in un film di Alberto Sordi? Ve lo meritate Alberto Sordi, ve lo meritate"). Nel 2001 ai David di Donatello a consegnare il premio al regista per La stanza del figlio c'era sul palco, tra gli altri, proprio Alberto Sordi. Con visibile imbarazzo i due non si scambiarono neanche uno sguardo.

98. I due si erano già incontrati anche al Festival di Locarno nel '96 quando Sordi ha ricevuto il Pardino d'Argento alla carriera, ma non si erano trovati insieme sullo stesso palco.

99. Alberto Sordi è sepolto nellatomba monumentale che si trova al Cimitero del Verano di Roma (riquadro 24, fila 5, cappella I). Ogni anno in occasione degli anniversari della nascita e della morte il gruppo storico romano lo commemora con un picchetto d'onore.

100. Il centenario della nascita di Alberto Sordi sarà celebrato anche in Campidoglio con la sindaca Virginia Raggi, il presidente della Fondazione Museo Alberto Sordi, Italo Ormanni e, tra gli altri, Carlo Verdone e Christian De Sica. In quell'occasione verranno annunciate le nuove date della mostra che sarà inaugurata il 16 settembre e rimarrà aperta fino al 31 gennaio 2021. L'evento comprende la visita a Villa Sordi (in piazzale Numa Pompilio) e la mostra al teatro dei Dioscuri (via Piacenza 1)

Ariela piattelli per la Stampa il 15 giugno 2020. Nacque esattamente 100 anni fa a Roma, in un agglomerato di case popolari nel cuore di Trastevere, Alberto Sordi. Lì un evento gli cambiò la vita: a 3 anni finì sotto ad un'automobile, ne uscì salvo, e il popolo di Trastevere assieme alla famiglia gridò al miracolo. Quel giorno si tenne il suo primo vero spettacolo da protagonista: «Questo aneddoto me lo raccontò la sorella Aurelia», ricorda Luca Verdone, regista, che adesso sta lavorando per la Fondazione Alberto Sordi, di cui è curatore e consulente, ad una riedizione prodotta in collaborazione con Rai Cinema del programma televisivo Storia di un italiano, che Sordi fece nel '79. «Il giorno dell'incidente Alberto sfuggì dalle mani di sua madre, la signora Maria, e della sorella, e finì sotto ad una macchina. Davanti agli occhi e la disperazione di tutti ne uscì incolume camminando "a quattro zampe". Così le popolane in una specie di processione portarono il piccolo miracolato nella chiesa di Santa Maria in Trastevere, lo misero su un tronetto e iniziarono a cantare per ringraziare la Madonna». In quella chiesa Sordi fece poi da chierichetto, e la sua "carriera ecclesiastica" continuò quando fu scelto per il coro delle voci bianche alla Cappella Sistina. «Da bambino Alberto in realtà era un vero discolo» continua Luca Verdone che, come suo fratello Carlo, Sordi lo conosceva bene, sin da quando era bambino: «Eravamo vicini di casa, tiravamo i sassolini sulle finestre di Alberto, e lo chiamavamo a gran voce, Aurelia aveva paura che lo svegliassimo e andava su tutte le furie. Negli anni '80 divenne una frequentazione più assidua: Alberto veniva spesso da noi, mia madre gli preparava le sue amatissime fettuccine». La fede, il cattolicesimo, continuarono ad avere un posto di primo piano nella vita dell'Albertone nazionale. Nel Museo Alberto Sordi allestito nella sua casa, che aprirà ufficialmente il 16 settembre, ci sono tante fotografie con i Papi: «Li ha conosciuti tutti. Aveva un rapporto particolare con Giovanni Paolo II, ci sono moltissime foto con dediche. Alberto era un credente, devoto, osservante della teologia cattolica. Proprio come la sua famiglia. Lui non parlava mai delle sue opere pie, invece aiutava molte persone, anche economicamente. Faceva beneficenza, e l'ha fatta fino all'ultimo». Nei suoi oltre 150 personaggi ci sono anche i preti e i monsignori, ruoli che Sordi interpreta spesso per mettere a nudo una realtà, l'ipocrisia dei costumi, della società. «Il suo cinema è un mélange di vari elementi: era un grande osservatore della realtà, prendeva i personaggi veri dalla vita, li osservava e li riproponeva sul grande schermo. Faceva un lavoro di imitazione, soprattutto dei tic e delle manie. Nel bene e nel male. Ha interpretato dal barbiere al netturbino, dal mercante di armi al dirigente d'azienda. Li ha fatti tutti. Sordi è un campionario della tipologia sociale italiana. E' stato anche criticato per questo - dice Verdone, mentre indica un vecchio articolo di Pier Paolo Pasolini - qui Pasolini critica apertamente Sordi perché secondo lui rappresentava il peggio degli italiani e per questo non piaceva all'estero. Mentre Sordi rappresentava la piccola borghesia in tutti i suoi aspetti, Pasolini la disprezzava. Sordi invece voleva far riflettere, il suo cinema era uno specchio. Pasolini vedeva forse solo lo specchio, che indica i mali senza i rimedi». Anche sulla religione lo sguardo del cinema di Sordi è molto disilluso: «Credo che il rapporto con la religione nel suo cinema sia una boutade ironica su se stesso - conclude Verdone -. Di lui diceva che sarebbe andato in Paradiso, e che lì avrebbe avuto una suite». L'ironia, forse, di chi ci crede sul serio. 

Fulvia Caprara per la Stampa il 15 giugno 2020. Nessuno era mai stato così diretto, così intollerante, così irresistibile. Nella sequenza celeberrima di Ecce bombo, capelli lunghi, camicia bianca svolazzante fuori dai pantaloni, Nanni Moretti, esasperato, aggrediva l'avventore di un bar che discettava di italianità in un trionfo di qualunquismi. Sulla battuta «rossi e neri sono tutti uguali», il suo alter-ego Michele Apicella sbottava urlando: «Ma che siamo in un film di Alberto Sordi? Te lo meriti Alberto Sordi, te lo meriti». Il caso di lesa maestà divenne subito leggendario e lo stesso Moretti, molti anni dopo, in un video in cui parlava del suo cinema durante una lezione di Pilates, raccontava: «Il pubblico delle proiezioni di Ecce bombo era sempre generoso, disponibile, ridanciano... ma quando arrivava la battuta su Sordi calava in sala un gelo, come se avessi bestemmiato in chiesa». Eppure, del mito Alberto Sordi (che oggi sarà ricordato in Campidoglio nel centenario della nascita) fanno parte ricordi e testimonianze di quelli che non lo amarono affatto, ma che, anzi, leggendo nella sua opera l'esaltazione della cattiva coscienza italiana, gli imputarono i difetti che rappresentava. Dalla critica francese, ma anche di molti altri Paesi, che bacchettò l'abitudine sordiana di irridere il male fino alle sue più estreme conseguenze a quella radical-chic che gli imputava la matrice democristiana, furono in tanti, a suo tempo, prima che l'agiografia mettesse tutto a tacere, quelli che su Albertone ebbero da dire e ridire: «Alla comicità di Sordi - diceva Pier Paolo Pasolini - ridiamo solo noi italiani, ridiamo, e usciamo dal cinema vergognandoci di aver riso, perché abbiamo riso sulla nostra viltà, sul nostro qualunquismo, sul nostro infantilismo». Quel modo di far ridere, proseguiva l'autore, «quella comicità piccolo borghese e cattolica, fondamentalmente senza nessuna fede, senza nessun ideale, non urta e non urterà mai la censura italiana. Urta e urterà sempre chi possiede una sensibilità civica e morale, cioè la media dei pubblici francesi e anglosassoni». Attacchi e distinguo arrivavano anche dal suo mondo, dai compagni di strada che avvertivano diversità di comportamenti: «Tognazzi - racconta Goffredo Fofi nel suo libro Alberto Sordi L'Italia in bianco e nero (Mondadori) - diceva "non sono l'attore carismatico che ha fatto di tutto per esserlo, Sordi ha lavorato tutta la vita per essere quello che è oggi per il pubblico, l'Albertone nazionale. Io, invece, sono un Ughetto nazionale, modestamente, non ho fatto niente per essere un Ugone nazionale». E ancora: «Ho visto in tv l'ingresso di Sordi a Sanremo - commentava Tognazzi -, somigliava molto al Papa, mentre io continuo a somigliare solo a me stesso». Proprio sul piccolo schermo, nel novembre del '91, Sordi pronunciò una battuta che fece scalpore: «Oggi libertà e disordine vanno sottobraccio», mentre in passato, aggiunse in varie interviste, «portavamo tutti la divisa ed eravamo tutti uguali». Nel fiume di reazioni che seguì, due furono i commenti più netti: «Nessuna sorpresa - commentò Mario Monicelli -, Sordi è sempre stato fascista». E comunque, gli fece eco Furio Scarpelli, «I suoi non sono pensieri da fascista, ma da balilla». D'altra parte la sentenza di Fofi sul Sordi politico è categorica: «Uomo d'ordine, nuovo ricco, veterocattolico, nostalgico del fascismo, Alberto Sordi ebbe migliori frequentazioni e maggiori affinità non con i fascisti né con i comunisti, né con il meglio della tradizione cattolica legata al sociale e a ideali di carità, ma proprio con quella più fosca. Suo amico fu Andreotti e, almeno indirettamente, Cossiga». La scomparsa dell'artista, spiega Tatti Sanguineti, critico e autore del volume Il cervello di Alberto Sordi Rodolfo Sonego e il suo cinema (Adelphi), provocò la «monumentalizzazione» del fenomeno Sordi, un evento su cui Mario Monicelli, parlando con il regista Franco Maresco, si era espresso con l'abituale, lucida ironia: «Vorrei rivolgermi a Walter Veltroni, un caro amico, una persona gentile, vorrei pregarlo di evitare quelle manifestazioni gigantesche che si sono fatte per Togliatti, Berlinguer, oppure, più modestamente, per Fellini, Mastroianni, Sordi... vorrei che le cose fossero un tantino più regolari, più modeste, e un po' più divertenti». Con una frecciata trasversale, Paolo Villaggio era riuscito a inchiodare in un sol colpo sia Sordi che la romanità da lui così ben delineata: «Sordi è quello che ha fatto capire, più esattamente di tutti, quello che è il cinismo dei romani». Per loro, aggiungeva l'attore, «è stata una lezione e una terapia. Dopo Sordi, i romani hanno accettato l'idea di essere un pochettino come lui». -

Alberto Sordi nasceva 100 anni fa, la sua filmografia è la biografia dell’Italia. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 15 Giugno 2020. Molti anni fa eravamo al Festival di Gifuni, un evento cinematografico meridionale molto in voga. Alberto Sordi era accanto a me ed era estasiato dal pubblico di giovani e giovanissimi. Si alzò una ragazza e chiese, con forte accento: «Signor Sòrdi, scusate: il ginema segondo voi, ge l’ha un vuduro? E se sì, guale?». Alberto restò paralizzato. Faceva un suo personaggio, il suo: «Eh? Che dici, cara? Se il cinema cià un futuro? E che ne so io, cara? Che vòi che te dica? Dipenne da te, dipenne da voi se ciavrà un futuro. Perché me fai ste domande?». Sembrava stizzito come Mario Pio. Mario Pio era un suo personaggio radiofonico. Ci fu un tempo nell’immediato dopoguerra, in cui di Alberto Sordi si conosceva soltanto la voce e le sue invenzioni. Una di queste era Mario Pio: «Brondo? Qui Mario Pio, gon ghi parlo io?». Un altro era il “Conte Claro”, parodia della contessa Clara che furoreggiava sui rotocalchi dando lezioni di stile, vita, amore, moda e bon ton. Lui faceva la rubrica delle lettere alla radio: sempre con quell’accento romanesco un po’ virato sul burino che scambia dentali e labiali, “di” per ti e “bi” per pi: «Mi sgrive Marisa da Bordernone: Gonde Glaro, mi drovo in una derribbile ambascia…». E andava avanti. Immaginate: esistevano nelle case delle grosse radio, le stesse con cui avevamo ascoltato Radio Londra e che poi ci nutrivano di magnifici sceneggiati radiofonici con spreco di effetti speciali fatti solo di rumori: cigolii, spifferi di vento, i racconti del mistero di Edgar Allan Poe, poi i notiziari radio e l’uccellino che faceva da intervallo: sei trilli, quattro trilli e poi due. Voleva dire che la radio attendeva l’ora esatta trasmessa con quattro punti e una lunga linea: «Sono le ore quattordici. Giornale Radio, oggi il ministro degli Affari interni, onorevole Mario Scelba…». Da quella radio paludata, ufficiale, scandita, poi usciva come una perdita di follia dai circuiti la voce di questo incredibile personaggio che prendeva in giro divi di un altro mondo scomparso: quello dei rotocalchi, dei fotoromanzi e della letteratura popolare cinematografica. Un giorno mia nonna mi portò una copia del Messaggero in preda a una frenesia: «Guarda! Sai chi è questo? Questo è Alberto Sordi»? «Alberto Sordi? La voce della radio? Ha questa faccia un po’ qualsiasi tra il giovane salumiere e il fuoricorso di Giurisprudenza?» Era lui. Succedeva con la radio, dove le immagini te le dovevi fare da solo nella tua testa e poi non combaciavano. Il vero Alberto Sordi dal volto ancora ignoto era anche il geniale doppiaggio di Stan Laurel e Oliver Hardy, al secolo Stanlio e Ollio (era ancora un’Italia che storpiava i nomi stranieri, ribattezzando Donald Duck di Walt Disney come Paperino, quando gli ispanici lo traducevano fedelmente El Pato Donaldo) creando una lingua, una fonetica perfetta: l’italiano di accento inglese con tutta la consonantica e vocalica straziate che rendeva irresistibili due comici altrimenti puerili che Sordi rendeva non solo grotteschi ma anche drammatici. E poi arrivò il genio cinematografico. Genio assoluto, senza rivali né ieri né oggi, perché soltanto un creatore di letterature e mondi, atteggiamenti e antropologie poteva inventare il ragazzone mammone con il mito americano de l’Americano a Roma: «Maccherone, m’hai provocato e io ti distruggo adesso, io me te magno», dice il fanatico filoamericano dopo aver tentato di adeguarsi allo strano modo di mangiare degli alleati. Secondo la leggenda, fu lui uno degli inventori della ricetta della Carbonara, utilizzando ingredienti basici del vitto contenuto nella scatoletta del soldato americano: polvere d’uovo, bacon abbrustolito con cui creare l’amalgama da integrare con una manciata di cacio (pecorino nei tempi poveri, parmigiano nell’opulenza) e tanto pepe nero da dare l’idea di una pioggia di carbone. Alberto Sordi, che nacque un secolo fa a Trastevere, ha lasciato di sé una falsa immagine che appartiene ai personaggi orrendi: l’affarista, il palazzinaro, il traditore, l’opportunista, il vigliacco sempre pronto a vendersi e adattarsi. La sua maschera unica: l’uomo che sbarra gli occhi di fronte a una proposta disonesta e che dice “Siiiiii?” e resta immobile estroflettendo la mandibola con l’espressione di chi non si aspettava una porcata del genere, ma è pronto ad adattarsi. I suoi viscidi “Come dici, cara?”, “Permette, commendatore?” e “Certamente signor generale” sono la maschera. Ma Alberto Sordi è stato anche l’autobiografia italiana, con i suoi mesti splendori. Eccolo in uniforme da ufficiale a Porta San Paolo dopo l’inizio dell’invasione tedesca dell’8 Settembre, mentre interpreta la tragedia delle forze armate lasciate sole a se stesse, senza ordini e senza comunicazioni: «Colonnello, pronto? Qui sta succedendo una cosa incredibile: i tedeschi si sono alleati con gli americani e ci sparano addosso. Che dobbiamo fare? Come dice, colonnello? Ah, lei non lo sa? E lo devo sapè io? Ma allora tutto è finito». Il film è Tutti a casa di Luigi Comencini e mi sono interrotto scrivendo questo articolo per guardare le scene della disfatta in cui Sordi è un soldato con la schiena dritta e poi finirà combattendo contro i tedeschi. Film complementare, a colori mentre Tutti a casa è in un drammatico bianco e nero, è Polvere di stelle del 1973 con Monica Vitti, sua la regia, in cui una compagnia d’avanspettacolo viaggia fra le linee della guerra come facevano le vecchie compagnie di giro. Il loro spettacolo aveva come numero di ballo erotico la canzone Ma ‘ndo vai, se la banana non ce l’hai?, che proseguiva con gli immortali versi “Bella hawaiana, attaccate ‘sta banana”. Monica Vitti era uno schianto di sex appeal e re Sordi la grande maschera del nuovo Bertoldo che deve arrangiarsi e che trova la forza di permettere alla sua donna di prostituirsi per salvare la pelle di tutti. Nella Grande Guerra, uno dei pochi film italiani sulla Prima guerra mondiale, lui e Vittorio Gassman sono due soldati lavativi, imbroglioni, opportunisti, perfettamente aderenti al cliché italiano, ma in un sussulto di dignità e patriottismo scelgono il plotone d’esecuzione. Quest’uomo, come anche Gassman, Tognazzi, Manfredi, i fratelli De Filippo e specialmente Eduardo, dettero la propria vita artistica per incarnare la tragedia italiana della guerra e del dopoguerra, delle follie imperiali di un fascismo di cartapesta crudele e trucolento, lo sgomento della gente comune di fronte all’inganno, l’abbandono, l’occupazione, la povertà, l’arte di arrangiarsi e di sopravvivere che erano arti necessarie ai vinti di un Paese vinto, con le reni spezzate, per usare l’espressione mussoliniana “Spezzeremo le reni alla Grecia”. Era una voce e un carattere romano e anzi romanesco, come quello di Aldo Fabrizi e tanti altri eroi di celluloide e teatro, ma il suo personaggio reale era l’italiano, tutti gli italiani, nelle diverse fasi della loro crescita. Alla guerra succede il boom economico, l’arte di fare quattrini, di vivere spensieratamente e vigliaccamente anche in Brevi amori a Palma de Majorca (in cui si inventa l’espressione poi eterna di “piatto ricco, me ce ficco”), come mercante d’armi, medico della mutua ignobile che fa della sua professione un mercimonio immondo. Sordi era un grande moralista e un lavoratore impeccabile, una persona con un alto senso del rispetto di sé e degli altri. Ho avuto il piacere, purtroppo non lungo, di conoscerlo e averlo per amico: quelle amicizie dei giornalisti che nascono dopo le interviste, come mi accadde anche con Ugo Tognazzi, altro gigante, che non so perché quando lo andavo a trovare al mare, mi cucinava le zucchine in padella. Erano minuscoli rapporti umani, ma di fortissima empatia con persone che sapevano di essere – come attori – tutto il mondo, specialmente il mondo italiano. Per chissà quale buffo motivo, mi chiamava per nome e cognome: «Viè, Paolo Guzzanti, che te faccio vedè la scena», «Mo’ nun posso perché è arivato Paolo Guzzanti e dovemo parlà». Aveva bisogno di raccontare e raccontarsi perché sapeva benissimo di essere un grande storico della sua e altrui storia e di conoscerla meglio di ogni accademico. L’unica volta che dissentii da lui fu quando dette vita al Marchese del Grillo, autentico personaggio storico antisemita e gli mise in bocca il verso di Giuseppe Gioachino Belli “Io so’ io, e voi nun siete un cazzo”. Il sonetto del Belli originale non ha niente a che fare col marchese del Grillo. Dà voce a “Li soprani der monno vecchio” restaurati dopo il congresso di Vienna, il cui prototipo mandò come precursore il boia per leggere il suo editto ai sudditi: «Io so io e voi nun ziete un cazzo, sori vassalli buggeroni, e zitt»”. Poi proseguiva con «A voi la vita nun ve la do: io ve l’affitto…». Purtroppo, quel verso – “Io so io” – ebbe un effetto spettacolare sugli spettatori che ignorano del tutto l’origine del verso del Belli, che è totalmente ignorato. “Mbè, ma era perfetto”, mi disse Alberto Sordi. E certo: tutto quello che faceva era perfetto. L’Italia settentrionale più ottusa e leghista, ne fece l’oggetto del suo dileggio, credendo e facendo credere che Alberto Sordi fosse il personaggio e che incarnasse di suo Roma ladrona, la corruzione, la burocrazia e la viltà. Non avevano capito un cazzo. L’alberto-sordismo diventò una variante dell’idiozia italiana per tutti quelli che non riuscivano a capire che Sordi non portava in scena se stesso, ma gli italiani tutti. Era molto ricco e nacque la leggenda che fosse avaro, come il personaggio di Molière, di cui fu un interprete di mostruoso talento. Non era avaro e non prese moglie. A chi gli chiedeva perché, rispose davvero “Mica me posso mette un’estranea in casa”. Lo disse anche parlando dei figli che non ebbe: “Non sai mai chi te metti in casa”. Ebbe tante storie e la più lunga fu con una attrice di quindici anni più anziana di lui, Andreina Pagnani. Era un misantropo cattolico praticante che si dava molto alla carità, finanziando ricerca scientifica e ospedali, ma senza mai dare nell’occhio. Questa stranezza dell’essere considerato sia libertino che cattolico osservante, conservatore ma in grado di mostrare il senso della rivoluzione, ha fatto di lui non solo un grande attore interprete, ma un autore protagonista, uno storico e, tutto ciò messo insieme, una maschera. Negli anni Sessanta fra noi giovani d’allora era diventato un vezzo, ma più che altro una necessità, parlare sempre come l’Alberto Sordi codardo: “Eh? Come dici cara? Siiii?”. Era il Tarzan della Maranella (le marane romane sono fiumiciattoli sudici e periferici per la balneazione dei poveri). Era un vezzo ma più che altro una lingua comune, come un patois o un argot, come del resto è il romanesco, che non è un dialetto ma un uso plebeo della lingua nazionale. È nato un secolo fa e ci manca da diciassette anni, quando un cancro ai polmoni se lo portò via e lui si lasciò catturare dalla morte con grande compostezza, cercando di restare vivo e pubblico, finché le forze lo consentirono.

Da ilmessaggero.it il 13 giugno 2020. Forza Alberto, facci ridere ancora: i 100 anni della nascita dell'attore. Cento anni fa il destino - racconta Carlo Verdone - fece un grande regalo allo spettacolo italiano. Un regalo con un nome e un cognome: Alberto Sordi. Ancora oggi, a 17 anni dalla sua scomparsa, in un periodo difficile e in cui si tende a dimenticare gran parte del nostro passato, ad annebbiare vicende e personaggi che andrebbero consegnati all’eterno ricordo, la figura di quest’uomo, fortunatamente, è sempre presente nella venerazione di ciò che è stato e di ciò che ha fatto. Alberto Sordi è stato per l’Italia, uscita dalla guerra, l’immagine di un Paese che torna finalmente a sorridere tramite un immenso attore che, sbarazzandosi della tecnica dell’accademia, irrompe sullo schermo con impressionante energia, assoluta anarchica follia e tempi recitativi sovversivi. La razionalità dell’attore soccombe e Sordi impone una recitazione istintiva con pause e riprese personalissime. Ma Sordi è ben cosciente di questo e a partire dallo Sceicco Bianco e da Un Americano a Roma, comincia lentamente ad imporre la sua fortissima personalità che sente unica nel panorama del cinema italiano. Senza alcun timore della critica si fabbrica una maschera che, anno dopo anno, diventa per tutti familiare. La maschera rubiconda, pavida, invadente, megalomane, mitomane, logorroica, furbacchiona che rispecchia tanti lati dell’italiano medio. Ogni italiano viene, più o meno, rappresentato dai suoi “tic”. Ma nessun italiano riconosce sé stesso. Rivede, nelle interpretazioni di Sordi, sempre gli altri. E lo trova geniale. Sordi nel decennio degli anni ‘60 è l’assoluto re della risata. E’ il punto di riferimento per chi ama la commedia e anche io comincio a conoscerlo nei cineclub che gli dedicano retrospettive. Lo trovo insuperabile nei suoi film in bianco e nero come I Vitelloni, La Grande Guerra, Una Vita Difficile, per citarne alcuni. Finalmente nel 1981, quando la vita mi diede l’opportunità di entrare come regista, sceneggiatore ed attore nel cinema, lo conobbi. Il merito fu di Sergio Leone. Sergio aveva prodotto insieme a Poccioni e Colaiacomo della Medusa anche il mio secondo film “Bianco, Rosso e Verdone”. Il film non lo convinceva del tutto perché trovava odioso il personaggio di Furio, il marito logorroico. Era convinto che il pubblico avrebbe avuto voglia di «tagliargli la testa co’ la sega» (parole testuali). E allora per avere un riscontro sul film fece a gennaio una proiezione in anteprima dove invitò Sordi e la Vitti con il compagno Roberto Russo. Nel vedere nella sala privata due attori straordinari come loro, mi misi le mani nei capelli. Chi potevo essere io di fronte al talento di Sordi e della Vitti? Nessuno. Come inizia il film e appare il personaggio di Furio, Leone subito sbuffa e a mezza voce baritonale gli esce uno sgradevole : «Arieccolo…». Mentre comincio realmente a pensare di aver sbagliato personaggio, ecco che Sordi e la Vitti esplodono in due risate fragorose quando Furio telefona all’ACI. Leone si sorprende e io tiro un sospiro di sollievo. Da quel momento ogni sequenza che riguarda Furio e Magda fa piegare in due dalle risate sia Alberto che Monica. E il film termina con Sordi che si rivolge a me e allargando le braccia mi dice: «Vie’ qua …». Stordito ed emozionato gli chiedo: «Le è piaciuto, Alberto?». Sordi mi abbraccia e dice: «Quel marito è geniale!». Mi volto verso Leone che allargando le braccia in segno di resa disse: «Ci avesse ragione lui… Boh». Oggi, dopo ben quarant’anni, possiamo dire che aveva ragione Alberto. Forse proprio da quella proiezione a casa Leone nacque l’amicizia che ci legò per diversi anni e ci portò a lavorare insieme. Di Alberto ricorderò sempre l’ inarrivabile grandezza artistica, ma quello di cui andrò più fiero è che mi ha veramente voluto bene. Come gliene ho voluto io. Ed osservare che dal 1986, in una grande nicchia del terrazzo, la sua bella orchidea dedicata alla nascita di mia figlia Giulia continua imperterrita a fiorire, me lo fa sentire sempre vicino a proteggermi e a proteggerci nei colori di una pianta piena di grazia ed eleganza.

Arianna Finos per “la Repubblica” l'8 giugno 2020. Racconta e ride, Giovanna Ralli, ricordando l'amico Alberto Sordi di cui il 15 ricorre il centenario della nascita. «Ho lavorato con grandi attori: Gassmann, Manfredi, Mastroianni, ma con nessuno si rideva come con Alberto. Sul set di Un eroe dei nostri tempi durante le prove non riuscivo a fermarmi. E lui "Giova', ridi adesso ma mi raccomando al ciak trattieniti. Bastava un suo sguardo per farti sganasciare, aveva quel modo meraviglioso d'inventare i personaggi». L'attrice di De Sica, Monicelli, Scola, Rossellini, 85 anni, 64 film per il grande schermo oltre a tutto il resto, con Sordi ha girato Un eroe dei nostri tempi e un episodio di Costa azzurra.

«Quando seppi che dovevo lavorare con Sordi e Monicelli un po' mi preoccupai».

E invece?

«Andò bene. La prima scena fu la passeggiata sul lungotevere, lui mi invita per corteggiarmi, io voglio raccomandargli il mio fidanzato. In spiaggia mi chiede "ha mai baciato un uomo?" e io "sono incinta". Il mio fidanzato lo faceva Bud Spencer, col suo fisico da nuotatore. Alla fine della scena del litigio Alberto mi disse: "Ma lo sai che sei brava?" e io: "Sì, lo so"».

Siete diventati amici?

«È stato un amico grande, grande. Lo frequentavo già perché lui faceva film sceneggiati da Amidei, Age e Scarpelli con cui io lavoravo in altri film. Era un uomo generoso, elegante, profumato. Gli piaceva molto uscire la sera, con Piero Piccioni, soprattutto. Poi simpatizzò con mio marito e veniva a mangiare a casa nostra: "Basta che mi fai la pastasciutta con i pomodori e io sto a posto».

Poi la chiamò nel '59 per l'episodio di "Costa azzurra".

«Eravamo talmente sintonici che non mi faceva mai un appunto. vai così che vai bene. Le riprese durarono una settimana, giravamo la mattina e la sera tutti a cena. Mi sono sposata di lunedì, da martedì recitavo al Quirino, con solo i testimoni. Organizzammo il pranzo per gli amici un mese dopo. Alberto mi inondò di fiori, poi dall'Africa, dove aveva appena girato Riusciranno i nostri eroi mi portò un caftano colorato con una fusciacca per i capelli. Io andai in camera, li indossai subito e tornai dagli invitati. Alberto ere felice: "Ammazza quanto sei bella"».

Sordi non si è mai sposato.

«Gli piacevano moltissimo le donne, ma aveva sposato il lavoro e diceva che la famiglia ce l'aveva già. Quando morì la sorella soffrì moltissimo, smise di fare feste in quella villa bellissima che, nuova di zecca, mi mostrò una mattina, era raggiante. Il successo era arrivato dopo tanta fatica.

Era felice di stare come stava. Il suo grande amore è stata la Pagnani, che ha sofferto quando lui la lasciò. Ed era grande amico di Silvana Mangano, la faceva tanto ridere. Sordi era molto credente, riservato: non l'ho mai sentito dire un pettegolezzo. Era un democristiano, legato ad Andreotti. Non si parlava mai di politica con lui, anche perché tutti gli altri erano di sinistra. Ma Alberto è stato molto amato da tutti, come Totò che non lo dimenticherai mai, così è Sordi, non si dimenticherà».

Venivate entrambi da famiglie povere.

«Io e Alberto non abbiamo fatto scuole di recitazione. All'Accademia gli correggevano "tera", "guera". Ha fatto il doppiatore, parlava perfettamente italiano, ma i suoi personaggi non potevano parlare come un libro stampato. Non si può recitare Il Vigile senza la cadenza romana».

Vicini di quartiere, lei testaccina e Sordi trasteverino.

«Mio nonno ebanista abitava in via dei Pettinari, come lui. Al piano terra il negozio, sopra un piccolo appartamento per i nove figli, sopra ancora Aldo Fabrizi. Una volta con Alberto siamo tornati e gli ho fatto vedere il negozio di nonno».

Ma è vero che gli diede uno schiaffo dopo una discussione?

«Ma quando mai? Fu solo un litigio acceso. Successe a Parigi, andammo a passare lì l'ultimo dell'anno con Steno e Bruna Parmesan. Tornando a piedi da un ristorante passammo sotto i portici delle Tuileries, davanti all'Hôtel Meurice. Io dissi che c'ero stata e Alberto s' arrabbiò: "Possono entrare solo gli aristocratici". Io: "E non possono esserci stata con un aristocratico?". Alla fine litigammo per davvero».

Il ricordo più divertente?

«Quando ha cercato di corteggiarmi, ma nella maniera più scanzonata, facendomi capire a un certo punto l'ho guardato e gli ho detto: "Albe' ma te lo immagini io e te? Ma a me me verrebbe da ride, ma a te no?". Si è messo a ridere anche lui. Avere un flirt con Alberto non avrei potuto mai immaginarlo. Eravamo troppo amici».

L'immagine di voi due insieme?

«Ho una foto incredibile, lui in canotta con la bandana, i pedalini e gli zoccoli, io in costume nero e zoccoli. Beh, sembriamo due broccolari, non c'è niente da fare».

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 14 aprile 2020. Nell' anno in cui si celebra il centenario della nascita di Alberto Sordi, Sky Cinema Comedy ha proposto quattro giorni di programmazione di film di uno dei più importanti attori del cinema italiano e, insieme, Siamo tutti Alberto Sordi? , il documentario di Fabrizio Corallo che ripercorre l' esistenza dell' artista, dalla formazione agli esordi fino al successo sul grande schermo, riunendo spezzoni di film, frammenti televisivi e testimonianze di colleghi, registi, critici, osservatori, ex politici. Con così tanti e illustri intervistati, francamente mi aspettavo qualcosa di più dal documentario. Salvo rare eccezioni, è stata una sfilata di luoghi comuni su Sordi: l' incarnazione dell' italiano medio con le sue poche pubbliche virtù e i numerosi vizi, però anche lo smascheratore dell' ipocrita rispettabilità piccolo-borghese, però anche il conservatore, moderato e cattolico che mette in scena il malcostume nazionale, però anche l' inventore di archetipi indimenticabili sull' opportunismo di uomini immaturi. Tutte osservazioni che, vedendo i suoi film, s' intuiscono. Sarebbe stato bello sentire il parere di Nanni Moretti e di Tatti Sanguineti. Nel 1978, in Ecce Bombo , c' è una scena in cui il protagonista, sentendo un uomo al bar che dice: «Gli italiani, rossi e neri, sono tutti uguali», risponde aggredendolo e urlando: «Ma che siamo in un film di Alberto Sordi? Te lo meriti Alberto Sordi!». Nel 1986, Sanguineti firma per Rai3 un' autobiografia di Walter Chiari, Storia di un altro italiano (l' eterno perdente), in contrapposizione a Storia di un italiano (1979) di Sordi, antologia dei suoi film e ritratto di un italiano che alla fine casca sempre in piedi grazie al cinismo. Ma nel 2015 scrive un libro su Rodolfo Sonego, intitolandolo Il cervello di Alberto Sordi . Due pareri che sarebbero stati fondamentali per capire tante cose: ce lo meritiamo Alberto Sordi?

Alberto Sordi nasce il 15 giugno del 1920 a Roma, in Via San Cosimato nel cuore di Trastevere, da Pietro Sordi, direttore d’orchestra e concertista presso il teatro dell’opera di Roma, e Maria Righetti, insegnante. Ha due sorelle, Savina e Aurelia, ed un fratello, Giuseppe, detto Pino. Pubblicato mercoledì, 01 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Fallai. È morto a Roma il 24 febbraio 2003. Con oltre 200 film all’attivo è considerato uno dei più grandi interpreti della commedia all’italiana con Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman, Nino Manfredi e Marcello Mastroianni. Inoltre, insieme ad Aldo Fabrizi e Anna Magnani, è considerato tra i massimi esponenti della romanità cinematografica. Già dagli inizi degli anni Sessanta si sarebbe potuto smontare un luogo comune - anche critico - che ha perseguitato Alberto Sordi per tutta la vita: la sua identificazione con vizi e difetti dell’italiano medio. Ettore Scola, che ben lo conosceva, ha sostenuto più volte una tesi opposta: Sordi è l’italiano impazzito, in cui pulsioni socialmente inconfessabili hanno preso il sopravvento sulla rispettabilità piccolo-borghese. Con queste parole si apre la voce dedicata ad Alberto Sordi e curata dal critico cinematografico e storico del cinema Alberto Crespi per il Dizionario Biografico degli Italiani edito dall’Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani. Importanti i suoi esordi divisi tra teatro (sia serio, sia leggero), radio (suoi i personaggi di Mario Pio, del Conte Claro e del compagnuccio della parrocchietta), doppiaggio (sua la voce azzeccatissima di Ollio). Tanti i film di successo: come Il segno di Venere e Il vedovo di Dino Risi; Brevi amori a Palma di Maiorca (quello del memorabile «zoppetto») di Giorgio Bianchi, La grande guerra di Mario Monicelli con Vittorio Gassman, Tutti a casa di Luigi Comencini, Mafioso di Alberto Lattuada, Il boom di Vittorio De Sica, Il maestro di Vigevano di Elio Petri, I complessi di Luigi Filippo D’Amico (quello di Guglielmo il dentone). «Erano anni - ha scritto Alberto Crespi - in cui quasi tutti i film venivano, in prima battuta, scritti per lui: sia il copione de Il sorpasso che quello de I mostri, entrambi di Risi, erano destinati a lui e la fortuna degli altri «colonnelli» della commedia (Gassman, Tognazzi, Manfredi) fu che Sordi aveva rallentato i ritmi (solo nel 1954 aveva interpretato 12 film) e non poteva né voleva girare tutti i film che gli venivano proposti». Tra i progetti non realizzati dall’attore, così si chiude la voce scritta da Alberto Crespi: «un film sulla vita del poeta romano Belli (proposta rifiutata perché temeva che, al momento dell’ascesa in Paradiso, san Pietro glielo avrebbe rimproverato), uno su Henry Kissinger, un altro sul trombettiere del generale Custer John Martin (in realtà un italiano, tale Giovanni Martini) e infine il sogno, confessato in un’intervista al Corriere della Sera, di impersonare Benito Mussolini».

SIAMO TUTTI ALBERTO SORDI. Dagospia l'11 giugno 2020. Nel centenario della sua nascita, giovedì 11 giugno alle 21,15 La7 celebra Alberto Sordi con una serata evento dal titolo 100 Auguri Alberto. Un appuntamento speciale introdotto da Andrea Purgatori che presenterà – in prima tv in chiaro - il docufilm di Fabrizio Corallo “Siamo tutti Alberto Sordi?”. "Siamo tutti Alberto Sordi?" è un documentario di Fabrizio Corallo prodotto da Surf Film e Dean Film in collaborazione con LA7, Istituto Luce Cinecittà Sky Arte e 3D Produzioni che aspira a celebrare il talento unico e la personalità segreta del grande attore e regista romano scomparso 17 anni fa mettendone in rilievo non solo la leggendaria vicenda artistica ma soprattutto le sue doti spesso profetiche di interprete/autore capace di raccontare come nessun altro la commedia umana degli italiani del secolo scorso. Sordi viene raccontato nell'arco della sua formazione e del consolidarsi della sua carriera attraverso le sequenze di alcuni tra i più significativi dei 187 film da lui interpretati; filmati tratti dalle sue tante apparizioni televisive e pubbliche e interviste appositamente realizzate a compagni di lavoro, esponenti di punta del cinema recente, storici e critici, tutti chiamati a raccontarne i vari aspetti della poliedrica personalità tra riflessioni, aneddoti, ricordi e curiosità. Tra gli intervistati gli attori Carlo Verdone, Giovanna Ralli, Pierfrancesco Favino, Claudio Amendola, Anna Foglietta, Valeria Marini, Riccardo Rossi; i critici Goffredo Fofi, Valerio Caprara e Masolino D'Amico; esperti osservatori del costume nazionale come Renzo Arbore, Paolo Mieli, Michele Serra, Pietrangelo Buttafuoco, Vincenzo Mollica, Maurizio Costanzo e Filippo Ceccarelli; amici e collaboratori come il presidente onorario della Fondazione Museo Alberto Sordi, Walter Veltroni; il consulente artistico Fondazione Museo Alberto Sordi, Luca Verdone;  lo sceneggiatore Enrico Vanzina; il presidente Anica ed ex sindaco di Roma, Francesco Rutelli; il regista Marco Risi; le scrittrici Gigliola Scola e Chiara Rapaccini; la giornalista Gloria Satta;

Note di regia di Fabrizio Corallo. Dagli anni '50 in poi e sino alla fine dei suoi giorni Alberto Sordi esprimendosi quasi sempre in felice sintonia con registi e sceneggiatori come lui in stato di grazia ha mostrato con le sue denunce in forma di satira del malcostume italiano quello che siamo e che forse avremmo preferito non essere. Conservatore, moderato e cattolico convinto ma anche osservatore implacabile di vizi e storture e profondo conoscitore dei meccanismi psicologici ha dato vita nelle sue commedie a tanti ruoli di uomini immaturi, opportunisti, servili e incapaci di solidarietà e altruismo. Nel suo cinema riecheggiano certe costanti nazionali come la furbizia, il cinismo,  il familismo amorale, la mancanza di senso civico, considerati troppo spesso dagli italiani quasi come una dote, un patrimonio, un'autodifesa allarmata e gelosa del proprio "particulare". Al di là degli occasionali e divertìti autocompiacimenti i suoi personaggi "scomodi" sono però rappresentati sempre criticamente ed esortano lo spettatore a riflettere su difetti e colpe di un'umanità priva di coscienza etica. Sordi ha portato in scena tanti "mostri" del suo tempo nei loro aspetti divertenti con l'intento esplicito di condannarli e fustigarli anche se troppo spesso il suo pubblico ha finito con l'identificarsi in lui senza farsi troppe domande, nutrendosi passivamente degli splendori e delle miserie rappresentate nel glorioso genere della commedia all'italiana. Però secondo Ettore Scola - che prima di dirigerlo in film memorabili lo aveva conosciuto bene nei primi anni 50 come autore dei suoi programmi radiofonici e sceneggiatore di tante commedie - "il  pubblico di Alberto non è mai stato “ricattato” dalla sua simpatia e dalla sua bontà, piuttosto è stato ammaliato e colpito dalla sua grandezza come attore e come uomo. Il suo merito principale è stato quello di non aver camuffato le bassezze con un'ipocrita rispettabilità: non era un ritrattista ma un inventore di caratteri. Era soprattutto un disturbatore ed un dissacratore, è andato sempre contro i luoghi comuni, contro le convenienze". Secondo il critico Maurizio Liverani "Sordi con il suo umorismo sarcastico e beffardo non ha rappresentato soltanto l'arrivismo e la faciloneria: la sua più che una storia degli italiani è una loro imitazione allucinata e iperrealista che diventa disturbante".

"Siamo tutti Alberto Sordi?" Il documentario di Fabrizio Corallo su Sky riapre i conti con una figura che non finiamo mai di riscoprire. Fabio Ferzetti il 10 aprile su L'Espresso. Cominciamo con un’immagine. Siamo sul set di Un borghese piccolo piccolo di Mario Monicelli, anno di grazia 1977, attenti alla data. Come molti ricorderanno è la storia di un modesto impiegato romano alle soglie della pensione, Alberto Sordi, che dopo essersi visto uccidere per caso il figlio unico e amatissimo durante una rapina, scova l’uccisore, lo sequestra, lo tortura e finisce per provocarne accidentalmente la morte. Una delle metafore più livide e calzanti di quegli anni non facili, nata dalla penna di Vincenzo Cerami e considerata da molti l’epitaffio della gloriosa commedia all’italiana. Si gira la scena in cui Shelley Winters, nel film la moglie di Sordi, si trova per la prima volta faccia a faccia con l’assassino del figlio. Per riuscire a piangere senza ricorrere a lacrime artificiali, l’attrice americana si è fatta nascondere nel reggiseno un registratore che le manda in cuffia strazianti canti yiddish. Uno stratagemma macchinoso, tipico di una certa scuola di recitazione. Nel frattempo, pochi metri più in là, Sordi aspettando il ciak addenta serafico un gigantesco sfilatino. Il ricordo dal set di Monicelli, folgorante, è uno dei tanti che illumina Siamo tutti Alberto Sordi?, il documentario di Fabrizio Corallo in onda su Sky Arte domenica 12 aprile alle 21.15, e su Sky Cinema Comedy alle 21.45. Fra i primi meriti del film di Corallo c’è infatti la grande varietà di voci, testimonianze, scene inedite, rarità d’archivio, raccolte per rendere il più possibile sfaccettato e problematico il ritratto del grande attore. Nessuno forse, nella storia del nostro cinema, ha avuto infatti un percorso artistico e biografico come il suo, tanto chiaro in apparenza quanto ricco in verità ricco di sfumature e ombre insondabili. Nessuno ha conosciuto un successo così clamoroso in patria, scontrandosi al tempo stesso con incomprensioni e resistenze presso le platee internazionali, che non sempre capivano quella comicità paradossale e tinta di nero. Nessuno infine, fra i divi di un cinema incredibilmente fecondo e centrale nell’immaginario non solo nazionale, ha vissuto il proprio talento con passione più esclusiva. Quasi che più di un mestiere o di un’arte si trattasse di un sacerdozio. Ne fa fede lo sterminato archivio personale raccolto nella gigantesca villa-mausoleo di piazzale Numa Pompilio, una specie di castello di Dracula - un Dracula bonario e cattolicissimo, alla romana - dove non entrava mai la luce («Er sole me rovina i quadri», disse lui stesso a un allibito Carlo Verdone, uno dei testimoni che sciorina i ricordi più pungenti nel documentario, anche se si tratta soprattutto del Sordi ormai declinante degli anni Ottanta e oltre). Ma anche i mille progetti rimasti nel cassetto, come Un italiano in Brasile, il film che doveva girare a Rio su sceneggiatura del fedele Sonego (ne parla diffusamente il massimo esperto in materia, Tatti Sanguineti, nel voluminoso numero di Bianco e Nero dedicato a Sordi); i personaggi sfiorati e non interpretati; o il riserbo assoluto di cui riuscì a circondare la sua vita privata, segnata da molte relazioni ma nessun matrimonio («E che me metto un’estranea in casa?»). Il titolo del film di Corallo riassume bene il suo interrogativo di fondo, non nuovo ma tutt’altro che risolto. È stato Sordi a capire meglio di chiunque altro i suoi connazionali, anche in ciò che hanno di più meschino e inconfessabile? O sono stati gli italiani che fatalmente, forse inevitabilmente, hanno finito per riconoscersi in quei personaggi e in certo modo imitarli? A cento anni dalla sua nascita e diciassette dalla sua morte la domanda resta aperta, ma qualche certezza ce l’abbiamo. La prima è che il suo successo non era affatto scontato. Quando Sordi tenta di entrare all’Accademia dei Filodrammartici, a Milano, lo cacciano per il suo accento. Il suo primo film da protagonista, Mamma mia che impressione!, è un fiasco: troppo surreale, troppo paradossale, troppo aggressivo. Al cinema era arrivato attraverso il doppiaggio di Oliver Hardy, cui regala una voce italiana a dir poco geniale, ma saranno i personaggi radiofonici scritti da Ettore Scola e Vittorio Veltroni come il Conte Claro e Mario Pio a dargli il successo. Fellini si batte per lanciarlo ne Lo sceicco bianco, che però ha un successo relativo, poi lo impone ai produttori, che non ne vogliono sapere, nei Vitelloni. È così che quel «giovanotto cresciuto sotto il fascismo e buttato in una democrazia che non capiva» (Fellini dixit), inizia a scolpire quella Storia di un italiano che alla fine conterà ben 187 titoli. La strada però è ancora lunga. Al montaggio del mitico Un giorno in pretura di Steno, il produttore Dino De Laurentiis vuole tagliare il suo episodio, oggi sembra incredibile, e solo l’intervento di sua moglie Silvana Mangano impedisce la catastrofe. Intanto Sordi studia, cresce, ruba la scena addirittura a Totò, come Corallo puntualmente ricapitola. Soprattutto inizia a spingersi la dove nessuno osa avventurarsi. Buttandosi, per dirla con Rodolfo Sonego, su «personaggi di una grettezza quasi ributtante, su racconti abbastanza folli e inaccettabili, e infatti inaccettati da molti altri attori», con «il colpo d’occhio infallibile, il giudizio immediato e fulminante (...) di un animale selvaggio, un animale del bosco che ci vede anche di notte». E che «riesce, per misteriosa intuizione, a rendere con assoluta verità vizi che non ha, sentimenti che non ha mai provato». Il resto è Storia, come si dice, anche se a ben vedere le grandi interpretazioni di Sordi sono tutte legate a un periodo preciso in cui le follie della Storia e i suoi demoni personali trovano un misterioso e potente accordo. Come se l’Italia, una certa Italia, avesse bisogno di lui per rivelarsi a se stessa. E viceversa. Fino a quando l’Italia non divenne così terribile che perfino l’arte di Sordi non bastava più a darle una forma e un senso. Come testimonia Verdone con la storia, feroce, del posteggiatore che vedendo il vecchio Sordi cadere, alla fine della sua famosa giornata da sindaco di Roma voluta da Rutelli, non gli tende nemmeno la mano per aiutarlo ma si limita a dire: «Albe’, se semo invecchiati, eh?».

Ci sono almeno tre buone ragioni per non perdere Siamo tutti Alberto Sordi?, il documentario di Fabrizio Corallo in onda su Sky Arte domenica 12 aprile alle 21.15, e su Sky Cinema Comedy alle 21.45. La prima naturalmente è la statura stessa del suo protagonista, o meglio la sua unicità e inafferrabilità. Chi era davvero Sordi? In che rapporto stava l’uomo e l’artista? Cosa c’era dietro.

La prima è la gran quantità di inediti, curiosità e testimonianze che rendono questo ritratto sfaccettato e problematico, come si conviene a un attore dal percorso artistico e biografico come il suo, tanto chiaro all’apparenza quanto in realtà ricco di sfumature e ombre insondabili.

La seconda è il tono, mai banalmente agiografico ma sempre sapientemente a cavallo fra lo scavo psicologico e l’inchiesta a tutto campo, che mette i 187 film di Sordi e alcuni dei suoi molti progetti rimasti nel cassetto in relazione con il quadro storico e sociale dell’Italia e del cinema di quegli anni.

La terza naturalmente è il protagonista stesso, Alberto Sordi, che più credi di conoscere e più ti sfugge per ripresentarsi sotto vesti sempre diverse. Nel bel documentario di Corallo ci sono i surreali provini per il Casanova di Fellini, c’è l’energia che animava danze e corsette, forse il ritratto più fedele di un attore folle che non aveva paura di niente e che come diceva il uso sceneggiatore-principe Rodolfo Sonego.

Chi era questo attore che i più grandi attori del mondo ci invidiano, ma che il pubblico internazinale stentava a capire? Chi era quest'uomo che non ha mai voluto far altro che recitare, fin da bambino, e dedicò la vita intera alla sua arte, rinuciando a affetti e famiglia per vivere abbartocato con le sorelle nella sua villa mausoleo a piazzale Numa Pompilio, Amendola De Niro si è studiato Sordi in Accaddemia al penitenziario perché un ubriaco cos’ non l’aveva mai visto. Marotta: Nessuno meglio di lui ha saputo essere insieme "infantile e decrepito, ingenuo e corrotto, saggio e scemo, tiranno e schiavo... un bambino malvagio e vizioso che mentre pecca si odia e si ama, ha orgoglio e pietà di sé", per citare uno dei suoi primi grandi estimatori, Giuseppe Marotta. Cominciamo con un’immagine. Siamo sul set di Un borghese piccolo piccolo di Mario Monicelli, anno di grazia 1977, attenti alla data. Come molti ricorderanno è la storia di un modesto impiegato romano alle soglie della pensione, Alberto Sordi, che dopo essersi visto uccidere per caso il figlio unico e amatissimo durante una rapina, scova l’uccisore, lo sequestra, lo tortura e finisce per provocarne accidentalmente la morte. Una delle metafore più livide e calzanti di quegli anni non facili, nata dalla penna di Vincenzo Cerami e considerata da molti l’epitaffio della gloriosa commedia all’italiana. Si gira la scena in cui Shelley Winters, nel film la moglie di Sordi, si trova per la prima volta faccia a faccia con l’assassino del figlio. Per riuscire a piangere senza ricorrere a lacrime artificiali, l’attrice americana si è fatta nascondere nel reggiseno un registratore che le manda in cuffia strazianti canti yiddish. Uno stratagemma macchinoso, tipico di una certa scuola di recitazione. Nel frattempo, pochi metri più in là, Sordi aspettando il ciak addenta serafico un gigantesco sfilatino. Il ricordo dal set di Monicelli, folgorante, è uno dei tanti che illumina Siamo tutti Alberto Sordi?, il documentario di Fabrizio Corallo in onda su Sky Arte domenica 12 aprile alle 21.15, e su Sky Cinema Comedy alle 21.45. Fra i primi meriti del film di Corallo c’è infatti la grande varietà di voci, testimonianze, scene inedite, rarità d’archivio, raccolte per rendere il più possibile sfaccettato e problematico il ritratto del grande attore. Nessuno forse, nella storia del nostro cinema, ha avuto infatti un percorso artistico e biografico come il suo, tanto chiaro in apparenza quanto ricco in verità ricco di sfumature e ombre insondabili. Nessuno ha conosciuto un successo così clamoroso in patria, scontrandosi al tempo stesso con incomprensioni e resistenze presso le platee internazionali, che non sempre capivano quella comicità paradossale e tinta di nero. Nessuno infine, fra i divi di un cinema incredibilmente fecondo e centrale nell’immaginario non solo nazionale, ha vissuto il proprio talento con passione più esclusiva. Quasi che più di un mestiere o di un’arte si trattasse di un sacerdozio. Ne fa fede lo sterminato archivio personale raccolto nella gigantesca villa-mausoleo di piazzale Numa Pompilio, una specie di castello di Dracula - un Dracula bonario e cattolicissimo, alla romana - dove non entrava mai la luce («Er sole me rovina i quadri», disse lui stesso a un allibito Carlo Verdone, uno dei testimoni che sciorina i ricordi più pungenti nel documentario, anche se si tratta soprattutto del Sordi ormai declinante degli anni Ottanta e oltre). Ma anche i mille progetti rimasti nel cassetto, come Un italiano in Brasile, il film che doveva girare a Rio su sceneggiatura del fedele Sonego (ne parla diffusamente il massimo esperto in materia, Tatti Sanguineti, nel voluminoso numero di Bianco e Nero dedicato a Sordi); i personaggi sfiorati e non interpretati; o il riserbo assoluto di cui riuscì a circondare la sua vita privata, segnata da molte relazioni ma nessun matrimonio («E che me metto un’estranea in casa?»). Il titolo del film di Corallo riassume bene il suo interrogativo di fondo, non nuovo ma tutt’altro che risolto. È stato Sordi a capire meglio di chiunque altro i suoi connazionali, anche in ciò che hanno di più meschino e inconfessabile? O sono stati gli italiani che fatalmente, forse inevitabilmente, hanno finito per riconoscersi in quei personaggi e in certo modo imitarli? A cento anni dalla sua nascita e diciassette dalla sua morte la domanda resta aperta, ma qualche certezza ce l’abbiamo. La prima è che il suo successo non era affatto scontato. Quando Sordi tenta di entrare all’Accademia dei Filodrammartici, a Milano, lo cacciano per il suo accento. Il suo primo film da protagonista, Mamma mia che impressione!, è un fiasco: troppo surreale, troppo paradossale, troppo aggressivo. Al cinema era arrivato attraverso il doppiaggio di Oliver Hardy, cui regala una voce italiana a dir poco geniale, ma saranno i personaggi radiofonici scritti da Ettore Scola e Vittorio Veltroni come il Conte Claro e Mario Pio a dargli il successo. Fellini si batte per lanciarlo ne Lo sceicco bianco, che però ha un successo relativo, poi lo impone ai produttori, che non ne vogliono sapere, nei Vitelloni. È così che quel «giovanotto cresciuto sotto il fascismo e buttato in una democrazia che non capiva» (Fellini dixit), inizia a scolpire quella Storia di un italiano che alla fine conterà ben 187 titoli. La strada però è ancora lunga. Al montaggio del mitico Un giorno in pretura di Steno, il produttore Dino De Laurentiis vuole tagliare il suo episodio, oggi sembra incredibile, e solo l’intervento di sua moglie Silvana Mangano impedisce la catastrofe. Intanto Sordi studia, cresce, ruba la scena addirittura a Totò, come Corallo puntualmente ricapitola. Soprattutto inizia a spingersi la dove nessuno osa avventurarsi. Buttandosi, per dirla con Rodolfo Sonego, su «personaggi di una grettezza quasi ributtante, su racconti abbastanza folli e inaccettabili, e infatti inaccettati da molti altri attori», con «il colpo d’occhio infallibile, il giudizio immediato e fulminante (...) di un animale selvaggio, un animale del bosco che ci vede anche di notte». E che «riesce, per misteriosa intuizione, a rendere con assoluta verità vizi che non ha, sentimenti che non ha mai provato». Il resto è Storia, come si dice, anche se a ben vedere le grandi interpretazioni di Sordi sono tutte legate a un periodo preciso in cui le follie della Storia e i suoi demoni personali trovano un misterioso e potente accordo. Come se l’Italia, una certa Italia, avesse bisogno di lui per rivelarsi a se stessa. E viceversa. Fino a quando l’Italia non divenne così terribile che perfino l’arte di Sordi non bastava più a darle una forma e un senso. Come testimonia Verdone con la storia, feroce, del posteggiatore che vedendo il vecchio Sordi cadere, alla fine della sua famosa giornata da sindaco di Roma voluta da Rutelli, non gli tende nemmeno la mano per aiutarlo ma si limita a dire: «Albe’, se semo invecchiati, eh?».

Alessandro Fulloni per il “Corriere della Sera” il 7 marzo 2020. Una vecchia foto in bianco e nero. In questi giorni circola parecchio sui social ed emoziona molto. Mostra Alberto Sordi davanti a un microfono, dietro di lui compaiono Stanlio e Ollio, i due celeberrimi comici, il primo britannico e il secondo statunitense. È l' unico «clic» che ritrae assieme i tre immensi attori e a ritrovarlo è stato Alberto Anile, storico del cinema e critico, nel corso di una ricerca durata un paio d' anni tra le carte dell' archivio personale di Sordi. Da cui è emerso che quella foto - messa in rete dall' Ansa - venne scattata la sera del 25 giugno 1950 a Roma, a Villa Aldobrandini, sul colle del Quirinale, durante una tournée europea di Stan Laurel e Oliver Hardy oramai a fine della carriera. Un viaggio iniziato in Costa Azzurra e terminato in Italia - all' arrivo alla stazione Termini Stanlio e Ollio furono accolti da una folla impressionante - finalizzato al lancio di quello che sarebbe stato il loro ultimo lungometraggio, «Atollo K». Tra gli appuntamenti nella Capitale, anche quello di cui Anile racconta nel suo libro appena pubblicato, «Alberto Sordi», edito da Fondazione Centro Sperimentale/Edizioni Sabinae. Uno sketch memorabile davanti a una «platea con forse tremila persone - è la ricostruzione dello storico - tra cui famiglie con bambini, tantissimi, entrati gratis. Sul palcoscenico Stanlio e Ollio improvvisano le loro gag, leggeri passi di danza, smorfie e mimica unica. Dietro, nascosti da un telo, Alberto Sordi e Mauro Zambuto danno le voci ai due comici proprio come facevano nei film». I due italiani erano infatti i doppiatori ufficiali di Laurel e Hardy. Veri e propri alter ego , «apprezzati assai da Stanlio e Ollio. Sordi stava avviandosi a diventare una star mentre Zambuto pochi anni dopo avrebbe lasciato lo spettacolo per trasferirsi negli Usa, insegnando computer science all' università». Ma la foto? «Chi la scattò la diede ad una rivista che non c' è più. Sordi la ritagliò, conservandola nel suo immenso archivio che aggiornava con scrupolo, catalogando tutto in album divisi per anni e film. Lo ripeteva spesso: "Voglio conservare tutte le mie cose"».

Renato Franco per il “Corriere della Sera” il 27 marzo 2020. La sua avarizia era solo una leggenda, con Verdone non c' era tutta questa sintonia, di Manfredi meglio non parlare, il rapporto con la politica, come nacquero alcune delle sue citazioni più famose. C' è questo e altro nel volume Alberto Sordi segret o in arrivo in prossimità del centenario della nascita (15 giugno 1920, a Roma, e dove se no?). In uscita il 30 marzo sul sito dell' editore Rubbettino, ma anche in versione digitale come e-book, 242 pagine, prefazione di Gianni Canova, Alberto Sordi segreto è stato scritto da Igor Righetti voce storica di Radio1 con Il ComuniCattivo , ma qui in qualità di cugino di una delle maschere d' Italia: il nonno infatti era il fratello di Maria Righetti, madre di Alberto Sordi. Righetti racconta Sordi tra pubblico e privato, l' attore che diede il volto a tanti arcitaliani, ma non interpretò mai un politico nei suoi film: «Diceva che recitavano già loro e che sarebbe stata una sovrapposizione inutile... Negli anni '50, la Democrazia Cristiana gli chiese di fare il sindaco di Roma. Pur cattolico declinò l' invito. Altre proposte di entrare in politica le ricevette un po' da tutti i partiti. Ma affermava che nell' Italia politica degli ultimi anni ci fosse tanta mediocrità». Lui che ebbe il rimpianto di non essere stato candidato dall' Italia agli Oscar; lui che non amava i critici cinematografici («si commuovono soltanto davanti ai sarcofagi, basti pensare che cosa hanno fatto con Totò»); lui che pensava che l' Italia avrebbe dovuto puntare su agricoltura e turismo («ora saremmo una nazione senza problemi dove tutti sarebbero occupati»); lui che con Manfredi non aveva un gran rapporto. Una ruggine - secondo Righetti - nata da un' intervista in cui Nino disse che «Sordi non ha mai fatto altro che se stesso in vita sua ed è per questo che oggi è finito... A noi parenti Alberto non ne ha mai parlato come suo amico. Anzi, ci svelò che se lui era avaro, Nino Manfredi era veramente tirchio. E nel libro lo conferma anche Pippo Baudo». Piuttosto Sordi era generoso, ma senza ostentare: «Chi conosceva veramente Alberto sa che frequentava gli orfanotrofi e che aveva adottato a distanza decine di bambini, filantropia sempre fatta in silenzio, come era il suo stile... A quei familiari che gli erano più vicini, così come alla sua segretaria storica Annunziata Sgreccia, alla contessa Patrizia De Blanck con la quale ebbe una love story nei primi anni '70, Alberto ha sempre detto di voler destinare la sua villa faraonica a orfanotrofio perché in quella casa - disse - non c' è mai stato il sorriso di un bambino». Invece è diventata un museo, contravvenendo - sostiene Righetti - alle sue volontà perché «la sua villa l'aveva sempre protetta da sguardi indiscreti con estrema fermezza e mai avrebbe voluto che fosse mostrata al pubblico». Nel libro ci sono diverse testimonianze, l' attrice Piera Arico (che ha recitato in diversi film con Alberto), il fotografo Rino Barillari, Pippo Baudo, Elena de Curtis (nipote di Totò), Sandra Milo... Aneddoti pubblici e privati. Il nome Alberto gli fu dato in ricordo del fratello nato nel 1916 e scomparso pochi giorni dopo il parto, «e anche per questo motivo non voleva essere chiamato Albertone». Il suo modo di vestire è sempre stato molto classico, ma non amava lo shopping, «era troppo indolente per acquistare i vestiti. Glieli comprava la sorella Aurelia che conosceva bene i suoi gusti». Righetti racconta anche l' origine della celeberrima frase pronunciata dal Marchese del Grillo («Me dispiace, ma io so' io... e voi nun siete un cazzo»), una citazione dal sonetto Li soprani der monno vecchio del Belli («Io so' io, e vvoi nun zete un cazzo») «espressa da Alberto a modo suo». Con uno degli altri interpreti della romanità forse - a dire di Righetti - non c' era tutto questo feeling: «Nel mio elenco degli amici di Alberto in molti si stupiranno di non trovare il nome di Carlo Verdone. A noi parenti, come anche alla contessa Patrizia De Blanck, Alberto rivelò di non essersi trovato bene sul set del film Troppo forte . Ci disse che Verdone aveva avuto paura di essere oscurato da lui in un film diretto da Verdone stesso. Di lui non ci disse altro. I fatti parlano chiaro: dopo quel film non lavorarono mai più insieme».

La foto (recuperata) di Alberto Sordi assieme a Stanlio e Ollio. Pubblicato venerdì, 06 marzo 2020 su Corriere.it da Alessandro Fulloni. Una vecchia foto in bianco e nero. In questi giorni circola parecchio sui social ed emoziona molto. Mostra Alberto Sordi davanti a un microfono, dietro di lui compaiono Stanlio e Ollio, i due celeberrimi comici, il primo britannico e il secondo statunitense. È l’unico «clic» che ritrae assieme i tre immensi attori e a ritrovarlo è stato Alberto Anile, storico del cinema e critico, nel corso di una ricerca durata un paio d’anni tra le carte dell’archivio personale di Sordi depositate alla Cineteca Nazionale. Dal loro studio è emerso che quella foto — messa in rete dall’Ansa — venne scattata la sera del 25 giugno 1950 a Roma, a Villa Aldobrandini, sul colle del Quirinale, durante una tournée europea di Stan Laurel e Oliver Hardy oramai a fine della carriera. Un viaggio iniziato in Costa Azzurra e terminato in Italia — all’arrivo alla stazione Termini Stanlio e Ollio furono accolti da una folla impressionante — finalizzato al lancio di quello che sarebbe stato il loro ultimo lungometraggio, «Atollo K». Tra gli appuntamenti nella Capitale, anche quello di cui Anile racconta nel suo libro appena pubblicato, «Alberto Sordi», edito da Fondazione Centro Sperimentale/Edizioni Sabinae in cui la foto è ora riprodotta insieme ad altre 99 immagini inedite o poco note. Uno sketch memorabile davanti a una «platea con forse tremila persone — è la ricostruzione dello storico — tra cui famiglie con bambini, tantissimi, entrati gratis. Sul palcoscenico Stanlio e Ollio improvvisano le loro gag, leggeri passi di danza, smorfie e mimica unica. Dietro, nascosti da un telo, Alberto Sordi e Mauro Zambuto danno le voci ai due comici proprio come facevano nei film». I due italiani erano infatti i doppiatori ufficiali di Laurel e Hardy. Veri e propri alter ego, «apprezzati assai da Stanlio e Ollio. Sordi stava avviandosi a diventare una star mentre Zambuto pochi anni dopo avrebbe lasciato lo spettacolo per trasferirsi negli Usa, insegnando computer science all’università». Ma la foto? «Chi la scattò la diede ad una rivista che non c’è più. Sordi la ritagliò — dice Anile, non nuovo a questi ritrovamenti, tra cui una copia del film Guardie e ladri depositata prima della revisione censoria e con dialoghi differenti da quelli poi ascoltati al cinema — conservandola nel suo immenso archivio che aggiornava con scrupolo, catalogando tutto in album divisi per anni e film. Lo ripeteva spesso: “Voglio conservare tutte le mie cose”». (Sordi e Zambuto restarono con Stanlio e Ollio diverse ore. Anile racconta che l’entusiasmo era «incredibile: i bambini sapevano bene chi fossero Laurel e Hardy. A fine spettacolo dovette addirittura intervenire la polizia per calmare la ressa che circondava il duo comico». Sordi poi se ne andò con la sua auto. In serata, raccontano le cronache di quel giorno, l’attore romano investì una donna sul lungotevere che fortunatamente se la cavò con pochi giorni di prognosi)

Mario Sesti per “il Venerdì - la Repubblica” l'8 gennaio 2020. Una volta Alberto Sordi e sua sorella Aurelia ebbero un' udienza privata da Papa Wojtyla. «Mi è giunta voce» disse il pontefice «che qui c' è qualcuno che sa rifare alla perfezione la voce del Papa». Sordi si volta verso la sorella e le fa: «Ma non mi dire Aurelia, sei tu?». «Alberto aveva iniziato a fare l' imitazione di Giovanni Paolo II, perfetta, già dopo la proclamazione» dice Giancarlo Governi, che con Sordi ha lavorato a lungo in moviola alla Safa Palatino, a scegliere e cucire insieme le sequenze tratte dai suoi film e destinate a un programma della Rai che fece epoca, Storia di un italiano. «Ero con lui quando hanno rapito Moro. "Ci vorrebbero i comunisti: ma quelli veri, con i carri armati. Altro che Berlinguer", disse». Quando invece Il Male uscì con la finta copertina di Paese Sera e la notizia burla che Ugo Tognazzi era il capo delle Brigate Rosse, Governi si presentò in moviola con il giornale e Sordi, credendo si trattasse di una notizia vera, lo guardò severamente e disse con gravità: «Io l' ho sempre sospettato». Nella vita come al cinema «Alberto Sordi l' ho conosciuto da ragazzo: lo andavo a prendere a casa in macchina quando festeggiava il compleanno insieme a mio padre Giancarlo, visto che lui era nato il 16 e Sordi il 15 giugno» dice invece Silvio Governi. «Avevo 18 anni e mi ricordo bene come amava raccontare e spiegare la storia del cinema italiano: per lui Roma città aperta era un mezzo pastrocchio mentre Ladri di biciclette era un capolavoro». «Sordi, nella vita, era a volte indistinguibile da Sordi al cinema» racconta ancora Giancarlo, «una volta mentre montavamo delle immagini di repertorio del ventennio fascista con il refrain di Giovinezza, giovinezza al massimo del volume cominciamo a sentire dei rumori di gente che scalpicciava nel cortile. Ci affacciamo e vediamo gli operai della Safa Palatino che, in silenzio, parodiavano una marcia fascista al passo con la musica che sentivano dalla nostra stanza, con il braccio teso a saluto romano. Alberto non ha perso un secondo. Petto in fuori, mani sui fianchi, è partito con una strepitosa caricatura del duce: "Italiani!". Poi amava tormentare De Sica, che pure adorava come artista. Una volta, durante l' inaugurazione degli stabilmenti di Dinocittà, alla posa della prima pietra, diede uno spintone a Vittorio che finì addosso a Fanfani che finì a sua volta con le mani nella calce. "Eccellenzaaa, è stato lui" disse De Sica a un Fanfani che si voltò sconcertato "è una vita che mi dà le spinte !"». «I film sono come figli» I suoi film preferiti? «Se glielo chiedevi» sorride Governi «ti rispondeva con un' altra domanda: "E i tuoi figli preferiti? Io non ne ho avuti, i miei sono i film". Però c' erano due film di cui non ha mai voluto più parlare: Il maestro di Vigevano, per le litigate con il regista Elio Petri, e La più bella serata della mia vita di Scola: perché durante le riprese morì la sorella Savina». Silvio Governi,regista, e il padre Giancarlo sceneggiatore, sono gli autori di Alberto Sordi, un italiano come noi, un film che, dopo un passaggio nelle sale, andrà in onda sulla Rai per celebrare il centenario della nascita di Sordi che cade il prossimo 15 giugno. Avrà come protagonista, una sorta di Virgilio all' interno del continente di un personaggio/mondo come Sordi, Sabrina Impacciatore: sarà lei a portare per mano il pubblico dalle sale di doppiaggio dove Sordi dava la voce a Oliver Hardy fino agli onori del Campidoglio dove l' allora sindaco Francesco Rutelli gli volle cedere la fascia tricolore di "Sindaco di Roma per un giorno". «Spero che il film» aggiunge Silvio «grazie anche alle testimonianze di Ettore Scola, Furio Scarpelli, Gigi Magni, Carlo Verdone, Giovanna Ralli, possa avvicinare le giovani generazioni a quello che per noi è un monumento non solo del cinema ma della cultura italiana contemporanea».

Il sostegno all' orfanotrofio. Giancarlo è un fiume di ricordi: «Una volta mi dice: portami al Divino Amore. Alberto aveva la patente ma non guidava mai. Quando arriviamo, mi porta a un orfanotrofio lì vicino. Entrati, ci accoglie una folla di bambini. "Senza di lui, questo posto non esisterebbe" mi dice una suora. Alberto mi guarda, serio, e mi dice: "Guai a te se ne parli con qualcuno". Ho raccontato questo episodio solo dopo la sua morte».

Alberto Sordi, un italiano come noi è prodotto da Pierfrancesco Fiorenza per Produzione Straordinaria con la partecipazione di Rai Cinema e il sostegno della Fondazione Casa Museo di Alberto Sordi. E il film finisce, inevitabilmente, nella casa, la villa dell' Aventino dove Sordi visse per più di 40 anni. È un luogo unico che contiene un teatrino settecentesco, una sala da barbiere con le poltrone girevoli, il salotto dove l' attore leggeva i copioni. Una volta finiti, li gettava a terra. E sotto sentivano il tonfo.

Da “la Stampa” il 18 febbraio 2020. Trasparente e misterioso, popolare e insondabile, allegro, ma anche terribilmente malinconico. Nella Villa di via Druso, dove amava rifugiarsi, le immagini del documentario di Fabrizio Corallo intitolato Siamo tutti Alberto Sordi? suscitano l' idea di un enigma irrisolto, riflettono il senso inafferrabile di una personalità complessa, di un uomo di cui si sapeva tutto senza sapere niente, di un artista amatissimo, capace di dedicare la vita al pubblico, ma anche di mantenere intatto il segreto della sua anima. Nella ridda di sketch, brani di film, memorie, interpretazioni, spiccano le parole finali del protagonista: «Io la tristezza la nascondo. Perché a nessuno importa niente della mia tristezza. La tristezza la tengo per me». Una dichiarazione di sfiducia nel genere umano, pronunciata, non a caso, dal capofila del cinismo ironico, dall' interprete inimitabile di «uomini immaturi, furbi, opportunisti, servili, incapaci di solidarietà e altruismo». Nel cinema di Sordi, osserva Corallo, «riecheggiano certe costanti nazionali come il familismo amorale e la mancanza di senso civico, considerate troppo spesso dagli italiani quasi come una dote, un patrimonio, un' autodifesa allarmata del proprio "particulare"». I suoi personaggi «scomodi rappresentati sempre criticamente» spingono gli spettatori a un' auto-analisi ineludibile: «Sordi ha portato in scena tanti "mostri" del suo tempo, nei loro aspetti divertenti, con l' intento esplicito di condannarli e fustigarli anche se, troppo spesso, il suo pubblico ha finito con l' identificarsi in lui senza farsi tante domande». Nel film (scritto da Corallo con Giovanni Piscaglia) i testimoni dell' avventura del grande italiano tentano di definirne i tratti, stabilendo relazioni tra ruoli e storia del Paese: «Stravolgeva le regole del personaggio comico - osserva Mario Monicelli -, Sordi era arrogante e prevaricatore». Eppure perfetto, come dice Paolo Mieli, nel cogliere l' indole dell'«italiano medio». Renzo Arbore lo vede come un «futurista» della recitazione, Walter Veltroni individua la ragione dei primi successi radiofonici «nella sua follia» e nel cogliere «il clima effervescente dell' Italia, che guardava al futuro con allegria». Enrico Vanzina celebra, rievocando una sequenza di Totò e i Re di Roma, diretto dal padre Steno, la cifra di un talento scintillante: «Totò aveva capito subito che Sordi era un grande attore e su quel set, inventando dal nulla l' idea di sputargli sul collo, cercava di rubargli la scena». Claudio Amendola cita la confessione in cui Robert De Niro svelò di aver studiato lo stile del collega italiano guardandolo all' opera in Accadde al penitenziario. Giovanna Ralli lo definisce un «eroe dei nostri tempi». Sul fronte del privato parlano, nel documentario in onda il 12 aprile su Sky Arte (e poi il 10 giugno su La7), Carlo e Luca Verdone che rievoca la reazione dell' artista alla morte della sorella Savina: «Dal 1972, nella Villa dove si svolgevano spesso feste, cocktail, proiezioni per gli amici, le tapparelle si abbassano, Sordi diventa più malinconico e i rapporti con i familiari diventano ancora più stretti». Appassionato ammiratore del genere femminile, Sordi collezionò storie e fidanzamenti senza mai giungere al matrimonio. Per Andreina Pagnani, racconta la giornalista Gloria Satta, perse la testa, con l' austriaca Uta Franzmair mandò a monte le nozze, ma la fascinazione più forte fu per Silvana Mangano: «Gli sembrava di averla conosciuta da sempre», commenta Masolino D' Amico. Per Anna Foglietta la donna che artisticamente gli tenne testa con più forza è stata Monica Vitti: «Con lei c' era un vero duello, un ring aperto, perché Monica non arretrava mai di un passo». Del rapporto con Roma e la romanità parla Francesco Rutelli che per un giorno, nell' ottantesimo compleanno, conferì all' attore la carica di sindaco. Gli spezzoni delle pellicole, dal bianco e nero lucente di capolavori come Una vita difficile alle tinte sgargianti di Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l' amico misteriosamente scomparso in Africa?, dal Vedovo alla Grande guerra, dal Borghese piccolo piccolo al Medico della mutua, dal Tassinaro con la sequenza recitata con Giulio Andreotti, a Fumo di Londra, seguito dall' apparizione tv in cui Mina canta Breve amore, completano il puzzle Sordi: «Il suo merito principale - spiega Ettore Scola - è stato quello di non aver camuffato le bassezze con un' ipocrita rispettabilità: non era un ritrattista, ma un inventore di caratteri. Era, soprattutto, un disturbatore e un dissacratore, è andato sempre contro i loghi comuni, contro le convenienze».

Giuseppe Fantasia per huffingtonpost.it il 23 febbraio 2020. Tra pochi giorni, se fosse stato ancora in vita, Alberto Sordi avrebbe compiuto cento anni. Solitario, schivo, molto diverso nella vita privata rispetto ai clichés, fiero della propria origine e delle proprie convinzioni, decise di convivere con le proprie debolezze, su tutte il problema col suo “faccione” ritenuto poco adatto per interpretare personaggi del cinema dell’epoca. Autentico mito del cinema italiano nel mondo, interpretò più di duecento film divenendo il simbolo della Commedia all’Italiana raccontando i drammi e i sogni del nostro Paese appena uscito dalla Guerra con sorriso e ironia, ma anche con un forte sguardo critico. Un autentico mattatore di questo genere che ci ha regalato una galleria di personaggi indimenticabili grazie ai suoi giochi di tic, manie, modi di parlare e di muoversi come il suo famosissimo saltello. Uno come Luca Manfredi, regista e figlio di un altro mito del nostro cinema, Nino Manfredi, lo ha conosciuto bene e ha deciso di raccontarlo in “Permette? Alberto Sordi”, un film co-prodotto da Rai Cinema e Ocean Productions e distribuito da Altre Storie che sarà nelle sale solo il 24, 25 e 26 febbraio prossimi. Un film che va a ricordare la straordinaria vitalità, l’immenso talento, la sottile ironia tra difetti e virtù di un artista e di un uomo che nel film è interpretato dall’attore romano Edoardo Pesce. “Tutto parte dal produttore Sergio Giussani con cui abbiamo pensato di festeggiare un Sordi inedito, sconosciuto ai più, raccontando i primi venti anni della sua formazione come uomo e come artista che lo hanno portato ad essere quello che è poi diventato”, spiega il regista all’HuffPost. “Il film parte dal 1937, quando, giovanissimo, faceva l’usciere d’albergo a Milano mentre studiava all’Accademia dei Filodrammatici da cui venne espulso a causa del suo spiccato accento romano, per poi proseguire attraverso un percorso ricco di ostacoli e di difficoltà fino al 1954, quando con “Un americano a Roma” di Steno diventò uno degli attori più apprezzati del cinema italiano. È un film che mette in risalto la sua grande determinazione”. “Aveva deciso fin da bambino che avrebbe fatto l’attore a tutti i costi nonostante le difficoltà – continua Manfredi – e il film è il racconto di un uomo che ha fatto della sua vita un esercizio tenace della volontà mettendo in luce fragilità e debolezze”.

Qual è il primo ricordo che hai di lui?

“Ricordo un pranzo a casa mia, in famiglia, perché stavano preparando il film di Scola ambientato in Africa – “Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa?” -  un titolo lunghissimo alla Wertmüller. Ricordo che Alberto disse a mio padre che aveva proprio una bella famiglia e lui gli chiese quando aveva intensione di sposarsi e di farsene una. La risposta di Sordi – che ascoltai personalmente – “Che mi metto un’estranea dentro casa?” - rimase storica e lui l’ha ripetuto tante altre volte”.

La storia d’amore con Andreina Pagnani, diva del teatro di posa e doppiatrice, lo aiutò moltissimo nella sua carriera: è così?

“Sì, perché il Sordi grande attore e grande artista lo conosciamo tutti, gli aspetti più interessanti, quelli più privati sono meno conosciuti. Lui è stato una specie di toy boy ante litteram. Quindici anni meno di lei, per l’epoca quella differenza d’età faceva scandalo. Fu anche osteggiato dalla madre Maria che era una donna che lo amava moltissimo ed era il vero capo famiglia. Lo condizionò moltissimo. Suo padre Pietro, che lavorava al Teatro Costanzi suonava il bombardino, era un uomo molto mite che in qualche modo lo assecondava. Oltre a questo, raccontiamo anche l’amicizia con Aldo Fabrizi, l’incontro con Federico Fellini con cui farà i suoi primi due film (Lo Sceicco Bianco e i Vitelloni, ndr)”.

Un rapporto a dir poco edipico.

“Decisamente. Ho letto molte biografie su Sordi e in una di queste c’è la dichiarazione di Fellini che era presente quando morì sua madre. Si chiuse a chiave ventiquattro ore nella stanza dove c’era la madre senza fare entrare nessuno, mandando via persino gli uomini delle imprese funebri per poi farli tornare il giorno dopo”.

Secondo alcuni, Sordi sfruttò il suo essere già una diva di teatro, di posa e doppiatrice per iniziare la sua carriera.

“Lei era famosa, lui no, su questo non c’è alcun dubbio. Nelle ultime interviste Sordi dichiarò in realtà che questa relazione non lo aiutò più di tanto, ma io, avendo meglio approfondito il tema, ho scoperto in realtà che quella relazione lo ha aiutato a essere introdotto nel bel mondo del cinema e dello spettacolo. Andreina era già una diva organizzava spesso party in cui lui poteva entrare a contatto più facilmente con quel mondo lì, con il cinema. Sicuramente gli è stata utile”.

I due rimasero in buoni rapporti: dopo una storia d’amore importante, si può restare amici?

“Si può, io posso dimostrarlo. Di guai ne ho fatti tanti: ho quattro figli da tre mamme diverse (tra cui Francesco, nato dal matrimonio con l’attrice Nancy Brilli, ndr), potrei essere portato ad esempio. La mia è una famiglia allargata. Amo i miei figli con i quali ho ottimi rapporti e cerco di averli anche con le loro mamme, anche se la cosa è più complicata, comunque questa mia famiglia allargata mi piace molto. Sordi, invece, è sempre stato ripiegato su sé stesso. Ha fatto una scelta di non impegnarsi con nessuno, di dedicarsi alla professione e al suo lavoro circondato dai suoi familiari, ad esempio dal fratello Pino che era laureato in ingegneria e che divenne poi il suo segretario e le due sorelle Aurelia e Savina che lo hanno accudito per tutta la vita. Con la Pagnani sono rimasti amici e quando lei stava male, lui andava a trovarla. La loro relazione credo sia stata l’unica storia d’amore che Sordi ha avuto nonostante tutti lo vivessero come il grande scapolo. In realtà. tutti pensavano che non abbia mai avuto una vera relazione e che non si sia mai impegnato con nessuna, cosa che peraltro è vera”.

Voci insistenti hanno parlato anche di una sua presunta omosessualità.

“Che però non è vera, anche perché nell’ambiente era noto come grande amatore. Lui ha avuto tantissime relazioni brevi e avventure senza mai impegnarsi, persino con un’ austriaca la cui famiglia aveva diversi alberghi proprio in Austria. Il padre della ragazza arrivò a Roma per concordare la data delle nozze, ma Sordi mandò il suo agente/segretario Bettanini, già agente di mio padre, che gli disse, parlando al plurale: non possiamo sposarci perché troppo impegnati per lavoro”.

Cosa può insegnare oggi Sordi ai Millennials che non lo conoscono?

“Questa sua domanda mi ha portato a fare questo lavoro su Sordi e prima ancora a mio padre (nel film tv “In arte Nino” con Elio Germano, ndr). Quattro anni fa, parlando con degli amici di mio figlio che all’epoca aveva sedici anni, mi sono reso conto che mio padre non lo conosceva nessuno, solo qualcuno lo riconosceva se citavo il Geppetto del Pinocchio di Comencini, altrimenti no. Questa cosa sta accadendo anche con Sordi: si sta perdendo la memoria storica di un patrimonio culturale importantissimo del nostro cinema. Un recente sondaggio fatto tra i diciottenni che ho potuto verificare dice che si chiede loro chi sia Sordi, alcuni hanno risposto che è uno sciatore o addirittura ‘quello dei documentari della Rai’, riferendosi ad Alberto Angela”.

C’è poco da sorridere…

“Esatto. Questa cosa è una specie di grido di allarme, significa che tra vent’anni questi ragazzi non sapranno neanche chi erano Totò o Anna Magnani. Purtroppo questo è un paese che dimentica in fretta, quindi credo che sia anche compito del servizio pubblico difendere questa memoria storica non solo trasmettendo i loro bellissimi lavori, ma facendo questi film biografici che raccontano chi erano e che grande fatica hanno fatto per diventare i grandi attori che abbiamo conosciuto”.

Manfredi era suo padre e Sordi un amico di famiglia: che cosa le hanno lasciato?

“Sordi è stato il migliore di tutti a rappresentare l’italiano medio interpretando spesso due facce della stessa medaglia: è stato l’eroe e il vigliacco, l’ingenuo e il cinico calcolatore, la vittima e il persecutore. Ha fatto oltre duecento film, quasi il doppio di quelli di mio padre, ha messo i pregi e i difetti di tutti gli italiani facendoci ridere e piangere allo stesso tempo come solo un grande artista sa fare. È stato, poi, una grande maschera: a differenza di papà che spariva dietro la pelle dei personaggi che interpretava, perché aveva una formazione diversa, frequentò l’Accademia, ed era capace di diventare il portantino di C’eravamo tanti amati come l’emigrante di Pane e Cioccolata - Sordi rimaneva sempre Sordi, perché era la sintesi dei personaggi che interpretava. Lui dichiarò che quando andava alle proiezioni di controllo dei film che faceva, si vergognava perché si sentiva scoperto”.

Decisiva la frase che gli dedicò Ettore Scola il giorno del suo funerale.

“Sì. Disse che Sordi non ci ha mai permesso di essere triste. Quella dichiarazione di Ettore la condivido totalmente. Sordi non lo ha mai permesso ed è uno dei motivi per cui lo abbiamo amato e continueremo a farlo”.

Gloria Satta per “il Messaggero” il 6 giugno 2020. «Quando Alberto Sordi era ormai anziano, gli comunicai il desiderio di girare un film sulla sua vita. Lui mi guardò stupito e replicò: vuoi scherzare? Al di fuori del lavoro, la mia vita è sempre stata grigia». Lo rivela Christian De Sica alla vigilia del centenario del grande attore romano, nato il 15 giugno 2020 e mancato il 24 febbraio 2003. Christian, 69 anni, si prepara a ricostituire il mitico terzetto di tanti cinepanettoni: girerà un film con Massimo Boldi diretto da Neri Parenti. Intanto racconta il suo Sordi, solido affetto della sua giovinezza e grande amico del padre Vittorio che, con il re della commedia, girò davanti e dietro la cinepresa film memorabili come Il conte Max, Gastone, Il giudizio universale, Il boom, Il vigile.

Christian, chi era per lei Alberto?

«Uno zio. Frequentava regolarmente casa nostra e, ricambiato, adorava papà che nel 1951 aveva prodotto il suo primo film da protagonista, Mamma mia che impressione!. Nessuno, all'epoca, voleva Sordi: il suo nome venne perfino cancellato dai manifesti di Lo Sceicco bianco... Ma mio padre si era innamorato di lui ascoltandolo alla radio nel ruolo del Compagnuccio della parrocchietta».

Che tipo era, Sordi, in privato?

«Scherzosissimo e sempre allegro a differenza di tanti comici che, come Totò, fuori dal set ostentavano una tristezza quasi lugubre. Amava giocare e far ridere anche nelle occasioni più inaspettate».

Ne ricorda qualcuna?

«All'inaugurazione di Dinocittà, gli studios di Dino De Laurentiis sulla Pontina, Alberto diede uno spintone a papà che finì tra le braccia di un esterrefatto Amintore Fanfani. Vittorio si scusò tra le risate generali: quest'uomo, onorevole, mi spinge da vent'anni».

Ha potuto constatare di persona la generosità di Sordi che fu invece perseguitato dalla fama immeritata di avaro?

«Certo. Ricordo che per i 18 anni mi regalò una costosissima macchina per dimagrire e quando mi sposai (con Silvia Verdone, ndr) un accendino d'oro massiccio».

È vero che negli anni '50 Sordi soffiò a suo padre la villa di Caracalla, dove sarebbe vissuto fino alla fine?

«Sì. Papà non aveva i soldi sufficienti, se li era giocati al Casinò. Poté permettersi solo il nostro appartamento di via Aventina. Alberto invece comprò la villa in contanti».

Le ha mai dato dei consigli?

«Mi raccomandò di non ascoltare nessuno e di fare sempre di testa mia. E di abbracciare e baciare tutti, anche quelli che mi avevano fatto un dispetto. Voleva vivere in pace».

Cosa ricorda dei due film che avete girato insieme, nel 1979 Il malato immaginario e Vacanze di Natale '91?

«Nel primo volevo parlare in romanesco, ma Sordi mi bloccò spiegandomi che solo lui ne aveva il diritto. In compenso mi suggerì di pronunciare tutte le battute in forma interrogativa con grande effetto comico. Era severissimo: ad ogni mia papera minacciava di farmi doppiare da Giulio Panicali, mitica voce italiana delle star hollywoodiane».

E sul set del cinepanettone come andò?

«Dovevamo doppiare in fretta e furia il trailer del film e Sordi, ultrasettantenne, faticava a sincronizzare le battute. Mi chiese allora di dargli un colpetto sulla spalla per avvertirlo. Io gli risposi: Se sbagli chiamo Panicali!. Fu la mia vendetta affettuosa 11 anni dopo...».

Perché, secondo lei, non si è mai sposato?

«Non voleva mettersi un'estranea in casa: la sua celebre battuta corrispondeva ai suoi sentimenti. Però non si fece mancare gli amori e a casa nostra portò molte sventole. Ma alla prima pretesa matrimoniale le scaricava».

Qual è il merito più grande di Alberto?

«Aver rivoluzionato la comicità rendendo simpatici dei personaggi spregevoli che incarnavano i difetti italiani. Mi spiegava: non si ride con San Francesco ma con Satana».

A quale dei film di suo padre interpretati da Sordi lei è più legato?

«Amo molto Il giudizio universale in cui Alberto faceva il venditore di bambini. Il boom, invece, alla prima uscita fu un flop: la borghesia che andava al cinema non gradì di essere l'oggetto di quella satira feroce».

Vittorio e Alberto come reagirono?

«Se ne fregarono. Altri tempi: dei giganti come loro potevano ignorare gli incassi e andare avanti. Mica come noi, sempre terrorizzati che ci tolgano il giocattolo».

Roberto Alessi per Novella 2000 il 27 febbraio 2020. Sì, l’ho amato, di un amore intenso, puro. Sesso? Cerchiamo di non parlare di volgarità quando si parla di una persona così, il corpo va oltre, posso solo dire che lo avrei sposato senza nemmeno pensarci per un momento. Ero estasiata quando gli parlavo, era un artista pazzesco, ma era anche un uomo pazzesco, di un fascino che aveva quasi una sua luce». Valeria Marini quando parla del suo amico Alberto Sordi assume un’aurea che ricorda certe nipotine quando parlano di un nonno speciale, che ha saputo donare loro la felicità. Ed è quasi emozionante anche per me sentirla parlare, dopo anni e anni di interviste che faccio, forse perché a Sordi tutti dobbiamo qualcosa, perché ha saputo accarezzare il nostro cuore, ma ha saputo anche educarci a migliorare, perlomeno ad accettare anche i nostri difetti tipicamente italiani. Roma si appresta a celebrare Alberto Sordi per i cento anni dalla sua nascita con una mega mostra (Il Centenario  –  Alberto Sordi 1920-2020 dal  7  marzo  al 29  giugno  2020). La mostra sarà ospitata a casa sua, nella villa che si affaccia sulle Terme di Caracalla, dove viveva con le sorelle, e che qualcuno ha cercato di sottrarre alla Fondazione per i giovani artisti e a Roma, cui ha voluto invece lasciarla la signorina Aurelia, la sorella ed erede di Albertone, che se ne è andata a 97 anni, nel 2014. Sordi si innamorò subito della villa di via Druso al Celio quando la vide nella primavera del 1954, tanto che la comprò solo poche ore dopo averla visitata. Ci saranno tutte le persone che possono testimoniare l’amore che avevano per Alberto. Ma la più attesa è lei, Valeria Marini, voluta da Sordi come protagonista femminile del suo ultimo film, Incontri Proibiti, di cui Sordi fu anche regista. «Avevamo pensato anche a Sabrina Ferilli, e a Monica Bellucci, ho incontrato anche Manuela Arcuri, bellissima, ma mi tornava in mente sempre il nome di Valeria Marini», ricordava Alberto Sordi, «così ho chiesto a Paola Comin, che mi segue come press e come manager di contattarla, e l’ha trovata a Los Angeles». «Ero a Los Angeles per studiare inglese», ci racconta la Marini, «prima mi ha chiamato mia madre, poi Paola Comin, non potevo crederci: Alberto voleva me. Puoi immaginare la mia emozione: uno dei più grandi attori del cinema italiano, forse il più grande, voleva me. Una grande emozione». Il provino? «Io dovevo guidare un’auto, e lui mi stava al fianco, lui mi chiamava “Signorina Federica”, perché era il nome del mio personaggio, ma aveva paura che fossi distratta, a un certo punto mi disse: “Sta attenta al camion! Sta attenta al camion!”. Che strano: non c’era scritto sul copione del provino. E non c’era infatti: aveva solo paura che potessi andare a sbattere contro un camion in strada, ma poteva stare tranquillo, sono sempre prudente». Chi lavorava con Sordi e Valeria in quei mesi ricorda il loro sodalizio. Ricorda Paola Comin, grande collaboratrice di Sordi e famosa ufficio stampa del grande cinema: «Valeria era attentissima, precisa, puntuale, anche perché Alberto, al di là della simpatia, sul lavoro è sempre stato molto severo. In quel film era anche il regista, non c’era da scherzare. Poi ci si rilassava a tavola, e poteva capitare anche la battuta. Lui e Valeria, amici, grandi amici. Lui aveva 77 anni, era molto divertito da Valeria, così solare, allegra, felice di stare accanto a lui e Alberto l’apprezzava, apprezzava che una ragazza potesse essere così contenta di potergli stare accanto. E non pretendeva nulla di più, perché Alberto era un grande signore». «Un principe», conclude Valeria, che vola alto sulle insinuazioni che qualcuno aveva cercato di fare in quel periodo. «Lui aveva 77 anni, ma l’età non era un problema. Ripeto: l’ho amato, di un amore totale, platonico, certo, ma un’anima così grande va oltre la carnalità. Ancora oggi quando parlo di lui, parlo al presente, Alberto non se ne è mai andato dal mio cuore, e forse anche dal cuore di tutti quelli che, come me, hanno avuto la fortuna di conoscerlo».

Dagospia il 29 marzo 2020. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Roberto, di seguito la mia lettera a Renato Franco in relazione alla sua intervista sulla biografia scritta da Igor Righetti uscita oggi sul Corriere della Sera e da te ripresa. Grazie per l’attenzione, buon lavoro e cari saluti, Paola Comin.

"Gentile Renato Franco, sono Paola Comin e ho avuto l’immenso privilegio di assistere Alberto Sordi negli ultimi dieci anni della sua vita in qualità di ufficio stampa. Nei primi tempi con la mia maestra Maria Ruhle, grandissima press agent in anni dove questi professionisti in Italia si contavano sulle dita di una mano e in seguito, quando Maria allentò il lavoro per motivi personali e di età, da sola. Alberto in quel periodo realizzò e partecipò a pochissimi film, avendo quindi molto tempo libero per accettare gli inviti più interessanti di grandi Festival, rassegne e Premi che volevano omaggiarlo. Insieme, quasi sempre soli, o accompagnati da grandi firme del nostro giornalismo, siamo stati in America del Nord e del Sud, in mezz’Europa e abbiamo attraversato diverse decine di volte l’amata Italia. Quindi ho avuto modo di conoscerlo molto bene. Perché le scrivo questo? Perché in dieci anni non ho mai visto o conosciuto un suo parente e una delle prime raccomandazioni che mi fece Maria all’inizio della nostra collaborazione, fu quella di non accettare qualcuno che si presentasse come cugino. Errore che molti anni prima aveva ingenuamente commesso lei e per il quale fu poi aspramente redarguita. Errore che invece perpetrai anch’io quando lo persuasi a rispondere al telefono ad Igor Righetti. Quest’ultimo mi chiamò al mio numero mobile circa due anni prima della scomparsa di Sordi, presentandosi come un lontano parente da parte della madre di Alberto, Maria Righetti, e pregandomi di intercedere a che gli rispondesse al telefono (Sordi aveva solo un numero fisso e filtri severissimi). Righetti mi raccontò che stava conducendo un programma radiofonico e voleva tanto dei consigli da lui. Ed io, tra l’altro, ho dovuto anche insistere parecchio per convincere Sordi. Il  signore in questione, che si è spesso presentato in qualità di “nipote” non è mai entrato non solo nella villa ma neanche nell’ufficio del Maestro, che in tantissime occasioni mi aveva ribadito, motivandolo, di  non riconoscere parenti. Gli unici  erano il fratello e le adorate sorelle. E quando iniziai a lavorare con lui era rimasta solo Aurelia che proteggeva e amava oltre ogni dire e che dopo la morte di Alberto confermò in più occasioni e non solo a me, questa antica avversione per il parentado. Nessuno con questo titolo, tantomeno Righetti, è mai stato invitato ad una prima, ad una manifestazione in suo onore e neanche alla grandiosa festa che gli tributò Roma per i suoi ottanta anni, quando Rutelli gli “prestò” la fascia da Sindaco per quel giorno. E nessun parente fu invitato al memorabile funerale organizzato dall’allora sindaco Veltroni, né salì sul palco riservato alle persone che in vita gli erano state più care, in una  piazza San Giovanni commossa e gremita. Tutto quel che dichiara e scrive Righetti  lo ha letto sulle innumerevoli biografie e interviste dedicate a quell’immenso e inimitabile Artista. In ultimo si è persino alleato con la contessa De Blank che con grande “nobiltà”  raccontò ad un settimanale, intervistata guarda caso da Righetti,  di aver avuto una relazione in gioventù con Sordi, giudicandolo tra l’altro nel talamo uno scarso amante, inventando incontri e confidenze inesistenti, senza vergognarsi di parlare di un uomo scomparso che aveva fatto della discrezione un irrinunciabile stile di vita. Tutto questo per significare che  nessun parente ha mai frequentato Casa Sordi. Come mai io ho scatole di immagini, scritti, ricordi, dediche, filmati televisivi con Lui e questi “parenti” nulla, se non che una foto scattata in un evento pubblico a Salerno? E non è strano che non abbia mai, sottolineo mai, parlato di loro con nessuno, giornalisti o biografi? Non esiste una riga dove venga citato uno di questi cugini con i quali sarebbe stato in rapporti così stretti da esprimere giudizi di cui era invece estremamente parco. Ed è profondamente ingiusto pubblicare dichiarazioni assolutamente false sui rapporti con Manfredi, per fargli omaggio intervenne, già malato, alla prima del restauro di “C’eravamo tanto  amati”, o su Carlo Verdone per il quale nutriva grande stima e sincero affetto, come sulla volontà completamente infondata di fare della sua casa un orfanotrofio. La povera Annunziata Greccia, amica dalla adolescenza delle sorelle Sordi, rimasta orfana fu assunta da Alberto dietro le insistenze di Savina e Aurelia ed è stata fedelmente vicino a Lui fino alla sua scomparsa. Ma per cinquant’anni ha continuato a dargli del ‘lei’ e non era di certo persona che riceveva le sue confidenze. Come non è vero che lo infastidiva essere chiamato Albertone, tutt’altro. Ovviamente le mie affermazioni sono  sostenute da prove e testimonianze inconfutabili. Alberto amava e rispettava il suo pubblico in maniera totale. Potrei raccontare scelte e atteggiamenti sorprendenti e quasi incredibili. Diceva che tutto quel che aveva lo doveva al suo pubblico e a lui avrebbe lasciato tutti i suoi averi. Chi visiterà, quando sarà superato questo drammatico momento,  la splendida Mostra organizzata nella sua Villa, scoprirà veramente la parte “segreta” di Alberto attraverso tutto quello che aveva conservato della sua vita e della sua arte per non essere dimenticato dagli italiani e continuare a farli sorridere. Ho amato in maniera incondizionata il Maestro e non ho altro interesse che difendere le sue volontà e la sua memoria, che venero. Ho testimoniato davanti ai giudici a sostegno delle decisioni testamentarie di Aurelia Sordi, che erano quelle che aveva indicate il fratello e difeso i  loro fedeli e onesti collaboratori, che entrambi stimavano e ai quali erano profondamente affezionati, ingiustamente accusati e poi assolti. I parenti che hanno cercato di appropriarsi dell’ingente eredità e hanno perso la causa in maniera irrevocabile, farebbero bene a tacere e sparire. Con i più cordiali saluti"

Dagospia il 30 marzo 2020. Riceviamo e pubblichiamo: Gentile Roberto D’Agostino, in merito alla lettera di Paola Comin pubblicata su Dagospia il 29 marzo 2020 preciso quanto segue: “Paola Comin, che partecipò con grande entusiasmo il 23 febbraio 2006 a una puntata del mio programma Il ComuniCattivo su Rai Radio 1 dedicata a mio cugino Alberto Sordi durante la quale più volte sottolineò la mia frequentazione familiare storica con Alberto che a lei era mancata (del resto sarebbe folle o puro opportunismo intervenire nel programma di un millantatore e addirittura chiamarmi spesso per promuovere nella mia trasmissione le attività degli artisti da lei rappresentati),  è stata una dipendente di mio cugino in qualità di collaboratrice per l’ufficio stampa negli ultimi dieci anni della sua vita. Tanto per sfatare una delle tante bugie raccontate da Paola Comin che vuole dimostrare di conoscere ciò che non conosce affatto, io ho cominciato la mia esperienza radiofonica il 30 giugno del 2003, quattro mesi dopo la morte di Alberto, e non due anni prima della sua scomparsa come affermato dalla Comin. È cosa nota a tutti che Alberto fece della riservatezza una ragione di vita e con il suo pubblico che tanto amava, così come con i suoi collaboratori e il personale dipendente, non ha mai condiviso la sua vita privata. Addirittura Paola Comin non conosce neppure i cognomi della segretaria storica di Alberto, Annunziata Sgreccia e non Greccia, e del suo primo agente fino al 1965 Gastone Bettanini e non Bettarini. Paola Comin se ne faccia una ragione: il sangue si eredita. Si crei altre situazioni per ottenere il suo agognato momento di visibilità. E come avrebbe detto il nostro amato Alberto: ‘Pussa via!’”. Cordiali saluti, Igor Righetti.

Gloria Satta per "ilmessaggero.it" il 29 marzo 2020. Non ci sono più ostacoli: dopo l' estate, una volta terminata la mostra del centenario in programma dal 7 marzo al 29 giugno, nella villa di Alberto Sordi affacciata sulle Terme di Caracalla prenderà il via la realizzazione pratica del museo dedicato al grande attore scomparso nel 2003. I 37 aspiranti eredi che avevano impugnato il testamento di Aurelia, la sorella di Alberto, hanno perso la causa. Dopo il tentativo, fallito nel 2018, di sequestrare l' ingente patrimonio di Sordi, tutte le loro istanze sono state rigettate e il Tribunale di Roma ha riconosciuto la piena legittimità dell' atto che destinava il tesoro dell' attore alla Fondazione Museo Alberto Sordi proprio in vista della realizzazione di un centro espositivo permanente.

IL TESTAMENTO. E' dunque il pubblico l' unico erede dell' amatissimo Albertone. Lo ha confermato la sentenza, molto dettagliata e non più contestabile. Hanno infatti rinunciato all' appello i 37 lontani parenti che accusavano Aurelia (scomparsa nel 2014 a 97 anni) di essere incapace di intendere e di volere quando, nel 2011, decise di mettere nero su bianco le volontà del famoso fratello il cui patrimonio faceva gola a molti: oltre alla grande villa costruita dall' architetto Clemente Busiri Vici un secolo fa e acquistata da Alberto nel 1954, fanno parte dell' eredità il vasto studio di Via Emilia, conti correnti, titoli, azioni. Ma la signorina Sordi, ha stabilito il Tribunale, al momento dell' atto era lucidissima (lo era anche quando elargì del denaro all' autista e alle persone di servizio, tutti assolti un anno fa dall' accusa di circonvenzione di incapace). E proprio per evitare l' assalto dei questuanti e rispettare la volontà di Alberto, dopo la scomparsa dell' attore si era rivolta alle persone di cui si fidava di più per creare la Fondazione Museo Alberto Sordi a cui destinare il tesoro ereditato. A condizione che venisse realizzato il museo all' interno della villa, vincolata peraltro dal ministero dei Beni Culturali a questa specifica destinazione.

IL CONCORSO. Presidente della Fondazione è Italo Ormanni, già magistrato di chiara fama, presidente onorario Walter Veltroni e vicepresidente Giambattista Faralli che fu molto vicino ad Aurelia e oggi rivela: «Un primo nucleo del Museo è già stato realizzato: è l' archivio che abbiamo riorganizzato, digitalizzato e sistemato nei locali più adatti della villa per riaccogliere la sterminata documentazione relativa alla vita e al lavoro di Sordi». L' inaugurazione è prevista il prossimo 15 giugno, il giorno in cui Alberto avrebbe compiuto 100 anni. «Riconosciuto di particolare rilevanza storica dalla Sovrintendenza, l' archivio in futuro si aprirà anche ai contributi di altri attori e registi: diventerà un centro di consultazione su una stagione irripetibile del cinema italiano e sul ruolo centrale di Roma nella realizzazione dei grandi film».

I PROGETTI. Per creare il museo, tre anni fa la Fondazione aveva indetto un concorso per giovani architetti in tandem con la Fondazione Alberto Sordi Giovani (di cui è presidente Ormanni e presidente onorario Carlo Verdone) con la collaborazione della Facoltà di Architettura presso La Sapienza. Avevano vinto tre progetti, tutti firmati da laureati under 30: costituiranno ora la base per dare inizio ai lavori rispettando così il desiderio di Sordi che dedicò tutta la sua vita al pubblico e al pubblico ha voluto lasciare il suo tesoro, frutto del suo lavoro.

«Quando si vince una causa c' è sempre soddisfazione», commenta l' avvocato della Fondazione, Claudio Martino, «ma quella più grande, per noi, è aver contribuito ad attuare la volontà di Alberto prima e poi di sua sorella Aurelia, con la quale avevamo personalmente preso un impegno. La villa diventerà finalmente un museo, un luogo aperto e fruibile da tutti. Il rischio che prendesse un' altra destinazione è dunque scongiurato».

·        100 anni dalla nascita di Isaac Asimov.

Isaac Asimov è stato uno dei più grandi scrittori di fantascienza e uno dei più ineguagliati divulgatori scientifici del mondo. Pubblicato mercoledì, 01 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Fallai. La sue grande fortuna è dovuta al felice connubio tra invenzione letteraria e verità scientifica che riesce a rendere i suoi libri verosimili e fantastici insieme, veri specchi di un futuro possibile. Nato da una famiglia ebraica il 2 gennaio 1920 a Petrovichi, in Bielorussia, a soli tre anni emigra con la famiglia negli Stati Uniti, stabilendosi a Brooklyn. Il padre acquista un emporio di giornali e dolci, e Asimov inizia ad appassionarsi alla fantascienza leggendo le riviste che periodicamente arrivano al padre. Le sue doti straordinarie emergono da subito: impara a leggere da solo a cinque anni e da quel momento in poi non smetterà più di leggere libri e di studiare. Prenderà due lauree, una in Chimica e una in Filosofia. Nel 1942 si sposa con Gertrude Blugerman, e quello stesso anno viene impiegato come chimico presso il Naval Air Experimental Station di Philadelphia. Durante la Seconda Guerra Mondiale viene arruolato come soldato semplice e inviato prima a Camp Lee (Virginia), poi a Honolulu, dove partecipa al primo esperimento atomico del dopoguerra. Tra il 1949 e il 1958 insegna alla prestigiosa School of Medicine dell’università di Boston. L’anno successivo esce il suo primo romanzo, Paria dei cieli. Più tardi è la volta della raccolta Io, robot e del suo primo libro di saggistica. L’anno dopo nasce il figlio David. Tra il 1951 e il 1953 escono i romanzi Il tiranno dei mondi, Le correnti dello spazio e Abissi d’acciaio, oltre alla famosa Trilogia della Fondazione. Nel 1952 è la volta di Lucky Starr, il vagabondo dello spazio, primo della fortunata serie su Lucky Starr pubblicata con lo pseudonimo di Paul French, che si concluderà nel 1958. Nel 1953 esce l’antologia La terra è abbastanza grande. Nel 1955 nasce Ribyn Joan, la sua seconda figlia, e gli viene conferito il titolo di professore associato di biochimica. Tra il 1955 e il 1957 alterna l’attività di professore a quella di romanziere con l’uscita di La fine dell’eternità e Il sole nudo. Grazie al successo delle sue opere, nel 1958 abbandona l’attività accademica per dedicarsi alla scrittura a tempo pieno: Asimov è estremamente prolifico, la sua vastissima produzione è stimata intorno ai 500 volumi. Nel 1970 si separa da Gertrude, dalla quale divorzia tre anni più tardi per sposare Janet Jeppson, una giovane psichiatra conosciuta diversi anni prima. Lo stesso anno esce Neanche gli dei, il romanzo preferito di Asimov. Nel 1974 inizia il ciclo dei Vedovi Neri, le storie di un club di amici che si cimentano nell’investigazione. Nel 1976 esce l’antologia The Bicentennial Man and Other Stories, (per la ricorrenza del bicentenario della Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America) dal cui racconto principale “L’uomo bicentenario”, è stato tratto l’omonimo film nel 2000. Gli ultimi anni della sua vita sono dedicati alla produzione scientifica, con numerosi articoli di divulgazione sui più disparati argomenti. Paradossalmente proprio lui, un uomo che non ha fatto che immaginare un’umanità in viaggio attraverso lo spazio e il tempo, non amava viaggiare, era terrorizzato dagli aerei e raramente si allontanava da New York. Conduceva una vita molto semplice, quasi monastica, assolutamente dedito al lavoro. Asimov è morto il 6 aprile 1992: era stato infettato dal HIV durante una trasfusione di sangue nel 1983, ma che la causa della sua morte fosse stata l’AIDS è stato rivelato solo dieci anni dopo dalla moglie Janet nella biografia It’s Been a Good Life.

100 anni fa nasceva Isaac Asimov: perché ancora oggi è importante leggere "Il Ciclo delle Fondazioni". Gabriele Di Donfrancesco il 3 gennaio 2020 su it.mashable.com. Il nostro presente non potrebbe essere più distante dal futuro descritto nei romanzi di fantascienza di Isaac Asimov. E siamo a un secolo dalla sua nascita, il 2 gennaio 1920 nel villaggio russo di Petroviči, e a 28 anni dalla sua morte, il 6 aprile del ’92 a Brooklyn. È per questo, però, che la sua opera resiste e pare inossidabile, quanto gli incubi impossibili di Philip K. Dick o la distopia orwelliana di 1984 o il Fahrenheit di Ray Bradbury. Per spiegare come alcune delle decine e decine di creazioni di Asimov siano riuscite a rimanere intatte nella loro potenza narrativa dopo tutte le rivoluzioni tecnologiche degli ultimi decenni non faremo l'esempio dei racconti di Io, Robot, con le loro leggi della robotica. Prenderemo invece l’inizio del primo volume (1951) dei quattro (1952, '53, '82) che compongono il Ciclo delle Fondazioni (numero che sale a sette se si contano prequel e sequel dell'autore), così come pubblicato in Italia da Mondadori - e che è da molti anni in odore di serie tv: di recente sarebbe in pre-produzione per Apple Tv+. Faremo un discorso che ha per oggetto lo stile e l'ambientazione. I pregi della Fondazione sono tanti e torneremo a parlarne in seguito.

La storia per chi non ha letto i libri (senza spoiler). La saga è ambientata in un futuro lontanissimo, dove l’umanità ha colonizzato la galassia ed è dominata da un unico Impero. Uno scienziato, Hari Seldon, prevede però il crollo graduale dell'ordine durato millenni – un’idea che Asimov riprese dalla caduta dell’Impero Romano –, e si convince che ne seguiranno altrettanti di caos e barbarie. Decide così di istituire in segreto una comunità ai margini della galassia. A questa toccherà il compito di crescere da avamposto della conoscenza nei tempi bui (una “Fondazione” di enciclopedisti) a nuovo germoglio di un governo stabile per l’umanità. Almeno secondo i piani. E non senza innumerevoli avventure dei suoi inaspettati eroi.

Il mondo di Trantor. Quando all’inizio del Ciclo delle Fondazioni lo scienziato Gaal Dornick, un personaggio minore ma il primo ad apparire nella storia, sbarca su Trantor, la capitale dell’Impero galattico, si trova di fronte un mondo di metallo. Ogni spazio calpestabile è al chiuso: corridoi, negozi, alberghi e appartamenti sono come contenuti in un’immensa galleria commerciale. Persino i taxi, volanti naturalmente, non abbandonano mai le cupole, dove la vista del cielo è schermata e penetra solo la luce del Sole. Coruscant, capitale della Repubblica prima e dell'Impero dopo in Star Wars, è un pianeta ispirato a Trantor. L’intero mondo, salvo i giardini imperiali e le torri panoramiche, è coperto di strutture senza finestre, abitate da miliardi di esseri umani. Il cuore di questo Impero, nell’anno 12.000 e qualcosa, è dunque un’ecumenopoli al centro della galassia. George Lucas ne trarrà ispirazione per il suo Coruscant di Star Wars (che al contrario è tutto in altezza, una selva di grattacieli, mentre ad Asimov gli spazi troppo aperti non piacevano granché).

Un futuro senza computer. A questo pianeta infinitamente complesso, come a tutta la Via Lattea descritta da Asimov nei primi tre libri della saga (1951-1953), manca qualcosa di fondamentale per noi: il computer. Anche se - meno di una decina di volte - occorre la voce "computer" o "macchina calcolatrice", è da intendersi in senso letterale (mentre esistono, invece, elettrodomestici atomici) e nulla è virtuale o digitale o vicino ad un oggetto polifunzionale come lo concepiamo noi oggi. Persino la rotta di un viaggio interstellare va calcolata alla vecchia maniera, analogicamente, così come si faceva al tempo dei primi lanci della Nasa (lo si vede nel film Il diritto di contare di Theodore Melfi, 2016). Nella galassia della Fondazione, in effetti, non ci sono nemmeno robot (ma questa è un’altra storia e non si vogliono fare spoiler). L'idea che l'uomo possa essersi sparpagliato per la galassia senza un briciolo di informatica ha una grande forza romantica. Non che Asimov non abbia mai scritto di computer. Un suo celebre racconto di quel periodo, L’ultima domanda (The last question, 1956), ha già come protagonista uno di quei colossi della dimensione di intere stanze in stile IBM. E nei suoi libri degli anni Ottanta introdurrà un po' della rivoluzione tecnologica del periodo. Ma nel 1951 i "calcolatori" sono ancora ben più che secondari nella sua fantasia. Nonostante questa assenza, in nessun momento l’universo narrativo della Fondazione perde di credibilità. Che l'uomo si sia sparpagliato per la galassia senza un briciolo di informatica pare perfettamente plausibile e ha anzi una grande forza romantica. E lo stesso vale per i curiosi ritrovati alternativi che appaiono ogni tanto. Non ci sembra strano, ad esempio, che qualcuno possa leggere un libro proiettando nell’aria un microfilm di quelli che si vedono nelle avventure di James Bond.

Il diavolo è davvero nei dettagli? Isaac Asimov non ci tiene a descrivere per filo e per segno il mondo dei suoi personaggi. Isaac Asimov negli anni Sessanta e una delle ultime edizioni della Fondazione per HarperCollins. Nel Ciclo delle Fondazioni molto non viene raccontato. Non sappiamo in effetti in che modo funzioni un’astronave, o come sia una televisione dell’anno 12.000 (che pure viene nominata). Non ci viene illustrato come sia fatto il taxi su cui, all’inizio del primo romanzo, sale il personaggio di Gaal Dornick. Sappiamo solo che è un “taxi”, che vola, che i finestrini sono curvi e trasparenti ma nient’altro. In effetti, non ci viene nemmeno descritto il volto di Gaal, o lo spazioporto e persino l'immagine che abbiamo di Trantor resta sempre a grandi linee. Ad Asimov certi dettagli non interessano: tocca al lettore immaginarseli. La maggior parte dei suoi testi è fatta principalmente di dialoghi. Le descrizioni sono ridotte a brevi note di regia: un po’ di colore dato al massimo con un paio di pennellate.

E questo è un bene. A distanza di quasi settant’anni dall’uscita del primo volume della Fondazione, possiamo leggere di Trantor e di tutto quel che segue e trovarci, automaticamente, a riempire i vuoti lasciati dallo scrittore con una versione del suo mondo sempre nuova, viva e realistica (si veda in proposito il saggio Mimesis di Erich Auerbach). E proprio perché la maggior parte delle tecnologia che anima questa visione della galassia è spesso appena accennata o non è affatto nominata, non può essere superata, ma anzi può venire ogni volta ripensata diversamente dal lettore. È vero, l’ambientazione di una storia non è tutto, ma è una parte importante in questo genere di letteratura e se invecchia male può compromettere la sopravvivenza del libro. La buona fantascienza ha questo di incredibile: riesce a far durare nel tempo sia il suo messaggio che l’universo che inventa per contenerlo. La galassia pre-informatica del Ciclo delle Fondazioni è eterna, perché diversa in una maniera che non può essere resa obsoleta. E questo risultato può essere ottenuto solo da un grande scrittore.

·        100 anni dalla nascita di Tonino Guerra.

Poeta, sceneggiatore, scrittore, instancabile cantastorie Tonino Guerra, nato a Santarcangelo di Romagna il 16 marzo 1920, è morto a 92 anni. Pubblicato mercoledì, 01 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Fallai. Le sue poesie possono essere divise tra quelle in dialetto romagnolo e quelle in italiano. Tra i primi a notare i suoi componimenti Carlo Bo che firmò la prefazione alla sua primissima raccolta «I scarabocc» del 1946 e Pier Paolo Pasolini. Le sue sceneggiature sono legate ai nomi dei grandissimi registi con cui ha lavorato. Per citare solo i maggiori: Federico Fellini (per lui ha scritto Amarcord, E la nave va, Ginger e Fred), Michelangelo Antonioni (L’avventura, La notte, L’eclisse, Deserto rosso, Blow-Up, Zabriskie Point, Eros, Al di là delle nuvole, quest’ultimo con Wim Wenders), Vittorio De Sica (I girasoli, Matrimonio all’italiana), Mario Monicelli (Casanova ’70, Caro Michele, Il male oscuro), Elio Petri (L’assassino, I giorni contati, La decima vittima), Francesco Rosi (Il caso Mattei, Uomini contro, Tre fratelli), Giuseppe De Santis (La garçonnière), Damiano Damiani (La noia),, Paolo e Vittorio Taviani (Kaos), Andrej Tarkovskij (Nostalghia), Teo Angelopulos (Il volo, Il passo sospeso della cicogna, La sorgente del fiume, La polvere del tempo). Ha avuto un momento di grande notorietà nel 2001 quando accettò di essere testimonial per una catena di negozi di elettrodomestici lanciando il tormentone dell’ottimismo.

·        100 anni dalla nascita e 20 dalla morte di Walter Matthau.

Un premio Oscar quale migliore attore non protagonista nel 1967, due nomination nel 1972 e nel 1975; un Golden Globe nel 1976 e un David di Donatello nel 1975. Pubblicato mercoledì, 01 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Fallai. In mezzo sessant’anni di una straordinaria carriera che fatto sorridere e pensare spettatori di tutto il mondo. Questo è stato Walter Matthau, nome d’arte di Walter John Matthow (New York, 1º ottobre 1920 – Santa Monica, 1º luglio 2000). Ha recitato in decine di film, ma deve il successo internazionale a Billy Wilder che lo volle accanto Jack Lemmon in Non per soldi..ma per denaro (1966 che gli procurò l’Oscar), creando una delle più fortunate coppie artistiche del cinema statunitense. Con successi straordinari come La strana coppia (1968) e Prima pagina (1974). Roberto Benigni lo volle nel ruolo del sacerdote per il suo Il piccolo diavolo (1988). 

·        100 anni dalla nascita di Bruno Maderna.

Il centenario di Bruno Maderna, un pioniere (quasi) ricordato. Luca Pavanel il 23 aprile 2020 su Il Giornale. I giornali non è che ne abbiamo parlato molto. Del centenario dalla nascita del compositore Bruno Maderna (1920-1973), personaggio che ha avuto un ruolo chiave nel Novecento della musica colta italiana. Un pioniere che ha attraversato, ha voluto attraversare i più diversi linguaggi, dal neoclassicismo alla serialità alla musica elettronica. Milano, la città a cui lui ha dato molto, lo ha celebrato attraverso i circuiti specialistici, vedi l’associazione Nomus fondata e portata avanti da Maddalena Novati; non molto di più per la verità. Maderna, è doveroso ricordarlo, insieme all’illustre collega Luciano Berio e al grande tecnico del suono Marino Zuccheri, fondò lo studio di musica elettronica della Rai, correva l’anno 1955. Una svolta. La prima composizione messa usata come colonna sonora della commedia radiofonica “Ritratto di città” nel 1954, un anno primo del via ufficiale del nuovo polo musicale meneghino (testo del programma di Roberto Leydi). Diciamo una delle prime pietre posate in questo campo. I giornali di queste cose non ne parlano, o ne parlano molto poco. Eppure l’esistenza della musica elettronica (certamente assai cambiata rispetto a quel periodo) si deve a personaggi come lui. Certo il “suo centenario” cade in un periodo orribile, in cui il Covid-19, l’emergenza sanitaria con vittime e contagiati, la crisi economica da paura che si è innestata, sono assolutamente al centro di tutto, delle preoccupazioni e degli interessi. Ma quando la nostra attenzione messa a dura prova ce lo consente dobbiamo guardare alla cultura, non possiamo rinunciare alla musica, alle arti che anche ci aiutano in questo periodo durissimo, per tutti; guardare al nostro passato per progettare – visto che ce ne sarà bisogno – un nuovo futuro diverso, per noi e per i giovani, i giovanissimi. In questo senso Maderna è stata una delle figure più interessanti, un esploratore. Cercatore di nuovi linguaggi, modi, orizzonti. Per andare avanti, per non continuare a stare nel passato che “voleva” essere superato. Forse un giorno – probabilmente vicinissimo – dovremo fare anche noi così. Per rinascere.

·        100 anni dalla nascita di Renato Carosone.

Carosone cent'anni con inedito, un brano ispirato a Sharon Stone. Federico Vacalebre Giovedì 2 Gennaio 2020 su Il Mattino. Iniziato nel migliore dei modi possibili, con il «Pianofortissimo» di Stefano Bollani ad illuminare il Capodanno napoletano in piazza del Plebiscito, il centenario carosoniano entra nel vivo con una sorpresa: un inedito conservato nel cassetto da Sandrino Aquilani, ultimo produttore discografico dell'americano di Napoli, che sarà pur nato il 3 gennaio del 1920, ma resta il più giovane, il più internazionale, il più moderno dei talenti veraci che abbiano attraversato il Novecento napoletano. Tra le tante iniziative - Arbore prepara uno show, la Rai pensa a una fiction, torna in libreria la sua autobiografia, all'Arena Flegrea il Premio Carosone e in teatro il musical ad essa ispirato, questa volta con Andrea Sannino nei panni del protagonista - in programma, c'è anche la compilation «Renato Carosone 100», portata in edicola da «Sorrisi e Canzoni» e «Chi», un doppio cd che raccoglie una trentina di classici del cantapianista nelle versioni degli anni Novanta: il produttore Sandrino Aquilani, tra «Pigliate na pastiglia» e «Maruzzella», «'O sarracino» e «Caravan petrol», ha inserito brani meno noti ed alcuni di difficile reperimento: la poesia «'O miliardario», la dedica all'antico compagno Di Giacomo («Addo' sta Gegè»), quella «Lacco Ameno» uscita postuma scritta con il grande Bonagura, e «A signora», brano di cui finora si ignorava l'esistenza. È un provino, ma prezioso: proprio come «Addo' sta Gegè» testimoniava il senso quasi di colpa che Renato provava per l'antico sodale quando si era ritirato, così «'A signora» conferma la sua curiosità perenne, la sua voglia di mettere in canzone quello che vedeva, quello che viveva, o almeno di prenderne spunto. La signora del titolo è, infatti, una delle tante sensuali bellezze del canzoniere carosoniano, una di quelle per cui il ragioniere non ragiona più, il barbiere non insapona più, impazzisce il gelataio e «il cantiniere, sciacquando un bicchiere, sospira e fa: aaaah, che bontà». La sua visione si manifesta dalla «fenestra e rimpetto»: «è uno schermo a colori», canta il maestro scomparso il 20 maggio 2001 e si riferisce al cinema, non tanto al supremo Hitchcock di «La finestra sul cortile», o all'Ozpetek all'epoca ancora non uscito di «La finestra di fronte» - il demo è del 1993 circa, il film del 2003 - ma a «Basic instict», nelle sale nel 1992 ed entrato nell'immaginario collettivo grazie alla scena cult in cui Sharon Stone, oggi single sfigata alla ricerca di partner on line, ma all'epoca sex symbol planetario senza confronti, accavallava le gambe senza indossare mutandine. Proprio come, si presume, fa «'a signora»: «Si mette il rossetto/ si bagna le labbra/ si ammira allo specchio/ si leva a camicia/ si scioglie i capille/ si butta sul letto/ accavalla le gambe/ accavalla e scavalla,/ accavalla e scavalla.../ e i me sento e muri'». Il povero dirimpettaio-voyeur è ridotto uno straccio, «a signora» inizia a mostrarsi non solo la mattina, ma anche il pomeriggio, «e senza pudore». Il pianoforte scandisce un ironico blues newpolitano, Renato ha la voce che confessa di aver vissuto (e fumato il sigaro), ricordando quel Cosimo Pellecchia che nella «Canzone pettegola» d'altri tempi cesellata da Nino Taranto confessava ad un'altra donna generosa con gli uomini: «Vi ammiro di rimpetto, signo', che bella cosa, quanno spannite calze e reggipetto». Ma la chicca dell'inedito è solo un pretesto per continuare a tessere le lodi dell'uomo che a fine anni Cinquanta rinnovò la canzone napoletana, e con essa quella italiana, portandola fuori dalle tristanzuole secche del dopoguerra, rinnovandola nei toni - finalmente ironici, a tratti - «E la barca tornò sola» - persino dissacrante, come nei suoni: Napoli città aperta si lasciava conquistare dai ritmi americani e dai profumi di notte d'Oriente e dal sound latino, colonizzando poi i colonizzatori grazie al vis suprema di Carosone, alla commedia dell'arte di Nisa, alla malinconia onomatopeica di Bonagura, al percussionista-fantasista Di Giacomo, alla chitarra estrosa del dongiovanni Peter Van Wood, ad arrangiamenti che sono come scolpiti nella pietra: «I dischi del trio, del quartetto, del sestetto, suonano come quelli dei Beatles: li ami, li consumi, ti viene voglia di farli tuoi, di suonarli, ma poi ti chiedi: che lo faccio a fare? Che cosa posso aggiungerci? La paura di rovinarli, proprio come è successo con i Beatles, mi ha fatto tentennare a lungo, nella notte del Capodanno napoletano, da neocittadino napoletano, ho osato farlo, da devoto carosoniano, si intende», racconta Bollani, che ha superato persino la sfida di «Pianofortissimo», spiegando in note, alla piazza festante, perché non possiamo non dirci tutti carosoniani.

Mario Luzzatto Fegiz per il “Corriere della Sera” il 3 gennaio 2020. Esattamente cent'anni fa nasceva a Napoli Renato Carosone, uno dei più grandi e originali artisti della canzone italiana, creatore di contaminazioni fra il jazz, la musica americana e partenopea e l' Oriente. I suoi classici, da Torero a Caravan petrol , da Tu vuò fa l' americano a Pianofortissimo , da Maruzzella a Pijate 'na pasticca testimoniano una modernità stilistica e una vocazione all' intrattenimento in qualche modo uniche. Carosone ebbe la fortuna di un padre che amava la musica e lo spinse a studiare, fino al diploma, su uno scassatissimo pianoforte francese. Poi una scrittura con una compagnia di varietà lo portò a Massaua, Addis Abeba, Asmara. La scalata al successo cominciò nel '49 quando formò un trio con Van Wood e l' esuberante batterista Gegè di Giacomo: debuttò nel '49 alla Shaker Club di Napoli, mentre nel '55 inaugurò la Bussola di Sergio Bernardini, alleandosi col paroliere Nisa (Nicola Salerno) che inventò dei testi in linea con l'ecletticità e lo humour di Carosone, qualità con cui incantava le platee. Torero fu tradotta in 12 lingue, la Loren e Clark Gable duettarono con Tu vuò fà l' americano ne La Baia di Napoli , la Magnani cantò Maruzzella e anche Scorsese utilizzò suoi brani in Main Street . Nel '59, al culmine del successo, annunciò il ritiro. «Ritengo che il mio genere sia ormai superato». Per i 15 anni seguenti solo piano e pittura, la sua segreta passione. Poi il ritorno. Carosone era un napoletano speciale che detestava l' acquerello partenopeo del quadrinomio cuore-amore-pizza-Vesuvio. Pur cresciuto con molti grandi della canzone napoletana come Sergio Bruni e Murolo, rimase un outsider. Il 20 maggio 2001, dopo aver pranzato con la famiglia, si concesse un sonnellino. Dal quale non si svegliò più. Un addio in punta di piedi, con la stessa classe con cui aveva vissuto. Estratto del libro Carosone 100-Autobiografia dell’Americano di Napoli scritto da Renato Carosone e Federico Vacalebre e pubblicato da il Messaggero. Nicola Salerno, alias Nisa, univa un grande mestiere e un'eccezionale velocità di versificazione a una pigrizia quasi proverbiale e a una vena ironica che covava sotto la cenere. Un giorno la Ricordi lo iscrisse con me a un concorso radiofonico, aspettandosi che noi due, senza esserci mai frequentati prima, sfornassimo tre canzoni per la kermesse in questione. Nicola venne al primo appuntamento con alcuni testi già scritti, uno dei quali mi folgorò letteralmente. Si trattava di Tu vuo' fa' l'americano. All'incontro era presente anche Mariano Rapetti, il padre di Giulio (poi noto come Mogol), direttore della Ricordi e autore di successo con lo pseudonimo di Calibi (un pezzo per tutti: Vecchio scarpone), che intuì subito che qualcosa di importante stava per vedere la luce. Io, però, non lo lasciai nemmeno parlare e, appena letti i versi, sedetti al piano, il testo sul leggio e la mano sinistra intenta a cercare le note giuste: il suono di un popolo, quello italiano, che voleva fare l'americano. Nisa e Rapetti mi guardavano esterrefatti, in religioso silenzio: dieci minuti più tardi avevamo la stesura praticamente definitiva di un successo internazionale. Al primo ascolto tutti e tre ci rendemmo conto di avere tra le mani una bomba, ma, soprattutto, che la premiata ditta Nisa-Carosone ne avrebbe combinate delle belle. In pochi giorni, poi, firmammo anche 'O suspiro e Buonanotte. Dopo le ottime vendite dell'album che conteneva Maruzzella, infilammo una travolgente serie di brani indovinati, poi entrati nella storia della musica leggera italiana e, forse, anche in quella del costume (non lo dovrei dire io, ma molti amici critici sostengono che è così e non voglio contraddirli, altrimenti si arrabbiano e perdo la loro stima), raccontando in tono giocoso vizi e virtù di una nazione alla vigilia del boom (?), dei favolosi (?) anni Sessanta. T'aspetto 'e nove, Torero, 'O sarracino, Pigliate 'na pastiglia, Caravan petrol, 'O russo e 'a rossa e 'O mafiuso non sono semplicemente dei successi, ma la colonna sonora di un'era di transizione, la memoria sonora di più d'una generazione. Questo però l'ho capito in seguito, quando ho letto che cosa se ne era scritto, spiegando anche a me stesso il segreto del mio trionfo, i cui ingredienti vincenti sembrano essere stati: le allusioni sessuali nemmeno troppo mascherate («Aaaah, sei una bontà», cantavo in 'O suspiro, una canzone-sceneggiata sulle bellezze di una ragazza al cui passaggio il gelatiere impazzisce, il ragioniere non... ragiona più e il barbiere non... insapona più); la capacità di dar voce a una generazione stanca delle banalità canzonettare, ma non disposta a rinunciare a un facile consumo musicale (come ha sottolineato un musicologo del livello di Diego Carpitella); l'aver fornito al momento giusto un sottofondo ritmico per le serate nei night e per le feste «da pomicio»; l'inserimento, sponsorizzato da Gegè Di Giacomo, di voci e rumori estemporanei (il pubblico, un venditore di sigarette, un colpo di pistola, un fischietto); la voglia di esotismi alla buona, strappando sorrisi, anzi risate, giocando con i ritmi e le lingue a proprio piacimento, tra allitterazioni e correzioni metriche, parodie, pastiches, citazioni...Una riforma più che una rivoluzione, si diceva prima. Anche perché davvero io non inventai nulla, limitandomi a spostare un po' più in là il comune senso musicale, partendo da quel gran crogiolo sonoro che era, che è e che sempre sarà Napoli. Questo procedimento è evidente in Pianofortissimo, un altro dei successi di questo periodo, soltanto strumentale: il pezzo unisce due temi, una melodia anni Venti e un boogie sfrenato, incalzante sequenza di ottavi puntatisedicesimi che a qualcuno ricordò tal Pete Johnson e ad altri il «Boogie woogie» a Marechiaro di Cosimo Di Ceglie. Il fiume di note, ribattute l'una dopo l'altra a velocità ultrasonica, sembrò l'equivalente tastieristico della tremolante corsa dei mandolini, impegnati nell'eterna serenata. L'interpretazione è suggestiva e si potrebbe adattare a tutta la mia produzione, sempre sospesa tra Stati Uniti e melodia napoletana. Ma dietro la nascita di Pianofortissimo non c'erano quelle considerazioni; mentre correvo sui tasti, io non pensavo ai mandolini e alla nostra tradizione e mi limitavo a creare una sorta di stacchetto, un intermezzo tra una canzone-scenetta e l'altra, un pezzo di bravura, un virtuosismo con un pizzico di nostalgia per l'epoca dei pianini ambulanti. Io e i miei compagni d'avventura facevamo canzonette, non pensavamo che fossero destinate a durare.

·        100 anni dalla nascita di Helmut Newton.

Epopea di un genio ribelle. Michele Fossi per “Vogue” il 6 ottobre 2020. Il 31 di questo mese cade il centenario della nascita di Helmut Newton. A decenni di distanza dalla data di pubblicazione, i suoi ritratti di donne forti, ricche ed emancipate su tacchi a spillo, imbevuti di erotismo e ossessioni, continuano a stupire, polarizzare, affascinare, riuscendo a parlare a generazioni di spettatori molto diverse tra loro. In questa intervista Matthias Harder, direttore della Fondazione a lui intitolata a Berlino, ci introduce nel ricco e complesso universo del fotografo, ripercorrendo le principali tappe della sua vita privata e professionale. Dagli esordi alle fasi più sperimentali e avanguardistiche di tutta la sua carriera, attraverso missioni (apparentemente) impossibili e grandi conquiste. Helmut Neustädter – questo il suo nome di battesimo – nasce a Berlino nel 1920 in un’altolocata famiglia ebreo-tedesca. È giovanissimo quando capisce che da grande vorrebbe fare il fotografo. Ribellandosi al padre, che per il figlio sognava una professione più borghese, a sedici anni inizia uno stage nello studio di Yva, la più celebre fotografa di moda della Repubblica di Weimar.

Nell’opera newtoniana si scorge l’influenza di Yva?

«Certo, e non può essere mai sottolineata abbastanza! Newton eredita da lei il gusto per l’eleganza sensuale e l’idea che le riviste patinate, e non il mercato dell’arte, siano l’habitat ideale delle fotografie di moda. Newton descriverà i due anni di apprendistato con Yva come il periodo migliore della sua vita».

Apprendistato che si conclude forzatamente nel ’38, quando, per sfuggire alle persecuzioni naziste, è costretto a lasciare Berlino.

«Prese un treno dalla stazione Zoo alla volta di Trieste, con in valigia due macchine fotografiche, qualche vestito e il sogno di guadagnarsi da vivere come fotografo. Dopo una breve tappa a Singapore, arriva via nave in Australia. Non appena sbarcato viene arrestato. Ironia del destino, aveva un passaporto tedesco – il passaporto del nemico. Nel suo studio fotografico di Mebourne, che inaugura nel 1946, si consuma l’incontro con la donna che lo accompagnerà per tutta la vita, sia privata sia lavorativa: l’attrice e fotografa June Browne, in arte Alice Springs. La collaborazione professionale tra Helmut e June è un’intensa e fruttuosa storia d’amore durata 56 anni. Ce la racconta il libro Us and Them (Taschen), un intimo diario fotografico della loro vita insieme che abbraccia ben cinque decadi, e dove sono confluiti molti dei ritratti che si facevano l’un l’altra. Newton si fidava ciecamente del giudizio di June, e sentiva la necessità di consultarsi spesso con lei sulle più svariate questioni legate al lavoro. Sappiamo con certezza che senza i suoi preziosi consigli alcune delle sue fotografie più celebri non sarebbero mai venute alla luce. Dopo la sua morte, nel 2004, per un incidente stradale nei pressi dello Chateau Marmont, sarà lei a prenderne in mano l’eredità e a ispirare l’opera della Fondazione Helmut Newton che, di comune accordo, avevano fondato a Berlino l’anno precedente».

Il 1961 è considerato l’anno zero della carriera di Newton. Si trasferisce con la moglie a Parigi e inizia a collaborare con Vogue Paris: qui prenderà davvero forma il suo stile unico e irriverente, che non si presta a facili etichettature. Ci aiuta a descriverlo?

«Newton mescola elementi di glamour, moda, ritrattistica e documentario, e condisce il tutto con ingre-dienti piccanti come il voyeurismo e riferimenti all’universo fetish. Le sue foto celano inoltre metalivelli semantici che contribuiscono ad aumentarne l’appeal visivo, generando un alone di mistero. La sua opera, è imbevuta di riferimenti culturali: rielabora scene di film come Intrigo internazionale di Hitchcock e trae spesso ispirazione dall’arte: l’idea di accostare modelle vestite e svestite, sviluppata per la serie Dressed and Naked, è presa in prestito dalla Maya desnuda e vestida di Goya».

White Women/Femmes Secrètes, il suo primo libro fotografico, fu pubblicato nel 1976, quando Newton aveva già 56 anni.

«Durante i suoi shooting per le riviste, Newton era solito scattare per sé versioni più osé delle stesse immagini, chiedendo alle modelle di abbassare una spallina oppure di alzare una gonna... Le riunirà anni dopo in questa storica pubblicazione, con cui apre la strada alla “erotizzazione visiva” della moda, culminata nel 1980-1981 con le serie Sie Kommen, Paris (Dressed and Naked) e Big Nudes».

Infrange un tabù, e con questi lavori introduce per primo il nudo radicale nella moda.

«Riuscendo così in una missione apparentemente impossibile, e per certi versi paradossale: scattare foto di moda senza moda, con modelle completamente svestite. Il suo esempio è stato poi seguito da molti altri fotografi, come Daniel Josephson, Rasmus Mogensen, Szymon Brodziak, e registi: la scena finale del film Prêt-à-Porter di Robert Altman, dove vediamo modelle nude in passerella, ha un fortissimo sapore newtoniano».

Nel 1981, Helmut e June lasciano Parigi e si lanciano in una nuova vita tra Monte Carlo e Los Angeles.

«Sono gli anni in cui le location delle sue foto cambiano radicalmente: dai lussuriosi e decadenti interni dei ’60 e ’70 si passa al cemento grezzo dei sottopassaggi urbani e dei garage. Come quello del suo condominio di Monte Carlo, dove Newton inscena interessanti dialoghi visivi tra modelle e automobili parcheggiate ad arte per creare l’effetto voluto. In California lui e June cominciarono a fotografare numerose star di Hollywood e celebrity, da Jane Birkin e David Hockney a Liz Taylor e Grace Jones. Vulcanico, in perenne evoluzione, Newton non si è mai fermato. Basta sfogliare i suoi libri più fam-si – White Women, Sleepless Nights, Big Nudes, Sumo – per rendersene conto: ognuno è profondamente diverso dall’altro. E la sua produzione degli anni 90, quando aveva più di settant’anni, è considerata una delle fasi più avanguardistiche e sperimentali della sua carriera!»

A dispetto di questa creatività esuberante, che lo ha portato a reinventarsi continuamente, è possibile riscontrare “punti fissi” nell’opera di Newton?

«È sempre rimasto fedele al suo stile fortemente narrativo. Agisce come un direttore di scena, considerando le fotografie di moda dei frammenti di immaginarie pièce teatrali, con donne forti e indipendenti come protagoniste. Pur lavorando su commissione, è sempre riuscito a farlo per se stesso e a imporre ai suoi clienti idee e temi newtoniani. Con lui, per la prima volta, assistiamo a un vero e proprio ribaltamento di potere tra il fotografo e la casa di moda: l’ultima parola spetta al fotografo, e non più al committente del servizio. E questa è forse la sua più grande conquista».

Ossessioni (le scarpe). Christian Louboutin per “Vogue” il 6 ottobre 2020. Com’è noto Helmut aveva una vera ossessione per le scarpe con i tacchi. Con tutta probabilità l’aveva maturata nella Berlino prima della guerra. So che, seppur giovanissimo, aveva frequentato la scena fetish della città, dove forse aveva avuto modo di mettere a fuoco la sua fascinazione per la figura sadomaso della donna dominante, o “dominatrix”. E, va da sé, con questa passione scoprì inevitabilmente anche quella per le scarpe con il tacco alto, che con la prima va a braccetto! Nella sua fotografia, le scarpe svolgono la funzione di piedistallo: servono a elevare la donna al rango di icona carnale, contribuendo a sacralizzarla. Ma soprattutto, con quel loro carattere fetish, servono a eccitare la fantasia dello spettatore. Nessuno come lui ha saputo dimostrare che una donna nuda con le scarpe è, paradossalmente, una donna ancora più nuda. Ricordo di avergli detto un giorno, durante un pranzo, quanto stupefacenti fossero per me i suoi enormi nudi di donna, e di avergli fatto i complimenti per quella nudità perfetta potenziata dal tacco alto. Mi rispose che era un vero peccato che non ci fossimo incontrati prima di scattare quelle foto perché, dal suo punto di vista, non erano immagini pienamente riuscite. «Nessuno ha osato dirmelo, ma io non ho problemi ad ammetterlo a me stesso: quelle foto non sono venute bene come lei dice. La colpa è delle scarpe: non sono scarpe che spogliano, come avrei desiderato, bensì scarpe che, per quanto su una superficie esigua, coprono… Quando le capita di rivedere le fotografie, ci faccia caso e mi faccia sapere». Ed è vero, aveva assolutamente ragione: non solo non “svestivano”, quelle scarpe non erano neanche poi così belle. Ma l’impatto dell’immagine, nel suo complesso, è così potente, il corpo di quella modella così forte, che a quelle scarpe non si fa poi molto caso.

·        83 anni dalla nascita dell’Ikea.

DA QUANDO IL COLOSSO SVEDESE È STATO FONDATO NEL ’43,

Brunella Bolloli per "Libero Quotidiano" il 29 agosto 2020. Casa che cambi, Ikea che visiti. Sembra uno slogan pubblicitario, è la realtà di quasi tutte le famiglie italiane. Ci siamo abituati alle borse blu che si trovano all'ingresso e alla matita di legno con cui annotare il mobile che ci interessa. Entriamo per dare un'occhiata - «solo un giretto veloce» promettono le mogli a mariti già rassegnati in partenza - e usciamo con la macchina strapiena e la carta family caricata di punti. Servizi di piatti, coperte, tende, zerbini, pentole, sedie, l'immancabile scolaposate con i buchi e lo spazzolino per sgrassare le stoviglie. Le candele profumate alla mela e l'asse tondo di legno. All'Ikea sono belli perfino i tovaglioli di carta: rigorosamente bianchi, essenziali, senza disegnini, sarà che sono svedesi ma sembrano diversi da milioni di tovaglioli di carta bianchi che si trovano in qualunque supermercato del mondo. Perché? Sono dell'Ikea. Il colosso dell'arredamento fondato nel '43 dall'allora 17enne Ingvar Kamprad (Ikea prende il nome dalle sue iniziali e dal paesino d'origine) è un'esperienza sensoriale più che un semplice magazzino di oggetti per la casa, ma è anche la prova tangibile di come è cambiato il gusto di abbellire le nostre dimore. Un fenomeno da approfondire dal punto di vista sociologico. Basta sfogliare i cataloghi dal '51 ad oggi per fare un tuffo nel passato e ammettere che, sì, tutti noi abbiamo avuto in salotto quella poltrona di tessuto scuro che oggi appare così vintage mentre allora era il top della comodità, o il lampadario un po' sfigato che pendeva dal soffitto beige e le piastrellone a righe in cucina. Nel '56 andava il tavolo basso di legno con il vassoio sopra da cameriere, mentre negli anni '60 si comincia a osare: divano in pelle nera e il tavolino Lövbaken con le sue caratteristiche tre gambe, la superfice semplice da pulire e i piedini in gomma per spostarlo senza rovinare il pavimento. Alla fine più moderno di quanto possa sembrare. Tra la fine degli anni '50 e l'inizio dei '60 la famiglia media europea cominciava a riunirsi in soggiorno per vedere la tv, in sala c'era il tappeto a pelo lungo, quasi sempre grigio o nero, che adesso ci sembra porti caldo e acari. Per l'esterno, il pezzo forte era la poltroncina in rattan che richiama le atmosfere della campagna, ma andava bene pure per chi restava in veranda a parlare con il vicino o sul balcone. Il mobilio era lineare e senza pretese. Negli anni Settanta esplodono i colori, fa il suo ingresso la chaise-longue Skopa, un classico del design in plastica arancio con cuscino reversibile, e questo è forse l'unico articolo Ikea (insieme alla libreria Billy), dal nome pronunciabile: il resto è comprensibile solo agli scandinavi. Negli Ottanta cambiano i materiali, spopola il metallo e l'illuminazione è centrale, si cerca di ricreare nelle abitazioni private l'effetto discoteca con lampade grandi e sofà vistosi, mentre nel decennio successivo si torna a uno stile minimal, più nordico e con tanto parquet, fino al Duemila con la manìa delle candele ovunque, il bianco e le forme squadrate. Mentre oggi l'imperativo è: sostenibilità, materie prime ecocompatibili, il salvare le foreste, più prodotti riciclati e riciclabili. Il concetto è che il colosso svedese con i suoi prezzi accessibili e il modello do it yourself (fai da solo), ha saputo creare un brand democratico che si sposa con l'idea di casa che vale per la stragrande maggioranza della gente: un nido comodo, al passo con i tempi, senza spendere un capitale. Poi quanto dura è un altro discorso. Diciamo che, prima o poi, tutti abbiamo seguito la moda Ikea proposta dai cataloghi che ogni estate escono dal quartier generale dell'azienda. Guide definite la "bibbia" dell'arredamento, non a caso più sfogliate di qualunque pubblicazione in commercio. Ecco perché in queste settimane all'Ikea Museum di Älmhult, in Svezia, la multinazionale ha deciso di pubblicare e digitalizzare tutti i cataloghi usciti dal '51 a oggi. Perché in fondo in quelle pagine c'è anche un po' delle nostre case e quindi della nostra storia.

·        75 anni da Hiroshima.

Cristian Martini Grimaldi per "La Stampa" il 6 agosto 2020. Da 75 anni il 6 agosto in Giappone è diventata la rituale occasione per riflettere sul passato. Si ricordano le vittime della prima bomba atomica, e gli hibakusha (i sopravvissuti) rammentano al mondo gli orrori di una guerra nucleare. Eppure per le generazioni d'oggi comprendere appieno gli stati d'animo e le percezioni di coloro che hanno vissuto quegli orrori risulta una sfida oltremodo problematica. È da questa semplice constatazione che nasce Hiroshima Timeline, un progetto nato dalla collaborazione di un gruppo di cittadini della città di Hiroshima con la NHK (la televisione pubblica giapponese). La domanda dalla quale si è partiti è: fosse esistito twitter cosa avrebbero lasciato scritto gli abitanti di Hiroshima di allora? Non si tratta di istigare una riflessione filosofica ma di indagare su qualcosa di estremamente concreto. Infatti quell'urgenza fisiologica di mettere per iscritto riflessioni maturate dall'esperienza quotidiana esisteva già al tempo, non l'ha inventata la rete. Ma il "commento" era custodito in forma privata sui propri diari. Ed è appropriandosi di questi contenuti (i diari di un ragazzo di 12 anni, di un giornalista a di una casalinga) che un gruppo di 16 cittadini di tutte le età si è messo al lavoro per ridurre intere pagine in tweet di poche battute. Il lavoro è iniziato a febbraio di quest' anno e i tweet seguono scrupolosamente la cronologia dei diari, così che i tweet di oggi corrispondano esattamente alle date dei diari di 75 anni fa.Hiroshima si estendeva su un'area quasi interamente pianeggiante, aveva una notevole rilevanza militare, qui sorgeva il secondo quartier generale dell'esercito che dirigeva la difesa di tutto il sud del Giappone. Un porto chiave per spedizioni e stoccaggi e un centro di raccolta delle truppe. Per citare un rapporto giapponese, «probabilmente più di mille volte dall'inizio della guerra, i cittadini di Hiroshima hanno gridato "Banzai" (esclamazione che sta per: diecimila anni di lunga vita) per le truppe in partenza dal porto». Fuori dal centro si estendeva una serie di botteghe di legno incastonate tra le tradizionali case giapponesi col tipico kawara yane, tetto a tegole. Ma nella periferia si trovavano anche grandi impianti industriali. Per questo la popolazione di Hiroshima aveva raggiunto un picco di oltre 380.000 persone prima dello scoppio della guerra, che poi a causa della sistematica evacuazione ordinata dal governo si era ridotta a circa 255.000. Dall'estate del 1944 a quella del 1945, le autorità di Tokyo avevano infatti evacuato oltre 400.000 alunni delle scuole elementari urbane. Sotto la custodia degli insegnanti furono inviati nelle campagne lontano dalla crescente minaccia delle incursioni aeree. Con questo a mente possiamo calarci nell'esistenza del dodicenne Shun che così "twittava": 17 luglio 1945. «Il professore ci ha detto che dobbiamo andare in campagna ad Haramura per aiutare i contadini. Abbiamo chiesto, quando? Ci hanno risposto, "domani"».

Il 20 luglio Shun lascia Hiroshima dove viveva con la famiglia e insieme ad altri studenti si trasferisce nel villaggio di Haramura.

22 luglio. «Abbiamo cibo in quantità qui in campagna, che le persone rimaste a Hiroshima ci invidino?». Sui diari del tempo non comparivano mai espressioni indicative del proprio stato d'animo, come ha spiegato un professore alla radio pubblica durante la presentazione del progetto, «quella era una generazione "yokuatsuteki", ovvero era stata educata alla continenza dei propri sentimenti, cioè esattamente il contrario delle nuove generazioni».

Ecco allora che se leggiamo un nuovo tweet di Shun 24 luglio. «Il professore mi ha chiamato, e mi ha detto "sei stato bravo", non solo mi ha lodato ma mi ha anche regalato un pomodoro. Sono così felice!», sappiamo che quel commento finale è un'aggiunta moderna per rendere intellegibili gli asciutti pensieri del protagonista ai giapponesi di oggi. I tweet all'approssimarsi della "kyodaina hikari" (la grande luce, come avrebbero raccontato i testimoni riferendosi all'esplosione) ci descrivono una vita semplice sospesa in una falsa percezione di tranquillità.

25 luglio. «Mio padre è venuto in campagna per portarmi alcune cose che avevo dimenticato. Ha portato anche del riso, e con questo il sapore di casa mia. Mi ha detto che Hiroshima è sicura».

27 luglio. «Oggi lavoro sul terreno del signor Senda. Ho ricevuto 4 patate dolci e riso. La qual cosa mi incoraggia a lavorare con più passione».

30 luglio. «Un bel bagno dopo 4 giorni. Posso finalmente rilassarmi».

3 agosto 1945. (tre giorni prima del passaggio dell'Enola Gay) «Oggi sono stato mandato a raccogliere legna da ardere, un bene quotidiano essenziale. Ho fatto due viaggi la mattina e due il pomeriggio».

 Koichiro Osasa, giornalista di 32 anni che vive con moglie e cognata ad Hiroshima. Il 28 luglio twitta, «Il Primo Ministro Suzuki ha dichiarato "la guerra continuerà, e stiamo aumentando la produzione di armi decisive nelle fabbriche sotterranee". Ma l'alimentazione è ridotta al minimo. Mi piacerebbe veramente capire quello che passa per la testa dei nostri leader». E ancora «Stamattina è stato abbattuto un aereo nemico a Itsukaichi. I soldati statunitensi sono stati arrestati e fatti prigionieri. Secondo Numata, entrambi hanno 20 anni, e hanno dichiarato: "L'America vincerà sicuramente"». Si scoprono anche i momenti intimi della casalinga Yasuko-san. Ventisei anni, è sposata da due ed è incinta. Il marito, Tsugou, è un dottore militare stanziato nella regione del Giappone occidentale del Kyushu. Da pochi mesi si è trasferita nella casa dei suoceri a Hiroshima.

13 luglio. «Oggi ho fatto un pacco regali per Tsugou, ho messo dentro sapone, libri, tabacco e bottoni. E anche questa scatoletta vuota chissà che faccia farà quando la apre». Anche qui come nei messaggi del dodicenne Shun emerge tutta l'essenzialità dei piccoli gesti. In questo caso Yasuko gioca a ingannare l'aspettativa del marito con una scatoletta "regalo" vuota.

29 luglio. «Ancora oggi l'allarme ha suonato più volte e gli aerei nemici ci hanno sorvolato, dopotutto a Hiroshima è andata bene». 1 agosto. «Sono appena tornata dal dentista. Ho pulito casa, ho lavato e ho appena finito di scrivere una lettera ai miei a Tokyo. Ho ricevuto una lettera da Tsuguo oggi. Tutti sembrano stare bene per fortuna. Ora finisco di stirare».

2 Agosto. «C'è stato un raid aereo questa notte. Pensavo fossero ormai finiti. Ma anche in momenti come questi c'è gente che nasce. Lo so perché mio suocero è un ostetrico». I tweet che leggiamo sembrano davvero stati scritti oggi. Gli editor del progetto sono riusciti a restituire nuova vita in dei diari altrimenti destinati alla consueta imbalsamazione nei musei. Mai avrebbero prodotto lo stesso impatto emotivo e men che meno la medesima risonanza mediatica. Nonostante le ferite riportate Shun, Koichiro e Yasuko si salveranno, continuando a vivere e a "twittare" per tanti anni ancora.

Hiroshima, 75 anni fa la bomba che distrusse tutto: era la città perfetta per provare l’atomica. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 7 Agosto 2020. La città fu scelta perché era perfetta. Hiroshima era una intatta città di provincia che scandiva il suo tempo. Quando il fat boy, la bomba bianca obesa lasciò la placenta del suo aereo, era proprio il momento in cui i bambini in uniforme baciavano le mamme con la merenda nello zainetto. Fat boy volava come un greve fiocco di neve come Humpty Dumpty che si sarebbe frantumato in milioni di atomi furiosi seguiti dal nulla. Mai era accaduto che il nulla occupasse il tutto. Era stato al più un concetto filosofico, ma nessuno aveva ancora visto l’anti-essere sostituirsi all’essere. Non si vedevano, dopo il lampo, feriti o squartati i brandelli insanguinati dei 93 mila che si dissolsero col primo botto. Erano semplicemente mai esistiti, salvo alcune scarpe. Dove c’era la bambina seduta con lo zainetto, ora restavano due ombre, la sua e dello zainetto. Degli edifici annullati qualcosa restava di acuminato e contorto. Ma non si coglieva pianto, né stupore, perché il nulla non ha suono. Prima della fatale decisione, una direttiva americana aveva diffuso la nuova notizia secondo cui la popolazione civile giapponese, addestrata a resistere, non andava considerata forza combattente. E che the morale, il morale della gente, era un dichiarato obiettivo bellico per una ragione di contabilità e una di calendario. La ragione principale era di contabilità: finora ogni battaglia di avvicinamento al Giappone era costata decine di migliaia di vittime, americane e giapponesi con corpo a corpo mai conosciuti nella storia militare perché per i giapponesi era impossibile arrendersi. Si era visto a Iwo Jima, a Guadalcanal, Tarawa Midway, Leyte, Okinawa. Per arrivare a sconfiggere e occupare il Giappone sarebbero occorsi almeno un altro mezzo milione di inglesi e un milione di americani, più due milioni di giapponesi, disse Winston Churchill quando oramai la bomba era stata sganciata. Valeva la pena? Il mondo da allora è diviso ed è difficile che qualcuno approvi l’uso delle bombe atomiche, perché è moralmente scorrettissimo. Proverò io ad azzardare, anzi a ricordare, che dal 1945 in poi non ci sono state più guerre. Non le piccole infinite guerre regionali, ma le grandi sanguinarie guerre che hanno per secoli devastato l’Europa o la Russia, il Giappone o la Cina. Ci fu la pace della Belle Époque fra il 1870 e il 1914 ma furono solo 44 anni, un record. Oggi siamo a 75 anni di pace e ancora dura. Le grandi guerre che hanno insanguinato il pianeta sono cessate, tutte. E chi sostiene che le guerre siano egualmente molte e altrettanto crudeli, non conosce la storia né la geografia. Le due guerre terminate con le esplosioni atomiche e poi con l’equilibrio del terrore fra superpotenze – anche se tu mi uccidi, io prima di morire farò in tempo ad uccidere te – l’Europa, l’America, l’Asia, la Cina, non hanno avuto che guerre limitate. Certo, ci furono la Corea e il Vietnam. Ma il numero delle vittime fu – in proporzione – irrilevante. «Noi non abbiamo paura della bomba» cantavano i Giganti negli anni Settanta e invece dobbiamo soltanto a quell’ordigno il fatto che siamo per lo più vivi e complessivamente in discreta salute, tanto che l’età della vita umana è cresciuta enormemente fino a far crollare le riserve delle assicurazioni. E gli scienziati? Furono soddisfatti di quel che fecero? Chi sì e chi no. Il nostro Enrico Fermi, fuggito in Usa con una moglie ebrea soggetta alle leggi razziali di Mussolini del 1938, diventò un protagonista del progetto Alamo ed era continuamente scortato, vivendo una esistenza misteriosa e segreta. Chi condanna l’America sostiene in genere che gli Stati Uniti decisero di usare la bomba per spaventare Stalin e rimetterlo in riga. Oggi possiamo dire che già tre anni prima, nel 1942, Stalin era stato dettagliatamente informato del progetto americano dal fisico Iuli Khariton e ordinò immediatamente al suo capo della polizia segreta, Lavrentij Beria, di arruolare tutti gli scienziati atomici sovietici fra cui Igor Kurciatov, Andrei Sakharov e lo stesso Khariton. Ma il primo materiale fu fornito loro dallo scienziato americano Klaus Fuchs che lavorava al “progetto Manhattan” ma era un informatore russo. Era avvenuto un cambio etico e militare. Era cioè prevalsa la linea – in entrambi gli schieramenti – secondo cui il morale dei civili è un obbiettivo militare. Poiché i giapponesi erano mostrati mentre si esercitavano alla scherma con i bastoni contro l’invasore, l’amministrazione americana dichiarò la popolazione giapponese obiettivo militare. Prima di Hiroshima inglesi e americani avevano deciso di cancellare la città tedesca Dresda. Il piano fu studiato dal capo dell’aviazione inglese Harris, detto poi Bomber Harris, o Butcher Harris, il macellaio. Tre ondate separate di aerei si avvicendavano sulla città: la prima scoperchiò le case, la seconda le riempì di combustibile e la terza portò la temperatura a trentacinquemila gradi e la popolazione- come dimostrò la commissione d’inchiesta dopo la guerra – ne fu liquefatta. Secondo gli inglesi morirono solo 35 mila tedeschi, ma secondo i tedeschi i morti furono 135 mila, molti di più di Hiroshima e Nagasaki. I morti complessivi del Giappone in cinque anni di guerra fra civili e militari superarono di poco i due milioni mezzo. L’incidenza delle due bombe atomiche fu irrilevante, non così l’effetto esistenziale, distruttivo e depressivo che travolse l’intera umanità. Molto di più della bomba atomica avevano terrorizzato il Giappone i bombardamenti di Tokyo usando bombe incendiarie che distruggevano una città di carta, legno, papiro e decorazioni laccate. Stalin, più che sorprendersi per le notizie che gli arrivavano sull’uso delle atomiche americane si preparò ad attaccare l’esercito giapponese in Manciuria e riconquistare le isole contese fin dalla guerra del 1905. A Stalin interessava la sua parte di bottino nel Pacifico, dopo essersi fatto riconoscere a Yalta ciò che aveva già ottenuto da Hitler: Europa orientale, Paesi baltici, Romania, Bessarabia e una mano sui Balcani grazie al maresciallo Tito, ancora suo numero due. I giapponesi speravano invece di poter usare il canale sovietico per ottenere una pace onorevole e per questo il ministro degli Esteri del nuovo governo Shinegori Togo fece sapere a Stalin che il Giappone avrebbe restituito la parte meridionale dell’isola di Sakhalin e le Curili settentrionali. Le risposte di Mosca furono vaghe e includenti. Il governo di Tokyo capì che non esisteva più spazio per giocare alla politica: il governo giapponese ignorava che a Yalta Roosevelt aveva promesso a Stalin non soltanto la parte meridionale dell’isola di Sakhalin, l’arcipelago delle Curili, il porto di Dairen ma anche la base navale di Port Arthur in cambio dell’intervento con cui chiudere la guerra e garantire all’opinione pubblica una riduzione del massacro delle truppe americane. Stalin capì e agì da uomo ordinato e onnipotente: trasferì con la Transiberiana mezzi e materiali per l’invasione della Manciuria e quando il ministro degli esteri giapponese Togo chiese all’ambasciatore sovietico Jakob Malik di procurare un incontro fra Molotov e il principe Konoye, cugino dell’imperatore ed ex capo del governo si capì che non tirava aria. Uno dei prezzi della bomba atomica, aggiuntivi per il Giappone era che adesso doveva tirarsi addosso anche la pedata sovietica per pagare tutti i conti in sospeso. E così fu. Negli Usa, prima ancora del lancio della bomba, si faceva sentire il partito favorevole a una resa onorevole per il Giappone: Joseph Grew e il sottosegretario alla guerra John McCloy premettero su Truman affinché rassicurasse i giapponesi sul fatto che non intendevano privarli del sistema imperiale: «L’impiccagione dell’imperatore equivarrebbe per loro alla crocifissione di Gesù Cristo». Roosevelt a questo punto istituì un organismo militare e scientifico: l’interim Committee formato da Robert Oppenheimer, Ernest Lawrence, Arthur Compton e dal ministro della guerra Henry I. Stimson, più altri cin¬que politici. Dieci in tutto. Leo Szilard era favorevole a una azione dimostrativa anziché distruttiva sul Giappone. I prigionieri di guerra americani in Giappone, per esempio nel campo di Hokkado, furono avvertiti di di non evadere per non subire rappresaglie in seguito ai terribili bombardamenti con i B-29. Furono anzi organizzati “bombardamenti” sui campi con lancio di vettovaglie, abiti e medicinali per i prigionieri, con missioni di oltre 4.000 miglia per un totale di ore di volo di h.20 e 45’ sul Pacifico. Il 17 giugno del 1945, l’italiano Enrico Fermi entrò nell’Interim Committee destinato a consigliare i politici sull’uso dell’arma atomica. La commissione delegò i suoi poteri a una sottocommissione, lo Science Panel formata da Fermi, Oppenheimer, Lawrence e Arthur Compton. Fermi si trovò di fronte un documento stilato nel suo stesso laboratorio a Chicago da James Franco e da un gruppo di ricercatori, che proponeva un uso non distruttivo della bomba: darne vistosa dimostrazione ai giapponesi per convincerli alla resa. L’opzione opposta era raccomandata dal generale Leslie Groves, capo del Progetto Manhattan, il quale chiese il bombardamento immediato di una città giapponese. Fermi e i suoi valutarono a fondo e poi si chiamarono fuori dalla decisione di bombardare o no: «Riconosciamo l’obbligo di fronte alla nazione, che l’arma debba essere usata per salvare vite americane. Per quanto riguarda questi aspetti generali dell’impiego dell’energia atomica, è chiaro che noi, in quanto uomini di scienza, non godiamo di alcun diritto d’autore… non rivendichiamo una particolare competenza nella soluzione dei problemi politici, sociali militari che sorgono con la scoperta dell’energia atomica». Alla fine di giugno aggiunsero: «Non possiamo suggerire alcuna dimostrazione tecnica che abbia una qualche probabilità di far finire la guerra; non vediamo alcuna soluzione alternativa accettabile a quella del diretto uso militare». Più tardi, nel febbraio 1947 su Harper Bazar l’ex ministro della guerra Henry Stimson scriverà: «Non ci sarebbe stato nulla di più controproducente di una dimostrazione che si concludesse con un buco nell’acqua. E, inoltre, non c’erano bombe atomiche da sprecare». Gli echi del dibattito arrivarono a Tokio dove l’imperatore Hirohito chiese al suo governo di intavolare trattative per finire alla guerra. Lo scienziato ungherese Leo Szilard scrisse allora da Chicago a Teller una lettera firmata anche da altri scienziati in cui insisteva per un uso dimostrativo dell’atomica, prima di quello distruttivo. Teller rispose che Robert Oppenheimer non era d’accordo, perché la decisione spettava soltanto al governo e non agli scienziati. Teller in seguito disse che ignorava che lo stesso Oppenheimer, insieme a Enrico Fermi, Arthur Compton e Ernest Lawrence facevano parte di un comitato ristretto che aveva lo scopo di fornire consulenza al presidente sull’uso dell’arma atomica. E che per “uso dimostrativo” intendeva un’esplosione a dieci chilometri d’altezza sulla baia di Tokio, senza creare danni e davanti agli occhi dell’imperatore: «Gli scienziati ne parlarono fra loro, ma Oppenheimer non volle sottoporre l’opzione al presidente, perché pensava che in questo modo la guerra sarebbe finita prima». Compton e Lawrence si dichiararono contrari al lancio immediato. Il 16 luglio la prima bomba atomica sperimentale esplode nel deserto del Nuovo Messico ad Alamogordo nella pianura di Jornada del Muerto (cammino del morto) e la bomba sperimentale viene chiamata Trinity. Fermi dice: «Potrebbe darsi che l’esplosione non si possa verificare, e può darsi che l’esplosione non si arresti e bruci tutto il pianeta. In ogni caso avremo raggiunto un importante risultato scientifico». Oppenheimer mormorò alcuni versi di un poema sacro indù, Segre pensò all’apocalisse e altri si abbandonarono a considerazioni sul futuro dell’umanità. La notizia venne trasmessa a Truman che si trova a Potsdam e che la sussurrò a Churchill, mandandolo in visibilio. A Stalin il presidente americano disse: «Abbiamo avuto notizia di una bomba di nuovo tipo». Stalin annuì distrattamente, essendo ben informato del progetto Manhattan e dei fisici di Los Alamos da due scienziati: il fisico Klaus Fuchs e il biochimico Harry Gol ed altri. Stalin con altrettanta noncuranza raccontò dei tentativi giapponesi per ottenere una capitolazione. Truman si finse vagamente stupito, essendo perfettamente informato grazie al sistema “Magic” di intercettazione e decrittazione. Il giorno successivo ci fu la Dichiarazione di Potsdam, di Truman, Stalin e Churchill, un ultimatum al Giappone letto per radio e non consegnato per vie diplomatiche. Il governo di Tokyo è sconvolto dall’umiliazione di questa procedura e temporeggia. Poi replica con una dichiarazione tipicamente orientale e involuta di Suzuki a una conferenza stampa, che viene scambiata per un rifiuto. Alla conferenza di Potsdam Stalin informa in modo vago gli alleati degli approcci giapponesi per arrivare alla pace e di altri condotti attraverso la Svezia. Ormai Truman, succeduto a Roosevelt, sa di avere l’atomica e di poter piegare il Giappone senza far scendere in campo l’Urss con cui non intende contrarre né pagare debiti. La sua linea è semplice: l’imperialismo giapponese è comunque battuto, quello sovietico deve essere bloccato invece nella sua fase nascente. Stalin avverte il cambiamento di umore americano e decide di affrettare i tempi dell’invasione in Manciuria. Intanto, la bomba era stata recapitata sull’isola di Tinian alla base del reparto di volo. Truman era ormai deciso ad ottenere per via atomica la resa incondizionata di Tokio senza dover passare per i favori di Stalin. Il generale Eisenhower e l’ammiraglio Leahy si dichiarano contrari all’uso «perché il Giappone è ormai sconfitto». Degli scienziati 57 sottoscrivono il “rapporto Frank” con cui si dichiarano contrari all’uso della bomba anche da loro creata. Sul fronte opposto, due scienziati volevano l’uso della bomba per poterne valutare gli effetti. Robert Oppenheimer e Enrico Fermi dissero: «Una distruzione nel deserto non significa nulla». Hiroshima fu scelta perché intatta e quindi eccellente test per misurare le distruzioni. Fu usato l’ordigno “Little boy” trasportato dall’”Enola Gay” con uranio 235, mentre “Fat Man” destinato a Nagasaki era al plutonio. La seconda bomba fu lanciata per poter esaminare le differenze dei due diversi modelli. Mentre ancora la palla di fuoco ardeva nella valle di Urakami a Nagasaki, Truman dichiarava: «Abbiamo impiegato la bomba atomica per abbreviare il conflitto… preghiamo Dio di illuminarci nell’uso di questo strumento, secondo le sue intenzioni». Churchill dirà: «E’ stato un gesto necessario per salvare 500mila soldati inglesi e un milione e mezzo di americani». Lo scienziato inglese Rotblat dirà: «Credo invece che questi numeri fossero assolutamente esagerati. E che gli stermini di Hiroshima e Nagasaki servirono soltanto a impressionare i russi. Lo ammise il generale Eisenhower alla fine della guerra e allora io mi sentii particolarmente felice di aver abbandonato il progetto».

La storia di Claude Eatherly, il pilota divorato dal rimorso d’aver sganciato la bomba. Vittorio Ferla su Il Riformista il 9 Agosto 2020. Che cosa prova un soldato quando uccide un altro essere umano nel corso di una guerra? La risposta non può essere mai facile, ma il trauma è profondo. Ancora più difficile diventa la risposta quando un militare uccide in un colpo solo decine di migliaia di persone, semplicemente premendo un bottone. Quello che accadde nel 1945 a Hiroshima e Nagasaki quando i piloti americani lanciarono le bombe atomiche sulla popolazione civile delle due città giapponesi. Qualcosa che – non a caso – è successo una volta sola nella storia e, per le proporzioni disumane dell’evento, nessuno ha mai più ripetuto. Secondo le stime, i due attacchi nucleari – con i quali, il 6 e il 9 agosto di 75 anni fa, gli Usa misero fine alla guerra con il Giappone – provocarono almeno 200 mila morti. E così, mentre in questi giorni si ricorda il tragico anniversario, viene da chiedersi che fine hanno fatto gli aviatori americani che sganciarono le bombe, come hanno vissuto quella esperienza e quali tracce ha lasciato il bombardamento nella loro esistenza. «Solo un secondo prima di sganciarla ho pensato che stavamo per uccidere vecchi, donne, bambini. Ma non mi sono mai pentito di aver buttato la bomba su Nagasaki». Diceva così in un’intervista del 1999 Fred J. Olivi, il militare italoamericano – la sua famiglia veniva da Lucca – che il 9 agosto del 1945 co-pilotava il B-29 Bockscar, aereo gemello dell’Enola Gay di Hiroshima. «No, non mi dispiace aver tirato la bomba – spiegava Olivi – anche perché con questa operazione abbiamo fatto finire la seconda guerra mondiale. Senza l’atomica forse oggi molti bambini americani non ci sarebbero: in caso d’invasione del Giappone i loro nonni sarebbero morti e i loro padri non sarebbero mai nati. E quindi nemmeno loro sarebbero nati». Anche il colonnello Paul Tibbets Jr., che comandava l’unità delle forze aeree dell’esercito incaricata di consegnare le bombe atomiche e pilotava l’aereo che sganciò la bomba su Hiroshima, difese le sue azioni fino ai suoi ultimi giorni. «Ho deciso allora che gli scrupoli morali relativi a quella bomba non erano affar mio», ha detto a un intervistatore nel 1989. «Non ho mai perso una notte di sonno per questa vicenda». Tutti gli aviatori che allora parteciparono alla missione cercarono insomma di giustificarsi in qualche modo. Tutti, meno uno. Anne I. Harrington, professore associato presso il dipartimento di politica e relazioni internazionali dell’Università di Cardiff, racconta sul New York Times che, negli anni successivi, il Maggiore Claude Eatherly fu l’unico a farsi avanti per confessare pubblicamente il proprio rimorso per ciò che aveva fatto. «Eatherly, allora un texano di 26 anni, pilotava l’aereo che aveva l’incarico di valutare la visibilità dell’obiettivo su Hiroshima. Fu lui a dare il via libera quel giorno al lancio della bomba. Il suo ruolo nel bombardamento lo avrebbe perseguitato per il resto della sua vita». Da Taxi driver in poi i film americani hanno sfornato un’enorme collezioni di reduci di guerra traumatizzati dall’esperienza bellica. Spesso si tratta di personaggi “spostati”, che possono diventare pericolosi appena ritornano alla vita sociale “normale”. Proprio come il tassista interpretato da Robert De Niro nel film di Martin Scorsese. Soprattutto dopo l’esperienza del Vietnam e – più di recente – dopo le guerre in Afghanistan e in Iraq, si moltiplicano i casi di reduci colpiti profondamente dallo shock generato dal conflitto militare. Accade spesso che i veterani di guerra afflitti da questo trauma rimangano bollati a vita e, incapaci di reinserirsi nella società, possano trovare difficoltà nell’accesso al lavoro e vivere in condizioni di marginalità. Nell’aprile del 1957, Newsweek pubblicò un articolo dal titolo L’eroe in manette. L’eroe era proprio il pilota Claude Eatherly, chiuso in una cella di prigione a Fort Worth per aver scassinato due uffici postali nel Texas rurale. La sua vita dopo la guerra era ridotta a brandelli: soggetto a trattamento psichiatrico in un ospedale di Waco, detenuto in una prigione di New Orleans per aver falsificato un assegno, coinvolto in una serie di rapine nei negozi di alimentari di una piccola città. Ma i suoi crimini erano eseguiti male, in modo perfino goffo. Al punto che veniva sempre catturato. Ecco perché sia il suo psichiatra che uno dei suoi avvocati difensori giunsero alla conclusione che Eatherly avesse l’intenzione di essere scoperto. Al processo per i furti con scasso presso l’ufficio postale, lo psichiatra di Eatherly testimoniò che il suo paziente soffriva di un complesso di colpa derivante dal suo ruolo nel bombardamento di Hiroshima. Insomma, Eatherly commetteva questi piccoli crimini perché cercava una punizione. Fu rilasciato, perché la giuria lo ritenne «non colpevole per pazzia». Ma Eatherly non è soltanto l’antesignano dei reduci sbandati dei film americani. L’ex pilota, a un certo punto della sua vita, diventa addirittura una sorta di esempio filosofico. Come spiega sempre Anne I. Harrington sul «New York Times, la discrepanza tra l’enorme potere delle invenzioni dell’umanità e la capacità limitata di ogni singola persona di comprendere, per non parlare di controllare le implicazioni morali e pratiche di quel potere, rappresenta il “divario prometeico” teorizzato da Günther Anders”, filosofo ebreo tedesco del dopoguerra, compagno di Hanna Arendt e attivista antinucleare. Nella mitologia greca Prometeo ruba il fuoco agli dei per darlo agli uomini, ma le invenzioni umane conseguenti scatenano nuove forme di morte, distruzione e sfruttamento. Nel mito greco, gli dei punivano Prometeo con l’eterno tormento. Per Anders, gli aviatori americani incaricati di sganciare le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki sono il primo esempio di persone intrappolate nel divario prometeico. Da un lato, ingranaggi della macchina atomica: anche se avessero rifiutato l’incarico, qualcun altro lo avrebbe svolto al loro posto. Potevano essere, insomma, dei “colpevoli senza colpa». Dall’altro lato, come partecipanti e testimoni della violenza, furono sottoposti all’enorme peso del rimorso per le loro azioni. «La tecnica ha fatto sì che si possa diventare ‘incolpevolmente colpevoli’, in un modo che era ancora ignoto al mondo tecnicamente meno avanzato dei nostri padri» scrive Gunthers in una lettera a Eatherly, nell’ambito di un celebre carteggio della fine degli anni ’50 (pubblicato in Italia nel 2016). «Lei capisce il suo rapporto con tutto questo: poiché Lei è uno dei primi che si è invischiato in questa colpa di nuovo tipo, una colpa in cui potrebbe incorrere – oggi o domani – ciascuno di noi. A Lei è capitato ciò che potrebbe capitare domani a noi tutti. È per questo che Lei ha per noi la funzione di un esempio tipico: la funzione di un precursore». Eatherly soffrì per tutta la vita, ma fece in tempo a diventare un campione del movimento antinucleare e a riconciliarsi con le vittime di Hiroshima.

·        66 anni dalla morte di Eddie Sanders.

Sanders, il colosso ucciso dal colpo oscuro. A Helsinki '52 fu oro nei pesi massimi. Due anni dopo morì sul ring per un tumore alla testa. Riccardo Signori, Venerdì 14/08/2020 su Il Giornale. Un colpo oscuro finì Eddie Sanders, tragico e irridente per un fantastico colosso nero, ercole che metteva paura sol a mettere piede sul quadrato. Lo chiamavano Big Ed, morì fra le corde di un ring di Boston mentre si batteva con Willie James, campione del New England per i pesi massimi. Era l'11 dicembre del 1954, solo 9 match da professionista all'attivo: 18 ore dopo il ko subito da James, lasciò la vita. Due anni prima, a Helsinki, questo americano, 22 anni di età, 1,93 m. d'altezza e 100 kg di stazza, saliva sul podio per godersi la medaglia d'oro del torneo olimpico dei pesi massimi. Inesorabile distruttore di avversari, tanto da convincere l'ultimo, un futuro campione dei massimi, a fuggire per il ring. I cronisti del tempo ne vedevano già l'erede del grande Joe Louis. Invece un tumore annidato nella testa scatenò una emorragia cerebrale, dopo un pugno avversario, che decretò il ko finale. La nera signora è uno degli avversari dei pugili fra le corde, nella decade fra il 1950 e il 1959 si contarono 119 morti: un inferno. Sanders veniva dalla California, il clima di quell'estate a Helsinki, dove pioggia e sole si alternavano nel giro di poche ore, e dal mare di Barents arrivavano raffiche di vento polare, parevano il vero disagio per un uomo abituato al caldo di Los Angeles, tanto che il coach della nazionale Usa, un italo-americano, stava perfino per sostituirlo con Norvel Lee, un poliziotto di New York. Sanders aveva già dimostrato la sua potenza e prepotenza: si era guadagnato la qualificazione olimpica salendo sul ring con una mano rotta e mettendo ugualmente ko l'avversario. Poi l'infortunio di Charley Spieser, stempiato ragazzone di Detroit iscritto nei mediomassimi, diede soluzione al caso: Norvel Lee avrebbe gareggiato fra i mediomassimi, Sanders fra i massimi. Fu una fortuna per la storia della boxe. Il poliziotto vinse il suo torneo, ma presto lasciò i guantoni per diventare ufficiale di carriera dell'esercito. Invece bastò il primo match nella Messuhall I di Helsinki per far capire al pubblico quale era il vero terrore del ring: Big Ed si muoveva a velocità impressionante e faceva danni con entrambi i pugni. Eppure questi Giochi avrebbero annoverato, si sarebbe scoperto nel tempo, fior di campioni: Floyd Patterson oro nei medi ma nei professionisti due volte campione del mondo dei massimi, Henry Twin Cooper baronetto inglese futuro avversario di Cassius Clay, l'americano Davey Moore poi mondiale piuma, il messicano Raoul Raton Macias mondiale gallo, Ingemar Johansson svedese che sarebbe diventato mondiale dei massimi, l'ungherese Laslo Papp uno dei più grandi dilettanti di sempre. Fra gli italiani Guido Mazzinghi, fratello più grande di Sandro. Sanders sembrava un monumento bronzeo: a 12 anni pareva un bestione di 18, aveva praticato football e frequentato gli stadi dell'atletica. Si muoveva da giaguaro, saltava e correva veloce. L'allenatore della Accademia navale di Compton, California, ne avrebbe voluto fare un avversario di Bob Mathias il campionissimo del decathlon. Ma a Helsinki, Sanders dimostrò di aver preso la strada giusta. Eliminò gli avversari per ko: lo svizzero Jost, il romano Di Segni centrato al 3° round. Fu più dura con il sudafricano Andries Chris Niemann, uno scricciolo rispetto alla dimensione dell'altro: ma si battè da coraggioso boero. A causa delle leggi razziali del suo paese era la prima volta che si batteva con un nero: incalzò Sanders con violenza distruttiva per un round, quasi fece crollare il colosso. Ma, nel 2° round, la furia dell'americano lo demolì. Lo svedese Ingemar Johansson arrivò pure lui alla fine, osservando sempre Sanders da bordo ring. Pareva un tipo tranquillo, ma quel sabato notte lasciò il coraggio nello spogliatoio. Cominciò a correre e indietreggiare: una fuga indecorosa. Sanders cercò il contatto: stupito. Il vichingo non tenne fede alla fama guerriera della sua gente. I tifosi cominciarono a spazientirsi, volò pure una mela fra le corde ad inseguire il fuggitivo. L'arbitro francese Vaisberg invitò al combattimento: dapprima con gentilezza, poi con asprezza. Finchè, nella 2ª ripresa, fermò Sanders con una mano e spedì i pugili all'angolo. Johansson venne squalificato, la gente inviperita gli urlò «codardo». La stampa scandinava lo definì «coniglio». Scrissero: «Una tra le pagine più vergognose della storia sportiva di Svezia». La medaglia d'argento non venne consegnata, sul podio salirono solo Sanders, primo nero americano a vincere l'oro dal 1904, e il finlandese Koski: bronzo. La bandiera svedese rimase ammainata: caso che fece storia. Dopo due anni la sorte di Sanders finì in tragedia. Invece Johansson capovolse un destino da coniglio andando a conquistare il mondiale dei massimi davanti a Floyd Patterson, enfant prodige della boxe Usa: il più giovane re dei massimi nella storia. Il 26 giugno 1959 il corpulento svedese, per i bookmakers perdente 5-1, nello Yankee stadium di New York davanti a 20mila spettatori, costrinse il campione a sette cadute e chiuse nel 3° round. Prima di allora, solo due europei, Max Schmeling e Primo Carnera, erano stati campioni mondiali. Un medico americano di Seattle raccontò che lo sfidante era stato ipnotizzato nello spogliatoio da un accompagnatore. Fantasie? La successiva rivincita, un anno dopo, si chiuse con Johansson messo ko in 5 round. E così capitò nel terzo incontro. Tre match, come piaceva al business americano. Le vie dei sospetti sono infinite, ma a Goteborg, sua città natale, decisero che Johansson meritava comunque una bronzea statua. Il codardo si era riscattato.

·        60 anni dall'impresa del batiscafo “Trieste”.

Sessant'anni fa l'impresa del batiscafo "Trieste" batiscafo rivoluzionario, non più costituito da una singola struttura sferica ma con una costruzione più complessa che ricordava molto un mini-sommergibile. Edoardo Frittoli su Panorama 20 gennaio 2020. Il "Trieste" fu battezzato con il nome dello capoluogo giuliano perché fu realizzato in buona parte nei Cantieri Riuniti dell'Adriatico negli anni del Territorio Libero di Trieste (Tlt) occupato dagli Alleati dal 1945. Sulla base dei disegni di Piccard fu assemblato uno scafo di 15 metri di lunghezza del peso di 150 tonnellate. La zona di comando e osservazione era il ore all'occhiello di tutto il progetto. Si trattava di una sfera in acciaio (del peso di ben 3 tonnellate) con le superfici spesse dai 9 ai 12 centimetri. Fu realizzata dalle Acciaierie di Terni e inne assemblata allo scafo a Castellammare di Stabia presso i cantieri Navalmeccanica. Mosso da due piccoli propulsori elettrici da 2 Hp ciascuno e alimentati con batterie da 60 Kwh, il "Trieste" presentava all'interno dello scafo una serie di camere stagne contenenti 85 metri cubi di benzina come galleggiante. Fu scelto l'idrocarburo al posto dell'acqua per le caratteristiche di fluidità e di incomprimibilità alle altissime pressioni degli abissi. Il batiscafo funzionava grossomodo come un "aerostato acquatico": grazie alla zavorra in pellet di ferro e a due camere riempite d'acqua il batiscafo si inabissava ad una velocità media di 85 centimetri/secondo. La risalita avveniva invece dopo il rilascio della zavorra grazie ad un attuatore elettromagnetico. Il batiscafo "Trieste" fu pronto nel 1953 e poco dopo lasciò i cantieri alla volta dell'isola di Capri, dove furono programmate le prime prove d'immersione. Battente doppia bandiera italiana e svizzera, ruppe il primo limite di discesa oltre i 1.000 metri pilotato da Jacques Piccard il 27 agosto 1953. Esattamente un mese più tardi il "Trieste" superò il record mondiale di immersione realizzato quell'anno in Francia da Jacques Cousteau (2.100 metri). Al largo dell'isola di Ponza il batiscafo scese nelle profondità del mar Tirreno no ai 3.150 metri senza alcun problema tecnico. Da questi successi, poi ripetuti per 4 anni, nacque l'interesse americano per l'acquisizione del prodigioso natante. Oltre agli oceanografi, che si presentarono a Napoli alla metà del 1957, era interessata anche la Marina degli Stati Uniti soprattutto per quanto riguardava la sperimentazione nel campo dei radar antisommergibile (erano gli anni della guerra fredda) e della misurazione della radioattività nelle fosse oceaniche. Il passaggio alla Us Navy avvenne formalmente l'8 gennaio 1958 e subito dopo il "Trieste" lasciò l'Italia alla volta del porto di San Diego in California. Il gioiello di Piccard era stato inserito nel programma oceanografico "Nekton" , consistente in una serie di ricerche esplorative nelle profondità del Pacico, nel punto di massima depressione della crosta terrestre nota come la Fossa delle Marianne, a circa 100 miglia da Guam, territorio statunitense in Micronesia. Prima dell'impresa, il batiscafo nato nei cantieri navali triestini fu modificato per poter reggere l'impatto della pressione di oltre 10 atmosfere. Oltre all'aumento della capacità delle camere contenenti la benzina, la più importante modica riguardò la sfera di comando e osservazione. La vecchia struttura assemblata a Terni fu rimpiazzata da una nuova sfera costruita a Essen (allora Germania Ovest) dal colosso dell'acciaio Krupp. Lo spessore massimo passò dai 12 ai 15 centimetri, mentre il peso complessivo della zavorra in ferro salì a 18 tonnellate. Anche la lunghezza dello scafo fu aumentata no a raggiungere i 18 metri dai 15 originari e il volume totale della benzina contenuta nelle camere salì a 130 metri cubi. I comandi del "Trieste" furono affidati al Tenente della Marina Usa Donald "Don" Walsh, in coppia con Jacques Piccard. Il batiscafo nato in Italia lasciò il porto di San Diego il 5 ottobre 1959 caricato sul cargo "Santa Mariana" per iniziare le sessioni di immersione con il nuovo scafo e la nuova sfera. Ben presto Walsh e Piccard superarono tutti i precedenti record d'immersione arrivando no a 5,530 metri. Qualche giorno più tardi la sessantaquattresima immersione dal varo spinse il batiscafo no a -7,300 metri. Si pensò in quell'occasione di poter toccare il fondo dell'Oceano ma il rilascio precoce di zavorra fece innescare un moto di risalita inarrestabile. Il grande giorno finalmente arrivò il pomeriggio del 23 gennaio 1960, quando alle 16 e 20 circa Walsh chiuse i boccaporti del "Trieste" per la sessantacinquesima avventura del batiscafo. La discesa nella profondità dell'abisso durò 4 ore e 48 minuti per scendere ad una profondità tale che ipoteticamente avrebbe permesso al Monte Everest di essere totalmente immerso nell'acqua avanzando dalla sommità ancora quasi 2 km. La discesa fu quasi interamente compiuta nel buio assoluto, visto che alla profondità di 500 metri spariscono anche gli ultimi raggi ultravioletti. L'unica fonte di luce furono i potenti fari al quarzo posizionati lungo la chiglia del "Trieste". Furono questi ad illuminare per primi l'inesplorato quando inquadrarono la nube di sabbia sottilissima che il batiscafo aveva sollevato toccando il fondo. Quello che Piccard e gli scienziati cercavano, fu illuminato dalle luci del "Trieste" non appena la nube di sabbia si fu diradata. Platesse e gamberi degli abissi nuotavano sul fondale: l'operazione era perfettamente riuscita. Il "Trieste" era riuscito a trovare l'oggetto della ricerca, quel "nekton" costituito da organismi viventi a moto autonomo a dierenza del "plancton" semplicemente trascinato dalle correnti. Walsh e Piccard rimasero sul fondo della Fossa delle Marianne per circa 20 minuti prima di iniziare le operazioni di risalita. Quando si adagiò sul fondale, gli strumenti del batiscafo segnavano - 11.521 metri (nel tempo ricalcolati e corretti a - 10.917). La pressione esercitata sulla struttura era impressionante: 1 tonnellata ogni centimetro quadrato. Le operazioni di risalita durarono 3 ore e 17 minuti. A metà percorso il "Trieste" perse le comunicazioni con la superficie in una zona di forti correnti, per poi recuperarle nell'ultima fase della riemersione. Il 4 febbraio 1960 Don Walsh e Jacques Picard furono ricevuti alla Casa Bianca dal presidente Dwight Eisenhower per il conferimento delle onorificenze. Allo svizzero andò la "Distinguished Service Public Award" , mentre al tenente della Marina l'ambitissima "Legion Of Merit". Il Batiscafo Trieste tornò al porto di San Diego, dove fu sottoposto a revisione e ulteriori modiche. (/) / La seconda importante missione del "Trieste" fu una missione di recupero. Il 10 aprile 1963 il sommergibile atomico americano "Uss Thresher" (Ssn-593) scompariva nelle acque dell'Atlantico a circa 220 miglia dalla costa di Boston, con a bordo 129 uomini dell'equipaggio. Il batiscafo dei record fu imbarcato ed iniziò una serie di immersioni per scandagliare una vasta area di circa 5 miglia quadrate, in una situazione di forte rischio per i due membri dell'equipaggio in quanto le acque mosse dell'oceano più volte imposero la riemersione poiché il "Trieste" imbarcava acqua dai boccaporti e si muoveva ad una velocità troppo ridotta per le esigenze della missione. Per tali motivi le ricerche furono momentaneamente sospese ed il batiscafo fu sottoposto a modiche come l'aumento della potenza dei piccoli propulsori. Il nuovo batiscafo, ribattezzato "Trieste II" riprese le ricerche nell'estate del 1964, un anno dopo la tragedia. Dopo circa tre mesi di immersioni, il 1 ottobre il relitto del "Thresher" deformato dalla pressione dell'acqua fu individuato e fotografato dal batiscafo di Piccard. Le immagini aiutarono gli inquirenti a ricostruire le cause della catastrofe, che saranno poi individuate in un difetto di costruzione di alcune tubazioni che erano state imbullonate anziché saldate e non ressero all'aumento della pressione causando un blackout elettrico che spense il propulsore nucleare rendendo il sommergibile ingovernabile. Dopo le operazioni di recupero, il glorioso "Trieste II" fu per due anni fermo in porto prima di essere radiato dalla Us Navy nel 1966. Dal 1980 si trova esposto al Museo della Marina Militare americana di Washington Dc. Il suo record di immersione del 23 gennaio 1960 è tuttora imbattuto. 

·        60 anni dalla morte di Albert Camus.

60 anni fa moriva prematuramente Albert Camus, scrittore raffinato e influente. Corrado Ocone il 4 Gennaio 2020 su Il Riformista. Albert Camus aveva solo quarantasei anni quando, giusto sei decenni fa, il 4 gennaio 1960, la sua vita si spegneva tragicamente in un incidente stradale alle porte di Parigi. Mai vita fu più breve e più intensa, e sconvolgente, della sua, si potrebbe dire (Il primo uomo, il romanzo pubblicato postumo nel 1994, può considerarsi una suggestiva autobiografia). Chi mai avrebbe potuto immaginare che quel pargolo nato il 13 novembre 1913 in una famiglia poverissima, al limite dell’indigenza, di coloni francesi in Algeria (i cosiddetti pieds-noirs), senza nessuna istruzione e senza nessuna parentela importante, rimasto già qualche mese dopo la nascita orfano di padre e con una madre sordomuta, sarebbe divenuto un giorno uno dei più raffinati e influenti scrittori di ogni tempo, vincitore del Premio Nobel per la Letteratura nel 1957? È il miracolo della vita, ma anche la cifra di un uomo che intanto riesce ancora a parlarci in quanto la sua cultura era profonda e vera ma non intellettualistica: aveva in spregio la vichiana «boria degli intellettuali» e amava il contatto con la gente semplice. Camus, detto altrimenti, conservò sempre il senso del terrestre e del vitale, con la capacità di andare al concreto dell’esistenza umana. Era esistenzialista, come Jean Paul Sartre, che fu il suo più acerrimo avversario nel campo intellettuale. Ma, al contrario di Sartre e della più parte degli intellettuali del secolo scorso, non si lasciò mai sedurre da quelle idee che, con la scusa di “salvarlo” e ”redimerlo” su questa terra, finivano per asservire ancor più l’uomo che dicevano di voler liberare. Non rispose alle sirene degli opposti totalitarismi. Per Camus l’uomo è solo davanti al suo destino, che lo porterà inesorabilmente alla morte: la condizione umana può a buon diritto essere considerata assurda (La peste, 1947). I rimedi a questa situazione sono tutti vani, e ogni progetto intrapreso dall’uomo è costretto prima o poi a fallire o perire. E l’uomo, come Sisifo, illudendosi, non potrà che cominciare daccapo a risospingere su un macigno senza arrivare mai alla cima della montagna (Il mito di Sisifo, 1942). L’uomo non ha allora che una sola via d’uscita: la Rivolta (L’uomo in rivolta, 1951). Essa non è la Rivoluzione: sia perché non vuole sottomettere i mezzi ai fini per approdare a un indeterminato futuro di felicità, sia perché è rivolta esistenziale e morale e non politica. Camus aborre ogni tipo di violenza, che condanna anche in movimenti, come il Fronte di liberazione algerino, di cui pur condivide gli obiettivi. E condanna anche senza appello la pena di morte: se la natura la commina inesorabilmente a noi tutti, la nostra rivolta a questa assurdità è proprio nel non comminarla a nostra volta. Si viene così a delineare anche l’ideale in lato senso politico di Camus. Egli crede nell’individuo, perché solo in questo modo si può sempre dire la propria con sincerità e ci si può opporre ai dogmi e alle fedi che tradiscono la verità (e che si richiamano a partiti, chiese, ideologie, poteri vari). L’uomo deve poter fare sempre di testa sua, col solo limite di non calpestare gli altri. Camus era indubbiamente un libertario, e fu anche spesso vicino politicamente agli anarchici. Ma il suo individualismo anarchico si fondava appunto sul senso dell’assurdo, ed era quindi nichilistico per una parte. Per un’altra parte, invece, immediato era per lui anche il senso di solidarietà verso gli altri che sono nella nostra stessa situazione, il protendersi naturale verso la comunità. Solitaire, solidaire. Camus era convinto che la felicità non dovesse trovarsi nel futuro, come volevano i rivoluzionari, ma qui nel presente, in certi attimi di felice sensualità e abbandono panìco al mondo. Amava la vita nella sua pienezza e imperfezione. «Come uomo – diceva- avverto il gusto della felicità». L’ascetismo morale che lo portava a rifiutare la violenza si univa pertanto in lui, abbastanza paradossalmente, alla necessità carnale e sensuale di godersi il mondo e le cose belle della vita: il sole, il mare, la luce, il corpo di una donna…Amore della vita e disperazione, adesione al quotidiano e consapevolezza dell’assurdo, idealismo morale e realismo tragico: nella tensione sempre aperta fra queste polarità sta tutta la grandezza del pensiero, e anche dell’impegno etico-politico, di Camus. È quello che lui stesso, filosofo asistematico e “irregolare” (la sua filosofia è anche e soprattutto nei romanzi e nel testo teatrale), chiamò «pensiero del Sud» o «pensiero meridiano», rispolverando il mito classico del Mediterraneo, per opporlo al rigido razionalismo e al rigoroso ascetismo del “pensiero del Nord”, quello che per lui ha generato schiavitù e un «mondo d’ombre e di rovine». «La vera passione del ventesimo secolo è stata la servitù»: in questa frase c’è tutto Camus, maestro (senza retorica) di Libertà.

Il Camus "pubblico" diceva argute banalità. Quanto i libri sono forti e disturbanti, tanto le parole da star letteraria suonano rassicuranti. Davide Brullo, Domenica 27/09/2020 su Il Giornale. A Stoccolma, due settimane prima del Natale 1957, Albert Camus, come sempre, disse cose buone & giuste. «Non posso vivere, personalmente, senza la mia arte. Ma non ho mai posto questa arte al di sopra di tutto», disse. Disse che «Il ruolo dello scrittore comporta doveri difficili. Per definizione non può mettersi, oggi, al servizio di coloro che fanno la storia: è al servizio di coloro che la subiscono». Camus era bello, famoso, aitante; aveva fatto la resistenza, scritto libri importanti. Sapeva parlare; toccava, di qualsiasi tema, il nervo scoperto, il roveto ardente. Nessuno più di lui meritava il Nobel per la letteratura (quell'anno erano stati nominati, per l'Italia, Riccardo Bacchelli e Ignazio Silone). Nello stesso anno, per l'edizione americana di Lolita, Vladimir Nabokov esplicita, nelle Note, una idea di letteratura opposta: «Per me un'opera di narrativa esiste solo se mi procura quella che chiamerò voluttà estetica». È difficile pensare a due scrittori così profondamente impaniati nella Storia e tanto diversi. «Ci sono volte in cui l'arte è un lusso menzognero», dice Camus, dal pulpito dell'Università di Uppsala, «L'arte per l'arte, lo svago di un artista solitario è per l'appunto l'arte artificiale di una società fasulla e astratta. Il suo esito logico è l'arte da salotti». Nabokov, fuggito, ventenne, dalla Rivoluzione russa, e, adulto, dal morso nazista (il fratello Sergei, «uomo innocuo, sensibile, indifeso, che sapeva commuoversi», muore nel campo di Neuengamme, nei pressi di Amburgo, lo stesso in cui morirà il fratellastro di André Malraux, con il numero 28631 stampato addosso), non era d'accordo. «Un'opera d'arte non ha nessunissima importanza per la società. È importante solo per l'individuo, e a me importa solo il singolo lettore. Me ne infischio del gruppo, delle comunità, delle masse... Anche se il motto arte per l'arte non mi va a genio... non c'è dubbio che ciò che salva un'opera di narrativa dai bachi e dalla ruggine non è la sua importanza sociale ma la sua arte, soltanto l'arte». Nabokov vigilava su ogni fenomeno grammaticale: intervistarlo era un'eresia, una fatica himalayana. Rispondeva in forma scritta, «e le risposte devono essere riprodotte alla lettera». Al contrario, Camus si donava, spigliato, parlava a braccio, sorrideva, sapeva essere felice, «Era un uomo semplice», come ricorda, il 6 gennaio del 1960, Dino Buzzati in un memorabile coccodrillo. Severo, intransigente, antipatico, aristotelico e aristocratico, Nabokov non amava l'opera di Camus: «Ci sono molti autori riconosciuti che per me semplicemente non esistono. I loro nomi sono incisi su tombe vuote, i loro libri sono fantocci e loro stessi sono nullità totali. Brecht, Faulkner, Camus per me non significano un bel niente». Secondo Nabokov lo scrittore doveva unicamente impegnarsi a scrivere un libro eccellente; per Camus un artista aveva l'onere dell'impegno sociale. Il concetto del bell'Albert, aureo in generale, è corrotto nel particolare: di solito l'artista, quando è chiamato a esprimere un'opinione, non va oltre la soglia di argute banalità. Lo dimostra, con cauto cinismo, la raccolta di Conferenze e discorsi 1937-1958 edita da Gallimard nel 2006 e ora proposta da Bompiani (pagg. 336, euro 22, traduzione di Yasmina Melaouah). Dopo la pubblicazione di Il mito di Sisifo e Lo straniero, Camus diventa una specie di superstar della letteratura: auspica «la creazione di un universalismo in cui potranno ritrovarsi tutti gli uomini di buona volontà» (negli Stati Uniti, è il 1946), divaga sulla libertà («un principio su cui non si può transigere»), spera nella «soppressione universale della pena di morte» come nella fine di ogni forma di censura, perché «Quando l'intelligenza è imbavagliata, di lì a poco anche il lavoratore è oppresso». Letto oggi, Camus conforta perché dice ciò che vogliamo sentirci dire. Non c'è frizione né frattura nelle sue parole, manca quel sottile senso di fastidio che si prova ascoltando lo scrittore, che quando è grande ci mostra il sottosuolo, il verminaio, l'abisso. Il Dostoevskij tanto amato da Camus (descritto, nel 1955, con flebile didascalia: «ha saputo riconoscere il nichilismo contemporaneo, definirlo, prevederne le conseguenze mostruose»), ad esempio, nei suoi articoli continua a essere il cane rabbioso con gli occhi iniettati di sangue, che morde e ci trascina fino al luogo dell'assassinio. Poi, certo, Camus è Camus, e, al netto delle inevitabili ripetizioni e di una certa fiacchezza argomentativa, è efficace quando chiede di «ridimensionare la politica attribuendole il ruolo secondario che le spetta... far funzionare le cose, non risolvere i nostri problemi interiori», intuisce che «la malattia dell'Europa» è «il virus dell'efficienza... che significa volontà di predominio», è l'uomo elevato a Dio («Se l'uomo è diventato Dio, lasciateci dire che è diventato poca cosa... Mai nel mondo hanno regnato dèi tanto meschini»), massacra la «cultura staliniana» dove «non c'è spazio per niente se non per i sermoni edificanti, la vita grigia e il catechismo della propaganda», ricorda che «l'azione politica e la creazione sono le due facce di una stessa medaglia... ma Napoleone Bonaparte ci ha lasciato il tamburo nei licei e Goethe le Elegie romane», che l'arte non può essere serva dell'ideologia perché questa è transitoria, sorella della corruzione, mentre la prima punta all'eterno, cioè all'uomo. Eppure, infine, anche quando è trascinante, Camus non affonda, è come impastoiato in un ruolo che non gli appartiene. Dopo il Camus pubblico, tigre tra le mannaie del pubblico sovrano, è quello privato che dovremmo leggere, finalmente, in Italia. Quello che con Louis Guilloux (scrittore di Sangue nero, da riscoprire) si lamenta della banalità della fama («La peste è uscito. Il successo mi lascia perplesso. C'è un plauso di fondo, un riconoscimento continuo, che mi infastidisce»), quello dei dialoghi potenti con René Char («Non mi rassegno a vedere che la vita non ha senso, che non ha sangue. Il solo viso che abbia conosciuto è quello del sofferente»), che confessa i propri tradimenti a Nicola Chiaromonte (la Correspondance tra lo scrittore e l'intellettuale italiano è stata pubblicata da Gallimard l'anno scorso, per la cura di Samantha Novello) e che scrive, traboccante di desiderio, all'attrice Maria Casarès («Nel sangue scorre un'impazienza che mi fa male, una voglia di bruciare tutto, di divorare tutto»; l'epistolario, edito nel 2017 da Gallimard, ha avuto, tra l'altro, un successo in platino). Da una parte il pupazzo per i fotografi, dall'altra l'uomo dilaniato, che fa razzia di sé. Preferisco quest'ultimo.

Gabriella Bosco per “la Stampa” il 30 dicembre 2019. Il 30 dicembre 1959, sessant' anni fa esatti, Albert Camus scrisse due lettere d' amore. Una a Maria Casarès, la celebre attrice alla quale era legato da quindici anni. L'altra a Catherine Sellers, anche lei attrice, al cui fascino aveva ceduto più di recente. Da Lourmarin, nel Vaucluse, dove si trovava con la moglie Francine e i due figli, in procinto di partire per Parigi, nell' eccitazione causata dall' idea di un rientro che ai suoi occhi rappresentava la ripresa della scrittura oltre che le tanto attese retrouvailles amorose, prese la penna e stilò le due missive. «Ecco la mia ultima lettera, dolcezza cara», scrive a Catherine, «per augurarti l' anno del cuore, e una corona di tenerezza e di gloria». E a Maria: «Ecco qui. Ultima lettera. Giusto per dirti che arrivo in auto, rientro lunedì con i Gallimard. Ti telefonerò al mio arrivo, potremmo cenare insieme martedì». Martedì. Anche a Catherine ha dato appuntamento lo stesso giorno: «Torno e sono contento di tornare. A martedì, mia amata. Ti bacio sin da ora, e ti benedico dal fondo del mio cuore». Pensava forse di incontrarla nel pomeriggio, prima di andare a cena con Maria. Com' è noto, quel martedì non giunse mai. Il 4 gennaio, lunedì, il giorno del rientro a Parigi, l'auto guidata da Michel Gallimard, suo amico e editore, figlio del fondatore Gaston, andò a schiantarsi contro un albero. Fatto alla cui luce quell'«ultima lettera» ripetuto due volte si mette a suonare tragicamente profetico. Camus voleva dire ultima del '59, certo. Eppure. Su quell' incidente si è molto detto, molto scritto. Michel Gallimard guidava su un rettilineo di una strada larga, c' era poco traffico, sulla dinamica non venne fatta luce, nessuna indagine: esplosione di un pneumatico? Rottura di un asse? Nel 2013 un nostro connazionale, Giovanni Catelli, ha pubblicato un libro intitolato Camus deve morire (Nutrimenti) in cui argomenta a sostegno dell' ipotesi di un attentato. L'auto dell'editore sarebbe stata, secondo Catelli, sabotata a opera del Kgb che non aveva gradito certi interventi di Camus, e in particolare uno contro il ministro degli Esteri dell' Unione Sovietica. È certo che in quegli anni Camus si era fatto tanti nemici: i nazionalisti francesi, che non volevano l' indipendenza dell' Algeria; gli estremisti algerini, a cui dava fastidio la sua moderazione di fronte alla sorte dei pieds-noirs, i francesi d' Algeria, nell' eventualità dell' indipendenza; le forze reazionarie, che vedevano in lui un campione della Resistenza e della sinistra; gli stalinisti e l' Unione Sovietica, che aveva attaccato con vigore per l' invasione dell' Ungheria; la dittatura fascista spagnola, cui si opponeva con discorsi pubblici, denunciandola in ogni sede, perché l' Occidente non la accettasse nelle istituzioni internazionali. Di recente il libro di Catelli è stato tradotto in francese (per Balland), con una quarta di copertina prestigiosa firmata Paul Auster, convinto sostenitore della tesi del complotto. Tesi che tuttavia continua a venir discussa. Le prove a favore sono in genere giudicate non del tutto convincenti. Ma il movente, la difesa di un autore che dal 4 gennaio 1960 continua a mancare alla stregua di Pasolini (è quanto afferma in fin dei conti Catelli), quello ha convinto. Del resto, l' altalenante oscillare dell' opinione tra Sartre e Camus che stabilisce opposti favori a seconda dei momenti, è tornato di recente a pendere più verso Camus rispetto a decenni scorsi maggiormente sartriani. Fatto sta che in quella doppia lettera d' amore, doppiamente «ultima», Camus - che a 47 anni era molto lontano dal pensiero di morire - aveva accennato a voler parlare degli hasards della strada. Stava scrivendo il libro che non poté terminare e che sarebbe uscito postumo, Il primo uomo, in cui un suo alter ego di nome Jacques Cormery torna nell' Algeria della sua infanzia e fa i conti con i fantasmi del suo passato. E con i sentimenti. Sì, perché dopo libri capitali come Lo straniero o La peste, dopo l'Assurdo e la Rivolta, dopo il Nobel preso a 44 anni nel 1957, era arrivato per lui il ciclo dell' Amore. Nella sacca che aveva con sé in quell'auto fatale c'era tutta la parte già scritta del Primo uomo, c' erano i dossier, gli abbozzi delle due parti che avrebbero dovuto seguire. La vedova Francine decise di non pubblicare. Ma la figlia Catherine, quando venne il suo turno di occuparsi dell' eredità paterna, facendosi forte del lavoro di una équipe di specialisti, decise di darlo alle stampe (per Gallimard, nel 1994, con annesso il Carnet di Camus dedicato alla scrittura del libro - ed è la stessa figlia Catherine ad aver voluto la pubblicazione delle lettere d' amore del padre, sempre per Gallimard, lo scorso anno: per evitare che lo facessero altri «spinti da curiosità malsane». Scritto in terza persona, il testo del ‘Primo uomo’ presenta a un certo punto un «io» imprevisto, sfuggito di penna, rivelatore. Camus lo avrebbe tolto? Il protagonista si sente un mostro, per via dell' indifferenza con cui ha vissuto fino al momento in cui è tornato sulla tomba del padre, mostro fino ad allora a causa del vuoto creatosi in lui per aver vissuto senza quel padre. Camus, per poter scrivere di tutto questo deve passare per la terza persona, per l' alter ego, per Jacques Cormery, che si faccia carico sulla pagina di ciò che per l' autore è troppo faticoso - impossibile - da dire parlando in prima persona. Ma in quella certa pagina l' io si rivela, emerge in superficie. Fugacemente, poi si reimmerge. Camus e il suo doppio, il capro espiatorio testuale.

Chissà quale dei due ha scritto a Maria, quale a Catherine.

Lo Straniero, il romanzo contemporaneo di Albert Camus. Eraldo Affinati il 4 Gennaio 2020 su Il Riformista. Tre anni prima di perdere la vita, insieme al suo editore, Michel Gallimard, in un incidente automobilistico nei pressi di Sens, sulla strada verso Parigi, Albert Camus aveva ricevuto il Nobel per la Letteratura. Nel suo discorso di accettazione leggiamo: «L’artista che ha scelto il proprio destino perché si sentiva diverso dagli altri si accorge ben presto che potrà alimentare la sua arte e questo suo esser diverso solo confessando la sua somiglianza con tutti: l’artista si forma in questo rapporto perpetuo fra lui e gli altri, a mezza strada fra la bellezza di cui non può fare a meno e la comunità dalla quale non si può staccare». Come forma di omaggio a Camus propongo, rivolto idealmente ai giovani, la rilettura del suo capolavoro: Lo straniero (1942). Uno dei romanzi più famosi e indagati del ventesimo secolo. Eppure il tema che pone sembra ancora oggi irrisolto, cruciale e problematico: come possiamo fare per superare lo steccato che ci separa da chi non ci assomiglia? Meursault, modesto impiegato di Algeri, pochi giorni dopo la morte della madre, uccide un arabo sulla spiaggia alla periferia della città. Per questo viene processato e condannato alla pena capitale. Sulla gratuità del suo gesto apparentemente immotivato è cresciuta una sterminata bibliografia: pianta rampicante universitaria, su scala planetaria, sì, ma anche materiali di riporto per una morbosa fascinazione. In realtà non dovremmo mai dimenticare la posizione etica dello scrittore che, nel momento in cui schiaccia con le spalle al muro l’omicida, s’interroga sulle radici della sua atrofia sentimentale che oggi purtroppo è ancora nostra. Si tratta di un nodo non meramente sociologico, sebbene la sua collocazione nell’Europa contemporanea delle migrazioni e dei fili spinati, delle identità fragili e delle chiusure preventive, continui a conferigli un’attualità sorprendente spiegando la ragione per cui un romanzo tutto sommato ordinario come quello di Kamel Daoud, Il caso Meursault, in cui l’autore assume il punto di vista della vittima, abbia suscitato tanto interesse. Come fare a comprendere la posizione antichilistica di Albert Camus? Dovremmo ripartire da Il sole e la storia, per citare il titolo di una bella monografia di Raniero Regni uscita qualche anno fa nelle edizioni Armando, in cui veniva autorizzato un nesso sorprendente, meglio ancora, una segreta consonanza: «Ne lo Straniero, quando si dice ‘mi aprivo per la prima volta alla dolce indifferenza del mondo’, il tema appare leopardiano… Senza speranza ma senza rassegnazione, Leopardi può essere davvero uno dei più puri ribelli camusiani. La rivolta come solidarietà combattiva li accomuna». In tale estrema prospettiva di fraternità vitalistica, che diventerà esplicita nel dottor Rieux della Peste (1947), temprata e protetta dal disincanto e dalla sfiducia verso le "magnifiche sorti e progressive", le due parti del romanzo si legano una all’altra come meglio non si potrebbe, quasi fossero le facce di una stessa medaglia. Nella prima la splendida rievocazione del tempo morto trascorso dal protagonista fra l’ospizio di Marengo, la domenica nella casa vuota di Algeri, i bagni di mare insieme a Maria, i colloqui con Raymond e la sparatoria sulla battigia, è aperta e luminosa. Nella seconda la lunga minuziosa descrizione processuale, nel chiuso della cella e nella bolgia del tribunale, ci riporta a uno spazio claustrofobico sul quale i profumi della notte, mischiati ai ricordi della smarrita felicità, entrano come frecce acuminate pronte a conficcarsi nell’animo dell’imputato. Egli, dopo la sentenza, una volta mandato via il cappellano, dichiara: «Perché tutto sia consumato, perché io sia meno solo, mi resta da augurarmi che ci siano molti spettatori il giorno della mia esecuzione e che mi accolgano con grida di odio». Per troppo tempo ci siamo crogiolati sull’amara sconfitta di Meursault. Ma Albert Camus, consegnandolo al patibolo, voleva distruggere e non consolidare i suoi alibi interiori. Per lenire la ferita e magari superare la solitudine dell’uomo occidentale, preparandoci a un diversa qualità della relazione umana che la nostra epoca richiede, proviamo quindi a rileggere Lo straniero dentro l’ottica dell’ideale confederativo proclamato nella Ginestra. E chissà forse scopriremo un romanzo nuovo.

·        60 anni dalla morte di Fausto Coppi.

Ciclismo, sessanta anni senza Coppi: il mito che il tempo non ha scalfito. Il 2 gennaio 1960, appena quarantenne, si spegneva una delle più grandi leggende di tutti i tempi. La Repubblica l'1 gennaio 2020. Sono passati 60 anni dal 2 gennaio 1960, quando a seguito della malaria contratta in Africa durante una corsa, si spense Fausto Coppi. Eppure il suo mito non solo è rimasto intatto, ma è va costantemente accrescendosi.  Una vita durata 40 anni, di cui 20 anni passati a vincere e consacrarsi come uno dei più grandi e popolari ciclisti di tutti i tempi. Coppi è diventato ispirazione di canzoni ("Viene su dalla fatica e dalle strade bianche.... qui da noi per cinque volte poi due volte in Francia per il mondo quattro volte contro il vento due occhi miti e naso che divide il vento", lo cantà così Gino Paoli), innumerevoli libri, film, radiocronache che fanno parte dell'immaginario collettivo ("Un uomo solo è al comando; la sua maglia è bianco-celeste; il suo nome è Fausto Coppi" di Mario Ferretti) tutto materiale che è entrato di diritto nella conoscenza e nella coscienza degli amanti dello sport, ma non solo. Insomma, un mito senza tempo. Leggendaria fu la sua rivalità con Gino Bartali, che divise l'Italia nell'immediato dopoguerra: celebre la foto che ritrae i due campioni mentre si passano una bottiglietta durante la salita del Col du Galibier al Tour del 1952. Oltre 150 le corse vinte. Trentuno giorni in maglia rosa al Giro d'Italia, 19 in giallo del Tour de France. Al Giro vinse ventidue tappe, al Tour nove. Fausto Coppi ha vinto dappertutto e in tutti i campi. Cinque volte il Giro (1940, 1947, 1949, 1952 e 1953), due volte il Tour de France (1949 e 1952), diventando anche il primo ciclista a conquistare le due competizioni nello stesso anno. Straordinario anche nelle gare di un giorno: 5 Giri di Lombardia (1946, 1947, 1948, 1949 e 1954), 3 Milano-Sanremo (1946, 1948 e 1949), e poi i successi alla Parigi-Roubaix e alla Freccia Vallone nel 1950. Divenuto campione del mondo professionisti nel 1953, primeggiò anche nel ciclismo su pista divenendo anche campione del mondo d'inseguimento nel 1947 e nel 1949 e primatista dell'ora (con 45,798 km) dal 1942 al 1956. Fu probabilmente anche il primo sportivo ad infiammare le cronache scandalistiche di un'Italia puritana. Si innamorò, già sposato e padre di Marina, della famosa Dama Bianca anch'ella sposata e dalla cui relazione nacque il figlio Faustino, in un'epoca in cui le separazioni erano addirittura reato. Anche in questo, seppur senza volerlo, ha dato un contributo di crescita e di discussione diventando un protagonista sociale e del costume dell'Italia che stava riemergendo dopo la seconda guerra mondiale.

·         60 anni dalla morte di Fred Buscaglione.

Giuseppe Gaetano per il Fatto Quotidiano il 30 gennaio 2020. Che notte, che notte quella notte del 3 febbraio 1960. Forse l' aspettava davvero qualche bionda, dopo aver fatto lui il pieno, in un club di via Margutta. Appena tre chilometri lo separavano dall' Hotel Rivoli, ai Parioli, dove alloggiava: una manciata di minuti, a quell' ora con le strade vuote. Che nebbia, che nebbia quella notte, chissà se dovuta ai fumi dell' alcol. Ma per un appuntamento, con il centro di Roma semideserto all' alba, si può anche schiacciare un po' sul pedale di una Ford Thundebird rosa. A spuntare all' improvviso, da destra, non è però la gang di Billy Carr. È un enorme Lancia Esatau 864, che lo stritola di colpo nell' abitacolo, a un incrocio di viale Rossini, a un passo dalla meta. Il botto è spaventoso. Si ferma una macchina, scende un soccorritore, arriva una pattuglia di carabinieri, scende pure l' autista del camion. Lo stupore nel rendersi conto che la faccia spaccata sul cruscotto è inconfondibile: è Fred Buscaglione. Il corpo ancora vivo, pesante e insanguinato - in cappotto e giacca blu coi bottoni dorati - estratto tra vetri e lamiere e caricato al volo su un bus che riparte verso il policlinico. Sono le 6 di mattina. Una dolorosa agonia a bordo della linea 90, tra le sirene spiegate degli "sbirri". Avrebbe preferito essere lasciato al volante della sua cabrio sportiva biposto, con cravatta e borsalino, e magari una bionda di passaggio a dargli un ultimo bacio. Aveva appena 38 anni. Se l' era cucito addosso il film, Freddy dal whisky facile. Solo l' anno prima ne aveva girati nove. Ma la corsa era cominciata molto tempo prima, nel dopoguerra. La lunga e umile gavetta per bar e club, in Italia e all' estero, in cui ha continuato a esibirsi anche da celebre. Il sodalizio con il suo braccio destro, Leo Chiosso, autore di gran parte dei i testi; il successo istantaneo e la brusca accelerata verso la popolarità, la ricchezza, il gossip. Era il compositore più colto e originale dell'epoca insieme a Carosone, ritiratosi dalle scene solo qualche mese prima, in maniera molto meno vistosa. Anche Buscaglione, come il maestro napoletano, aveva cominciato da piccolo suonando il violino, il piano e la tromba per i soldati in guerra. Anche lui si era riappropriato alla sua maniera del repertorio swing e dixie statunitense, farcendolo con sequenze di stacchi e cambi di tempo nei fast Eri piccola, Che bambola, Teresa non sparare o impreziosendolo con deliziosi arrangiamenti di fiati nei bluesy Guarda che luna, Criminalmente bella, Una sigaretta. Una musica mascherata da fumetto, come il suo personaggio. Il gusto caricaturale del cartoon, nello spartito e nel look, si sposava alla perfezione con le rime baciate e alternate, grottesche e iperboliche, dell' amico Chiosso: il suo inimitabile fraseggio comico sarà decisivo nella creazione del gangster col cuore di pastafrolla. Voce bassa e roca, sigaro e baffetto alla Clark Gable, abito rigato e pistola nel gilet. Un fuorilegge pieno di vizi umani, le donne in primis, ma mai violento o volgare; un bandito spaccone e innamorato, che ama il charleston e il cabaret. Bugiardo, ma a fin di bene; ubriaco, per dimenticare una delusione d' amore; cinico, per camuffare la bontà d' animo. Un "dritto" un po' Sugar Bing un po' Porfirio Villarosa, che rifiuta Ava Gardner per due risate con Gianni e Pinotto; un "duro" tra un Marlowe pasticcione e un simpatico Al Capone, che canta in tv presentato da Mario Riva, circondato da un coro di bambini. Anche Buscaglione, come Carosone, all' apice del successo annunciò a sorpresa l' intenzione di ritirarsi, avendo capito di aver dato la sua parte al tritacarne dell' industria discografica, e che di lì a breve la notorietà si sarebbe spenta con la stessa velocità con cui era divampata: "Tra due anni smetto. Prima che la gente mi volti le spalle Fred il duro sparirà, e io tornerò ad essere solo Ferdinando Buscaglione". Non ha fatto in tempo a mantenere la parola. Chissà se Tu vo fa l' americano fosse dedicata al collega polentone, che nell' immaginario cinematografico dei polizieschi d' oltreoceano ci sguazzava, pur prendendolo in giro. I concerti nei night, i rumors dei rotocalchi sulla fama di tombeur de femmes, le burrascose nozze con una contorsionista d' avanspettacolo: tutto alimentò la suggestiva corrispondenza tra realtà e finzione, e quindi il carisma di un artista senza eredi ma che ha generato un' infinita scia di epigoni, nell' atteggiamento e nell' abbigliamento, da Pincketts a Carotone. "Come Buscaglione" si dirà 31 anni dopo, quando identica sorte toccherà a Rino Gaetano, schiacciato in auto alle 6 di mattina, nella Capitale, da un altro tir. Pochi mesi prima aveva registrato l' ultimo show in cui cantava proprio le canzoni di Buscaglione, di cui era fan. Senza volerlo Buscaglione ha indorato di mito anche il finale, come un vero regista. Non sembrano passati 60 anni da quella tragica notte. Forse un malore, un attimo di distrazione, un colpo di sonno. Uno così non poteva mica morire di vecchiaia.

Fred Buscaglione, cantava i bulli e le pupe ma il suo Dio era il jazz. Francesco Redig de Campos il 4 Febbraio 2020 su Il Dubbio. Sessant’anni fa la tragica scomparsa del musicista e cantante che rivoluzionò la canzone italiana. La critica oggi celebra il personaggio, ma lui era soprattutto un musicista da genio. Al netto della polemica sui testi del rapper Junior Cally è bene ricordare che c’è stato un tempo in cui in questo paese ad essere troppo irriverenti erano le parole, scritte da Leo Chiosso, per la canzoni di Ferdinando Buscaglione da tutti conosciuto come Fred. Tanto che in quella che credo sia la sua unica apparizione televisiva al Musichiere di Mario Riva per cantare Whisky Facile  si decide di farlo affiancare da un coro di voci bianche che simuli la sua coscienza, trasformando un capolavoro di ironia in un responsorio dai toni grotteschi.

«Sono Fred dal Whisky facile, sono criticabile, però son fatto così»

e il coro: «Male, male, male».

«Non sono un debole»,

«sì lo sei».

«Perdonatemi», «no, no, no».

«Se ho il Whisky facile»,

«sei cattivo» e altre amenità che dovrebbero far riflettere quanti oggi pongono la censura come unico argine al dilagare della dissoluzione dei valori.

Ma quello che colpisce di più in quella apparizione non è la sua performance, che nonostante l’assurda pretesa dei benpensanti censori della buoncostume riesce a superare egregiamente da animale da palcoscenico qual era, ma la precedente intervista con Mario Riva in cui appare stanco e sembra pesargli il dover impersonare il solito duro dal cuore d’oro ( personaggio dal quale per altro stava cercando di allontanarsi). Ma con l’aggiunta di doversi pure mostrare pentito. Forse è facile dirlo a posteriori, ma è come se aleggiasse il presentimento della tragedia che qualche mese dopo, alla fine di via Paisiello a Roma fa scontrare la sua Thunderbird rosa con un camion che trasporta mattoni causandone la prematura morte. Figlio di un pittore edile e di una portiera che, forte di un diploma in pianoforte, spinge il figlio a entrare in conservatorio in giovane età, il giovane Ferdinando non è tagliato per il solfeggio, per risolvere la settima per grado congiunto e così via. Secondo alcune fonti, la sua passione per il Jazz nasce grazie un ritrovamento casuale durante un trasloco di decine di dischi 78 giri di Duke Ellington, Count Basie, Benny Goodman. È un talento fuori dal comune, suona egregiamente, oltre al pianoforte, il violino (per due anni vincerà il referendum della rivista Jazz come miglior violinista swing europeo davanti al celebre violinista del quintetto di Django Reinhardt, Stephane Grappelli) la tromba e il contrabbasso. Durante la guerra viene comandato in Sardegna dove organizza spettacoli per le truppe, fatto prigioniero dagli alleati ha modo di approfondire le sue conoscenze sulla musica d’oltreoceano collaborando con Radio Sardegna, emittente che dopo l’armistizio fu da prima fedele al Re e poi direttamente controllata dal comando alleato. Terminata la guerra con il suo gruppo, gli Asternovas, acquista fama come artista swing. Ma a cambiare la sua vita è l’incontro con un giovane studente il legge appassionato di gialli americani, Leo Chiosso che diventerà il suo paroliere. I due vivono in simbiosi fino al punto di andare ad abitare in due appartamenti contigui e insieme disegnano il personaggio che caratterizzerà la sua notorietà. I baffetti alla Clarke Gable «con l’abito gessato, la pistola nel gilet, rischiamo la vita ad ogni partita» ( Noi duri), ma negli anni cinquanta nessuno è disposto a scommettere un centesimo su questo astruso personaggio, troppo anti conformista in un mondo caratterizzato dalle Rose rosse e dal binario triste e solitario. Anche la musica che suonano è decisamente più aggressiva da tutti coloro che negli anni precedenti avevano un’infarinatura di swing come Ernesto Bonino, Alberto Rabagliati, Giovanni Danzi e Natalino Otto. La svolta accade quando Gino Latilla, che aveva raggiunto una certa notorietà, grazie a Tchumbala bey una canzone scritta dal duo Chiosso Buscaglione, si offrì di coprire le spese di produzione per la registrazione del primo singolo Che Bambola. Latilla racconta che vista l’assoluta mancanza di promozione erano soliti andare in giro per Torino ed entrare nei bar chiedendo se sul Juke Box ci fossero i pezzi di Buscaglione per poi andarsene scandalizzati alla risposta negativa. Facendo così riuscirono a catalizzare una certa attenzione nella città verso Fred e la sua musica. All’inizio erano che loro stessi vendevano i dischi che tenevano nel bagagliaio della macchina di Latilla. Il passaparola funzionò e il singolo arrivò a vendere in tutta Italia più di novecento mila copie. Il resto della storia è cosa nota. Il personaggio del gangster affabile non tarda ad imporsi all’attenzione di tutta Italia. Nel clima pre- dolce vita, Fred è anche al centro delle cronache mondane. Le liti e le riappacificazioni con la moglie Fatima Robins riempono le pagine dei rotocalchi. Quello di cui si parla sempre troppo poco è la straordinaria vitalità della musica di Buscaglione sempre quasi soffocata dalla perfetta aderenza al personaggio dei testi di Leo Chiosso che dopo la sua morte, continuerà a scrivere tantissime canzoni che hanno segnato un’epoca ( Parole, parole, parole, Torpedo blu, Canto anche se sono stonato). Eppure basterebbe un ascolto attento a quei brani in cui l’opera del fido paroliere ( e di conseguenza il personaggio da Bulli e Pupe) viene meno ( penso all’interpretazione di Nel blu, dipinto di blu o del Tango delle capinere, degli inserti strumentali come i momenti tematici dei fiati su Che notte o Porfirio Villarosa, o di brani strumentali come Kriminal tango per scoprire un musicista sorprendente, raffinato e mai banale come invece certa critica, accecata dal personaggio che nell’ultimo periodo stava cercando di scrollarsi di dosso, non ha mai compreso.

·        58 anni dalla morte di Marylin Monroe.

Matteo Regoli per "cinema.everyeye.it" il 17 ottobre 2020. Variety segnala in esclusiva l'emerge di nuove prove relative alla morte di Marilyn Monroe, leggendaria attrice hollywoodiana e sex symbol scomparsa a Los Angeles il 5 agosto 1962 a 36 anni. L'attrice venne trovata in un letto con accanto boccette vuote di pillole. Dopo una breve indagine, la polizia di Los Angeles concluse che la morte era stata "causata da un'overdose auto-somministrata di farmaci sedativi" e ha archiviato la sua morte un "suicidio". Ma Jack Clemmons, l'ex ufficiale che l'ha trovata, è sempre stato convinto che "la morte sembrava una messa in scena". La sua teoria è solo una delle tante che ha generato un alone di mistero sulla morte dell'attrice: c'è chi pensa possa essere stata una vendetta per alcune dichiarazioni sulla mafia e chi possa essere stata fatta fuori dalla CIA. ZDF Enterprises ha collaborato con Story House Productions per la nuova serie "Cold Case: History", che approfondisce alcune delle morti più famose della storia, dal brutale omicidio del faraone Ramses III alla misteriosa morte di Marilyn Monroe. Ralf Rueckauer, vicepresidente ZDFE.unscripted, ha dichiarato: “Lo sviluppo di questa serie è stato un viaggio entusiasmante, con ogni episodio che svelerà un diverso mistero. È stato affascinante vedere la moderna medicina legale al lavoro per dissipare teorie secolari, in particolare nel caso di Marilyn Monroe, dove abbiamo portato alla luce nuove prove e testimonianze". Con alcuni degli omicidi di più alto profilo nella storia dell'umanità, "Cold Case: History" include il Caso Medici, dove due figli vengono uccisi in una lotta per il potere, e risalendo ancora più indietro nel tempo, arriverà fino a 3000 anni fa, quando Ramses III fu ucciso violentemente dai suoi stessi parenti. Vincent Van Gogh si è davvero suicidato o qualcuno gli ha sparato?, e i due corpi nella Torre di Londra erano i giovani principi, uccisi da Riccardo III, o il DNA può provare il contrario? In particolare la morte di Marilyn Monroe, che dal 1962 lascia perplessi giornalisti e criminologi ancora oggi, ha prodotto una serie di teorie a causa di un post mortem che afferma "probabilmente suicidio per overdose". Variety promette l'arrivo di nuove prove grazie a "Cold Case: History", che entrerà in produzione con Story House questo autunno. Speriamo di saperne di più il prima possibile, come sempre vi terremo aggiornati. Ricordiamo che Marilyn Monroe sarà interpretata da Ana de Armas in Blonde, il nuovo film di Andrew Dominik distribuito da Netflix.

Raffaella Silipo per lastampa.it il 27 aprile 2020. «Sorellina», la chiamava con tenerezza Pier Paolo Pasolini nella più bella delle tantissime opere artistiche –  canzoni, poesie, romanzi, quadri - che le hanno dedicato in questi quasi sessant’anni dalla sua morte. Marylin Monroe, la sua bellezza,  il suo mistero, continuano ad affascinarci, forse proprio perchè, oltre l’immagine di platinata diva hollywoodiana, incarna il simbolo della  fragilità umana di fronte ai «maledetti giochi» di potere e all’«inesorabile distrazione» del mondo. Oggi  un nuovo libro, «Norma Jean – The life of Marilyn Monroe» di Fred Laurence Guiles in uscita il 28 aprile, aggiunge un  capitolo ai maledetti giochi di potere: l'attrice  pochi giorni prima del suicidio, avrebbe abortito un figlio di  John o Bob Kennedy, che erano stati entrambi suoi amanti. L’aborto, dice Guiles, sarebbe avvenuto il  20 luglio al Cedars of Lebanon Hospital: naturalmente era entrata in ospedale sotto falso nome e come storia di copertura era in un week end al Lago Tahoe con i Lawford.  Erano passati tre mesi dal suo ultimo incontro con il presidente Kennedy (la famosa sera di maggio in cui l’attrice cantò al Madison Square Garden «Happy Birthday Mr. President»: di quella sera esiste l’unica immagine dell’attrice con i due Kennedy, resa pubblica solo nel 2010) e solo poche settimane da quello con il fratello Bob.  «Il 30 luglio Marilyn  chiama Bob  Kennedy – scrive Guiles -. Non sappiamo cosa gli dice, ma sappiamo che è piombata in una profonda depressione e che vede lo psichiatra  Ralph Greenson quotidianamente». L’attrice  sperava, sostiene il libro, che il rapporto con Robert Kenendy potesse diventare serio, ma naturalmente lui non aveva nessuna intenzione di lasciare la moglie Ethel e la famiglia. La sera del 3 agosto, sempre secondo Guiles, Marilyn andò a cena al suo ristorante preferito, La Scala, a  Beverly Hills con l’agente Pat Newcomb, l’attore del «Rat Pack» Peter Lawford, sposato con Patricia Kennedy, e Bobby Kennedy, che era in California con la famiglia al seguito. Monroe era molto nervosa quella sera, «evidentemente perchè sentiva che Bobby le stava dando il benservito. Aveva sempre avuto una visione irrealistica della situazione, che Bobby fosse in qualche modo alla sua portata. E ora il clan Kennedy la stava rimettendo al suo posto». Il giorno dopo fu trovata morta per overdose di pillole. Aveva 36 anni.  Bobby Kennedy in un solo apparentemente superfluo memo al Dipartimento di Giustizia fece sapere che lui e la sua famiglia stavano  passando il week end a Gilroy, California  e  a San Francisco. Lontano da Hollywood e dalla tragedia. Questo non avrebbe impedito negli anni a seguire la ridda di voci sulla «cospirazione» dei Kennedy per farla scomparire. Nel 1964 l’FBI passò settimane a investigare su una soffiata sulla relazione di Bobby Kennedy con la Monroe. E l’ex marito di Marilyn, il campione di baseball Joe Di Maggio, non smise mai di credere che i fratelli fossero in qualche modo responsabili della sua fine: «Killer» li definisce con il suo biografo  Rock Positano in «Dinner with Di Maggio: Memories of an American Hero». ‘’E ne uscirono puliti. Se la caveranno sempre, ne usciranno sempre puliti, almeno per un centinaio di anni’’. In realtà John Kennedy sarebbe morto ucciso un anno dopo Marilyn, Robert  sei anni dopo. «Ora i fratelli maggiori, finalmente, si voltano – scrive Pasolini – smettono per un momento i loro maledetti giochi/ escono dalla loro inesorabile distrazione/ e si chiedono: “È possibile che Marilyn/ la piccola Marilyn, ci abbia indicato la strada?/Ora sei tu, quella che non conta nulla, poverina, col suo sorriso/sei tu la prima oltre le porte del mondo/abbandonato al suo destino di morte».

I DOSSIER FBI SUL 'SUICIDIO' DI MARILYN MONROE. Leonardo Coen e Leo Sisti per "il Venerdì di Repubblica" - articolo del 9 maggio 2012. Cerchi Marilyn e trovi i fratelli Kennedy, John e Bob, il presidente e il ministro della Giustizia, entrambi amanti della donna che faceva sospirare il mondo intero. Pure Ted, il fratello minore. E poi: Frank Sinatra, Peter Lawford, attore e cognato dei Kennedy, Sammy Davis jr., Lee Strasberg, il regista che aveva fondato l'Actor's Studio a New York. Una Hollywood sulfurea, con i suoi agganci mafiosi (Sam Giancana finanzia i film di The Voice). Sono oltre 2700 i documenti Fbi che riguardano direttamente e indirettamente Marilyn Monroe, e l'ultimo è anche il più scabroso. Riguarda una nota vicenda: quella di un filmino porno girato in 16 mm che dura pochi minuti. L'anno scorso venne messo all'asta a Buenos Aires e fecero scalpore su internet le brevissime scene in cui si vede una ragazza molto somigliante alla giovane Marilyn - al tempo in cui ancora si chiamava Norma Jean Baker - che ha un rapporto orale con uno sconosciuto partner. L'Fbi lo aveva bollato Unnatural acts nel rapporto del febbraio 1965 (memorandum protocollato 145-3217-1). Anzi, gli spioni federali avevano poi caricato la dose: Perverted act. Povera Marilyn: nemmeno da morta la lasciano in pace. Il suo corpo senza vita era stato trovato il 5 agosto del 1962. Ma il suo nome rimbalza da un dossier all'altro per anni e anni ancora. La vicenda del filmino è grottesca: Joe Di Maggio, il grande campione di baseball, suo secondo marito ma forse anche l'unico che l'abbia amata veramente, fece di tutto per recuperare la pellicola compromettente, messa in vendita da un misterioso ricattatore. Offre 25 mila dollari, una somma cospicua all'epoca. L'Fbi registra l'indiscrezione, ma non agisce come dovrebbe per smascherare il ricattatore. L'informatore che ha rivelato l'inghippo era presente alle trattative, in un locale di New York, dove era stata esibita la «pizza» del filmato. Invece di indagare, l'Fbi raccomanda di «evitare ogni fuga di notizie perché potrebbe essere compromesso il nome della fonte». E invita a non «discutere della faccenda fuori dagli uffici dell'Fbi». Sono tre righe in carattere maiuscolo e sottolineate perentoriamente. Un ordine. In verità, i guai di Marilyn erano stati causati involontariamente da Arthur Miller che frequentava - pubblicamente - fin dagli anni Quaranta personaggi che i servizi di sicurezza Usa tenevano d'occhio notte e giorno. Per estensione, dunque, anche la Monroe diventa una «di sinistra », come lo era notoriamente Miller. I file che lo riguardano erano qualificati internal security. E lo stesso destino è applicato a Marilyn. Ogni contatto dell'attrice è vivisezionato, persino quando va in Inghilterra in viaggio di nozze. La storia con Miller finisce, ma ormai lei resta invischiata nei meccanismi - questi sì, perversi - del Grande Occhio di Hoover. Che la segue ovunque. Pochi mesi prima di morire, il 19 febbraio del 1962, le capita di andare in Messico, da Miami. Organizza tutto Frank Sinatra, che si appoggia all'ex presidente messicano Miguel Alemán Valdés. Gli spioni non solo registrano l'episodio ma si allarmano perché lei ha viaggiato con alcuni membri dell'American Communist Group in Mexico (Acgm): lo certifica il rapporto 105-40018-2. La prova che la cittadina 40018 è una sovversiva. Anche leggendo i fascicoli segreti Fbi, la tentazione è quella di ricostruire la storia di Marilyn Monroe cominciando dalla fine, ossia dalla morte che nell'immaginario collettivo resta uno dei grandi misteri americani, come l'assassinio di John Kennedy, che verrà ucciso un anno dopo. Un filo doppio, anzi triplo, lega Marilyn ai Kennedy. Tutti ricordano l'attrice sbronza mentre canta ‘happy birthday’ al compleanno di John del giugno 1962. Pochi, invece, conoscono il contenuto della lunga, dettagliata ed inquietante nota informativa numero 61-9454-28, inviata da uno special agent e registrata il 19 ottobre 1962. Eccone alcuni stralci: «Robert Kennedy era profondamente coinvolto dal punto di vista emotivo con Marilyn Monroe. Le aveva promesso ripetutamente di divorziare dalla moglie per sposarla. Alla fine, Marilyn si rese conto che Bobby non aveva alcuna intenzione di sposarla e, in quel periodo, la 20th Century Fox aveva deciso di cancellare il suo contratto. Era diventata inaffidabile, arrivava tardi sul set, ecc. ecc. Inoltre lo studio aveva difficoltà finanziarie a causa delle grosse spese nel film Cleopatra (...). Marilyn telefonò a Robert Kennedy dalla sua casa di Brentwood, California, a tu per tu al Dipartimento di Giustizia di Washington, e gli riferì la cattiva notizia. Robert Kennedy le disse di non preoccuparsi per il contratto (...) si sarebbe occupato di ogni cosa. Quando nulla avvenne, lei lo chiamò ancora da casa al Dipartimento di Giustizia, a tu per tu, e in quest'occasione i due ebbero uno scambio di parole spiacevole. Si dice (testualmente: reported) che lei abbia minacciato di rendere pubblica la loro storia». Perché l'investigatore racconta questo episodio? Perché c'era sempre stato il dubbio che Marilyn Monroe fosse stata lasciata morire, invece di salvarla. Almeno, questo è il dubbio che traspare leggendo il seguito della nota: «Il giorno in cui Marilyn morì, Robert Kennedy era in città, registrato presso il Beverly Hills hotel. Per coincidenza l'albergo si trova dall'altra parte della strada in cui, anni prima, suo padre Joseph Kennedy aveva vissuto per un certo periodo con Gloria Swanson. Fatto sta che, lo stesso giorno, Bob lascia l'albergo e si reca da Los Angeles a San Francisco con un volo Western Airlines e alloggia al St. Francis Hotel, il cui proprietario era un suo amico. Robert Kennedy, da un altro albergo, il St. Charles Hotel, sempre di San Francisco, chiama Peter Lawford, per sapere se Marilyn è già morta. Peter Lawford aveva composto il numero di Marilyn e controllato ancora dopo per essere certo che non rispondesse». Più sotto, si accenna a una relazione lesbica di Marilyn con ... (censura)... «durante un rapporto sessuale con Marilyn. In alcune occasioni, John F. Kennedy partecipava ai festini (sex parties) con...(censura)... attrici». Si riferisce pure che uno di questi party era stato filmato da un detective privato di Los Angeles. Sic transit gloria mundi.

·        60 anni dalla nascita morte di “Tutto il calcio minuto per minuto”.

Dagospia il 13 gennaio 2020. Da “Non è un paese per giovani” – condotto da Max Cervelli e Tommaso Labate su RadioDue. Il dualismo tra Ameri e Ciotti? “C’era, eccome. Pensate che quando nacquero le testate giornalistiche della Rai, i due andarono in due redazioni diverse”. Ospite di “Non è un paese per giovani” su RadioDue, condotto da Massimo Cervelli e Tommaso Labate, venerdì Massimo De Luca – per anni coordinatore centrale di Tutto il calcio minuto per minuto - ha raccontato i retroscena della storica trasmissione di Radio Rai, che ha appena compiuto sessant’anni. “Ameri e Ciotti si stimavano e si volevano bene. Ma erano due primedonne con caratteristiche diverse”. Il fuorionda di Ameri, che diede del “coglione” a un collega che stava intervenendo? “Quel collega era Ciotti. Poi Ameri si giustificò dicendo che una persona era entrata in cabina… Il giorno dopo i due furono convocati dal direttore Guglielmo Moretti. Che era un capo di quelli che si facevano sentire". L’8 aprile del 1990, a Bergamo si gioca un’Atalanta Napoli che sarebbe passata alla storia per la monetina che colpì lo stopper partenopeo Alemao. Il Napoli vinse a tavolino una partita che gli avrebbe regalato lo scudetto. Ma Sandro Ciotti, collegato dallo stadio di Bergamo per Tutto il calcio, non aveva visto nulla. “Non la vide né la poteva vedere”, rivela De Luca. “Io avevo monitor nello studio e vidi che la telecamera indugiava su un accendino. Ma voi immaginate che cos’è stato dover intervenire su Ciotti e dirgli “guarda che forse là è successo qualcosa?” Se non ci fosse stato il monitor in studio e non avessi trovato il coraggio di intervenire su di lui, avremmo bucato una notizia di cui si parla ancora oggi”. 

Gigi Garanzini per la Stampa l'8 gennaio 2020. C' erano alle viste le Olimpiadi romane a cavallo di quel Capodanno, sessant' anni fa. Così la Rai radiotelevisione italiana, nelle (belle) persone di Sergio Zavoli, Guglielmo Moretti, Roberto Bortoluzzi cominciò a porsi il problema della copertura radiofonica dell' evento. Studiando il modo di conciliare contemporaneità e tempestività attraverso il rimbalzo di linea da una disciplina all' altra: e decidendo di sperimentarne da subito la fattibilità con il campionato di calcio. Così, domenica 10 gennaio 1960, otto giorni dopo la morte di Fausto Coppi, andò in onda la prima puntata di Tutto il calcio minuto per minuto: con Nicolò Carosio a San Siro per Milan-Juventus, Enrico Ameri a Bologna per Bologna-Napoli e Andrea Boscione ad Alessandria per Alessandria-Padova, con Gianni Rivera in maglia grigia e Paròn Rocco sull' altra panchina. In studio ad aggiornare i risultati dagli altri campi la stupenda voce di Roberto Bortoluzzi, che avrebbe diretto il traffico, pugno di ferro in guanto di velluto, da lì alla pensione, nel giugno dell' 87. Solo i secondi tempi Per un bel po' di anni la sarabanda si limitò, chissà perché, a coprire i soli secondi tempi. Ma quell' oretta di adrenalina bastò a cambiare le domeniche degli italiani. Che per un po' a metà pomeriggio smisero di uscire. E ripresero a farlo poco alla volta solo a patto di essere dotati di transistor, e di poter circolare per viali, parchi e giardini con la loro brava radiolina - i primi tempi mica tanto ina - all' orecchio. Levandola al cielo quando a segnare era stata la squadra giusta, e con la tentazione di scagliarla lontano quando era toccato all' altra. Senza contare le apnee, ogni volta che sul campo collegato si inseriva il rumore di fondo, o il boato, di un altro. Chi aveva fatto gol? E dove? Quel paio di secondi d' attesa per riconoscere la voce del radiocronista erano adrenalina pura, altro che le dirette-gol televisive di oggi dove l' immagine risolve subito il mistero. Sino a che a dare il cosiddetto segnale di chiusura non arrivava la Stock di Trieste: se la squadra del vostro cuore ha vinto, brindate con, se ha perso, consolatevi con. Nel più puro stile democristiano dell' epoca. Poi, poco alla volta, i campi collegati crebbero di numero. E venne il tempo delle gerarchie e delle formazioni tipo della squadra dei radiocronisti. Ci furono per un po' Nando Martellini, Claudio Ferretti, non più Carosio tornato a fare il telecronista. Ma l' epoca d' oro fu quella di Enrico Ameri dal campo principale e di Sandro Ciotti dal secondo per importanza. Ameri era un lucchese che prima di diventare giornalista era stato maestro elementare: quando i bambini giocavano a pallone durante la ricreazione, lui faceva la radiocronaca imitando Carosio. Ciotti un romano de' Roma, nipote di Trilussa, che a pallone aveva giocato, e bene, da mediano nelle giovanili della Lazio. La linea se la rimpallavano impeccabilmente, ma sempre per cognome. Un po' perché così usava allora, quando indossare la casacca Rai comportava innanzitutto il rispetto della forma. Un altro po' perché serviva a marcare la distanza. Non è vero che si odiassero: ma certo non si amavano. Ameri era Bartali, Ciotti sapeva di Coppi. Alla classe del secondo, più colto, più seducente, il primo rispondeva con la grinta, la tigna quando serviva, proprio come il vecchio Gino. Ciotti era la voce, per quanto roca, a volte chioccia, ispessita da non meno di tre pacchetti di americane al giorno, rigorosamente senza filtro. Soprannome, catarro armato. Perfetta la sintassi, la competenza, la proprietà di linguaggio: senza negarsi i voli pindarici del campo per destinazione, della ventilazione inapprezzabile. Ameri era innanzitutto il ritmo. Non che la sua voce non fosse di prim' ordine, ma era quasi accessoria rispetto alle cadenze che riusciva a imprimere al racconto, e a mantenere senza flessioni. Un intervento di Sandro poteva sbalordire per la perfezione dialettica e insieme per la lievità. Uno di Enrico era pathos allo stato puro, che attraversava l' etere e ti sbalzava la pressione all' insù. Se li chiamo per nome, dopo quasi vent' anni che se ne sono andati è perché prima li ho amati da ascoltatore: poi li ho frequentati di persona. E tra i ricordi di tante trasferte all' estero, soprattutto azzurre, ci sono le partite a scopone nelle hall degli alberghi o in aeroporto: in cui facevo coppia con l' uno come con l' altro, l' importante era che per ragioni di ordine pubblico non giocassero insieme. Fu di Ameri la prima, storica irruzione sulla voce di un collega, un gol di Pedro Manfredini a San Siro il giorno di San Silvestro del '61. Di Ciotti la chiosa più perfida, alla fine di un Lazio-Milan 2-1 con gol di Chiarugi annullato per fuorigioco molto più che inesistente: «Ha arbitrato Lo Bello, davanti a 80 mila testimoni».

Da gazzetta.it il 14 gennaio 2020. La festa di compleanno di "Tuttoilcalcio minuto per minuto" è costata a Ezio Luzzi una frattura e un ricovero in clinica. Il popolare ex radiocronista, 86 anni, venerdì sera, entrando sul palco della sala B di via Asiago a Roma per la diretta della trasmissione speciale sui 60 anni di "Tuttoilcalcio", è inciampato in un gradino ed è finito per terra. È stato subito aiutato a rialzarsi da Riccardo Cucchi e Filippo Corsini e sembrava tutto ok, un semplice incidente senza conseguenze. Luzzi è rimasto in studio per tutte le due ore e mezza di trasmissione, scherzando, facendo battute e raccontando aneddoti sui tanti anni passati alla radio e negli stadi. Resistendo a un dolore che dev'essere stato lancinante. Luzzi, infatti, nella caduta si è fratturato l'omero di una spalla, come ha comunicato il collega Enzo Delvecchio su Facebook, rispondendo ai tanti fan dell'ex radiocronista che chiedevano notizie sulle sue condizioni. Luzzi, che oggi sarà operato a Villa Stuart, si è ritrovato a poche camere di distanza da Nicolò Zaniolo, al quale ha voluto inviare un videomessaggio: "Al mio vicino di stanza e compagno di sventura faccio tantissimi auguri per un pronto ritorno in campo, e in particolare, di poterlo rivedere con la maglia azzurra ai prossimi Europei di calcio".

·        60 anni dall’Olimpiade di Roma.

25 agosto 1960, formidabile quell’Olimpiade…Il Dubbio il 25 agosto 2020. Sessant’anni fa la fiaccola arriva in Campidoglio: l’Italia finisce con 36 medaglie (13 d’oro), terza dietro Urss (103) e Usa (71). Siamo sul podio del mondo, e forse non solo nello sport. La fiaccola venne accolta in Campidoglio il 24 agosto– era arrivata dalla Grecia a Siracusa, e quale rotta più antica poteva esserci, e da lì aveva risalito il meridione, per immettersi sull’Appia antica, mille staffette – e papa Giovanni XXIII rivolse a più di 3000 atleti il suo augurio in piazza San Pietro. Il 25 agosto, alle 16.30, è il giorno della cerimonia inaugurale e per tutti gli atleti, che sono venuti a piedi dal Villaggio Olimpico, è il discobolo Adolfo Consolini – un omone di cento chili che al cinema ha fatto Maciste – a leggere il giuramento, in virtù del fatto che era alla sua quarta olimpiade consecutiva, mai nessuno prima di lui. Roma aveva già avuto un’assegnazione dell’Olimpiade –quella del 1908. Ma nel 1906 il Vesuvio si era svegliato di botto il 4 aprile e per quindici giorni non aveva fatto che eruttare lava e cenere. Torre Annunziatasi salvò, ma non Ottaviano –dove ci furono trecento morti –e anche a San Giuseppe Vesuviano ci furono cento morti. Non era cosa fare le Olimpiadi. Eravamo in lutto. Così, la IV Olimpiade dei giochi moderni se la prese Londra. Che ci fece un figurone. Ma cinquant’anni dopo, nel 1955, Roma si prende l’aggiudicazione. E lo fa contro città agguerrite, Detroit, Bruxelles,Tokyo. Poi era rimasto solo un testa a testa con Losanna– ma gli svizzeri li stracciamo. Gli svizzeri, si sa, hanno inventato solo orologi a cucù. E noi – era il 1955 – avevamo già inventato la Vespa Piaggio e stavamo per inventare la Cinquecento Fiat che entrò in produzione nel ’57 e nel ’60 ne circoleranno già centinaia di migliaia e sarebbe arrivata La dolcevita di Fellini proprio nel febbraio dell’anno delle Olimpiadi, ma avevamo già reinventato il cinema mondiale con il neo-realismo. L’invenzione italiana era nell’aria – una cosa miracolosa. Si sgranocchiava con la pizza e con le pane e panelle, si forgiava nei capannoni industriali del Nord. E ce la diedero, st’Olimpiade. Certo,  bisognava davvero inventare tutto, a quel punto – che non avevamo nulla per ospitare le Olimpiadi – a parte, beh, l’arte, ‘o sole e putipù. Ma ci provammo. E restarono tutti a bocca aperta. Perché quando l’etiope Abebe Bikila correndo la sua maratona a piedi nudi – «Faccio primo, arrivo primo», aveva detto avvicinandosi ai nastri di partenza – costeggia a Porta Capena la stele di Axum e poi da lì s’invola verso l’Arco di Costantino e il Colosseo, e tutto il mondo lo guarda perché questa è la prima Olimpiade che passa per la televisione, con diretta attraverso l’Eurovisione, lì precipita tutto ,l’antico e il moderno, quella guerra che ancora ci pesa e la nostra brutta storia coloniale e la voglia di lasciarci ogni cosa alle spalle, di pensare alla modernità, alla democrazia. Alla bellezza di una corsa meravigliosa– sarà il primo oro olimpico per l’Africa – dentro una città meravigliosa che tiene insieme tutto. Tutti sapevano com’era quella città – quando Audrey Hepburn nel ’53 aveva rapito il cuore del mondo intero con le sue Vacanze romane. Ma ora era vera. Era reale. Era in televisione. E perciò noi chiamammo il meglio che c’era a inventare e progettare, Adalberto Libera, che aveva queste linee pulite e razionali, e Luigi Moretti, e Pier Luigi Nervi, che piegava il cemento come fosse moplen –d’altronde lo inventiamo proprio noi, nel ’57 – e che li copiavano ovunque. E così nacque il Villaggio Olimpico, con quelle strambe palafitte in cemento armato che reggono gli interi edifici, e verranno sistemati definitivamente lo Stadio Flaminio, lo Stadio Olimpico, lo Stadio del Nuoto, lo Stadio dei Marmi, l’Acqua Acetosa. Piantammo più di 30.000 alberi lungo le strade e vicino ai campi di gara. Nacque “l’Olimpica” una strada metafisica ma la prima da “scorrimento veloce” per Roma e i tanti sottopassi, e il Muro Torto, ora inferno della viabilità cittadina. Insomma, fu ridisegnata la città. E le gare di lotta e di ginnastica si terranno nella Basilica di Massenzio e alle Terme di Caracalla. Certo, ci sono le baracche del Mandrione, ma Pasolini ci andrà l’anno dopo, nel ’61. E quello è l’anno che Albino Bernardini viene a insegnare nella scuola elementare della borgata di Pietralata e a scrivere le prime pagine del suo Diario. Ma tutto questo rimane sullo sfondo: alla spiaggia di Lavinio e nei boschi di Manziana si girano i peplum con Steve Reeves che gli americani ci diventano matti, mentre per gli interni si utilizzano spesso lo stesso tempio e lo stesso villaggio ricostruiti negli stabilimenti De Paolis. E rimarrà sullo sfondo che il luglio ’60 a Porta San Paolo la polizia ha caricato un piccolo corteo che era venuto a deporre una corona per ricordare i caduti nella resistenza contro i nazisti nel settembre del ‘43 ma anche per opporsi alle aperture a destra del governo Tambroni, e verrà caricato a cavallo («scrosciano come nacchere gli zoccoli sui sampietrini», scriverà Aldo Natoli)e a guidarli c’è Raimondo D’Inzeo che poi prenderà l’oro olimpico nell’equitazione. C’è Cinecittà, c’è via Veneto. Roma è in grande spolvero. Siamo la terra dei miracoli. E di miracoli se ne fanno sui campi e nelle piscine. Sulla pista in terra rossa dell’Olimpico trionfa Wilma Rudolph nei 100 metri, nei 200, nella staffetta 4×100, la “gazzella nera”, ventesima di ventidue figli di una famiglia afroamericana del Tennesse, che aveva contratto la poliomelite da piccola, un esempio di determinazione e talento che abbina doti atletiche non comuni a un fascino straordinario. Ci cascherà il nostro Berruti, che corre i 200 metri con gli occhiali spessi a montatura nera, e che sembra un ragioniere, ma che sotto la Tribuna Monte Mario brucia tutti tirando fuori un cuore da leone –e gli sarà servito per conquistare Wilma. È il primo “bianco” a vincere quella gara, che era privilegio dei neri americani, come sarà il tedesco Armin Harya battere tutti nei 100 metri –era fresco fresco da avere fatto fermare i cronometri sui 10 netti. La nazionale di pallanuoto diviene il Settebello, come la più bella nelle carte della scopa o dello scopone. La squadra della scherma non è da meno: Edoardo Mangiarotti stabilirà il record di medaglie olimpiche raggiunte. E poi c’è Nino Benvenuti, un giovane pugile istriano, terra di confine, contesa, lacerata dalla guerra. Entrerà nella Hall of Fame degli americani, che lo chiameranno “Naino” dopo le sue interminabili battaglie contro Griffith. E ancora, il ciclista Sante Gaiardoni, unico azzurro a vincere, nell’occasione, due medaglie d’oro. Nella boxe comincia la leggenda di Cassius Clay, vincitore nei mediomassimi, ma che danza già come una farfalla e punge come un’ape. L’Italia finisce con 36 medaglie (13 d’oro), terza dietro Urss (103) e Usa (71) – non raggiungerà mai più un simile piazzamento nel medagliere. Siamo sul podio del mondo – e forse non solo nello sport. Ma, appunto, è solo storia. Forse, ormai leggenda. In quell’Olimpiade Roma divenne Capitale…

Olimpiadi di Roma 1960, l’oro e l’inizio della leggenda di Mohamed Alì. Andrea Felici su Il Riformista il 27 Agosto 2020. Los Angeles, 1981. Sono passati 21 anni dall’estate in cui per la prima volta il mondo ha conosciuto il suo volto pulito, i lineamenti perfetti e lo sguardo guizzante tutt’altro che da pugile. Ora quel volto lo conoscono tutti. Lo riconosce subito anche il ragazzo di 21 anni in piedi, sul cornicione, fuori dalla finestra di un palazzo di nove piani. È più di un’ora che minaccia di buttarsi giù. Ha deciso di suicidarsi e nessuno riuscirà a fargli cambiare idea. Nessuno. Ora, però, a due finestre di distanza c’è lui, il più grande di tutti, Mohamed Alì, al secolo Cassius Clay. Passava di lì per caso, ha osservato la scena, si è offerto di parlarci lui con quel ragazzo. I soccorritori, all’ultima spiaggia, hanno acconsentito. Il colloquio dura venti minuti, alla fine dei quali il ragazzo fa marcia indietro e rientra dalla finestra. Continuerà a vivere. A chi si congratula con lui, Alì si limita a dire: «Per me salvare una vita è più importante di qualsiasi cintura». Cosa si siano detti in quei venti minuti lo sanno solo loro, il ragazzo che voleva farla finita e il pugile campione del mondo. Ma a me piace pensare che Alì in quei venti minuti abbia raccontato al ragazzo una storia: la storia di una medaglia, la sua medaglia. «Ragazzo – lo vedo attaccare con la parlantina sciolta e strafottente di chi la sa più lunga di tutti – se Dio avesse voluto farci volare, ci avrebbe fatto le ali». Non faceva altro che ripetere questa frase, su quel dannato aereo che sorvolava l’oceano e lo stava portando dall’America a Roma. Dopo di quello, ne avrebbe presi tanti di aerei. Ma quello era il primo. Mohamed Alì, anzi, come si chiamava allora, Cassius Clay, aveva appena 19 anni. Veniva da Louisville, Kentucky, e fino a quel momento, a mala pena, era uscito dai confini della sua contea. Su quell’aereo, per esorcizzare la paura, non faceva altro che parlare, parlare, e parlare, con quella lingua tagliente che, questa sì, il Buon Signore gli aveva dato, e ripetere come un mantra quella frase: «Se Dio avesse voluto farci volare, ci avrebbe fatto le ali». Per buona pace degli altri passeggeri, l’aereo con le sue ali, l’aveva depositato sano e salvo nel Vecchio Continente, un mondo così diverso da quello da cui veniva lui. Ma un ring è un ring, a Louisville Kentucky, come nell’antica capitale di un vecchio impero tirata al lucido per un’occasione irripetibile. A Roma il giovane Cassius ci è arrivato per partecipare alla XVII Olimpiade dell’era moderna. Deve combattere nella categoria dei medio-massimi, anche se, col senno di poi, il termine “medio”, proprio non si addice al più grande (e infatti verrà cancellato: Alì combatterà di lì in avanti per essere il re dei massimi, punto e basta). Nel nuovissimo Palazzo dello Sport, inaugurato giusto qualche settimana prima, Clay raggiunge la finale vincendo tutti gli incontri senza perdere un round. Come si usa dire, in scioltezza. Scioltezza, quello sì, un termine che gli si addice. Il ragazzo è sciolto di gambe, almeno quanto lo è di lingua. Non sta fermo un secondo su quelle gambe, e questo fa impazzire i suoi avversari. «Pungo come un’ape, danzo come una farfalla…» così descriverà la sua boxe, in età più matura (da notare sempre il riferimento a esseri viventi con le ali…). A rendersene conto di persona, il 5 settembre, il giorno della finale, è il polacco Pietrzykowski. Pietrzykowski è un pugile esperto, alla sua seconda olimpiade, ha battuto in semifinale la nostra speranza Giulio Saraudi con un netto 4 a 1. Quel pomeriggio, con la sua canottierina bianca, più che un puglie, il polacco sembra uno scaricatore del porto di Danzica. Insegue per tutto il ring il suo avversario più giovane di otto anni. Ma non lo prende mai. Al contrario, Clay appena può punge come un’ape. Il verdetto dei giudici, alla fine del match, è inequivocabile: 5 a 0 per il giovane Clay. Medaglia d’oro. Eccola quella medaglia d’oro, di cui mi piace immaginare Mohamed Alì stia parlando al ragazzo la cui vita è appesa a un cornicione di un edificio di Los Angeles, 21 anni dopo. Quella medaglia d’oro ha fatto un volo nel profondo ed è andata persa per sempre, un volo uguale a quello che vorrebbe fare quel ragazzo, giù nell’abisso per perdersi per sempre. O perlomeno così racconta la leggenda. Questa è la scena che Mohamed Alì ricama nella sua autobiografia. Il giovane Cassius è da poco tornato nella sua cittadina del Kentucky, fresco dell’impresa olimpica di Roma. Ha ancora la medaglia al collo. È con un suo amico, è affamato, e si ritrova di fronte a un ristorante che ha un cartello piuttosto esplicito appeso alla porta di entrata: Qui non si servono neri. Non è cosa insolita per l’America profonda di quegli anni. La segregazione razziale è la norma, non l’eccezione. Ma un’eccezione la faranno sicuramente per lui, pensa Clay, lui che ha rappresentato gli Stati Uniti d’America sul più grande palcoscenico sportivo del mondo. Per quel Paese è salito sul gradino più alto del podio mentre, di quel paese, suonavano l’inno. E invece no. Il proprietario del ristorante lo caccia via con modi spicci e aggressivi. Qui non si servono negri, più chiaro di così… La frustrazione s’impadronisce del giovane Clay. Attraversando un ponte, in un accesso di rabbia, getta la sua medaglia d’oro nel fiume Ohio. Vinta per un Paese che non lo accetta. Persa per sempre. Il racconto è verità o leggenda? Poco importa. Tre cose, negli anni, rimarranno sicure in tutta questa storia:

Che il giovane Cassius, a pochi mesi dal suo ritorno dall’Italia, non ha più la sua medaglia d’oro (Persa? Gettata via? Regalata?).

Che il giovane Cassius ha capito che il pugilato è solo lo spogliatoio, il vero ring sono i problemi del mondo.

Che il giovane Cassius non permetterà mai più a nessuno di dirgli cosa può o non può fare. Nemmeno agli Stati Uniti d’America.

Il resto, come si dice, è storia, non più leggenda. Il 25 febbraio del 1964 diviene campione del mondo dei pesi massimi, un giovanissimo campione del mondo di soli 22 anni. Quella sera batte un pugile molto più grosso, molto più potente e molto più esperto di lui: Sonny Liston che alla vigilia era dato da tutti, ma proprio da tutti, per favorito. Due giorno dopo, dichiara di essere diventato membro della Nation of Islam e cambia quello che lui definiva un nome da schiavo, Cassius Clay, in un nome nuovo e luminoso, Mohamed Alì. Nel 1967 si rifiuta di partire per il Vietnam, per il semplice motivo che a lui personalmente i vietkong non hanno fatto niente, mentre, ogni giorno, in territorio statunitense, la sua gente viene oltraggiata, derisa e maltrattata, perfino uccisa, solo per il colore della pelle. E pazienza, se a causa di questa presa di posizione, andrà in prigione. Prima o poi ne uscirà. E pazienza se gli revocheranno il titolo di Campione del mondo. Se lo riprenderà (lo farà per ben due volte). E pazienza se per i successivi tre anni gli sospenderanno la licenza per combattere su un ring. Tornerà più forte di prima. A 32 anni si riprende quel titolo che gli avevano tolto per motivi politici in un match diventato immortale grazie a lui, al contesto in cui venne combattuto, alla penna di Norman Mailer e a un documentario vincitore del premio Oscar. The Rumble in the jungle, la rissa nella giungla, così fu soprannominato l’incontro, si tenne a Kinshasa nella capitale dello Zaire, nello stadio in cui, si dice, il dittatore Mobutu faceva fucilare i suoi avversari politici. Nella fattispecie, invece, Alì fa fuori (pugilisticamente parlando) una montagna di nome George Foreman. Insomma, Alì è questo, e molto altro. Ma la nostra storia, non la leggenda, ci porta fino al 1996, al giorno in cui Mohamed Alì prende parte a un’altra olimpiade, quella di Atlanta. Il giovane, aitante, logorroico, sbruffone che 36 anni prima ha sorpreso il mondo in un’estate romana, ha lasciato il posto a un signore gonfio, tremolante, che fatica a fare un passo, ad accennare un saluto, a dire una parola. Mohamed Alì è affetto dal morbo di Parkinson. A lui, però, gli organizzatori hanno affidato l’onore di portare per ultimo la fiaccola e accendere il braciere olimpico. È un colpo di teatro, ma sembra un brutto scherzo. Nella diretta in mondovisione tutti sono lì a chiedersi se il più grande di tutti ce la farà a compiere un gesto che sarebbe facile persino per un bambino. Lui ce la fa e compie la sua ultima impresa, ma sa che non è questo l’importante. L’importante è l’ultimo messaggio che ha appena lanciato al mondo intero: se vuoi essere il più forte di tutti, abbi il coraggio di mostrarsi in tutta la tua debolezza.

Storia di Abebe Bikila, il soldato scalzo che conquistò Roma. Andrea Felici su Il Riformista il 26 Agosto 2020. Stavolta partiamo dalla fine. Perché il 10 settembre è l’ultimo giorno di gare E il sipario si sta abbassando sull’Olimpiade romana del 1960. Ed è la fine perché, come da tradizione, la chiusura è affidata alla gara che è il simbolo dei Giochi Olimpici. La maratona, una corsa massacrante di 42 chilometri e 195 metri, la stessa distanza che è stata percorsa nel 490 a.C. dall’ateniese Fidippide, uno che di mestiere faceva l’emerodromòs, alla lettera “colui che corre per un giorno intero”, in pratica un servizio postale ante litteram. A piedi. Come è noto, Fidippide corse fino ad Atene per annunciare la vittoria dei Greci sui Persiani dalla piana di Maratona, distante dalla città per l’appunto 42 chilometri e 195 metri. La leggenda vuole anche che Fidippide, subito dopo essere arrivato e aver dato ai suoi concittadini la grande notizia (“nenikamen”, abbiamo vinto), sia letteralmente stramazzato al suolo. Stanco morto. Anzi, proprio morto. A distanza di 2450 anni, un uomo ha appena percorso la stessa distanza di Fidippide, i 42 chilometri e spicci, con un tempo che nessuno, alle Olimpiadi, aveva mai fatto prima. Eppure, quest’uomo a fine corsa appare fresco come una rosa. Dopo aver tagliato il traguardo per primo, continua a correre sul posto, a fare piccoli esercizi di stretching, e si guarda intorno come è dire: e beh? Tutto qui? Io sono pronto a correrne un’altra di maratona, in questo istante. Quando si ricomincia? Gli avversari devono ancora arrivare e quelli che sono lì, intorno a lui, lo guardano, meravigliati, sgomenti. Quello strano, bizzarro ometto non ha nemmeno un paio di scarpe da ginnastica ai piedi. Ha corso scalzo, proprio come deve aver fatto Fidippide nella prima maratona della storia. Ma qui non siamo mica nell’Antica Grecia! È vero che, per il gran finale, Roma ha indossato il suo vestito più fastoso. Partenza alle 17.30 del pomeriggio ai piedi del Colosseo, arrivo di notte sotto l’arco di Costantino. Nel mezzo, la luce rossa del tramonto e una serie di scenari mozzafiato, il Circo Massimo, le Terme di Caracalla, l’Appia Antica, le Mura Aureliane, i metafisici spazi dell’Eur. Più che una maratona è un viaggio nel tempo. Non a caso la chiamano la Città Eterna. D’accordo, ma questo tizio che corre a piedi nudi non faceva parte del programma. Da dove sbuca fuori? È la domanda che, all’incirca dalle 18 di quel pomeriggio, cronisti, avversari, spettatori non fanno che porsi. La litania è iniziata intorno al decimo chilometro di gara, quando qualcuno si è accorto che lì davanti, nel gruppetto di corridori di testa, ce n’è anche uno con la canottina verde e i pantaloncini rossi, il numero 11 appuntato sul petto e sulla schiena, che non ha le scarpe! Quei piedi scalzi che martellano sui sampietrini romani, come una calamita, catalizzano l’attenzione. I cronisti scorrono in fretta l’elenco dei partenti. Un corridore scalzo fa colore in un pezzo. Nel giornale di domani qualche riga di alleggerimento gliela dedicheranno senz’altro. Eccolo qui: si chiama Abebe Bikila, viene dall’Etiopia e si è accreditato con un tempo molto vicino a quello del primatista del mondo, il russo Sergej Popov, che ora gli corre accanto. Un risolino scappa a quelli che si credono più scaltri: “Ma dai, chissà come li prendono i tempi, in Etiopia! Non hanno le scarpe, figuriamoci i cronometri!”. Al quindicesimo chilometro quel risolino si già è trasformato in una smorfia di sconcerto. L’etiope scalzo ha preso la testa e sta tenendo un’andatura sostenuta, troppo sostenuta per gli altri, perfino per Popov. L’unico che riesce a tenere il passo di Bikila è un altro figlio dell’Africa, il marocchino Rhadi Abdesselam. Lui sì è conosciuto fra gli addetti ai lavori. Si è classificato 14esimo nei 10.000 metri, e ha vinto una delle più importanti corse campestri del mondo. L’unico mistero che lo riguarda è che non si sa esattamente che età abbia. Nel villaggio alle pendici dell’Atlante da cui proviene, nessuno ha mai registrato una nascita. Non è lui, comunque, l’oggetto delle attenzioni: è l’altro, il corritore scalzo. Vuoi vedere che nel pezzo di domani, cominciano a sussurrare a mezza bocca i cronisti, tocca dedicargli qualcosa di più di un trafiletto folkloristico? Mentre i piedi di Bikila macinano chilometri sulla Via del Mare che porta fino a Ostia, le redazioni giornalistiche si scatenano nelle ricerche. E qualcosa scoprono. Abebe Bikila è un ufficiale della guardia di Hailè Selassiè, l’imperatore del suo paese. Si allena sugli altopiani nei dintorni di Adis Abeba, a 2400 metri di altitudine, dove l’aria è sottile, e correre è una tortura. Per gli altri, forse, non per lui. Perché Abebe ha cominciato a correre molto presto nella vita. Aveva solo 4 anni quando è dovuto scappare da Adis Abeba. La madre ha preso lui e i suoi quattro fratelli ed è fuggita dalla città mentre le truppe italiane la invadevano. Nel 1936, l’Etiopia diventa parte dell’impero coloniale voluto da Mussolini. Con molta retorica, e tanta crudeltà. Abebe ha, dunque, un conto in sospeso con il nostro paese. La notte, intanto, è calata su Roma. Lungo il percorso, sugli storici monumenti si accendono luci e fiaccole che rendono lo spettacolo ancora più magico. Quella che non è cambiata è la dinamica della gara. Bikila e Rhadi sono saldamente in testa alla corsa, e sono arrivati ormai sull’Appia Antica. Popov e gli altri sono indietro, centinaia di metri indietro, e non possono più rientrare. Con lena instancabile i piedi nudi di Bikila calpestano i lastroni su cui, si dice, sia passato anche San Pietro. Stava fuggendo lontano da Roma per non farsi crocifiggere, l’apostolo di Cristo, quando sulla strada incontrò il Maestro (o meglio il suo fantasma redivivo) che, come Bikila, marciava invece spedito in senso inverso, alla volta della città. “Quo Vadis, Domine?”, “Dove vai, Signore?”, chiede Pietro a Cristo. Il Signore gli risponde che va a farsi crocifiggere per la seconda volta, visto che lui, Pietro, se la sta svignando. Pietro capisce l’antifona, gira i tacchi e riprende la via di Roma per farsi crocifiggere dai Romani. Anche Bikila e Rhadi, ora, tornano verso la Città Eterna. Non per farsi crocifiggere dai romani, ma per farsi mettere intorno al collo una medaglia che significherebbe il riscatto di un intero continente. In quell’estate del ‘60 violenti rivoluzioni politiche hanno ridisegnato l’Africa: ben 15 nuove nazioni sono nate. Ma, nessuna di quelle nuove e di quelle vecchie, è finora riuscita a vincere una medaglia. Mai nella storia delle Olimpiadi un africano è salito sul gradino più alto del podio. Mai. Bikila prova uno strappo. E vede che il suo avversario marocchino non risponde. Allora aumenta i giri delle gambe. E prende un andatura impossibile. All’altezza di Porta San Sebastiano, manca ormai circa un chilometro all’arrivo. E Bikila, sotto la porta intitolata a un altro martire, ci passa da solo. Rahdi ha mollato. Con i piedi scalzi, con le torce accese ai bordi della strada che lo illuminano in chiaroscuro, con la fatica della corsa che ne tira i lineamenti, la figura scarna di Bikila finisce davvero per emanare un che di mistico, quasi santo. Fino al momento in cui i suoi piedi nudi non passano, per primi, sotto l’arco di Costantino. Quello che segue è un trionfo degno di un imperatore romano. Come degno di un imperatore è anche l’orgoglio che l’ufficiale della guardia etiope sfodera subito dopo il traguardo. “All’Italia è servito un esercito di un milione di uomini per prendere l’Etiopia. All’Etiopia è bastato un solo soldato per conquistare Roma”. A chi gli chiede perché ha corso scalzo, aspettandosi chissà quale storia strappalacrime, Bikila risponde molto prosaicamente: le scarpe Adidas, sponsor tecnico della manifestazione, gli facevano venire le vesciche. Semplice, no? Al ritorno in patria, Bikila viene accolto da eroe. Come premio per la sua impresa Hailé Sellasié, l’imperatore in persona, gli regala un’automobile, un Maggiolino Volkswagen. I piedi di Abebe che fino a quel punto avevano macinato chilometri su chilometri di corsa, possono finalmente rilassarsi, premendo un freno, un acceleratore e una frizione. È il suo premio, ma diventerà la sua condanna. Quei piedi così decisi, così sicuri quando toccano la terra, evidentemente non lo sono altrettanto alla guida di una macchina. Nel 1969, sulle strade intorno ad Addis Abeba, le strade che conosce a menadito, sulle strade dove si allena giorno e notte, Bikila ha un terribile incidente d’auto. Finisce fuori strada, giù in un fossato. Ne esce vivo, ma su una sedia a rotelle, paralizzato dalla cintola in giù. È una beffa. I piedi dell’unico uomo in grado di vincere due maratone olimpiche, non si muovono più. Eh sì, perché quei piedi, nel frattempo, ne hanno vinta un’altra di maratona, quattro anni dopo quella di Roma. A Tokyo, nel 1964, Bikila non è più un signor nessuno scalzo. È il favorito della gara. E sfoggia un bel paio di scarpe da ginnastica bianche. Quello che non è cambiato è il suo modo di correre, agile, infaticabile, imprendibile per chiunque altro. Bikila abbassa di tre secondi il record del mondo che deteneva già ed è di nuovo medaglia d’oro. E meno male che solo un mese prima si era operato di appendicite e aveva dovuto interrompere la preparazione! L’indomito, orgoglioso soldato africano muore nel 1973 a causa di un’emorragia a seguito dell’incidente. Non prima, però, di aver partecipato a un’altra olimpiade. Nel 1972, a Monaco, Bikila si presenta al via delle paralimpiadi. Non può più correre una maratona, certo, ma su una sedia a rotelle può sempre tirare con l’arco… 

60 anni fa. Olimpiadi 1960, storia dei fratelli D’Inzeo reucci di Roma. Andrea Felici su Il Riformista l'1 Settembre 2020. Una delle più antiche divinità venerate dagli antichi romani era Giano. Un dio tutto romano, non come Giove o Apollo o Venere, derivati dall’Olimpo dei Greci. Era un dio così antico, così potente che a lui i romani dedicarono il primo mese dell’anno, gennaio (ianuarius). Lo raffiguravano come un dio a due teste unite per la nuca. Un volto guarda da una parte, l’altro dalla parte opposta. Ecco, se c’è un immagine che può racchiudere il senso più profondo delle Olimpiadi di Roma del 1960 è proprio quella del Giano Bifronte. Una faccia è rivolta al passato, e una faccia è rivolta al futuro. Con il senno di poi, quei Giochi Olimpici sono stati una grande spartiacque della storia, un rito di passaggio. Prima di Roma 60 c’era la guerra e la faticosa ricostruzione del dopoguerra. Dopo ci sarà il boom economico. Prima c’era una società contadina, dopo ci sarà una società industriale. Prima c’era l’avanspettacolo, dopo ci sarà la società dello spettacolo. Prima c’era il culto del risparmio, dopo ci sarà la società dei consumi. È come se Giano, il dio degli inizi, delle porte, dei passaggi, della transizione tra una stagione e l’altra, si fosse incarnato nell’evento che in quell’estate del 1960 gli esseri umani hanno organizzato nella sua città. Roma è insieme l’ultima olimpiade romantica, a misura d’uomo, e la prima olimpiade moderna dove, per esempio, cominciano ad affacciarsi i primi sponsor e le prime televisioni. A Roma la storia pesa moltissimo, ma il domani pesa ancora di più. Il Colosseo passa il testimone allo Stadio Olimpico, e se le gare di ginnastica si tengono nelle terme di Caracalla quelle di boxe hanno luogo in un gioiello dell’architettura contemporanea, il PalaEur creato da Marcello Piacentini e Pier Luigi Nervi. Roma è la prima olimpiade con un villaggio olimpico nuovo di zecca. Ma in quel villaggio la divisione tra uomini e donne è ancora rigidissima e strettamente sorvegliata. Passato e presente si toccano, a Roma, sul liminare di una porta del tempo. E l’elenco delle dicotomie, delle soglie care al dio Giano, potrebbe continuare a lungo. Viene da chiedersi oggi, quanto fossero consapevoli i protagonisti di allora che quello che stavano vivendo fosse un epocale rito di passaggio. Chissà se se ne rendeva conto il Presidente del Comitato Olimpico organizzatore? Indovinate un po’ chi era? Ma sì, l’onnipresente onorevole Giulio Andreotti. Manco a dirlo è lui a fare il discorso inaugurale dei giochi, il 25 agosto. Lo sapeva Papa Giovanni XXIII? Il Santo Padre che accoglie a Piazza San Pietro le delegazioni venute con i moderni Jumbo jet da ogni angolo del pianeta, parlando loro in latino, una lingua sepolta da secoli: “mens sana in corpore sano”. Se ne rendevano conto gli atleti? Sono 5400 da 84 nazioni. Qualcuno diventerà famoso, leggendario addirittura (e ne abbiamo dato conto in queste pagine). La maggior parte tornerà a vivere lontano dalle luci della ribalta, nel suo paesino, nella sua contea, nella sua cittadina, con un’esperienza indimenticabile da raccontare. E alcuni, loro sì del tutto inconsapevolmente, finiranno per incarnare il perfetto spirito del Giano Bifronte, il dio dei passaggi e delle transizioni. Lo incarna di certo Lyudmila Shevtsova, atleta russa. È la prima donna a vincere la gara degli 800 metri piani a un’Olimpiade. Prima di allora, su quella distanza, le donne non si erano mai potute confrontare. Il motivo? Era disdicevole, a fine gara, vedere delle ragazze in simili condizioni di sfinimento. Lo incarna Rafer Johnson, il primo portabandiera nero nella storia dello sport statunitense. In anni di segregazione razziale, un bel segnale contro ogni forma di discriminazione. Lui, sì, ne ha di storie da raccontare.  Johnson eccelle nel decathlon, la disciplina più massacrante dell’atletica atletica: dieci prove che riassumono alla perfezione il motto olimpico coniato dall’abate Henri Didon, un caro amico del barone De Coubertin: “citius, altius, fortius”, vale a dire più veloce, più in alto, più forte. Rafer Johnson rappresentava mirabilmente il motto di Didon. È la sintesi perfetta dell’atleta olimpico: 90 kg di muscoli distribuiti su un metro e novanta, gambe lunghe, struttura possente e uno spirito competitivo quasi feroce. Non è un caso che Hollywood ha messo gli occhi su di lui, prima dei Giochi. Ma la federazione d’atletica americana lo ha messo di fronte a un aut aut: o lo sport, o il cinema. E lui ha scelto lo sport. A Roma, Johnson va più veloce, arriva più in alto, è più forte di tutti i suoi avversari, in due estenuanti, giornate di competizioni. Non lo ferma neppure il gigantesco temporale che si abbatte sullo Stadio Olimpico il pomeriggio del 5 settembre, e costringe gli atleti a gareggiare fino alle due di notte. Terminata la bufera e la carriera, Rafer potrà finalmente dedicarsi al cinema, per finire poi a fare la guardia del corpo. Un giorno del 1968, il 5 giugno per l’esattezza, Rafer è il guardaspalle del senatore Bob Kennedy all’Hotel Ambassador di Los Angeles. Un ragazzo di 24 anni, un immigrato giordano palestinese di nome Sirhan Sirhan, si avvicina al senatore e gli spara a bruciapelo. Rafer non può impedire che Kennedy venga ucciso, ma è lui a catturare l’assassino. Una vittoria amarissima. Ma torniamo a Roma. Lo spirito controverso di Giano s’incarna, in quell’estate del 1960, anche nei fratelli, Piero e Raimondo D’Inzeo. Come a ricreare il mito fondante della Città Eterna, inscenano una battaglia fratricida per diventare re. Il campo dell’agone (sportivo) è un percorso a ostacoli a Piazza di Siena, dentro Villa Borghese. Le armi a disposizione sono due splendidi cavalli. Vince Raimondo, novello Romolo, ma di un soffio. Giusto perché Remo-Piero commette un errore fatale al penultimo ostacolo. L’oro va, dunque, al cavaliere senza macchia. A guardare bene, però, Raimondo D’Inzeo è davvero senza macchia? Non è passata che qualche settimana dal giorno in cui, in veste di carabiniere, ha guidato una feroce carica a cavallo contro militanti e deputati del Partito Comunista e del Partito Socialista che protestavano contro il governo presieduto dal democristiano Tambroni. Parecchi dei manifestanti usciranno malconci da quelle cariche. Il giorno successivo, il 7 luglio, in un’altra manifestazione a Reggio Emilia, la polizia non esiterà a sparare sulla folla, uccidendo cinque persone. Un oscuro presagio degli anni di piombo che verranno. Ma ora ci sono le Olimpiadi, e alla politica nessuno ci vuole pensare. Lo spirito di Giano aleggia anche sul pugilato. C’è Nino Benvenuti che porta all’Italia un oro tanto atteso, e c’è il suo compagno Franco De Piccoli che ne porta uno del tutto inaspettato. Anche lui di cose ne avrebbe da raccontare. Da ragazzo Franco va a ballare a Spinea, dalle parti di Venezia, in una balera chiamata Bagigi. Si dà il caso che il proprietario sia un appassionato di boxe. E così, durante il giorno la balera si trasforma in una palestra per pugili dilettanti. De Piccoli è uno di quelli. Ogni pomeriggio arriva da Venezia in bicicletta, dopo aver lavorato dalle 5 di mattina come muratore. Fa tre ore di allenamento filato, e poi va a farsi la doccia. Solo che la balera, una doccia, non ce l’ha. C’è solo un rubinetto fuori, con l’acqua fredda. D’inverno, da quelle parti, fanno 8-9 gradi sottozero. De Piccoli non batte ciglio, si lava ogni sera all’addiaccio, riprende la bicicletta, e si fa i chilometri di ritorno per tornare a casa. Al secondo turno del torneo olimpico dei pesi massimi Franco si trova davanti una montagna di 100 chili chiamata Abramov, un russo che tutti danno per favorito. Lui, alla seconda ripresa, lo manda al tappeto con un gancio sinistro. Peccato che, all’epoca, le televisioni non riprendano i match di secondo turno. Il capolavoro pugilistico di De Piccoli nessuno ha mai più potuto rivederlo, quel gancio che gli apre la strada verso la medaglia d’oro. E poi a far sognare i cuori nostrani, c’è l’Italia delle due ruote. L’Italia che ha ancora impresse nella mente le imprese di Coppi e Bartali, ma è già pronta a montare su un esercito di Vespe e Lambrette. Nel ciclismo non ce n’è per nessuno. Vincono praticamente tutto i nostri: 5 ori. Gli alfieri azzurri del tandem sono una coppia talmente affiatata da sembrare uno slogan: Bianchetto e Beghetto. I quattro dilettanti della 100 chilometri a squadre su strada, invece, quando smontano dalla bici hanno molto altro da fare: uno è garzone, un altro meccanico, uno è fornaio e l’ultimo fa lo spazzacamino. Ci sono, anche, gli altri quattro dell’inseguimento a squadre. Altra corsa, altro oro. E poi c’è Sante Gaiardoni. Al Velodromo Olimpico dell’Eur, di ori, lui ne vince ben due: velocità e chilometro da fermo. Dopo la premiazione, per rilassarsi, Sante se ne va a Via Veneto. Chissà quando gli ricapiterà di passare per Roma. C’erano i televisori nei bar – racconta – e tutti urlavano “Viva Gaiardò, viva Gaiardò”. Presi dall’euforia, mi hanno messo anche a me in mezzo al casino. Ma non sapevano che Gaiardoni ero io! Allora anche io mi sono messo a cantare con loro: “Viva Gaiardò, viva Gaiardò”. Infine, l’11 settembre le luci e i riflettori si spengono sulla Grande Olimpiade. Ma lo spirito di Giano non vuole saperne di sparire. Ha ancora una missione da compiere. Il dio delle porte, dei passaggi, il dio del cambiamento s’incarna, un’ultima volta, in un oscuro medico di un Centro Inail di Ostia. Si chiama Antonio Maglio, e si è messo in mente che il modo migliore per guarire, o perlomeno rendere la vita più facile ai suoi assistiti, è fargli praticare dello sport. Gli assistiti del dottor Maglio sono amputati, paralitici, invalidi, diversamente abili, li chiameremmo oggi. Si è messo in mente, Maglio, di organizzare addirittura una competizione internazionale con centri simili al suo sparsi per tutto il mondo. E ci è riuscito. Per la prima volta nella storia, 400 atleti disabili di 23 nazioni si sfidano in tante discipline sportive diverse, per sei giorni di gara. Gareggiano negli stessi impianti che, neanche un mese prima, hanno ospitato gli atleti normodotati e dormono nelle stesse strutture. Eh sì, pochi lo sanno, ma a Roma, in quell’incredibile estate del 1960 che sembra non voler finire mai, si svolsero anche quelle che, a buon diritto, vengono considerate le prime paralimpiadi. Sempre nel segno di Giano.

60 anni fa. Olimpiadi di Roma 1960, Wilma Rudolph e il segreto delle gambe. Andrea Felici su Il Riformista l'11 Settembre 2020 . Gli occhi degli spettatori assiepati in ogni angolo dello Stadio Olimpico sono tutti puntati su di lei. In corsia centrale, in attesa di salire sui blocchi, si staglia come una dea la favorita della finale dei 100 metri. Il più spiritoso, e il più dotto in tribuna, azzarda una battuta: è la creatura che più si avvicina alla perfezione di Policleto, lo scultore dell’Antica Grecia che stilò il canone della bellezza sulla base del quale sono state scolpite le gigantesche statue di marmo che adornano il Foro Italico, tutt’intorno. Solo che i marmi sono di un bianco abbacinante, lei invece è nera, una Venere nera: un metro ottanta, capelli lisci e corti, un sorriso dolcissimo. Ma quello che colpisce di più sono le gambe: due gambe lunghe, affusolate, tornite. Bellissime. La dea in questione si chiama Wilma Rudolph, è la campionessa del mondo in carica, viene dal cuore dell’America e gli anglosassoni, tutti soddisfatti, le hanno già appioppato un bel soprannome, di quelli virili: il Tornado del Tennessee. Al colpo di pistola dello starter, quelle gambe che paiono infinite cominciano a muoversi, a mulinare falcate inverosimili, a disegnare arcate perfette. Le avversarie ci provano anche a starle dietro, ma possono solo ammirare Wilma andare via e volare verso il traguardo. Il cronometro si ferma a 11 secondi netti. Sarebbe il record mondiale, ma non viene omologato a causa del vento, del Ponentino. Il Ponentino, quel pomeriggio del 2 settembre, è stato spazzato via dal Tornado del Tennessee. E però, dinnanzi a quel soprannome gli italici cuori storcono la bocca. Non rende l’idea, non rende giustizia a quel misto di grazia, leggerezza, agilità, a quello spettacolo di armonia ancestrale a cui hanno avuto il privilegio di assistere. Macché Tornado, d’ora in avanti Wilma Rudolph sarà la Gazzella Nera. Punto e basta. «Mi piace. La gazzella è un animale orgoglioso che cammina a testa alta» risponde lei a chi le chiede se è soddisfatta di quel nomignolo. Tre giorni più tardi, la Gazzella Nera è di nuovo ai blocchi di partenza sulla pista rossa dello Stadio Olimpico. Stavolta la distanza è raddoppiata: si corre la finale dei 200 metri. Tutti attendono di rivedere il miracolo sprigionarsi da quelle gambe. Ma nessuno può immaginare che quelle gambe, un miracolo, lo sono davvero. Wilma nasce nel 1940 a Clarksville, una cittadina nel cuore del Tennessee. Il padre è un facchino delle ferrovie, mentre Blanche, la madre, lavora come cameriera in una famiglia di bianchi. Wilma nasce di parto prematuro, ma non è quello il problema. Il problema arriva verso i 4 anni, quando le diagnosticano una grave forma di poliomielite che le blocca gli arti inferiori. Alle gambe della piccola Wilma vengono applicati due rigidi supporti di ferro. «Il medico disse a mia madre che non avrei più camminato – racconta Wilma nella sua autobiografia – ma mia madre non ci volle credere e mi disse che sarei guarita. Finii per credere a mia madre». Ma tra il dire e il fare… Siamo nell’America profonda, in piena segregazione razziale. Gli ospedali di zona curano solo i bianchi, non i neri. Certo, ci sarebbe il Meharry Hospital. Lì sì hanno un’equipe di medici neri che potrebbe aiutare Wilma. C’è un piccolo particolare, però: il Meherry Hospital è a 50 chilometri da Clarksville, lontano laggiù, poco fuori Nashville. Blanche, la madre di Wilma, non si perde d’animo. Per due volte a settimana accompagna la figlia avanti e indietro dall’ospedale, sul fondo di un autobus Greyhound, nei posti riservati ai neri. E se l’autobus, un giorno non passa, Blanche prende la bicicletta, si carica Wilma sulla canna, e se li fa pedalando quei 100 chilometri, andata e ritorno. La piccola Wilma, per alleviare le fatiche della madre, le canta canzoni blues che sa che le piacciono tanto. Per isolarsi e restare concentrati nei minuti che precedono la gara, oggi, gli atleti ascoltano musica dentro cuffie gigantesche. A me piace pensare che quel pomeriggio del 5 settembre, prima della finale dei 200 metri, Wilma sussurri tra sé e sé una di quelle canzoni blues che cantava alla madre sulla canna della bici. Perché quando parte la gara, Wilma, concentrata lo è eccome. Non parte fortissimo, in verità. Alla curva è ancora insieme alle altre. Ma quando arriva il rettilineo non ce n’è per nessuna. Ed ecco, di nuovo, ripetersi il miracolo di quelle gambe che si distendono e la fanno letteralmente levitare verso la seconda medaglia d’oro. Proprio quelle gambe che erano rimaste bloccate per cinque lunghi anni dentro rigidi supporti. Cinque anni. Tanto è durato l’andirivieni dal Meherry Hospital. Cinque anni sono durati i massaggi a cui Wilma ha dovuto sottoporsi, quattro volte al giorno. A farglieli non è mamma Blanche, però. Lei deve andare a servizio nella casa dei bianchi. Sono i fratelli di Wilma a sobbarcarsi il lavoro. Un po’ per uno, alla fine, non è un sacrificio enorme, visto che in tutto, tra maschi e femmine, sono 22. La staffetta di massaggi fra fratelli, insieme alle cure del Meherry, alla fine produce i suoi frutti. A 9 anni Wilma può finalmente levare i supporti che le stringono le gambe. Non può correre ancora, però. Nei due anni che seguono, dovrà portare un paio di ingombranti scarpe ortopediche con rialzo. Del lavoro di squadra dei suoi fratelli e sorelle, di quella staffetta di mani che hanno massaggiato a turno le sue gambe malate, deve essersi ricordata Wilma, alla vigilia della sua terza gara olimpica: una staffetta per l’appunto, la 4×100. Quando il testimone arriva fra le sue mani, all’ultima frazione, le americane sono indietro. Ma, se le sue compagne, esattamente come i suoi fratelli anni prima, si sono date il cambio per portare il testimone fino a quel punto, fin dove potevano arrivare, ora sta a lei dare un senso a tutto quel lavoro. Il cambio non è perfetto, anzi. Wilma prende il testimone dalla compagna che la precede, Barbara Jones, almeno un metro prima. Questo significa meno slancio, meno rincorsa, meno velocità. Un po’ come quando da bambina gli altri bambini correvano e lei rimaneva ferma…Ma ora le sue gambe sono libere, libere di andare veloci, sempre più veloci. E allora Wilma corre, corre, corre. Dopo pochi metri ha già raggiunto la tedesca, Jutta Heine. In due falcate la sorpassa, e poi fila come una freccia verso il traguardo. Per la terza volta la Gazzella Nera taglia in solitaria il filo di lana. Non si era mai visto nulla di simile. Al suo ritorno negli Stati Uniti, Wilma Rudolph viene ricevuta con tutti gli onori alla Casa Bianca. Ma lei, all’appuntamento con il presidente Kennedy e il suo vice Lyndon Johnson, non si presenta mica sola. Al suo fianco, vestita di tutto punto in tailleur e cappellino, c’è sua madre Blanche, la donna che un giorno lontano contro tutto e tutti le aveva predetto che sarebbe guarita. E che l’aveva scarrozzata avanti e indietro dall’ospedale per cinque anni e tanti, tantissimi chilometri. E che, prima ancora che nella medicina, aveva creduto nella propria forza di volontà, in quella di sua figlia e di tutti gli altri fratelli che aveva cresciuto. Le tre medaglie d’oro, in fondo, erano anche un po’ sue. Anzi, parecchio sue. In sei giorni di un’indimenticabile estate romana, Wilma Rudolph ha conquistato tre medaglie d’oro alle Olimpiadi. Nessuna donna prima di lei era riuscita in una simile impresa. Forse perché nessuna come lei aveva sognato per così tanto tempo di correre, correre e basta, per la sola gioia di essere in grado di farlo. Ed è quella gioia che Wilma vuole continuare a trasmettere. Le gare, le medaglie, le vittorie contano, ma quella gioia vale di più. Così Wilma si ritira dall’agonismo prestissimo, a soli 23 anni. Ha una figlia e, in tasca, un diploma per insegnare ginnastica alle bambine delle scuole elementari.  Sarà quello che farà per il resto della vita.

·        50 anni dalla Woodstock italiana.

Paolo Giordano per il Giornale il 27 agosto 2020. Sulla carta era il concerto più spettacolare della storia: i Pink Floyd su di un palco galleggiante a Venezia davanti a San Marco. In realtà si è rivelato lo show più contestato di sempre, roba che oggi ci farebbero decine di talk show e miliardi di post sui social, ma che allora sfociò «soltanto» in interpellanze parlamentari e polemiche sui giornali. Dunque. Dopo alcuni concerti italiani, i Pink Floyd accettarono la proposta del promoter Fran Tomasi di tenere proprio a Venezia uno dei concerti conclusivi del A Momentary Lapse of Reason European Tour. Il 15 luglio 1989. Festa del Redentore, tradizione massima della Laguna. Il palco era galleggiante nel bacino di San Marco davanti al Palazzo Ducale. Gli spettatori che effettivamente seguirono l'evento, tra quelli sulle imbarcazioni e quelli stipati nella piazza della Basilica, furono poi circa duecentomila. Il concerto fu trasmesso in mondovisione per circa cento milioni di spettatori, compresi quelli dell'Urss alla vigilia della fine e quelli delle due Germanie (Est e Ovest) alla viglia della riunificazione. Solo negli Stati Uniti il kolossal dei Pink Floyd fu seguito da 20 milioni di spettatori. In Italia furono più di tre milioni e mezzo, con uno share del 30 per cento per un investimento della Rai pari a un miliardo di lire circa, insomma mica bruscolini. Ma a fare la differenza tra un concerto-evento e un concerto-caso è stata come sempre la politica. Tanto per capirci, il sindaco di Venezia non firmò mai l'ordinanza che autorizzava il concerto. Ci pensò il vicesindaco Cesare De Piccoli ma appena un'ora prima che la band salisse sul palco, quando ormai molti avevano perso le speranze anche se la piazza era già strapiena di pubblico. Fu il momento più teso dopo mesi di polemiche sull'opportunità di tenere un concerto rock in uno dei luoghi più suggestivi del mondo e di tenerlo davanti a così tante persone che avrebbero potuto danneggiare il patrimonio artistico di uno dei posti più belli e invidiati da secoli. L'amplificazione dei Pink Floyd fu pesantemente penalizzata, visto che non avrebbe potuto superare la barriera dei sessanta decibel (oggi sarebbe quasi ridicolo). E la stessa scaletta del concerto fu compressa e ridotta per esigenze televisive e satellitari. Come abituale in Italia, i Pink Floyd interessavano alla politica soltanto in vista di qualche scadenza elettorale o di qualche programma di investimenti. In questo caso, l'allora vicepresidente del Consiglio Gianni De Michelis sognava di candidare la sua Venezia a Expo 2000 e quindi era stra favorevole alla vetrina planetaria che la città si sarebbe garantita in tutto il mondo. Mezza Democrazia Cristiana e i proto ambientalisti non erano invece d'accordo e c'è da capirli: le prospettive musicali erano superlative, ma quelle logistiche lo erano molto meno. E difatti il concerto dei Pink Floyd si è trasformato in uno dei casi più eclatanti della storia del rock. Attenzione: la musica c'entra poco. Il concerto dei Pink Floyd è stato superlativo, anche se compresso nei tempi, con un set di luci e una scaletta da mettere i brividi a chiunque ami la musica. Per capirci, la scaletta prevedeva soltanto 14 brani tra i quali Shine On You Crazy Diamond, Learning to Fly, The Great Gig in the Sky, Wish You Were Here, Money, Another Brick in the Wall (Part 2) e Comfortably Numb. Ossia praticamente una benedizione rock. Ma, una volta andato in scena il concerto, a scatenare le vere polemiche fu ciò che le telecamere inquadrarono dopo che la musica era finita. Uno sfacelo. Immondizia dappertutto. Ragazzi per terra in mezzo alle bottiglie vuote. Le immagini sono impietose e circolano ancora adesso dopo trent' anni. Si calcolarono circa trecento tonnellate di rifiuti e cinquecento metri cubi di lattine e bottiglie vuote, che peraltro l'Amiu locale iniziò a raccogliere soltanto due giorni dopo, con l'aiuto dell'Esercito. Patatrac. La giunta comunale si dimise, anche se pochi giorni dopo il Consiglio comunale rielesse una nuova giunta sostanzialmente identica. In ogni caso, il concerto di Venezia dei Pink Floyd è probabilmente l'evento rock politicamente più contestato di sempre ed è diventato «il caso principe» nelle discussioni in merito agli eventi musicali in luoghi d'arte aperti a un pubblico immenso. David Gilmour, che non è soltanto uno dei chitarristi più decisivi del rock ma è anche il vero depositario della storia di questa band, ha fatto così il proprio bilancio: «Ci siamo divertiti molto, ma le autorità cittadine che avevano accettato di fornire i servizi di sicurezza, i servizi igienici e il cibo hanno completamente rinnegato tutto quello che dovevano fare e poi hanno cercato di incolpare noi di tutti i problemi successivi». Insomma il solito copione: il rock va in scena ma il concerto delle polemiche inizia sempre dopo.

Marcello Sorgi per "La Stampa" l'8 agosto 2020. Mezzo secolo fa, nell'estate del 1970, Woodstock a sorpresa si trasferì a Palermo. Nel senso che gli stessi artisti, non tutti, ma una buona rappresentanza, che avevano suonato e cantato esattamente un anno prima nel festival che segnò per sempre la storia del rock e la nascita di una nuova generazione di giovani hippies, scelsero la più meridionale delle capitali europee per celebrare lo stesso rito. Ignari di trovarsi in un territorio ad alta densità mafiosa, con un'amministrazione comunale sulla quale dominavano già don Vito Ciancimino e Salvo Lima, di lì a poco giustiziato dai corleonesi, si avventurarono nell'organizzazione del festival «Palermo Pop '70», che malgrado tutte le difficoltà, immaginabili e non, si risolse in un trionfo: ottantamila ragazzi sotto la luna e le stelle siciliane, avvolti dal profumo dei gelsomini. Ragazze uscite di casa con abiti castigati imposti dalle mamme e minigonne inguinali nascoste nelle borse. Una distesa di corpi, sudore denso di ormoni, canne, desiderio, balli estenuanti di gruppo, oltre, ovviamente, a sesso consumato all'aria aperta. Chi c'era e ancora se ne ricorda sostiene che le occupazioni del '68, a paragone, erano una cosa per educande, e nessuno avrebbe mai previsto una tale ondata di trasgressione e libertà in una delle città più ancorate, a quei tempi, al rispetto dell'educazione all'antica. Un'esperienza che chiudeva idealmente gli Anni Sessanta dei Beatles e dei Rolling Stones. Nell'Italia preda della rivolta studentesca delle scuole e delle università, e di quella operaia dell'«autunno caldo», di quel periodo era giunto solo qualche refolo, e i primi «long playing» a 33 giri. L'atto conclusivo del decennio si era consumato il 10 aprile, con l'annuncio di Paul Mc Cartney della sua uscita dai Beatles. A Palermo, proprio in quei giorni, era arrivato un singolare personaggio siculo-americano, Joe Napoli, deciso a importare in Sicilia la formula collaudata per anni in Belgio del suo jazz festival, frequentato da un gruppo di talentosi jazzisti siciliani, come Claudio Lo Cascio, Enzo Randisi, Renato Emanuele, Gianni Cavallaro, che avrebbero fatto parlare di sé, e da un'aristocratica di indole mecenatesca, Silvana Paladino, che viveva in una torre saracena in riva al mare con il marito Cecè, ultimo erede della dinastia Florio. Poliglotta, frequentatrice della «swinging London» e appassionata di musica, Silvana si era incuriosita di Woodstock, ed era andata a vivere quell'esperienza con Joe. Insieme si erano visti passare sotto gli occhi scene che altri avrebbero potuto vedere solo nel film, rimasto famoso, su quei giorni: Ravi Shankar. Arlo Guthrie, Joan Baez incinta al sesto mese. E poi Janis Joplin, Grateful Dead, Credence Clearwater Revival, Pete Towsend talmente invasato che, quando qualcuno gli si avvicinava per convincerlo a lasciare il palco, lo prendeva a chitarrate in testa. L'idea di riproporle a Palermo, divenne un sogno inconfessabile. Napoli era un impresario musicale di esperienza californiana. Portava in giro per il mondo, tra gli altri, Chet Baker, uno dei più grandi jazzisti conosciuti. A Londra aveva fondato un'etichetta musicale, la Stallion, ed era sempre a caccia di nuovi progetti: così si innamorò di quello di Silvana, e forse un po' anche di lei. Joe parlava un mix di inglese e dialetto siciliano. Mangiava solo zuppe Campbell «pork an beans», fagioli in ragù di maiale. E aveva il vezzo di americanizzare i nomi di tutti i suoi interlocutori: «Drinkwater» per Paolino Bevilacqua, il democristiano ex-sindaco di Palermo che, prima di capire a cosa andava incontro, decise di finanziare il Festival con i fondi dell'Azienda autonoma di turismo, un'istituzione fino allora impegnata nelle festività religiose dei santi patroni; «Goodwoman», Sergio Buonadonna, il critico musicale de L'Ora autore del delizioso libro Quando Palermo sognò di essere Woodstock da cui sono tratti questi aneddoti; «Richard Lamb», Riccardo Agnello, un altro membro decisivo dell'organizzazione. L'unico con un vero cognome americano era Johnny Toogood, «troppobuono», il socio di Joe. Dal 17 al 19 luglio 300 artisti si esibirono davanti alla folla di ragazzi e ragazze sdraiati sul prato spelacchiato dello stadio della Favorita: c'erano Duke Ellington, Aretha Franklin, Phil Woods, Tony Scott, Johnny Halliday, Brian Auger, gli Exseption, Elsa Soares, Johnny Griffin, e gli italiani Little Tony, Nino Ferrer, Carmen Villani, Giusy Romeo. Il clou dell'esibizione fu quando Arthur Brown si denudò sul palco e venne portato via dai carabinieri. Fu l'unico degli ottantamila a finire all'Ucciardone. E a segnare la fine di Palermo Pop: qualcuno dei democristiani nemici di «Drinkwater», infatti, era andato a spifferare tutto al severissimo cardinale Ernesto Ruffini. In un soffio, fu cancellato qualsiasi aiuto pubblico a Joe Napoli, che dovette presto arrendersi.

·        50 anni dalla morte di Janis Joplin.

Marco Molendini per Dagospia il 4 ottobre 2020. Le storie disperate spesso possono più del talento. Nel senso che il dramma finisce per prendere il sopravvento su tutto il resto. Succede spesso nella musica piena di vite brevissime e tormentate, lampi accecanti, intensi come la voce di Janis Joplin che grida Try (Just a little bit harder) fino a sgolarsi bruciando le corde vocali. Mi sono chiesto spesso, come per altri artisti, insomma per quella biografia del maledettismo, quanto pesi sul giudizio l'inquietudine personale, la vicenda di una esistenza affrontata con ferocia, deliberatamente consumata in 27 anni e conclusa con un cocktail di eroina, morfina e Southern comfort. Se non fosse finita così, quale sarebbe oggi il ricordo di Janis? La domanda, ogni volta, ottiene una risposta inequivocabile, a raccontarla è una discografia brevissima, due album con i Big Brother e due da solista, gonfiata poi dopo la sua scomparsa con 27 fra live e raccolte, e da qualche video dove il suo grido ritrova il corpo, il viso sofferente di una donna più adulta dei suoi anni, incorniciato da una selva di capelli rossi che esaltano il suo spirito primordiale. Ecco, allora, la risposta: viene da una Summertime lunare strozzata in gola, dal canto amaro di Piece of my heart, dalla forza lancinante di Ball and chain canzone della blueswoman dell'Alabama Big Mama Thorton o da Me and Bobby Gee di Kris Kristofferson, con cui ha avuto una love story. La storia di Janis non poteva che essere irrimediabilmente questa: veloce come un grido, brutale come la disperazione, spericolata come il talento. Paradossalmente, le vite spezzate aiutano la memoria, che trova la strada spianata dai confronti, i confronti con gli anni che passano, le epoche che cambiano, gli stili che si succedono. La ragazza venuta dal Texas è spuntata al momento giusto, la sua stella è bruciata in quel triennio in cui è successo tutto, il tempo che ha visto una generazione decisa ad alzare la voce, che aveva voglia di protestare, che considerava lo sballo parte di quella protesta, il sesso come un manifesto, lo slogan peace & love il suo credo. E lei ha alzato la voce più degli altri, ha protestato, si è sballata, ha esaltato la sensualità, ha lottato per la pace, l'amore e l'uguaglianza. Lo faceva con il suo grido di ragazza bianca che cercava di avvicinarsi il più possibile  al graffio dei suoi idoli neri, lo screaming di Otis Redding, la potenza di Bessie Smith, il blues del Delta di Lead Belly, la fierezza di Odetta. Incarnazione bianca di un destino nero, versione scorretta dell'altra pasionaria della canzone in prima linea di quegli anni, Joan Baez dal canto cristallino, così lontano dal suo rantolo gonfio di angoscia. Il lamento di una donna confusa, infelice che aveva due sole medicine, la musica e la droga. L'urlo femminile di un'epoca, di una generazione, il primo se si escludono le sue eroine dalla pelle nera che non potevano far altro che gridare per essere ascoltate e per raccontare il proprio tormento. Si, le vite difficili spesso si sono sovrapposte alle capacità artistiche, a volte le hanno oscurate: il mito che si spalma sull'artista. Il rischio lo hanno corso tutti quei ragazzi del cosiddetto club dei 27, incatenati da un destino comune: da Jim Morrison a Kurt Cobain fino all'ultima maledetta, Amy Winehouse. Ricordati, rimpianti, celebrati, esaltati, cantati, sfruttati, assicurazione sulla vita dell'industria discografica dove ogni dramma è un business che si basa su un privilegio enorme che appartiene agli artisti: riescono a non morire anche quando muoiono. Janis Joplin, da quell'ultimo suo giorno infernale, proprio cinquant'anni fa, il 4 ottobre 1970 quando venne trovata incastrata fra il comodino e il letto nella sua stanza del Landmark hotel a Hollywood, è diventata un simbolo, spesso chiamata in causa per paragoni inesistenti (quante volte abbiamo sentito parlare della nuova Janis Joplin appena una si mette a gridare). Ancora oggi i suoi dischi continuano a vendere, a essere consumati (su Spotify ci sono più di 4 milioni di persone che sentono ogni mese le sue canzoni) e continuano a uscire libri e articoli. Qualche mese fa è stata pubblicata una biografia molto accurata che proclama l'accuratezza fin dal titolo, Janis -La biografia definitiva, scritta da Holly George Warren, mentre proprio per il cinquantenario della sua scomparsa ecco un'edizione limitata dedicata ai superfan, dove è riprodotto il taccuino con i suoi appunti privati. Ma l'industria del ricordo, lo sappiamo, non vive di soli anniversari. Forse, per ricordare la ragazza texana che sorrideva con tutta la tristezza possibile, la cosa migliore, dopo aver ascoltato la sua voce, è sentire Chelsea Hotel #2 di Leonard Cohen. I due si trovarono nella primavera del '68 nell'hotel di New York amato dagli artisti da Patti Smith a Robert Mappelthorpe, a Dylan Thomas, a William Burroghs, a Bukowsky, a Kerouac. Lui viveva nella stanza 424. Lei nella 411. Si incontrarono in ascensore. Sono finiti a letto. Due anni dopo lui ha scritto la canzone per ricordarla: «I remember you well in the Chelsea Hotel/You were famous, your heart was a legend/You told me again you preferred handsome men/But for me you would make an exception»: Ti ricordo bene al Chelsea hotel/tu eri famosa, il tuo cuore era una leggenda/mi hai ripetuto che preferivi gli uomini belli / ma che per me avresti fatto un'eccezione. Ha raccontato di quella notte Cohen: «Le ho chiesto: stai cercando qualcuno? Lei ha risposto: Si, sto cercando Kris Kristofferson. E io: Little Lady sei fortunata, Kris Kristofferson sono io. Erano tempi generosi». Ha raccontato Janis Joplin di quella corsa in ascensore: «Io vivo in modo facile. Lo fa un sacco di gente. Così ti trovi lì, che ti sbatti, ti dai. E poi, all'improvviso alle quattro del mattino capisci che quel culo flaccido, quel motherfucker sta dormendo accanto a te. Mi è accaduto. Due volte: con Jim Morrison e Leonard Cohen. E' strano, sono gli unici due che mi vengono in mente, fra la gente conosciuta, con cui ci ho provato, senza che mi piacessero davvero... solo perché sapevo chi erano e volevo conoscerli... e tutti e due non mi hanno dato nulla». E' vero Janis consumava la disperazione con la droga e il sesso. Una volta, raccontano le cronache, ci provò con un altro personaggio conosciuto: invitò a cena George Harrison e Pattie Boyd. Guardò George negli occhi e gli disse: «Ho sempre desiderato scoparti». Lui fece appello al suo spirito british: «Se mi dici così, non credo che sarei all'altezza delle tue aspettative».

·        50 anni dalla morte di  Jimi Hendrix.

Le note di Jim scoppiarono come le bombe del Vietnam. 50 anni fa moriva Jimi Hendrix, e con lui se ne andò la controcultura. David Romoli su Il Riformista il 18 Settembre 2020. Sarebbe certo un’esagerazione dire che tutti ricordano, come nel caso dell’assassinio di John Fitzgerald Kennedy, dov’erano quando li raggiunse la notizia improvvisa e inaspettata della morte di Jimi Hendrix, il 18 settembre 1970, a 27 anni. Ma per quella parte dei giovani occidentali che avevano meno di trent’anni, erano cresciuti a ritmo di rock’n’roll, ascoltavano musica dalla mattina alla sera, manifestavano per le strade, avevano dimestichezza, se non tutti molti, con la canapa indiana e con l’Lsd25, lo shock fu immenso. Meno di 20 giorni prima Hendrix aveva trionfato al Festival dell’isola di Wight, il più oceanico pop festival europeo. Sugli schermi era arrivato da poco il film realizzato a Woodstock nell’agosto del 1969. L’esibizione di Hendrix chiudeva il film e anche dal vivo il chitarrista di Seattle, nero ma con una certa quantità di sangue nativo nelle vene, era stato l’ultimo a salire sul palco. Gli ascoltatori si erano ormai ridotti da mezzo milione a circa 200mila ma fu lo stesso la sua performance a diventare il simbolo di quell’evento sociale e politico oltre che musicale. Il simbolo di Woodstock fu e resta ancora oggi la chitarra di Hendrix che imita i bombardamenti Usa sul Vietnam del Nord prima di lanciarsi in una furiosa versione del suo cavallo di battaglia Purple Haze. Guardando a ritroso, la quantità di Guitar Heroes di talento eccezionale che dominavano la scena musicale era allora enorme: Allman, Bloomfield, Clapton, Page, Beck, Green, Santana solo per citarne alcuni. Ma Hendrix era andato oltre la qualifica di chitarrista straordinario. Aveva cambiato una volta per tutte il suono stesso della chitarra elettrica. Su una base blues e rock aveva introdotto le distorsioni, l’uso del feedback come risorsa invece che come sgradevole rumore, il ricorso a tutti gli accorgimenti tecnologici in grado di modificare il suono originale. Era un grande musicista rock, l’erede dei grandi bluesmen, il pioniere dell’elettronica. Eric Clapton ricorda quando si trovarono, lui con i Cream, Hendrix con gli Experience, due terzetti chitarra-basso-batteria, nella stessa sala d’incisione a Londra. I Cream erano l’alta aristocrazia del rock e ci tenevano a segnalarlo già dal nome della band. Gli Experience degli sconosciuti. Hendrix suonò, racconta Clapton «in tutti gli stili immaginabili. Poi scese dal palco e la mia vita non fu mai più la stessa». Quella notte Jack Bruce, bassista dei Cream, scrisse il pezzo più famoso del gruppo, Sunshine of Your Love, dedicato proprio alla nuova stella ascendente. Per rintracciare un caso paragonabile a quello di Hendix bisogna risalire fino alla rivoluzione di Charlie Parker nell’uso del sax col bebop, negli anni 40, e forse a Coltrane negli stessi anni 60. Ma la lista si ferma lì. A rendere la morte di Hendrix un trauma generazionale non fu solo la sua statura artistica. Nella storia del divismo gli anni 60, in particolare la seconda metà del decennio, rappresentano un caso unico di comunicazione orizzontale invece che verticale tra le star e il loro pubblico. Solo in quella fase l’abituale tendenza dei fans a imitare i loro idoli fu rovesciata. Erano i divi a imitare il loro pubblico. A vestirsi e parlare come i fans. A cercare di imporre un’immagine identica a quella delle migliaia di giovani di fronte ai quali suonavano. Nel 1970 Hendrix era il musicista più pagato del mondo, ma era visto dai ragazzi che lo applaudivano ed esaltavano come uno di loro. Era uno dei tanti giovani che manifestavano contro la guerra vestiti da zingari. Usava le stesse droghe psichedeliche. Condivideva lo stesso immaginario modellato sui fumetti e sulla fantascienza. Un hippie che con la chitarra in mano diventava magico. Il pubblico non vedeva dunque solo le rockstar come divi ma come suoi rappresentanti. Hendrix, per una serie di circostanze in parte fortuite, riassumeva anche i vari e a volte inconciliati aspetti della controcultura dell’epoca. Era un nero che suonava la musica dei ragazzi bianchi, il rock, anche se in realtà l’influenza del blues è marcata anche nella fase più psichedelica e nell’ultimo anno di vita il chitarrista avrebbe cercato di riconquistare il pubblico nero con una musica molto più segnata dalle influenze del jazz, del blues e del funky. Era un artista americano che aveva conquistato la fama nel Regno unito, con una band inglese, capace dunque di mettere in comunicazione diretta le due sponde dell’Atlantico. L’America del Movement e l’Uk della Swinging London. Fino al 1966, dopo essere stato messo alla porta dall’esercito perché inidoneo alla disciplina militare, si era fatto le ossa suonando nelle backing band di vari musicisti, senza mai conquistare uno straccio di fama in proprio. Nel 1967 l’allora compagna del Rolling Stone Keith Richards lo aveva sentito suonare e portato dal manager degli Stones, Andrew Oldham, che non apprezzò e perse l’occasione di bissare il successo degli Stones. Chas Chandler, già bassista degli Animals diventato manager e produttore riconobbe invece il potenziale di Hendrix, lo portò a Londra, gli trovò un bassista, Noel Redding, e un batterista, Mitch Mitchell, creò i Jimi Hendrix Experience. In pochi mesi la nuova star conquistò l’Europa. Nel giugno 1967 al Festival di Monterey, all’inizio di quella che ancora oggi viene definita comunemente la Summer of Love, l’estate dell’amore, travolse anche il suo paese d’origine, non a caso concludendo un concerto scintillante con un pezzo americanissimo come Like a Rolling Stone di Dylan e uno molto inglese come Wild Thing dei Troggs.

Jimi Hendrix non è stata la prima star degli anni 60 a scomparire. Un anno prima, nel luglio 1969, era morto in circostanze misteriose Brian Jones, fondatore dei Rolling Stones e solo da pochi anni sappiamo che si trattò probabilmente di omicidio. Poche settimane prima di Hendrix era scomparso Alan “Blind Owl” Wilson dei Canned Heat. Ma solo con la scomparsa di quello che era allora forse il simbolo principale della controcultura arrivò la percezione che si trattasse non di una tragedia casuale e isolata ma della fine di un’epoca.

Francesco Prisco per "ilsole24ore.com" il 18 settembre 2020. Se l’epopea del rock ha avuto una figura cristologica, questa è senza dubbio Jimi Hendrix. Per questioni di vita, morte e miracoli: sangue afroamericano e cherokee nelle vene, il Mancino di Seattle fu paracadutista a Nashville, patria del country, turnista rock and roll in giro per gli States con Little Richard, Ike e Tina Turner, bluesman incompreso a New York, fino ad arrivare nella Swinging London agli albori della psichedelia e, in quattro anni e quattro dischi, cambiare per sempre storia della musica e del costume. Con la chitarra in mano.

L’alieno con la chitarra elettrica. Un alieno piovuto sul pianeta da chissà dove che porta con sé un universo di suoni sconosciuti per poi togliere il disturbo, altrettanto improvvisamente, nella stanza di un residence londinese, intestata alla compagna Monika Dannemann. Più di Jim Morrison, membro come lui del J27, il club delle rockstar maledette scomparse a 27 anni, Hendrix si è imposto nell’immaginario collettivo come il fondatore di una vera e proprio religione, una Electric Church, avrebbe detto lui. Se ne andò il 18 settembre 1970, esattamente 50 anni fa, in circostanze non troppo chiare che hanno dato lavoro a biografi come Harry Shapiro e registi-fan come Carlo Verdone che, proprio alla fine di Jimi, dedicherà il film Maledetto il giorno che t’ho incontrato (1992).

The Story of Life: tra dischi volanti e angeli del cielo. Stesso tema al centro di The Story of Life – Gli ultimi giorni di Jimi Hendrix, saggio scritto a quattro mani da Enzo Gentile e Roberto Crema (Baldini & Castoldi, euro 20, pp. 336) che ricostruisce l’ultimo mese e mezzo di vita del fondatore degli Experience, trattandolo a tutti gli effetti come il fondatore di una nuova religione. A cominciare dal titolo: The story of life era l’ultimo testo scritto da Jimi, nel quale favoleggiava di angeli del cielo e dischi volanti, ma era anche il concept di un progetto musicale per la cui copertina immaginava una croce composta da volti di ogni razza e religione: Jfk e Martin Luther King, Buddha e Geronimo, Hitler e, al centro, lo stesso Hendrix.

Esce il «Live in Maui». Intanto arrivano novità anche sul versante delle uscite discografiche. Dal 20 novembre esce il film Music, Money, Madness... Jimi Hendrix in Maui, accompagnato dall’album Live in Maui. Il film racconta la storica visita della band Jimi Hendrix Experience a Maui nel 1970 e di come rimasero intrappolati nelle registrazioni dello sfortunato progetto Rainbow Bridge. Il Blu-ray include il documentario completo e i bonus con tutte le riprese cinematografiche a colori 16 millimetri delle due esibizioni di quel pomeriggio, mixate sia in stereo che in surround 5.1. Inclusa nel box anche la versione audio Live In Maui, entrambi i set distribuiti in 2 cd o 3 lp, recentemente restaurati e mixati dall’ingegnere storico di Jimi Hendrix Eddie Kramer e masterizzati da Bernie Grundman.

L’Isola di Wight e il (brutto) tour in Europa. Sono giorni difficili, gli ultimi di Hendrix: è indebitato fino al collo per la costruzione degli Electric Lady Studios, non sopporta più il giogo del manager Mike Jeffery, ex agente segreto del MI5 agganciato con la mafia, parte per un tour europeo che lo porta all’Isola di Wight, poi in Scandinavia e Germania. Conteso dalle groupie, assediato da giornalisti e cause di paternità, consumato dalle droghe. Sul palco sono più le serate no: il bassista Billy Cox dà forfait dopo un brutto trip, lui non ne può più e sogna un futuro di massimo quattro concerti l’anno, ripresi dalle telecamere e proiettati in tutto il mondo.

Quella tragica «prova del nove». Ha una vita eccezionale ma la baratterebbe per un po’ di normalità: chiede a entrambe le ultime sue compagne di sposarlo, sogna di fondere il rock con Wagner e Strauss, progetta un disco orchestrale con Gil Evans e Miles Davis. Poi esagera con i sonniferi per riuscire a prendere sonno dopo qualche anfetamina di troppo. Si addormenta accanto alla sua donna, nudo con un crocifisso al collo, dopo aver discusso di reincarnazione. Forse è stato un incidente o forse l’autore di If six was nine ha deciso di sfidare la sorte con nove compresse di Vesparax, il giorno 18 (9+9) del nono mese dell’anno. I simboli e una prova di passaggio da superare: le religioni si fondano così. Primo giorno dell’anno, prima ricorrenza rock: l’1 gennaio 1970, esattamente 50 anni fa, al Fillmore East di New York si tennero i leggendari concerti di Jimi Hendrix con la Band of Gypsys, live act che avrebbero dato origine all’omonimo album capolavoro intorno al quale si addensa ancora oggi una fitta coltre di mistero, tra beghe discografiche e fantomatici progetti di eversione politica.

Il mistero di Band of Gypsys. Il progetto Band of Gypsys, malgrado altissimi esiti artistici, rappresenta infatti una delle pagine più oscure dell’intera biografia hendrixiana. Gli Experience, il gruppo inglese (Noel Redding al basso e Mitch Mitchell alla batteria) con il quale il Mancino di Seattle aveva inciso tre album in studio e conquistato il mondo, si erano ormai sciolti. Acqua passata era pure il set di Woodstock, con un Jimi in forma strepitosa al timone di una curiosa formazione denominata Gipsy Sun and Rainbows (al basso Bill Cox, commilitone al tempo dei marines, alla batteria lo stesso Mitchell, alla chitarra ritmica Larry Lee e alle percussioni Juma Sultan e Jerry Velez). Hendrix è universalmente riconosciuto come la quintessenza della chitarra rock, guadagna profumatamente e, come spesso e volentieri accade in circostanze del genere, dal suo passato cominciano ad affiorare fantasmi in doppio petto che, carte bollate alla mano, si mettono a parlare del dare e dell’avere.

Quel contratto con la Capitol. È sotto contratto con la Polydor ma esce fuori che deve un disco alla Capitol, per un foglio di carta di troppo che firmò nel 1965, quando famoso non era e vivacchiava di serate nei locali. Cosa fare per svincolarsi? Come sempre nella sua breve vita di artista, Jimi sceglie la strada meno ovvia e proprio per questo più accattivante: una nuova band, sei nuovi pezzi da interpretare dal vivo, in maniera da perdere meno tempo possibile e non «consumare» fino in fondo il tradimento alla Polydor imposto per vie legali. Già, la nuova band: ancora una volta un trio. Ancora una volta Bill Cox al basso. Alla batteria Buddy Miles che con le bacchette è un funambolo e dietro al microfono un interessante cantante soul. Entrambi neri come lo stesso Hendrix, nelle cui vene scorre sangue africano e cherokee.

Il blitz delle Pantere Nere. Già, la negritudine: particolare, quest’ultimo, che ha fatto circolare intorno alla Band of Gypsys non poche leggende metropolitane. La più nota vuole che la nuova formazione venisse imposta a Jimi nientemeno che dalle Black Panther, il partito rivoluzionario per l’emancipazione dei neri d’America, attraverso un vero e proprio blitz. Alcuni militanti del gruppo estremista avrebbero, infatti, fatto visita a Hendrix al termine di un concerto, accusandolo di essere un «coco-nut» (alla lettera «noce di cocco», nero fuori e bianco dentro, massimo insulto per la comunità afroamericana del periodo) ed estorcendogli l’impegno di una militanza più consapevole, a partire dall’attività on stage. La costituzione della Band of Gypsys nascerebbe così da un diktat delle Pantere Nere cui Hendrix, esplicitamente minacciato, non avrebbe potuto sottrarsi.

Le incertezze della notte di San Silvestro. A supporto della tesi l’esito balbettante dei due concerti che il trio tenne, sempre al Fillmore East, la notte di San Silvestro del ’69: Jimi doveva essere non poco nervoso. Tutt’altra musica nelle esibizioni del giorno successivo, aperta da Who knows con Hendrix che duetta con Miles e poi incendia il teatro grazie a un utilizzo sapiente del pedale wha-wha. Il batterista mette la firma su due pezzi (Changes e We gotta live together) ma è nell’inno pacifista Machine gun e nell’idillio hippie Message to love che il concerto prende il largo verso orizzonti sonori mai esplorati prima di allora. Difficile trovare, in tutta la storia del rock, un disco dal vivo così potente, raffinato ed essenziale come Band of Gypsys.

Il box con tutto il materiale del Fillmore. Per gli adepti del culto hendrixiano, Sony ha appena pubblicato il box Songs For Groovy Children: The Fillmore East Concerts che nelle versioni da cinque cd o otto Lp riunisce tutto il materiale delle due date live. Restano le leggende metropolitane sulla genesi di Band of Gypsys. A sfatarle potrebbe essere soltanto lo stesso Jimi Hendrix che – del tutto ignaro di ciò che gli sarebbe capitato di lì a qualche mese - l’1 gennaio 1970 stava festeggiando l’ultimo Capodanno della sua vita. Purtroppo per lui, ma soprattutto per noi.

MARINELLA VENEGONI per la Stampa il 15 settembre 2020. Jimi Hendrix e Patty Pravo, si incontrarono al Piper una notte di primavera del 1968 e legarono subito. Nacque un' amicizia che durò fino alla morte del leggendario chitarrista, rivela ora Nicoletta. Con la sua vita spericolata, Patty ha accumulato una quantità di ricordi che inevitabilmente sfumano e si perdono nei particolari ma non nella sostanza: «Ho incontrato Jimi due o tre giorni prima che morisse, a Londra, in un bar sotto l' albergo dove viveva in quel periodo, a Notting Hill: mi disse che era un albergo fatto di appartamenti». Era il Samarkand Hotel: lui stava al ben più elegante Cumberland di Kensington, ma quella era l' abitazione della sua ragazza del momento, Monika Dannemann, che era con lui nelle ultime ora di vita, la notte fra il 17 e il 18 settembre 1970. «Quel pomeriggio - ricorda Patty - si sfogò un po' con me. Si lagnava, anzi. Mi disse che era stufo della musica che faceva, e annoiato di fare il fenomeno: gli chiedevano sempre tutti di dar fuoco alla chitarra, o di suonare la sua Fender con l'asta del microfono o i denti». Come aveva fatto per la prima volta al Festival di Monterey nel 1967, quando la sua popolarità esplose. Patty ricorda benissimo che Hendrix già pensava un nuovo progetto: «Aveva in mente di lavorare con una grande orchestra, e cimentarsi con un' altra musica. Qualche giorno dopo ho saputo che non c' era più». Ma l' aneddoto più divertente riguarda la sera che i due si conobbero. Il 25 maggio la star di Seattle si era esibita al Brancaccio, poi lo avevano accompagnato al Piper che era il locale più alla moda. Sui sofà della zona riservata, spiccava la bellezza splendente di Nicoletta Strambelli; Jimi si sedette accanto a lei e al batterista Alberto Marozzi: «Un grande piperino di sempre - annota Patty - e l' unico fra noi che possedeva una 500, bianca. Jimi dopo un po' chiede di uscire per Roma, e vederne la bellezza. Alberto guida, io sono al suo fianco, dietro Hendrix cercava di trovare una posizione per le sue gambe lunghe». «E via, tutta le notte in giro per mostrargli Roma. Ma ci accorgiamo che è pieno di posti di blocco. Stanno cercando Vallanzasca, ci diranno poi i vigili». Succede che, appena messa in moto l' auto, Jimi accende uno spinello enorme: «Ci sono i finestrini aperti, un po' ci passiamo questo cannone, e intorno all' auto si alza un alone di fumo bianco: ma così denso che alcuni vigili in pattuglia lo notano e ci fermano. Apro la portiera e mi affaccio, chiedo subito: "E' successo qualcosa?". Per fortuna, riconoscono me e non lui, e ci lasciano andare. E noi proseguiamo la nostra gita per Roma: verso le 5 del mattino ci siamo fermati in un bar a mangiare un cornetto. Da allora ci siamo visti alcune altre volte, sempre in qualche bar: ricordo anche un pomeriggio a Parigi, a chiacchierare di musica e sogni».

Lei lo ha mai visto alterato?

«Non è che si facesse così pesantemente, credo. Non ho mai visto nei suoi comportamenti nulla di eclatante, mi è sempre sembrato uno normalissimo. Era una persona dolce, aveva il suo ego normale essendo nel pieno del successo». 

E lei com' era, Patty, nel 1968?

«Anch' io nel pieno del successo. Era il momento della Bambola. Ero bella aggressiva, ero curiosa, con un carattere positivo e molto sorridente per fortuna, grazie a una nonna favolosa. Venivo dal conservatorio ed ero abbastanza stronza. Con la mia conoscenza musicale mettevo tutti a posto, è chiaro fossi piena di me».

C' è stato un flirt, con Hendrix?

«Stavo con Gordon Faggetter, batterista, che purtroppo da tre settimane non c' è più. Ero innamoratissima, eravamo insieme dal '65. E no, non l' ho mollato per Jimi, c' era molta simpatia ma non è successo nulla. Volevo andare a sentirlo nel '70 all' Isola di Wight, ma avevo troppi impegni».

·        50 anni dalla separazione dei Beatles.

Quel giorno triste in cui la musica di Lennon tacque per sempre. L’8 dicembre del 1980 la fine di un mito. Sergio Lorusso su La Gazzetta del Mezzogiorno l'8 Dicembre 2020. John quella mattina si svegliò canticchiando un motivetto che non conosceva. Non il solito Nobody told me, che lo accompagnava negli ultimi mesi, ma qualcosa di ineffabile e inafferrabile. Pensò a Paul, a quando Yesterday aveva visto la luce dopo una notte tranquilla e convenzionale. L’usuale che aveva generato l’eccezionale. Una fusione perfetta fra lo scorrere del tempo e uno spartito. Era nata così, di getto, quasi come fosse il frutto di una scrittura automatica. Paul lo raccontava spesso, una maniera davvero insolita di creare una canzone. A Wimpole Street, dove viveva con Jane Asher, la sua ragazza dell’epoca, in un attico nel quale era riuscito a far entrare – non si sa come – un pianoforte. Si era svegliato una mattina qualsiasi e su quel pianoforte aveva trovato le note della canzone, sognate nella notte. Non sapeva se fosse una canzone già esistente ma che non conosceva: lo chiese a molti amici, dubitando che fosse opera della sua creatività. Nessuno, però, l’aveva mai sentita. Alla fine, quindi, la fece propria. E Scrambled Eggs (questo il titolo originale) divenne uno dei più grandi successi di sempre. «Io non sono da meno rispetto a Paul. Anzi, si sa, sono molto più geniale di lui», disse fra sé e sé ridacchiando mentre inforcava i suoi classici occhialini. «Ecco, allora. Vieni allo scoperto. Sei la canzone che aspettavo da tanto». Si sedette al pianoforte a coda bianco, cercando di fermare quelle note che gli rimbalzavano in testa come palline da ping-pong e che gli sembravano davvero molto belle. Ma niente. Pur battendo sui tasti, il silenzio della stanza non veniva infranto. I martelletti sembravano smorzarsi su sé stessi, invece di percuotere il ventaglio di corde che attraversa la cassa armonica. L’ambiente sembrava ovattato, ma più che assorbire ogni suono gli impediva di prender forma e di diffondersi nello spazio. Arginava sul nascere le onde sonore, delle quali si percepiva l’esistenza senza che però potessero essere catturate – come sempre accade – dall’udito. Era singolare vivere quella distanza totale dall’universo sonoro. In un attimo sentì di essere stato catapultato nella stanza di Imagine. Anzi ne era certo. Quella White Room stampata in maniera indelebile nell’immaginario collettivo da anni. E che aveva oscurato l’immagine e il ricordo della band. Yoko era lì, lo guardava intensamente, e insieme a loro un gruppo di ragazze e di ragazzi che indossavano delle t-shirt – bianche anche queste – con su scritto Peace and Love. E la nuova canzone? Iniziò a canticchiarla, e poi a suonarla al pianoforte a coda. Dunque c’era, esisteva davvero, e come nel caso di Paul ebbe il dubbio che fosse un brano scritto da qualcun altro. Il dubbio, però, durò solo qualche minuto. «È la mia canzone», si disse, «è molto più bella della sua. La chiamerò Peace, Love and You. Oscurerà Yesterday». Fra lui e Paul c’era sempre stato un grande affiatamento ma anche una grande rivalità, che lo scioglimento del gruppo non aveva attenuato. John continuava a pensare che l’amore avrebbe trionfato nel mondo. E poi, l’amore per Yoko, che per John era un amore cosmico. Quel titolo calzava a pennello. Voleva stringersi nell’abbraccio con i suoi fan, un abbraccio spirituale. Ma come faceva, con quel silenzio che fendeva ogni cosa, facendo più rumore di un boato, a immergersi tra tutta quella gente che lo reclamava? Ti faceva galleggiare in un’altra dimensione. «No music, no people!», pensò. Li osservò da una vetrata, capì dai loro gesti e dai loro movimenti che lo stavano osannando, invitandolo a scendere dal suo lussuoso appartamento nel Dakota Building. Si assopì per qualche minuto sul divano bianco che si trovava al centro della stanza. Poi, inaspettatamente, si sentì accarezzato da un accordo. Era un Fa maggiore. La musica era tornata. Le note erano tornate, erano di nuovo lì a fare giravolte nell’aria. Anche un passerotto fermo al di là della vetrata ricominciò a cinguettare. «Ecco», si disse, «tutto è tornato come prima. O almeno così sembra». «Forse è stato solo un sogno», pensò. «Ma tanto che importa. A che serve sapere cosa sia accaduto e perché (sempre che ci sia un perché)». Finalmente iniziò a rilassarsi, perché questa parentesi insolita nella quotidianità l’aveva reso teso. Anche se amava l’imprevisto. Ma la musica era la sua vita, il suo ossigeno, il suo carburante naturale. Non poteva stare senza. La folla continuava a vociare in una ressa indescrivibile. Probabilmente non aveva mai smesso. Anche se in quel mondo insonorizzato durato meno di una giornata non l’aveva potuta sentire. Era sempre rimasto stupito dall’amore delle sue fan e dei suoi fan. Un amore che si materializzava in occasione dei concerti o di qualche altra uscita pubblica, eppure rimaneva poi miracolosamente vicino, palpabile, afferrabile quotidianamente. E continuava ad essere stupito, dopo tanti anni. Nonostante il successo raggiunto in ogni parte del mondo, la notorietà universale che – insieme a Paul, George e Ringo – si era guadagnato in modo incredibile e misterioso, John in fondo era rimasto un timido, un introverso, un personaggio carismatico ma riservato che neanche la presenza della forte personalità di Yoko aveva smosso dalle sue radici. E, pur consapevole di essere diventato il guru delle giovani generazioni, viveva quella condizione con un misto di orgoglio e difficoltà. Continuava a sentirsi soprattutto un’artista, un musicista, un innovatore – anzi un sovvertitore – degli schemi del pop e del rock dell’epoca, un cavaliere di utopie del pentagramma. «Cosa faccio ora?», si chiese. I suoi fan, in fin dei conti, erano lì da ore, granitici e speranzosi. Decise di scendere tra la gente. E fu allora che la musica tacque. Un sibilo attraversò l’aria gelida di quella mattina. Un 33 giri lanciato come una sorta di scudo rotante, quasi ci fosse lì anche Captain America con la sua arma circolare a stelle e strisce, lo colpì come un fendente gettandolo a terra. E fu così che la musica di John tacque.

Marco Molendini per Dagospia l'8 dicembre 2020. La pistola di Mark David Chapman mi ha svegliato di mattina presto. Presto per i miei orari di giornalista. Un risveglio brusco, il telefono di allora aveva uno squillo penetrante, che uccide. «Pronto...».  Dall'altra parte c’è una voce flebile che conosco, è quella del mio amico e allora mio caposervizio Gigi Vaccari, ha un tono funeralizio e non mi dice nemmeno ciao: «Marco, hanno sparato a John Lennon». Gigi, non mi prendere in giro, sto dormendo.  «Corri al giornale» insiste. No, non sta scherzando. Ma è morto? «Si, un pazzo gli ha sparato sotto casa. Vieni che dobbiamo organizzare le pagine, saranno almeno due». Non è un fatto abituale, a quei tempi, fare due pagine per le cose di musica. Ma l'assassinio di John Lennon non è un fatto di musica, c'è di tutto dentro: musica, certo, costume, politica, violenza, turbamenti psichici. C'è l'idolo che viene abbattuto, c'è la storia dei Beatles, c'è il pacifismo di John e Yoko, c'è il fan che diventa assassino. Ci ritroviamo in redazione in quattro, Gigi, io, Paolo Zaccagnini e Fabrizio Zampa. Fabrizio, per allentare il clima, spara subito: «Ho già il titolo: Una pistola, ma non per Ringo». Ma ci dobbiamo dare da fare sul serio. E lo facciamo dando inizio, noi come gli altri quotidiani, a una nuova epoca del giornalismo musicale. Da allora riempire le pagine sarà più facile. Non c'entra direttamente l'assassino di John, ma l'evento segna uno spartiacque. C'è il dramma, c'è la reazione collettiva, anche questa inedita e destinata ad aprire una stagione. Si scatena il flusso emotivo. Debutta un genere: il funerale diffuso, con il pellegrinaggio al luogo dell'assassinio e la trasformazione di quel luogo in una sorta di santuario. Succederà di nuovo da allora in poi, molte volte. Il rito funeralizio si trasforma in uno spettacolo e non smetterà più di esserlo. E, intanto, John Lennon diventa un mito. Forse lo era già, ma quei cinque colpi sciagurati, sparati da uno sballato lo hanno reso immortale. Immaginiamolo oggi a 80 anni, stanco, invecchiato, non tinto come il suo partner Paul McCartney, che forse prova ancora a fare qualche disco. Immaginiamolo coi capelli bianchi e la mascherina anticovid che accudisce la moglie Yoko Ono, più grande di lui di sette anni, e che oggi ha bisogno di assistenza continuata. Immaginiamolo e riascoltiamolo, riandando a quel giorno tremendo che in Italia era ancora notte.

Un giorno pieno di impegni  nella vita dei Lennon. John si è alzato di buon umore quella mattina, la sua ultima mattina.

Alle 11 Anne Leibovitz bussa all’appartamento con quattro camere da letto e uno splendido affaccio sul parco, al settimo piano del Dakota building. È armata di macchine fotografiche. Deve fare un servizio per la rivista Rolling Stone. Un servizio destinato a diventare storico, non solo perché precede di poche ore il tragico epilogo, ma perché contiene uno degli scatti più celebri della storia del rock: Lennon nudo che abbraccia la moglie steso sulla moquette del pavimento.

 Alle 12 Paul Goresh, un amico di John, si presenta al Dakota e scambia due parole con uno strano tipo che si è  piazzato all'ingresso dell'edificio con in  mano una copia di Double fantasy, il disco appena uscito: è Mark David Chapman.

Alle 12,40 arriva una troupe della Rko radio per intervistare Lennon a proposito del nuovo album.

Alle 16,30 John e Yoko escono da casa con la troupe della Rko per andare al Record Plant studio a Midtown dove devono lavorare al singolo Walking on thin ice, destinato a un album di Yoko. Chapman, che è ancora lì ad aspettare, si avvicina a Lennon, con la sua copia di Double Fantasy  Paul Goresh lo spinge fisicamente  e lo incita: "Dai, è il tuo momento. Sei qui che aspetti da tutto il giorno, sei venuto dalle Hawaii… vai a prenderti il tuo autografo!”. Lennon orende il disco, lo firma, alza lo sguardo e dice a Chapman: “E’ tutto? Vuoi qualcos’altro?”. Intanto, Paul Goresh scatta un paio di foto di Lennon e del suo assassino.

Alle 17 i Lennon arrivano agli studi e si mettono a lavorare  alla nuova canzone con il producer Jack Douglas. John partecipa suonando le parti di chitarra  con la sua storica Rickenbacker 325, lo strumento usato nelle registrazioni di  Please Please Me, From Me To You, She Loves You. Il testo, scritto da Yoko, dice: Posso piangere un giorno/ma le lacrime si asciugheranno comunque/ e quando i nostri cuori ritorneranno cenere/ questa sarà solo una storia».

Alle 22,50 il lavoro in studio è finito, John e Yoko scendono da una limo che li ha riaccompagnati al Dakota,hanno deciso di fare ritorno a casa invece di andare direttamente a cena per dare la buonanotte a Sean prima di recarsi allo Stage Deli sulla settima. Chapman è ancora lí, li aspetta con il disco in mano, ora autografato. Appoggia Double Fantasy su una fioriera, tira fuori una pistola Charter Arms  38 special, comprata sei settimane prima in una svendita, e spara cinque volte. Colpisce John quattro volte, tre proiettili trapassano il polmone sinistro e l’arteria succlavia sinistra. Il quarto resta conficcato nell’aorta. John, ferito, fa qualche altro passo, cerca riparo salendo cinque gradini all’interno del palazzo, grida “I’m shot, I’m shot”, poi crolla a terra lasciando cadere i nastri con la registrazione appena fatta al Record plant. Yoko, terrorizzata, grida «Hanno sparato a John». Il portiere chiama la polizia mentre un’ambulanza trasporta Lennon  al vicino Roosevelt hospital sulla 59 ma strada. Chapman dichiarerà: «Ho sentito qualcuno nella mia testa che diceva fallo, fallo, fallo. Volevo essere importante, volevo essere qualcuno».

Alle 11,15 il responsabile del pronto soccorso si avvicina a Yoko e le comunica che ogni tentativo di rianimare John è fallito, all'ospedale è già arrivato morto. Lei ha una crisi, rifiuta di accettare la morte del marito: «Non è vero, non ti credo, sei un bugiardo», fa al medico. Poi superata la crisi chiede ai dottori di aspettare ad annunciare la morte di Lennon per darle tempo di preparare Sean.

Alle 11,32 (le 5,32 in Italia) La notizia viene resa pubblica dalla Abc interrompendo una partita di football americano.

Quarant’anni senza John Lennon. Così moriva il sogno di una generazione. Il Dubbio il 6 dicembre 2020. Mark David Chapman, il suo assassino, si dice pentito. Ma Yoko Ono non perdona: «Deve restare in carcere». A 40 anni dalla morte di John Lennon, il suo assassino, Mark David Chapman, resta in carcere, dove sta scontando l’ergastolo. Per l’undicesima volta, il tribunale di New York ha respinto in agosto la sua richiesta di libertà vigilata. Contraria al provvedimento di clemenza Yoko Ono, che era presente quando il marito fu ucciso nel 1980. Il suo avvocato ha riferito ai media americani che la vedova di Lennon ha inviato ai giudici una lettera «simile alle precedenti», confermando la sua opposizione. Già nel 2015, l’artista giapponese aveva spiegato a The Daily Beast, di provare paura all’idea della liberazione di Chapman. «Lo ha fatto una volta, potrebbe rifarlo. Potrebbe toccare a me, mio figlio Sean, o un’altra persona», aveva spiegato. Chapman, 65 anni, è stato condannato all’ergastolo, con la possibilità di libertà vigilata dopo 20 anni. A partire dal duemila ha chiesto ripetutamente questo beneficio e potrà farlo nuovamente nel 2022. Nel 2010 aveva detto di aver ucciso Lennon per diventare «qualcuno». Ma «invece – aveva aggiunto – sono diventato un assassino e gli assassini non sono qualcuno». Aveva scelto l’ex membro dei Beatles perché era una celebrità più accessibile di altre. Diventato religioso, Chapman ha detto nel 2018 di aver capito cosa è la vergogna e di voler diventare ministro di culto. Anche quest’estate ha ribadito di essere pentito: «L’ho ucciso perché era molto, molto famoso e l’unica ragione perché l’ho fatto era per la mia gloria, fu molto egoista».

Era l’8 dicembre 1980, così moriva John Lennon. Quando uccise Lennon, Chapman aveva 25 anni ed era sposato da 18 mesi. La moglie Gloria non lo ha lasciato e vive vicino al carcere dove è rinchiuso, nello stato di New York.  «Lo sai che cosa hai fatto?». «Sì, ho appena sparato a John Lennon», fu la sua fredda risposta al custode del Dakota Building dopo aver sparato quattro colpi alla schiena di John Lennon, davanti al portone del lussuoso palazzo in cui risiedeva, sulla 72ª strada, nell’Upper West Side di New York, 40 anni fa. Era l’8 dicembre 1980 e, raccontano le cronache dell’epoca, mentre Lennon moriva tra le braccia della moglie, l’assassino non scappò subito ma si mise a leggere ’Il giovane Holden’. La ricostruzione di quell’omicidio è stata oggetto di film e libri e di infinite ipotesi di complotto, comprese alcune che vedevano la Cia dietro l’uccisione. Le teorie poggiavano sul fatto che l’Fbi effettivamente spiava Lennon e la moglie per le loro simpatie di sinistra e il loro impegno antimilitarista e contro la guerra del Vietnam. E d’altronde Lennon non era solo l’ex Beatle, fondatore di un gruppo che aveva segnato un’epoca nella musica, nel costume, nella moda e nella pop art, incidendo 186 brani quasi tutti di successo, ma l’artista e attivista che nei poco più di dieci anni da solista, dal 1969 (anche se i Beatles si sciolsero ne ’70), aveva continuato a catalizzare l’attenzione del mondo con brani come “Give Peace a Chance” e 2Imagine”, diventati inni internazionali e immortali del movimento pacifista. Brani non a caso inseriti, come molti titoli dei Beatles, in tutte le più prestigiose liste di pietre miliari della storia della musica. Fino all’ultimo album, ’Double Fantasy’, che segnava il suo rientro sulla scena discografica dopo circa 5 anni di isolamento dorato newyorkese e che venne pubblicato nel novembre del 1980, poche settimane prima della morte, diventando anche la “scusa” con cui il suo assassino gli si avvicinò. La sera dell’8 dicembre, quando Lennon uscì di casa, Chapman era già lì, gli strinse la mano e si fece firmare un autografo proprio sulla copertina di ’Double Fantasy’. La scena fu anche immortalata dal fotografo Paul Goresh. Ma la missione di Chapman non si era concluse: l’assassino attese Lennon sotto al palazzo per circa quattro ore. E alle 22.52, vedendo il musicista rientrare insieme alla moglie, gli sparò contro cinque colpi di pistola: quattro andarono lo colpirono alla schiena e uno lo trapassò all’altezza dell’aorta. La situazione apparì talmente grave agli agenti che arrivarono sul luogo del delitto, da caricarlo sull’auto della polizia per non aspettare l’ambulanza. Lennon fu portato al vicino Roosevelt Hospital ma fu dichiarato morto alle 23.07. Chapman fu arrestato senza opporre resistenza. E si capì abbastanza presto, nonostante i complottisti, che il suo era stato il gesto di un folle. «Mi sembrò l’unico modo per liberarmi dalla depressione cosmica che mi avvolgeva. Ero un nulla totale e il mio unico modo per diventare qualcuno era uccidere l’uomo più famoso del mondo, Lennon», spiegò in una celebre intervista. «A otto anni ammiravo già i Beatles, come tanti altri ragazzini. Ma non ho mai pensato che Lennon fosse mio padre. E si sbaglia anche chi sostiene che mi credevo ’il vero Lennon’ o che lo amavo alla follia – spiegò ancora – Mi sentivo tradito, ma a un livello puramente idealistico. La cosa che mi faceva imbestialire di più era che lui avesse sfondato, mentre io no. Eravamo come due treni che correvano l’uno contro l’altro sullo stesso binario. Il suo tutto e il mio nulla hanno finito per scontrarsi frontalmente. Nella cieca rabbia e depressione di allora, quella era l’unica via d’uscita. L’unico modo per vedere la luce alla fine del tunnel era ucciderlo». Chapman fu accusato di omicidio di secondo grado (secondo la legge statunitense) e, dichiaratosi colpevole, fu condannato alla reclusione da un minimo di 20 anni al massimo dell’ergastolo. Nel 2000, scontato il minimo della pena, fece richiesta di scarcerazione sulla parola, che gli venne rifiutata. Chapman ha trascorso i primi 30 anni di reclusione nel carcere di Attica e nel 2012 è stato trasferito in quello di Wende, sempre nello Stato di New York. Da allora ha provato più volte a chiedere la libertà condizionata, senza successo. L’ultima, l’undicesima volta, questa estate. Ma ancora una volta gli è stata negata, nel settembre scorso, dopo un’udienza tenutasi ad agosto, in cui Chapman, ha chiesto scusa per la prima volta a Yoko Ono. Anche in questa occasione Chapman ha detto di aver ucciso la star, allora 40enne, per «gloria». Ha ammesso di rendersi conto che si sarebbe meritato la pena di morte. L’uomo ha aggiunto di pensare all’omicidio di Lennon (che ha definito «quell’atto spregevole») tutto il tempo e di aver accettato l’idea di dover passare il resto della sua vita in prigione. «Voglio solo ribadire che mi dispiace per il mio crimine», ha detto Chapman al comitato per la libertà vigilata del Wende Correctional Facility di New York. «Non ho scuse. L’ho fatto per la gloria personale». Chapman ha ribadito più volte di aver ucciso Lennon solo perché «era molto famoso». Poi parlando di Yoko Ono ha voluto sottolineare: «Mi dispiace per il dolore che le ho causato. Ci penso sempre». Il motivo per cui la libertà vigilata è stata nuovamente negata è che il rilascio di Chapman viene considerato «incompatibile con il benessere della società». In particolare, il dipartimento di correzione dello Stato di New York ha dichiarato di aver trovato inquietante l’affermazione di Chapman secondo cui «l’infamia ti porta gloria». Il consiglio ha anche sottolineato come «le azioni egoistiche di Chapman hanno rubato la possibilità ai futuri fan di sperimentare le parole di ispirazione che questo artista ha fornito a milioni di persone». «Il suo atto violento – ha aggiunto il dipartimento – ha causato devastazione non solo alla famiglia e agli ex membri della band, ma al mondo».

Giuseppe Videtti per “il Venerdì - la Repubblica” il 30 novembre 2020. John Lennon e Yoko Ono si conoscono nel 1966 al vernissage di una mostra di opere di lei a Londra. Yoko è un' artista concettuale, proveniente da una famiglia dell' altissima borghesia giapponese. Si sposano nel 1969, lui aggiunge il cognome di lei al suo. Come luna di miele inventano il bed-in, ad Amsterdam e poi a Montreal, restando a letto per settimane come forma di protesta contro la guerra in Vietnam. In quell' occasione John conia la frase «All we are saying is give peace a chance», «stiamo solo dicendo: date una possibilità alla pace» poi trasformata in una celebre canzone. Sean, figlio di John e Yoko, oggi musicista, nasce nel 1975. John Lennon viene ucciso la sera dell' 8 dicembre 1980 da un fan squilibrato, Mark David Chapman, con quattro colpi di pistola. Con il tempo, le accuse a Yoko di essere stata la principale causa dello scioglimento dei Beatles si sono molto ridimensionate. (g.ser.) L john lennon - yoko ono all we are saying a cura di david sheff traduzione Nico Perre editore Einaudi pagine 312 prezzo 19 euro ennon: «Ho fatto il pane». Playboy: «Il pane?». Lennon: «E sono stato dietro al bimbo. Perché, come tutte le casalinghe sanno, il pane e i bambini sono lavori a tempo pieno. Non c' è tempo per nessun altro progetto. Dopo aver fatto il pane, mi sembrava di essere riuscito a conquistare qualcosa. Ma quando ho visto che il pane era cotto, ho pensato: "O Gesù, ma non mi danno un disco d' oro, non mi fanno baronetto, niente?». Ripensandoci, David Sheff non riesce ancora a credere di aver intervistato John Lennon e Yoko Ono per Playboy quando aveva 24 anni. Faceva il giornalista da tre, ma non gli avevano mai assegnato un compito così delicato. All' epoca anche a un reporter importante le star concedevano non più di due ore (ora al massimo venti minuti): «John e Yoko invece mi accolsero nelle loro vite e trascorsi con loro tre settimane, ogni giorno dall' ora di colazione a tarda notte» racconta al telefono da San Francisco Sheff, che da quell' incontro ha tratto un libro, All We are Saying. L' ultima grande intervista, uscito negli Usa nel 2000 e ora tradotto in italiano da Einaudi (sarà in libreria il 1° dicembre). «Sono passati quarant' anni; l' intervista, che avevo concluso a metà settembre, era programmata per uscire a metà dicembre», scrive Sheff nell' introduzione all' edizione italiana, aggiungendo che la morte di Lennon, assassinato a Central Park l' 8 dicembre del 1980, è ancora un dolore che neanche la sua intensa vita di padre di famiglia, giornalista e scrittore è riuscita ad alleviare. Sheff ebbe il privilegio di assistere alle registrazioni degli album Double Fantasy e Milk and Honey; era dai Lennon quando il piccolo Sean, che allora aveva cinque anni, veniva riportato a casa dalla governante e saltava sulle ginocchia del padre. «Aperti, cordiali, le loro risposte erano oneste, intense, commoventi, radicali, a volte divertenti. Ero sbalordito dal fatto che si potesse parlare di tutto, vita privata e professionale» racconta. «Ero andato con l' idea di intervistare due leggende, mi ritrovai in famiglia. Un' esperienza incredibile, per un ragazzo della mia età, confrontarsi con tanta saggezza. Ovviamente non mi rendevo conto che quell' intervista sarebbe diventata storia, che sarebbe stata la più lunga e dettagliata dell' intera carriera di John, Beatles compresi. Per tanti anni, da Strawberry Fields Forever, quando ero ancora un ragazzo infelice, taciturno, solitario, la sua musica mi aveva parlato». All' epoca Sheff viveva a Los Angeles. Quell' 8 dicembre era lunedì, Yoko lo chiamò per comunicargli che l' editore le aveva inviato una copia dell' intervista da revisionare, le era piaciuta moltissimo. «Inaspettatamente John afferrò la cornetta e si congratulò, mi disse anche che (Just Like) Starting Over sarebbe stato il primo singolo del nuovo album, e sicuramente sarebbe volato al primo posto. Erano entrambi assai ottimisti». La stessa sera Sheff era davanti alla tv quando il famoso giornalista sportivo Howard Cossel interruppe la diretta della partita per comunicare all' America che John era morto. «Ero scioccato, non riuscivo a crederci. D' istinto cercai di chiamare Yoko, ovviamente senza successo. Così presi un aereo e andai a New York. Trovai migliaia di persone che cantavano le canzoni di John davanti al Dakota. John avrebbe 80 anni oggi, non riesco ancora a credere che non ci sia più». Affascinante e drammatico come il reporter "adottato" dai Lennon sia rimasto segnato da quell' incontro, e come le loro storie si siano intrecciate; quando nasce il primo figlio, Sheff non lo chiama quasi mai Nic, ma Beautiful boy, come la canzone che John aveva scritto per Sean (pubblicata postuma su Double Fantasy). Più in là con gli anni, il giornalista, che ha lavorato anche per il New York Times e Rolling Stone, avrebbe avuto una storia ben più devastante da raccontare, la dipendenza del suo primogenito dalla metanfetamina. Il libro, prevedibilmente intitolato Beautiful Boy, è diventato nel 2018 un film affettuoso e terribile interpretato da Thimotée Chalamet e Steve Carell (ora su Amazon Prime). «Quella canzone significa molto per me», conclude Sheff, che ha voluto il brano di Lennon al centro della magnifica colonna sonora insieme a Sigur Rós, Henryk Górecki, David Bowie, Tim Buckley, Neil Young e molti altri. «Ero in studio quando John la registrò. Mentre la cantava pensavo alla bellissima, tenera relazione che aveva con il piccolo Sean. Quando durante l' adolescenza Nic sprofondò in situazioni orribili e pericolose, ascoltare quella canzone mi spezzava il cuore. Beautiful boy era un modo per dirgli che anche quando la droga l' aveva reso irriconoscibile, non aveva mai smesso di essere il mio ragazzo bellissimo - e lo sarebbe stato per sempre. Dopo l' uscita del film, centinaia di persone mi hanno fatto sapere di aver cantato quella canzone ai loro bambini; per molti Beautiful Boy era stata la colonna sonora di quei momenti terribili in cui un genitore non riesce più a proteggere suo figlio». È finalmente un libro la celebre intervista rilasciata a Playboy poco prima della morte di Lennon, 40 anni fa. «Mi aspettavo due leggende, mi ritrovai in famiglia» dice oggi l' autore David Sheff «Parlai con loro tre settimane. Le loro risposte erano intense, cordiali, spesso divertenti».

Giovanni Gavazzeni per Il Giornale il 30 novembre 2020.  Pochi giorni prima di essere assassinato, John Lennon disse al giornalista David Sheff, in una lunga intervista a due voci con la moglie Yoko Ono pubblicata da Playboy (ora tradotta in italiano presso Einaudi: All We Are Saying, pagg. 312, euro 19): «Il Mahatma Gandhi e Martin Luther King sono esempi perfetti di persone fantastiche, non violente, morte in modo violento. Non riuscirò mai a capirlo. Siamo pacifisti, ma non so che cosa significa essere così pacifisti e finire per essere uccisi. Non riesco a comprenderlo». Sono passati quarant' anni da quando uno psicopatico assassinò il pacifista Lennon davanti alla sua abitazione, il Dakota Building, un palazzo neo-rinascimentale-anseatico fra la Prima West e la Settantaduesima Strada di New York, dove vivevano Leonard Bernstein, Lauren Bacall, Judy Garland, Rudolf Nureyev e decine di stelle del cinema e del teatro. Da allora tutti continuano a farsi la stessa domanda senza risposta. Non basta la follia di un invasato lettore del Giovane Holden, non basta il risentimento invido per un critico del sistema che accumulava milioni, non basta l' odio di un oscuro ominide per l' artista blasfemo che vantava di essere più famoso di Gesù. Il mistero permane, forte come la violenza omicida. Legioni di ammiratori dei Beatles e di Lennon, nonostante l' assurda gratuità della sua morte, continuarono a nutrire astio verso colei che si riteneva corresponsabile della divisione dei Quattro Favolosi, la donna vampiro che affievoliva la forza creatrice, la non-moglie-non-madre ultra-femminista, la megera nipponica con velleità artistoidi, Yoko Ono. Pochi accettavano che l' amore di John per la Ono avesse segnato la fine naturale della gioventù, la nuova strada verso la maturità, suggellata dalla nascita del figlio Sean. «Appena l' ho incontrata, con i ragazzi è finita, solo che i ragazzi erano famosi, non erano semplicemente gli amici del bar. Erano ragazzi che conoscevano tutti. Ma era la stessa cosa... Però la gente si è arrabbiata da morire, si è infuriata! Fortuna che io e Yoko eravamo così presi l' uno per l' altra che ci siamo messi a fare dischi, a fare i bed-in, e in un modo o nell' altro, a forza di esplosioni, abbiamo trovato la nostra strada. Ma ci hanno tirato addosso palate di merda, un sacco di cose dolorose». Lennon aveva sempre il sostegno dei fan più intellettuali, quelli che preferivano al pop geniale e commestibile di Help, Yellow Submarine, Hey, Jude!, Yesterday, Michelle, l' indian-rock-psichedelico di Strawberry Fields; i trip e i riferimenti lisergici di Lucy in the Sky with Diamonds; le frasi ermetico-surreali alla Lewis Carroll per canzonare Bob Dylan di I Am the Walrus; il super ossessivo ritmico Come Together; la confessione d' amore, quasi-incunabolo metal, per la heavy Yoko, I Want You; la burla agli ostinati cercatori di significati reconditi di Glass Onion, la bellissima ballata rock A Day in the Life. Le canzoni scritte nel dopo-Beatles traboccavano invenzione, coniugando semplicità e contenuti politici (la ballata slogan Power To The People, Working Class Hero, Woman Is the Nigger of the World, Gimme Some Truth, e soprattutto l' inno pacifista senza tempo, Imagine o Give Peace a Chance). Fra la guerra del Vietnam che sterminava una generazione e gli omicidi politici, dal presidente Kennedy a Malcolm X, Lennon decise di mandare le sue cartoline per la pace attraverso una forma di comunicazione potentissima, la canzone pop («la maggior parte della gente crede che si scrivano perché, essendo commerciali, ci si possono fare molti soldi. Non è così. La musica pop è la forma della gente. Quando gli intellettuali cercano di comunicare con la gente di solito falliscono. Lascia perdere tutto il ciarpame intellettuale, tutti quei rituali, e fermati ai sentimenti reali - i sentimenti umani semplici, quelli buoni - e cerca di esprimerli in un linguaggio semplice che arrivi alla gente. Niente stronzate. Se voglio comunicare con la gente devo usare il suo linguaggio. Le canzoni pop sono quel linguaggio»). Lennon e Yoko Ono, dopo santoni e terapie dell' urlo liberatorio, separazioni e fiumi di alcol, si scambiarono i compiti genitoriali: lei businesswoman decisa e vincente, lui a casa con Sean, a farlo nuotare, o a fare il pane e a preparare i pasti per i collaboratori, ma sempre pensando a evolvere il suo pop. Non voleva risentire le canzoni fatte con i Beatles. Le riteneva tutte migliorabili e legate al passato. «Ho scritto Imagine, Love e le canzoni della Plastic Ono Band: brani che tengono testa a qualunque canzone io abbia scritto per i Beatles. Ora, forse ci vorranno venti o trent' anni per capirlo, ma il fatto è che questi pezzi sono all' altezza di qualsiasi altra cazzo di canzone mai scritta». Sembrò il gran rifiuto a ricostituire un mito. Sembrò ostinazione non suonare con gli ex-Beatles nemmeno per beneficenza (Lennon e consorte preferivano dare a chi volevano la decima dei guadagni). Era rifiuto di diventare reliquia, di finire mummia galvanizzata a rockettare senza pudore, o malinconicamente a Las Vegas a cantare vecchi successi. Lennon aveva trovato a fatica il suo spazio e cominciava ad acquistare le forze per una nuova stagione creativa. Fino al fatale 8 dicembre 1980, ai colpi della calibro 38 di Mark David Chapman, il Caino moderno, che lo abbattono nell' atrio del Dakota, alla disperata corsa in ospedale e alla morte. Petruska, il popolare Pulcinella russo delle fiabe, dopo essere stato ucciso dal violento Moro riappare minaccioso, prima che cali il sipario, sopra il baraccone del burattinaio. Il suo volto sembra affermare in un ultimo guizzo che il suo tipo non morirà mai. Così, se guardiamo in cielo, può sembrare ci appaia la faccia inquieta, gli occhialini tondi e i baffi da tricheco di quel capellone un po' annoiato e un po' beffardo. John Lennon potrebbe sussurrare le parole che diceva a chi lo considerava una marionetta di Yoko: «Io sono incontrollabile. L' unico in grado di controllarmi, sono io».

Dagospia il 10 dicembre 2020. Estratto dell’intervista realizzata da Massimo Cotto a Yoko Ono, dal libro Everybody' s Talking (Aliberti, ultima edizione 2016), pubblicata da “Il Messaggero”. L'ho incontrata molte volte, sempre vicino all'acqua. A Venezia, a New York vicino all'Hudson, a Milano a un passo dai Navigli. Qui, la prima volta, nel 1991, fu indimenticabile. Avevamo appena finito l'intervista e dovevamo spostarci verso l'albergo. Non si vedevano taxi, così le chiesi se volesse un passaggio. Avevo una Ritmo grigia da rottamare. Yoko Ono accettò senza problemi. Dopo un paio di chilometri, uscì del fumo dal cofano. Lei mi guardò e poi disse: «Non è colpa mia!». Scoppiammo a ridere. Si riferiva a tutto quello che era stato detto su di lei, la rovina dei Beatles, sempre vestita di nero, vagamente iettatrice. Ogni volta che iniziava un'intervista, sorrideva. Ho sempre pensato che fosse perché sapeva che, dopo poco, il discorso sarebbe caduto su Lennon.

Come reagiva alle accuse di essere colpevole dello scioglimento dei Beatles?

«Né io né John ci preoccupavamo. Erano talmente ridicoli quei pettegolezzi che scoppiavamo a ridere. Dopo la sua morte, invece, le malignità hanno cominciato a ferirmi. Depressa, non uscivo di casa. Poi, quando pensavo di esserne fuori, compravo i giornali e leggevo un articolo terribile su di me».

Perché questo odio?

«Non ero gradita perché orientale e donna. E non ero una top model. Ma la gente amava così tanto John che chiunque fosse entrata nel suo cuore sarebbe stata criticata».

Ha qualche rimpianto? Rifarebbe tutto dall'inizio?

 «Non ho rimpianti, ma non riesco a capire perché John sia morto. Non riesco a farmene una ragione. Il mio è un dolore continuo. La sera in cui incontrai John, accadde un miracolo. Il problema è che la gente non crede ai miracoli. Io e John abbiamo continuato a credere nel sogno. Eravamo come Don Chisciotte e Sancho Panza».

Quale lato di John ritiene sia oggi più facilmente ricordato?

«John usava le canzoni per cambiare il mondo, usava la musica come messaggio. Era interessato al cuore delle cose, al movimento del genere umano. Molti musicisti sono interessati solo ai tre minuti di una canzone».

Parliamo dei due brani più noti di John: Imagine, prima di tutto.

«John sognava che le sue canzoni potessero crescere e fare la differenza. Prima che uscissero di casa per cercare la loro strada, John immaginava la loro via. Fantasticava, non per un problema di ego o di gloria personale - John era ricco, famoso, aveva il mondo ai suoi piedi - ma perché era convinto che una canzone potesse cambiare il mondo. Su Imagine puntava molto. Sapeva di avere per le mani un inno che sarebbe stato cantato in coro dalla gente come lui, come noi: idealisti, meravigliosi pazzi, astronauti della canzone».

Happy Xmas (War Is Over).

«La scrivemmo dopo colazione, in un albergo di New York. Poi, litigammo furiosamente e ce ne dimenticammo. La canzone rimase in un cassetto per un mese, forse di più. Intanto, si avvicinava Natale. John un giorno se ne ricordò: Ehi, che fine ha fatto Happy Xmas?. E la tirò fuori. Ne era entusiasta: Diventerà, per la nostra generazione, quello che White Christmas è stato per quelle precedenti. Fino a quando è stato in vita, la canzone non ha funzionato come lui aveva sperato, con suo grande dolore. Dopo l'8dicembre 1980, Happy Xmas è diventato un inno popolarissimo. Credo che John sia contento ora».

C'è un punto di contatto fra la sua arte e quella di John?

«Certo. I nostri lavori sono come desideri, navi di carta che possono conquistare ogn porto. Fin da bambina, in Giappone, scrivevo i miei desideri su piccole strisce di carta che poi piegavo o arrotolavo e infilavo negli alberi dei templi buddisti. Da lontano quei biglietti sembravano fiori bianchi luminosi».

John aveva paura della morte? Ne parlava?

«Ogni tanto. Ma mai della sua. Si chiedeva perché i grandi pacifisti finissero tutti assassinati. Ma certo non immaginava che anche lui... A New York si sentiva sicuro».

Cosa pensa l'8 dicembre?

«Preferisco pensare al 9 ottobre, giorno del suo compleanno. Però, ci penso sempre. Come si può dimenticare? Mi ricordo la gente impazzita di dolore, fuori dal Dakota. E ricordo che non volevo credere che fosse morto. Rifiutavo l'idea».

Chi è Yoko Ono?

«Una donna che ha avuto il privilegio di vivere con John e la dannazione di vederlo morire. Un'artista rimasta sempre di lato, nonostante quello che si è sempre detto su di me. Una giapponese che rimarrà sempre diversa, anche da come gli altri la vedono. Una donna disperata e piena di speranza».

Michele Bovi per coolmag.it il 5 ottobre 2020. I servizi di sicurezza italiani spiarono i Beatles. L’annuncio arriva soltanto oggi, nell’80° anniversario della nascita di John Lennon (9 ottobre 1940) e 55 anni dopo la tournée italiana della band. A rivelare dettagli finora sconosciuti è Guido Crapanzano, classe 1938, numismatico di fama internazionale, già consulente della Banca d’Italia. Ma con trascorsi illustri nella musica leggera. Crapanzano alla fine degli anni 50 è stato uno dei pionieri del rock italiano, il genere che muoveva i primi passi tra Palazzo del Ghiaccio e Teatro Smeraldo di Milano e il cinema-teatro Maestoso di Roma. Assieme a lui esordiva una flottiglia scatenata di ragazzotti in blue jeans tra i quali Enzo Jannacci, Luigi Tenco, Giorgio Gaber, Clem Sacco, Ghigo, Jerry Puyell, Little Tony, Tony Renis, Fausto Denis (pseudonimo di Fausto Leali), Baby Gate (pseudonimo di Mina) e Adriano Celentano. Proprio con il “molleggiato” Guidone fondò, assieme a Don Backy e a Ricky Gianco, il Clan Celentano. Incise una quarantina di dischi, partecipò alla realizzazione di film “musicarelli” e di alcuni “caroselli” pubblicitari per la tv.

Poi l’esperienza con gli scarafaggi inglesi: «Quando i Beatles nel giugno del 1965 vennero in tournée in Italia, io con il mio complesso, ovvero Guidone e gli Amici, fummo scelti per aprire i concerti di Milano, Genova e Roma – racconta Crapanzano – Gli altri artisti-spalla erano Fausto Leali, Peppino Di Capri, i New Dada, le Ombre e Angela. Risiedevamo tutti negli stessi alberghi ma soltanto a me era consentita una singolare familiarità con il quartetto di Liverpool e il loro management perché ero l’unico a esprimermi correttamente in inglese. Mi collocavano sempre in una stanza accanto alla loro. Quando c’era bisogno di qualcosa – talvolta, non mi vergogno di confessarlo, persino una bottiglia di acqua minerale– bussavano, chiamavano me: insomma, una sorta di valletto fidato. Le due occhiute guardie del corpo posizionate ininterrottamente davanti alla porta della loro camera facevano passare solo Mister Guidone. Li incontrai di nuovo un anno dopo a Londra negli studi della EMI. E in quella circostanza acconsentirono simpaticamente di autografare alcune copie del mio 33 giri Guidone For Shake, pubblicato in Grecia (dove nel frattempo ero diventato anch’io una popstar) dalla Parlophone, la loro stessa casa discografica. Il disco, nel retro copertina, riportava una foto di noi cinque assieme scattata a Milano».

E qui Crapanzano per la prima volta riferisce un dettaglio significativo: «In occasione della tournée ricordo che fui avvicinato da una persona che mi venne presentata dal responsabile della sicurezza del Velodromo Vigorelli: disse che era un giornalista, ma il modo di comportarsi e le domande che mi fece, mi indussero a pensare piuttosto a un uomo degli apparati di informazione e sicurezza. Non voleva un’intervista, ma soltanto ragguagli sull’ambiente italiano dei musicisti e segnatamente sui quattro artisti inglesi: la preoccupazione maggiore mi sembrò fosse riferita all’uso di stupefacenti. Fui felice di testimoniargli che l’unica droga di cui John, Paul, George e Ringo dimostravano di fare ampio uso era la musica». L’interesse degli apparati di sicurezza non deve sorprendere: quei quattro capelloni inglesi stavano rivoluzionando non soltanto la musica ma anche i costumi, le mode, l’educazione dei giovani nel mondo. Era doveroso cercare di capirne di più, oltre all’ascolto dei dischi e alla lettura delle interviste sui giornali. I Beatles si esibirono in Italia dal 24 al 28 giugno del 1965 tra il Velodromo Vigorelli di Milano, il Palasport di Genova e il cinema-teatro Adriano di Roma. Nella Capitale, la band e gli accompagnatori si fermarono tre notti alloggiando all’Hotel Parco dei Principi, struttura all’epoca di assoluto gradimento per i servizi segreti. Soltanto un mese prima, nello stesso albergo, l’Istituto di Studi Militari Alberto Pollio aveva organizzato il convegno sulla guerra rivoluzionaria, un summit dell’intelligence passato alla storia.

«Quando arrestai Lennon e Yoko mi aprì nuda»: i ricordi di «Nobby», l’agente che ammanettava i vip. Paola De Carolis il 21/10/2020 su Il Corriere della Sera. John Lennon? «Un signore». Dusty Springfield? "Che parolacce…’’ Si intitola Bent Coppers, poliziotti corrotti, ma il libro di Norman Pilcher, ex agente di Scotland Yard divenuto lui stesso una celebrità, offre un nuovo tuffo nella Londra degli swinging 60s, la sua musica e i suoi eccessi. Oggi ha 85 anni ed è malato di cancro, ma Pilcher è stato autore di arresti eccellenti: George. Harrison dei Beatles, la moglie Patti Boyd, Brian Jones dei Rolling Stones, il principe Stanislas Klossowski e tanti altri. All’epoca era conosciuto al punto che Mick Jagger, Eric Clapton, Keith Richards e il cantante Donavan lo indicarono come responsabile dei loro guai con la giustizia, anche se Pilcher nega e dà il merito ad altri. Con Lennon il fermo per detenzione di stupefacenti segnò l’inizio di una lunga relazione. «Generalmente quando bussavo dicevo di essere il postino, ma con Lennon e Yoko Ono non funzionò», ricorda Pilcher a proposito della perquisizione al numero 34 di Montagu Square. «Ci volle un po’ per convincerli a farci entrare. Prima si presentò Yoko, che aprì la porta completamente nuda. Poi scese John, nudo anche lui. Avevamo un mandato quindi alla fine cedettero. Si vestirono e chiamarono i loro avvocati. Noi aspettammo che arrivassero e poi facemmo entrare il cane. Il cane andò subito all’astuccio di un binocolo, dentro c’era una pallina di cannabis grande come un pollice. All’epoca bastava per procedere all’arresto». Una volta in centrale, Pilcher e Lennon cominciarono a parlare. «Lennon mi spiegò la sua filosofia di vita, il fatto che credeva nella pace, nell’amicizia, nell’amore e che il corpo dopotutto era suo e se voleva fumarsi uno spinello era affari suoi». Le parole di Lennon ebbero effetto su Pilcher. «Le leggi sugli stupefacenti erano sbagliate allora e lo rimangono tuttora», spiega oggi. «Sono antiquate e superate», sottolinea schierandosi a favore della depenalizzazione. «Sapevo che l’arresto avrebbe avuto un grosso impatto sulla sua vita, gli avrebbe dato problemi, ad esempio, negli Usa, e mi dispiacque». Lennon, invece, non se la prese. «Quando finì tutto ci mandò alcuni dischi autografati e una dozzina di bottiglie di brandy, senza risentimento o ostilità. Mi spedì anche qualche cartolina. Ricordo di averne ricevuta una dal Giappone in cui Lennon diceva: "Spero che tu stia bene, Nobby. Adesso non mi puoi prendere! Purtroppo le ho perse facendo il trasloco”. Pilcher nel libro ammette inoltre di essere stato utilizzato da Lennon per il brano “I am the walrus”. «Sì, credo di essere io il tricheco del titolo». Poco tempo dopo, Pilcher si trovò lui stesso sul banco degli imputati. Venne accusato di far parte di un giro di poliziotti corrotti, pronti a inventare prove pur di incastrare qualcuno. Fu condannato a quattro anni di reclusione. Se ha scritto il libro è per fornire la sua versione dei fatti.

Lunga vita a John Lennon. Lacrime, candele e canzoni nell’aria: l’amarcord della morte di una leggenda. Franco Schipani su Il Quotidiano del Sud l'11 ottobre 2020.

“Ma chi cazzo è a quest’ora?”… Sono le 6:00 del mattino a Roma, e Gianni Minà è decisamente sull’incazzato.

Il rompicoglioni dall’altra parte del telefono, da New York, sono io. E sto singhiozzando senza ritegno.

“Franco che succede?”, si preoccupa.

“Hanno appena assassinato John Lennon, Gianni”…

Per trenta secondi c’è il silenzio assoluto.

“Vado a lavarmi la faccia e a prepararmi un caffè così mi sveglio per bene, roba di cinque minuti”, mi dice, “ti richiamo subito, altrimenti spendi una fortuna in teleselezione”.

Guardo il telefono, aspetto. Dopo meno di cinque minuti Gianni ha carta e penna in mano. Gli faccio un riassunto dei fatti, scrive velocemente, vola con un taxi in Rai, racconta tutto in radio. Gianni i Beatles li ha conosciuti, tocca a lui.

Ero arrivato al Dakota Building tagliando per Central Park da Avenue of the Americas direzione nord ovest, 72th Street.

Di solito il Parco è un posto dove di notte non entri nemmeno con l’immaginazione.

Al calar del sole trovi solo spacciatori e tossici.

Ma quella notte era OK. Le FM di New York hanno interrotto i programmi mandando in onda solo le canzoni di John, Central Park West era intasata da migliaia di fans increduli.

Lacrime, candele, canzoni nell’aria. Polizia e transenne ovunque.

La sera stessa ho contattato Thom Panunzio, ingegnere del suono dei Record Plant Studios. Ce lo ha portato per la prima volta proprio Lennon, poi la sua carriera è decollata con Springsteen, Dylan, Rolling Stones, U2. Era uno degli ultimi che lo aveva visto ancora in vita. Ci incontrammo il giorno dopo.

“Il 5 dicembre sono nello Studio A del Record Plant con Willie Nile, stiamo registrando il suo nuovo LP per la Arista Records. John è al piano di sopra, mi chiama verso le 7:00, non ha più corde per la chitarra, tutte andate, gliele regala Willie. Suona su quelle corde Walking on a Tin Ice fino alle 4:30 del mattino, poi va a riposarsi”.

“John è felice, il suo primo LP dopo cinque anni di silenzio è al numero uno delle classifiche USA. I giornalisti musicali iniziano a dare credibilità a Yoko, per lui è importante. Vuole andare in un ristorante a festeggiare. Invita Robert Big Bob Manuel, la sua guardia del corpo, 1.80 per 140 chili. Bob ha l’influenza, torna a casa gli dice John, abbracciandolo, sarà per un’altra volta”.

Con Big Bob accanto, forse le cose sarebbero andate diversamente.

“Alle 11:00 di sera, i telefoni dello studio iniziano a squillare, contemporaneamente, ci dicono che hanno sparato a John. Siamo increduli, è appena uscito, radio e TV iniziano a dare la notizia. Poco prima di mezzanotte ci confermano che è deceduto al Roosevelt Hospital. Non ci resta che piangere”.

John Lennon ha sempre amato New York, che considerava la sua seconda casa. Un posto dove se sei una celebrità nessuno ti viene a rompere le palle. Si sentiva al sicuro. L’ho incontrato diverse volte nei piccoli club di Manhattan. Una volta con Bowie, l’altra con Andy Wharhol e poi in compagnia di Joey Ramone. Ma a questi preferiva stare con i ragazzi, davanti ad una birra, bevuta direttamente dalla bottiglia, a parlare del nulla, o del futuro. Cercava sempre di mantenere un basso profilo, senza pretendere che tutti comunque lo conoscessero. Se ti stringeva la mano, presentandosi, diceva il suo nome.

Suo figlio Julian in questo gli assomiglia molto. L’ho visto seduto a terra mentre mangiava una pizza nel cartone da asporto nel backstage di Bryan Adams al Madison Square Garden, al bar con Carlos Alomar o Peter Frampton a parlare di arte africana, durante il Glass Spider Tour del 1987.

Non abbiamo mai parlato del padre.

Nel 2012 ho organizzato le interviste con Paul McCartney e Yoko Ono per l’amico Fabio D’Alfonso di Porta a Porta, ad un anno esatto dal crollo delle Torri Gemelle a New York.

“Fabio, so che sei un fan, ma evita di parlare di John con Yoko, è una ferita ancora aperta”.

“Non ho paura di morire, sono preparato alla morte perché non ci credo. Penso che sia solo scendere da un’auto per salire su un’altra”. (John Lennon, 1969)

John Lennon: il genio dei Beatles avrebbe 80 anni. Gabriele Antonucci su Panorama il 9/10/2020. "Se i Beatles o gli anni Sessanta hanno avuto un messaggio, era questo: impara a nuotare. Punto. E una volta che hai imparato, mettiti a nuotare". Parola di John Lennon, uno dei più celebrati compositori e musicisti nella storia del rock. Artista estroso, colto, influente e politicamente impegnato, Lennon, nato il 9 ottobre 1940 a Liverpool, oggi avrebbe compiuto 80 anni, regalandoci chissà quanti altri capolavori. Nella sua musica, John ha messo a nudo il suo cuore e la sua anima nelle sue canzoni, vere e proprie istantanee delle sue emozioni, dei suoi pensieri e della sua visione del mondo. Amore, pace, politica, verità, bugie, media, razzismo, femminismo, religione, matrimonio, paternità: basta ascoltare le canzoni di John Lennon per capire come si sentiva, che cosa amasse, in che cosa credeva. È curioso che il cantautore inglese non amasse la sua voce, considerata da lui stesso troppo aspra e nasale, tanto da chiedere continuamente a George Martin, ai tempi dei Beatles, di filtrarla e di modificarla. Eliminando la figura del frontman unico, i Beatles sono diventati inconsapevolmente le icone di una rivoluzione epocale, non solo in campo musicale: il collettivo era il loro vero punto di forza. Lennon aveva due anni più di McCartney e, già leader dei Quarryman, un giovane gruppo skiffle, chiamò lui stesso Paul e George per formare una nuova band, di cui scelse anche il nome: The Beatles. La lontananza del padre marinaio, la separazione dei genitori a due anni di età che lo portò a vivere con la zia Mimi nella casa di Menlove Avenue, la morte della madre Julia in un incidente stradale nel 1958 hanno contribuito al formarsi di una personalità forte e inquieta, che non ha mai nascosto le sue origini operaie ma che, anzi, ne ha fatto un punto di forza della sua poetica. Il 9 novembre del 1966, in occasione di una mostra a Londra dell'artista giapponese Yoko Ono intitolata Unfinished Paintings and Objects, conobbe la sua compagna di vita e di arte, con la quale sperimentò un legame quasi simbiotico che l'allontanò dalla prima moglie Cynthia Powell (dalla quale aveva avuto il figlio Julian) e dagli altri Beatles per abbracciare una nuova fase della sua vita, all'insegna della sperimentazione e dell'impegno sociale. Dopo il traumatico scioglimento nel 1970 del più importante gruppo pop-rock del Novecento, John Lennon è stato probabilmente l'ex Fab Four con la migliore carriera solista, grazie agli album John Lennon/Plastic Ono Band (1970), Imagine (1971), Some Time In New York City (1972), Mind Games (1973), Walls and Bridges (1974), Rock 'n' Roll (1975) e Double Fantasy (1980). Il 13 agosto del 1971 lasciò l'Inghilterra e si trasferì a New York, dove non venne visto di buon occhio dalle autorità americane per le sue posizioni politiche. Nello stesso anno pubblicò Imagine, la sua canzone-firma, oltre che il più importante inno pacifista di sempre. "Imagine è un'opera da maestro", ha sottolineato il cantautore Jackson Browne, suo grande ammiratore. "Quando la canta, John incarna quell'idea, il nostro desiderio di un mondo nel quale la pace è reale. Ed è eseguita senza paura, senza sconfinare dall'altra parte, nel lato polemico o sentimentale. È meraviglioso avere un'idea espressa così bene al punto che tutti la possono cantare". Purtroppo l'8 dicembre del 1980 Mark Chapman, uno squilibrato che poche ore prima si era fatto firmare un disco dal suo stesso idolo, sparò a bruciapelo a John Lennon, che aveva da poco compiuto 40 anni, di fronte al Dakota Building di New York. Un omicidio che gettò nello sconforto milioni di fan, che consideravano l'ex Beatles non solo un artista geniale, ma anche un leader carismatico che si era speso in prima persona a favore dei movimenti pacifisti. Qualche anno prima di essere ucciso, Lennon aveva dichiarato: "Non ho paura di morire, sono preparato alla morte perché non ci credo. Penso che sia solo scendere da un'auto per salire su un'altra". Ringo Starr ha detto di lui: "Ero un grande ammiratore di John. Ho avuto sempre la sensazione che avesse un grande cuore e che non fosse cinico come si pensava. Aveva il cuore più grande di tutti ed era il più svelto. Era dentro e fuori. Mentre noi stavamo ancora entrando, lui era già fuori e proseguiva". Dello stesso tenore anche le parole dell'amico/rivale Paul McCartney: "Uno dei miei più bei ricordi di John è quando ci mettevamo a litigare: io non ero d'accordo con lui su qualcosa e finivamo per insultarci a vicenda. Passavano un paio di secondi e poi lui sollevava un po' gli occhiali e diceva 'è solo che sono fatto così'. Per me quello era il vero John. In quei rari momenti lo vedevo senza la sua facciata, quell'armatura che io amavo così tanto, esattamente come tutti gli altri. Era un'armatura splendida; ma era davvero straordinario quando sollevava la visiera e lasciava intravedere quel John Lennon che aveva paura di rivelare al mondo". L'imperituro affetto dei fan è confermato dal successo con il quale viene accolta ogni iniziativa editoriale che lo riguardi, come l'elegante box Lennon che raccoglie i suoi 9 LP o l'interessante docufilm LennonNYC sulla sua vita dopo i Beatles, fino alle diverse biografie a lui dedicate. Il 9 ottobre, in occasione del suo ottantesimo compleanno, sarà pubblicata una raccolta di alcune delle canzoni più amate della sua carriera solista, intitolata Gimme Some Truth. The Ultimate Mixes. Prodotte da Yoko Ono e da Sean Lennon, queste trentasei canzoni, selezionate da Yoko e Sean, sono state completamente remixate, migliorando radicalmente la loro qualità sonora. Dopo settimane di meticolosa preparazione, i mix e gli effetti finali sono stati completati da Paul Hicks, con l'assistenza di Sam Gannon, utilizzando solo apparecchiature ed effetti analogici vintage presso gli Henson Recording Studios di Los Angeles e poi masterizzati in analogico presso gli Abbey Road Studios da Alex Wharton per garantire il massimo dell'autenticità e della qualità possibile. Gimme Some Truth, il cui titolo che nasce dall'aspra critica di Lennon nel 1971 contro politici ingannevoli, ipocrisia e guerra, sarà disponibile in diversi formati, tra cui un cofanetto in edizione Deluxe su due CD, un disco audio Blu-ray contenente gli Ultimate Mixes in Studio Quality 24 bit/96 kHz HD Stereo, 5.1 Surround Sound e Dolby Atmos. Il libro di 124 pagine incluso nell'edizione Deluxe è stato progettato e curato da Simon Hilton, il produttore e responsabile della serie Ultimate Collection. Il libro racconta la storia di tutte le trentasei canzoni nelle parole di John, Yoko e di coloro che hanno lavorato al loro fianco, attraverso interviste nuove e d'archivio, accompagnate da centinaia di fotografie inedite. "John era un uomo brillante con un grande senso dell'umorismo e comprensione", scrive Yoko Ono Lennon nella prefazione del booklet incluso nell'edizione Deluxe."Credeva nella sincerità e che il potere delle persone potesse cambiare il mondo. E accadrà. Tutti noi abbiamo la responsabilità di creare un mondo migliore per noi stessi e per i nostri figli. La verità è ciò che creiamo. È tutto nelle nostre mani."

John Lennon avrebbe 80 anni. E senza mamma Julia, persa a 18, non avremmo il genio. Come suonerebbe oggi? Un piccolo ritratto di una delle leggende musicali più influenti del pianeta, da quell'armonica cromatica alla chitarra per corrispondenza. Giulia Cavaliere su Il Corriere della Sera il 9/10/2020.

80 anni. Oggi, 9 ottobre 2020, John Lennon avrebbe compiuto 80 anni. Quest'anno ricorrono però anche i 40 anni dal giorno del suo assassinio, avvenuto l'8 dicembre del 1980, quando Lennon aveva solo 40 anni. In occasione del compleanno BBC Radio 2 manda in onda un documentario in due parti con interviste realizzate dal figlio di John e Yoko Ono, Sean Ono Lennon, in cui il musicista ha intervistato il suo fratellastro e primogenito dell'artista, Julian Lennon, Paul McCartney e il suo padrino Elton John. L'intervista ha una portata storica soprattutto perché per la prima volta Sean e Julian Lennon dialogano pubblicamente del padre. 

Dopo Double Fantasy. Cosa sarebbe oggi questo Lennon ottantenne? Chi sarebbe? E, soprattutto, farebbe ancora musica? E quale? Avrebbe ceduto col tempo il cuore alla disco e ai beat contemporanei che Yoko Ono aveva inserito nel loro ultimo lavoro insieme, cioè quel Double Fantasy uscito meno di un mese prima del suo assassinio e che riportava John Lennon nel mercato discografico dopo cinque anni di silenzio e vita casalinga a crescere il figlio Sean? Oppure, invece, sarebbe rimasto un fedelissimo della chitarra e dunque sarebbe diventato uno di quegli intransigenti che attraversano il tempo senza curarsene troppo e continuando a portare avanti il verbo del rock'n'roll che amavano seguire fin da ragazzini? Alcuni mesi fa cominciò a farsi avanti nel web l'uso di un'applicazione che permetteva di prendere la fotografia di una persona e vederla trasformata nella stessa persona ma invecchiata. Oltre ai volti di chi aveva scaricato l'applicazione iniziarono ad attraversare i social anche immagini di star della musica perse troppo presto. Tra queste una fotografia di Lennon con i capelli lunghi, il naso particolarmente appuntito su cui poggiavano i suoi occhiali da sole con montatura gialla e spessa, una foto del Lennon newyorchese scattata nella primavera del 1980 e trasformata in una foto di Lennon anziano, più o meno come sarebbe oggi. L'unico modo per scoprire qualcosa di lui ora, sebbene costruita secondo le leggi di qualche algoritmo e, dunque, perlopiù falsa.

Volgari canzonette. Elettronica o rock'n'roll che sarebbe, impossibile oggi, ripensando all'enormità della figura perduta, non ricordare cose come "Qui non entra nessuna di quelle volgari canzonette" o ancora "non prenderai quella strada", quelle cioè che erano state le prime frasi che John Lennon si era sentito dire da zia Mimi, la zia materna con cui crebbe nell'abitazione di Mendips, a Liverpool, dopo aver dimostrato in ogni modo di essere eccezionalmente dotato per la musica. Forse non è così risaputo, per esempio, che il piccolo Lennon iniziò suonando l'armonica a bocca, imparando, sfidato, in pochi minuti, a riprodurre due differenti melodie e diventando con l'esercizio un vero e proprio piccolo cultore dell'armonica cromatica con cui era solito suonare per ore e ore, intrattenendo persino gli altri viaggiatori durante le trasferte di sei ore a Edimburgo a trovare i parenti. In poco tempo finì per essere profondamente attratto dal pianoforte che approcciava ovunque ne trovasse uno, muovendosi sullo strumento con una certa scioltezza. Eppure niente da fare, zia Mimi fu durissima: nessun pianoforte sarebbe entrato in quella casa, John doveva studiare, di lì a poco, vedendolo alla chitarra gli avrebbe detto: "non farai soldi con questa, non ti guadagnerai da vivere", una frase che il piccolo John, una volta diventato grande in tutti i sensi, farà incidere su una targa per la nuova casa della zia, che lui stesso le stava regalando.

Julia. La madre di John, Julia, viveva invece in una condizione completamente opposta, John la andava a trovare e con lei trovava anche le due sorellastre Julia e Jackie, con cui era in ottimi rapporti. La casa di Julia non era certo inospitale ma decisamente gestita in modo poco rigido e senza le regole ferree che Mimi applicava alla vita a Mendips. A casa di Julia c'era una TV (cosa assai rara per l'epoca) e c'era la radio che veniva spenta solo quando veniva acceso il grammofono. Julia comprava dischi ogni settimana e proprio attraverso l'acquisto di questi 78 giri John entrava in contatto con i pezzi in ascesa nella classifica inglese. Sarà lei, poco dopo, a comprare a John i classici abiti per renderlo un vero teddy boy: giacca corta a spalle imbottite, jeans a tubo neri, camicie colorate. Se da un lato Mimi contrastava apertamente l'ascesa della nuova generazione di ribelli, dall'altra Julia, folgorata da Elvis, ne era esaltata ed era felice di vedere John partecipe a questo nuovo mondo.

Gallotone Champion. Julia, che perse la vita investita da un'auto il 15 luglio del 1958, proprio tornando verso casa una volta uscita dall'abitazione di Mendips dopo aver preso il tè con zia Mimi, è stata una figura assente eppure centrale nella vita di Lennon, la sua più grande ferita aperta con ogni probabilità proprio fino alla fine dei suoi giorni, l'ombra costante dietro le luci della ribalta. Julia, che lo aveva abbandonato e poi invece compreso e infine riavvicinato - nel periodo in cui morì aveva cominciato a recarsi quotidianamente a casa di Mimi e John riallacciando molto i rapporti; e Julia che era stata anche colei che più di tutti aveva capito profondamente e precocemente il valore della musica nella vita di John. Anticonformista lei stessa in un'Inghilterra ancora assai retrograda per quanto affamata, Julia, essenzialmente, amava davvero la musica e amava che John amasse la musica, fu lei a regalargli la prima chitarra, una Gallotone Champion pagata a rate che costava meno di 11 sterline e che fu acquistata a Liverpool ma per corrispondenza. Una chitarra dal valore inestimabile oggi, considerando anche che fu prodotta in soli mille esemplari. Fa sorridere, elettronica, pop o rock che sarebbe stato oggi, che quella prima chitarra con corde in metallo fosse quella solitamente usata (nella versione con corde in budello) dai suonatori di... flamenco.

«Imagine è un pezzo comunista, non un inno di pace». Meloni? No, lo disse John Lennon. Antonio Marras giovedì 23 Luglio 2020 su Il Secolo d'Italia.  “Immagina” di dare addosso a Giorgia Meloni per aver detto che una certa canzone non è un inno pacifista ma un pezzo intriso di ideologia e contro la religione. Immagina che qualcuno abbia detto le stesse cose, anzi, specificando che quella canzone è ispirata al comunismo e al Manifesto di Marx. Immagina che quella persona sia la stessa che ha scritto e cantato la canzone e che la sua sia dunque, una interpretazione “autentica”, per dirla in punta di diritto. Immagina che quel cantante sia John Lennon e che quel bollino “comunista” al suo pezzo più famoso non lo abbia messo da Parenzo e Telese, ma in sede di prestigiose interviste ad autorevole testate americane, all’apice del suo successo, negli anni Settanta. “Imagine è virtualmente il Manifesto Comunista, anche se non sono particolarmente un comunista…”, è la frasedi John Lennon che qualcuno, anche negli studi di “In Onda“, avrebbe potuto spulciare sul web ingannando il tempo su Google. Ecco che se ci si documenta un po’, alla luce di quanto appena “immaginato”, e che risponde a realtà, ci si convince che quelle parole di “distanziamento politico” pronunciate l’altro giorno dalla leader di Fratelli d’Italia su “Imagine”, definito un pezzo politico “di omologazione mondialista”, in linea con quanto già detto dalla candidata leghista Susanna Ceccardi, che l’aveva a sua volta definito “brano marxista”, non possono creare scandalo e sono democraticamente corrette e tecnicamente inappuntabili. Visto che le stesse interpretazioni del pezzo le aveva date lo stesso Lennon, come si può leggere spulciando semplicemente Wikipedia, che riprende articoli ditestate di fama mondiale in tema di musica, come Rolling Stone. “Il brano viene solitamente letto in chiave pacifista, ma lo stesso Lennon ammise che i contenuti del testo di Imagine la avvicinano più al Manifesto del partito comunista che a un inno alla pace: è infatti una società laica in cui non trionfino i valori del materialismo, dell’utilitarismo e dell’edonismo che viene auspicata nel testo. Lennon affermò che il brano era “anti-religioso, anti-nazionalista, anti-convenzionale e anti-capitalista, e viene accettato solo perché è coperto di zucchero”, scrive l’encliclopedia virtuale. “Niente religioni, niente confini… è l’inno dell’omologazione mondialista. Io credo nell’indentità, senza di essa siamo solo consumatori tutti uguali delle multinazionali”. aveva detto Giorgia Meloni, sollevando l’indignazione della cosiddetta “intelligentia di sinistra“. Lennon, se fosse vivo, forse le avrebbe stretto la mano, magari facendo il pugnetto con l’altra. Del resto, la Meloni non può negare che la canzone sia “bellissima”, perché quello è un dato oggettivo per tutti, a prescindere dal fatto che si faccia politica o che si comprendano i testi in inglese. Perché, comunque la si pensi sulle sue idea, sia che ci si dichiari di destra che di sinistra, un esponente politico che va in tv non viene invitata a commentare la qualità di una canzone e basta, come farebbe un critico musicale, come Luzzato Fegiz o un Dario Salvatori, ma a esprimere un giudizio sull’influenza che quel capolavoro di buonismo di sinistra ha avuto sulla propria generazione, sul proprio elettorato, sui propri valori di riferimento. Che per tutti, Meloni compresa, non possono non contemplare la pace. Ma non il comunismo, se sei di destra, è il minimo…Anche se quei versi politici, scritti negli anni in cui l’America lottava contro la minaccia comunista in Vietnam sacrificando migliaia di giovani vite, furono edulcorati per renderli piacevoli a tutti, anche a chi comunista non era e magari solidarizzava con i propri patrioti. Come del resto disse, all’epoca, non la Meloni, che non era neanche nata, ma lo stesso John Lennon. “Imagine era lo stesso messaggio di precedenti canzoni contro la guerra, ma zuccherato. Ed è diventata un successo quasi ovunque: è una canzone anti-religiosa, anti-nazionalista, anti-convenzionale e anti-capitalista, ma solo perché è coperta di zucchero viene accettata. Ora ho capito cosa bisogna fare: far passare il messaggio politico aggiungendo un po’ di miele…”. Un po’ di zucchero e la pillola comunista va giù, va giù.

Bannon contro Lennon. Perché a destra odiano “Imagine” (e chi lo sa?) Dario Ronzoni su Linkiesta.it il 23 luglio 2020. Prima Susanna Ceccardi (Lega), poi Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia), hanno espresso critiche per il brano del 1971 cantato anche nelle parrocchie e nelle recite di Natale a scuola. A loro avviso racconta una società «aberrante», «marxista», «comunista», «mondialista». A dimostrazione che quando le idee mancano, bisogna provarle tutte. Per Susanna Ceccardi, candidata leghista alla Regione Toscana per il centrodestra, è una canzone «comunista». Per Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, è un «inno all’omologazione mondialista»: il testo non la appassiona anche se – concede – «la musica è bellissima, ma bisogna non conoscere l’inglese». Insomma, “Imagine”, il celebre brano di John Lennon del 1971, non piace alle donne di destra. Non serviva raggiungere l’estate del 2020 per scoprirlo. Già nel 2016, per l’esattezza l’8 gennaio, sempre la Ceccardi, all’epoca consigliera comunale per la Lega di Càscina, provincia di Pisa, aveva espresso il suo sconcerto perché 1.300 bambini l’avevano cantata – «idea del sindaco» – sotto il Comune. «La musica sarà anche carina, ma le parole sono aberranti», aveva scritto su Facebook. «Cosa dice la canzone? Dice “Immagina… immagina un mondo senza religione, senza paradiso, senza proprietà privata. Qualcuno lo ha immaginato davvero questo mondo e lo ha realizzato, si chiama Comunismo e ha fatto un milione di morti». Il post, ignorato all’inizio, era tornato alla ribalta nel giugno dello stesso anno, quando la Consigliera si era guadagnata il ballottaggio alle comunali (che poi avrebbe vinto). Le critiche, gli attacchi e le prese in giro la inondarono: «Imagine è un inno alla pace», dicevano gli altri utenti. «Quello che ha fatto la Ceccardi è un abuso», ripetevano altri. Il tema, insomma, era sentito, anche se – va detto – dal punto di vista filologico la nuova sindaca non aveva tutti i torti: lo stesso John Lennon aveva ammesso di essersi ispirato, per il testo, al “Manifesto del Partito Comunista”. Poco importa: la questione, a distanza di quattro anni e in occasione di una nuova candidatura della Ceccardi, stavolta per la Regione, è tornata di attualità. A “In Onda”, programma di approfondimento di La7, punzecchiata dai conduttori David Parenzo e Luca Telese, la Ceccardi ha ribadito che si tratta di «una canzone marxista» e che, addirittura, la sua era anche «una considerazione letteraria». I due giornalisti non ci stanno: «Non usi John Lennon contro John Lennon», rispondeva Telese, mentre Parenzo aggiungeva che «va bene tutto, ma immaginare i Beatles come una succursale di Soros mi pare troppo». Una battuta, sì. Ma significativa. Perché evocare il finanziere George Soros, impegnato da anni con fondazioni e movimenti a promuovere una società aperta, significa mettere il dito sulla piaga. O meglio sulla spaccatura, tratteggiata nel 2017 sul New York Times dal giornalista tedesco Jochen Bittner, tra “lennonisti” e “bannonisti”. In questo divertissement politico-letterario, i primi sarebbero, appunto, i liberali cosmopoliti, laici, contrari ai confini (sia per le persone che per le merci), internazionalisti, disposti alla cooperazione, progressisti, pacifisti ed europeisti. Il manifesto che li descrive sarebbe proprio l’odiatissima “Imagine”. Altro che comunismo. Gli altri, be’, il contrario: nazionalisti, sovranisti, religiosi (ma ostili all’Islam), contrari ai movimenti per i diritti civili, nemici dell’immigrazione. Non per niente il loro nume tutelare sarebbe Steve Bannon, l’ex stratega di Donald Trump che in passato ha cercato di insinuarsi anche nelle pieghe della politica italiana (secondo alcuni, sarebbe stata sua l’idea di spingere Salvini contro il Papa. Non ha funzionato. E forse, visto il grado di efficacia, è ancora lui che suggerisce di colpire “Imagine”? Non si può escludere). Insomma, da un lato John Lennon, dall’altro Steve Bannon. A distanza di tre anni è ancora così? Quasi. Perché un po’ per stanchezza e un po’ per l’incompetenza dimostrata, il fronte sovranista sembra sempre più debole. In America, disciolto dall’inadeguatezza di fronte al Covid, il presidente americano sembra avviato a una disfatta epocale, mentre in Europa i suoi omologhi sono stati respinti sul bagnasciuga (per usare espressioni loro gradite) dalle elezioni europee del 2019 e poi dall’accordo recente sul Recovery Fund. E così, oggi come oggi, della grande prosopopea sovranista italiana rimangono solo alcuni sondaggi in calo, qualche affermazione locale, diversi litigi di coalizione. Sembra proprio che in assenza di idee e di prospettive, l’unico collante possibile per la destra dell’estate 2020 sia l’odio per un capellone degli anni ’60, con gli occhiali tondi e che faceva scioperi stando a letto. Era un sognatore. Ma a quanto pare non era l’unico.

Marco Molendini per Dagospia il 9 ottobre 2020. Immagina John Lennon vivo: avrebbe 80 anni. Immagina: avrebbe, anche lui, paura del covid, qualche acciacco dovuto all’età, probabilmente sarebbe calvo, ce l’avrebbe con Trump, avrebbe protestato per le guerre in Afganistan e Iraq, non gli piacerebbe il me too, ma si sarebbe schierato con il Black lives matter e con Greta Thunberg, probabilmente si sarebbe separato da Yoko Ono dopo una serie di altri Lost weekend, forse si sarebbe risposato, i giornali periodicamente gli avrebbero chiesto se perdonava Chapman per avergli sparato e averlo ferito gravemente, non gli avrebbero fatto sconti sull’eterna questione: quando ci sarà una riunione dei Beatles? Avrebbero continuato a chiederglielo, almeno finché avesse resistito alle lusinghe, alle proposte, alle offerte sempre più allettanti. La reunion, prima o poi, si sarebbe fatta, se non con tutti i Beatles quanto meno con Paul e Ringo dopo la morte di George e, magari, ci sarebbe scappato anche un nuovo album live e uno in studio con ospiti, come si usa. Invece Lennon ha ancora 40 anni. Invecchiare non è facile, non è roba da star immortali a meno che tu non abbia fatto davvero un patto col diavolo come i Rolling Stones. Quel colpo di pistola, l'8 dicembre 1980, due mesi dopo il suo compleanno, il 9 ottobre, ha fermato il ricordo, la memoria, e John continua a cantare Imagine senza il rischio di apparire ripetitivo. E' l'eroe, il profeta beatificato di un'epoca, di tanti ideali dimenticati e di una generazione che voleva sognare. Chi lo ha pianto, quel giorno, oggi non sogna più e ha i capelli bianchi. Oppure li ha tinti come Paul McCartney, che gli 80 anni li farà fra un anno e mezzo, sulle cui spalle c'è tutto il peso di restare se stesso, nonostante il tempo che passa, costretto a fare confronti con la sua fantastica storia e, ogni volta che scrive una canzone, a fare il paragone con Yesterday o con Hey Jude. La morte ha cancellato perfino inevitabilii crisi creative: John soffriva già di paragoni con il suo passato, del resto il bellissimo Double fantasy, uscito tre settimane prima dei cinque colpi di pistola sparati da Chapman, seguiva un silenzio artistico di cinque anni. E lui aveva un senso autocritico molto più forte rispetto a quello di Macca. Voleva crescere, cambiare. All'interno dei Beatles lui era il rischio, Paul la stabilità. La differenza di carattere è stata la fortuna della band più famosa della storia, ma anche la ragione della sua dissoluzione: uno andava da una parte, l'altro dall'altra. Il conflitto era inevitabile, acceso dal successo sempre crescente: a John non piaceva quello che faceva Paul e viceversa. Parlando con Sean Lennon, che oggi compie 45 anni, è nato lo stesso giorno del padre, McCartney ha confessato durante uno speciale radiofonico per la Bbc di qualche settimana fa: «Una delle cose più belle che mi siano successe nella vita è che, nonostante i dissapori e le divergenze che ci sono stati nei Beatles, alla fine sono riuscito a riconciliarmi con tuo padre». E ancora: «Da quando i Beatles si sono sciolti non abbiamo più scritto nulla insieme. Ma quando scrivo qualcosa penso sempre: Cosa direbbe John? Fa davvero schifo, devo cambiarla». Durante l'intervista, a un certo punto, Paul ha preso la chitarra e ha cominciato a cantare una canzone, Just fun, scritta nel '58, e mai registrata perché non ritenuta all'altezza. Ora il pezzo, che in passato Macca aveva già suonato, in particolare durante alcuni sound check dei suoi concerti, è stato ufficialmente pubblicato scegliendo l'occasione del compleanno di Lennon. Già. cosa direbbe John? Ecco perché per lui sarebbe stato difficile affrontare il passare del tempo.

PS. Tutto ciò non assolve Chapman dalla responsabilità di aver computo un'azione criminale, uccidendo un uomo di 40 che avrebbe avuto tutto il diritto di vivere ancora il suo successo, le sue crisi, la sua famiglia i suoi amori, la sua vita. E' la nostra memoria che trasforma ogni dramma in leggenda.

John Lennon, ricordi e canzoni dalla A alla Z. Andrea Silenzi il 9/10/2020 su La Repubblica. John Winston Lennon era nato a Liverpool il 9 ottobre 1940: mentre sua madre Julia partoriva era in corso un raid aereo tedesco. La discografia celebra quello che sarebbe stato il suo ottantesimo compleanno con l'antologia Gimme some truth, trentasei brani scelti e remixati da suo figlio Sean e da Yoko Ono. La cima dell'Empire State Building di New York è stata colorata di blu in suo onore. La sua vita è stata una vera enciclopedia di eventi, frasi, incontri, successi. Ne abbiamo selezionati alcuni, in rigoroso ordine alfabetico.

A come All you need is love. John scrisse la canzone nel 1967, per la trasmissione televisiva Our World, in cui i Beatles si esibirono in diretta (25 giugno 1967). Il programma fu seguito in 24 nazioni da circa 400 milioni di spettatori. Il manager del gruppo, Brian Epstein, disse: "È una splendida registrazione da brivido. Non può venire fraintesa: è un chiaro messaggio secondo cui l'amore è tutto". In quel brano John suonava il clavicembalo, il banjo e cantava: la canzone venne inclusa nell'album Yellow submarine.

B come Baez, Joan. Lennon raccontò di essere stato un amante della folksinger, ma lei smentì in un'intervista del 1983. La cantante raccontò di essere stata invitata a viaggiare con i Beatles, ma che una volta finiti in una casa di Los Angeles si accorsero che non c'erano abbastanza letti per tutti. "John era imbarazzato, avendomi invitata. Così mi offrì la sua stanza: dentro c'era un letto grande come una piccola piscina. Dissi "John, non preoccuparti. Non faccio caso a queste cose. Entra e quando sei stanco usa l'altra parte del letto". Baez andò a dormire e Lennon rientrò a notte fonda. Secondo lei si sentì in dovere di fare qualcosa, visto che le chiese di stendersi accanto a lui e poi iniziò a mettersi sopra di lei ma senza molto entusiasmo. Lei gli disse: "John, sono stanca quanto te e non voglio che tu ti senta costretto a esibirti per impressionarmi". Si fecero una risata e si misero a dormire.

C come Carrol, Lewis. Per John fu un'ifluenza fondamentale. Il brano I'm the walrus, che faceva parte dell'album Magical mistery tour, fu ispirato dalla poesia di Carroll The walrus and the carpenter, ma quando la scrisse non era consapevole del fatto che, tra i due, il cattivo era il tricheco. Disse: "Per me era una bellissima poesia. Non ho mai notato che Carroll parlasse del sistema sociale e di quello capitalista. Non mi inoltro mai in ciò che voleva dire veramente, come fa la gente con le canzoni dei Beatles. Quando ho capito che il carpentiere era il buono ho pensato: avrei dovuto dire "I'm the carpenter", ma non sarebbe stata la stessa cosa, no?".

D come Dakota Building. Il Dakota fu il primo edificio di appartamenti di lusso costruito a New York verso la fine dell'800 e il primo a essere dotato di ascensori. Il nome deriva dalla sua ubicazione: era considerato così distante dal centro di Manhattan che la zona in cui è stato costruito (all'angolo tra Central Park West e la 72esima) veniva chiamata "territorio del Dakota". Nell'aprile del 1973 i Lennon acquistarono un appartamento al 17esimo piano dall'attore Robert Ryan. Il loro sogno era acquistare tutto l'edificio: alla fine riuscirono a mettere insieme cinque appartamenti, 25 stanze in totale. In quel palazzo risiedevano altre celebrità, tra cui Lauren Bacall (che detestava Yoko), Shelley Winters, Roberta Flack e Leonard Bernstein. Di fonte all'ingresso dell'edificio Lennon venne assassinato da Mark David Chapman la sera dell'8 dicembre del 1980.

E come Epstein, Brian. Si è molto scritto e fantasticato su una presunta storia tra lo storico manager dei Beatles, scomparso nel 1967 e notoriamente gay, e Lennon. Tutto nacque a causa di una vacanze dei due in Spagna, ma Lennon spiegò: "Non avemmo una storia, ma fu un relazione piuttosto intensa e mai consumata. Di solito stavamo seduti a un caffè a Torremolinos e guardare i ragazzi e commentare. L'esperienza mi piacque abbastanza, perché pensavo come uno scrittore: è una cosa che sto provando di persona".

F come Fame. La canzone che Lennon registrò con David Bowie nel gennaio del 1975. Bowie era in studio a New York e invitò Lennon per lavorare insieme. A un certo punto improvvisarono insieme con l'aiuto del chitarrista Carlos Alomar, che ha raccontato: "Risentendo il nastro ci accorgiamo di quello strano rumore che oggi conosciamo come Fame. Sembrava come se Lennon, per suonare, avesse appoggiato il mento sullo strumento ed era proprio il suo respiro a produrre quel rumore divertente". Qualche tempo dopo, Lennon dichiarò: "Fame fu un incredibile bluff che riuscì. Non riesco ancora a credere che la gente balli con i miei dischi ma, siamo onesti, il mio R&B è profondamente falso".

G come Gibilterra. È la colonia britannica del Mediterraneo in cui John e Yoko decisero di sposarsi il 20 marzo del 1969. Non erano riusciti a organizzare il matrimonio su un traghetto della Manica perché i capitani non celebravano più nozze. L'autore e produttore Pete Brown consigliò Gibilterra perché lì era possibile una cerimonia veloce e segreta. John e Yoko presero un volo privato da Parigi: ad attenderli a Gibilterra c'erano l'amico Pete Brown e il fotografo David Nutter, unico testimone. Il jet atterrò alle 8.30 e alle 9 il gruppo raggiunse il consolato britannico. Gli sposi erano entrambi vestiti di bianco: la cerimonia durò tre minuti. Poi il rientro a Parigi: in tutto, John e Yoko trascorsero a Gibilterra 70 minuti.

H come Happy Xmas (war is over). Dopo aver trascorso due anni a lavorare alla sua campagna per la pace (ricordata per i giganteschi poster stradali di "War is over"), John decise di provare a scrivere una canzone natalizia. La sua intenzione era quella di trasformare in musica la sua visione del Natale inteso come stagione della pace sulla Terra. Registrò il brano il 28 e 29 ottobre 1971 con l'Harlem Community Choir, composto da 30 elementi. Accanto a John e Yoko c'era il leggendario produttore Phil Spector, che avendo già esperienza di dischi natalizi (nel 1963 aveva prodotto A Christmas gift to you, con le Ronettes, le Crystals, Darlene Love e altri) inserì molti effetti come campanelli da slitta e campane. All'inizio del brano si sentono le voci di John e Yoko che sussurrano i nomi dei rispettivi figli, Julian e Kyoko. Il brano fu poi ripubblicato nel 1981 e nel 1982.

I come Instant Karma! "L'ho scritta a colazione, incisa a pranzo ed era pronta per l'ora di cena". Così Lennon sintetizzava questa illuminazione nata la mattina del 27 gennaio del 1970: si svegliò con l'idea della canzone già in testa. Prese subito appunti, poi scese al piano di sotto per accennarla al pianoforte. Telefonò alla Apple (l'etichetta discografica) per far contattare George Harrison e altri artisti per convocarli negli studi di Abbey Road: voleva registrare il brano nel pomeriggio. Mentre si recava agli studi, John vide un pianoforte in un negozio: scese dall'auto e chiese che fosse immediatamente consegnato ad Abbey Road. In studio c'erano Harrison, Klaus Voorman al basso e Alan White alla batteria. A un certo punto il tastierista Billy Preston venne inviato in un club di Piccadilly per cercare voci da unire al coro diretto da George. L'11 febbraio eseguì la canzone a Top of the pops, mentre Yoko era seduta bendata su una sedia con in mano dei cartelli come "Smile", "Peace" e "Hope".

J come Julian. Il primogenito di John, nato dal primo matrimonio con Cynthia. Il nome era un riferimento alla madre di John, Julia. Il rapporto fra Julian e suo padre è stato sempre molto complicato: "È il risultato di una bottiglia di whisky bevuta un sabato sera", disse a Playboy facendo infuriare Cynthia. Julian soffrì moltissimo per la separazione dei genitori: durante un viaggio in macchina per andare a trovare Cynthia, Paul McCartney iniziò a comporre una canzone per il piccolo Julian: dal verso iniziale "Hay Jules" passò rapidamente a "Hey Jude".

K come Kelly, Freda. Irlandese, Freda si traferì con la famiglia a Liverpool quando aveva 13 anni. Da fan della prima ora dei Beatles divenne poi la segretaria del Fan Club. Nel 1963 cancellò per errore una trentina di lettere di Brian Epstein: lui, furioso, voleva licenziarla ma John, che era presente, riuscì a rabbonirlo e Frida mantenne il posto. A lei è dedicato il documentario La segretaria dei Beatles di Ryan White (2013).

L come Lsd. Lennon utilizzò l'esperienza con quella droga per il brano She said, she said, inserito nell'album Revolver. Anni dopo dichiarò di aver fatto uso numerose volte di Lsd, ma l'unica volta in cui provò a prenderlo prima di una seduta di registrazione l'esito fu disastroso: "Improvvisamente sono rimasto terrorizzato davanti al microfono. Temevo che mi sarebbe venuto un collasso. George Martin mi guardava divertito". Lennon ha sempre negato che Lucy in the sky with diamonds fosse un riferimento alla droga.

M come Member of the order of the british Empire, ovvero Mbe. L'11 giugno 1965 fu ufficialmente annunciato che i Beatles sarebbero stati insigniti dell'ordine dei Membri dell'Impero britannico. John non era molto felice di quella onorificentza. Quando gli arrivò la comunicazioe temette di essere stato richiamato per il servizio militare. Poi commentò: "Accettare l'Mbe fu come svendermi". Più tardi Lennon decise di restituire la medaglia rispedendola alla regina a Buckingham Palace con questo messaggio: "Le restituisco questa medaglia per protestare contro il coinvolgimento britannico nelle faccende tra Biafra e Nigeria, contro il nostro aiuto all'America nel Vietnam e contro il fatto che Cold turkey (secondo singolo da solista di Lennon, pubblicato nel 1969 con la Plastic Ono band) non sia più in classifica". All'onorificenza non potè però rinunciare.

N come New York City. Fin dal suo primo approdo con i Beatles nel 1964, Lennon si innamorò di New York. Decise di trasferirsi insieme a Yoko nel 1971. "Penso che per me abbia a che vedere con Liverpool. In entrambe le città c'è la stessa qualità di energia, di vitalità. New York va alla mia velocità: vive 24 ore al giorno, ti si muove intorno continuamente a tal punto che finisci per non notarlo più. Sono naturalmente aggressivi: non credono nell'ozio".

O come Ono, Yoko. La cattiva per antomasia, la donna più odiata dell'intera storia del rock. Il tempo l'ha rivalutata: non fu lei a causare la fine dei Beatles. Dalla sua unione con John è nato Sean, musicista talentuoso.

P come Presley, Elvis. I Beatles incontrarono Elvis a casa sua la sera del 27 agosto del 1965. Dopo un iniziale imbarazzo, Elvis decise di fare una jam session Dopo un po', John cominciò a chiedere: "Come mai adesso fai solo ballate? Dov'è finito il rock'n'roll? Da quanto tempo non vai a Memphis?". Elvis iniziò a innervosirsi: "Senti, io sono occupato con delle colonne sonore, ma non significa che non so più fare rock'n'roll. Potrei scrivere qualche pezzo forte e togliervi dai primi posti delle classifiche". Dopo un po' Elvis, convinto nazionalista e consapevole della posizione di Lennon sul Vietnam, disse ai suoi collaboratori: "Qualcuno dovrebbe parlare all'Fbi di questo figlio di puttana". Negli anni di successivi i rapporti divennero sempre più tesi. Nel 1970, Elvis accusò di anti-americanismo i Beatles in un colloquio con il presidente Nixon. Ribadì le accuse anche di fronte all'Fbi.

Q come Quinzaine des Réalisateurs. Il 15 maggio 1971 John e Yoko presentarono a Cannes in prima mondiale 2 film: Apotheosis, 18 minuti diretti da John, e Fly, 50 minuti diretti da Yoko. Il pubblico fischiò sonoramente il primo.

R come Russell, Bertrand. Neil 1969 Lennon chiese aiuto al filosofo inglese per la sua campagna pacifista. Russell rispose congratulandosi con lui per il modo in cui stava usando i mezzi di comunicazione per le questioni riguardanti il Vietnam e il Biafra.

S come Spector, Phil. Il leggendario produttore e Lennon lavorarono più volte insieme, ma il carattere impossibile di Spector  rendeva i rapporti sempre molto tesi. Durante le session dell'album Rock'n'Roll Spector, in uno stato di totale alterazione, estrasse una pistola e sparò contro il soffitto dello studio. John disse: "Phil, se vuoi uccidermi fallo. Ma non fottermi le orecchie. Ne ho bisogno".

T come Tomorrow never knows. La canzone dei Beatles che ha definito l'intero concetto di psichedelia. John la compose in seguito alle sue esperienze con l'Lsd e ispirandosi al Libro tibetano dei morti. Voleva un effetto che lo facesse sembrare "Il Dalai Lama che canta dalla cima della montagna più alta", con un coro di monaci tibetani in sottofondo. Le prime strofe sono tratte da L'esperienza psichedelica di Timothy Leary.

U come Unfinished Music No1: Two virgins. Il primo disco di John e Yoko. Lo registrarono il 20 maggio 1968 nella casa di John a Weybridge, mentre Cynthia era in vacanza in Grecia. "Abbiamo iniziato l'album a mezzanotte e abbiamo finito all'alba. poi abbiamo fatto l'amore". Il disco venne criticato per il contenuto musicale, definito "immondizia" dai critici, e per la copertina in cui erano ritratti entrambi completamente nudi. John commentò: "Se non si riesce ad accettare il fatto che altre persone siano nude o fumino marijuana o qualsiasi altra cosa, non arriveremo mai da nessuna parte".

V come Voormann, Klaus. Disegnatore, musicista e tanto altro, Voorman ebbe una parte importante nella storia dei Beatles e in quella dell'era solista di Lennon. Conobbe la band ad Amburgo e disegnò la copertina di Revolver. Con John suonò in brani come Cold turkey, Instant Karma!, Power to the people e altri ancora.

W come Woman is the nigger of the world. Una canzone del 1972 dal titolo controverso, che molte radio americane non trasmisero. John la scrisse dopo aver sentito Yoko affermare in un'intervista: "La donna è il più negro del mondo". "È la prima canzone sulla liberazione della donna che sia mai stata scritta. L'intera storia è nel titolo, le parole sono solo un completamento". Nonostante la scarsa diffusione, la canzone arrivò al numero 57 della classifica americana.

Y come You saved my soul. John registrò questo demo casalingo nel novembre del 1980 per raccontare come Yoko lo salvò da un tentativo di suicidio. Il brano fu incluso tra i molti demo trasmessi nella serie The lost Lennon tapes.

Z come Zappa, Frank. Dopo le polemiche scaturite dalle dichiarazioni di Lennon sul cristianesimo, Frank Zappa prese le difese del collega. Lennon, a sua volta, aveva commentato le opinioni politiche di Zappa affermando che era apprezzabile il suo sforzo nel voler arrivare alla gente. I due si conobbero poi in un albergo sulla Fifth Avenue. "Mi aspettavo di trovare uno sporco maniaco con donne nude da tutte le parti. La primi cosa che dissi fu: sembri così diverso. Sei fantastico". Zappa replicò: "Anche tu sembri magro". John e Yoko parteciparono poi come ospiti al concerto del chitarrista con le Mothers of Invention. Eseguirono quattro brani, che John inserì poi come extra nel suo album Sometime in New York City.

Michele Primi per “la Lettura - Corriere della Sera” il 6 settembre 2020. Nel 2017 in un'intervista con il «Washington Post», parlando delle critiche ricevute per i suoi primi dischi da solista, Paul McCartney disse: «Che dovevo fare? Anche il critico del "New York Times" odiava Sgt. Pepper' s Lonely Hearts Club Band ma ce ne siamo fatti una ragione». Non accade spesso che i musicisti rock (fedeli all'idea, sintetizzata magistralmente da Frank Zappa, che «il giornalismo rock è fatto da gente che non sa scrivere, che intervista gente che non sa parlare per gente che non sa leggere») citino una critica, figuriamoci se negativa. McCartney dopo mezzo secolo ricordava bene la più celebre stroncatura nella storia del rock, firmata da Richard Goldstein sul «New York Times» del 18 giugno 1967. Sgt.Pepper' s Lonely Hearts Club Band è uscito da poche settimane. I Beatles ci hanno lavorato per cinque mesi curando ogni dettaglio di un progetto che li conferma come le menti creative più avanzate della loro generazione. È l'album che legittima la transizione del rock nell'arte, numero 1 nella classifica dei 500 migliori album per «Rolling Stone», passa 27 settimane al numero 1 in America e 15 al numero 1 nel Regno Unito, rappresenta la fantasia musicale degli anni Sessanta al potere e un punto di svolta della cultura pop. Per dirla con le parole del produttore George Martin: «I Beatles misero il mondo di fronte a uno specchio. E il mondo potè guardarsi nella sua versione caleidoscopica e rutilante del 1967». Eppure a Goldstein il disco non piace. «Il suono è un miscuglio di dissonanze e opulenza», scrive, e «l'atmosfera è pacata, persino nostalgica ma come avviene per la copertina il risultato è confuso, pretenzioso e disordinato. Come un figlio atteso troppo a lungo Sgt. Pepper' s è viziato». Nel 1967 Goldstein ha 22 anni, conosce bene la scena rock (ha intervistato Brian Wilson e Janis Joplin e recensito per primo l'album di debutto dei Doors) e al «New York Times» sembra la scelta giusta. Nato nel Bronx, Goldstein condivide le origini working class dei Beatles e crede nella forza rivoluzionaria del rock' n'roll, ma quando mette il vinile sul giradischi sente qualcosa che non capisce: «Per la prima volta i Beatles ci hanno dato un album di effetti speciali ma in definitiva fraudolento», «l'ossessione per la produzione e una composizione sorprendentemente scadente permea tutto l'album. Non c'è niente di bello perché non c'è niente di vero, niente per cui restare in attesa», scrive citando il testo di Strawberry Fields Forever . L'amarezza per quello che considera un tradimento è alla fine: «Abbiamo bisogno dei Beatles non come compositori reclusi ma come compagni, e anche loro hanno bisogno di noi. Sostituendo il pubblico con lo studio hanno smesso di essere artisti popolari, per questo l'album è un monologo». Per lui è un disco conservatore fatto da un band di narcisisti. Goldstein diventa famoso. Poi nel 2015, nel libro Another Little Piece of My Heart , rivela: il mio stereo era difettoso. La cassa sinistra non funzionava bene e siccome i Beatles registravano separando i canali si è perso molte cose che tutt' oggi rendono Sgt.Pepper' s un capolavoro innovativo. Oggi Richard Goldstein ha 76 anni, insegna cultura pop all'Hunter College di New York ed è stato direttore del «Village Voice» ma non scrive più di musica. Il «Washington Post» gli ha fatto riascoltare Sgt. Pepper' s con un impianto stereo perfettamente bilanciato. Goldstein ha ammesso che l'esperienza di ascolto è diversa ma non è pentito della sua recensione: «Ero terrorizzato dalla svolta dei Beatles. Non mi interessava l'aspetto profetico dell'album, ero colpito dal fatto che avessero infranto le regole. Volevo scuoterli e spingerli di nuovo verso il rock».

 “I BEATLES NON ERANO PIÙ BRAVI DI MUSICISTI NERI”. Da "rockol.it" il 24 agosto 2020. Nel 1987 Michael Jackson stava vivendo l'apice della sua carriera, forte del successo di "Bad", che con oltre 45 milioni di copie vendute in tutto il mondo rappresenta uno degli episodi più felici della sua carriera discografica. Eppure, nello stesso periodo, lo scomparso Re del Pop era fortemente risentito nei confronti del mondo dell'industria musicale e dei media per via della disparità di trattamento riservato agli artisti di origini afroamericane. In uno dei passaggi più rilevanti del documento si legge: "I bianchi hanno sempre marchiato le pagine della storia con i propri eroi, mettendosi davanti ai neri", scriveva Jackson, "Hanno detto che Elvis era il Re del Rock, che Bruce Springsteen è il Boss e che i Beatles erano i migliori. Certo, quei ragazzi erano bravi, ma non erano più bravi dei musicisti e dei ballerini neri". "Io non ho pregiudizi", ha continuato l'artista, "Ma credo che i tempi siano maturi per il primo, grande Re nero. Il mio obbiettivo è diventare estremamente grande, potente. Voglio diventare un eroe, per mettere fine ai pregiudizi: mi farò amare da questi ragazzini bianchi vendendo più di 200 milioni di dischi. Mi ammireranno, e cambierò il mondo. (...) Sarò il Re. Voglio che tutte le razze si amino come se fossero una sola". Secondo il Sun, che garantisce riguardo l'autenticità del documento, il manoscritto sarebbe stato nascosto dallo stesso Jackson in occasione delle perquisizioni effettuate dalle autorità americane presso la sua residente, Neverland, nel 2003, nell'ambito delle indagini per presunte molestie ai minori: la lettera sarebbe stata affidata a un amico, la cui identità non è stata svelata dal tabloid.

Ottavio Fabbri per “Libero Quotidiano” il 9 settembre 2020. Londra, fine anni '60. Ero a Londra per uno stage presso la Fabbri and Partners (Casa di Edizioni di proprietà della mia famiglia e della famiglia Rothschild). Mio padre si era intanto fissato di voler acquistare una proprietà nella campagna anglosassone. Fissazione persistente in ogni città del mondo dove aveva occasione di fermarsi anche meno di una settimana, (e in generale una casa la comperava, per andarci poi anche meno di una settimana all' anno). Un giorno mi telefona da Milano per dirmi che aveva trovato su di un giornale inglese una inserzione per la vendita di una proprietà nella campagna non lontana da Londra, esattamente nel Surrey. «Ottavio vai a vederla, magari è interessante... C' è l' indirizzo. Ho parlato con una signora gentile dallo strano accento che ti aspetta». «Papà, un' altra casa... ma chi ci va nel Surrey!?». Questa mia frequente e ormai rituale domanda alla vigilia di ogni nuovo acquisto, rimaneva sempre senza risposta, e dunque prendo un taxi e mi avvio nel Surrey con la pazienza del caso, ma anche curioso di vedere l' ultima così interessante novità. Non c' è un nome neanche sul campanello. Suono e mi apre la porta una signora molto piccola e molto sorridente. «Are you mister Fabri' s son?». «Yes madame». «My name is Yoko». Non ci posso credere: Yoko Ono la moglie di John Lennon. Lei nota la mia sorpresa e con un inchino di cortesia orientale mi fa entrare. Noto subito una quantità impressionante e distribuita per terra di registratori Revox, evidentemente del marito in via di trasloco "musicale", insieme ad altre strane masserizie fra cui padelle, chissà per quale cottura, più grandi della padrona di casa. Sento anche un odor di pipì di gatto che sarà il leit motif olfattivo per tutta la durata infinita della visita. Gatti dappertutto, di ogni razza e anche esemplari bellissimi. Comunque il sopralluogo continua con una anche superflua descrizione di Yoko, ormai amica da una vita. Non ho mai visto un tale insieme di oggetti, manichini, strane statue variopinte, e soprattutto di un centinaio di vestiti nell' armadio più grande e lungo certamente del Surrey, illustrato con minuta precisione per date di concerti e relativo abbigliamento di John durante le sue memorabili tournée con i Beatles. Ma è uno dei tanti bagni difficile da dimenticare. Grande come una appartamento ha al centro una vasca da bagno di dimensioni da imperatore romano. Delle piastrelle a scacchi bianchi e neri che ricordano delle gigantesche parole crociate da settimana enigmistica e che confondono la vista che offre comunque una visione di una doccia così grande che forse Lennon usava cantando in doccia insieme a tutti i Beatles. Non so come dire a questa gentilissima signora che la casa, anche con giardino, è bellissima ma non penso che sia il genere che cerca mio padre. Neanche troppo delusa Yoko Ono mi accompagna alla porta sempre con solerte cortesia orientale e mi consegna un biglietto del prossimo concerto dei Beatles a New York, città dove John Lennon verrà ucciso nel 1980 da un mitomane davanti ad un portone di Centrai Park West all' ingresso del Dakota Building, sua fatale ultima dimora a Manhattan. Ho incontrato poi negli anni successivi Julian Lennon, figlio di Cynthia, sua prima moglie, a Roma, ospite della mia amica Claudia Ruspoli che ha organizzato per lui un aperitivo tra amici in una delle piu belle mansarde di rama, appunto a Palazzo Ruspoli. Claudia aveva messo decine di candele sui davanzali e sui bordi delle grandi quattro vetrate della mansarda a forma di torretta, svettante sugli altri Palazzi Romani, in ogni caso sottostanti, per un forse non casuale posizionamento competitivo fra le più illustri e nobili dimore della aristocrazia romana. Fatto sta che questa fila di candele riflettono sulle vetrate dei bagliori di fuochi lampeggianti a sembianza di un incendio. Dopo poco vedo spuntare al di là di una delle vetrate un elmetto. È un pompiere che in cima ad una scala si affaccia all' innocuo party immaginando già di dovere salvare qualche sbadato che aveva dato fuoco alla torretta Ruspali. Claudia è più sorpresa di me e con principesca gentilezza fa entrare il pompiere seguito sulla lunga scala da altri pompieri che scavalcano il davanzale fra tante innocue fiamme e brindano con i nostri amici allo scampato pericolo. «I love Rome!» è il commento di umorismo very british di Julian Lennon, anche lui musicista nella memoria di tanto leggendario padre.

Elvira Serra per il “Corriere della Sera” il 29 agosto 2020. Undici volte non bastano. Ed è ancora lei, Yoko Ono, l'ostacolo principale alla scarcerazione di Mark David Chapman, il killer che esplose dalla sua calibro 38 i quattro colpi che ferirono a morte John Lennon la sera dell'8 dicembre di quarant' anni fa. L'uomo, condannato a una pena dai vent' anni all'ergastolo a discrezione dei magistrati, come prevede il sistema giudiziario americano, si è visto negare per l'undicesima volta la libertà sulla parola. Il veto più «pesante» continua a porlo la vedova di John, oggi 87enne, ormai assistita da un badante e dal figlio Sean. La stessa donna che a gennaio del 2019, ritirando la sua ultima onorificenza dopo aver preso parte a un corteo femminista, aveva ringraziato i membri della National Music Publishers' Association per il premio appena ricevuto e anche la sua malattia, «che non smette di insegnarmi così tanto». Yoko però non riesce ancora a perdonare: 39 anni e 8 mesi dopo l'omicidio del leggendario marito è convinta che l'assassino non abbia scontato abbastanza. Eppure era stata proprio lei, nel 2006, a proporre di istituire per l'8 dicembre la Giornata mondiale del perdono, perdonandosi in anticipo, probabilmente, per non riuscire a far fiorire lei per prima il sentimento di indulgenza. Il perdono, in realtà, è una cosa seria, ed è quanto di più lontano da certe esternazioni a beneficio di telecamera che ogni tanto si sentono a ridosso di un delitto. È davvero impossibile mettersi nei panni di Yoko Ono e provare a immaginare cosa provi, ancora oggi, per l'assassino che poche ore prima di uccidere l'uomo che amava gli aveva chiesto un autografo e si era fatto fotografare con lui, all'ingresso della loro casa newyorchese, nel Dakota Building. Ed è difficile provare compassione per lo squilibrato, ai tempi venticinquenne, che colpì alle spalle John Lennon dopo averlo aspettato fino a tardi sotto casa. «Avevo chiesto a Jude, un'altra fan che era lì, di uscire come me quella sera: se mi avesse detto di sì probabilmente non avrei sparato. Ma forse ci avrei riprovato», aveva raccontato Mark David Chapman a Larry King durante il suo Live nel 1992. Del resto, tra gli svariati deliranti motivi con cui l'ex guardia giurata di Honolulu aveva giustificato il gesto, c'erano l'aver desiderato di essere uno dei Beatles e la rabbia per le frasi di John in cui proclamava che lui e gli altri della band di Liverpool erano più famosi di Gesù. Il tempo, trascorso in carcere a dipingere, pulire e passare la cera al pavimento, oltreché a cercare conforto nella fede, ha portato il detenuto modello a più miti consigli. «Trent' anni fa non potevo dire di essermi vergognato, ora so cos' è la vergogna: è quando ti copri la faccia e non vuoi chiedere niente», aveva ammesso con la commissione che valuta la libertà sulla parola del carcere di Wende, dove è rinchiuso, che stava esaminando la sua decima richiesta di scarcerazione. «Sentivo che uccidendo John Lennon sarei diventato qualcuno, e invece sono diventato un assassino, e gli assassini non sono qualcuno». Ma neanche quella volta è riuscito a convincerli, né loro volevano sminuire l'enormità del reato concedendogli la libertà, o addirittura rischiare di esporlo alla vendetta di qualche fan incanutito. Peraltro, alle lettere che Chapman e sua moglie Gloria (la stessa da quarantuno anni) hanno inutilmente spedito a Yoko Ono si sovrappongono quelle che la vedova di John Lennon ha continuato a scrivere ai giudici, identiche, in cui si dichiara preoccupata per l'incolumità sua e dei figli dell'ex Beatle (Sean, avuto con lei, e Julian, che lui ebbe dalla prima moglie, Cynthia Powell). John il 9 ottobre avrebbe compiuto 80 anni. E per certo, in qualche modo, non è mai morto davvero.

DAGONEWS il 12 novembre 2020. A 87 anni Yoko Ono lascia la gestione del mega patrimonio di John Lennon nelle mani del figlio Sean. La vedova ha gestito la grande fortuna dell’artista dalla sua morte nel 1980, ma adesso ha deciso di passare la palla al figlio. Sean, 45 anni, è stato nominato direttore di otto società legate alla famiglia e ai Beatles, inclusa la Apple Corps, e rileverà la tenuta di Lennon che si dice valga fino a 800 milioni di dollari. Apple Corps ha dichiarato un patrimonio di 36 milioni di dollari l'anno scorso e si ritiene che anche Sean gestirà il materiale da solista di John, la Maclen, che pubblica il lavoro di John negli Stati Uniti, e la Subafilms, una società di film musicali. John ha avuto un altro figlio, Julian con la sua prima moglie Cynthia, ma l’uomo, oggi 57 anni, è stato escluso dal testamento. Il cantante aveva creato un trust affinché Julian ricevesse 100.000 sterline quando avrebbe compiuto 21 anni. Nel 1996, Julian ha citato in giudizio la proprietà di suo padre e dopo una lunga battaglia giudiziaria, si è accordato con Yoko per 25 milioni di dollari, cifra che lui ha respinto. Negli ultimi anni, però, pare che i rapporti tra Julian e Yoko si siano appianati.

IRENE SOAVE per il Corriere della Sera il 10 luglio 2020. Gravemente malata, su una sedia a rotelle, continuamente assistita da una badante o dal figlio Sean: a 87 anni la donna a cui molti hanno attribuito la maligna onnipotenza di sfasciare i Beatles, Yoko Ono, si sarebbe trasformata in una figura fragile. Rifiuta di uscire dal lussuoso appartamento nel Dakota Building, Upper East Side, di fronte al quale il marito John Lennon fu ucciso 40 anni fa e vende un pezzo dopo l'altro il suo patrimonio immobiliare, come se sentisse vicina la fine della sua vita straordinaria. Lo ha raccontato al New York Post l'amico Elliot Mintz, «portavoce» informale di Yoko Ono e del figlio Sean Lennon. «Sta rallentando». Del resto, ha aggiunto, «Yoko ha 87 anni vissuti come 400». Da più di un anno Yoko Ono non compare in pubblico, e l'ultima volta - a gennaio 2019 - è stato a un corteo femminista, sulla sedia a rotelle che si è aggiunta agli altri elementi indispensabili di ogni sua uscita, panama nero e occhiali da sole. Sempre in sedia a rotelle ha ritirato la sua ultima onorificenza, il premio annuale della National Music Publishers' Association, nel 2017; aveva ringraziato «anche la mia malattia, che non smette di insegnarmi». Quale sia, la sua malattia, nessuno della cerchia degli intimi lo fa trapelare: i sintomi noti sono che non cammina se non con un bastone, è costantemente assistita da un'infermiera e «come tutti alla sua età è un po' lenta nel parlare», ha detto Mintz. «Ma è lucida». Del resto, all'alternarsi di trionfi e tracolli Yoko Ono è abituata dai primi anni della sua vita, iniziata a Tokyo nel 1933: il lato aggressivo del suo carattere, ha raccontato spesso, viene da quando la sua famiglia da ricca si impoverì durante la Seconda guerra mondiale, e lei si trovò, figlia con maniere da principessa di un banchiere e di una pianista, tormentata dai coetanei in campagna. Le sue opere - Yoko Ono e l'associazione Fluxus di cui era parte furono tra i primi, negli anni 60, a esplorare arte concettuale e performance - erano tanto ammirate da artisti come l'amico Andy Warhol quanto stroncate come «parassitarie» della fama del marito. E così via. In realtà fu proprio a una mostra di Yoko Ono che lei e Lennon si conobbero nel 1966: un'opera era un muro in cui ogni visitatore avrebbe piantato un chiodo, ma poiché Lennon la stava visitando prima dell'apertura lei non voleva che la inaugurasse; lui le offrì «cinque scellini immaginari per piantare un chiodo immaginario». Questa fu la loro prima conversazione. E sull'effetto che l'amore tra John e Yoko, che si sposarono nel 1969, ebbe sulle sorti dei Beatles, che si separarono nel 1970, i fan della band tendono alla spietatezza: fu lei, sostengono molti, a fargli provare l'eroina; lei a criticare le canzoni, lei a metterlo contro gli altri a favore di progetti paralleli come la loro Plastic Ono Band; «essere una Yoko Ono» è diventato un modo di dire, e quando tra il 1973 e il 1975 la coppia si divise temporaneamente in molti gioirono. In quegli anni Yoko Ono era in un altro baratro: il primo marito aveva rapito nel 1971 la loro figlia Kyoko per crescerla tra i fondamentalisti cristiani; Lennon e lei avevano annunciato tre gravidanze tutte fallite, e solo nel 1975 sarebbe arrivato Sean. All'ultimo compleanno di Yoko Ono, l'87esimo, festeggiato il 18 febbraio scorso nel Bar Wayo dove Sean lo organizza ogni anno, c'erano entrambi. Sean, «che adora sua madre, cena con lei tre volte alla settimana e la porta spesso come guest star nella sua band» (sempre Mintz). Kyoko, che si era messa in cerca della madre solo dopo la morte di Lennon, nel 1980, e ora a 56 anni «è amica di Sean e parte della famiglia». Con loro una trentina di intimi: Mintz, la cantante Cyndi Lauper, il fondatore di Rolling Stone Jann Wenner. «Una celebrazione in tono minore», riporta il New York Post ; dalla quale Yoko, spente le 87 candeline, è stata comunque l'ultima ad andare via.

DAGONEWS il 10 aprile 2020. Uno scatto. Tre ragazzi alla chitarra all’inizio di una tortuosa strada per il successo. I loro non sarebbero rimasti sogni nel cassetto. Le loro canzoni avrebbero fatto il giro del mondo e sarebbero state suonate per decenni. I tre giovani sono mostra Paul McCartney, John Lennon e George Harrison in una casa di Liverpool al tempo di Quarrymen. Ancora non sapevano che un anno dopo sarebbero diventanti i Beatles e che le loro canzoni avrebbero cambiato la storia della musica. L'immagine, che si pensa sia stata scattata nel 1959, è un pezzo di storia visto che le immagini di quel periodo sono rarissime.

Giovanni Gabban per r3m.it il 3 gennaio 2020. Quando si separarono ormai 50 anni fa, i Beatles avevano rilasciato interviste molto sospette che avevano diffuso il panico nei fan. Molte di queste interviste erano poi state boicottate e vietate, considerate come troppo pericolose poiché avrebbero sicuramente scatenato il panico di massa. Nel 1970 i Beatles stavano completando la loro ultima sessione di registrazione come gruppi e il singolo a cui stavano dando gli ultimi ritocchi era Let It Be, un capolavoro di McCartney. Mancava solo il famoso assolo di chitarra di George Harrison, che avrebbe registrato in brevissimo tempo. Ma gli indizi della fine dei Beatles erano già avvenuti. David Wigg, un giornalista della BBC, intervistarono Paul e Linda McCartney ancora nel 1969. Segretamente, fecero capire che ormai la band era arrivata alla fine. Lo spirito gioioso del loro singolo celebre, All You Need Is Love, registrato quasi prima del 1970, era praticamente scomparso. Si trovavano in ballo molte cose – soldi, direzione artistica e musicale e, nel caso di John e Paul, persino delle loro mogli. Ogni parola del gruppo era presa come oro dalla stampa. Ecco perché molte interviste rilasciate in quel momento, viste oggi, assumono un valore davvero intrigante. Le interviste condotte dal giornalista David Wigg per BBC offrono in effetti una visione affascinante delle emozioni della band che ormai era piena di rancore, attriti e confusioni. Le interviste di Wigg si svolsero tra il 1969, subito dopo l’uscita dell’album Abbey Road e il 1973, quando la band era già sciolta. Le interviste erano destinate alla trasmissione su BBC Radio 1; tuttavia George e Ringo, consapevoli di quanto fossero rivelatori, combatterono con ogni mezzo insieme ai loro avvocati per impedire la pubblicazione. Fu solo nel 1976 che l’audio delle interviste fu finalmente pubblicato. Lennon disse a Wigg che i Beatles si stavano “disintegrando lentamente” da quando il loro manager Brian Epstein era morto due anni prima nel 1967, lasciando un vuoto nella gestione dei loro affari. Lennon disse a Wigg: “È stata una morte lenta. Era evidente in Let It Be [registrato all’inizio del 1969]… era evidente in The White Album [nel 1968, quando il gruppo fece molti singoli nel disco.  Quando le persone decidono di divorziare, molto spesso lo fanno amichevolmente. Ma poi quando non possono parlarsi senza un avvocato, allora non c’è comunicazione. E sono proprio gli avvocati a rendere i divorzi cattivi”. Lennon era stato, tra le altre cose, impantanato in un difficile divorzio dalla moglie Cynthia. Il “divorzio” dei Beatles fu molto spiacevole, anche se il gruppo, specialmente McCartney, fece del suo meglio per documentare le crepe nelle loro interviste. Wigg disse: “John e Paul erano come fratelli. Avevano un legame straordinario. Erano come una famiglia“. C’erano comunque tensioni amare, emerse con le rispettive mogli e fidanzate. Lennon era già noto per deridere Linda McCartney. McCartney, da parte sua, si risentì di Lennon per aver insistito nel portare Yoko Ono nello studio di registrazione, da cui le fidanzate e le mogli erano state precedentemente bandite. Sui nastri, tuttavia, Lennon ha cercato di insistere sul fatto che Linda e Yoko non avrebbero avuto la colpa della rottura. “Come possono due donne dividere quattro uomini forti? Sono proprio gli avvocati che rendono i divorzi cattivi?”.

Beatles, il manoscritto di "Hey Jude" venduto all’asta per 910 mila dollari.  La vendita di cimeli dei Fab Four in California nel cinquantesimo anniversario dello scioglimento del gruppo. La Repubblica l'11 aprile 2020. Un foglio di carta su cui Paul McCartney ha scritto a mano le parole della famosa canzone "Hey Jude" è stato venduto per 910 mila dollari in un’asta in occasione del cinquantesimo anniversario della separazione dei Beatles. Si tratta di oltre cinque volte l'importo stimato a monte della vendita online dalla casa californiana Julien's Auctions. Chitarre, vinili rari, oggetti autografati. Circa 250 lotti di oggetti appartenuti al mitico gruppo britannico sono stati offerti a fan e collezionisti di tutto il mondo. Paul McCartney aveva scritto "Hey Jude" dopo un'altra rottura: quella di John Lennon con la sua prima moglie Cynthia, seguita al rapporto di Lennon con l'artista giapponese Yoko Ono. La canzone, che puntava a confortare il figlio di John Lennon, Julian durante il divorzio dei suoi genitori, era originariamente intitolata "Hey Jules". Tra le altre grandi vendite del giorno: la pelle di una grancassa con il logo dei Beatles e utilizzata durante il primo tour americano del gruppo nel 1964, venduta per 200 mila dollari. Una pagina scritta a mano dalla sceneggiatura del brano "Hello, Goodbye" (1967) aggiudicata per 83.200 dollari e un posacenere usato da Ringo Starr negli studi di Abbey Road negli anni '60 per 32.500 dollari

Paolo Giordano per “il Giornale” il 10 aprile 2020. Quel giorno, era un giovedì proprio come oggi, Paul McCartney se ne uscì con la notizia più grossa del momento parlandone come se fosse un' inezia. I Beatles erano finiti. 9 aprile 1970. Il gruppo che aveva aperto al futuro le porte della musica leggera non esisteva più, non ci sarebbe mai più stato, zero, niente, scordateveli. Per carità, la notizia nell' ambiente circolava già da qualche tempo e lo stesso John Lennon l' aveva in qualche modo annunciata all' interno del gruppo già a gennaio. Ma fu Paul McCartney che la formalizzò al mondo nel comunicato stampa per l' uscita del suo primo album solista, non a caso intitolato soltanto McCartney. Nel comunicato-intervista gli fu chiesto se il disco rappresentava un periodo lontano dai Beatles o l' inizio di una carriera solista e lui rispose che era entrambe le cose. Poi, dopo aver confermato che non avrebbe più scritto canzoni con Lennon e che non c' erano progetti futuri con i Beatles, «Macca» elencò con naturalezza i motivi per i quali aveva interrotto i rapporti con il gruppo, che sono poi gli stessi per i quali qualsiasi gruppo normalmente si scioglie, ossia «divergenze personali ed economiche, ma soprattutto sto meglio con la mia famiglia». Paul McCartney aveva sposato la sua adorata Linda l' anno precedente, ma lei non aveva di certo la vocazione conflittuale e polemica di Yoko Ono perciò non prese alcuna posizione netta quando suo marito smise di essere parte del gruppo più importante di sempre. Risultato: dopo 8 anni, i Fab Four erano soltanto un ricordo e basta. Ed erano un ricordo anche quando, poche settimane dopo, ossia l' 8 maggio, uscì Let it be, l' ultimo disco di Harrison, Starr, Lennon e McCartney insieme, uno dei più belli della storia. Nel brano Let it be, che è praticamente frutto del solo McCartney anche se firmato come consuetudine anche da Lennon, lui racconta un sogno nel quale la madre, morta di cancro nel 1956 quando la futura megastar aveva 14 anni, gli diceva «non ti preoccupare». «Quando mi trovo in momenti di preoccupazione, mia mamma viene da me dicendo parole di saggezza, non ti preoccupare». In realtà McCartney si preoccupò molto per la fine dei Beatles, così come gli altri tre. Avevano suonato l' ultimo concerto, quello sul tetto della Apple a Savile Row, il 30 gennaio del 1969. Il gennaio del '70 si ritrovarono per l' ultima volta insieme in uno studio (non c' era Lennon) per registrare I me mine, che diventò la traccia numero 4 di Let it be. La numero 10, ossia The long and winding road, fu talmente modificata dal produttore Phil Spector, quello del «muro del suono», quello che oggi sta ancora scontando la condanna per omicidio di secondo grado, condanna espiata per lunghissimo tempo nello stesso carcere di Charles Manson, la Corcoran State Prison a Kings County in California, che McCartney arrabbiatissimo fece causa. Prima aveva litigato con la band perché aveva proposto suo suocero avvocato per risanare i disastri finanziari della Apple ma gli altri gli avevano preferito il manager Allen Klein. In realtà queste sarebbero state semplicemente bagattelle se il rapporto tra loro quattro non fosse già arrivato alla fine e se le loro vite, prima ancora delle carriere soliste, non avessero preso strade diverse. Come sempre i grandi eventi sono destinati a restare in parte misteriosi e così anche la fine dei Beatles, annunciata urbi et orbi da McCartney con la sua solita garbata leggerezza, ha tuttora molti lati oscuri. Ma chi se ne importa. Conta che quel giorno di cinquanta anni fa finirono una band ma soprattutto un' epoca. La swingin' London era sempre meno swingin', l' ossessione ideologica ingrigiva l' ispirazione di tanti e, in quel giovedì di inizio aprile 1970, tutti dicevano che il rock stesse per morire, mentre in realtà stava iniziando il decennio più esaltante della sua storia.

·        50 anni dalla morte di Angelo Rizzoli “il Vecchio”.

50° di Angelo Rizzoli “il Vecchio”: l'orfano di un ciabattino che divenne miliardario e conte. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 24 settembre 2020.

Andrea Cionci

Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.

«Non fate mai debiti con le banche»: queste furono le ultime parole di Angelo Rizzoli “il Vecchio” nato nel 1889 e morto esattamente 50 anni fa, il 24 settembre 1970, nella sua Milano.  Al posto di “senior” abbiamo usato l’apposizione riservata dalla storia ai grandi personaggi, fossero fondatori di dinastie, scienziati o artisti. Il più grande editore italiano del ‘900 è stato, infatti, tutto questo: vero genio della contabilità, calcolava ancora a matita i pro e i contro degli investimenti che intraprendeva con un fiuto paragonabile a un estro creativo. E’ perfino morto nobile, come un banchiere rinascimentale, dato che nel 1967 fu nominato Conte da re Umberto II (il quale, sebbene in esilio, manteneva ancora la “fons honorum”). Un titolo senza dubbio meritato: partito da sotto-zero, Rizzoli avrebbe lasciato ai suoi discendenti un patrimonio di 100 miliardi di lire dell’epoca - senza il minimo debito - e un nome carico di gloria associato non solo all’editoria, ma anche alle produzioni cinematografiche e all’imprenditoria immobiliare. Figlio di un calzolaio analfabeta morto suicida prima della sua nascita, il piccolo Angelo crebbe in un orfanotrofio milanese di eccellenza come il Martinitt, fondato da S. Girolamo Emiliani nel ‘500. Con buona pace dei critici di queste antiche istituzioni, il collegio sfornò altri talenti come Leonardo Del Vecchio, fondatore di Luxottica, ed Edoardo Bianchi, della omonima industria di bici e auto. Al Martinitt si imparava un mestiere sul serio e il giovane Angelo, ritrovatosi tipografo ad appena 18 anni e lasciato l’orfanotrofio, venne assunto nella stamperia Alfieri e Lacroix. Nel 1909 decide di mettersi in proprio insieme a un altro operaio e subito ebbe l’intuizione di produrre cartoline commemorative della campagna di  Libia, (1911-’12) riscuotendo grande successo. Un collezionista di cartoline militari, il 1° Luogotenente dell’Esercito Danilo Amato ci ha messo a disposizione una delle cartoline stampate nella tipografia Alfieri e Lacroix nella quale Rizzoli iniziò a lavorare. Raffigura un “marabut”, ovvero la tomba di un santone musulmano all’interno dell’accampamento del 36° reggimento di Fanteria presso Sidi Boasa. Fu spedita il 17 settembre 1912, a un mese dalla fine della guerra e il testo recita: “Ti mando i più cordiali e affettuosi saluti dalle trincee di Derna. Scrivimi buone notizie. Il tuo per sempre amico Battistino”. Anche durante la Grande Guerra, Angelo Rizzoli stampò cartoline in quantità per l’efficientissima posta del Regio Esercito. Il traffico di questi prodotti postali, durante il solo conflitto ‘15-’18 oltrepassò i 4 miliardi di pezzi con tempi record di arrivo a destinazione: due-tre giorni. Oltre a offrire conforto ai soldati permettendo loro di comunicare con le famiglie, le cartoline rivestivano un ruolo strategico fondamentale dato che, sul frontespizio, veicolavano anche una attenta e intelligente propaganda di guerra per sostenere il morale tanto dei militari al fronte quanto della popolazione civile. (La collezione del Luogotenente Amato è stata appena esposta a Roma, presso il Museo Storico dei Bersaglieri, dentro Porta Pia, in un allestimento curato dall’architetto Consuelo Mastelloni e presto la rivedremo al Museo dei Granatieri di Sardegna). Nel ’17, tornato dal fronte, Angelo Rizzoli investì questi primi guadagni acquistando dalla Mondadori - per sole 40.000 lire (circa 80mila euro di oggi) - ben quattro riviste, prestigiose, ma economicamente al disastro, che trasformò in periodici femminili di grande successo. All’epoca, quelle pagine erano dense di contenuti istruttivi per le giovani borghesi italiane e nel ’29, mentre il mondo sta crollando sotto i colpi della crisi finanziaria, Rizzoli invade anche il mercato dei libri. Il primo grosso boccone arriva con l’Enciclopedia Treccani e poi con la felicissima intuizione delle edizioni economiche BUR, grandi classici della letteratura a prezzi ultra-modici. Ogni libro vende 30.000 copie e Rizzoli assurge al rango di gigante editoriale europeo. Tenendosi quasi maniacalmente alla larga dalla politica, attraversa indenne il Ventennio, la guerra e l’ancor più pericoloso (per un imprenditore) dopoguerra. Nel ’56 passa al cinema e fonda la Cineriz, producendo gli immortali film di Don Camillo: non solo Carmine Gallone, ma anche Pasolini, Visconti, De Sica, Germi e Fellini si serviranno dei suoi studi. Il ragionier Romano Di Clemente, ex dipendente della casa cinematografica lo ricorda così: “Era un lavoratore instancabile, ma soprattutto sapeva circondarsi di collaboratori capacissimi ai quali lasciava il giusto margine di autonomia. Il suo segreto? Saper coniugare un lecito profitto offrendo sempre il massimo della qualità: una forma di grande rispetto e onestà verso il pubblico, che seppe ripagarlo. Secondo l’uso della buona borghesia milanese, anche i suoi figli e nipoti lavoravano per lui, ma venivano trattati senza alcun privilegio. Angelo Rizzoli non ripose mai grande fiducia nelle loro capacità amministrative, e non si ingannava, purtroppo. Dopo la sua morte, nel giro di pochi anni, la Rizzoli, nelle mani dei discendenti, decadde completamente”. Il suo sogno sarebbe stato quello di comprare il Corriere della Sera, ma a conti fatti giudicò l’investimento troppo rischioso e compromettente con quel “palazzo” che tanto temeva. Altre storie, altri tempi, un’altra Italia dove il merito, il duro lavoro e la qualità del prodotto potevano ancora far accumulare a un imprenditore simili fortune, senza banche e senza politica.

Giovanni Ciacci per “Oggi” il 24 settembre 2020. Ljuba Rosa Rizzoli e stata una delle donne più belle del mondo, una delle più chiacchierate, ricche e corteggiate del nostro tempo. Non ama rilasciare interviste, non parla volentieri della sua vita straordinaria fatta di lusso opulento e sfrenato, mondanità da far girare la testa, vizi, amori clamorosi, notti e notti sui tavoli da gioco, segnata infine da una tragedia immensa, non superabile: la perdita dell’amatissima figlia. Donna Ljuba la raggiungo al telefono nel suo lussuosissimo attico a Montecarlo, una casa che si perde nel blu del mare e dove sul terrazzo ci sono tante rose rosse che portano il suo nome, le rose Ljuba Rizzoli che lo stesso floricoltore delle rose della Principessa Grace le ha dedicato.

La storia con Tagliabue tra gioielli e mondanità improvvisamente fini, cosa e successo?

«Io ero partita con le amiche per fare il giro del mondo e sono stata via un mese e mezzo. Abbiamo fatto il giro del mondo perchè Ettore voleva che comprassi i gioielli più belli di ogni luogo: in Venezuela gli smeraldi più belli, in Birmania i rubini, in Sudafrica i brilli più grossi e così via. Poi, tornata a Monza, come nelle storie più banali, lo trovo a letto con la figlia del fattore. Erano nella nostra camera da letto, li trovai nudi che facevano l’amore. Sconvolta, iniziai a correre per uscire dalla villa ma caddi nella piscina vuota sbattendo la testa. Mi sono risvegliata giorni dopo nell’ospedale di Monza. C’era il trauma della caduta ed ero in preda a una depressione fortissima a causa del tradimento di Ettore. Non volevo più vivere. Io lo amavo moltissimo, ero pazza di lui. Piangevo giorno e notte. Mentre ero nel letto dell’ospedale che mi disperavo vedo passare nel corridoio Andrea Rizzoli, amico di famiglia che tante volte era stato a casa nostra con la bellissima moglie. Era in ospedale perchè era venuto a inaugurare un’ala nuova dell’ospedale che porta tutt’oggi il nome della famiglia Rizzoli. Lui mi vede nel letto e mi viene a salutare tutto preoccupato, io gli racconto cosa mi era successo e gli dico che non volevo più vivere senza Ettore. Lui gentilmente si offre di aiutarmi a rimettermi in piedi e tutti i giorni torna a trovarmi e, piano piano, grazie alla sua presenza riprendo contatto con la vita. Lui mi portava a fare delle piccole passeggiate, lui curava la mia anima ferita. Gli ero molto grata e così piano piano ci siamo innamorati. Andrea era anche lui, come tutti gli uomini che ho amato, molto più grande di me, era sposato aveva già tre figli. Con lui mi sentivo protetta e avevo bisogno di un grande affetto. Andrea era tanto innamorato di me, delle mie fragilità, del mio modo semplice di amare la vita, era l’uomo più buono del mondo».

Che cosa significava entrare nel clan Rizzoli, una delle famiglie più importanti dell’Italia del Dopoguerra?

«Erano molto snob; Angelo, il commendatore, mi ha voluto bene immediatamente. Era felice che il figlio si fosse innamorato di me. Io ero una ventata di freschezza, di spensieratezza e follia. Devo chiarire che Andrea Rizzoli era separato in casa con la moglie Lucia, una donna meravigliosa, il loro rapporto era già finito quando io l’ho incontrato e in Italia non esisteva il divorzio. Per allontanarmi definitivamente da Tagliabue, andammo dal notaio e io ricevetti una liquidazione da capogiro assieme a tutti i gioielli. Forse lui voleva che io fossi indipendente e con quel gesto mi rendeva libera di vivere la mia vita come volevo. La mia vita, pero, volevo viverla accanto ad Andrea Rizzoli. Pensi che quando l’ho conosciuto lo trovavo persino brutto. Con Andrea iniziammo a frequentare un jet set da capogiro. Tra aerei privati, grandi balli, casino, festival del cinema, era una vita a mille all’ora. Se volevo mangiare caviale, Andrea mi portava a Mosca, se volevo aragosta, volavamo a Nizza, se volevo fare un bagno, un elicottero ci portava a Ischia. Insomma, una vita molto movimentata e moderna in un’Italia che stava celebrando il suo boom economico. Frequentavamo da Indro Montanelli a Margaret d’Inghilterra, da Oriana Fallaci a Federico Fellini, Onassis, la Callas, Ranieri e Grace di Monaco. Un giorno Andrea con il suo aereo privato per salutarmi fece volare basso il jet, io ero ospite dei Brandolini a Venezia, e il giorno dopo mi arriva un Rolex di brillanti con l’ora in cui era passato in volo a salutarmi. Un periodo folle! Io per tutta la mia vita non ho mai avuto interesse per i soldi ne li ho cercati. Credo molto nel destino».

In tutto questo valzer mondano, le hanno proposto anche di fare del cinema?

«Mio marito non voleva, era gelosissimo. Ricordo benissimo che quando tornammo da New York dopo la presentazione de La Dolce Vita di Fellini, prodotto da mio suocero con la sua Cinerix, il commendatore disse che dopo il successo di quel film era pronto a produrne un altro con me come protagonista. Mio marito ando su tutte le furie col padre, tanto che dovette intervenire Fellini per placare gli animi. Volevano che facessi film con loro Fellini, Lattuada e persino Carlo Ponti, perchè diceva che potevo essere la Sophia Loren milanese, ma Andrea mi voleva donna di casa. E invece che donna di casa sono diventata donna di casino».

Lei ama tanto giocare, la leggenda vuole che abbia un conto aperto e illimitato al Casino di Montecarlo, vero?

«Quante leggende raccontano su di me. Lo faccia credere. Pero, e vero, ho amato e amo il casino, il brivido del gioco mi emoziona. Ma purtroppo non ci sono più i giocatori di una volta come Vittorio De Sica o Aristotele Onassis, notti intere a perdere e poi vincere. Un brivido unico. Ho visto dilapidare fortune immense, ma ho visto anche vincere tanto».

Poi, improvvisamente, come per miracolo, lei rimase incinta di sua figlia Isabella.

«Fu un vero e proprio miracolo. Secondo i medici, non potevo avere i figli dopo la violenza che avevo subito da ragazza. Mia figlia e stata un miracolo, ma poi il Signore me l’ha portata via troppo presto».

La sua villa a Cap Ferrat e stata un crocevia di mondanità: chi frequentava la villa dei Rizzoli? 

«Passavano tutti, tra saloni, feste e balli. Aga Khan con Rita Hayworth, e io tenevo in braccio la loro figlia, la piccola Jasmine. I Rothschild, Christian Dior, un giovane Donald Trump con la simpatica moglie Ivana, i Savoia, la moglie del dittatore delle Filippine Imelda Marcos e i suoi guardaroba da viaggio immensi, pieni di gioielli e pellicce, Khashoggi con la bella Lamia attraccava lo yacht Nabila sotto casa».

Un’avance che ha rifiutato? E un regalo folle che un uomo le ha fatto?

«Io nella mia vita sono stata fedelissima, sia con Ettore che con Rizzoli. Uno che mi faceva delle avances ma non ho mai ceduto era Gianni Agnelli. Regali? Me ne hanno mandati a centinaia, di solito gioielli, ma uno spasimante una volta mi regalo un Boeing, un aereo che non sapevo dove posteggiare e l’ho venduto. Re Fahd dell’Arabia Saudita ha fatto follie per me e anche se era un uomo meraviglioso, mi ci vede rinchiusa tutto il giorno a palazzo con un velo in testa?».

Quanto e stato importante il sesso nella sua vita?

«Ho sempre preferito il gioco al casino».

Era molto amica della principessa Grace?

«L’ho conosciuta la prima volta quando andai in viaggio di nozze con Tagliabue a Montecarlo, lui voleva che vivessimo nel Principato perchè era molto amico di Onassis. L’ho conosciuta sul Christina, lo yacht di Aristotele, durante una cena privata: eravamo io, Tagliabue, Onassis con la moglie e i figli, la principessa e il principe Ranieri. Quando lei mi ha vista e rimasta incantata dall’abito che portavo e mi ha sommerso di complimenti. E pensare che un anno prima avevo visto il suo matrimonio in diretta tv e sognavo di sposarmi cosi. Andavamo spesso a cena sul Christina e li ho conosciuto anche Winston Churchill con il quale facevo grandi partite a carte, Re Farouk e Greta Garbo».

Ha conosciuto anche la Garbo?

«Ma certo, era cosi divertente e bella, riempiva tutta la sua casa di bouquet di mimosa e garofani rosa, una donna elegantissima, molto ma molto mascolina. Stava sempre con una sua amica in casa e adorava circondarsi solo di belle donne molto misteriose... Viveva in una casa bianca, piccola e molto spartana. Siamo state anche in crociera insieme, sempre sul Christina».

Un’altra donna che frequentava la sua villa era Oriana Fallaci, una dipendente di suo marito.

«Il commendatore era contrario che lei frequentasse la nostra casa, ma Andrea diceva che non si poteva non invitare la firma più importante di un nostro giornale, lui la amava da morire. Lei non mi considerava, per lei ero una donna inferiore. Mi diceva: “Tu, conta fino a dodici poi apri bocca”. Per Oriana ero troppo bella e la bellezza per lei era sinonimo di sfida, adorava stare solo con gli uomini ed essere l’unica e la sola da adorare. Quando era in casa, facevamo grandi colazioni e lei teneva banco con gli uomini e mi diceva: “Stai zitta, tu sei carina e simpatica ma non aprire bocca”. Ricordo una colazione con Andreotti, Bevilacqua, Tony Renis e Alida Chelli e siccome tutti parlavano, ma non di lei, si spoglio e si mise a ballare nuda intorno alla piscina: era scatenata! A casa nostra quando c’era lei comandava solo lei, andava dal cuoco e decideva i menu, si alzava, ballava, un vulcano».

Ma era gelosa di lei ?

«Ma Oriana nemmeno mi vedeva, pensi che quando andavamo a casa di Chagall lei prendeva per mano Andrea e mi lasciavano indietro come una poveretta. Allora io mi arrabbiavo e dicevo ad Andrea che quando c’era il “vulcano Oriana” all’orizzonte lui non mi considerava; ma rispondeva che io vedevo cose che non esistevano. Invece, quand’eravamo sole, tutto cambiava. Oriana voleva andare a ballare al Pirata con me, perchè voleva che le presentassi un fidanzato. Una sera non ho resistito e le ho presentato un gigolo e quando lui, a fine serata, dopo aver fatto tutto con lei - e quando dico tutto intendo tutto - le ha presentato il conto... Sono dovuta scappare perchè Oriana mi voleva menare fuori dal locale».

Chi la divertiva di più di tutti questi personaggi?

«Io ridevo tantissimo con Sordi, Fellini e la Masina quando prendevamo la mia Rolls-Royce e scorrazzavamo per la Costa Azzurra. Mi sono tanto divertita anche con Maria Callas, donna straordinaria, e Onassis. Tutta questa vita con Rizzoli e stata meravigliosa per 23 anni, poi arriva la tragedia, la morte di mia figlia Isabella e tutto cambia».

Ha voglia di parlarne?

«Si, nella vita io non ho mai avuto mezze misure, o grandi gioie o grandi dolori e quando parlo di dolori parlo di dolori violenti, laceranti, che ti strappano il cuore. Isabella mi e stata strappata da Nostro Signore brutalmente, caduta dal nono piano in quella maniera, una maniera che nessuna madre al mondo deve mai provare».

La sogna mai?

«Io vivo con Isabella, tutti i giorni e tutte le notti. Io la vedo. Poche notti fa l’ho vista e insieme siamo entrate in una boutique, ci siamo provate degli abiti per andare a ballare. Io e lei ci vestivamo sempre uguali, adoravamo Saint Laurent. Nei mei sogni non c’è mai una fine perchè la notte dopo la sogno di nuovo e facciamo altre cose... Non pensavo di poter sopravvivere dopo la morte di Isabella, io volevo morire, mi hanno curata con l’elettroshock. Ero diventata 39 chili e mi avevano dato 15 giorni di vita. Mi sono ripresa con tanto dolore, non riuscivo più a parlare, e la memoria breve mi era scomparsa completamente. Ho dovuto iniziare tutto da capo, anche a leggere. Riacquistata la memoria, tanti anni dopo, ricordo quei dottori che mi legano al letto e sento ancora quel dolore che ti strappa la testa come se un rapace portasse via pezzi del tuo cervello».

Chiudiamo questa triste pagina e torniamo a oggi. Come ha vissuto il periodo del virus, a Monaco? 

«Ho avuto molta paura e ho pianto molto quando il principe Alberto ha contratto il virus. Ero talmente in pani- co che non ho mai pensato al casino».

Come passa le sue giornate?

«Ora sono furibonda: mi hanno rubato un pezzo del Muro di Berlino che tenevo nel giardino della villa di Cap Ferrat. Chi l’ha comprata non vuole rendermelo. Ma io lotto e non mollo».

Lei come Grace Kelly, la regina Elisabetta e Lady Diana, ha una rosa che porta il suo nome.

«E una rosa bellissima, con 24 petali vellutati porpora, dal profumo inebriante. Un giorno eravamo con Grace Kelly a casa di David Niven dove c’era una festa di bambini con Alberto, Carolina, la mia Isabella e tanti altri. La principessa aveva appena ricevuto in omaggio la rosa che portava il suo nome. Quando tornai a casa, lo raccontai ad Andrea. Due mesi dopo si presento con la rosa Ljuba, creata per me da un grande floricoltore della Costa Azzurra».

·        47 anni dalla morte di Renzo Pasolini.

Renzo Pasolini, sigarette, alcool donne e balera: così 47 anni fa moriva in pista a Monza il Best delle moto. Pubblicato mercoledì, 20 maggio 2020 su Corriere.it da Fiorenza Rodogna. Maggio 1973, in Italia si vive ancora benino e nelle orecchie dei nostri connazionali risuona la melodia suadente de «Il mio canto libero» di Battisti. Manca ancora qualche mese prima che la crisi energetica appiedi per settimane «l’italiota con l’autoradio sotto il braccio». Il 20 all’autodromo di Monza si corre un seguitissimo Gran Premio delle Nazioni di motociclismo. Correrà la 350, sfreccerà la 125, si attenderà la 500. E, fra queste, la sfida sulle 250 cc. La partenza, la tragedia già al primo giro: una manciata di feriti di gravi, moto accartocciate, fuoco, sirene, estintori; due morti. Uno - capello corvino, steso nella tuta nera accanto al guard rail affilato come una lama - è Renzo Pasolini (classe 1938) da Rimini. Un «Villeneuve delle due ruote». Pugile-centauro; condensato di «attributi»; di testarda attitudine all’attacco e di sprezzo del pericolo. E’ l’evento che scuote gli italiani, sconvolge le coscienze di organizzatori e piloti e s’incastona nella storia dello sport nazionale. Veniva da una famiglia di centuari «il Paso» - papà Massimo era detentore di record di velocità - e aveva iniziato col motocross alla fine degli anni ‘50. Alternandosi al ring, ai pugni, alla boxe. Sua altra passione. Malgrado quello stile di vita di chi «fa spallucce» al proprio talento, irriverente a ogni paura: sigarette, Sangiovese e «magnate» fra una balera e l’altra. Fin da giovanissimo sulle due ruote un distillato di anarchia tattica; nel rispetto solo del proprio istinto. Curve «a cadere» e manetta a tutta. Sempre in equilibrio. Fra rischio e calcolo. Fra vita e morte. Si era «fatto le ossa» fra gli juniores, poi da senior ecco la licenza e l’Aermacchi dal 1964: 250cc e 350cc. In sella a quest’ultima l’accesso al campionato iridato: terzo nel 1966. Anni spericolati ma brillanti, vincere contro le pluricilindriche è quasi impossibile, ma qualche «perla» arriva. Dopo la chiamata alla Benelli (fine ‘66) Pasolini - sigaretta alle labbra, occhialone nero, ricci sbarazzini - debutta a Vallelunga nella 500 nel ‘67: Agostini lo insegue, rischia e cade. E’ storia lunga quella della rivalità fra il «supervincente» Ago e il romagnolo dal «sorriso obliquo». Il primo vince quasi sempre all’estero. Ma in Italia Paso «vola»; forse perché sente l’affetto del proprio pubblico. Di quegli anni la proposta di una sfida inedita; ad «armi pari». Poi le case motociclistiche e la Federazione si oppongono e la «corrida» sfuma. Sarebbe stato uno spettacolo. Intanto la sua carriera prende il volo. Nel 1968, Pasolini su Benelli è secondo dietro Agostini su Mv Agusta nella 350. Passano gli anni, le moto, le vittorie e i piazzamenti. Sfuma il Mondiale. Sempre. Nel 1969 il titolo della 250 cc sembra suo: vince tre gare ma cade (e si ferma) più volte. Finisce quarto nella generale del campionato. Il titolo va al compagno Carruthers. Nel ‘70 (Benelli) ecco la 350 (terzo) e la 500 con sempre Agostini «nel mirino». Nel 1971 il ritono all’Aermacchi, per l’occasione «ibridata Harley-Davidson»: qualche vittoria, ma il Mondiale sfuma. Ancora. L’anno dopo sarà il migliore per lui: 6 vittorie in bacheca (13 piazzamenti e 6 volte terzo), Campione d’Italia nella 250 con tre Gp iridati vinti...e un solo punto a negargli il Mondiale. In quella 250 vincerà Jarno Saarinen. Quel nome è come un destino. Il terzo posto nella 350 cc non lo consola. Ma il 1973 sembra davvero quello della svolta. L’obiettivo del Paso è vincere il Mondiale e ritirarsi. Magari per andare a vendere moto. Non andrà così. Quel 20 maggio 1973, Renzo Pasolini si accovaccia sulla nuova due ruote raffreddata ad acqua e si propone: iscritto nella 250 e nella 350. Durante le prove il collega Bonera ha avuto problemi con la moto, il riminese ha staccato il numero dalla sua e gli ha prestato il mezzo: il compagno si è qualificato. E’ l’ultimo suo atto di generosità (dei molti). Il destino chiama. Nella prima sfida - sulle 350 cc - il romagnolo parte male, Agostini fugge solitario, il riminese «poga», rischia e recupera dieci secondi: ammucchia giri veloci, raggiunge il rivale, lo supera, lo stacca. Ormai ha vinto... Ma non taglia il traguardo. Il motore grippa e se ne torna a piedi. La gente in tribuna si alza per rendergli omaggio. Passano i minuti e si riparte: è il momento della 250. La corsetta, la partenza, gli «occhi a fessura» sotto visiera e occhiali, poi il «curvone» e lo schianto: piloti a terra, fiamme e dramma. Pasolini si abbatte contro il guard rail, Jarno Saarinen muore sul colpo travolto in faccia dalla moto del rivale; Renzo spira poco dopo. Otto piloti feriti, fra cui un altro campione Walter Villa, che si salverà a stento. Nessuno saprà mai la vera ragione tecnico-meccanica di quell’incidente - olio sulla pista dalla gara precedente o ennesimo grippaggio del mezzo di Pasolini -, unica certezza: la tragedia e i lutti. «Io sono convinto che quando si deve morire, si muore...» aveva detto in tv poco tempo prima l’intrepido romagnolo. Che riposa ora, per sempre, nel cimitero monumentale di Rimini.

·        46 anni dalla morte di Pietro Germi.

Pietro Germi, il premio Oscar che non piaceva a Botteghe Oscure. Manuel Fondato su culturaidentita.it il 15 Luglio 2020. Il suo lascito al cinema fu Amici miei, secondo Gastone Moschin ispirato nel titolo proprio dal suo simbolico commiato, a causa dell’aggravarsi di una brutta malattia: “Amici miei, ci vedremo, io me ne vado”. Pietro Germi se n’è andato il 5 dicembre 1974 e non è più tornato. L’universo culturale-cinematografico l’ha condannato a un colpevole oblio che ha impedito anche alle nuove generazioni di conoscere e apprezzare appieno la sua filmografia. Il suo ultimo copione passò a Mario Monicelli, che spostò l’ambientazione da Bologna a Firenze e ne fece il manifesto della comicità toscana grazie alla bravura di cinque attori non toscani, quando ancora non esistevano i Benigni, i Nuti, i Pieraccioni. Ma l’idea di raccontare lo spaccato delle vite di alcuni stimabili professionisti di mezza età, affetti da sindrome di Peter Pan, in anni che già si erano fatti cupi per l’incipiente fenomeno del terrorismo, è tutta farina della mente raffinata e geniale di Pietro Germi. La sua principale bravura fu quella di unire i puntini di vari generi, diversificando la produzione e riuscendo, in ogni caso, a realizzare film completi e apprezzati (dal pubblico, raramente dalla critica). Con il suo capolavoro, Il ferroviere, del 1955, chiuse sostanzialmente l’epopea del neorealismo cinematografico italiano. Ispirandosi a Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Carlo Emilio Gadda diede vita a uno dei primi esempi di poliziesco italiano elogiato, tra gli altri, anche da Pier Paolo Pasolini. Dal 1961 in poi iniziò girare le commedie, sempre dal sapore grottesco e dall’ironia pungente. Manifesto di questa sua svolta è Divorzio all’italiana, in cui tratteggiò l’indimenticabile barone Cefalù interpretato da Marcello Mastroianni irretito dall’adolescente Stefania Sandrelli. Il film ricevette una candidatura all’Oscar per la miglior regia, un’altra a Mastroianni come miglior attore e ottenne la statuetta per il miglior soggetto e sceneggiatura originale. Dal titolo del film prese il nome un certo tipo di commedia prodotta in Italia in quel periodo passata alla storia come commedia all’italiana. Un ciclo fortunato del quale Germi ha rappresentato l’Alfa e l’Omega, dal momento che proprio Amici miei viene considerato come il canto del cigno del filone. In vita non ebbe mai buoni rapporti con la critica (prevalente) di ispirazione comunista. A Botteghe Oscure non avevano apprezzato molto la narrazione de Il ferroviere, colpevole, secondo loro, di diffondere un messaggio fuorviante relativamente a quello che volevano fosse il loro modello di operaio. Eppure Germi aveva intuito prima dell’intellighenzia gli sviluppi e le evoluzioni sociali della classe operaia in Italia. Il Pci oggi non esiste più e nemmeno quelle penne intinte nel curaro che recensivano negativamente i suoi film per ragioni squisitamente politiche. A restare però è il dimenticatoio per Pietro Germi, uno dei nostri registi premiati con l’Oscar un oblio che neppure il crescente sviluppo di piattaforme on line, con annessi archivi di pellicole contemporanee al cineasta genovese e di altri premi Oscar meno raffinati di lui, ha colmato.

·        43 anni dalla morte di Maria Callas.

DAGOREPORT il 25 settembre 2020. Marina non è Maria e to be Callas non bastano i capelli neri e una vaga (cioè bella) somiglianza. “The 7 Deaths of Maria Callas”, opera interpretata e diretta da Marina Abramovic alla Bayerische Staatsoper per la stagione 2020–2021, è una performance lirica dove sette cantanti (Hera Hyesang Park, Violetta Valéry; Selene Zanetti, Floria Tosca; Leah Hawkins, Desdemona; Gabriella Reyes Cio-Cio-San; Nadezhda Karyazina, Carmen; Adela Zaharia, Lucia Ashton; Lauren Fagan, Norma) interpretano arie celebri della Callas interpolate con musiche di Marko Nikodijevic, sotto la direzione di Yoel Gamzou. Lo spettacolo, sospeso causa Covid, è in programma anche al Maggio Musicale Fiorentino. Cantanti sul palco e Marina Abramovic-Callas sempre alle spalle in spettacolari video strabordanti di morte: sembra di essere tornati a Balkan Baroque (1997) con le ossa bovine da spazzolare. Marina Abramovic-Callas è appare sempre sdraiata su un letto di morte, come quello di Violetta. Tra un brano e l’altro, Maria-Marina ripete brevi frasi sconnesse, parole con enfasi profonda trasformandosi ora Tosca, ora in Desdemona, poi in Cio Cio San insomma nelle peggio sfigate eroine del melodramma (che poi, nonostante il sacrificio di Violetta, non si è mai saputo se la sorella di Alfredo si sia sposata illibata – “pura siccome un angelo” – o meno). Si odono preghiere mentre Maria-Marina si fa circondare il collo da un pitone stretto tra le mani da Willem Dafoe. Poi, come Butterfly, coperta da una tuta ignifuga gialla cammina in una Waste land con in mano una bandierina americana, quella del “turista sessuale” Pinkerton che si è fatto Cio Cio San come se fosse in un bar di Pattaya. Quando si sfila la tuta è per mostrare le tette, come fa dal 1974 in Rhythm 0 (solo che allora non erano rifatte). Tra specchi infranti, che alluderebbero a una vita disperata della Callas nell’appartamento di Parigi, rose bianche per terra, frasi pseudo profonde o non-sense, mantra, riferimenti agli egizi, “legs over the side of the bed”… insomma,  una specie di Battiato al cubo,  si arriva all’exitus. Lei spalanca una portafinestra e la luce della città la abbaglia. Così indietreggia nella stanza (5 metri in dieci minuti) e scompare – per sempre - da una porta. Da un’altra porta, immediatamente entrano le donne delle pulizie che passano l’aspirapolvere e rifanno la stanza. Poi coprono i mobili con nere gramaglie e fanno un po’ di “sanificazione” stile Covid. Maria-Marina Callas è morta di crepacuore. Come racconta la Abramovic, “Maria Callas è stata artista sublime, ma segnata da una vita personale infelicissima; una donna dal cuore trafitto dalla sofferenza amorosa, che è morta di crepacuore per amore proprio come le tante eroine che ha interpretato magistralmente nella sua carriera”. Ma questa è una tesi, diciamo, più romantica che scientifica. La Divina, studi alla mano, non morì di “crepacuore” ma d’infarto quando la dermatomiosite, malattia di cui soffriva da tempo, raggiunse il cuore, dopo averle colpito la voce e tutto il resto. La Callas non assunse mai droga o altre sostanze psicotrope, come è stato scritto e non sappiamo se morì sola (senza bandante?), mentre sappiamo che trovarono la cassaforte aperta e i gioielli spariti. Nessuna autopsia e rapida cremazione. Mario Giacovazzo, suo medico personale, dopo la morte della Divina scrisse che “riscontrò la Callas affetta da dermatomiosite, una malattia infiammatoria del tessuto connettivo che aggredisce la muscolatura e la pelle. I muscoli della laringe sono tra i primi ad essere colpiti, donde la disfonia irreversibile. Ma anche il muscolo del cuore risulta colpito”. Una tesi questa ribadita dagli studiosi Franco Fussi e Nico Paolo Paolillo nel saggio “Analisi spettrografiche dell’evoluzione e involuzione vocale di Maria Callas alla luce di una ipotesi fisiopatologica” relazione svolta al XIV colloquio di musicologia tenutosi il 20 novembre 2010 al Dipartimento di Musica e Spettacolo dell’Università di Bologna. La Callas attribuiva i suoi problemi alla perdita di sicurezza nell’emissione apportata da un indebolimento del sostegno, anche se non ha mai fatto connessioni tra ciò e la sua perdita di peso, come molti sostenevano. Comparando registrazioni, dichiarazioni, testimonianze gli studiosi arrivano a ribadire la tesi del suo medico personale: soffriva “in modo evidente di dermatomiosite, una patologia che la gran parte dei medici conosceva allora solo per averla studiata sui libri, quasi una curiosità, che vedevano di rado. Una malattia a lenta evoluzione del tessuto connettivo che porta ad atrofia progressiva della pelle e dei gruppi muscolari colpiti. E in cui possono essere coinvolti muscoli del collo, della laringe e della faringe e i muscoli della respirazione”. La terapia cortisonica della Callas non fece che aggravare il glaucoma che la affliggeva. E vale la pena ricordare “che nella dermatomiosite esiste una frequente associazione con insufficienza cardiaca e aritmie”, scrivono gli studiosi. Insomma, come Tosca, anche Maria Callas visse d’arte ma non morì d’amore, come vorrebbe la Abramovic, bensì di “dermatite”.

Ottavio Fabbri per “Libero quotidiano” il 26 settembre 2020. Roma, autunno 1972. Esco dall'Hotel Hassler e incontro una gentilissima signora, la principessa russa Irene Galitzine, già famosa per le sue creazioni di moda che avevano affascinato anche Jackie Kennedy di cui fu più volte ospite. Ci eravamo conosciuti in una terrazza romana e avevamo subito iniziato una non convenzionale conversazione. «Fabbri venga questa sera a cena da me, abito in questo palazzo e oltre alla scalinata di Trinità dei Monti può vedere anche dei miei amici. Ho sempre gente interessante a casa. La aspetto con piacere questa sera». Mi apre lei la porta fasciata in un abito tutto un pizzo, immagino di sua creazione, che dà luce non impropria ai suoi aristocratici lineamenti e alle eleganti maniere. «Lei è il primo ad arrivare Siamo in sei». Suona il campanello e lei, che porta bene i suoi misteriosi anni, corre leggera ad aprire la porta. Entra Franco Rossellini, produttore di cinema che subito riconosco, famoso per le sue taglienti battute e fendenti in ogni direzione assestate fra nemici e amici (per poco). «La pazza è rimasta giù a chiacchierare con un plebeo». «Franco torna a prenderla!». «Ho due palle così! Non vedo l'ora che parta!». Io non ho idea di chi sia la pazza. «Siete quiii?? Franco!». La signora in questione ha sbagliato piano e scende la rampa di scale a piedi ed entra con un soffio esausto ma soddisfatto. Maria Callas. «Vieni Maria, ti presento un amico». «Buonasera. Ma Pier a che ora arriva?». Altro campanello. «Eccolo!». Pier Paolo Pasolini. Pallido, vestito di scuro, con lineamenti carsici, avanza scusandosi per un inconsistente ritardo un nume assoluto della poesia italiana. E del cinema. Ora la composizione non casuale degli invitati della Galitzine, a parte il sottoscritto ospite di maniera, mi è improvvisamente chiara e si conferma nella successiva conversazione. La Callas aveva recitato come protagonista in Medea, con la regia di Pasolini e la produzione di Franco Rossellini. Questa la geometria del prestigioso terzetto. Cena squisita, è arrivata anche una adorabile quanto garrula amica, Gaea Pallavicini che ci intrattiene con storie e pettegolezzi in contro luce della sfibrata aristocrazia romana. Io sarei più interessato a sentire le storie di Pasolini e ascoltare la voce, non di canto che conosco, della più famosa Maria del mondo dopo la Madonna, sibila acido Franco Rossellini. Pasolini pare muto ma tiene stretta una mano di Maria che lo guarda in una direi greca ammirazione, forse ancora nei panni di Medea. «Quando parti Maria?» Questa frase resta sospesa sulle labbra sottili di Rossellini. La Callas ha uno scatto e si alza da tavola. «Me lo hai chiesto già tre volte Franco!» Pasolini muto e sempre più di carsica fattura facciale. La Galitzine accompagna non si sa dove la soprano furiosa. Poi la padrona di casa torna: «Franco... con quella boccaccia ti fai detestare. Maria è fragile e adesso è in bagno che piange». È il momento del regista Pasolini che si alza da tavola e va con lentezza da fatale messa in scena a raccogliere le lacrime della Divina Maria. Io penso che la mia più opportuna parte di scena sia adesso quella della uscita. Ho mandato dei fiori di ringraziamento alla Galitzine non rendendomi ancora bene conto se avevo assistito all'incipit di una tragedia greca o ad una irresistibile commedia romana.

·        43 anni dalla morte di Elizabeth «Lee» Miller.

Fabio Sindici per "La Stampa" il 7 settembre 2020. Nel vasto album d'immagini che illustra la vita multipla di Elizabeth «Lee» Miller - mai ci fu, paradossalmente, una vita tanto sovraesposta quanto misteriosa - quella che la racconta meglio è un ritratto in cui lei non c'è. Si tratta di una serie di scatti sullo stesso soggetto: una finestra con una zanzariera rovinata da uno strappo, al cui vertice pende sbilenca una cornice; la vista, dal buco, si apre sul deserto egiziano. Lee è dietro l'obiettivo. Negli archivi messi online dal figlio Antony Penrose se ne trovano sei versioni, la migliore è quella più astratta, solo la rete rotta e il panorama arido e rivelatore di Al Bulwayeb, vicino all'oasi di Siwa. Potrebbe essere una trappola o una via di fuga. A Siwa, secondo la leggenda, si perse l'armata del re persiano Cambise. Nel cielo due nuvole sembrano unirsi in un paio di labbra che somigliano a quelle che l'amante e maestro Man Ray dipinse nel 1934 sospese sopra una foresta come un voluttuoso disco volante. Le sue, ovviamente. Un ricordo: la complice di sperimentazioni fotografiche e giochi erotici l'ha abbandonato due anni prima. Portrait of space è del 1937. Lee Miller è nel mezzo del cammin della sua vita. Trent' anni abbaglianti come una solarizzazione, la tecnica fotografica inventata insieme a Man Ray e rivendicata da entrambi. La sua è una bellezza da «generazione perduta», secondo la definizione di Gertrude Stein, bionda magnetica con «un pezzetto di ghiaccio nel cuore», come scrive Mark Haword-Boothe, il curatore di «The Art of Lee Miller», una delle mostre più complete che le sono state dedicate. Nella zanzariera lacerata s'impigliano ricordi e presagi. Elizabeth, a sette anni, è stata abusata sessualmente, da un amico di famiglia. Uno psicologo le suggerisce di separare sesso e amore, avviando così la sua carriera da seduttrice. È in Egitto per un uomo, il magnate delle ferrovie Aziz Eloui Bey, follemente innamorato di lei. Alla notizia della relazione Ray, gelosissimo, si vendica alla maniera surrealista, per immagini: ritaglia un occhio di Lee da una foto, lo attacca a un metronomo, seguono istruzioni per demolirlo con una martellata. Lo chiama Object to be destroyed, oggetto da distruggere. A uccidersi davvero è invece la bella Nimet, la moglie di Aziz, che Miller ha fotografato prima che la relazione iniziasse. Il suo fantasma inquieta le foto egiziane dell'artista. Lee ha sposato Aziz e si è trasferita al Cairo, da New York. Ma si sente al confino. Una sera organizza una festa nella villa del marito per mostrare il ritratto che le ha fatto Pablo Picasso à l'Arlésienne, durante un soggiorno a Mougins: labbra verdi come steli, spezzate, occhi lontani e lacrimanti. Una voragine scura è al centro della figura, probabilmente un'allusione sessuale, che ricorda molto lo strappo nella zanzariera di Siwa. A Magritte, la stessa foto ispira una delle tele più spoglie ed enigmatiche, Le baiser, del 1938. Il figlio incompreso Antony, che non la comprese finché, insieme alla moglie, scoprì valigie e scatole piene di negativi e taccuini nella soffitta nella fattoria di Chiddingly, dove Lee aveva trascorso gli ultimi anni, le ha dedicato un libro e un documentario dal titolo eloquente: Le vite di Lee Miller. Se è vero che la sua è stata un'esistenza sfaccettata, si nota una cesura nel 1937, una conradiana linea d'ombra. Un prima e un dopo. Icona sexy dell'avant-garde e signora con la Rolleiflex sulla linea del fronte. In quell'anno in Costa Azzurra, oltre a posare per Picasso (e fotografarlo e divenirne l'amante), s' innamora di Roland Penrose, ricco gentiluomo britannico e artista surrealista. All'inizio della Seconda guerra mondiale è con lui a Londra, dopo essersi separata senza drammi da Aziz. Prende qualche incarico da Vogue per servizi di moda, ma una bomba che distrugge la redazione del magazine la catapulta nel reportage di guerra. Miller fotografa le rovine. E arrivano scatti memorabili: Remington Silent, la carcassa quasi organica di una macchina da scrivere tra i detriti; Fire Masks, dove le protezioni sui volti delle volontarie evocano le maschere africane delle foto di Ray. Quella di Lee, si può dire, è una vita fitta d'incidenti. Come quando, a vent' anni, modella in carriera a New York, viene trattenuta per un braccio dal moghul editoriale Condé Nast, prima che un'auto la investa. Pochi mesi dopo è sulla cover di Vogue, in un'illustrazione di George Lepape, perfetta flapper fitzgeraldiana. O quando, per lo spavento causato da un topo, accende di colpo la luce durante lo sviluppo di una foto nello studio di Man Ray a Parigi, ottenendo per caso la solarizzazione, quell'effetto da eclissi rovesciata che diventerà la «firma» della coppia. Sempre per caso, con indosso la divisa da corrispondente di guerra, cucita a Savile Row, capita sulla scena del bombardamento alleato a St. Malo, il primo dove viene utilizzato segretamente il napalm. Entra, insieme al collega ed ennesimo amante David Scherman (in un ménage-à-trois con Penrose) nei campi di concentramento nazisti e nell'appartamento segreto di Hitler a Monaco, di cui si vanta di avere l'indirizzo in tasca da anni: si fa un bagno nella vasca del Führer e dorme nel suo letto. Questa performance, fotografata da Scherman, forse le costa la depressione post-bellica; o è la foto straziante di un bambino morente in un ospedale di Vienna che cattura con occhi svuotati, seduta al suo capezzale, insieme a una suora e un'infermiera. La punta di ghiaccio che le protegge il cuore si scioglie. Dopo la guerra, Lee beve e ingrassa, i weekend alla Farley Farm di Chiddingly sono scandalosi e affollati dagli amici artisti: Picasso, Paul Eluard, Max Ernst e Dorothea Tanning, un riconciliato Man Ray. Ha sposato Penrose che però ora sogna una trapezista. La novella Lady Penrose si lancia in ricette bizzarre, da cuoca dadaista, per indispettire il critico Cyril Connolly. Ha deposto la macchina fotografica. Raccontò che aveva iniziato a fotografare per uscire da un dannato limbo. Alla depressione segue un cancro che la uccide a 70 anni. Le ceneri vengono sparse nel suo giardino di erbe aromatiche. Le chiavi della sua vita vanno cercate per immagini: la rosebud segreta, per rubare il termine a Orson Welles, è una foto in cui il padre la riprende nuda nella neve, nella natia Poughkeepsie, vicino a New York, bambina, lo stesso anno in cui viene violentata. E c'è lo strappo di Siwa. Il cuore buio dell'Arlésienne. Il bambino di Vienna. Ora la sua vita, doppia o multipla, diventerà un film, a interpretarla sarà Kate Winslet. Che le somiglia da lontano. Ma non ha il suo charme magnificante. Julien Levy, il gallerista dei surrealisti, la ricorda come una fata di luce: «Sotto ogni aspetto, Lee appariva luminosa. Il suo spirito era luminoso, la sua mente, le sue fotografie, e i suoi biondi capelli scintillanti». A definire davvero Lee Miller però sono le sue ombre, quel contorno scuro che delimita la figura e fa sprizzare fuori la luce. Come in un'immagine solarizzata.

·        41 anni dall’uscita di Apocalypse Now.

Apocalypse Now, il film maledetto. Sul set cadaveri, droga e suicidi. Apocalypse Now è forse il film più famoso della produzione di Francis Ford Coppola, non solo per la rappresentazione della guerra del Vietnam, ma anche per i problemi sul set. Erika Pomella, Domenica 21/06/2020 su Il Giornale. Apocalypse Now è il film del 1979 con cui il regista Francis Ford Coppola decise di portare sul grande schermo una rivisitazione del romanzo di Joseph Conrad, Cuore di Tenebra. La pellicola è ambientata nel 1969, quando gli Stati Uniti sono nel pieno della famosa guerra del Vietnam. La storia segue il capitano Benjamin L. Willard (Martin Sheen), uomo provato dalle brutture della guerra, a cui il governo militare affida la missione di affrontare la giungla cambogiana per intercettare l'ex colonnello Kurtz (Marlon Brando). Considerato un disertore, Kurtz rappresenta una minaccia per il governo e perciò viene descritto come un bersaglio da eliminare. Apocalypse Now è considerato universalmente il film più famoso che affronti il tema della guerra del Vietnam. Tematica che ancora oggi è motivo di discussione per gli americani. Tuttavia Apocalypse Now è anche uno dei film più famosi dell'industria cinematografica, con alcune scene che sono diventati dei veri e propri cult, come la famosa sequenza dell'attacco aereo sulle note de La Cavalcata delle Valchirie di Wagner. Forse, tuttavia, non è noto a tutti che parte della fama di Apocalypse Now deriva anche dall'essere stato realizzato con una delle lavorazioni più drammatiche della storia del cinema.

Un set maledetto e devastato. Per comprendere quanto sia stata difficile la lavorazione di uno dei film migliori del regista Francis Ford Coppola basta pensare che, all'inizio, Apocalypse Now prevedeva "solo" dodici settimane di lavorazione. Alla fine, invece, ce ne vollero ben 68 per portare al termine il film. Nel maggio del 1979, due mesi dopo l'inizio delle riprese, un tifone si abbatté sulle Filippine, costringendo la produzione a fermarsi e a rimanere bloccata per ben tre mesi. Sebbene non fosse nel potere di nessuno poter controllare le situazioni metereologiche, molti attaccarono la decisione del regista Coppola di voler dirigere il film proprio nella stagione delle piogge, quando i rischi erano maggiori. Lo stop dovuto alla devastazione del tifone portò in luce anche un problema del film, che non aveva a che fare con le riprese, ma con la reputazione che Apocalypse Now stava già cominciando ad avere in un determinato ambiente. Dagli Stati Uniti d'America, infatti, non arrivò nessun aiuto per la troupe e la produzione. Questo perché, ufficiosamente, la pellicola mostrava una versione negativa degli USA, offrendo al pubblico una posizione totalmente antimilitarista. La Guerra del Vietnam fu una vera e propria ferita per il governo statunitense, la prima grande sconfitta per un governo che si presentava al mondo come imbattibile. Questo senso di "umiliazione e vergogna" fece sì che il governo degli Usa ostracizzasse il film, che gli vietasse aiuti di qualsiasi tipo. Come è stato riportato da Variety , addirittura vennero fatte pressioni sul governo delle Filippine affinché non venisse data alcuna assistenza al film, probabilmente nella speranza di vederlo naufragare.

Droghe, incidenti e attacchi di cuore. La lavorazione del film sembrava essere così dura e così piena di insidie da arrivare quasi a "giustificare" un uso massiccio di sostanze stupefacenti e droghe. Come ricorda Doug Claybourne, le cui parole sono state riportate dall'Indipendent, l'hotel in cui dormivano i membri del cast era una sorta di paradiso festaiolo. L'uomo era stato assunto come assistente di produzione per il suo essere un veterano della guerra del Vietnam, e spiegò: "Nell'hotel in cui si trovava la base della troupe sembrava di essere nel paradiso delle feste. Avevamo centinaia di birre sistemate in linea intorno alla piscina. C'erano persone che si tuffavano dai tetti. Era una vera e propria pazzia". Ma non era solo l'alcool a girare tra i membri del cast. Il Daily Mail ha ricordato che Dennis Hopper, che nel film interpreta il fotoreporter, seguisse una dieta giornaliera che consisteva in una cassa di birra alternato a liquore dall'alto tasso alcolico e fino a 85 grammi di cocaina. L'uso della droga era fatto così alla luce del sole che Hopper spinse anche il giovane Laurence Fishburne a provare l'eroina, come raccontato da Screen Rant. Anche Martin Sheen finì con l'avere qualche problema riguardo l'uso di alcol. Ma questa volta per volere di Coppola. Il film si apre infatti con la scena in cui Willard si trova in una stanza d'hotel, con le note di This is The End dei Doors. Durante la scena l'attore era veramente ubriaco e stava in quella condizione da almeno un paio di giorni, come richiesto dal regista. Lo scopo era quello di rendere credibile lo stato pessimo in cui si trova il personaggio di Willard all'inizio del film. Ma in realtà Martin Sheen disse anche che la scena era un modo per affrontare i suoi noti problemi d'alcolismo. L'idea era quella di rivedersi sullo schermo e avere così il modo di fronteggiare il suo problema e trovare un modo per affrontarlo. Come ha raccontato il regista a un'intervista con il The Hollywood Reporter l'attore era così fuori di sé durante la scena che finì col dare un pugno allo specchio, tagliandosi la mano e finendo con l'attaccare il regista. La troupe era molto a disagio e chiese di bloccare le riprese, ma Sheen non volle. E Apocalypse Now fu un set maledetto proprio per lo stesso Martin Sheen, che durante la lavorazione ebbe un grave attacco cardiaco. Alcuni dissero che era per via dell'alcol, altri per gli eccessi che si registravano sul set. Rimane il fatto che l'attore si sentì male e le condizioni gravi lo costrinsero a rimanere ricoverato a lungo. Così Francis Ford Coppola decise di usare il fratello di Martin Sheen, Joe Estevez, per poter riprendere le riprese anche se il suo protagonista era costretto in un letto d'ospedale.

Apocalypse Now, una scenografia agghiacciante: ratti e cadaveri. Per far sì che le scene avessero davvero un odore di verosimiglianza, nella base dove si "nasconde" il personaggio interpretato da Marlon Brando vennero ammassati immondizia e ratti morti. L'odore putrescente era tale che la moglie di Martin Sheen provò a far ripulire tutto, dicendo che suo marito non avrebbe mai messo piede in un luogo così poco salubre. Ma il peggio riguarda la leggenda secondo cui per una scena che richiedeva la presenza di persone decedute, vennero forniti dei cadaveri. Secondo quanto ricorda sempre l'Indipendent, sul set del film arrivò la polizia, che chiese i passaporti di tutti coloro che erano presenti. "Non sapevano se avessimo ucciso quelle persone," spiegò il produttore Frederickson. "Questo perché quei cadaveri non erano stati identificati. Sono stato preoccupato per giorni". A quanto sembra la colpa ricadde su un ragazzo che aveva il compito di fornire cadaveri ad una scuola di medicina per le autopsie. Dopo la retata della polizia sul set il ragazzo venne arrestato e nel film non vennero mai utilizzati dei cadaveri.

Francis Ford Coppola tentò il suicidio. Lo studio molto presto si arrabbiò con il regista Francis Ford Coppola, dal momento che il film aveva sforato di troppo il budget. Tra i ritardi della produzione e il costo sempre più elevato delle riprese, Francis Ford Coppola si trovò a dover decidere se rischiare e continuare a dirigere Apocalypse Now o se arrendersi. Il regista optò per la prima opzione. Pagò gran parte del lavoro di tasca propria, arrivando a mettere una nuova ipoteca sulla sua casa. Con il continuo emergere di problemi, il numero sempre maggiore di tifoni che tenevano il set sotto scatto, così come i problemi finanziari legati all'ipoteca che aveva messo in ginocchio anche il suo matrimonio, Francis Ford Coppola cadde in una profonda depressione. Arrivò a ingrassare di trenta chili e a vivere in un costante stato di tristezza: questa sensazione culminò in un tentativo di suicidio che, fortunatamente, non andò in porto.

·        41 anni dalla morte di Bob Marley.

Carlo Massarini per “la Stampa” il 25 giugno 2020. Bob Marley nell'estate del 1980 è la più grande rockstar planetaria. Sono lontani gli anni da rude boy nel ghetto di Kingston, i primi tentativi a 45 giri con Bunny Wailer e Peter Tosh (i tre Wailers originali) e quell'incontro da sliding doors con Chris Blackwell, il geniale patron della più importante etichetta indipendente inglese, la Island. In mezzo a un tour inglese abortito, disperati e senza i soldi per tornare in Jamaica, si erano presentati nel suo ufficio promettendo in cambio dei biglietti il master di un Lp. Blackwell si era fidato e pochi mesi dopo quell'album, Catch A Fire, gli era arrivato davvero. Blackwell, che ben conosceva la scena jamaicana , aveva capito che per fare di Marley una star non bastavano i dischi, né la radio: Marley andava visto, di persona. Bob aveva passato gli anni successivi a fare proprio quello: prima in Inghilterra, poi in Europa e infine nella sterminata America, il pubblico bianco aveva scoperto quel suono dolce e ipnotico, dondolante e tropicale, capace di mandare il corpo in trance mentre i testi parlavano di babylon system -la civiltà corrotta e oppressiva - e di rivoluzione della mente. Marley dal vivo era uno sciamano che officiava un rito che sapeva di radici ancestrali, di trance, di trascendenza. A poco a poco, la stranezza si era trasformata in un trionfo. Come un pifferaio magico, Bob con la gioiosa macchina da ritmo degli inarrestabili Wailers e delle tre coriste, le I-Threes, aveva conquistato cuori e coscienze in ogni continente. In Jamaica era ormai un eroe nazionale, la sua missione di unire lotta sociale e spiritualità, di innalzare il livello di coscienza dei suoi compatrioti e di chiunque nel mondo avesse a cuore giustizia e diritti, era stata raggiunta. I suoi otto album sono capolavori densi di significato, allo stesso tempo gioiosi e ballabili ma anche duri e militanti: Exodus è considerato da Time Magazine «l'album del secolo». Lui, nato meticcio da papà inglese e una ragazzina nera, aveva nel suo destino il ponte fra due mondi . Gli anni 70 sono la decade del reggae, e Bob ne è l'icona. In Italia erano anni difficili. Per la musica e non solo. L'arrivo delle radio private aveva amplificato la forza dell'onnicomprensivo «rock», dal nulla si era creato un pubblico, e un mercato. Ma i concerti erano funestati dagli scontri fra autonomi («La musica è nostra e non si paga») e polizia, e le BR avevano creato un clima nazionale sempre più cupo. Dal '76 al 1980 i concerti stranieri erano stati pressoché azzerati. Non eravamo più sulla mappa dei promoter internazionali. Chi voleva sentire musica live doveva andare in Svizzera o in Europa. Dalla e De Gregori avevano rotto il ghiaccio con il Banana Republic tour del '79, ma la situazione era ancora precaria. Mancava un segnale forte. Simbolico. Il 27 giugno è una giornata di pieno sole, a Milano. L'attesa è altissima. San Siro si riempie già dal pomeriggio, quando Pino Daniele - fra gli altri gruppi di supporto - fa conoscenza per la prima volta con un pubblico a perdita d'occhio. Nel backstage tutta la scena milanese, sul prato e tribune quasi centomila persone totalmente trasversali: freakkettoni e manager, studenti e genitori, gente che non si era mai fatta una canna ed enormi nuvole di ganja che fluttuano nell'aria. Il clima è incandescente, la canzone che mi rimane impressa è la sua messa in musica del discorso di Hailè Selassiè, Ras Tafari, all'Onu nel 1963: «Finché la filosofia che ritiene una razza superiore e un'altra inferiore non sarà screditata e abbandonata Finché ci saranno cittadini di prima e seconda classe ci sarà guerra». E' il brano-simbolo del Marley militante, la potrebbero scandire adesso nelle strade d'America i Black Lives Matter, cos' è cambiato in 40 anni? Milano in quegli anni è tosta, politicizzata, quell'inno di denuncia si intona con la durezza della piazza. Il Comunale di Torino, il giorno dopo, lo ricordo in tutt' altra maniera. E' una serata perfetta, le «rastaman vibrations, yeah» riempiono l'aria, la pista d'atletica del glorioso Comunale è in tartan, sembra fatta apposta per quel ritmo da seguire molleggiandosi sulle ginocchia. Il fuoco di Milano non c'è più, è tutto morbido, la canzone-simbolo non ha più l'odore acre della guerra, ma la dolcezza della pace, prima di tutto con se stessi. E' appena stata pubblicata su Uprising , e Redemption Song racchiude tutta la sua carriera, la sua missione: «Emancipatevi dalla schiavitù mentale, solo noi stessi possiamo liberare le nostre menti Aiutatemi a cantare queste canzoni di libertà, perché tutto quello che ho sono queste canzoni di redenzione». Quello che né Bob né noi sappiamo, mentre scuote la criniera leonina, è che sarà davvero l'ultima canzone di un ciclo meraviglioso e irripetibile: Bob ha già un piede in Paradiso, neanche un anno dopo chiuderà gli occhi per sempre. Qualche anno dopo, tornerò a Kingston, a visitare quella casa al 56 di Hope Road nel cui piazzale Bob giocava sempre a pallone con la sua posse e dove era sfuggito miracolosamente a un attentato nel '76. All'interno, stanze tappezzate dai ritagli di giornale che avevano sottolineato il suo viaggio. Al centro di una parete, le prime pagine dei giornali italiani di quel giugno 1980. Il calcio era la sua grande passione, aver suonato in due stadi fra i più famosi nel mondo un motivo di grande orgoglio. Non era stata una serata speciale solo per noi, ma anche per il più grande di tutti, il piccolo grande sciamano che in due notti d'estate aveva aperto una nuova era in un paese lontano.  

Marinella Venegoni per “la Stampa” il 25 giugno 2020. Soltanto l'anno prima, il successo del tour «Banana Republic» di Lucio Dalla e Francesco De Gregori, aveva mostrato ai «padroni della musica» italiani (così erano chiamati i promoter negli anni di piombo) che la lunga stagione dei processi pubblici agli artisti (della quale De Gregori fu la vittima più illustre) era conclusa, e non veniva nemmeno più contestato il principio che pagare per un concerto fosse normale. La doppia serata di Bob Marley a Milano e Torino fu la scelta perfetta per testare una enorme folla di appassionati di musica alternativa, e le loro reazioni, sulla porta degli Anni 80. Il materiale fotografico e quel poco di filmati tramandati mostrano allo Stadio Comunale un'atmosfera ancora tipicamente Anni 70, riccioloni, bandane, gonnelloni e nel calore qualche nudità non maliziosa come sarebbe stato nel futuro; si registreranno dei falò e sarà danneggiata la pista di atletica. Ero al mio primo concerto internazionale in uno stadio, e ancora non mi occupavo di musica, ma dalla mia postazione di fan - a sinistra e quasi sotto palco - ricordo bene i bagliori che un po' impensierivano; ma l'eccitazione era tutta per quella formidabile maschera che avanzava davanti al microfono, subito dondolando, con i lunghissimi dreadlocks che danzavano intorno al viso emaciato di una star dei poveri. Dimostrava molto più dei suoi 35 anni. Bob Marley era già malato, e noi tutti lo si sapeva, sotto il palco. Ma appariva indomito, nella sua evidente fragilità, mosso da una forza interna che nel corso della serata gli avrebbe regalato energie che mi parevano inesauribili. Il profumo di ganja si sentiva nell'aria ed era forse l'ingrediente più spiccio dell'appeal di una stravagante star che niente aveva a che fare con lo star system. Il suo carisma, palpabile, sarebbe cresciuto dopo la sua morte nel 1981, amplificando l'eco della sue canzoni in un'epoca che gli sarebbe somigliata sempre di meno.

·        40 anni dalla morte di Peter Sellers.

40 anni senza Peter Sellers, l'uomo microfono dalle mille voci e mille volti. Pubblicato giovedì, 23 luglio 2020 su La Repubblica.it da Chiara Ugolini. "Sono come un microfono. Da solo non ho suono. Catturo ciò che mi circonda". Questa era la massima di Peter Sellers, il cui vero nome era Richard Henry Sellers (Peter era il fratello morto prima che lui nascesse), interprete di talento, comico geniale, attore dalle mille sfaccettature che 40 anni fa ha lasciato li suo pubblico dopo l'ennesimo infarto a neppure 55 anni. Nella sua lunga carriera prima alla radio, poi in tv e soprattutto al cinema ha regalato al pubblico personaggi straordinari come l'ispettore Clouseau della Pantera rosa, l'indiano Hrundi Bakshi di Hollywood Party, i tre protagonisti del Dottor Stranamore, il candido Chance Giardiniere di Oltre il giardino. Dietro tutte le sue maschere c'era un uomo insicuro, un artista incontentabile, un'anima inquieta, figlio di un musicista arrendevole e di una figlia d'arte (il teatro era una questione di famiglia) possessiva e gelosa di chiunque altro ruotasse intorno a suo figlio. Quattro mogli, tre figli, una psiche tortuosa, un ego smisurato e una star imprevedibile come emerge nella biografia In arte Peter Sellers di Andrea Ciaffaroni. Ma dietro a quei personaggi indimenticabli, dietro quell'estro c'era un po' della sua vita, di quello che il suo "microfono" d'artista aveva catturato. Abbiamo scelto cinque di queste maschere per cercare di raccontare l'uomo che vi si nascondeva dietro. Lassù qualcuno mi attende di John Boulting e Roy Boulting del 1963 è un film scritto dallo stesso sceneggiatore di Nudi alla meta, che è stato uno dei primi successi di pubblico di Sellers. Nel film interpreta un parroco che viene mandato per errore a occuparsi di una chiesetta in una cittadina completamente controllata da una famiglia di industriali farmaceutici, il prete prima convince un'anziana signora a donare tutti i suoi averi alla Chiesa che rifornisce così gratuitamente di derrate alimentari tutti gli abitanti mandando all'aria l'economia locale e poi incita i parrocchiani a boicottare i tranquillanti dell'azienda locale. Per interpretare il reverendo John Smallwood Sellers si ispirò a una figura che era stata centrale nella sua infanzia: padre Cornelius. Di padre protestante e di madre ebrea, il giovanissimo Sellers in realtà venne iscritto in una scuola cattolica e, sebbene ai non cattolici non si chiedesse di partecipare alle funzioni, Peter decise di farlo e si applicò particolarmente nell'osservare e poi imitare padre Cornelius, il prete addetto alle preghiere, con la sua voce e i suoi gesti durante la funzione. Che gli tornò utile poi per Lassù qualcuno mi attende. Le imitazioni furono una costante della vita artistica ma non solo di Peter Sellers. Da ragazzo imitava chiunque per la gioia dei compagni, crescendo si ritrovò nel mezzo della guerra a imitare i pezzi grossi della Raf dove si era arruolato non appena aveva compiuto 18 anni. Era il 1943, la seconda guerra mondiale imperversava e Peter fu scelto per esibirsi di fronte alle truppe al fronte, entrando in un gruppo teatrale, o meglio un reparto destinato all'intrattenimento dei soldati, che si chiamava The Gang Show. La sua esperienza nella Raf gli fu utile perché si ritrovò davanti un pubblico esigente e difficile come i soldati al fronte e fu per lui una grande fonte di ispirazione. Che mise a frutto prima nel Goon Show, lo spettacolo radiofonico che andò in onda dal 1951 al 1960 arrivando ad avere sette milioni di ascoltatori, e poi al cinema nel film di Stanley Kubrick Il dottor Stranamore - Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba, dove oltre al presidente Merkin Muffley e allo scienziato "ex" nazista, era anche un ufficiale britannico della Royal Air Force. Così che se in radio era il maggiore Denis Bloodnok, codardo militare graduato con problemi di flatulenza, al cinema diventava Lionel Mandrake per il quale si rifece a quando in India più di una volta si spacciò per ufficiale, mettendosi addosso un numero di gradi che non avrebbe mai potuto avere data la sua età, col rischio di finire a rapporto o peggio davanti alla corte marziale. Dall'esperienza indiana però Sellers non portò a casa solo il personaggio di aviere della Raf ma anche una maschera che rimane tutt'ora uno dei personaggi più esilaranti della storia della commedia. Già a 18 anni si metteva un turbante arancione, si strofinava la faccia e le mani col fondotinta scuro e girava per le strade di Calcutta fingendosi sikh. Prima dell'imbranato attore indiano Hrundi Baskhi, che grazie al sodalizio con Blake Edwards resero Hollywood Party il capolavoro di comicità che tutti ricordiamo, c'erano già stati però altri indiani nella sua galleria di personaggi. Sia alla radio, sempre nel Goon Show, che nel film con Sophia Loren La miliardaria dove Sellers, oltre a inventare una storia d'amore con la diva, interpretava il dottor Ahmed el Kabir, schivo, altruista medico indiano che gestisce una malandata clinica per i poveri. Ma è sicuramente con l'inetto, pasticcione, ingenuo ma anche galante e gentile aspirante attore di Hollywood Party che Sellers mise a punto il suo personaggio indiano per eccellenza trasformando un copione esile di 63 pagine in un'esplosione di fuochi d'artificio di comicità e satira del mondo del cinema e delle sue regole. L'altro personaggio, scaturito dall'incontro della creatività esplosiva di Sellers e dell'abilità narrativa di Edwards, fu naturalmente l'ispettore Clouseau. Per cercare i germi del poliziotto imbranato della Pantera Rosa bisogna andare indietro nel tempo a quando l'attore, poco più che ragazzino, fece coppia con Derek Altman e insieme formarono un duo, Altman & Sellers, suonando l'ukulele e raccontando barzellette. Con Altman mise pure in piedi una specie di agenzia investigativa con baffi finti e biglietti da visita, ma la cosa finì male perché ci fu chi in mezzo alla strada gli strappò i finti baffi smascherandolo. Sul nome dell'ispettore della saga, che alla fine contò sei episodi interpretati da Sellers (compreso quello realizzato con l'attore già morto e una serie di scarti di lavorazione per la quale la moglie fece causa e la vinse), ci sono diverse teorie. La scelta del nome Clouseau potrebbe riferirsi al regista Henri George Clouzot, oppure potrebbe essere ispirato al monsieur Hulot di Tati. Per Sellers, invece, l'embrione del personaggio sarebbe da ricercare in un baffuto Capitan Webb che nel 1875 attraversò eroicamente a nuoto la Manica. Sì perché per Sellers Clouseau era un eroe, che affrontava con dignità ogni impresa essendo lui il migliore detective del mondo. Dopo tanti personaggi che Sellers costruì rubando qua e là ce ne fu uno che invece fece suo in un modo differente, il protagonista di Oltre il giardino. Innamorato del romanzo Being There l'attore mandò un telegramma al suo autore, lo scrittore polacco Jerzy Kosinski scrivendogli "disponibile per il mio giardino o quello di altri. C. Gardiner". Quando l'autore chiamò il numero che il telegramma riportava rispose proprio Sellers che gli propose di fare un film dal suo romanzo. Era il 1971, ci vorranno 8 anni prima che il desiderio di raccontare la storia del giardiniere che confonde la realtà con il mondo televisivo si realizzasse. Nel frattempo però Sellers aveva cominciato a entrare dentro il personaggio di Chance tanto da farsi stampare dei biglietti da visita e firmare lettere con quel nome. Sul set l'attore poi scelse praticamente di non uscire mai dal personaggio, parlava come lui e rimase quasi sempre isolato. Seppur affascinato dalla sua coprotagonista, Shirley McLaine, a cui pare abbia mandato cinque dozzine di rose per San Valentino, non accettò mai i suoi inviti a cena per paura di perdere il suo Giardiniere. A Oriana Fallaci che lo intervistò nel 1964 disse: "Ho mille volti e nessuno di questi è mio: tutti appartengono a un personaggio interpretato da me".

Peter Sellers, l’Oscar dell’eternità all’irresistibile attore perfetto. Fulvio Abbate su Il Riformista il 27 Luglio 2020. Peter Sellers, attore, maschera, volto di cera, faccia d’impassibile meraviglia, leggenda, mito, citazione vivente. Peter Sellers manca a tutti noi da quarant’anni ormai, tempo incalcolabile. Impossibile stivarlo nel catasto delle meraviglie cinematografiche. Se ne è andato, a Londra. Era il 24 luglio del 1980. Peccato, disdetta, rabbia, amarezza, e ancora rabbia, e anche riso, sarebbe stato meraviglioso, già, davvero impagabile aprire questo nostro piccino ricordo con altre parole non listate al pensiero del lutto, gridando magari al miracolo, parole accompagnate da un suono d’incanto. Esatto, poter comunicare che Peter Sellers – evviva! – è addirittura risorto. Dunque, non era un trucco, un espediente unicamente comico, un’indicazione degli autori, la scena di Hollywood party dove l’impeccabile suo genio comico veste la divisa e il turbante di un trombettiere indiano, Hrundi V. Bakshi, un soldato, men che graduato di truppa, semplice comparsa, un puntino inavvertibile di una scena in corso d’opera, un generico che dovrebbe venire giù al primo sparo, giù da una collinetta brulla, un dirupo decisamente epico, così in un film in costume, un film di guerra e trovarobato da lancieri del Bengala. E invece, maledetta demente comparsa, quello, l’indiano trombettiere, si ostina a restare ritto in piedi nella leggenda temporanea della pellicola, continuando invitto a produrre quel suo suono insostenibile. Peccato davvero non festeggiare una nuova venuta al mondo di Peter Sellers, che disdetta invece esser costretti a fare i conti con la sua assenza, prendere atto che perfino un comico, sebbene dalla vita travagliata, le mille private incomprensioni in famiglia, a un certo punto della storia deve lasciarci, ritirarsi, dismettere la cornetta. Beninteso, consegnando un tesoretto di figure, maschere, colpi di genio comici, una lunga scia fluorescente di piccoli grandi capolavori, maschere, sì, perfette, e ancora categorie dello spirito comico, valga su tutto il caso di Chauncey Giardiniere, il personaggio-eroe-profeta involontario di Oltre il giardino, capolavoro per definizione, ben più di una semplice pellicola da citare all’occorrenza, un momento esemplare della sua carriera, del suo palmàres, cosa sulla quale torneremo assai presto. Al momento, procedendo cronologicamente, ci sono infatti da ricordare i suoi volti nel Dottor Stranamore di Stanley Kubrick, ora la parodia di un possibile clone di Von Braun costretto su sedia a rotelle, pronto a far spiccare, nei momenti balistici suoi più orgasmici, nuovamente il braccio nel saluto hitleriano, ora, sempre lui, volto di un beota presidente degli Stati Uniti e infine di un compassato e smarrito ufficiale dell’aviazione di Sua Maestà Britannica, pezzi unici di recitazione filmica appaltati al suo volto, alla sua maschera, alla sua presenza apparentemente da semplice travet londinese. Peter nasce l’8 settembre del 1925 a Southsea, Hampshire, presso una famiglia di attori di varietà… Dimenticavo: sarà anche caporale della Raf, si narra che organizzasse improvvisati spettacoli destinati a intrattenere i colleghi in armi, genere preferito: va da sé, l’imitazione degli ufficiali superiori, una modalità che rimanda al genio di Alfred Jarry, meglio, alla genesi della creazione di Ubu Re, parodia di un insegnante burbero di fisica, e chissà se Sellers sia mai stato sfiorato dal virus fantastico della Patafisica. Di certo, sappiamo che militò nella massoneria, Chelsea Lodge, tessera numero 3098, Gran Loggia Unita d’Inghilterra. I più semplici, il pubblico ordinario, quelli del sabato pomeriggio in sala, probabilmente, lo ricorderanno soprattutto con indosso l’impermeabile – un trench chiaro sempre abbottonato – dell’ispettore Jacques Clouseau alle prese con i crimini della Pantera Rosa, tra beota e inetto, svampito e ottuso, il berretto a cloche calzato sulla testa, ma soprattutto, tornando a casa dopo le fatiche delle molte indagini sempre fallimentari, costretto ad affrontare il domestico cinese Cato Fong, sempre obbligato a tendergli un agguato ogni qualvolta l’ispettore varca, stremato e supplice, l’uscio del proprio appartamento. Perché abbiamo amato così tanto un attore compostamente irresistibile e insieme dalla mimica essenziale quasi da ragioniere del set quale Peter Sellers? La risposta è forse assai semplice, naturale, spontanea, e insieme misteriosa, arcana: l’uomo, il professionista, il personaggio, la maschera di cera, volto così ordinario all’apparenza e in grado tuttavia di mettere in discussione ascissa e ordinata d’ogni ordine esistente, a suo modo restituisce il sogno del perfetto eversore nascosto nell’individuo a prima vista insignificante, inenarrabile nella galleria dei grandi cuori, per niente da includere nella quadreria degli eroi, eppure proprio per questo magnetico. Il miracolo accade appena Sellers fa proprio il meccanismo segreto della gag, come già i sommi interpreti del genere slapstick comedy – già, Laurel & Hardy sembrano vegliare su ogni suo gesto in tal senso – e ancora quando ci consegna e si concede alla figura del ridicolo Hrundi, l’indiano, la comparsa, il caso umano pietoso che troneggia in Hollywood Party, inconsapevole protagonista di una festa che vedrà pure un elefantino truccato da totem vivente della follia hippy trascinato in piscina tra la schiuma, anche quest’altra inquadratura mobile serve a controfirmare il lato ludico ed eversivo della sua filmografia. Eccoci a Chauncey Giardiniere di Oltre il giardino, forse l’opera più “filosofica” che dobbiamo al suo genio, complice la regia di Hal Ashby. Non è un caso che ancora adesso, quando procedendo a tentoni cerchiamo di dare una risposta al successo e all’esistenza dei molti miracolati che troviamo al mondo – e accade perfino nell’ambito politico recente (Bobo Craxi, per esempio, nei suoi tweet, attribuisce la cifra di Chauncey Giardiniere esattamente a un Giuseppe Conte, ovvero della casualità al potere) – puntualmente la memoria solleva il moloch di quel Chauncey, il mistero della sua pervicace resistenza al vero senso delle cose, la sua trionfale nullità.

Peccato davvero non essere stati in grado di dare per primi la notizia dell’impossibile resurrezione di Peter Sellers, e tuttavia, al di là d’ogni paradosso, siamo in molti a confidare che il suo inarrestabile trombettiere indiano sia ancora lì, il cronometro da sub al polso nonostante si tratti di un set narrante vicende del 1878, lassù in cima alla collinetta brulla di Hollywood-Benares, turbante in testa, a suonare la cornetta della carica, da qui alla consumazione dei secoli nonostante, da copione, dovrebbe venir giù, abbattuto al primo colpo di fucile, che peccato non essere riusciti a premiare con l’Oscar dell’eternità uno come lui.

·        40 anni dalla morte di James Cleveland Owens.

Owens, il più grande nello sport senza inganni. Quarant'anni fa l'addio a un eroe degli stadi. Dopo di lui, nessuno come lui. Oscar Eleni, Martedì 31/03/2020 su Il Giornale. Gli hanno dedicato un asteroide quando è morto quarant'anni fa, ma se ne è andato da povero James Cleveland Owens, diventato Jesse, da J.C., nelle cadenze sudiste del suo scopritore Riley, il più grande, eroe per sempre nell'immaginario di chi ama lo sport senza inganni. L'uomo dei quattro ori olimpici a Berlino, nelle Olimpiadi del 1936, il fenomeno nato nel giorno del crociato senza paura il 12 settembre 1913 ad Oakville, Alabama, l'uomo che il 25 maggio del 1935 ad Anna Harbor, in 45 minuti, batté sei record del mondo lasciando tutti senza parole, cominciando dal suo grande allenatore Larry Snyder, che si era giocato le olimpiadi di Parigi, quelle dei Momenti di gloria, atterrando male con il suo aereo. Una grande storia, una carriera tormentata. Era entrato all'università dell'Ohio dopo aver fatto assumere il padre come guardiano. Straordinario eroe degli stadi che ha finito correndo ad handicap contro uomini, cavalli, per guadagnare qualche dollaro nell'America razzista che al ritorno dai trionfi olimpici lo fece entrare dalla porta dei camerieri nella festa organizzata in suo onore. Lui che aveva sfidato tutto e tutti, cominciando da Hitler, che in verità lo salutò dal palco, certo non gli strinse la mano il re dei razzisti, ma neppure il suo presidente americano Roosvelt lo ha mai ricevuto alla Casa Bianca e soltanto Gerald Ford, nel 1976, gli donò il collare olimpico, d'argento chissà perché, quattro anni prima che un tumore ai polmoni lo portasse via a 66 anni, per rendergli lieve la terra del cimitero di Oaks Woods, Chicago, dove anche oggi puoi portare dei fiori. Nello stadio di Ann Harbor, l'uomo che ha finito allenando i funamboli del basket noti come Harlem Globtrotters, batté i primati mondiali del lungo (8.13 rimasto il limite umano fino al 1960!), delle 220 yards in rettilineo (203), delle 220 yards ad ostacoli (226), eguagliando quello delle 100 yards (94), ricordando che nelle gare dei 220 batté anche i primati sulla distanza metrica dei 200 per un totale di sei primati anche se i giudici gli avevano rubato qualche decimo. La base per le giornate gloriose nelle Olimpiadi a Berlino, il 3 agosto oro sui 100, il 4, primo nel lungo, dopo una qualificazione sofferta e superata grazie al suo avversario tedesco Lutz Long, il biondo di Lipsia che per quella stupenda generosità da vero uomo di sport finì la sua vita al fronte. Il giorno dopo si prese i 200 metri e avrebbe finito lì se Avery Brundage, il futuro presidente del CIO, non avesse ceduto al ricatto dei nazisti che non volevano ebrei nella staffetta del 9 agosto dopo che gli americani vinsero anche grazie alla frazione di Owens. Dormi in pace campione. Nessuno dopo di te.

·        40 anni dalla morte di Alfred Hitchcock.

Quaranta anni fa moriva Alfred Hitchcock, il genio del cinema nemico del perbenismo. Giulio Laroni su Il Riformista il 29 Aprile 2020. Il 29 aprile di quarant’anni fa moriva Alfred Hitchcock (1899-1980). Le narrazioni correnti esauriscono la sua figura in quella del sublime maestro del brivido, del geniale architetto della suspense, del tecnico perfetto. Questa visione si deve in larga parte alle incrostazioni cinefile delle quali inevitabilmente rimane prigioniero, che saturano l’analisi critica di stucchevoli derive aneddotiche. Ma se provassimo a inquadrarlo meno accidentalmente nella temperie culturale in cui si è formato – quella delle grandi rivoluzioni estetiche degli anni Venti – scopriremmo in lui un cineasta diverso. Quel suo scritto del 1927 che auspicava un possibile film dedicato alla pioggia, una sorta di equivalente cinematografico di Jardins sous la pluie di Debussy, o che ammirava certi «studi filmici di cubi e di cerchi che cambiano forma allorché si muovono ritmicamente sullo schermo, come un quadro cubista in movimento» non era, come si crede, il parto di una fascinazione giovanile, ma l’espressione di una tendenza costante della sua intera carriera. Scopriremmo dunque in lui non soltanto un regista straordinariamente colto ma un vero e proprio cineasta d’avanguardia, a dispetto del contesto commerciale in cui ha sempre operato. È noto che la chiave di lettura per accostarsi alla poetica di Hitchcock è il tema del cinema puro. Ma questo tema – nell’accezione in cui lui lo intende – non è una prerogativa esclusiva della sua opera, ma piuttosto una categoria ideale e trasversale che, dopo essere giunta a maturazione a partire dagli anni Venti, informa di sé autori diversi: da Pudovkin, a Lang, a Bresson, a Clouzot. Una categoria che si trova al centro di una fittissima rete di influenze, attraversa le avanguardie storiche e cinematografiche e si nutre di suggestioni pittoriche, letterarie, musicali. Nei nostri tempi si è andata affermando sempre più chiaramente una visione collaborativa della creazione filmica, nella quale i contributi individuali del cast e della troupe conquistano uno spazio crescente. Nel cinema puro, anche se in misura variabile a seconda dei contesti, tutto ciò ha un peso considerevolmente inferiore. Proprio come lo spirito dell’avanguardia pone l’accento sulla creazione soggettiva contro il potere massificante della razionalizzazione sociale, così questo tipo di cinema considera il film come l’opera di un unico autore-artista. Ciò trova espressione in un ben preciso approccio alla regia cinematografica. Alla tecnica del “master-campo-controcampo”, l’abitudine cioè di coprire l’intera scena con le stesse inquadrature intrecciate l’una con l’altra, il cinema puro contrappone un’idea di film come composizione e giustapposizione. È il “montaggio costruttivo” di Pudovkin o la “scrittura di immagini e suoni” di Bresson: la macchina da presa gira solo ciò che serve e solo per brevi frammenti. Il Kandinskij teorico che attribuisce a ciascun colore una precisa valenza e alla giustapposizione tra i colori un preciso effetto respira un clima culturale non dissimile da quello che indurrà Hitchcock a frammentare la scena della doccia in Psycho (1960) o le scene degli attacchi ne Gli Uccelli (1963). È sì il découpage classico di Griffith, ma ulteriormente privato di qualsiasi programmaticità o approccio formulare. In un tipo di cinema così improntato alla costruzione non è la macchina da presa a dover inseguire la realtà, ma è la realtà a doversi adattare alla macchina da presa. Se un attore non è abbastanza alto sarà quest’ultimo a dover salire su un paio di pedanine, non la macchina da presa a doversi abbassare; tutto ciò che è davanti all’obiettivo dovrà obbedire alle esigenze della macchina da presa, non determinarle. Ciò condiziona notevolmente la funzione della recitazione. Da soggetto attivo l’attore si trasforma in creta nelle mani del regista, a tal punto che Hitchcock usava talvolta le sue stesse mani per plasmare l’espressione facciale dei suoi interpreti. Non si deve intendere tutto questo come una forma di prevaricazione: in una concezione del cinema che partecipa intimamente dello spirito dell’avanguardia l’attore può assumere la stessa funzione assunta dal modello per il pittore. C’è poi – ed è ovviamente un’eredità di Murnau – una forte propensione al trattamento soggettivo, incarnato idealmente da La finestra sul cortile (1954). Si tratta di qualcosa di diverso dal mostrare banalmente quello che vede un personaggio alla maniera di Una donna nel lago (1947) di Montgomery, che Hitchcock disprezzava. È piuttosto un invito alla totale immedesimazione, un rifiuto della narrazione neutrale. Bresson dal canto suo lo spiegava così: «I suoni vengono uditi da un singolo orecchio e le cose sono viste da un singolo occhio. Ecco cosa dà al film la sua unità». Il cinema puro è anche fortemente coreografico, affine al balletto (come Scorsese diceva di Hitchcock). Gli attori si muovono non solo nelle inquadrature ma soprattutto tra le inquadrature: le entrate e le uscite di campo diventano particolarmente essenziali, – si pensi alla scena finale sul Monte Rushmore in Intrigo internazionale (1959) – le inquadrature e i loro rapporti rivelano una precisione matematica. E ovviamente un’importanza vitale rivestono i ritmi e la musicalità del montaggio: il film si trasforma in una vera partitura musicale. Un cinema dunque di forme, ma profondamente ostile al virtuosismo e all’improvvisazione. Come Schönberg ci insegna, infatti, allo spirito dell’avanguardia non è aliena una certa attitudine alla normatività e alla regolamentazione. Ed è sempre all’avanguardia che va riferita la polemica di questo cinema verso il contenutismo dell’arte borghese, verso i messaggi edificanti e anche verso un certo engagement. Il macabro hitchcockiano è in fondo una critica al perbenismo della società amministrata, all’ipocrisia del mondo benpensante. Per questo Hitchcock non si trova a suo agio con il cronachismo e gli eccessi descrittivi che proprio dell’arte borghese sono l’espressione. Quando cerca di infondere a L’ombra del dubbio (1943) una calcolata autorialità il suo sforzo si rovescia nella direzione opposta, si diluisce in scialbe note di colore. E nemmeno La donna che visse due volte (1958) è immune da questo atteggiamento: le sue cadenze di melodramma intellettuale sono in qualche modo in contraddizione con quel cinema di ritmi, di giustapposizioni, solo apparentemente disimpegnato, con cui Hitchcock ha dato il suo meglio. Le sue opere migliori, dunque, sono forse quelle in cui il cinema puro si mostra in tutta la sua propensione alla limpidezza, ad una geometrica semplicità, in cui ogni cedimento al decorativo viene bandito. La freschezza e la fluidità de Il Club dei 39 (1935), le atmosfere fredde e brumose di Frenzy (1972), la concisione di Notorious (1946), il finissimo sperimentalismo de Gli Uccelli (1963): un cinema in cui ogni confine tra forma e contenuto viene definitivamente distrutto.

Aldo Grasso per corriere.it l'1 maggio 2020. Ancora Hitchcock, Hitchcock per sempre. A quarant’anni dalla morte, «Atlantide – Storie di uomini e di mondi» ha dedicato una puntata speciale a Hitch (La7, mercoledì). Per l’occasione, Andrea Purgatori ha proposto tre film – Intrigo internazionale, Notorious e Io ti salverò– corredati da interviste a Dario Argento, Guido Vitiello e Roberto Cicutto, presidente della Biennale di Venezia. La ricchezza e la complessità della filmografia di Hitch è un gioco continuo tra superficie (la detection, il brivido, la suspense…) e profondità (la fitta rete di rimandi che ogni film sottende).

«Intrigo internazionale». Per esempio, Intrigo internazionale (North by northwest), è uno splendido spy movie del 1959 con Cary Grant, e Eva Marie Saint. Il signor Roger Thornhill è un pubblicitario di successo (una sua frase, «nel mondo della pubblicità non esistono bugie ma solo esagerazioni» funziona oggi molto bene nel mondo dell’informazione) che un giorno, scambiato per la spia virtuale George Kaplan, viene rapito da due brutti ceffi e condotto nella villa del signor Townsend. Qui il finto proprietario di casa, la spia Vandamm, ordina ai suoi scagnozzi di eliminarlo e questi, facendolo ubriacare, provano a far cadere la sua auto in un dirupo.

L’etica dello spionaggio. Solo uno spy movie? Fino all’ultima inquadratura (una raffinatissima metafora sessuale), Intrigo internazionale è un intrigo di interpretazioni. È un film sull’etica dello spionaggio (la teorizza il Professore, il capo del controspionaggio). È un film sull’eleganza (persino un attacco aereo non riesce a sgualcire l’abito di Cary Grant). È un film, l’ennesimo, sulla «principessa delle nevi», il modello femminile più amato dal regista. Per anni abbiamo attribuito a Hitch la definizione «ghiaccio bollente», splendido ossimoro per descrivere la carica erotica velata; in realtà, la battuta è lievemente più raffinata, «un vulcano dalla cima innevata». È un film brillante sulla raffigurazione del potere. È un film…

Hitchcock, genio libertario e garantista. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 26 aprile 2020. A 40 anni dalla morte è ancora considerato come un bigotto reazionario amante dell’ordine, ma il grande regista, al contrario, odiava i linciaggi, i processi popolari ed era terrorizzato dalla polizia. “Da piccolo sentivo le sirene della polizia risuonare nella notte, rimanevo paralizzato nel mio letto per paura che volessero venirmi a prendere”. Alfred Hitchcock non ha mai amato la polizia, anzi ne era terrorizzato, ossessionato. Sarà che quando era appena un bimbo il padre, in combutta con un amico commissario, lo fece rinchiudere per qualche ora in cella “per punizione”. Un’esperienza che ha marcato per sempre il suo rapporto con l’autorità e le divise, assieme alla frequentazione del collegio di Saint Igniatius che gli ha trasmesso “il timore per le pene corporali”. A quarant’anni dalla sua morte, la vulgata comune continua a descriverlo come un conservatore, un maschilista puritano. Un clericale allevato alle rigide regole della scuola gesuita, reazionario, antimoderno e ostile a qualsiasi forma di cambiamento sociale. Lo zelo ideologico però rende presbiti: Alfred Hitchcock non era affatto un reazionario; basta un po’ di confidenza con le sue opere per coglierne, al contrario, il messaggio profondamente libertario, la diffidenza atavica nei confronti dell’autorità e, per dirla con Weber, verso chiunque detenga il monopolio legittimo della violenza. “Hitch” odiava le forche, i patiboli, i linciaggi, i processi popolari, l’abuso di potere e dei poteri che mettono costantemente in pericolo la fragile libertà dell’individuo. Naturalmente nutriva pochissima fiducia nelle divise: nei suoi film quasi mai la polizia si rivela decisiva al successo delle indagini. E anche nei casi in cui questo avviene, spesso è per rimediare ad un grave sbaglio compiuto in precedenza. L’uomo accusato per un delitto che non ha commesso, l’errore giudiziario, sono idee ricorrenti nelle sue trame fin dai capolavori del cinema muto. In The Lodger (1927), considerata dal suo stesso autore la prima “vera” pellicola hitchcockiana, un anonimo inquilino viene sospettato dall’affittacamere di essere un serial killer che si fa chiamare il Vendicatore, un omicida specializzato nell’uccisione di ragazze bionde. Durante una delle sequenze finali il protagonista fugge ammanettato e rimane impigliato a una ringhiera mentre la folla rabbiosa tenta di giustiziarlo sommariamente. Lo stile espressionista del film rende la scena ancora più drammatica ed è pressoché impossibile non identificarsi con il fuggitivo sospeso nel vuoto con quei catenacci ai polsi e quegli ossessi pronti a linciarlo. E’ facile, facilissimo trasformare in colpevole un innocente. Nel Sospetto (1941) tutta la storia è costruita attorno all’idea (errata) che Cary Grant voglia liberarsi della moglie Joan Fontaine per intascare l’assicurazione, decine di indizi di colpevolezza sono disseminati nel film per far credere al pubblico che il marito è uno spietato omicida. E la suggestione funziona perfettamente, tutti sono convinti che quel signore freddo e gentile sia un cinico assassino  fino a quando si scopre che Grant non aveva alcuna intenzione di uccidere la consorte. “Le manette sono una questione di feticismo, guardate con quale piacere si fa vedere sui giornali la gente sbattuta in prigione”, confessò nello splendido libro-intervista di François Truffaut Il cinema secondo Hitchcock. Da notare che i quotidiani di cronaca nera dell’epoca amavano cerchiare di rosso le mani dei prigionieri ammanettati che apparivano nelle foto di copertina tanto per titillare la morbosità dei lettori. In quella smania senza ragione con cui la cosiddetta opinione pubblica consuma le sue vendette private c’è il fondamento psicologico di ogni giustizialismo. E, come direbbe lo stesso Hitchcock, la totale mancanza di ironia che caratterizza il pensiero forcaiolo. Uno dei tratti principali della personalità del cineasta britannico è il senso dell’umorismo; una risorsa che gli permette di giocare con le proprie ossessioni, di ammorbidire le proprie paure e di contrastare i suoi stessi slanci bigotti e moralisti attraverso l’uso di divertite metafore sessuali. I passaggi più cupi di tutto il suo cinema sono invece associati alle persecuzioni di personaggi stritolati dalla macchina poliziesca. Una cupezza percepibile livello fisico nel Ladro (1956) in cui il musicista Henry Fonda viene arrestato con l’accusa di aver rapinato un’agenzia di assicurazioni. Fonda sarà scagionato grazie a un detective privato, ma avrà perso per sempre la moglie Rose, internata in una clinica psichiatrica dopo il suo arresto, nel finale più triste e sconsolato di tutta la sua produzione. Più borghesi ma non per questo meno angoscianti le atmosfere del Delitto Perfetto (1954) in cui Grace Kelly viene incastrata dal marito e condannata a morte per l’omicidio del suo sicario compiuto nella celebre scena delle forbici. Il contrasto tra l’innocenza della giovane donna e la spietatezza della pena viene mostrato in modo quasi psichedelico, con il primo piano dell’attrice su uno sfondo che cambia colore a mano a mano che la voce di un giudice emette la sentenza capitale. Quando  si prendeva una vacanza dalle riflessioni filosofiche sulla fallacia della giustizia, lo schema dell’innocente braccato rimaneva comunque un pilastro narrativo anche in riusciti film di spionaggio concepiti per intrattenere le famiglie come I Sabotatori (1942) o Intrigo Internazionale (1958). Ma il braccio della legge non fa meno impressione quando il protagonista è chiaramente colpevole. Basti pensare alla Janet Leigh di Psycho (1960), rea di aver rubato una mazzetta di dollari dal proprio ufficio. Quando viene fermata da un poliziotto motociclista per un banale controllo stradale, il pubblico spera intimamente che riesca a farla franca, il meccanismo di identificazione con l’individuo inseguito dalla legge lavora nell’inconscio collettivo anche in questo caso. A metà del film Janet  Leigh viene massacrata sotto la doccia dallo schizofrenico Anthony Perkins, in una delle scene più famose della storia del cinema (70 posizioni di macchina da presa per appena 45 secondi di pellicola) che i critici più ottusi hanno interpretato come una specie di vendetta inflitta dal regista alla giovane ladra in fuga. La scelta di “uccidere” l’attrice è molto più semplice come spiega lo stesso Hitchcock: “Ho voluto far morire la protagonista a metà del film in modo che il delitto risultasse più inatteso per il pubblico. Nell’arte bisogna fare come Shakespeare che prima di tutto pensa sempre al pubblico”. Il terrore hitchcockiano per la polizia oltre a rispondere a una paura primitiva presente in ognuno di noi sottintende una intima diffidenza verso ciò che la polizia rappresenta. I tutori dell’ordine in fondo sono soltanto la protesi armata di una giustizia spesso cieca, intimamente precaria, come le posate tenute in bilico sul bordo di un bicchiere dal procuratore di Io Confesso (1952), un frivolo gioco d’abilità che  rappresenta l’equilibrio impossibile tra colpa e sentenza, tra innocenza e giudizio. La bilancia della legge non è mai imparziale, è un artefatto, un meccanismo imperfetto che in molti casi sa rivelarsi crudele e disumano. E nessuno, dal più ricco uomo d’affari del mondo, al più umile abitante dei bassifondi metropolitani, può considerarsi al sicuro.

·         40 anni dalla morte di Steve McQueen.

40 anni senza Steve McQueen e la sua vita "spericolata" tra cinema e motori. Roberto Nepoti su La Repubblica il 7 novembre 2020. Quarant'anni fa moriva il più "cool" della sua generazione. Aveva appena 50 anni e fu stroncato da un doppio infarto quando era già malato. Una vita pienissima di passioni dal grande schermo alle moto e alle macchine da corsa. Non era particolarmente bello, Steve McQueen. Non era neppure alto, né troppo atletico. Eppure è stato l’attore più cool, più trendy, più hip – il più fico, insomma - della sua generazione. Fu soprattutto questa caratteristica, unita alla passione per i motori e le corse automobilistiche, a fare di lui un mito della cultura pop, celebrato nelle canzoni di Vasco Rossi per la sua “vita spericolata” ed “esagerata”, di Sheryl Crow e di altri, raffigurato nei poster, imitato dai colleghi delle generazioni successive. Giovinezza scapestrata, con tanto di soggiorno presso un correzionale, poi arruolamento nel corpo dei marines. Il 7 novembre del 1980 moriva dopo un doppio infarto a soli 50 anni il divo de "La grande fuga", una carriera di ruoli iconici e pieni d'azione che facevano il corollario alla sua passione per le macchine e le moto da corsa. Quindi la scoperta della vocazione a recitare e l’approdo ai corsi dell’Actor’s Studio di Lee Strasberg (grazie a un prestito concesso agli ex-militari), dove fu selezionato tra 2000 candidati. Debutto a Broadway e gavetta al cinema, come da manuale, in piccoli ruoli non accreditati. Il suo primo film da protagonista fu Blog fluido mortale (1958), piccolo horror fantascientifico destinato a diventare un cult. Ma il pubblico internazionale lo scoprì nel 1960, trentenne, nella parte di Vin, il più simpatico dei Magnifici sette, accanto al già affermato Yul Brynner e a un manipolo di attori che quel fortunato western avrebbe reso celebri. A lui, ironico e scanzonato, toccarono le migliori battute di dialogo ("Ho conosciuto un tipo che si gettò dal quinto piano e a ogni piano diceva: per ora tutto bene"); e apparve il volto ideale per incarnare un cavaliere di ventura veloce con la Colt quanto sprezzante del pericolo. Personaggio che, con le varianti del caso, avrebbe poi declinato in una quantità di film. Fino all’ultimo, Il cacciatore di taglie (1980), che interpretò l’anno stesso in cui prese congedo dalla vita, a soli cinquant’anni di età. In un quarto di secolo era stato protagonista di una trentina scarsa di film: sufficienti, però, a conquistargli un posto nell’Olimpo delle star più amate – e sfortunate – di Hollywood accanto a James Dean e Marilyn Monroe. Il suo "character" di uomo virile e sicuro di sé attraversò vari paradigmi di genere - dal poliziesco al western, al film di guerra – ed epoche differenti. Fu un pilota di aerei arrogante e suicidario in Amante di guerra; l’insubordinato e coraggiosissimo Reese del war movie L’inferno è per gli eroi; l’impenetrabile giocatore di poker di Cincinnati Kid; il poliziotto disilluso di Bullitt, precursore del poliziesco metropolitano; il giovane cowboy in cerca di vendetta di Nevada Smith; l’evaso di Papillon, forse il più visto (ma non il migliore) dei suoi film; il capo dei pompieri nell’Inferno di cristallo, tra i prototipi del disaster-movie. McQueen vestiva alla perfezione anche il personaggio del “loser”, sopravvissuto a un’epoca di uomini veri in tempi che avevano scordato l’eroismo: rivedere, per credere, due esempi di tardo-western come Tom Horn e L’ultimo buscadero del suo regista ideale, Sam Peckinpah (per il quale interpretò anche l’ottimo crime-movie Getaway). La comprovata abilità come pilota da corsa, che lo portò a partecipare a molte gare importanti e ad accarezzare l’idea di lasciare il cinema per la pista, fu alla base di film come Le 24 ore di Le Mans e Il rally dei campioni, semi-documentario di imprese motociclistiche in cui Steve interpretava sé stesso. Però il suo massimo successo in sella a una moto lo ottenne con un film di fiction, La grande fuga: dove, nella parte del più scanzonato detenuto in un campo di prigionia tedesco mai visto al cinema, volle girare da sé le pericolose scene in moto rifiutando di delegarle agli stuntman. Riempirono le cronache rosa le sue turbolente vicende matrimoniali con la star Ali MacGraw, che aveva lasciato per lui il marito produttore. Si seppe tutto della sua collezione di auto da corsa, Ferrari, Porsche e Jaguar. Forse alcuni episodi confinano nella leggenda: come quello secondo cui doveva essere in casa di Sharon Tate la notte della strage di Charles Manson (e da allora avrebbe sempre portato la pistola). Tant’è: un mito è un mito. E a quello di McQueen contribuì, per sua somma sfortuna, la morte prematura, a causa di un tumore associato  all’esposizione all’amianto con cui si foderavano le tute ignifughe dei piloti da corsa.

·        40 anni dalla morte di Romain Gary.

Daria Galateria per Robinson – la Repubblica il 18 maggio 2020. Quarant' anni fa Romain Gary raccontò la sua vita mirabolante per radio; fu divertentissimo, con nuove storie su de Gaulle, Groucho Marx, Jean Seberg (la moglie stupenda per cui aveva picchiato Clint Eastwood, e va detto per la storia che Clint non si fece mai più vedere). È l' ultima mia autobiografia, non avrò tempo per farne un' altra, dice Gary, incidentalmente; aveva deciso di suicidarsi, e qualche mese dopo lo fece. Suicidio discreto, per un uomo sotto tanti aspetti vistoso; con un asciugamano rosso sul cuscino, attutì rumore e macchie, sicché per ore, dopo che si era sparato, pensarono che stesse dormendo, e entrando in camera notarono solo il biglietto accanto al letto: " Non mi sono mai espresso così chiaramente". Nell' intervista del 1980 a Radio Canada ( trascritta, compare ora, col titolo Il senso della mia vita, presentata dall' amico Roger Grenier, e tradotta, col giusto smalto, da Giovanni Bogliolo per Neri Pozza) in effetti Gary non risparmia i suoi giudizi. Eppure è così sensazionale nell' esprimersi - esilarante e commovente, al solito - che i messaggi lanciati al futuro appaiono a rilascio ritardato. Sull' Fbi è rapido; hanno indotto alla morte Jean Seberg; il capo dell' F. B. I. lo ha ammesso; e non ha altro da dire. Per l' esercito, racconta che non ebbe promozioni perché, russo lituano, la sua naturalizzazione era troppo recente - anche se poi, per i suoi « straordinari meriti di guerra » nella Liberazione ( in volo, ferito all' addome, aveva diretto il primo pilota, accecato dai vetri, fino all' atterraggio; ed è solo un esempio) fu decorato da de Gaulle, e ebbe diritto alla fine a funerali militari. Tutto è sempre narrato con divertimento, e senza acrimonia; sulla Liberazione Gary racconta principalmente che, per raggiungere, dall' Africa, Londra e de Gaulle, aveva dovuto nascondersi nel bousbir, il quartiere delle prostitute a Meknès. Di de Gaulle dice che gli aveva mandato un biglietto di congratulazioni per il suo primo libro, Educazione europea: la busta e l' indirizzo erano scritti a mano dal Generale, « non ho mai più incontrato una simile cortesia e eleganza di modi » - altrove dice che nonostante l' attaccamento, « etico e spirituale » , per de Gaulle, non è mai stato gaullista ( e così anche la politica è liquidata: del resto, per tre quarti è spettacolo; lo capirà a Hollywood). Console generale a Los Angeles, invitano Gary a partecipare per la parte di Cesare al film Cleopatra; il produttore Walter Wanger ( quello che sparò all' amante della moglie colpendolo al cuore del problema, l' inguine) non capì, e neanche tutta Hollywood, perché un Console di Francia potesse mai rifiutare. Quando lo assolderanno come scenografo, per Il giorno più lungo dovrà estendere la parte di Richard Burton per sfruttare la storia con Liz Taylor, tutta pubblicità gratuita. Alla diplomazia, Gary non ha molto da rimproverare, se non che gli tolgono l' incarico a Londra perché un ambasciatore si è riconosciuto nel protagonista omosessuale di una novella, delicatissima. Ma poi Gary assicura che a Berna si annoiava talmente che mandava dispacci come questo: « A Berna tra tre giorni nevica; vi lascio trarne tutte le implicazioni possibili». Ma questo è uno scherzo; qui Gary imita un autentico dispaccio ("Piove") di Paul Morand, suo predecessore a Berna: lo scrittore che deplorava, in piena Académie, che Gary fosse ebreo, non francese, « e della Resistenza, per di più!» ( due anni prima Gary aveva rifiutato, raccomandando discrezione, il congruo premio Paul Morand). La più sgargiante delle sue mistificazioni, la creazione di una scrittura inverosimile, più che spiritosa, sotto lo pseudonimo di Émile Ajar, passa, nell' intervista, sotto silenzio. È la sua definitiva parola sui critici, che trovavano Gary polveroso e ripetitivo, e salutavano nel misterioso Ajar un genio inaspettato; Gary non confesserà mai che era lui Ajar, godendosi in eterno la stupidità e la gelosia degli intellettuali ( una cosa rivendica Gary: Le radici del cielo, il romanzo del 1956 sullo sterminio degli elefanti, è stato il primo racconto ecologista, quando pochi, nella cultura, conoscevano la parola). Cristo, rileva poi a sorpresa nel finale, portava valori femminili: l' affettività, l' elogio e la difesa della debolezza. Ma poi il cristianesimo è passato nelle mani degli uomini - e così c' è una censura anche per la Chiesa; e per tutta la nostra civiltà, in realtà: che deve usare di più le donne. Riguardo al suo lato ebraico - lui che ha perso nei campi di sterminio quasi tutta la famiglia - cita solo l' umorismo « nato nel ghetto » , arma bianca degli uomini disarmati: « Ti fa male? » chiedono a un ebreo ferito al cuore durante un pogrom, « Solo quando rido » , risponde. Si spiega così che Gary racconti sul tono comico la sua vita esagerata.

Romain Gary, un monologo-confessione tra i sogni materni e l'ironia di De Gaulle. Ecco come lo scrittore si raccontò a Radio Canada, poco prima di morire. Felice Modica, Mercoledì 20/05/2020 su Il Giornale. «Penso di non avere abbastanza vita davanti a me per scrivere un'altra autobiografia». Parole di Romain Gary a Radio Canada, nel 1980, pochi mesi prima di morire, trascritte da Jean Faucher. La trasmissione va in onda il 7 febbraio 1982; Gary si è tolto la vita con la pistola, il 2 dicembre dell'80, a Parigi, in rue du Bac. Indossa una vestaglia rossa, perché le sue azioni sono ancora governate dalla teatralità e dal senso estetico: non vuole si noti il sangue... In rue du Bac abitava vicino a Jean d'Ormesson che in Malgrado tutto, direi che questa vita è stata bella (Neri Pozza), lo definirà «circondato dai suoi demoni tenebrosi e brillanti». Esce ora per Neri Pozza Il senso della mia vita (trad. Giovanni Bogliolo, prefazione Roger Grenier, pagg. 112, euro 13), ultima autobiografia dopo La promessa dell'alba, La notte sarà calma e il testamento letterario-spirituale, Vita e morte di Émile Ajar. È un lungo monologo che comprende struggenti confessioni e attimi di ironia. Non menziona La vita davanti a sé, a firma di Ajar, che gli valse, contro lo statuto del premio, un secondo Goncourt, perché ciò sarà reso noto solo dopo la morte. «Mi chiedete di raccontare un poco la mia vita, con la scusa che ne ho una, ma io non ne sono tanto sicuro, perché credo soprattutto che sia la vita ad avere noi, a possederci». Lituano di nascita (1914), naturalizzato francese, è figlio del divo del muto Ivan Mosjoukine e di una attrice ebrea russa. Quella materna sarà sempre una presenza ingombrante. Lei gli fa scudo col corpo mentre, nel 1917, le pallottole fischiano sulla Piazza Rossa; lui, bambino, sulle spalle di un soldato, la guarda in scena. Attrice modesta, interpreta il ruolo di una donna vecchissima che attraversa il palcoscenico sorretta da due uomini; non vuole abbandonare il palco e la buttano fuori... Sempre la madre gli pronostica un futuro di scrittore e diplomatico, inculcandogli quella idea di Francia che gli farà vivere la vita dal «lato Rimbaud», della bellezza e dell'immaginario, senza cui non ci sono né civiltà, né uomo, né amore, ma anche sempre in bilico tra gloria e disperazione. Realizzerà tutti gli impossibili sogni materni e lei non lo vedrà. Eroe di guerra con De Gaulle, prima di ottenere la Croix de Liberation e la Legion d'honneur, rischia di essere giustiziato. Aviatore nella Raf, vuole battersi, ma il generale aspetta la formazione di autonome squadriglie francesi. Così, quando vola per un'esercitazione, afferra il comandante e vuole buttarlo giù. Come nella scena di un cartone animato, però, gli restano gli stivali in mano e, di fronte ai piedi bianchi dell'uomo, si paralizza. A terra sosterrà la tesi della goliardia... A De Gaulle suo idolo - chiede di combattere. «Va bene, vi do il permesso dice il generale - ma non dimenticate di farvi uccidere». Aggiungendo: «Non vi succederà niente. Sono sempre i migliori a lasciarci la pelle...» Nel '62 sposa in seconde nozze Jean Seberg, la bellissima di Bonjour Tristesse, poi attivista delle Pantere nere, suicida nel '79. Si trasferisce a Hollywood e ha successo come cineasta. Troppo colto, intelligente, raffinato per non cogliere le contraddizioni dei movimenti antirazzisti finanziati dalla moglie e non stigmatizzare il ridicolo nascente politically correct. In Cane Bianco, Marlon Brando che imita l'atteggiamento «spalle al muro» delle Pantere nere, è «un barboncino da salotto che piscia sul tappeto». A Parigi, in piena contestazione del '68, lui che avrebbe simpatia per gli studenti e crede da sempre in un socialismo dal volto umano, si reca con nastri e decorazioni di guerra, «vestito da damerino, con lo stesso gusto per la provocazione terroristica che anima coloro che mi sfottono». Perché (La notte sarà calma), «l'irrompere di qualsiasi folla, sia di destra o di sinistra, mi è odioso: sono un minoritario per natura».

·        40 anni dalla morte di Peppino De Filippo.

Quarant'anni senza Peppino De Filippo, magnifico improvvisatore da palcoscenico. Il 27 gennaio 1980 scompariva il terzo dei fratelli che reinventarono i canoni della recitazione: con la sua verve contagiosa, la mimica eccezionale e la rara capacità d'improvvisazione, capace di salvare anche le storie meno buone: "Mi sono accontentato di film in cui vedevo gli errori, non da maestro ma da uomo di teatro". Vincenzo Foti il 26 gennaio 2020 su La Repubblica. “Io questa cometa da mettere sul presepe non la capisco proprio... a me ‘o presepio nun me piace”. La più famosa battuta di disgusto del teatro italiano risale al 1931. A dirla è Tommasino, figlio di Luca, in Natale in casa Cupiello. Quel Tommasino, “giovine moderno” e dispettoso, lo interpretava Peppino De Filippo, che ebbe la parte fino alla separazione dai fratelli Eduardo e Titina. La battuta sulla cometa, che chiude il cerchio di un’esistenza artistica, proviene invece dal film Giallo napoletano, ultima apparizione dell’attore per la regia di Sergio Corbucci nel 1979. Il 27 gennaio 1980, il terzo dei fratelli De Filippo moriva per un tumore. In tv aveva appena condotto Buonasera con Peppino, un programma pre-serale in cui presentava – insieme al figlio Luigi – niente meno che le avventure di Goldrake. Di lui vanno ricordati anche la maschera di Pappagone (“ecquequà”) in Scala reale, varietà del 1966 abbinato alla Lotteria Italia, e qualche Carosello di successo come quello dell’olio Dante (“Peppino cuoco sopraffino”). Giallo napoletano – un thriller a sfondo umoristico parecchio intricato, che Marcello Mastroianni, Renato Pozzetto e Michel Piccoli cercano di sbrogliare senza riuscirci – è indicativo dell’arte di Peppino. Tutta sua era la straordinaria capacità di ‘arieggiare’, con inesauribile verve e incredibile varietà di espressioni, anche i film più mediocri e stantìi. E seppure stanco e malandato, nel film di Corbucci l’attore riesce ancora una volta ad accendere di raro divertimento alcune sequenze preziose. Del resto, per anni Peppino De Filippo ha coltivato l’abilità di ravvivare, anche con una sola battuta, un unico sguardo, uno sparuto versaccio, le pellicole più scadenti. Egli stesso se ne lamentò: “Ho dovuto accontentarmi di fare dei film che non mi piacevano, in cui capivo e vedevo tutti gli errori che ci stavano; non da maestro, per carità, ma da uomo di teatro”. Nato a Napoli il 24 agosto 1903, Peppino De Filippo esordì come generico nella compagnia teatrale di Vincenzo Scarpetta negli anni della Grande Guerra. Quindi, di successo in successo, si ritrovò sul palco della Compagnia Teatro Umoristico I De Filippo, fondata insieme ai fratelli. La formazione esordì proprio con Natale in casa Cupiello, archetipo e prototipo di molte commedie successive, che continuerà a ispirare Eduardo anche nel periodo della maturità. Staccatosi dal trio nel 1944 – il furioso litigio con Eduardo davanti a tutta la compagnia è ormai leggenda – Peppino approda al cinema brillante con Luci del varietà (1951), film-esordio diretto da Fellini e Alberto Lattuada. Per il Maestro riminese interpreterà anche un episodio di Boccaccio '70 (1962). Nei panni del dottor Antonio, un incallito moralista fustigatore di costumi, che si ritrova ad annegare tra i giganteschi seni di Anitona Ekberg, l’attore dà una prova straordinaria. Per non parlare del Guardiano di Harold Pinter (versione tv di Edmo Fenoglio, 1976), dove Peppino interpreta un personaggio abietto, subdolo e cinico, antipatico e scaltro, limato e credibile al punto far dimenticare le sue macchiette più divertenti. Il suo nome è però indissolubilmente legato a quello di Totò, col quale ha formato la più grande coppia comica nazionale. Lunga è la serie di film di enorme successo, frutto di una magica e irripetibile alchimia comico-popolare e della fusioni di due genialità forgiatesi nel solco della commedia dell’arte e dell’avanspettacolo. La capacità di Peppino di inserirsi con maestria negli spazi che Totò gli porgeva rese il duo perfetto e autosufficiente. Il più impagabile tra i picchi d’improvvisazione è l’ormai mitica dettatura della lettera in Totò, Peppino e la... malafemmina. Senza dimenticare la complicità nel finto rapimento a scopo godereccio di Totò, Peppino e i fuorilegge (Nastro d’Argento 1957 come miglior attore protagonista) e l’esilarante duetto sul talamo matrimoniale di Letto a tre piazze, dove Peppino fa letteralmente da marciapiede umano al principe de Curtis.

Paolo Isotta per “Libero quotidiano” il 30 marzo 2020. Eduardo Scarpetta è figura dagli aspetti anche sordidi. Cornuto, e se ne vantava: «'E mèe sò corna d' oro!». Il cornificante era Vittorio Emanuele II. Vero è che a Napoli e Palermo vige l'aureo e realistico proverbio «'O Rrè nun fa corna, Lu Rrè nun faci cuorni!». Quante lignées gentilizie delle più illustri hanno per fonte corna regie, e il marito cornificato dal Re non solo non deve adontarsene, deve sentirsene onorato. (Poi il concetto si estese. Nei salotti parigini, il ravennate conte Guiccioli soleva presentare la consorte Teresa così: «Ma femme, ancienne maîtresse de l'illustre Byron!» «Mia moglie, che fu amante dell' illustre Byron!». Medaglia al valore per lui, secondo lui). Attaccato al denaro. Egoista. Infame nella vita famigliare, con figli numerosi di altri letti non riconosciuti. Dalla sessualità anche torbida. Nell'autobiografia “Una famiglia difficile” Peppino De Filippo, uno dei suoi figli, racconta che bimbo, trovandosi in carrozza con lui, si vide infilare la mano sotto i pantaloncini e masturbare. Però era un genio, che in fondo va considerato una reincarnazione borghese e napoletana di Aristofane (solo in parte), Plauto e Molière. Questo gli venne riconosciuto da alti letterati dell' epoca, e Scarpetta resta fra i più grandi autori di teatro. “Una famiglia difficile” è un libro venato di amarezza. Peppino riesce a trasfondere in modo sommamente espressivo il senso di vera esclusione sociale, la profondissima umiliazione che all' inizio del Novecento provava, e si riteneva dovesse provare, chi portava il cognome della madre. Quella dei tre De Filippo era inoltre nipote della moglie di Scarpetta. Uno dei vantaggi dei tempi attuali è che l'onta di essere "figlio di N.N." non esiste più. Ma il libro è venato di amarezza anche per essere un resoconto analitico e sismografico crudele nella sua obbiettività della cattiveria di Eduardo verso Peppino, del disprezzo (nascente da invidia?) di continuo manifestato in pubblico verso di lui. Peppino ingoiò fiele pro bono pacis, anche perché riteneva che la compagnia teatrale dei tre fratelli fosse, com' era, cosa troppo preziosa perché venisse distrutta. Ma nel 1944 non ce la fece più. Ognuno prese la sua strada, e quella di Peppino s'incrociò di nuovo con quella di Titina, anche auspice Totò. E Titina era un altro sommo animale di palcoscenico. Brutta: sapeva trasformare la bruttezza in avarizia e cattiveria sin grottesche. Il suo personaggio in Totò, Peppino e i fuorilegge (alatissima regia di Camillo Mastrocinque) - basta vedere come ella si tocchi i capelli simulando indifferenza - è una delle più grandi interpretazioni femminili che si siano viste al cinema. I quarant' anni da che Peppino ci ha lasciato dovrebbero indurre a una nuova valutazione della sua figura. Egli è stato sempre da molta critica, anche per pregiudizio ideologico, tenuto in ombra dal fratello Eduardo, reputato autore e attore "filosofo" di contro a una figura di routinier. È stato a lungo, in un certo dopoguerra, l' idolo del cretino di sinistra. Venne nominato senatore a vita. Totò, il più grande attore del Novecento, non fu senatore a vita, come Borges non ebbe il premio Nobel. L'autore Eduardo, se si prescinde da certe farse anteguerra scritte per una compagnia della quale i tre fratelli erano l' asse, come il bellissimo Sik sik l' artefice magico, ovvero quando scarpetteggia all altezza del padre, come nel capolavoro Quei figuri di tanti anni fa, era un Pirandello dei miserrimi. L'attore era diventato sempre più lezioso, manierato, assumendo pur egli pose filosofiche e indulgendo in sempre più lunghe pause d'insoffribile retorica. Eduardo attore era davvero grande non, paradossalmente, nelle opere proprie, quanto in quelle del padre naturale: là egli sa abbandonarsi a fantastiche doti comiche; e si veda Lo curaggio 'e nu pompiere napulitano o, ancor più, 'Na santarella. Ma nemmeno sempre: in Miseria e nobiltà non è all' altezza del sommo testo, che attori meno titolati, come Enzo Cannavale e Rino Marcelli, hanno portato alla perfezione; e non parliamo della metafisica del film di Totò. Quando poi ha voluto fare il vero Pirandello, come nel suo adattamento de Il berretto a sonagli, fa cascare le braccia - ed è un eufemismo. Per comprendere uno dei più alti testi del teatro - l' atroce umiliazione sotto velo comico, la vendetta del paradosso filosofico - bisogna vederlo interpretato da Salvo Randone, con lo straordinario Silvio Spaccesi nella parte del delegato Spanò, Anita Laurenzi, Wanda Capodaglio e l' intensissima regia di Edmo Fenoglio . Che tempi! Povero Eduardo. Non so se Peppino abbia impersonato Ciampa: certo sarebbe stato un grande Ciampa. fa pensare e ridere Peppino autore, per cominciare. Gli si debbono garbati o profondi testi di un realismo medio-borghese. La banalità del male (per parafrasare la Arendt), la sofferenza della normalità borghese. Ma un capolavoro assoluto come Don Rafele 'o trombone (che nella realtà musicale è poi un bassotuba), atroce riflessione su una delle realtà più tenacemente negate e più misteriosamente reali che esistano, la jettatura. Ch' è il risvolto dell' altra realtà chiamata disgrazia, sfortuna. Lo jettatore volontario, contrariamente a quanto gl' indotti affermino, non esiste; lo jettatore può anche essere uomo o donna d' eletto sentire; e solitamente è un disgraziato. 'O cane muozzeca 'o stracciato, dice ancora la saggezza millenaria della mia città, il cane morde lo sventurato. Su simile tragedia Peppino riesce a far meditare e insieme a far irresistibilmente ridere. Questa è opera del genio. Peppino è un compositore incompreso perseguitato dalla disgrazia e jettatore. Per vivere, suona il bassotuba in un complessino.

Debbono esibirsi a un matrimonio. Sta vestendosi, è in ritardo, quando entra, terreo, il grande Mario Castellani. «Il matrimonio non si fa più». «E perché?» «Lo sposo, quel bell' uomo alto, roseo, pieno di salute, ha voluto sapere come si chiama il trombone; e quando gli ho detto Raffaele Chianese è caduto a terra stecchito!» Anche questo è uno dei punti più alti del teatro. E le corna subite, ignorate, terribili e godute. In rerum natura credo che il cornuto che non lo sa non esista. Ma quale capolavoro di comico assoluto (e latente tristezza) ne fa Peppino in Spacca il centesimo! Capolavoro di autore e di interprete. Ce n' è una registrazione tarda, e il Sommo riesce a trarre profitto anche da certe lentezze prodotte dalla vecchiaia. L' opposto di Eduardo. Quando si parla dell' attore si pensa subito alla "spalla" di Totò. Ma pensiamo prima al resto. A una tecnica di recitazione fra le più consumate che si siano viste. Tempi teatrali perfetti. La capacità di far scorgere i più varî, e a volte fra loro contrastanti, stati d' animo, dall' intonazione della voce e da una mimica ch' era una complessa partitura musicale. L' avaro e Il malato immaginario di Molière di Peppino hanno pochi paragoni. Si è misurato anche nel surreale Pinter. Diciamo ancora la verità: altro che Eduardo. E veniamo a Totò. Nulla di meno appropriato che definire Peppino "spalla". "Spalla" di Totò sono stati persino giganti come Nino Taranto, Franca Valeri, Aldo Fabrizi, Ugo D' Alessio, Vittoria Crispo, Mario Castellani, Ave Ninchi, Carlo Ninchi, Luigi Pavese, Raimondo Vianello, Gianni Agus, Guglielmo Inglese, Aroldo Tieri o Teddy Reno. Peppino è stato l' unico capace di tenersi alla stessa altezza del, ripeto, più grande attore del Novecento. I pezzi da antologia non si contano. Sebbene Alberto Anile, autore dei migliori libri su Totò, affermi che nei films l' improvvisazione fosse molto più ridotta che la leggenda non voglia, basta ascoltare il "sonoro" non doppiato di alcuni famosi duetti per rendersi conto che i due concreavano. Peppino creava alla pari con Totò, non gli porgeva le battute. Le due "dettatura della lettera" (la seconda è in Totò, Peppino e i fuorilegge) mostrano la fulminea rapidità con la quale dalla situazione scaturiscono battute inanellate l' una nell' altra per un processo creativo che può definirsi solo miracoloso. Quando in Totò, Peppino e 'a malafemmena (sempre Mastrocinque!) Peppino cancella col fazzoletto i suoi errori di scrittura e poi, sudando copiosamente, si asciuga collo stesso fazzoletto e si copre la faccia d' inchiostro, ci si può solo inchinare reverenti come di fronte al Padre e allo Spirito Santo. «Tu sei ladro di penne, io ti temo!», dice in Totò e Peppino divisi a Berlino. Possiamo mai credere che questa battuta sia della sceneggiatura? Nel capolavoro Totò contro i quattro recita il cornuto che teme l' amante della moglie voglia avvelenarlo: e quale testimone porta il pappagallo Gennarino a Totò commissario di polizia. «Non me lo intimidisca, lo gratti un poco sul pancino!». Chi altri potrebbe pronunciare con serietà l' idiozia surreale della battuta? I due erano peraltro fratelli spirituali. Totò venne battezzato col nome della madre, Clemente, stiratrice analfabeta, e venne riconosciuto dallo spiantato marchese de Curtis solo a ventott'anni. Peppino aveva un talento particolare per dar volto anche a un tipo italiano abietto e meschino. La fortuna lo fece incontrare con un altro genio supremo, Federico Fellini, che lo comprese e che nel film a più mani Boccaccio '70 firma Le tentazioni del dottor Antonio. Uno dei capolavori assoluti della storia del cinema, nel quale, oso dire, Fellini rivela un lato kafkiano di Peppino che altri non avrebbe intuito. Da che ebbi uso di ragione fui peppinista.

·        40 anni dalla morte di Mario Amato, il giudice tradito dallo Stato.

Mario Amato, il giudice tradito dallo Stato. Indagava sui terroristi neri e aveva intuito l'intreccio occulto in cui maturò la strage di Bologna. Dava fastidio ai superiori e non fu protetto. Il 23 giugno di 40 anni fa i Nar gli spararono alla nuca e per l'Italia fu l'inizio dell'estate più tragica della storia repubblicana. Marco Damilano il 18 giugno 2020 su L'Espresso. Nel punto in cui fu ucciso a Roma, il 23 giugno di quarant’anni fa, c’è una stele di pietra della Maiella intitolata Grido al cielo, scolpita dallo scultore Antonio Di Campli, raffigura il passaggio dalla vita terrena a quella spirituale. Quella mattina alle otto il giudice Mario Amato salutò la moglie Giuliana e i figlioletti Sergio e Cristina e uscì d­i casa per prendere l’autobus in viale Jonio. Lo attendevano due terroristi della sigla neofascista Nar. Gilberto Cavallini gli sparò alla nuca, poi fuggì su una Honda guidata dall’allora minorenne Luigi Ciavardini. Per l’Italia fu l’inizio dell’estate 1980, la più tragica della storia repubblicana, con la strage dell’aereo DC-9 nei cieli su Ustica (27 giugno), 81 morti, e la strage della stazione di Bologna (2 agosto), 85 morti, il più grave atto terroristico del dopoguerra. Per il giudice, fu la fine tragica di tre mesi di calvario: pressioni, avvertimenti, minacce, ad opera di quelle istituzioni che avrebbero dovuto proteggerlo e che invece lo abbandonarono. Il suo delitto è strettamente intrecciato alla strage di Bologna. Stessi esecutori, forse gli stessi mandanti. Una scia di sangue in un solo disegno eversivo e anti-democratico. «Mio padre è stato tradito da uomini dello Stato. Fu alto tradimento». Sergio Amato è un uomo di 46 anni, fiero, con gli occhi appassionati identici a quelli del papà, non ama l’iconografia emotiva del delitto, come la foto della scarpa bucata sotto il lenzuolo che copriva il cadavere. Come in un passaggio di testimone, la ricerca del padre è diventata la sua. Cita a memoria gli atti giudiziari che riguardano l’omicidio del giudice: carte ingiallite, gli appunti a mano sull’agenda con la penna blu, rossa e verde, le relazioni battute a macchina, con le richieste di rinforzi che non arriveranno mai e una convinzione inflessibile. «Ritengo di dover tutelare non solo la mia dignità, ma anche quella della funzione che esercito», disse al Consiglio superiore della magistratura dieci giorni prima di essere ucciso.

Mario Amato. Il pm con la scarpa rotta  che combatteva da solo  i nemici dello Stato. Pubblicato sabato, 28 settembre 2019 su Corriere.it da Walter Veltroni. Mario Amato nella Roma della fine degli anni Settanta era l’unico magistrato a indagare sui terroristi neri. Chiese più volte aiuto, fu ucciso alla fermata del bus. Robert Doisneau, il fotografo del bacio nella Parigi del dopoguerra, diceva del suo lavoro: «Il mondo che cercavo di far vedere era un mondo dove stavo bene, dove la gente era gentile e dove trovavo la tenerezza di cui avevo bisogno. Le mie fotografie volevano dimostrare che un mondo del genere poteva esistere». Robert Capa, grande fotografo di guerra morto su una mina in Vietnam, diceva del suo lavoro: «La guerra è come un’attrice che invecchia. È sempre meno fotogenica e sempre più pericolosa». Non so invece chi sia l’autore della fotografia della quale stiamo per parlare. Forse uno di quei meravigliosi professionisti d’agenzia che accorrono, cuore in gola, a fotografare il dolore degli altri. Quella mattina del 23 giugno del 1980 qualcuno gli deve aver telefonato a casa, era presto, e non esistevano i cellulari. Gli deve aver detto di andare di corsa a Viale Jonio, più precisamente a Via Monte Rocchetta. Gli avrà detto, il giornalista di turno in questura, «hanno ammazzato qualcuno». Durante quegli anni orrendi ci sono stati centinaia di «qualcuno». Erano poliziotti, carabinieri, finanzieri, uomini della polizia penitenziaria, giornalisti, politici, imprenditori, sindacalisti. Pioveva sempre, in quegli anni, e la pioggia cancellava i segni col gesso che delimitavano le strane posizioni che assume un corpo morto.

Mario Amato nacque il 24 novembre del 1937 a Palermo. Il 23 giugno del 1980 venne assassinato dai Nar. E poi tanti magistrati. Tanti. In quei primi mesi del 1980 sono caduti, sotto il fuoco del terrorismo rosso, Nicola Giacumbi, Girolamo Minervini e Guido Galli. Li hanno uccisi in tre giorni di fuoco, quelli tra il sedici marzo e il diciannove marzo. A febbraio era toccato a Vittorio Bachelet. Quando il fotografo arriva vede la scena solita. Un corpo a terra, un lenzuolo pietosamente disposto per coprirne la vista, come se la vittima e non già gli assassini fossero un orrore, i curiosi, il confabulare delle autorità «prontamente accorse».Poi lo sguardo del fotografo scorge un particolare. Ad altri sarebbe sfuggito. Lui, dentro il mirino della sua Nikon o Canon, ha visto decine di scene così. Diverse e uguali. Ma i particolari, che spesso gli investigatori ignorano, a lui sembrano decisivi.Così i suoi occhi, aiutati dal teleobiettivo, si fissano su una scarpa, la sinistra, che spunta dal lenzuolo. Sulla punta c’è un buco. Un buco, come nelle descrizioni di Dickens o nei fumetti di Pippo. Forrest Gump diceva: «Mia mamma mi ha insegnato che dalle scarpe di una persona si capiscono tante cose: dove va, cosa fa, dove è stata».Quel buco nelle scarpe mi è rimasto nella memoria in tutti questi anni. Mi sembrava raccontasse molto dell’austera figura di un magistrato. Di questo magistrato. Mi sembrava dicesse «dove va, cosa fa, dove è stata». Un terrorista nero, Ciavardini, per non essere da meno dei colleghi rossi, aveva atteso Mario Amato, il proprietario di quelle scarpe bucate, alla fermata dell’autobus, gli aveva puntato la pistola alla nuca e poi aveva premuto il grilletto. Un altro, Cavallini, lo aspettava su una moto.

Alla fermata dell’autobus. Tre mesi dopo la mattanza dei magistrati il titolare delle inchieste sui terroristi neri viaggiava in autobus. Non poteva disporre della macchina di servizio, ovviamente non blindata, perché l’autista prendeva servizio alle nove e dunque non sarebbe stato in ufficio prima delle dieci. Lui invece voleva essere presto al lavoro. Per questo uscì di casa e fece pochi passi, per prendere l’autobus 319. Non aveva l’auto blindata anche perché, come aveva detto in audizione al Csm poco prima di essere ucciso: «C’era una sola macchina blindata. Ritenevo più opportuno lasciarla disponibile per i colleghi che si occupano del terrorismo rosso e svolgono un’attività di gran lunga più rischiosa di quella che svolgo io».Quel buco, quella palina di un autobus dicono molto, ma non tutto. Dicono di un uomo attaccato al lavoro, vissuto come una missione, dicono di chi non vuole perdere tempo, né occupandosi delle suole di una scarpa logora né aspettando una macchina pigra.Mario Amato era il magistrato che, nella Roma della fine degli anni Settanta, indagava sul terrorismo nero. Era solo. Era solo lui a farlo. Come solo era stato, prima di lui, Vittorio Occorsio. Non aveva un pool, qualcuno che lo aiutasse. I suoi colleghi a Roma, in Procura, dopo la mattanza di metà marzo si erano riuniti in assemblea permanente, cosa inedita e segno della tensione crescente. Amato quattro giorni dopo sale le scale del Csm e parla alla prima commissione referente. Ascoltiamolo, questo racconto di una paurosa solitudine. «Sono stato lasciato completamente solo a fare questo lavoro, per un anno e mezzo. Nessuno mi ha mai chiesto cosa stesse succedendo. Solo una volta sono stato chiamato dal procuratore capo a proposito del nominativo di un collega trovato nell’agenda di un professore arrestato. Recentemente ho molto insistito per avere un aiuto sia perché sono stato bersagliato da accuse e denunce in quanto vengo visto come la persona che vuole “creare” il terrorismo nero, sia perché le personalizzazioni tornano a discapito dello stesso ufficio. Affiancandomi dei colleghi sarebbe possibile, infatti, sia ridurre i rischi propri della personalizzazione dei processi, sia darmi un conforto in quanto, se dei colleghi giungessero a conclusioni analoghe alle mie, sarebbe evidente che le stesse non sarebbero frutto della mia asserita faziosità. Oltre a tali motivazioni vi è, poi, anche quella che non ce la faccio più da solo perché è un lavoro massacrante che comporta la necessità di tenere a mente centinaia di nomi e centinaia di dati, il che è impossibile per una persona sola. Nonostante, peraltro, le più reiterate e motivate richieste di aiuto, a tutt’oggi, tale aiuto non mi è stato dato». Oggi Giovanni Canzio, presidente emerito della Cassazione e magistrato che si occupava di terrorismo a Rieti, mi dice: «Mario era isolato. Fu lasciato solo. Sapeva di essere minacciato, le indagini sul terrorismo nero erano molto pericolose». E aggiunge: «Quando fu ucciso io provai un grande dolore, ma non fui sorpreso. Noi avevamo la sensazione di non avere dalla nostra parte l’intero Stato. C’era chi remava contro. E chi toccava quei fili rischiava». Il figlio di Amato, Sergio, che aveva sei anni quel giorno, ha pochi ricordi: il padre che suona il violino della sorella di sei anni più grande di lui; un’immagine di Cristina, talmente innamorata del papà che, quando lo sentiva tornare, gli preparava le pantofole davanti alla porta. Sergio mi racconta che ha passato la sua giovinezza a cercare ovunque le ragioni dell’accaduto. Nei libri di storia, per capire un fenomeno che non ha vissuto e in quelli di filosofia per comprendere come possa, un essere umano, arrivare alla ferocia disumana di un assassinio a freddo o di una strage. L’una e l’altra, di esseri innocenti. Sergio va spesso a Bologna dove si tiene un processo sulla strage del due agosto. È soddisfatto perché il tribunale ha chiesto al Csm le trascrizioni delle due udienze di Mario Amato. Sente che un filo lega quelle due vicende. Sergio mi dice che sua madre non gli ha insegnato l’odio, neanche nei confronti degli assassini che gli hanno tolto quel padre insieme al quale avrebbe potuto fare tante cose. Personalmente credo che l’omicidio di Amato non fosse un mero atto dimostrativo. D’altra parte nella rivendicazione i Nar sono espliciti: «Abbiamo eseguito la sentenza di morte contro il sostituto procuratore dottor Amato, per la cui mano passavano tutti i processi a carico dei camerati. Oggi egli ha chiuso la sua squallida esistenza imbottito di piombo. Altri la pagheranno». Valerio Fioravanti dirà: «Noi scegliemmo Amato come simbolo dello Stato per addivenire ad una rottura con quelle forze dello Stato stesso a cui eravamo “simpatici”, fino a quel momento, poiché ci consideravano “figli della borghesia” lasciandoci “fare” e scorrazzare liberamente per tutta Roma». Amato non viene ucciso solamente per impaurire. Con Amato i Nar mandano un segnale allo Stato e, allo stesso tempo, uccidono chi stava collegando i fili del rapporto tra terrorismo nero e pezzi di potere. Si spegne, con quel colpo alla nuca, la più potente banca dati di contrasto all’eversione nera. Quel cervello conteneva un’immensa quantità di informazioni, deduzioni, collegamenti che volano via. Un’esecuzione chirurgica, nei suoi effetti. Aveva detto, in quell’audizione: «Come esempio posso citare la famosa “banca dati” che tutti coloro che si occupano di terrorismo dicono da anni che è indispensabile. Ebbene, non se ne è mai fatto niente». Amato stava unendo i puntini, stava costruendo, dell’analisi del fenomeno, una visione sistemica. Il suo amico di sempre Paolo Cenni mi dice: «Negli ultimi quindici giorni Mario aveva cominciato ad organizzare una sua banca dati, richiamando fascicoli di inchieste che avevano invisibili collegamenti. Mi disse: “Quando vado in udienza mi accorgo che vengo osservato. Vogliono capire quanto ho capito, quanto so”. Attorno a lui c’era un brutto clima. Fui avvicinato dal giudice Alibrandi, suo collega, che mi sibilò minaccioso: “Dì al tuo amico che qui a Roma non si scherza, quelli si incazzano davvero”». Amato stesso dirà, poco prima di morire, «sto arrivando alla visione di una verità d’assieme, coinvolgente responsabilità ben più gravi di quelle degli stessi esecutori materiali degli attentati». Amato, prima dell’assassinio, è assediato. Giovanni Canzio racconta che andava a casa sua con dei pesantissimi fardelli di bobine che voleva ascoltare personalmente: «Non mi fido, possono non trascriverle per intero». Sergio lo ricorda nel suo studio in casa, con delle gigantesche cuffie sulle orecchie mentre ascolta le intercettazioni.

Amato è braccato. Un detenuto, un confidente, tal Marco Mario Massimi, al termine di un interrogatorio, gli aveva detto solo quattro parole, affilate come una lama: «Lei, dottore, la cercano». Un funzionario di polizia, come riporta il bel libro di Achille Melchionda Piombo contro la giustizia, aveva scritto, nella sua relazione di servizio, di avere a sua volta interrogato lo stesso pregiudicato. E chiudeva il rapporto così: «Il Massimi ha concluso indicando il dottor Amato come uno dei maggiori obiettivi del terrorismo di destra che, peraltro, potrebbe portare a termine, entro breve tempo, attentati in danno di poliziotti». Quindi sapevano. E lo hanno lasciato solo, alla fermata del 319.Amato torna al Csm, stessa commissione, dieci giorni prima di essere ucciso. Racconta di un esposto presentato da avvocati contro di lui nel quale si diceva, testualmente: «Segnaliamo alla S.V. se non sia il caso che il dottor Amato venga invitato ad astenersi a causa della sua conclamata militanza politica che è in netto contrasto con le idee professate da tutti gli inquisiti nelle varie istruttorie da lui condotte. Ci sembra inoltre molto strano che indagini di elementi appartenenti alla destra politica vengano sempre affidate, almeno negli ultimi tempi, al predetto magistrato». Il procuratore capo De Matteo, al quale l’esposto era indirizzato, non gli aveva detto nulla, se non che c’era una «cosa» che lo riguardava e, soprattutto, non lo aveva difeso pubblicamente. Amato non voleva essere solo, voleva aiuto. Voleva essere affiancato. Dice, con drammaticità in audizione: «Ricordo, a tal proposito, una riunione piuttosto spiacevole in cui il Capo disse che “il mio problema“ (era infatti divenuto il “mio” problema) era risolto perché vi erano due volontari senza, peraltro, farne il nome. Il collega Nicolò Amato domandò, allora, se si poteva sapere chi fossero tali due colleghi, al che il procuratore fece i nominativi di due colleghi che subito si alzarono protestando che loro “volontari non erano” e che, anzi, avevano manifestato una idea contraria. Uno dei due, successivamente, mi spiegò anche i motivi di tale sua reazione e cioè che lui vive in un quartiere in cui il Msi è particolarmente attivo ed aveva addirittura la sezione di detto partito sotto casa. Tale situazione mi mise ovviamente in imbarazzo in quanto sembrava, quasi, che si trattasse di un mio problema personale». Poco prima di essere ucciso gli vengono finalmente affiancati due magistrati. Uno di loro, il dottor Giordano, dice oggi: «Non avevamo uomini operativi. I carabinieri ci diedero solo un capitano. Sica ci disse che c’era il rischio che a Roma i terroristi uccidessero un magistrato. Ma ci disse “colpiranno l’ultimo della fila”. Non poteva essere Amato. Lui era stato minacciato in vari modi. Mario aveva preso un’arma come, dopo il suo assassinio, facemmo tutti noi. Eravamo arrivati tutti a Roma per dare una mano. Dopo l’omicidio Occorsio c’era stato il fuggi fuggi. Sentivamo il nostro lavoro come un dovere civile». Amato si interrogava sul fenomeno che stava investigando. Usava la ragione, non solo la legge. Disse in quella audizione: «Vi sono un sacco di ragazzi o addirittura ragazzini che sono come i miei o i vostri figli, o come i figli di persone assolutamente per bene e che vengono armati o comunque istigati ad armarsi e che poi ci troviamo che ammazzano. Ne troviamo con armi, con silenziatori o colti nel momento in cui stanno ammazzando. Si tratta, quindi, di un fenomeno grave anche sotto questo profilo che non può essere trascurato perché il problema non si può risolvere prendendo i ragazzini e mettendoli in galera, o meglio mettiamoli pure in galera, ma teniamo presente che il gravissimo danno sociale di questa massa di giovani che vengono travolti da vicende di questo tipo». E poi aggiungeva: «Sono tutte questioni che da troppo tempo sto “macerando” e che mi hanno messo in difficoltà e, non vi nascondo, mi hanno traumatizzato perché io pensavo, venendo a Roma, di trovare un Ufficio dove avrei imparato». Veniva da Rovereto. Dove lui, palermitano, era stato felice con sua moglie e dove diventerà sostituto procuratore della Repubblica.

Era un grande magistrato. Vissuto in quegli anni folli. A cercare di debellare con la sua testa, insieme ad altri coraggiosi servitori dello Stato, chi voleva instaurare una dittatura nella quale, a chi non la pensava come il presunto vincitore, veniva assicurata morte certa. Quegli anni orrendi, che solo chi non ha vissuto può rimpiangere, li dobbiamo ricordare senza distinzioni. Non esistevano assassinî o stragi più giustificabili di altre. Sono morti ragazzi solo perché erano di destra, altri solo perché erano di sinistra. Sono morti magistrati che applicavano la legge, giornalisti che raccontavano ciò che vedevano, politici che testimoniavano le loro idee, ragazzi in divisa perché facevano il loro dovere. La storia professionale di Mario Amato inizia il 15 giugno del 1970. Così ne parla la scheda del Csm a lui dedicata: «Presso il Tribunale ordinario di Roma, presta giuramento di fedeltà alla Repubblica; il rappresentante dell’ufficio del Pubblico ministero è, in quel momento, Antonino Scopelliti».Quel giorno, per quel giuramento al quale ciascuno resterà fedele, ci sono due prossimi «qualcuno». Uno, Amato, sarà ucciso dal terrorismo nero. L’altro, Scopelliti, il 9 agosto del 1991, verrà assassinato su ordine dei capi della mafia. Anche per lui un colpo alla testa. La testa, il cervello, gli studi raccolti in una borsa, come quelli di Massimo d’Antona, ucciso dalle Br. Di fronte al piombo la testa è fragile, indifesa. Specie se è condannata alla solitudine. Come quella di Mario Amato. Scarpe bucate e coscienza pulita.

·        40 anni dall’uscita di “The Blues Brothers”.

Francesco Alò per "il Messaggero" 21 dicembre 2020. La botta arriva già a pagina 24: «Perché non eri lì con lui?» le chiede a bruciapelo Billy, subito dopo che ha saputo della morte del fratello John Belushi, a 33 anni, la notte del 28 febbraio 1982, per overdose di cocaina ed eroina. Judith Belushi Pisano non sa che rispondere. Era a New York e il suo analista le aveva suggerito di non seguire a Los Angeles, dopo l' ennesimo litigio, il marito star del cinema con Animal House (1978) e The Blues Brothers (1980), musicista da due dischi di platino (sempre con i Fratelli Blues in coppia con Dan Aykroyd) e comico simbolo dei casinari anni 70 fin dai primi sketch comici nello show tv di culto Saturday Night Live (1975). «Lo so», singhiozza Judith al telefono: «Avrei dovuto essere con lui, Billy!». È il passaggio più drammatico di John Belushi La biografia definitiva, saggio pieno pure di risate, edito per la prima volta in Italia grazie a Sagoma Editore, frutto della fusione tra le memorie inedite nel nostro paese della consorte Samurai Widow del 1990 e Belushi, raccolta datata 2005 di interviste e foto sempre ad opera di Judith con l' aiuto di Tanner Colby, edito in Italia nel 2006 dalla Rizzoli. Le 480 pagine sono dunque in parte la ricostruzione del rapporto con il marito della vedova ironicamente ribattezzatasi Samurai (era il personaggio dall' eloquio incomprensibile più folle di Belushi, ispirato al cinema di Kurosawa) e per metà parole e chiacchiere di chi lavorò con lui, dall' amico fraterno Bill Murray al regista John Landis. Si passa dunque da una ragazza wasp spaventata da un certo Balucci (era convinta fosse italiano perché ignorava «l' esistenza degli albanesi») che provava a rimorchiarla con insistenza nella periferica Chicago di fine anni 60, al resoconto dettagliato dell' arte comica di colui che viene definito dal collega e futuro Ghostbuster Harold Ramis: «Strepitoso, matto e masochista». Non è mai stata data alle stampe, in traduzione italiana, un' opera così ricca di informazioni sulla formazione culturale e politica sull' enfant terrible dello show business americano dopo il best-seller Chi tocca muore (1984) del giornalista due volte premio Pulitzer Bob Woodward, che lo descriveva come uno sgradevole tossicodipendente. Qui c' è maggiore attenzione ai natali da figlio di immigrati piccolo-borghesi, gli anni della disillusione ideologica dopo l' omicidio di Bobby Kennedy nel 1968, gli esordi presso gli improvvisatori della satira del teatro Second City e soprattutto quelle qualità artistiche di chi imitava Marlon Brando alla perfezione e otteneva la stima incondizionata di Jack Nicholson («Tu non sei un comico ma un grande attore», gli ripeteva spesso). E allora cosa andò storto? Tutta colpa di quel dannato 1978 in cui Belushi recitò nella commedia più redditizia di Hollywood ovvero Animal House di Landis (141 milioni di dollari di incasso per un budget di miseri 3), sbancò con l' album dei Blues Brothers ed era il più popolare guitto in tv grazie al Saturday Night Live. Probabilmente troppo successo anche per uno abituato all' eccesso come lui. Ecco il regalo perfetto per le feste di questo 2020 in cui il film The Blues Brothers (1980) compie 40 anni: vita, morte e miracoli di un figlio di classi umili dell' Illinois nato nel 1949, con nonna analfabeta alla quale comunicare tutto a gesti, radicale di sinistra, milionario appena trentenne, tre volte sulla copertina di Rolling Stone, inseguito per strada come i Beatles e fissato con Napoleone Bonaparte. Struggente la chiusa della prefazione del soul brother Dan Aykroyd: «Attore, comico, rockstar. Per me ha interpretato l' eroe americano».

Laura Zangarini per il ''Corriere della Sera'' il 6 settembre 2020. «Ho ucciso John Belushi». Trentotto anni, 5 mesi, 23 giorni dopo la morte dell' attore americano, avvenuta il 5 marzo 1982 allo Chateau Marmont Hotel, a Los Angeles, California, Cathy Smith si è spenta a Maple Ridge, Canada. Aveva 73 anni. A cambiare per sempre la sua vita di corista e cantante nata il 25 aprile 1947 a Burlington, Ontario, era stata la copertina di The National Enquirer del giugno 1982 in cui rivelò di avere iniettato a Belushi la dose fatale di droga. «Non volevo ucciderlo, ma sono responsabile» si leggeva nel titolo, accanto a una foto dell' attore. Sotto l' immagine, un altro titolo aggiungeva: «Esclusiva mondiale - La donna misteriosa confessa». Prima dello scoop dell'«Enquirer», la morte della star di Animal House (1978) e The Blues Brothers (1980), film culto diretti da John Landis, era stata archiviata come «overdose accidentale di droga». Non era un mistero per nessuno che Belushi facesse uso pesante di stupefacenti. La sera di giovedì 4 marzo, dal bungalow dove si era sistemato per lavorare alla sceneggiatura del suo nuovo film, Noble Rot , chiamò Cathy Smith, ex groupie passata dal folk al più «pericoloso» mondo del rock' n'roll, attraverso cui era arrivata nella dorata Hollywood. Erano completamente ubriachi quando, come lei ammise nell' intervista, che le fruttò 15mila dollari, iniettò a Belushi una combinazione di eroina e cocaina - la micidiale «speedball» - che ne causò la morte. L' articolo portò a una nuova indagine e, nel 1983, Smith venne incriminata per omicidio di secondo grado. Accettò di patteggiare: ammise l' omicidio colposo. Condannata a 15 mesi, scontò la pena presso la prigione di Chino, in California. Dopo il rilascio si trasferì a Toronto, dove lavorò come segretaria legale e si dedicò a parlare con gli adolescenti dei pericoli della droga. Fece di tutto per sfuggire a quel titolo dell' Enquirer . Compreso discolparsi in un memoir ( Chasing The Dragon , inseguendo il drago) pubblicato nel 1984, mentre il suo caso era ancora aperto. «Non ho ucciso John Belushi - scrisse -. Mi sento in colpa, ma è il senso di colpa che deriva dal non essere consapevole di ciò che stava realmente accadendo». Nel suo libro Chi tocca muore - La breve delirante vita di John Belushi , 1984, il giornalista del «Watergate» due volte premio Pulitzer Bob Woodward, raccontò che, ben prima della morte del divo, Smith era nota nella scena rock come la pusher a tempo pieno di Ron Wood, Keith Richards e altri del mondo dello spettacolo. L' articolo riportava che Smith era conosciuta come «Cathy Silverbag» perché portava una borsa argentata piena di droga - o «veleno», come lo definì il giudice che la condannò nel 1986, David A. Horowitz, della Corte Superiore di Los Angeles: «Lei - disse rivolto a Smith - era il collegamento, la fonte di quel veleno. Sapeva come usare l' ago». Il cantautore canadese Gordon Lightfoot, di cui Cathy Smith era stata amante e musa nei primi anni Settanta, aveva raccontato la loro relazione tumultuosa nella canzone «Sundown» (1974). È stato l' unico a ricordarla dopo la morte. «Era una gran signora - ha detto al quotidiano The Globe and Mail -. Attraeva gli uomini, mi rendeva geloso. Ma non ho niente di negativo da dire su di lei».

Arianna Ascione per corriere.it il 6 settembre 2020.

Aveva rifiutato il rehab. Un’overdose di cocaina ed eroina il 5 marzo 1982 metteva fine alla vita di uno dei comici più promettenti di Hollywood, John Belushi. «Scervellato, sferico attore comico, noto per le sue imitazioni al Saturday Night Live, trovato senza vita in un bungalow a Hollywood»: così sintetizzò in un trafiletto il giorno successivo il New York Times nel dare la notizia della scomparsa improvvisa — a soli 33 anni — dell’attore di «The Blues Brothers» e «Animal House», che gettò nello sconforto i tanti amici e colleghi. Che, a dire il vero, da tempo erano preoccupati per la sua salute e per il suo smodato consumo di sostanza stupefacenti (che consumasse droga fin dai tempi del SNL non era un mistero per nessuno). Più volte gli avevano consigliato di andare in rehab, ma lui si era sempre rifiutato.

L’ultima notte. Il 4 marzo 1982 John era riuscito ad ottenere dal suo manager Bernie Brillstein 1500 dollari, ufficialmente per acquistare una chitarra. Temendo che potesse spenderli in droga inizialmente quest’ultimo glieli rifiutò. Poi, quando Belushi si ripresentò nel suo ufficio, Brillstein — che era nel bel mezzo di un incontro di lavoro — glieli concesse. L’attore decise di investire parte della cifra in un pedale per la sua batteria e il resto in cocaina ed eroina. Decise di passare la serata insieme all’ex autore del Saturday Night Live Nelson Lyon e alla groupie e cantante Cathy Evelyn Smith (morta il 18 agosto scorso a 73 anni). I tre, tra feste e locali, bevvero molto e assunsero una grande quantità di droga.

La visita di Robin Williams e Robert De Niro. Nel bel mezzo dei festeggiamenti Belushi accusò un po’ di nausea, e chiese a Smith di riaccompagnarlo al suo bungalow allo Chateau Marmont. Come avrebbe poi raccontato lei a distanza di qualche mese l’attore — che aveva il terrore degli aghi — le chiese di iniettagli più volte dosi di speedball (così è chiamato in gergo il mix di eroina e cocaina). Durante la notte fecero un salto al bungalow anche due amici, il comico Robin Williams — che prima di andarsene sniffò alcune righe di cocaina — e Robert De Niro che, sconcertato dallo stato in cui versava la stanza, decise di non trattenersi. Più tardi John andò a dormire.

Trovato morto dal personal trainer. John Belushi fu ritrovato privo di vita nella tarda mattinata del 5 marzo dal suo personal trainer di allora, Bill Wallace, che tentò di rianimarlo praticandogli il massaggio cardiaco, prima di chiamare l’ambulanza e il manager. Fu tutto inutile: dopo mezz’ora il medico legale Thomas T. Noguchi, intervenuto sulla scena, ufficializzò il decesso.

Il patto (funebre) con Dan Aykroyd. Ai funerali di Belushi, che si tennero con rito ortodosso, parteciparono i familiari e molte persone che avevano lavorato con lui a partire dal suo grande amico Dan Aykroyd che suonò la canzone «The 2000 Pound Bee» per rispettare un patto scherzoso fatto anni prima. L’attore fu poi sepolto all’Abel’s Hill Cemetery a Martha’s Vineyard, nel Massachusetts.

I progetti interrotti. In seguito alla morte di Belushi Dan Aykroyd affrontò una pesante crisi depressiva, che fece ritardare tutti i progetti cinematografici che i due avevano in cantiere. Tra questi «Una poltrona per due» (John avrebbe dovuto interpretare Valentine, parte poi andata ad Eddie Murphy) e «Ghostbusters», che fu realizzato soltanto nel 1984 con Bill Murray nei panni di Peter Venkman al posto dell’attore scomparso.

BLUES BROTHERS. IL CAPOLAVORO DI JOHN LANDIS COMPIE QUARANT’ANNI. Filippo Mazzarella per corriere.it il 21 giugno 2020.

Deludente in patria. Nel 1978, l’anno di Animal House, John Belushi e Dan Aykroyd creano per la popolarissima trasmissione tv Saturday Night Live i personaggi di Jake “Joliet” ed Elwood Blues, ribattezzati dal compositore Howard Shore “The Blues Brothers”: due fratelli cresciuti in un orfanotrofio dell’Illinois e iniziati al blues nelle sue molteplici declinazioni grazie a un inserviente dell’istituto, caratterizzati dai loro abiti neri e dagli onnipresenti occhiali da sole Ray-Ban Wayfarer, anch’essi con montatura nera. Col primo in vetta anche alle classifiche degli incassi cinematografici, i due finiscono primi nella classifica di Billboard grazie all’abum di cover Briefcase Full of Blues; e subito iniziano a mettere sul piatto l’idea che i loro personaggi possano diventare protagonisti di un film. Dopo una lotta acerrima di Paramount e Universal per aggiudicarsene produzione e distribuzione, a prevalere è quest’ultima, che ingaggia John Landis alla regia e lo incarica anche di trasformare in qualcosa di realmente filmabile il copione di 400 pagine che lo sceneggiatore esordiente Aykroyd aveva scritto di getto sull’onda dell’entusiasmo. Due anni dopo, il 20 giugno 1980, per la modica cifra di quasi trenta milioni di dollari di budget contro i dodici preventivati (nonché al prezzo di una lunga serie di traversie di lavorazione, inclusa la discesa sempre più verticale di Belushi nella dipendenza dalle droghe), il film (una commistione geniale, irripetibile e catastrofica di musical, commedia e satira) debutta nelle sale americane senza clamori e sbeffeggiato da gran parte della critica (il Los Angeles Times parlò senza mezzi termini di “disastro”, paragonandolo al flop di Spielberg 1941 – Allarme a Hollywood; la Bibbia dell’entertainment Variety lo associò per humour e forza espressiva ai film di Gianni e Pinotto) finendo a un onorevole ma deludente decimo posto negli incassi complessivi della stagione Usa. Assai meglio accolto dalla critica europea, che già vedeva in Landis l’alfiere di un cinema sì demenziale ma anche profondamente politico, diviene però a sorpresa il primo film americano a incassare più all’estero che in patria. E oggi, in occasione del suo quarantennale (ma la stessa cosa si sarebbe già potuta scrivere dieci, venti o perfino trenta anni fa...) è universalmente considerato un capolavoro.

La storia. A Chicago, a bordo della sua nuova “Bluesmobile”, Elwood Blues preleva il fratello Jake dalla prigione in cui ha trascorso tre anni per rapina e insieme a lui fa visita all’orfanotrofio cattolico dove hanno trascorso la loro infanzia solo per scoprire che l’istituto necessita di cinquemila dollari per pagare tasse arretrate che potrebbero portarlo alla chiusura. I due si offrono di procacciare la somma in tempi brevi, ma vengono avvertiti che dovranno guadagnare quei soldi onestamente. Dopo aver assisitito alla travolgente esibizione del reverendo Cleophus James nella chiesa battista di Triple Rock, Jake viene folgorato da una rivelazione: l’unico modo per far fronte all’impegno preso con l’orfanotrofio è entrare “in missione per conto di Dio” e rimettere insieme la vecchia Blues Brothers Band. Dapprima rintracciando e riunendo i vecchi compagni del gruppo (oggi tutti onesti e disillusi lavoratori, ben lontani dal sogno primigenio di sfondare con la musica) e poi organizzando concerti i cui incassi vengano devoluti alla bisogna. L’impresa non si rivelerà semplice: non tanto per la relativa difficoltà della reunion, quanto perché i due si cacceranno in una serie di catastrofici impicci a catena: tallonati da una donna misteriosa e vendicativa che li vuole morti (che si scoprirà essere la ex di Jake abbandonata sull’altare), dai membri di una band alla quale si sono sostituiti ingannando il proprietario di un club, dai “nazisti dell’Illinois” con cui hanno avuto uno spiacevole incontro e dalle forze dell’ordine congiunte dell’intero stato, riusciranno nel loro intento dopo una memorabile esibizione dal vivo ma anche dopo una fuga disperata e una lotta contro il tempo per raggiungere pagare il debito all’ufficio delle tasse di Chicago prima di finire definitivamente in prigione.

Un film «politico». Al suo quarto lungometraggio dopo Slok, Ridere per ridere e Animal House, Landis si mette al servizio del “progetto Blues Brothers” senza dimenticare la sua verve caustica e la sua capacità di restituire una lettura “politica” della società americana pur nascondendo il suo estremismo tra le pieghe di un cinema apparentemente innocuo e “demenziale”. Non a caso, dei suoi tre film precedenti i primi due erano parodie di genere (il secondo addirittura scritto da quei portabandiera della comicità paradossale e dissacratoria che furono i fratelli Abrahams e David Zucker, poi autori di una lunga serie di “classici” a partire da L’aereo più pazzo del mondo) e il terzo una sporazione della rivista satirica National Lampoon, nata nel 1970 sulla falsariga della celeberrima Mad. Da un regista che forse senza volerlo davvero ha impresso un cambiamento radicale non solo alla commedia ma anche al cinema di genere (la portata di innovazione interna di Un lupo mannaro americano a Londra attende ancora un quarto di giustizia), The Blues Brothers è un film “perfettamente in linea con lo spirito ribellistico e irriverente dei tempi” (P. Mereghetti), ma anche un attacco frontale e preveggente a un’America già sull’orlo del baratro della follia reazionaria degli anni Ottanta a venire: la descrizione sulfurea delle istituzioni tutte (e dei loro rappresentanti) fa il paio con quella di una società civile rappresentata come quintessenzialmente ignorante, razzista e alimentata dal pregiudizio. Questa tensione è palpabile, e percorre a livello carsico tutto il film, costituendone una seconda spina dorsale laddove la prima, logicamente, è quella più scatenata e (solo in apparenza) superficiale di un divertissement in grado di rielaborare le istanze del musical (pensate a come partono e si integrano nella narrazione i segmenti cantati e coreografati, posizionati nella scansione narrativa all’altezza delle svolte più cruciali del racconto, inclusa l’apoteosi finale in carcere sulle note -ovviamente- di Jailhouse Rock) e di costruire per accumulo un meccanismo comico che tiene conto con leggerezza anche della lezione dei maestri del cinema muto (le gag migliori sono tutte non verbali: vedi la storica sequenza in cui Belushi/Jake si toglie per l’unica volta gli occhiali). Una progressione dinamica nello sconquasso e nel finimondo che certamente origina da quella messa in atto sessant’anni prima da Chaplin, Keaton e Stanlio e Ollio (di cui Belushi e Aykroyd sono una sorta di doppio aggiornato e figlio delle sotto/controculture della seconda metà del Novecento): perché l’unicità di The Blues Brothers sta anche nel suo essere stato un esempio rielaborato e “galleggiante” di un cinema che già all’epoca in cui uscì non esisteva più. E, oggi, di rappresentare un cinema che rimpiangiamo ma che forse non è davvero mai esistito. Nonché, come ricorda la giornalista Sara Sagrati, di essere un film “su due bianchi che suonano musica nera, comandano dei musicisti neri, sfruttano il prossimo e tutto per aiutare delle suore bianche”. Che a voler contestualizzare come usa in questi giorni, magari i veri nazisti dell’Illinois potrebbero pure essere loro.

Una mitragliata di scene cult. Abbiamo sin qui accuratamente evitato di utilizzare il termine “cult”: ma ora non se ne può più fare a meno. Non solo un’infinità di sequenze “narrative” del film ricadono infatti sotto la categoria (proviamo a elencarne quattro a caso: la riconsegna degli effetti personali di Jake da parte della guardia carceraria, la sequenza al ristorante, il monologo-confessione nel tunnel, l’arrivo della SWAT nel finale; se non sapete a cosa ci stiamo riferendo proviamo per i vostri occhi vergini un profondo sentimento di invidia), ma che dire della parte strettamente musicale e delle sue guest star?  In un film che brilla comunque per le sue scelte di casting “puro” (oltre a Belushi e Aykroyd fanno parte del gioco anche Carrie Fisher, nel ruolo della ex fidanzata -senza nome- di Jake; il veterano Charles Napier in quello dell’improbabile leader della band country Good Ole Boys; John Candy, Kathleen Freeman e tanti cameo tra i quali Frank Oz, Steven Spielberg, Paul Reubens aka Pee-Wee Herman e la modella Twiggy), il parco di glorie della musica, blues/soul/jazz/funk/r’n’b in campo fa tremare i polsi. Già basterebbe la composizione della Blues Brothers Band, in cui figurano Donald Dunn e Steve Cropper (fondatori dei Booker T. & the M.G.’s), Alan Rubin, Lou Marini e Tom Malone (membri dei Blood Sweat & Tears), Willie Hall, batterista dei Bar-Kays e il chitarrista Matt Murphy che esordì con una leggenda come Howlin’ Wolf: ma quando mai si era vista una commedia in grado di riunire sullo schermo, facendoli anche esibire al meglio delle loro capacità, leggende come James Brown, John Lee Hooker, Aretha Franklin, Ray Charles e Cab Calloway (e, per i più “specialisti” Pinetop Perkins e Big Walter Horton)? Le sequenze monstre non si contano: dal gospel scatenato di James Brown (con Chaka Khan mescolata tra le coriste) di The Old Landmark, che risveglia la necessità di ricreare “la banda”, alla scatenata Think con cui Aretha cerca (invano) di convincere il marito a non tornare coi vecchi compari; dalla Shake a Tail Feather nel negozio di strumenti di Ray Charles al rovinoso tema di Rawhide intonato nel localaccio fino all’apoteosi di Minnie the Moocher di Cab Calloway durante lo show finale. Ma tutto, compresi i piccoli transiti tra una sequenza e l’altra, abitati da una miriade di altri commenti musicali, dice di una passione per il genere (principalmente di Belushi e Aykroyd) sconfinata: sono quasi trenta i pezzi classici originali o coverizzati udibili in colonna sonora, tra i quali la celeberrima She Caught the Katy and Left Me a Mule to Ride di Taj Mahal (di fatto la “sigla” del film), Shake Your Moneymaker di Elmore James, Hold On I’m Comin’ di Sam & Dave, il Peter Gunn’s Theme di Henry Mancini, I’m Walkin’ di Fats Domino e le trascinanti Gimme Some Lovin’ (originariamente dello Spencer Davis Group e usata da Jake e Elwood come “opener” del loro cruciale concerto) e Stand By Your Man (lo standard di Tammy Wynette con cui il duo riesce a commuovere il pubblico inizialmente ostile). Non a caso, in un poll indetto nel 2004 dalla BBC per decretare la miglior colonna sonora di sempre, quella di The Blues Brothers stracciò la concorrenza con un plebiscito. La velocissima dinamica con cui The Blues Brothers passò da opera sottostimata a capolavoro di culto indusse la produzione a considerare l’idea di un sequel: poi successe quel che successe e che tutti sappiamo e fu solo nel 1998 che vide la luce lo struggente e incompreso Blues Brothers – Il mito continua, sempre diretto da Landis (in cui Aykroyd riprendeva il suo ruolo) e realizzato con l’intenzione nascosta proprio di riflettere sull’impossibilità di dare un seguito a qualcosa di così irripetibile. Il film fu la pietra tombale sia sul fenomeno sia sulla carriera di Landis, già vacillante. Ma nello stesso anno, per fortuna, uscì anche la versione extended dell’originale (con circa un quarto d’ora di scene in più) che fece dinenticare in parte questa débacle.

La leggendaria Bluesmobile. Malgrado i loro emuli all’epoca non si contassero, il look semplicissimo ma impattante di Belushi e Aykroyd non è riuscito davvero a stabilire un canone estetico di eleganza (come successe pochi anni prima a livello planetario con il punk, per intenderci); ma The Blues Brothers (col precedente del Saturday Night Live) ha scolpito comunque nell’immaginario la raffigurazione dei suoi protagonisti; e consegnato alla storia del cinema un ennesimo e leggendario mezzo di locomozione in grado di competere a livello iconico con le auto iperaccessooriate di 007 o quelle non meno high tech di Batman: la sgangherata “Bluesmobile” (una Dodge Monaco 440 del 1974), per una beffa del destino allestita a mo’ di auto della polizia, è infatti una sorta di “terzo fratello blues” , protagonista di celebri sequenze (come quella nel centro commerciale o quella del parcheggio nella metropolitana sopraelevata di Chicago) ma soprattutto del lungo inseguimento finale con la polizia. “Motore truccato, sospensioni rinforzate, paraurti antistrappo, gomme antiscoppio e cristalli antiproiettile. E non c’è neanche bisogno dell’antifurto perché ho collegato tutti i contatti con la sirena. Allora, che ne dici? È la nuova Bluesmobile, o no?», dice Elwood a Jake. Ma quello che molti non sanno è che per “interpretarla” furono utilizzate ben dodici automobili originali, tutte distrutte durante la lavorazione. D’altronde, il film ha detenuto a lungo il record per il maggior numero di automobili “sacrificate” durante la lavorazione (ben 103) e viene ricordato dai cultori del genere wreckage al pari di capisaldi come Rollercar, sessanta secondi e vai (1974) o del da noi inedito The Junkman (1982), entrambi dello stuntman H.B. Halicki. Una cifra poi surclassata solo da Matrix Reloaded (2003) che polverizzò ben 300 autoveicoli.

·        38 anni dalla morte di Giuseppe Prezzolini.

Vittorio Feltri e il ritratto di Giuseppe Prezzolini: "Amico di Mussolini? Ciò che i detrattori non capiscono". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano l'8 luglio 2020. Lugano, gennaio. «Anniversario della mia nascita, che spero non mi porterà auguri consumati dall'uso, e forse sottilmente velenosi. Molti sanno come la penso. Le feste a data fissa non le posso soffrire». Questo pensiero è di Giuseppe Prezzolini. È scritto nel suo Diario: 1942 - 1968 alla pagina 27 gennaio 1943. Sono passati 39 anni. Ma dal giorno in cui fece l'annotazione - in una spoglia soffitta che sbirciava sui tetti di mezza New York - la sua opinione riguardo alla feste non è cambiata. Prezzolini non ha fatto eccezione neppure per il centesimo compleanno, e lo ha trascorso con la solita ostentata indifferenza per tutto ciò che, intanto, gli accadeva attorno. Telegrammi, lettere, telefonate e commemorazioni non hanno potuto turbare la sua orgogliosa solitudine, nell'appartamento di via Motta, davanti allo scorcio più bello del lago di Lugano. Libri, caffè, acquavite, foglietti zeppi d'appunti, macchina per scrivere: un giorno qualsiasi di un moderato lavoro, compatibilmente con l'età; e niente smancerie, candeline o altro. Un secolo di battaglie non ha fiaccato la sua grinta di bastiancontrario, ostile ai luoghi comuni e alle convenzioni, refrattario a tutto ciò che non sia filtrato dalla regione e da spirito critico. La maggior parte degli italiani si è accorta soltanto ora di Prezzolini. E non tanto perché ne apprezzi finalmente l'opera e il pensiero, ma perché è un centenario, in qualche modo eccellente. Molti, insomma, hanno scoperto un fenomeno biologico interessante, non uno dei pochi intellettuali italiani che non sia mai andato in soccorso del vincitore. Uno dei pochi che ha praticato spesso il salto del pasto, mai il salto della quaglia, specialità nella quale parecchi suoi colleghi hanno dato ripetute e spettacolari esibizioni. Per quanto adesso se ne parli, Prezzolini resta per la massa al seguito delle mode un personaggio sconosciuto, al massimo un vecchietto simpatico, ma bizzoso e sfrontato; e per gli addetti ai lavori, un collega che ha sprecato il suo ingegno in atteggiamenti e in attività censurabili, da condannare.

«TOLGO IL DISTURBO». Le invettive che gli sono state lanciate contro sono innumerevoli: fascista, la più benigna. Togliatti scrisse di lui: «Meretrice vecchia venduta su tutti i marciapiedi». Quando collaborava con il Borghese di Leo Longanesi inviando articoli dagli Stati Uniti, l'apparato culturale o lo ignorava o lo liquidava con disprezzo: «Lasciatelo dire, quel bieco reazionario». L'Italia del dopoguerra non gli ha mai perdonato l'amicizia che ebbe con Mussolini e la biografia che ne tratteggiò. Nessuno però si è mai chiesto quale giovamento trasse da quell'amicizia, peraltro nata in epoca non sospetta, ossia quando il capo del fascismo non era ancora il duce, ma un maestro elementare con la marsina lisa. E nessuno ha mai messo in risalto che lo scrittore, nel momento in cui l'amico cominciò a tuonare dallo storico balcone, con mezza Italia plaudente e in camicia nera, lui, Prezzolini, anziché godersi un posto nella lugubre corte dell'impero, prenotò un posto di terza classe su una nave e varcò l'oceano. Prima di imbarcarsi regalò una profezia ai connazionali: «Il fascismo sarà una buffonata, ma per vent' anni almeno ve lo terrete addosso; tolgo il disturbo». Ai nemici e agli amici che lo salutavano romanamente Prezzolini risposte sventolando il cappello.

«ASPETTAVO LEI PER PIANGERE». Negli Stati Uniti rimase fino al 1968: professore alla Columbia University, direttore della casa italiana di New York. Viveva di stipendio fra stranieri in camere di pensione, mentre i suoi colleghi detrattori di oggi primeggiavano nei littoriali e si scambiavano medaglie nei salotti del regime. Eppure dopo il sanguinoso rovescio, costoro furono i primi ad accusare Prezzolini per il suo passato, sorvolando sull'emigrazione che lo aveva posto materialmente fuori da ogni possibilità di collaborazionismo. Flaiano ha coniato un aforisma illuminante: «I fascisti si dividono in due categorie: i fascisti e gli antifascisti». Questi ultimi in particolare si sono sempre accaniti sul professore della Columbia University, al punto che ancora oggi il suo nome è sinonimo di fascista, benché il vecchio scrittore, come dimostrano i suoi 100 libri e gli articoli che tutt' ora appaiono regolarmente sul Resto del Carlino, sia assolutamente fuori dei termini schematici e falsi del "politichese" corrente.

E poi ci si stupisce che Prezzolini preferisca l'esilio in Svizzera piuttosto che tardivi onori in Italia. La "penna d'oro" datagli da Pertini gli ha fatto piacere, così come il discorso di Spadolini. Ma il suo viaggio a Roma è durato un solo giorno. Dover compiere cent' anni per avere un riconoscimento in patria è eccessivo anche per un disubbidiente ben consapevole che, avendo sempre detto nossignore, non può aspettarsi molto dai potenti. Dicono che abbia un brutto carattere. Probabilmente ce l'ha brutto come tutti quelli che hanno un carattere. Ma non si capisce mai quando è arrabbiato sul serio o quando scherza. E sono sempre scherzi amari. Quando riusciamo a farci ricevere a casa sua, proviamo anche noi a stare al gioco sottile dell'ironia, ma è impossibile essere all'altezza del maestro.

Professore, le auguriamo altri cent' anni.

«A queste scemenze rispondo facendo le corna. Corna su corna. Campare non è gradevole, e lei lo sa. Ho provato due volte ad ammazzarmi».

Non credo volesse morire.

«Volevo morire, eccome. Gli altri me lo hanno impedito. Sarebbe troppo lungo da spiegare ora. Comunque ero convinto di quel che facevo. Ed ero contento di morire. Morivo contentissimo. Lo so perché sono stato varie ore in sala di rianimazione. È stato uno dei momenti più belli della mia vita».

Perché viene raramente in Italia?

«Ci vado spesso invece, arrivo qui al confine a comperare un certo vino bianco».

Qual è, secondo lei, lo scrittore italiano più simpatico?

«Forse io stesso».

 Come le sembra il governo Spadolini, agisce bene o male?

«Agisce come può un governo italiano».

È vero che lei non ha mai votato?

«Verissimo».

Perché?

«Perché il mio voto vale come quello di un analfabeta. Le sembra giusto, perfetto?».

A cent' anni lavora ancora per i giornali, come mai non riposa?

«Lavoro per denaro. Mi serve. Serve a tutti. L'unico consiglio che posso dare ai poveri è di diventare ricchi».

Questo è Prezzolini. È rimasto lo stesso di 60 anni fa, con le sue battute, le sue invenzioni argute. Fra i tanti insulti che gli sono toccati c'è anche quello di "teppista intellettuale". Senza contare le etichette più banali: pessimista, disfattista, nemico del popolo. Tutto perché rifiuta le briglie. «Da ragazzo strappavo i libri, non volevo studiare». Fu Papini ad avviarlo alla cultura con la persuasione. Ma ai banchi di scuola non volle sedere. Imparò da solo. All'università ci arrivò da professore, ma studente non ci entrò mai. Con i suoi scritti ha attaccato il servizio militare, il matrimonio e la famiglia: "invenzioni borghesi". Ma è stato ufficiale della prima guerra mondiale, due volte marito e padre. Chi non ama i suoi paradossi non può capirne neppure il senso, la disperazione. Poco più di un mese fa morì improvvisamente la seconda moglie. Arrivò il medico di famiglia e accanto alla donna morta trovò un Prezzolini immobile, le mani sulle ginocchia e lo sguardo fisso. «Che cosa fa professore, lì in quel modo?». E Prezzolini: «Aspettavo lei per piangere». Ecco, il medico è uno dei pochi amici che gli sono rimasti, va a trovarlo quasi ogni giorno. Eppure lo scrittore riesce a polemizzare - scherzosamente - anche con lui.

TELEGRAMMA AL SUO MEDICO.  Se tarda l'abituale visita, gli manda un telegramma: poche parole secche di sollecito. In questi giorni a tenergli compagnia c'è una ex allieva italo-americana, suor Margherita Marchione. Gli vuole bene, quasi una venerazione. Ha chiesto al convento sei mesi di licenza per restargli accanto in questo momento difficile. «Ora che gli è appena morta la moglie, ha bisogno di una persona amica. Anche se ha pudore dei sentimenti, sento che la solitudine gli fa male». È lei che ci vuole riaccompagnare all'uscio dopo la chiacchierata con Prezzolini. Lui intanto è tornato alla macchina per scrivere. Il picchiettio dei tasti è rapido e nervoso, sta finendo un articolo. La casa è tappezzata di libri, vi regna il disordine delle persone attive. In uno scaffale qualche bottiglia, whisky, cognac e grappa. E su un tavolo le bozze dell'ultimo libro: Prezzolini: cent' anni di attività. È il centesimo, uno per ogni anno di vita, infanzia compresa. Lo ha scritto a quattro mani con Moravia e uscirà in questi giorni. Lo scrittore vede che ci attardiamo all'uscio e ci raggiunge. «Siete ancora qui?». Stavamo dando un'occhiata alle bozze del suo nuovo libro. «Vedremo se diranno che è fascista anche questo. Ma non importa. Importa invece che riesca a campare ancora un po', Lugano è bella». Ma non diceva che morire è bellissimo? «Lo dicevo mentre morivo, ma adesso, con rispetto parlando, sono vivo».

·        38 anni dalla morte di Gilles Villeneuve.

Gilles Villeneuve avrebbe 70 anni: il rimpianto della leggenda Ferrari voluta da Enzo. Pubblicato sabato, 18 gennaio 2020 su Corriere.it da Giorgio Terruzzi. Immaginarlo oggi, nel giorno del suo compleanno numero 70 non è difficile. Rughe, capelli sbiancati, il viso di un bambino solo un po’ invecchiato. Gilles Villeneuve: un discolo, una teppa inossidabile. Sempre stato così, anche nella sua breve età adulta, nato in Canada, a Saint Jean sur Richelieu il 18 gennaio 1950, morto in Belgio, l’8 maggio 1982 a causa di un incidente sulla pista di Zolder drammaticamente pirotecnico, al pari del resto. Gilles, «l’aviatore». Voli, miracoli, carambole ma anche 6 vittorie con la Ferrari, magnifiche come perle rare. Era un mito vivente, è una leggenda che resiste. Ingaggiato da Enzo Ferrari dopo il divorzio da Niki Lauda, alla fine del 1977. Una scelta con dentro orgoglio e puntiglio: Gilles era un signor nessuno; Lauda era il numero uno. Campione del mondo in quell’anno, campione del mondo nel 1975, l’icona più riconoscibile di una F.1 ormai telegenica, davvero popolare. Il viso segnato dal fuoco e una personalità troppo simile a quella del Commendatore. Villeneuve aveva addosso povertà e neve da profondo Québec, veniva dalla motoslitte, da gare che nessuno qui aveva visto mai. Un fisico da cardellino, una vivacità da furetto, una foga scellerata. Incidenti e collisioni, un decollo, il primo, alla seconda gara in rosso, Giappone: due persone travolte e uccise, dieci feriti. Sembrava inadatto, fuoriposto. Ferrari tenne duro per dargli un posto nella storia, nella memoria collettiva dentro un’avventura senza confronto. Lui: piede destro a fondo. Sempre. In prova, in gara, per strada, guidando motoscafi ed elicotteri. Vita spericolata, altro che Steve McQueen. Gesti da collezionare, romantici, deliberati, azzardarti. Il conto dei danni: spropositato. In compenso, amato come un eroe amico. Con quella faccia che aveva, che avrebbe ora, da ragazzino pronto a combinarla grossa. Non solo: una sensibilità d’eccezione, coltivata sui suoi ghiacci, una lealtà che solo i ragazzini, appunto, sanno custodire. Sorride e si commuove René Arnoux quando rivede quel furibondo ruota a ruota a Digione, 1979, che entusiasmò anche chi delle corse frega niente; Jody Scheckter, vincitore con la Ferrari del titolo mondiale, stesso anno, ricorda rispetto e correttezza da parte di quel canadese velocissimo ma consapevole della ragione di squadra, dei propri limiti sulla distanza. A Gilles, ecco, interessava essere il più rapido. Sulla retta, sul giro, sui quattro centimetri. Abbinando al talento una sfrontatezza senza calcoli. Primo pilota a vincere con una Ferrari turbo, Montecarlo, 1981; l’unico capace di tener dietro una folla di avversari scatenati, in Spagna, poco dopo. Diceva: «So bene che un giorno o l’altro finirò per avere un tremendo incidente». In molti, moglie compresa, pensavano la stessa cosa. Infatti. Morto in pista con la morte nel cuore per lo sgarbo subito da Didier Pironi a Imola che l’aveva battuto a dispetto degli ordini, dei patti, di un etica che, si accorse, apparteneva solo a lui. Da allora: immortale. Amato e ricordato per aver distribuito gioia, divertimento, una inestimabile euforia da motore. Passione, la più intensa. Quella che corre tra godimento e patimento, disposta a pagare qualunque prezzo.

·        34 anni dalla morte di Elio De Angelis.

Formula 1: la tragica storia di Elio De Angelis. Stasera su Raisport la carriera e la drammatica fine del pilota romano, morto il 15 maggio 1986 per un incidente durante le prove sul circuito di Le Castellet . Elio De Angelis vinse due gran premi di F1 e morì in prova nel 1986 a soli 31 anni. Giorgio Viberti il 15 Maggio 2020 su La Stampa. Era il 15 maggio del 1986 quando a soli 31 anni ci lasciava Elio De Angelis, uno dei più forti piloti italiani nella storia della Formula 1. Stasera alle 21 uno speciale di Raisport ne ricorderà la figura e la carriera sportiva, conclusasi tragicamente a causa di un incidente alla guida di una Brabham durante alcune prove sul circuito francese di Le Castellet. Il pilota romano verrà ricordato per le sue doti sportive, ma anche per la grande personalità dimostrata fuori dal mondo delle corse, per il carattere e la sensibilità che gli valsero il soprannome di Pilota Gentiluomo, per la passione per l'arte e in particolare per la musica, anche come compositore e pianista, che lo resero uno dei personaggi più apprezzati nel mondo della F1 degli anni 70 e 80. Nato a Roma il 26 marzo 1958 da una famiglia agiata - il padre era un facoltoso costruttore ed ex campione di motonautica -, De Angelis cominciò a 14 anni con i kart e diventò campione italiano di Formula 3 nel 1977. Enzo Ferrari lo invitò a Maranello per un provino e lo inserì nel progetto giovani, offrendogli un posto in Formula 2 con la Minardi. Così nel 1979 arrivò il debutto in Formula 1, nel Gran Premio d'Argentina, con la scuderia Shadow. Nella stagione successiva ecco finalmente il passaggio in F1 con la Lotus grazie all’interessamento del patron Colin Chapman. Con la scuderia inglese De Angelis conquistò tre pole position e due vittorie, nel Gran Premio d'Austria 1982 e nel Gran Premio di San Marino 1985, partecipando in totale a 109 gran premi e salendo dieci volte sul podio. Molto si discusse sul tragico incidente che gli costò la vita il 15 maggio 1986 sul circuito Paul Ricard di Le Castellet, in Francia. De Angelis era da poco arrivato alla Brabham dopo che aveva lasciato la Lotus nella quale non c’era più il suo mentore Chapman (scomparso nel 1982) ed Elio si era sentito troppo subordinato al pilota di punta Ayrton Senna. Nella nuova scuderia ebbe però non pochi problemi nel cercare, con il compagno di team Riccardo Patrese, di migliorare la deludente monoposto BT55, che il pilota romano aveva giudicato anche poco sicura, quasi  presago della sua tragica fine. Durante una serie di prove a Le Castellet il 14 maggio 1986, mentre De Angelis procedeva in circuito a forte velocità, l'alettone posteriore della sua BT55 si staccò, la monoposto perse aderenza e si capottò più volte, prendendo fuoco dopo essere finita contro una barriera.  Alcuni piloti, tra cui Alan Jones e Nigel Mansell, cercarono invano di prestargli i primi soccorsi e Alain Prost tentò inutilmente di estrarre il pilota romano dall'abitacolo avvolto dalle fiamme. Passarono parecchi minuti, che sarebbero risultati fatali, prima che De Angelis fosse finalmente portato fuori dalla vettura. Dopo oltre mezz'ora arrivò l'elisoccorso. De Angelis fu ricoverato all'ospedale di Marsiglia in gravissime condizioni, con un trauma cranico, lesioni alla colonna vertebrale, altre fratture alla cassa toracica e numerose ustioni. La causa della sua morte fu però l'asfissia provocata dal fumo dell'incendio della sua vettura, essendo rimasto intrappolato nell'abitacolo per circa sette minuti: purtroppo decisivo fu il ritardo dei soccorsi. De Angelis morì il giorno dopo il ricovero e la sua scomparsa suscitò un profondo cordoglio nel mondo della F1 e anche dello sport mondiale. Anche Diego Armando Maradona, amico personale del pilota romano, espresse pubblicamente il proprio dolore al pari di molti colleghi di F1, che minacciarono di non partecipare al successivo Gran Premio del Belgio se non fossero state migliorate le norme di sicurezza nei gran premi. I colori e i disegni del casco di De Angelis furono ripresi dal pilota francese Jean Alesi che intese così rendere omaggio alla memoria del pilota romano, le cui spoglie riposano nel cimitero romano del Verano. La scomparsa di De Angelis contribuì ad aumentare la sicurezza e le misure di soccorso nei circuiti di Formula 1, ma non bastò a scongiurare altri tragici incidenti, come quelli risultati fatali negli anni successivi a Roland Ratzenberger e Ayrton Senna, morti entrambi nel Gp di San Marino del 1994, e a Jules Bianchi, nel Gran Premio del Giappone nel 2014.  

·        33 anni dalla morte di Giovanni Arpino.

Marco Ciriello per il Messaggero il 21 giugno 2020. L'Italia degli anni Sessanta del Novecento è, probabilmente, il momento più alto del secolo, per quanto ci riguarda, almeno per immaginazione e produzione, per politica e dibattito, per cinema e scrittura, per possibilità e libertà, tanto che è irriproducibile. Ma quello che possiamo ancora recuperare e che ci arriva improvviso da diario di quel tempo, un reportage del contesto e delle figure che si muovevano all'interno, è una fotografia di quel decennio, fornita da uno scrittore di confine con tanto vento dentro le pagine. Giovanni Arpino, con le sue Lettere scontrose (minimum fax) una raccolta in volume della  rubrica che tenne per il settimanale Tempo. Fischiano ancora le sue parole, come nonostante qualche tempo fa Michele Mari lo ritenesse morto davvero vive la sua forza, il suo andare contro con ironia, il divertirsi prima della morte.  Arpino, come il nuotatore di Cheever, decide di tornare a casa e passa per delle lettere perdute nell'inutilità del caos presente di giallisti futili e di reportagisti dell'orlo ombelicale: al posto delle piscine ha le vite degli esposti, dei famosi, e per 52 lunghe lettere, rispiega loro il mondo, partendo dall'Italia. Scrittori, giornalisti, attori, attrici, registi, artisti, volti noti, figli e figlie note, un lungo elenco di vip messi in riga, come in una grande arrampicata sul K2 della notorietà. Nessuno viene risparmiato, Arpino non fa calcoli, e per questo crea un genere perduto. Come l'Herzog di Saul Bellow scrive a tutti i degni di nota, e, scrivendo, disegna un paese che nella sua bellezza è comunque mancante agli occhi di un vero grande scrittore, che è sempre un uomo in rivolta, uno scontento cronico, un esigente tiranno, ma senza la moralità dei tiranni, piuttosto una etica che è cronicamente mancata al nostro paese, come poi se ne lamenterà Alberto Arbasino. Nella lettera a Paolo Monelli un grandissimo esploratore del mondo e degli uomini scrive un vero e proprio manifesto dello scrittore di minoranza o fantasma che attraversa la comunità culturale: «Ritengo che uno scrittore quanto più è uomo d'arte tanto più debba spendersi, tanto più debba rischiare, sbagliare, riprovarsi, anche se mentendo esagerando ingannando mulinando nel vuoto. Ritengo che uno scrittore debba rifiutare di serbar memoria di sé. Ritengo che uno scrittore debba costringere a sacrificio se stesso non solo per uso scrittorio ma per eccesso di umanità, anche se questa umanità matura con delusioni e scacchi. Ritengo che la condizione di scrivere debba semmai essere una trincea, non un laboratorio, una cassaforte, un listino di borsa, un export-import, un'ambasciata, un ricevimento continuo, un carnevale, un furbesco manicomio, una clinica a copertura di se stessi, una casamatta che divide dal mondo. Meglio essere uno scrittore ingenuo, dotato della «rozza imbecillità del romanziere» (come dice Flaiano), piuttosto che un mezzemaniche sempre attento a contare i propri spiccioli, a distillare gocce di saggezza, a vivere in una perenne, morbida, pettegola retrovia». Sono le sue lettere corsare, sembra uscire dal tempo per cantarle a tutti, o quasi, risparmia Totò che risponde commosso in una virata intelligentissima che ne anticipa le lodi e soprattutto l'uso consiglia di rimontare le scene migliori in un blob, capendone la portata futurista tirando per la giacca Blasetti e portandolo nel futuro di Totò, come se fosse Emmett Doc Brown nella trilogia di Ritorno al futuro con Marty McFly. Insomma, Arpino mostra di conoscere il mondo e di non preoccuparsi delle conseguenze, strattona e maltratta Vittorio Gassman che poi se ne lamenterà in tivù , non ha paura di dire a Monica Vitti che rischia l'imbalsamazione con Michelangelo Antonioni come e più di come poi dirà Dino Risi, consiglia alla figlia di Charlie Chaplin Geraldine di non sforzarsi, ma di spendere i soldi del padre, proprio come Pelos La Capria diceva a Luca De Filippo. Porta sui giornali quelle che sarebbero conversazioni private, porta alla ribalta quelli che sono i pensieri degli altri intellettuali che, però, sono prigionieri del ruolo. Arpino si smarca, e scrive. Dice alla Loren di pagare le tasse, senza avere paura del produttore Ponti. Diventa un ragazzaccio con una biografia da venerato maestro. Se ne fotte. Anche di Fellini. Non c'è mai deferenza, ammicco, né astio, ma un sottile piacere, che successivamente, in maniera minore, proverà Nanni Moretti, prima di ripiombare nel consueto, forse ora a tratti lo percepisce Massimo Fini anche se con tanta ideologia e risentimento. Arpino, invece, in queste lettere di-mostra che si può fare diversamente, senza perdere classe, si poteva picchiare, ir-ridendo, chiunque, anche i primi della classe. È un picaro, delle lettere, e tale rimarrà. Solo un picaro poteva capire la Callas consacrandola dea del grigio e scrivere ad Aldo Moro che era una vittima di se stesso come il fragile Stepan Trofimovi dei Demoni di Fëdor Dostoevskij (anticipando Todo modo). Solo un picaro passando per la vita degli esposti poteva dire loro la verità senza sconti, perché a dispetto del suo nomadismo, pensava che «lo scrivere inutile è la peggior forma di tradimento che un uomo può inventare a danno di sé e degli altri», per questo non sprecava le pagine. 

Luigi Mascheroni per il Giornale il 26 maggio 2020. Carissimo Giovanni Arpino, due sono le immagini che ci vengono agli occhi quando capita tra le mani un Suo libro. La lunga, coloratissima fila di macchine per scrivere in una stanza della Sua casa-archivio a Bra, il paese all'ombra delle colline da cui tutto è iniziato per la Sua famiglia e per Lei (piemontesissimo nato per sbaglio a Pola) e dove alla fine, Lei giramondo del giornalismo e bracconiere di personaggi, tornava sempre, dalla bellissima moglie Caterina e l'amatissimo figlio Tommaso, oggi curatore della Sua memoria: quelle Olivetti, che Lei batteva con la stessa inesorabile precisione con cui batte un metronomo, sono il simbolo materiale della Sua scrittura fatta di fatica, rinunce (è Lei stesso che ci ricorda che scrivere è un lavoro da dannati), ordine, rigore, esattezza. Si chiama Letteratura. La seconda immagine è una foto, chissà che anni erano (i Settanta?), che La ritrae nella tribuna stampa di uno stadio - Lei scrisse magnificamente di sport - occhiali scuri sopra la testa, la perenne sigaretta accesa e lo sguardo affilato, che arriva lontano, dove noi non vediamo, e che sa cogliere il dettaglio, come un cecchino. Si chiama classe. Lei, in fondo, è stato uno dei primissimi della Sua classe, anni Cinquanta-Ottanta, la generazione dei veri scrittori del nostro '900. Un po' come il Rinascimento: mai visti così tanti e così grandi nomi in tre-quattro decenni. E Lei, poi, prima firma di tanti giornali e autore di razza di trenta fra romanzi e libri di racconti, è tra i pochissimi ad aver vinto sia lo Strega sia il Campiello. Ci vuole stile. Lei, Egregio dottore (in Lettere, all'Università degli Studi di Torino con una tesi su Sergej Esenin, nel 1951), ha uno stile personalissimo, una scrittura sempre alta, che tocca l'epico quando narra di calcio e il filosofico quando tocca la vita quotidiana, un passo inarrestabile nel raccontare storie e un occhio assoluto nello scoprire e poi disegnare i caratteri umani. Ecco perché è impagabile il piacere di sfogliare i ritratti dei personaggi illustri del Suo tempo che Lei incontrò, sulla carta, quando per il settimanale Tempo di Alfio Tofanelli, tra il 1964 e il 1965, tenne una celebre rubrica di cui ci eravamo tutti dimenticati, ma che ora torna per la prima volta in forma di libro: Lettere scontrose (minimum fax). Come scrive nella postfazione Bruno Quaranta, un amico che La conosce bene, e da molto tempo, sono «lettere intonate allo spigoloso carattere del committente, al suo spirito ingenuo, ossia non genuflesso». Lettere solo apparentemente scomode, appena appena irriverenti, sempre divertenti (altre persino profetiche) ma, come Lei stesso - caro Arpino - scrive nella prima missiva, indirizzata a Amintore Fanfani, sempre pervase da «un'elementare esigenza di giustizia e un minimo di civile indignazione». Eccole qui, le lettere, da scegliere come ci piace, a seconda della simpatia per il destinatario. Monica Vitti, Vittorio Gassman (ce ne voleva di incoscienza e di sfacciataggine, all'epoca, per fare il contropelo a un tale mito... Il quale infatti reagì nelle settimane successive con telefonate indignate e battute in tv...), e poi Aldo Moro, Juliette Gréco, persino i Beatles!, che Lei alla fine giudica con estrema simpatia, il presidente della Corte d'assise di Francoforte (al quale rinfaccia la mitezza delle pene comminate ai responsabili di Auschwitz), o Georges Simenon (a proposito, complimenti: quando Lei scrive che «è giunto il momento del giallo all'italiana, un giallo condito di bontà, di strizzatine d'occhio, di furberie che si sommano l'una sull'altra, di omertà che stendono i fili di una ragnatela sempre più larga», non poteva sapere che da lì a poco sarebbe arrivato un Andrea Camilleri col suo Montalbano...); e poi Totò (l'unico che Le risponderà, con una magnifica lettera, qui pubblicata per la prima volta e il cui originale da anni è appeso in cornice a una parete della casa di Bra), e ancora: Sartre (al quale rifaccia giustamente che i suoi allievi sono stati forse peggiori dei suoi nemici), Herrera (che mette in guardia dal rischi che il calcio possa diventare un giorno più business che sport), la Bardot (che intuisco Lei preferisca alla Loren), Frank Sinatra, De Gaulle (che capisco Lei non sopporti...), il vecchio scugnizzo Omar Sivori...Leggendola, colpisce non solo la precisione con cui coglie le debolezze e le eccezionalità, il lato geniale e quello più ordinario, del grande personaggio, le piccole umane miserie, gli indubbi talenti e il fascino che irraggiano sui fan e le persone comuni. Ma soprattutto, quando scrive di politici, attori, scrittori e sportivi italiani, la Sua capacità di radiografare in modo spietato e chirurgico gli eterni mali che affliggono il nostro Paese. In cui si vive come in un'eterna commedia che ha sempre lo stesso finale. Lo sa, dottor Arpino, di cosa si discute da giorni sui nostri giornali? Del fatto che non può esistere una vera classe dirigente senza una solida cultura generale. Oggi un noto editorialista, su un notissimo quotidiano, in prima pagina ha scritto che per i nostri politici «È indispensabile un'ampia preparazione basata sulle materie umanistiche»... E Lei, già nel 1965, all'onorevole Mariano Rumor, potentissimo segretario della Dc, raccomandava di obbligare tutta la sua corte di deputati a imparare Dante a memoria e a studiare le Operette morali di Leopardi, «non tanto per istruirli, quanto per spronarli a una giusta concezione della politica, per farne uomini la cui cultura non rimanga deposito di piacevolezze serotine, ma fermento vivo nella pratica quotidiana». È lo stesso anno in cui Lei trafigge l'allora famoso e oggi carneade senatore Pafundi, presidente di una delle tante (vacue) commissioni antimafia della nostra disgraziata Repubblica, paragonandolo al bibliotecario senza volto di Borges: entrambi si muovono, uno fra le sue carte l'altro fra la sua biblioteca, «senza fine, senza principio, senza senso». Se c'è uno scrittore che ha saputo scandagliare l'animo umano dei propri connazionali, continuando ad amare l'Italia pur scoprendo ogni giorno un nuova pecca, è Lei, caro Arpino. E speriamo di non deluderLa troppo dicendole che, cinquant'anni dopo, non siamo allo stesso punto. Ma persino più indietro. Ho apprezzato molto la Sua riflessione a margine della lettera indirizzata all'arbitro Lo Bello: «La cupidigia di farsi amici dell'arbitro è un vizio che gli italiani - non tutti, ma neppure pochi - conoscono almeno dai tempi di Nerone». Oggi, se permette, estenderei il concetto ai giudici. Così come mi ha divertito leggere, per una volta, che anche quel prototipo perfetto dell'italiano medio che è Alberto Sordi, alla lunga stanca: «Costretto a limare all'infinito mosse e mossette che strappano ancora il sorriso, non più il riso». Come dire, va bene il saper prendere in giro i difetti nazionali, però poi bisogna anche provare a correggerli. Così come abbiamo condiviso appieno l'elegante consiglio regalato, dopo averla giustamente lisciata, a Sofia Loren: di pagare le tasse. Un vizio, per noi italiani, ancestrale.

Da “il Giornale” il 26 maggio 2020. Per gentile concessione dell' editore, pubblichiamo qui uno stralcio della lettera di Arpino a Vittorio Gassman raccolta nel volume Giovanni Arpino, Lettere scontrose (minimum fax, pagg. 404, euro 18). Egregio dottor Gassman, prima di dare il via a questa «lettera», e per ridurre al minimo ogni sospetto di animosità personale, ho invitato otto amici, di varia età, occupazione, interessi, a formulare una serie di domande a lei indirizzate.

Eccogliele: è vero che il suo sogno segreto è di girare un film come il Gaucho ma con la regia di Zeffirelli? Perché non riesce a essere simpatico, malgrado gli sforzi? Che ne direbbe di Tognazzi se interpretasse Amleto? Perché non si fa mettere in ordine da un buon sarto? Cosa pensa di se stesso, ora che ha superato i quarant’anni? Perché non riesce a tenersi una donna se non per pochissimo tempo? Lei crede veramente di aver qualcosa da dire a chicchessia? Quante ore al giorno spende a rimirarsi negli specchi di casa e nelle vetrine per strada? Queste tre ultime domande le arrivano da voci femminili. Io non aggiungo nulla, né intendo usare gli interrogativi elencati come un facile piedistallo di partenza. Ho ben altro materiale da cui trarre forza e argomenti. (...)

Lei ha svelato il suo vizio segreto, nel cinema: e cioè una smania perfezionistica che la porta continuamente a esagerare. Ogni sua mossa, ogni porgere di parola, ogni intervento, ogni passo avanti o indietro, ogni gesto o sospiro o aggrottar di ciglio, lei li spinge un centimetro avanti, un tono sotto o un tono sopra, sottolinea anziché semplicemente dire, raggruma il fiato, stira il tendine, contrae la mandibola, non si accontenta di spiegarsi con volto e mani, ma mette in azione colletto, polsini, spalle, ha sussulti nervosi troppo evidenti, vuol vincere in disinvoltura e risulta stucchevole, esorbita anche nei gestacci, rende inflazionata l’uscita volgare, insomma getta un cumulo di energie vane dove basterebbe un sobrio accenno azzeccato. Credo che ormai lei abbia finito per innamorarsi di questa sua interpretazione onnivora, perpetua, onnipresente: è per questo che i suoi gestacci si moltiplicano, è per questo che anche quando assiste in privato a una partita di football lei si dimena, si sbraccia, dà fondo alla riserva del turpiloquio. Lei, dottor Gassman, ignora che anche la più abbietta osteria ha certe sue regole interne: chi le supera per troppo impegno ne resta inesorabilmente vittima. Per il resto, accetti i saluti da un Suo affezionato lettore.

·        32 anni dalla morte di Nico (Christa Päffgen).

Barbara Costa per Dagospia il 24 dicembre 2020. Un soldato americano la stupra a 13 anni, per questo Nico cresce cattiva: non amava stare tra la gente, non parlava con nessuno, se le domandavi qualcosa ti rispondeva a monosillabi, qualora si degnasse di risponderti. Era altera, algida, bellissima. Sempre in competizione con chiunque e soprattutto con gli uomini, Nico era tutto meno la bambolina bella e scema che sembrava incarnare: quella di Nico è una bellezza improducibile, nessun bisturi, nessun filler possono ambire a tanto, ma una bellezza guidata da un’intelligenza lucida, e da sapiente calcolo, e ambizione. Tutto questo non lo vedete in “Nico, 1988”, il film di Susanna Nicchiarelli, lì c’è l’ultima Nico, quella che sta per morire, non la donna che faceva strage di uomini famosi, li seduceva, li scopava, li usava, e li abbandonava appena non le servivano più. Da chi cominciamo? Da Herbert Tobias, il suo primo fotografo di nudo, che a 15 anni la ribattezza Nico, nome da uomo, nome rubato dell’ex amante di Tobias, il regista Nikos Papatakis, poi amante e pigmalione della stessa Nico. A 20 anni Nico è già stanca di fare la modella: vuole fare l’attrice, è nel cast de “La Dolce Vita” di Fellini. Nel film Nico recita se stessa, una modella annoiata, promessa sposa di un aristocratico sessualmente bulimico: Nico è un androgino Virgilio che accompagna Mastroianni nella perdizione. Dopo il film, Nico va a New York con Papatakis, ma va pure a letto con Alain Delon e rimane incinta: Delon non vuole il figlio, dice che non è suo, al parto c’è Papatakis. L’abbandono e il ripudio di Delon fanno diventare Nico ancora più cattiva. Le dive non sono fatte per avere figli, il divismo non prevede altruismo ma egoismo estremo e crudeltà, Nico ci prova a fare la mamma, ma vuole sfondare come cantante, allora molla il bambino alla madre di Delon. Nico conosce Bob Dylan, lo seduce, quando non serve più alla sua ambizione lo lascia e si mette con Brian Jones dei Rolling Stones. Dylan è talmente pazzo di lei che scrive un album intero su Nico, lei tramite Jones punta al manager dei Rolling Stones, debutta come cantante con un singolo suonato e prodotto da Jimmy Page. Nico si stufa di Jones, abortisce un figlio suo, torna in America e incontra Jimi Hendrix: sono due notti di sesso torrido. “La più bella creatura sulla Terra” è quello che pensa Andy Warhol quando vede Nico in un ristorante intenta a succhiare fette di arancia imbevute di sangria. Warhol vorrebbe essere Nico, vorrebbe il suo corpo magnifico al posto del suo, così sgraziato. Warhol porta Nico alla Factory, la impone come perversa star dei suoi film e cantante del gruppo rock che sta producendo, quello che ha preso il nome da un romanzetto porno trovato nella spazzatura. Lou Reed cade nella rete di Nico, vanno a vivere insieme, le canzoni del primo album dei Velvet Underground parlano di lei. Ma si litiga su chi le deve cantare, il posto di Lou nel letto di Nico lo prende John Cale, poi Nico molla entrambi per fare la solista: le canzoni gliele scrive Reed, le produce Cale. Ogni desiderio di Nico è un ordine, arrivano canzoni superbe, nessuno è mai riuscito a conoscere davvero Nico ma Nico è quello che canta, è quella che ai concerti ti invita a seguirla, è la sacerdotessa che ti indica la strada che porta al peccato. Ai suoi concerti assiste Leonard Cohen, le prova tutte perché Nico ricambi il suo amore, preghiere, amuleti, incantesimi, lei gli preferisce il 16enne Jackson Browne. Lo lascia quando nella sua vita arriva quel pazzo di Jim Morrison: dura un mese, qui le parti si invertono, è Nico che perde la testa, è come una baccante in estasi per Dioniso: con Morrison sta nuda sui cornicioni strafatta di LSD, fanno sesso davanti agli altri, lui le dà la sicurezza inedita che si può trasformare qualsiasi incubo in versi. Grazie a Morrison Nico inizia a scrivere i suoi, scava nell’oscurità e nascono canzoni inquietanti, cupe, un sesso che è solitudine, rito, cerimonia macabra. Canzoni che colpiscono cuore e ormoni di chi ascolta, Nico le incide distesa sul pavimento bevendo tequila, canta quello che è, una donna sofisticata, seducente e distruttiva, esule a se stessa e al mondo. Eroinomane. A Nico piacevano solo uomini d’estro scintillante ma pazzi furiosi, quindi dopo Morrison tocca a Iggy Pop, ed ecco come la racconta lui: “Facevamo l’amore tutto il giorno, lei mi ha preso che ero un moccioso ingenuo, mi ha insegnato come si lecca una figa e tutto su vini tedeschi e francesi mai sentiti nominare. Mi ha mollato dopo tre mesi, con lo scolo”. Nico dopo i 30 anni si tinge i capelli di nero e si lascia andare lucidamente alla deriva. Diventa cattiva soprattutto con se stessa, non viene a patti con la vita, né col suo disagio esistenziale, non le importa più niente né di nessuno, meno di tutti di sé e del suo talento. Va a vivere a Parigi col regista Philippe Garrel (reduce da elettroshock) in una casa senza luce, mobili, nulla. Persi nelle droghe, girano 10 film. Nico torna a New York, sta tre giorni chiusa in casa con un allucinato Lou Reed, al Chelsea Hotel finisce quasi strangolata dal musicista Lutz Ulbrich, un’altra volta è lei che tenta di accoltellare il suo manager. Tra tutti questi casini, continua a fare dischi, concerti, mai concesso nulla ai fan, tra una sigaretta e l’altra se il pubblico la contesta dice: “Vi ammazzerei tutti”. Sparisce per anni, torna, sparisce di nuovo, compone canzoni bellissime, fa una buona cover dell’ostica “The End” dei Doors, quella di “padre voglio ucciderti, madre voglio scoparti”, i versi dell’Edipo Re di Sofocle rinato in Morrison, il germe della civiltà occidentale, l’autobus blu che porta via la giovinezza, mai le nostre eterne paure. Niente turba, tocca, sfiora l’imperturbabile Nico, che dopo i 40 anni è sempre più orribile a vedersi, una strega grassa dai capelli grigi, i denti guasti, lo sguardo assente, la pelle rovinata dalla droga. Ho perso il conto di tutti gli artisti che hanno eletto Nico loro fonte d’ispirazione: è suo “Berlin” di Lou Reed, suo “Heroes” di Bowie, suoi i versi di Patti Smith, dei Joy Division, di Robert Smith. C’è Nico in Billy Corgan, Brian Molko, c’è Nico in Björk. In Tori Amos. Nico è stata musa e dannazione ancora per Philippe Garrel per il suo “J’entends plus la guitare” (Leone d’Argento a Venezia), lo è oggi e lo sarà in futuro per chissà quanti altri, perché Nico è quello che è sempre stato l’anagramma del suo nome.

·        32 anni dalla morte di John Holmes.

Arianna Ascione per corriere.it il 15 marzo 2020.

L’infanzia difficile. Il 13 marzo del 1988 a 44 anni moriva per complicanze legate all'Aids John Holmes, l’attore porno più famoso di sempre. Molto si è detto sulla sua vita e sulla sua carriera, tra storie vere e leggende metropolitane che resistono all’incedere del tempo: si dice ad esempio che abbia fatto sesso con 14mila donne. Che sia vero o no una cosa è certa: ne ha amate soltanto due. Può sembrare paradossale: Holmes da piccolo non ha potuto contare su solidi modelli di riferimento. Nato nel 1944 ad Ashville, Ohio, dalla relazione fugace tra Carl Estes e Mary June Barton, il piccolo John Curtis Este - ultimo di quattro figli - ha avuto a che fare molto presto con la violenza. Il suo patrigno, Edgar Harvey Holmes, era un alcolista, e il più delle volte lo picchiava. Quella tra Edgar e Mary è sempre stata una relazione altalenante: i due si sono lasciati e risposati più volte. Poi, dopo il terzo divorzio, nel 1951 la madre decide di convolare a nozze con un altro uomo, Harold Bowman.

La prima moglie: Sharon. A soli 15 anni John, pur di allontanarsi da casa, si arruola nell’esercito con il permesso scritto di Mary. Nel 1963 viene congedato e si trasferisce a Los Angeles. Lì cerca di guadagnarsi da vivere con una serie di lavoretti saltuari: viene assunto come operaio in una fabbrica di dolciumi, prova a fare il venditore di scarpe, di mobili e si mette persino a guidare le ambulanze. Durante un turno conosce un’infermiera, Sharon Gebenini: i due si innamorano e decidono di sposarsi nell’agosto del 1965.

La vita matrimoniale. Nel frattempo Holmes trova lavoro in un’azienda che confeziona carne, ma a causa delle temperature rigide della cella frigorifera va incontro a numerosi problemi di salute. Stanco di quella vita faticosa e priva di soddisfazioni dopo aver letto un annuncio di ricerca di attori per pellicole a luci rosse decide di provarci: «Quando decise di diventare una pornostar, mi staccai da lui, cercai di ritrovare un equilibrio nel mio lavoro in un ospedale. Ma non lo lasciai mai solo quando mi chiedeva aiuto», ha ricordato l’ex moglie nel 2003.

Un’amante minorenne. I primi film portano a John una rapida fama e un salato conto da pagare: una pesante tossicodipendenza, che lui cerca di mantenere con la sua attività. I soldi però sembrano non bastare mai: l’attore finisce per commettere qualche furtarello, si mette a spacciare droga per alcune bande criminali e arriva a prostituirsi, con donne e con uomini. Nonostante le difficoltà Sharon gli rimane accanto: nonostante non approvasse il lavoro del marito i due hanno continuato a vivere sotto lo stesso tetto per anni, anche quando lui nel 1976 porta a casa la sua giovane amante, Dawn Schiller, che all’epoca aveva 15 anni. Holmes ne aveva 32, e presto l’avrebbe trascinata con sè nel suo inferno. Lei in quel momento, a causa della giovane età, non poteva certo rendersene conto: «Non sapevo in che affari fosse coinvolto. Gli piaceva la mia innocenza, il fatto che non avessi nulla a che fare con l'industria del porno».

In fuga attraverso gli Stati Uniti. Holmes condivide con Dawn il consumo di droga, e per riuscire a recuperare abbastanza denaro per acquistare le dosi arriva a picchiarla. La spinge anche a prostituirsi e la porta con sè quando si reca dagli spacciatori, lasciandola per ore ad aspettarlo in macchina: in quel periodo l’attore frequenta brutti giri, e nel 1981 rimane invischiato in un brutale regolamento di conti tra Eddie Nash e la cosiddetta banda di Wonderland. John e Dawn scappano e rimangono latitanti per cinque mesi. In seguito all’arresto, avvenuto in Florida il 4 dicembre di quello stesso anno, non avendo i soldi per pagare la cauzione Holmes finisce per sei mesi in prigione (dall’accusa di omicidio verrà poi assolto).

Le nozze a Las Vegas. Uscito dal carcere e rimasto solo (Dawn l’aveva lasciato e Sharon gli aveva chiesto il divorzio) John torna presto alle vecchie abitudini: è sempre più dipendente dalla cocaina, si presenta in ritardo sul set e non riesce a reggere i ritmi di lavoro. Le offerte così iniziano a diradarsi, soprattutto quando iniziano a serpeggiare voci relative al suo reale stato di salute: Holmes sapeva di essere sieropositivo dal 1986, ma ha continuato a lavorare senza informare nessuno. Il 24 gennaio 1987 sposa a Las Vegas il suo ultimo grande amore, la giovane attrice Laurie Rose (in arte Misty Dawn) conosciuta durante le riprese di una pellicola hard nel 1982: «Aveva un cuore d'oro, è stato grandioso con me», ha poi raccontato lei, rimastagli accanto fino alla fine. Che arriverà, inesorabile (anche a causa dello stile di vita autodistruttivo di quello che per tutti era il «re del porno»), poco più di un anno dopo.

·        31 anni dalla morte di Sergio Leone.

Marco Giusti per Dagospia l'8 agosto 2020. Magari vi farà piacere sapere qualcosa su “Il buono, il brutto, il cattivo” di Sergio Leone che va in onda stasera su Rai Tre alle 20, 30. Così recupero le cose che scrissi per il mio libro sugli Western Italiani, Mondadori, ora fuori commercio, che uscì assieme alla celebre rassegna western della Venezia di Muller. Intanto, sia chiaro a tutti, che "Il buono, il brutto, il cattivo" è un capolavoro. Ora si può dire. Ai tempi di Tullio Kezich e dei critici barbogi no. E’ anche il terzo western di Sergio Leone. E l’ultimo che gira con Clint Eastwood. E chiude quella che Leone chiamava Trilogia del Dollaro. Anche se ho sempre pensato che quest’idea della Trilogia era del tutto casuale, che non fosse stata cioè affatto progettata. E Leone c’era arrivato a film già fatti. Ma forse è un’idea solo mia. Ovviamente grande successo in tutto il mondo e comunque l’ultimo western leoniano di un certo tipo. Dopo arriverà “C’era una volta il West” che avrebbe dovuto chiudere tutto per sempre. Per il primissimo cast Leone parla a Dario Argento, giornalista del “Paese Sera”, di Clint Eastwood, Gian Maria Volontè e di Enrico Maria Salerno, escludendo quindi Lee Van Cleef e Eli Wallach. Nella stessa intervista ricorda che farà ancora altri due western, una storia di Calamity Jane e Wild Bill Hickock interpretata da Sofia Loren e Steve McQueen e una nuova versione di Viva Villa, il vecchio film americano di Jack Conway che tanto era piaciuto al pubblico italiano. Di certo per vedere una donna forte nel cinema di Leone dovremo aspettare il successivo C’era una volta il West. Ma qualcosa delle sbruffonate di Tuco, ricordano un po’ quelle del Villa di Wallace Beery. Proprio sulla scelta del grande Eli Wallach nel ruolo di Tuco, il brutto, una delle carte vincenti del film, dirà a Oreste De Fornari nella sua biografia: “Eli Wallach l’ho preso per un gesto che fa nella Conquista del West, quando scende dal treno e parla con Peppard. Vede il bambino, figlio di Peppard, si volta di scatto e gli spara con le dita facendogli una pernacchia. Da quello ho capito che era un attore comico di estrazione chapliniana, un ebreo napoletano: si poteva fare tutto con lui. Infatti ci siamo molto divertiti a stare insieme.” Eli Wallach, in realtà, aveva fatto già il bandito messicano con John Sturges in I magnifici sette. Era Calvera. Cattivo, ma anche comico, e già doppiato da Carletto Romano. Leone non poteva non saperlo. Come non poteva non conoscere la sua filmografia noir, almeno il magnifico The Line Up di Don Siegel. O il suo saper fare perfettamente, prima di Robert De Niro e di Joe Pesci, l’italo-americano di Brooklyn. Nel film di Leone, curiosamente, Eli Wallach, ebreo, si fa un sacco di volte il segno della croce come fanno gli italo-americani. La prima volta che lo chiamano per un provino con Leone risponde. “Un western italiano, non ne avevo mai sentito parlare, suona come una pizza hawaiana. Beh, allora incontro Sergio, che non parlava inglese. Disse in francese: Ti vorrei nel mio film. Pesava 290 libbre e disse: Ti farò vedere qualcosa. Vuoi vedere un piccolo pezzo del mio film?”. Leone gli manda così due pagine di sceneggiatura. Wallach accetta e va a scegliere gli abiti al negozio Western Costume di Los Angeles insieme a Henry Hathaway. Li porta sul set e Sergio Leone rimane incantato. Più tardi, Leone dirà: “Tuco rappresenta, come più tardi Cheyenne, tutte le contraddizioni dell’America, e in parte anche le mie. Avrebbe voluto interpretarlo Volonté, ma non mi sembrava una scelta giusta. Sarebbe diventato un personaggio nevrotico, e io invece avevo bisogno di un attore dal naturale talento comico. Così scelsi Eli Wallach, di solito impiegato in parti drammatiche. Wallach aveva in sé qualcosa di chapliniano, qualcosa che evidentemente molti non hanno mai capito. E per Tuco fu perfetto”. Per la seconda volta torna nel cinema leoniano Lee Van Cleef. Anche se in un primo tempo Leone cerca Charles Bronson, che però deve girare con Robert Aldrich Quella sporca dozzina. Lee Van Cleef ottiene quindi il ruolo di Sentenza, il cattivo, anche se nella sceneggiatura si chiamava Banjo e nella versione inglese diventerà Angel Eyes. Lee Van Cleef ricordava: “Sul primo film non potevo trattare, visto che non riuscivo nemmeno a pagare il conto del telefono. Feci il film, pagai il conto del telefono e esattamente un anno dopo, il 12 aprile del 1966, fui chiamato di nuovo per fare Il buono, il brutto, il cattivo. E insieme a questo, feci anche La resa dei conti. Ma ora, invece di fare seventeen thousand dollars, ne stavo facendo a hundred e qualcosa- merito di Leone, non mio. Da allora in poi feci il protagonista e il cattivo in Italia”. Per lui non era un problema girare due film contemporaneamente (“non lo è per qualcuno che si ritiene un attore...”), anche se i personaggi sono un po’ diversi. Sentenza è un vero son-of-a-bitch, “cattivo perché sorride mentre compie azioni orrende”. Il rapporto con Leone stavolta è davvero amichevole. Lo va a trovare anche mentre monta il film. “Il montaggio è davvero dove Leone è al top. I suoi tempi sono grandi, anche i nostri registi seguono il montaggio, ma non lo fanno manualmente. Lui invece se lo fa da solo”. Per la terza e ultima volta torna Clint Eastwood. “Sergio odiava Clint Eastwood, credo perché aveva chiesto troppo per l’ultimo film; ognuno dei due si attribuiva il merito del successo dell’altro.”, ha detto lo sceneggiatore Sergio Donati. Clint si metterà il poncho dei primi due film solo per il duello finale. Sembra che Eastwood avesse in realtà chiesto 250.000 dollari e il dieci per cento degli incassi. Ma soprattutto Eastwood non era affatto contento del suo ruolo, che era visibilmente meno forte di quello di Tuco. Inizia anche a serpeggiare una evidente competizione con lo stesso Leone su chi avesse inventato il genere e su chi fosse indispensabile all’altro. Conflitto che porterà alla rottura definitiva dopo la fine del film. Sul set Leone parla qualcosa di più di inglese e le cose funzionano meglio con gli attori americani. Grimaldi, il produttore, finì per comprare a scatola chiusa un copione che non era ancora stato scritto. Ma era comunque il terzo western di Leone. Il titolo e la storia erano di Luciano Vincenzoni, che riprendeva parte dell’idea chiave che aveva già ispirato La grande guerra e parte di un raccontino di Guy de Maupassant, “Deux Amis”, che era ambientato tra Francia e Germania nel 1871. In pratica era La grande guerra ambientato durante la Guerra Civile americana. Per questo Leone chiama anche Age e Scarpelli, che erano gli sceneggiatori del film di Mario Monicelli assieme a Vincenzoni. Anche il titolo è di Vincenzoni. Leone lavora al copione con Age e Scarpelli, ma con lui i due esperti sceneggiatori non funzionano molto. Così ci lavora da solo per due revisioni, poi durante la lavorazione e poi finisce a rivedere tutto con Sergio Donati. “Per Il buono, il brutto, il cattivo Leone voleva i migliori sceneggiatori disponibili sul mercato”, ha dichiarato Donati, “così chiamò Age e Scarpelli, e fu un errore. Scrissero una specie di commedia ambientata nel West, non un western; nel film credo sia rimasta appena una battuta scritta da loro”. Ovviamente questo è da verificare, anche se Furio Scarpelli ha descritto come “fatale” il loro incontro con Leone. Contemporaneamente si raffreddano anche i rapporti di Leone con Vincenzoni, che se ne va dalla scrittura del film e lavora a due western di registi diversi, Il mercenario di Sergio Corbucci e Da uomo a uomo di Giulio Petroni. Sul set arriva anche, fresco di tre film come aiuto di Marco Ferreri, un giovanissimo Giancarlo Santi. “Sergio voleva conoscermi e aveva i pezzi della pellicola di Per qualche dollaro in più quando l’ho incontrato. Abbiamo simpatizzato subito, mi ha chiamato per il progetto e scaraventato in Spagna dal marzo all’agosto ’66, il periodo più bello della mia vita. Il buono, il brutto, il cattivo si lasciò alle spalle le storie limitate dei primi due western, aveva maggior respiro epico, etico e storico. Imparai anche come si gestisce un budget, perché Leone era un grande imprenditore” (Santi, intervistato al Festival di Torella dei Lombardi nel 2006). E’ grazie a Santi, barbuto, e già aiuto di Marco Ferreri, che Leone si fa crescere la barba. Lo vede la prima volta e gli dice: “A Foschia [il soprannome di Santi], sotto la barba si può nasconne un genio come ’no stronzo.” E Santi risponde: “Allora nun te la fa’ cresce, così l’equivoco nun se crea!” E così divennero amici, Leone si fece crescere la barba, e “sotto c’era un genio”. Santi prepara le scene da girare in Spagna e tutta la parte sulla Guerra Civile. Dice che scelse gli hippy che stavano in Spagna, “tutte facce da primo piano. Su Se sei vivo spara hanno fatto i protagonisti”. Grazie a Santi, che dirigeva la seconda unità, e a Sergio Salvati, operatore alla mcchina, si è capito qualcosa riguardo al disastro della scena del ponte che salta in aria. In pratica Leone voleva fare un piacere all’esercitò spagnolo di Franco che si era prestato a dare le tante comparse per i sudistie  i nordisti delle scene di massa. E ebbe l’idea di far esplodere il ponte, sul serio, di fronte alle cineprese a un ufficiale spagnolo. Solo che si sbagliò e il ponte saltò prima che le cineprese girassero la scena. Un disastro produttivo e economico. Anche se poi lo stesso esercito si adopererà per rimettere un po’ in piedi il ponte e farlo saltare di nuovo. Il film è ambientato durante la Guerra Civile. Tuco è un messicano che si mette d’accordo con il Biondo per intascare le taglie e poi scappare. Sentenza, invece, un pistolero a pagamento, cerca l’oro dei Confederati e va dietro al nome di un soldato, Bill Carson. Tuco e il Biondo trovano Bill Carson morente e sentono la storia dell’oro. Devono andare al cimitero militare di Sad Hill, alla ricerca di una tomba sconosciuta, accanto a quella di Arch Stanton. Si vestono da sudisti e vanno a visitare la missione del fratello di Tuco, padre Pablo Ramirez. I due vengono presi dai Nordisti, che li scambiano per Sudisti e finiscono nella prigione militare di Betterville, dove Sentenza è diventato sergente. Lì Sentenza prima tortura Tuco e poi lo fa evadere. I tre si incontrano, si tradiscono, fino a quando arriveranno a Sad Hill. Il Biondo uccide Sentenza e se ne va con l’oro mentre Tuco è lasciato con una corda al collo e senza cavallo. “Alla fine”, spiegava Leone, “tutto si gioca fra Tuco e il Biondo. Ma concludere così il film non mi soddisfaceva. Allora appena prima della sequenza dell’arena ho inventato la scena nella quale Clint trova il poncho vicino al corpo di un giovane sudisata gonizzante, lo stesso poncho che lui indossava nei film precedenti. Alla fine, liberato Tuco, lui si allontana con quel poncho e va verso le avventure precedenti, va verso il Sud per vivere la storia di Per un pugno di dollari. E il ciclo, come la trilogia, ricomincia”. In realtà in film non viene affatto percepito in questo modo e questa sembra più una riflessione molto a posteriori acchiappa-critici inventata da Leone. Visto poi all’interno del rapporto Eastwood-Leone sembra invece l’addio della star americana al regista italiano. Il budget è molto ricco, un milione e trecentomila dollari, metà dei quali vengono dalla United Artists. La lavorazione si svolge tra maggio e luglio 1966. Il set di Tabernas è usato per Valverde, Santa Ana per Santa Fe, Colmenar Viejo per Peralta. La stazione è a La Calahorra, vicino a Guadix, mentre il convento francescano è a Cortijo de los Frailes, a pochi chilometri da Los Albicoques. La battaglia si svolge a nord di Madrid, accanto al fiume Arlanza, fuori Burgos. Lì c’è anche il cimitero, ancora luogo di culto per i fan del film. Per la prima volta Leone lavora con Tonino Delli Colli, grande direttore della fotografia legato però al cinema realistico e alla commedia, diciamo dal Pasolini di Accattone ai tanti film con Dino Risi. In realtà Tonino avrebbe dovuto lavorare da subito con Leone, del quale era molto amico, ma i produttori della Jolly Film, Papi e Colombo, gli imposero Massimo Dallamano per il primo film, “Per un pugno di dollari”, uomo di loro fiducia. E Dallamano, grande esperto di colore, funzionò benissimo, specialmente per glie sterni sotto al sole. Al punto che girerà anche “Per qualche dollaro in più”, prodotto da Alberto Grimaldi e non più da Papie  Colombo. Ma volle passare alla regia. E così si liberò il posto per Tonino. O, forse, Tonino, era sempre stata la prima scelta per Leone. Comunque fosse andata, Delli Colli farà un grandissimo lavoro sul film. “C’è stato un punto di partenza, un principio estetico: in un western non si possono mettere tanti colori.”, ha detto Delli Colli. “Abbiamo tenuto le tinte smorzate: nero, marrone, bianco corda, dato che le costruzioni erano in legno e che i colori del paesaggio erano piuttosto vivi.” In un trionfo di cultura, Eli Wallach ricorda che Leone si ispirava, per la luce, volutamente a Vermeer e Rembrandt. Possibile...? Non ci sarà lo zampino di Carlo Simi in tutto questo sfoggio di cultura? Quello che veramente cresce durante la lavorazione è il ruolo di Eli Wallach. La scena che l’attore preferisce è quella dove viene impiccato per la terza volta. “Stavo seduto su questo cavallo, le mie mani legate dietro la schiena, e pensavo: Che cosa sto facendo nel sud della Spagna seduto su un cavallo? Io potrei essere da qualche parte del mondo a interpretare Cecov”. A quel punto una piccola signora lo guarda, lui la riguarda, digrigna i denti e gli esce un Grrr... molto comico, molto umano. Certo su Eli Wallach Leone fa un gran lavoro, anche perché è l’unico personaggio davvero nuovo e l’unico vero attore del gruppo. Notevolissimo anche Aldo Giuffrè, che si vede raramente negli spaghetti western. In questo caso è doppiato da Pino Locchi. Fa un piccolo ruolo, ma interessante, la cubana Chelo Alonso, allora già moglie del produttore Alfonso Pomilia, che così ricorda il suo ruolo. “Io non dovevo interpretare nessun ruolo. Ero andata in Spagna con mio marito, che era il direttore generale del film. Avevo portato mio figlio. Eravamo molto amici di Leone, della moglie, delle figlie. Avevamo preso due ville vicine che davano sul mare. Sergio mi chiedeva in continuazione di fargli una particina, una piccola cosa, che avrebbe scritto apposta per me. Anche se eravamo molto amici, io non lo volevo fare. Poi, il giorno che devono girare la scena dove ero prevista io, mi dicono che l’attrice che avevano chiamato al mio posto non poteva più venire. Era rimasta a Madrid. Ho ancora il dubbio che non l’avessero chiamata per niente. E così feci questo piccolo ruolo, gratis. La cosa divertente è che, poco tempo fa, mi hanno chiamata quelli della Imaie, la società che tratta i diritti sui film passati in tv per gli attori. Mi dicono di avere dei soldi da darmi. Era parecchio che mi stavano cercando. Alla fine scopro che dovevano darmi 10.000 euro e che ogni volta che passa il film, io prendo 500 euro. E pensare che non lo volevo neanche fare.” Sergio Donati lavorò otto mesi al montaggio e al missaggio del film. Un lavoro che sembrava interminabile e che finì solo il 23 dicembre a un soffio dall’uscita prevista. Un massacro, ricordano tutti, visto che Leone non era mai contento. Nino Baragli, il montatore, lo chiamava “spappolation” (“ti ammazza al montaggio…”). Tagliarono una ventina di minuti dal montatone finale per problemi di durata. Via anche una scena di sesso fra Eastwood e una messicana, come capitò spesso nei film di Leone. I critici italiani, questa volta, esaltano il film. Parlano le firme maggiori. “Ironia, invenzione, senso dello spettacolo rendono memorabile questo film, situando il suo autore tra gli uomini di cinema più interessanti dell’ultima leva” scrive Pietro Bianchi su “Il Giorno”. E Enzo Biagi, sull’”Europeo”: “Per fare centro tre volte, come è appunto il caso di Sergio Leone, bisogna essere dotati di vero talento. Non si imbroglia la grande platea, è più facile ingannare certi giovanottoni della critica, che abbondano in citazioni e scarseggiano in idee.” Alberto Moravia lo accusa invece di bovarismo piccolo borghese, ma è una critica a tutto il genere, non solo al film di Leone: “Il film western italiano è nato non già da un ricordo ancestrale bensì dal bovarismo piccolo-borghese dei registi che da ragazzi si erano appassionati per il western americano. In altri termini il western di Hollywood nasce da un mito; quello italiano dal mito del mito. Il mito del mito: siamo già nel pastiche, nella maniera” (“L’Espresso”). Il film, uscito a Natale 1966 arrivò terzo negli incassi italiani dopo due kolossal come La Bibbia di John Huston e Il dottor Zivago di David Lean. Qualcosa deve avergli nuociuto anche il divieto ai 14 anni, con il film che usciva, attesissimo, in pieno Natale. Venne poi derubricato qualche tempo dopo con il taglio di qualche scena, ad esempio il pestaggio di Tuco ad opera del perfido Mario Brega (grande scena) e qualche ferito un po’ troppo truculento. Ma sembrano quasi tagli di puro alleggerimento. Lo stesso Donati poi perde due mesi in America per il doppiaggio in inglese, con Leone ormai apertamente in guerra con Clint Eastwood. In America esce nel gennaio 1968, cioè oltre un anno dopo l’uscita europea. Responsabile del bellissimo doppiaggio americano è Mickey Knox, vecchio amico di Eli Wallach, un attore che ebbe seri problemi con il Maccartismo, e che in Italia farà spesso questi adattamenti, oltre che qualche ruolo. Racconta che il lavoro fu difficilissimo, un po’ per la povertà della traduzione dall’italiano, un po’ per i frequenti cambiamenti di battute degli attori, un po’ per la solita Babele di lingue dei film western italiani. Per fare quello che, normalmente, si poteva fare dai sette ai dieci giorni, Knox ci perderà sei settimane, che è più o meno quello che ricorda Donati. Di certo, però, come spiega Knox, “questo non era un film normale”. Luciano Vincenzoni ha detto più volte di aver scritto un sequel: “Il buono, il brutto, il cattivo n.2”. Ambientato vent’anni dopo la fine del primo. Lo ha confermato anche Eli Wallach: “Tuco sta ancora cercando quel figlio di puttana. E scopre che il Biondo è stato ucciso. Ma il suo nipote è ancora vivo, e sa dove è nascosto il tesoro. Così Tuco decide di inseguirlo”. Clint Eastwood si era dichiarato pronto a dare la voce narrante e persino a produrlo. La regia prevista era di Joe Dante e Leone era solo co-produttore. Ma non ha mai accettato di farlo, né di farlo fare a qualcun altro concedendo l’uso del titolo e dei personaggi. Del resto, un film e dei personaggi così amati era difficile toccarli e farli toccare da altri. Il film ha, ovviamente, fan in tutto il mondo, e il titolo fu imitato e citato centinaia di volte. Bobby Kennedy lo usò in campagna elettorale. Ma venne usato anche molto nella musica. Pensiamo solo al gruppo inglese nato nel 2000 che si presenta come The Good, The Bad, The Queen. Tra le tante variazioni musicali del tempo ricordiamo quella, magnifica, dei Pogues per il film di Alex Cox Straight to Hell. Ma non scherzava nemmeno quello di Bruce Springsteen. Il duello triangolare finale, il triello, come lo chiamava Leone, per Tarantino è la migliore scena d’azione di tutti i tempi.

·        31 anni dalla morte di Silvana Mangano.

Cecilia Ermini per "iodonna.it" il 21 aprile 2020. Complessa, ineffabile, malinconica. Silvana Mangano – che oggi avrebbe compiuto 90 anni – è stata senza ombra di dubbio l’attrice più affascinante e ambigua del nostro cinema. Capace di una transizione come poche: passare con naturalezza dalle risaie piemontesi ai red carpet di Hollywood. Asciugando la sua bellezza procace fino a sfumarla nel concettuale, grazie anche a un volto da scultura egizia. Al netto poi di una preparazione tecnica inesistente, Silvana è riuscita ad attraversare molte stagioni del cinema italiano, dal neorealismo alla commedia. Fino ai film d’autore, quando ormai si era trasformata in una presenza astratta e filiforme, affrancata da quel corpo atomico che le era insopportabile. Come del resto la mondanità e gli obblighi del lavoro: il mondo sfavillante offertole dal suo essere moglie di uno dei più grandi produttori italiani di tutti i tempi (Dino de Laurentiis) e le interviste, rilasciate col contagocce. Dunque una personalità indecifrabile e contraddittoria che, a distanza di trent’anni dalla morte, non smette mai di affascinare. Ma soprattutto di interrogare.

Silvana Mangano diva in un giorno. L’anno è il 1949, e sui manifesti del film Riso amaro di Giuseppe De Santis campeggia un volto e un corpo destinato a entrare da subito nell’immaginario collettivo. Silvana Mangano, appena diciottenne, è in in primo piano, il suo sguardo, diretto all’osservatore, è fiero e le curve del suo corpo sono molto accentuate. “Oggetto” di desiderio consapevole della sua forza erotica – con l’ormai storico look calze nylon, maglietta attillata e shorts – nel film l’attrice interpreta Silvana, all’apparenza forte, tenace ma solare e dall’animo buono. La giovane però nasconde una malsana attrazione per ciò che lei idealizza come lontano dalla miseria in cui vive; per ottenerlo è disposta a farsi corrompere e a fare cose che la sua coscienza, infine, non è in grado di sopportare. Un successo strepitoso che inaugura in Italia una stagione di attrici tracotanti, definite dalle cronache dell’epoca “maggiorate”. L’attrice diventa una star nel giro di poche ore ma comincia a odiare il proprio corpo. Considerato come segno ingovernabile di una femminilità troppo esplicita, che la iscriveva, di diritto, in un club che comprendeva Gina Lollobrigida, Sophia Loren e Silvana Pampanini.

Il matrimonio con Dino De Laurentiis. Produttore di Riso amaro e nascente tycoon dell’industria cinematografica italiana, De Laurentiis si innamora perdutamente della ragazza. Che sposerà, lei poco più che ventenne, l’anno successivo. Dal matrimonio nascono quattro figli – tre femmine e un maschio, Federico, che perderà la vita a soli 26 anni – e un sodalizio artistico più che trentennale. Che a differenza del connubio Ponti-Loren, vede la Mangano – supportata dalla complicità di Dino – fare di tutto per togliersi quell’aria da popolana sarà e verace. Privilegiando personaggi drammatici – sarà Edda Ciano in Il processo di Verona di Carlo Lizzani, nel 1963 – e ruoli che le stravolgono l’aspetto fisico. Come il celebre taglio rasato nel film di Martin Ritt Jovanka e le altre. Tutti prodotti dall’inseparabile Dino. Che l’attrice chiama in pubblico “De Laurentiis”, alimentando le voci che da sempre la vogliono innamorata non tanto dell’uomo ma quanto della gabbia dorata nella quale trascorreva i suoi giorni lontano dal set.

Musa di Pasolini e Visconti. Ma Silvana non amava proprio fare l’attrice. Un senso di perenne inadeguatezza l’ha sempre accompagnata, misto al rifiuto del suo aspetto fisico. Che la porterà a perdere quelle forme che tanto avevano stregato gli italiani, in un’epoca in cui la parola anoressia ancora non esisteva. Così, nel corso degli anni, Silvana abbandonò anche il cinema popolare – e una breve parentesi a Hollywood – per cercare sicurezze fra le braccia artistiche di due maestri: Pier Paolo Pasolini e Luchino Visconti. Per quest’ultimo l’attrice interpreterà – con un’eleganza mai vista prima – ruoli contraddittori e antipatici, come in Gruppo di famiglia in un interno. O in capolavori come Morte a Venezia, dove la sua immagine gelida e proustiana è enfatizzata dagli abiti splendidi di Piero Tosi. Per Pasolini invece, l’attrice si trasformerà nella moglie borghese e ninfomane nello scandaloso Teorema del 1968 – e poi nella mitologica Giocasta in Edipo Re –. Lo scrittore-regista  è anche quello che riesce a riassumere meglio il suo enigma: «C’è sempre un vetro fra lei e la vita reale. Che si rompe solo quando recita». Una descrizione quanto mai accurata della sua ambiguità. E del suo male di vivere, a cui si abbandona definitivamente dopo la scomparsa dell’unico figlio maschio nel 1981. Muore infatti poco dopo, a soli 59 anni, nel 1989. Lasciando un’eredità strepitosa di film, allure, stile e la qualità più preziosa di una “diva” anche riluttante, anche e soprattutto malinconica come lei: il mistero della sua vera natura. Tuttora irrisolto.

·        30 anni dalla morte di Rocky Graziano.

Rocky Graziano moriva 30 anni fa: Paul Newman lo rese un mito in «Lassù qualcuno mi ama». Pubblicato sabato, 23 maggio 2020 su Corriere.it da Fiorenzo Rodogna. Parabole pugilistiche che diventano storia. Facce piene di pugni di italiani d’America; resilienti e coraggiosi malgrado partenze svantaggiate. Vite sportive che ispirano film leggendari. E uomini che vincono e perdono, ma ce la fanno. Questo 22 maggio sono trent’anni dalla morte di «Rocky» Graziano (classe 1919), nato a Brooklyn come Thomas Rocco Barbella, peso medio fra i più forti della storia della boxe; giovane ribelle e rissoso, «delinquente puro», militare prima; e poi pugilatore forte e resistente. Combattente e vincente come il proprio carattere turbolento, motore di una vita tanto ricca di errori (all’inizio), passioni ed emozioni da renderla incredibile. Terreno fertile per autobiografie che diventano bestseller. E soprattutto film — «Lassù qualcuno mi ama» (1956) — che li rendono leggendari. Quando quel volto da «Broccolino’s son», carico di cicatrici e cazzotti, diventa (su pellicola) quello di un giovane Paul Newman. Picchiò sempre duro Rocky. Sin da quando — teppistello dal furto facile — cominciò a scorrazzare fra una rissa e l’altra per le strade dell’East side di New York. Negli anni 30 Graziano cresceva, disadattato fra disadattati, in un crogiolo di razze, etnie e lingue. Con tedeschi e cinesi a farsi i fatti propri; irlandesi e italiani a spartirsi (mai amichevolmente) qualcosa di illecito. Gente torva e aggressiva, dal coltello facile, che si guadagnava nomignoli come «dago» (dall’inglese «dagger», pugnale). Lo stesso «milieu» nel quale si formava in quegli anni «tale» Jake La Motta. Una vita a mettersi a correre per sfuggire a ogni sirena della polizia. E quando la fuga non riusciva era carcere minorile, dove altre risse attendevano. Comprese quelle con la divisa da soldato (picchiò ufficiali e sottufficiali, finì in una prigione militare). Congedato con disonore, altre turbolenze e altra galera. Fino a quando una guardia non lo vide quasi uccidere un altro detenuto a furia di cazzotti ben assestati. «Ti piace picchiare la gente, perché non farne un lavoro? Metti quella dinamite in un guantone...». E oplà, il destino muta. A inizio anni 40 Rocky cambia nome in Graziano; quello vero è troppo «compromesso» con la legge. Dopo qualche scaramuccia da dilettante, ha già 23 anni compiuti quando combatte la prima volta da pro: nella primavera del 1942 schianta Mastrandrea. Poi una prima, grande, vittoria: nel marzo del 45 al Madison Square Garden sconfigge (k.o. alla sesta) Billy Arnold, fenomeno da trenta vittorie consecutive (tutte per k.o.). Rocky è già famosissimo e «amico» di altri. Forse di troppi. Dopo un’ennesima vittoria — ha ancora le fasce alle mani — un tracagnotto con una lunga cicatrice sul volto si presenta: è Al Capone in permesso vigilato da Alcatraz (dove finirà i suoi giorni, sifilitico). Rocky si irrigidisce per i guardaspalle ma «Scarface» si complimenta e poi gli infila un dono. È un anello con un «brillocco» da cinque carati: «Sono fiero di te». Negli anni dell’ascesa combatte e vince quasi sempre. Il suo rivale «definitivo»: è Antoni Florian Załęski, detto Tony Zale, un emigrato polacco che è il suo contrario. Rocky va dentro a testa bassa, non ha grande tecnica e nemmeno grande tattica. Odia e picchia, picchia (col destro) e odia. Zale è compassato, stilisticamente più dotato e ha una capacità: incassa e aspetta; aspetta e incassa. E poi attacca a sua volta. Dopo una prima sconfitta, nel secondo incontro il titolo mondiale dei medi diventerà di Rocky, salvo tornare al polacco nel terzo. Graziano prosegue. Nel 48 la National Boxing Association gli revoca la licenza di pugile: Rocky non ha denunciato un uomo che gli aveva proposto 100mila dollari se avesse perso contro Fred Apostoli. Lui si era dato malato in Federazione e non aveva combattuto. Troppi amici, appunto... Finisce nel 52. Nel carniere degli 83 incontri da professionista: 67 vittorie (52 k.o.), 10 sconfitte (3 k.o.) e 6 pareggi. Ma la fine della carriera è l’inizio del mito. Nel 1956 il regista Robert Wise dirige «Lassù qualcuno mi ama». La pellicola è riferita alla vita di Rocky. Inizialmente viene scelto James Dean come protagonista che però muore in un tragico incidente stradale, così la parte va a un giovanissimo Paul Newman; la nostra Anna Maria Pierangeli (che di Dean era la compagna) è la protagonista femminile. «Quello che ho vinto non possono togliermelo sul ring. Sono stato fortunato, lassù qualcuno mi ama», recita Newman-Graziano nella scena finale. Morirà d’infarto il 22 maggio 1990. Sarà sepolto al Locust Valley Cemetery di New York.

·        30 anni dalla morte di Keith Haring.

Keith Haring, l’eterno "bambino radiante" che ci illumina ancora. Ribelle ma non sguaiato, innovatore ma vicino al sentire popolare. I suoi graffiti segnano il '900. Luca Beatrice, Sabato 01/02/2020, su Il Giornale. Di lui ha scritto Timothy Leary, il guru della psichedelia: «Keith Haring è l'archetipo dell'artista del XXI secolo. Un secolo che sarebbe stato globale, che avrebbe fatto crollare i confini nazionali e geografici, un secolo senza tempo in cui gli abitanti del mondo avrebbero condiviso una quantità immensa di informazioni. Keith Haring poteva anche far discutere, ma non c'era nessuno a cui non piacesse. Sarà anche stato scioccante, sovversivo, offensivo ma tutti lo amavano. Tutti sapevano che era lui che dipingeva sui muri». Keith Haring muore di Aids a New York il 16 febbraio 1990 a 32 anni e la sua scomparsa diventa simbolica della fine di un decennio che si è portata via i protagonisti principali dell'arte americana: nel febbraio 1987 Andy Warhol, nell'agosto 1988 Jean-Michel Basquiat, nel marzo 1989 Robert Mapplethorpe. Nessun maledettismo, però, nel profilo del giovane Keith, a cominciare dall'espressione simpatica, occhialetto tondo, look semplice da ragazzo, viso sbarbato, nessun segno evidente di protagonismo. Nato il 4 maggio 1958, come tutti quelli cresciuti in una piccola provincia, a Kutztown, Pennsylvania, Keith sente fin da ragazzo la necessità di appartenere a un gruppo per evadere in qualche maniera alle costrizioni di una comunità cattolica e benpensante. Comincia con i boy-scout, poi il baseball, quindi sui tredici anni incontra il movimento Jesus Save: legge la Bibbia, l'Apocalisse e Addio Terra, ultimo pianeta di Hal Lindsey. E allora diventa un freak, un Jesus freak: si convince di poter rinascere e tenta di convincere anche gli altri. Il suo modo di essere ribelle non è sguaiato, ma ironico e canzonatore. Anche nella sua prima mostra, al Pittsburgh Center of Arts nel 1976, dove tra i disegni compaiono immagini esplicite di sesso, i genitori cattolici e conservatori non possono accusarlo o sentirsi feriti, piuttosto complimentarsi per il suo lavoro ed essere orgogliosi del successo del figlio. In quell'anno arriva a San Francisco con Susan, la sua ragazza, in autostop, come un vero hippie. In California scopre l'universo gay e omosessuale: allora a San Francisco sta nascendo la più grande comunità gay americana che vive al Castro District. Poi, nel 1978, finalmente New York. Scopre i graffiti in strada e in metropolitana. Lo intrigano soprattutto quelle calligrafie che rimandano all'antica arte cinese e giapponese e ai pittori che aveva studiato a scuola: Dubuffet, Tobey, Alechinsky, Pollock, Klee, Ossorio. Nel frattempo l'East Village ha visto il tramonto della cultura hippie e la prepotente affermazione della nuova scena punk-rock che si sta muovendo dall'Inghilterra verso New York. Tra i giovani è sentita la necessità di mettere in piedi una band: chiunque si incontrava e con i pretesi più assurdi, decideva di fondare un gruppo, soprattutto se non sapeva suonare. Oppure di fare l'artista, senza saper dipingere. Keith Haring entra in contatto con le realtà di colore, scopre un background completamente diverso dal suo e ne rimane affascinato: è l'universo funky, anima punk su musica nera. Si taglia i capelli cortissimi, indossa jeans due taglie più grandi, in radio dove fa il dj suona soprattutto black music e soul. Nell'inverno 1980 inizia a disegnare graffiti per strada. «La mia tag era un animale che finì con l'assomigliare sempre di più a un cane, e poi inizio a disegnare un omino che camminava a quattro zampe e più lo disegnavo, più diventava The Baby». Poi arriva la grande mostra al Times Square Show che rivela la nuova generazione di street art, alcuni predestinati al successo - Basquiat, Haring, Rammelzee, Futura 2000, A One - altri passati come meteore. Prima di diventare un artista da grande galleria, a Keith interessa la diffusione popolare del suo segno. Stampa le tag su spillette e le regala in metropolitana. Vuole che le persone si avvicinino al suo mondo e che tutti possano possedere una parte del suo lavoro, anche chi ha pochi dollari e invece dei quadri può solo comprarsi una t-shirt. «Sarei stato io il gallerista di me stesso e avrei venduto a chi volevo io, mantenendo così la mia integrità e il mio distacco dal mondo dell'arte». Con gli interventi nella metropolitana diventa un vero e proprio fenomeno. I poliziotti lo amano e a fatica devano fargli la multa: «ne avrò prese più di cento e tutte regolarmente pagate». Una volta lo arrestarono, ammanettandolo, poi al distretto gli agenti, scoperto chi fosse, gli vollero stringere la mano. Conosce Andy Warhol a una mostra alla Fun Gallery, nell'East Village. Andy lo porta alla Factory; nello stesso periodo incontra Madonna, che stava con Basquiat, al Paradise Garage. Adora i bambini e si considera egli stesso un «bimbo radiante». «Quel che mi è sempre piaciuto dei bambini è la loro immaginazione, una combinazione di onestà e libertà che permette loro di esprimere qualsiasi cosa gli passi per la testa. E poi mi è sempre piaciuto il loro senso dell'umorismo e l'incredibile istinto nei confronti di ciò che li circonda e di sentire le energie che provengono dalle persone, o forse per la mia faccia buffa, o perché mi comportavo come loro sono sempre stato amato dai bambini, e vedendomi ridevano sempre». Prima che dalle élite, Keith Haring si fa amare dalle persone comuni: «le mie opere entrarono nella cultura popolare prima che il mondo dell'arte si accorgesse che esistevo e così quest'ultimo non poté prendersi il merito di averle fatte riconoscere dalla gente». Juan Rivera, il suo ultimo compagno, racconta che Keith amava le cose «normali», come guardare cartoon alla tv e mangiare a casa. «Devo dire che all'inizio il suo lavoro non mi sembrava così speciale ma quando glielo vidi fare - Gesù! - era stupefacente! L'energia sgorgava attraverso di lui: iniziava da un certo punto e quando aveva finito non si capiva come e da dove fosse partito! Tutto il lavoro era racchiuso in una grande immagine nella sua testa». Aveva ragione William Burroughs: «Così come nessuno può guardare un girasole senza pensare a Van Gogh, nessuno può scendere nella metropolitana di New York senza pensare a Keith Haring. È questa la verità». Sono passati trent'anni ed è ancora così.

Valeria Arnaldi per ''Il Messaggero'' il 17 febbraio 2020. Gioia, fratellanza, maternità, ma anche ascesi, tentazioni, peccato. E, nel cuore dell' opera, il richiamo al luogo, la croce pisana. È una sorta di danza rituale, alimentata da istinto e sentimento, quella che Keith Haring ha rappresentato a Pisa nel murale Tuttomondo, circa 180 mq sulla parete del Convento di Sant' Antonio. «Sto in albergo direttamente di fronte al muro, così lo vedo prima di addormentarmi e quando mi sveglio. C' è sempre qualcuno che lo guarda (l' altra notte anche alle 4 del mattino)», scrive l' artista il 19 giugno 1989. È entusiasta della città, della gente, dell' Italia. E proprio nel nostro Paese, tra Pisa, Roma, Amalfi e Napoli, trascorrerà la sua ultima estate. Haring si è spento trent' anni fa, il 16 febbraio 1990, a 31 anni, a New York per complicanze legate all' Aids. Tuttomondo è la sua ultima opera pubblica. «Mi rendo conto ora che si tratta di uno dei progetti più importanti che io abbia mai fatto», annota. E sì che è nato tutto per caso. O meglio per la domanda di uno studente italiano in vacanza a New York: perché non ha mai fatto un murale in Italia? In realtà, in Italia l' artista ha già lasciato il suo segno. Nel 1983 viene chiamato da Fiorucci a Milano a personalizzare lo store del brand: impiega 13 ore e l' esecuzione si fa presto performance. L' anno dopo porta il suo universo di forme e simboli a Roma sulle gradinate di Palazzo delle Esposizioni. Esegue un lavoro pure sulle vetrate del Ponte nel tratto Flaminio-Lepanto della metropolitana.

Delle sue opere, nell' Urbe non rimane traccia. Nel 1992 quelle a Palazzo delle Esposizioni sono state cancellate per la visita del presidente Urss Mikhail Gorbaciov. E nel 2000 è stato ripulito il Ponte. La sua visione però, negli anni, è rimasta internazionalmente viva, influenzando l' arte, ma anche design, grafica, moda. È la consacrazione della sua filosofia dell'«arte per tutti». Lui stesso ha firmato copertine di dischi, come Without you di David Bowie, ha dipinto sulla pelle di Grace Jones, modella per Robert Mapplethorpe, ha disegnato abiti, indossati pure da Madonna, e molto altro. Nel 1986 - anno in cui ha dipinto sul muro di Berlino - ha aperto un negozio a Soho per vendere prodotti con immagini delle sue opere. «Il suo segno è così forte per la sua universalità - dice l' artista Ozmo tra i massimi esponenti della street art in Italia - ha creato un alfabeto immaginifico molto riconoscibile, il suo stile riesce a parlare a tutti. Ero poco più che adolescente, a fine anni Novanta, quando ho visto una grande mostra su Haring a Pisa, a Palazzo Lanfranchi. Mi ha ispirato molto». Il segno di Haring è pop. E fa business. Si diffonde nello spazio e resiste nel tempo. L' artista stesso diventa star, poi icona, dopo ancora simbolo, fin quasi, per paradosso, a perdersi. La nascita del mito Haring ha fatto dimenticare spesso i suoi messaggi, diffondendo le forme al di là del concetto. Haring ormai è i suoi omini. «Keith Haring - commenta l' artista romano Omino71 - è stato capace di inventare un linguaggio universale che trascende i mezzi espressivi tradizionali, multidisciplinare, versatile, in grado di sfruttare qualsiasi mezzo per perseguire quell' idea di arte per tutti dentro e fuori gli spazi tradizionalmente preposti alla fruizione dell' arte visiva. In tal senso, incarna l' idea di artista come forse cominciamo a intenderla oggi». Ora, il mondo ricorda l' artista. A Bruxelles, al Bozar, fino al 19 aprile, si può ammirare l' esposizione Keith Haring, che dal 29 maggio sarà in Germania, a Essen. Lavori dell' artista sono anche nel nostro Paese. A Reggio Emilia, fino all' 8 marzo, a Palazzo Magnani e Chiostri di San Pietro, nella collettiva What a Wonderful World. La lunga storia dell' Ornamento tra arte e natura. A Firenze, è nell' allestimento Dagli anni '60 agli inizi del XXI secolo della collezione Casamonti, a Palazzo Bartolini Salimbeni. A Roma, la Galleria Afnakafna fino al 14 marzo ospita 30Keith, a cura di Antonella Caraceni e Omino71, con lavori di 30 artisti, da Lidia Bachis a Stefano Bolcato, da David Diavù Vecchiato a Easypop e Max Ferrigno. «Io non sono un inizio - diceva Haring - non sono una fine, sono un anello di una catena».

·        30 anni dalla morte di Ugo Tognazzi.

Genio e «zingarate» di Ugo Tognazzi maschera italiana. Scomparso per un’emorragia cerebrale nella notte fra il 26 e il 27 ottobre 1990: aveva 68 anni e il giorno dopo la morte la «Gazzetta» titolò «Senza Tognazzi, l’Italia più triste». Oscar Iarussi su La Gazzetta del Mezzogiorno il 26 Ottobre 2020. Trent’anni senza Ugo Tognazzi, scomparso per un’emorragia cerebrale nella notte fra il 26 e il 27 ottobre 1990. Pur non essendo un ingordo, bensì un anfitrione generosissimo per il gusto degli altri, del morir mangiando Tognazzi aveva creato, e forse subìto, una beffarda poetica ribadita da un suo libro di «storie da ridere e ricette da morire» intitolato L’abbuffone (Rizzoli 1974, poi Avagliano 2004). Scettico, indolente e in apparenza luculliano, offrì sullo schermo il meglio di sé come buongustaio di cibo ed eros. Connubio ricorrente in psicoanalisi e al cinema, che egli interpretò da par suo nelle favole nere dirette da Marco Ferreri lungo i favolosi ‘60, da L’ape regina a La donna scimmia e oltre. Tra queste, La grande abbuffata (1973) resta - appunto - la metafora estrema, laconica, quasi alla Godard, di un edonismo che, eccedendo in fegatini ed amplessi, si prende gioco della vita e della morte, considerate egualmente mediocri. Memore delle opere del prediletto Molière allestite in teatro, Tognazzi sapeva che per far ridere davvero non basta colpire il cervello e il cuore del pubblico, bisogna andare dritto alla pancia. Così la macchietta plebea diventava talora maschera colta. Sul piccolo schermo, nella seconda metà degli anni Cinquanta, eccolo in Un, due, tre al fianco di Raimondo Vianello, con gli indimenticabili episodi di Tito il toscano: «Tito tu t’hai ritinto il tetto, ma non t’intendi tanto di tetti ritinti». Mentre al cinema lo «adottano» i registi «impegnati», tra i quali Pasolini di Porcile (1969) e Bertolucci di La tragedia di un uomo ridicolo, che fruttò a Tognazzi il premio per il migliore attore a Cannes nell’81. Il suo volto, con le caratteristiche occhiaie di chi la notte s’attarda in bagordi, era il più grottesco nella superba galleria della commedia all’italiana (Sordi, Mastroianni, Manfredi, Gassman), nonché il meno compiacente e perbenista. Correvano le stagioni belle del nostro cinema, vibranti non solo di felici corrispondenze tra sceneggiature ed eventi della storia o echi della cronaca, ma anche del confronto costante, concreto o immaginario, tra quei magnifici attori. «Sordi - diceva Tognazzi - è diventato l’Albertone nazionale e quando entra in scena somiglia al papa. Io invece sono un Ughetto internazionale, somiglio solo a me stesso». Eppure Tognazzi, nato col varietà sognando le scale fatali di Wanda Osiris e nelle piazze più improbabili e più difficili (incluse quelle pugliesi), dove nell’immediato dopoguerra gli capitava di arrivare persino in vagone bestiame, impersonò a lungo una certa ingordigia della nostra piccola borghesia, quegli appetiti da ex poveri che nel benessere cercano di soddisfare La voglia matta per una maliziosa ragazzina come Catherine Spaak o di assaporare, separandosi, Le ore dell’amore di un matrimonio in crisi, nei film omonimi con la regia di Luciano Salce del 1962-63. Cremonese senza essere «lumbard» per il rifiuto del dialetto, ma da sempre milanista, il giovane Ugo ebbe il destino segnato sin dal primo impiego (contabile in un salumificio) e dalla rivista d’esordio (W le donne di Marcello Marchesi, 1945). Ma la sua grande scuola fu la Rai-Tv grazie alla quale apprese «l’arte di sussurrare le battute quasi confidandole a tu per tu», l’ironia noncurante e sfacciata che lo avrebbe imposto sul grande schermo a partire dal memorabile Primo Arcovazzi in Il federale ancora di Salce (1961). Con la stessa sbrindellata camicia nera poi indossata in La marcia su Roma (regia di Dino Risi, 1962), Tognazzi-Arcovazzi se ne va a zonzo in sidecar nella storia dell’occupazione tedesca in Italia, urlando «Bucaaa!» e «Buca con acqua!» al professore antifascista suo prigioniero (Georges Wilson), che infine gli salverà la pelle. In quel personaggio, il dramma e la farsa del dopo 8 settembre si danno la mano e nel fascismo al declino s’intravede tutta la mediocrità del regime. Un segreto e quasi inconsapevole contrappunto alla storia italiana che nella ricchissima filmografia di Tognazzi affiora altre volte alla ribalta, facendone davvero «L’alter Ugo» del nostro cinema, per dirla con il titolo di un volume che gli dedicò il Festival di Lecce a cura di Massimo Causo (Besa 2001). Fa testo la cinica amarezza dell’industriale Primo Spaggiari che in La tragedia di un uomo ridicolo cerca di risolvere il rapimento del figlio in un vantaggio per la sua azienda. Ma restano per sempre anche le brizzolate zingarate anni Settanta di Amici miei, per la regia di Mario Monicelli, dove il Nostro nei panni decaduti del conte Mascetti brevetta scherzi cattivi, ingaggia un patetico duetto erotico con la giovane Silvia Dionisio, azzarda surreali giochi di parole («la supercazzola con scappellamento a destra»). Sono altrettanti esorcismi della morte, la propria e quella di una società dominata da un clima lugubre a causa del terrorismo. In pieni «anni di piombo» Tognazzi si prestò a una sublime sceneggiata per la rivista satirica «Il Male» facendosi fotografare in manette nei panni del «capo delle Brigate rosse» («Lo avevo sempre sospettato», chiosò Raimondo Vianello, non meno geniale). Una vena goliardica ribadita dal successo internazionale de Il vizietto di Édouard Molinaro (1978). Sposatosi due volte, l’ultima nel 1972 con l’attrice Franca Bettoja, ha avuto quattro figli da tre relazioni (Ricky, Thomas, Gianmarco e Maria Sole, tutti in arte) e da autentico capotribù li riuniva ogni anno, con amici e colleghi, per il «torneo Tognazzi» di tennis a Torvajanica, in premio lo «Scolapasta d’oro». Nelle ultime ore in clinica volle un pezzetto di cioccolato, mentre fremeva per uscire e tornare sul set. Aveva 68 anni e il giorno dopo la morte la «Gazzetta» titolò «Senza Tognazzi, l’Italia più triste».

Ugo Tognazzi, trent'anni senza zingarate, tornei di tennis e "supercazzole". Rita Celi su La Repubblica il 27 ottobre 2020. Il 27 ottobre 1990 moriva a 68 anni uno dei protagonisti della commedia italiana e, insieme a Raimondo Vianello, tra gli innovatori della comicità della tv in bianco e nero. I figli Ricky, Thomas, Maria Sole e Gianmarco lo raccontano in un libro che uscirà a novembre. Trent'anni fa a Roma moriva a 68 anni Ugo Tognazzi, tra i grandi interpreti del cinema italiano del dopoguerra e anche protagonista in tv, dopo gli esordi nel varietà e nella rivista. Insieme a Vittorio Gassman, Alberto Sordi, Nino Manfredi e Marcello Mastroianni è stato uno dei colonnelli della commedia degli anni 60, rappresentando sullo schermo vizi e virtù degli italiani. Dagli episodi di I mostri e I nuovi mostri di Dino Risi ai tre atti di Amici miei di Mario Monicelli (e Nanni Loy) in cui veste i panni del conte Mascetti che ha lasciato in eredità zingarate, burle e espressioni come la celebre supercazzola. Tra le sue interpretazioni più famose anche Il federale e L'anatra all'arancia di Luciano Salce, In nome del popolo italiano sempre di Risi, La donna scimmia e La grande abbuffata di Marco Ferreri, Il vizietto di Edouard Molinaro (seguito poi da Il vizietto II e Matrimonio con vizietto), La tragedia di un uomo ridicolo di Bernardo Bertolucci e La terrazza di Ettore Scola. In 40 anni di carriera ha interpretato 148 film, lavorando con anche con Pasolini, Zampa, Pietrangeli, Comencini, Petri, Germi e Magni. Dopo aver iniziato con commedie leggere con Totò ed essere diventato celebre in coppia (sia in tv che al cinema) con Raimondo Vianello, l'approdo nella grande commedia d'autore con Salce e Ferreri e la consacrazione come uno dei massimi interpreti italiani che lo porterà, nel 1981 a vincere il premio a Cannes per la miglior interpretazione maschile per La tragedia di un uomo ridicolo di Bernardo Bertolucci (oltre a tre David di Donatello, quattro Nastri d'Argento, un Globo d'oro e due Grolle d'oro). Nato a Cremona il 23 marzo 1922, durante la seconda guerra mondiale viene chiamato alle armi e si dedica a organizzare spettacoli di varietà per i commilitoni. Finita la guerra, nel 1945 si trasferisce a Milano dove partecipa a una serata per dilettanti tenuta al Teatro Puccini, grazie alla quale viene scritturato dalla compagnia teatrale di Wanda Osiris. Nel 1950 il debutto al cinema in un film diretto da Mario Mattoli, I cadetti di Guascogna, al fianco di Walter Chiari. L'anno seguente conosce Raimondo Vianello con cui forma una coppia comica di grande successo che dal 1954 al 1959 lavora per la Rai nel varietà Un due tre. I due amici comici si presentano in una veste inedita, porgendosi le battute a vicenda, entrambi riscuotendo risate, ciascuno con il proprio stile. Si ritrovavano in piazza Beccaria, davanti al cinema Metropolitan, poi andavano al bar Necchi e in piazza Santa Croce, in giro per Firenze. Erano le avventure di un gruppo di inseparabili amici fiorentini che affrontavano i loro disagi con scherzi a danno di malcapitati, protagonisti del film Amici miei di Mario Monicelli, uscito al cinema il 10 agosto del 1975, quarant'anni fa. Ugo Tognazzi ovvero il conte Mascetti, Philippe Noiret nel ruolo del giornalista Giorgio Perozzi, Duilio del Prete in quello di Guido Necchi, Adolfo Celi che interpretava Alfeo Sassaroli, Gastone Moschin, ovvero Rambaldo Melandri: battute, gag, zingarate e tormentoni che hanno resistito al passare del tempo diventando cult.Dopo numerose interpretazioni in commedie leggere cinematografiche e televisive negli anni Sessanta fa il grande salto nella commedia all'italiana dove regala caratterizzazioni particolari dei personaggi in film come Il federale di Luciano Salce del 1961, La marcia su Roma di Dino Risi del 1962. Da quel momento una serie lunghissima di film e interpretazioni memorabili fino all'ultima in Una famiglia in giallo, film tv di Luciano Odorisio uscito postumo nel 1991. Grande esperto di cucina, si definiva un "cuoco prestato al cinema". Popolari le sue feste a Villa Tognazzi a Torvaianica, vicino Roma, dove, a partire dal 1966, organizza per 25 edizioni un torneo di tennis riservato a personaggi del cinema e del teatro, della radio, della tv e del giornalismo che come premio finale attribuisce l'ambitissimo Scolapasta d'oro. La vita privata è segnata da molte donne e diversi grandi amori da cui ha avuto quattro figli: nel 1954 si innamora di una ballerina inglese di origine irlandese della sua rivista, Pat O'Hara, che non sposa ma che gli dà il figlio Ricky; nel 1961 conosce Margarete Robsahm, attrice norvegese sua partner in Il mantenuto e che sposa nel 1963 e che l'anno seguente gli dà il suo secondo figlio, Thomas, che diventerà produttore e regista. Nel 1965 conosce l'attrice Franca Bettoja, che sposa nel 1972 e da cui ha due figli, Gianmarco nel 1967 e Maria Sole nel 1971. Ugo Tognazzi ha sempre avuto vicino a sé tutti i figli, anche quelli avuti in precedenza. E sono i suoi figli Ricky, Thomas, Maria Sole e Gianmarco che lo raccontano in un libro che uscirà a novembre Ugo, gli amori e gli scherzi e i ricordi di un padre di salvataggio, come annuncia il primogenito: "Papà è morto il 27 ottobre del '90, questi 30 anni senza di lui sono passati in un lampo. Grazie alla passione profusa da tutti noi figli e dalle persone che lo hanno amato e non hanno perso l'occasione per parlare di lui, il suo ricordo resterà sempre vivo''. Ricky Tognazzi, in questi giorni impegnato sul set per dirigere La donna del vento, fiction di Canale 5 scritta da Simona Izzo e interpretata da Sabrina Ferilli, come da tradizione il 27 ottobre si riunirà con i suoi fratelli per celebrare il papà nella sua casa di Velletri (per omaggiare il contingentamento delle riunioni casalinghe raccomandato dal governo, gli altri parenti ci saranno ma a debita distanza), e il menu sarà scelto come sempre tra i piatti cult di Ugo, a cominciare dalle polpette con il lesso e dai ravioli al papavero.

Tognazzi visto da Vianello: "Io e Ugo, due comici da panchina". Arianna Finos su La Repubblica il 27 ottobre 2020. Il ricordo di Raimondo Vianello in un'intervista pubblicata su "Repubblica" il 27 ottobre 2005 in occasione dei quindici anni dalla morte dell'amico e collega. Sono stati una delle coppie leggendarie dello spettacolo italiano. Per molti sono stati "la" coppia comica che ha insegnato ad altri come lavorare, come stare insieme in scena. Per questo Raimondo Vianello e Ugo Tognazzi sono ancora indivisibili nella memoria di molti italiani. A dispetto dell'iniziale reticenza ("Sono stanco e non amo le commemorazioni"), Raimondo Vianello racconta con divertimento sincero e a tratti commosso, l'avventura umana e professionale al fianco di Ugo Tognazzi. Dall'incontro nella rivista nel dopoguerra, alle commedie cinematografiche in coppia, passando per l'avventura televisiva di Un, due, tre.

Quando lei e Tognazzi siete diventati una coppia?

"Tognazzi faceva la rivista, ma non era ancora affermato. Quando ebbe l'occasione di uno spettacolo in proprio, con ballerine e comici, mi scritturò insieme agli altri tre con cui lavoravo allora. Siamo diventati coppia per caso. Lui aveva una scena su una panchina con un altro signore che se ne andò, io lo sostituii. Quando si aprì il sipario ed eravamo seduti insieme sulla panchina, partì una gran risata. Noi ci guardammo di sottecchi come a dire: l'accoppiata funziona, anche solo dal punto di vista fisico, lui moro e forte, io esile e biondo. Da allora abbiamo fatto teatro insieme per sei anni".

Che intesa c'era tra voi. Improvvisavate?

"Avevamo degli autori fantastici, Scarnicci e Tarabusi, ma qualcosa improvvisavamo sempre. Quando però lo facevo io, lui iniziava a ridere in modo incontrollabile, a volte doveva uscire di scena. Addirittura per un periodo si rifiutò di recitare se io ero dietro il sipario ad aspettare di entrare. "Ma dove vado, in camerino?", dicevo io, c'era una complicità fantastica".

Con la televisione arrivò il successo da grande pubblico.

"Una cosa da non credere. Quando seguivamo il Giro d'Italia la gente chiedeva ai ciclisti stremati "dove sono Tognazzi e Vianello?" e quelli li mandavano al diavolo. All'arrivo eravamo assaltati da gente che chiedeva l'autografo. Una volta misi il braccio in un foulard per non firmare gli autografi, il giorno dopo lo mise anche lui".

Oltre che sul palco eravate complici anche nella vita?

"Avevamo una sintonia di coppia. Bastava, al ristorante, il lieve difetto di un cameriere per farci ridere fino alle lacrime. Abbiamo rischiato le botte. Ma Ugo mi confidava anche i suoi tormenti, per lo più amorosi. Sacrificava loro gran parte del suo tempo anche se poi si rivelavano effimeri. Poi però c'è stato il grande attaccamento alla famiglia, alla fine viveva solo per questa".

I vostri rapporti poi si erano allentati.

"Negli ultimi tempi non ci frequentavamo quasi più. Quando lo invitai per "Il gioco dei nove" lo trovai intristito. Mi accusava di non chiamarlo, ma io ero impegnato in tv e lui al cinema. Quando è morto mi sono detto, "meno male che non ci frequentavamo più come prima", avrei sentito un vuoto enorme".

Quali comici di oggi sono in sintonia con il vostro umorismo?

"Mi piacciono i due comici sulla panchina, Ale e Franz, quelli di Zelig. Abbiamo fatto tanta panchina anche noi, è il luogo giusto, tra il comico e il surreale, per far incontrare due sconosciuti".

Possiamo considerarli vostri eredi?

"Sì, ma loro sono più antichi".

Lei e Tognazzi siete stati i primi esempi di censura televisiva ai comici, con la scenetta sul presidente Gronchi in "Un, due, tre".

"Non fu una cacciata immediata, non volevano rendersi impopolari. Semplicemente non ci rinnovarono il contratto. La caduta di Gronchi dal palco della Scala la vide Sandra, ce la raccontò al telefono mentre registravamo dei Carosello. Il giorno dopo, al momento della "posta", ci siamo fatti trovare in piedi. Ugo ha finto di sedersi, è caduto e io ho detto "chi credi di essere" e lui "tutti possono cadere". In camerino la sera trovammo le raccomandate che ci accusavano di aver fatto gag non contemplate nel copione. Le nostre non lo erano mai".

I tempi sono cambiati. Celentano per il suo Rockpolitik ha preteso carta bianca.

"Beh, se c'è il permesso non c'è più gusto".

Ugo Tognazzi, 30 anni fa la morte. Il figlio Ricky: «È stato un matriarca. Amava il cinema e le donne. Gli ultimi anno sono stati tristi, però...».  Valerio Cappelli il 21/10/2020 su Il Corriere della Sera. Trent’anni senza Ugo Tognazzi, il 27 ottobre. Ricky, il figlio maggiore, lo chiama Ugo. Ricava un’ora dal set che lo impegna con Simona Izzo per la fiction di Mediaset La donna del vento, con Sabrina Ferilli, «Madre coraggio che combatte contro i veleni di una fabbrica». E ricorda suo padre, un gigante del cinema.

Se chiude gli occhi e rivede una espressione di suo padre…

«Penso al sorriso sornione, dal basso in alto, mentre in calzoncini assurdi e un grembiule taglia una cipolla che gli strappa una lacrima e mi dice: vieni a darmi una mano, cosa fai lì impalato a guardarmi».

Fu definito un patriarca irrequieto.

«Io direi una matriarca. Ci allattava, ci cucinava e cibava delle sue esperienze, del suo umorismo, dei suoi insegnamenti ma senza mai salire in cattedra. Era impossibile non ascoltarlo».

Di cosa parlava?

«L’argomento preferito era il cinema, che amava in modo totalizzante. E poi scherzava sulle sue disavventure con le donne, che sono irraccontabili. Storie di corteggiamenti non riusciti. Un’attrice americana parlò di un film in cui faceva un soldatino, Ugo ascoltava poi capì che era un film di Nino Manfredi. Gli dissi: gliel’hai detto che eri un altro? E lui: perché avrei dovuto, mi sarei rovinato la serata».

Parlava degli altri Moschettieri del cinema?

«Per I Mostri si stropicciò i capelli e fece gli occhi storti, Gassman cercò di fregarlo togliendosi un dente nel trucco. I critici da ragazzo lo rimproveravano di non avere una sua caratteristica, all’epoca andavano i cappelli, le bombette, il borsalino».

Però era stimato dagli intellettuali.

«A Parigi recitava Pirandello in francese, lui che veniva dall’avanspettacolo e aveva il diploma da ragioniere. Pasolini disse che era la persona più sensibile e intelligente mai conosciuta, Ugo lo portava come un fiore all’occhiello».

Con Raimondo Vianello, in tv furono una coppia leggendaria.

«Si vedevano poco fuori, Vianello era un monogamo vivente, al tempo della rivista scelsero la grazia per le ballerine e per i boys la priorità era se sapevano giocare a calcio (passione di entrambi), perché con Walter Chiari, Dapporto e Macario facevano un torneo di calcio tra le diverse compagnie teatrali».

Come studiavano le gag?

«Ugo si faceva raccontare da Vianello e dagli sceneggiatori i servizi dei tg e lui, la sera prima di andare in diretta a Un due tre, li parodiava, cioè le sue parodie di artigiani e ciclisti nascevano da episodi veri che lui, sul sentito dire, trasfigurava. Insomma non aveva la tv in casa, però la sua cucina era quella dei ristoranti di lusso».

La sua passione per il cibo era una metafora dell’esistenza?

«Era tante cose, soprattutto sostituiva il teatro, l’applauso dei spettatori che, avendo sposato il cinema, non aveva più. Gli ospiti erano chiamati a votare i suoi piatti, avevano palette con su scritto: ottimo, buono, mangiabile, cagata, grande cagata, grandissima cagata. Gli ultimi tre voti (che erano segreti) furono inventati da Paolo Villaggio. Andò da un grafologo per individuare l’amico che aveva stroncato una sua pasta e fagioli. Sul cibo, molto più che per i critici di cinema, era permalosissimo».

Per Marco Ferreri, con cui ebbe un sodalizio professionale unico, l’attore Tognazzi era nascosto sotto l’uomo, era prima uomo e personaggio.

«Parole bellissime. Con Marco ha girato i film che amava di più, così come Amici miei di Monicelli. Ugo aveva una grande umanità e generosità ed era capace di momenti di forte malinconia. A casa portava i personaggi, c’era il periodo di Splendori e miserie di Madame Royale in cui era Drag Queen. Quando faceva il gay non cedeva a certe volgarità dell’epoca e questo fa parte del suo essere moderno. Ma soffrì per Il vizietto. Già il titolo gli faceva ribrezzo. Poi fu in polemica col regista Molinaro, e non gli piacevano le scenografie».

Parlava mai dei genitori?

«Della mamma Alba, che lo voleva prete, pochissimo, forse aveva il senso di colpa di essere andato via da Cremona molto giovane. Ma le voleva un gran bene».

Gli ultimi anni furono tristi, quel ritorno a teatro...

«Gli venne la depressione, temeva di morire, non aveva voglia di far nulla, pensava di aver sbagliato tutto, non aveva manco fame. Per uno come lui, energico, iperattivo, che al mattino presto leggeva i giornali e le sceneggiature e dava le indicazioni sui carciofi da cogliere…Pensò che il cinema gli avesse voltato le spalle. Ma era fisiologico, dai ’60 ai ’90 c’erano solo lui, Mastroianni, Gassman, Manfredi, Sordi».

Ugo è stato dimenticato?

«Ma sai, mica siamo la Francia, questo è un paese senza memoria. Chi ricorda un gigante come Volonté,Elio Petri, lo stesso Mastroianni?».

Gloria Satta per “il Messaggero”  il 4 agosto 2020. Quattro fratelli, figli di tre madri diverse ma molto uniti e parte della stessa storia: Ricky, 65 anni, Thomas, 56, Gianmarco, 52, e Maria Sole, 49, che di cognome fanno tutti Tognazzi, si preparano a celebrare il padre, il grande Ugo che se ne andava nel sonno trent' anni fa, il 27 ottobre 1990 nemmeno settantenne, dopo aver girato 160 film di cui 6 da regista, e lasciato un segno indelebile nel cinema, nell'immaginario, nel costume. Saranno infatti i Tognazzi Brothers eccezionalmente riuniti (Thomas, figlio dell'attrice norvegese Margarethe Robsham, vive a Oslo) a curare la direzione artistica dell'evento Ugo Pari 30 che, promosso dal Comune di Pomezia, si terrà dal 21 al 23 agosto a Torvaianica dove il grande attore aveva creato il Villaggio Tognazzi organizzando per un trentennio il celebre torneo di tennis chiamato lo Scolapasta d'oro. Ci saranno film sulle passioni di Ugo (cinema e cucina) come L'Anatra all'arancia, Amici miei, La grande abbuffata, il documentario di Maria Sole Ritratto di mio padre, foto, ricette del grande attore (risotto al melone, stinco di santo) servite dai ristoranti della zona. Alla vigilia dell'evento e a due anni dalle solenni celebrazioni del centenario della nascita di Ugo, il figlio Gianmarco, attore e titolare dell'azienda vinicola La Tognazza, racconta il padre e le folli estati di Torvaianica.

Qual è l'impronta più riconoscibile, a parte le grandi interpretazioni cinematografiche, che Ugo ha lasciato?

«Lo stile di vita improntato a onestà intellettuale, trasparenza, naturalezza, apertura agli altri. E la capacità di precorrere i cambiamenti del costume: è stato un grande chef quando la cucina non era di moda e tra i primi a creare una famiglia allargata. Coltivava soprattutto il valore dei rapporti interpersonali che oggi fa parte del mio Dna. Amava circondarsi di persone care».

Tra queste c'era il cantautore e chirurgo Enzo Jannacci che un giorno lontano le salvò la vita: come andò?

«Avevo cinque anni, eravamo tutti insieme e io rischiai di morire soffocato. Enzo, che portava sempre con sé la sua valigetta da medico, intuì la gravità della situazione e mi praticò prontamente una puntura che scongiurò il peggio».

Cosa significava per suo padre l'amicizia?

«Condivisione, che si esprimeva a tavola. Ugo amava cucinare non tanto per sfoggiare la propria arte culinaria ma per fare felici le persone a cui teneva. In casa nostra per 30 anni si sono fatte cinque cene alla settimana e partecipava tutto il cinema italiano: Mario Monicelli, Vittorio Gassman, Dino Risi, Armando Trovajoli, Steno. Molti capolavori sono nati proprio intorno alla nostra tavola».

Quali?

 «Marco Ferreri ebbe l'idea di La grande bouffe, il film in cui alcuni amici mangiano fino a morire, proprio guardando Ugo che preparava manicaretti per tutti. Mio padre veniva considerato ugoista, cioè concentrato su se stesso, ma nella convivialità esprimeva un grande altruismo».

È vero che a Torvaianica Ugo si presentò una volta in groppa a un elefante?

«Certo. Se l'era fatto prestare da un circo sbarcato nella zona e convinse Gassman a cavalcarlo con lui. Ma rimasero incastrati tra due muri... L'episodio dell'elefante è solo uno dei tanti che hanno scandito la storia del torneo di tennis, un appuntamento-cult a cui parteciparono anche Luciano Pavarotti e i Rolling Stones».

Quali altri episodi ricorda?

«Ugo confezionò una torta alta 10 metri e dentro nascose noi ragazzini. Un'altra volta giocò in doppio con Paolo Villaggio ed entrambi erano vestiti da donna... Il torneo ospitava esibizioni e show, ricordo Anthony Quinn e Philippe Leroy che giocavano con la frusta».

Lei è amico fraterno di Alessandro Gassmann, il figlio di Vittorio. Un legame trasmesso dai padri ai figli?

«Con Alessandro ci siamo frequentati sporadicamente da piccoli al seguito di Vittorio e Ugo, poi abbiamo scoperto l'amicizia profonda negli anni Novanta lavorando insieme. Io ho presentato ad Alessandro la donna della sua vita, Sabrina Knaflitz, e lui mi ha sopportato stoicamente quando, prima di incontrare mia moglie Valeria, avevo una vita sentimentale disastrosa. Ci vogliamo un gran bene».

Che ricordo ha dello scherzo del settimanale satirico Il Male che nel 1978 mise suo padre in prima pagina sotto il titolo Arrestato Tognazzi, è il capo delle Br?

«Erano gli anni di piombo e da qualcuno quello scherzo fu preso seriamente. Ma Ugo, da provocatore nato e amante del paradosso, non si pentì. Anzi rivendicò il diritto alla cazzata che, almeno una volta, spetta a ognuno di noi».

Dagospia il 27 febbraio 2020. Da Non è un paese per giovani – Rai Radio Due. Ospite di Massimo Cervelli e Tommaso Labate a “Non è un paese per giovani” su Rai Radio Due per presentare la fiction “La vita promessa”, Ricky Tognazzi ha ricordato il papà Ugo, di cui quest’anno ricorre il trentennale della scomparsa. “Avevamo un rapporto molto amicale. Talmente amicale che oggi, che sono tornato in una mia voglia di sincerità, mi domando quanto sia stato giusto”. Doveva essere più severo? “Non più severo. La verità è che i padri servono. Lui è stato un padre piuttosto assente. Un padre che io definisco un padre di salvataggio, cioè quando serviva all’occorrenza interveniva. Arrivava ‘sto ciambellone e mi accoglieva. Però era un grande amico, non mi sono divertito tanto quanto con lui. Faceva morire dal ridere. A istinto. Uno dice ma come mai quello è diventato comico? Perché quello a scuola era il cretino della classe, al bar faceva ridere tutti. E poi alla fine capisci che lo puoi fare in maniera professionale, e ha fatto il comico”. Ugo Tognazzi la maschera dell’italiano, coi suoi pregi e difetti. “Era il nord. Era un cinema così ricco che andava coperto regione per regione. Il sud era rappresentato da Sordi, da Manfredi, in qualche modo da Gassmann che era più meridionale che settentrionale. Mancava il nord così uscì Ugo Tognazzi”, risponde Ricky, attore ragazzino insieme al padre nel celeberrimo episodio de “I Mostri” di Dino Risi. “Me lo ricordo come se fosse ieri una mattina mi son svegliato però e non mi sentivo bene, così dico : papà non sto bene, non mi va. E lui fa: Ricky vieni dai, fuori da questo letto, questa è una roba seria sai, mica è la scuola, devi andare a lavorare! Era serissimo, mica me lo ha detto scherzando, mi ha detto ma che ti credi che stai andando a scuola! Io sono andato sul set e ho vomitato”. Tognazzi padre era celebre per la smania di cucinare. “Paolo Villaggio, grande amico suo, che lo massacrava, gli diceva delle cose cattivissime e Ugo si offendeva moltissimo. Allora una volta fece la ribollita per i 12 apostoli e invitava a votare il piatto. La votazione anonima andava da buono, ottimo, mangiabile, cagata, e grandissima cagata. Paolo Villaggio scrisse grandissima cagata alla ribollita. Ugo si è offeso tantissimo, ha preso i bigliettini ed è andato a letto. Il giorno dopo pare che sia andato dal grafologo per vedere chi era stato”. Ma perché usava la panna per cucinare? “Siamo negli anni ‘70  e mio papà fa la pubblicità per una famosa ditta del nord che produce panna. Ottiene un vitalizio di panna e la deve usare... Quindi avete delle pareti intere di panna da cucinare, è chiaro che da qualche parte la doveva mettere. Però poi aveva i periodi: andava a fare la dieta e tornava che faceva solo manicaretti, andava a fare il film in Toscana e tornava che faceva la ribollita...”.

·        30 anni dalla morte di Stefano Casiraghi.

Stefano Casiraghi, il marito di Carolina di Monaco moriva 30 anni fa in un incidente in offshore. Fiorenzo Radogna il 3/10/2020 su Il Corriere della Sera. Appassionato di offshore, fu vittima di un'onda nel mare della Costa Azzurra mentre gareggiava con la sua barca. La famiglia voleva che smettesse di correre. Aveva solo 30 anni. È così bello vivere, che nulla può giustificare una morte evitabile. Figuriamoci un'onda maledetta in uno dei golfi più belli del mondo; o la sfrenata ambizione sportiva di un giovane uomo. Bello, coraggioso e ricco. Come Stefano Casiraghi da Fino Mornasco (Co), classe 1960, rampollo di un'agiata famiglia brianzola di imprenditori.

L’amore per la velocità. Per sette anni invidiatissimo marito di una principessa vera, Carolina di Monaco; da sempre amante dei motori, dell'acqua, della velocità: dell'offshore. Era un mercoledì come un altro, quello del 3 ottobre 1990. Per tutti, ma non per il «carrozzone» di quello che una volta era veramente un affollato microcosmo sportivo, fra odore di gasolio, sbuffi d'acqua, lusso e catamarani pezzati di réclame. Veloci come frecce, insicuri come trabiccoli velleitari. Quel giorno si scende in acqua come schegge, per correre un'ennesima tappa del Campionato del mondo di offshore (l'attuale «Class One»). Con le barche da competizione più veloci al mondo (mezzi da oltre 200 km all'ora) che sobbalzano, volano e ricadono piatte alla minima turbolenza di un mare, spesso non del tutto accondiscendente.

Davanti a papà e mamma. Così quella maledetta mattina Stefano Casiraghi si cala ai comandi del suo «Pinot di Pinot». È il suo catamarano, che guida in compagnia di Patrice Innocenti. Si parte dalle acque «di casa», in quell'incantevole specchio di mare davanti a Montecarlo; «cartolina per ricchi». Si gareggia sotto gli occhi di mamma Fernanda e babbo Giancarlo (Carolina è a Parigi), che lo vorrebbero in doppiopetto a organizzare. Mai più a correre. Sulle banchine del porticciolo monegasco i due genitori osservano l'ondeggiare delle acque e sanno che cosa vuol dire: i rischi si moltiplicano.

Una giornata difficile. Salutano il figlio: «Speriamo si decida a smettere». La cattiveria dello scirocco intanto diventa palpabile. Già a inizio settimana, la prima manche era iniziata due ore dopo, per via della nebbia. Poi, una volta in gara, il giovane brianzolo — maliziosamente soprannominato «Carolino» nel circuito — aveva rinunciato alla sua ottava posizione per fermarsi a soccorrere l'equipaggio di un'altra barca concorrente con un incendio a bordo. Riammesso, quel mercoledì voleva vincere e sfrecciare primo sulle 97 miglia della Montecarlo-Cap Ferrat-Nizza (con tre giri di boa). Testimoni raccontano del (sano) proposito, manifestato al briefing di quel mercoledì: Casiraghi si propone per il futuro di acquistare una barca più performante. Non solo: la vuole più sicura. La vuole con quel cockpit dotato di cupolino che sfoggia Adriano Panatta; anche lui del campionato. E vuole una seduta ammortizzata. Ma sono solo progetti futuri: per ora si corre «a capo scoperto» e in vani angusti e pericolosi. E il mare intanto, gonfiato dallo scirocco, si fa minaccioso. Le onde s'impennano, a tratti pioviggina. Ma lo «start» non attende, si parte.

Onde tremende. È la seconda tappa del Mondiale Offshore: Stefano — una bellissima moglie e tre figli piccoli: Andrea, Charlotte e Pier — ha gli occhi a fessura di chi vuole vincere e basta. Non importa del pericolo: il suo catamarano biancorosso gorgheggia, sbuffa e schiuma. Non è la barca con la quale l'anno prima si è laureato Campione del Mondo. Quella era un monocarena. Non importa: abbassa la manetta e parte in testa. Il clima, intanto, miete i primi abbandoni. Racconterà quel Vincenzo Polli (che qualche anno prima aveva presentato Casiraghi a Carolina di Monaco): «Dopo due salti della mia barca ho rallentato, non si poteva rischiare così. Ma ho visto Casiraghi che tirava al massimo, infilzandosi tra le onde...».

L’incidente. Il campione europeo, Angelo Spetta, con la sua barca s'impenna «a candela». Solo con un miracolo del vento, riesce a tornare giù dritto. Altri due equipaggi si ribaltano senza conseguenze; un altro pilota, Stefano Curioni, picchia la testa contro lo scafo ma si salva. E Stefano va, incontro al suo destino. Alle 11.18 due onde troppo alte se lo portano via al largo di Saint-Jean-Cap-Ferrat. Una prima inclina l'asse di navigazione della «Pinot di Pinot»; una seconda, feroce e ripida, fa impennare il catamarano. Non c'è scampo: la barca va giù di poppa, perpendicolare; come un fuso. Innocenti è proiettato fuori come una bambola, si rompe bacino e spalla; nuota a stento, si aggrappa alla chiglia. I soccorsi lo salvano. Non è così per Stefano Casiraghi. Lui è ancora al suo posto di guida, sott'acqua. Ma non è rimasto impigliato: il rimbalzo gli ha troncato la colonna vertebrale sotto il collo; è morto sul colpo. Inutili i tuffi e le bracciate del pluricampione del mondo Steve Curtis e di altri piloti. Qualche minuto dopo, sub arrivati in elicottero estraggono il suo corpo e lo depongono su un altro catamarano. Per riportarlo a casa. Ci vorrà un'ora per trainare quel feretro improvvisato al porto.

Una tragedia evitabile. Fine di un giovane uomo — gentile e solare — che aveva tutto. Anche troppo coraggio agonistico. La sua scomparsa, a soli trent'anni, spingerà la Federazione Mondiale di Motonautica a migliorare le misure di prevenzione durante le gare, imponendo cupolini e cinture di sicurezza, fino ad allora non installate su tutti gli offshore. L'ultimo saluto all'uomo e al campione di motonautica, lo tributerà, al termine delle esequie, un lungo corteo di yacht e motoscafi. Per deporre una corona di fiori su quel tratto di mare. Teatro di una tragedia evitabile.

·        29 anni dalla morte di Freddie Mercury.

I Queen non mollano "A Freddie piacerebbe come canta Adam". Brian May e Roger Taylor pubblicano un disco dal vivo. Con l'erede di Mercury. Paolo Giordano, Sabato 03/10/2020 su Il Giornale. Eppure sono ancora qui. Quasi ventinove anni dopo la scomparsa di Freddie Mercury, i Queen pubblicano Queen + Adam - Live around the world, che esce in ogni formato possibile (dal cd al dvd al vinile al Blu Ray) ed è il primo disco dal vivo senza la più iconica rockstar di sempre. «In pratica guardare e ascoltare queste canzoni è come viaggiare con noi in giro per il mondo» hanno spiegato ieri i due Queen rimasti, ossia il sempre più compassato batterista Roger Taylor e il sempre più biancocrinito Brian May, appena reduce da tre stent cardiaci. Insieme con loro Adam Lambert che sul biglietto da visita dovrebbe avere il titolo di «cantante nel posto peggiore del mondo» perché chi non fa il paragone con Freddie Mercury quando lo ascolta? Ed è un paragone più pesante di una tonnellata. In ogni caso, loro tre più alcuni session men in circa otto anni hanno suonato per milioni di spettatori perché, signori miei, con un repertorio così, con le radio ancora piene dei tuoi brani, con lo streaming scatenato e con un film che ti racconta e poi vince quattro Oscar è difficile non avere ancora il pubblico sotto il palco. E che questa band a metà sia ancora un «brand» multigenerazionale lo conferma anche la conferenza stampa tenuta l'altro giorno in streaming nella quale sono spuntate persino le domande di Boy George («È meglio entrare o uscire dal palco?», risposta: «Uscire») e di un imbarazzante Ryan Tedder dei One Republic, autore della decisiva domanda su dove sia il cibo più buono in giro per il mondo, alla quale arriva una altrettanto spiazzante risposta: «Tokyo, Parigi, Buenos Aires, Nuova Zelanda e... sì... anche in Italia». Anche in Italia, capito? Però chissenefrega, stiamo parlando di rockstar, non di chef. Qualcuno chede: «qual è la canzone dei Queen che preferite?». Brian May cita la non tanto famosa The miracle. Per Roger Taylor sono Bohemian rhapsody e Under pressure o Somebody to love. Adam Lambert si limita a Show must go on «perché in questo momento è un buon messaggio per tutti. Poi mi piacciono anche Crazy little thing called love e Who wants to live forever che mi porta a livelli incredibili di sforzo fisico ma anche di soddisfazione superlativa». Ma come convive questo 38enne il confronto con Sua Maestà? Per Brian May dovrebbe essere piuttosto rilassato perché «Freddie sarebbe molto contento di lui, anche perché non si sentirebbe imitato, Adam non lo imita mai. In più, oggi come oggi, dopo tutto quello che ha imparato Adam qui con noi, loro due avrebbero potuto anche collaborare». In effetti, al di là di un look distante anni luce (i due Queen sono traditional rock, Adam è vestito come in un quadro di Chagall) l'insieme funziona dignitosamente sul palco perché la vocalità di Lambert è senza dubbio poderosa e Brian May e Roger Taylor sono ormai così rodati ed esperti da non avere alcuna sbavatura. Oltretutto in tutti questi anni lo show dei nuovi Queen si è allargato, è cresciuto diventando più spettacolare. Certo, il rischio è quello di diventare un gruppo karaoke, ma onestamente è un'ipotesi molto lontana. «Amiamo le nostre hit e, di volta in volta, inseriamo sempre delle novità e poi delle canzoni di Adam da solista. Siamo sul palco da troppi anni per non sapere che la gente vuole i nostri classici e li vuole come erano, proprio così». In più ci sono i nuovi fan, quelli che hanno scoperto i Queen grazie al film Bohemian Rhapsody: «È stato una grande ispirazione per generazioni che non hanno vissuto la nostra favola. È diventato un film più forte di Star Wars ma, non dimentichiamolo, è un film su Freddie Mercury e noi c'eravamo soltanto perché non avrebbe potuto essere diversamente». I due Queen superstiti sono ancora quello che erano, ossia musicisti concentrati sulla musica, più che sul resto. Già erano atipici prima, figurarsi ora che pochi pensano all'integrità musicale. Sono insomma superstiti di un tempo che non tornerà più e che lo streaming riconsegna tutt'al più incellophanato in qualche smartphone, ma privo di quasi tutta la magia originale. Non per nulla, giusto qualche giorno fa Brian May, che è pure un astrofisico con tanto di prestigiose pubblicazioni, ha parlato di come vorrebbe celebrare il cinquantesimo anniversario dei Queen nel 2021. Da vero pragmatico, ha detto testuale che «non siamo tanto interessati a festeggiare di essere stati in circolazione per mezzo secolo. Ci interessa più dire che siamo ancora qui a suonare canzoni che piacciono a tante persone». In fondo, i veri musicisti parlano così (e chi pensa lo facciano per soldi non immagina quanto possano aver guadagnato in mezzo secolo).

Una "regina" del rock non si arrende mai anche quando è ferita. Gli ultimi giorni di un indomito Mercury nel libro del regista Dolezal, amico storico. Massimiliano Parente, Martedì 15/09/2020 su Il Giornale. «Scusa un attimo, ti lascio in attesa perché mi sta chiamando Bruce Springsteen», non è una cosa che ti capita tutti i giorni di sentirti dire, ma io sono emozionatissimo perché sto parlando da un'ora al telefono con Rudi Dolezal, eccezionale film maker di fama internazionale, che ha lavorato con le più grandi pop star, da Michael Jackson ai Rolling Stones a Frank Zappa, e ha girato quasi tutti i video dei Queen. Ora sta per uscire in tutto il mondo un suo libro, My friend Freddie, dove racconta la sua amicizia con Freddie Mercury, il mio idolo, e non mi sembra vero di parlare con Rudi, che ho visto vicino a Freddie in molti backstage, che conosceva Freddie benissimo. A proposito, si può prenotare il suo libro autografato con dedica con soli 10 dollari su myfriendfreddie.com, e ci saranno le story board del libro, racconti personali e video concept inediti. Mi dice che Freddie era simpatico, divertente, e un grande ascoltatore. Anche Rudi è molto simpatico, e è di buon umore, mi informa, perché farà il documentario per l'introduzione di Whitney Houston nella Rock and Roll Hall of Fame. Ma a me interessa parlare di Freddie, cavolo me ne frega di Whitney Houston. Gli dico che a me non è piaciuta per niente l'interpretazione di Rami Malek, che fa sembrare Freddie un personaggio cupo e arrogante. «Sono stato invitato alla prima mondiale a Londra e sono rimasto perplesso. Il pregio è che la musica dei Queen sarà introdotta a nuove generazioni, ma artisticamente lo critico. Freddie era divertente e solare e non si vede in nessuna scena. E poi potevano usare le musiche originali dei Queen, non ha senso rifarle. E poi all'inizio il personaggio sembra più Mick Jagger che Freddie». Sono assolutamente d'accordo, ma d'altra parte io trovo patetico che i Queen continuino a suonare senza Freddie (a parte John Deacon, l'unico serio, che è sparito da tutto e tutti). Brian May e Roger Taylor ormai li detesto. Rudi sospira. «Devi considerare che ormai i Queen hanno suonato più tempo senza Freddie che con Freddie. Anche se ovviamente nessuno può arrivare a livello di Freddie». Per me avrebbero fatto meglio a cambiare nome e repertorio se proprio volevano suonare. Ma comunque. Ci concentriamo molto a parlare degli ultimi video, in particolare I'm going slightly mad e These are the days of our life, girati quando Freddie era nella fase terminale dell'AIDS. Nei dietro le quinte che si trovano su Youtube si vede Freddie che dà direttive, e domando quanto fosse creativo in quella fase per lui difficilissima. «Freddie era la principale forza creativa. E tutti pensavano che I'm going slightly mad sarebbe stato l'ultimo video. Ma poi Freddie mi chiamò e disse che non voleva essere ricordato come quel personaggio, anche se per me è un capolavoro, e ci fu l'idea per days of our life». È vero, il personaggio di I'm going slighlty mad è fantastico. «Lo ha ideato Freddie?». «Sì, ci sono tre capitoli del mio libro sulla creazione di questo video. Freddie aveva creato questo personaggio facendo giocare a suo favore le trasformazioni fisiche che stava vivendo a causa della malattia. Dei 32 video che ho diretto per i Queen, questo secondo me è il migliore». Non ho dubbi, è veramente una meravigliosa opera d'arte. Mi viene in mente che nel video di Headlong c'è una scena a cui ripenso da quando ero ragazzo, l'ultima ripresa con i Queen sdraiati su degli scaffali uno sopra l'altro, ma loro cantano «So strong!» e Freddie no, ha la testa reclinata e gli occhi chiusi, come fosse morto. Era voluto. Rudi ride. «No, penso si sia trattato solo di uno scherzo di Freddie. Sai a posteriori si tende a interpretare tutto con il senno del poi». Insomma, non ci aveva pensato neppure Rudi né nessun altro, stai a vedere che Freddie lo ha fatto perché me ne accorgessi io. «Era difficile lavorare con Freddie?» «No, mai. È sempre stato molto professionale, ma anche un ottimo regista. Era un artista completo, non solo cantante e musicista. Era anche molto interessato alla fotografia e ai film quindi con Freddie non si discuteva solo di concetti ma anche come sarebbero state le registrazioni e per esempio anche le lenti da usare per le riprese». Gli domando come si comportasse la troupe con Freddie in quegli ultimi incredibili video. Nessuno, mi dice Rudi, doveva trattare Freddie da malato. Lo sapevano tutti, era evidente da quanto fosse magro, faticava anche a camminare, ma Freddie era lì a girare i suoi video, sapendo che sarebbero stati gli ultimi ma volendo assolutamente farli. Mi viene in mente l'ultima scena dell'ultimo video di Freddie, emaciato, pallidissimo, che dice alla telecamera «I still love you». È una cosa da brividi, e Rudi mi dà un dettaglio in più. «Io sapevo che sarebbero state le ultime riprese della sua vita, mi avevano detto che era molto debole e non ci sarebbe stato tempo di rigirarle. Quella scena era venuta perfetta ma Freddie mi chiese di girarla di nuovo, nonostante le sue condizioni provate, e è questa che ho usato nel video quando alla fine sorride e sussurra I still love you e sparisce dalla ripresa. Quando poi ho fatto l'editing del video, e ormai Freddie era morto, ho capito perché aveva voluto rifare la scena e ho pianto. Perché ho capito che Freddie sapeva perfettamente che quella sarebbe stata l'ultima volta che sarebbe stato di fronte alla telecamera. Quello è stato l'addio di Freddie». L'addio al suo pubblico di un artista immenso che ha voluto essere Freddie Mercury fino in fondo. E qui una lacrima scende anche a me, come ogni volta che guardo quel video. Alla fine Rudi, che trasmette un entusiasmo incontenibile, mi dice che da questo momento in poi siamo amici, e quando sarà in Italia ci vedremo. Non so se vi rendete conto, sono diventato amico di un grande amico di Freddie, love of my life.

·        29 anni dalla morte di Miles Davis.

Quella volta che Miles Davis incantò la notte barese con la sua tromba rossa. Per niente scorbutico accettò persino l’invito a una cena in suo onore. Ugo Sbisà il 26 Giugno 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Miles Davis arrivò a Bari il 2 luglio del 1986. Il suo concerto, in programma in programma per l’indomani allo Stadio della Vittoria, non ancora ribattezzato «Arena» sarebbe stata la prima europea del tour, oltre che l’evento clou delle Notti di Stelle della Camerata e, per molti versi, una pagina indimenticabile per Bari. Il grande trombettista era il tormento di tutti gli organizzatori e viaggiava con un vero e proprio seguito regale, preceduto da contratti nei quali nessun dettaglio veniva tralasciato, nemmeno la marca dell’acqua minerale e la temperatura alla quale dovesse essere servita. E il concerto barese era stato preceduto da una lunga serie di trattative... notturne partite già durante l’inverno. Il cachet di Davis infatti si aggirava intorno ai 40 milioni di lire (oggi 20mila euro farebbero meno paura...) e per molti si trattava di una somma veramente proibitiva. A sponsorizzare la manifestazione intervenne però il Comune che, grazie all’assessore alla Cultura Tommaso Masiello, garantì un importante sostegno finanziario che, alla fine, convinse i riluttanti dirigenti della Camerata (per la prima volta alle prese con un artista così costoso e capriccioso) a buttarsi nell’impresa. Giusto a titolo di curiosità, fra le richieste del management c’era una limousine con autista sempre a disposizione dell’artista, la minuziosa indicazione del numero e del tipo di asciugamani – rigorosamente bianchi – da fornire sul palco nei camerini, l’elenco delle pietanze e delle bevande da servire in camera e nel backstage allo stadio e altri dettagli che per l’epoca sembravano, almeno a Bari, molto stravaganti. Con tutte queste premesse e con la fama di burbero irascibile che da sempre lo accompagnava, il giorno in cui era previsto l’arrivo di Davis il nervosismo si tagliava a fette, ma sebbene stanco e provato dal jet lag, il Davis che giunse a Bari si rivelò presto un’altra persona, socievole, disponibile, persino affettuoso. Comunque sia, il suo concerto, attesissimo, attirò al campo sportivo svariate migliaia di fans provenienti da tutta l’Italia meridionale e anche questo fu decisamente un evento per Bari. Davis era tornato a suonare da pochi anni, dopo il lungo ritiro dalle scene e i suoi concerti erano sempre degli eventi che creavano attese febbrili persino nei grandi festival, dove artisti del suo livello erano in un certo senso all’ordine del giorno. In molti, oltretutto, gli avevano perdonato il presunto «tradimento» della svolta elettrica verificatasi nel 1969 con l’album Bitches Brew, cosicché anche quanti ne rimpiangevani gli album degli Anni ‘50 avevano ripreso a seguirlo con interesse. Così fu anche in quella notte barese, quando Davis apparve sul palcoscenico con un luccicante completo color oro: non appena accostò le labbra alla sua tromba vermiglia, ci fu un attimo di silenzio, seguito da un boato del pubblico. Era l’inizio di una notte bollente, scandita dal suo nuovo repertorio, quello tratto da album come Decoy, Star People e soprattutto da You’re Under Arrest, con i momenti più lirici e ispirati toccati nelle interpretazioni di Human Nature e Time After Time. Con lui, in gran spolvero, una band che trovava le sue principali voci solistiche nel sax di Bob Berg e nella chitarra di Robben Ford. Due ore di musica intensa, fremente prima che il trombettista, vero Prince of darkness, sparisse nella notte barese, per poi rimaterializzarsi sul pontile del Circolo della Vela, dove inaspettatamente accettò di intervenire a una cena in suo onore, sotto gli occhi increduli degli inviati dei principali quotidiani italiani. Per loro, che ne conoscevano bene la misantropia, fu proprio una cosa dell’altro mondo.

·         29 anni dalla morte di Maria Zambrano. la filosofa eversiva.

Chi era Maria Zambrano, la filosofa eversiva tenuta nell’ombra. Filippo La Porta su Il Riformista il 20 Febbraio 2020. Almeno due sono i fattori che congiurano contro una diffusione del pensiero di Maria Zambrano (1904-1991) in Italia. È una donna, dunque per definizione una “dilettante” in filosofia. E poi è spagnola e noi magari smaniamo per la Mitteleuropa ma i nostri cugini spagnoli non ce li siamo mai filati troppo (forse pensiamo, sbagliando, che ci sono troppo simili). Eppure se vi capita di trovare la sua autobiografia, Delirio e destino (Cortina 2000), potreste avere una folgorazione. Al centro troviamo una idea “eversiva” del conoscere, non separato dal sentire, ed è la conoscenza poetica. Inoltre, la condizione di esiliato è accostata a quella del mistico: spossessamento radicale (e ancora alla condizione umana stessa, che coincide con un abbandono, con una misteriosa caduta rispetto a un paradiso perduto). Zambrano, che a 24 anni si ammalò di tisi, passando un intero anno in isolamento, ha trascorso buona parte della vita in esilio, tra l’Avana, Parigi e Roma. Sulla stessa bancarella ho trovato un altro prezioso volume, La passività (Bruno Mondadori 2006), scritti su Zambrano a cura di Maria Luisa Bottarelli. Ne viene fuori un elogio e una restituzione di dignità filosofica alla passività, intesa soprattutto come patire. Si tratta di un ribaltamento di paradigma: la passività non è inerzia e quietismo, ma apertura. Nella relazione con l’altro per farlo esistere mi devo necessariamente un po’ ritirare, retrocedere, altrimenti non troverebbe neanche lo spazio. Il che rimanda teologicamente alla kenosis, allo “svuotamento” o abbassamento da parte di Dio, dunque da una parte a una lettera di san Paolo (ai Filippesi, su Cristo che si è spogliato della sua divinità) e dall’altra alla tradizione della Qabbala mistica di Isaaca Luria (il mondo nasce da una contrazione di Dio, da una rinuncia all’onnipotenza per creare qualcosa di diverso da sé!). In Zambrano questo de-crearsi non contiene alcuna suggestione gnostica (tipo negazione dell’essere al mondo, dell’essere nati, come a volte traspare nella componente catara di Simone Weil), ma è solo ridimensionare l’onnipotenza dell’io, le sue pretese di dominio. All’inizio del Paradiso di Dante, Dio è visto non come potenza ma come luce, che risplende ovunque: dunque, in un certo senso, si limita a far apparire il mondo (che, certo, ha creato lui, però poi chiama l’uomo per nominare tutte le cose: appunto rinuncia a un potere). Straordinario l’incontro di Zambrano con la filosofia, intrecciato con la sua metafisica della luce. All’università ascoltava il professore quando un raggio di luce, attraverso una tendina nera, la colpisce all’improvviso, producendo una “rivelazione folgorante”: scopre allora una “penombra toccata d’allegria” (l’ombra non sparisce del tutto), e cioè una luce che proviene dal basso, non dall’alto, senza imporsi, più simile a quella dell’aurora che a quella del sole allo zenit (da allora lei si immerse in Spinoza). Vede la chiarezza occultata nella oscurità, per parafrasare il suo maestro Ortega y Gasset, e capisce che le cose diventano qualcosa solo quando le si patisce. Di qui anche una conoscenza che si traduce in pietà per l’altro, in fraternità con quanti patiscono e hanno bisogno, e senza mai idealizzare l’altro, che invece è spesso portatore di conflitto (non un sentimento moralistico o un dovere precettistico ma appunto il riconoscimento di un destino comune). A partire da Zambrano, che inserisco in una famiglia ideale del ‘900 – con Simone Weil, Hannah Arendt, Etty Hillesum, Iris Murdoch e poi Elsa Morante e Anna Maria Ortese (e si tratta di autrici che non hanno quasi mai tematizzato la condizione femminile in quanto tale) – si capisce davvero la centralità del pensiero femminile per comprendere il presente. Aggiungo che a volte si tratta di autrici che possono respingere qualche lettore, per certa aura misticheggiante, per una lingua filosofica contigua alla poesia, perché a volte “mostrano” più che dimostrare. Ma questo pensiero femminile è oggi imprescindibile perché, pur non rinunciando ad una radicalità di visione, (e di consapevolezza della crisi, della fine di ogni significato nella modernità) non cedono al nichilismo. In loro la conoscenza è attenzione alla realtà, alle cose come sono, e nel contempo amore per il mondo. Zambrano rifiuta la separazione platonica dei due mondi, determinata dal terrore del divenire: per lei essere e apparire coincidono (come peraltro ritiene il romanzo moderno), e mai pensa che ciò che vediamo sia privo di interesse, o meno reale delle sue cause. E sempre nei suoi scritti è presente il rifiuto di ogni forzatura, e perfino di quella “violenza” compresa nella volontà stessa: la sua luce scura accoglie «dove non si patisce alcuna violenza, perché lì, a quella luce, si è giunti senza forzare alcuna porta».

·        28 anni dalla morte di John Cage.

DAGONEWS il 21 agosto 2020. Nel febbraio 1959, durante una visita al collega compositore Luciano Berio a Milano, John Cage apparve cinque volte nel popolare programma televisivo italiano “Lascia o Raddoppia?”. Cage ha eseguito diversi nuovi pezzi e ha quindi risposto a domande sul suo argomento specialistico che, sorprendentemente, non era la musica, ma i funghi. Per serate consecutive, Cage è passato alla finale, rispondendo correttamente a tutte le domande e raddoppiando ogni volta il suo premio in denaro. Nell'episodio finale, con 5 milioni di lire in palio, gli è stato chiesto di elencare i 24 nomi dell'Agaricus elencati nello Studies of American Fungi di GF Atkinson. Li ha elencati tutti in ordine alfabetico, suscitando un lungo applauso del pubblico. Nel libro “John Cage: A Mycological Foray”, si approfondisce il fascino del compositore per i funghi. Il primo volume include vari aneddoti sui funghi tratti da "Indeterminacy", la raccolta di Cage fatta di storie, riflessioni e barzellette. Ci sono fotografie di Cage mentre cerca funghi, pezzi di diario, quaderni ed estratti di saggi relativi alla sua passione, nonché una selezione della sua vasta collezione di oggetti legati ai funghi: cartoline, collage e varie guide. Il volume 2 è una riproduzione di Mushroom Book, una collaborazione del 1972 con l'artista Lois Long e lo scienziato Alexander Smith, presidente della Mycological Society of America. L'ossessione di Cage per i funghi è iniziata negli anni '30 durante la Grande Depressione, quando per necessità iniziò a cercare cibo nei boschi intorno a casa sua a Carmel, nella penisola di Monterey in California. «Non avevo niente da mangiare e sapevo che i funghi erano commestibili e che alcuni erano mortali - ha poi ricordato - Così ho raccolto uno dei funghi e sono andato nella biblioteca pubblica e mi sono accertato cosa fosse mortale e cosa commestibile. Non ho mangiato nient’altro per una settimana». Ma la sua passione non sempre l’ha ripagato. Nel 1954, dopo aver cercato nei boschi intorno alla colonia di artisti di Stony Point nello stato di New York, Cage iniziò a sentirsi male dopo aver mangiato un fungo velenoso. La sua pressione sanguigna scese bruscamente, si sentì male, e venne portato d'urgenza al vicino ospedale di Spring Valley, dove gli venne fatta una lavanda gastrica. Successivamente, gli è stato detto che, se non fosse stato curato entro 15 minuti dal suo ricovero, sarebbe morto. Ma questo episodio non ha scalfito la sua passione. A metà degli anni '50, la sua esperienza era tale che fu nominato vicepresidente della regione orientale del People-to-People Committee on Fungi. Nonostante la sua notorietà, Cage viveva ancora alla giornata e guadagnava diverse centinaia di dollari fornendo funghi a diversi rinomati ristoranti di New York, incluso il Four Seasons. Nel 1959, lo stesso anno in cui apparve sulla TV italiana, Cage iniziò a tenere un corso di composizione sperimentale presso la New School for Social Research di New York. Poco dopo lui e il botanico Guy Nearing hanno introdotto un nuovo corso nel curriculum: l'identificazione dei funghi. Nei fine settimana, Cage e Nearing guidavano gruppi di 30 studenti in gite per raccogliere funghi nei boschi dello stato di New York. Nel settembre 1962 aiutarono a resuscitare la New York Mycological Society. Una passione senza fine che, però, non lo hai mai portato alla sperimentazione di funghi allucinogeni.

·         27 anni dalla morte di Frank Zappa.

Dagospai il 30 gennaio 2020. Da “la Stampa” il 30 gennaio 2020. Nuova edizione (è il 10° anniversario) per “Dear Mister Fantasy - Foto racconto di un’epoca musicale in cui tutto era possibile” di Carlo Massarini (Rizzoli) con foto da lui scattate e testi inediti tra cui l’intervista a Frank Zappa di cui pubblichiamo uno stralcio. Estratto del libro “Mister Fantasy” di Carlo Massarini. Questa è la classica intervista «dimenticata». Che riemerge dallo scatolone delle musicassette, quando cerchi materiale inedito per l' edizione del decennale di Dear Mr Fantasy. Prima cosa, ti chiedi come sarà. Perché le intervista con Zappa potevano essere un' esperienza travagliata, considerando la sua stima nei confronti dei giornalisti musicali («gente che non sa intervistare persone che non sanno parlare, per gente che non sa leggere»), ma anche un cinema d' essai, perché l'uomo aveva tutto il necessario: intelligenza superiore, humour tagliente, visione a 360° di tutto (musica inclusa). Il suo percorso da geniale workaholic - un centinaio di album in cui si ricombinano rock, avanguardia, jazz, comedy, blues, classica, doo wop e tutta la musica che potete citare - e il suo ruolo di maitre a panser del rock - assolutamente indipendente, dannatamente originale in ogni punto di vista - è lì , pressoché unico e insuperabile. Sospirone di sollievo. 41 anni fa, in quella camera crema di un hotel chic di midtown Manhattan, tè e biscotti ad allietare gli ospiti, per parlare del film Baby Snakes, MastroFrank era in vena, io me la son cavata in un paio di quei passaggi tipo «la tua domanda è una costruzione piramidale che si basa su una premessa che è del tutto sbagliata», e la sua parlata - colta e affilata come quella di un avvocato puntuto - è fantastica da riascoltare. La conversazione è viva, brillante e sarcastica quando parla di mercato, censura, politica. E si chiude con quella osservazione sulla stupidità che non è invecchiata, anzi: vale ancor più oggi di allora.

Ok, Frank, allora: dicono che sei un genio. Tu che dici? «Genio? Non so quali sono le loro ragioni per chiamarmi così. (pausa) Ma succede che sia davvero un genio, per cui fermiamoci qui. Voglio aggiungere però che essere un genio non è che sia chissà cosa. Se sei uno scemo, è ok anche quello. Siine orgoglioso».

Il suo cinismo. «La mia attitudine cinica è l' unico atteggiamento realistico che puoi avere per vivere. C' è voluto un po' per svilupparlo. Tutti partiamo pensando che la gente è carina. Dopo la mia dose di disavventure solo una Pollyanna terminale poteva continuare a fidarsi, a meno che non ti piaccia metterti a 90 gradi».

Il rapporto con la politica. «Credo che in una democrazia il governo abbia una licenza temporanea, in cambio di un buon comportamento. Sei tu che sei il proprietario del governo, non il contrario».

Mai chiedere un aneddoto - su Las Vegas, in particolare - a Frank Zappa. «Certo che ne ho uno. Il nostro tour manager la sera prende 5 mila dollari dall' incasso, e alle sei di mattina va in un casinò e li perde tutti. Torna in albergo, con la lametta si taglia polsi, gambe, qualsiasi cosa. Il facchino entra alle 10 per prendere le sue cose, stiamo partendo, e lo trova in un bagno di sangue. È morto il pomeriggio. Ne vuoi un altro?»

Anche no, grazie. Torniamo su argomenti più easy. Come ti senti con l' arrivo del punk, con i cambiamenti di trend?

«Alcune cose mi piacciono, altre no. Quando vanno di moda gli Eagles alle etichette arrivano 100 nastri al giorno di band uguali. Vende, quindi tutti vogliono suonare quella cosa lì. Poi, metti che qualcuno scriva che adesso è il momento del punk. Bingo bongo boing! Tutti fanno i punk! Lo stesso che fino a un attimo prima cantava le canzoni alla Eagles si taglia le braccia e la faccia con una lametta, si tinge i capelli di blu e si fa una pettinatura Mohawk, strappa i vestiti e si dimentica la tecnica che aveva imparato, picchia sulla chitarra come un matto e trova un manager che gli offre un contratto da 100 mila dollari. È solo business».

Molti dei tuoi dischi sono censurati, ti dà fastidio?

«Non mi dà fastidio il fattore vendite, ma il punto di vista filosofico. Trovo repellente pensare che mentre ci stiamo avvicinando al XXI secolo ci sono persone che ancora credono che certe parole possono corromperti quando le ascolti, mandarti all' inferno. Come fosse magia nera. È una credenza così primitiva. Credo sia dannoso allo sviluppo dell' organismo umano. E allora se la prendono con me».

Cosa si aspetta un fan di Zappa dai suoi dischi?

«La gente compra i dischi per rinforzare la loro idea di chi e cosa sono. Il disco serve come carta da parati per il loro stile di vita. È un artefatto che li supporta, che crea un' atmosfera funzionale alla loro esistenza.... Se sei un tipo sensibile e romantico compri i dischi degli Eagles, o Linda Ronstadt o Jackson Browne, piangi ogni tanto, sai com' è, no? Vivi nella tua nicchia. Ma la gente che è interessata alle cose che faccio io generalmente pensa ci debba esser qualcosa di sbagliato nella società, che è tutto molto bizzarro, e io parlo di queste cose. Non puoi innamorarti con i miei dischi, non puoi lavare i piatti ascoltando i miei dischi. Ancor più difficile andare in macchina battendo col piede il tempo. La musica in genere si ascolta facendo qualcos' altro. La mia è informazione in primo piano, sono storie, e una storia occupa un sacco della tua attenzione. Ma per la persona che vuole essere rafforzata nei suoi sospetti peggiori a proposito delle peggiori cose che succedono nel XX secolo, nei miei dischi troverà supporto per le sue idee».

Ci salutiamo. Mi lascia con un' ultima frase, di quelle scolpite nella pietra: «Quando le cose sono veramente stupide non sono sorpreso. Mi sorprende quando le cose vanno bene. La caratteristica dell' universo è la stupidità. È come l' idrogeno, è ovunque». Sono passati molti anni, Frank se n' è andato nel 1993, ma questa frase sembra ancor più vera oggi di allora.

·        26 anni dalla morte di Massimo Troisi.

Che triste il mondo senza Massimo Troisi. L'Espresso il 3 giugno 2014. Massimo Troisi si spense a Ostia, vicino Roma, il 4 giugno 1994. Aveva 41 anni. Da allora, il cinema italiano non ha mai smesso di rimpiangere quest'attore timido ma capace di trasformarsi, in scena, in un istrione geniale. Nato il 19 febbraio del 1953 da un macchinista ferroviere e da una casalinga, il "Pulcinella senza maschera" che il pubblico avrebbe amato fin dall'esordio con "Ricomincio da tre" (1981), si era formato sulle tavole del palcoscenico, istintivo erede di Eduardo e di una napoletanità irridente e dolente che avrebbe traghettato in un diverso sentire, quella della "nuova Napoli" di Pino Daniele e di Roberto De Simone. Col gruppo "I Saraceni" e poi con gli inossidabili amici de "La Smorfia" (Lello Arena ed Enzo Decaro) uscì presto dai confini vernacolari del successo paesano per portare la sua lingua (un napoletano vivacissimo e torrenziale, sincopato e colorito, "l'unica lingua che so parlare, a dire il vero") sulle reti televisive nazionali e poi al cinema. Com'era accaduto a Eduardo e a Totò, quella parlata divenne comprensibile a tutti oltre le parole, sinonimo di un sentire universale in cui la maschera diventava volto e il personaggio un paradigma universale. Il successo fu inatteso, clamoroso, immediato. Erano gli albori di quegli anni '80 che portavano alla ribalta insieme a lui la generazione dei Moretti e dei Benigni, ma fu proprio col toscanaccio Roberto che Troisi trovò un'empatia istintiva, festeggiata dal pubblico col clamoroso successo di "Non ci resta che piangere" (1984), un esilarante viaggio nel tempo fino alla Firenze medicea. La critica gli tributò grandi encomi postumi dopo le quattro nomination de "Il Postino" che nel 1996 fruttarono al film l'Oscar per la colonna sonora di Luis Bacalov. Ma la sua filmografia, spesso segnata dal sodalizio affettivo e artistico con la sceneggiatrice Anna Pavignano, meriterebbe anche oggi una rivisitazione da "Le vie del Signore sono finite" (1987) a "Pensavo fosse amore... e invece era un calesse" (1991). Fu invece un collega, Ettore Scola, a intuire le potenzialità di un attore/autore assolutamente unico fino a farne l'anima del suo appassionato "Il viaggio di Capitan Fracassa" (1990) in cui vestiva la maschera di Pulcinella e a dargli l'opportunità di dialogare sul set con un maestro come Marcello Mastroianni. Ne uscì una coppia di film assolutamente unici come "Che ora è?" e "Splendor" (nel 1989) e per il primo Massimo ebbe la Coppa Volpi alla mostra di Venezia. Nella bacheca di Troisi i premi (dai David ai Nastri d'argento) non mancavano ma proprio il successo planetario de "Il Postino" dice quanto avrebbe potuto regalare al pubblico il ragazzo di San Giorgio a Cremano. Ancora oggi resta il sentimento di un talento irripetibile e luminoso. Con quel fondo di malinconia che ce lo fa sentire vicino come un amico.

·        26 anni dalla morte di Ayrton Senna.

Sessanta anni fa nasceva Ayrton Senna, il pilota che fece la storia della F1. Redazione de Il Riformista il 21 Marzo 2020. Oggi avrebbe compiuto 60 anni Ayrton Senna, leggendario pilota della Formula 1. Centosessantadue GP disputati, 3 titoli Mondiali conquistati con 41 vittorie e 65 pole position. E chissà ancora quanti altri trofei avrebbe potuto portare a casa se quel terribile incidente, il 1° maggio 1994, durante il gran premio di Imola non gli avesse portato via la vita. Aveva solo 34 anni. Senna nasce a San Paolo, Brasile, il 21 marzo del 1960. Il padre, Milton Da Silva, è un ricco uomo d’affari e proprietario terriero. Ayrton decide di utilizzare il cognome materno, poiché Da Silva è troppo comune in Brasile. La sua storia è da sempre legata alla passione per le auto. A 4 anni guida già i go kart: incoraggiato dal padre, disputa le prime gare e le vince. A soli 17 anni si aggiudica il campionato sudamericano di go-kart. Nei primi anni ‘80 Senna va in Inghilterra a disputare il campionato di Formula Ford e lo vince al primo tentativo. Nel 1983 passa in Formula 3: anche qui non ha rivali e ottiene il titolo inglese. L’anno seguente, a 24 anni, corona il suo sogno: diventa un pilota di Formula 1. Alla guida della Toleman-Hart lascia tutti a bocca aperta quando a Montecarlo, sotto una pioggia battente, supera Alain Prost. La direzione di gara ferma però la corsa: come da regolamento la vittoria viene assegnata al pilota che si trovava in testa nel giro precedente l’interruzione. Vince così Prost per una manciata di secondi. Nel 1985 Senna passa alla Lotus. In Portogallo conquista la sua prima vittoria. Con la Lotus si aggiudica sei vittorie in tre stagioni e 16 pole position. Nel 1988, a 28 anni, arriva la chiamata in McLaren per affiancare Alain Prost, primo pilota della scuderia. I due vincono 15 delle 16 gare in programma e Senna diventa campione del mondo, soffiando il titolo al compagno. Il campionato seguente è ancora un testa a testa: nella gara decisiva di Suzuka in Giappone, Senna tenta di sorpassare Prost, che lo chiude. Nello scontro le auto finiscono fuori pista. Il brasiliano riparte e vince la gara; i giudici però lo squalificano per aver tagliato una chicane. Prost si aggiudica il terzo titolo mondiale. Il campionato successivo viene deciso da un altro incidente con Prost, sempre in Giappone: i due finiscono nella sabbia, ma Senna, che ha più punti in classifica, vince il suo secondo titolo, riscattando la sconfitta dell’anno precedente. Nel 1991 Senna domina la stagione e conquista per la terza volta il campionato del mondo. A fine ’93 il brasiliano passa alla Williams. Fino a quel tragico incidente a Imola. Ayrton perde il controllo dell’auto nella curva Tamburello. L’impatto è terribile. Senna viene subito portato all’Ospedale di Bologna, ma ogni soccorso è inutile. Muore poche ore dopo. Tre giorni di lutto nazionale fermano l’intero Brasile. Finisce la storia del pilota, inizia quella della leggenda che rimarrà immortale.

Floriana Rullo per il Corriere della Sera il 30 luglio 2020. Magliette, automobiline, portachiavi. Una collezione di cimeli - trecento «pezzi» in tutto - appartenuti ad Ayrton Senna e finiti in vendita tra gli scaffali di un mercatino dell'usato di Chivasso, nel Torinese. C'era persino la tuta nera della Lotus, una delle prime indossate dal pilota brasiliano. Altri invece - guanti e un casco - erano già stati acquistati da ignari appassionati che non sapevano di essersi imbattuti in oggetti unici rubati da una collezione privata da due ladri. Erano stati tutti trafugati l'11 luglio da una villetta tra le vigne di Isola d'Asti, nell'Astigiano. Danilo Martucci, 30 anni, e Davide Robba, 32, in quella casa ci erano arrivati alla ricerca di soldi e gioielli. Hanno invece trovato una «fortuna» fatta di tute, guanti e modellini. Inconsapevoli di aver preso pezzi di storia leggendaria, hanno cercato di rivenderli tra i frequentatori dell'usato piemontese. A tradirli, e farli arrestare, sono state le foto inviate su WhatsApp: chiedevano le valutazioni per quello strano bottino fatto di accessori da gara, ma anche caschi, volanti, guanti e magliette appartenuti tutti al campione brasiliano morto a Imola il primo maggio 1994. Il piccolo tesoro era stato messo in mostra ad Asti per raccogliere fondi da destinare ai bambini poveri del Brasile. Era questa l'idea di Claudio Giovannone, uomo d'affari e finanziere. Un sogno diventato realtà grazie all'amicizia coltivata con i familiari del campione che lo avevano nominato «ambasciatore della Fondazione Senna». Un riconoscimento che voleva premiare il suo impegno per l'allestimento della mostra a cui aveva presenziato anche Bruno Senna, nipote di Senna e a sua volta ex pilota di F1. Un'iniziativa che doveva unire la passione per le corse, il ricordo di un fuoriclasse e infine la beneficenza. Lo scorso anno l'evento «Ayrton Senna 25» aveva riscosso grande successo. Alla conclusione i cimeli erano stati lasciati nella casa di Sergio Pregno, collaboratore dell'istituto. Proprio dove sono stati portati via dai ladri. «Pregno è un nostro volontario - dice Marco Giovannone, fratello di Claudio - che da sempre si è messo a disposizione. I cimeli si trovavano in casa sua perché era stato poi impossibile trasferirli a causa delle restrizioni dettate dal Covid. Solo dopo abbiamo saputo del furto». Ma grazie all'indagine dei carabinieri felpe, volante e macchinine appartenute al fuoriclasse brasiliano sono stati ritrovati. Giovannone sorride: «Sono tornati a casa e siamo pronti, come facciamo da 16 anni in tutta Europa, a ricominciare con le mostre».

Daniele Sparisci per corriere.it il 29 luglio 2020. Era tutto pronto, Ayrton Senna doveva passare alla Ferrari nel 1991 dopo aver vinto il suo secondo Mondiale con la McLaren. Sarebbe stata l’apoteosi, un binomio magico, ma qualcosa andò storto all’ultimo e il trasferimento saltò quando era ormai definito. A svelare i retroscena del mancato ingaggio è Carlo Cavicchi sul numero di agosto diQuattroruote. Parla Piero Fusaro, all’epoca presidente della Ferrari. Per capire bisogna fare un passo indietro: alla primavera del 1990 quando Cesare Fiorio aveva avviato la trattativa per il brasiliano, una partita lunga e difficile. Che arrivò a un punto cruciale a luglio nei giorni successivi al Gp di Francia (vinto da Alain Prost che in quella stagione faceva coppia con Nigel Mansell). Fiorio presentò l’accordo ai vertici del Cavallino e del gruppo Fiat, nei dettagli. Ma la firma non arrivò mai. Il perché lo spiega Fusaro: «Il contratto era nelle mie mani ma Alain Prost, scavalcando le gerarchie, chiese un colloquio privato con Gianni Agnelli, che glielo concesse. All’uscita dal colloquio, Prost dichiarò ufficialmente di essere stato riconfermato in Ferrari per la stagione 1991. In quel momento io venni preso in contropiede e, nel rispetto delle gerarchie aziendali, mi consultai con Cesare Romiti riguardo alla firma da apporre sul contratto di Ayrton Senna, anche perché la conferma di Alain Prost in squadra escludeva automaticamente la presenza del campione brasiliano». Da Torino prendono tempo e non si pronunciano, Fusaro ci prova ancora cercando di convincere la Fiat che l’ingaggio di Ayrton avrebbe portato enormi vantaggi anche alla filiale brasiliana. «Le ripetute insistenze (con relative considerazioni a sostegno della ratifica del contratto a cui mancavano solo le firme), si protrassero per diverso tempo», prosegue Fusaro, “per concludersi, alla fine, con un no! e la conferma di Prost, non potendo essere messa in discussione una scelta che, a ragione o a torto, era attribuita, ormai ufficialmente, a Gianni Agnelli». Alla fine la scelta di non prendere Senna fu ratificata dal comitato esecutivo della Ferrari, composto da Fusaro, Piero Ferrari, Cesare Romiti e Luca di Montezemolo. Romiti ha confermato a Quattroruote la versione ricostruita da Cavicchi. Ironia della sorte il francese l’anno dopo fu licenziato in tronco dopo il Gp del Giappone. Per aver definito «un camion» la Rossa con la quale aveva chiuso quarto a 1’20’’ di distacco dal vincitore Gerhard Berger (su McLaren). Il matrimonio Senna-Ferrari resta uno dei più grandi rimpianti della F1, già ai tempi di Enzo Ferrari il nome di Ayrton circolava a Maranello. Nel 1984 dopo l’incredibile secondo posto a Montecarlo con la Toleman, il Drake rimase impressionato ma preferì confermare Arnoux. E successivamente nel 1986 ci furono altri contatti, ma non scattò mai il feeling. Infine, un altro episodio raccontato da Montezemolo. L’ex presidente ci provò poco prima del tragico incidente di Imola nel 1994. «Ayrton disse che il suo sogno era venire da noi, che avrebbe provato a tutti costi a liberarsi della Williams, che ci saremmo riparlati dopo Imola».

Ayrton Senna oggi avrebbe compiuto 60 anni. Carol Alt: «Aveva un brutto presentimento». Pubblicato sabato, 21 marzo 2020 su Corriere.it da Michela Proietti. Carol Alt con Ayrton Senna, suo amante dal 1990 fino alla morte del campione, il primo maggio 1994. Il 21 marzo 2020 Ayrton Senna avrebbe compiuto 60 anni. Il pilota brasiliano della Formula 1, morto al Gran Premio di San Marino il primo maggio 1994, tre volte campione del mondo (1988, 1990, 1991) è stato ammirato per i suoi successi in pista, la sua umiltà e il grande cuore che lo ha portato a impegnarsi nella beneficenza, sempre in silenzio, per aiutare i poveri del suo Paese. Lo ricordiamo con questa intervista a Carol Alt, pubblicata su «7» a gennaio, che con Senna ha vissuto un amore travolgente.Quando incontra per la prima volta Ayrton Senna — il grande amore della sua vita —, Carol Alt si sfila le scarpe. «Eravamo a Milano nel backstage della sfilata di Ferragamo e i fotografi continuavano a chiedermi di posare accanto a questo tizio dal nome strano». Altissima lei, un po’ di meno lui, con il physique du rôle perfetto del campione di Formula 1. «Non sapevo neppure chi fosse, poi quando finalmente l’ho visto ho capito che la cosa giusta da fare era scendere dai tacchi. E lui mi ha ringraziato». C’è tutta Carol Alt in quella foto: la bellezza, l’intelligenza. E la simpatia. «Sono una comedian nata: il mio fisico non corrisponde ai classici canoni dell’attore comico, ma far ridere mi riesce davvero bene». Non a caso il prossimo film che la vede protagonista è una commedia prodotta da Eagle Pictures in uscita nelle sale il 26 marzo: in Un figlio di nome Erasmus di Alberto Ferrari recita al fianco di Luca Bizzarri, Paolo Kessisoglu, Ricky Memphis e Daniele Liotti. Un ritorno al cinema e in Italia, dove immagina il futuro: «Nelle mie vene scorre sangue italiano».

Cosa ricorda del suo arrivo in Italia?

Tutto, come fosse ieri: sono atterrata a Roma il 20 luglio del 1979. In quel viaggio c’erano tante prime volte: la prima volta in aereo, in Italia, a Roma... Dal finestrino del bus cominciai a battere la mano contro il vetro: “guardate, il Colosseo!”».

Subito dopo finì sulla copertina di Harper’s Bazaar Collection.

« Mi ritrovai a lavorare dalle 6 di mattina alle 2 del pomeriggio, scattando con i più grandi fotografi, da Patrick Demarchelier ad Albert Watson: era tutto eccitante e strano, vivevo al Grand Hotel e mangiavo sul set panini di prosciutto di Parma imburrati e senza crosta. Qualcuno la toglieva».

Erano gli anni del film «Via Montenapoleone» di Carlo Vanzina: lei e Renée Simonsen (la supermodella danese co-protagonista) diventaste due icone nazionali.

«Un giorno mentre giravamo in via Montenapoleone lei sparì e Carlo Vanzina la cercava dappertutto. Dopo dieci minuti tornò con un sacchetto della Perla: aveva visto in vetrina un completo di lingerie ed era entrata a comperarlo perché era in arrivo John Taylor dei Duran Duran, il suo boyfriend».

Neanche un po’ di rivalità?

«No, perché era una gara persa: se eravamo insieme la gente si voltava a guardare lei, che era bionda e altissima. Sembravo la sorella bruttina».

La Milano da bere, le serate al Nepentha con le modelle: quanto c’è di vero di quella iconogra fia che è stata raccontata?

«Direi poco per quanto mi riguarda: lavoravo ogni santo giorno, mi svegliavo alle 4 del mattino per affrontare le due ore di trucco e capelli prima di posare. La verità è che se sei una top model non puoi uscire la sera. Quelle che vedi nei locali sono le modelline...».

Una vita un po’ noiosa.

«Se sei debole, fisicamente e psicologicamente, non puoi fare quel mestiere. Le agenzie erano pressanti, non sapevi mai se lo stilista di oggi ti avrebbe chiamato a sfilare anche domani: ho molti più amici nella moda oggi che allora. Non c’era tempo per le pubbliche relazioni: andavo a casa la sera e non volevo più vedere nessuno».

E il piatto dei playboy piangeva...

«Mi ricordo che uno di loro riuscì a convincere la portineria del mio hotel a organizzare una cena romantica per due in camera. Lo mandai via digiuno: ero troppo stanca. Neppure i diamanti funzionavano. Pensavo: posso comperarmeli da sola, ora mi riposo».

Poi ha incontrato Ayrton Senna.

«Ma è stato un caso: c’era mio marito a Milano (il giocatore di hockey su ghiaccio dei New York Rangers Ron Greschner), ma dopo una lite furiosa fece la valigia e ripartì. Il mio assistente per tirarmi su mi disse: “preparati che andiamo a una sfilata”. Lì i fotografi continuavano a urlare: “Carol fai una foto con blablabla ...”, un nome sconosciuto, credevo fosse un attore, e anche dopo la foto insieme continuavo a ignorare chi fosse Ayrton Senna».

Fu un colpo di fulmine?

«Sì. Lui mi invitò la sera stessa a cena, io rifiutai perché avevo già un impegno. Il mio assistente mi ordinò: “Carol sei matta, vai!”».

Cosa aveva di speciale?

«Era semplice, come nessun altro avessi conosciuto prima di allora. Quella sera siamo andati al ristorante e ho toccato le stelle. Non avevo idea di chi fosse, ma la chimica era fuori dal comune».

Vi sareste sposati prima o poi?

«Chi può dirlo, non ne parlavamo, ma era un tipo che faceva sul serio. Una volta mi disse: “Carol dobbiamo sbrigarci perché non abbiamo molto tempo”».

Cosa intendeva?

«Credo che fosse un presentimento, sapeva di fare un mestiere pericoloso. Era un modo per dirmi di stringere i tempi».

Siete stati gli amori delle vostre vite?

«Senza dubbio».

Senna era circondato da donne stupende, era gelosa?

«No, per nulla. Se sto insieme a una persona gli do tutta la mia fiducia. Neppure lui lo era: i brasiliani non sono come gli italiani».

Un ricordo insieme?

«Lui guidava la sua Ferrari in campagna, io accanto ridevo felice. Dopo quella corsa folle ci fermammo per fare benzina a Novara, ma Ayrton non sapeva come fare. Così bussò al finestrino del signore in fila dietro di noi, per farsi aiutare. Quel tipo cominciò a gridare: “Oddio ma tu sei Ayrton Senna!”. E la moglie accanto, gridando più forte: “E lei è Carol Alt!”: fu comico».

Lei era al colmo della sua popolarità, aveva girato «I Miei Primi 40 anni», il film biografia sulla vita di Marina Ripa di Meana.

«In Italia fu un successo incredibile: ma all’inizio Marina non voleva che fossi io la protagonista. Preferiva Rachel Welch, perchè aveva i capelli rossi e le tette grandi».

Come l’avete convinta?

«Mi invitò nel suo atelier e parlammo a lungo. Alla fine disse: “Sei tu quella giusta”. Anche Carlo Vanzina fece di tutto per persuaderla: dopo Via Montenapoleone voleva me a tutti i costi».

Quando vide il film cosa disse?

«Era felice. Il complimento più bello arrivò da suo marito Carlo: “Sei identica a lei, da oggi è come se avessi due mogli”».

Ha mai sognato di sposare un principe come Meghan Markle?

«Mai, amo troppo la mia libertà. Avrei fatto un’ eccezione con Ayrton: se fosse stato un principe gli avrei detto “prenditi la mia vita”».

Come giudica la scelta dei Duchi di Sussex di andarsene?

«Ridicola. Non riesco a immaginare come un reale possa smettere di essere quello che è solo cambiando Paese. Non potrà mai essere Harry il meccanico o Harry lo stilista. Non sarà credibile».

Ha votato Trump?

«Posso solo dire che è la prima volta che sento il futuro negli Stati Uniti incerto. Anche per questo vorrei vivere e lavorare in Italia».

Con chi vorrebbe lavorare?

«Con Christian De Sica e Lino Banfi. Persone che mi hanno sempre messo a mio agio. In Italia non mi è mai accaduto quello che negli Stati Uniti è successo con Weinstein. Tra gli uomini perbene che ho incontrato ci metto anche Dino Risi e Silvio Berlusconi».

Lei è stata mai a una sua cena?

«Sì certo. Berlusconi aveva visto tutti i miei film e invitò il cast di Due Vite Un Destino dove recitavo con Michael Nouri e Philippe Leroy. Ad un certo puntò alzando il calice disse: “Brindo al miglior attore del film: Carol Alt!”. Poi mi regalò una cornucopia in argento».

Oggi ha 59 anni e dice di essere felicemente single.

«Sono stata in coppia dai 13 ai 54 anni. Ora tutti vorrebbero vedermi fidanzata, ma è impossibile: sto troppo bene da sola».

·        26 anni dalla morte di Kurt Cobain.

Kurt Cobain così com'era (attraverso l'obiettivo). A Firenze le fotografie inedite di Charles Peterson e Michael Lavine che raccontano il leader dei Nirvana. Luca Beatrice, Domenica 28/06/2020 su Il Giornale. Ricorderemo sempre la prima parte degli anni '90 come quelli dell'ultima rivoluzione rock nonché dell'ultima icona generazionale, intrisa di trasgressione e mal di vivere. Scegliendo di morire a ventisette anni, l'anno migliore per scomparire, Kurt Cobain è entrato di diritto nella leggenda, da dove non uscirà mai. Sono bastati tre album in studio e l'Mtv Unplugged Live tra 1989 e 1993 per ribaltare ancora una volta la scena musicale, partendo da Seattle, stato di Washington, una anonima città portuale che proprio allora stava assistendo all'ascesa della «nuova classe creativa», come la chiamava il sociologo Richard Florida. Suoni robusti, testi carichi di esistenzialismo, barbe lunghe, camicie di flanella a quadri: questo l'immaginario del Grunge, un genere dai contorni non così precisi oltre al fatto di mostrarsi radicale e alternativo. Nirvana, la band di Cobain, Krist Novoselic e Dave Grohl, Pearl Jam, Mudhoney, Soundgarden, Alice in Chains tra i protagonisti di una stagione indimenticabile e irripetibile. Rispetto agli altri, a Eddie Vedder, Chris Cornell e Layne Staley, Cobain oltre alla voce e alla performance è stato un'immagine di rara bellezza, biondo, occhi azzurri, fragile ed efebico, immortalato perciò dall'obiettivo di diversi fotografi e proprio attraverso i loro ritratti è stata tramandata questa breve, intensa, finale epopea del rock. Andiamo dunque a Firenze, Palazzo Medici Riccardi, per la riapertura di Come as You Are. Kurt Cobain and The Grunge Revolution, in scena fino al 18 ottobre. La mostra è a cura di Vittoria Mainoldi, direttrice di Ono Gallery di Bologna e vera autorità nel settore che propone 80 foto inedite di Charles Peterson e Michael Lavine, tra live, backstage, momenti di vita privata. Alcune di queste immagini sono già storia. Al Reading Festival dell'agosto '92 Cobain arriva sul palco in sedia a rotelle, stava piuttosto male eppure si tramanda un'esibizione memorabile. Nel frattempo Kurt si era sposato con Courtney Love, cantante delle Hole e madre della loro figlia Francis Bean, ed è sempre del '92 lo scatto di Peterson mentre il papà e la bimba giocano seduti per terra in un quadretto familiare apparentemente sereno e felice. Più patinato e glamour lo stile di Lavine che segue i Nirvana fin dall'esordio di Bleach e nel successo di Nevermind e In Utero, collaborando all'artwork. Lavine è vicino a Cobain fino a pochi giorni prima dell'assurdo suicidio l'8 aprile 1994. Lo accompagna sul set di Mtv, al concerto di Roma il 4 marzo, quando ormai il cantante è avviato alla tragica fine, piegato dalla droga e dalla depressione, inseguito da fantasmi che nessuno è mai riuscito a capire, neppure leggendo le sue lettere contorte e ansiose. Le immagini più belle e autentiche sono però i ritratti. Kurt era un istrione, amava posare davanti all'obiettivo, memore del suo essere intimamente punk ogni tanto si tingeva i capelli di colori improbabili e con gesti di estrema timidezza affondava le mani dentro ampi maglioni di lana, a proteggersi con mosse civettuole. Memorabile lo scatto di Lavine in bianco e nero, seduto al contrario, appoggiato sullo schienale, oppure il tenero abbraccio con Courtney. Dalle foto di Peterson emerge invece una normalità di fondo, per un ragazzo poco più che ventenne forse travolto dal troppo successo, mai capace di fare pace con se stesso e con le proprie infelicità. Non so quanto la storia di quegli anni abbia inciso sulla tristezza di fondo dei loro caratteri. Chris Cornell ha aspettato tanto, poi se ne è andato anche lui. Layne Staley non ha retto all'eroina, mentre Eddie Vedder continua a suonare nei Pearl Jam un rock sempre più classico e Dave Grohl ha affrontato una seconda vita dopo i Nirvana con i muscolari Foo Fighters. Dicevamo la storia, di ragazzi travolti dalla fine delle grandi ideologie, ripiegati in un privatissimo minimalismo, per un mondo che non aveva più bisogno di eroi e che nella figura del loser il perdente - aveva trovato una nuova inquietante narrazione. Stagione brevissima che del rock ha così concluso l'età dell'oro. Qualcuno insiste sia meglio bruciare in fretta che consumarsi lentamente, altri insistono, hanno superato i settanta e continuano a pubblicare dischi memorabili: si chiamano Iggy Pop, Neil Young, Bob Dylan e noi abbiamo ancora tanto bisogno di loro.

·        26 anni dalla morte di Aldo Braibanti.

La “strega” Braibanti: arrestato per plagio solo perché omosessuale. Lanfranco Caminiti su Il Dubbio il 17 settembre 2020. L’intellettuale, poeta e amico di Pasolini e Carmelo Bene fu processato nel ’68 con l’accusa assurda e del tutto infondata di aver “corrotto” due ragazzi. Arriva all’Orto Botanico di Roma – venerdì 18 settembre, ore 12 – per la XIV edizione del SalinaDocFest, festival del documentario narrativo, il film Il caso Braibanti, di Carmen Giardina e Massimiliano Palmese, appena reduce dal Premio del Pubblico “Cinema in piazza” al Pesaro-DocFestival di agosto. Nel 1968 Aldo Braibanti fu processato per plagio. «Chiunque sottopone una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione, è punito con la reclusione da cinque a quindici anni». Così recitava l’articolo 603 del codice penale. Fascista. Era stato il legislatore fascista a introdurre per la prima volta il reato di plagio, e ancora nel 1961 la Corte di Cassazione si era espressa in merito, definendolo: «L’instaurazione di un rapporto psichico di assoluta soggezione del soggetto passivo al soggetto attivo». Era un terreno scivoloso, questo del rapporto psichico. Tanto scivoloso che in realtà non era mai stato usato, quell’articolo del codice penale. Lo usarono per Aldo Braibanti, che – lo si vede nel film – anni dopo in un’intervista disse: «Qualunque siano gli strumenti accusatori che si utilizzano per mettere in moto un’accusa di plagio, l’accusa è sempre fondamentalmente politica, perché riguarda essenzialmente i rapporti tra il privato e il sociale». Quello, quindi, fu un processo politico. Come dice nel film il nipote Ferruccio: «Fu un processo a una condizione di vita che non poteva essere accettata da una cultura clericale, perché veniva messa in discussione non la famiglia ma l’autorità della famiglia, non lo Stato ma l’autorità dello Stato». Aldo Braibanti era nato nel 1922 a Fiorenzuola d’Arda, nel piacentino, figlio di un medico condotto, in una famiglia illuminata, laica. Frequenta il liceo a Parma, eccellendo, e per questa eccellenza gli viene perdonato un volantino in cui invita studenti e cittadini a ribellarsi al fascismo, poi l’Università a Firenze. Nel 1940 aderisce clandestinamente al movimento “Giustizia e Libertà” e poi nel 1943 al Partito comunista. È arrestato due volte, la prima nel 1943 e la seconda nel 1944. È torturato, brutalmente, dalla famigerata banda Koch- Carità. Dopo la Liberazione, lavora alacremente con il Partito comunista. Nel 1947 però si dimette da ogni incarico e declina ogni invito – «Non è un addio ma un congedo», scrive. Abbandona la politica attiva, vira tutti i suoi interessi sul piano culturale e su quello naturale: la sua curiosità verso il mondo delle formiche diventa molto di più che un hobby. Nel torrione Farnese di Castell’Arquato, sempre nel piacentino, mette in piedi un laboratorio – vi partecipano anche Renzo e Sylvano Bussotti – che è insieme produzione artistica, ceramiche, collages, testi poetici e teatrali, e comunità di vita. Ci arriva anche Carmelo Bene, che lo ricorda così, in un suo libro di memorie: «Un genio straordinario. M’insegnò con quella sua vocetta a leggere in versi, come marcare tutto, battere ogni cosa. Gli devo questo, tra l’altro. Non è poco». Quando l’amministrazione comunale non rinnova il contratto d’affitto del torrione, la comunità si disperde. Braibanti va a Roma. È il 1962. A Roma, Braibanti ci va con Giovanni Sanfratello. Appena ragazzo, 19 anni, Giovanni ha frequentato il laboratorio di Braibanti. Ora, di anni ne ha 24, è uomo fatto. Braibanti e Giovanni vivono insieme. Giovanni, in rotta da una famiglia molto tradizionalista ( suo fratello fonderà un movimento lefebvriano), ha trovato in quell’animatore culturale pieno di idee e progetti artistici, uomo schivo eppure colmo di passioni civili, un compagno di vita. Braibanti e Sanfratello sono una coppia omosessuale. A Roma possono esserlo un po’ più apertamente, ma non certo ostentatamente: essere omosessuali è ancora uno scandalo. Entrano in contatto con la società intellettuale del tempo, Braibanti scrive sceneggiature per film di cui solo alcuni vedranno la luce, lavora per la radio, non perde i contatti con il mondo di provenienza: con un giovanissimo Bellocchio lavorano al progetto d’una rivista, sarà «Quaderni piacentini», culla dei pensieri del ’ 68. Nel 1964, i primi di novembre, Giovanni Sanfratello viene letteralmente rapito dal padre, “trasferito” prima a Modena in una clinica privata per malattie nervose, poi al manicomio di Verona – la madre voleva portarlo da Padre Pio che gli aveva salvato l’altro figlio, in un “miracolo” che lo aveva fatto diventare da comunista un reazionario. In manicomio, Giovanni ci resterà per quindici mesi, uscendo nella primavera del 1966, sottoposto a cure durissime di elettroshock, e quando sarà dimesso non potrà allontanarsi dalla casa paterna. Avrà altri obblighi, tra i quali quello non poco bizzarro di non leggere libri che abbiano meno di cento anni. Questa è la psichiatria del tempo. Sanfratello padre aveva intanto presentato denuncia contro Braibanti: plagio. Un pubblico ministero, il procuratore Loiacono, gli aveva dato ascolto. Il 5 dicembre 1967 Braibanti entra a Regina Coeli. Fu un processo politico che spaccò l’Italia. Un’Italia che si stava affacciando all’Europa, al mondo, in un impeto di modernizzazione sull’onda di nuovi movimenti sociali, culturali, artistici e che si vedeva trascinata in un “processo alle streghe” di secoli prima. Braibanti è condannato a nove anni, pena che gli viene diminuita di due per la sua attività nella Resistenza, e un anno dopo, in appello sarà ridotta a due, quelli che sconterà in carcere. Al processo, Giovanni Sanfratello, pur provatissimo, non accusa il suo compagno. Ci fu l’ampia mobilitazione di un vasto mondo intellettuale – e i radicali di Pannella si impegnarono, la sinistra invece reagì tardi e lenta. Gabriele Ferluga, ne Il Processo Braibanti, scrisse: «Il caso Braibanti fu uno dei terreni di scontro fra le forze allora in campo, la contestazione ai valori dominanti e la reazione a chi si sentì messo in discussione. Era la reazione istintiva e violenta di un’Italia benpensante contro ogni anticonformismo e in particolare contro il fantasma dell’omosessualità». Nel documentario ripercorrono la vita di Braibanti il nipote Ferruccio, insieme a Piergiorgio Bellocchio, Lou Castel, Giuseppe Loteta, Dacia Maraini, Maria Monti, Elio Pecora, Stefano Raffo, Alessandra Vanzi. Le foto d’archivio messe a disposizione dalla famiglia Braibanti, i video d’arte girati dallo stesso artista e del tutto inediti, i film sperimentali di Alberto Grifi, e le scene tratte dal testo teatrale di Massimiliano Palmese, tutto contribuisce a restituirci una fotografia vivida e inquietante del nostro passato recente. Come dice Alessandra Vanzi, mostrando delle immagini: «C’è Aldo che abbraccia Patrizia Vicinelli, sorridono, un’atmosfera di felicità e allegria. Questo accadeva prima».

·        26 anni dalla morte di Moana Pozzi.

Livia Grossi per il “Corriere della Sera” il 27 giugno 2020. Sarà «davvero Moana Pozzi la donna con cui sto parlando? Le assomiglia troppo per non essere lei! Ma no che dico, è impossibile che una pornostar sia in grado di fare un'analisi così acuta su potere, politica e arrivismo». Sono questi i pensieri che quella notte scuotono la mente del giornalista alla caccia del suo articolo-rivelazione sulla misteriosa morte dell'attrice. È questo il nodo centrale di Settimo senso, il monologo di Ruggero Cappuccio interpretato da Euridice Axen. Un dialogo immaginario tra un morboso cronista e una bellissima donna che lo spiazza con le sue armi più affilate, intelligenza e seduzione. Una sfida all'ultimo sangue dal finale sospeso che costringerà l'uomo a scegliere: corteggiare quell'affascinante creatura o tradirla con uno scoop. Per indagare sull'universo femminile e sui limiti di chi lo osserva e lo giudica Cappuccio firma un testo dove dubbi e sensazioni contrastanti sono al centro della scena. A dirigerlo una regista da anni al suo fianco, Nadia Baldi. «Mi sono sempre occupata di temi urgenti che riflettono su costrizioni famigliari e sociali - afferma l'artista -, qui si esplora il paradigma della donna oggetto ragionando tra identità, media e stereotipi. Un'ottima occasione per analizzare lo sguardo maschile e le sue storture». Alla base dell'opera dunque la feroce strumentalizzazione dell'immagine femminile, ma anche la capacità di irretire e conquistare l'uomo in poche mosse. Per sottolineare la finezza intellettiva e l'irresistibile charme della protagonista, Nadia Baldi sceglie di avvolgere la sua Moana in un imponente costume-scenografia, lo strumento ideale per passare velocemente dal ruolo di icona sexy a gelida donna dalla lucidità spiazzante, implacabile nell'affondare la lama sulle questioni più scomode. «Sul palco la nostra eroina appare come una visione, da un parte è il simbolo della donna-merce, dall'altro una sorta di Madonna, un Cristo sulla croce, emblema di una provocatoria beatificazione». Con un linguaggio poetico in cui «alto» e «basso» si alternano creando una comunicazione diretta ed emozionale, in scena un testo in cui le diverse sfaccettature dell'universo femminile scatenano sensibili riflessioni: «Negli anni 80 e 90 quando Moana era una diva all'apice della sua notorietà ero molto giovane - dice la regista - ma ricordo bene quanto era forte la sua immagine di donna libera, capace di essere tutto ciò che desidera. L'ho sempre considerata una pornostar evoluta che ha saputo vivere la sua professione senza mai tradire se stessa e ciò che sentiva. La sua esperienza di vita credo che ancora oggi abbia molto da insegnare. Nel mondo del lavoro quando ci confrontiamo con il pianeta maschile tutte noi sappiamo quanto sia necessario dimostrare sempre una volta in più le nostre capacità. Questo spettacolo vuole essere anche questo, un manifesto sulla libertà individuale delle donne, ma anche una riflessione su tutti gli assurdi tabù che ancora oggi vivono nel nostro tempo, dal razzismo alle discriminazioni di ogni tipo». Infine in un Festival dove il tema centrale è la Paura e il Coraggio, sveliamo il significato di quel Settimo senso che dà il titolo allo spettacolo: «Si riferisce a una capacità altra rispetto ai cinque sensi che tutti noi conosciamo, qui si parla di sincronia, empatia e soprattutto di sensazioni, l'unico vero linguaggio che abbiamo per comunicare».

Renzo Parodi per calciomercato.com il 6 aprile 2020. A riposo forzato per mancanza di partite, i nostri giornalisti inviati di Centesimo minuto in queste settimane mettono a disposizione la loro esperienza e i loro vissuti con una serie di articoli legati a situazioni di cui sono stati Testimoni oculari. Scoccò la mezzanotte e come una Cenerentola rivisitata in salsa erotica Moana Pozzi apparve nel grande salone gremito della villa sulla Cassia sede della Agenzia “Diva Futura” del manager Riccardo Schicchi. La festa per l’elezione al Parlamento di Ilona Staller, alias Cicciolina, eletta con ventimila preferenze nelle file del partito Radicale di Marco Pannella, si era aperta da un paio d’ore e l’attico elegante brulicava di giovani donne in abiti succinti, pornostar e aspiranti tali, giovanotti palestrati, fotografi e il tipico sottobosco di quel genere romano che vive appeso al glamour, più o meno elegante, che ruota attorno al mondo dello spettacolo. Tutto quel brulicare di persone scomparve all’istante e si fece improvvisamente silenzio nel momento in cui la bellissima dea del porno apparve fendendo la folla come Mosé nell’attraversare il Mar Rosso spalancato davanti si suoi passi. Assai più spregiudicatamente del profeta ebraico Moana avanzava sorridendo radiosa, consapevole che gli sguardi di tutti, uomini e donne, si erano posati su di lei. Li attirava come una chiave di ferro attira una calamita. La osservai incedere, pareva una creatura soprannaturale, i capelli biondissimi sparsi sulle spalle nude, fasciata in un abito rosa chiaro, il colore della pesca matura, che le aderiva addosso come una seconda pelle, segnandole maliziosamente le curve. Il party di fatto si sciolse, ciascuno dei presenti si immerse in crocchi silenziosi, i bicchieri smisero di volare dal bar alle mani degli invitati, la musica divenne un brusio di sottofondo. Era l’inizio dell’estate del 1987, da pochi mesi ero stato promosso inviato dal Secolo XIX, il quotidiano genovese dove avevo cominciato a lavorare sette anni prima. Quel servizio politico a Roma per me era una sorta di battesimo del fuoco. Ero riuscito, non ricordo come, ad incollarmi a Pannella e a Cicciolina, li avevo seguiti nei giorni delle elezioni. Il 2 luglio la diva erotica venne proclamata deputato nella X Legislatura: erano le ultime elezioni prima del tornado di Mani Pulite che avrebbe spazzato via la prima Repubblica, ovviamente nessuno allora lo sapeva. Cicciolina era stata una intuizione mefistofelica di Marco Pannella, che ne aveva intuito la carica protestataria e provocatoria che circolava nel Paese. E lei, l’ammiccante gattina che girava film oseé ridondante di improbabili pizzi, volants e coroncine di fiori, aveva accettato di sostenere i temi cari al partito della Rosa nel pugno: antinucleare, difesa dei diritti, antiproibizionismo in fatto di stupefacenti, libero amore, pace nel mondo, educazione sessuale a scuola, campagne di informazione sull’Aids. Moana, sua partner a Diva Futura e in alcuni film erotici girati da Schicchi, si era tenuta alla larga dall’agone politico. Ci sarebbe entrata cinque anni dopo, subentrando a Cicciolina nel Partito dell’Amore, senza peraltro ottenere successi elettorali paragonabili all’exploit della collega. Torno alla serata sulla Cassia. Non erano trascorsi molti minuti dalla sua trionfale epifania e mi ritrovai da solo di fronte a Moana sulla vasta terrazza che dava sui pini marittimi. Vista da vicino Moana appariva ancora più bella che in fotografia. Gli occhi verdi, il sorriso dischiuso sulle labbra piene, l’atteggiamento naturale di una pantera. Una “fimmina”, l’avrebbe definita Camilleri, “da far firriare la testa a qualunque anima criata masculina”.  La sorpresa fu che dietro quell’aspetto che emanava sensualità ed erotismo si nascondeva una testa di prim’ordine. E una personalità spiccatissima. Cominciammo a chiacchierare appoggiati alla balaustra della terrazza. Parlammo della sua infanzia, del padre ingegnere nucleare, degli anni dell’infanzia trascorsi a Genova. A tredici anni il lavoro del padre l’aveva condotta prima in Brasile e in Canada e infine in Francia, a Lione, la città in cui Moana avrebbe vissuto i suoi ultimi giorni di vita, appena sette anni più tardi di quella serata romana. Una coincidenza che oggi mette i brividi addosso: “Genova mi stava stretta anche da ragazzina – mi confidò – Una città grigia, severa. Io amavo, io amo la vita e non riuscivo ad adattarmi. Dopo le parentesi all’estero a 19 anni lasciai la famiglia”. Mi ricordò di non aver intrapreso immediatamente la carriera di star del sesso. Nel suo curriculum infatti figura la scuola di recitazione diretta da Alessandro Fersen e persino un programma per bambini su Rai2, “Tip Tap Club” dell’82. La cacciarono appena scoprirono che sotto un nome d’arte stava girando film erotici. Non uscì del tutto dal circuito normale e ufficiale della Tv, nell’88 avrebbe presentato un programma di critica televisiva: “l’Araba Fenice”, avvolta solo da una pellicola di cellophane. Successivamente ancora tv su Italia1, apparizioni su Blob di Giusti e Ghezzi col cartoon a lei dedicato “Moanaland” e infine sulla passerella in carne ed ossa, sfilando come modella per le collezioni di Chiara Boni. Tutte le sue performance, dopo quel nostro casuale rendez vous, avrebbero confermato la mia sensazione che ci fosse ben altro che labbra e curve dietro quel corpo statuario. La carriera per la quale Moana è passata alla storia resta naturalmente il cinema hard. 44 pellicole girate senza veli e senza limiti di audacia. Protagonista ed esibizionista come si conviene ad un’attrice tout court." La gente pensa che io lo faccia per denaro – mi disse – ma non è questa la vera ragione. Io amo il sesso, mi piace fare l’amore e mi piace farlo con tanti uomini diversi. L’amore è la vita stessa”. Moana non era affatto un nome d’arte, all’anagrafe risultava Anna Moana Rosa Pozzi. Moana è un nome polinesiano, significa: “Là dove l’acqua è più profonda”. Nonostante tutto anche quel nome che suonava armonioso, quasi una promessa di carnali delizie, ebbe una parte nella sua fortuna. Una fortuna sfacciatamente cercata perché Moana non era tipo da mezze misure. Standole accanto provavo un filo di imbarazzo. Era alta quanto me però issata su un paio di scarpette con i tacchi a spillo mi sopravanzava di quasi un palmo. Ricordo di aver pensato che anche la statura e il fisico da amazzone (“il seno è naturale”, puntualizzò con un sorriso birichino) avevano contribuito alla sua fortuna come pornostar. Accanto a lei, la vezzosa, perennemente ammiccante Cicciolina, che recitava con puntiglio la sua parte di oggetto del desiderio, faceva la figura della sorellina minore. Una sorella Moana l’aveva, di due anni più giovane, anche lei battezzata con un nome esotico, Maria Tamiko, detta Mima. Si cimentò anche col porno, con scarsa fortuna. Non ricordo quanto riportai di quella conversazione nel pezzo che il giorno dopo scrissi per il mio giornale. Non tutto, immagino. Mi sembrava di violare il segreto che si era magicamente formato tra noi in quella mezz’ora trascorsa vis a vis. Non eravamo stati il giornalista e la regina del porno, eravamo stati un uomo e una donna, in vena di confidenze. Qualcosa di me probabilmente le avevo confidato, con parsimonia genovese e sono certo che lei, genovese come me, avrà compreso quella ritrosia. Le parole spesso sono il vestito per coprire l’indicibile. A volte invece diventano la porta dell’anima. Restai di sasso nell’apprendere della scomparsa di Moana, avvenuta il 15 settembre 1994 a Lione. Una malattia crudele e senza scampo l’aveva spezzata. Aveva 33 anni. Dopo la sua morte fiorirono leggende e speculazioni infami. Si disse che Moana non era affatto morta, che si nascondeva in qualche angolo del mondo, chissà perché. Un destino straziante comune ad altri divi, come Elvis Presley. Purtroppo era davvero morta e il marito anni dopo mostrò in tv il suo certificato di morte. Il corpo che aveva acceso i sogni erotici di milioni di uomini era stato cremato e le ceneri riconsegnate alla famiglia che verosimilmente le aveva inumate nella toma di famiglia del cimitero di Lerma, pese di origine della madre, nel basso Piemonte ai confini con la Liguria. La morte cancella i peccati e la terra le sarà certamente lieve.

·        25 anni dalla morte di Carlos Monzon.

Carlos Monzon a 25 anni dalla morte: la vita come un ring, dalle sfide con Benvenuti all’assassinio della moglie. L’argentino, uno dei più grandi pesi medi della storia, morì in un incidente di auto mentre stava rientrando in carcere da un permesso. Dopo la grande carriera, un’esistenza di eccessi ed errori culminata con l’assassinio della quarta moglie nel 1988. Fiorenzo Radogna l'8 gennaio 2020 su Il Corriere della Sera.

Picchiatore nato. Il futuro campione del mondo dei pesi medi era nato a San Javier il 7 agosto del 1942, sesto dei dodici figli di Roque Monzón e di Amalia Ledesma. Dopo aver rischiato la morte a causa del tifo e malgrado il pessimismo dei medici, il bimbo brevilineo e compatto riesce a sviluppare un fisico resistente ed elastico che sarà in grado di supportarlo per decenni di carriera pugilistica ai massimi livelli mondiali. Intanto da ragazzino non va a scuola: ruba e lavora da lustrascarpe per «alzare» un po’ di pesos. E picchia tutti: amici, nemici.

Freddo e feroce. Assistito dal fido Amilcar Brusa, gli inizi da dilettante saranno travolgenti. Così a 21 anni arriva il passaggio al professionismo. Prima borsa: 3000 pesos. Monzon non avrebbe mai avuto una tecnica raffinata o uno stile pugilistico impeccabile. Asciutto e senza concessioni allo spettacolo, con un corpo da incassatore, era dotato di un allungo che usava come vera arma segreta, unita a un pugno pesante e precisissimo. Caratterialmente (solo sul ring) era tranquillo e determinato, quasi freddo. Come peso medio era alto (181 cm); peso forma 72,574 kg.

Le epiche sfide con Benvenuti. Conquistato il titolo del Sudamerica dei medi, il 7 novembre 1970 Monzon sfida a Roma Nino Benvenuti per il titolo mondiale dei pesi medi e vince per k.o. alla dodicesima ripresa grazie a un terrificante gancio destro alla mascella dell’italiano. In patria Monzon è salutato come eroe da oltre 200mila persone. Sei mesi dopo sul ring di Montecarlo la rivincita sancisce per sempre la superiorità di Monzon: l’argentino vince al terzo round per getto della spugna mentre Benvenuti si infuria con il suo angolo per la decisione. Dopo quel match, però, uno dei più grandi pugili italiani deciderà di abbandonare definitivamente la boxe.

Tredici difese: un record. Monzon affronterà altre tredici difese della cintura: un record nella categoria. E vincerà con tutti: il leggendario Emile Griffith; poi i vari Briscoe, Nápoles, Tonna... Nella memoria restano soprattutto i due incontri contro il colombiano Rodrigo Valdéz. Dopo l’ultimo — è il 30 luglio 1977 — Monzon annuncia il ritiro. E non tornerà più.

Un attore che picchia sul serio. Sceso dal ring, Carlos ci proverà con il cinema. Proprio come quello che rimarrà fino alla fine un suo grande amico, Nino Benvenuti. A Roma nel 1977 gira il modesto western all’italiana, dal titolo: «El macho». Una curiosità: nel corso delle riprese che prevedono, ovviamente, scazzottate a go go, Monzon, incapace di fingere, manderà al’ospedale più di uno stuntman che recitava la parte del bandito...

Tre mogli e quattro figli. Fascinoso e famoso, Carlos è una calamita per le belle donne, con cui instaura relazioni tormentate. E infatti arrivano le prime notizie di violenze private. Monzon dimostra un affetto smisurato solo per i suoi figli. I primi tre sono quelli avuti da Mercedes — la prima delle sue tre mogli —. La stessa che, impazzita di gelosia, gli spara quando lui le confessa la relazione con Susana Giménez, «la Brigitte Bardot del Sud America». Il quarto figlio Monzon lo avrà da Alicia Muñiz, modella uruguaiana.

L’assassinio della moglie e il carcere. Dopo un violento litigio nella notte di San Valentino del 1988 Monzon strangola Alicia Muñiz. La polizia trova il campione in lacrime. Carlos viene così condannato a undici anni di carcere ma, dopo sette di buona condotta e l’intervento di amici celebri, riceve la promessa di libertà vigilata entro il 1995. Una libertà di cui non farà in tempo a godere...

Nella cultura popolare. La sua aura da «maledetto» non poteva non segnare la cultura popolare a lui contemporanea. È citato nella canzone «Nuntereggae più» di Rino Gaetano, da Terence Hill nel film «Pari e dispari» e addirittura da Woody Allen in «Provaci ancora, Sam» (dove il protagonista ammette di ispirarsi a Monzon quando fa l’amore). E poi ancora da Renato Pozzetto, Francesco Pannofino, Enrico Montesano. A lui è dedicata la fiction su Netflix dal titolo «Monzon — A knockout blow», che ripercorre la sua storia.

·        25 anni dalla morte di Goliarda Sapienza.

Goliarda Sapienza scelse la cella per fuggire all’ergastolo metropolitano. Ritratto della scrittrice. Damiano Aliprandi l'11 gennaio 2020 su Il Dubbio. Attrice, poetessa e scrittrice politica, speculativa, struggente, visionaria e difficilmente etichettabile. Parliamo di Goliarda Sapienza e sembra già un nome d’arte. Quando nasce a Catania nel 1924, la madre ha già cinquant’anni, ed entrambi i genitori vedovi, lei con sette figli, lui con tre, si sono uniti liberamente. Il padre Giuseppe, avvocato, è tra i principali animatori del socialismo siciliano (il quale soleva dire che era «meglio un colpevole libero di un innocente in carcere» ), la madre, Maria Giudice, figura storica della sinistra italiana, è la prima donna a dirigere la Camera del Lavoro di Torino. Goliarda viene fatta studiare in casa perché il padre vuole evitarle la scuola fascista. Grazie ad una borsa di studio, a sedici anni, frequenta a Roma l’Accademia d’Arte Drammatica e, per alcuni anni, interpreta con successo in teatro ruoli pirandelliani. Si lega al regista Citto Maselli, e recita in vari film, diretta da registi come Blasetti e Visconti. Si dedica poi completamente alla scrittura e pubblica vari libri, tra cui Lettera aperta’( 1986), Le certezze del dubbio (1987) e L’università di Rebibbia (1983). Quello più importante, cui dedica nove anni di vita, dal 1967 al 1976, riducendosi in povertà, tanto da finire in carcere, è L’arte della gioia dove affrontò argomenti ritenuti fastidiosi come la libertà sessuale, la politica, la famiglia e la storia. Per questo il libro ricevette una serie di rifiuti da parte degli editori italiani e venne pubblicato postumo nel 2000, riscuotendo inizialmente indifferenza, poi enorme successo di critica. Il carcere è uno «sconosciuto pianeta che pure gira in un’orbita vicinissima alla nostra città. Di questo pianeta tutti pensano di sapere tutto esattamente come la Luna senza esserci mai stati. Perché chi ha avuto la ventura di andarci, appena fuori si vergogna e ne tace o, chi non se ne vergogna s’ostina a considerarla una sventura da dimenticare». Sono queste le parole di Goliarda Sapienza che ci introducono nella città penitenziaria vista dai suoi occhi e raccontata nel suo libro “L’università di Rebibbia”. Un punto di vista a cui non si è abituati perché mostra il mondo del penitenziario come una salvezza per quello che la scrittrice chiama “ergastolo della metropoli”. Con questa lunga descrizione, infatti, la scrittrice prende le distanze dalla società che l’aveva messa all’indice e reclusa; «sono da così poco sfuggita all’immensa colonia penale che vige fuori, ergastolo sociale distribuito nelle rigide sezioni delle professioni, del ceto, dell’età, che questo improvviso poter essere insieme – cittadine di tutti gli stati sociali, cultura, nazionalità – non può non apparirmi una libertà pazzesca, impensata». Pare che Goliarda avesse commesso un reato proprio per finire in carcere. D’altronde proprio la madre – che aveva fatto la storia politica femminile dell’Italia, all’inizio del ‘ 900 – finì in carcere per causa politica: era solita dire che se nella vita non si conosceva l’esperienza carceraria o il manicomio non si poteva dire di aver vissuto realmente. Si presume, quindi, che Goliarda abbai voluto seguire questo insegnamento. Resta il fatto oggettivo che il reato lo aveva compiuto anche per necessità, visto che era arrivata al punto di non riuscire più a pagare l’affitto. Nel capo d’accusa per ricettazione aggravata di preziosi, falsificazione di documenti e sostituzione di persona non ci fu però nulla di romantico. Goliarda Sapienza aveva 55 anni quando fu portata a Rebibbia, con alle spalle un vissuto già consolidato eppure, nel microcosmo carcerario, tutto le appare nuovo; sentimenti, persone, oggetti. Da nove anni a questa parte, esiste il “Premio Goliarda Sapienza”, non a caso un concorso letterario rivolto alle persone detenute, con il coinvolgimento diretto di grandi scrittori e artisti nelle vesti di tutor. Goliarda morirà a Gaeta il 30 agosto del 1996. Sulla sua lapide, c’è una sua poesia, un testamento, un’eruzione vulcanica: Non sapevo che il buio non è nero che il giorno non è bianco che la luce acceca e il fermarsi è correre ancora di più.

·        25 anni dalla morte di Arturo Benedetti Michelangeli.

Katia Ippaso per “il Messaggero” il 14 maggio 2020. Lugano, 12 giugno 1995. Il giorno del funerale di Arturo Benedetti Michelangeli, da molti considerato il più grande pianista italiano, c'erano quattro sacerdoti, i parenti più stretti, i suoi colleghi Maurizio Pollini e Martha Argerich. Nessun clamore mediatico. Niente applausi fuori dalla chiesa. «Morì con un crocifisso e un libro, il De Imitatione Christi, che si dice gli fosse stato regalato da Papa Roncalli» scrive Roberto Cotroneo nel suo ultimo libro, Il demone della perfezione attualmente disponibile in formato Kindle (Neri Pozza), dal 21 maggio in libreria con una sua copertina sobria che trattiene il profilo di Benedetti Michelangeli. Cotroneo, scrittore e giornalista, diplomato al Conservatorio di Alessandria, 25 pubblicazioni in attivo, tre delle quali dedicate agli innesti tra letteratura e musica (Per un attimo ho dimenticato il mio nome, romanzo su un quartetto d'archi che esegue La Grande Fuga di Beethoven, Chiedimi chi erano i Beatles. Lettera a mio figlio sull'amore per la musica, E nemmeno un rimpianto. Il segreto di Chet Baker, tutti editi da Mondadori), ha dedicato l'ultimo anno della sua vita a un libro che non è né saggio musicologico né opera di pura finzione narrativa: è un'opera snella e al tempo stesso densa, ritmicamente fluida, che si può leggere tutta d'un fiato oppure a piccole dosi che ti fanno entrare con rispetto e devozione nel mondo segreto di Arturo Benedetti Michelangeli.

L'ASCESI. Sono passati 25 anni dalla morte del più ascetico tra i pianisti, e 100 dalla sua nascita, avvenuta a Brescia il 5 gennaio del 1920. All'inizio de Il demone della perfezione, viene descritto un bambino di 6 anni che si esibisce in una sala di concerto della sua città natale. È il 10 dicembre del 1926. «Già allora il pianista aveva un atteggiamento distaccato e controllato, uno sguardo distante dalle cose del mondo», scrive Roberto Cotroneo, che ha tenuto in incubazione questo suo libro per molti anni. «È una figura alla quale penso da sempre». Un uomo antico, ma anche un uomo non antico, Arturo Benedetti Michelangeli. Nella descrizione che ne fa lo scrittore 59enne, il celebre pianista viene colto nelle sue contraddizioni. Si mettono a fuoco le sue idiosincrasie («Non amava Horowitz: tanto l'altro era cosmopolita, tanto lui era riservato, in un certo qualche modo provinciale, di certo non intellettuale. Non potevano capirsi, si evitavano») e i suoi proverbiali furori. Non si contano le volte che fece saltare i concerti all'ultimo minuto. Nella ricerca di una sonorità pura e incontaminata, era capace di accorgersi di qualunque difetto, seppure impercettibile, della sala e dello strumento. «Eppure ebbe le sue passioni moderne. Era un uomo allegro e spericolato, distratto e curioso. Ma il suono no, quello era sacro, nel senso vero e proprio del sacrificio. Una volta disse, in una rarissima intervista concessa a Giorgio Bocca: Il mago fa tutto con la bacchetta, io invece sono uno che si rompe di lavoro: devo lavorare sodo. Occorre lavorare con passione, poi si parlerà di arte e di genio».

LE IMMAGINI. Le foto che siamo abituati a vedere ritraggono quasi sempre un uomo vestito di nero, che non muove un sopracciglio durante l'esecuzione e non sorride mai agli applausi. Cotroneo, che è anche fotografo (il 28 maggio una sua mostra dal titolo Nel teatro dell'arte verrà inaugurata al Palazzo Reale di Milano), abbozza l'esegesi di quegli scatti, nel tentativo di sfiorare il lavoro che fa l'anima del pianista quando suona. Arturo Benedetti Michelangeli concepiva non solo la musica ma anche la vita stessa come uno strumento di ascesi. «Soprattutto era un uomo generoso» ci racconta l'autore. «Al suo commercialista aveva detto: lasciami quello di cui ho bisogno per vivere, il resto lo darò in beneficenza. E così fece». Uomo antico e uomo moderno, Arturo Benedetti Michelangeli, che solo una ristretta cerchia di amici era autorizzata a chiamare con il soprannome, Ciro (da Cirillino, personaggio del Corriere dei Piccoli). Personalità refrattaria ad ogni maldestra sintesi, pare che si divertisse a inventarsi identità diverse: «Una volta raccontò, davanti a una cinquantina di persone, di aver vinto il Giro di Lombardia in bicicletta. Era una sua fragilità quella di voler essere anche altro», scrive Cotroneo. Nota la sua passione per le Ferrari: «Molti raccontano quanto ABM fosse spericolato nella guida, e mettersi al volante della sua Ferrari e andare a velocità terrorizzanti era per lui un modo per scaricare la tensione». Un po' meno nota è la storia d'amore clandestina nella sua vita senza scandali con Marisa Bruni Tedeschi, anche lei pianista, madre dell'attrice e regista Valeria e di Carla, moglie dell'ex presidente francese Nicolas Sarkozy. Sposato con Giuliana Linda Guidetti, che conobbe a sei anni, in occasione del suo primo concerto, Benedetti Michelangeli si legò poi ad Anne Marie José Gros-Dubois, molto più giovane di lui, che era stata la sua segretaria. Nel libro si narra che fu proprio Anne Marie a telefonare una sera a Marisa Bruni Tedeschi: «Lui non può più suonare, pensa solo a lei. La prego di chiamarlo». «Sulla vicenda non ho voluto dire altro perché non mi interessava il gossip» spiega l'autore, che afferma di aver letto della storia d'amore nell'autobiografia che la pianista ha pubblicato nel 2017, Care figlie vi scrivo. Cotroneo non ha mai visto il suo mito suonare dal vivo. D'altro canto, Arturo Benedetti Michelangeli andò presto via dall'Italia, trasferendosi prima a Zurigo e poi a Lugano. Tornò nel suo Paese solo nell'estate del 1987, per tenere un concerto alla Sala Nervi, in Vaticano. «È vero, non l'ho mai visto suonare. Il suo ultimo concerto, del 1993, fu eseguito ad Amburgo. Ma continuo ad ascoltarlo. È difficile per me separarmene» conclude Cotroneo. «La Ballata n.1 in Sol minore opera 23 di Chopin, e Gaspard de la Nuit di Maurice Ravel, due dei suoi capolavori, sono sempre con me».

·         25 anni dalla morte di Mia Martini.

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” l'1 marzo 2020.

Perché, se c'era così tanto affetto nei suoi confronti, nessuno è riuscito a salvarla?

Perché negli anni dell' orribile ostracismo (si diceva portasse iella), molti di quelli che oggi ne celebrano le straordinarie doti umane e musicali non sono riusciti a fermare il rito tribale e persecutorio della maldicenza?

A 25 anni dalla scomparsa di Mia Martini, 12 maggio 1995, Rai3 ha dedicato alla cantante un docufilm di Giorgio Verdelli, un racconto a più voci, frammezzato da materiale di repertorio e guidato da Sonia Bergamasco: «Mia Martini, fammi sentire bella». I dubbi sulla sua morte restano (allora i referti medici parlarono di morte per una overdose di sostanze stupefacenti, forse un cocktail sbagliato per lenire i dolori di un fibroma), così come dovrebbe restare sempre aperto l' esame di coscienza nei confronti di un mondo, lo show business, che in quanto a spietatezza scala sempre tutte le classifiche. Le sorelle Loredana, Leda e Olivia, i nipoti Luca e Manuela, colleghi e amici, come Caterina Caselli, Renzo Arbore e Dori Ghezzi (in una tournée, scoprì sull' aereo che Mimì era in classe economica; s' impuntò e fece in modo che non fosse vittima di discriminazioni), gli autori che per lei hanno scritto canzoni senza tempo, hanno provato a raccontare la vita della grande interprete: dagli esordi agli inizi degli anni 70 segnati da successi come Piccolo uomo e Minuetto all' abbandono delle scene causato dalle ignobili dicerie sul fatto che portasse sfortuna, dal memorabile ritorno a Sanremo nel 1989 con Almeno tu nell' universo , fino alla sua morte, quando venne ritrovata sola nella sua casa vicino Varese. Il risarcimento postumo alla grande artista è un atto dovuto. Forse, però, si sarebbe potuto intervistare anche Aldo Nove che su Mimì ha scritto un libro di grande sensibilità che inchioda alla propria miseria morale tutti quelli che l' hanno perseguitata in vita. 

Morì il 12 maggio 1995, overdose di cocaina stabilì il medico legale. Ma sulla sua fine, come sulla sua vita, ci sono stati sempre chiaroscuri, alti e bassi. L'arresto per hashish e l'amore dei più grandi di sempre, il rifugiarsi dalla sorella Leda e il ritorno trionfante sulle scene. E quell'accusa di portare sfortuna che la perseguitò per anni...Carmine Saviano per repubblica.it - articolo del 12 maggio 2015. Nessuno risponde. Il campanello non smette di suonare, ma nessuno risponde. Nando Sepe, professione manager, tiene il dito incollato sul citofono, ma nulla. Eppure la Citroën verde di Mimì è parcheggiata lì fuori, all'esterno di quella palazzina di due piani in via Liguria 2, a Cardano del Campo, Varese. E in quella mattina del 14 maggio di venti anni fa, Sepe chiama la padrona di casa, si fa dare le chiavi di riserva. Ma la porta è chiusa dall'interno. Quando poche ore dopo i pompieri la sfondano, Mia Martini è stesa sul letto, le cuffie del walkman sulle orecchie.  "L'espressione serena", diranno. È morta da quarantotto ore. La notizia sbriciola i palinsesti televisivi. Renato Zero chiama Loredana Berté, la sorella di Mimì: "Spegni tutto, sto arrivando". I cronisti appostati sotto casa della Bertè ricordano ancora le urla. E, di ricordo in ricordo, dopo vent'anni nessuno ha dimenticato quella voce magnetica, dolce, scura, emozionante e quelle melodie che Mia Martini ha regalato alla musica italiana. A vent'anni dalla morte, l'universo di Mia Martini risplende ancora della sua luce originaria, viva e cupa insieme. Da poco arrivato nelle librerie, il tributo a Mimì si intitola "Mia Martini. Almeno tu nell'universo" (Salvatore Coccoluto, Imprimatur, 16euro) e contiene interviste inedite a Enzo Gragnaniello, Mimmo Cavallo, Adriano Aragozzini, Gianni Sunjust e Leda Berté, alcune delle figure cardine della vita e della carriera della Martini. Dai primi passi nello spietato business musicale ai primi successi fino all'abbandono della scena negli anni Ottanta, per poi tornare con la potentissima "Almeno tu nell'universo" presentata sul palco di Sanremo.  E ancora la riconciliazione con la sorella Loredana, la carriera in ascesa e poi la morte improvvisa. In contemporanea, la sorella di Mimì, Leda, ha lanciato un crowdfunding sulla piattaforma Indiegogo per realizzare un film sulla vita della cantante (il goal è di 30.000 euro): per la regia di Rossana Patrizia Siclari e organizzato da AuruMovie/Leveltrepuntozero, il film vuole essere "indipendente, diverso dalle commemorazioni e dai documentari, creato attraverso la testimonianza diretta della sorella maggiore". "Ci sarebbero pure 'sti due amici". Funzionava così: era la frase classica che completava una strategia infallibile. Roma, 1968, Loredana Berté in minigonna a chiedere l'autostop. E poi Mimì, con l'immancabile bombetta, quasi uscita da un film di Fellini, che con Renato sbucava sulla strada per prendere al volo il passaggio conquistato. Inseparabili, i tre. Cercavano di mettere su un gruppo musicale. Per la Martini, ventunenne, era già la fase due della carriera: aveva iniziato nei primi anni Sessanta. Un viaggio in treno da Ancona verso Milano, Etta James nel cuore, Carlo Alberto Rossi che le fa incidere i primi singoli. Poi i concerti sulla riviera romagnola, qualcuno con Pupi Avati alla batteria. Qualche piccolo successo, ma la carriera da ragazza ye-ye non decolla. Mimì sta per lasciare, inizia a lavorare al sindacato dei musicisti, ma la passione per la musica è troppo forte. Quella Roma le restituirà la voglia di continuare. Diventa amica di Roberta Ferri. Sperimenta con piccoli gruppi jazz. Sta per farcela. Poi in Sardegna, nel 1969, l'arresto per possesso di hashish e la condanna a quattro mesi di carcere. Le cambieranno la vita. Una dinamica maledetta di ombre e di luce, di pace e di dannazione, di sorrisi e di lacrime. La vita e la carriera di Mia Martini si sono sempre mosse tra gli estremi, saltando le vie di mezzo, i compromessi, la sciatteria, la mediocrità. Dopo l'arresto Mimì torna a Roma, sbarca a Civitavecchia in una giornata di pioggia. Entra in un bar, prende un cappuccino e inizia a berlo sotto il diluvio. E sorridendo decide di non rinunciare al suo sogno. Sceglie il jazz. Ritorna a essere "Domenica" (il suo nome completo è Domenica Rita Adriana Berté) e con il trio di Totò Torquati conquista il pubblico del Titan di via della Meloria, del Piper di via Tagliamento. L'occasione della vita le capita nel febbraio del 1971. Deve correre al Piper di Viareggio, c'è da improvvisare una serata. Il pubblico resta a ballare fino alle quattro di mattina. Alberigo Crocetta, proprietario del Piper e mentore di Patty Pravo, si offre di produrla. Mimì rifiuta una prima volta. Poi cede. "Dobbiamo cambiare nome però. Ci vuole un nome italiano riconoscibile nel mondo. Ho pensato a Martini", dice Crocetta. "Va bene: però mi chiamerò Mia, come Mia Farrow". La storia ha inizio. Gli anni Settanta saranno i suoi anni. Inizia a collaborare in modo stabile con Baldan Bembo, Bruno Lauzi, Claudio Baglioni. Con Franco Califano scatta l'alchimia musicale. C'è questa canzone, Minuetto, ma nessuno riesce a scrivere le parole giuste per Mia. Lei e Califano escono una sera a cena. Parlano tanto. E "il Califfo" ritorna il giorno dopo con un testo che sembra un pezzo pregiato di sartoria artigianale: perfetto per la Martini. "E vieni a casa mia, quando vuoi, nelle notti più che mai / dormi qui, te ne vai, sono sempre fatti tuoi". Nell'Italia dove maistream fa rima con piccolo-borghese le parole, il volto, l'immagine della Martini sono come un metallo pregiato, come un diamante: l'autenticità professata come valore assoluto. La sensibilità come guida. Talmente forte che le piccole, idiote e meschine armi che lo show business inventa per fermare la Martini diventano tanti colpi. Le dicerie sul suo "portar jella" iniziano allora. Non si fermeranno mai. Mimì prima ci sorride. Poi ci sta male. Crisi cicliche. Sempre più pesanti. "Una monomaniaca della musica": Mimì secondo Ivano Fossati, che con lei ha condiviso una pezzo importante di vita. A lei regalò "E non finisce il cielo", una delle canzoni d'amore più intense della musica pop italiana, con cui Mia Martini partecipò per la prima volta al Festival di Sanremo nel 1982 ottenendo il Premio della Critica, istituito in quell'anno appositamente per lei e a lei intitolato dopo la sua morte. Ironia della sorte, il premio attribuito non fu mai consegnato alla cantante e venne ritirato, postumo, dalla sorella Loredana Berté durante la serata finale del Festival di Sanremo 2008. Fino alla decisione di ritirarsi dalle scene, nei primi anni Ottanta. Non bastano la stima, l'affetto, l'amore che le manifestano Charles Aznavour, Ivano Fossati, Pino Daniele, Paolo Conte, Fabrizio De Andrè. Non basta il Premio della Critica istituito apposta per lei al Festival di Sanremo nel 1982, quando ipnotizza tutti con E non finisce mica il cielo. Non basta la sfrontatezza di Loredana con cui collabora per Non sono una signora. Non basta neanche la venerazione che tanti giovani talenti, da Ramazzotti in giù - per il cantautore romano inciderà i cori del ritornello di Terra promessa - le manifestano. Mia decide di darci un taglio. Si rifugia da Leda, la sorella più grande. Cerca una vita ordinaria. È il 1985. Sparisce per quattro anni, si trasferisce a Calvi, in Umbria, solo piccoli concerti di provincia, pochissimi. Poi una sera del dicembre del 1988 un incidente. La sua macchina scivola su una lastra di ghiaccio e la Martini ne esce miracolosamente illesa. Tornata a casa, prima il panico, le lacrime. Poi una risata liberatoria. Decide di ritornare. Di riprendersi il suo mondo. "Sai, la gente è strana, prima si odia e poi si ama, cambia idea improvvisamente, come fosse niente, sai la gente è matta, forse è troppo insoddisfatta, segue il mondo ciecamente, quando la moda cambia, lei pure cambia continuamente e scioccamente": un testo rimasto nel cassetto. Dietro questa "lettera" che sembra una dichiarazione d'amore, gli autori Bruno Lauzi e Maurizio Fabrizio, nel 1972, anticipavano i tempi contestando la cieca frenesia di una società dedica al consumo. Depositato soltanto nel 1979, rimase inedito a lungo, fino a quando nel 1989 arrivò a Mimì, che la presentò al Festival di Sanremo di quell'anno. Ancora un Premio della Critica, avrebbe meritato di vincere.

1989, 21 febbraio, Sanremo. Per capire è necessario il contesto. È necessario inscrivere quel piccolo miracolo in un prima e in un dopo. Il prima è rappresentato dai "figli di papà": Rosita Celentano, Paola Dominguin, Danny Quinn e Gianmarco Tognazzi, che presentano il festival in puro stile anni Ottanta. Dinoccolati e cotonati. Dopo c'è Jovanotti, cappello da cowboy, aria casinista e "No Vasco, no Vasco, io non ci casco". In mezzo, un angelo. Mia Martini entra sul palco sorridendo, attacca Almeno tu nell'universo. Al ritornello alza i pugni al cielo, accompagna presenti e telespettatori su una melodia magnifica, su parole struggenti. Ed è una bomba, pelle d'oca collettiva. Rivince il premio della critica. Ritorna dal suo pubblico. Ricomincia a vivere e respirare. Verranno La nevicata del '56, Gli uomini non cambiano. Verrà il successo, di nuovo. "Piccere', canta". Roberto Murolo le sorride nella sua casa napoletana. I due, è il 1992, stanno provando una canzone di Enzo Gragnaniello, Cu 'mme. Quattro minuti e mezzo di magia, uno spazio in cui si dispongono tradizione, rabbia, commozione, rimpianto, voglia di vivere, paure e desideri. A quarantacinque anni Mia Martini è ormai patrimonio indiscusso della canzone italiana. Nel 1993, dopo un decennio di reciproci silenzi, corre da Loredana ricoverata in ospedale. Baci e carezze e un progetto: ritornare insieme a Sanremo. Lo faranno l'anno successivo. Poi quello che sarà il suo testamento.

Un disco di cover registrato dal vivo - prodotto dal suo amico Shel Shapiro - dei "suoi" cantautori: La musica che mi gira intorno. Ancora Fossati, Mimì sarà di De Gregori, Fiume di Sand Creek di De Andrè. In Dillo alla luna di Vasco Rossi l'interpretazione più intensa. Tutto sembra andare. Tutto s'interromperà il 12 maggio. Poi i funerali, vagonate di parole. Le polemiche postume. Il ruolo del padre nella sua vita e nella sua morte. Le indagini, l'autopsia, i medici che mettono nero su bianco le cause del decesso: overdose di cocaina. Patina. Che nulla toglie alla voce di Mimì. "Una monomaniaca della musica", secondo Ivano Fossati che con lei ha condiviso una pezzo importante di vita. Mina: "Per fortuna il suo talento dolente e intenso è rimasto qui, nei suoi dischi. Io ho anche fatto un suo pezzo, Almeno tu nell'universo, ma meglio la sua versione". E un giorno Fabrizio De André, forse, ha sintetizzato il sentire comune, definendosi "innamorato totale della sua arte e della sua umanità". Lo siamo ancora, vent'anni dopo: totalmente innamorati di Mimì.

·        24 anni dalla morte di Ivan Graziani.

Ivan Graziani l’angelo ribelle (e incompreso) del rock italiano. Francesco Russo il 12 gennaio 2020 su Il Dubbio. Libero, testardo, indipendente, emarginato dai salotti. È stato l’artista più originale della nostra canzone. Troppo libero e controcorrente per essere addomesticato e omologato dal sistema, e quindi puntualmente punito e emarginato dall’industria culturale italiana. È una parabola forse ancora tutta da approfondire, quella di Ivan Graziani, il ragazzaccio del rock italiano morto il 1 gennaio del 1997 e di cui in questi giorni si ricorda la straordinaria figura artistica in occasione dell’anniversario. Con una costante sempre in primo piano: avrebbe meritato di più. Ebbene sì, perché quello che fu sul finire degli anni ´70 l’autore di immortali capolavori come Lugano addio, Agnese o Firenze, che riscossero un grande successo anche a livello di pubblico, a partire dagli anni ´80 viene progressivamente confinato in una sorta di “limbo” che ancora oggi grida vendetta. E non è un caso forse che a restare nella memoria collettiva siano state soprattutto le già citate canzoni d’amore, ovvero un filone importante del suo repertorio, ma non certo il più peculiare. Chitarrista di straordinario virtuosismo- tanto da partecipare, non ancora affermatosi come autore, ad alcuni album storici di Battisti, Dalla o De Gregori- Graziani ha saputo raccontare come pochi la provincia italiana, con tutta la sua umanità dolente e irrisolta, ma lo ha fatto senza mai prendersi troppo sul serio, con le cadenze spensierate del rock ‘n’roll e non con il tono salmodiante del cantautorato classico. Per tutta la sua carriera, ed anche negli anni più fortunati a cavallo tra i ‘70 e gli ‘80, le canzoni di Graziani non toccheranno quasi mai, almeno direttamente, tematiche sociali o politiche. È forse questo il peccato originale di Ivan, in anni in cui schierarsi politicamente era considerato praticamente un obbligo. È in fondo la stessa dittatura culturale che denunciò il pur diversissimo- e peraltro lui sì più politico-Edoardo Bennato, che rispose con la celeberrima Sono solo canzonette ai critici duri e puri che gli rimproverano in sostanza lo spirito anarchico scevro da ogni casacca politica. Nato il 6 ottobre 1945 a Teramo, Ivan manifesta già da bambino le due passioni che lo accompagneranno per tutta la vita, la chitarra e il disegno ( sarà anche fumettista apprezzato). Parallelamente alla già citata attività di strumentista per alcuni dei maggiori cantautori emergenti dell ´ epoca, inizia la sua avventura da solista nel 1973 con l'album Desperation, scritto in inglese e pubblicato con lo pseudonimo di Rockleberry Roll. Ma è dal primo album in italiano, La città che io vorrei del 1975, che comincia a delinearsi la grande ambizione di Ivan, e cioè non una mera ripresa e “scimmiottamento” del rock ‘ n’ roll d’oltre oceano, sulla falsa riga di un Bobby Solo o di un Little Tony, bensì l'innesto di quella cultura e di quelle sonorità in un contesto tipicamente italiano. Graziani è considerato in questo senso l'inventore indiscusso del rock nostrano. Ed è in particolare il polveroso mondo della provincia, con piccole storie di piccoli personaggi ritratti spesso con gusto beffardo e boccaccesco, a costituire un ´ inesauribile fonte di ispirazione. Ne La città che io vorrei prendiamo Il campo della fiera, dove il protagonista è uno dei suoi tipici loser: «ed io, uno storpio sul mio carrettino, canto canzoni e tendo il piattino». È solo il primo di un’infinita galleria di piccoli personaggi, falliti, emarginati, sconfitti, sullo sfondo immobile e indifferente della provincia italiana. Il successivo Ballata per quattro stagioni prosegue e approfondisce il discorso con altri ritratti di provincia come “La pazza sul fiume”, ma risulta da un punto di vista musicale ancora incerto, con testi fin troppo liricheggianti e arrangiamenti non sempre convincenti. Decisamente più compiuto e maturo l ´ album successivo I lupi, del ´ 77, che contiene tra l ´ altro il suo primo grande successo commerciale, Lugano addio. È una delle perle del repertorio sentimentale di Ivan, ma affiancata come sempre da indimenticabili storiacce rock come Motocross, irridente parabola di un galletto di provincia convinto di aver conquistato una donna, ma alla fine circuito e derubato dalla stessa, insieme ad un compare, della sua amata motocicletta. Ma è con l ´ album successivo che Ivan Graziani inaugura la sua stagione d ´ oro: tre uscite in tre anni piene zeppe di capolavori e che lo faranno conoscere anche al grande pubblico. Pigro, del 1978, è un album praticamente perfetto, fatto esclusivamente di tracce memorabili. Così come memorabile rimane anche la copertina, che ritrae un maiale ( ovvero la nostra insopprimibile natura prosaica, secondo Ivan) nascosto dietro due grandi occhiali dalla montatura rosa, che lo stesso Graziani porterà per tutta la sua carriera e che diventeranno uno dei suoi segni distintivi. Otto tracce di altissimo livello, si diceva, a partire dalla celebre title track, un indiavolato, stupefacente riff di chitarra spezzato solo da pochi, taglienti versi che sbeffeggiano apertamente una figura di intellettuale “duro e puro” ma fatalmente distante dalla realtà: «Tu sai citare I classici a memoria, ma non distingui il ramo da una foglia: pigro!». E poi Monna Lisa, trascinante ballata rock in cui un balordo distrugge il capolavoro di Leonardo Da Vinci come simbolo della cultura ufficiale. Sono le storie tipiche di un eterno ribelle, irriverente folletto impegnato a distruggere ogni forma di autorità con lo spirito goliardico e ridanciano di un ragazzo di strada. Ma Graziani è anche capace di straordinarie sottigliezze intimistiche, come nella struggente Paolina, storia di una ragazza timida spaventata dal mondo e dagli uomini, o come in quel piccolo trattato di psicologia costituito da Scappo di casa, storia di un “mammone” allevato da una madre iper- protettiva e per questo rimasto ad una fase infantile nei suoi rapporti con l ´ altro sesso e con il mondo: «Mi coprirò con le braccia la testa, come facevo da bambino» è il folgorante finale. Sempre a livelli altissimi il successivo Agnese dolce agnese del 1979, a partire dalla celeberrima Agnese, forse la più conosciuta in assoluto tra le sue ballate romantiche. Come sempre in agguato, però, sono le storiacce di periferia come Fango, discesa agli inferi di un ragazzo che diviene suo malgrado killer, o Veleno all’autogrill. Del 1980, invece, è Viaggi e intemperie, album considerato ancora tra i suoi migliori anche se in realtà si intravedono i primi tentativi di “addomesticamento” del suo spirito graffiante da parte dei discografici. Accanto alla ballata Firenze ( canzone triste), una delle sue canzone più celebri, ci sono ancora le parabole beffarde di Siracusa, Isabella sul treno e soprattutto Dada, canzone che parla di eroina con la consueta crudezza. Ma la veste musicale, come si diceva, comincia a risultare meno immediata e graffiante, risentendo probabilmente del tentativo dei discografici di edulcorare e rendere maggiormente “main stream” la sua musica. Iniziano cosi gli anni più difficili per l ´ autore Graziani. Dal 1981 al 1984 escono tre album, Seni e coseni, Ivan Graziani, Nove. Sono ancora tre album di tutto rispetto, che contengono tra l ´ altro alcuni superclassici del suo repertorio, da Pasqua a Palla di gomma, da Il chitarrista a Limiti, altro coraggioso brano dedicato all’omosessualità. Ma si percepisce un cambiamento complessivo del sound, e in senso non certo positivo. Alle straordinarie e indiavolate basi ritmiche di un tempo si sostituiscono adesso arrangiamenti certamente più convenzionali. È come se Graziani scontasse appunto il tentativo di normalizzarlo da parte dei discografici, con cui i rapporti diventano del resto sempre più tesi. È proprio questo il periodo, insomma, in cui Ivan paga il maggior scotto al suo essere un irriducibile outsider. Completamente libera da ogni casacca politica, come già detto, ma anche al di fuori di qualsiasi schema o scuola corrente, la sua musica diventa difficilmente inquadrabile dal sistema discografico contemporaneo. Troppo ridanciano e goliardico per apparire un cantautore impegnato, ma anche troppo sottile e spiazzante per essere pienamente commerciale. E il rapporto diventa in questo senso sempre peggiore non solo con i discografici, ma anche con la stampa stessa, che ha appunto difficoltà a giudicare e a incasellare il suo lavoro. Senza contare l ´ irriducibile indipendenza anche caratteriale di Ivan, che continua a scornarsi con discografici e giornalisti- tante le testimonianze in tal senso, anche dai più stretti familiari- tanto da sparire quasi dalla scena pubblica e dalle classifiche di vendita. L’86 tocca il suo punto più basso, con l’album Piknic, per poi tornare in grande spolvero nel 1989 con Ivan Garage, album realizzato non a caso in quasi completa autonomia creativa grazie a uno studio ricavato nella sua abitazione. Ancora quarantenne, Ivan tenta lentamente la risalita con due buoni album, Cicli e tricicli ( 1991) e Malelingue ( 1994), avvalendosi nel secondo caso dell’apprezzata partecipazione al festival di Sanremo del 1994. Maledette malelingue ottiene il settimo posto nella graduatoria finale, ma soprattutto serve a ricordare la sua classe cristallina ad un grande pubblico che lo aveva ormai dimenticato. La storia di una ragazzina che ha una relazione con un uomo sposato viene raccontata in un semi- parlato di spiccato impianto teatrale proprio da quelle “malelingue” che giudicano e condannano la malcapitata; il tutto con toni di crudo e crudele realismo: «Vedi un po´ di coraggio e certe puttane vanno punite, e che diamine qua ci vuole sicuro un po´ di moralità». Con gli immancabili occhiali rosa e il piglio da rocker di razza, Graziani assesta con cura un paio di sberle alle orecchie ben educate del palco sanremese, per poi ammansirle improvvisamente in un ritornello di grande impatto melodico, dove l’autore riprende le redini del racconto condannando a sua volta le maledette malelingue del titolo. E per farlo gli bastano al solito suo poche ma potenti parole: «Così la gente vede il male, anche dove non ce n’è». Trainato dalla partecipazione a Sanremo, l’album riscontra finalmente un buon successo, e fa ben sperare per un ritorno ad alti livelli di Ivan. Ma il tempo, purtroppo, è ormai scaduto. Colpito da un tumore al colon, Graziani muore a soli 51 anni il Capodanno del 1997. E per quanto in questi anni in molti si stiano prodigando per promuoverne la riscoperta, la sua grande eredità sembra essere rimasta sepolta con lui insieme all’inseparabile chitarra e al gilet di pelle da impenitente rocker. Un artista dal talento immenso, ma reo appunto di essere sempre stato troppo libero e indipendente. E in un Paese profondamente settario e familistico come l’Italia, evidentemente, ciò non poteva essere perdonato.

·        23 anni dalla morte di Gianni Versace.

Due spari a Ocean's Drive. Così muoiono gli Anni '90. Amico delle star, nemico dei salotti: Gianni ha disegnato un sogno. Spezzato quel giorno a Miami. Valeria Braghieri, Domenica 02/08/2020 su Il Giornale. Per spiegare cosa siano stati Gianni Versace e gli anni Novanta, perché sì, loro erano la stessa cosa, bisogna riguardare le foto di quel 22 luglio 1997 in Duomo, quando, seduti sulle prime panche della chiesa, davanti alla bara, per l'ultimo addio allo stilista, c'erano Lady D (sarebbe morta un mese dopo, il 31 agosto, sotto il pont de l'Alma a Parigi), Elton John, Sting e Naomi Campbell: mine vaganti. Tutta gente che ha rivestito un ruolo, il proprio ruolo, spostandolo, trasformandolo per sempre. Segnando il confine tra il prima e il dopo. La principessa triste, la venere nera, il sir sposato a un altro sir, la star ecologista del sesso tantrico. Divi eversivi e indispensabili. Proprio come lui, Gianni. Ucciso la mattina del 15 luglio a Miami, davanti alla sua casa in Ocean's Drive: chiavi in una mano, giornali nell'altra e due colpi in testa sparati dalla rabbia di un party boy, Andrew Cunanan, che in nessun altro modo, la trama della vita avrebbe messo sulla stessa strada dello stilista calabrese. Ci sono volute tante mine vaganti per fare gli anni Novanta. E cosa siano le mine vaganti lo racconta Ilaria Occhini interpretando la nonna di una complicata famiglia del film di Ferzan Ozpetek. Così lascia scritto prima di scegliere la morte, lei diabetica, ingurgitando elegantemente ma voluttuosamente, un numero imprecisato di procaci pasticcini ripieni: «La mina vagante se n'è andata. Così mi chiamavate pensando non vi sentissi. Ma le mine vaganti servono a portare il disordine, a prendere le cose e a metterle in posti dove nessuno voleva farcele stare, a scombinare tutto, a cambiare i piani». Gli anni Novanta sono stati le mine vaganti della vita degli adulti di oggi. Sono stati gli anni che hanno traslocato i desideri, insuperbito i sogni, che ci hanno trasformati in barbari passionali con viscere d'acciaio. E lui, Gianni Versace, quegli anni li ha disegnati. Spogliando la moda, che sempre racconta chi siamo, e rivestendola: greche, pelle, borchie, croci, catene d'oro, spacchi e animalier. Un'orgia di simboli sotto il marchio della Medusa che è sì la femme fatale che ammalia e pietrifica ma è anche il trionfo della ragione sui sensi. Paradossale per Versace e la sua allegra aggressività visiva. Uno che ha preso a schiaffi l'haute couture e l'ha svegliata dal suo sonno perbene e desensualizzato. Non piaceva a tutti, Versace, ovvio. Perché non ci sono sogni a scanso di guai. E perché non era uno che pensava che la prudenza fosse la parte migliore del coraggio. Osava Versace, non faceva altro e chi osa ha familiarità con lo spavento. Se ne fregava dei salotti buoni e di quelli chiusi, lui piaceva a quelli che piacevano (mantra dell'era scintillante e smargiassa). Era amico di star, principesse e milionari. Non si vergognava, non arretrava e non chiedeva permesso. Così era arrivato perfino alla Scala, a disegnare i costumi per le opere di Strauss e Mahler. Questi erano gli anni Novanta: il fragore nella chiesa laica. E questo era Versace: troppo temerario quel signore dall'anima barocca che già da bambino, nel tinello della madre a Reggio Calabria, disegnava le sue icone: quattro quadretti di quaderno per il seno della Lollo, cinque per quello della Loren, sei per quello della Mangano... Gli sono rimaste in testa, le donne, almeno in un certo senso. E da grande le ha create. Ha preso le «model», paletti diafani ed esili appena spolverati dagli sguardi, ha aggiunto loro forma, spessore, denaro e dignità e le ha fatte diventare «top model»: Claudia Schiffer, Naomi Campbell, Carla Bruni, Linda Evangelista, Cindy Crawford, Helena Christensen, Christy Turlington, Karen Mulder e Yasmeen Ghauri. Nel 1991 ne ha gettata una manciata in passerella sulle note di «Freedom» di George Michael, altro amico suo e altra mina vagante, camminavano tra il pubblico abbracciate, come amiche uscite dalla discoteca: e le top model sono diventate gli anni Novanta. Come gli scatti di Richard Avedon, le feste nei night club, Forrest Gump, la street e pop art, «Non è la Rai», «E.R.» e «Law and Order», il bungee jumping, il Tamagotchi, il «Karaoke» di Rosario Fiorello che poi è stato solo Fiorello (a proposito di mine vaganti), i distributori di gasolio aperti 24 ore, la benzina verde, la quotazione in Borsa di Mediaset, Lara Croft, Google e i telefoni cellulari come fenomeno di massa. Tempi sguaiati e avvincenti, tempi che hanno rotto gli argini per buttarsi avanti e avanti non sempre ci si arriva ordinati. Chiedetelo alla Prima Repubblica, che avanti non ci è proprio andata. È iniziata la Seconda, in quegli anni. Tangentopoli, la fine della Guerra fredda, la Democrazia cristiana e il Partito socialista si sono sciolti a un sole politico dalle nocche roventi. Il Partito comunista e il Movimento sociale hanno cambiato nome e sono nati anche Forza Italia e Lega Nord, e l'Ulivo di Prodi... Madonna (Musa di Versace e di quegli anni) interpretava Evita Peron al cinema, Tina Turner cantava con Eros Ramazzotti: «Sono cose della vita». Volume alto e gonne corte. Gli anni Novanta sono stati come gli appetiti che nella vita insorgono quando abbiamo già risolto di mangiare, quelli che non possiamo comprendere finché non abbiamo mangiato, cioè, a ben vedere, i più nobili: estetici, coniugali, artistici, religiosi... Quei due spari a Miami, la mattina del 15 luglio 1997, non si sono portati via «solo» Gianni Versace e il suo genio. Si sono portati via l'ultimo decennio del Ventesimo secolo, gli anni Novanta: irresponsabili, cotonati, dopati. Ma per quelli che sono stati ragazzi allora, è stato come sgomberare dal paradiso in cui avevano trovato alloggio, diventare adulti in una notte. Ed è vero che non si resta per sempre in ammollo dei sogni. C'è chi sostiene che gli anni Novanta siano stati una bolla irreale, corruttiva e inconcludente. Che solo dopo averli sudati via, quegli anni, siamo ritornati un Paese adulto, o quantomeno un Paese con la consapevolezza di dover diventare adulto, anche se poi non ci riesce mai per mille ragioni. E insomma, comunque, estasi finita, sbornia passata. Come chi abbia terminato i soldi di una vincita all'Enalotto. Ma è proprio questo, il problema: la vita continua a lungo anche dopo che la fortuna è finita. Si resta giovani, ahinoi, ben oltre la fine della gioventù. Ben oltre gli anni Novanta. Quelli di Gianni Versace.

·        23 anni dalla morte di William Burroughs: lo scrittore del Rock.

Burroughs è la scimmia sulla schiena del rock. Idolo delle star e grande vecchio della cultura alternativa. Indagine sulle radici del suo culto. Seba Pezzani, Domenica 23/08/2020 su Il Giornale. «The country I come from is called the Midwest». Così recita un verso di With God on Our Side, una celebre canzone scritta nel 1963 da Bob Dylan per chiudere il cerchio aperto dal suo maestro spirituale, Woody Guthrie, con This Land is Your Land, una sorta di contro-inno nazionale. Ed è da quello stesso Midwest, l'enorme distesa di praterie e terreni agricoli compresa tra la ricca costa atlantica e il favoleggiato Far West, che proviene William S. Burroughs, una delle figure più controverse e bizzarre nel panorama culturale del Novecento a stelle e strisce. St. Louis, Missouri, potrebbe davvero sembrare un luogo improbabile, eppure fu proprio nel Midwest che Burroughs nacque e decise di andare a morire. La citazione di apertura non è casuale, considerato l'impatto che la poetica di Burroughs ebbe su tre generazioni di rocker, a partire da quella di cui Bob Dylan fu il sommo profeta: la musica cosmica degli anni Sessanta, il punk e il grunge. William S. Burroughs e il Culto del Rock'n'Roll (Jimenez Edizioni, pagg. 368, euro 19, traduzione di Alessandro Besselva Averame) di Casey Rae è un'interessante disamina della stravagante fascinazione dell'universo rock per quello che forse è stato l'esponente più anomalo del movimento beat ed è, al tempo stesso, una lucida analisi dell'interesse che Burroughs ha sempre mostrato per la sperimentazione sonora e, dunque, per alcune delle figure più legate all'avanguardia del pop. Noto ai più per opere considerate anticipatrici come La scimmia sulla schiena e Pasto nudo, crude e geniali nella loro rappresentazione della sua tossicodipendenza, e per gli strani quadri realizzati piazzando di fronte alla tela lattine di vernice cui sparava con una doppietta (appunto chiamati «shotgun paintings»), Burroughs fu pioniere di tecniche come quella del cut-up, attraverso la quale il nastro di un frammento sonoro veniva tagliato in più pezzi poi ricombinati a caso. Un processo sfruttato abbondantemente dai Beatles e da molte altre band soprattutto inglesi sul finire degli anni Sessanta. Burroughs non era certo un musicista, così come non lo era Allen Ginsberg, il quale però aveva una specie di fissazione per il canto, talento di cui non disponeva. Ma Burroughs era curioso per natura e i suoi slanci di eclettismo creativo attirarono su di lui le attenzione di numerosi giovani talenti della scena musicale che fecero del loro accostamento alla sua figura un fiore all'occhiello, un vessillo di accettabilità artistica. Insomma, faceva molto figo farsi vedere accanto a quello stravagante dandy dall'aria da nobiluomo inglese di campagna, tossicomane fuori di testa, ma dai modi a detta di tutti garbatissimi, capace però di testi fuori dagli schemi e dall'ortodossia del tempo, uno sporcaccione (secondo i benpensanti) da censurare senza se e senza ma, un uxoricida strafatto, una sorta di cappellaio magico della psichedelia. Pare che nello scantinato newyorchese in cui Burroughs abitò per molti anni sia passata un'intera corte di giovani virgulti del rock'n'roll, magari soltanto per prendere un tè o per portargli qualcosa da mangiare, come fece spesso Mick Jagger. E di quella corte fecero parte nomi eclatanti, da Lou Reed a Patti Smith, da Tom Waits ai R.E.M. Altri, come Bob Dylan, lo conobbero superficialmente, altri ancora decisero di inserirne la foto sulla copertina del disco più famoso nella storia, Sgt. Pepper's dei Beatles. Qualcuno lo volle in prima persona in un video, The Last Night on Earth degli U2. Ai Sex Pistols spedì addirittura una lettera di sostegno per le critiche ricevute in patria dopo l'uscita del singolo God Save the Queen. In questo libro ci sono pagine di analisi accompagnate da innumerevoli aneddoti, come la spiegazione del nome della band di Donald Fagen e Walter Becker, Steely Dan, dal nome di un «futuribile dildo menzionato nel Pasto nudo». Burroughs, definito «el hombre invisible» negli anni trascorsi in Marocco per la capacità sviluppata a Tangeri di passare inosservato, mosca bianchissima in un ambiente a lui alieno, fu sempre alimentato dall'ossessione di spezzare i meccanismi di controllo della società, a partire dal linguaggio, in una sorta di ribellione orwelliana all'omologazione imposta dall'establishment. Ma forse non fu questo a fare di Burroughs un idolo per il giovane Kurt Cobain, fascinazione rimasta anche dopo l'esplosione del fenomeno grunge e l'enorme popolarità dei Nirvana. A legarlo a Burroughs c'erano la comune passione per gli oppiacei e un forte anelito di libertà; a dividerli la disperazione più nera del cantante che andò addirittura a trovarlo a Lawrence, Kansas, dove Burroughs passò gli ultimi anni di vita. L'incontro fra l'allievo e il maestro fu simile alla visita che Burroughs e Ginsberg avevano fatto a Céline a Parigi, nel 1958, e lo scrittore di St. Louis colse l'aria di morte che Cobain si portava appresso.

Piero Negri per la Stampa il 28 luglio 2020. Piccolo ricordo personale: l' anno è il 2004, il luogo un ristorante chiamato Little Amsterdam con tanto di piccolo mulino a vento sulla facciata, a nord di San Francisco e non lontano da Bodega Bay dove Hitchcock girò Gli uccelli. Tom Waits parla di Real Gone, l' album che uscirà in ottobre e spiega chi e cosa gli ha ispirato queste canzoni fatte a pezzi, registrate con pochissimi strumenti, con la sua sola voce a cantare la melodia e a costruire ritmo e armonia: «William Burroughs. Per anni ho usato la sua tecnica del cut-up per scrivere i testi, seguendo l' ispirazione di parole ritagliate, rimescolate e accostate a caso. Ora applico il cut-up ai suoni, canto i testi su basi che registro da solo in casa, perlopiù in bagno». Una decina di anni prima, Waits aveva messo in musica le parole di Burroughs per uno spettacolo ideato da Robert Wilson, The Black Rider, e dunque il rapporto tra lo scrittore beat e il cantautore non era certamente una novità. Nel tempo, Waits aveva preso a vestirsi come Burroughs, sempre di nero, indossava come lui un cappello e sembrava come lui un mix tra prete, spia, bounty killer e becchino. Ma quelle parole furono ugualmente sorprendenti: Tom Waits mi stava dicendo che oltre a Dylan («Senza di lui, nessuno di noi esisterebbe») era stato Burroughs la sua ispirazione. Esce ora in Italia un libro (William S. Burroughs e il culto del rock' n'roll, di Casey Rae, edizioni Jimenez, pp. 368, 19) che racconta come il rock' n'roll stesso, quello più intellettuale e interessante, quello meno legato alle fortune passeggere del successo pop, non sarebbe mai esistito senza l' opera, il pensiero, il modo di stare al mondo dell' autore del Pasto nudo. Non sono opinioni, sono fatti: Burroughs, che è nato nel 1914 e dunque è un prodotto dell' età del jazz, ha avuto incontri significativi, che Rae racconta e analizza, con Bob Dylan, David Bowie, Patti Smith, i Beatles (in particolare Paul McCartney) e i Rolling Stones (Brian Jones), Lou Reed, Frank Zappa, Iggy Pop, Laurie Anderson, Joy Division, Nirvana, R.E.M., Sonic Youth, Hüsker Dü. L' ultima immagine conosciuta di Burroughs è l' ultimo fotogramma del video degli U2 per la canzone The Last Night on Earth, in cui si toglie gli occhiali scuri e guarda fisso in camera senza emozioni apparenti, se non un vago senso di minaccia. È la fine del mondo, è la fine di Burroughs: ha 83 anni, morirà tre mesi dopo quelle riprese. Kurt Cobain, che lo venerava, si era suicidato tre anni prima, Allen Ginsberg, che gli fu sempre vicino e che si era addirittura speso per farlo incredibilmente entrare nella American Academy of Arts and Letters, era morto quattro mesi prima. È la fine di un' epoca, l' epoca del rock' n'roll. Burroughs credeva che il linguaggio fosse un virus. Non è una metafora: lui pensava che il virus del linguaggio avesse infettato gli umani e che avesse riscritto il nostro sistema nervoso e il modo in cui vediamo il mondo. E che, anzi, il mondo in cui noi crediamo di vivere non sia altro che un prodotto del linguaggio. Gli uomini sono «macchine morbide» programmate da una forza esterna che chiama «Controllo». Per questo, come scrive Rae, Burroughs riteneva che l' obiettivo degli artisti fosse «spezzare i meccanismi del Controllo, hackerandone e distruggendone i programmi base attraverso i suoi stessi strumenti: parole, suoni e immagini». È evidente che questa visione tra i rockettari più intellettuali non potesse che suscitare sentimenti di identificazione: significava essere dentro e al tempo stesso contro il Sistema, una condizione ideale. Tanto più che Burroughs sembrava vivere fino in fondo la condizione di outsider, senza sconti: bisessuale, per tutta la vita fece uso di oppiacei, le armi da fuoco erano la sua unica passione: fu seppellito con la sua 38 Special in tasca. Ebbe un figlio che morì a 33 anni per le conseguenze dell' abuso di alcol dopo che nel 1951, a Città del Messico, aveva visto Burroughs uccidere sua madre, forse per colpire un bicchiere che lei teneva sulla testa, come un folle e ubriaco Guglielmo Tell. Il fatto non ebbe conseguenze giudiziarie perché la famiglia Burroughs, molto benestante, corruppe i giudici e gli organizzò la fuga negli Stati Uniti, ma il senso di colpa lo tormentò sempre. Probabilmente l' alcol e l' eroina furono il mezzo per tentare di metterlo a tacere, senza fortuna. Il linguaggio sarà anche un virus, ma è ciò che assicura a Borroughs un posto nella storia.Ha inventato una lingua, più moderna e vicina a noi di quella degli altri due maestri Beat, Allen Ginsberg e Jack Kerouac (che in Sulla strada lo fa apparire con il nome di Old Bull Lee): le sue parole ora identificano generi musicali (heavy metal), gruppi rock (Soft Machine, Steely Dan), danno il titolo alle canzoni (perfino Wild Boys dei Duran Duran) e a libri di futuri premi Nobel (Tarantula di Bob Dylan, molto burroughsiano). «Quando incidi il presente, il futuro fuoriesce», diceva Burroughs, e immaginava anche qualcosa di simile alla Rete pervasiva di oggi, che è del resto la migliore conferma alla sua teoria del virus e del Controllo.

·        23 anni dalla morte di Ian Curtis.

Alessandro Gnocchi per “il Giornale” il 25 febbraio 2020. Poco prima di impiccarsi, Ian Curtis aveva inciso il singolo che avrebbe avvicinato i Joy Division al successo, raggiungendo il 13° posto della classifica britannica. Love Will Tear Us Apart era una disperata canzone sull' amore che finisce senza un motivo, finisce perché finisce. La somma delle piccole incomprensioni è un fardello troppo pesante e il problema, quello vero, è che nessuno ha più voglia di alleggerirlo. Così vanno le cose, così devono andare? Ian Curtis non si accontenta di questa morale, saggia o cinica, dipende da che lato la guardi, dipende da chi andrà in pezzi e da chi si riprenderà subito, da chi si sente forte e da chi pensa di non farcela. Il cantante ha un matrimonio in crisi e ha perso la testa per una giornalista belga, Annik. Lo sanno tutti. Tranne la moglie Deborah. Curtis non riesce a chiudere, c' è anche una figlia di mezzo. È dilaniato. C' è il rimorso per essere un traditore e un cattivo padre. C' è l' epilessia, che lo colpisce sempre più a fondo, capita sul palco e il pubblico si entusiasma, convinto di assistere alla performance di un artista straordinario. C' è la paura di sfondare, di diventare un fantoccio di carne per le platee di mezzo mondo. I Joy Division sono sulla rampa di lancio, tutti si aspettano che il nuovo album, Closer, faccia il botto e un tour massacrante negli Stati Uniti è alle porte. Stop. Curtis prende una corda e si uccide. Quando Deborah trova il cadavere, sul piatto dello stereo gira ancora un album di Iggy Pop, The Idiot, la puntina continua a sbattere e tornare indietro. È il 18 maggio 1980. Ian muore a 23 anni. Closer significa più vicino, ma nulla è più distante di questo disco gelido, registrato nel marzo 1980 dal produttore Martin Hannett, che bissa dopo l' esordio di Unknown Pleasure. La band vuole un suono più corposo e vicino a quello dei concerti. I Joy Division sono un gruppo punk, sono teppisti di Manchester innamorati dei Sex Pistols. Martin Hannett annuisce e poi fa di testa sua. Prende tutto il calore e lo butta via con l' aiuto delle sue diavolerie elettroniche. Il risultato è straziante, in senso positivo. La musica è angosciante. I sintetizzatori arrivano in faccia come vento tagliente. Le parole sono anche più dolorose. Curtis descrive la paranoia del suo mondo di anime morte, Dead Souls, e società distopiche. Atrocity Exhibition richiama esplicitamente James Ballard, l' altro nume tutelare è il William Burroughs di Nova Express. Come sarebbe svegliarsi e non trovare più nessuno? Come si sentirebbe l' ultimo uomo sulla Terra costretto a camminare dove regna la solitudine e resta solo il ricordo della vita? Ecco. Questo per darvi l' idea di quali sentimenti possa evocare Closer, se già non lo conoscete. Love Will Tear Us Apart nasce appena prima di Closer ma è una nuova partenza che diventa epitaffio. Ian ascolta Frank Sinatra. Ne è affascinato. Cosa c' entrano l' urgenza del punk e la confidenza del crooner? Niente. A meno che tu non sia Ian Curtis. Love Will Tear Us Apart è assieme un banco di prova e un capolavoro di maturità. Anche il testo è diverso. Qui Curtis si lascia andare. È la canzone del rimpianto di un amore, un amore che divide, il rimpianto dell' amore per la moglie Debora. Il 45 giri esce il 20 giugno del 1980, poco meno di un mese prima di Closer, album dal quale è escluso per il suo tono diverso, e sarà pubblicato su long playing solo nel 1988, quando appare nella raccolta Substance. Gli altri Joy Division, che proseguiranno una carriera gloriosa con il nome di New Order, per molti anni hanno evitato di ascoltare sia Closer sia Love Will Tear Us Apart. Solo di recente, in occasione del prossimo anniversario dell' uno e dell' altro, hanno raccontato alla stampa inglese le circostanze in cui nacquero. Viene così fuori una storia di piccoli rancori e grande disattenzione ambientata ai Britannia Row Studios di Londra. Da una parte, Curtis con la sua Yoko Ono, Annik. Dall' altra, i tre teppisti di Manchester, i tre teppisti senza le rispettive donne. L' imbarazzo diventa paralisi in occasione di una festa a sorpresa dove la sorpresa è tutta per l' assenza di Deborah. Curtis l' epilettico rotola giù dalle scale per un attacco del suo male. Curtis l' entusiasta nega addirittura di avere un problema di salute e non vuole saperne di interrompere le esibizioni. Il resto della band, il produttore, il manager sono incapaci di comprendere e intervenire. La tragedia è annunciata, Curtis prova a calare il sipario con i barbiturici. All' ascolto di Closer, l' intera band, Curtis più di ogni altro, rimane insoddisfatto, Hannett aveva rovinato anche questo disco. Capita di essere cattivi giudici del proprio lavoro. Questo è un caso esemplare. Infatti Closer non sarà mai datato perché si colloca fuori dalla storia, non ti prende a schiaffi ma solo per avvelenarti il sangue. Perché fa così male eppure ne vuoi ancora e ancora? Ogni ascoltatore ha i suoi motivi ma ipotizziamo: le nostre labbra vorrebbero ancora baciare ma siamo anime morte o temiamo troppo di esserlo.

·        22 anni dalla morte di Marcello Geppetti.

Da "ilmessaggero.it" il 15 settembre 2020. Ha immortalato il mito della Dolce Vita negli anni ‘60, con gli scatti di Anita Ekberg e dei “bacio dello scandalo” tra Liz Taylor e Richard Burton, ma negli anni ‘70 Marcello Geppetti si trova anche all’Idroscalo di Ostia, dove è stato rinvenuto il corpo senza vita di Pier Paolo Pasolini e 4 anni dopo in via Caetani, il giorno del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro. A raccontare la storia di uno dei re dei paparazzi romani è Vittorio Morelli con il libro Fotoreporter. Marcello Geppetti da via Veneto agli anni di piombo (edizioni All Around). Macchina fotografica al collo a cavallo della Vespa ad inseguire le star del cinema, Geppetti faceva parte di quel gruppo di fotografi d’assalto romani che Federico Fellini ha consegnato alla storia nel suo film. Nel 1960 riprende Anita Ekberg che si difende dai fotografi nel 1960 armata di arco e frecce davanti alla sua villa romana. Nel 1961 ferma su pellicola Audrey Hepburn in una panetteria romana; nel giugno del 1962 a Ischia riprende il bacio tra Taylor e Burton con il suo teleobiettivo Novoflex da 400mm raddoppiato e montato sulla Nikon F. Tutti “colpi” messi a segno da un giovane fotoreporter arrivato da Rieti all’inizio degli anni Cinquanta e che aveva mosso i suoi primi passi nella professione iniziando da fattorino in un giornale della Capitale. L’1 marzo del 1968 la reflex di Geppetti è in azione a Valle Giulia, sede della facoltà di Architettura dell’Università di Roma, dove riprende con vividezza gli scontri di piazza tra i manifestanti e le forze di polizia. L’archivio fotografico di Geppetti, tenacemente conservato dal figlio, conta circa un milione di negativi. Pezzi di storia italiana. Che meritano di essere riscoperti. Assieme alla figura di un uomo che, come racconta il figlio, aveva una integrità morale tale da rifiutare i 12 milioni di lire (cifra astronomica nel 1962) da parte dell’avvocato di Richard Burton per ritirare le foto del bacio. La risposta di Geppetti fu no, perché «io lavoro per la stampa e non per i privati, e poi cosa si direbbe, di me, in giro?». 

·        22 anni dalla morte di Lucio Battisti.

Alessandra Menzani per "Libero Quotidiano" il 20 agosto 2020. Sono passati ventidue anni dalla morte di Lucio Battusti ma il suo mito non dà segni di debolezza. Lui e Mogol prima, e Panella poi, hanno scritto le pagine più belle della musica italiana e ogni tanto spunta qualche perla inedita e rara. Il 9 settembre è l'anniversario della morte e pochi giorni dopo, il 25, uscirà Lucio Battisti - Rarities, una raccolta di piccole, grandi perle dello straordinario artista, distribuite nel corso degli anni in vari supporti: singoli, versioni alternative, rarità e B-sides, che trovano in questo speciale cofanetto il giusto prestigio. Precursore Rarities sarà disponibile in due versioni, CD e LP, entrambe accompagnate da un commento traccia per traccia. Lucio Battisti, musicista dal genio assoluto, dimostra inconsapevolmente di essere ancora una volta precursore dei tempi, perché in un momento storico dove il concetto di single track è tornato prepotentemente di moda, grazie alla fruizione in streaming della musica e sta nuovamente caratterizzando il mercato discografico italiano ed internazionale, lui lo avrebbe di certo intuito in anticipo, accorciando i tempi e bruciando la concorrenza. Dopo oltre 50 anni dall'esordio, possiamo ancora oggi apprezzare tutta la gamma delle sue produzioni, che vanno oltre i pezzi più conosciuti. In questa raccolta sono contenuti brani come la rara Extended Version di Pensieri e Parole, Le formiche che fu scritto per Wilma Goich, La farfalla impazzita portato al Festival di Sanremo del 1968 dall'insolita coppia formata da Johnny Dorelli e Paul Anka e brani in lingua straniera. Questa la tracklist completa di Rarities: Pensieri e parole (Extended Version), Per una lira, Vendo casa, Le formiche, La spada nel cuore, La folle corsa, Perchè dovrei, La farfalla impazzita, Il mio bambino, Les jardines de Septembre, Toujours plus belle, Ma Chanson de libertè, La Colina de las Cerezas, Una Muchacha por Amigo, To Feel in Love, Only. Battisti era un genio della musica. Mentre all'epoca tutti facevano i cantautori impegnati e si schieravano politicamente, lui cantava dolori e sentimenti. Battisti ha segnato un'epoca della cultura musicale e del costume italiani, interpretando in stile poetico temi ritenuti esauriti o difficilmente rinnovabili, come il coinvolgimento sentimentale e gli avvenimenti della vita quotidiana; ha saputo esplorare argomenti del tutto nuovi e inusuali, a volte controversi, spingendosi fino al limite della sperimentazione pura nel successivo periodo di collaborazione con Pasquale Panella, caratterizzato da strutture musicali originali e disarticolate e da un rapporto col testo spinto ai limiti del non sense. La rivista Rolling Stone Italia posiziona Battisti al terzo posto tra i migliori artisti musicali italiani di tutti i tempi, preceduto rispettivamente da Fabrizio De André (secondo posto) e Ennio Morricone (primo posto). Ritiro Nel 1976 si ritira dopo una memorabile tournee con i Formula 3. Poco tempo dopo la decisione, dichiara: «Non parlerò mai più, perché un artista deve comunicare con il pubblico solo per mezzo del suo lavoro». Ha tenuto fede alla promessa. Mogol spiega una delle ragioni del ritiro: «Glielo consigliai io. Almeno all'inizio. Poi si convinse da solo», ha detto a Repubblica, «negli anni Settanta fecero piangere De Gregori quando lo accusarono, lui di sinistra, di essere uno sporco miliardario. E il '68 era stato una follia: o eri falce e martello, Mao Tse-tung o eri un fascista. Gli dissi: «Non andare più in giro, finiranno per sputarti addosso, meglio stare a casa che essere contestato nei concerti».

Michele Bovi Per Sorrisi.com il 28 febbraio 2020. Raitre aveva annunciato per il prossimo 5 marzo, il giorno in cui Lucio Battisti avrebbe compiuto 77 anni, un docufilm intitolato “Insolito Battisti”. Il programma è stato cancellato dai palinsesti per motivi che non sono stati resi noti. Ma noi di Sorrisi siamo in grado di raccontarvi in esclusiva il contenuto di questo “programma fantasma” grazie a Michele Bovi, già autore Rai e autorevole storico della musica leggera italiana. Esiste un album inedito di Lucio Battisti che la famiglia dell’artista scomparso il 9 settembre del 1998 custodisce gelosamente? «Esistono le canzoni, i provini realizzati nello studio professionale che Lucio aveva nella sua casa di Molteno. Lui però era un perfezionista, non volle neanche farci ascoltare quelle tracce musicali. Ci lasciammo a luglio con l’accordo che avrebbe realizzato il lavoro come al solito a Londra. Poco più di un mese dopo se ne andò per sempre». È la testimonianza che Roberto Gasparini, all’epoca direttore artistico della casa discografica Bmg, aveva affidato a “Insolito Battisti”, il docufilm che Raitre doveva trasmettere giovedì 5 marzo (esattamente a 77 anni dalla nascita dell’artista) e poi ha cancellato, un programma che avrebbe raccontato l’intero percorso artistico del più innovativo dei cantautori italiani (con Sonia Bergamasco in veste di volto e voce narrante). Non solo Mogol, dunque. Da “Balla Linda” a “Una giornata uggiosa”, il docufilm (chissà se lo vedremo mai su Raitre) parla dei brani di maggior successo composti assieme al collaudatissimo partner, passando poi all’incantevole “E già”, il primo album dopo il divorzio da Mogol. A scrivere le parole di quelle nuove canzoni fu Grazia Letizia Veronese (in arte Velezia, moglie del cantante). Poi ci sono i successivi cinque lavori, da “Don Giovanni” a “Hegel”, con i testi del poeta Pasquale Panella. Ma in “Insolito Battisti” c’è anche un’incursione tra i pezzi di esordio dell’artista, quando a confezionare i motivi dai titoli e dalle parole improbabili come “Non chiederò la carità” (che nessuno volle pubblicare) era l’amico e primo sostenitore Roby Matano. «Il rapporto con noi discografici era tempestoso» racconta Franco Reali, già amministratore delegato della Bmg. «Lucio contestò persino il passaggio dal vecchio disco in vinile al cd. Capisco le battaglie di sua moglie, contraria a diffondere il repertorio tramite le moderne piattaforme digitali. Giusto o sbagliato, è quello che avrebbe voluto il marito».

I suoi colleghi lo copiavano. «Anche perché nei vari passaggi di supporti (vinile, cd, digitale) sono stati sempre e soltanto gli artisti a rimetterci» commenta il direttore d’orchestra Vince Tempera che collaborò con Battisti e ricorda: «All’epoca accusavamo alcuni esecutori di ispirarsi eccessivamente allo stile di Lucio. Eravamo degli ipocriti: tutti noi musicisti aspettavamo l’uscita del suo nuovo album perché conteneva puntualmente qualcosa di inconsueto, di originale da copiare». Era quindi per evitare spiate di colleghi che Battisti decise di registrare in Inghilterra tutti i suoi ultimi lavori? «No. Lucio preferiva Londra perché riteneva gli inglesi più precisi» spiega l’editore Claudio Buja che produsse nel 1990 l’album “La sposa occidentale”, il terzo dei cinque realizzati con Panella. «Diceva: là se si rompe una manopola dopo dieci minuti la sostituiscono. In Italia stai fermo un giorno. E lui era di una puntualità maniacale: quando s’impegnava a consegnare l’opera per una certa data, non sgarrava di un’ora».

Seguito dai servizi segreti. Non erano soltanto i musicisti a spiare Battisti. Il docufilm raccoglie testimonianze sensazionali, come quelle di due tra i principali esperti italiani in materia di servizi segreti: il giornalista Roberto Di Nunzio, che si occupa delle strategie di comunicazione dello Stato maggiore dell’Esercito, e lo scrittore Aldo Giannuli. Secondo gli intervistati, quando a metà degli Anni 70 cominciò a circolare la voce che Lucio era un sostenitore di gruppi di estrema destra, gli apparati di sicurezza lo misero sotto sorveglianza. Persino le autorità statunitensi vollero verificare il “livello di pericolosità” del cantautore che proprio in quel periodo aveva deciso di trasferirsi a Los Angeles. Franco Migliacci, il nostro paroliere più stimato dagli americani per aver creato con Modugno “Nel blu dipinto di blu”, venne addirittura convocato dai funzionari dell’ambasciata americana per garantire l’estraneità di Battisti a presunte trame eversive. Le indagini portarono a stabilire che l’esclusivo impegno di quell’artista arrivato dalla provincia di Rieti era la musica. “Insolito Battisti”, dunque, racconta tutta la storia del grande musicista, compresi i periodi degli album con le canzoni scritte con Velezia e Panella che non hanno tuttavia raggiunto i livelli di popolarità della produzione con Mogol. «È vero. Ma si tratta di un repertorio che i giovani stanno scoprendo ora, molto più vicino alle sonorità odierne» sostiene il maestro Vince Tempera. «Canzoni meno orecchiabili ma decisamente rappresentative di quanto Battisti fosse avanti coi tempi. L’ultimo Lucio è la musica di domani».

Marinella Venegoni per “la Stampa” il 24 novembre 2020. Il credo politico di Lucio Battisti è uno dei segreti meglio custoditi nel vasto baule dei ricordi pop. Mai ha pronunciato una parola che fosse una su argomenti sensibili in materia, eppure sempre si è detto che era di destra. In epoca nella quale non c' è un artista disposto a compromettersi apertamente, la nostalgia dell' impegno che non c' è più ritira fuori il succoso argomento, che in passato ha dato molto lavoro ai Servizi Segreti, scatenati soprattutto a sinistra. L' agenzia Adnkronos ci scuote raccontando una intervista del collega Michele Bravi a due personaggi del mondo istituzionale, s' immagina in pensione: Aldo Giannulli, storico e consulente di magistrati in materia di intelligence, e Roberto Di Nunzio, project-manager delle strategie di comunicazione dello Stato Maggiore dell' esercito italiano. Il primo, Giannulli, confida: «Fui io a trovare la nota confidenziale dei Servizi che attribuiva a Battisti un ruolo di finanziatore dell' estrema destra. Tra i documenti dell' Ufficio Affari Riservati, durante un' indagine della Procura di Milano sulle stragi dei Settanta, un' informativa lo indicava come sovvenzionatore del Comitato Tricolore». Il comitato aveva la stessa funzione che a sinistra veniva coperta dal Soccorso Rosso. Lo stesso Giannulli confessa di non averci dato molto peso nemmeno all' epoca: «ero abituato a leggere tra le note dei servizi delle balle stratosferiche che facevano solo incassare quattrini agli informatori». Avrà dunque sicuramente ragione Mogol quando, conosciuta la vicenda, si mette a ridere senza freno e poi sbotta: «Quando l' ho conosciuto io, Lucio era povero in canna, veniva a mangiare la minestrina a casa mia. L' ho visto crescere e diventare famoso ma mai, mai nemmeno una volta, mi ha parlato di politica. A lui non gliene è mai fregato niente». Aggiunge ancora Mogol, che non è certo mai stato di sinistra: «Dicevano che eravamo fascisti perché non cantavamo "Bella ciao" come tutti gli altri. C' era una infiammazione psicologica, nei Settanta. E dicevano che ero fascista anche a me, che ero figlio di un antifascista». La voce, secondo Giulio Mogol, si era sparsa per una trasmissione tv, «Tutti insieme», dove si vedeva Lucio che cantava davanti a un esercito di persone "Io lavoro e penso a te": «Al momento del coro, con "Taratatatta" teneva una mano sulla tastiera e alzava dritta la destra per suggerire al coro. Mi ricordo che lo fotografarono con la mano alzata, qualcuno scrisse "E' uno dei nostri"». E' noto che nel covo di via Gradoli delle Brigate Rosse fu trovata la collezione completa di Mogol-Battisti... «Ma io ho parlato sempre della vita, sono sempre stato di una libertà totale mentalmente». Giannuli ricorda invece che Bruno Lauzi, anni dopo, gli disse che Lucio era troppo avaro per finanziare qualcuno. «Non era avaro Lucio, era parsimonioso», ribatte Mogol. E mi vengono in mente le ripetute volte che Lauzi si prendeva in giro da solo sulla stessa caratteristica che attribuiva a Battisti, ricordando le proprie origini di ebreo genovese.

Paolo Giordano per “Il Giornale” il 24 novembre 2020. Riecco l' annosa questione: Lucio Battisti era un attivista di destra? Se ne parla da decenni e, alla faccia del garantismo, per tantissimo tempo uno dei più grandi artisti della nostra canzone d' autore è stato massacrato (e con lui Mogol) per le presunte simpatie politiche. Adesso un altro documento riapre la polemica. In una video intervista che oggi sarà online sul sito Rockol.it, e che ieri è stata anticipata dall' Adnkronos, si conferma che Battisti era sorvegliato dai servizi segreti italiani e americani. Fin qui nulla di nuovo, si era già detto. Ma ora lo storico e consulente di vari magistrati in materia di intelligence Aldo Giannuli e il project-manager delle strategie di comunicazione dello Stato maggiore dell' Esercito Roberto Di Nunzio aggiungono altro materiale parlando con il giornalista (scrupoloso e informatissimo) Michele Bovi. «Fui io a trovare la nota confidenziale dei servizi segreti che attribuiva a Lucio Battisti un ruolo di finanziatore dell' estrema destra», racconta Giannuli: «Nel corso di un' indagine della procura della Repubblica di Milano sulle stragi degli anni '70 mi imbattei in una serie di documenti dell' Ufficio Affari Riservati, il servizio segreto del ministero dell' Interno. Tra quei fogli vi era un' informativa che indicava Battisti come sovvenzionatore del Comitato tricolore, organizzazione fondata da Mario Tedeschi, senatore del Movimento Sociale Italiano e direttore del settimanale Il Borghese, per aiutare gli attivisti di estrema destra che avevano guai con la giustizia. Il Comitato tricolore svolgeva in sostanza a destra le funzioni che a sinistra erano prerogativa del Soccorso rosso». Per chi non ricordasse, il Soccorso Rosso aiutava i terroristi di sinistra ad affrontare le spese processuali legate alle loro attività per lo più criminose. Insomma, per l' informativa dei servizi segreti Lucio Battisti sarebbe stato uno di quelli che versavano denari per togliere dai guai chi faceva attività criminale di destra. Se fosse stato davvero così, sarebbe la conferma di una vulgata che i più grandi conoscitori di Battisti hanno sempre negato. Anche Mogol ieri ha confermato: «Battisti sovvenzionava la destra? Impossibile, la politica non gli interessava». Lo stesso Giannuli spiega: «Io che simpatizzavo per l' estrema sinistra, ma che ero un acceso ammiratore di Lucio, non detti molto peso a quel documento: ero abituato a leggere tra le note confidenziali dei servizi segreti parecchie balle stratosferiche che servivano soltanto a far incassare quattrini agli informatori». Ecco, questo è l' altro lato della medaglia, spesso trascurato per opportunismo, convenienza o, più semplicemente, per fanatismo politico: non sempre i materiali o le indiscrezioni che uscivano dai cassetti più segreti dei servizi segreti erano affidabili. È un segreto di Pulcinella che a molti, in questi decenni, ha fatto comodo ignorare. Per tanti anni, soprattutto a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta, il cosiddetto dibattito (spesso con tre «b», o anche quattro...) viaggiava sui binari delle indiscrezioni o delle supposizioni intorno alla presunta appartenenza politica di Lucio Battisti, che era tra l' altro uno dei pochissimi grandi artisti del tempo a non avere mai fatto dichiarazioni politiche oppure cantato canzoni schierate. «Queste voci nascevano perché non scrivevamo testi politici di sinistra», ha ripetuto ieri Mogol. Però bastarono i versi della Collina dei ciliegi del 1973 a innaffiare di benzina ogni sospetto pregiudiziale: «Planando sopra boschi di braccia tese/ Un sorriso che non ha/ Né più un volto, né più un' età». Per tanti, le braccia tese erano una chiara presa di posizione. Per altri, un semplice riferimento alla copertina del disco precedente, Il mio canto libero. E la polemica non si placò neanche con la scoperta dei dischi di Battisti nel covo di via Gradoli a Roma delle Brigate Rosse che avevano appena sequestrato e trucidato Aldo Moro. In quel tempo, non «schierarsi apertamente» per l' intellighenzia equivaleva a schierarsi con l' estrema destra e quindi Battisti era considerato un pericoloso attivista nascosto. Anche su questo lo storico Giannuli ha un racconto curioso: «Anni dopo mi capitò di parlarne con Bruno Lauzi. Mi disse che Battisti secondo lui votava per il Partito Repubblicano e che non era certo il tipo che sovvenzionava qualcuno o qualcosa: troppo avaro per sborsare un solo quattrino, tantomeno per la politica, che era l'ultimo dei suoi pensieri». Però per l' informativa dei servizi segreti sarebbe stato un finanziatore del cosiddetto Soccorso Nero. In ogni caso, Giannuli allarga l' orizzonte con un altro dettaglio significativo: a quel tempo il servizio segreto del ministero dell' Interno sorvegliava molti altri cantanti famosi come Fabrizio De André, Milva e addirittura Gianni Morandi. In sostanza, era nel mirino il mondo della musica leggera, quasi fosse uno spauracchio per l' ordine pubblico. Ma, forse, da sorvegliare meglio erano altri...

Paolo Giordano per “il Giornale” il 26 novembre 2020. E figurarsi se finiva lì. Ieri è stato rivelato che negli anni Settanta le «veline» dei servizi segreti «attenzionavano» Lucio Battisti, come presunto finanziatore dell'estrema destra. Un ricorso della storia che saltuariamente torna a galla. Ma stavolta lo fa con più virulenza del solito, a dimostrazione che certe leggende non passano mai di moda. Insomma, ieri sul «caso Battisti» hanno parlato in tantissimi, da Gasparri a Red Ronnie fino a Maurizio Vandelli della Equipe 84 e alla per fortuna ristabilita dopo il Covid Iva Zanicchi che ha chiarito alla propria maniera: «Lucio Battisti sovvenzionava l'estrema destra? Lo escludo al mille per mille, ci metto la mano sul fuoco. È solo un voler mettere delle ombre su un uomo meraviglioso, uni dei più grandi artisti che abbiamo avuto, vergogna!». Anche Mogol, uno che diciamo Battisti lo conosceva bene, l'altro ieri aveva negato categoricamente. Uno dei commenti forse più autorevoli è quello dell'ex ministro dell'Interno Roberto Maroni (che aveva accesso ai documenti dei servizi segreti): «Che fosse sotto il controllo dei servizi non è solo possibile, ma direi certo. Ma sono altrettanto certo che quel genio che era Battisti, non si sarebbe fatto mai coinvolgere in cose eversive». E poi ha aggiunto: «In quegli anni si facevano dossier su tutti, li facevano i servizi regolari. Quando nel '94 ho aperto quei faldoni c'era di tutto, tanti nomi anche di personaggi noti». Però che Battisti fosse un'icona non molto amata dalla sinistra più militante si legge tra le righe della dichiarazione di Paolo Cento, ex deputato dei Verdi e dell'Ulivo: «A sinistra, Lucio Battisti è stato sempre considerato un artista di destra al punto che molti non lo ascoltavano neanche». Capito quale fosse l'atmosfera per un artista che, oltretutto, non aveva mai (mai) né fatto né cantato dichiarazioni politiche? Più autoironico il segretario del Partito Comunista, Marco Rizzo: «Eravamo comunisti trinariciuti ma Battisti piaceva anche a noi». Insomma, la riproposizione di una querelle da anni '70 e '80 che non accenna a placarsi. Chi ha portato (presunte) novità è stato Roberto Pambianchi, ex Sismi e ora musicista: «Il padre di Battisti faceva parte delle Camice Nere e negli anni subito successivi alla guerra fu picchiato dai partigiani proprio davanti a Lucio che avrà avuto all'incirca cinque anni. E ne fu scosso. Fu questo che lo portò ad avere una certa antipatia verso il colore rosso che gli ricordava bandiere e magliette rosse che correvano appresso al padre. Alfiero, il papà di Lucio, mi disse proprio che, al di là di questo fatto emozionale, a Lucio la politica in se stessa non interessava». Invece il saggista Adalberto Baldoni, classe 1932, ex segretario di Giovane Italia, ha negato che Battisti finanziasse la destra anche se «era un simpatizzante della Giovane Italia, ma non era un attivista, non frequentava e non ha mai avuto la tessera». In sostanza Lucio Battisti aveva le proprie idee ma non si è mai sognato di esporle pubblicamente oppure di finanziare attività politiche o sovversive. Come scrive Mario Landolfi sul Secolo d'Italia, «lasciateci cullare nell'illusione che Lucio fosse uno di noi». Comunque se ne parlerà ancora per tanto tempo a venire. Senza che Battisti possa confermare o smentire...

Da “la Repubblica” il 18 novembre 2020. Una registrazione del 1976 riemerge alla presentazione della rinata casa discografica Numero Uno di Carlo Moretti «Non faccio da 5 anni interviste nei giornali dove c'è una manipolazione smaccata, arriva al punto di inventare notizie, frasi, per il gusto di schiacciarti». Lucio Battisti spiegava così la scelta di non rilasciare più interviste alla carta stampata in una registrazione del '76 fatta ascoltare alla Milano Music Week, in occasione della presentazione della rinata Numero Uno. Un' etichetta coraggiosa, fondata nel '69 da Mogol, dal padre Mariano Rapetti e dal discografico Alessandro Colombini, affiancati poi dallo stesso Battisti, che puntò sul rock della Formula 3 e che scoprì cantautori come Eugenio Finardi, Ivan Graziani e Edoardo Bennato. La Sony, che rilancia il marchio, ricomincia puntando su artisti indie come Iosonouncane, Colapesce e Dimartino e La rappresentante di lista. Inevitabile il confronto con gli anni d' oro. Mogol ricorda come Battisti riconobbe il valore delle scelte compiute: «Mi disse: "Il mio merito è di aver creduto a un pazzo come te", e non aveva torto, in quegli anni ero abbastanza irresponsabile». Mara Maionchi, che alla Numero Uno si occupava di promozione, la definisce «una stagione fantastica: mi sono divertita e ho imparato cose che mi sono state utili dopo».

Paolo Giordano per ilgiornale.it il 18 novembre 2020. Allora ieri è rinata la casa discografica Numero Uno, che era scomparsa dai radar musicali 22 anni fa. Molti se la sono forse dimenticata ma è stata l'etichetta di Lucio Battisti, di tanti altri super nomi della musica italiana (ad esempio Pfm, Bruno Lauzi, Finardi,Toni Esposito, Pappalardo, Tony Renis, Ivan Graziani, Formula 3) e di alcuni dei migliori autori (Alberto Salerno, Mario Lavezzi, Oscar Prudente, Bruno Tavernese). È stata presentata ieri alla Milano Music Week con la direttrice artistica Sara Potente («Le nostre tre parole chiave sono avanguardia, innovazione e ricercatezza») e il direttore esecutivo Stefano Patara che hanno parlato di fianco (virtualmente) a Mara Maionchi (che allora era l'ufficio stampa: «Non mi sono mai divertita tanto»), Mogol («Battisti diceva di essersi fidato di un pazzo...») e Franz Di Cioccio, ossia i testimoni di quel tempo passato. Quelli di adesso, cioè i cavalli di razza sui quali punta questa nuova fase, sono Colapesce e Di Martino, Iosonouncane e La rappresentante di Lista. Di certo, il livello è molto alto. E a questo si aggiungerà una serie di ristampe prestigiose e, senza dubbio, molto seguite dagli appassionati anche di Battisti, del quale ieri sono stati fatti ascoltare due stralci di una intervista inedita del 1976 nella quale confermava la sua volontà di non fare interviste perché «la manipolazione arriva al punto di inventare notizie, frasi». Fondata nel 1969 da Mogol, suo padre Mariano Rapetti e Alessandro Colombini, ai quali poi si sono uniti lo stesso Battisti, Claudio Bonivento, Franco Daldello e il gigante ormai trascurato Carlo Donida, la Numero Uno ha creato tanti numeri uno, non soltanto in classifica. D'altronde la storia della musica è costellata di queste «culle produttive» che hanno davvero cambiato la storia. Spesso ruotavano intorno a un fuoriclasse, come è stato per la Apple con i Beatles e la Sun Records, che ha scoperto Elvis Presley, Johnny Cash, Carl Perkins, Roy Orbison e Jerry Lee Lewis. Oppure erano veri e propri talent scout di un genere musicale. Ad esempio la Motown che, da Marvin Gaye a Jackson 5, Diana Ross e Commodores, è diventata il simbolo di soul e rhythm'n'blues. Anche la Def Jam di Rick Rubin è stata il primo collettore di rap e hip hop (Beastie Boys e Public Enemy) ma anche di thrash metal (Slayer). Idem per la Sub Pop, testimonial del grunge con Nirvana, Soundgarden, Mudhoney tanto per citarne qualcuno. Al di là delle (ultime tre) major, vale a dire Universal, Sony e Warner Music, l'universo delle case discografiche è sterminato e spesso si ingarbuglia grazie a manovre di mercato o compravendite che passano inosservate al grande pubblico ma hanno comunque rilievo anche sull'andamento delle classifiche. La prima di tutte le discografiche è stata probabilmente la Columbia Records, fondata addirittura nel 1888 e tuttora «titolare» di un parterre formato tra gli altri da Aerosmith, Bob Dylan, Santana, Springsteen e Adele. Ma tante altre micro aziende sono poi diventate giganti, magari per poco, magari solo per una fase artistica. Dal 1957 al 1976 quando chiuse per bancarotta, la Stax Records firmò Rufus e Carla Thomas, Otis Redding, Eddie Floyd e Wilson Pickett, diventando centrale nella mappa geomusicale del tempo. Spesso queste realtà sono state poi assorbite dai grandi colossi. Oppure hanno accettato una partnership (chiamiamola così) che ha lasciato sopravvivere il marchio ma ha talvolta limitato la spregiudicatezza corsara degli esordi. La Verve è un grande nome del jazz (Ella Fitzgerald, per dire) e ora è parte della Universal, come la Blue Note e la Ecm di Jan Garberek, Pat Metheny, Keith Jarrett, Bill Frisell ma anche lo Stefano Bollani del 2009. Insomma, l'industria musicale è un gigantesco puzzle nel quale è difficile rimanere indipendenti. In Italia, dove la Black Out ha scovato e rafforzato talenti come Casino Royale, Giovanni Lindo Ferretti, Ritmo Tribale e Negrita, ci sono due etichette che sono rimaste orgogliosamente indipendenti. Una è la Sugar di Caterina Caselli, che ha un elenco di artisti da major come Bocelli, Negramaro e via dicendo. E l'altra è la Carosello, nata nel 1959 e ora diretta da Dario Giovannini. Negli uffici di Galleria Del Corso a Milano sono passati fuoriclasse come Domenico Modugno e Giorgio Gaber e hanno firmato contratti Nicola Di Bari, Memo Remigi e persino Vasco Rossi (per dischi come Vado al massimo e Bollicine, ad esempio). Insomma, il caso della rinata Numero Uno è un segnale di ripartenza nella ricerca musicale attenta ai soffi creativi più nascosti ma allo stesso tempo slegata da grandi pressioni di mercato. Nei corsi e ricorsi della storia, questo è probabilmente il rinascimento della musica di qualità.

·        21 anni dalla morte di Franco Gasparri.

"Franco Gasparri? Era mio padre: Bellissimo, silenzioso e sfortunato". "Per anni l'idolo delle donne, ma amava soltanto mamma". Massimo M. Veronese, Lunedì 03/08/2020 su Il Giornale. Per Stella Gasparri, attrice, doppiatrice, figlia di Franco, il re del fotoromanzo, papà è sempre una carezza sul cuore: un incidente in moto lo condannò alla sedia a rotelle a 32 anni e la vita se lo è portato via a 51. A lui ha dedicato mostre e un docufilm. Ora che i suoi fotoromanzi sono tornati in edicola un po' di tenerezza c'è.

Come giudica questo ritorno?

«Una bella operazione nostalgia, un po' vintage, che restituisce valore a un periodo bello della nostra Storia. È emozionante, anche al tatto, ritrovarsi i fotoromanzi tra le mani. Come ascoltare un disco in vinile.»

Ed è in sintonia con i tempi?

«Non ce li vedo i ragazzini di oggi andare in edicola. Ma chi amava i fotoromanzi sarà felice di riabbracciarli».

E suo padre ne era il sovrano.

«Godeva di una popolarità enorme, ma aveva un modo schivo di viverla. Aveva una grande vitalità, ma tra dire una parola di più e una di meno preferiva dirne una di meno».

Certi esibizionisti di oggi invece...

«Aveva un ego mansueto, non aveva bisogno, nè voglia, di sgomitare per mettersi in mostra. Aveva magnetismo e questo gli bastava».

E come viveva l'amore delle fans?

«Aveva un po' paura della gente che si ammassava intorno a lui. Quando lo vedevano erano spesso scene di isteria. Diceva però che la popolarità per un attore è un miracolo in più ma è fare l'attore la cosa importante».

E mamma come viveva il fatto d'aver sposato il più bello di tutti?

«Era passionale e molto gelosa. E lui di lei. Quando papà fu ingaggiato per un film in Colombia con Zeudi Araya volle andare anche mamma».

In effetti Zeudi è bellissima...

«Un'amica di famiglia, mi ha tenuto a battesimo. Era incantata dell'amore che avevano l'uno dell'altra».

Con quale partner legava di più?

«Con Michela Roc. Spesso lavorava con Claudia Rivelli, la sorella di Ornella Muti, ma fuori dal set non avevano affinità. Michela era un'amica».

Dell'incidente cosa ricorda?

«Solo una gran confusione. Era piccola, mi tenevano fuori da tutto. Io non ho ricordi di papà in piedi».

E lui come usci da quel dramma?

«Sempre con il suo magnifico sorriso. Trovò un altro tipo di vitalità».

Che voce aveva papà?

«Soave, delicata con una lieve erre moscia. Una voce docissima».

Cosa le è rimasto di papà?

«La bontà, l'onestà nei confronti degli altri e di me stessa». E una meravigliosa voglia di vivere».

·        21 anni dalla morte di Stanley Kubrick.

Franco Giubilei per “la Stampa” il 31 maggio 2020. Non mi sto paragonando a Leonardo da Vinci, ma se avesse scritto sotto Monna Lisa: "Stavo sorridendo perché oggi pomeriggio ho tradito mio marito", il dipinto avrebbe perso molto del suo mistero». Una frase fulminante che racconta bene il rapporto fra Stanley Kubrick e l' enigmaticità non solo di alcuni suoi film, ma dell' arte in generale e del modo di spiegarla. E dice tanto anche dell' estrema parsimonia con cui si concedeva ai giornalisti, per non parlare dell' assenza quasi totale di interviste video. Gli stessi documentari che lo riguardano - A Life in Pictures, Making the Shining della figlia Vivian e Room 237 - sono rarità in cui il maestro del cinema si concede pochissimo alla telecamera. Al punto da essere stato considerato come il Salinger della cinepresa, geloso della propria privacy con la medesima ossessività che metteva nel suo lavoro. Ecco perché il documentario Kubrick by Kubrick di Gregory Monro, che sarà presentato al Biografilm Festival di Bologna in prima nazionale, è un' opera preziosa: la voce del regista americano, inaspettatamente calda e pacata, ne accompagna la visione nelle interviste registrate dal suo biografo per eccellenza, Michel Ciment. Intanto, scorrono le immagini dei suoi capolavori e i contributi di chi ha girato al suo comando: Sterling Hayden nel Dottor Stranamore, stremato dai 38 «ciak» per la scena del dialogo con Sellers, Marisa Berenson in Barry Lindon, Jack Nicholson e Shelley Duvall in Shining. E naturalmente Malcolm Mc Dowell, che al «drugo Alex» di Arancia Meccanica deve la celebrità per un ruolo che finì per inchiodarlo per sempre al ghigno malvagio del protagonista. «Se Stanley ha fiducia in te, allora vai bene, ma se non ce l' ha, devi stare attento», dice McDowell nel trailer, ricordando i sette mesi di riprese estenuanti, «un disastro dopo l' altro per la mia salute», a cominciare dall' incidente durante la famosa sequenza in cui è legato alla sedia mentre è costretto ad assistere a scene ultraviolente: uno scherzetto che gli provocò la lacerazione della cornea. Eppure lo stesso attore sottolinea, al di là della giusta fama di rigore assoluto che avvolgeva Kubrick, la sua capacità di improvvisare sul set come un jazzista, accogliendo i suggerimenti altrui. Vedi l' idea di inserire la canzone I' m singing in the rain durante lo stupro, che venne proprio a McDowell. L' autore di 2001 del resto era un giocatore di scacchi, signore assoluto delle tecniche di ripresa e fotografia - aveva cominciato come giovanissimo fotoreporter per la rivista Life -, che sapeva benissimo come il piano più perfetto nascondesse l' insidia dell' imprevisto sempre in agguato, e trasformava tutto ciò in espediente narrativo: in Rapina a mano armata è la valigia piena di soldi che cade dal carrello spargendo banconote ovunque, sull' astronave dell' Odissea nello Spazio è, lo ricorda Kubrick stesso, «il computer Hal che riesce a leggere il labiale dei due astronauti che si sono rifugiati all' interno della capsula insonorizzata, proprio per non farsi sentire». Una parte importante del documentario è dedicata ad Arancia meccanica, per l' impatto fortissimo del film anche fuori dalle sale, con teppisti e criminali che imitavano nella realtà le gesta di Alex e i suoi Drughi. Tanto che Kubrick ordinò di ritirarlo dai cinema inglesi: uno dei temi, sottolinea il regista, era «il modo in cui l' autorità si tiene in piedi senza diventare repressiva». Quando però nelle cronache compaiono episodi di vera ultraviolenza, il regista risponde così a Ciment: «Non c' è nessuna possibilità di vedere Alex come un eroe». L' intervistatore commenta: «Kubrick è sempre dalla parte delle vittime: nella prima parte del film sta col barbone, lo scrittore e tutte le donne attaccate. Nella seconda è con Alex, divenuto vittima a sua volta». In Full Metal Jacket il meccanismo è analogo: secondo Ciment il pubblico è portato a immedesimarsi nel soldato «palla di lardo», bullizzato dal sergente istruttore fino all' omicidio-suicidio, anche se lo sguardo di Kubrick sulle tragedie umane, in questo film, è particolarmente glaciale. Per realizzarlo il regista, che non si mosse mai dai dintorni di Londra dove viveva da molti anni, si documentò col solito metodo meticolosissimo «attingendo all' immenso materiale documentario esistente sulla guerra in Vietnam», ricorda lui stesso. In quella casa di campagna Kubrick studiava, visionava materiale, faceva casting sulle cassette che gli venivano spedite a poi, a film finito, montava la pellicola nel suo studio privato. Quanto al rapporto fra le persone e la guerra, Kubrick osserva: «Quando leggi le memorie dei soldati sopravvissuti ai conflitti, molti di loro guardano a quelle esperienze come i più grandi momenti della loro vita». E subito viene in mente il piano sequenza finale di Full Metal Jacket, coi marines che subito dopo le atrocità della battaglia cantano allegramente Viva Topolin.

·        21 anni dalla morte di Robert Bresson.

Venti anni fa moriva Robert Bresson, regista rivoluzionario. Giulio Laroni su Il Riformista il 18 Dicembre 2019. Venti anni fa moriva Robert Bresson (1901-1999), uno dei più grandi e meno riconciliati maestri del cinema francese. Se Adorno aveva ragione ad attribuire all’arte rivoluzionaria la funzione di negare l’esistente, di opporsi risolutamente all’estetica borghese, allora Bresson è stato certamente un cineasta rivoluzionario. Per capire la portata sovversiva del suo cinema si potrebbe partire dalla conferenza stampa di presentazione de L’Argent, il suo ultimo film, al 36° Festival di Cannes (1983). Quell’incontro è la rappresentazione ideale di un antagonismo profondo e non risolvibile: quello di un artista in lotta con lo spirito del tempo. All’epoca dell’uscita del film, finanziato con fondi pubblici, qualcuno aveva sollevato una risibile polemica per la presenza nel cast della figlia dell’allora ministro della Cultura Jack Lang: come se produrre i film di Bresson fosse un demerito e non un vanto. Questa polemica nascondeva un’insofferenza più ampia per il rapporto di Bresson con l’industria culturale, ma anche con il cosiddetto cinema d’essai: la sua refrattarietà a ogni compromesso con l’arte di regime faceva di lui un vero e proprio nemico dello Zeitgeist. Durante la conferenza stampa i critici in sala si divertirono a provocarlo e ad attaccarlo: «Non trova che questo film sia frustrante per lo spettatore?», «Lei dice che nei giovani fino ai 35 anni c’è del genio. Lei dunque pensa di non averne?», «Se lei non crede negli attori, perché dunque esistono le scuole di recitazione?». Di fronte a questo fuoco incrociato di domande insulse, Bresson incalzò i giornalisti con un discorso fortemente politico, nel senso in cui questo aggettivo viene inteso dalle avanguardie. «Penso davvero che il cinema debba evolvere. Potrebbe diventare qualcosa di grande, di ammirevole, se non rimarremo fermi al teatro fotografato con gli attori. […] Prenda la pittura. Essa si è evoluta, non si è fermata ai primitivi». E spiegò che il solo modo affinché questo avvenga è di insistere sull’autonomia del cinema dalle altre arti, sul rifiuto della recitazione tradizionale, sul ruolo evocativo del suono. Anche a costo di mettere in secondo piano il profitto (l’argent, appunto) su cui il cinema si fonda. Questo episodio ci dà di Bresson un’idea diversa da quella a cui siamo abituati. Quel cineasta che la vulgata dipinge come un rigido asceta, come il fautore di uno spiritualismo austero ma tutto sommato innocuo, si rivela in realtà un radicale sovvertitore. È sintomatico come i sostenitori di una lettura meramente spiritualista di Bresson si soffermino quasi sempre sulle stesse opere: sull’enfatico La conversa di Belfort (1943), sul fascinoso ma acerbo Diario di un curato di campagna (1951), sul fin troppo simbolico Au hasard Balthazar (1966), più problematicamente sui fondamentali Processo a Giovanna d’Arco (1962) e Mouchette (1967). E ignorino programmaticamente i temi laici e dialettici che attraversano – in misura crescente – la sua filmografia: l’approccio critico-negativo che informa la sua lettura della società, ma anche la messa in immagini; i rapporti non risolti tra individuo e razionalità sociale, il ruolo mortifero del denaro. Importanti in questo senso sono l’interpretazione dialettica di Giorgio Tinazzi nel suo classico Il cinema di Robert Bresson (Marsilio) e quella marxiana di Brian Price in Neither God Nor Master: Robert Bresson and Radical Politics (University of Minnesota Press). Ma soprattutto ai sostenitori di una lettura soltanto religiosa sfugge la totale inconciliabilità fra lo sguardo di Bresson e quello di certi autori imbevuti di misticismo reazionario, primo fra tutti Ermanno Olmi. Certe concessioni al pittoresco nel Balthazar, la voce narrante del prete nel Diario sono il riflesso di tendenze periferiche e accidentali del discorso bressoniano, estranee al nucleo centrale della sua poetica, che si fonda non sull’apologia ma sulla negazione. All’irrazionalismo pacificato di un Olmi si contrappone la geometricità del soprannaturale bressoniano; alla mitologia bucolica la sublime freddezza dell’ingranaggio, lo schioccare del meccanismo; alla frigidità dell’uno l’erotismo violento dell’altro. Un erotismo che non si limita ai due straordinari adattamenti di Dostoevskij, Così bella così dolce (1969) e Le quattro notti di un sognatore (1971) ma si fa strada lungo tutta l’opera bressoniana: dal corpo di Agnès vestita da sposa in Perfidia (1945), immagine quasi goethiana, alla Jeanne di Pickpocket (1959), a Lancillotto e Ginevra (1974). Ma per interrogare il cuore della poetica bressoniana occorre tornare al discorso di Cannes e all’appello all’autonomia del mezzo filmico. Nelle sue Note sul cinematografo (Marsilio), Bresson definisce il cinema come una «scrittura di immagini in movimento e suoni». La nozione di scrittura filmica è centrale per cogliere il senso di quell’appello: autonomo è per lui solo quel cinema in grado di dotarsi di un linguaggio indipendente dalle altre arti. Se fosse ancillare al teatro il cinema metterebbe al centro le interpretazioni degli attori e le asseconderebbe in piano sequenza, se fosse subalterno alla fotografia si affiderebbe al particolare irrelato e all’inquadratura singola. Un cinema autonomo cerca invece nel montaggio il suo mezzo specifico e nella giustapposizione il suo motivo centrale. Ecco dunque una possibile chiave di lettura per decodificare la poetica di Bresson: la ricerca di un cinema puro. Il tema del cinema puro è stato inteso nel Novecento in molti modi, ma ha acquisito con Hitchcock il suo significato corrente: una forma di scrittura in cui l’attore asseconda la macchina da presa e non viceversa; in cui lo sguardo predilige il trattamento soggettivo alla neutralità; in cui la filosofia del “master and coverage” cede il posto a una costruzione, appunto a una scrittura. Pochi – tra questi David Bordwell – hanno saputo cogliere questa ideale linea di tendenza che lega Kuleshov a Bresson passando per Pudovkin e Hitchcock. In un’epoca in cui il cinema è tornato ad essere teatro filmato o “picture of people talking”, quella di Bresson è una sfida che rimane aperta.

·        21 anni dalla morte di Fabrizio De Andrè.

Marco Molendini per Dagospia il 18 febbraio 2020. De Andrè subito santo protettore della memoria. L'ultima consacrazione viene dal Concerto ritrovato, il film di Walter Veltroni sulla reunion del 1979 con la Pfm, documentario costruito sulle immagini dimenticate per 40 anni di un incontro musicale speciale, che è arrivato ieri nelle sale, dove resterà fino a domani. «Fabrizio De Andrè e Pfm – Il Concerto ritrovato», questo il titolo completo, è stato il maggior incasso della giornata, quasi il doppio di «Gli anni più belli» di Muccino (270 mila euro contro 160) il triplo del pluripremiato agli Oscar «Parasite» (98 mila). Per il fondatore del Pd la risposta dei fatti alle accuse di Libero che, nel furore della polemica politica (territorio da cui Veltroni da tempo si tiene lontano), aveva vaticinato il flop. Per Fabrizio, la conferma dello stato di grazia di cui vive il suo ricordo. Tutto quello che tocca o che porta il suo nome diventa oro. E' così da ventuno anni, da quando Faber (come lo aveva ribattezzato l'amico Paolo Villaggio) ha smesso di vivere. Aveva 59 anni, aveva fatto sempre quello che aveva voluto senza mai cercare il successo. Invece, il successo, è arrivato, smisurato, senza pause o ripensamenti, quando non toccava più a lui scegliere. Da allora è stata una marea stimolata da continue sollecitazioni. Ora tocca al compleanno, gli 80 anni che Faber avrebbe compiuto oggi. Tributi un po' dappertutto a cominciare da Genova, la sua città e dalla Sardegna, l'isola del rapimento, e dalla tv (Sky arte che si dedica al suo album Le nuvole). Un flusso che si aggiunge al culto della nostalgia sostenuto da una folla di fedeli e qualche volta da approfittatori. A nutrire le vestigia di De Andrè il figlio Cristiano, che continua a viaggiare sulle orme del padre, esorcizzando i postumi di un rapporto tribolato (Fabrizio aveva un caratteraccio) e oggi addirittura invoca il Nobel (lo ha detto in un'intervista). C'è poi la moglie Dori Ghezzi che, con la Fondazione intitolata al marito, ne tiene in vita l'opera con intensità recuperando tutto il possibile anche se lei stessa una volta ci aveva confessato: «Fabrizio pretendeva che si cancellasse tutto ciò che non gli piaceva». Ci sono poi i tanti colleghi, illustri da Vasco a Ligabue e meno illustri, che hanno cantato e cantano le sue canzoni, le reinterpretano, in alcuni casi le hanno anche storpiate. Il più bello resta l'omaggio che Battiato fece nel suo album Fleur rileggendo La canzone dell'amore perduto e Amore che vieni, amore che vai insieme con la versione jazz fatta da Danilo Rea della musica del cantautore. Ma non sempre le ciambelle della rievocazione escono col buco (vedi il recente programma Una storia da cantare con Enrico Ruggeri e Bianca Guaccero). Il rischio delle celebrazioni infinite (non c'è giorno praticamente in cui non ci sia sparso per l'Italia un concerto dedicato alla sua musica) è proprio questo, il tributo che diventa sfruttamento del cognome a cui non si è sottratta la nipote Francesca esposta nella vetrina in quel circo di varia disumanità che è il GF Vip. O diventano inutile sbandieramento di un nome amato come con l'improbabile film tv, Principe libero. Ma Fabrizio tutto questo non lo sa: riposa in pace, ormai da 21 anni.

Gino Castaldo per “la Repubblica” il 12 giugno 2020. Era l' aprile del 1984 e Fabrizio De André aveva appena messo sottosopra il mondo della canzone con una strabiliante magia intitolata Creuza de mä , un intero disco cantato in un musicalissimo ma incomprensibile dialetto genovese. Uno dei massimi artisti italiani della parola cantata ci stava dicendo che non voleva essere capito, o meglio che in questo caso essere capito o meno non aveva alcuna importanza, proprio lui che era il più nitido e carismatico cantore di storie, lui che aveva scolpito versi indimenticabili. Una svolta epocale. Creuza de mä , firmato insieme a Mauro Pagani, era un disco sublime e coraggioso che volava su onde di musica mediterranea in un viaggio di incanto. Quel giorno Fabrizio si presentò insieme a Mauro Pagani, e per tre ore ci chiudemmo in una stanza della sede romana della Ricordi. Quello che segue è il resoconto in gran parte inedito di una straordinaria conversazione che iniziò più o meno con queste parole: «La canzone è un miracolo, come la moltiplicazione dei pani e dei pesci a cui del resto non ho avuto la fortuna di assistere. Come si fa altrimenti a spiegare un' emozione, soprattutto se poi la devi comunicare? Più cerchi di spiegarla più se ne va affanculo tutto quello che da un punto di vista scientifico è imperscrutabile, immotivato».

Da dove parte il lungo viaggio che vi ha portato al disco?

«Nasce dal mio amore per la musica etnica e dalla possibilità di lavorare con uno che questa musica la conosce sul serio, quasi un etnologo nella capacità di usare certi strumenti. Mi rendo conto che un oud arabo suonato da un bresciano può sembrare strano, ma funziona a meraviglia. La verità è che eravamo stufi della narcosi che viene fuori dai suoni ripetitivi che si sentono in giro, abbiamo usato un abito talmente vecchio che paradossalmente sta tornando di moda».

Eppure alla fine per rappresentare questa vastità avete scelto di usare solo il dialetto genovese. Come mai?

«Ero partito dall' idea di usare varie lingue, ma non ne ero padrone, conosco bene il sardo dell' interno, e anche l'occitano, ma alla fine il genovese mi sembra appropriatissimo stilisticamente, e ci sono rientrato, perché di fatto non lo parlavo da anni. Di base avevamo paura che nascesse un Minotauro, se avessimo usato la lingua italiana sarebbe uscito fuori un mostro perché comunque la lingua italiana che si usa per versificare è una lingua aulica, e invece le piccole etnie usano il loro vocabolario per intero, comprese le parole cosiddette sconce, senza che nessuno abbia niente da ridire. Se in italiano dici "fica cazzo" pensano: questo vuol fare il furbo e vendere più dischi. Così invece ho potuto parlare molto più liberamente».

Non c' è la paura di essere poco compresi fuori da Genova?

«Dico la verità, sono convinto che la lingua decade a indegnità di dialetto e un dialetto assurge a dignità di lingua solo per motivi storici e politici, non per motivi intrinseci all' idioma stesso, perché quando un idioma ha abbastanza avverbi, aggettivi e parti del discorso per esprimere non solo le sue ragioni ma anche i sentimenti, a quel punto è una lingua. Ad esempio il Portogallo che era una regione iberica, liberata definitivamente dal giogo castigliano dal Seicento, si è andato a prendere il Mozambico, l' Angola e il Brasile, ma non si può dire che in Brasile parlino un dialetto portoghese, è diventata lingua. Genova fu venduta ai piemontesi col Regno d' Italia, e i genovesi hanno dovuto dire: da oggi noi parliamo il dialetto genovese, porca A Genova ormai gli scalini li chiamano "scalin", io mi ricordo che si diceva "scain", il posto lo chiamo "scito" come in italiano "sito", nel disco ci può essere qualche piccolo errore di pronuncia perché sono tanti anni che sto a Milano e non riesco a parlare il genovese, ma ho cercato di essere preciso, è il dialetto a cui sono rimasto, quello delle strade di via Piave e via Trieste dove facevo le sassaiole con gli altri "ragazzacci", all' epoca passava una macchina ogni ora e mezzo, si giocava alle "grette" coi tappi delle bibite disegnati con i colori delle maglie delle squadre ciclistiche. Pur essendo di estrazione medio-borghese non mi hanno mai impedito di frequentare la strada, per fortuna».

A cominciare dal titolo, in questo disco si percepisce ovunque il mare, quasi fosse un viaggio che collega idealmente con suoni e riverberi i diversi porti del Mediterraneo. Qual è alla fine il suo rapporto col mare?

«Un rapporto abbastanza diretto, l' ho preso per andare a pescare, l' ho preso per fare dei viaggi, per emigrare, anzi sono uno dei pochi casi di emigrato ligure in Sardegna. Per quanto mi riguarda il mare è un posto dove si vive malissimo, infatti nessuno è più amante della terra del navigante, e infatti Creuza de mä, la mulattiera di mare, vede il ritorno di questa gente bagnata fradicia, insalinata, che arriva a farsi finalmente una mangiata in terra».

Questo disco in dialetto modifica nella sostanza il suo approccio da cantautore?

«Per la prima volta ho deciso di non fare il cantautore ma il cantante, quindi ci siamo preoccupati del suono, del fonema cantato, il dialetto genovese è ricchissimo di iati, dittonghi, forse più dell' inglese. Perché dovrei dire ma-ri-na-io quando c' è "mainà" che posso tenere a lungo, "mainààààà", oppure troncare secco "mainà". Trovo più divertente fare una cosa che si ascolti volentieri e che comunichi delle emozioni, senza per forza dover fare dei "bei" testi. Diciamo che questa è musica cantata».

Come pensa di sostenerlo un disco del genere, o più banalmente come pensa di promuoverlo?

«Intanto non trovo indispensabile associare la persona al disco che ha fatto. Bisognerebbe arrivare a Borges, a pensare che l' autore non dovrebbe neanche esistere. Abbiamo cercato di dare un calcio a una porta chiusa, e non venderà un cazzo (il disco al contrario è uno dei più venduti della storia della discografia italiana, ndr) ma non è che mi disturbi, cioè mi disturba sul piano economico, io in banca ho pochi milioni con un' azienda agricola da mandare avanti in cui rimetto i soldi, quindi io e Dori siamo due straccioni, ma se il lavoro dell' artista deve esere svilito, ok, sviliamolo, ma non andiamo a fare gli spot, quello no, non accetto l' ansia di vendere, anche se sono ansie che ti fanno venire, e intediamoci non voglio parlare male dell' industria discografica della quale usufruisco ampiamente, ma queste ansie mi vengono comunicate anche in sala in realtà quando superi gli ottanta milioni di budget per un disco vanno tutti in crisi, dicono ommammmia Per me è molto più facile scrivere un pezzo che non andare a promuoverlo, anzi per me è una vergogna andare in giro a reclamizzare il mio prodotto come se fossi un venditore di castagne».

Quindi di andare in televisione non se ne parla?

«Il fatto è che se tu ci vai e sei una persona lunatica e in quel momento non ti senti bene, devi avere la possibilità di dirlo al pubblico, come in concerto, se non sto bene io lo dico: scusate guardate, stasera sarà un concerto del cazzo perché sto male o perché sono ubriaco, è una cosa umana, normale, sono un automa?».

Dal vivo è tutt' altra cosa. Anni fa però le capitò di essere contestato in un concerto con la Pfm, anche se da un piccolo gruppo di estremisti.

«Negli anni Settanta succedeva. Francesco (De Gregori, ndr) ci ha messo sette anni per tornare a suonare a Milano, dopo che fu processato a un concerto. Io ho detto una cosa molto semplice, lo consideravo un disturbo di una minoranza a danno di una maggioranza. Ognuno era libero di fare quello che voleva, ma io me lo ricordo, scesi giù in platea, gli andai addosso, non mi stava bene, io non ce l' avevo con nessuno e non vedo perché qualcuno dovesse avercela con me. Io stavo lavorando».

Di base però il suo rapporto col pubblico non è mai del tutto sereno...

«Mi sento sempre sotto esame, non sono mai tranquillo e, senza andare troppo nel profondo, è semplicemente la paura di essere giudicato. Il fatto è che ho cominciato a cantare in pubblico a 35 anni, il primo concerto fu alla Bussola il 18 di marzo del 1975. Il secondo a Pisa per Lotta Continua e il terzo a Piazza Navona, per Pannella».

Quanto è importante collaborare?

«Decisivo. Di 120 canzoni che ho scritto, sessanta usufruiscono della collaborazione altrui, quando uno è in carenza creativa l' importante è trovare i collaboratori giusti, un disco è un mosaico, come il cinema, qui siamo noi due, io e Mauro, e lui ha scritto i pezzi come gli sembrava che venissero bene. All' arrangiatore una volta al massimo dicevo: mi raccomando le tonalità, io canto in la minore, sol minore oppure in do maggiore, tutto qui, spesso mi arrivava l' arrangiamento già finito. Ora è diverso, Mauro è un creativo, del resto io non mi sento come Leopardi che dice eccomi qui, messo a nudo, da solo sulla montagna, mi ispiro e vi do il verbo. Anche il modo di fare dischi è cambiato, per fortuna. Agli inizi entravi in un vecchio studio, c' era la regia con gente che ti guardava da lontano, distante, sembrava di essere ricevuti da Mussolini. Ma tanto, alla fine, il nostro hobby è vivere, peccato che possiamo dedicarvi poco tempo».

De André & PFM: il film. Pubblicato mercoledì, 12 febbraio 2020 su Corriere.it da Chiara Maffioletti. Fabrizio De André non aveva un bel rapporto con la tecnologia: ha avuto un cellulare per due mesi, ma dopo una bolletta da 19 milioni (glielo avevano clonato), ci aveva messo una pietra sopra. Anzi, diverse. «Aveva voluto che andassimo in giardino, ai piedi di un albero — ricorda Dori Ghezzi —. Con una pala aveva scavato una buca per sotterrare il telefono: gli aveva fatto il funerale». Non c’è da stupirsi se dello storico sodalizio del cantautore con la PFM, non ci fosse quasi più traccia video. «Non voleva le telecamere. Per 40 anni ho vissuto con il rammarico di non essermi mai visto sul palco con Fabrizio. Io poi, che lo vedevo solo di spalle — racconta Franz Di Cioccio, batterista della PFM —. Ma non c’era verso. Tempo fa, però, ne ho parlato con una persona che si complimentava per il disco; quando gli ho detto che mi spiaceva non ci fossero le riprese dei concerti, mi ha risposto: «Ti sbagli, ci sono. L’ho filmato io: da ragazzo facevo il cameraman». Ecco la scintilla. Di Cioccio ha rintracciato chi — il 3 gennaio del 1979, a Genova — aveva immortalato un concerto diventato tra i più celebrati, Piero Frattari, il regista che, grazie a un po’ di fortuna («i nastri erano scampati al macero») e a una nevrosi («sono un accumulatore: non butto niente»), aveva conservato quelle lontana riprese fatte quasi di nascosto: «De Andrè aveva accettato a patto che fossimo invisibili». Ed è dal recupero e restauro di questo prezioso materiale che è nato Fabrizio De André e PFM. Il concerto ritrovato, un docufilm, diretto da Walter Veltroni, nelle sale il 17, 18 — giorno in cui il cantautore avrebbe compiuto 80 anni — e 19 febbraio. Il racconto del concerto è anticipato dalle testimonianze di chi lo ha vissuto, in un viaggio nella memoria che è anche «un viaggio nel tempo» fino alle origini di un rapporto artistico inatteso. Riprende Di Cioccio: «Il destino lancia i dardi dove gli pare... Eravamo in concerto a Nuoro e chi era venuto a vederci? De André. Allora scatta l’idea: perché non suonare assieme?». Il cantautore era scettico: «“Mi sono ritirato in campagna, adesso faccio l’allevatore”, aveva detto. Poi però si era consigliato con diverse persone dell’ambiente musicale... e tutti, ma tutti gli sconsigliavano di lavorare con noi. “Pensate sia pericoloso?”, aveva chiesto. “Allora lo faccio”». L’ostinazione di De Andrè nel percorrere le strade in direzione contraria è alla base di un progetto a cui il film restituisce tutta l’energia. «Anche a noi davano dei pazzi... mescolarci con lui... — spiegano dal gruppo — ma la bellezza era unire pubblici destinati a restare distanti». Il cantautore e una rock band diventavano un «cantagruppo». Veltroni: «Dallo scrigno della memoria ci siamo trovati questi nastri: l’idea era restituire anche il clima di quegli anni, difficili dal punto di vista sociale. Ma anche l’importanza culturale di questa operazione: è l’incontro di due diversità che sarebbero rimaste parallele se, a un certo punto, non fosse venuta voglia di eliminare un recinto. Questo ha generato una meraviglia che finalmente non è più solo per chi era ai concerti: ora tutti potranno vedere quello che si immaginava non esistesse». Il bassista Patrick Djivas, conferma: «È stato uno tsunami artistico. Ancora adesso i ragazzi conoscono a memoria questo concerto». Franco Mussida: «Di Fabrizio mi manca la sua capacità di raccontarci le cose che tutti guardano ma che pochi vedono». Tra chi ha amato il progetto, Dori Ghezzi: «Lo temevo molto, ma non ho sentito nostalgia. Anzi, ho ritrovato l’atmosfera di quel palco». Il film si chiude sotto quell’albero del giardino di casa loro. Un uomo scava con la pala: il telefonino era ancora lì.

·        20 anni dalla morte di Vittorio Gassman.

Perché è necessario ricordare il genio di Vittorio Gassman. Il Mattatore è stato il più grande di sempre. Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 06 luglio 2020. Come per i film di Totò e le regie di John Ford, nella hit delle dieci interpretazioni di ogni tempo ce n’è almeno una di Vittorio Gassman, ognuno si scelga la propria. Bruno Cortona nella spider che spiega l’ansia del vivere al Trintignant del Sorpasso (pensa se quel ruolo fosse stato assegnato ad Alberto Sordi); il soldato Busacca che tenta di corrompere Sordi nella Grande guerra (“L’italiano in fanteria, il romano in fureria”); Brancaleone da Norcia che arringa i suoi dal ronzino, “Imo così sanza una meta…”; il pugile suonato dei Mostri, Peppe er Pantera dei Soliti ignoti, il borghesissimo intellettuale della Terrazza che sbotta contro i suoi sodali, quel branco di privilegiati depressi che fanno persino più schifo dei privilegiati contenti. Sono solo alcuni degli eroi gassmaniani che hanno segnato la mia vita. Il fatto che, a voce unica, le reti Rai, Mediaset e La7 abbiano omaggiato il ricordo del più grande attore italiano di sempre mi riconcilia con la tv. Conservo ancora come un feticcio l’audiocassetta con la mia intervista a Gassman al crepuscolo della sua incredibile esistenza, impegnato nell’Affabulazione di Pasolini, dove recitava per la prima volta col figlio Alessandro. Gassman era un mondo a sé, una spanna sopra tutti, in grado di toccare tutti i registri narrativi; e di traversare generi e ruoli, ma pure di “gassmanizzare” generi e ruoli stessi. Televisivamente aveva fatto mille Canzonissime, recitato mille poesie e mille copioni (l’Adelchi, 1961) ma era conosciuto soprattutto per Il Mattatore del “Canale unico Rai” , ( ’59), autori  Guido Rocca, Federico Zardi e Indro Montanelli. Il Mattatore -poi divenuto un film e un sostantivo- era uno spettacolo “misto”, difficilmente classificabile come Gassman stesso: teatro classico, satira politica e di costume, varietà, classificato da Aldo Grasso nella Enciclopedia della tv come antesignano dei “programmi contenitore”.  Verrà riproposto da Mediaset nel ‘99 come “Corso accelerato di piccole verità”. Il mio ricordo gassmaniano preferito, però, è il film da lui diretto nel ’56, Kean, genio e sregolatezza, sulla figura di un superbo attore ottocentesco pieno di talento quanto di vizi e di debiti. Il latore di un’idea tracimante, luciferina e al contempo mistica della recitazione.  Gassman, non a torto, riteneva di esserne la reincarnazione. Non ce n’è sarà mai un altro così…

Katia Ippaso per “il Messaggero” il 22 giugno 2020. Il 29 giugno del 2000 moriva per un attacco cardiaco, a 78 anni, Vittorio Gassman, il grande mattatore che avrebbe voluto in realtà fare lo scrittore (a soli 19 anni compose Tre tempi di poesia, e in età matura pubblicò testi teatrali e libri autobiografici), uno dei più amati e celebrati attori del Novecento che aveva in odio la sua voce (la considerava «una voce di merda»), un divo timido eternamente innamorato delle donne, amico fraterno e immagine allo specchio di Dino Risi. A 20 anni dalla sua scomparsa, Marco Risi, 69 anni, figlio amatissimo di Dino (che lo chiamava il pensatore), regista come lui, disegna un ritratto inedito dell' indimenticabile protagonista de Il Sorpasso. Risi si muove nella sua casa romana come se dovesse scoprirne ancora qualche angolo sconosciuto: i suoi passi sono leggeri, quasi inudibili. Parla del suo Gassman, l' uomo bellissimo annebbiato dalla depressione, il raffinato artista che negli ultimi anni della sua vita era stato sopraffatto dalla malattia e al cui tormento l' autore di Mary per sempre avrebbe voluto dedicare un film, Caro Vittorio, opera rimasta alla fine incompiuta. La conversazione parte da una fotografia che il regista romano tira fuori da un cassetto. In questa immagine del 1999, Gassman si apre in una di quelle risate contagiose che ci ha regalato al cinema, Marco Risi sorride con tenerezza.

Dove eravate?

«A Todi, dove abbiamo girato i primi otto minuti di Caro Vittorio, il docu-film che avrei voluto fare su di lui. Iniziava così: mentre recita i versi di Dante a teatro, Gassman perde la memoria. Sono finito, finito, dice agli altri attori che sono con lui. Il sipario si chiude e Il pubblico in sala rimane attonito. Finché poi non torna in scena recitando un sonetto scanzonato del Belli».

Quale direzione avrebbe dovuto prendere il film?

«Volevo raccontare la fragilità di Vittorio, in contrasto con la sua prestanza fisica e la sua presunta arroganza. Lo spunto mi era venuto una sera che lo incontrai in un ristorante di Roma. Io ero con la mia ex moglie, Francesca D' Aloja, lui con la sua ultima moglie, Diletta D' Andrea. Vidi nel suo sguardo un vuoto, una disperazione, che non avevo mai visto prima. Più in là, gli parlai dell' idea e lui, per quanto titubante, accettò. Ma poi cadde nella sua terza depressione e ci dovemmo fermare. Sono sicuro che tornare a lavorare l' avrebbe salvato».

Ne è ancora convinto?

«Sì, ma come scrive Rimbaud, per delicatezza ho perso la vita. Dovevo insistere».

Gassman riusciva a parlare della sua depressione?

«Quando ci cadeva, diventava completamente indifeso. Poi, quando ne usciva, arrivava a parlarne con nostalgia».

Nel suo libro Forte respiro rapido, la mia vita con Dino Risi, da poco pubblicato da Mondadori (288 pp., 18 euro), dedica interi capitoli alla figura di Gassman: chi era per lei?

«Da piccolo mi faceva un certo effetto vedere Vittorio sullo schermo, perché mi sembrava di vedere mio padre. Per quello che diceva o faceva: un gesto, una battuta, un calcio a un barattolo. Era come avere due padri, uno vero e uno sullo schermo. E mio padre non ha amato nessun altro attore come ha amato Gassman».

Suo padre approvava il suo progetto di film con Gassman?

«Era contrarissimo: non voleva che si parlasse della depressione di Vittorio. Il 29 giugno del 2000, toccò a me dargli la notizia. Quando sentii il suo silenzio al telefono, scoppiai a piangere. Poi, dopo, mio padre mi disse che da quel giorno aveva cominciato a morire anche lui. E adesso, a ripensarci, devo dire che i funerali di Vittorio furono come la prova generale di quelli di mio padre (7 giugno 2008, ndr)».

In un capitolo del libro, ammette di aver sofferto anche lei di quel male che all' inizio chiama stress, poi attacco di panico, finendo col dargli il suo vero nome: depressione.

«Avevo 25 anni, e ha avuto l' impatto di una bomba. Per fortuna non è più tornata ma evidentemente la mia è una inclinazione che mi ha portato ad amare il lato più fragile degli uomini».

Tra i 16 film che Dino Risi ha girato con Gassman, a quale è più legato?

«Non amo l' ultimo, Tolgo il disturbo, mentre sono molto legato a Profumo di donna. Ma se devo pensare a un film che riesce a descrivere in maniera perfetta gli anni Sessanta, il boom, la sete di vita che ci avrebbe portato allo schianto, dico che il film che è riuscito a raccontare anche quello che sarebbe successo dopo, ecco quel film è Il sorpasso, e non lo batte nessuno».

Con Alessandro Gassman, il figlio di Vittorio, vi siete contesi una donna.

«Quando Francesca D' Aloja lasciò Alessandro Gassman per me, non so perché, ma ne volle parlare subito a Vittorio, che andò su tutte le furie: Ricordati che tra i Gassman e i Risi hanno sempre vinto i Gassman!».

Quale era il lato ombra di Gassman?

«Era imprevedibile. Una volta mi disse, anche con una certa soddisfazione: Sai che 30 anni, una sera a cena, di fronte a tutti, fa ho detto a tuo padre cose così cattive che l' ho fatto piangere davanti a tutti?».

Glielo disse con pentimento?

«Al contrario, me lo disse con una certa soddisfazione».

E quali parole dure aveva indirizzato all' amico Dino?

«Nessuno dei due volle riferirmelo».

È vero che Gassman avrebbe dovuto recitare nel suo Muro di gomma?

«Quando glielo proposi, mi rispose: Chiama il mio agente!. Era un grande artista, timido, sensibile, coltissimo, e al tempo stesso capace di una certa divertita ferocia. Con Sordi, per esempio, non fu tenero».

Cosa accadde?

«La loro inimicizia nacque sul set de La Grande guerra di Monicelli. Sordi provò a mangiarselo vivo con mosse e controscene. Gassman se ne accorse e andò da Alberto minacciandolo con i pugni serrati: Guarda che io meno!».

L' insegnamento di Gassman che ricorda ancora oggi?

«Una volta Vittorio mi disse: Non sarai mica uno di quelli che stanno tutto il tempo attaccati al monitor? Io ho bisogno del regista che mi guarda. Da allora sto sempre accanto alla macchina da presa e ogni volta che do lo stop mi piace vedere gli occhi dell' attore che guardano i miei per capire come e andata».

Masolino d'Amico per “la Stampa” il 29 giugno 2020. Al giovane che volesse farsi un'idea su chi è stato Vittorio Gassman direi di iniziare dalla prima puntata della serie tv Il Mattatore, recentemente riproposta da Rai5. Lì il Gassman re del teatro classico si prepara a lasciare spazio al protagonista cinematografico di un trentennio di commedie realistiche e talvolta sconsolate. Il 4 febbraio 1959 Gassman debuttò come incontenibile showman a tutto tondo, cantando, ballando, eseguendo acrobazie, e poi esibendo una nuova vena farsesca. Sul palco aveva scalato tutte le vette possibili da quando nei primi Anni 40 era uscito dall'Accademia d'Arte Drammatica come il suo allievo più completo. Dotatissimo fisicamente (magari troppo alto per la media di allora), aveva lavorato accanitamente sulla memoria, di cui non avrebbe mai più smesso di essere orgoglioso («Nella testa ho almeno 13-14 ore di repertorio»), e sulla voce, un vero organo con cui sfogò il suo amore viscerale per i suoni della lingua, soprattutto letteraria. Nell'Italia postfascista il rischio era di cadere nella declamazione e nel trombonismo, ma lui seppe evitarlo, particolarmente agli inizi, riuscendo a mitigare l'enfasi con la spontaneità (a volte, in seguito, indulse ad abbacinare il pubblico con mezzi più superficiali). In quel 1959 era già stato più volte Amleto, Otello, Saul, Tieste e superuomini consimili in spettacoli di cui la sullodata Rai5 ora recupera pallide registrazioni in bianco e nero dove latita, fatalmente, il rapporto con la sala. Quanto al Mattatore: la trasmissione fu incoraggiata dalla rivelazione, l'anno prima, di un nuovo Gassman tutto da ridere. Il film come ognun sa era I soliti ignoti, innovativo in quanto girato in toni scuri come un noir, commentato con musica jazz, e senza comici di professione (spaventato, il produttore vi volle, almeno, un'apparizione di Totò). Ora, il cinema non aveva mai visto Vittorio come eroe positivo: troppo aitante, buono per filmetti in costume (Lo sparviero del Nilo) o ruoli di antagonista malvagio (Riso amaro). Per farlo accettare nella nuova veste il regista Mario Monicelli gli cambiò i connotati con un naso finto e ne camuffò la limpida dizione facendolo balbettare. Le conseguenze si possono toccare con mano nella predetta puntata del Mattatore. Dove, dati saggi della sua strepitosa eleganza di interprete (quattro brevi Don Giovanni da Tirso de Molina a Cechov, Garcìa Lorca su Ignacio Sànchez, il tema essendo la Spagna...), il nostro scende nell'arena come Peppe er Pantera, affiancato da Ferribbotte e applaudito da Capannelle, e poi tormenta una malcapitata mucca (oggi non glielo lascerebbero fare), fino addirittura a scavalcarla con un salto mortale. Tragico e comico, dunque. La sua carriera cambiò. Al teatro sarebbe sempre rimasto legato, anche se andò sempre più verso gli assoli, dopo lo sforzo ambizioso ma sfortunato della fondazione di un teatro popolare itinerante, inaugurato con un roboante Adelchi. C'era il cinema. Dove Gassman fu il primo a scoprire che l'invenzione firmata Alberto Sordi, di appassionare con le vicende di un uomo mediocre e in fondo spregevole, era alla portata anche di attori diversi da lui. E prima del mitico Sorpasso, che avrebbe inaugurato un fertilissimo sodalizio col regista Dino Risi, sfidò il mostruoso, geniale archetipo ne La Grande Guerra, senza uscirne sconfitto. Questo film rimane affascinante anche per il duello tra il massimo attore spontaneo e il massimo attore costruito. Solo che Gassman fu costruito solo nella misura in cui il suo lato teutonico per via paterna gli impose perfezionismo e disciplina. Ma per il resto era attore nato, e attore fu al cento per cento. Non solo nel percorrere le tappe rituali, a partire da un primo matrimonio con una figlia d'arte (Nora figlia di Renzo Ricci e nipote di Ermete Zacconi); ma nella vita di ogni giorno. E qui bisogna ricordare l'uomo. Le persone normali fingono di essere se stessi; gli attori fingono di essere qualcun altro. Alcuni lo fanno ingenuamente. Vittorio era troppo intelligente e troppo colto (leggeva di tutto, tutto ricordava, e scriveva superbamente) per adeguarsi a un modello scontato. Così la parte che recitava nella vita era piena di autoironia. Il grande attore lascia sempre uno spiraglio perché si veda che recita; e lui era spiritoso, generoso, disponibile. Il lato segreto veniva fuori conoscendolo meglio, per esempio la sua totale incapacità nelle cose pratiche - non sapeva tenere i conti, né firmare un assegno. Appassionato di sport, ma scoordinato, organizzava partite di tennis o di football allo scopo di pavoneggiarsi, ammiccando, come trionfatore. Negli ultimi anni, atroce contrappasso per uno così baciato dal Signore, era sprofondato in una cupa depressione, di cui si vergognava e a cui noi che gli fummo amici non vogliamo più pensare. Avendolo sentito al telefono. Marcello Mastroianni, ormai in pessime condizioni anche lui, disse a mia madre: «Ho pensato: che fortuna che ho solo il cancro». Meglio ricordarlo con l'epigrafe che aveva dettato per la tomba - la vedo spesso al Verano - è vicinissima alla nostra: «Non fu mai impallato».

Alessandro Ferrucci per il “Fatto quotidiano” - estratto il 29 giugno 2020.

Botte a Volonté. Una sera Vittorio ha assegnato un paio di manate a Volonté; Gian Maria a volte era pesante, difficile vederlo rilassato. Cercava lo scontro verbale e fisico, fino a quando a Vittorio sono girate le palle.

Le donne. in Argentina, ho assistito a una lite pesantissima tra lui e la fidanzata di allora, Juliette Mayniel (madre di Alessandro), con lei che minacciava di uccidersi; (pausa) non era neanche la prima volta. Shelley Winters lo voleva prendere a coltellate, e davanti alla troupe. 

"Il sorpasso". Quel film ha generato una rottura tra noi e Sordi: Alberto voleva la parte, la sentiva sua, aveva intuito il potenziale, ma Gassman era perfetto; dopo la scelta ufficiale, Sordi per vent'anni non ha più frequentato mio padre. Io sì. Ci volevamo bene. 

Vittorio Gassman, fascino senza filtri: così ha raccontato gli sfrontati all'italiana. Dal Bruno Cortona de Il sorpasso a Il gaucho o C'eravamo tanto amati, una lunga teoria di personaggi esuberanti e un po' cialtroni. Così diversi dal Vittorio uomo, carismatico e tormentato. Roberto Nepoti il 26 giugno 2020 su La Repubblica. Carismatici, senza filtri, sfrontati. Così sono i personaggi più celebri di Vittorio Gassman. Molto diversi dall’uomo Vittorio: carismatico sì, e come pochi, però pensoso, tormentato dai dubbi, soggetto a momenti di depressione. Non cattivi come Walter Granata, il villain del suo primo film veramente importante, Riso amaro; simili piuttosto al Bruno Cortona del Il sorpasso, esuberante, un po’ cialtrone ma generoso, 'perdente' però amato da chi lo incontra, anche suo malgrado. Ne fanno fede i titoli di molti film successivi al capolavoro di Dino Risi, tutti 'intestati' al protagonista: Anima nera, Lo scatenato, Il tigre, La pecora nera, Lo zio indegno. Gassman porta nella commedia all’italiana un character dai difetti vistosi, come i personaggi di Alberto Sordi e di Nino Manfredi; però, al contrario dei colleghi, che tratteggiano per lo più tipi remissivi e un po’ vigliacchi, 'larger than life', vigoroso, a suo modo eroico. Ne è la sublimazione la versione medievale del cavaliere Brancaleone da Norcia, sgarrupato eppure coraggiosissimo protagonista de L'armata Brancaleone che, nel sequel Brancaleone alle crociate, non esita a battersi con la Morte in persona. Altra indimenticabile variazione sul tema è il pittore del Seicento Giovanni Battista Villari detto il Caparra, che appare in forma di spettro in Fantasmi a Roma; maschilista e manesco (“sberle, sberle, sberle” è il suo adagio preferito) ma irresistibilmente simpatico. Però lo sfrontato gassmaniano si esprime più spesso in storie moderne, generate dal clima del (e dal sospetto del nostro cinema per) il boom economico; con le sue euforie di successo e i sintomi di un arrivismo precursore dello yuppismo anni Ottanta. Se Bruno Cortona ne è un po’ il prototipo, lo seguono dappresso il Giulio Cerioni de Il successo (1963), vari personaggi in cui Gassman si traveste per I mostri (stesso anno), il Marco Ravicchio de Il gaucho (1965), l’arrivista imbroglione - ma alla fine vincente - Filippo Agasti de La pecora nera (1968), film nel quale Vittorio si sdoppia in due gemelli dalla personalità opposta. Si potrebbero fare altri esempi prima di arrivare al più chiaro di tutti, In nome del popolo italiano, diretto da Dino Risi all’inizio degli anni Settanta. Qui il clima è già cambiato e i dubbi sulla tenuta morale del Belpaese sono diventati certezze. Il film oppone due personaggi: l’imprenditore Lorenzo Santenocito, prototipo dell’affarista senza scrupoli, corruttore e corrotto, e il giudice istruttore Mariano Bonifazi (Ugo Tognazzi), che indaga su di lui in relazione a un omicidio. Santenocito non è un assassino, ma ha un’anima ugualmente nera. Però la sua vitalità, le sue battute sferzanti, la sua capacità comunicativa ci obbligano a scindere il giudizio morale da un imbarazzante senso di involontaria simpatia. Dovuta, ovviamente, al fatto che è Vittorio a interpretarlo. Non molto diverso il Gianni Perego di un altro capolavoro, C’eravamo tanto amati di Ettore Scola (1974), che copre gli affari loschi del suocero, approfitta delle donne e tradisce gli ideali della Resistenza, cui ha partecipato, ai quali i compagni di un tempo restano fedeli. Anche quando l’età si fa matura, Gassman e i suoi registi continuano a prediligere il personaggio del carismatico, impunito, ora vecchio cialtrone affascinante che attrae-respinge personaggi giovani. Come il nipote de Lo zio indegno di Franco Brusati (1989), la cui vita ordinata e sonnolenta è sconvolta dall’ingresso dello zio Luca, con la sua vistosa sciarpa rossa. Dissoluto, imbroglione e perfino ladro, Luca seduce il giovane parente col miraggio di una vita meno banale. Oppure Rosa, la nipotina del vecchio Augusto Scribani di Tolgo il disturbo di Dino Risi (1990), al quale età e disagio mentale hanno tolto ogni residuo freno inibitore (a uno sconosciuto, che incontra a casa di parenti, dice per diritto: "Che bella faccia da ca…, non ne ho mai viste così. Bravo, complimenti… proprio una faccia da c… d’altri tempi"). Giungerà a insultare in diretta tv il primario del manicomio in cui è stato ricoverato. Ma saprà conquistarsi ugualmente l’affetto di Rosa e uscirà di scena danzando.

Mastroianni e Gassman: la grande vecchiaia. Eugenio Scalfari. Pubblicato il 19 maggio 2015. Aggiornato il 25 giugno 2020 su La Repubblica. Un'intervista ai due grandi attori pubblicata il 6 luglio 1996: "D'amori e teatro per non parlare dell'età". Io non sono timido e poi la professione che ho scelto non me l'avrebbe consentito, ma di fronte agli attori o ai grandi cantanti divento improvvisamente impacciato, timidissimo e quasi vergognoso. Tra Paolo Villaggio e me c'è una vecchia gag : lui sostiene che quando capita che ci s'incontri in qualche aeroporto io lo guardo e non lo saluto; lui del resto fa altrettanto con me; nessuno ci ha mai presentati 'ufficialmente', perciò - timido lui e timidissimo io - continueremo a ignorarci a vicenda oppure, alla prossima occasione, per vincere la timidezza ci getteremo l'uno nelle braccia dell'altro. Con i registi invece e con i direttori d'orchestra questo senso di estraneità e quasi di timore per il diverso non l'ho mai sentito: essi fanno lo stesso mestiere che per tanti anni ho fatto anch'io, quello di dirigere il lavoro degli altri e realizzare se stessi attraverso gli altri. Sono soprattutto curatori quando non addirittura possessori di anime, perciò con loro mi sento di famiglia, così è con Muti, così fu con Federico Fellini. I lettori avranno capito da questa breve premessa caratterologica con quale ansia, appena celata dagli obblighi della professionalità, io attendessi d'incontrarmi con due mostri sacri dello spettacolo: Vittorio Gassman e Marcello Mastroianni. Li avevo invitati qualche giorno fa in una saletta del Grand Hotel per una chiacchierata a tema libero che si sarebbe poi conclusa con una colazione. Tema libero fino a un certo punto: abbiamo tutti e tre circa la stessa età, una lunga vita alle spalle ricca di esperienze e anche di successo, molta vitalità ancora in serbo sia pure entro un orizzonte oggettivamente delimitato.

D' AMORI E TEATRO PER NON PARLAR DELLA VECCHIAIA. C'erano dunque numerose motivazioni per incontrarsi, parlare, conoscersi. Così li ho aspettati con una certa trepidazione mentre la fotografa aveva già disposto le luci e l'operatore aveva predisposto i registratori per riprendere il nostro dialogo. Dopo qualche minuto è arrivato Mastroianni e poi, a breve distanza, Gassman. Saluti, calorosa stretta di mano, finta disinvoltura, almeno da parte mia, loro mi sembravano perfettamente a proprio agio. Non ci eravamo mai incontrati anche se loro sapevano parecchio di me e io quasi tutto di loro, i film che avevano fatto, le 'pièce' teatrali che avevano interpretato, i grandi amori, le fugaci avventure, le pieghe del volto, i timbri della voce. Com'è un attore nella vita? Somiglia a qualcuno dei suoi personaggi o a nessuno? Riflette su se stesso e sul suo lavoro oppure, toltosi il trucco e il costume, ridiventa uno di noi, una persona qualsiasi, anonima e non riconoscibile? Io non so se anche a voi capita ciò che capita a me, ma quando incontro casualmente un militare che ho visto cento volte in divisa e che d' improvviso mi appare in abiti borghesi, stento a riconoscerlo e la stessa difficoltà mi si presenta se m' imbatto nel cameriere che mi serve nel mio ristorante abituale o nel barbiere che mi taglia i capelli da una vita: usciti dal ruolo e dagli abiti del ruolo diventano altrettanti ignoti mai visti, mai sentiti. E' così anche di fronte a un attore quando non calca il palcoscenico e non stia recitando?

LE PAGINE DI "REPUBBLICA" CON L'INTERVISTA ORIGINALE. Mastroianni era sbucato nella saletta dove l'aspettavo da un breve corridoio; camminava a piccoli passi con le spalle leggermente curve; portava occhiali cerchiati di tartaruga, era visibilmente dimagrito e invecchiato. Ma invecchiato rispetto a quando? Ho visto moltissimi film di Mastroianni, anche recenti, ma l'immagine che conservo di lui nella memoria è quella del protagonista della Dolce vita e di Otto e mezzo, un bel giovane un po' svagato, un po' ingenuo e anche abbastanza ambiguo, idolo delle donne e - caso rarissimo - non antipatico agli uomini. Ebbene, di fronte a quell'immagine di trenta e più anni fa il tempo ha ovviamente lavorato duro e si vede. Poco dopo, a passi lunghi, spalle erette, era entrato Gassman: magro anche lui ma atletico, la faccia solcata da cento rughe sottili come quelle della mela renetta quando è al colmo della maturità e fa presagire da quella rugosità la fragranza della polpa e del succo. Ma gli occhi erano appena più spiritati del necessario, quasi che si guardassero intorno col timore di scoprire qualcosa d' imprevisto, un pericolo, una presenza inquietante, un mistero rischioso. "Vedete" dissi io dopo i convenevoli di rito "in tre superiamo i due secoli". Sorrisero ma non raccolsero l'argomento. Cominciarono a parlare tra loro di amici comuni e di comuni progetti come se s'incontrassero casualmente in un bar e non invece in un luogo scelto apposta per esaminare un tema che stava a cuore a ciascuno di noi. Ma quel tema, la vecchiaia, il tempo, la memoria, non avevano alcuna voglia d'affrontarlo anche se era lì davanti a noi con tutto il suo peso e la sua incombenza. Ci giravano intorno, lo smitizzavano, lo sdrammatizzavano. Così hanno continuato a fare per tutte le tre ore che abbiamo trascorso insieme.

DOMANDO: "Quand'è che avete deciso di essere vecchi?". Mastroianni: "Deciso? Quella cosa non si decide, t'arriva addosso e quando nemmeno te l'aspetti. A un certo punto ti cominciano a chiamare maestro. Maestro di che? dico io. E mi rispondono: è per rispetto. Maestra sarà tua sorella mi verrebbe da ribattere, ma capisci che è successo qualche cosa, che qualche cosa è cambiata. Sarà qualche rotellina dell'ingranaggio che non funziona più come un tempo, sarà una piega della bocca, una ruga in mezzo alla fronte, non so: un modo diverso di guardare le donne, più dolce, meno aggressivo". Gassman: "Hai fatto caso, Marcello, che dopo esser sempre stato per tanti anni il più giovane della compagnia, a un certo punto, in sei mesi, diventi improvvisamente il più vecchio? E capisci che da quel momento in poi sarà sempre così, sarai il più vecchio, ti guarderanno con rispetto se ti va bene e se i giovani che ti frequentano sono bene educati, oppure con una certa compassione, con un sentimento anche protettivo, con la voglia di mandarti a letto presto per paura che ti stanchi o magari perché sono loro a essersi stancati di te. Caro mio, per questo cominciano a chiamarti maestro". "Hai ragione, è così. Le donne poi, lo capisci subito, diventano subito materne". "E' un vantaggio qualche volta". "Non dico di no, non dico di no. Quand'ero giovane giocavo a fare il bambino ma poi era facile far venir fuori un amante pieno di fuoco; adesso sono loro a volerti cullare e tu alla fine ti addormenti felice, magari con qualche rimpianto. Non so se siano felici anche loro...". "Perfino i figli hanno un atteggiamento un po' protettivo". "Mia figlia a Parigi quando attraversiamo la strada mi prende per mano...". "Certe volte il rispetto che sento intorno a me mi sembra oltraggioso".

Domando: "Voi adesso recitate spesso la parte del vecchio. La pièce teatrale che lei, Mastroianni, interpreta in queste settimane è tutta su questo tema: un padre che viene ricoverato dal figlio in una casa di riposo, un padre orgoglioso, capriccioso e anche un po' cattivo...". "Un padre, dica pure, disperato. Ma vede: la prima volta che ho recitato quella parte allo Stabile di Trieste, mi sono addirittura truccato da vecchio, mi sono imbiancato i capelli, ho approfondito le rughe. La seconda volta mi sono detto: ma che diavolo fai? Ti trucchi da vecchio? Hai 72 anni, non hai nessun bisogno di truccarti per essere verosimile. Ecco". "Questo vuol dire che non ti sentivi vecchio". "Appunto, Vittorio, non mi ci sentivo ma lo ero". "E lei, Gassman? Nel film di Scola, La famiglia anche lei interpreta la parte del vecchio bizzoso e immalinconito quanto mai. Che effetto le faceva immedesimarsi in quel ruolo?". "Nessun effetto particolare. Vede, per un attore il ruolo fa parte del mestiere: ci si entra e poi se ne esce con naturalezza". "Bravo Vittorio, è proprio così. A me dà un fastidio quella storia degli attori che studiano la parte per mesi per entrare nel personaggio, calarcisi dentro, si ritirano per un tempo infinito magari in un convento, ingrassano o dimagriscono per star meglio nella parte e poi, a lavoro finito, hanno bisogno di altri mesi di decompressione per dimenticarsene, per tornare se stessi. De Niro per esempio: questa storia di vivere il personaggio fino in fondo è diventata una favola e ci fanno anche sopra un mucchio di quattrini. Io non lo so, a me non capita. Recito, mi studio il copione per un paio di giorni e poi finisce lì. Vittorio mi ricordo ancora quando facevi Amleto: Essere, non essere con quella tua voce grave, un po' sognante; poi quando tornavi dietro le quinte dicevi all'elettricista: 'Ahò, quelle luci, ma nun lo vedi che fanno schifo?' ".

"Gassman, lei è d' accordo? Si entra e si esce dal personaggio come si beve un bicchier d'acqua?". "Le parrà strano ma è proprio così, è così anche per me. Vede, l'attore è come una scatola vuota e più vuota è meglio è; interpreta un personaggio e la scatola si riempie, poi il lavoro finisce e la scatola si svuota. Mi hanno raccontato che una volta Gary Cooper ancora ragazzo guardava fisso davanti a sé in silenzio. La mamma gli domandò: che pensi? Rispose: non penso assolutamente a nulla. E la mamma: allora sarai un buon attore. Vede, l'attore non dev'essere particolarmente colto e nemmeno particolarmente intelligente; dev'essere - forse - anche un po' idiota. Sì, sì, se fosse anzi completamente idiota sarebbe un grandissimo attore...".

Vedo che ormai le parole gli hanno preso la mano, vedo che sta recitando e la sua platea siamo io, la fotografa, l'operatore della registrazione, la segretaria che ci assiste e, naturalmente, Mastroianni. Credo che lui si sia accorto di questi miei pensieri, infatti cala immediatamente il tono, esce dalla parte e dal paradosso, ma insiste nel punto di vista. "Prenda un'attrice, una grande attrice che tutti noi abbiamo apprezzato quanto meritava: la Morelli. Era perfetta è vero, Marcello?". "Perfetta, finissima, mai un tono sbagliato, mai un registro fuori fase". "E com'era la Morelli fuori dal lavoro? Dillo, Marcello". "Una cretina. Cioè, scusa, una scatola vuota come dicevi tu, come siamo tutti noi". "Via, non posso credere che diciate sul serio. O state giocando a prendermi in giro? Lei, Gassman, ha recitato un repertorio classico dei più impegnativi, personaggi enormi, alle prese col fato, col divino, coi miti, con i mostri, con la tragedia. Queste cose non si fanno se si è una scatola vuota, queste cose lasciano il segno". "Non dimentichi che c'è un'altra parte di me che non somiglia in nulla anzi è l'opposto del repertorio che lei ha ricordato: i miei film con Risi, con Monicelli, la commedia italiana. Molti critici hanno detto che quella è stata la parte migliore della mia arte, se posso usare questa parola. Vede allora? Lì di tragico non c' è niente, c' è il riso, la leggerezza, l'ironia...". "C'è la condizione umana". "Ah, questo è vero, c'è la condizione umana che è sempre tragica. E' questo che lei voleva intendere?" "Sì, è questo". "Ma è sempre anche ludica".

"Vittorio ha ragione. Il nostro, di attori, è soprattutto un gioco. Vede del resto come si dice in altre lingue: in francese si dice: ' jouer' , in inglese ' play' , gioco, giocare. Questo è il teatro, che sia commedia o sia tragedia o sia cinema, sempre gioco". "Anche la vita è gioco". "Io ne sono convinto". "Dunque la vita è teatro?". "Per molti aspetti credo di sì". "Dunque siamo tutti mascherati?". "Finché giochiamo a quel gioco, certamente siamo mascherati ma poi, quando ci togliamo la maschera...". "Allora?". "Allora non c'è niente. L'identità di un attore è molto labile". "Marcello ha ragione. Al punto che anche alcune malattie psicologiche delle quali parecchi di noi soffrono, come per esempio la depressione, derivano almeno in parte dal mestiere che facciamo. La dissociazione della personalità, alcuni aspetti di schizofrenia quasi. Lei prima sembrava non credere ai miei giudizi sulla Morelli; allora le racconterò quello che Zacconi pensava della Duse. Gli domandammo una volta, noi giovani: maestro, com'era la Duse? E lui cominciò alzando le braccia al cielo, inarcando le sopracciglia, con quella sua voce roca, profonda, oh, la Duse - diceva - la Duse, la Duse, e ogni volta quel nome, quelle due sillabe venivano proferite con accenti diversi, toni diversi, ammirativi, esaltati, commossi, devoti. Poi si fermò, fece una pausa. Si guardò intorno fissandoci uno alla volta. E poi disse: la Duse, grandissima, la più grande. Non capiva niente, assolutamente niente".

"E lui, Zacconi, capiva? Recitava Socrate e capiva?". "Che c'era da capire? Le risulta che Zacconi avesse assimilato la lezione di Socrate? Che fosse un socratico? Un grandissimo attore, Zacconi, come Ruggeri, un altro grandissimo e finissimo attore. Ma non capivano niente. Quello che recitavano era la lettura di un copione". "Mi lascerete dire, almeno, che voi siete assai più ricchi di molti comuni mortali. Non capirete niente, accetto il paradosso, ma vivete e avete vissuto molte vite, se non altro le vite dei vostri personaggi: una possibilità riservata a pochissimi". Mastroianni: "Senta, se questo è un privilegio lo condividiamo con moltissimi altri. Per cominciare, con voi giornalisti: anche voi in qualche modo vivete le vite della gente di cui raccontate i fatti e interpretate i pensieri. Con i romanzieri. Con gli autori di cinema e di teatro. Ma diciamo pure con tutte le persone, con tutti i viventi. Siamo tutti dotati di fantasia, tutti ci figuriamo delle storie delle quali siamo protagonisti, delle passioni che in realtà non abbiamo, coltiviamo illusioni inesistenti. Se questo è vivere molte vite le dico che non è un privilegio degli attori. La verità è che la vita, quella vera, è molto breve". "Lei trova?". "Sì, trovo. Uno ricorda ancora i discorsi dei genitori, il beato periodo dell'infanzia come fosse ieri e adesso si accorge come il tempo sia volato. La barba è diventata bianca non è vero? Ma lasciate decidere a me quand'è che deve diventare bianca...".

"Quanto hai ragione Marcello. Io lo dico sempre: l'unica cosa che rimprovero al Padre Eterno, sul quale ho idee confuse ma tendo a credere ci sia, è che ci ha dato una vita troppo corta e troppo unica. Ecco, io avrei chiesto almeno due vite". "Due ma conservando memoria della precedente". "Ma certo, Marcello, sennò che vantaggio ci sarebbe? Ecco, io vorrei questa cosa qua". "Sì. A volte mi dicono: guarda che ci saranno tra poco scoperte della scienza che allungano la vita. Del resto si è già allungata e di parecchio. Lo sarà ancora di più. Ma a me questi discorsi mi consolano assai poco. Intanto queste scoperte chi lo sa quando verranno. E poi trenta, cinquant'anni di più...".  "Sarebbe tale e quale come adesso, passerebbero in un baleno". "Comunque, anche un allungamento mi rincuorerebbe: mi irrita molto l'idea di dover scomparire, non avendo poi una fede che mi sostenga. Anche così, mezzo acciaccato come sono, preferirei stare qui ancora per un po', anzi per un bel po' ". "Mentre parlavate della brevità della vita mi veniva in mente questa domanda: il mestiere dell'attore vi consente una certa ubiquità; oggi siete questo, domani siete quello. L'ubiquità è uno degli attributi della divinità. L'attore non cerca in questo modo di rubare agli dei uno dei loro attributi?". Mastroianni: "Questo che lei dice può essere vero per qualche grande regista, non per un attore anche se eccellente. Il regista vive tutti i suoi personaggi e tutti insieme. Io ricordo come lavorava Fellini. Era fantastico: ballava, piangeva, rideva, dava voce all'innamorata, al seduttore, alla puttana, si buttava per terra, mimava tutto e tutti. Mentre lavorava avevi l'impressione che fosse un dio nel senso che creava. Visconti era la stessa cosa anche se i suoi metodi erano diversi".

"E Strehler, Marcello?". "L'ho conosciuto poco". "Ah, Strehler, fantastico, attore nato, anche lui. Ma un uomo da far paura. Una volta, tanti anni fa, venne a Roma con Paolo Grassi a propormi un triunvirato per guidare insieme il Piccolo di Milano. Era molto allettante la proposta e io ci pensai per due giorni, poi andai da Grassi e dissi ' grazie no' . Dissi: Paolo, quell'uomo è un fenomeno ma mi fa paura, mi stanco solo a vederlo lavorare. Meglio di no". "Io conosco poco Strehler, in compenso ho conosciuto molto De Sica, ho fatto molti film con lui, un altro creatore, un altro uomo di spettacolo eccezionale. Non capisco come mai non sia ancora stato fatto un film con un protagonista che sia la mescolanza di Rossellini, De Sica e Fellini. Nessuno ci ha ancora pensato, come mai?". "Ti ricordi come trattava i bambini nei suoi film? Ce ne sono sempre stati molti e lo adoravano. Sa perché? Perché lui con loro era molto severo, li trattava come adulti e questo a loro piaceva molto. Una volta uno di loro sbagliò la battuta e De Sica si arrabbiò anche perché era la quinta o sesta volta che gliela faceva ripetere. Allora lo chiamò come faceva lui, prima il cognome e poi il nome dandogli del voi: 'Gerolimoni Giuseppe, voi siete la più grande testa di cazzo di tutto il Napoletano' . Da allora il piccolo Gerolimoni si sarebbe buttato nel fuoco per lui".

"E Sophia? Mastroianni, e Sophia?". "Splendida attrice". "Solo questo? Glielo chiedo, mi scusi, lei è stato il nostro seduttore nazionale". "Ma per carità; se c'è un ruolo che non è stato il mio è proprio quello". "Senta, non lo dico io e non ripeto nemmeno un luogo comune. Sono stato anch'io molto amico di Fellini e Fellini a lei l'ha conosciuto profondamente. Federico ha sempre parlato di lei come di un seduttore nato". "Perché il vero seduttore era lui e lui adorava vivere per interposta persona. Una di queste interposte persone sono stato io, così lui mi prestava capacità e attitudini che non avevo affatto". "Marcello, però non fare la mammola adesso". "Non parlare tu della seduzione, tu ce l'hai nell'anima". "Posso chiedere a tutti e due che definizione dareste dell'amore?". AH, l'amore! L'amore! L'Amore! mi sarei aspettato che rispondessero tutti e due magari solo con quella parola declinata in tanti diversi accenti. In fondo sono stati tra quelli per i quali centinaia di migliaia di donne hanno spasimato sia pure vedendoli soltanto sulla pellicola e col cerone sul viso. Invece no, si sono bloccati tutti e due e mi hanno rimandato la palla. L'Amore? (con la maiuscola) ' Connais pas' . Gassman: "Credo nell'amore, è una delle forze che sostengono il mondo e lo fanno muovere: l'amore verso i figli, verso i genitori, verso gli amici, verso le donne che hanno contato nella tua vita". "Così come lo descrive è un sentimento cosmico, ma io le chiedevo una definizione più precisa, un rapporto di coppia uomo-donna come lei l'ha vissuto". "Ho sempre desiderato avere un rapporto sereno, cosa non facile perché richiede che ciascuno dei due superi in qualche modo se stesso e si metta nei panni dell'altro, lo accetti, lo comprenda. Adesso finalmente, ma già da trent'anni, quel rapporto ce l'ho, è un rapporto paritario, litighiamo spesso, ma questo non fa che cementare e rendere più solido quel rapporto".

Mastroianni: "Se lei vuole sapere che cosa penso dell'amore-passione debbo deluderla: lo conosco poco. Qualche volta ho creduto di provarlo, ma vai a sapere se invece non era la mia sofferenza dovuta al fatto di essermi sentito scartato...". "Lei mi sta dicendo che ha sentito amore solo quando è finito male, quando è stato lasciato?". "Ho sentito sofferenza. In quale altro modo si sente la passione? Quando si soffre per colpa sua. Se tutto va bene si costruisce quel rapporto sereno di cui parlava Vittorio ma quello io lo definirei piuttosto affetto, voler bene, stima, sostegno reciproco: sentimenti molto profondi che possono anche durare una vita intera ma che non chiamo con la parola amore".

Gassman (interrompendolo e come recitando): "Lungamente Eros mi ha guardato coi suoi occhi lunghi, in me è solitudine e io nel mio letto resto sola...". "Saffo". "Appunto". "E quando si sentiva scartato, Mastroianni?". "Soffrivo, gliel'ho detto. Una volta, quando me lo disse così, all'improvviso, aprendomi la porta di casa, caddi addirittura per terra svenuto". "Faye Dunaway?" "Lasci stare, non importa, è passato tanto tempo. Ma poi mi sono detto: meno male che è andata così".

"Non sarà che l'uomo, essendo di solito molto Narciso, non riesca a uscire da sé e a darsi? Non è questo che rende difficile amare?".  Gassman: "Credo che lei abbia ragione, ma questa condizione non riguarda solo l'uomo, anche la donna può essere narcisa, anzi a volte lo è assai più dell'uomo. Però la mia esperienza - amore a parte - mi fa concludere che la donna è molto superiore a noi: intanto è più forte fisicamente e poi è più intelligente, più sensibile, più capace di affetto e di amore. Secondo me le donne dovrebbero governare e il mondo andrebbe assai meglio". "Quelle che hanno governato però erano più uomini in gonnella che donne; pensi alla Thatcher o a Golda Meir". "Ma io parlo di donne che governino da donne".

"Vi interessa la politica?" Mastroianni: "Pochissimo. Vorrei naturalmente che fossimo governati bene. Amo la libertà e non tollererei che venisse limitata e compressa". Gassman: "Non mi appassiona affatto. Detesto quei partiti che ti vengono a cercare per mettere in lista un nome famoso. Lo trovo diseducativo". "Molti nomi famosi, come dice lei, abboccano con la scusa di rappresentare la società civile". "Fanno malissimo, rappresentano solo la loro vanità. Anch' io una volta ci cascai e il seduttore in quel caso fu Craxi ma poi mi accorsi rapidamente a quale gioco voleva giocare e chiusi". "Torno ancora un momento sull'amore, mi ero scordato una domanda forse assai banale, anzi non è nemmeno una domanda ma una constatazione: voi avete avuto tutti e due molte donne nel corso della vita" restano muti e guardinghi. Poi Gassman la butta sul ridere: "Lei pensa: attori di successo, tutte le donne addosso, e invece sa chi scopa molto? Gli aiuti operatori".

Mastroianni: "Verissimo. E i fotografi. I fotografi scopano in continuazione perché lei, l'attrice, conosce qual è il potere dell'immagine" e ridono tutti e due come ragazzi, le rughe si spianano, il peso degli anni sembra per un momento scomparire. "Volevo chiedere: avendo avuto molte donne avrete dunque avuto anche molte rotture. Siete dunque capaci di rompere un rapporto con facilità?". Mastroianni: "Per carità. Il mio caso poi è addirittura proverbiale. Se fosse per me non romperei mai con nessuno e mi porterei tutto appresso". "Vuole dire tutte?". "Sì, tutte". "Questo vuol dire anche vivere in un mare di bugie". "Un oceano di bugie. Dette naturalmente a fin di bene". "Che vuol dire a fin di bene?". "Vuol dire che io penso: senza di me lei vivrà male, non sarà abbastanza amata e protetta come da me; quindi è mio dovere preservare questo rapporto a qualunque costo per amor suo".

Gassman: "Marcello, questa è un'altra bugia". "E tu non conosci il problema?". "Certo che lo conosco, più o meno come te. Anche per me le rotture sono state difficili, difficilissime, ho sempre cercato che fosse lei a rompere, ti dà meno responsabilità, meno complessi di colpa. Vede (rivolto a me) siamo tutti divorati dai complessi di colpa, quello è il vero guaio della vita. Se potessimo vivere con innocenza...". Mastroianni: "E a lungo...". Gassman: "Magari istituendo una casa di riposo per vecchi attori e vecchi registi, per chiacchierare un po' tra noi...". "Per giocare tra noi al gioco dell'attore, del regista, di quelli che sanno rompere perché vorrebbero sempre tutto, perché vogliono a tutti i costi restare bambini...". "E chi invitereste in quella casa di riposo? Chi sono i vostri amici e i vostri modelli?". Gassman: "Vivi e morti?". "Ma sì, vivi e morti". "Bè , comincerei da De Sica, chi meglio di lui per giocare? Maestro nel non rompere mai con nessuno". "E Federico. Altro maestro nel volere e tenere tutto". "Vorrei John Barrymore, attore mitico, superbo. Charles Laughton. Laurence Olivier...". "E una spolverata di Cary Grant, Gary Cooper, Clark Gable...". "E Gabin". "E Montgomery Clift".

"Brando lo vorreste?". "Meglio no, è una casa di riposo". "E De Niro?". "No, per le stesse ragioni". "E Sordi?". "Sordi sì, certamente, ma credo che non verrebbe lui. Sa che qualche cosa di simile l'abbiamo già fatta? Una volta alla settimana ci riuniamo a colazione in una saletta d' un ristorante romano, una decina di amici per stare allegri insieme. L'altra settimana si è aperta la porta e ha messo la testa dentro Mario Monicelli (80 anni suonati) ci ha guardato uno per uno e ha detto ' tutti vecchi' ha richiuso e se n' è andato". "Progetti per il futuro?". "Vogliamo fare un film insieme tratto da un romanzo di Arpino, dove ci sono due personaggi che sembrano tagliati su misura per noi due. Le sembra una buona idea?". "Mi sembra eccellente. Posso farvi un'ultima domanda? Qual è il lato migliore della vecchiaia?". risponde Mastroianni per tutti e due mentre l'altro annuisce: "Essere finalmente liberi. Liberi di dire e di fare tutto, tanto nessuno ci può togliere più niente". "E i complessi di colpa? Quelli, se ancora ci sono, limiteranno la vostra libertà". Gassman: "Mi creda, quando si diventa veramente vecchi i complessi di colpa se ne sono già andati. Anzi, la loro scomparsa è il vero segnale che la vecchiaia è cominciata". (da Repubblica del 6 luglio del 1996)

·        20 anni dalla morte di Enrico Cuccia.

Vent’anni fa la morte di Cuccia. L’eredità ai figli e il conto corrente alla Comit da 150 mila euro. Stefano Agnoli su Il Corriere della Sera il 22 giugno 2020. Il lascito ai tre figli Aurea (scomparsa lo scorso marzo) Silvia e Pietro Beniamino nell’estratto dell’articolo pubblicato dal Corriere il 27 maggio del 2007. Il banchiere dei banchieri, il silenzioso burattinaio del capitalismo italiano, lo spietato sacerdote del grande capitale. Quando Enrico Cuccia morto, poco meno di sette anni fa, furono solo alcuni dei titoli riservati dai quotidiani al fondatore di Mediobanca, protagonista di mezzo secolo di economia e finanza italiana. Un uomo minuto, magro e incurvato, che si poteva incontrare la mattina, in centro a Milano, intento ad attraversare a piedi Piazza della Scala nel tragitto verso via Filodrammatici. Ma se la riservatezza, l’enorme potere, e lo stile di vita quasi monacale sono attributi che fanno ormai parte integrante del ritratto un po’ stereotipato di Cuccia, non meno sorprendente scoprire come alla sua morte, il 23 giugno 2000, i beni personali del banchiere novantaduenne si esaurissero in un conto corrente bancario. Quello aperto alla sede centrale dell’allora Comit, la Banca Commerciale Italiana del suo maestro Raffaele Mattioli e dei primi passi della sua lunga carriera.

Il conto in Piazza Scala e il compenso (non ritirato) da presidente onorario. Un conto corrente con un deposito di poco più di 150 mila euro. Anzi, per la precisione, con denaro liquido pari a 303 milioni e 305 mila lire. Niente altro, secondo il documento rintracciato all’Agenzia delle entrate, lo stesso consegnato dagli eredi qualche settimana dopo all’Ufficio registro successioni di via Ugo Bassi a Milano, corredato di imposta di bollo per trentamila lire. Il miglior banchiere d’Europa — come disse a Cesare Merzagora il suo amico e patron della Lazard, Andre Meyer — non ha lasciato un testamento. Non ce ne sarebbe stato bisogno, visto che ufficialmente, al di l del conto corrente alla Comit, non esisteva un’eredità da dividere, composta magari di immobili, azioni, titoli e beni vari. I dettagli della situazione patrimoniale di Cuccia, per la verità, non sono del tutto accessibili e come si evince dai documenti all’Agenzia delle entrate risultano gelosamente custoditi nello studio dei commercialisti di fiducia della famiglia, quello milanese dei Dattilo (…). Ma al di l del muro che ha sempre circondato le vicende dei creatori e degli epigoni della banca milanese, a parlare sono le carte disponibili. Per il 1999, l’anno prima della morte, Cuccia dichiarava al fisco di percepire circa 350 milioni netti di lire. Entrate derivanti per più della metà soprattutto dal fondo di previdenza privato, e per il resto dalla pensione Inps e da quanto riconosciuto da Mediobanca in virtù della carica di presidente onorario: ovvero 163 milioni di lire, al lordo delle ritenute. A proposito di questa compenso, i funzionari della Mediobanca di allora ricordano che l’anziano banchiere non volle mai incassarlo. Tanto che dalla sua segreteria, non potendo disporre diversamente, un bel giorno si decise, con qualche imbarazzo, di accreditarglielo automaticamente, quasi di nascosto.

La villa sul lago. Da quanto rintracciabile sui documenti dell’Agenzia delle Entrate, Enrico Cuccia non ha lasciato ai suoi eredi nulla che vada al di l delle possibilità di una agiata famiglia borghese. Dalle carte risulta che anche la famosa villa da venti stanze e cinquemila metri di giardino di Meina, sul lago Maggiore, la località dove il banchiere sepolto (e dove la salma fu trafugata nel 2001 per poi esservi ricollocata) non rientrava nella sua disponibilità. L’abitazione proprietà dei tre figli da più di dieci anni, per un terzo ciascuno, ed in realtà l’eredità lasciata dalla moglie, la signora Idea Nuova Socialista, una delle figlie del fondatore dell’Iri Alberto Beneduce (le altre due si chiamavano Vittoria Proletaria e Italia Libera). Scomparsa nell’ottobre del 1996, anche lei riservatissima, per un puro caso fu ritratta poco tempo prima della morte in un servizio fotografico a passeggio per Roma e in compagnia del marito. I tre figli di Enrico Cuccia — Aurea (la primogenita scomparsa lo scorso marzo 2020, ndr), Silvia e Pietro Beniamino — vivono tutti a Milano, dove risultano proprietari di appartamenti in zone residenziali, nei pressi dell’ex Fiera e di Brera. La figlia Silvia ha lavorato come professoressa di matematica, mentre Beniamino da gennaio dello scorso anno ha fatto il suo ingresso nel consiglio di amministrazione di una società farmaceutica in provincia di Como. Insomma, come ha scritto nel 2003 Antonio Maccanico (al vertice di Mediobanca al momento della privatizzazione dell’87-88 e nipote di un altro presidente, come Adolfo Tino) forse proprio vero che il danaro per Cuccia era solo un mezzo, e che la società dello scandalo Enron non lo avrebbe capito, lo avrebbe forse emarginato. Non solo la società dello scandalo Enron, ma forse anche quella delle laute stock-option, dei superbonus e delle buonuscite plurimilionarie.

·        20 anni dalla morte di Attilio Bertolucci.

Attilio Bertolucci a vent’anni dalla morte. Un «provinciale» a Roma. Pubblicato venerdì, 22 maggio 2020 su Corriere.it da Antonio Debenedetti. «Ci sono sempre occasioni per sentirsi in colpa, altrimenti chi scriverebbe?», si chiedeva Attilio Bertolucci presentando nel 1959 in una fortunata antologia poetica del critico Giacinto Spagnoletti una scelta di suoi versi noti e meno noti. In seguito, quando suo figlio Bernardo si incamminava verso la celebrità e Giorgio Bassani, amico di famiglia, andava ripetendo nei più accreditati salotti letterari romani «Bernardo è bello dentro e bello fuori», Attilio dal canto suo si disimpegnava sfuggendo ai giornalisti col dire: «Amo mio figlio perché amo il cinema». Uomo sostanzialmente solitario, portato per natura alla poesia e letterato per irresistibile scelta professionale, Attilio Bertolucci si faceva apprezzare dal pubblico letterario a piccoli passi. I suoi ammiratori facevano bene a tenersi lontani dai facili entusiasmi. Meglio rimanere fra il sì e il forse. Senza forzature o facili entusiasmi. A meglio capirsi andrà ricordato che le radici di Attilio affondavano nella nobile, diffidente e severa provincia parmense. Di più. Andrà sottolineato che i rapporti di Bertolucci con la sua terra erano profondi e complessi. Meglio dunque lasciare a lui l’iniziativa di parlarne o meno. A me, nel corso di tre interviste e altri svariati incontri occasionali, nominò la sua città solo fuggevolmente, parlandomi con foga di Giuseppe Verdi di cui era appassionato e, all’occorrenza, battagliero conoscitore. Sono di Attilio queste parole: «Verdi è teatro, meravigliosamente, a ogni costo teatro, con buona pace dei musicologi che a Verdi chiedono, che so, di essere Brahms». Anch’io ho amato Verdi e Bertolucci mi ha rivolto uno sguardo vagamente ironico quando, avendo preso una certa confidenza con lui, me ne sono uscito parlando con entusiasmo del Falstaff e poi ancor di più dell’Otello. Fu buon segno un suo guardarmi per un attimo di troppo? O il contrario? Non ho mai osato tornare sull’argomento, chiedergli. I maestri d’una volta andavano interpretati e non interrogati, che diavolo! Parma, inutile dirlo, contava molto nella vita e nell’arte di Attilio. Ma quanto e fino a che punto? Difficile dirlo. Rimane però un documento più che soltanto curioso a riguardo. Cesare Zavattini, uno dei più fedeli amici di Bertolucci che lo aveva avuto anzitutto quale suo allievo negli anni del ginnasio, in una lunga lettera senile, datata gennaio 1970, scrisse con l’inchiostro d’una di quelle vere e grandi amicizie che non sono mai solo amicizie ma anche qualcosa di più profondo, contrastato e impegnativo. Sono due righe. Eccole: «Caro Attilio, se non ti offendi direi che un’ombra di provincialismo c’è stata in te nel non voler essere provinciale».

Che meraviglia! È un rimprovero che è anche un perdono e ha il suono d’un proverbio.

Nato a San Lazzaro di Parma il 18 novembre 1911 da una famiglia di borghesia agraria, trasferitosi a Roma nel 1950, Bertolucci amò la Capitale vivendovi molti anni con provinciale e parsimoniosa prudenza. Nella Piccola ode a Roma, una delle sue più belle liriche, si farà sentire l’incontro fascinatorio con la Capitale, si coglierà quella che Pasolini definisce la ricerca d’una oggettività dell’esistere. Quegli anni romani sono stati probabilmente per Bertolucci il meglio della vita. Una scommessa anche, credo, con l’andare e venire della depressione. Si stabilisce a Monteverde, in una palazzina che divenne un piccolo, familiare tempio della poesia visto che ebbe a ospitare lungamente Attilio e per qualche anno anche Pier Paolo mentre il più gettonato dei tre, cioè Bernardo, all’epoca adolescente, si preparava a primeggiare nel cinema scrivendo versi apparentemente ingenui però di scuola inconfondibilmente bertolucciana. Il bellissimo titolo del libro che ne sarebbe venuto fuori qualche tempo dopo? Eccolo: In cerca del mistero. Mi sono sempre domandato se non fosse di ispirazione pasoliniana sapendo che Pier Paolo, titolista di grande presa, aveva suggerito a Enzo Siciliano poco tempo prima, passeggiando per piazza del Popolo, il titolo più efficace d’uno slogan del suo libro d’esordio battezzandolo Racconti ambigui. Quel titolo valeva una recensione, di più: valeva un saggio critico sull’opera di Enzo condensato con effetto immediato sul lettore. In quell’«ambigui» c’era di fatto nascosta una poetica e forse il segreto d’una vita! Quanto a Bernardo ebbe fra i suoi primi e più efficaci sostenitori nientemeno che Giorgio Bassani: amico sicuro di Attilio, andava ripetendo nei vibranti salotti romani degli anni Sessanta, appena se ne presentava l’occasione, questo icastico, penetrante giudizio: «Bernardo è bello dentro e bello fuori», alludendo senza bisogno di precisarlo ai suoi versi di giovanissimo esordiente di bell’aspetto. Tant’è che, passando poco dopo dalla letteratura al cinema, l’invidiatissimo B.B. seppe trasformare la sua carriera in un volo d’angelo mirabolante e senza ostacoli. Fu all’epoca il più bravo, il più segnalato fra tutti i debuttanti non solo della sua generazione. Al punto che Attilio, poeta che si voleva sempre in semiluce proprio perché letterato di rara finezza nonché uomo di apprezzata discrezione, finì col diventare per la stampa e il pubblico della cultura con sua soave e sorridente soddisfazione «il padre di Bernardo». Mi piace anche aggiungere, visto che si parla tanto, forse troppo di reclute moraviane, che anche intorno ad Attilio venne stringendosi un piccolo gruppo racé che ebbe nella rivista parmense «Palatina» (un piccolo gioiello anche tipograficamente) la sua espressione. Sono passati vent’anni dalla morte di Attilio. Il poeta della «Camera da letto», ma a me piace aggiungere anche della Capanna indiana, sapeva essere diplomatico senza mai fare della diplomazia evidente. Coltivava sommessamente le amicizie giuste e riusciva a crearsi delle inimicizie però non pericolose ma semmai destinate a procurargli senza averlo progettato delle costruttive simpatie e imprevedibili, colte complicità. Certe volte la vita di questo gourmet sembrava una lontana filiazione dei romanzi francesi dell’Ottocento, così sospesi fra il dono un po’ vizioso della vita e un aldilà in cui si voleva credere ma solo per dare più profumo al peccato. Grande Attilio, sapeva gestire dei pettegolezzi che non diventavano mai vere malignità ma si trasformavano in eleganti boutade. Era insomma, in quel suo saper mescolare magnificamente provincia e capitale, un perfetto rappresentante di quanto rimaneva in quegli anni Cinquanta-Sessanta della società letteraria italiana. Dio, come furono belli e innocentemente peccaminosi quegli anni! Attilio cenava spesso in compagnia dello stato maggiore moraviano mostrando la sua selettiva predilezione per Elsa Morante non come donna of course ma come candidata al titolo di massimo narratore italiano per quanti, credo di poter precisare, tardavano a riconoscere il primato gaddiano. In un duello come quello non c’era, non ci poteva essere né il vincitore né il vinto ma c’era la gloria della nostra letteratura del secondo Novecento prima del suo sofferto e imprevisto tramontare. Non si può a questo punto tacere di un altro attivo e laborioso Bertolucci. Quello d’un lettore di professione, insaziabile scrutatore di opere narrativa specialmente inglesi, francesi e americane. Fu cosi che con lievità e naturalezza, dando corso a un suo originalissimo destino, Attilio si trovò a diventare quasi senza volerlo l’éminence grise della Garzanti. Assolse quel suo incarico ascoltatissimo e venerato da Livio «il padrone» che a dispetto del suo carattere difficile ma coraggioso sembrava aver trovato in Bertolucci un domatore più che un collaboratore. L’uomo, in altre parole, che riusciva a sfilare alla concorrenza le firme più appetibili. Quanto sarebbe durato quel meraviglioso idillio? Nessuno si azzardava a fare pronostici ma la consulenza di Attilio coincise con un momento d’oro per il nostro mercato librario che diventò una fiera di idee, di recuperi importanti, di nuovi autori che scrivevano per dare battaglia all’arretratezza, al conformismo, ai ritardi dovuti al sofferto complesso d’inferiorità d’una Italia che aveva, viceversa, la possibilità di eguagliare e competere con Parigi e con Londra guardando con fiducia da parente povera persino a New York. E per finire. Nel 1991 Bertolucci pubblica un’opera in prosa che rimane tra i suoi risultati più gloriosi. Si intitola Aritmie. Sono 277 pagine edite nella bellissima collana dei «Saggi blu» garzantiani. È una raccolta di magistrali capricci critici, di ispirate schegge che nascono da una fusione dell’elzeviro dove l’avevano portato i nostri più dotati giornalisti-scrittori, incontrando l’italiano col batticuore dei cinegiornali postbellici, dei rotocalchi reinventati pensando a «Omnibus», delle cronache mondane scritte con una nuova voglia di vivere, di raccontare, di far apparire bello, degno di essere vissuto il qui e ora di quella stagione che tutti sapevano un po’ essere senza domani. Il tono di «Aritmie», che mi auguro venga ristampato al più presto perché sorprendente, si porta dentro ben amalgamati gli amori, gli umori e i fervori che vennero caratterizzando la più avanzata cultura del secondo Novecento beninteso non soltanto italiano. C’è tantissimo da leggere, da imparare, da invidiare e da rubare. Si recuperano i dandy post-baudeleriani, si fa spazio alla generazione perduta vista nell’ottica di Zelda Fitzgerald, si fa visita a Mario Soldati con le sue camicie rosse e verdi che fanno pensare «alle tinte nette e pure di Matisse». Si entra in punta di piedi nel mondo, severo da far paura, del grande critico d’arte Roberto Longhi… Non salterei una «Elsa» che, non nel libro ma in un’intervista rilasciata a me, non esita a denunciare una sua non simpatia nei confronti di Guttuso...Andiamo subito però a uno dei testi più significativi di questa raccolta dal titolo ostentatamente provocatorio: In nome della sacra camera da letto. Non si parla ovviamente di lenzuola stropicciate da impetuose notti d’amore. L’inizio è un cazzotto d’autore freddo e severo: Bertolucci cita, sottolineandone la provocatorietà, una frase di Gide che ha destato scandalo nei primi decenni del Novecento e qualche brivido probabilmente lo provoca ancora e suona così: «Io vi odio, famiglie». Attilio, ben sapendo che le provocazioni più spavalde funzionano quando suscitino delle risposte altrettanto dispettose, chiama in causa Samuel Beckett, persona assolutamente fededegna, che racconta d’aver ascoltato James Joyce dire: «Io non ho amato altro al mondo che la mia famiglia». Per malizia, più che per amore d’una obbiettività spesso ipocrita, mi limiterò a citare quanto Bertolucci dice di Gide, definendolo senza appello «romanziere medio, saggista e diarista elegante, leggibilissimo, quindi inutile a leggersi». Figurarsi! Non sono d’accordo nemmeno un po’ con questa sintesi dispettosa, negativa ma non feroce perché è lì a dire «io la penso così», ma se qualcuno vuol ribattere, tanto meglio. La cultura ha bisogno di idee e Aritmie, come il suo autore sapeva benissimo, è appunto una miniera di idee che magari ce ne fossero altre cosi spregiudicate, partigiane, intelligenti. E per concludere qualcuno, forse Cesare Garboli, mi raccontò che Bertolucci a volte si invecchiava a bella posta sedendo nel soggiorno di casa sua con un berretto in testa e indosso un cardigan rosso scuro ormai usato e riusato. Lo scopo? Ingannare la morte di cui aveva paura e apparirle il più possibile indesiderabile. Così indesiderabile da lasciarlo lì dov’era, cioè vivo tra i vivi.

L’opera in versi di Attilio Bertolucci (San Lazzaro, Parma, 18 novembre 1911-Roma, 14 giugno 2000) — costituita soprattutto da Sirio(1929), La capanna indiana (1951, 1955 e 1973) e Viaggio d’inverno (1971 e 1984) — è raccolta neLe poesie (Garzanti, 1990 e 1998) cui sono seguiti, per lo stesso editore, Verso le sorgenti del Cinghio(1993) e La lucertola di Casarola (1997). Ancora per Garzanti: il poema di una vita La camera da letto, uscito in due volumi nel 1984 e nel 1988; le prose di Aritmie (1991); l’epistolario con Vittorio Sereni (Una lunga amicizia, a cura di Gabriella Palli Baroni, 1994).

·        20 anni dalla morte di Gino Bartali.

Ricordo di Gino Bartali, inserire nella scuola che riparte. Il Riformista il 5 Maggio 2020. Il 5 maggio di 20 anni fa moriva Gino Bartali. È stato più di un ciclista, è stato un grande italiano che con le sue imprese al Tour de France ha salvato il Paese da una guerra civile che, nel 1948, sembrava essere inevitabile. Gino Bartali “Giusto tra le Nazioni” per il suo impegno a favore degli ebrei perseguitati durante la Seconda Guerra Mondiale. La figura di Gino Bartali è meravigliosa, unica e sarebbe da inserire nei programmi della scuola che riparte, anche se ancora non si sa come. In questi giorni delicati giorni di ripartenza abbiamo bisogno di leggere di esempi positivi e Gino Bartali è uno di questi.

Lisa Bartali ricorda «Bici, piste ciclabili imprese sportive…» L’ è tutto giusto, tutto da rifare. Franco Insardà su Il Dubbio il 5 maggio 2020. Lisa Bartali, nipote del campione, apprezza la Fase 2 che scatterà a Firenze con la “Operazione Bartali”: 12 chilometri di piste ciclabili. «La diocesi di Assisi rende omaggio alla memoria di nonno con una messa presieduta dal vescovo monsignor Domenico Sorrentino, proprio nella cappella privata di famiglia, donata nel 2018 al “Museo della memoria, Assisi 1943- 1944” dalle mie cugine Gioia e Stella, figlie di Andrea. Mio nonno è ancora molto popolare e portiamo con orgoglio il nome Bartali. Io e mia cugina Gioia, le più attive tra i cinque nipoti, siamo spesso chiamate in tutt’Italia, perché gli vengono intitolate parchi, scuole, piste ciclabili, spettacoli e strade. Mi fa molto piacere che il sindaco di Firenze, Dario Nardella, abbia lanciato la “operazione Bartali” per mobilità della fase 2: 12 chilometri di nuove piste ciclabili». Lisa Bartali, figlia di Luigi, parla con orgoglio del nonno e di tutto quello che rappresenta. L’idea del sindaco Nardella la trovo perfetta per Firenze, io mi muovo sempre in bici in città, una delle più motorizzate d’Italia. Ho lavorato per parecchi anni nella moda in centro e la bici è sempre stato il mio mezzo di locomozione. Rispetto a quello che accadeva prima della pandemia e alluso esagerato delle macchine in città penso che mio nonno avrebbe sbottato "L’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare"». Lisa è nata tra biciclette, trofei medaglie, libri e vhs sul ciclismo al punto che ha aperto “Biciclettami. it”, il blog sul ciclismo urbano, diario di escursioni tra arte, eventi, poesia e racconti, con una linea di accessori e abbigliamento di ispirazione retrò. Con una sezione dedicata a Gino Bartali con ricordi di famiglia, interviste ad ex gregari, eventi sportivi e culturali inerenti alla sua figura. «Non è da tutti aver imparato ad andare in bici – racconta – con un maestro come Gino Bartali. Mi insegnava come posizionare bene i piedi sui pedali “con la punta sul pedale, non di tacco”, urlava da lontano». Il nonno è sempre presente nel blog di Lisa. E, in concomitanza con giornate particolare, le piace sottolineare quello che è stato Gino Bartali. Per l’ultimo 25 aprile ha scritto: “Il suo contributo silenzioso si intreccia nella storia della resistenza italiana… Che la sua figura ci sia da guida, ora più che mai in questa nostra epoca, e che la sua storia sia divulgata con il massimo rispetto oggi e nel tempo che verrà”. «Ho avuto la fortuna di potermelo godere abbastanza, quando è morto avevo 15 anni. Ha sempre seguito il ciclismo e gli piaceva stare nell’ambiente. Nonno era abbastanza riservato in famiglia, raccontava delle sue imprese sportive ai suoi fan. Ricordo che un pomeriggio, mentre guardavano un documentario sulla rivalità con Fausto Coppi lui mi disse: “Eravamo rivali, ma anche amici”…». 

Gino Bartali, il campione che salvava gli ebrei nascondendo carte nella bici. Franco Insardà su Il Dubbio il 5 maggio 2020. Vent’anni fa moriva Gino Bartali. Fervente cattolico, militante dell’Azione Cattolica, figlio di genitori socialisti, si rifiutò sempre di prendere la tessera del partito fascista. Con la sua bicicletta ha attraversato tutto il secolo scorso, tagliando anche il traguardo del nuovo millennio per lasciarci il 5 maggio di venti anni fa. Il destino ha voluto che il giorno della morte di Gino Bartali coincidesse con quello di Napoleone, cantato da Alessandro Manzoni tra gli altari e la polvere. A “Ginettaccio”, come fu soprannominato per il suo carattere schietto da fiorentino che non le manda a dire, ha pensato Paolo Conte immortalandolo con “la sua faccia da italiano in gita”. E lui, pedalata dopo pedalata, ha fatto incazzare i francesi, esaltare gli italiani ed evitato le sanguinose rappresaglie nazi-fasciste a centinaia di ebrei, portando documenti per la loro libertà, nascosti nel telaio della sua bicicletta, da Firenze ad Assisi. Andata e ritorno in giornata, 380 chilometri percorsi tante volte per trasportare passaporti falsificati che servivano a favorire l’espatrio di ebrei e dissidenti, rifugiati nei conventi italiani durante il periodo del controllo nazifascista sull’Italia. Una attività che Bartali svolse con l’organizzazione clandestina Delasem ( Delegazione per l’Assistenza degli Emigranti Ebrei) collaborando con l’arcivescovo di Firenze, Elio Angelo Dalla Costa, e il rabbino Nathan Cassuto. Senza dubbio la tappa più importante della sua vita, per la quale ha meritato un trofeo che pochissimi sportivi possono vantare: il 23 settembre 2013 è stato dichiarato “Giusto tra le nazioni” dallo Yad Vashem, il memoriale ufficiale israeliano delle vittime dell’olocausto nel 1953, riconoscimento per i non ebrei che hanno rischiato la vita per salvare quella anche di un solo ebreo durante le persecuzioni naziste. Tra i tanti c’è l’istriano Giorgio Goldenberg che nel 1944 Bartali nascose nella casa di Firenze con tutta la famiglia nelle cantine all’insaputa dei suoi parenti. La gratitudine del popolo ebreo è immensa: Il 16 maggio 2017, alla vigilia della partenza dell’undicesima tappa del Giro d’Italia ( da Ponte a Ema a Bagno di Romagna), la squadra israeliana di ciclismo “Cycling Academy” ha organizzato una corsa con partenza dalla stessa Ponte a Ema fino ad Assisi, sullo stesso tragitto che il campione percorse molte volte per aiutare gli ebrei perseguitati. E il 2 maggio 2018, prima della partenza del Giro d’Italia da Gerusalemme, Gino Bartali ha ricevuto la nomina postuma a cittadino onorario di Israele A “Gino le pieux”, come lo chiamavano i francesi, Alberto Toscano, storico corrispondente da Parigi, ha dedicato “Gino Bartali. Una bici contro il fascismo” nel quale si sottolinea il rapporto non semplice tra il campione e il regime. Lui fervente cattolico, militante dell’Azione Cattolica, figlio di genitori socialisti, si rifiutò sempre di prendere la tessera del partito fascista. Nel 1938 fu costretto dal regime a rinunciare alla partecipazione al Giro, dove era tra i favoriti, per dedicarsi solo a Tour e ottenere una vittoria da “offrire alla patria”. Non volle mai dedicare i suoi trionfi al duce, nonostante le innumerevoli pressioni, e dopo aver vinto la Grande Boucle del 1938, rifiutò anche di indossare la maglia nera per evitare di offrire la possibilità al regime di strumentalizzare la sua vittoria. Quando tagliava il traguardo da vincitore Gino dedicava le sue vittorie «alla Madonnina» e il mazzo dei fiori lo portava in chiesa. «Alla Madonna ho promesso che avrei fatto le cose per bene, perché tutto quello che faccio, lo faccio a nome suo. E così lei è stata attenta a non farmi sbagliare» ( Intervista a Gino Bartali del 14 maggio 1999, in Paolo Costa Gino Bartali. La vita, le imprese, le polemiche). La generosità e l’impegno per il prossimo ha caratterizzato la vita di Gino, anche se lui si scherniva e ripeteva: «Il bene si fa ma non si dice!». E Bartali lo ha sempre fatto, senza mai tirarsi indietro, quando qualcuno gli ha chiesto una mano. Come quella volta che al Tour de France nel 1948 fu chiamato dal presidente del Consiglio De Gasperi. È in albergo, in fibrillazione perché non ha notizie della sua famiglia dopo l’attentato al segretario del Pci Palmiro Togliatti, e arriva una telefonata e lui, schietto come sempre: «Pronto, dimmi Alcide…» il suo amico dell’Azione cattolica, ora presidente del Consiglio. E De Gasperi: «Sarebbe importante se tu riuscissi a vincere. Qui c’è un’enorme confusione. Hanno sparato a Togliatti». Gino risponde: «La corsa è sempre la corsa, io ti prometto che la fo bene, poi si vedrà». Il presidente del Consiglio conclude: «Grazie Gino, conto su di te!». Il giorno dopo Bartali attacca sulla vetta dell’Izoard e vince la tappa di Briancon staccando il beniamino dei francesi Louison Bobet di oltre 20 minuti. Indossa la maglia gialla e vince il suo secondo Tour de France. A Parigi è accolto da una clamorosa ovazione, nonostante il ricordo della dichiarazione di guerra di Mussolini nel 1940. In Italia si passa dagli scontri di piazza al tripudio per la vittoria di Gino Bartali. Addirittura Togliatti, dopo aver lanciato un messaggio di invito alla calma generale, chiede notizie del Tour. Gino Bartali, nato a Ponte a Ema il 18 luglio 1914, cresce insieme a suo fratello Giulio per correre in bici. Ha chiara la strada da seguire e la sua grinta gli consente di superare qualsiasi salita, senza mai doversi piegare a nessuno. L’unico tentennamento, dopo la tragica morte di Giulio che sbatte addosso a una Balilla che percorreva la strada in sensi opposto, nonostante una corsa ciclista. Dopo quella tragedia Gino vuole mollare tutto, diventa terziario carmelitano nella fraternità San Paolino di Firenze, ma per fortuna i dirigenti e gli amici lo convincono a riprendere la bicicletta e il ciclismo mondiale trova un vero campione. E così inanella vittorie su vittorie: tre Giri d’Italia ( 1936, 1937, 1946), due Tour de France ( 1938 e 1948), quattro Milano-Sanremo, tre Giri della Lombardia e tantissime altre corse. Fino al 1953 quando dopo la vittoria al Giro di Toscana, a 39 anni, ha un incidente stradale per il quale rischia di perder la gamba destra. Ma dopo pochi mesi è di nuovo in sella alla Milano- Sanremo. Vuole finire la sua carriera da professionista a Città di Castello, dove era stato sfollato per diversi mesi per sfuggire alle rappresaglie fasciste, correndo in un circuito creato apposta per l’occasione, nel 1954. Per tutta la sua carriera ha gareggiato ad altissimo livello, purtroppo nel punto più alto della sua attività sportiva è arrivata la Seconda Guerra Mondiale. Alla ripresa lo consideravano vecchio per il ciclismo, ma lui diceva «dovrete vedere ancora la mia schiena e così fu per ancora un decennio. Leggendaria la sua rivalità con Fausto Coppi. È entrato nella Cyclist Hall of Fame, dove risulta il secondo italiano dopo l’Airone. Con Coppi divise l’Italia: lui cattolico, sposato per 60 anni con Adriana Bani, dopo cinque anni di fidanzamento, con tre figli Andrea, Biancamaria e Luigi, l’altro schivo e introverso, protagonista della storia d’amore che fece scandalo con Giulia Occhini. Tra i due una rivalità sportiva molto forte, ma una stima e un’amicizia sincera. Quando Serse Coppi morì, in una caduta al Giro di Piemonte, Gino disse: «Siamo rivali io e il Fausto, ma che scherzo il destino! Portarci via Giulio e Serse… così siamo diventati fratelli anche noi due, nel dolore». Al di là del famosissimo episodio dello scambio della borraccia, il 4 luglio 1952, al trentanovesimo Tour de France durante la tappa Losanna- Alpe d’Huez. Una leggenda che ha immortalato iconograficamente i due campioni e che ha avuto tante versioni, tutte plausibili. Ma il mito ha bisogno di mistero. Nel 1959 i due si tesero di nuovo la mano. Bartali ingaggiò nella sua squadra, la San Pellegrino Sport, Coppi che era in un momento difficile della sua vita sportiva e personale. L’Airone aveva invitato Ginettaccio nel famoso viaggio in Africa che avrebbe finito per costargli la vita, ma Bartali rinunciò, volendo passare i momenti liberi con la famiglia, la moglie Adriana e i tre figli, Andrea, Luigi e Bianca. Purtroppo Coppi e Bartali non riuscirono a compiere quella nuova impresa sportiva perché l’Airone, di ritorno dall’Africa, morì di malaria il 2 gennaio del 1960. Gino Bartali ha continuato a tenere alta la propria fama di fuoriclasse e quella dell’amico- rivale Coppi, con interventi giornalistici e televisivi, e con la partecipazione al Processo alla tappa, ideata e condotta da Sergio Zavoli, e alla Carovana del Giro. Nel 1977 ha ricevuto il Premio Italia come “maggior campione ciclista vivente”. Ha partecipato anche a una serie di “Striscia la notizia”, dove ha messo in pista tutta la sua simpatia e la schiettezza toscana che emerge dall’autobiografia Tutto sbagliato, tutto da rifare, pubblicata nel 1979. Oltre un centinaio di libri, tra i quali Gino Bartali, il mio papà, nel quale il figlio Andrea ha raccolto i documenti, insieme con la figlia Gioia, su periodo in cui era corriere di una rete clandestina per salvare gli ebrei. Ed ancora sceneggiati televisivi, e persino delle canzoni, la più celebre, Bartali, di Paolo Conte, eseguita anche da Enzo Jannacci, che raccontano il personaggio da tutte le angolature. A lui è dedicato il Museo del ciclismo, aperto nel 2006 proprio di fronte alla sua casa natale a Ponte a Ema, con tantissimi cimeli della sua vita. La sua fama continua e l’anno scorso la storia di Gino Bartali è spuntata anche tra le tracce della prima prova della maturità. L’ennesima zampata del campione.

·        20 anni dalla morte di Victor Cavallo.

Stefano Ciavatta il 28 febbraio 2020. “Now I am quietly waiting for the catastrophe of my personality to seem beautiful again, and interesting, and modern”, è un verso famoso di Frank O’Hara tratto da “Meditations In An Emergency” (scandalosamente mai pubblicato in Italia, ma questa è un’altra storia), citato persino in Mad Men nel pieno della crisi di Don Draper. Un verso che avrebbe potuto scrivere benissimo Victor Cavallo, nato a Roma nel 1947, morto esattamente 20 anni fa, “eroe minore degli anni 70” come si definì lui stesso, ricordato en passant per i primi 40 anni del festival dei poeti di Castelporziano dove fu il domatore del pubblico di fricchettoni caciaroni e timidi poeti. Si chiamava in realtà Vittorio Vitolo, ma al risveglio in una mattina d’estate sessantottina prese la parola dopo aver dormito su un pagliericcio per mancanza di letti, e fu battezzato compagno Cavallo. L’epitaffio di Victor Cavallo recita: “poeta, scrittore, regista, attore di cinema e teatro, romanista, centrocampista, estremista, anarco-sorco-situazionista”. Ed è subito tutto troppo. Nella Roma di questi tempi l’amarcord dell’ennesimo bohémien di spettacolo può suonare un passatismo per rimandare la modernità tanto invocata per la città. Intanto la Garbatella fa 100 anni e non si può non celebrare uno dei suoi aedi: “Mia cara fica / lucciola lanterna cicala stella nuvola sogno papavero orzata fica / ti scrivo dalla Garbatella dove passeggiavo con una maglietta gialla e il cielo era pieno di rondini / ma era verso sera e all’epoca della prospettiva Nevskji.” Però non basta. Victor Cavallo rappresenta una coordinata per capire Roma, quella Roma teatrale, irriducibilmente capitolina, che si è consumata per strada, quei gladiatori sbocciati nell’Estate Romana di Nicolini che poi - mentre a casa i modem iniziavano a girare a 56k - diventarono reduci affettuosi, persino padri, e che l’arrivo della banda larga ha rimesso in circolo solo a frammenti. Attore per autoproclamazione, come certi imperatori. La critica teatrale più borghese gli diede dell’improvvisato, letteralmente: un tizio che una sera in pizzeria si era alzato in piedi con le tasche piene di storie e qualche mezza verità, uno che aveva cominciato a straparlare dei fatti della vita, e non era più ritornato a tavola. “No, è passato dalle cantine, dal Beat72 di Simone Carella!” urlarono altri. Comunque sia a un certo punto la testa di Cavallo spuntò fuori. Una testa piena di ricci, lo sguardo liquido, profondo, proletario, il suo passepartout. E sotto invece un corpo tozzo, compresso, muscoloso, una fisionomia “aggressiva e candida, primitiva e ingenua”. Maschera di se stesso, one man show con l’aria da “padrone della scena ma riluttante” (Massimo De Feo). Forse per questo non è rimasto nella memoria un ruolo eterno come per Mario Brega, non è mai diventato Manuel Fantoni, “la più grande maschera proletaria del cinema di genere italiano è rimasta Thomas Milian” (Stefano Cappellini). Le apparizioni nei film - il solito elenco trasversale di registi noti e notissimi che si scopre nei ritratti degli underdog - non erano mai ruoli per esteso. Piuttosto, a turno: lampi di genio, presenze intense ma addomesticate (volto feticcio della Archibugi), passaggi inevitabili da caratterista, più in là con gli anni pretesti per campare. Non c’è stato verso di finire venerato maestro nei pastoni sorrentiniani come per Flavio Bucci. Non c’è stato tempo: Cavallo, “il torello timido di sfacciata tenerezza”, è morto a 52 anni dopo un lungo sabotaggio di se stesso. Nel frattempo il mito è stato tenuto in vita da un libretto postumo, il gioiello di culto “Ecchime”, antologia sinfonica della sua voce pubblica e letteraria edita da Marcello Baraghini con la sua Stampa Alternativa. Taccuino capitale nella bibliografia su Roma, un volume smilzo e introvabile, come sa esserlo la città di questi tempi in cui manca la sintesi. “Ecchime” è tutto a frammenti, appunti, monologhi, microcosmi, scenette, poesie e disegnini, solitudini, performance, piazzate di strada, dichiarazioni d’amore e sogni ovunque. Una prosa poetica in presa diretta. Qui Cavallo è il crooner potente di “un mondo bello e confuso di proposito, dai desideri autentici presi dal frigo e dal petto” (Marco Ciriello). “Ecchime” è un mischione ispirato, lessico familiare di folgorazioni mandate a memoria dal lettore, massimi sistemi dentro e fuori le Mura. In origine un brogliaccio di carte diverse, poi assemblato con pazienza e filologia da Paola Febbraro. Un altro editore, Domenico Cosentino, ha pubblicato in questi giorni “Non è successo niente” per Round Midnight, altri inediti di Cavallo, anche qui ricavati da fogli, scontrini, biglietti del tram. 40 anni fa su “Paese Sera” Cordelli scriveva che Cavallo era un uomo “drogato dal succo dei pedalini”, cioè entusiasta per magia di qualsiasi cosa toccasse, per questo scriveva dappertutto. Anche in rete si fa fatica a ricostruire il mosaico Cavallo: cambiato dominio al sito archivio letterario activitaly.it che per un decennio ha custodito le poesie più folgoranti di Cavallo, rimangono cenni indicizzati male e cronachette sepolte negli archivi, spezzoni di video, omaggi sparsi, brilla quello della Stancanelli che gli dedicò il titolo di un lontano libro “A immaginare una vita ce ne vuole un’altra” (minimumfax), i più recenti murales di Leonardo Crudi e poi riletture milanesi e altre volenterose testimonianze che provano ogni volta ad allestire il mito del “bufalo fanatico”, in generale un inventario magro e smozzicato, molto lirismo e poca ciccia, impietose poi le immagini della furia ammaccata degli ultimi tempi. Ci vorrebbe allora un wikileaks Cavallo: che fine ha fatto il suo “Stalker” teatrale ispirato alla fantascienza dei fratelli Strugatzki? E il mini kolossal “L'incredibile Hulk” in quattordici puntate? E poi il leggendario “Scarface”, e “Kriminal Tango” e “Kabiria”? E il doc “Super Viktor” di Franco Rea presentato alla Festa del Cinema? Non rimane che “Ecchime” e poche altre certezze. Eccolo allora il Frank O’Hara de noantri: “La noche era tropicana randagia e romana. Piazza Navona come una sorca d’argento, i boulevard i sampietrini sconquassati che seducono e le ragazze che si slogano cadono con i tacchi nel cuore dell’amore. La pioggia, la grande pioggia di Bangkok del Borneo, e il silenzio ogni tanto come una finestra sul cortile”. Battitore libero di sampietrini, a piazza Farnese oggi blindata ci giocava a pallone di notte, fece anche un provino per la Roma che durò per sempre, una fede inscalfibile nonostante tutto, “mia adorata sono stanco e ho bisogno dei tuoi capelli e delle canzoni dell’estate 1979 e di una campagna acquisti che mi ridia speranze di coppa Uefa”, venerò Di Bartolomei, si sentiva  “violento timidissimo dolce disperato” come negli ultimi finali quattro minuti di Roma Fiorentina, quando la meteora Bartelt trascinò la Roma in 9 nella pazza rimonta, restava perplesso su Totti solo mezzapunta, non fece in tempo neanche per il terzo scudetto. Dentro “Estate Romana” di un primissimo Garrone offriva saggezza a un’amica in ansia: “l’attesa del calcio di rigore c’è solo quando stai male, quando stai bene non c’è un cavolo, non c’è portiere”. Tra i poeti col culto dell’urbe Cavallo è stato un centrocampista, un ruolo esistenziale, di fatica. Un polmone (come si dice allo stadio), un portatore d’acqua, un mediano delle cose della città, non il solito fantasista (Proietti) non la punta solitaria (Califano), non l’ala bizzarra (Remotti) etc etc. Un cagnaccio in campo, ma un cane pastore, evocatore di Roma per non perderla mai di vista, come l’imperatore di Nico D’alessandria, “sognai Gandhi che mi faceva una carezza. Sognai i portici squilibrati di Piazza Vittorio. Sognai che mi chiamavano, gridavano il mio nome.  E dissi alla ciurma, voi siete le mie molte anime”. Un custode dell’inventario di una metropoli già deflagrata negli ‘80: “che cosa è Roma oggi, città o campagna? Un dolce borgo, una semi Milano, una mezza Torino, una super Palermo, un mezzo Cairo?”. Dal traffico dei cortili ai panni stesi sulle facciate, dai salici agli alberi di mandarini Cavallo registrava tutto. Era sua la città sorvegliata dalle mille mediazioni, oggi rimpianta: “un cortile ovverosia, proprio una specie di asilo nido naturale, normale. un cortile con le lucertole, i sassi, l’erba, sassate in faccia, partite di pallone, tutto normale, tutto come quasi in un momento di pace, un cortile. un ragazzino gioca qui, lo vede la madre, la madre di Franco vede Gigi,  Gigi vede la madre di Vittorio, la madre di Vittorio vede Libero, Otello. Dice che fai? Cresco”. E’ stato l’ultimo lampionaio del catasto romano. All’epoca in cui gli attori li vedevi vivere per strada, non soltanto sullo schermo, Cavallo portava a spasso la sua vita, “e tu mi riconoscerai perché indosserò profonde occhiaie e una collanina azzurra. Fuggiremo lontano dal vietnam, verso la divina Pietralata. Verso la Tuscolana pazza e disperata”. Renato Nicolini che si ritrovò per caso a sposarlo da assessore confessò: “la sensazione che qualcuno è morto si ha solo quando ti aspetti di incontrarlo e non lo incontri, e capisci allora che non lo vedrai mai più”. Alla Garbatella gli hanno dedicato un sentiero che parte da una trattoria e sale verso gli alberi di mimose. Tra poco ci siamo. “Ecchime”.

·        19 anni dalla morte di Indro Montanelli.

Il razzismo antimeridionale di Vittorio Feltri non è nuovo: anche Giorgio Bocca e Indro Montanelli manco scherzavano… Ignazio Coppola il 23 aprile 2020 su inuovivespri.it. La storia del razzismo contro il Sud Italia e i suoi abitanti – di cui Vittorio Feltri è solo uno dei tanti ‘protagonisti’ – comincia nel 1860. Inizia con i Savoia, con l’odio e l’astio dei generali e dei politici piemontesi, prosegue con i positivisti di fine ‘800 (Cesare Lombroso, Alfredo Niceforo, Enrico Ferri) e arriva fino ai nostri giorni. Basta andare a rileggersi cosa hanno detto e scritto dei meridionali Giorgio Bocca e Indro Montanelli…La questione dei meridionali come razza inferiore e la questione meridionale come questione economica viene oggi drammaticamente riproposta dalle farneticanti affermazioni razziali dei deliri antimeridionali del “giornalista” Vittorio Feltri, che raccoglie l’eredità di tanti suoi illustri colleghi giornalisti del Nord, come, tra gli altri, Giorgio Bocca, Indro Montanelli, di cui parleremo più avanti, che verso i meridionali hanno sempre avuto parole di disprezzo e di repulsione. Terminologie, sinonimi e similitudini che attengono e sono alla base, ancora oggi, di una mai realizzata e metabolizzata Unità d’Italia.

ACREDINE VERSO IL SUD – Le parole di Feltri di questi giorni non sono solo il frutto di una demenza senile razziale, ma sono il punto di arrivo di un’acredine e di una ipocrisia nei confronti del Sud che trova appunto le sue radici nelle bugie e nelle falsità che, a dosi massicce, ci sono state propinate, senza soluzione di continuità, sino ai nostri giorni, dalle storiografie ufficiali e scolastiche. Si continua infatti ad ignorare che, alla base di una mala unità d’Italia, vi fu, come del resto continua ad esserci – retaggio del passato – un’ignobile componente razzistica antimeridionale conclamata e documentata da quei politici e da quei militari che erano venuti a “liberare e civilizzare “ il Sud. In una lettera inviata il 17 ottobre del 1860 a Diomede Pantaloni e contenuta in un carteggio inedito del 1888, il piemontese marchese Massimo D’Azeglio, che fu Presidente del Consiglio del Regno di Sardegna ed esponente della corrente liberal-moderata tra l’altro così scriveva: “In tutti i modi la fusione con i napoletani mi fa paura e come mettersi a letto con un vaioloso”. Più o meno quello che, esattamente 150 dopo, canterà in coro con altri leghisti ad una festa del suo partito l’eurodeputato ed allora capogruppo al comune di Milano Matteo Salvini: “Senti che puzza, scappano anche i cani, sono tornati i napoletani, sono colerosi e terremotati, con il sapone non si sono mai lavati”. Sembra di risentire il D’Azeglio di 150 anni prima. Da allora niente è cambiato se non in peggio. Feltri docet. Nino Bixio, il paranoico massacratore di Bronte, in una lettera inviata alla moglie, tra l’altro così scriveva: “Un paese che bisognerebbe distruggere e gli abitanti mandarli in Africa a farsi civili”.

CIALDINI: “QUESTA E’ AFRICA!” – Ancora, sulla stessa lunghezza d’onda del colonnello garibaldino, il generale Enrico Cialdini, luogotenente del re Vittorio Emanuele II inviato a Napoli nell’agosto del 1861 con poteri eccezionali per combattere il “brigantaggio”, a proposito dei territori in cui si trovò a operare in una lettera inviata a Cavour così si esprimeva: “Questa è Africa! Altro che Italia. I beduini a confronto di questi cafoni sono latte e miele”. Enrico Cialdini era lo stesso che alcuni mesi prima, nel febbraio del 1861, durante l’assedio di Gaeta, bombardando l’eroica città, non si fece scrupolo di indirizzare il tiro dei suoi cannoni rigati a lunga gittata e di grande precisione deliberatamente sugli ospedali per terrorizzare gli occupanti e fiaccarne la resistenza. E, a chi gli faceva osservare il suo inumano comportamento non rispettoso dei codici d’onore e militari, rispondeva sprezzatamene: “Le palle dei miei cannoni non hanno occhi”. Cialdini si rese poi protagonista degli eccidi e della distruzione, in provincia di Benevento, dei paesi di Pontelandolfo e Casalduni, esecrabili e orrendi al pari di quelli compiuti dai nazisti molti anni dopo e con minor numero di vittime a Marzabotto e a Sant’Angelo di Stazzema, in cui furono massacrati senza pietà uomini, donne e bambini. Negli ordini scritti ai suoi sottoposti, Cialdini era solito raccomandare di “non usare misericordia ad alcuno, uccidere, senza fare prigionieri, tutti quanti se ne avessero tra le mani”. E dire che del nome di Cialdini, criminale, spacciato per eroe, la toponomastica delle nostre città ne ha fatto incetta. Ed ancora , a ulteriore testimonianza di questi propugnatori del razzismo antimeridionale, quanto scriveva all’alba dell’Unità d’Italia il generale conte Luigi Menabrea comandante del genio del corpo d’armata piemontese di stanza nell’ex Regno delle Due Sicilie, alla baronessa Olimpia Savio Rossi dal comando di Castellone di Gaeta il 26 dicembre del 1860: “I meridionali sono simili agli ottentotti (si riferiva ai Boscimani la popolazione che abitava l’Africa meridionale), nonostante il loro bel paese e le loro grandi memorie. L’abbassamento del senso morale e della dignità personale della popolazione sono le cose che colpiscono di più. Sotto gli stracci disgustosi che coprono le contadine non si riconosce più questa belle razza italiana, che sembra finire nel territorio romano”. Il conte piemontese Luigi Menabrea sarà poi dal 1867 al 1869 presidente del Consiglio dei Ministri del nuovo regno d’Italia e, non perdendo la sua propensione razzista nei confronti dei meridionali, si distinguerà nella spasmodica ricerca, nella sua qualità di capo del Governo, di territori fuori dall’Italia, in Patagonia (Argentina) prima e nell’isola di Socotra (Portogallo) in cui deportare – essendo le carceri italiane strapiene – miglia e miglia di prigionieri meridionali. Per fortuna il criminale disegno di Menabrea e del governo sabaudo non andò a buon fine per la decisa opposizione dell’Argentina e del Portogallo, che eccepirono problemi di sovranità che giustamente rivendicavano sui propri territori.

GOVONE: “LA SICILIA? BARBARI!” – E che dire poi del generale Giuseppe Covone mandato anch’esso a reprimere il brigantaggio in Sicilia, un militare che, per snidare i renitenti di leva, non si fece scrupolo di fucilare sul posto, di torturare, arrestare e deportare, intere famiglie e compiere abusi e crimini inenarrabili? Ebbene, anche il Covone, per non essere da meno dei suoi conterranei predecessori e per difendere e giustificare il suo criminale operato dell’uso di metodi di costrizione di stampo medievale nei confronti dei siciliani: anch’egli non trovò di meglio, in un rigurgito razzista, di affermare in Parlamento: “Nessun metodo poteva aver successo in un paese come la Sicilia che non è sortita dal ciclo che percorrono tutte le nazioni per passare dalla barbarie alla civiltà”. Ed infine per completare questo “bestiario” di aberrante avversione razziale nei confronti dei meridionali val bene ricordare le parole tratte dal diario dell’aiutante in campo di Vittorio Emanuele II, il generale Paolo Solaroli: “La popolazione meridionale è la più brutta e selvaggia che io abbia potuto vedere in Europa”. E poi quanto scrisse Carlo Nievo, ufficiale dell’armata piemontese in Campania al più celebre fratello Ippolito, scrittore e ufficiale e amministratore della spedizione garibaldina in Sicilia: “Ho bisogno di fermarmi in una città che ne meriti un poco il nome poiché sinora nel Napoletano non vidi che paesi da far vomitare al solo entrarvi, altro che annessioni e voti popolari dal Tronto a qui ove sono, io farei abbruciare vivi tutti gli abitanti, che razza di briganti, passando i nostri generali ed anche il re ne fecero fucilare qualcheduno, ma ci vuole ben altro”.

LOMBROSO, FERRI, NICEFORO – Questi i documentati pregiudizi razziali di quei “liberatori” che fecero – a spese del Sud, depredandolo, saccheggiandolo, uccidendo e massacrando i suoi abitanti . l’Unità d’Italia. Grazie anche a questi pregiudizi, nati per giustificare la politica coloniale e civilizzatrice piemontese, poi furono elaborate le teorie razziali dell’inferiorità della razza meridionale propugnate da Cesare Lombroso, Alfredo Niceforo, Enrico Ferri, Giuseppe Sergi, Paolo Orano e Raffaele Garofalo che si affrettarono a dare una impostazione scientifica ai pregiudizi diffusi ad arte dagli invasori per giustificare politiche di rapine, di spoliazioni e di saccheggi a danno del Meridione. Sui fondamenti antropologici e storici della crisi dell’identità italiana e sulla mancanza di comunicazione interculturale tra Nord e Sud ne fa una lucida analisi Antonio Gramsci nei quaderni quando sostiene: “La miseria del Mezzogiorno era storicamente inspiegabile per le masse popolari del Nord. Queste non capivano – afferma Gramsci – che l’unità non era stata creata su una base di eguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Sud nel rapporto territoriale città-campagna, cioè che il Nord era una piovra che si arricchiva a spese del Sud e che l’incremento industriale era dipendente dall’impoverimento dell’agricoltura meridionale”. L’impoverimento del Meridione per arricchire il Nord non fu la conseguenza ma la ragione stessa dell’Unità d’Italia. In buona sostanza, con l’Unità d’Italia ebbe il sopravvento il disegno e la strategia egemonica dell’imprenditoria e della finanza settentrionale che, conquistando e colonizzando il Sud, ostacolandone in ogni modo la crescita prevaricò ogni ipotesi di sviluppo della nascente economia meridionale. Significativo in questo senso fu quanto ebbe a dire il genovese Carlo Bombrini prima dell'Unità d’Italia, già direttore della Banca Nazionale degli stati Sardi e amico personale di Cavour e successivamente governatore della Banca Nazionale del Regno d’Italia dal 1861 al 1882: “Il Mezzogiorno non deve essere messo più in condizione di intraprendere e produrre”. Infatti, negli anni in cui fu a capo della Banca Nazionale, tenendo fede a questa sua spiccata vocazione antimeridionalista fu artefice di numerose operazioni finanziarie finalizzate allo sviluppo dell’economia del Nord, soprattutto nella costruzione delle reti ferroviarie settentrionali per le quali ottenne numerose concessioni a detrimento di quelle meridionali. Riprendendo l’analisi di Gramsci si può in buona sostanza affermare che la origine della questione dei meridionali bollati come razza inferiore nasce dal fatto, a detta dall’illustre intellettuale sardo, che il rapporto Nord-Sud dopo l’Unità d’Italia fu un tipico rapporto di tipo coloniale che vide le popolazioni del Sud defraudate della loro storia, della loro identità culturale e occupate militarmente. Lo scrittore ceco Milan Kundera, protagonista della primavera di Praga nel suo Il libro del riso e dell’oblio scrive un pensiero che è assolutamente calzante con quanto avvenne alle popolazioni meridionali e ai siciliani subito dopo l’Unità d’Italia: “Per liquidare i popoli si comincia con il privarli della memoria, si distruggono i loro libri, le loro culture e la loro storia. E qualcun altro scrive loro altri libri, li fornisce di altre culture e inventa per loro un’altra storia. Dopo di che il popolo incomincia a dimenticare quello che è stato”. Ed è proprio quello che è capitato alle popolazioni del Mezzogiorno d’Italia nel corso di 160 anni di un forzato e mal digerito processo unitario che ha alle sue origini come abbiamo visto aberranti radici antropologiche, xenofobe, razziste e coloniali. Una colonizzazione ed una occupazione militare del Mezzogiorno che, al di là delle frasi di aberrante e vomitevole razzismo nei confronti dei meridionali che abbiamo abbondantemente e documentalmente riportato da parte di “liberatori”quali Bixio, Cialdini, Covone, D’Azeglio, Nievo, Bombrini e tanti altri, doveva trovare per questo una giustificazione ed una sua legittimazione ideologica, culturale ed anche scientifica tendente a dimostrare la inferiorità della razza meridionale ed alla gratitudine che si doveva ai settentrionali di esserci venuti a liberare ma soprattutto a civilizzare. E questo fu lo sporco compito assolto con lodevole perizia, in questa direzione, dalla scuola positivista di Cesare Lombroso che, assieme ad altri antropologi e criminologi quali Alfredo Neciforo, Ferri, Sergi, Orano e Garofalo propugnatori del razzismo scientifico e dell’eugenetica, misero a frutto i diffusi pregiudizi antimeridionali teorizzando l’inferiorità della razza meridionale. Cesare Lombroso antropologo e criminologo, nel periodo immediatamente successivo all’Unità d’Italia, elaborò le sue teorie sulla inferiorità etnica dei meridionali effettuando misurazioni sui crani dei briganti uccisi allo scopo di dimostrare e di ottenere la prova scientifica sulla inferiorità genetica dei meridionali. Lombroso, sfatando il mito di una omogenea razza italica, teorizzò l’esistenza di due tipi di italiani: i settentrionali come razza superiore e i meridionali di stirpe negroide africana razza inferiore. Più avanti, un altro antropologo di scuola lombrosiana, Alfredo Niceforo, propugnatore del razzismo scientifico, come il suo maestro, teorizzò l’esistenza in Italia di almeno due razze: quella eurasiatica (ariana) al Nord e quella euroafricana (negroide) al Sud e, di conseguenza, la superiorità razziale degli italiani del Nord su quelli del Sud. Con un particolare, di non poco conto, che l’illustre antropologo, tutto preso dalla elaborazione delle sue folli teorie, vittima della sindrome di Stoccolma, si era dimenticato di essere nato nel gennaio del 1876 a Castiglione di Sicilia e quindi di appartenere ad una razza inferiore! Niceforo, in un suo libro del 1898, L’Italia barbara contemporanea, descriveva il Sud come una grande colonia, una volta conquistata e sottomessa, da “civilizzare”. Questa ideologia della superiorità della razza nordica, al fine di giustificare le rapine e le spoliazioni nei confronti del Sud, fu diffusa – sostiene ancora Gramsci – in forma capillare dai propagandisti della borghesia nella masse del Settentrione. Il Mezzogiorno è la palla al piede – si disse allora come si ripete pedissequamente oggi – che impedisce lo sviluppo dell’Italia. I meridionali sono – secondo la teoria del Lombroso e dei suoi seguaci – biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi per destino naturale e se il Mezzogiorno è arretrato la colpa non è del sistema capitalistico o di altra causa storica, ma del fatto che i meridionali sono di per sé incapaci, poltroni, criminali e barbari. O dei posteggiatori abusivi come delira oggi Vittorio Feltri.

“NON SI AFFITTA AI MERIDIONALI” – Queste teorie portarono poi nel corso degli anni alla discriminazione razziale nei confronti dei meridionali, come quando nelle città del Nord si era soliti leggere cartelli come questi: “Vietato l’ingresso ai cani e ai meridionali”. O, ancora: “Non si affittano case ai meridionali”. Era questa la conseguenza della campagna xenofoba e razzista avviata con l’unità d’Italia e che dura con Vittorio Feltri e i suoi sodali, ancora sino ai nostri giorni. Fra i detrattori dei Siciliani e dei meridionali, visti, nel loro insieme, come un popolo di “terroni” e di “mafiosi”, non sono poi mancati “ giornalisti famosi come dicevamo all’inizio, i “compianti” Indro Montanelli e Giorgio Bocca, che più di una volta ebbero a sottolineare la condizione di inferiorità delle popolazioni meridionali rispetto a quelle del Nord. Nel 1960, al tempo della guerra d’Algeria, in una intervista rilasciata al giornalista francese Weber per “Le Figaro Litteraire” (la notizia fu riportata dal quotidiano “L’Ora” di Palermo del 25 ottobre del 1990) Montanelli disse testualmente: MONTANELLI: “VOI AVETE L’ALGERIA, NOI LA SICILIA” – “Voi avete l’Algeria, noi abbiamo la Sicilia, ma voi non siete costretti a dire che gli algerini sono francesi, mentre noi, circostanza aggravante, siamo costretti ad accordare ai siciliani la qualifica di italiani”. Molti siciliani insorsero deplorando quella frase oltraggiosa, da cui si ricavava che Montanelli considerava gli Algerini un popolo di serie B e i Francesi un popolo di serie A, così come i Siciliani rispetto agli Italiani. In un articolo di risposta a quella intervista un magistrato di Caltanissetta (Salvatore Riggio) si domandava: “Ma che cosa ci facevano i Francesi in casa algerina? I Francesi non erano forse gli sfruttatori, gli oppressori, i colonizzatori, gli illegittimi occupanti mediante violenza bellica dell’Algeria? Gli Algerini non avevano il sacrosanto diritto di cacciare dalla loro Terra i colonizzatori francesi e reclamare la propria indipendenza? Secondo l’ottica razzista del Montanelli parrebbe di no, perché secondo lui forse la Provvidenza Divina aveva assegnato agli Algerini come angeli custodi i Francesi e secondo la stessa ottica la medesima Provvidenza Divina avrebbe designato i «Fratelli d’Italia» al di là dello Stretto custodi dei Siciliani, considerati dal Montanelli «Esseri» distinti dagli «Italiani» perché posti nella scala di una presunta gerarchia in un gradino inferiore”. Il magistrato citava poi un altro episodio analogo in cui Montanelli (era il 1967) se la prendeva con tutti gli avvocati siciliani accusandoli indiscriminatamente in massa di avere connivenze e collusioni con la delinquenza. Gli avvocati siciliani reagirono proponendo una querela per diffamazione contro di lui. “Ma dove voleva arrivare questo signore?”, si domandava il magistrato. “Voleva forse proporre anche la fornitura di avvocati nordisti per la difesa dei delinquenti siciliani, così come i nordisti ci forniscono giornalmente i loro prodotti per la nostra vita dato che ormai il Sud e la Sicilia in particolare sono stati ridotti soltanto a vaste aree di mercato di consumo interno?”. Ma non finisce qui. L’autore dell’articolo (apparso sulla rivista Il Domani) ricordava che nel 1970 Montanelli aveva scritto che, alla Sicilia, mancava da sempre una coscienza civile e sul Corriere della Sera del 9 Gennaio 1971 scriveva che in Sicilia non v’era traccia di pensiero illuministico. Gli rimproverava poi di non conoscere la storia, l’arte, il pensiero, la letteratura della Sicilia, e persino la geografia, avendo scritto che “il 26 Maggio 1860 tre ufficiali della flotta inglese erano sbarcati a Misilmeri” (Montanelli e Nozza, Garibaldi, 1963, pag. 372), mentre Misilmeri non è sul il mare. Il magistrato poi citava anche il caso di Moravia, che sull’Espresso del 3 Ottobre 1982 a pag. 37 in un articolo intitolato “Siciliano = mafioso?” ad un certo punto aveva scritto: “Il Siciliano in quanto tale, anche il galantuomo, è tendenzialmente mafioso”. Con tutto ciò, concludeva il magistrato, nel 1986 i “sicilioti” di Agrigento (affetti dalla sindrome di Stoccolma) assegnarono a Moravia il Premio Pirandello per la narrativa e il 28 novembre 1990 un’Associazione Culturale di Caltanissetta conferiva a Montanelli il Premio Internazionale Castello di Pietrarossa per la sezione giornalismo. “Cupidigia di servilismo”,così titolava l’articolo il magistrato. E presi da questa cupidigia di servilismo e affetti dalla sindrome di Stoccolma che, alla fine, i palermitani di corta memoria hanno addirittura dedicato a questo illustre giornalista – loro costante denigratore – addirittura una strada: appunto via Indro Montanelli, sita in una traversa della Via Tasca Lanza. E giunti a questo punto, speriamo per l’avvenire che il sindaco Leoluca Orlando o chi gli succederà non si convincano a dedicare come per Indro Montanelli una strada a un razzista seriale antimeridionale come Vittorio Feltri.

La memoria di Montanelli - L’Italia e il sud «spiantato». Giuseppe De Tomaso il 21 Aprile 2009 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Metà disilluso metà disincantato, lo scrittore Ugo Ojetti (1871-1946) sosteneva che l’Italia è un Paese di contemporanei, senza antenati né posteri perché senza memoria. Indro Montanelli, di cui domani ricorre il centenario della nascita, citava spesso questa frase del suo maestro Ojetti. Vi ravvisava la triste fine che, post mortem, non avrebbe risparmiato neppure un Grande come lui, Indro, che del giornalismo aveva scalato tutti i gradini gerarchici, fino a raggiungere quello di pontefice massimo. «So di aver scritto sull’acqua», confessò Montanelli, sconsolato e rassegnato, un mese prima di passare a miglior vita. Ecco. Montanelli possedeva un fiuto da cane da tartufo. Fatta eccezione per Silvio Berlusconi, la cui stagione politica - secondo la Grande Penna - avrebbe coinciso con i tempi di una meteora, non già di una stella immortale, super-Indro aveva azzeccato quasi tutte le previsioni sul Belpaese e sulla politica italiana. Quasi tutte. Un altro pronostico l’«infallibile» Indro lo sbaglierà a proposito di se stesso. Montanelli ha scritto sull’acqua? Non scherziamo. Non passa giorno senza che un giornale pubblichi un suo pezzo, un brano dei suoi diari inediti, una riflessione di chi lo ha davvero visto da vicino. Persino la tv, elettrodomestico non particolarmente amato dall’anti-tecnologico Indro, ha rispolverato stralci di trasmissioni di 50 anni addietro, pellicole in cui il re della parola scritta troneggiava anche nelle vesti di sacerdote della parola parlata. Ironia e autoironia. Classe ed eleganza. I suoi Incontri  televisivi con i protagonisti di tutti i campi (da Moravia a Dino De Laurentiis) non erano la versione di serie B dei più celebri Incontri che furoreggiavano nelle librerie. Erano giornalismo di serie A, come assicurava il marchio di fabbrica. Comunque. A otto anni dalla sua scomparsa, l’Italia non ha dimenticato Indro Montanelli, nei cui confronti, perlomeno finora, non si è comportata da terra di contemporanei. Anzi. La domanda «Cosa avrebbe detto Indro se stesse in mezzo a noi?» è più gettonata di un disco degli Anni Sessanta, segno che l’uomo di Fucecchio ha lasciato un folto numero di orfani. Breve parentesi su antenati e posteri. Pur essendo un toscano milanesizzato, Montanelli non era insensibile ai problemi del Mezzogiorno. Il suo faro, nell’analisi della questione meridionale, era lo storico e politico lucano Giustino Fortunato (1848-1932). L’incontro con Don Giustino rimarrà scolpito nella mente del giovane inviato. «Lei ha visto i nostri calanchi, quelle distese di terra gialla e arida, senza macchie di verde? Sa perché sono così? Perché i pastori ci portano a pascolare le loro capre che non dànno tempo di crescere nemmeno a un filo d’erba. E sa perché i pastori gli lasciano distruggere erba e arbusti? Perché non credono in Dio. Chi non crede in Dio non crede nel domani. E chi non crede nel domani non pianta alberi. Ecco, ragazzo mio, la “questione” meridionale». Così parlò il simbolo della letteratura meridionalistica. Così ne resterà abbagliato il principe della carta stampata. Come dare torto a Don Giustino? Chiusa parentesi. Forse la fortuna postuma di Montanelli dipende dal suo percorso politico: cominciato a destra e finito, perlomeno sul piano elettorale, a sinistra. Per cui, la destra cita e ricita il Montanelli anticomunista che lascia il Corriere, da lui giudicato troppo debole verso progressisti e radical chic, per fondare Il Giornale dei moderati; mentre la sinistra cita e ricita il Montanelli antiberlusconiano che fonda la Voce e nell’urna vota per Prodi e D’Alema. Insomma, ciascuno tifa o tiferebbe per il suo Montanelli. Può darsi. Può darsi che la straordinaria produzione giornalistica del Nostro dia a tutti la possibilità di scegliere il Montanelli più congeniale alla sua visione delle cose. Ma, secondo noi, questa spiegazione dice e non dice. Anzi dice poco o punto. Il segreto della longevità postuma di Montanelli è uno: il suo rispetto per il Lettore. Sì, perché il Lettore è un animale strano. Può sembrare più distratto di un coniuge fedifrago, ma è più attento di uno scienziato davanti al microscopio. Guai a spacciargli merce taroccata. Il Lettore, anche se non sùbito, inevitabilmente se ne accorge, ed emette la propria sentenza (Raus, direbbe Umberto Bossi). Montanelli, invece, ha sempre rispettato il Lettore (che se ne è accorto), dicendo quello che pensava e pensando quello che diceva. Alla fine, anche i suoi nemici, anche coloro che non sempre condividevano le sue idee, hanno dovuto riconoscere che gli abiti politico-culturali di Cil-Indro profumavano di bucato. Il che costituiva e costituisce un riconoscimento più importante del laticlavio a vita, non a caso rifiutato da Montanelli. Conclusione. Non sempre i Grandi Maestri hanno prodotto Grandi Allievi. A volte hanno causato più danni di una guerra. Con Montanelli ciò non è accaduto, perché per i tipi come lui l’esempio era la più alta forma di autorità. E se oggi celebriamo il grande giornalista che, se non si fosse trasferito nell’Aldilà, avrebbe festeggiato il secolo di vita con Rita Levi Montalcini, è perché il suo esempio di persona libera vale più di una scrittura ineguagliabile e di una carriera irraggiungibile.

Indro Montanelli: noi italiani orfani di storia. Dino Messina il 15 marzo 2011 su Il Corriere della Sera. “Ma te sei matto”, mi disse quando rifiutai di fermarmi a cena per rientrare subito a Milano in redazione: “Guarda che nessuno è insostituibile”. Sagge parole di Indro Montanelli, che in questa intervista di fine agosto 1997, fatta per lanciare una iniziativa editoriale, mi spiegò la sua concezione della storia, i suoi maestri, i suoi riferimenti. La ripropongo oggi poiché dal 17 marzo il Corriere distribuisce la “Storia d’Italia” montanelliana, cominciando con “L’Italia del Risorgimento” in omaggio alla festa del 150° che cade proprio quel giorno.  Alcuni dei volumi furono interamente opera di Montanelli, altri scritti con Roberto Gervaso o con Mario Cervi. Ma l’impronta rimase sempre quella del maestro. 

CORTINA – “Chi è il curatore dell’Atlante storico che sarà distribuito dal Corriere?”. Geoffrey Barraclough. “Ah, non mi meraviglia affatto che sia un inglese. Per il mio ciclo di Storia d’Italia, valga quel che valga, io non ho letto autori italiani. Per la Storia di Roma, gli autori di riferimento sono stati il tedesco Theodor Mommsen e naturalmente il francese Jerome Carcopino. Per i Secoli bui e l’Alto Medioevo mi ispirai al bavarese Ferdinand Gregorovius, per l’Italia dei Comuni al britannico Anderson, per la storia dei papi a Ludwig von Pastor…”. A lezione di storia da Indro Montanelli, il maestro di giornalismo che di questa disciplina ha fatto la sua seconda professione, da quando, giovane laureato dell’università di Firenze, andò a studiare a Grenoble e alla Sorbona di Parigi, quindi si trasferì a Cambridge per seguire i corsi di Edward Carr, il grande specialista della Rivoluzione russa, autore tra l’altro del saggio What is history? Che cos’è la storia? E’ la domanda che rivolgiamo a Montanelli, in un pomeriggio di pioggia a Cortina. Il clima ideale per starsene in salotto a parlare di una passione che ha alimentato tutta la sua vita e a ricordare i vecchi maestri. Che, come si vede, non sono tutti italiani. “Ce ha un registratore?”, esordisce Montanelli, “perchè ne ho da dire”. Allora cominciamo. “Tra tutti i popoli occidentali, siamo quelli che meno conoscono la propria storia. E ciò dipende dal fatto che forse non siamo un popolo ma un agglomerato. E qui non si sa bene quale sia la causa e quale l’effetto: se cioè non siamo un popolo perchè conosciamo poco la nostra storia o viceversa. Una volta dissi a Ugo Ojetti, che per tanti versi è stato uno dei miei modelli: “Perchè non raccogli le tue cose viste? Tu hai il dovere di farlo”. Lui mi rispose: “Figlio mio, ti accorgerai anche tu che l’Italia è un Paese di contemporanei, senza antenati nè posteri. Perciò, senza memoria”. Ma torniamo alla storiografia italiana. “Quel che è mancato è stato l’anello di congiunzione tra il pubblico e l’accademia. I nostri testi di scuola sono illeggibili, così anche per le sinossi ho dovuto ricorrere a quelle inglesi. E per quanto riguarda il resto, beh, vuole sapere davvero quel che penso? I nostri storici non sanno raccontare, non hanno nemmeno la lingua per farlo, fanno una confusione voluta fra divulgazione e volgarizzazione. Dove sono i nostri Mack Smith, i nostri Carr? Se una cultura non pensa a diffondersi diventa parassitaria, serve soltanto a se stessa e alla corporazione”. Il suo giudizio così severo vale anche per Croce, Chabod, Salvemini? “Certo, vale anche per loro, perchè non hanno saputo raccontare la storia, ma soltanto la loro interpretazione, non hanno avuto l’umiltà di esporre i fatti, li hanno sempre presupposti”. Davvero tutti condannati gli storici italiani? “Intendiamoci, ci sono le eccezioni, e quali eccezioni. Per esempio lo storico dell’antichità Guglielmo Ferrero, che fu costretto ad andare a insegnare in Belgio perchè aveva il difetto di saper raccontare i fatti. Poi Gioacchino Volpe, Roberto Ridolfi e, naturalmente, Rosario Romeo. La sua biografia di Cavour è notevole”. Perchè dalle eccezioni positive ha escluso Renzo De Felice, il grande storico del fascismo? “Quando fondai il Giornale, volli subito tra i miei collaboratori Romeo e De Felice. Fummo in prima fila per difendere lo storico del fascismo dagli attacchi vergognosi cui era sottoposto. Ma questo è un altro discorso. Quel che voglio dire è che De Felice era uno storico di documenti, nella sua opera monumentale ha raccolto il meglio, ma non sapeva raccontare e soprattutto dalla sua biografia manca la cosa essenziale, il personaggio Mussolini”. Forse per uno storico l’ossessione della completezza è un limite? “Lytton Strachey, il biografo della regina Vittoria, in un saggio sulle qualità dello storico, indicava anche quel pizzico di ignoranza che impedisce di attardarsi eccessivamente sul particolare, aiuta a prendere le distanze. Ma vorrei tornare a Mussolini, per dire quanto il fascismo si indentificasse con lui. Una volta accompagnai Bontempelli a trovare Pirandello. Ascoltavo i due che criticavano il fascismo e, timidamente, intervenni: “Se, come voi sostenete, è un regime senza consistenza, allora cadrà presto”. Pirandello mi rispose: “Non cadrà mai, perchè è un vecchio tubo vuoto che ognuno può riempire come vuole”. “Dopo qualche tempo ebbi la conferma di quel che intendeva Pirandello. Collaboravo a Firenze al giornale diretto da Berto Ricci, l’Universale, che intendeva il fascismo come uno strumento per dare ai giovani una coscienza civile. Un giorno Mussolini, che è stato giornalista per tutta la vita, convocò la nostra redazione e si rivolse a me con voce solenne: “Ho letto il vostro articolo contro il razzismo, vi elogio. Il razzismo è roba da biondi”. Peccato che i miei capelli da giovane tendessero al biondo, forse Mussolini non se n’era accorto, o forse disse quella frase proprio perchè lo aveva notato. Dopo qualche giorno il duce convocò la redazione di Cantiere, che intendeva il fascismo come lo strumento per creare una nuova economia di Stato, di cui le corporazioni dovevano essere il primo passo. Tra i collaboratori c’era Pietro Ingrao. Mussolini diede ragione anche a loro. Ecco che cos’era il fascismo, un tubo vuoto che ognuno riempiva a suo piacimento”. I ricordi di storia vissuta si accavallano alle lezioni apprese dai libri, il metodo acquisito nella lunga militanza giornalistica diventa strumento per meglio capire il nostro passato. Ecco un’altra lezione di storia, nata da un incontro con Giustino Fortunato, il meridionalista liberale lucano. “Sull’Universale mi occupavo molto della questione del Mezzogiorno. In un articolo scrissi che il fascismo era la scorciatoia per riunificare l’Italia e a sostegno della mia tesi fornii alcune cifre. Un giorno ricevetti un biglietto: “Caro signore, ho letto i suoi articoli. Mi complimento per i dati, ma non sono d’accordo sulle conclusioni”. Quel biglietto era firmato Giustino Fortunato. Saltai su un treno per Napoli. Era una domenica. Salii le scale di un vecchio palazzo e mi venne ad aprire lui. Era il notabile meridionale al meglio, lo sguardo vivace, i fitti capelli bianchi. Mi disse: “Capisco che lei abbia di questi sogni, ma lei confonde il problema. Lei pensa che il problema del Meridione sia il Meridione stesso, ma sbaglia. Il problema del Meridione sono i meridionali”. E mi fece entrare in una grande stanza tappezzata di libri. Era la biblioteca di sua sorella. Io leggevo i nomi di santi e di mistici sui dorsi di quei volumi rilegati e non capivo dove voleva arrivare Fortunato, che a bruciapelo mi chiese: “Ha mai sentito parlare di un mistico meridionale?”. No, risposi. E lui: “Chi non crede in Dio vive soltanto del presente, non ha fiducia nel futuro. L’immagine del Meridione è nei calanchi aridi, non coltivati, abbandonati alle capre”. Montanelli continua a sostenere che gli italiani sono un popolo di contemporanei, che non hanno fiducia nel futuro e nemmeno interesse al proprio passato. Un giudizio in parte contraddetto dal successo che ha avuto la sua storia d’Italia. Quando le venne l’idea di scriverla? “Fu Dino Buzzati, scrittore straordinario ma anche grande giornalista, a propormi negli anni Cinquanta di scrivere per la Domenica del Corriere una storia di Roma. Io non sono un topo di archivio, il mio pregio è di saper scegliere i testi dei grandi ricercatori e mediare tra la cultura alta e il pubblico, che è uno dei compiti del giornalismo. Questo feci. Il successo fu tale che scoprii quanto desiderio gli italiani avessero di storia, di una storia vera, raccontata in una lingua accessibile a tutti. E’ un esercizio di umiltà cui mi sono applicato. La capacità me l’ha data il giornalismo”. E’ più difficile raccontare la storia del passato o quella del presente? “Senza dubbio quella del presente, anche se io continuo a provarci. Tra poco uscirà L’Italia dell’Ulivo scritta con Mario Cervi. Ma anche per il passato remoto la completezza e l’obiettività sono impossibili, altrimenti basterebbe un solo libro di storia. L’obiettività non esiste, è soltanto una tecnica, nella quale gli anglosassoni sono maestri, come mi spiegò il mio amico Webb Miller, giornalista della United Press che era stato con me a Parigi e in Finlandia. Lui mi passava le sue note che per me erano utilissime e un giorno gli dissi: ti ringrazio perchè devo anche a te, alla tua obiettività se ho fatto bene. Lui mi rispose che l’obiettività non esiste e me ne diede la prova. L’indomani saremmo andati in aereo a Stoccolma. Una volta arrivati, stendemmo due resoconti di quel breve viaggio e li confrontammo. Avevamo descritto la stessa esperienza non soltanto con parole diverse ma raccontando particolari differenti. Però c’è una tecnica che dà il senso dell’obiettività. E il mio amico Webb, che poi sarebbe morto suicida perchè non riusciva a smettere con l’alcol, mi dimostrò anche che si possono dire cose diverse con le stesse parole. Noi possiamo sostenere che Giulio Cesare fu un grande mariuolo ma fu un generale e uno statista. Poi possiamo dire che Giulio Cesare era un grande statista ma un mascalzone che non pagava i debiti. Nel primo caso abbiamo affermato che Cesare era uno statista, nel secondo che era un mascalzone”. Ma se l’obiettività non esiste, conclude Montanelli, “come è possibile farsi una propria visione della storia? L’unico consiglio che posso dare è leggere tante storie”.

Montanelli: “Lo scoop, scorciatoia dei somari”. Il Corriere del Giorno il 31 Maggio 2020. Nel maggio 1997 all’Università di Torino Indro Montanelli tenne la sua ultima lezione. Con un titolo provocatorio: “Lo scoop scorciatoia dei somari”. Possiamo pensarla in mille modi diversi ma una cosa è certa: quelle parole sono un atto di amore e un atto di accusa del giornalismo e conservano 21 anni dopo una straordinaria attualità. Credo che sia utile proporle per riflettere. Di Indro Montanelli: So che molti di voi sono interessati al giornalismo e ai mezzi di comunicazione. Io questa passione ho cominciato a coltivarla già dal ginnasio, non ho mai voluto far altro che il giornalista, con gran disperazione di mio padre. Lui, da bravo preside di un liceo, lo considerava con molto disprezzo come un mestiere piuttosto aleatorio. Ma il giornalismo è stato la grande vocazione della mia vita. Vi confesso però che, sebbene abbia amato e continui ad amare questo mestiere, non posso consigliare a nessun giovane di intraprenderlo oggi, perché credo che il giornalismo sia ormai al capolinea. Dovrebbe trasformarsi completamente, in un senso che non so prevedere. Sono attaccato a ricordi e provengo da una certa scuola, e a quest’età mi è molto difficile pensare a qualcosa di diverso. Spero per voi che abbia luogo una trasformazione completa, che tenga conto dei fatti gravi accaduti nel tempo – tra cui molte colpe e deviazioni dei giornalisti -, dell’ingresso di tecnologie nuove, di tutto un ribaltamento del costume. Il giornalismo classico, dal quale non mi saprei mai distaccare, è impossibile che si possa adeguare. Quando cominciai, circa 60 anni fa, avevamo come tocco tecnologico la macchina da scrivere Olivetti Lettera 22, sulla quale continuo a scrivere. Non la producono più, per questo ne ho accaparrate presso gli antiquari cinque, che ho dislocato in vari punti. Oltre questo non posso andare. Io il fax non lo so usare, una cara persona se ne occupa per me, altrimenti non saprei neanche infilare il foglio. Noi giornalisti dobbiamo fare i conti con un nemico mortale. Anziché combatterlo, ci siamo messi al suo servizio: è la televisione. Ho le stesse idee di Popper, la televisione è la più grossa iattura che potesse capitarci, perché è stata utilizzata in modo tale da esserlo. I giornali sono diventati i megafoni della televisione, per questo troviamo titoli a otto o nove colonne su Pippo Baudo o la Parietti. La televisione potrebbe essere un grande strumento di cultura, ma non lo è. Questi però sono affari suoi. Ciò che è affar nostro è di esserci messi a fare i megafoni, copiandone anche i costumi e riconoscendone la supremazia. L’Italia, oltre ad aver sempre mescolato il serio con il futile, ha sempre preso il futile come l’unica cosa seria. E noi non facciamo che adeguarci, portando agli eccessi questa perversione del nostro costume. Ma c’è di peggio. La televisione insegna ed apre la strada al protagonismo, che portato nel giornalismo ha effetti catastrofici. La televisione aizza quel pessimo incentivo tipico dei cattivi giornalisti, la ricerca a tutti i costi dello scoop. Se qualcuno di voi vorrà fare questo mestiere, sfuggite alla tentazione dello scoop! Ricordate che esso è la scorciatoia dei somari. Consente di arrivare prima, ma male. Il pubblico è uno strano animale, sembra uno che capisce poco ma si ricorda, e se vi giocate la sua fiducia siete perduti. Questa fiducia bisogna conquistarsela seriamente e faticosamente, giorno per giorno. Questo non ci mette al riparo dall’errore, ma impone l’obbligo di denunziare noi stessi, quando ci accorgiamo dell’errore, e di chiedere scusa al lettore. Se volete fare questo mestiere, ricordatevelo bene. È un mestiere che richiede molta umiltà, molta, e il protagonismo è in contrasto con questa legge fondamentale. Oggi io vedo i direttori nuovi. Sono bravissimi, intendiamoci, hanno tra i 40 e i 50 anni, potrebbero essere miei figli. Ma non stanno in direzione, li ho sotto gli occhi, stanno nell’ufficio marketing, perché la cosa fondamentale di un giornale è la cosiddetta audience. L’audience procura pubblicità, perché un giornale non deve solo vivere, ma deve anche produrre soldi, soprattutto se vuole essere indipendente. Un giornale che deve chiedere soldi a qualcuno è per forza di cose suo servo. Io ho perso la Voce perché non riuscii a portarlo in attivo. È l’audience nelle sue forme più volgari che ci obbliga a involgarire il giornale, che per stampare deve battere questa strada. Questa strada però non ci conduce a niente. Noi avremo un giornalismo sempre peggiore perché sempre più in cerca di audience, sempre più in cerca di pubblicità e quindi sempre più portato ad assecondare i peggiori gusti del pubblico, invece di correggerli. Intendiamoci, il pubblico è sempre il nostro padrone, non si può prenderlo di petto ma lo si deve educare. Senza mostrarlo però, perché non c’è niente di peggio degli atteggiamenti da mentori. Non so se il giornalismo è capace di compiere un’evoluzione in questo senso, ma io non ne vedo i segni. Se io avessi 40 anni di meno, tenterei di nuovo di fare un giornale. Ora qualcuno si meraviglierà, ma seguirei la strada aperta dal mio arcinemico Ferrara con il Foglio. Quel giornale è probabilmente ciò che avrei dovuto fare io con la Voce, che non ebbi la forza e la possibilità di fare. Un giornale che adeguasse immediatamente i suoi mezzi ai costi, con poche pagine, che potesse fare a meno di gran parte della pubblicità, con dei giornalisti – ahimé – pagati poco. Ma noi siamo sempre pagati poco, questo mestiere non si fa per i soldi. Anzi, se incontrate un giornalista ricco, diffidatene. Il giornalismo non conduce alla ricchezza, può condurre al benessere, per carità. Io non mi lamento affatto, ho quanto mi basta e anche di più per campare bene. Ma il giornalista ricco è un giornalista che puzza perché si è servito del mestiere per raggiungere altri obiettivi. Un giornalista che si asservisce al mestiere – chiedendo scusa al procuratore Maddalena – lo fucilerei. Come vedete non vi porto buone notizie, però, a questo punto, devo dirvi anche un’altra cosa. Avrò forse fatto un mestiere sbagliato, ma non lo rimpiango. Credo che il giornalismo in Italia abbia svolto una missione, quella di strappare la cultura italiana ai suoi fortilizi, alle sue cosche mafiose. Chiedo scusa di ricambiare così male la vostra ospitalità, ma devo dirvi che il giornalismo questo compito lo ha assolto per decenni, portando la cultura in mezzo al pubblico. La cultura italiana ne aveva un gran bisogno, perché non sa parlare al pubblico. Ha un linguaggio suo, intraducibile nel linguaggio comune. Forse voi sapete che io non ho molto di che compiacermi del ‘68 e di ciò che ho fatto lì, perché porto ancora addosso i segni e le tracce, ma, i moventi lontani di quei ragazzi che mi misero addosso un bel mucchio di pallottole, forse se avessi avuto la loro età li avrei condivisi. Mi sarei certamente allontanato perché il modo in cui volevano rifare le cose era sbagliato, ma qualcosa c’era. Nella ribellione a un certo modo baronale di intendere la cultura, qualcosa di giusto c’è. Chi di voi vorrà fare questo mestiere, si ricordi di scegliere il proprio padrone, il lettore. Si metta al suo servizio e parli la sua lingua, non quella dell’accademia. Porti la cultura dell’accademia alla comprensione. Badate che questo è stato il più grave dei tradimenti commessi in Italia, e ne sono stati commessi parecchi. Volete le prove? Prendete un qualsiasi scritto di chiunque dell’Italia del ‘700 e mettetelo a confronto con le pagine dell’enciclopedia francese. Le pagine di Voltaire, di D’Alembert, sono chiare e limpide, tutto si capisce. Nelle altre non si capisce nulla: lingua togata, irreale, del principe. Lingua di cultura al servizio del signore, che poi è diventato partito. E quindi è anche peggiorata, perché era meglio servire un duca o un cardinale che un partito. Era meno ignobile, anche se era ignobile anche quello. Ricordatevi che la cultura in Italia non si è mai diffusa, quel poco che è stato fatto è stato fatto dal giornalismo. Se volete fare questo mestiere, questo è l’impegno che dovete assolvere. Per farlo non c’è sofferenza che ve ne possa sconsigliare, e questo mestiere è bellissimo. Non conduce a niente ma è bellissimo. Il giornalismo si fa per il giornalismo, e per nessun’altra cosa.  

Storia di un "Giornale" che preferiva la libertà al barbaro estremismo. Una serie di interviste alle firme storiche racconta dall'interno il nostro quotidiano. Giancristiano Desiderio, Venerdì, 26/06/2020 su Il Giornale. Quando Indro Montanelli, quarantasei anni fa, il 25 giugno 1974, fondò il Giornale sapeva bene di essere controcorrente. Quando, poi, scrisse con Mario Cervi L'Italia degli anni di piombo, si soffermò in più pagine sulla nascita della sua creatura rivendicandone proprio la consapevole natura anticonformista che ne faceva una voce fuori dal coro: «Degli anni di piombo noi non siamo stati spettatori neutrali. Fondammo un giornale apposta per intervenirvi, e l'abbiamo fatto giorno dopo giorno, con quanta più incisività potevamo, e da posizioni in pieno contrasto con quelle assunte, più o meno scopertamente, da quasi tutta l'altra stampa, quotidiana e periodica, nazionale. Fu una battaglia dura e difficile, che ci ha lasciato addosso parecchie cicatrici, e non parlo soltanto di quelle materiali. Per tutti gli anni Settanta, e per i primi Ottanta, noi fummo indicati alla pubblica esecrazione come i fascisti, i golpisti, in una parola i lebbrosi. E forse saremmo ancora nel ghetto in cui ci avevano relegato, se a trarcene fuori dandoci completa ragione non fossero sopravvenuti i fatti». Parole vere che Sergio Romano, nella Premessa al testo edito anni fa nelle edizioni del Corriere della Sera, avvalorava sottolineando che il quotidiano di Montanelli non è stato semplicemente un organo di stampa impegnato a fare la cronaca di un Paese «che sembrava incapace di rientrare nella normalità» ma «un protagonista» che alcuni vedevano come un reazionario e altri come una luce. Ecco perché, dice l'ex ambasciatore Romano, «l'attentato contro Montanelli a Milano nel giugno del 1977 fu per questa ragione diverso da quelli che colpirono nello stesso periodo altri giornalisti». I terroristi colpendo Montanelli vollero colpire proprio il Giornale come voce fuori dal coro. Non a caso il grande giornalista di Fucecchio, rispondendo a Eugenio Scalfari su quanto scrisse nel libro La sera andavamo in via Veneto, disse che gli obiettivi de la Repubblica e de il Giornale erano diversi e se il primo aveva raggiunto i suoi in termini di diffusione, il secondo aveva tenuto fede ai suoi ideali: «Si trattava di dare speranza e rappresentanza a quegli Italiani spauriti che assistevano con sgomento alla protervia estremista, alla crescita del terrorismo, e insieme alla rassegnazione o alla fuga in campo avverso di chi avrebbe dovuto battersi per impedire questo degrado. Quegli Italiani ebbero voce nel Giornale, e l'ebbero nei commenti che il direttore e i redattori del Giornale facevano da Telemontecarlo. Articoli e commenti che ricalcano quelli d'allora sul Giornale e su Telemontecarlo, li leggiamo e ascoltiamo, ora, dovunque. Ora che non espongono più a nessun rischio». Insomma, Montanelli è stato un uomo di libertà che ha difeso a suo rischio e pericolo il valore più alto, che a tutti è Giove, quando la libertà era offesa e tradita da chi avrebbe dovuto difenderla. La sua creatura ha ereditato il carattere anticonformista del padre, come si può capire leggendo il libro del giovane studioso liberale Federico Bini: Montanelli e il suo Giornale (edito da l'Universale). Un testo formato da interviste ai protagonisti di ieri e di oggi come Gian Galeazzo Biazzi Vergani ed Enzo Bettiza, Giorgio Torelli ed Alfio Caruso, Roberto Gervaso e Livio Caputo, Fedele Confalonieri e Vittorio Feltri, Maurizio Belpietro e Alessandro Sallusti e tanti altri. L'intervista più bella è senz'altro quella a Gervaso Robertino, come lo chiamava Montanelli perché si tratteggia anche un Montanelli privato, intimo, forte delle sue debolezze (perché tutti hanno debolezze). Ma c'è, in un passo in cui si parla dell'Italia come nazione mancata, questa frase del giornalista da poco scomparso: «Mentre in Francia il cattolico è laico, in Italia non è laico nemmeno il laico. Gli italiani sono un popolo che non crede in niente». Amara come la verità. Tuttavia, chi difende la libertà lo fa per precisa scelta di civiltà affinché gli uomini, con fede o senza fede, possano essere liberi di errare. Si capisce, allora, perché oggi Montanelli sia stato trattato, per usare il suo stesso vocabolo, come un lebbroso e sia stata aggredita la sua statua: perché quando una nazione è in decadenza non solo si fatica a riconoscere ciò che vale ma ciò che vale è disprezzato per non essere riconoscenti. La bella intervista con Gervaso «Montanelli mi considerava un suo figlio» andrebbe letta in parallelo con il Poscritto che Montanelli volle pubblicare in coda a L'Italia dell'Ulivo in cui dice che il rapporto tra il potere e gli italiani va riconsiderato in quanto non è il primo che corrompe i secondi ma, all'inverso, sono gli italiani che corrompono il potere fino a renderlo inutile e un «sistema di mafie». Ciò accade perché, spiega Montanelli, la cultura non si è mai resa indipendente e ha solo sostituito il Principe con il Partito: «Rimarremo quello che siamo: un conglomerato impegnato a discutere, con grandi parole, di grandi riforme a copertura di piccoli giuochi di potere e d'interesse. L'Italia è finita». Il ritratto perfetto dell'Italia di Giuseppe Conte.

Federico Garau per Il Giornale.it il 10 giugno 2020. L'episodio della morte di George Floyd, dopo la pantomima dell'inginocchiamento alla Camera dei deputati da parte di alcuni membri del Pd seguita al discorso di Laura Boldrini, continua a dar modo agli esponenti della sinistra di portare il tema "razzismo" come metro con cui valutare qualsiasi genere di problematica o presunta tale: l'ultima in ordine cronologico è la questione legata alla statua di Indro Montanelli ed ai giardini pubblici di via Palestro a lui dedicati. A parlare sono "I Sentinelli" (che si professano laici ed antifascisti, come si legge nello stesso simbolo che li rappresenta), i quali in un post sulla pagina Facebook chiedono al sindaco di Milano Giuseppe Sala di intervenire per cambiare la situazione in essere nell'area verde in questione. "A Milano ci sono un parco e una statua dedicati a Indro Montanelli, che fino alla fine dei suoi giorni ha rivendicato con orgoglio il fatto di aver comprato e sposato una bambina eritrea di dodici anni perché gli facesse da schiava sessuale, durante l'aggressione del regime fascista all'Etiopia", attaccano gli attivisti. "Noi riteniamo che sia ora di dire basta a questa offesa alla città e ai suoi valori democratici e antirazzisti e richiamiamo l'intero consiglio a valutare l'ipotesi di rimozione della statua, per intitolare i Giardini Pubblici a qualcuno che sia più degno di rappresentare la storia e la memoria della nostra città Medaglia d'Oro della Resistenza", proseguono nel post. "Dopo la barbara uccisione di George Floyd a Minneapolis le proteste sorte spontaneamente in ogni città con milioni di persone in piazza e l'abbattimento a Bristol della statua in bronzo dedicata al mercante e commerciante di schiavi africani Edward Colston da parte dei manifestanti antirazzisti di Black Lives Matter, richiama con forza ogni amministrazione comunale a ripensare ai simboli del proprio territorio e a quello che rappresentano". Una proposta che ha ovviamente trovato terreno fertile tra i membri della maggioranza che sostiene il primo cittadino di Milano. "Credo che la richiesta dei Sentinelli vada sicuramente discussa in consiglio. Quando ci viene presentata una proposta noi siamo sempre pronti ad accoglierla e discuterne, soprattutto quando tocca i temi dei diritti e della dignità delle persone", dice il consigliere comunale nonchè presidente della Commissione pari opportunità Diana De Marchi (Pd) riferendosi alla questione Montanelli, come riportato da MiaNews. "Le motivazioni della richiesta di rimuovere la statua le riconosco come valide perché quella è stata una brutta pagina della nostra storia. Vanno indagate le motivazioni che hanno portato all'intitolazione e valutare se siano ancora valide oggi. Da parte mia, farò in modo che se ne discuta". Anche il consigliere Dem Alessandro Giungi ha dato la sua "benedizione" all'iniziativa in un comunicato. "La questione messa in luce dai Sentinelli merita di essere dibattuta in un approfondito dibattito in consiglio comunale. Non è un tema semplice, ma come consiglieri dobbiamo farcene carico. Su questa scia ho depositato nei giorni scorsi un ordine del giorno per intitolare i giardini di via Ardissone, da poco riqualificati, a Rosa Parks", rivela il Dem con orgoglio. "La richiesta è arrivata dai ragazzi della scuola media Puecher che tramite un sondaggio online effettuato durante il periodo di lockdown hanno avanzato questa proposta che si sposa con il ragionamento dei Sentinelli e rilancia a Milano l'idea di dover dare rilevanza, anche con queste iniziative, al tema dei diritti. Ricordiamoci anche che sono ancora poche le intitolazioni dedicate alle donne in città", si legge ancora nella nota.

Indro Montanelli, Sentinelli e Arci vogliono rimuovere la statua a Milano: "Bimba eritrea per schiava sessuale". Salvini: "Che vergogna la sinistra". Libero Quotidiano il 10 giugno 2020. Giù le mani da Indro Montanelli. A  Milano la sinistra, per mano di Sentinelli e Arci, chiedono ufficialmente al sindaco Beppe Sala (del Pd) di rimuovere la statua del grande giornalista fondatore del Giornale e de La Voce, che si trova nell'omonimo parco della città in via Palestro nel quartiere di Porta Venezia, e di dedicare i giardini "a qualcuno che sia più degno di rappresentare la storia e la memoria della nostra città Medaglia d'Oro della Resistenza". La richiesta, pubblicata sulla pagina Facebook del gruppo, arriva dopo le proteste e i cortei, che si sono tenuti anche a Milano, per l'uccisione di George Floyd a Minneapolis. Secondo I Sentinelli il giornalista "fino alla fine dei suoi giorni ha rivendicato con orgoglio il fatto di aver comprato e sposato una bambina eritrea di 12 anni perché gli facesse da schiava sessuale. Riteniamo che sia ora di dire basta a questa offesa alla città e ai suoi valori democratici e antirazzisti". Nel centrodestra reazioni indignate. "Che vergogna la sinistra, viva la libertà", è il laconico commento di Matteo Salvini, leader della Lega.

Giampiero Mughini per Dagospia il 10 giugno 2020. Caro Dago, non è certo la prima volta che il presente si mette a fare a cazzotti contro le tracce del passato, com’è successo adesso in Inghilterra dove la statua che ricorda un grande imprenditore inglese del Settecento che si era arricchito con il mercato degli schiavi è stata lanciata nelle acque di un fiume, e dove una statua in onore di Winston Churchill è stata imbrattata da un qualche cretino del terzo millennio che ha dato a Churchill del razzista. Per passare dalla farsa alle cose serie, in Ungheria hanno rimosso da non molto una statua che onorava il maresciallo sovietico Ivan Konev che era stato alla testa delle truppe russe che nel 1945 avevano spodestato i tedeschi da Praga, solo che era lo stesso maresciallo sovietico alla testa dei carri armati che nel 1956 erano entrati a Budapest senza che nessun ungherese li avesse invitati. Non solo: in un’altra zona di Praga le autorità cittadine hanno deciso di erigere una statua in memoria del controverso generale russo Vlasov, una delle figure più tragiche della Seconda guerra mondiale. Uno dei più valorosi e intelligenti comandanti dell’Armata Rossa, venne preso prigioniero dai tedeschi nella primavera del 1942. Convinto com’era che i tedeschi avrebbero vinto la guerra e altrettanto convinto che Stalin fosse un criminale politico, Vlasov valutò che gli fosse possibile costituire uno spezzone di esercito russo democratico che combattesse a fianco dei tedeschi e che a guerra finita fosse protagonista della ricostruzione dell’Urss. Ambizione, ingenuità, una scelta disperata la sua? Un po’ di tutto questo e anche se alcuni scrittori e studiosi, Alexander Solgenitsin su tutti scrivono con rispetto di Vlasov, che alla fine della guerra tentò di darsi prigioniero agli americani. Quelli lo rifiutarono e lui cadde nelle mani dei russi, che lo impiccarono nell’agosto 1946s. E’ un fatto che nel maggio 1945 gli uomini di Vlasov furono in prima linea nel sostenere l’insurrezione dei praghesi contro i tedeschi. 300 di loro caddero in combattimento. I praghesi di oggi hanno voluto ricordare l’impegno di Vlasov e dei loro uomini con una statua che ne esalta la memoria. Ci sono statue e statue. Alessandro Robecchi sul “Fatto” di oggi ha perfettamente ragione che il mausoleo eretto ad Affile nel 2012 in onore del maresciallo Graziani è una vergogna e basta, data la truce fisionomia del personaggio. Laddove avevano fatto benissimo l’allora sindaco di Roma Francesco Rutelli e Gianni Borgna a tentare di intestare una via una ventina e passa di anni fa a Giuseppe Bottai, un fascista di cui l’Italia non si deve vergognare, uno che dopo aver votata o contro Mussolini nella seduta del Gran Consiglio del fascismo del 25 luglio 1943, andò a combattere i tedeschi nella Legione straniera. Fortemente contrastati, Rutelli e Borgna decisero di no. Peccato, sarebbe stato un atto di lealtà verso la complessità di ogni comparto della storia umana. E a proposito di tracce del passato, qualche semianalfabeta che pur rivestiva cariche pubbliche ha di recente pronunziato parole minacciose contro le tracce del regime fascista nell’architettura degli anni Trenta e Quaranta, laddove la buona parte di quell’architettura figura tra le cose più belle dell’intera architettura novecentesca. A cominciare dal meraviglioso quartiere dell’Eur o dalla Sala delle Armi di Luigi Moretti di cui ancora aspettiamo il restauro completo. Alla fine della guerra Moretti venne arrestato e restò in carcere per un mese, e per fortuna che i suoi capolavori siano ancora intatti nello splendore razionalista di cui costituiscono una campionatura eccezionale. Per la recente puntata di una trasmissione Rai in cui la mia amica disabile Fiamma Satta viene condotta ogni volta in carrozzella in un posto che ne vale la pena, io e lei abbiamo circumnavigato assieme una scuola pubblica che Moretti progettò alla fine degli anni Trenta in ogni suo stupefacente dettaglio. Mirabilie che fanno da patrimonio dell’umanità. Altro che “tracce di un passato da dimenticare”.

Giù le mani da Montanelli o cancellate pure Maometto. Ricordate quando i talebani, in Afghanistan, distrussero a colpi di dinamite le effigi storiche - compresi monumenti millenari - contrarie al loro credo via via che conquistarono fette di terreno? Alessandro Sallusti, Giovedì 11/06/2020 su Il Giornale.  Ricordate quando i talebani, in Afghanistan, distrussero a colpi di dinamite le effigi storiche - compresi monumenti millenari - contrarie al loro credo via via che conquistarono fette di terreno? Io lo ricordo bene, e ricordo lo sdegno unanime del mondo libero per quel sacrilegio: la storia e la memoria non si toccano, barbari che non siete altro. Bene, oggi i barbari siamo noi o, meglio, i barbari sono tra noi. Sull'onda dello sdegno per il ragazzo di colore ucciso dal poliziotto bianco, in Occidente è partita la caccia a distruggere o rimuovere tutto ciò che rimanda a un passato di soprusi e violenze su minoranze e fasce deboli, re, imperatori o eroi che siano. Siccome la mamma dei cretini è sempre incinta - e chi non vive e pensa di suo è costretto a emulare - ieri a Milano un gruppo di squinternati appoggiati da esponenti del Pd locale (ti pareva) ha annunciato un'iniziativa per fare togliere dai Giardini pubblici di via Palestro la statua che rappresenta e ricorda Indro Montanelli, in quanto convinto partecipante alla guerra coloniale italiana in Abissinia del 1935, durante la quale - aggravante - a 23 anni si fidanzò con un'indigena di soli 12 anni (episodio da lui raccontato - conoscendolo - con un probabile eccesso di fantasia e licenza letteraria). Applicare le regole e il sentire di oggi a fatti successi cent'anni fa - come ben meglio di me spiega oggi su queste pagine Giordano Bruno Guerri - è un non senso ridicolo (a quel tempo in Abissinia le ragazze a tredici anni erano già madri). Ma se proprio vogliamo fare piazza pulita dei «pedofili» del passato, ho un consiglio da dare al comitato anti-Montanelli e al Pd milanese. Cari signori, procediamo per via gerarchica. E in cima alla lista metterei Maometto, il fondatore dell'islam, che, superati i quarant'anni, accettò in dono come sposa - in cambio della sua benevolenza nei confronti della sua tribù - Aisha, una bimba di otto anni. So che non esistono monumenti o effigi di Maometto da rimuovere perché quella religione li vieta, ma se vogliamo mettere al bando i simboli di ciò che oggi è (giustamente) considerato impuro, beh l'islam non dovrebbe avere diritto di cittadinanza nella civile Milano. Io penso che sarebbe un'operazione demenziale contro la quale mi batterei. Quindi, per favore, giù le mani da Indro Montanelli, perché altrimenti ognuno potrebbe sentirsi libero di alzarle su chi gli pare.

Il dibattito sul monumento a Milano. Montanelli e la sposa bambina africana: “perché quella statua va tolta”. Redazione su Il Riformista l'11 Giugno 2020. Si abbattono statue in tutto il mondo. Schiavisti, colonialisti, imperialisti. È uno degli effetti della morte di George Floyd, il 46enne afroamericano ucciso in un violento intervento della polizia a Minneapolis, nel pomeriggio del 25 maggio. Le statue di Re Leopoldo II del Belgio, di Winston Churchill, di Cristoforo Colombo sono state vandalizzate o abbattute. Si è riaperto allora il dibattito sulla statua di Indro Montanelli nei giardini omonimi a Milano, in zona Porta Venezia. L’organizzazione antifascista I Sentinelli di Milano hanno chiesto infatti al sindaco Giuseppe Sala e al Consiglio Comunale di rimuovere il monumento al giornalista in quanto “fino alla fine dei suoi giorni Montanelli – Soldato in Etiopia, negli anni Trenta – ha rivendicato con orgoglio il fatto di aver comprato e sposato una bambina eritrea di dodici anni perché gli facesse da schiava sessuale”. Non è un dibattito nuovo. Già nel 2019, in occasione delle manifestazioni per la Festa della Donna dell’organizzazione femminista Nonunadimeno, la statua era stata imbrattata con della vernice rosa. La storia risale al 1935, quando Montanelli, 26enne fascista, reporter, comandante di compagnia del XX Battaglione Eritreo, comprò dal padre e sposò una 12enne abissina di nome Destà. La vicenda venne raccontata nel libro XX Battaglione Eritreo e dallo stesso giornalista, anni dopo, nel 1969, durante la trasmissione L’ora della verità di Gianni Bisiach. In quell’occasione, però, il giornalista trovò Elvira Banotti a contestare argomentazioni e aneddoti. “In Europa si direbbe che lei ha violentato una bambina di 12 anni, quali differenze crede che esistano di tipo biologico o psicologico in una bambina africana?“, incalzò Banotti lasciando in alcuni tratti senza parole Montanelli. Banotti era una giornalista e scrittrice italiana nata ad Asmara. Negli anni espresse anche lei posizioni controverse, come per esempio contro “il totalitarismo gay”. Difese Silvio Berlusconi nel dibattito sul processo Ruby. Resta comunque negli archivi e nella memoria di molti quel botta e risposta, con un Montanelli sconcertato, o quantomeno spiazzato, dalle parole della femminista. Il giornalista, in Africa, aveva contratto un rapporto di madamato, ovvero una relazione more uxorio in territorio coloniale. E per questo venne accusato da Banotti; e per questo la sua statua è stata imbrattata dalle femministe con un secchio di vernice rosa. A favore della proposta dei Sentinelli, di rimuovere la statua, anche l’Arci: “Nella Milano Medaglia d’oro della Resistenza questa è un’offesa alla città e ai suoi valori democratici”. Contraria su tutta la linea la destra. In primis la Lega. “Giù le mani dal grande Indro Montanelli! Che vergogna la sinistra, viva la libertà”, ha dichiarato il leader Matteo Salvini. “Il fatto che il Partito Democratico ipotizzi di discutere l’idiozia lanciata dai novelli stalinisti di voler mettere le mani sulla statua a ricordo di Montanelli, un grande milanese e italiano, dimostra che il Dna della sinistra caviale e champagne è sempre quello della cancellazione della storia scomoda“, ha commentato il capogruppo della Lega al Comune di Milano e parlamentare, Alessandro Morelli. Riccardo De Corato, assessore alla Sicurezza della Regione Lombardia ed esponente di Fratelli d’Italia, si spinge fino a una fantomatica “Floyd mania“: “È una vergogna, un attacco alla memoria di uno dei più grandi giornalisti italiani. La Floyd mania sta offuscando le menti anche di qualche consigliere comunale”. Anche tra i consiglieri comunali del Pd, in verità, la proposta ha destato perplessità. Il capogruppo del partito, Filippo Barberis, ha spiegato di essere “molto lontano culturalmente da questi tentativi di moralizzazione della storia e della memoria che trovo sbagliati e pericolosi”. A difesa del giornalista e della sua memoria anche Beppe Severgnini, allievo di Montanelli e firma del Corriere della Sera: “Montanelli poi capì l’ingiustizia e l’anacronismo di quel legame; ma non negò, né rimosse, la vicenda. La giovanissima Destà andò poi in sposa a un attendente eritreo, e con lui fece tre figli: il primo lo chiamarono Indro”. Per Severgnini “se un episodio isolato fosse sufficiente per squalificare una vita, non resterebbe in piedi una sola statua. Solo quelle dei santi, e neppure tutte”.

Indro Montanelli, pedofilo e razzista.  Mario Furlan il 12 giugno 2020 su Il Giornale. Indro Montanelli era pedofilo e razzista. E’ quanto sostengono alcuni gruppi antirazzisti e femministi, che a Milano vorrebbero rimuovere la statua del grande giornalista dai giardini pubblici a lui intitolati. E che vorrebbero, naturalmente, intitolare i giardini a qualcun altro. Più degno di lui. La colpa di Montanelli? Arrivato all’Asmara nel 1935, reporter ventiseienne, viene nominato comandante di compagnia nel XX Battaglione Eritreo, formato a ascari, mercenari locali. Era tradizione che gli italiani trasferiti laggiù, a migliaia di chilometri da casa, si prendessero come compagna una donna africana. Al giovane Indro venne proposta una minorenne locale, e lui non si sottrasse. Si vollero bene. Ma per fortuna Montanelli capì che quel legame era sbagliato. Quando la relazione terminò, la ragazza sposò un attendente eritreo. Con lui fece tre figli, il primo lo chiamarono Indro. Eccola qui, la grande colpa del grande scrittore. Ecco perché era razzista: perché si era messo insieme ad una ragazza di colore (dovrebbe semmai essere il contrario: un bianco che va con una nera dimostra che il colore della pelle non conta). Ed ecco perché era pedofilo: perché lei non era ancora maggiorenne. Che dire, allora, di Maometto, che ebbe la bellezza di 13 mogli, tra cui una schiava copta (pure schiavista, oltre a razzista!), e addirittura 16 concubine? La sua moglie più importante, Aisha, venne sposata formalmente quando aveva 6 anni. E il rapporto venne consumato quando ne aveva 9. Oggi ci scandalizziamo per certe cose. Aggiungo: per fortuna. Un maggiorenne che fa sesso con una minorenne finisce in gattabuia; se la ragazzina è una bambina, buttano via la chiave. Ed è giusto che sia così. Oggi. Ma allora le tradizioni, la cultura, la mentalità erano completamente diverse. Si viveva meno, si moriva prima e si doveva prolificare prima. A 13 anni Gandhi sposò una tredicenne ed ebbero cinque figli. Sbagliato, sbagliatissimo. Come i matrimoni combinati. Ma allora era la regola. E se provavi a ribellarti venivi condannato, come eretico e nemico dei valori familiari. Ci sono istanze giuste, giustissime. Che però, portate all’estremo, diventano ridicole. Da quando, negli Usa e in tutto il mondo, il movimento Black lives matter ha ripreso vigore dopo la tragica uccisione di George Floyd, la piaga del razzismo è tornata all’ordine del giorno. Era ora, visto anche che Trump si è permesso di mettere sullo stesso piano i suprematisti bianchi e gli antirazzisti. Dopo i disordini di Charlotteville nell’agosto 2017, in cui una giovane antifascista venne uccisa da un estremista di destra, il Presidente disse qualcosa che fa ancora accapponare la pelle: “There were very fine people on both sides”, “C’erano ottime persone da entrambe le parti”. Come dire che anche gli scagnozzi del Ku Klux Klan sono ottime persone. Ben venga il rigurgito antirazzista. Ma evitando che, oltre al razzismo, prenda di mira anche il buon senso. E’ ridicolo abbattere le statue di Cristoforo Colombo, colpevole di avere scoperto il Nuovo Mondo, e quindi di avere dato il via al genocidio degli indiani. Così come è ridicolo voler tirare giù i monumenti a Winston Churchill, l’eroe della lotta a Hitler, perché credeva che i bianchi fossero più intelligenti dei neri e degli orientali. Idiozie, che però nell’epoca dell’imperialismo europeo andavano per la maggiore. E c’è chi, in nome dell’antirazzismo, vorrebbe mettere al bando Shakespeare. Perché antisemita nel Mercante di Venezia. Leonardo da Vinci, animalista e vegano ante litteram, scrisse: “Fin dalla più tenera età, ho rifiutato di mangiare carne. E verrà il giorno in cui gli uomini guarderanno all’uccisione degli animali così come oggi si guarda all’uccisione degli uomini”. Se il tempo dimostrerà che aveva ragione, tra uno o due secoli, chissà, i posteri inorridiranno al pensiero che ancora nel ventunesimo secolo si mangiavano gli animali. Guardando i video-choc degli allevamenti intensivi, in cui mucche, maiali e pulcini sono (mal)trattati come oggetti, resteranno a bocca aperta. E abbatteranno le statue di tutti quanti, prima di loro, non sono stati vegetariani: razzisti, anzi specisti, perché teorizzavano la superiorità di una specie sull’altra. E perché giustificavano, in questo modo, le peggiori violenze su creature inermi. Quando, nel lontano 1983, sostenni l’esame di Maturità, scelsi il tema dal titolo “Cosa significa essere figli del proprio tempo”. Spiegai che vuol dire ritrovarsi nelle idee e nelle usanze, giuste o sbagliate, della propria epoca e del luogo in cui si abita. Ci vuole coraggio a non essere figli del proprio tempo: si finisce incompresi. O emarginati. O incarcerati. O uccisi. La cultura cambia, la morale cambia, e ciò che allora era giusto oggi è sbagliato. E viceversa. L’antirazzismo è un dovere morale. Il politically correct è, invece, moralismo. Ossia il tentativo di impancarsi ad eticamente superiori. E’ facile, e gratificante: io mi sento moralmente superiore a te, perché tu hai fatto questo e quest’altro di sbagliato. Visto che siamo uomini, quindi peccatori, trovare qualcosa di sbagliato in qualcuno è facilissimo. E di questo passo dovremmo abbattere tutte le statue, e cambiare in nome a tutte le strade. Non si salverebbero nemmeno i santi: anche loro avevano difetti. Come disse Andreotti, uno che di peccati se ne intendeva, “ distinguerei le persone morali dai moralisti. Perché molti di coloro che parlano di etica, a forza di discuterne, non hanno poi il tempo di praticarla.”

Statua di Montanelli a Milano, Di Maio: "Nessuno ha il diritto di rimuoverla". Sala: "Contrario a toglierla, tutti facciamo errori". Pubblicato venerdì, 12 giugno 2020 da La Repubblica.it. "A distanza di oltre 40 anni" - dall'agguato terroristico a Indro Montanelli - nessuno può "arrogarsi il diritto di rimuovere la sua statua, di cancellare la memoria di quell'agguato. Un agguato contro un uomo e contro la libertà che quell'uomo stesso, con grande dignità, ha sempre rappresentato. Mi auguro che il Comune di Milano quella libertà voglia difenderla. Pensiamo al futuro, costruiamo nel presente. Prendiamo lezione dal passato e guardiamo avanti, con fiducia e determinazione. L'Italia è anche questo e dobbiamo esserne orgogliosi". Con un lungo post su Facebook il ministro degli Esteri Luigi Di Maio interviene nelle polemiche sulla richiesta da parte dell'associazione I Sentinelli di Milano di rimuovere la statua dedicata al giornalista nei giardini vicino Porta Venezia, cambiando anche l'intitolazione dei giardini stessi. Una richiesta a cui risponde anche il sindaco di Milano Beppe Sala dicendo di non essere favorevole. Tutto è nato mercoledì, quando l'associazione antirazzista e per i diritti I Sentinelli di Milano scrive una lettera pubblica al sindaco e al Consiglio comunale: "A Milano ci sono un parco e una statua dedicati a Indro Montanelli, che fino alla fine dei suoi giorni ha rivendicato con orgoglio il fatto di aver comprato e sposato una bambina eritrea di dodici anni perché gli facesse da schiava sessuale, durante l'aggressione del regime fascista all'Etiopia. Noi riteniamo che sia ora di dire basta a questa offesa alla città e ai suoi valori democratici e antirazzisti e richiamiamo l'intero consiglio a valutare l'ipotesi di rimozione della statua, per intitolare i Giardini Pubblici a qualcuno che sia più degno di rappresentare la storia e la memoria della nostra città Medaglia d'Oro della Resistenza". Di Maio scrive su Facebook, accompagnando le sue parole con una foto di Montanelli subito dopo la gambizzazione: "Il 2 giugno 1977, più di quarant'anni fa, Indro Montanelli prese a camminare lungo la cancellata dei giardini pubblici di Milano. Gli si avvicinarono due giovani. Uno dei due estrasse dal giubbotto una pistola con silenziatore e sparò otto colpi. Quattro proiettili andarono a segno: tre attraversarono la coscia destra e l'altro trapassò un gluteo e si fermò contro il femore sinistro. Montanelli non cadde subito. Il suo pensiero, anche in quegli istanti, fu quello di restare in piedi, aggrappandosi a una inferriata che aveva accanto. In piedi, con la schiena dritta, com'è sempre stato. Era stato colpito il più grande giornalista italiano di allora, oggetto in quel periodo di una campagna d'odio senza precedenti. Le Brigate Rosse rivendicarono l'attacco. Oggi, in quegli stessi giardini pubblici di Milano, c'è una statua che ricorda quel momento. Ritrae Montanelli con la sua Lettera 22 sulle ginocchia. E in passato, è vero, lui stesso criticò quell'opera, sostenendo che i "monumenti sono fatti per essere abbattuti". Idee e valori di un giornalista attento e scrupoloso, ma soprattutto di un uomo libero. Anche questo era uno dei tratti che lo distingueva da tutti gli altri. Montanelli vantava un'onesta intellettuale che gli permetteva di soprassedere alle logiche dei personalismi e della vanità. Lavorava per raccontare i fatti. Scriveva per la verità. Non aveva bisogno di elogi, né di onorificenze". "Non sono favorevole alla rimozione della statua di Montanelli: penso che in tutte le nostre vite ci siano errori, e quello di Montanelli lo è stato. Ma Milano riconosce le sue qualità, che sono indiscutibili". Nel dibattito rovente sulla richiesta di rimuovere la statua di Indro Montanelli dai giardini a lui dedicati (e quindi di cambiare anche l'intitolazione) è intervenuto anche il sindaco di Milano Beppe Sala. Con un parere - espresso in un'intervista al quotidiano Il Giorno - che, per quanto non vincolante in quello che al momento resta un dibattito accademico, comunque pesa. "Non mi piacevano tutte le sue posizioni, a volte eccedeva in protagonismo. Ma aveva una penna straordinaria", ha spiegato il sindaco. Nel post I Sentinelli collegano questa richiesta alla cronaca: "Dopo la barbara uccisione di George Floyd a Minneapolis le proteste sorte spontaneamente in ogni città con milioni di persone in piazza e l'abbattimento a Bristol della statua in bronzo dedicata al mercante e commerciante di schiavi africani Edward Colston da parte dei manifestanti antirazzisti di Black Lives Matter richiamiamo con forza ogni amministrazione comunale a ripensare ai simboli del proprio territorio e a quello che rappresentano". Le reazioni, in due giorni, sono state tantissime. Politici, intellettuali, molti contrari all'ipotesi con toni più o meno accesi (tra i più accesi quelli del segretario della Lega Matteo Salvini) e con posizioni diverse nel centrosinistra, anche se proprio il capogruppo del Pd a Milano Filippo Barberis ha già dato il suo parere negativo. Ora arriva quello del sindaco Sala: ma a questo punto bisognerà vedere se la proposta approderà comunque in Consiglio comunale. E la Fondazione Montanelli Bassi di Fucecchio (Firenze) ha scritto al sindaco Sala per dire che "anche il solo ipotizzare la rimozione della statua di Indro Montanelli sarebbe un'offesa alla memoria del più popolare e apprezzato giornalista italiano del Novecento". La missiva è firmata dal presidente della Fondazione, Alberto Malvolti: "Le testimonianze lasciate da Montanelli e il contesto storico in cui quei fatti avvennero - prosegue Malvolti - dimostrano che non ci fu alcuna violenza né tanto meno ci furono atteggiamenti razzisti da parte di Indro, che accettò quel "matrimonio" proposto dalla popolazione locale e celebrato pubblicamente secondo gli usi e i costumi abissini".

Lorenzo Mottola per ''Libero Quotidiano'' il 12 giugno 2020. Nel 1935, l'allora giovane Indro Montanelli - era nato a Fucecchio (un paesotto di 20mila abitanti a metà strada tra Firenze e Pisa) il 22 aprile 1909 - già laureato in Legge e già giornalista di qualche peso, con articoli pubblicati da Il Frontespizio di Piero Bargellini, l' Universale di Berto Ricci, il Popolo d' Italia di Mussolini e per il quotidiano francese Paris-Soir, decide di partecipare da volontario all' impresa coloniale fascista in Etiopia. Il 27 giugno viene incorporato all' Asmara nel XX Battaglione eritreo (sarà questo anche il titolo del suo primo romanzo, pubblicato per la prima volta nel 1936 e recensito entusiasticamente sul Corriere della Sera da Ugo Ojetti; sarà poi riedito nel 2010 con le lettere inedite ai genitori dal fronte) , come comandante di un plotone di ascari. I quali, seguendo una consolidata tradizione, lo invitano, pena la perdita di prestigio ai loro occhi, a prendere per moglie una ragazzina di 12 anni. Indro ne parlerà più volte apertamente nel corso della sua vita, anche in una celebre intervista televisiva del 1972, fino a una "Stanza" del 2000 sul Corriere, poco prima di morire. Sempre rivendicando il proprio operato e sempre uscendone a testa alta. Proprio per questo non si comprendono le polemiche di questi giorni e le richieste al sindaco di Milano Giuseppe Sala di rimuoverne la statua dall' omonimo parco, così come non si spiegava l'atto vandalico che questa aveva subito l' anno scorso venendo imbrattata di vernice rosa a opera delle femministe. Del resto, la parola definitiva sullo "scandalo" eritreo l' aveva pronunciata nel giugno 2019 Angelo Del Boca, il maggiore storico del colonialismo italiano, che proprio con Montanelli si era reso protagonista di una lunga diatriba sull' uso dei gas nella guerra d' Etiopia. Il grande giornalista lo negava, mentre il grande storico cercava di dimostrarne l' impiego sistematico. Alla fine, la scoperta di documenti ufficiali aveva chiuso la questione nel 1996. Questo per dire come l' ex partigiano Del Boca non aveva certo remore nel contraddire e attaccare Montanelli. Ebbene, l' autore di volumi fondamentali come Gli Italiani in Africa Orientale (Laterza), I gas di Mussolini (Editori Riuniti), La nostra Africa (Neri Pozza) e Italiani, brava gente? (Neri Pozza) e delle principali biografie del Negus Hailé Selassié e di Gheddafi, intervistato per il Tg2 Dossier dedicato a Montanelli da Miska Ruggeri, era stato chiarissimo: . Sulla stessa lunghezza d' onda un altro storico, Giordano Bruno Guerri, secondo cui: «Non possiamo giudicare la storia con gli occhi di oggi, perché altrimenti non capiamo nulla del passato e lo distorciamo». Guerri allarga il discorso anche a chi tira in ballo, per le stesse ragioni, le figure di Winston Churchill e di Cristoforo Colombo, o un film come "Via col vento". «Lo schiavismo», ricorda lo scrittore, «è certamente da condannare, ma fino al Seicento tutti lo accettavano». Quanto a Montanelli «è chiaro che lui ha fatto una cosa deprecabile», acquistando una bambina eritrea. «La pedofilia e, tanto meno l' acquisto di qualcuno, è assolutamente inaccettabile. Però non si può giudicare un protagonista della storia da un solo episodio. Montanelli ha fatto anche altro, è stato uno dei più grandi giornalisti italiani del '900, gambizzato dalle Brigate Rosse». «Come lui», prosegue lo storico toscano, «anche altri intellettuali, ad esempio Pasolini, hanno delle macchie. Ma se dovessimo abolire le personalità storiche che hanno avuto delle macchie nella loro vita, non rimarrebbe quasi più nessuno».

Gad Lerner su Indro Montanelli: "Oggetto di venerazione sproporzionata rispetto alla sua biografia". Libero Quotidiano l'11 giugno 2020. Siamo alla follia targata Pd. Già, perché alcuni esponenti del Pd, intercettando la proposta dei cosiddetti Sentinelli (gruppo laico e antifascista, così come si presentano sui social), invocano la rimozione della statua di Indro Montanelli a Milano, ai giardini di via Palestro. La ragione? "Montanelli fino alla fine dei suoi giorni ha rivendicato con orgoglio il fatto di aver comprato e sposato una bambina eritrea di dodici anni perché gli facesse da schiava sessuale, durante l'aggressione del regime fascista all'Etiopia". Dunque chiedono rimozione della statua e cambio del nome dei giardini. E ora, nel primo mattino di giovedì 10 giugno, sulla questione interviene Gad Lerner, il quale su Twitter afferma quanto segue: "Andiamoci piano con l'abbattimento delle statue. Qualcuno potrebbe ricordare che la Bibbia contempla schiavismo e patriarcato: rimuoviamo pure il Mosè di Michelangelo?". E fin qui tutto bene. Poi, però, Lerner aggiunge un PS: "Montanelli è oggetto di venerazione sproporzionata alla sua biografia, non alimentiamola boicottandolo". Già, secondo Lerner, insomma, Montanelli è sopravvalutato. Il gigante assoluto del giornalismo sarebbe oggetto di "venerazione sproporzionata" e il rischio sarebbe di aumentare tal venerazione rimuovendo la statua. Una presa di posizione che lascia letteralmente senza parole.

Paolo Guzzanti per ''il Giornale'' il 12 giugno 2020. Nel clima di caccia alle statue che si è sparso nel mondo, ieri Gad Lerner ha attaccato, con temerarietà e sprezzo del ridicolo, la memoria di Indro Montanelli, scomparso da nove anni, twittando un messaggio ridicolo e imbarazzante. Questo: «Montanelli è oggetto di venerazione sproporzionata, non alimentiamola boicottandolo». Il retroscena è noto. Essendo l' Italia un Paese a rimorchio degli altri anche per inerzia e pigrizia degli intellettuali e poiché in America si abbattono le statue di generali e politici schiavisti dell' Ottocento, da noi c' è chi ha pensato di ritirare fuori - e fuori contesto la storia raccontata dallo stesso Montanelli secondo cui durante la guerra d' Abissinia per la quale partì volontario, sposò una ragazza abissina che, come tutte le spose del suo Paese, era minorenne. Vista con gli occhi di oggi, fu una cosa inaccettabile, ma all' epoca era purtroppo normale. Lerner, però, nel suo messaggio pubblico, non richiama questo evento arcinoto e per il quale le femministe si sono indignate, ma attacca la persona e quella che definisce «venerazione» per Montanelli, condivisa da tutto il mondo giornalistico e letterario e recentemente espressa anche da Eugenio Scalfari, fondatore di Repubblica. Ora, io conosco bene Gad Lerner con cui ho lavorato alla Stampa e ho talvolta apprezzato il suo giornalismo, ma certamente non l' ho venerato e credo che non lo veneri nessuno. Purtroppo Lerner ha nella sua storia professionale l' ombra di una vicenda che non gli permette proprio di tenere un corso di antipedofilia, come ha fatto attaccando un grande giornalista e protagonista. Morto, fra l' altro, sullo stesso fronte politico su cui si trova Lerner: quello dell' antiberlusconismo, dopo aver rotto con il suo ex editore che gli aveva permesso di sopravvivere con un Giornale economicamente fallito. Il fatto è che Lerner, come direttore del Tg1 Rai, mandò in onda un servizio vergognoso sulla pedofilia, con immagini ignobili per le quali dovette scusarsi pubblicamente, di fronte all' Italia stupita e indignata, per non avere controllato la messa in onda di materiale pedo-pornografico. Le sue scuse furono chieste dai vertici della Rai e del mondo giornalistico e politico. Fu, quel servizio, una macelleria di bambini già violentati fisicamente e poi nelle immagini del telegiornale diretto da Gad Lerner. Poi, per carità, ognuno su Montanelli può avere l' opinione che vuole e forse Lerner vede oltre la stima, anche la «venerazione» (parola che ha scelto lui) di chi lo ha stimato e amato, fra cui Marco Travaglio, direttore del Fatto per cui scrive ora Lerner e che è stato un «Montanelli boy». È un fatto storico che Indro Montanelli sia stato un rivoluzionario del giornalismo e un coraggioso, che mai e poi mai, da vivo, avrebbe proposto il «boicottaggio» di Gad Lerner, perché spropositatamente venerato. Certe cose un uomo non le fa: se uno pensa di boicottare la memoria di un grande protagonista, deve almeno avere un passato impeccabile nel campo per cui si scaglia contro un morto. E la storia del vergognoso servizio in materia di pedofilia non ci sembra impeccabile, ma più deplorevole degli usi e costumi del mondo coloniale di novanta anni fa.

Oggi doppio editoriale: "Montanelli, troppo venerato maestro". Gad Lerner sul Fatto Quotidiano del 13 Giugno: - Cercherò di non cadere nella trappola che il mio nuovo direttore, Marco Travaglio, oggi mi tende, chiedendomi di motivare perché considero Indro Montanelli “oggetto di venerazione sproporzionata alla sua biografia”. Ma non tirerò indietro la mano. Mi è dispiaciuto, infatti, che i Sentinelli e l’Arci abbiano proposto la rimozione della (bella) statua a lui dedicata nei Giardini Pubblici milanesi, non solo perché la rimozione dei monumenti è una maniera sbrigativa di fare i conti con la storia, ma anche perché ci avrei scommesso che il loro annuncio di boicottaggio avrebbe contribuito ad alimentare l’eccessiva venerazione di cui Montanelli gode. Devo proprio cominciare dalle ovvietà? Va bene. Non ho difficoltà a riconoscerne lo straordinario talento giornalistico e la prosa sopraffina. Del resto, considero anche Viaggio al termine della notte di Louis-Ferdinand Céline uno dei più grandi libri del Novecento, senza che ciò mi induca a benevolenza per le idee del suo autore. Attenzione. Non sto attribuendo a Montanelli il marchio d’infamia che resterà impresso sull’opera di Céline. C’è una bella differenza. Montanelli ha interpretato magistralmente, e disinvoltamente, il mutare dello spirito dei tempi del secolo italiano che ha vissuto, senza mai aderirvi in profondità. Semmai riuscendo sempre a non lasciarsene compromettere. Gli concedo perfino che la vicenda riesumata in questi giorni della dodicenne etiope comprata come moglie, appartiene anch’essa a consuetudini odiose ma considerate normali all’epoca. Per completezza dovremmo aggiungere che nel 1958 Montanelli scrisse articoli di fuoco contro la legge Merlin che chiudeva le case d’appuntamento. C’è un filo di continuità: lui è appartenuto a una mentalità maschile dominante che concepiva le donne come oggetti di piacere comprabili. Era un brillante conservatore libertino, affezionato ai privilegi connessi al rango che si era conquistato col talento e con l’astuzia. Se possiamo indicarlo tra i massimi esponenti della categoria degli “arci-italiani”, a mio parere è soprattutto per la disinvoltura mostrata nel drammatico passaggio dal fascismo alla democrazia. Nonostante il suo apparente profilo anticonformista, ha saputo intuire come pochi altri l’ostilità provata da tanti connazionali nei confronti di coloro che avevano impugnato le armi contro il fascismo, nel tentativo di riscattare il disonore dell’Italia. Credo abbiano ragione Sandro Gerbi e Raffaele Liucci quando rintracciano nei suoi libri di storia la base della sottocultura anti-antifascista che avrebbe fatto molti proseliti. La sua abilità è stata di non rinnegare l’adesione al fascismo, ma di minimizzarla, fornendo del regime una caricatura tutto sommato benevola, funzionale al bisogno di autoassoluzione da tanti condiviso. Da frondista, ha sposato il fastidio dei più nei confronti del coraggio degli intransigenti. Quando poi la guerra fredda ha alimentato un blocco anticomunista che non guardava tanto per il sottile e reclutava al suo interno anche personaggi che liberali non lo erano affatto, Montanelli ne è diventato il paladino. Vero è che nel 1994 ha rotto coraggiosamente con Berlusconi che entrava in politica, ma nel 1981 aveva tollerato senza imbarazzo di ritrovarsi nel suo Giornale un editore iscritto alla loggia P2. E se lo è tenuto per tredici anni. Scriveva da Dio, acuto, ironico e signorile. Figuriamoci se non ho apprezzato, nei suoi ultimi anni, la rivendicazione di una destra perbene contro una gran parte dello stesso pubblico che aveva allevato, disposto a ripudiarlo pur di osannare il Cavaliere che gli prometteva un nuovo ventennio italiano. Ha saputo scegliere di stare in minoranza, e perfino di dialogare con la sinistra che aveva sempre combattuto. Tra i suoi allievi, ha scelto Marco Travaglio e Peter Gomez, non certo Antonio Tajani e Livio Caputo. Gliene sia reso merito, e venga senz’altro riconosciuto come un maestro di giornalismo di fronte a cui siamo piccini. Ma io continuo a preferirgli Giorgio Bocca. Anche lui da ragazzo era stato fascista. Ma poi è salito in montagna con lo sten.

La replica: "Fu anticonformista e mai servo: fece errori, ma si scusò". Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 13 Giugno: - Lungi da me l’idea di tendere una trappola a Gad Lerner: solo la curiosità di capire perché ritenga Montanelli un sopravvalutato. Curiosità ampiamente soddisfatta da questo suo articolo. Forse gli parrà strano, ma io non verserei una lacrima se la statua di Indro in bronzo ai giardini di piazza Cavour a Milano, che io trovo piuttosto bruttarella, sparisse. Credo che, se fosse vivo, lui stesso ne chiederebbe la rimozione. Ma non per i motivi “etici” sbandierati dai Sentinelli e dall’Arci, che lo incolpano di essere stato figlio del suo tempo. Bensì per motivi estetici, che per lui contavano molto più dell’etica: credevo che tutto sognasse, Montanelli, fuorché di essere ricordato con un monumento giallo simil-ottone che da lontano ricorda un grande trombone. Allergico ai pennacchi, ai galloni, alle cariche, alle onorificenze, alla retorica e al reducismo, aveva rifiutato ben più di una statua: la nomina a senatore a vita offerta da Cossiga nel 1991, la direzione del Corriere della Sera offerta da Gianni Agnelli nel 1992 e da Paolo Mieli nel ’94, la direzione de La Stampa offerta dall’Avvocato nel ’96. Lerner lo considera un “disinvolto arci-italiano” e “apparente anticonformista” specialista della “fronda”, cioè nell’opposizione di sua maestà. Io, per come l’ho conosciuto, penso invece che fosse un anti-italiano e un anticonformista vero e ben poco disinvolto: cambiava sempre idea solo quando non gli conveniva, ritrovandosi in minoranza e rischiando parecchio, anche la pelle. L’unica sua disinvoltura era nell’arte del racconto, che lui imbellettava con dettagli falsi ma verosimili per rendere i suoi ritratti e i suoi reportage più veri. Ma nella vita e nelle scelte politiche – sempre dettate da fattori caratteriali, anzi umorali, più che ideologici – fu l’esatto opposto del frondeur paraculo. Cresciuto dentro il fascismo (era nato nel 1909 e la marcia su Roma lo colse tredicenne), subì il fascino di Mussolini (“più che fascista, ero mussoliniano”) e ne guarì proprio quando il regime toccò l’apice del successo e del consenso, cioè con la conquista dell’“Impero” in Africa Orientale, cui aveva preso parte come volontario e che aveva abbagliato persino due antifascisti come Benedetto Croce e Luigi Albertini, i quali nel 1935 avevano portato l’“oro alla Patria” con le loro medagliette d’oro di senatori. L’orgia di retorica su quell’impresa e su quella seguente in Spagna gli instillarono i primi dubbi, allontanandolo da quel regime che intanto aveva allontanato lui. Nel 1937 la sua cronaca per il Messaggero sulla battaglia di Santander, in controtendenza con le celebrazioni ufficiali delle epiche gesta delle truppe italiane (“una lunga passeggiata con un solo nemico: il caldo”), gli valse l’espulsione dal Partito e dunque dall’albo dei giornalisti, costringendolo a espatriare in Estonia. Nel 1943, ricercato dai repubblichini e dalle Ss come complice del golpe bianco del 25 luglio, si diede alla macchia e collaborò con i partigiani di Giustizia e Libertà e con l’ufficio stampa del Cln. Nel febbraio ’44, mentre tentava di intrupparsi in una brigata partigiana in Val d’Ossola, fu arrestato dai tedeschi e rinchiuso nelle segrete del carcere di Gallarate. E lì, anziché rivendicare la sua lunga militanza fascista, mise a verbale dinanzi alle Ss: “Non appartengo più al Pnf e mi considero in guerra con voi”. Fu condannato a morte e trasferito a San Vittore, da dove evase il 1° agosto grazie a un fascista doppiogiochista avvicinato da sua madre Maddalena. Fuggì in Svizzera e lì fece una sgradevole esperienza con gli antifascisti fuorusciti. Che lo consideravano ancora un mezzo fascista. Così nacque uno dei suoi primi e migliori libri: Qui non riposano. E anche la sua idiosincrasia per la retorica antifascista, specie in bocca a chi era stato fascista fino al 25 luglio 1943 o addirittura fino al 25 aprile 1945 e, diversamente da lui, fingeva di non esserlo mai stato. Un sentimento che, unito all’indole bastiancontraria, lo portò a minimizzare il suo antifascismo per enfatizzare l’ipocrisia di chi negava (tutti gli storici, prima di De Felice) il consenso al Regime. Rompendo e denunciando il nuovo conformismo antifascista, Indro si sentì politicamente “apolide”, “straniero in patria”. Così come nel 1956, ai tempi della rivolta d’Ungheria, quando fu attaccato sia da destra sia da sinistra per aver scritto la verità: i rivoltosi non erano anticomunisti, ma comunisti che sognavano un socialismo diverso, riformista, autonomo dall’Urss. Come alla fine degli anni 50, quando sul giornale dell’establishment, il suo Corrierone, smascherò le collusioni fra il presidente Gronchi e l’Eni di Mattei (“l’incorruttibile corruttore”). Come negli anni 70, quando respinse le tentazioni golpiste e autoritarie della destra eversiva, ma anche la corsa sul carro dei vincitori del nuovo conformismo progressista che dominava l’intellighenzia, e fondò il Giornale per cantare fuori dal coro, sfidando anche le P38 delle Br, che lo gambizzarono proprio ai Giardini Cavour (Corriere e Stampa riuscirono a non nominare Montanelli nei titoli in prima pagina). Come negli anni 80, quando prese di petto il conformismofilo-Craxi, compare del suo editore Silvio B. E come negli anni 90, quando – unico intellettuale liberalconservatore con Sartori – si mise di traverso sulla strada delle magnifiche sorti e progressive del berlusconismo trionfante, lasciando il Giornale per fondare la Voce e poi continuando la battaglia sul Corriere fino alla morte nel 2001. Certo, in 92 anni, commise diversi errori. Alcuni li ricorda Lerner, altri ne potrei aggiungere io (le lettere paragolpiste all’ambasciatrice americana Boothe Luce nei primi anni 50, in piena guerra fredda; la cantonata su Valpreda in piazza Fontana; l’incapacità di cogliere la svolta antimafia di Falcone e Borsellino). Ma, anche quando sbagliava, lo faceva in proprio, mai per conto terzi. Ne pagava le conseguenze. E sapeva chiedere scusa. Come quando ammise, alla luce dei documenti esibiti dallo storico Angelo Del Boca, ciò che aveva sempre negato per la sua esperienza sul campo: le armi chimiche italiane in Abissinia. Perché non era servo di nessuna ideologia e di nessun padrone. Se Gad ora scrive su un giornale senza padroni, un po’ lo deve anche a lui.

Indro col senno di poi. Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 15 Giugno 2020: Caro direttore, che delusione il carteggio tra te e Gad Lerner sul dibattito scatenatosi sulla figura di Indro Montanelli: e che amarezza, da lettore prima e da collega poi. Perché, ferma restando l’immensità di Montanelli in quanto giornalista e scrittore, è passato in cavalleria, nella vostra esegesi, il piccolo particolare della bambina dodicenne che il tuo ex direttore comprò in sposa ai tempi della conquista dell’Impero in Africa orientale: una vicenda, scrive Lerner, “che appartiene anch'essa a consuetudini odiose ma considerate normali all’epoca”, come se si trattasse di allacciare o no la cintura di sicurezza in auto; mentre tu te la cavi dicendo che “certo, commise alcuni errori”. Beh, complimenti. Perché delle due l’una: o Montanelli era un selvaggio primitivo acculturatosi e alfabetizzatosi solo al ritorno in Italia, a Impero africano conquistato, e allora capiamo, anche se con difficoltà; o invece era già quel che era, un intellettuale, e allora non ci sono parole per definire la spregevolezza dei suoi comportamenti umani. A maggior ragione visto che a 60 anni, nel programma Rai L’ora della verità di Gianni Bisiach (era il 1969), raccontava di aver comprato e sposato una dodicenne africana ancora compiacendosene…Paolo Ziliani

Caro Paolo, mi spiace per la tua delusione, ma qui l’unica spregevolezza è quella dei giovani e vecchi somari (i giovani hanno almeno l’attenuante dell’età e di quello che non hanno imparato a scuola) che s’illudono di risolvere i problemi del mondo decapitando, abbattendo o imbrattando monumenti personaggi storici colpevoli di essere figli della cultura del loro tempo (e ora immagino si dedicheranno a picconare in effigie Socrate, Pasolini e quello schiavista suprematista antisemita di Voltaire). Non ho mai fatto “passare in cavalleria” le nozze africane di Montanelli: semplicemente avevo già scritto tutto ciò che so e penso un anno fa, quando un gruppo di femministe festeggiarono l’8 marzo lanciando vernice rosa sulla sua statua. Ma visto che insisti, senz'alcuna pretesa di convincere chi si è già formato il suo pregiudizio, ripeto. Nel 1935, a 26 anni, Montanelli partì volontario come giornalista-soldato in Etiopia, sottotenente in un battaglione di àscari eritrei e abissini. Il suo attendente di colore (sciumbasci) suggerì a lui e ai commilitoni single di sposarsi. Secondo le norme del tempo e del luogo, che non aveva certo importato o imposto Montanelli, chi voleva sposarsi doveva accordarsi coi genitori di una ragazza. E firmare un contratto pubblico per una dote in denaro e un tucul. Così Montanelli sposò Destà, una ragazza di 14 anni e non di 12 che, com’era (e ancora in parte è) usanza nei Paesi tropicali, era già una donna da marito (anche Maria di Nazareth si sposò a 13-14 anni: pedofilo pure Giuseppe?). Il giovane Indro fece esattamente quello che facevano da sempre e avrebbero continuato a fare milioni di africani: una cosa che a noi occidentali del 2020 ripugna, mentre in quei luoghi era (e tuttora è) la normalità. Il XX Battaglione Eritreo si spostava continuamente nel Paese, ma Destà e le altre compagne dei soldati italiani e africani riuscivano a rintracciarli ogni 15 giorni portando loro biancheria pulita e generi di conforto. Finita la guerra – raccontò Montanelli – “uno dei miei tre bulukbasci (altri graduati del battaglione, ndr)… mi chiese il permesso di sposare Destà. Diedi loro la mia benedizione. Rientrai in Italia giusto il tempo per essere travolto prima dalla guerra di Spagna e poi da quella mondiale. Nel 1952 tornai nell’Etiopia del Negus e la prima tappa la feci a Saganeiti, patria di Destà e del mio vecchio bulukbasci, che mi accolsero come un padre. Avevano tre figli, di cui il primo si chiamava Indro”. Oggi quel matrimonio combinato quasi un secolo fa sconcerta, come molte usanze tribali di ieri e di oggi (la ragazza era anche infibulata), mentre il “madamato” fra le truppe coloniali è legata a quel clima storico, fortunatamente superato. Ma è assurdo parlare di schiavismo, violenza, stupro e pedofilia (Destà non avrebbe chiamato Indro il suo primogenito). E peggio ancora di razzismo. Che semmai è quello di tentare di imporre i nostri stili di vita ad altri popoli. Infatti, poco dopo l’unione fra Indro e Destà, Mussolini proibì i matrimoni misti fra colonizzatori e colonizzati (e censurò la canzone Faccetta Nera che li esaltava): misura quella sì razzista, non le unioni fra italiani e africane. Che - come ha scritto Angelo Del Boca, maggiore storico del colonialismo italiano – erano semmai un “simbolo di integrazione” che “nell'atmosfera dell’epoca era inevitabile, una tradizione da rispettare… Ne abbiamo parlato a lungo con lui perché sapeva che ben conoscevo i costumi eritrei e non mi scandalizzavo”. Se sappiamo delle nozze di Indro con Destà, lo dobbiamo solo al suo racconto. A me ne parlò quando gli chiesi chi fosse la ragazza di colore il cui ritratto campeggiava sulla sua scrivania, accanto a quelli di Maggie e Colette, la sua seconda e terza moglie. “E’ Destà, la mia prima moglie africana”, rispose, accarezzando la foto con tenerezza. Questo era il fascista, razzista, schiavista e stupratore Montanelli. Ora ciascuno può dare i suoi giudizi o tenersi i suoi pregiudizi.

Travaglio difende Montanelli con argomentazioni sessiste e razziste. Angela Azzaro su Il Riformista il 16 Giugno 2020. Nell’edizione di ieri del Fatto quotidiano Marco Travaglio ha rinunciato al suo solito editoriale e ha risposto alla lettera di un lettore che protestava per l’indulgenza con cui lui (e anche Gad Lerner: new entry del Fatto) avesse assolto Indro Montanelli per aver sposato nel 1935 una giovanissima di dodici anni, Destà, comprata da una famiglia etiope per soddisfare i suoi bisogni sessuali senza prendersi la sifilide e per garantirsi, tra una battaglia e l’altra, il cambio di biancheria. Non sia mai che in mezzo ai cadaveri potesse avere i calzini sporchi. Dopo le polemiche sulla statua del giornalista, che partecipò all’invasione italiana dell’Etiopia, il tema è tornato al centro delle polemiche giornalistiche e social. E così anche Travaglio, considerato l’erede di Montanelli, si è sentito in dovere di spiegare le ragioni del suo nume tutelare. Ne è venuto fuori un editoriale raccapricciante, pieno zeppo di argomentazioni sessiste e razziste. Quando si tratta di manette, bisogna ammetterlo: mister “più galera per tutti” è quasi imbattibile. Nessuno più di lui è capace di distribuire anni e anni di gattabuia. Diverso è il discorso quando si tratta di parlare di un tema così complesso che intreccia il potere maschile sulle donne e il colonialismo italiano. Le cavolate messe una dietro l’altra sono troppe per citarle tutte. Ma alcune sono imperdibili. Quando per esempio paragona il giornalista scomparso a Giuseppe. Non l’attuale presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Ma lui, proprio lui, Giuseppe di Nazareth. Il falegname scelto da Dio per fare da padre sulla terra a suo figlio Gesù. «…Anche Maria di Nazareth – scrive mister “più galera per tutti” – si sposò a 13-14 anni: pedofilo pure Giuseppe?». O quando pensa di assolvere Montanelli spostando l’età di Destà dai 12 ai 14 anni. Non una parola su di lei, sulla violenza subìta, sul fatto che fosse infibulata, non una seria critica al modello di inciviltà che questa storia rappresenta. Ma solo una sfilza di giustificazioni per arrivare al culmine del ragionamento. In fondo il vero razzismo non è trattare le donne e gli uomini come schiavi, asservirli al proprio potere, negare loro libertà e dignità. No. Ma stiamo scherzando?! Il vero razzismo per Travaglio è «semmai quello di tentare di imporre i nostri stili di vita ad altri popoli…». Ragionamento dal quale si deduce che principi come uguaglianza e libertà siano da considerare per lui al pari degli stili di vita. Eh no, gentile mister “più galera per tutti”. La libertà delle donne non è uno stile di vita, è un principio che non si può negoziare. È un diritto, un diritto universale che però lei sembra ignorare, al pari di altri principi fondamentali come la presunzione di non colpevolezza, il diritto a un giusto processo, il diritto a non essere torturati dallo Stato quando si viene imprigionati, il diritto a non esser discriminati in base alla propria origine. La guerra a cui durante il fascismo partecipò Montanelli era una conquista coloniale e sarebbe stato interessante che il direttore del Fatto avesse fatto un ragionamento storico e politico. Invece procede a colpi di approssimazioni e pur citando lo storico Angelo Del Boca, che con il suo lavoro ha svelato la violenza del colonialismo italiano che peraltro usò il gas nervino, lo fa sempre per giustificare l’operato di Montanelli. Alla fine della lettura viene un sospetto. Un atroce sospetto. E se il discorso di Travaglio più che dettato dalla necessità di mettere al riparo la figura del suo idolo fosse invece spinto da una profonda convinzione? Viene cioè la paura che uno dei principali giornalisti italiani, ospite fisso dei salotti buoni della tv italiana, considerato da molti un’icona di buon giornalismo e (fatto ancora più inspiegabile) anche un’icona di sinistra, pensi ci siano casi e Paesi in cui la violenza e le discriminazioni contro le donne o contro chi ha una pelle diversa possano essere accettate perché è consuetudine, perché è normale, perché… è uno stile di vita. Che paura, davvero, che paura.

 Sardine contro Montanelli: "Simbolo di un passato di cui vergognarsi". La portavoce nazionale delle sardine difende l'attacco alla statua di Montanelli: "Non si imbratta un'opera d'arte, ma bisogna capire cosa rappresenta quella storia lì in questo momento". Elena Barlozzari e Alessandra Benignetti, Mercoledì 17/06/2020 su Il Giornale. "Protestare contro il razzismo nel 2020 è assurdo, soprattutto dopo tutto quello che è successo in questi anni a livello globale, evidentemente non abbiamo fatto i conti con la storia". Jasmine Cristallo, portavoce nazionale delle sardine è tra le prime ad arrivare a Villa Pamphili per dare man forte ad Aboubakar Soumahoro, sindacalista italo-ivoriano e paladino dei diritti dei braccianti stranieri. L’uomo che è riuscito a strappare un incontro con il premier Giuseppe Conte, incatenandosi ad una panchina di Villa Pamphili, a pochi passi dalla location della kermesse degli Stati Generali dell’Economia. "Ci sentiamo soffocare", grida Soumahoro con le catene ai polsi mentre denuncia le condizioni dei suoi connazionali sfruttati. Una protesta che va in scena mentre in tutto il mondo le città sono infiammate dalle rivolte per i diritti dei neri, scoppiate dopo l’omicidio di George Floyd a Minneapolis. Una situazione esplosiva, che a Milano è sfociata nell’assalto alla statua dedicata ad Indro Montanelli nei giardini di via Palestro. Il monumento al giornalista e scrittore italiano, posizionato dove nel 1977 un commando delle Brigate Rosse gli sparò alle gambe, è stato preso di mira con vernice rossa e bombolette spray dal collettivo studentesco Lume, Laboratorio universitario metropolitano. Un gesto infame che ha scatenato fortissime polemiche. "Sicuramente un'opera d’arte non dovrebbe essere imbrattata", commenta la Cristallo. "Ma – aggiunge subito dopo - bisogna anche capire simbolicamente cosa rappresenta quella storia lì in questo momento". Si riferisce al matrimonio di Montanelli con Destà, ragazzina etritrea comprata e presa in sposa durante gli anni passati da volontario in Africa. "Rivendicare l’acquisto di una bambina di 12 anni in tempi che non sono poi così distanti da noi non è eticamente concepibile", continua l'attivista. "Anche allora – prosegue – il madamato era moralmente additato e discutibile". "Dimenticare quella parte della storia e farla passare come un qualcosa che deve essere contestualizzato io la trovo una cosa assurda", attacca la portavoce delle sardine che parla di "un etnocentrismo spaventoso, di un razzismo e di un colonialismo spicciolo". È una parte di storia che, non ha dubbi, "gli italiani dovrebbero approfondire" e alla quale dovrebbero guardare "con un po’ di vergogna". Vergogna, spiega Cristallo, "per quello che siamo riusciti a fare in quei luoghi, gli stessi luoghi che si trovano nelle condizioni in cui si trovano anche per colpa nostra, i primi ad usare i gas siamo stati noi". "L’Italia ha gravissime responsabilità rispetto alle campagne coloniali", chiarisce. Tornando all’attualità, secondo la portavoce del movimento, "quello che sta accadendo nelle piazze è il sintomo di qualcosa con cui non abbiamo mai fatto i conti veramente". "La situazione dei braccianti, ad esempio, è indecorosa – denuncia - siamo una repubblica basata sul lavoro, non possiamo accettare che il lavoro sia così sfruttato e che le condizioni di alcuni lavoratori rasentino la schiavitù". La battaglia per la regolarizzazione di tutti i migranti arrivati nel nostro Paese e l’inversione di rotta delle politiche migratorie "è una battaglia di civiltà", afferma, convinta che il governo Conte non abbastanza fatto abbastanza per garantire l’inclusione degli "invisibili". "La sanatoria della Bellanova? Non è sufficiente, lo dicono i fatti", continua la portavoce delle sardine. L’esecutivo, secondo lei, ha agito con un atteggiamento "utilitaristico". "È l’inizio di un qualcosa ma una reale volontà di andare a fondo non c’è ancora", conclude, invocando l'abolizione dei decreti sicurezza.

Dagospia il 16 giugno 2020. Dall’account facebook di Christian Raimo. Stasera sono stato per un'oretta e mezza ospite a Quarta Repubblica, la trasmissione di Nicola Porro su Rete4, e lo spettacolo è quello che sappiamo, tutto un teatrino logoro, cameratesco, moscissimo, da viagra scaduto, orrificamente mediocre, sul fatto che in Italia c'è la dittatura del politicamente corretto, che non si può dire negro con un po' di gusto, c'è Edward Luttwak che dice in America che occorre anche stare attenti alle violenze dei neri contro la polizia, c'è Marco Gervasoni che insulta il sé stesso storico difendendo l'orgoglio suprematista italico, c'è Daniele Capezzone che dice l'unico razzismo italiano è l'autorazzismo, una trasmissione intera in cui a parlare di razzismo siamo solo bianchi, di cui più della metà suprematisti e contenti di esserlo, due donne messe lì in quotina rosa davvero inadeguate a un'argomentazione minimamente articolata, sedicenti attiviste contro la violenza contro le donne, che la cosa più interessante che hanno detto è che è brutto sporcare. Non si tratta solo di una trasmissione di destra, non si tratta nemmeno solo di una trasmissione ostentatamente fascistoide, si tratta di un danno. Un danno. È il giornalismo fatto senza fonti, la storia raccontata mescolando sparate a caso, è il grado zero del discorso, è la violenza al pensiero. È solo un danno. Non c'è un contraltare a questa roba, non c'è un antitodo; si può solo pensare la mattina dopo di ridurlo il danno, e l'unico luogo rimasto che ha la stessa capacità di educazione di massa è la scuola, l'unica cosa che si può fare è continuare a studiare, cercare di insegnare l'analisi del testo, la capacità di padroneggiare i fenomeni storici, ispirare il pensiero critico, far leggere le femministe, i pensatori postcolonialisti, insegnare a distinguere le forme di violenza simbolica e reale. A un certo punto me ne sono andato, me ne sono andato da Porro a Capezzone, dalle donne attiviste succubi del maschilismo più vieto, dai ghigni di Luttwak, me ne sono andato quando si era arrivati a dire che c'è stupro e stupro, e va valutato lo stupratore nel suo complesso. Lo stupro va valutato, sporcare le statue è il vero reato. Ne avevo abbastanza. La morale di un'ora e mezza di trasmissione è stato un inno al suprematismo italiano - d'importazione o autoctono - e un grande omaggio corale alla cultura dello stupro. La mia sedia vuota è rimasta lì, come forma della vergogna.

Da liberoquotidiano.it il 16 giugno 2020. Nervi tesissimi a Quarta Repubblica: lo scrittore di sinistra Christian Raimo, prima di abbandonare il collegamento, ha avuto un lungo e violento confronto con gli altri ospiti di Nicola Porro su Indro Montanelli, razzismo e rivolte negli Stati Uniti. Uno dei vertici del "confronto" lo si tocca quando Raimo spiega: "Montanelli  è stato uno stupratore reo confesso, pedofilo dichiarato ed un assassino. Per parlare dei diritti dei neri possono venire dei neri a parlarne?". Oltre alla statua del fondatore del Giornale, a Raimo non va giù che Porro abbia invitato "sei bianchi" per parlare del tema: "In Italia c'è un lungo problema razziale certo, perché abbiamo un passato colonialista che non abbiamo mai affrontato e nella televisione italiana non ci sono persone nere". Frasi a cui ribattono gli altri interlocutori. "Abbiamo assistito a questo sfregio e vilipendio di un cadavere. Stai offendendo un uomo che non può risponderti. Ma che uomo sei?", lo "saluta" Daniele Capezzone, che prima ancora  accusava: "Credo che ci sia a sinistra un auto-razzismo contro gli italiani, nelle case degli italiani le persone più care sono affidati alle persone straniere, la vostra emergenza non esiste!". Sprezzante risposta di Raimo: "Io l'auto-razzismo lo capirei solo se fosse Capezzone, fa parte di una visione suprematista". Com'è democratico lei.

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 16 giugno 2020. Tanto per cominciare devo dire che i giornalisti si dividono in due categorie: quelli che lavorano o hanno lavorato al Corriere della sera e quelli che ci vorrebbero lavorare. Ebbene Massimo Fini appartiene alla seconda schiera ed è ovvio che aspiri a far parte della prima. Non me la sento di deplorarlo per questo. Attualmente divampa la polemica sull'imbrattamento della statua eretta in memoria di Indro nei giardini di via Palestro a Milano. C'è chi è indignato per l'atto vandalico e chi ricorrendo ad argomenti ideologici (fragili) lo giustifica, o almeno non lo ritiene grave, perché il grande scrittore da giovane ufficiale spedito in Africa sposò una ragazzina locale, meritandosi così l'accusa di essere uno stupratore razzista. È solo un pretesto ignobile perché nel Continente nero, all'epoca, le fanciulle si vendevano e si compravano dai genitori a fini matrimoniali. Un costume criticabile fin che volete ma accettato e difeso dagli indigeni ancora oggi. Quindi non vedo perché a distanza di quasi un secolo si debba processare e castigare Montanelli per aver fatto ciò che le abitudini del luogo consentivano e incoraggiavano. Chiarito il punto, mi sembra normale che molti colleghi desiderino essere considerati eredi della miglior penna, e ancora insuperabile, del '900. Non appena un cronista esce dal gruppo selvaggio degli sconosciuti al pubblico, subito pensa di essere la fotocopia dell'immenso Indro. Che tra costoro ci sia anche Massimo non mi sorprende, dato che indubbiamente ha delle capacità notevoli, però gli manca un metro per giungere all'altezza del maestro. Del quale io non mi sono mai sognato di essere l'erede. Sarò un cane sciolto e forse portato a mordere, tuttavia non ho la presunzione sufficiente per mettermi alla pari col numero uno in assoluto. Semplicemente sono stato il suo successore alla guida del Giornale nel 1994, proveniente dall'Indipendente. Confesso che il compito di sostituire Montanelli mi angosciava e temevo di fallire. Poi tuttavia, vinta la paura, mi tuffai nel lavoro e mi resi conto di potercela fare. Scrissi che il Giornale sarebbe riuscito a essere importante anche con un direttore modesto. Così fu. Avevo preso sotto le mie cure il quotidiano quando vendeva 115 mila copie (gennaio 1994) e dodici mesi dopo lo portai a oltre 200 mila per arrivare in autunno a 256 mila copie. Nella scalata fui assistito da Sanculo, ma ci misi anche del mio per non far rimpiangere l'illustre fondatore. Tutto questo per dire che comunque non mi sento un fenomeno come Indro, semmai un suo indomito avversario nel campo della conduzione di un quotidiano. 

Milano, ora anche le femministe se la prendono con Montanelli. Protesta delle femministe in pieno centro a Milano: il bersaglio è ancora una volta Indro Montanelli. Ma nel polverone finisce persino Sala. Francesco Boezi, Martedì 16/06/2020 su Il Giornale. Montanelli è stato attaccato di nuovo: mentre scriviamo almeno una sigla femminista sta manifestando nel centro di Milano, in pieno Corso ed in prossimità della Scala, con lo scopo di affermare che il colonialismo è equiparabile allo stupro. L'obiettivo del sit-in, anche in questo caso, non sembra essere tanto il "colonialismo" in sé, quanto la figura di Indro Montanelli. Il fondatore de IlGiornale sembra essere diventato il bersaglio preferito dei benpensanti, del pensiero progressista e del radical-chicchismo. Le femministe avevano già attaccato il giornalista un paio d'anni fa, oltraggiando la stauta che lo ricorda presso i Giardini di Porta Venezia. Gli episodi di questi giorni, insomma, sembrano far parte di un fenomeno ciclico. Qualche vicenda, qualche atto di protesta che riguardi da vicino la figura di Indro Montanelli e che provenga dall'ideologia femminista, viene raccontato più o meno una volta ogni anno. La cadenza di alcune rimostranze è stabile. La sigla principale che è scesa per le strade pochi minuti fa, stando a quanto ripercorso dall'Agi, è quella di "Non una di meno". Ma è possibile che la piazza sia stata interessata pure da un po' di spontaneismo. Anche in questa circostanza le proteste sono state contraddistinte dalla creatività: "Colonialismo è stupro" è appunto il messaggio scelto dalle militanti - quello scritto nero su bianco - . Le femministe hanno deciso d'imprimere questo testo in via diretta sul manto stradale, all'altezza di via Case Rotte. L'accusa, ancora una volta, riguarda la storia del "madamato". Più che altro sembra che Indro Montanelli sia suo malgrado divenuto un simbolo di tutto quello che il giacobinismo di ritorno intende contestare nel corso di questa sua riemersione storica. Sappiamo del resto come, attraverso quali modalità, il dibattito politico-ideologico di questi giorni abbia coinvolto di nuovo l'autore de La Storia d'Italia. Negli Stati Uniti qualcosa di simile, una rivalutazione in chiave ideologica, è stata subita da personaggi come Cristoforo Colombo. L'Occidente, in generale, deve fare i conti con questi accadimenti legati alle statue e ai personaggi che le opere rappresentano. Alcune statue, per via di questi moti di piazza, sono quasi state elevate al ruolo di sintesi, di riassunto, di un modo di concepire il mondo che per gli ultra-progressisti va cancellato senza sconti ed una volta per tutte. In Italia, il mirino è stato puntato soprattutto su Indro Montanelli, che non ha bisogno di troppe difese. Nel polverone sollevato da "Non una di meno" è finito persino il sindaco Giuseppe Sala, che è del Partito Democratico. Il primo cittadino milanese ha rilasciato dichiarazioni che non sono state digerite dalle femministe, che infatti oggi esibiscono considerazioni come questa: "Stupro, pedofilia e colonialismo non sono un errore". "Rifiutiamo ogni forma di banalizzazione", aggiungono le femministe. Le loro proteste no: quelle le femministe non le considerano banali.

Paolo Colonnello per ''la Stampa'' il 16 giugno 2020. Si fa chiamare Tobia, nome di fantasia, 25 anni, studente di scienze internazionali. Pantaloncini corti e maglietta, il giovane, educatissimo, è un po' una via di mezzo tra un nerd e Zerocalcare, il creativo che ti sorprende per la carica alternativa. Potrebbe essere uno degli imbrattatori della statua di Indro Montanelli a Milano. «Ma non lo sono». Non lo è. «Però li rappresento e posso spiegare perché abbiamo gettato la vernice rossa sulla statua dei giardini di via Palestro». Spieghiamo. L'incontro avviene alle porte di Chinatown, vicino a un antico edificio daziario ora ribattezzato «Camera del NON lavoro», riferimento dei ragazzi della rete studenti di Milano nonché del centro sociale Lume, niente a che vedere con il bar dei vecchietti dello scrittore Marco Malvaldi. «È l'acronimo di Laboratorio Universitario metropolitano. Abbiamo occupato un ex deposito dello Zoo che era rifugio di tossici e spacciatori. Ora è un posto dove si fa musica». Vero. A un passo dai giardini di Montanelli, appunto. Sabato sera vi siete ritrovati e avete detto: "Hai visto quelli di Bristol con le statue? Facciamolo anche noi". È così? «Non proprio. Certo un po' ci siamo ispirati a loro, ma soprattutto ci sentivamo in dovere di sanzionare e rendere pubblico il fatto che nel centro di Milano c'è una statua dedicata a un razzista. È stata una decisione collettiva». Sanzionare? Ma cosa siete, giudici talebani? «Ma no, intendevamo aprire un forte dibattito nell'opinione pubblica sulla presenza di simboli apparentemente innocui che invece hanno una storia pesante alle spalle, toponomastica inclusa». E Indro Montanelli secondo voi è tra questi? «Si. Vorrei dire che sebbene la schiavitù sia stata abolita in Italia nell'800, i "bianchi", e tra questi Montanelli, hanno continuato a considerare le popolazioni di colore "inferiori", in particolare quelle conquistate per le colonie». Non vi pare che il giornalista sia stato soprattutto figlio del suo tempo? «Avendo la possibilità di studiare sui libri di storia, abbiamo bene in mente cosa ha fatto l'Italia nelle colonie. Lui ha abusato di una ragazzina di 12 anni. Questi sono i fatti. Lo raccontava lui stesso». E dunque volete abbattere la sua statua? «Per noi può anche rimanere dov' è, ci interessa di più porre l'accento su quella mentalità novecentesca che faceva sentire l'uomo bianco di una razza superiore. Che sia un monito. Se poi qualcuno la vorrà rimuovere per lo meno si apra il dibattito». Cominciare a discutere a colpi di vernice, non è il massimo. E poi si rischia di passare per iconoclasti, tipico degli intolleranti. «Il paragone con i gruppi terroristici andati a distruggere statue nei siti archeologici è assolutamente sbagliato. Abbiamo utilizzato vernice lavabile e il nostro obiettivo era essere mediatici, non iconoclasti. Per questo ci siamo anche ripresi in video. Vogliamo porre il tema della dedica di uno dei parchi più amati dai milanesi a un razzista del ' 900 come Montanelli». Il sindaco Sala non era molto contento e con lui anche altri esponenti di sinistra. «Tutelano Montanelli perché, ancor più di lui, gli sta a cuore tutelare l'immagine del sistema capitalistico e neoliberistico che lui simboleggiava e loro sostengono all'unisono». Ma non vi sembra di essere un po' in ritardo nella critica al Novecento? «Purtroppo non ci sembra sia una mentalità così superata. L'Italia rimane parzialmente un Paese razzista non solo tra le persone più anziane ma anche tra molti giovani. Ci sono ancora molti che si comportano come Montanelli con la sua sposa bambina». Non credete sia ingiusto inchiodare la figura di Montanelli a un fatto compiuto in gioventù 100 anni fa? Fu un giornalista dalla schiena dritta... «Porre l'accento sui comportamenti di Montanelli in gioventù vuol dire portare all'attenzione dell'opinione pubblica il fatto che certe cose, come il razzismo, sono ancora molto attuali». E allora perché farlo da incappucciati? «Abbiamo voluto tutelare gli autori materiali di un gesto politico» Politica o vandalismo? «La magistratura ha aperto un'inchiesta ma per noi non è stato vandalismo. Non abbiamo danneggiato la statua. La politica è fatta anche di gesti forti e provocazioni».

Andrea Galli e Maurizio Giannattasio per corriere.it il 14 giugno 2020. Almeno cinque barattoli di vernice di colore rosso. Vernice utilizzata per cospargere la statua di Indro Montanelli e farla colare sulla testa, sul busto, sugli arti come sangue. E due bombolette di spray di colore nero. Spray utilizzato per scrivere alla base del monumento, nei giardini tra le vie Palestro e Manin intitolati proprio al giornalista e scrittore, due parole che, nei piani degli esecutori, sintetizzano e spiegano l’agguato: «Razzista stupratore». Il vandalismo è avvenuto nel pomeriggio di ieri. Del caso si occupa la Digos. Un blitz che potrebbe avere avuto numerosi testimoni ed esser stato ripreso dalle telecamere. Ci sono sì impianti, nelle strade adiacenti il parco e all’interno della stessa area verde, ma è anche vero che esistono percorsi di avvicinamento e allontanamento verso la statua «scoperti». L’indagine potrebbe non essere fulminea. Come invece sembra essere stata l’azione. Quantomeno, un’azione studiata, preparata. C’erano più persone, e magari altri complici a far da palo lungo il perimetro dei giardini e in prossimità dei cancelli. A ieri sera, nessuno ha rivendicato il blitz, eseguito dopo intensi giorni di dibattito in seguito alla richiesta dei Sentinelli, che sostengono di battersi per i diritti, di rimuovere il monumento in relazione al passato colonialista di Montanelli, quando in Abissinia (era un giovane sottotenente) sposò e convisse con una minorenne. Nei giorni scorsi i Sentinelli avevano scritto una lettera al sindaco Beppe Sala e al consiglio comunale tutto. Più che una lettera, era stato un appello. Ancor di più, un’esplicita richiesta da soddisfare nel breve volgere. Ovvero rimuovere la statua ed erigerne altre dedicate a personalità più «degne». E come una sequenza di voci contrarie s’era subito messa in moto, così le reazioni nell’apprendere il vandalismo sono state immediate. Fra i primi a intervenire, il governatore della Regione Lombardia, Attilio Fontana: «Proprio non ci siamo. L’odio, la cattiveria e l’astio sono sempre più dominanti sul confronto civile e democratico. C’è da preoccuparsi seriamente». Roberto Cenati guida l’associazione milanese dell’Anpi. E rimane fermo sulla posizione già espressa, un invito ad analizzare l’intera vita e la professione del giornalista: «Nessuno vuole difendere quel passato. Ma ricordo che il monumento a Montanelli è stato costruito a pochi passi da dove fu gambizzato dai brigatisti. Ha un significato particolare, questa statua. Quei terroristi avevano voluto colpire la libertà di stampa. Sono preoccupato per questa deriva iconoclasta che vuole emendare la storia». Non è la prima volta — e a registrare i fatti il timore è che non sia l’ultima — che il giornalista diventa un bersaglio. Scelto e colpito. Un simbolo eletto a rappresentazione del male e meritevole di essere cancellato nella sua memoria. Le mosse dei Sentinelli avevano seguito le «diramazioni» dell’assassinio negli Stati Uniti di George Floyd. Era stata per esempio abbattuta la statua di Edward Colston, un mercante di schiavi, e allo stesso tempo aveva subìto oltraggi il monumento a Winston Churchill. Attaccare ovunque, attaccare in ordine sparso. Qui in Italia, per appunto, ecco Indro Montanelli, inviato, scrittore, storico, narratore del mondo. Difficile che nessuno abbia visto il blitz: era sabato, e di sabato i giardini sono affollati. Sulla statua i vandali hanno dovuto arrampicarsi e sostare, per versare la vernice; dopodiché, plausibilmente, hanno dovuto scappare. Non sono passati inosservati.

"Razzista, stupratore", vandalizzata la statua di Montanelli. Dopo le polemiche degli ultimi giorni ecco la concretizzazione del forte astio emerso nei confronti del giornalista: statua imbrattata con almeno quattro barattoli di vernice e scritta ingiuriosa sul basamento della stessa. Federico Garau, Domenica 14/06/2020 su Il Giornale. Che la statua di Indro Montanelli collocata nei giardini di via Palestro (Milano) a lui dedicati fosse stata al centro delle polemiche in questi giorni è cosa oramai risaputa, ma quanto accaduto nelle ultime ore va ben oltre delle semplici rimostranze. Per la seconda volta nella sua storia, iniziata con l'inaugurazione ufficiale il 22 maggio del 2006, è stata vandalizzata, questa volta da ignoti, che l'hanno imbrattata utilizzando una vernice rossa. Il lavoro è stato poi completato con l'aggiunta della scritta "Razzista stupratore", che campeggia in nero sul basamento poco sotto l'incisione del nome del giornalista originario di Fucecchio. Il primo episodio del genere risale all'8 marzo dello scorso anno quando, in occasione dello svolgimento di una manifestazione femminista nel giorno della Festa della donna, il gruppo "Non una di meno" imbrattò la statua di Montanelli con una vernice rosa. Più recenti, invece, le proteste dei "laici ed antifascisti" Sentinelli, che ne avevano chiesto la rimozione in un post pubblicato su Facebook, spingendo anche per un cambio di intitolazione dei giardini di via Palestro. "A Milano ci sono un parco e una statua dedicati a Indro Montanelli, che fino alla fine dei suoi giorni ha rivendicato con orgoglio il fatto di aver comprato e sposato una bambina eritrea di dodici anni perché gli facesse da schiava sessuale, durante l'aggressione del regime fascista all'Etiopia", avevano attaccato gli attivisti. "Noi riteniamo che sia ora di dire basta a questa offesa alla città e ai suoi valori democratici e antirazzisti e richiamiamo l'intero consiglio a valutare l'ipotesi di rimozione della statua, per intitolare i Giardini Pubblici a qualcuno che sia più degno di rappresentare la storia e la memoria della nostra città Medaglia d'Oro della Resistenza". Proposte che, specie sull'onda delle polemiche sorte dopo la morte di George Floyd, richiamata anche dagli stessi Sentinelli, avevano trovato l'immediato consenso di alcuni consiglieri comunali del Pd. "Le motivazioni della richiesta di rimuovere la statua le riconosco come valide perché quella è stata una brutta pagina della nostra storia", aveva detto Diana De Marchi. "Vanno indagate le motivazioni che hanno portato all'intitolazione e valutare se siano ancora valide oggi. Da parte mia, farò in modo che se ne discuta". Almeno quattro i barattoli di vernice svuotati sulla statua di Montanelli e lasciati sul posto dai vandali unitamente ad alcuni sacchetti di carta. Preoccupazione per la vicenda e per il crescente clima di tensione è stata espressa in serata dal presidente della regione Attilio Fontana. "Proprio non ci siamo. L'odio, la cattiveria e l'astio sono sempre più dominanti sul confronto civile e democratico. C'è da preoccuparsi seriamente", ha commentato il governatore, come riportato da Agi.

Luigi Mascheroni per il Giornale il 16 giugno 2020. Il caso della statua di Indro Montanelli - accusato, processato e condannato mediaticamente per aver comprato durante l'invasione italiana dell'Etiopia, nel '35, una ragazzina eritrea di 12 anni, prendendola in sposa - insegna molte cose. Una peggiore dell'altra. Sul monumento e sulla vicenda africana di fatto c'è stato un acquiescente silenzio per diversi anni. La statua è lì, nei Giardini di via Palestro a Milano, dal 2006; e nessuno, durante tutto il periodo in cui il giornalista fu issato a bandiera del miglior antiberlusconismo, ebbe da dire. Poi si verificò un primo imbrattamento da parte del movimento femminista «Non Una Di Meno» l'anno scorso, l'8 marzo, festa della donna. E ora, sull'onda del revisionismo mondiale di piazza, esploso dopo i recenti casi di razzismo negli Usa, in pochi giorni si è assistito a un'escalation: polemiche, insulti, vernice. Il prossimo passo? L'abbattimento? Ma non sono neppure i vandali il problema. Oggi usano i barattoli, domani i picconi, dopodomani andranno a prendere a casa i giornalisti non graditi. Sono identici ai loro compagni che gambizzavano negli anni Settanta. Sappiamo già tutto di loro. Il vero problema semmai, come sempre, sono i politici e gli intellettuali che anche di fronte a un atto che non si sa se più stupido o violento cercano maldestramente i distinguo, confondono viscidamente un singolo gesto con un'intera vita, sovrappongono in maniera disonesta l'etica di oggi alle usanze di ieri. Sono quelli che per salvare la faccia si dicono contro l'abbattimento, ma poi lisciano il pelo agli «anti» (anti-montanelli, anti-razzisti, anti-colonialisti, anti-sovranisti, anti-fascisti, che ci sta sempre bene, gli anti tutto, in un mischione senza logica e senza senso) perché fa sempre comodo stare nel mezzo. Sono quelli, come Gad Lerner, che stigmatizzano il boicottaggio, ma senza mancare di sottolineare la «venerazione sproporzionata» al personaggio. Sono quelli che condannano l'azione violenta degli imbrattatori, «ma»... Che dicono «Non tocchiamo la statua», «però»...E va bene quando a giocare sporco coi distinguo è il sindaco di Milano Beppe Sala, il quale deve fare i conti con l'elettorato: quindi meglio dare un colpo al cerchio della libertà di memoria e uno alla botte del buonismo d'accatto: «La statua di Montanelli deve rimanere lì, ciò nondimeno...». Ma sorprende quando a parlare sono intellettuali, direttori di istituzioni culturali, critici... Basta scorrere i social: scrittori, scrittrici (soprattutto scrittrici), mondo dello spettacolo, giornalisti... C'è tutta la sinistra che fa finta di indignarsi (e nemmeno così tanto) per l'attacco alla statua, ricordando però che «Montanelli era fascista», «Scriveva anche male», «Non si capisce perché gli hanno fatto un monumento»... L'ultima tendenza è «Lasciamo pure le statue» - come quella del mercante di schiavi Edward Colston - ma con accanto quelle delle sue vittime. Lo ha proposto qualche giorno fa Michele Serra, riprendendo un'idea di Bansky. E così ora l'idea è di costruire di fronte alla statua di Montanelli una stele per Destà, «la ragazzina nera presa in leasing e atrocemente violata», come ha suggerito Marino Sinibaldi, storico conduttore della trasmissione Fahrenheit di Rai Radio 3. A noi, che siamo notoriamente più cattivi di Serra e di Sinibaldi, non verrebbe mai in mente di proporre la costruzione di una statua in memoria ai minorenni abusati davanti alle scuole intitolate a Pier Paolo Pasolini o accanto al monumento eretto a Ostia, nel luogo in cui fu ucciso, così come la statua di Montanelli sorge nel luogo in cui fu ferito dai brigatisti rossi. Noi, che vogliamo distinguere fra l'uomo (con le sue colpe, i suoi vizi e persino i suoi crimini) e l'opera (che fa sempre a sé), semplicemente abbiamo chiamato nostro figlio Pier Paolo. Per dire...Per dire che l'unico vero distinguo è tra lo scrittore, le cui pagine possono ancora insegnarci molto, e l'uomo, che quasi mai è un santo, anzi. E infatti, la statua nei giardini di via Palestro raffigura il Montanelli giornalista con la macchina per scrivere, non il Montanelli comandante di compagnia del XX Battaglione Eritreo. Condanniamone gli atti, ma l'opera di Pasolini merita scuole, statue, mostre... E così Montanelli. Il punto resta uno solo. Non intestardirsi a cancellare la Storia, demolire i simboli, giudicare il Passato secondo i valori dell'oggi. Ma battersi per impedire che simili errori-orrori (le violenze colonialiste, la tratta degli schiavi, le spose bambine, gli abusi sui ragazzi di vita) possano ripetersi. Battaglie che si combattono studiando sui libri, non brandendo picconi. E per il resto, sarebbe meglio a questo punto non pulire nemmeno la statua di Montanelli. Ma lasciarla così, imbrattata e ferita, coi suoi «ma» e i «però», a perpetua memoria della stupidità umana.

Da ilpost.it il 15 giugno 2020. (...) Queste le parole di Indro Montanelli a proposito della sua esperienza coloniale: “Aveva dodici anni… a dodici anni quelle lì [le africane] erano già donne. L’avevo comprata dal padre a Saganeiti assieme a un cavallo e a un fucile, tutto a 500 lire. Era un animaletto docile, io gli misi su un tucul (semplice edificio a pianta circolare con tetto conico solitamente di argilla e paglia) con dei polli. E poi ogni quindici giorni mi raggiungeva dovunque fossi assieme alle mogli degli altri ascari…arrivava anche questa mia moglie, con la cesta in testa, che mi portava la biancheria pulita” (intervista rilasciata a Enzo Biagi per la Rai nel 1982). Montanelli raccontò per la prima volta dei suoi rapporti con la ragazzina, di cui non si conosce l’identità, nel 1972, durante il programma televisivo di Gianni Bisiach L’ora della verità. All’epoca dei fatti, a metà degli anni Trenta, Montanelli aveva 26-27 anni. Bisiach: «Dicono anche che lei aveva una moglie, diciamo, indigena molto bella, che era la più bella di tutte quelle che avevano gli ufficiali d’allora».

Montanelli: «Sì, pare che avessi scelto bene».

Bisiach: «Era molto invidiato per questo».

Montanelli: «Era una bellissima ragazza bilena [i bilen sono un gruppo etnico eritreo, ndr] di 12 anni, scusatemi, ma in Africa è un’altra cosa. Così, l’avevo regolarmente sposata, nel senso che l’avevo comprata dal padre. Mi ha accompagnato insieme alle mogli dei miei ascari».

Durante la puntata di L’ora della verità del 1972 Montanelli ricevette alcune domande critiche incalzanti dalla giornalista femminista Elvira Banotti (eritrea per parte di madre):

Banotti: «Ha appena detto tranquillamente di aver avuto una sposa, diciamo, di 12 anni, e a 25 anni non si è peritato affatto di violentare una ragazza di 12 anni dicendo “Ma in Africa queste cose si fanno”. Io vorrei chieder a lui come intende normalmente i suoi rapporti con le donne date queste due affermazioni».

Montanelli: «No signora, guardi, sulla violenza… nessuna violenza perché le ragazze in Abissinia si sposano a 12 anni».

Banotti: «Questo lo dice lei».

Montanelli: «Allora era l’uso».

Banotti: «Sul piano di consapevolezza dell’uomo, insomma, il rapporto con una bambina di 12 anni è un rapporto con una bambina di 12 anni. Se lo facesse in Europa riterrebbe di violentare una bambina, vero?»

Montanelli: «Sì, in Europa sì, ma…»

Banotti: «Appunto, quale differenza crede che esista dal punto di vista biologico? O psicologico anche?»

Montanelli: «No guardi, lì si sposano a 12 anni, non è questione…»

Banotti: «Ma non è il matrimonio che lei intende, a 12 anni in Africa. Guardi, io ho vissuto in Africa. Il vostro era veramente il rapporto violento del colonialista che veniva lì e si impossessava della ragazza di 12 anni, senza assolutamente, glielo garantisco, tener conto di questo tipo di rapporto sul piano umano. Eravate i vincitori, cioè i militari che hanno fatto le stesse cose ovunque sono stati i vincitori. (…) La storia è piena di queste situazioni».

Claudia Guasco per “il Messaggero” il 15 giugno 2020. Un ragazzo percorre in bicicletta via Manin, la stessa strada in cui la mattina del 2 giugno 1977 Indro Montanelli è stato gambizzato dalle Brigate Rosse. Poi gira a sinistra ed entra nei giardini di via Palestro, parco che dal 2002 è intitolato al giornalista, e si avvicina a quella figura smilza scolpita nel bronzo china a battere sui tasti della sua Lettera 22. È l'inizio del video di quaranta secondi girato da RSM e LuMe, collettivi studenteschi milanesi, con il quale hanno rivendicato l'imbrattamento della statua di Indro Montanelli. Quattro latte di vernice rossa colate sulla testa, mentre con uno spray nero sono state impresse le scritte «Razzista, stupratore». Quando combatteva in Africa durante il colonialismo italiano, Montanelli fece di una bambina eritrea la sua concubina e oggi - sull'onda delle rivolte anti razziste - per i collettivi quella pittura ne suggella la macchia. Erano passate da poco le otto di sera di sabato quando una parte del gruppo è entrata nel parco, il blitz è durato pochi minuti. Oggi il pm Alberto Nobili, responsabile dell'antiterrorismo alla Procura di Milano, riceverà il risultato delle prime indagini della Digos e aprirà un fascicolo. E non sarà contro ignoti, dato che i responsabili del gesto vandalico si sono auto denunciati sui social: sono gli studenti delle scuole superiori di RSM (Rete Studenti Milano) e gli universitari di LuMe (Laboratorio universitario Metropolitano). Divisi in due drappelli, uno all'esterno e uno all'interno, gli studenti hanno agito senza timore di essere intercettati, quando c'era ancora luce in uno dei parchi più frequentati del centro di Milano. Il tutto con le note in sottofondo di The revolution will not be televised, brano di Gill Scott-Heron che fa da colonna sonora alle proteste negli Stati Uniti dopo la morte di George Floyd. «Chiediamo, ad alta voce e con convinzione, l'abbattimento della statua», hanno scritto in una nota i rappresentanti delle due sigle vicine al mondo antagonista milanese, spiegando che «figure come quella di Indro Montanelli sono dannose per l'immaginario di tutti» e «in una città come Milano, medaglia d'oro alla Resistenza, la statua di Indro Montanelli è una contraddizione che non possiamo più accettare», dato che «un colonialista che ha fatto dello schiavismo una parte importante della sua attività politica non può e non deve essere celebrato in pubblica piazza». Non c'entrano nulla quindi i Sentinelli, l'associazione che per prima ha chiesto la rimozione del monumento con una lettera appello al sindaco Giuseppe Sala. Una proposta, hanno ribadito ieri, «fatta in settimana alla luce del sole proprio per permettere una discussione pubblica, che non contemplava altro» e che «rifaremmo anche ora perché non c'è nessuna violenza nell'esprimere il proprio pensiero in modo trasparente». Resta comunque della sua idea il primo cittadino. «Io penso che la statua debba rimanere lì, ciò nondimeno sono disponibile a qualunque confronto sul tema del razzismo e sul tema Montanelli. Quando volete», afferma Sala. «Noi quando giudichiamo le nostre vite possiamo dire la nostra è senza macchie, senza cose che non rifarei? Ho rivisto più volte quel video in cui Montanelli confessa quello che è successo in Africa e personalmente non posso che confessare il mio disorientamento rispetto alla leggerezza con cui parla di un comportamento del genere. Ma le vite vanno giudicate nella loro complessità». Non è la prima volta che la statua realizzata dallo sculture Vito Tongiani viene danneggiata: l'8 marzo 2019, durante la manifestazione per la Giornata internazionale della donna, alcune attiviste la coprirono di vernice rosa. Questa volta cambia il colore, ma le critiche sono altrettanto accese: arrivano dal Pd e dall'Anpi e unanime è la condanna espressa dal centrodestra con i giovani di Fratelli d'Italia al mattino e della Lega nel pomeriggio in presidio davanti al monumento. Chi l'ha coperto di pittura «non è uno studente, ma un ignorante, non è un rivoluzionario ma un co...one», scrive Matteo Salvini. Per Giorgia Meloni è opera di «analfabeti radical chic con la scusa della lotta al razzismo», per Antonio Tajani «un gesto vile». Alcuni cittadini e associazioni hanno provato a pulirla, poi il Comune ha transennato l'area e ha inviato una ditta specializzata nel trattamento del bronzo. Oggi la vernice verrà rimossa, per le polemiche ci vorrà parecchio tempo in più.

Franca Giansoldati per "il Messaggero" il 15 giugno 2020. Ci ha pensato l’Osservatore Romano a ripulire l’immagine di Indro Montanelli, sporcata recentemente dalla vernice rosa del movimento Non Una Di Meno e dalle accuse di essere stato uno stupratore e un pedofilo. Il giornale del Papa dedica al giornalista scomparso nel 2001, un articolo agiografico in cui vengono descritti i suoi rapporti con i santi, in particolare San Giovanni XXIII, il beato Marella e il cardinale Schuster. Scrive l’Osservatore: «Davvero di testimoni così non ne avranno visti molti alle cause dei santi». Chissà cosa diranno davvero alla Congregazione per le Cause dei Santi, il dicastero tirato in ballo come metro di paragone a difesa di Montanelli. L'articolo non mancherà di sollevare perplessità e rinfocolare dibattiti visto che non sono passati nemmeno tre mesi dalle plateali proteste del movimento femminile “Non una di meno”. Proteste culminate a Milano con la statua di Indro Montanelli imbrattata di vernice rosa a seguito dell’ennesima rivelazione dei comportamenti del giovane Indro, accusato di maschilismo, pedofilia e stupro per avere comprato, durante il suo soggiorno africano come volontario nella guerra che Mussolini iniziò in Eritrea, una ragazzina di soli 12 anni per farne una specie di schiava. La acquistò per 500 lire. Si chiamava Destà e non era una vera consorte perché il contratto di madamato prevedeva una scadenza. Montanelli la descriveva come un «animaletto docile». Un rapporto imposto e non di certo paritario. La piccola Destà, poco più che una bambina aveva la funzione di serva, cameriera e altro. Non è la prima volta che la statua dedicata a Montanelli è stata presa di mira dalle femministe. I difensori di Montenelli hanno più volte ribadito in passato che con Destà non ci sarebbe stata violenza anche perchè la giovane era considerata dalla sua gente matura per il matrimonio. Inoltre, le “nozze” furono caldeggiate dal capo etiope come mezzo per dare autorità al comandante sulle milizie locali, che quelle “unioni” consideravano del tutto normali.

Fabrizio Boschi per “il Giornale” il 17 luglio 2020. E proprio ora che la polemica si era placata se ne esce uno che dice che la sposa bambina che Indro Alessandro Raffaello Schizògene Montanelli da Fucecchio ha raccontato per tutta la vita, era completamente inventata. A pochi giorni dal 19esimo anniversario dalla morte del giornalista toscano un certo Roberto Malpeli, italo-eritreo di 67 anni, che vive a Parma, si è fatto intervistare da Tpi.it, per ribaltare completamente la storia. Un po' fuori tempo massimo e dopo che questa vicenda è venuta fuori in tutte le salse, scatenando anche scontri cruenti, racconta che la storia di Destà, la sposa ragazzina, era completamente fasulla. Prima di tutto Segeneiti, 65 chilometri da Asmara, il villaggio eritreo dove si trovava di stanza il sottotenente Montanelli, dove avrebbe preso in sposa una ragazzina di dodici anni di nome Destà, nel 1935 era un paesotto di non più di duemila abitanti, dove si conoscevano tutti. «Esisteva una famiglia Destà, è vero, ma era la famiglia di mio nonno dice Malpeli che mostra i documenti anagrafici - che peraltro era anche il sacerdote cristiano della comunità, una delle figure di spicco a Segeneiti. Mia madre, Lettemicael Destà, è nata il 20 marzo del 1923. Se la Destà di cui parla Montanelli fosse veramente esistita, sarebbe stata sua coetanea. Non vi erano altre famiglie con lo stesso nome». Destà, che poteva essere sia un nome proprio che un cognome, si è sposata dopo la guerra, è venuta in Italia nel 1970 ed è morta pochi anni fa. «Ogni volta che Montanelli, in tv, raccontava quella storia, lei dava in escandescenze dice Malpeli -. Quella Destà non è mai esistita, non a Segeneiti, perlomeno. Sarebbe stata una sua compagna di giochi, avrebbe dovuto conoscerla per forza». Poi Montanelli raccontava che, dopo il suo rientro in Italia, Destà sposò un sottufficiale ascaro, tale Gheremedin. I due si stabilirono a Segeneiti e battezzarono il loro primogenito col nome di Indro, in onore del giornalista. Lo stesso Montanelli, passando per Segeneiti nel 1952, durante un viaggio in Eritrea, avrebbe fatto visita alla famiglia. «Non ci sono mai stati Indro a Segeneiti. Montanelli si è costruito un bel romanzo. Può anche darsi che abbia avuto una relazione con una giovane eritrea, in quegli anni. Ma di certo non con una ragazzina di nome Destà nata a Segeneiti». Malpeli appella Montanelli come un «colonialista bugiardo» se non altro per quell'espressione «bestiolina docile» utilizzata per descrivere Destà. «Mia madre rabbrividiva quando riascoltava quelle parole». È verosimile tutto ciò, in quanto Montanelli si divertiva ad inventarsi storie che nessuno avrebbe potuto smentire. Meno che questa. Di tutti i racconti il più bizzarro fu quello dell'intervista a Hitler. Una frottola ripetuta da Indro talmente tante volte, che finì per credervi lui stesso. Ma le balle di Montanelli non fecero mai di lui un bugiardo. Fu «solo un giornalista», com' egli si definiva. Il più grande, però.

Siete proprio sicuri che Montanelli sposò una 12enne in Eritrea? Spunta un testimone: “Qualcosa non torna, quel figlio mai visto”. Andrea Sceresini Pubblicato il 16 Luglio 2020 su TPI. Davvero Montanelli sposò una bambina in Eritrea? Spunta un testimone: “Qualcosa non torna”. “Ma quale matrimonio africano! Ma quale Destà! Volete sapere come sono andate le cose? Montanelli tutta quella storia se l’è semplicemente inventata”. Il nostro uomo si chiama Roberto Malpeli, è un italo-eritreo di 67 anni, vive a Parma ed è forse l’unica persona, in Italia, che sulla dibattutissima vicenda della sposa-bambina di Indro Montanelli è in grado di dire qualcosa di finalmente concreto. Non in virtù di particolari studi storici, ma per una semplice coincidenza biografica: le vicissitudini della piccola Destà – così come narrate dal giornalista toscano – si intreccerebbero in modo fin troppo stretto con quelle della sua famiglia.

Signor Malpeli, partiamo dal racconto di Montanelli. Nel 1935, quando era un giovane sottotenente dell’esercito italiano, egli sarebbe approdato nel villaggio eritreo di Segeneiti, a 65 chilometri da Asmara, dove avrebbe preso in sposa una ragazzina di dodici anni di nome Destà…

“Ecco, per prima cosa dobbiamo tener conto che Segeneiti, nel 1935, era un paesotto di non più di duemila abitanti, dove tutti conoscevano tutti. Esisteva una famiglia Destà, è vero, e guarda caso era la famiglia di mio nonno, che peraltro era anche il sacerdote cristiano della comunità, una delle figure di spicco a Segeneiti. Mia madre, Lettemicael Destà, è nata il 20 marzo del 1923. Se la Destà di cui parla Montanelli fosse veramente esistita, sarebbe stata precisamente sua coetanea…”.

Aspetti. Ma Destà, in Eritrea, è un nome proprio o un cognome?

“Può essere entrambe le cose. In Eritrea non esistono i cognomi come li intendiamo noi. I figli, accanto al proprio nome di battesimo, assumono quello del padre, una sorta di ‘patronimico’. Mio nonno di nome faceva Destà, e dunque la famiglia Destà di Segeneiti, negli anni Trenta, era composta da mia madre e dai suoi undici fratelli. Non vi erano altre famiglie con lo stesso nome”.

Ma Destà può essere anche un nome femminile?

“Sì, è un nome ambivalente. È usato prevalentemente in accezione maschile, ma può valere anche per le donne. In realtà è piuttosto raro in quella zona dell’Eritrea”.

A Segeneiti, quindi, poteva comunque esserci anche un’altra Destà, oltre a sua madre e alle sue zie…

“Guardi, mia madre si è sposata con mio padre dopo la guerra, è venuta in Italia nel 1970 ed è morta pochi anni fa. Ogni volta che Montanelli, in tv, raccontava quella storia, lei dava in escandescenza. Perché diceva che era falsa, semplicemente falsa. Quella Destà non è mai esistita, non a Segeneiti, perlomeno. Sarebbe stata una sua compagna di giochi, avrebbe dovuto conoscerla per forza. Ripeto: parliamo di un villaggio di poche famiglie, e mio nonno era il punto di riferimento religioso della comunità. Una vicenda del genere non sarebbe sfuggita né a mia madre né a lui”.

Sostiene Montanelli che la sua Destà era di religione musulmana…

“Altra cosa impossibile. Destà è un nome tipicamente cristiano: qualsiasi eritreo glielo potrà facilmente confermare”. 

Poi Montanelli racconta anche un altro fatto: dice che, dopo il suo rientro in Italia, Destà andò in sposa con un sottufficiale ascaro, tale Gheremedin. I due si stabilirono a Segeneiti e battezzarono il loro primogenito col nome di Indro, in onore del giornalista. Lo stesso Montanelli, passando per Segeneiti nel 1952, durante un viaggio in Eritrea, avrebbe fatto visita alla famiglia…

“Questa è la ciliegina sulla torta! Le assicuro che non ci sono mai stati Indro a Segeneiti. E questo, anche dopo la morte di mamma, me lo hanno confermato diversi miei famigliari che hanno vissuto laggiù per buona parte della propria vita. Ma si figuri: sarebbe stata la favola del villaggio! Immagini una situazione analoga in Italia: una donna, in un paesotto di quattro anime, ha una relazione con Cassius Clay e chiama il suo figlio primogenito Cassius Clay! Ne parlerebbero tutti, per generazioni e generazioni…”.

Insomma, lei che idea si è fatto di tutta questa vicenda?

“Credo che Montanelli si sia costruito attorno un bel romanzo. Può anche darsi che abbia avuto veramente una relazione con una giovane eritrea, in quegli anni. Ma di certo non con una ragazzina di nome Destà nata a Segeneiti. Questo è falso, punto”.

E le polemiche delle scorse settimane? Il dibattito sulla statua di Montanelli a Milano, sul colonialismo, sul maschilismo? Lei sta dicendo che tutta l’Italia, per giorni, si è semplicemente accapigliata sul nulla?

“No, secondo me quel dibattito era sacrosanto. Perché, al netto della veridicità dei fatti, restano le parole utilizzate da Montanelli. Quell’espressione – ‘bestiolina docile’ – utilizzata per descrivere una ipotetica ragazzina di dodici anni: è un linguaggio da colonialista, da conquistatore, e come tale va giudicato. Mia madre rabbrividiva quando riascoltava quelle parole. Ecco: questo non potrò mai dimenticarlo”.

Lei crede che la statua di Montanelli a Milano vada abbattuta?

“Assolutamente no. La statua va lasciata al suo posto. Solo, accanto al nome di Montanelli andrebbero aggiunte due parole: Colonialista e bugiardo”.

Montanelli e la sposa bambina: alcune contraddizioni. In otto decenni e mezzo di pubblicistica, l’unica fonte certa del rapporto tra Indro Montanelli e la sua “sposa-bambina” Destà è e resta il solo Montanelli. Il giornalista ne parla in almeno tre occasioni, tra il 1969 e il 2000, mentre non fa alcuna menzione dell’episodio né nel reportage autobiografico XX Battaglione Eritreo, uscito nel 1936, né nelle molte lettere scritte ai famigliari durante la sua permanenza in Africa Orientale. Si tratta peraltro di racconti frammentari, spesso in palese contraddizione tra di loro: nella versione del 1969, ad esempio, la giovane ha 12 anni, mentre in quella del 2000 ne ha 14. E ancora: nel 1982 Montanelli narra di aver “ceduto” la propria compagna al generale Alessandro Pirzio Biroli, che l’avrebbe ammessa al suo “harem”, mentre nel 2000 dichiara di averla data in sposa direttamente a un suo ascaro, “a guerra finita”. Da tali resoconti, al netto delle incongruenze, si può comunque ricavare un “identikit” piuttosto coerente della ragazza: viveva nel villaggio di Segeneiti, era di religione musulmana e di etnia bilena. Esisterebbe persino una sua fotografia, che Montanelli mostrò a Enzo Biagi durante un’intervista televisiva nel 1982. L’abbiamo sottoposta al professor Gianfrancesco Lusini, africanista, esperto di lingua e cultura eritrea e docente presso l’Università Orientale di Napoli: “La ragazza ritratta in quello scatto non ha nulla a che vedere con la zona di Segeneiti”, dice a TPI. “I vestiti e gli ornamenti fanno pensare sì a una ragazza bilena, ma i bileni, in quel periodo, vivevano stabilmente nell’area di Keren, nella regione di Anseba, che si trova da tutt’altra parte, a nord di Asmara. I bileni, inoltre, erano di religione cristiana, copta o luterana, non certo musulmana, e anche Destà è un nome tipicamente cristiano. Insomma: tutti gli elementi sembrano cozzare tra di loro e appaiono, nel complesso, ben poco credibili”. Un altro punto controverso, nel racconto di Montanelli, riguarda la sua effettiva presenza “sul campo” durante le operazioni belliche – la guerra per la conquista dell’Etiopia, che scoppiò il 3 ottobre 1935. “Ebbi due anni di vita all’aria aperta, bella, di avventura, in cui credetti di essere un personaggio di Kipling”, raccontò il fondatore de Il Giornale sempre nell’intervista a Biagi. I “due anni di vita all’aria aperta, bella, di avventura” – durante i quali il giornalista avrebbe vissuto il suo rapporto con Destà – si ridurrebbero tuttavia a molto meno: giusto una manciata di mesi, buona parte dei quali impiegati in marce ed addestramenti prima dell’inizio delle ostilità. Lo ha dimostrato – in un rigorosissimo studio basato su documenti d’archivio – lo storico Marco Lenci dell’università di Pisa. Che racconta: “Incorporato nel XX Battaglione Eritreo il 27 giugno del 1935, Montanelli rimase operativo, seppur a intermittenza, solo fino a dicembre, quando fu ricoverato all’ospedale di Asmara in seguito a un ferimento. Terminata la degenza, smise la divisa e fu assegnato alla redazione del quotidiano La Nuova Eritrea, sempre nella capitale. Vi lavorerà, su incarico dell’Ufficio Stampa e Propaganda dell’Esercito, fino al suo definitivo rientro in Italia nell’estate del 1936”. Una parentesi ben poco guerresca, trascorsa tra veline e macchine da scrivere, alla quale il giornalista non farà praticamente mai cenno. Eppure, tra il dicembre del 1935 e il luglio del 1936, Montanelli scrisse su La Nuova Eritrea circa una trentina di articoli, tutti di stampo accesamente pro-coloniale. Perché non parlarne pubblicamente, negli anni successivi? Ipotizza Lenci: “Con ogni probabilità egli non volle fornire un’immagine della sua vicenda africana che, nei fatti, lo raffigurava per la quasi totalità della campagna d’Etiopia come un non-combattente, se non addirittura come un vero e proprio imboscato” (cfr. Marco Lenci, “L’Eritrea e l’Etiopia nell’esperienza di Indro Montanelli”, “Studi piacentini” n. 33/2003). È proprio alla luce di questa bramosia d’avventure hemingwayane mai vissute – il deserto, i combattimenti, gli amori al chiaro di luna – che dovremmo leggere, forse, anche la vicenda di Destà. Il presidente della Fondazione Montanelli Bassi, Alberto Malvolti, ha confermato a TPI di non essere in possesso di alcun documento che certifichi l’avvenuto matrimonio. TPI ha interpellato sulla vicenda la nipote di Indro Montanelli, Letizia Moizzi, la quale ha risposto: “Non vedo notizie da commentare”, sottolineando che quelle sopra esposte sono “ipotesi e illazioni”.

Dagospia il 15 giugno 2020. DAL FRONTE AFRICANO. Indro Montanelli - XX Battaglione Eritreo - Dicembre 1935. Ci sono due razzismi: uno europeo - e questo lo lasciamo in monopolio ai capelbiondi d’oltralpe; e uno africano - e questo è un catechismo che, se non lo sappiamo, bisogna affrettarsi a impararlo e ad adottarlo. Non si sarà mai dei dominatori, se non avremo la coscienza esatta di una nostra fatale superiorità. Coi negri non si fraternizza. Non si può, non si deve. Almeno finché non si sia data loro una civiltà. Parla uno che comanda truppe nere e che ad esse è ormai attaccato e affezionato quanto alla sua famiglia. Ma non cediamo a sentimentalismi. Del resto, non occorre un intuito psicologico freudiano per avvedersi che un indigeno ama il bianco solo in quanto lo teme o in quanto lo tiene infinitamente superiore a sé. Niente indulgenze, niente amorazzi. Si pensi che qui debbon venire famiglie, famiglie e famiglie nostre. Il bianco comandi. Ogni languore che possa intiepidirci di dentro non deve trapelare al difuori. Salvo qualche mezzacoscienza, nessuno di noi si augura che la guerra finisca. Potrà esser sciocco, ma è così. Noi, soldati, non abbiamo che un desiderio: continuare, afferrare finalmente questo nemico fantomatico e stroncarlo. Lo faremmo senza batter ciglio. E lo diciamo noi delle Truppe Indigene che tutti, chi più chi meno, un po’ di fuoco lo abbiamo assaggiato e sappiamo già cosa sia. Desideriamo chiudere i conti - e ci pare che quella per via diplomatica non sarebbe mai una vera e propria chiusura. Dirà di più: sentiamo talvolta uno strano senso per l’aviazione e l’artiglieria che, con le loro mirabili azioni preliminari alle nostre avanzate, ci fanno il vuoto barometrico davanti e ci condannano quasi sempre ad un’uggiosa sterilità. Salvo qualche mezzacoscienza, nessuno di noi pensa che un trattato di pace - qualunque esso sia - possa esaurire il nostro compito qui. Non abbiamo messo in bilancio, venendo, dei mesi di vita, ma degli anni. E’ terra sterminata questa, e non facile a domare. Imporrà una selezione molto rigida, sarà un esame alquanto duro che, a superarlo, richiederà non comuni energie, sia fisich che morali. Questo potrà far sorridere chi non sta alla fronte. Ma gli Italiani che vedono l’Africa di lontano o da certe metropolitette di britannico stampo, possono fare a meno di venire o di restare qui. Possono tornare in via Veneto a fare, magari, i reduci con distintivo.

Dagospia il 15 giugno 2020. Estratto di un articolo di Indro Montanelli per il “Corriere della Sera” del 03 ottobre 1962. […] Piano piano l'America sta rendendosi conto che con questo problema essa deve convivere perché non lo può risolvere. O meglio, lo può risolvere solo nell'ambito giuridico della parità dei diritti civili. Biologicamente, no. Perché sarà ingiusto, sarà ripugnante, sarà razionalmente inesplicabile e inaccettabile; ma è un fatto che il meticciato coi neri ha dato risultati catastrofici dovunque lo si è praticato. So di dire un'eresia, per i tempi che corrono, ma preferisco l'eresia all'ipocrisia. […] Se per esempio di trovassimo a convivere con un milione di negri qui a Milano, dove qualcuno trova difficile convivere con i calabresi e i siciliani, è proprio sicuro, Lei, che non succederebbe nulla? Io no. Ancora meno sicuro sono che il governo e l’esercito guidati dai bianchi interverrebbero contro i bianchi. Quindi andiamoci piano con i giudizi. E visto che lei sollecita quello mio sia pure in tono di sarcastica sfida, eccoglielo. Gli studenti bianchi di Oxford, opponendosi all’ingresso del loro collega Meredith nell’Università, hanno commesso un errore e un sopruso perché un privilegio di razza nel campo dei diritti politici e civili è inaccettabile e indifendibile. Tuttavia questo errore e questo sopruso sono stati un eccesso di difesa ispirato da una preoccupazione che purtroppo è legittima: quella della salvaguardia biologica della razza bianca. So di tirarmi addosso, scrivendo queste parole, fulmini e saette. Ma non è colpa mia se un’esperienza di secoli ha dimostrato che il meticciato tra bianchi e neri ha dato e seguita a dare il più catastrofico dei risultati. Non sarà giusti, ma questi sono i fatti.

Da “la Stanza di Montanelli” sul ''Corriere della Sera'' del 12 febbraio 2000.

Lettera di una lettrice. Caro Montanelli, sono una sua lettrice di 18 anni. Durante una lezione di storia sulla campagna d’Africa, è riaffiorato in me il ricordo molto vago di un suo articolo riguardo una “storia” vissuta da lei con una “faccetta nera”. Vorrei chiederle un grande favore: non racconterebbe un’altra volta quell’avventura che dopo tanto tempo mi è ritornata in mente, stuzzicando la mia curiosità? Rossella Locatelli, Chiuduno (Bg)

Risposta di Indro Montanelli. Cara Rossella, la tua domanda è alquanto indiscreta, e se tu fossi una diciottenne dei tempi in cui io ero un venticinquenne, la cestinerei senza esitare. Ma siccome sento dire che le diciottenni di oggi sono in grado di affrontare qualsiasi verità senza nemmeno l’imbarazzo di doversene fingere scandalizzate, eccoti quella mia, anche se probabilmente tornerà a tirarmi addosso - com’è già accaduto - le qualifiche di colonialista, imperialista, e perfino quella di stupratore. Dunque, le cose andarono così. Inebriato dall’avventura etiopica, un po’ perché era un’avventura, e un po’ perché come tutti i giovani di allora, avevo nel sangue la Patria, l’Onore e il lavaggio della cosiddetta “onta di Adua”, mi arruolai volontario, e venni assegnato ai reparti indigeni formati dagli Ascari eritrei (ma non soltanto eritrei, perché c’erano anche parecchi abissini, che preferivano combattere dalla parte nostra che non da quella del loro Negus, ma questa è un’altra storia). Completamente frastornato dal nuovo ambiente  (arrivavo da Parigi), mi presentai al comandante di Battaglione, Mario Gonella, un piemontese di lunga e brillante esperienza coloniale, che mi diede alcuni ordini, ma anche alcuni consigli sul modo di comportarmi con gl’indigeni e con le indigene. Per queste ultime, mi disse di consultarmi col mio «sciumbasci», il più elevato in grado della truppa, che dopo trent’anni di servizio sotto la nostra bandiera conosceva i gusti di noi ufficiali. Si trattava di trovare una compagna intatta per ragioni sanitarie (in quei Paesi tropicali la sifilide era, e credo che ancora sia, largamente diffusa) e di stabilirne col padre il prezzo. Dopo tre giorni di contrattazioni a tutto campo tornò con la ragazza e un contratto redatto dal capo-paese in amarico, che non era un contratto di matrimonio ma – come oggi si direbbe – una specie di «leasing», cioè di uso a termine. Prezzo 350 lire (la richiesta era partita da 500), più l’acquisto di un «tucul», cioè una capanna di fango e di paglia del costo di 180 lire. La ragazza si chiamava Destà e aveva 14 anni: particolare che in tempi recenti mi tirò addosso i furori di alcuni imbecilli ignari che nei Paesi tropicali a quattordici anni una donna è già donna, e passati i venti è una vecchia. Faticai molto a superare il suo odore, dovuto al sego di capra di cui erano intrisi i suoi capelli, e ancor di più a stabilire con lei un rapporto sessuale perché era fin dalla nascita infibulata: il che, oltre a opporre ai miei desideri una barriera pressoché insormontabile (ci volle, per demolirla, il brutale intervento della madre), la rendeva del tutto insensibile. Ti risparmio altri particolari, e vengo al seguito e alla conclusione di quella mia prima avventura matrimoniale. Per tutta la guerra, come tutte le mogli dei miei Ascari, riuscì ogni quindici o venti giorni a raggiungermi ovunque mi trovassi e dove io stesso ignoravo, in quella terra senza strade né carte topografiche, di trovarmi. Arrivavano portando sulla testa una cesta di biancheria pulita, compivano – chiamamolo così – il loro «servizio», sparivano e ricomparivano dopo altri quindici o venti giorni. Dopo la fine della guerra e delle operazioni di polizia, uno dei miei tre «bulukbasci» che stava per diventare «sciumbasci» in un altro reparto, mi chiese il permesso di sposare Destà. Diedi loro la mia benedizione. Rientrai in Italia giusto in tempo per essere travolto prima dalla guerra di Spagna e poi da quella mondiale. Nel ’52 chiesi e ottenni di poter tornare nell’Etiopia del Negus, e la prima tappa, scendendo da Asmara verso Sud, la feci a Saganeiti, patria di Destà e del mio vecchio «bulukbasci», che mi accolsero come un padre. Avevano tre figli, di cui il primo si chiamava Indro. Donde la favola, di cui non sono mai più riuscito a liberarmi, che fosse figlio mio. Invece era nato ben 20 mesi dopo il mio rimpatrio. Spero di non averti scandalizzata. Se l’ho fatto, è colpa tua.

"Il primo sfregio glielo fece il Corriere". Il senatore Fi: "Il giornale di Ottone nel '77 nascose l'attentato in prima pagina". Pier Francesco Borgia, Martedì 16/06/2020 su Il Giornale. L'attentato vandalico contro la statua di Montanelli a Milano continua a stare al centro del dibattito politico. Perché la figura del fondatore del Giornale resta contesa e, secondo alcuni (una minoranza), controversa. Maurizio Gasparri (Forza Italia) non fa parte di questa minoranza e dall'alto della sua lunga esperienza prima come giornalista al Secolo d'Italia poi come parlamentare e ministro, non ha dubbi su dove collocare i vandali di oggi: «Di sicuro dalla parte del torto».

Si ricorda del giorno dell'attentato nel 1977?

«Certo che mi ricordo bene. Il giorno prima era stato gambizzato un altro bravo giornalista, mio amico, Vittorio Bruno, all'epoca vicedirettore del Secolo XIX».

Cosa la colpì di più: il gesto del gruppo terroristico o le reazioni dell'opinione pubblica?

«Come a molti non mi sfuggì la reazione dei principali giornali (Stampa e Corriere della Sera, ndr). Riuscirono nell'impresa di ammazzare la notizia visto che il nome di Montanelli si legge soltanto in un occhiello. Proprio con la scusa che il giorno prima era stato colpito Bruno, il direttore del Corriere, Piero Ottone, sfruttò la scusa di parlare al plurale per evitare di fare di Montanelli l'oggetto del titolo».

Non potrebbe essere stata semplice sciatteria?

«Non credo. Il clima politico in quegli anni era molto teso. E certe contiguità tra il mondo extraparlamentare e alcune sacche particolarmente sindacalizzate di via Solferino sono state ben raccontate e spiegate da Michele Brambilla nel libro L'eskimo in redazione (prima edizione Ares 1991, ndr). D'altronde anche l'idea di eliminare Walter Tobagi, tre anni dopo, matura in quel clima di odio e di connivenza».

Quindi gli imbrattatori di oggi sarebbero diretti discendenti di quanti all'epoca non volevano urlare solidarietà a Montanelli?

«Secondo me sì. Anzi. Mi spingo oltre e azzardo una definizione più audace: il primo imbrattatore della memoria del fondatore del Giornale è stato Ottone. Per mia fortuna ho avuto l'occasione di dirglielo in faccia. Un'opportunità più unica che rara».

Quando è successo?

«Nel 2003 l'Ordine dei giornalisti festeggiava i suoi primi quarant'anni di vita. L'occasione fu celebrata con un convegno nella prestigiosa Sala della Lupa di Montecitorio. Cui parteciparono tutti. C'era il gotha di questa professione: dagli editori Romiti e De Benedetti ai direttori di tutti i principali giornali. Ero stato invitato in qualità di ministro delle Comunicazioni del governo Berlusconi. E c'era pure Ottone!»

Che all'epoca non era più al Corriere da tempo.

«Sì è vero. Per me, tuttavia, quella fu una grande occasione. Non potevo non togliermi quel fastidioso sassolino dalla scarpa. Lasciai perdere il discorso che mi ero preparato e con garbo e delicatezza istituzionale, senza fare nomi di giornalisti o di testate, rammentai l'episodio di quel titolo ignominioso e parlai di una tra le pagine più oscure della storia del giornalismo italiano».

Come fu la reazione della sala?

«Scoppiò un brusio generale e vedevo tutti darsi di gomito attoniti e impreparati».

Insomma Ottone antesignano di questi vandali?

«Non solo imbrattatore ma anche novello don Abbondio: Il coraggio - diceva Manzoni - uno se non ce l'ha, mica se lo può dare».

"Sintesi, scrittura e libertà. Ecco i talenti di Indro". Montanelli compie 111 anni. "Tre 1 per il numero Uno". Il fondatore del premio È giornalismo lo racconta...Luigi Mascheroni, Mercoledì 22/04/2020 su Il Giornale. Oggi, 22 aprile, Indro Montanelli avrebbe compiuto 111 anni. «No, compie 11 anni. Gli amici non muoiono mai». Montanelli morì nel 2001, erano i giorni feroci del G8 di Genova. E in effetti è difficile dimenticarlo, non solo per i giornalisti, non solo per i suoi lettori, figuriamoci per gli amici. «Gli ho giurato che avrei fatto di tutto per non farlo dimenticare. E ogni occasione è buona. Oggi sono 111 anni dalla nascita, tre 1 per un Numero Uno. Coincidenza perfetta per parlare di lui, no?». Giancarlo Aneri, fortunatissimo manager-imprenditore nel mondo del vino, ramo Prosecco e Amarone di altissimo posizionamento, da Legnago (Verona) alle tavole dei grandi del mondo, una passione fin da piccolo per il bere bene e il leggere meglio, non vede l'ora di riparlare di lui. Giornalista ad honorem ma soprattutto amico di giornalisti («Io prima sono un lettore di giornali, poi un venditore di vini»), consultatore compulsivo di quotidiani («Fino a sette testate al giorno, lungo tutto l'arco costituzionale, da Repubblica al Giornale»), Aneri nel 1995 fondò il prestigioso e danaroso premio «È giornalismo», ideato con Indro Montanelli, Enzo Biagi e Giorgio Bocca. Un campione del marketing e tre maestri della scrittura. «Li leggevo così spesso e mi piacevano così tanto, che feci di tutto per conoscerli. E quando siamo entrati in confidenza, ho chiesto loro se ci stavano a presiedere la giuria di un premio per il buon giornalismo. E mi dissero di sì. Quando mi metto in mente una cosa...».

Quando si mise in mente di conoscere Montanelli?

«Primissimi anni Novanta. Lo conobbi a una cena, e da quella sera non l'ho più mollato. Ci vedevamo tutte le settimane, pranzavamo insieme, chiacchieravamo di mille cose, di lui avevo letto anche le virgole, sapeva che non bluffavo, e stava bene con me».

Che tipo era?

«Che tipo è? Una persona molto riflessiva, non proprio un tipo gioioso, sopratutto negli ultimi anni, anche solitario. Io al contrario sono esuberante. Mi diceva: Mi dài l'entusiasmo che io non ho. Viveva per il suo lavoro. Curioso di tutto, non si tirava indietro su niente ed era rispettoso di chiunque».

È famoso per le staffilate...

«Beh, sì. Se doveva dirti una cosa, te le diceva. Facevamo spesso vacanze insieme. Un'estate eravamo a casa sua, a Montemarcello, sopra Bocca di Magra. Lui era con Marisa Rivolta, la sua compagna in quegli anni, e una sera, a cena, dice a mia figlia, che avrà avuto 15 anni: Non sarà facile per te con i maschi. Sei troppo alta e troppo bella. E a mio figlio: Tu farai fatica a trovare i tuoi spazi, hai un padre troppo rompicoglioni».

Era famoso anche per le sue sfuriate.

«A chi lo dice... Era appena nata la Voce, 1994. Siamo a Montecatini, alla sera aveva un incontro al Teatro Verdi. Al mattino si sveglia, gli portano una copia del giornale e vede che senza dirgli nulla avevano messo in prima pagina un fotomontaggio di Cuccia con i denti da vampiro. Cominciò a inveire... era inavvicinabile... Del resto, quella pagina gli costò l'amicizia con Cuccia: non volle mai più parlargli».

Perché se ne andò dal Giornale e fondò la Voce? Fu davvero solo un fatto politico? L'indipendenza, la schiena dritta, quelle cose lì...

«Mah... Mettiamoci dentro che aveva anche voglia di fare qualcosa di nuovo. era da vent'anni al Giornale, e uno come lui alla lunga si stufa. Aggiungiamoci che c'erano delle frizioni personali con Berlusconi, e poi, certo, aggiungiamo il fatto politico della discesa in campo del Cavaliere...».

Perché la Voce fallì?

«Perché invece di fare un quotidiano con lo stesso spirito del Giornale ne fece un altro, spostato troppo al centro, a volte persino guardando a Sinistra... E il suo pubblico non lo seguì».

Il suo difetto più grande?

«Incontentabile. Un anno andiamo in vacanza a Punta Ala. Prenoto l'albergo. Dopo due giorni arrivo anch'io e gli chiedo: Allora, Indro: ti piace?. Mi risponde: No, sono tutti vecchi».

Cosa c'è di strano?

«Il più vecchio aveva 65 anni. E lui 82».

Il suo maggior pregio?

«Giornalisticamente, il dono della sintesi. Sapeva dire in 50 righe quello che agli altri servivano due pagine. Poi era colto. Comunque, se Biagi era imbattibile nelle inchieste televisive e Bocca nell'analisi politica, Indro lo era nella qualità della scrittura».

E dal punto di vista umano?

«Credeva in ciò che faceva. Quando fondò la Voce, e sono sicuro la stessa cosa accadde quando s'inventò il Giornale, prima del progetto economico-giornalistico, c'era l'idea di offrire un giornale libero ai lettori. E attenzione. Non ai suoi lettori, ma agli italiani. Quando stava aprendo la Voce mi disse: Ma lo capiranno che lo faccio per loro?. Io gli dicevo di sì, ma dentro mi veniva da piangere perché sapevo che la risposta era no».

E il Corriere?

«Quando Indro ruppe col Giornale Paolo Mieli gli chiese di tornare al Corriere, lo so perché c'ero anch'io quel giorno. Gli disse: Tu fai il direttore, e io faccio il condirettore. Ma Montanelli disse no».

E il Giornale?

«Anche dopo che se ne andò, continuò a parlarne con nostalgia. Il Giornale fu l'inizio della sua libertà, e questa cosa non l'ha mai scordata».

Montanelli come è ricordato oggi?

«Non come merita. In fondo, rimane ancora molto divisivo. Indro non ha mai amato Scalfari, e Scalfari non ha mai amato lui. Questo è noto. Diciamo che quella parte politica ancora oggi fa fatica a digerire Indro. Lui piaceva alla borghesia illuminata, non ai post Sessantottini... era un liberale, ma conservatore. Figurati: ha sempre detto che avrebbe votato un partito monarchico... In più mettici l'invidia e la gelosia di molti giornalisti, e capisci quanto sia difficile il personaggio, e poi...».

Stava per dire un'altra cosa.

«Che persino coloro che non lo hanno mai amato, anche se non lo ammettono pubblicamente, si sono dovuti confrontare con lui. Perché era il più bravo. Perché è il giornalismo».

Cos'è il giornalismo?

«Il mezzo che permette di portare la cultura nelle case degli italiani. Se una persona legge tutti i giorni un quotidiano ha maggiori potenzialità intellettive, lavorative e espressive. I giornali ti insegnano a leggere, a scrivere, a parlare».

Ci sono anche i tg.

«Che ti spiegano una notizia in un minuto. Per capire devi leggere i giornali per un'ora».

Ci sono gli online.

«Per aggiornarsi, non per approfondire».

Ci sono i social.

«Lasci stare. Sono il secondo virus che gira per il mondo, dopo il Coronavirus».

I giornali di carta sono in crisi. Come se ne esce?

«Due strade. La prima: la politica non deve avere paura dei giornali, ma capire che fanno crescere culturalmente il Paese. E quindi aiutarli».

Finanziamenti pubblici?!

«Sì, in proporzione alle copie vendute».

Seconda strada?

«La devono percorrere gli editori, i quali devono capire che se un giornale ha cento giornalisti, lo salvi se ne assumi altri venti, non tagliandone 50. Un quotidiano è appetibile se ricco e originale. Altrimenti il lettore preferisce il tg. O i social».

Glielo diceva Montanelli?

«No, ma so che la pensa così».

·        18 anni dalla morte di Francisco Ramón Lojácono.

Claudio De Carli per il Giornale il 29 giugno 2020. Con Anna ho ballato il tango fino all'alba, ero il suo maestro, lei era magica. Poi a un certo punto mi fa: «A Ramo', ma va' a dormì, va'!». Erano le cinque del mattino e così sono andato a dormire. Anna è la signora Magnani, Ramon è Francisco Lojacono, tanguero, tombeur de femme, calcio devastante, destro e sinistro, dribbling romantici, esistenza spericolata. Viene in Italia nel dicembre del '56, Federico Fellini gira La Dolce Vita nel '60, non arriva sull'onda delle inebrianti notti di via Veneto, Ramon le ha precedute. Prima la Fiorentina, lo scudo cucito sulla maglia viola con quel giglio rosso è una calamita, acquistato dal San Lorenzo de Almagro in compartecipazione con il Lanerossi Vicenza per 40 milioni, una stagione a testa, salva i veneti dalla retrocessione poi Firenze. Repertorio di finte, controfinte e tiri tagliati con la maestria di un liutaio lasciano senza fiato perfino i compagni di squadra. È di Matadores, quartiere di Buenos Aires, padre calabrese emigrato lì a 14 anni, Ramon è un verniciatore di automobili con un richiamo irresistibile per le donne, gioca nel club Ercilla Juniors, si sposa a 22 anni ma va a letto con un pallone sotto le lenzuola. Poi la crisi economica che devasta l'Argentina, padre licenziato, Ramon cambia, entra come tornitore nelle officine delle ferrovie nazionali, cresce, stupisce, a 20 anni è titolare nella Albiceleste, fenomeno. L'amico del cuore Felix Latronico gli paga il viaggio in Italia sicuro di trovargli un ingaggio ma occorre sbrigarsi, il 31 dicembre si chiude la finestra di mercato, arriva sotto Natale e si presenta al Milan, niente da fare, passa da Firenze e il presidente Enrico Befani trova subito l'accordo, Fulvio Bernanrdini non lo vuole, ha preso informazioni, l'argentino ha una vita indisciplinata ma è fatta, è in serie A. Bernardini è tutto schemi e tattica, Ramon un libero pensatore: Il calcio è libertà, gioco dove mi spinge l'istinto, sento dentro un'energia spropositata. I tifosi ai suoi piedi, nella viola ci sono Miguel Montuori, Julio Botelho Julinho, Kurt Hamrin, lui è un divo, una cosa a parte, Bernardini lo schiera in tutti i ruoli dell'attacco, lui incanta e segna, il Napoli offre 120 milioni, Befani non lo molla ma non riesce a domarlo. Espulsioni a raffica, carattere esagerato, reagisce alle provocazioni, all'Olimpico il suo compagno di squadra Guido Gratton lo rimprovera per un passaggio sbagliato, lui gli si avvicina con calma e quando è a un passo gli rifila un ceffone in faccia, non ha paura di niente e nessuno, stende maciste Bruno Bolchi che è il doppio di lui, poi sparisce, tutti lo cercano e nessuno lo trova, poker notturni, alba con le femmine, pomeriggi al mare. Entra nella nostra nazionale come oriundo, il gol al 41' della ripresa che pareggia quello di Alfredo Di Stefano alla Spagna di Laszlo Kubala, Francisco Gento e Luis Suarez il 29 febbraio 1959 all'Olimpico è qualcosa di epico ma alla fine Befani cede. Ramon a 25 anni va alla Roma, 100 milioni ai viola più il cartellino di Dino Da Costa e Franco Zaglio, va a abitare alla Balduina, Hollywood sul Tevere, adesso agli altri serviranno due portieri, i tifosi giallorossi impazziscono. Tarchiato, faccia da boxer, i paparazzi lo scolpiscono all'ingresso di teatri, riunioni di pugilato e night sempre in compagnia di una nuova sventola mentre la società lo crede ricoverato in qualche clinica per curare improbabili infortuni che accampa. I compagni capiscono e lo coprono, ma va in prima pagina quando finisce contro un albero con la sua Maserati alle quattro del mattino. Succede anche in Nazionale, Lorenzo Buffon viene incaricato di pedinarlo e un mattino, con gli azzurri tutti a colazione tranne lui, va a chiamarlo nella sua camera e lo sorprende con la diciottenne Claudia Mori. Zitto, non fa parola con nessuno, lo prega solo di vestirsi e scendere che lo stanno aspettando. Si sono conosciuti al Sistina, hanno anche girato assieme un film, la notizia esce sui quotidiani: ecco la donna che metterà la testa a posto a Ramon. Niente da fare, il profumo di femmina lo inebria, in campo dà spettacolo e tutto gli viene perdonato. Il 27 novembre del '60 in un Roma-Juventus segna un gol da quaranta metri, palla sotto la traversa, Giovanni Vavassori schiantato. Ma non è questa la notizia, Ramon ha giocato con un braccio bendato e immobilizzato sotto la maglia per una lussazione alla spalla. Poco prima della partita si è fatto una iniezione di Novocaina e poi dentro, in campo. I cronisti vengono a conoscenza della menomazione, lo incensano di elogi e lui svela il retroscena: sì, ho segnato con un braccio fasciato ma il bello è che fino alle 11 del mattino ho passato una notte di bombardamenti con una spalla lussata e una splendida bionda. Frequenta Renato Rascel, Gino Cervi, Walter Chiari, ogni tanto si ricorda di andare al campo per allenarsi e cancella ogni possibile ramanzina dei dirigenti. Questa volta dobbiamo andare giù pesanti, si ripromettono, poi lui in campo dà spettacolo e finisce lì. Cosa gli vuoi dire? Quando capisce che c'è aria pesante nei suoi confronti li affronta per primo: Volete che mi vada a chiudere in un convento? Multatemi se gioco male, ma non per la mia vita privata. Si gira e spara in porta un destro che brucia i guanti. Tifosi in estasi, li fa impazzire, estroverso, indolente, in un Roma-Catania è talmente svagato che iniziano a fischiarlo per spronarlo, lui si siede sul pallone e li sfida, va a battere un calcio d'angolo e lo scaglia in tribuna. Putiferio. Deve uscire dall'Olimpico travestito da vigile urbano. Quando conosce la diciassettenne Anna Maria sembra che la faccenda si stia mettendo a posto, lei va a vivere con lui nonostante il divieto della sua famiglia, è minorenne, nuovo scandalo. Ormai è considerato un ex, Roma lo scarica, torna a Firenze dove gli propongono un contratto a gettone, ci sta, Ferruccio Valcareggi stravede per lui, la crisi calcistica pero è in agguato, il recupero è un naufragio, torna a Roma per poco, finisce alla Sampdoria, all'Alessandria in serie B, poi anche in C, allena, conquista promozioni in serie, malgrado Omar Sivori, Valentin Angelillo e Humberto Maschio, e magari senza il loro talento, è l'oriundo che più ha lasciato il segno nel calcio italiano, difficile da crederci ma vero. Del resto cosa c'è di vero e quanto fantasticato? Neppure la notte a ballare tango con la Magnani è accertata: La si incontrava spesso a ore piccole alle Grotte del Piccione o al Club 84, racconta un paparazzo, con Totò, Pasolini e Moravia, decine di scatti, ma quelli con Lojacono no, neppure una foto, lei all'alba andava a dar da mangiare ai gatti. Mistero anche per la sua dipartita a Palombara di Sabrina a 67 anni. Archiviata come infezione polmonare è stata poi ritenuta sospetta con riapertura del fascicolo, ha giocato nella Sampdoria nel periodo in cui militavano Tito Cucchiaroni, Ernst Ocwirk, Guido Vincenzi e Enzo Matteucci, tutti deceduti per sclerosi laterale amiotrofica, la Sla. Basta, un po' di pace por favor. Ramon non ha buttato via un solo istante della sua avventura italiana e ha raccontato che insegnava il tango alla Magnani: La cosa più bella del mondo è fare l'alba con una splendida donna ballando con lei e poi rientrare mentre i lampioni sono ancora accesi. Io l'ho fatto.

·        18 anni dalla morte di Carmelo Bene.

Osvaldo Guerrieri per “la Stampa” il 18 agosto 2020. Dice: «Carmelo era un genio» - «Era veramente un incontenibile vulcano d'idee e stargli dietro poteva essere molto stancante» - «Carmelo aveva la sicurezza di sé, sapeva quello che doveva dire e che voleva fare» - «Con Carmelo non esistevano programmi prestabiliti ed era tutto improvvisato» - «Era molto rispettoso dei tecnici e del loro parere». Superfluo dire che «Carmelo» era Carmelo Bene. Chi ne parla con una ammirazione che sconfina nell'affetto è Mario Masini, il direttore della fotografia che con animo picaresco e nella mancanza cronica di soldi rese possibile la realizzazione di Nostra Signora dei Turchi (1968), Don Giovanni (1970), Salomè (1972) e Un Amleto di meno (1973). Sono i quattro film che hanno segnato l'incontro tumultuoso di Carmelo Bene con il cinema, forse la sua sfida a una forma d'arte prima ignorata e poi ripudiata, in un percorso che ha lasciato irrealizzati i progetti su Faust e sulla figura di Giuseppe da Copertino, il santo che si alzava in volo non appena entrava in estasi. Oggi il ligure Mario Masini ha 81 elegantissimi anni ed è considerato un simbolo del cinema sperimentale italiano, quello che ebbe il suo momento di gloria tra gli anni 60 e 70. Nella sua trafficatissima vita ha lavorato con i fratelli Taviani per i film San Michele aveva un gallo e Padre padrone. Nel ventennio 80-90, invaghitosi della pedagogia di Rudolf Steiner, ha abbandonato la macchina da presa per insegnare ai disabili nelle scuole steineriane di Roma e Stoccarda. Col nuovo secolo è tornato all'antico amore e ha ripreso a fare cinema con registi portoghesi e africani. Fu a causa di un incidente che incontrò Carmelo Bene. Masini lavorava con Salvatore Samperi alla realizzazione di Grazie zia, ma alla protagonista Lisa Gastoni non piaceva il suo modo di fotografarla. L'attrice protestò, fece scenate e ne ottenne la sostituzione. Disoccupato, Masini si trovò Carmelo dietro la porta. Come poi andò ce lo racconta lui stesso con I miei film con Carmelo Bene (Damocle Edizioni, pp. 114, 15), un libro in tre lingue scritto con Carlo Alberto Petruzzi e corredato da fotografie che probabilmente nessuno ha mai visto. Masini ricorda quella lontana esperienza e ci fa conoscere un Carmelo Bene lontanissimo dalla ribalta teatrale, ma desideroso di cambiare il linguaggio del cinema, di creare film che poi non incontrarono il favore del pubblico e anzi, come nel caso di Nostra Signora dei Turchi, premio speciale della giuria alla Mostra di Venezia, provocarono la rivolta degli spettatori che reclamarono la restituzione del biglietto. Il libro è una specie di diario di lavoro che inevitabilmente finisce col mettere in luce l'incontro tra due personalità diverse ma legate da un'immediata sintonia. Senza una sceneggiatura, senza orari, senza una vera troupe, il tandem Bene-Masini improvvisava una sequenza dopo l'altra e nella foga non considerava le conseguenze del lavorare alla giornata. Appare molto significativo ciò che accadde durante le riprese di Nostra Signora dei Turchi a Otranto e in altri luoghi del Salento. L'assistente di Masini scappò perché non sosteneva il ritmo del lavoro. Se ne andarono anche gli attori Salvatore Siniscalco, che si infortunò a un piede, e Ornella Ferrari, che litigò con Carmelo. Nella scena dei fuochi artificiali, un bengala colpì il palo della luce e tutto il paese rimase al buio. Quando il set si spostò a Marina di Marittima, si stava svolgendo in piazza una festa di paese. Carmelo pensò di sfruttare l'avvenimento. Si fece riprendere mentre fendeva la folla barcollando. La gente ignorava che si stesse girando un film. Vide quel giovanotto stramazzare svenuto e chiamò l'ambulanza. Chiarito l'equivoco, Carmelo fu salvato dai carabinieri, gli stessi che dovettero intervenire in una chiesa sconsacrata per bloccare un gruppo di donne convinte che l'attrice Lydia Mancinelli, ammantata d'azzurro e aureolata mentre fumava una sigaretta, fosse la Madonna. Le donne volevano baciarle almeno la veste. Ma la parte più succosa riguarda forse le zone tecniche, le pagine in cui Masini svela come ha cercato di realizzare le visioni, gli effetti, le luci e i colori che Carmelo intendeva ottenere. Si veda per esempio l'episodio della «soggettiva del morto». Non potendo scavare una fossa dalla quale si potesse riprendere l'esterno, fu costruita un'impalcatura alta un metro ricoperta lateralmente di assi e di teli neri per impedire alla luce di entrare. Sulla sommità fu posata una lastra di vetro su cui furono sparsi terriccio e fiori. Sembrava proprio l'interno di una tomba e Masini, seduto al buio sul passeggino di suo figlio, riprendeva l'esterno e i visitatori come se l'obiettivo fosse l'occhio «vedente» del morto. Magie e azzardi, acrobatismi da spezzarsi il collo, trucchi poveri che però erano capaci di trasformare una piccola stanza domestica nella sala di un castello, incendi fasulli. Il libro somiglia a una corsa in un labirinto di specchi nel quale ogni apparizione, ogni deformazione, ogni spasimo, ogni derisione proviene dalla genialità di un uomo chiamato Carmelo Bene. Per dirla con Mario Masini: «un unicum nella storia del cinema».

Carmelo Bene. Ma al lavoro sul set era anche meglio. Mario Masini, storico direttore della fotografia nei suoi film, racconta com'era il grande artista. Luigi Mascheroni, Venerdì 15/05/2020 su Il Giornale. Carmelo Bene contro il cinema, al cinema, dentro il cinema...Carmelo Bene (1937-2002), la figura più straordinaria del teatro italiano del '900, ebbe col cinema un rapporto alla Bene. Cioè impossibile. Lo ignorò, poi lo frequentò, poi lo attraversò come una meteora - un pugno di film tra il 1968 e il 1973 - lo portò ai suoi limiti, poi lo abbandonò, e lo rinnegò. Per lui non era arte, solo un mezzo incapace di raggiungere le sue vere potenzialità. Eppure, pur non amando quel mondo, Carmelo Bene, eclettico e narciso, non resistette alla tentazioni di entrarci. Senza chiedere permesso, mettendo i piedi sul divano del salotto bello, spegnendo la sigaretta sul tappeto e andandosene con stizza, lasciandosi dietro qualche capolavoro e la porta aperta...Dalla quale ci fa rientrare, oggi, portandoci dentro l'idea di cinema di Carmelo Bene, il lavoro sul set e quei film inclassificabili e geniali, un suo vecchio amico e collaboratore. Mario Masini, ligure, 81 anni, nome di rilievo del cinema sperimentale italiano degli anni '60 e '70, direttore della fotografia proprio con Carmelo Bene e i fratelli Taviani (per San Michele aveva un gallo, del '73, e Padre Padrone, '76, Palma d'oro al Festival di Cannes), e poi sparito dalle scene e dalla scena, abbandonando il cinema per dedicarsi allo studio di Rudolf Steiner e all'insegnamento, tra Roma e Stoccarda. Solo alla fine degli anni '90 è tornato a collaborare con alcuni registi portoghesi. Ora, però, Mario Masini ha deciso di raccontare, in un libro-intervista con Carlo Alberto Petruzzi, I miei film con Carmelo Bene (Damocle, pagg. 130, euro 15; in lingua italiana, francese e inglese e con alcune foto inedite o rarissime). Carmelo Bene definì Masini «un genio alla macchina da presa». E Masini, che conobbe Bene dopo un'infelice esperienza sul set di Grazie, zia di Salvatore Samperi (Lisa Gastoni chiese al regista di sostituirlo perché non le piaceva come la fotografava), ricambia facendo un ritratto impeccabile dell'artista leccese: dice che sul set era molto rispettoso dei tecnici e del loro parere («ascoltava con molta attenzione le loro indicazioni, specialmente riguardo alle sue idee di difficile realizzazione...»), che era «un incontenibile vulcano di idee e stargli dietro poteva essere molto stancante», che aveva una memoria straordinaria, che aveva un senso comico sottovalutato (come nella scena della Santa che legge una rivista di moda in Nostra Signora dei Turchi) e che pur lavorando totalmente senza sceneggiatura (!) e traccia audio (realizzata in post produzione), Bene aveva sempre le idee chiare su come girare («Carmelo mi spiegava cosa avrebbe voluto fare, io preparavo la scena e iniziavamo le riprese»). In fondo, era tutta questione di sintonia, che tra i due scattò subito: «Mi è stato di grande aiuto nelle riprese di movimenti, spesso improvvisi, che dovevo seguire con la camera in presa diretta sapendo che, da un momento all'altro, Carmelo sarebbe potuto andare in qualunque direzione». Per il resto, sono ricordi (con Carmelo Bene non esistevano orari, né una vera troupe, i soldi era sempre troppo pochi, i problemi enormi ma lui aveva un'energia inesauribile), aneddoti (mancando persino il carrello, capitava che Masini si sedesse nel passeggino del figlio piccolo, spinto da un ragazzo pagato a giornata...), retroscena, progetti abbandonati (Faust, per il quale Bene prese contatto con Moira Orfei per capire se fosse stato possibile utilizzare delle tigri... e un altro film su San Giuseppe da Copertino, ma si capì presto che girare le scene delle estasi in volo sarebbe stato costosissimo e tecnicamente quasi impossibile, e non se ne fece niente) e piccole rivelazioni (Bene pensava alla bellissima modella tedesca Veruschka come Salomè, ma poi le lasciò un piccolo ruolo e scelse invece come protagonista Donyale Luna...). Un pezzo di storia del cinema che non può andare perduto. Sul set di Nostra Signora dei Turchi (del 1968, che poi vinse il premio speciale della giuria alla Mostra del cinema di Venezia), girato a Santa Cesàrea, Lecce, accadde di tutto. L'assistente di Masini scappò per i ritmi di lavoro massacranti, i due attori sparirono subito: Salvatore Siniscalchi si fece male a un piede e rientrò a Roma, e Ornella Ferrari litigò con Bene e se ne andò. Alla fine furono sostituiti dalla moglie di Masini (e lui stesso fu costretto a posare per una scena), i loro due figli e persone reclutate sul posto. Nella scena dei fuochi artificiali, uno colpì un palo della corrente, togliendo la luce a tutto il paese. Nella grande scena girata nella piazza di Marina di Marittima, lì vicino, sfruttando una festa di paese, quando Carmelo Bene finge di stare male la gente - ignara si stese girando un film - chiamò un'ambulanza, e alla fine lo portarono via i carabinieri. Mentre giorni dopo gli stessi carabinieri dovettero tenere a bada le donne del posto che volevano entrare nella chiesetta sconsacrata dove si stava girando per baciare il mantello di Lydia Mancinelli, sigaretta in mano, che interpretava la Santa... Devozione e divismo. Poi un giorno Carmelo Bene chiese a Masini: «Mario, dobbiamo girare la soggettiva di un morto». E il racconto di come ci riuscirono spiega molto delle straordinarie capacità artigianali del cinema di quegli anni...Don Giovanni, film del 1970, fu tutto girato all'interno dell'appartamento, piccolissimo, di Carmelo Bene e Lydia Mancinelli, a Roma, in via Aventina: salotto e camera da letto collegati da un corridoio (anche se nei titoli di coda appare la scritta «Girato negli stabilimenti Elios film»...): il problema era che Carmelo voleva ricreare un castello medievale. E così per fare sembrare gli spazi più grandi Masini usò un obiettivo grandangolare e lo scenografo fece miracoli. E poi, a parte le voci fuori campo, il film è totalmente privo di dialoghi («E dimostra come è possibile narrare solo attraverso le immagini»). Mentre Un Amleto di meno (1973), grazie a una produzione più generosa, fu girato a Cinecittà. Ma Bene, ossessionato dal contrasto bianco e nero, volle far ricoprire tutte le pareti dello studio con un panno scuro. Che prese fuoco. Dopo l'intervento dei vigili del fuoco, proibì a chiunque di ripulire. Con la fuliggine, disse, tutto era molto più bello.

·        18 anni dalla morte di Joe Strummer.

Torna Mi ritorni in mente, in cui Massimo Cotto ricorda incontri memorabili con alcune star dello spettacolo. Oggi tocca a Joe Strummer, leader dei Clash, morto nel 2002 a 50 anni. Proprio il 21 agosto l'artista è stato ricordato su YouTube con la maratona A song for Joe. Articolo di Massimo Cotto pubblicato da “il Messaggero” il 23 agosto 2020. Fu facile intrufolarmi nei camerini del Lyceum di Londra, quel 20 ottobre 1981. Impensabile farlo oggi. Andai dritto verso Joe Strummer. Mi presentai. Finsi di essere quel che non ero ancora, un giornalista musicale. Dissi che scrivevo per Rockstar e gli chiesi se potevo fargli qualche domanda. Rispose: «I' m not a rockstar». Dissi: «Yes, but I am one». Rise, mi offrì una birra, ma presto si lasciò risucchiare da altre persone. Prima di svanire, disse: «Ci vediamo qui davanti, domani, a mezzogiorno». Il concerto era stato straordinario: 33 canzoni, adrenalina pura, entusiasmo alle stelle durante London Calling, I Fought The Law, The Guns Of Brixton e This Is Radio Clash, emozione intensa su Train In Vain. Quella sera, la terza di sette previste al Lyceum, non si respirò tensione tra i membri della band né sfilacciamenti: solo gioia e orgoglio punk. Certo, ci fu qualche sputo di troppo, che provocò la reazione esasperata dello stesso Strummer al microfono: «Anche stasera la stessa storia? C'è qualcuno che può aiutarmi? Fate smettere le persone vicino a voi che mi sputano addosso. Oppure dite loro di raggiungermi dopo il concerto. Sarò felice di sputare io addosso a loro». Non era più il 1977, quando il gobbing era parte del gioco punk, ma qualcuno stentava a capirlo. Strummer arrivò con accettabile ritardo il giorno dopo. Andammo in un pub a bere e parlare. Negli anni a venire, lo avrei incontrato molte altre volte, da solo e con i Mescaleros. Con più tempo a disposizione di quella prima volta, ma niente, nei miei ricordi, è paragonabile a quella prima volta. Parlammo di tutto, non solo di punk, ma dal punk cominciammo: «Siate voi stessi. Questo era il comandamento. Nel 1977 era tutto quello che ci interessava trasmettere. Non siamo mai stati grandi musicisti. Nessuno di noi aveva fatto il Conservatorio o studiato musica. Ma avevamo qualcosa da dire. Prima di noi, per fare rock bisognava essere tecnicamente impeccabili. Fanculo la tecnica. Conta l'attitudine. Non ho mai amato gli acrobati, quelli che fanno decine di piroette stando in equilibrio su una mano sola. Meglio essere concreti. I Clash lo erano. I Sex Pistols lo erano». Gli chiesi se davvero vederli dal vivo la prima volta lo aveva spazzato via. «Non solo me. Spazzarono via chilometri di musica inutile e di inutili scuole di musica. Dei Pistols non condividevo solo lo slogan: Get pissed! Destroy!. I Clash non erano venuti per distruggere. Anche questa storia degli strumenti sfasciati. Niente a che vedere con la voglia di fare a pezzi il passato. Era più una forma naturale di ribellione. Quando ero ragazzo, con i miei amici del cuore camminavamo per le strade di Knightsbridge e distruggevamo tutto quello che ci capitava a tiro. Era uno sfogo adolescenziale. Ecco, il punk è stato lo sfogo adolescenziale di chi non ne poteva più di quei vecchi rimbambiti che pretendevano di sapere tutto di tutto. Il punk è sempre stato ignorante. Più ignorante di un asino dietro a una lavagna». Aveva sempre voglia di raccontare e raccontarsi. Parlava con accelerazioni improvvise e altrettanto improvvisi rallentamenti, soprattutto quando guardava al passato: «Quando arrivai a Londra, per guadagnarmi da vivere suonavo nella metropolitana. Lo facevo anche per imparare a suonare davanti a un pubblico. Mi facevo chiamare Woody Mellor, perché adoravo Woody Guthrie. Poi cambiai nome in Joe Strummer. Ero bravissimo nel vedere da lontano la polizia, che ogni tanto passava per allontanarci. Avevo sviluppato un metodo infallibile: quando si avvicinavano, con una mano continuavo a suonare la chitarra e con l'altra mi infilavo rapidamente in testa il berretto con le monete dei passanti. Poi mi allontanavo in fretta. Non avevo la minima idea di cosa avrei potuto fare nella vita. L'unica cosa che sapevo era che non volevo diventare come mio padre. Era una persona onesta, ma ingabbiata. Mi diceva: Osserva le regole e la legge e potrai diventare come me. Ma io non volevo diventare come lui. Io volevo una vita che fosse solo mia». Non era mai banale. Diceva cose profonde in modo molto semplice: «Per maturare davvero una coscienza sociale e un impegno vero, bisognerebbe tenere spenta la televisione e la radio, non leggere i giornali, uscire in strada, ascoltare la gente e danzare nudi nel parco. A parte le provocazioni, è fondamentale avere resistenza. Non rinunciare. Ripetere: non mi avranno, non riusciranno a piegarmi. Da ragazzo, a volte mi capitava di lavorare la terra per guadagnare qualche soldo. Lavoravamo a giornata e avevamo un obiettivo che ci veniva imposto. Dovevamo zappare fino ad arrivare a un dato punto. E quel punto era delimitato da una corda, che il padrone del terreno tendeva da un albero all'altro. Ora, quando guardavo la corda mi sentivo morire, perché mi sembrava che mai e poi mai sarei riuscito a raggiungerla. Così, evitavo di guardarla e mi concentravo su ogni singola zappata. Un passo alla volta, mezzo metro alla volta. Alla fine della giornata avevo raggiunto la corda. Questo è l'impegno sociale: non abbattersi e andare avanti, anche quando la fatica è tanta e pensi che non ce la farai mai». Una volta, mi lasciò senza fiato perché attribuì a Dylan la primogenitura del punk: «Bob Dylan è stato il primo che ha obbligato la gente a pensare ascoltando musica. Mai nessuno l'aveva fatto prima di lui. La ribellione di Elvis era fisica, quasi automatica. Muoveva il bacino ed era come se dicesse a tutti: Ehi, non fate come i vostri genitori. Svegliatevi!. Dylan diceva la stessa cosa, ma in modo diverso. Elvis si riferiva alla monotonia delle vite americane, Dylan agli errori commessi. Dylan fu il primo, almeno su larga scala, a lottare contro le ingiustizie, il razzismo, la guerra. Senza Dylan il punk non sarebbe esistito». Una delle ultime volte, gli chiesi di quantificare le possibilità che i Clash si rimettessero insieme. «Direi zero, ma bisogna sempre lasciare spazio agli imprevisti. Quindi ti dico: 0.5%. Bisogna capire quando è il momento di accoltellare il passato. Ho trascorso notti insonni a rimuginare su quanti errori avessi commesso e su come avrei potuto gestire meglio la vita mia e quella dei Clash. Poi, una notte, mi sono visto come un cane morente e sanguinante che correva per salvarsi. Quello ero: un cane che non voleva accettare il suo destino. E ho detto addio ai Clash. Bisogna accettare i verdetti della storia. È come i matrimoni quando vanno a male. Per quanti sforzi tu faccia, arriva sempre il momento in cui esplodi, magari per una sciocchezza, e ti scagli contro l'altro. Meglio stare lontani e ricordare i Clash quando erano i Clash».

·        17 anni dalla morte di Giorgio Gaber.

Paolo Giordano per “il Giornale” il 20 dicembre 2020. Dopo esserne stata moglie, musa e confidente, Ombretta Colli oggi è uno dei custodi dell' arte di Giorgio Gaber, un fuoriclasse così puro della canzone d' autore da averla traghettata fino all' inimitabile «teatro canzone». Gaber è mancato il primo gennaio 2003 e resta tuttora uno dei più lucidi e ispirati «osservatori sociali» del Dopoguerra. Ha intuito i cambiamenti spesso così tanto tempo prima che si verificassero da essersi, di volta in volta, inimicato tutto l' arco costituzionale. E questo è, dopotutto, la vera laurea di ogni artista libero fino in fondo. In una delle sue rare interviste, Ombretta Colli racconta perché oggi il Signor G (ci) manca così tanto.

Signora Colli, ormai sono diciott' anni senza Gaber.

«È vero. Ma nel caso di Giorgio e anche di mia mamma Franca, il tempo non conta o conta diversamente. L' assenza della persona amata è vissuta tutti i giorni, quindi è sempre nel qui e ora. Il dolore pian piano lascia spazio alla dolcezza del ricordo. A una nuova dimensione del legame. Pacificata e sempre presente».

Gaber è sempre stato fuori dal coro. Ma oggi che ogni coro sembra stonato che cosa direbbe?

«Gaber era unico e irripetibile. Anche per me le sue riflessioni, le sue intuizioni erano sempre sorprendenti, illuminanti e imprevedibili. Non ho proprio idea di come avrebbe letto e interpretato il presente, ma sicuramente avrebbe dato un bel contributo a far chiarezza».

Scrisse La mia generazione ha perso. Le nuove generazioni sono perdenti o vincenti?

«C' è un momento in cui senti che il futuro non ti appartiene più. Nel senso che non puoi più essere tu, per ovvie ragioni anagrafiche, a determinarlo; neanche in piccola parte.

Giorgio aveva 63 anni ai tempi de La mia generazione ha perso e forse era già su questa lunghezza d' onda. Ma, saggio com' era, sapeva sempre indirizzare in modo intelligente le sue energie e l' ha fatto, ancora una volta con coraggio e originalità, tracciando un bilancio rigoroso e tagliente della sua generazione».

Come sta trascorrendo questa orrenda pandemia/lockdown?

«La mia grande fortuna è di aver sempre avuto vicini in questi lunghi mesi mia figlia, i miei nipoti, mio genero. E alcuni amici carissimi. Non mi sono mai mossa dalla nostra casa di Camaiore immersa nella pace e nella natura. Mi sento davvero una privilegiata».

Dopo 18 anni Gaber rimane comunque il più attuale dei grandi artisti del '900. C' è un suo brano che lei sente possa adattarsi alla fase che stiamo vivendo?

«Viviamo in un momento di sospensione anche se i problemi di tanti, se non di quasi tutti, cominciano a diventare molto, molto seri. Ma c' è molta imprevedibilità sul futuro immediato. In questi mesi il brano di Gaber e Luporini che mi torna più spesso in mente è L' attesa».

Gaber e Grillo si sono incontrati spesso.

«Eccome se si sono incontrati! Gaber gli ha fatto addirittura una regia nel 1990. Quando Grillo decise di frequentare i teatri e non più solo i palasport. Lo spettacolo era Buone notizie. Beppe stimava molto Gaber e credo che nei suoi anni giovanili sia stato un suo riferimento importante».

In un periodo come questo, che è senza concerti, come si ricorda le esibizioni di Gaber?

«L' esplosione energetica ogni volta in teatro. Si partiva piano, ma poi il crescendo era rossiniano. Alla fine era una festa di condivisione e di autentica appartenenza».

Pubblichiamo qui il testo di Quando sarò capace di amare. Gaber era un «uomo bambino»?

«Gaber era consapevole che essere adulti non è un traguardo definitivo. Vale per gli uomini e per le donne. L' adulto bambino è chi rimane testardamente attaccato al proprio ego anziché cercare nel noi una reale evoluzione».

Oggi ci sono artisti che in qualche modo le sembrano suoi eredi?

«No. Non ce ne sono perché Gaber, come altri suoi importanti colleghi come Lucio Battisti o Fabrizio De André, nella loro straordinaria unicità non saranno mai ripetibili».

Tutti i giovani artisti oggi si sentono eredi di questo o quell' altro. Ma nessuno si proclama erede di Gaber. Come mai?

«Credo che tutti avvertano il grande spessore di Gaber, non solo il suo talento».

Avete attraversato un periodo meraviglioso della tv. Come le sembra quello che vede oggi?

«La nostra era una televisione molto professionale, anche perché ogni trasmissione veniva provata a lungo. C' era un grande lavoro tecnico e creativo. Ora tutto è molto veloce e tecnologico. Mi pare quindi che la televisione di oggi faccia molta fatica a lasciare un segno profondo o duraturo. Tutto viene consumato troppo in fretta».

Il lavoro e l' impegno della Fondazione Gaber è enorme per conservare e diffondere il patrimonio di questo artista unico.

«Sì, siamo sempre al lavoro per tenere alta l' attenzione su Gaber, sulla sua figura e sulla sua opera. Dalia mi ha anche convinto a scrivere un libro, uscito da poco, sulla mia storia con lui. (Chiedimi chi era Gaber per Mondadori, ndr). Sento attorno a noi sempre grande disponibilità da parte di tutti, anche delle istituzioni».

C' è un verso di Gaber che può spiegare questo periodo così strano e sofferente?

«Io come persona ci sono. Io con i miei sentimenti, la mia rabbia, le mie forze, ci sono».

Marco Palombi per “il Fatto Quotidiano” il 2 gennaio 2020. Era il 22 ottobre del 1970 quando, al Teatro San Rocco di Seregno, i primi versi di Suona chitarra diedero il via alla seconda vita di Giorgio Gaber (già rockettaro d' avanguardia con Celentano e poi cantante da sabato sera Rai) e alla prima vita di quel che oggi chiamiamo "Teatro canzone". Cinquant' anni durante i quali, e giusto il 1° gennaio di 17 anni fa, è purtroppo finita anche la seconda vita dell' artista noto all' anagrafe come Giorgio Gaberscik. Quello che segue è dunque un piccolo (e dilettantesco) tentativo di omaggio filologico al Signor G, al suo alter ego nell' ombra, il pittore Sandro Luporini, e alle decine di loro involontari "coautori". L' attitudine al saccheggio culturale del duo G&L, capaci di usare come materiale da costruzione teatrale tutto quel che gli era restato nell' orecchio o negli occhi dopo anni di letture, è d' altronde leggendaria: ad esempio, state leggendo queste righe su uno di "quei bordelli del pensiero che chiamano giornali" (C' è un' aria), rielaborazione di un passo delle Illusioni perdute di Balzac proprio come il "gabbiano ipotetico" di Qualcuno era comunista è parente del "condor ipotetico" del poeta portoghese Fernando Pessoa. Un' attitudine al riuso culturale, va detto, mai nascosta dal duo Gaber e Luporini, anzi esibita tanto nei libretti degli spettacoli che nelle interviste: "Abbiamo saccheggiato Céline, Adorno, Pessoa perché copiare da uno è plagio, copiare da tanti è ricerca, si sa" (Sandro Luporini nel 2013). E la lista è in effetti lunghissima e, oltre alla letteratura di mezzo mondo, andrebbero citati almeno gli antipsichiatri tipo Ronald Laing, quello dell' Io diviso. Davvero "da Marcuse fino a Dante" come cantava Gaber in La leggerezza riassumendo il "pacco di coscienza" che il volenteroso intellettuale di sinistra si doveva portare sulle spalle alla metà dei Settanta del secolo scorso ("c' è pure Fellini com' è pesante!"). Questo piccolo omaggio sarà, però, settoriale e si occuperà solo dello "scrittore creato da Dio per dare scandalo" (Bernanos), Louis-Ferdinand Céline: "Ma perché lui? Perché c' è in Céline la possibilità di un linguaggio teatrale immediato. Céline in un' intervista () dice che la sua non è letteratura, è vita, la vita così come si presenta. Il teatro vuole una lingua viva" (ancora Luporini, nel 2005). L' esercizio riguarda in particolare Viaggio al termine della notte, il cui protagonista Ferdinand Bardamu cela appena il dottor Destouches, vero nome dello scrittore francese: già negli anni Settanta la copia di Luporini - che lo cita tra "i tre libri per me davvero importanti" coi Minima moralia di Adorno e Il libro dell' inquietudine di Pessoa - era logora a forza di "orecchie, segni e segnetti". Ad esempio La dentiera, lungo monologo inserito nello spettacolo Far finta di essere sani, "è un omaggio a Céline": "E quando dico omaggio è chiaro che voglio dire che l' idea è sua (). Qua e là poi c' è anche qualche parola nostra". Una sola frase a titolo di esempio: "In qualche mese come cambia una camera, anche quando non si tocca niente. Per quanto vecchie, per quanto degradate siano, le cose, trovano ancora, non si sa dove, la forza di invecchiare", scrive Céline. "La stanza di un malato cambia. Le cose, le bottiglie, trovano sempre, non si sa come, la forza di invecchiare", nella versione G&L. Quello che segue è dunque un minimo e assai incompleto catalogo di citazioni per dare almeno l' idea di quanto del Viaggio di Céline ci sia in quello di Gaber e Luporini tra gli anni Settanta e Ottanta: d' altra parte - lo disse lo stesso Signor G in un' intervista - "dal suo spirito anarcoide abbiamo preso moltissimo: forse è stato il nostro principale maestro".

Famiglia. "Dovevo aver preso quel terrore da mia madre che mi aveva contaminato con le sue tradizioni: 'Si ruba un uovo E poi un bue e si finisce per assassinare la madre'. Cose che tutti abbiamo fatto una gran fatica a sbarazzarcene. Le impari da piccolo e vengono a terrorizzarti senza scampo, più tardi, nei momenti cruciali. Per disfarsene si può appena contare sulla forza delle cose. Fortunatamente, è enorme la forza delle cose". In casa mi hanno un po' contaminato con certe sane tradizioni. Il lavoro nobilita l' uomo Si ruba un ago, poi un bue e si finisce per vendere la propria madre. Non è facile liberarsi dall' onestà. Ma ora la pentola bolle anche se quelle cose lì ce ne vuole per sbarazzarsene, ti entrano dentro da piccolo e tornano a terrorizzarti quando stai per rubare l' ago. Che debolezze! Per liberarsene si può contare solo sull' urgenza delle cose (). Per fortuna l' urgenza delle cose è enorme (Introduzione, Libertà obbligatoria).

Strada. "Tutto deve finire per passarci, nella strada. Quella solo conta (). Nelle case, niente di buono. Quando una porta si chiude dietro un uomo, lui comincia subito a puzzare e tutto quel che si porta dietro puzza anche. Passa di moda sul posto, corpo e anima (). Conosco per esempio un farmacista che ha un bel manifesto in vetrina: Tre franchi la scatola per purgare tutta la famiglia!

Un affare! Giù rutti! Si fa tutto insieme, in famiglia". Nelle case / non c' è niente di buono / appena una porta si chiude / dietro un uomo / Quell' uomo è pesante / e passa di moda sul posto / incomincia a marcire / a puzzare molto presto (). Ne ho conosciute tante di famiglie, la famiglia è più economica e protegge di più. Ci si organizza bene: una minestra per tutti, tranquillanti aspirine per tutti, gli assorbenti il cotone i confetti Falqui, soltanto quattrocento lire per purgare tutta la famiglia! Un affare! Si caga, in famiglia, si caga bene, lo si fa tutti insieme (C' è solo la strada, Anche per oggi non si vola).

Viaggio. "L' infinito si spalanca solo per voi, un ridicolo piccolo infinito e voi ci cascate dentro Il viaggio è la ricerca di questo niente assoluto, di questa piccola vertigine per coglioni". Ti basta un paese nuovo e il cuore ti si emoziona, la testa ti gira, un infinito si apre nuovo per te, un ridicolo, piccolo infinito. E tu ci caschi dentro. Il viaggio è la ricerca di questo nulla, di questa piccola vertigine per ingenui (L' ingenuo, Polli d' allevamento).

Sesso. "Hanno cominciato a incularsi, per cambiare E allora di colpo si sono messi a provare 'impressioni' e 'intuizioni'". E anche nell' amore / non riesco a conquistare la vostra leggerezza / non riesco neanche a improvvisare / o a fare un po' l' omosessuale / tanto per cambiare (Quando è moda è moda, Polli d' allevamento).

Sconfitta. "D' altra parte si finisce tutti per assomigliarsi dopo un certo numero di anni che non si è sfondato. Nelle fosse delle grandi sconfitte un diploma qualunque vale un Prix de Rome. Un problema di autobus che non si prendono esattamente alla stessa ora". E dopo un po' tutti quelli che smettono si rassomigliano. Sul terreno della sconfitta, mi creda, non c' è nessuna differenza tra un filosofo che fa il barista, un ladro in disuso o un rivoluzionario smesso. Tra una decina d' anni saremo tutti uguali certo, uguali nei fallimenti () Le persone si uniscono, per un autobus che non hanno preso (Le carte, Libertà obbligatoria).

Smorfia. "Si finisce per avere la faccia piena di quella brutta smorfia che impiega venti, trent' anni e più a risalire dal ventre alla faccia. È a questo che serve, a questo soltanto, un uomo, una smorfia, che lui ci mette una vita a confezionarsi e ancora non gli riesce sempre di portarla a termine". E dopo vent' anni / si comincia ad avere la faccia / tutta presa da quella smorfia / che avanza sicura con un percorso preciso (). La smorfia che porta sul viso / l' uomo a confezionarla / ci impiega una vita / e non sempre riesce / a terminarla (La smorfia, Libertà obbligatoria).

Festa. "Nessuno in fondo le resiste alla musica. Non hai niente da fare col tuo cuore, lo regali volentieri. Bisogna sentire in fondo a ogni musica l' aria senza note, fatta per noi, l' aria della Morte". La musica da ballo / è l' unico linguaggio che riunisce il mondo / c' è chi ci gode smisuratamente / e c' è chi si lamenta della vita / sgambettando / E oltre le note si avverte / il senso dell' aria senza note / che è l' aria della morte (La festa, Polli d' allevamento, che proprio come La dentiera è tutta una rielaborazione celiniana dalle "montagne che non sono russe" a "sono rutti di gioia le feste").

Vecchiaia. "Essere vecchi vuol dire non trovare più una parte passionale da recitare, cadere in quell' intermezzo insipido in cui non si aspetta che la morte". Essere vecchi significa non trovare più una parte eccitante fisica da interpretare, e cadere in quello stupido riposo in cui si aspetta la morte (Finale, Libertà obbligatoria).

Solitudine. "C' è un momento in cui sei solo, quando sei arrivato in fondo a tutto quello che ti può capitare. È la fine del mondo. La stessa pena, la tua propria, non ti risponde più e bisogna tornare indietro allora, tra gli uomini () anche per piangere bisogna ritornare là dove tutto comincia, bisogna ritornare tra loro". C' è un momento in cui si è veramente soli, quando si arriva in fondo a ciò che siamo di orrendo, di squallido, ma in fondo, proprio in fondo in fondo, il dolore stesso non mi risponde più, gli occhi sono asciutti perché lì c' è il deserto. Allora bisogna risalire da quel fondo. Piano piano bisogna ritornare tra gli uomini, non c' è niente da fare, anche per piangere (La masturbazione, Polli d' allevamento).

La bella morte. "Si direbbe che si può trovare sempre per chiunque una sorta di cosa per la quale lui è pronto a morire e subito e anche contento. Solo che non si presenta mica sempre l' occasione di una bella morte, l' occasione che ti farebbe piacere. Allora si va a morire come si può". Io se fossi Dio / non sarei ridotto come voi / e se lo fossi io certo morirei per qualcosa di importante / purtroppo l' occasione di morire simpaticamente / non capita sempre e anche l' avventuriero più spinto / muore dove gli può capitare e neanche tanto convinto (Io se fossi Dio, Anni affollati).

Carogne. "Ce n' ha di pietà la gente, per gli invalidi e i ciechi, e si può dire che ha dell' amore di riserva. L' avevo proprio sentito molte volte l' amore di riserva. Ce n' è moltissimo. Non si può dire il contrario. Solo è una disgrazia che resti così carogna, la gente". Infatti non è mica normale / che un comune mortale / per le cazzate tipo compassione e fame in India / c' ha tanto amore di riserva che neanche se lo sogna / che viene da dire ma dopo come fa a essere così carogna (Io se fossi Dio, Anni affollati).

Felicità. "Se si vivesse abbastanza a lungo non si saprebbe più dove andare per ricominciare con la felicità. Ne avrebbero messi dappertutto di aborti di felicità, a puzzare in ogni angolo della terra e non si potrebbe nemmeno più respirare". Se si vivesse a lungo / non si saprebbe più dove andare / per rifarsi una felicità / Dovunque abbiamo abbandonato / degli aborti di felicità / a marcire negli angoli delle strade (Il delirio, Libertà obbligatoria).

La morte. "Sudava delle gocce così grosse che era come se avesse pianto con tutta la faccia. In quei momenti lì, imbarazza un po' essere diventato così povero e così duro come sei diventato. Ti manca quasi tutto quello che ci vorrebbe per aiutare un uomo a morire (). Agonizzare non basta. Bisogna godere mentre te ne vai, con gli ultimi rantoli devi godere ancora, giù in fondo alla vita, con le arterie piene di urea. Piagnucolano perché non godono abbastanza i morenti". Sudava gocce così grosse, che sembrava piangesse con tutto il corpo. In quei momenti, è seccante essere diventati poveri come si è. Si manca di quasi tutto quello che occorre per aiutare qualcuno a morire (). Ho avvertito che avremmo potuto capirci, bastava pochissimo, non era un agonizzante esigente. Forse perchè aveva capito, che quando si muore bisogna anche godere. Se i morenti piangono ancora, è perché non godono abbastanza (Il porcellino, Anni affollati).

Maria Volpe per corriere.it il 6 aprile 2020. Ombretta Colli è una donna molto simpatica, ironica, fortunata. E lo sa. In tanti, da tempo le chiedevano di scrivere un libro su lei e Giorgio Gaber, sul loro amore, sul loro sodalizio artistico sentimentale, ma lei - un po’ superstiziosa - ha sempre pensato che «portasse iella». Poi «un giorno mi hanno beccato in un momento buono e ho detto sì». Si è messa al lavoro con Paolo Dal Bon, amico storico, e hanno scritto Chiedimi chi era Gaber, 153 pagine che si leggono con grande piacevolezza tra aneddoti, ricordi, confessioni. Ombretta, dopo aver letto il suo libro (in uscita il 21 aprile) cosa le piacerebbe si dicesse? «Ah però Ombretta, alla fine ha avuto i suoi problemi anche lei. È una donna normale». Curiosamente le piace la definizione di donna normale, eppure se c’è una donna che è sempre stata fuori dagli schemi, è proprio lei. Del resto se uno come Giorgio Gaber l’ha amata così tanto, l’ha sposata, l’ha voluta sempre vicino, è perché ha visto in lei un essere speciale. Quando le chiedevano, anni fa, quando lei era bellissima, esuberante e provocante (qualità difficilmente perdonate a una donna) «facile eh, essere la moglie di Gaber?» Lei rispondeva candida: «Se uno ce la fa...».

Libertà e pregiudizio. Ci sono due parole che legano la storia di Ombretta a quella di Giorgio: libertà e pregiudizio. Entrambi, ciascuno con la propria personalità, e insieme come coppia, hanno fatto della libertà la loro bandiera e della lotta contro ogni tipo di pregiudizio la loro cifra. Per questo forse il loro amore ha resistito così tanto. Nell’ultimo capitolo del libro c’è un passaggio intenso, che riassume il senso della loro unione: «Credo che alla fine la nostra sia stata per il pubblico una coppia, se non eternamente felice, quantomeno solida. E in effetti è stato così. Abbiamo attraversato le gioie e i dolori di una coppia normale. (..) Certo quando ci sono l’innamoramento, l’attrazione e il desiderio tutto è più facile, ma non è tutto. È inutile tentare di scappare dalla sofferenza con i colpi di testa, le sbandate e i piccoli o grandi tradimenti. È soprattutto lì che si cresce, che si diventa adulti. Sì, con Giorgio abbiamo costruito qualcosa di solido, di cui essere orgogliosi. L’abbiamo capito e davvero realizzato il giorno in cui Dalia ci ha comunicato che aspettava un bambino». Effettivamente non c’è nulla di più normale in questa sintesi. Un amore, una figlia, Dalia, altre vite che nascono. Ombretta dice che il suo amore per Giorgio è durato 40 anni, più i 16 anni da quando lui non c’è più, perchè «la mattina quando mi sveglio io mi sento sposata con Giorgio». La scintilla scoppia in un elegantissimo ristorante milanese dove lui, gentiluomo, la invita per la prima volta. Anche se poi dimentica a casa il portafoglio ...Ride ancora adesso Ombretta : «Un uomo generoso, ma distratto. Quella sera mi colpì subito la sua forza di carattere incredibile e il suo umorismo. Su ogni argomento si poteva ridere, sempre». È vero, avevano la capacità di far finire tutto in una risata. Anche quando si raccontano le reciproche infanzie, non certo facili. Lui colpito a 9 anni da poliomielite che gli lascerà danni permanenti nella parte sinistra del corpo, prima alla gamba e poi alla mano; lei con un’infanzia difficile a Genova, poverissima nel dopoguerra, costretta a vivere in una casa tra le macerie e a trascorrere interi pomeriggi dalle suore o negli spazi della Cgil. Ricordi che fanno capire tante cose: la profonda sensibilità di Giorgio, la capacità di Ombretta di sentirsi a suo agio in qualunque ambiente. Giorgio e Ombretta si frequentano, si conoscono. Lui un uomo «che va a corrente alternata», che detesta viaggiare (ogni estate lei chiede: «Dove si va?» E lui risponde smarrito: «Perché ? Stiamo così bene a Milano») ma con una capacità innata di farsi voler bene da tutti. Lui è un Acquario e lei adora l’astrologia di cui ancora oggi è una appassionata “seguace”, dunque lo studia e riconosce in Giorgio tutte le doti degli Acquari: uomini sensibili e solidali con il prossimo, sinceri e leali. Lui è anche timido e determinato. Parlando di sé, una volta Gaber disse: «Vivo a corrente alternata, oggi mi entusiasmo enormemente, domani sono in piena assoluta depressione». Del resto il temperamento di un artista è spesso così. Gli inizi con Jannacci e Celentano al Santa Tecla di Milano. Il provino con Mogol, il suo primo disco Ciao ti dirò dove da Garberscik diventa Gaber. Da quel momento è un successo dopo l’altro. Dopo anni di grandi successi televisivi, Giorgio comincia a sentire un disagio rispetto alla tv che con l’inizio del ‘68 non riesce più a farsi portavoce delle istanze culturali del periodo storico. Giorgio si butta nel teatro per seguire i sogni dei ragazzi. Ed è amore a prima vista, passione irrefrenabile. «Ecco di chi davvero potevo essere gelosa - confida Ombretta - del teatro». In questa girandola di emozioni artistiche, nasce e cresce il loro amore. Una sera a Milano Giorgio le dice: «Credo che io e te potremmo andare davvero lontano sai?». E non si riferisce certo a un viaggio... Dopo un solo anno di fidanzamento si sposano il 12 aprile 1965, di lunedì mattina, all’abbazia di Chiaravalle. Poi la loro quotidianità, certo non noiosa. «Avevamo trovato il nostro equilibrio di coppia, costretti spesso a stare lontani per lavoro. Così si teneva accesa la passione. Però ci eravamo dati una regola: se per lavoro eravamo distanti da Milano non più di 150 km, dovevamo tornare a casa a dormire». Una regola che ha funzionato nel tempo. Come ha funzionato la loro diversità caratteriale: «Un po’ diversi bisogna esserlo, se si è uguali è una noia mortale. Quando ho capito che per lui viaggiare era una tortura, ho cominciato a viaggiare con le amiche». Dunque autonomi e indipendenti, ma capaci di starsi vicini: lei che lo supporta in un momento di difficoltà quando Giorgio, nei primi tempi del teatro, ha un periodo duro; lui che, anni dopo, la supporta nella sua scelta politica, quando amici e conoscenti le gettano la croce addosso («molti amici di sinistra non mi perdonavano la scelta di Forza Italia e non la perdonavano neppure a Giorgio! Secondo loro avrebbe dovuto lasciarmi per questo»). La verità è che c’è anche tanta stima reciproca. «L’ho amato molto e ho imparato tantissimo da lui, dal suo buon senso e dalla sua acutezza di analisi, dal suo sospetto verso estremismi, dietrologie e idee in voga». Perché la verità è che Giorgio non amava essere anti conformista ma semplicemente non conformista. Era contro il pensiero massificato. In questo esattamente come Ombretta.

La svolta. Nel gennaio del 1966 nasce Dalia e insieme alla gioia immensa arriva anche lo sconvolgimento professionale. Nonna Franca (mamma di Ombretta) si trasferisce nella loro casa milanese diventando a tutti gli effetti il terzo genitore di Dalia. Ombretta è senza dubbio una madre amorevole, ma non certo devota al focolare. Sceglie il parto indolore, e per questo viene fortemente contestata. Comincia un rapporto difficile spesso con le giornaliste che sembrano non amare i suoi paradossi, non gradire le sue provocazioni. È una vera femminista, donna autodeterminata che decide le regole del gioco. Tanto da stilare un decalogo proprio per risultare odiosa al pubblico: «Non farsi mai fotografare con i figli», «Indossare abiti appariscenti e provocatori», «Essere a favore del divorzio», «Dichiarare di essere contrari alla maternità», «Affermare di essere disposta a sacrificare la famiglia per la carriera». Si può immaginare a metà degli anni Sessanta un atteggiamento simile... Ma non indietreggia di un millimetro, anzi. Spavalda, gira le balere la sera a cantare e il pubblico la ama perché lei cerca il contatto con la gente vera. Canta La mia mama, Lu primmo ammore, Salvatore brani leggeri, divertenti, ma dai testi certo non maschilisti, anzi. È molto attraente, tra scollature e minigonne, e i complimenti, anche pesanti e volgari, da parte del pubblico maschile non mancano. E lì Ombretta si infuria e fa volare i microfoni («quelli pesanti» ) in testa al «molestatore» di turno, arrivando a liti furibonde. Sul rispetto non transige Ombretta e il suo attivismo femminista è molto intenso in quegli anni. Una riflessione sul femminismo, signora Colli, ieri e oggi. «Il Femminismo ancora oggi lo intendo come essere sé stessa, con il proprio carattere, forte delle proprie scelte. Purtroppo ancora oggi ho amiche che si fidanzano, si sposano e poi mi dicono “Sai lui non vuole che io faccia l’avvocata”. Amiche con tante potenzialità, con una intelligenza vivace, che finiscono per accasarsi facendo bambini. Finché è una scelta propria va bene, ma quando non è così... L’indipendenza soprattutto economica non andrebbe barattata con niente». Siamo ancora messe male, dice? «Meglio di una volta, ma c’è ancora tanta strada da fare. Manca il sostegno tra le donne. Non c’è solidarietà. Quando sento dire: “Sai lei è andata a letto con Tizio, mi cadono le braccia! Ma chissenefrega. Avrà avuto voglia di farlo. E allora?» Allora a un certo punto lei si sgancia da Giorgio Gaber e prova la sua strada di artista come Ombretta Colli. Non è facile all’inizio - viene bombardata di domande «Giorgio è d’accordo?», «Gaber è geloso?» - ma lei tira dritto con la sua forza. Una forza che emerge chiaramente nel racconto di un episodio tremendo che nel ‘73 colpisce la loro vita: una minaccia di rapimento dell’allora piccola Dalia. Trovano un biglietto: se non ci date i soldi, prendiamo la bambina. Un capitolo del libro dedicato a quell’evento «che ci ha segnato profondamente e che per anni mi ha fatto vivere nella paura». Poi per fortuna la sua vitalità torna a vincere. Gli inizi degli anni Settanta sono anche gli inizi del teatro-canzone di Gaber-Luporini «il periodo più felice della vita di Giorgio» e l’inizio della sua carriera di artista autonoma. Lo spettacolo a cui Ombretta è legatissima ancora oggi è Una donna tutta sbagliata, due ore e mezza di show da sola al Teatro Sistina di Roma «che non è un palcoscenico, è un colosseo. Ancora adesso quando ripenso a quella meravigliosa esperienza, forse la più bella della mia vita, penso che quando tu credi molto in una cosa, molto probabilmente ti riesce bene».

Il dolore. La fine degli Anni 80 per Giorgio significa malattia ed è costretto a rallentare; per Ombretta significa la decisione di buttarsi in politica. Giorgio non votava dal ‘75, ma va a votare per sua moglie. Un grande gesto d’amore. Crede in lei e nelle sue doti. In molti non glielo perdonano. Ombretta le hanno chiesto scusa? Ha messo a posto le cose con quanti vi hanno attaccato allora? «Sì» risponde lei con un filo di noncuranza. E con una punta di sano cinismo: «Poi quando sono diventata presidente di Provincia tanti (ex) amici di sinistra sono venuti a chiedermi favori». Del resto la sua grande dote è sdrammatizzare sempre. Tranne la malattia di Giorgio, il dolore, la morte precoce il primo gennaio 2003. Lei è lì al suo fianco, nella loro casa di Camaiore, La Padula, un luogo incantato, tra campagna e mare. Lo guarda, prima che lui chiuda gli occhi, e gli dice: «Saremo sempre insieme».

·        15 anni dalla morte di Sergio Endrigo.

Sergio Endrigo e l’hobby delle armi. «Io, convocata dalla questura per 5 pistole di papà». Fabrizio Peronaci il 28/6/2020 su Il Corriere della Sera. La figlia Claudia custodisce un piccolo arsenale che racconta un lato inedito del cantautore morto nel 2005: «Gli piaceva sparare, usavamo come bersagli le lattine di Coca cola». Sulle prime, ha reagito a modo suo: il carattere non le manca. Claudia Endrigo, la figlia di Sergio, il cantautore gentile e anti-conformista morto nel 2005 e rimasto nella memoria di tutti per «Io che amo solo te», il singolo entrato nella classifica delle canzoni più belle di sempre, e per un motivetto allegro e geniale che i bambini non smetteranno mai di cantare («Per fare l’albero / ci vuole...»), aveva appena scartato la raccomandata. Lette le prime righe, aveva avuto uno scatto d’ira. Il timbro sulla busta «Questura di Roma - commissariato Ponte Milvio» l’aveva inquietata. Nulla di grave, invece; ma l’irritazione era rimasta. «Cos’è che vogliono? Un certificato medico che attesti la mia sanità fisica e mentale per tenere in casa cinque ferri vecchi, ormai cementificati, non funzionanti da almeno un secolo? Suvvia! Il grilletto neanche scatta, con quelle pistole potrei girarci la polenta! Molto più pericoloso il coltello del pane! Mah, siamo al teatro dell’assurdo...»

Eccolo, il Sergio Endrigo che non ti aspetti: collezionista di revolver e fucili nonché buon tiratore(al poligono o in campagna) per puro divertimento, con amici e parenti, lui che era antimilitarista e dichiaratamente di sinistra. Lui che cantava «Girotondo intorno al mondo», appello in musica alla pace e alla fraternità universale. Nei giorni scorsi, a cavallo del 15 giugno, data dell’87° compleanno ricordato sul web da tanti fan orfani del cantante, ci ha pensato Claudia, tenace custode della memoria del padre (che fu vincitore del Sanremo 1968, facendo infuriare Adriano Celentano), a raccontare un aspetto inedito dell’Endrigo nazionale. A innescare la rivelazione è stata proprio la richiesta del commissariato di sottoporsi alla visita medica prevista, con cadenza quinquennale, dal decreto 104/2018. Solo in tal modo avrebbe potuto continuare ad conservare i cimeli bellici del babbo. Ed è stata lei stessa, Claudia Endrigo, a spiegare in un post: «Quando 15 anni fa papà mi ha lasciata, contattai la Questura che mi rilasciò un certificato per detenere armi antiche artistiche rare. In quell’occasione, non avendo e non volendo prendere il porto d’armi, feci ritirare la P38 che lui deteneva regolarmente, da me trovata in un cassetto del suo comodino...»

Le pistole da collezione di Sergio Endrigo. La doppietta cal. 12 anno di grazia 1856, la rivoltella cal. 7 del 1852 e le tre-quattro pistole calibro 11-12, tutte ossidate, non funzionanti, acquistate da Sergio Endrigo da antiquari o collezionisti, finirono così in un vassoio tondo, sulla cassapanca all’ingresso. «Mi ricordano mio padre e mi dispiaceva separarmici - racconta Claudia - ma letta la raccomandata, d’istinto, ho avuto un rifiuto della burocrazia, e ho scritto su Fb che non avevo intenzione di accollarmi la rottura di scatole di una visita alla Asl per una questione tanto assurda, e che la Questura venisse pure a casa a riprenderle, per rottamarle, quelle armi pericolosissime...» Una querelle che - potenza delle comunicazioni in tempo reale, all’epoca dei social - si è subito risolta: giorni fa la figlia del grande chansonnier ha parlato con una funzionaria di polizia e l’equivoco, in virtù della classificazione delle armi come «artistiche e da collezione», è stato prontamente chiarito. Resta il retroscena: l’esistenza del piccolo arsenale casalingo ha fatto emergere un aspetto poco noto della personalità di Sergio Endrigo. «Mio papà non era affatto una persona triste o solitaria. Era un uomo serio, questo sì. Adorava sia la poesia, basti pensare alla canzone La rosa bianca, tratta dai versi di José Martí, o alla collaborazione con Vinícius de Moraes e Giuseppe Ungaretti, sia l’impegno civile, presente nella meravigliosa Anch’io ti ricorderò, dedicata a Che Guevara, scritta di getto quando venne a sapere che stavano per prenderlo in Bolivia», premette Claudia, che tre anni fa ha pubblicato «Sergio Endrigo, mio padre», unica biografia in circolazione del cantante. «Però - aggiunge la figlia - papà era anche un giocherellone. Sapeva godersi la vita con i suoi amici, primo tra tutti Sergio Bardotti, il paroliere, con i quali facevamo baldoria nel comprensorio di villette vicino Mentana dove abitavano anche Luis Bacalov e Ennio Morricone, e dove venivano a trovarci Lucio Dalla e Ron, Gianni Morandi, Franco Migliacci. Tanto per dare l’idea, come racconto nel mio libro, era un gran raccontatore di barzellette, un accanito giocatore di scopa, un fanatico del ping pong, un ottimo cuoco». E, si scopre adesso, un buon tiratore... «Sì, ma questo non contrasta con il suo antimilitarismo! Era un hobby legato all’infanzia, una sorta di romanticismo nel rivivere gli anni lontani da bambino, in Istria e poi in Italia, da esule, quando giocava con i soldatini. Fu lui stesso a raccontarmi che gli piaceva dipingerli, colorare le uniformi». Le esercitazioni armi in pugno risalgono a molto dopo, anni ‘70 e ‘80. «Io ero bambina, e poi ragazza. Mi piaceva fare il tiro a segno con lui e gli amici, in campagna. In fondo sono sempre stata un po’ maschiaccio. Sparavamo ai bersagli classici o alle lattine di Coca cola. Nessun pericolo, solo un gioco. Altro che musone. Quante risate ci siamo fatti, io e papà...» 

·        13 anni dalla morte di Luciano Pavarotti.

Anticipazione da “Chi” l'11 agosto 2020. Nicoletta Mantovani, vedova del grande tenore Luciano Pavarotti, ha fatto al direttore di “Chi” Alfonso Signorini , suo amico da 25 anni una clamorosa confessione: a settembre si sposerà con Alberto, il suo nuovo compagno , dirigente d’azienda,  cui è legata da circa 9 mesi.  «Ci ha fatto conoscere una comune amica ed è stato subito amore»,  ha raccontato Nicoletta Mantovani ad Alfonso Signorini (che fu il primo nel 1996 a svelare al mondo con un clamoroso scoop la storia d’amore tra Pavarotti e la Mantovani) in una lunga intervista esclusiva pubblicata sul numero di “Chi” in edicola da mercoledì 12 agosto. «Poi il lockdown ci ha fatto capire di essere fatti l’uno per l’altra». «Siamo tanto felici», spiega Nicoletta Mantovani « Non avevamo motivo di sposarci, se non per una voglia matta di farlo. Abbiamo deciso di farlo in chiesa, perché per me, da credente era importante dichiarare il nostro amore davanti al Signore. Lo faremo a Bologna in settembre, in una chiesa speciale per me, piena di significato». E parlando della memoria del celebre marito, Nicoletta Mantovani afferma: «Luciano rimarrà sempre una persona importante della mia vita e continuerò a seguirne la memoria, come merita un grande artista come lui. Ma come mi ricordava sempre Luciano, la vita va vissuta in ogni istante al massimo, cercando sempre di avere il sorriso, e Alberto mi fa rivivere una grande gioia. Il nostro è un amore profondo, una vera magia».

"Pavarotti è nel cuore ma ora mi risposo": Nicoletta Mantovani a nozze dopo il colpo di fulmine. La vedova del tenore Luciano Pavarotti ha svelato, a sorpresa, di essersi innamorata perdutamente di un dirigente d'azienda e che, dopo soli nove mesi di passione, ha deciso di convolare a nozze. Novella Toloni, Martedì 11/08/2020 su Il Giornale. "È stato il lockdown a farci capire di essere fatti l’uno per l’altra", così Nicoletta Mantovani ha svelato, in esclusiva al settimanale Chi, di essere pronta a sposarsi con il suo nuovo compagno, Alberto, conosciuto soltanto nove mesi fa. La vedova di Luciano Pavarotti ha sorpreso tutti e con un gran colpo di maestro ha confessato di esser pronta al secondo "sì" della sua vita. Sono passati ormai tredici anni dalla scomparsa di Luciano Pavarotti, il tenore italiano più grande di tutti i tempi. La storia d'amore con Nicoletta Mantovani, annunciata nel 1996 proprio dalla rivista Chi, scosse l'opinione pubblica per la differenza di età tra Pavarotti e la sua compagna: lui 61 anni, lei appena 27. Questo non fermò, però, il loro amore che si concretizzò con il matrimonio nel 2003, interrotto quattro anni dopo solo dalla morte prematura del cantante lirico. Oggi a distanza di tredici anni Nicoletta Mantovani ha ritrovato il sorriso accanto a un nuovo compagno, Alberto, dirigente d'azienda conosciuto a un evento grazie alla complicità di un'amica in comune che li ha presentati. "È stato subito amore - ha raccontato Nicoletta Mantovani ad Alfonso Signorini - e siamo tanto felici. Non avevamo motivo di sposarci, se non per una voglia matta di farlo. Abbiamo deciso di farlo in chiesa perché per me, da credente, era importante dichiarare il nostro amore davanti al Signore. Lo faremo a Bologna in settembre, in una chiesa speciale per me, piena di significato". Nicoletta Mantovani è dunque pronta a una nuova vita e alle seconda nozze. Ma senza dimenticare però Luciano Pavarotti, una parte importante del suo passato e dalla sua gioventù: "Luciano rimarrà sempre una persona importante della mia vita e continuerò a seguirne la memoria, come merita un grande artista come lui. Ma come mi ricordava sempre Luciano, la vita va vissuta in ogni istante al massimo, cercando sempre di avere il sorriso, e Alberto mi fa rivivere una grande gioia. Il nostro è un amore profondo, una vera magia".

Nicoletta Mantovani: «Pavarotti, quando mi ammalai, fu grandissimo». Pubblicato venerdì, 10 gennaio 2020 su Corriere.it da Valerio Cappelli. La vedova del grande tenore: «Quando scoprii che avevo la sclerosi multipla mi disse: fin qui ti ho amato. D’ora in poi ti adorerò. E che la malattia era un’opportunità per migliorarsi.»

Ricorda quella volta in cui, durante una cena a Parigi, mi disse: il maestro ha risposto che l’artista è lui, ed è lui a dare le interviste?

Nicoletta Mantovani sorride con una goccia di malizia, e la timidezza che non l’ha mai abbandonata del tutto: «Sì! Stavamo già insieme da un bel po’. Non potevo dirle altro, la nostra era solo prudenza». Passarono pochi giorni e sulla copertina di Oggi apparve la foto rubata di Luciano Pavarotti e Nicoletta Mantovani che si baciavano alle Barbados. Lo scandalo, la reazione di Adua, la prima moglie: «Luciano, stai oltrepassando il punto di non ritorno». Quel momento drammatico nella vita del tenore si ritrova nel bel documentario-ritratto di Ron Howard intitolato Pavarotti che proiettato alla Festa del cinema di Roma nello scorso ottobre. Nicoletta quella sera a cena ci aveva raccontato di come era stata ribaltata la sua vita, da studentessa a segretaria del tenore del secolo, dagli esami universitari ai viaggi in tutto il mondo, mentre lui cantava nei teatri, nei parchi, negli stadi. Le chiedemmo, invano, di raccontare quello straordinario cambio di vita. A novembre Nicoletta ha compiuto 50 anni. Nel suo sguardo c’è una rassegnata serenità, qualcosa che è stato e non sarà più, il sapore di quindici anni irripetibili. Ci accoglie nella casa museo alle porte di Modena che fu il loro nido d’amore. La prima stanza è quella di Alice, la loro figlia che tra due giorni compie 17 anni. C’è ancora il cavallo a dondolo che lui le portò da Mosca. «Gli abbracci di Luciano mi proteggevano. Il suo sorriso coinvolgente mi davano serenità, gioia, forza. Nostra figlia Alice ha lo stesso sguardo del padre».

Che ragazza è, Alice?

«Determinata, tosta, difende diritti importanti, le piace informarsi, fa il classico. Non sa cosa farà da grande. Non lavorerà in campo artistico. Forse sarà giudice o si darà alla politica. Ha preso il senso di giustizia del padre. Aveva 4 anni quando Luciano venne a mancare. Di lui, ricorda quando vedevano alla tv i cartoni di Nemo, o quando dipingevano insieme».

In che rapporti è con le tre figlie che Pavarotti ebbe dal primo matrimonio?

«La rottura con loro non c’è mai stata. Da quando Cristina ha avuto Caterina, che ha la stessa età di Alice, ci capita di fare le vacanze insieme. Amiche con loro tre è una parola grossa ma ci vediamo regolarmente, una o due volte al mese. I filmati e i ricordi per il documentario di Ron Howard le abbiamo date tutte noi, l’archivio e la Fondazione che porta il nome di Luciano».

Adua, la donna che lo accompagnò fin dai suoi primi successi giovanili, intervistata da Howard dice: «Mi parlavano di tradimenti e non volli mai credervi, quando avevo dei sospetti Luciano mi giurava che non era vero niente. Capii dopo che diceva il falso». «Ron Howard, che ha fatto un lavoro straordinario con lo sguardo di chi non era appassionato d’opera, ha dato la possibilità a tutti quelli che hanno amato Luciano di parlare. Con Adua non ho rapporti, ci siamo incontrate una sola volta a un funerale. C’è una vecchia intervista in cui Luciano dice: “Soffrivo anch’io, mia moglie di più. Ma mi ero innamorato”. Il filmato esce in tutto il mondo, in Usa ha incassato quasi 7 milioni che è una cifra enorme per un documentario, ed è stato il secondo più visto degli ultimi cinque anni dopo quello su Amy Winehouse».

Come vi eravate conosciuti?

«Avevo 23 anni, lui 34 in più. Ero una studentessa bolognese di Scienze naturali in cerca di un lavoro estivo. Mi presentai al colloquio, proprio qui accanto, nella scuderia che oggi non c’è più, e mi imbattei in lui. Che non doveva esserci, naturalmente non partecipava a quelle riunioni. Ero imbarazzatissima. Lui mi scrutava, io zitta. Presi coraggio e gli chiesi: le piacciono i cavalli? E lui: la prossima domanda è se mi piace cantare? Fui assunta. Luciano entrava in ufficio tutti i giorni, le sue collaboratrici non capivano». Dopo sei mesi, una notizia traumatica.

«Eravamo a Los Angeles, dal bacino in giù non sentivo più niente. Non sapevo nemmeno cosa fosse la sclerosi multipla. Luciano mi disse: fin qui ti ho amato. D’ora in poi ti adorerò. Decidemmo di non dire niente a nessuno salvo (anni dopo) a Rita Levi Montalcini, incontrata in un’occasione pubblica. Luciano fu straordinario nel rincuorarmi».

Cosa le diceva?

«Mi raccontava della guerra, durante i bombardamenti in casa si mettevano in circolo e cantavano tutti assieme cercando di superare il rumore delle bombe. Poi mi diceva di non guardare la sclerosi come qualcosa di negativo, era un’opportunità per migliorarsi. Ho capito che era una parte di me, l’avrei avuta per sempre, dovevo imparare a conviverci».

Quali cure fece?

«Tradizionali, all’inizio. Venticinque anni fa ci si curava con il cortisone, poi sono passata all’interferone con effetti collaterali pesanti. Per puro caso incontrai il professore Zamboni, chirurgo vascolare: scoprì che molti suoi pazienti avevano tratti in comune con i malati di sclerosi. È ancora sotto sperimentazione, ma ha avuto riconoscimenti scientifici».

Il momento più bello e quello più doloroso fra lei e Pavarotti?« Quando mi laureai era in tournée a Tokyo. Prese un volo e mi raggiunse a Bologna, stavo festeggiando con i parenti. La mattina dopo ritornò in Giappone. Dolori, ne abbiamo avuti tanti, i gemellini...Riccardo è nato morto. Artisticamente era sempre positivo, lui cantava per passione, aveva una forma di devozione per l’opera».

Chi considerava suo rivale, Domingo?

«Nessuno, ascoltava gli altri per imparare ma si sentiva in competizione con se stesso. Sognava di duettare con Mina, avevano in progetto un Magnificat scritto appositamente da Marco Frisina, ma saltò. Io volevo farlo cantare con Vasco, che è un mio idolo. Ma a Vasco non piacciono i duetti».

È stata lei a lanciare il cross over con i concerti Pavarotti & Friends in tv?

«No, erano già nati. Ma è vero che mi adoperai per farlo duettare con i miei cantanti preferiti, come Bono degli U2. Luciano si presentò a lui senza preavviso gli disse: Dio ti metterà una canzone nel tuo cuore per me. Bono sorrise, un po’ incredulo. Poi scrisse Miss Sarajevo. Luciano era semplice sulla beneficenza di quell’avvenimento: se insegni amore non ci sono guerre. Era davvero Nemorino dell’Elisir d’amore, l’innocente che ha fiducia nel prossimo. In questa casa predomina il giallo. Amava il sole, la luce, voleva esserne inondato appena fosse giorno, fece costruire il lucernaio».

Ha partecipato alla ristrutturazione?

«No, voleva fare tutto lui. Impiegò dieci anni, diede indicazioni e disegni agli architetti».

Se un arredamento non le piaceva?

«Eh, me la facevo andar bene. È rimasto tutto com’era, la sua presenza è fortissima, a volte mi sembra che possa spuntare da un momento all’altro. In cucina, il suo regno, c’è due di tutto, due lavelli, due lavastoviglie…».In mezzo a tutti questi ricordi, sembra più di un grande artista con il frac, il sorriso aperto a una ruspante, generosa bonomia emiliana, il fazzoletto in mano e le braccia aperte che sembra abbracciare il mondo.

«Ma sa, per la Decca ha venduto 90 milioni di dischi, fu premiato alla Casa Bianca da Kofi Annan, ci sono lettere di Frank Sinatra che gli disse, dopo un loro duetto, che My Way era diventata Our Way. Qui c’è la celebre foto ingrandita al Columbus Day di New York. Voleva sfilare a cavallo, gli dissero che non c’erano precedenti e dunque non era possibile. Ci ripensarono. Ma c’è un episodio che non si conosce. La vede quella macchia scura sotto il camicione con i colori della bandiera americana? È un giubbotto anti proiettile. Luciano due giorni prima aveva ricevuto una lettera anonima: nel momento in cui avrebbe abbracciato il presidente Jimmy Carter, un cecchino avrebbe sparato. Lui andò, ma mi confessò di avere avuto un brivido in quel momento». Nel filmato gli chiede come avrebbe voluto essere ricordato.

«Era un filmino amatoriale. Come artista, il fatto di aver portato la lirica alle masse. Come uomo, aveva il rimpianto di non aver potuto essere il padre che avrebbe voluto essere».

Se ripensa a quei 15 anni?

«È un misto di sentimenti, la malinconia certo... Non è semplice andare avanti portandosi dentro tutto». Dopo Luciano…«Ho avuto una relazione importante di 7 anni con un uomo che gestisce teatri. Non abbiamo resistito alla crisi del settimo anno. La vita va avanti e Luciano avrebbe voluto questo, che continuassi a vivere. Sarà sempre nel mio cuore, è stato tutto, il mio compagno di vita, il mio maestro, il padre di mia figlia. Non poteva augurarmi che di sorridere alla vita».

Piera Anna Franini per “il Giornale”  il 20 gennaio 2020. Per 40 anni Adua Veroni ha condiviso la propria esistenza con un monumento vivente come Luciano Pavarotti. È stata la prima moglie del tenore (dei tenori), l' uomo per il quale è lecito usare il superlativo perché nessun cantante lirico d' oggi, e del passato prossimo, ha raggiunto la fama planetaria e trasversale di big Luciano, riempendo teatri e stadi e con l' onda lunga di più di 100 milioni di dischi venduti. Su di lui è stato girato un docufilm, «Pavarotti» di Ron Howard: tutto è fuorché un capolavoro, ma le riprese di vita quotidiana e qualche gustoso dietro le quinte hanno ricordato perché la gente impazziva per questa leggenda dalla risata contagiosa e d' una spontaneità disarmante, qualità che si saldavano con una voce con dentro il sole e la voglia di vivere. Ma cosa vuol dire vivere accanto a un mito? Lo abbiamo chiesto ad Adua Veroni che ha ricostruito alcuni momenti del passato con disincanto, equilibrio e bonomia emiliana. Neppure l' ombra d' acredine per lo strappo della coppia (dopo 41 anni di unione, incluso il fidanzamento, entrava in campo Nicoletta Mantovani, poi seconda moglie), ricucito durante la fase dell' epilogo del cantante, quando la malattia se lo portava via nel 2007.

«Vivere con un mito, vuol dire semplicemente annullare sè stessi». Consigli a chi si trova in questa situazione?

«A mio avviso è sano condividere e ponderare le scelte e farsi consigliare da persone fidate e del mestiere. Mai intromettersi, per esempio, nelle questioni che riguardano il rapporto tra l' artista e la direzione artistica di un teatro. È poi importante essere sinceri, e critici. Calato il sipario, tutti lodano l' artista anche quando le cose non sono andate poi così bene. Invece la verità va detta».

Pavarotti accettava le critiche?

«Assolutamente sì, ascoltava le mie osservazioni e anche quelle delle figlie. La critica onesta serve molto più di un' approvazione. E la cosa gli era perfettamente chiara».

Al partner di un artista tocca spesso occuparsi delle questioni pratiche. Accadeva anche a voi?

«Eh, sì. Questi sono i casi in cui devi fare il tuo ma anche quello che toccherebbe all' altra parte della coppia. Se vivi con una leggenda devi fare da contrappeso, risolvere i problemi che potrebbero compromettere la serenità dell'artista. Così come certe comunicazioni vanno fatte nel momento giusto. Ricordo, per esempio, che quando nostra figlia Lorenza fu operata di appendicite, lo avvisai quando tutto si stava risolvendo».

Faceva in modo che vivesse sotto una campana di vetro...

«È così che funziona, l'artista deve potersi occupare serenamente del suo lavoro».

Dove è volata la mente quando ha ascoltato Tosca, l'opera che ha inaugurato il cartellone della Scala?

«Eh... un fiume di ricordi... ».

Di Pavarotti e Kabaivanksa? Furono Mario Cavaradossi e Tosca al Met di New York, al Covent Garden a Londra, a Vienna, alla Scala...

«Una coppia fantastica. Per interpretare Tosca ci vuole gran classe, e Raina l'aveva, e sapeva anche muoversi meravigliosamente in palcoscenico. Il primo disco che regalai a Luciano fu proprio Tosca interpretato da Maria Callas e Giuseppe Di Stefano».

Perché regalare proprio Tosca?

«Perché in casa mia erano tutti appassionati di opera lirica. Io un po' meno, devo ammetterlo, però trovavo divertente studiare le trame delle opere; avevo uno zio che collezionava libretti. E mi ero letteralmente innamorata di Cavaradossi (ndr pittore, amante di Tosca), era il mio idolo, mi piacevano il suo patriottismo e il suo coraggio».

Come conobbe Pavarotti?

«Frequentavamo la stessa scuola, l' istituto magistrale. Io avevo 17 anni e lui 18 nella stessa scuola ma non nella stessa classe».

Com' era la famiglia di Pavarotti? Sappiamo che era molto legato ai genitori.

«Erano persone molto semplici, disponibili. Il papà era d' una simpatia genuina. Adorava l'opera, cantava nella Corale Rossini di Modena, dove fece entrare anche Luciano ancora giovanissimo. Adele era più introversa del marito ma molto sensibile e romantica».

Si riavvicinò all' ex marito durante la fase della malattia. La riconciliazione la fece sentire un poco più sollevata?

«Sollevata non direi proprio. Non stava per niente bene sia fisicamente che psicologicamente. È andata così. Diciamo che provavo una gran pena».

Cosa dice del recente docufilm di Howard?

«L' impostazione registica mi è piaciuta e ritengo sia riuscita a far percepire al pubblico l' essenza della personalità di Luciano; mentre, sul piano narrativo, avrei preferito avendo vissuto tante situazioni in prima persona un racconto più puntuale. Ho avvertito poi la mancanza di molti testimoni che hanno veramente avuto un ruolo fondamentale nella vita di Luciano, sia condividendo con lui la realtà di tutti i giorni che l' esperienza del palcoscenico».

A proposito di Scala, così assente nel film di Howard. Cosa ha significato questo teatro per Pavarotti?

«È stata una tappa molto importante. Luciano vi debuttò in Bohème in sostituzione di Gianni Raimondi. Dirigeva Karajan. E affrontare Karajan non era facile ma, per Luciano, è stato un incontro artistico importantissimo».

In che senso non era facile?

«Faceva tremare le vene e i polsi perché era molto esigente, anche se poi i risultati si vedevano. Quando Luciano stava preparando la Messa da Requiem alla Scala con Karajan, io stavo per partorire Giuliana, la nostra terza figlia. Era terrorizzato all' idea di prendersi raffreddori spostandosi fra Modena e la Scala, così non si mosse da Milano e vide sua figlia che aveva già otto giorni».

Quali opere e arie cantate da Pavarotti accendono i ricordi più intensi?

«Senz'altro La Bohème perché gli ha permesso di iniziare la carriera da protagonista, dandogli la certezza che poteva finalmente considerarsi un tenore in carriera. Questo ha fatto sì che potessimo fare progetti per il futuro e di creare una nostra famiglia. Ricordo l'emozione che provai quando, in occasione del debutto, alla fine della romanza Che gelida manina, il pubblico applaudì con grande calore ed entusiasmo. Fondamentale anche il ruolo di Riccardo in Un Ballo in Maschera, personaggio da lui molto amato».

Partiamo dal Covent Garden di Londra.

«Luciano fu chiamato a sostituire Giuseppe di Stefano che si era ammalato. L'indomani della recita, i giornali scrissero che era stato scoperto un nuovo talento».

Il Met di New York?

«Il debutto al Metropolitan, sempre con La Bohéme, non fu del tutto fortunato, in quella occasione si ammalò durante la seconda recita e dovette abbandonare, malgrado il successo della prima».

Possiamo immaginare il mix di rabbia e frustrazione quando un malanno manda all' aria una recita. Ma chi sta accanto all' artista, come vive questi momenti?

«Sono situazioni terribili. Ricordo, al Festival di Salisburgo, ero in piedi in galleria seguendo La Bohème diretta da Karajan. Alla fine del primo atto, la voce di Luciano si troncò all' improvviso. Mi sentii svenire, tanto che dovetti appoggiarmi ad una colonna che avevo di fianco. Corsi in camerino e dissi a Karajan che Luciano non poteva proseguire. Lui replicò che doveva continuare anche solo per rispetto di quanti avevano pagato il biglietto. Insistetti di nuovo, ma niente. Karajan fece intervenire il suo medico. Costui mise nella gola di Luciano un ferro, per me lunghissimo, per rimuovere quel catarro. Un ferro di tortura perché Luciano si lamentava per il dolore. Però poi tornò in scena e fu un grande successo».

Nel film, si vede Pavarotti raggiungere il palcoscenico dicendo: «Vado a morire». Era un modo per sdrammatizzare oppure faceva sul serio?

«Soffriva. Non prese mai alla leggera nessuna recita. Aveva sempre paura che un incidente potesse compromettere l'esito della serata. Il cantante è come l' equilibrista, cammina sul filo. La voce è un organo delicatissimo».

A un certo punto, lei fu pure sua agente.

«Non da subito però e sempre in collaborazione con gli altri suoi rappresentanti; la mia esperienza, o meglio, la mancata esperienza, non l' avrebbe permesso. Fin dall' inizio tenevo invece le fila con i vari agenti, tedeschi, inglesi, americani e l' agente italiano che lo aveva scoperto al Concorso Peri. Con questi vi era un continuo scambio di corrispondenza e da loro imparai molto. Proprio in questi giorni mi sono capitate fra le mani copie di lettere, scritte con carta carbone su velina».

Come si stanno trasformando i cantanti? Lei ha il polso della situazione anche perché segue e presiede il Concorso per cantanti lirici Opera-Pienza, in provincia di Siena.

«Innanzitutto, nel tempo è cambiata la morfologia del corpo, forse una conseguenza del cambiamento dello stile di vita. Poi, soprattutto negli uomini, è sicuramente più raro trovare voci di grande volume».

Come è arrivata a questo concorso? Pienza è un gioiello rinascimentale, ma è estranea ai circuiti della lirica.

«Faccio un passo indietro. Alcuni cantanti, vincitori del Pavarotti International Voice Competition di Philadelphia, si rivolsero a me per chiedere supporto e consigli per la loro futura carriera. Avendo maturato negli anni una certa esperienza, decisi di aprire un' agenzia di rappresentanza per cantanti lirici con Angelo Gabrielli e Francesca Barbieri. Tra i giovani cantanti che rappresentavo, vi era anche il mezzosoprano Monica Faralli che, a sua volta, ben sapendo quanto sia importante dare un sostegno ai giovani talenti, ha poi istituito il Concorso Opera Pienza, e mi ha affidato la presidenza».

Soddisfatta dell' operazione?

«Sì perché la soddisfazione nel lavorare per i giovani è grande. La Città di Pienza li accoglie come fossero persone di famiglia e l' Amministrazione Comunale sostiene, fin dall' inizio, il progetto con generosa partecipazione. Non è semplice gestire una tale organizzazione, in cui confluiscono tanti cantanti da tutto il mondo, ma la determinazione e la concertazione del Direttore Artistico Monica Faralli fa sì che tutti gli anni si compia il miracolo. Non ultimo, il concorso annovera una giuria composta anche da direttori e manager di teatri stranieri. Data la precaria situazione dei teatri italiani, è rincuorante sapere che i nostri cantanti possano avere audizioni e contratti con enti esteri. È importante vincere borse di studio ma, ancor più, avere possibilità d lavoro».

Cosa ricorda del primo vostro viaggio a Pechino? Correva l'anno 1986.

«Ci ricordava l' Italia del secondo dopoguerra. Non circolavano auto, vedevi fiumi di biciclette, la gente giocava a morra o a carte sotto i lampioni. Mi colpì la partecipazione di massa agli spettacoli, e questo nonostante i biglietti avessero un prezzo alto. Eravamo nel Palazzo dell' Assemblea del Popolo di Pechino, ed ero seduta al fianco di un personaggio chiave della storia cinese. Mi dissero che aveva partecipato alla Marcia di Mao. In generale, i Cinesi mi piacquero subito. Ricordo il grande calore con il quale fummo accolti».

E invece la vostra prima volta in Russia?

«La prima volta fu nel 1974. Fu eseguita a Mosca una splendida Messa da Requiem diretta da Claudio Abbado e il pubblico fu molto caloroso, ma l' aria che si respirava nella città era opprimente. Tornammo nel 1986, fu un' esperienza molto bella dove, in un paese ancora soggetto comunque a tanta corruzione, si cominciavano però ad avvertire segni di distensione e di cambiamento. Ritornando invece all' esperienza della Cina ricordo che trovammo un popolo dignitoso. Di lì a poco ci invitarono di nuovo, subito dopo la rivolta di Tienanmen. Rimanemmo così colpiti dalla situazione terribile e dall' efferatezza delle immagini che da quel paese lontano ci giungevano, che decidemmo di declinare l' invito».

Una sua opinione su quanto accaduto a Placido Domingo (ndr accusato di molestie ascrivibili a 30 anni fa, non dimostrate, ma che hanno compromesso l' attività americana del tenore dei Tre Tenori).

«Dov'è la verità? Non sta a me poterlo dire, non sono a conoscenza di fatti del genere. Certo le denunce dovrebbero essere fatte non a 30 anni di distanza. Voglio però fare una considerazione esclusivamente artistica: Domingo è stato sicuramente un cantante di così alto profilo che rimarrà, meritatamente, nella storia dell' opera lirica».

·        12 anni dalla morte di Ruslana Korshunova.

Ruslana Korshunova, le poesie maledette di una mannequin fragile e dannata. Era nata poverissima, ma aveva raggiunto le passerelle più luccicanti del mondo. Ad appena vent’anni era una delle top model più apprezzate della moda. Aveva tutto: bellezza, amore, ricchezza. E un demonio che la consumava dentro...Massimo M. Veronese, Lunedì 24/08/2020 su Il Giornale. «Sento male, come se qualcuno avesse preso una parte di me, l'avesse strappata, calpestata e buttata via. Sogno di volare, ma il mio arcobaleno è così lontano... ». Sono le due e mezza di pomeriggio, Water Street, all'angolo con Wall Street, una zona elegante tra il distretto finanziario e l'area turistica di South Street Seaport, nel lembo sudorientale di Manhattan.

Ruslana Korhunova, scomparsa nel 2008 a soli 20 anni. Un'estate calda di New York che fa venire il mal di testa. «Ho sentito un botto improvviso, un rumore strano - dice un testimone - Mi sono girato: c’era il corpo di una ragazza sfracellato per terra». È sabato, negli uffici non c’è nessuno, la strada è vuota, a parte quel corpo senza vita in mezzo alla strada. La polizia spiega che la vittima è una top model russa. Ruslana Korshunova. È precipitata dal suo monolocale del nono piano, uno dei pochi edifici residenziali della via, abitato da poca gente, spesso modelle che si danno il cambio l’una con l’altra. Sospettano sia un suicidio e così certificherà l’autopsia «Non ci sono segni di lotta, niente alcool, niente droghe. Niente di niente. Neanche un bigliettino di addio. Mancavano quattro giorni al suo ventunesimo compleanno: è caduta lontana nove metri dall’ingresso del palazzo». Nove metri? Ma questa non è una caduta, questo è un salto. Quasi un volo. Non s’è affacciata sul balconcino di casa lasciandosi cadere, ha fatto qualche passo indietro, ha preso la rincorsa ed è volata fuori. Come un angelo. In cerca forse di un arcobaleno troppo lontano. Ci sono modelle e modelle. Ci sono i cloni androgini indefinibili e lunari, gli appendiabiti perfetti per le sfilate. E poi ci sono le Ruslana. Quelle che si distinguono. Le loro misure non sono perfette, la loro presenza in passerella è limitata, ma sono i loro volti che danno vita alle creazioni. Ruslana aveva posato per Versace, Christian Dior, Kenzo, Marc Jacobs, Vera Wang, era stata la copertina di Elle Paris e Vogue Russia, faceva parte della stessa agenzia di Kate Moss e Heidi Klum, ma era famosa per essere il viso di un profumo «magico e incantevole» firmato Nina Ricci. Nello spot Ruslana, con un abito da ballo rosa e gli occhi pieni di meraviglia, entra in una stanza fatata: si arrampica su un albero magico, in cima c’è una mela rosa luccicante. La prende. Non sa che a volte le mele nascondono un serpente. Ruslana aveva tutto: bellezza, ricchezza, gioventù, amore. Perché avrebbe voluto morire? Al suicidio non crede nessuno. Non ci crede Kira Titeneva, la sua migliore amica, nata come lei ad Almaty, in Kazakistan: «Non si faceva di droghe, non beveva, lavorava sempre. Era appena tornata da Parigi, con un nuovo servizio da fare, era al settimo cielo. Abbiamo spettegolato al telefono, ridevamo come matte». Non ci crede il fidanzato Artem Perchenok, 24 anni, l’ultimo ad averla vista viva: «Amava troppo la vita per buttarla via, era affascinata dal futuro. La sera prima abbiamo guardato un film, era tranquilla. L'ho accompagnata a casa, ci siamo detti: ci vediamo domani». Il film era Ghost. Al Daily Telegraph dicono sia stata la mafia russa, la stessa che un anno dopo avrebbe ucciso Anastasia Drozdova, sua amica del cuore, modella come lei e come lei volata da un balcone. Sono loro, i padrini dell’Organizacija che controllano le modelle che vengono dal freddo. Forse qualcosa che non doveva dire, forse qualcosa che non doveva vedere. Ma il giornalista Peter Pomerantsev, che ha scritto un libro «Niente è vero e nulla è impossibile» e realizzato un documentario sul caso, ha un’altra ipotesi. Dice che Ruslana, ma anche Anastasia, erano entrate in una setta, «Rose of the World»: ufficialmente un corso di automiglioramento per persone in difficoltà, un incrocio tra una chiesa dell’uomo e gli alcolisti anonimi. Ma sono decine le cause intentate dalle famiglie degli ex adepti per danni mentali. Nel palazzo gotico a nord di Mosca dove i Komsomol, la gioventù comunista, veniva inquadrata e indottrinata agli ideali del leninismo, tutto è studiato e organizzato, ieri come oggi, per resettare, a migliaia di rubli a botta, le menti di chi si iscrive e sospenderne il pensiero critico. Un posto dove confessare il peggio: stupri, genitori violenti, abusi infantili. Ruslana si era sfogata parlando del trauma per la morte del padre, delle sue storie d'amore fallite: ha pianto davanti a tutti e riso senza freni. Era diventata aggressiva come mai e molto più magra. Ma, giurano i suoi guru, «l'abbiamo guarita da qualsiasi problema potesse avere». Altri dicono invece che la setta funzioni come una droga. Appena esci e torni nel vuoto quelli più sensibili si rompono. E le ragazze che arrivano dall’ex Urss sono particolarmente fragili. Sei dei primi sette paesi al mondo per numero di suicidi tra le più giovani sono ex repubbliche sovietiche: la Russia è sesta, il Kazakistan secondo. Quando Ruslana torna a New York scrive: «Sono così persa, mi sento una strega: mi troverò mai?» Tre giorni dopo è un corpo sfracellato sul marciapiede. Ma come c’è finita lì? C’è finita per colpa di Tatyana. Tatyana è una cacciatrice di modelle. Vede migliaia di ragazze all’anno, forse tre arriveranno in cima. Sta tornando a casa da un concorso di bellezza ad Almaty, un viaggio deludente, non ha visto ragazze degne di nota. Sfoglia una rivista sull’aereo, si ferma di colpo. C’è la foto di una ragazza. Sorprendente. L’immagine è un po’ kitsch: veste un abito tribale, un incrocio tra Lolita e Mowgli in una giungla di alberi di plastica. Ma lei è fantastica. Il suo sguardo blu è così potente e profondo che tutto, Tatyana, l'aereo, le nuvole, sembrano scivolarci dentro. Aveva visitato tutte le agenzie di modelle di Almaty: come poteva esserle sfuggita? Per forza: Ruslana non era una modella, ma l’amica di un’amica del direttore. Avevano scattato le foto per puro divertimento. Ruslana ha 16 anni, parla inglese e tedesco, sogna di studiare in un'università europea. Invece la chiamano per fare un casting a Londra. La pubblicità di Nina Ricci porta Ruslana dal mondo delle aspiranti top alle migliori feste di New York, ai viaggi nell'isola privata di Jeffrey Epstein, nelle regge dei nuovi ricchi russi dove si innamora di uno dei magnati più belli di Mosca. Le amiche la avvisano: non innamorarti di lui. È bello ma senz’anima. Ma lei sogna il matrimonio, i figli, una casa, come una bambina visto che ancora un po’ lo è. Quando lui la lascia lei gli scrive messaggi che non trovano mai risposta. Fino a quando l’assistente del magnate le intima di non disturbarlo mai più. Scrive: «Te ne sei andato per sempre, lasciandomi in cambio un castello di sogni rosa e muri in rovina». Le chiamano le ragazze perdute, sono fiori nati nel deserto, splendide e fragili come vasi di cristallo. Vengono da famiglie poverissime, da case senza acqua e riscaldamento, da violenze segrete. Finiscono dall’oggi al domani in un mondo di lussi, cocaina, champagne, dissolutezze, quasi sempre sole, circondate da predatori. «A New York non è facile vivere tranquilla se sei bella, giovane e eccitante - dice alla Abc il fotografo Patrick McMullan - è dura avere vent’anni dover essere sempre all’altezza e trovare qualcuno che ti aiuti». Molte vengono inghiottite. Ma non lei, non la ragazza dagli occhi verdi e la faccia da bambina, la Rapunzel dai capelli che non finiscono più: lei va a letto presto, manda i soldi alla famiglia, sogna il principe azzurro e scrive poesie: «L'amore è cieco, t’incendia il cuore. Non confondere l'amore col desiderio. L'amore è sole, il desiderio è solo carne. Il desiderio ti stordisce, l'amore ti dà forza». Forse non c’era nessuno nel suo monolocale, ma mille mani l’hanno spinta giù dal balconcino. Scriveva: «La vita è breve: vìola le sue regole, perdona in fretta, bacia adagio, ama veramente, ridi. E non ti rattristare mai per ciò che ti ha dato felicità».

·        12 anni dalla morte di Tony Rolt.

Tony Rolt e il Gp di Silverstone 1950: i due modi per finire ultimo. Pubblicato martedì, 19 maggio 2020 su Corriere.it da Tommaso Pellizzari. Certi ultimi posti in classifica non si contano, si pesano. Per Tony Rolt il primo, storico Gran premio di Formula 1, corso a Silverstone nel maggio 1950 (70 anni fa) durò 3 giri, per un problema al cambio. Più o meno così, sulla stessa pista, andarono quelli del 1953 e del ‘55, le uniche altre due apparizioni in gara, perché la carriera di Rolt nella più importante categoria automobilistica non riuscì mai a decollare. Poi, è questione di punti di vista. Per chi ha la tendenza a vedere il serbatoio sempre mezzo vuoto, Rolt era un pilota dal futuro più che promettente al quale lo scoppio della Seconda guerra mondiale ha rovinato la carriera: nel 1939, quando a 21 anni vinse a Donington il British Empire Trophy, i giornali scrissero di un «boy driver» che aveva stupito tutti gli esperti. Solo che poi scoppiò la guerra, le gare furono cancellate e le fabbriche di auto convertite all’aeronautica bellica. Tony venne arruolato come fuciliere e mandato a Calais come sostegno all’esercito francese durante l’evacuazione di Dunkerque. La sua permanenza al fronte, tuttavia, durò cinque giorni. Il resto della guerra lo trascorse da prigioniero, catturato dai tedeschi mentre con una mano sparava e con l’altra assisteva un commilitone ferito. Giles Richards, che ha raccontato la sua storia sul Guardian, scrive che da quel giorno Rolt ha collezionato sette tentativi di fuga: uno fallì a 100 metri dal confine svizzero, uno nonostante il travestimento da ispettore della Croce Rossa e l’ultimo solo perché dei compagni di prigionia gli dissero che la guerra stava per finire. Peccato, perché Tony, nel frattempo imprigionato nel temuto castello di Colditz (vicino a Lipsia), aveva costruito un aliante fatto di doghe dei letti, assi del pavimento e cavi elettrici. Che avrebbe funzionato è ufficiale dal 2012, quando è stato ricostruito e fatto volare da una troupe televisiva. Rolt era morto da 4 anni, dopo avere ricominciato una carriera automobilistica che lo aveva portato a vincere la 24 ore di Le Mans nel 1953. In quella del 1955 era secondo al momento dell’incidente che uccise 84 persone: decise di ritirarsi e passare alla progettazione, contribuendo alla nascita della Ferguson P99, l’unica monoposto di F1 con trazione integrale ad avere vinto una gara. A vedere il serbatoio mezzo pieno, insomma, la vita poteva andargli peggio. Anche perché, di tutti i piloti in pista a Silverstone quel 13 maggio 1950, Tony è stato quello che ha vissuto più a lungo. Certi ultimi posti in classifica non si contano, si pesano.

·        10 anni dalla morte di Joe Sarno.

Gianmaria Tammaro per Dagospia il 25 aprile 2020. Quelli di Joe Sarno non erano porno, ma film sinceri, pieni d’arte e sentimenti, spesso girati dal punto di vista femminile, che culminavano nel sesso e che nel sesso trovavano un motivo e un movente, ma che non s’insozzavano, come poi sarebbe successo, con la conta infinita degli orgasmi, con l’eiaculazione a tutti i costi di lui e il placido servilismo di lei. Joe Sarno è stato un punto nel cinema mondiale; ha fatto da contatto tra i primi film di nudi e l’hardcore. È stato ignorato, dimenticato, spinto via da tutte le frange della settima arte. Intorno al 2009, come racconta “I Sarno – Una vita nel porno” di Wiktor Ericsson, in onda su Cielo domani sera alle 23:15, si era ritirato a vita privata con sua moglie, Peggy Steffans, nel suo appartamento buio e pieno di cose, un tavolo, due sedie, un letto e un grande televisore, e aveva covato fino all’ultimo il desiderio, più che il sogno, di girare un altro film. Aveva scritto una sceneggiatura e l’aveva presentata a vari produttori. Ma era vecchio, e se c’è una cosa che il cinema di qualunque tipo, forma e importanza non perdona è proprio la vecchiaia. Così Joe, fino alla fine dei suoi giorni, fu costretto a riguardare film in bianco e nero, a bearsi di quella bellezza così inafferrabile e incredibile, e a condividere i piccoli piaceri di ogni giorno – una passeggiata al parco, incontri nelle università, un hamburger al formaggio – con sua moglie. Quella che “I Sarno – Una vita nel porno” racconta è una storia d’amore, tra due signori, due artisti, che si sono sposati andando contro il parere della famiglia di lei, che hanno insistito con la loro carriera nonostante le critiche feroci a lui, e che, fino all’ultimo giorno insieme, hanno continuato a fare progetti. Torneremo in Svezia, dice Peggy con un sorriso, mentre cammina sottobraccio con Joe, seguiti dalla camera di Ericsson. E lui le dice sì, accondiscendente, un David Attenborough ingrassato e bianco, il viso ripulito, il ventre prominente, il bastone sempre a portata di mano. Dice di sì, anche se stava male.  Joe è morto a 89 anni, pochi mesi dopo quelle riprese. E sua moglie, da quel momento, ha cominciato a portare in giro con sé il lungo articolo che il New York Times gli aveva dedicato. Come a dire: vedete, era uno importante, uno che ha fatto cose che hanno cambiato il cinema e quindi la vita di tutti, e che sapeva il fatto suo; ora chi ci ha offeso dovrà chiederci scusa: a cominciare da mia madre. Con i suoi film, Sarno non voleva immortalare il sesso come atto – e che noia, e che cosa banale; e lo dice anche Margherita Vicario: “e non è come in un porno, porco mondo; è molto meglio” – ma come atteggiamento, come sfumatura, come carica erotica. Le sue storie erano storie di infedeltà, passioni, di piccoli gesti, di brividi, di occhiate, di sospiri. I porno hardcore, che sarebbero venuti dopo di lui, erano volgari, senza storia (e quanto la odiava, Joe, questa cosa: preferiscono un attore che riesce ad avere un’erezione a comando a uno bravo, capace, credibile), senza futuro. Perché duravano un attimo e poi via, avanti il prossimo, come in un’organizzata catena di montaggio della masturbazione. Fino all’ultimo istante, fino al no decisivo dei produttori, Joe continuava a sperare e a credere: a sperare in una possibilità, e a credere che al mondo servisse qualcosa di più del semplice e rozzo sesso. Joe era un amatore, un amante, un appassionato. Sua moglie glielo ripeteva: con Internet non c’è più mercato per te e per i tuoi film, tutti scaricano tutto. E lui allora si nascondeva nella penombra della sua vecchia camera da letto, quella in cui viveva da ragazzino, e si rifugiava nei ricordi d’infanzia: la sua prima volta, la figlia dei vicini, il potere che lei ebbe su di lui fin dal primo momento, e l’ansia di star commettendo qualcosa di terribile e di sbagliato. Aveva 13 anni. Oggi di Joe che cosa resta? Restano i suoi film, certo. Resta la sua testimonianza. Resta quel necrologio che Peggy ha piegato dieci, cento volte e che ha portato sempre con sé, nella sua borsa. E resta il loro amore. Che non è solo bei sentimenti, carezzine e bacini. L’amore è soprattutto appartenersi reciprocamente, è esserci sempre, è condividere con una stretta di mano, ed è soprattutto piacere: il sesso senza amore sarà pure solo sesso, pura carnalità; ma l’amore senza sesso è piatto, religioso, insipido.

·        10 anni dalla morte di Raimondo Vianello.

Raimondo Vianello, a dieci anni dalla morte la sua è ancora un'ironia di serie A. L'attore, scomparso a 87 anni nel 2010, è stato uno dei massimi protagonisti della tv. Facendo ridere (o sorridere amaramente) generazioni di italiani. Dai varietà con Ugo Tognazzi al tormentone "che noia, che barba" con la moglie Sandra, ecco chi era l'uomo che di se stesso diceva: "Ho meritato quel che ho avuto perché non ho mai cercato niente". Silvia Fumarola il 14 aprile 2020 su La Repubblica.  "No, si figuri, non mi disturba" esordiva al telefono "sto vedendo il tennis, che facciamo, aspettiamo insieme il risultato finale?". Raimondo Vianello era un uomo di rara simpatia, anche quando sfotteva la moglie Sandra Mondaini, adorata, anche quando, al festival di Sanremo nel 1998 massacrava Veronica Pivetti che stava al gioco ("Mi faceva morire dal ridere", spiegava l’attrice "era un onore stargli accanto") mentre faceva il cascamorto con la bellissima bionda di quell’edizione, Eva Herzigova. A dieci anni dalla morte – si è spento a 87 anni il 15 aprile del 2010 – ci fermiamo incantati quando la tv ripropone i suoi sketch, quando qualche canale trasmette i film di cui è stato protagonista. Ci manca il suo senso dell’umorismo che sprizzava intelligenza, l’ironia in cui mescolava giudizio e affetto. Ironico, anche caustico certo, e raffinato: nessuno dei grandi moschettieri della tv era come lui. Ha fatto la storia della televisione italiana ma non si può parlare di Vianello senza parlare di Sandra Mondaini, Sandrina, come la chiamava affettuosamente, morta a settembre del 2010, solo pochi mesi dopo il marito. Si erano incontrati nel 1958, lei soubrette di Macario; nel 1962, davanti a una cotoletta, a cena insieme a Gino Bramieri, lui aveva fatto la più irrituale richiesta di matrimonio, al punto che lei era rimasta muta: "Non avevo capito se stesse parlando seriamente: scherzava sempre". Quella volta il giovanotto ironico, che sembrava un lord inglese e aveva appeso al muro la laurea in Giurisprudenza per fare il comico, aveva fatto sul serio. "Sono stata gelosa, certo - spiegava lei - ce n'erano tante più belle di me, ma alla fine eccoci qua. Oggi dove vuole che vada?". Vianello era nato a Roma nel 1922, figlio di un ammiraglio e di una nobildonna marchigiana, laurea in giurisprudenza, aderisce alla Repubblica di Salò come sottufficiale dei bersaglieri e nel 1945 viene rinchiuso dagli Alleati nel campo di Coltano. Finita la guerra si dedica allo sport, la sua vera grande passione dopo la recitazione: l’atletica, il calcio (“In televisione non perdo un incontro” raccontava” c’è sempre qualche partita per fortuna, a tutte le ore”). Debutta nel teatro di rivista con Garinei e Giovannini, poi approda in tv con Ugo Tognazzi in Un due tre suo complice per un decennio. “Ci capivamo con uno sguardo”, spiegava Vianello. “Negli ultimi tempi voleva che scrivessi un film su di noi, ma non ero d'accordo, gli spiegavo che saremmo stati solo due vecchi attori patetici. Ugo insisteva, e forse aveva ragione: voleva dimostrare che le cose che fanno oggi i nuovi comici le facevamo noi quarant'anni fa”. Un due tre fu il primo esempio di satira televisiva, e il duo irresistibile fu vittima della censura il 25 giugno 1959, quando ironizzò sulla gaffe del presidente della Repubblica Gronchi che alla prima della Scala cadde a terra per colpa di una sedia sfilata accanto al presidente francese De Gaulle. Raimondo Vianello tolse la sedia a Tognazzi che cadde a terra e Vianello gli gridò: "Chi ti credi di essere?". Scandalo, lo show fu interrotto. L’incontro con Sandra Mondaini è l’inizio di una nuova vita, privata e professionale. Tra gli anni Sessanta e Settanta il trionfo: Studio Uno, Sai che ti dico?, Tante scuse, Di nuovo tante scuse, Noi… no (in cui portano la loro vita di coppia negli sketch), Sette e mezzo e Stasera niente di nuovo. “Quando ripropongono le nostre scenette le guardo con piacere: hanno una loro dignità” diceva. “Sandra la vedo più carina, sarà che mi sono abituato”. Nel 1963 Sandra e Raimondo sono insieme nel varietà Il giocondo, nel cast c'è Abbe Lane, "la sora Abbe" come la chiamava Vianello, che ironizzava su una possibile fuga con la vamp: "Non ho osato fare avance, c'era sempre il marito. Ah, se mi avesse detto che le cose non andavano bene". Con il passaggio a Mediaset, sono ancora la coppia più amata grazie a Casa Vianello (e i vari spin off). L’insofferenza di Sandra, "Che noia, che barba" nel lettone matrimoniale, quando scalcia le coperte e Raimondo gira impercettibilmente la testa mentre legge il giornale, è un capolavoro d'umorismo. Nel 1998 Vianello accetta di girare un’altra edizione ma a una condizione: “Non perdere neanche una partita dei Mondiali. Alla mia età potrei non avere altre occasioni”. Raccontava di Berlusconi: “Non siamo mai andati allo stadio insieme, ma mi ha invitato tante volte. Il Milan vinceva sempre, mi sono detto: ‘Meglio non rischiare, non sia mai arrivo io e perde, sono rovinato’". Tra quiz (Zig Zag e Il gioco dei 9), in onda su Canale 5, Vianello e Mondaini prestano la loro immagine per la campagna dell'Airc contro i tumori; Raimondo era stato operato a un rene, e si era ammalata anche Sandra. Il 26 giugno 1996 la Mondaini (con Raimondo) ricevono la medaglia di Grande Ufficiale dell'Ordine al merito della Repubblica Italiana su iniziativa del presidente Scalfaro. Lei si commuove, Raimondo continua a sfotterla: "Ormai è diventata una fontana". Con l’ironia si è difeso, anche dai sentimenti. Ma era un uomo sereno che non aveva rimpianti o rimorsi: “Se mi guardo indietro non ho pentimenti. Dovessi ricominciare, farei esattamente tutto quello che ho fatto. Mi risposerei anche. Con un’altra, naturalmente”. Spiegava che “le battute non si devono mai preparare: non è la battuta in sé a far ridere, ma la situazione, la scelta dei tempi. Se perdi l'attimo sono figuracce. Non guardo più i varietà: so già cosa accadrà”. Nanni Moretti una volta ha detto: “Vianello è un attore di serie A che si accontenta di giocare in serie B”, ma lui non era d'accordo. “Ho meritato quel che ho avuto perché non ho mai cercato niente, non mi sono impegnato. Non ci ho messo la volontà. Mi ha aiutato il caso”. Carissimo Vianello, maestro d’ironia e di modestia.

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 18 aprile 2020. Per il decennale della morte di Raimondo Vianello, Cine34 ha offerto alcuni film interpretati dal Nostro (in tutta sincerità, il cinema non era il suo territorio d' elezione) mentre Mediaset Extra ha proposto un' antologia dei suoi programmi tv realizzati per Mediaset. Rivedendo alcuni spezzoni dei suoi show, le prime parole che vengono in mente per definirlo non riguardano il suo mestiere ma la sua persona: signorilità, garbo, finezza. Bastava infatti la sua presenza in scena perché ogni programma, brillante e raffinato come lui, viaggiasse sul filo sottile dell' ironia. «Casa Vianello» è stato poi qualcosa di più di una sitcom, quasi un ritratto antropologico dell' interno/inferno familiare, un accurato ritratto borghese, «un modo di rappresentare un' Italia media, abbastanza eterna, piuttosto governativa, tradotta in un format» (Edmondo Berselli). Sandra e Raimondo sono stati ineguagliabili nel mettere in scena il microcosmo casalingo-sentimentale, tipico della commedia teatrale, traendo spunti dalla cronaca, dalla vita di condominio, da incontri casuali. Battibecchi e piccoli malintesi animavano il ménage quotidiano, scandito dai brontolii di lui, dalle intemperanze civettuole di lei, dall' incrollabile verve di entrambi. «Casa Vianello» è stata una delle poche seconde case a disposizione di tutti, una sorta di multiproprietà gratuita. Una location di impianto teatrale, tre locali più servizi, nessun tormento ma solo tormentoni tipo «Che noia che barba, che barba che noia». Per molti anni Vianello è stato uno dei protagonisti di «Pressing», appuntamento settimanale dedicato al calcio. Nessuno come lui ha tentato di volgere al riso ogni contingenza, ha usato l' ironia come prezioso lenimento - un massaggio canforato per i troppi muscolosi pensieri che governano lo showbiz dello sport - ha cercato di far capire agli spettatori che il gioco del calcio è, prima di ogni altra cosa, un gioco.

Renato Franco per "corriere.it" il 15 aprile 2020.

L’ironia imbattibile. «Lo scriva che sono puntate nuove perché non si distinguono una dall’altra: quelle in onda da oggi non sono repliche», così Raimondo Vianello parlava della nuova-ennesima stagione di «Casa Vianello». E in questa battuta, fulminante come tante, disincantata come il suo aplomb, dinoccolata come il suo portamento, c’è molto di uno dei più grandi protagonisti della storia della tv. L’ironia era la cifra del suo modo di intendere la vita; la sua si è spenta 10 anni fa.

Il padre lo voleva diplomatico. Raimondo Vianello era nato a Roma il 7 maggio 1922 e il padre, ammiraglio nella Marina Militare pensava per lui tutt’altra carriera, il diplomatico. E lui, il physique du rôle, biondo e allampanato, con quella sua aria molto inglese, ce l’aveva. Ma non andò così. Il teatro (con Garinei e Giovannini) fu un trampolino che lo spinse ad arrivare al cinema (oltre 50 film) come caratterista, ma soprattutto alla tv. Vianello sapeva accendere risate con il suo umorismo distaccato, sottile, sempre elegante, mai volgare.

La censura con Tognazzi. Il programma «Un due tre» segnò gli anni dal 1954 al 1959, con Tognazzi furono una coppia strepitosa, opposti e complementari, uno sanguigno l’altro compassato. L’episodio più famoso della loro carriera fu l’ultimo, primo caso di censura in tv. L’allusione allo scivolone del presidente Gronchi a un incontro con De Gaulle costò alla coppia il posto: «Tognazzi era in piedi, doveva sedersi ma la sedia non c’ era. Cadde. E io: ma chi ti credi di essere? Finita la trasmissione andammo in camerino e c’era già la raccomandata di licenziamento». Furono richiamati dopo due anni: «Quando i dirigenti ci convocarono ci chiesero se avevamo qualche scenetta pronta. Io dissi che ne avevamo una sul Papa. Ci hanno rimandato subito a casa».

Il matrimonio con Sandra Mondaini. Se con Tognazzi fu una coppia di fatto, il matrimonio arrivò per davvero nel 1962 con Sandra Mondaini, conosciuta quattro anni prima. Non riuscirono ad avere figli, ma seppero comunque essere generosi con gli altri, adottando una famiglia di filippini. Lavorarono in coppia per 50 anni: da «Studio Uno» (1961) a «Il tappabuchi» (1967), da «Sai che ti dico?» (1972) a «Tante scuse» (1974). E poi «Noi... no» (1977), «Io e la befana» (1978-79), «Stasera niente di nuovo», ultima trasmissione in Rai nel 1981.

La gag di «Casa Vianello». L’anno dopo Vianello (con la moglie) approdò alle reti Fininvest di Silvio Berlusconi. «Casa Vianello» (1988-2007) è uno dei programmi che più rimangono impressi nella memoria televisiva, con i loro continui battibecchi di marito e moglie, con l’ineluttabile conclusione che, pur non sopportandosi, non possono fare a meno di stare insieme. La scena finale, sempre la stessa, è diventata un cult: lui che legge la Gazzetta dello Sport, lei che scalcia sotto le coperte. «Mi dà fastidio perché l’ha inventata Sandra. Nacque da un vero sentimento di fastidio nei miei confronti, Sandra sentì il bisogno di dare una prova fisica della sua presenza».

Le battute sulla depressione di Sandra. Di Sandra, Raimondo parlava con il suo cinismo, ironico e tenero: «Sandra dice che sono pigro. Dice che, quand’ero giovane, sui set del film potevo darmi da fare, per fare nuove conquiste. Ma che ero troppo indolente. E io glielo lascio credere...». Ci fu un periodo in cui lei ebbe una forte crisi depressiva e lui stava chiuso in casa ad assisterla. Un giorno Vianello uscì di casa per prendere un caffè insieme a Baudo e si raccomandò con il portinaio: «Se cade qualcosa da sopra, è roba mia...».

L’appoggio politico a Berlusconi. Raimondo Vianello lavorò in coppia ma anche da solo: su Canale 5 presentò i quiz «Zig zag» (1983-1986) e «Il gioco dei 9» (1988-1990), mentre su Italia 1, lui appassionato di calcio, conobbe una seconda popolarità con «Pressing», la domenica sportiva di Italia 1 che condusse tra il 1991 e il 1999, scelto per la sua capacità — lui così ironico e signore — di sdrammatizzare gli inutili drammi che si fanno intorno al calcio. E lì commise l’unico scivolone (alla Gronchi) della sua strepitosa carriera, quando invitò i telespettatori a votare per il suo datore di lavoro, era il 1994, l’anno della discesa in campo di Silvio Berlusconi.

Il Festival di Sanremo. Nel 1998 fu chiamato a condurre Sanremo. Il ricordo del Festival è ancora una volta un colpo da maestro: «Ne ho vista bene solo un’ edizione, quella che ho presentato...». Strepitoso tanto in tv quanto nelle interviste: «Ogni tanto sentirà dei vuoti. Non pensi che mi sia offeso. È che la memoria è quella che è». In realtà aveva un tempismo perfetto, quello spazio vuoto in cui pensavi non avrebbe detto niente e poi invece perfetta, sempre, arrivava la battuta. Come quando congedava l’intervistatore: «Spero di essermi ricordato tutto... Se avessi fatto altre interviste di recente mi ricorderei anche altre cose».

·        10 anni dalla morte di Sandra Mondaini.

Sandra Mondaini, dalla sua immagine sui francobolli agli iconici occhiali battuti all’asta: 7 curiosità su di lei.  Il 21 settembre ricorre il decimo anniversario della scomparsa dell’attrice, amatissima protagonista del piccolo schermo insieme al marito Raimondo Vianello. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 21 settembre 2020.

L’immagine sui francobolli. Dieci anni fa, il 21 settembre 2010, Sandra Mondaini chiudeva gli occhi per sempre per raggiungere il suo Raimondo (che se n’era andato il 15 aprile). Nata il 1° settembre 1931 l’attrice, che ha costituito con suo marito una delle coppie artistiche più amate del piccolo schermo, era figlia di Giuseppina Lombardini e di Giacinto Mondaini, pittore e umorista della rivista satirica «Il Bertoldo». A sei mesi la piccola Sandra fece il suo debutto: suo padre la ritrasse per una campagna pubblicitaria di promozione dei francobolli antitubercolari (lo fece nuovamente nel 1933). A proposito di francobolli: oggi il Ministero dello Sviluppo Economico emetterà un francobollo ordinario appartenente alla serie tematica «le Eccellenze italiane dello spettacolo» dedicato proprio a Sandra Mondaini e Raimondo Vianello, nel decennale della scomparsa.

Fidanzati…davanti ad una cotoletta. «Studio Uno», «Tante scuse», «Noi...no», «Casa Vianello», «Attenti a noi due»: Sandra e Raimondo hanno lavorato insieme per 50 anni. Si sono conosciuti nel 1958 dietro le quinte dello spettacolo «Dove vai se il cavallo non ce l'hai», in cui recitavano entrambi. Ai tempi erano impegnati sentimentalmente con altre persone - lei con un produttore, lui con una ballerina - ma una sera a cena Vianello le confessò: «Lo sai che mi sono innamorato di te?». Poi si girò e continuò a mangiare la cotoletta alla milanese che aveva ordinato come se nulla fosse.

Un cronista (d’eccezione) al matrimonio. Il 28 maggio 1962 nella Chiesa di San Giovanni a Porta Latina a Roma Raimondo Vianello e Sandra Mondaini si sono sposati (testimone dello sposo era Ugo Tognazzi). A raccontare l’evento fu invitato Maurizio Costanzo, come unico cronista con fotografo al seguito. Il giornalista riuscì a scovare un altro fotografo nascosto in un confessionale e lo allontanò.

La squadra di calcio. La passione per il calcio di Raimondo Vianello era sconfinata: nel 1963 ha persino fondato una squadra (in cui ha anche giocato), la Sa.Mo. Le iniziali sono ovviamente quelle dell’amata moglie.

La gag del letto. «Che barba che noia, che noia che barba»: la famosa gag-tormentone di Sandra in «Casa Vianello», che scalciava sotto le coperte per infastidire Raimondo intento a leggere la Gazzetta (quest’ultima una presenza fissa nella coppia, fin dalla prima notte di nozze), è nata da un’improvvisazione. «Mi dà fastidio perché l’ha inventata Sandra - ricordava Vianello - Nacque da un vero sentimento di fastidio nei miei confronti, Sandra sentì il bisogno di dare una prova fisica della sua presenza».

Le origini di Sbirulino. Il clown Sbirulino (interpretato da Sandra) apparve per la prima volta nel 1978, all’interno del varietà abbinato alla Lotteria di Capodanno: «Io e la Befana». Si rifaceva al famoso Scaramacai dell’attrice Pinuccia Nava, e prende il nome dal termine milanese «sbìrul», che significa «sbilenco».

Occhiali all’asta. Nel 2015 un paio di occhiali appartenuti a Sandra (lasciati in eredità insieme a borse, scarpe e vestiti all’amica Maureen Salmona) sono stati messi all’asta per raccogliere fondi da destinare all’Ospedale Fatebenefratelli di Milano. Il compratore se li è aggiudicati per una cifra che si aggira intorno ai mille euro.

·        10 anni dalla morte di Pietro Taricone.

Silvia Natella per leggo.it il 29 giugno 2020. Pietro Taricone, il ricordo di Salvo Veneziano: «Spero che tu mi abbia perdonato, la colpa non era di Kasia Smutniak». Sono trascorsi dieci anni dalla morte del "Guerriero" della prima edizione del Grande Fratello. Taricone è scomparso in un incidente paracadutistico il 29 giugno del 2010. Poche ore fa il suo compagno di avventura Salvo Veneziano ha voluto ricordarlo in un malinconico post su Instagram. «Un maledettissimo giorno - scrive il 'pizzaiolo' di quell'edizione -  ricordo quella maledetta chiamata come se fosse oggi... Mi rimbomba ancora nelle testa dopo 10 anni (Salvo ........... Si ? Pietro non più con noi .... ». Veneziano, che ha partecipato anche all'ultima edizione vip del reality ed è stato squalificato, chiede anche scusa alla madre di sua figlia, Kasia Smutniak, per il rancore covato dopo l'incidente. «Caro Pietro - continua il post - spero tanto che tu mi abbia perdonato, che ho portato dentro di me un rancore micidiale per la mamma di tua figlia ,perché per me "la colpa era sua" con quella passione del paracadutismo... Lo so lo so sono stato stupido a pensare queste cose, ma il dolore e la rabbia acceca le persone... PS. chiedo scusa anche alla tua compagna. Io personalmente ti porterò sempre dentro di me».

Da liberoquotidiano.it il 29 giugno 2020. Dieci anni fa moriva Pietro Taricone, indimenticato protagonista del primo storico Grande Fratello. Un dramma per la compagnia di allora, Kasia Smutniak, e per i telespettatori, Ma gli ex compagni di reality, da Rocco Casalino a Cristina Plevani o Salvo Veneziano, non lo vissero tutti nello stesso modo. Al funerale celebrato a Roma, per esempio, di tutti i concorrenti partecipò solo Marina La Rosa. Ed è un altro ex, Lorenzo Battistello,  a spiegare a Fanpage cosa accadde. "Marina si era trasferita a Roma. Anche Pietro viveva lì e si frequentavano, avevano un legame di amicizia. Quando Pietro è morto, Marina era ai funerali. Aveva un rapporto di conoscenza anche con Kasia Smutniak. L’ha vissuto in maniera più dolorosa per questo. All’epoca mi contestò il fatto di non essere andato ai funerali. Io mi trovavo a 1000 chilometri e ricordo che i funerali furono celebrati molto velocemente, pochi giorni dopo mi pare. Fu uno shock, non ebbi nemmeno il tempo di organizzare lo spostamento. Poi Marina è una persona molto sensibile". In generale, spiega Battistello, 10 anni fa era diverso il rapporto tra i primi ex gieffini rispetto a oggi: "Ai funerali di Pietro c’era solo Marina. Credo che se fosse successo oggi saremmo stati lì tutti e nove. È stato il momento, nella nostra testa il Grande Fratello in quel periodo era finito. Quell’unità mancata all’epoca l’abbiamo ritrovata adesso", con i concorrenti riuniti in una chat su Whatsapp.

Pietro Taricone oggi avrebbe compiuto 45 anni: il ricordo de «o’guerriero». Pubblicato martedì, 04 febbraio 2020 su Corriere.itdi da Aldo Grasso. Pietro Taricone era nato il 4 febbraio 1945: oggi avrebbe compiuto 45 anni. È morto a 35 anni, il 29 giugno 2010 dopo essere precipitato al suolo durante un lancio con il paracadute. Era diventato famoso per aver partecipato alla prima edizione del Grande Fratello, nel 2000, ma poi aveva iniziato la carriera di attore. Ricordiamo «o’guerriero» (come era stato soprannominato proprio nella Casa del Gf) con questo ritratto che gli ha dedicato Aldo Grasso. All’inizio, Grande Fratello è stato un’eccezionale cerimonia di iniziazione per dieci persone ma anche per tutto il pubblico che ha variamente seguito il noviziato. In un periodo limitato, un manipolo di nuovi eroi, o più semplicemente di tipi, è passato dall’anonimato alla notorietà (l’aspirazione principale della nostra società), come succede in altri programmi dedicati alla gente comune, sebbene con fasi molto più lunghe e intermittenti. All’inizio, c’era Pietro Taricone. Non aveva vinto (vinse la bagnina Cristina Plevani, detta Tristina, la ragazza da lui sedotta in diretta), ma era uscito dalla Casa come il vincitore morale. Si era presentato come «’o guerriero» e fin dalla prima puntata aveva messo in mostra i suoi muscoli da palestrato, la sua aria sbruffona, ma anche la sua ironia e intelligenza, proponendo un personaggio insolito, in mezzo a quella insolita compagnia che erano i ragazzi del GF Uno. Era solo il 2000 e sembra preistoria, con quei personaggi venuti dal nulla che si chiamavano Casalino, Ottusangolo, Salvo il pizzaiolo, Roberta Beta, La gatta morta. Le imprese di Taricone avevano mobilitato gli spiriti nobili dell’opinionismo, pronti a decretare l’ennesimo tramonto dell’Occidente, indignati sia per lo spogliarello metaforico (il denudamento operato dalla tv) che per quello reale, davanti alle telecamere. Pietro era speciale, tutto il contrario di quello che appariva nella casa del GF. Dietro la scorza dura e coatta del palestrato, dello sciupafemmine, del morto di fama, c’era un ragazzo sensibile che si interrogava sul significato di quella sua esplosione mediatica: il successo si raggiunge così facilmente? Si poneva delle domande, inseguiva consigli, cercava di sfuggire alla spietatezza del baraccone televisivo. La morte ce l’ha portato via sul più bello.

·        10 anni dalla morte di Edmondo Berselli.

A dieci anni dalla scomparsa di Edmondo Berselli, non è necessario chiedersi cosa avrebbe scritto di questi nostri giorni: perché l'ha scritto già. Ilvo Diamanti l'11 aprile 2020 su La Repubblica. Sono trascorsi dieci anni, ormai, da quando Edmondo Berselli se n'è andato. E la sua mancanza si sente. Io, almeno, la sento. Perché, io e Eddy parlavamo spesso. Eddy mi accompagnava durante i miei lunghi e frequenti viaggi in auto, da Caldogno a Urbino. E ritorno. Oppure durante le passeggiate. Ciascuno con il proprio cane. Eddy con il suo (la sua) labrador. Liù. Alla quale ha dedicato un libro. Io con il mio schnauzer nano. Mambo. Camminavamo e parlavamo. A lungo. Talora, fino a quando le batterie del nostro smartphone (allora lo chiamavamo "telefonino") si scaricavano. Si parlava di tutto. Accomunati da passioni comuni. La politica, ovviamente. Ma non solo. Condividevamo altri "interessi". Sicuramente più "interessanti". Non solo per noi. La musica, o meglio, canzoni e canzonette. Lo spettacolo. In particolare, la televisione. Protagonisti, comparse. Le comparse che diventavano protagonisti. E viceversa. Lo sport. In particolare, il calcio. Al quale ha dedicato un testo suggestivo. "Il più mancino dei tiri", nel 1995. Ispirato a Mariolino Corso. Eravamo entrambi bianconeri. Io più passionale di lui. Che, per carattere, non riusciva ad "appassionarsi" troppo a una "bandiera". E il calcio, per gli italiani, resta il riferimento che genera, ancora oggi, maggiore appartenenza. Berselli è cresciuto in un ambiente significativo, per la cultura e la politica, per la cultura politica, in Italia. Il Mulino. Del quale è stato, per anni, direttore editoriale e della rivista. Ma ha scritto, con frequenza e regolarità, in alcune testate giornalistiche importanti e diffuse, in Italia. Dapprima, sul Resto del Carlino e sul Messaggero. In seguito sulla Stampa. Quindi, le nostre strade si sono incrociate. Sul Sole 24 Ore e, dal 2003, su La Repubblica. Dovunque, Berselli ha sempre adottato l'ibridazione come chiave di lettura del nostro tempo. Un tempo "ibrido", appunto. Dove i confini fra i diversi campi tematici sono sfumati. Probabilmente, non esistono più. Una prospettiva che Eddy ha sviluppato nel corso del suo per-corso di analisi. Nella sua narrazione. Fra la metà degli anni Novanta e il primo decennio del nuovo millennio. Un periodo che comprende la Seconda Repubblica. Fondata da (su) Silvio Berlusconi. Che ha inaugurato e affermato questo tempo senza confini. Di linguaggio. Imponendo - per citare Berselli - "la sindrome del padrone".  Una metafora puntuale (e "puntuta") come molte altre, coniate da Eddy. Che aiutano a comprendere la nostra epoca. Durante la quale siamo divenuti "Post-italiani", come recita un catalogo dei "tipi" tratteggiati da Berselli. Abitanti spaesati di un "Paese provvisorio", nel quale scarseggiano i "Venerati maestri".  Mentre, citando Arbasino, Berselli rammenta come le "giovani promesse" siano sempre sul punto di diventare (o ritornare...) "soliti stronzi". È, peraltro, difficile non condividere le immagini utilizzate da Berselli per definire il Partito Democratico, fin dalle origini. Nel 2008. Alla confluenza dei principali Post-partiti della Prima Repubblica. I Post-comunisti e i Post-Democristiani.  Il Pd: un "partito ipotetico".  Ancora oggi in difficoltà ad affrontare i problemi di un "partito ipotetico".  Afflitto dal "gene altruista", ereditato dai "Sinistrati". Incapace, anche per questo, di scegliere un percorso preciso fra "Partito mediatico, partito liquido, partito volatile; oppure partito solido e radicato nel territorio". Eddy aveva suggerito, peraltro, di prendere sul serio Beppe Grillo. Ancora nel 2009, quando manifestò l'intenzione di presentarsi alle primarie. "Perché se è appena capace mostrerà la nudità del re". Infine, a proposito di "quel gran pezzo dell'Emilia" (rossa), la sua terra, aveva suggerito cautela. Osservando come "dopo la sparizione o almeno il ridimensionamento di falci, martelli e stelle", il rosso fosse stato mantenuto solo "grazie ai vessilli ferraristi". Anch'essi, oggi, un po' sbiaditi. Riprendo queste immagini e queste metafore, come ho fatto altre volte, nei miei articoli e nei miei saggi. Non per commemorare Berselli. Eddy non sopporterebbe di venire "celebrato". Mi interessa, invece, sottolinearne l'utilità, per leggere non solo quanto è avvenuto, ma quel che avviene e avverrà. Così, non mi chiedo più, come ho fatto in passato, "chissà cosa scriverebbe Eddy oggi". Di fronte ai fatti e ai personaggi che si susseguono in questa post-democrazia,  nella quale continuano ad affrontarsi post-partiti. Post-berlusconiani, post-Pd (sempre alla ricerca del dopo...), post-leghisti e post-grillini. Non c'è bisogno di chiedersi cosa scriverebbe Eddy, oggi. L'ha già scritto. Nel suo "Dizionario del tempo che cambia e non cambia mai". In questo Paese eternamente provvisorio.

Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera” l'8 aprile 2020. «La tagliatella perfetta, tutta d' oro, è perfino esposta, mi pare alla Camera di Commercio di Bologna: deve avere 7 millimetri di larghezza da cruda e 8 da cotta». E quando te lo raccontava ti chiedevi: ma come diavolo fa a saperlo? Che gli importa, della perfezione della tagliatella? Dove avrà intercettato questo minuscolo dettaglio? Così era fatto, Edmondo Berselli, che dopo un calvario mai così ingiusto se ne andò dieci anni fa. «Con lui se n' è andata una figura molto rara nel panorama culturale italiano», scrisse allora Aldo Grasso, «Un intellettuale capace di raffinate e rigorose analisi politologiche e insieme di vertiginose disquisizioni sulla canzone, sul calcio, su Gatto Silvestro, sul niente». Un giorno scriveva dell'«homo democraticus» infilando via via una citazione di Zygmunt Bauman e Salvatore Veca e John Rawls e il giorno dopo se ne usciva con Qui, Quo e Qua o un inno a Valentino Rossi che «non ha più i capelli ossigenati e gialli». E poi l' inchino a Giovanni Paolo II che, alle titubanze di Joaquín Navarro Valls sulla scelta di mostrare o no la crescente fragilità del Papa minato dal Parkinson, rispose «Tutto, mostrare tutto, dire tutto, non nascondere niente». E la disquisizione sulla fama di buona sorte di Romano Prodi: «Il Culo di Prodi è una categoria mitologica. Come tutti i fenomeni meravigliosi, come un monstrum smisurato e stupefacente, come un prodigio preternaturale, una chimera, una fenice, una cometa, il C. di Prodi è un Ente largamente imprevedibile.» E poi l' amatissimo Mariolino Corso, «un dieci camuffato dal numero undici, il cui sinistro prensile umiliava in dribbling e con le "foglie morte" le difese degli anni Sessanta». Non c' era frammento della vita che non stuzzicasse la sua intelligenza, la sua ironia, la sua cultura letteraria e giornalistica coltivata cominciando come correttore al Mulino: «Ho perso qualche diottria, non troppe, e ho imparato tutto ciò che c' è da sapere sugli accenti e gli apostrofi, che si scrive chiacchiere e non chiacchere, scombicchierare e non scombiccherare», ha scritto in pagine inedite pubblicate ora nel libro «Cabaret Italia» da Repubblica e Mondadori. Prima che se ne andasse passò a trovarlo, a casa, Claudio Baglioni. Era sfinito. Le parole però, al cenno di chitarra, le ricordava tutte: «Quella sua maglietta fina / tanto stretta al punto che m' immaginavo tutto».

Dieci anni senza Berselli: chissà come la racconterebbe Eddy. Lucio Battisti e il calcio, "Easy Rider" e Gianfranco Fini. Berselli viveva e scriveva con una curiosità senza confini, un'inimitabile leggerezza e una sensibilità senza ostentazione. Che non finiamo di rimpiangere. Marco Damilano il 07 aprile 2020 su L'Espresso. Chissà Eddy. Da dieci anni mi ritrovo a chiedermelo: chissà che avrebbe detto Edmondo, chissà che ne avrebbe scritto. Me lo domando con curiosità immutata, come quando lo studiavo in certe sere nella redazione dell’«Espresso», al secondo piano della storica sede di via Po, dove approdava il martedì e il mercoledì. Una volta che stavo andando via, passai a salutarlo e lo trovai che guardava in tv la partita di Champions League e intanto ascoltava un mp3 di Lucio Battisti e poi voleva parlare di politica. Un’altra volta mi chiese di prendere un suo pezzo su Gianfranco Fini perché voleva farmelo leggere, ma nella stampante trovai mischiate due cartelle su non so quale anniversario di Easy Rider. Era a suo agio in mezzo a questa confusione di lingue che era la bella modernità, il suo tempo, che lo faceva dialogare con il portavoce del papa, subito trasformato in un’imitazione indimenticabile, il Navarro-Valls di Berselli, e poi rientrare nel suo ruolo di intellettuale pazientemente portato in società. Era circondato dalla carta e dagli amici, ogni tanto lo vedevo, però, all’improvviso ritirarsi in qualche angolo di sé, da solo, come un ragazzo che cerca di capire i grandi. In effetti capiva tutto e di tutto scriveva, con entusiasmo adolescenziale: del fattore C. di Romano Prodi e della scomparsa del ceto medio, di Mike Bongiomo e del capitale sociale di Robert Putnam, degli imbecilli progressisti, di quelli che concludono le frasi con «e quant’altro», detestati, e della banalità, fateci la cortesia. Era direttore della rivista «il Mulino», ma sull’«Espresso», dove era arrivato con Giulio Anselmi, si divertiva in una piccola rubrica firmata Eddi Bi a bocciare i fuori corso tipo Gasparri. Con pari grazia, Edmondo ha raccontato la società italiana, le sue facce eterne e i nuovi mostri. Con la freddezza che celava il calore, con la svagatezza che copriva le ore macinate nella lettura, la fatica, la comprensione delle cose e la compassione per le persone. Era venuto su dalla provincia, «noi, i poveri», ed era quindi scettico sulle palingenesi sociali, «buonanotte ai suonatori, buonanotte ai sognatori». Non un pensatore, un filosofo, ma un artigiano della parola che macinava pezzi e idee a una velocità furibonda, su quei fogli che ti descrivono il mondo che fino a poco tempo fa chiamavamo giornali. Un venerato maestro di anti-retorica che non militava sotto nessuna bandiera, figuriamoci, anche la sinistra era per lui una questione sentimentale più che politica. Chissà Eddy. Aveva capito prima di tutti che la politica si stava trasformando in un format «dannatamente efficace, perché permette a una maggioranza sociale dispersa, anonima, prima di riconoscersi, poi di autoassolversi». Aveva visto i primi vagiti dell’antipolitica, «la nostra Algeria è un’Algeria interna, fatta di un popolo astioso, anzi rabbioso, felice di spedire il proprio insulto, “vaffa”, verso tutti. La Francia ha avuto De Gaulle e noi Beppe Grillo», scriveva nel 2007. Ma quando è arrivato il suo momento, ha cambiato discorso, ha stupito tutti con il suo ultimo libro piccolo e denso, senza più dettagli e cinismo, in cui ha rivelato la sua tensione per l’economia giusta, il mondo giusto, il suono - almeno - di un sogno, «con un po’ di intelligenza e d’umanità davanti». Vi ho preso in giro, con la maschera del disincanto, sembrò voler dire a tutti, ma io qui intanto meditavo sulla scelta tra «essere poveri nella consapevolezza della propria condizione storica e antropologica» o esserlo «nella sorpresa dell’indicibile, e quindi soggetti a tutte le frustrazioni possibili». La giustizia era il tema degli anni successivi a lui, di oggi e di domani. Lo aveva immaginato, da solo. Un’altra realtà possibile. Ma lo diciamo piano. Non ne facciamo un manifesto. Perché, sennò, chissà Eddy.

Scrivevamo alla Berselli. A dieci anni dalla scomparsa il talento di un nostro grande giornalista rivive in un libro. Eccone un assaggio, che ci porta nell’Emilia anni ’60. La Repubblica il 7 aprile 2020. Lo scritto che vi proponiamo è un inedito contenuto nel volume Cabaret Italia, in cui troverete il meglio dei suoi articoli. Di Edmondo Berselli: Questa storia l’ho già raccontata tante volte, ma siccome si dovrebbe sapere che certe storie è bello sentirle di nuovo anche se sono risapute, la racconto un’altra volta. Se questo metodo del dire e ridire non vi piace, voltate pagina: ma sapete, il piacere di raccontare è uno di quei piaceri antichi, roba dei tempi andati, che fa tornare in mente le filastrocche dei bambini e le antiche serate nella stalla, quando gli adulti giocavano a briscola fino a tardi fra il calore delle vacche, si facevano reciprocamente i segni tirando fuori un accenno di linguetta e alzando argutamente la spalluccia, sapevano indovinare tutte le carte all’ultima mano, tanto che non c’era neanche bisogno di fare l’ultimo giro e di scagliare sulla tavola le carte unte e pesanti, perché si erano già calcolati i punti e si sapeva chi aveva vinto; dopodiché tutti andavano a dormire odorosi e tiepidi. Altroché i deodoranti. L’igiene era il bagno nella mastella, il sabato pomeriggio. E allora se si guarda benevolmente al passato bisogna provare a ricordare il tempo in cui in Emilia tutti erano comunisti: voglio dire, erano un po’ comunisti anche gli anticomunisti, benché rifiutassero orgogliosamente di confessarlo e a vedere le bandiere con falce e martello facessero gli scongiuri. Tanto per dire, c’era della brava gente come mio padre che non andava a fare la spesa nei negozi delle cooperative rosse, e lo impediva anche a mia madre, per paura che i soldi finissero alle Botteghe Oscure o nelle misteriose casse dell’Unione Sovietica. […] Lo capisce anche un bimbo, che quando l’operaio compra la macchina, il socialismo cambia. Le idee fisse del passato se ne vanno. Le bandiere rosse, bene, la sfilata dell’Anpi con le medaglie d’oro della Resistenza, le donne dell’Udi che ricordano i dolori delle mondine e cantano «Se ben che siamo donne paura non abbiamo», benissimo, la lista Due Torri a Bologna, ottima anche quella, ma meglio ancora la realizzazione della Fiera e il progetto della tangenziale, nonché le vacanze con la famiglia alla Pensione Irma di Cesenatico. E soprattutto, silenziosamente, senza farne nemmeno parola, addio alle vecchie storie sull’ora X, il momento sospirato della mobilitazione rivoluzionaria. Della «rivolussione» non parla piu nessuno, chissà com’è. Raccontava così Guido Fanti, che fu un sindaco illuminato di Bologna prima che i compagni lo sbolognassero, che un’estate venne in visita a Bologna il compagno Molotov, a vedere in azione la poderosa macchina pragmatica del socialismo emiliano. Per la verità Fanti, dopo avere letto questa mia storia, sostiene polemicamente che io sarei un tipo impreciso, inquantoché venne il compagno Boris Ponomariov («un omino magro, taciturno, con la testa pelata e la vivacità espressiva di un busto di marmo», secondo la come sempre accurata descrizione dell’ambasciatore Sergio Romano, gran conoscitore di tutte le Russie e di tutta la storia mondiale compreso il patto Hitler-Stalin). Ma siccome il suddetto Ponomariov non lo conosce più nessuno, mentre il citato Molotov ha dato il nome alle celebri bottiglie, io persevero diabolicamente nell’errore. Dunque l’austero Molotov, che per la gioia dell’ambasciatore Romano sarebbe per l’appunto quello del patto con Ribbentrop, una sfinge, baffi e occhialetti micidiali, lo sguardo glaciale di chi sa come comportarsi durante una purga di Stalin, partecipò impettito nella sua giacchetta sovietica a un fine settimana autenticamente emiliano di pranzi e cene: i comunisti bolognesi volevano fargli capire che la storia del materialismo l’avevano presa sul serio. L’uomo è anche ciò che mangia, come aveva detto un filosofo tedesco precursore di Carlo Marx. Ma che cosa vuoi che ne sappiano i tedeschi, benché filosofi e materialisti, che son gente che mangia cervi con la marmellata di mirtilli, vien ben qué che gli facciamo sentire lo zampone con lo zabaione, o con i fagioloni bianchi, a preferenza vostra. Quindi, sfilate di partigiani, e tortellini. Dimostrazione del lavoro dei servizi sociali, e tagliatelle. Incontro con la rappresentanza dei compagni gasisti, e lasagne. Alla fine della visita, dopo l’ennesimo assalto gastronomico al suo equilibrio biofisico, il moscovita prese da parte il compagno Fanti, e con un’aria complice, stirando le labbra sovietiche, gli chiese: «E le armi?». Sbigottimento di Fanti. Quali armi? «Dove le tenete le armi?», insisteva Molotov, con l’occhio illanguidito dal pignoletto, dall’albana, dal lambrusco di Sorbara e da diverse bottiglie di nocino proveniente da Pavullo nel Frignano. Con la sua dialettica petroniana, e con la sua logica felsinea, Fanti provò a spiegargli che il comunismo alla bolognese era qualcosa di pratico, roba tutta impegnata nel lavoro e nella costruzione della pace, ma la sfinge non demordeva: «Fatemele vedere». Fin qui arriva la storia ufficiale, sulla quale nei giorni successivi i comunisti bolognesi si sono divertiti molto. Voleva vedere le armi, pensa te. Le armi! Poi però c’è la storia leggendaria. Una versione non autorizzata che complica un po’ le cose. Secondo questo racconto anonimo, il lucido Fanti, imbarazzato di fronte al dirigente sovietico che non voleva saperne della pace e del lavoro, fu costretto a confidarsi lì per lì con i compagni, in un consulto un po’ affannoso. Vuole vedere le armi. Non disse «questo coglione», ma lo fece capire con un cenno di sbieco del labbro superiore. Insiste. Non cede. Che si può fare? Se pretende di vedere le armi, tagliò corto uno di quelli spicci, facciamogliele vedere. Basta organizzarsi. Si organizzarono alla svelta, saltarono su una capitalistica Fiat Millecento, e portarono il compagno Molotov in un caseificio in campagna, appena fuori da Borgo Panigale. Il casaro Jaures Boldrini era un compagno di quelli fidati. Si erano fatte quasi le due dopo mezzanotte, la campagna intorno era umida, faceva quasi freddo. Il casaro, tirato giù dal letto in fretta e furia, rabbrividiva. «Le armi? Quali armi?» Molotov apprezzò con un ghigno sovietico: la riservatezza innanzitutto. Bravo compagno. Un dovere assoluto, un imperativo morale per qualsiasi militante del movimento operaio internazionale. Il sindaco democratico e pacifista Fanti, che sudava gelido, ebbe a malapena la prontezza di strizzare l’occhio. Le armi. Il compagno casaro si era svegliato del tutto. «Sono là dentro», disse ergendosi nella sua coscienza socialista e indicando un magazzino, praticamente sull’attenti. «Seicentosessanta pezzi, perfettamente stagionati, lei mi capisce.» Fanti e gli altri riuscirono a portare via Molotov senza fargli vedere le forme di grana padano che da ventiquattro mesi giacevano sugli scaffali, diffondendo anche all’esterno un odore, un aroma, un afrore, che ancora qualche decennio dopo il vecchio Fanti ricordava con il sottile piacere che talvolta si accompagna nella memoria all’ineffabile sensazione dei pericoli scampati.

·        10 anni dalla morte di Franz-Hermann Bruener.

Franz Bruener, la storia del grande signore della legalità. Alessandro Butticè il 15 Gennaio 2020 su Il Riformista. Il 9 gennaio 2010 moriva Franz-Hermann Bruener, il magistrato tedesco che per quasi dieci anni, dal 1° marzo 2000 al 9 gennaio 2010, è stato il primo direttore generale dell’Olaf, l’Ufficio europeo per la lotta alla frode. Franz-Hermann Bruener era innanzitutto un uomo europeo. Poi un bavarese nato nel 1944, e quindi cresciuto e formatosi in piena rinascita della Germania uscita distrutta dalla Seconda Guerra Mondiale. Dopo essere stato giudice istruttore, giudice e pubblico ministero, divenne procuratore capo a Berlino, dove, dopo la caduta del Muro, svolse la funzione di pubblico ministero nei processi contro figure di primo piano dell’ex Ddr, tra i quali lo stesso leader della Germania Est, Erich Honecker. Dopo aver diretto l’Unità antifrode dell’Alta rappresentanza delle Nazioni unite per la Bosnia and Erzegovina, nel marzo del 2000 giunse a Bruxelles, quale primo direttore generale dell’Olaf. Non fu immune anche da difficoltà. Tra queste alcune esperienze italiane che lo lasciarono sconcertato. Prima di arrivare a Bruxelles era infatti un grande ammiratore dell’indipendenza della magistratura italiana e, appena giunto all’Olaf, pretese ed ottenne, nonostante il veto politico del governo Berlusconi, la messa a disposizione di tre magistrati per la conduzione di inchieste a livello europeo. Dopo alcuni episodi mediatico-giudiziari che lo sorpresero non poco, però, toccandolo anche sul piano personale (in un caso, dopo una presa di posizione pubblica, fu costretto a investire il ministro della Giustizia ed il Csm), mi confidava spesso la sua incredulità per quanto vedeva, ripetendomi che per lui, garantista e allergico ad ogni forma di muscoloso giustizialismo mediatico, l’indipendenza del singolo magistrato non poteva mai sfociare nell’irresponsabilità delle proprie azioni. Ma era pur sempre un magistrato tedesco. E quindi non gli era sempre facile comprendere il funzionamento spesso singolare della giustizia italiana, nonostante la grandissima collaborazione che seppe intrattenere con le più importanti Procure della Repubblica e con la Direzione nazionale anti-mafia di Pier Luigi Vigna. Celebre il grande supporto internazionale che l’Olaf di Bruener diede alla Dna nella cattura di grandi contrabbandieri di sigarette italiani della Montenegro Connection latitanti, ma anche quello fornito alle inchieste di validi pm, come Antonio La Manna, della Procura di Milano, sulle frodi internazionali all’Iva nel settore dell’argento. Franz Hermann Bruener è stato anche un maestro della trasparenza e dei rapporti con i media nel rispetto della legalità. I rapporti con la stampa dell’Olaf, sotto la sua guida, sono stati di grande apertura, sempre limitati però dall’assoluto rispetto della legge, compreso quello del segreto investigativo e dei diritti di tutti: tra i primi quelli delle persone soggette a indagini. In un’intervista, qualche mese prima della sua scomparsa, ha ricordato come l’Italia fosse uno dei Paesi in cui si scopriva annualmente un numero molto elevato di frodi e irregolarità. «Non bisogna però dimenticare – sottolineava – che è anche il Paese che dispone degli arsenali di protezione penale e investigativa tra i più avanzati a livello europeo. E per noi è molto più facile indagare in Italia che in altri Paesi. Gli strumenti d’indagine utilizzati in Italia sono tra i più avanzati al mondo. Nella lotta alle frodi comunitarie si usano strumenti d’indagine avanzatissimi: si pensi alle intercettazioni telefoniche e ambientali. Strumenti raramente utilizzati nella maggior parte degli altri Paesi per tali tipi di illeciti. Le forze di polizia e la magistratura italiane dispongono di strumenti che spesso vengono invidiati dai colleghi di altri Paesi. È quindi abbastanza naturale che i casi scoperti siano superiori». È anche per questo che Franz-Hermann Bruener, un gentiluomo dai tratti affabili e dai modi sempre gentili e rispettosi del prossimo, è rimpianto da chi l’ha veramente conosciuto e sarà ricordato, nella storia della costruzione europea, come un “grand Monsieur” dell’Europa della legalità.

·        10 anni dalla morte di Maurizio Mosca.

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 4 aprile 2020. Ieri sera, Italia 1 ha voluto ricordare Maurizio Mosca, scomparso dieci anni fa, riproponendo il documentario Ricordando Mosca, realizzato nel 2012 da Andrea Sanna (23,34). Che immagine ci è rimasta di Maurizio Mosca? I social continuano a riproporre la sua celebre lite con Carmelo Bene, ovviamente nella parte del soccombente, o le predizioni calcistiche nelle vesti del mago del pendolino o i frammenti di una «bomba» di calciomercato, sinonimo di balla, di sparata, d' invenzione. Mosca era anche questo, ma tutto quello che faceva, lo faceva con candore, senza alcuna malizia. Era rimasto l' eterno adolescente, il compagno un po' petulante che tutti abbiamo conosciuto d' estate, in spiaggia giocando con le biglie. Animava grandi discussioni, sempre rigorosamente basate sul niente. E ha continuato a farle anche da grande, ma in tv. Per questo, ancora oggi, ci piace ricordarlo come se fosse presente, come se stesse per iniziare uno di quei suoi discorsi senza capo né coda, eppure così ricolmi di amore per lo sport. Era il Peter Pan della tv italiana, la «sola moltitudine» dei nostri palinsesti: ogni giorno appariva su una rete differente, come ospite, come opinionista, come folletto. Come i bambini, mancava di senso dell' opportunità: si faceva catturare dal cinismo degli altri ospiti, cadeva con un sorriso smarrito nelle più maldestre trappole retoriche. Però ha vissuto la sua esperienza televisiva come un' avventura magica, fra foreste incantate e minacciose montagne. Per lui il calcio era scontro fra forze benigne (gli allievi di Gino Palumbo) e maligne (gli accoliti di Brera). Era incontinente, goloso, ogni giorno diceva «ancora, ancora», voleva farsi schiacciare dall' eccesso di piacere. E tuttavia il pensiero del nostro Peter Pan è stato fra i meno trascurabili, in mezzo alle schegge impazzite che vagolano nell' etere; il suo resta fra i più smaglianti.

Sandro Sabatini su Facebook il 3 aprile 2020. Se dicevi #Mosca, dieci anni fa, per prima cosa non veniva in mente né la capitale della Russia né un personaggio della Casa di Carta. Dieci anni fa moriva Maurizio, Mosca. Giornalista bravissimo, opinionista fortissimo, personaggio grandissimo. Superlativo, come gli aggettivi, nei suoi eccessi. Perché in tv era ironico e divisivo, intuitivo e scaltro, bomber e fantasista. Completo. Ma pure “esageratissimo”. E quest’ultimo superlativo è una sgrammaticatura voluta, per mettere in guardia dai racconti che se ne fanno dopo un decennio. Giornali e tv, radio e social: chi oggi lo ricorderà, non potrà evitare di appiccicargli il link di qualche video cliccatissimo sul web. C’è la trasmissione in cui un tizio approfitta delle telefonate in diretta e lo insulta; Mosca prima manda la pubblicità, poi annuncia che il tizio <<è già stato arrestato>>. Oppure un battibecco con Zenga in cui rivela un litigio di spogliatoio, con l’ex portiere dell’Inter che si collega e smentisce. Non può mancare una “bomba” di calciomercato. E non stupisce la vivacità di un sondaggio per spaziare disinvolto da <<chi è più forte tra Totti e Del Piero>> a <<meglio panettone o pandoro?>>. O infine l’inimitabile, e infatti mai più imitato, gioco del pendolino: pronostici volutamente balordi. Fatti anche per prendere in giro quelli che i pronostici li facevano seri. E li sbagliavano, come lui. Aveva, in dosi quasi uguali, ironia e autoironia. Ne faceva ampio uso. Forse troppo. Ne abusava. Così i tifosi gli erano affezionati, ma non lo prendevano sul serio. E sbagliavano. Perché Mosca inventava il giornalismo televisivo mentre era in diretta. D’istinto. Affidandosi al talento (ovviamente purissimo, altro superlativo). Ecco le voci dei tifosi, le telefonate in diretta: intuizione sua. Il bisticcio polemico con il personaggio intervistato: ne era maestro. Le notizie di calciomercato tutto l’anno e non solo nei mesi estivi: un precursore. Le domande spiazzanti per alimentare la discussione: il suo pane. Le previsioni azzardate alla vigilia e poi l’esasperazione dei voti in pagella: c’è ancora la sua firma, e sono passati dieci anni dalla sua morte. Ha insegnato televisione senza atteggiarsi a maestro, e senza neanche rendersene conto. Ha espresso giornalismo molto più solido dell’apparenza. Dietro ogni sua notizia “bomba” c’erano decine di telefonate autentiche, confidenziali, puntigliose e dettagliate con tutti i più grandi personaggi dello sport italiano. Ha scherzato tanto, ma non ha mai preso in giro nessuno. Quindi, il suo ricordo non diventi una scia di schiamazzi. Né una colonna sonora di battutine o un’eco di “pendolini”. A dispetto dei ricordi occasionali affidati a YouTube, a dieci anni dalla scomparsa si può dire – si deve dire – che era molto ascoltato. Rispettato e ammirato. Se ai tifosi del calcio dicevi Mosca, pensavi davvero a Maurizio. Fino a dieci anni fa, sicuro. E almeno oggi, si spera.

Andrea Saronni per “Libero quotidiano” il 3 aprile 2020. Ma ve lo immaginate uno come Maurizio Mosca ai tempi del Coronavirus? Un leone in gabbia, sicuro come l' oro. A dispetto delle 80 primavere che sarebbe stato lì per compiere. Maurizio, devi stare in casa. «Ma come, ma io devo andare a lavorare». Maurizio, stai a casa e ti facciamo collegare noi, con Skype. «Guarda che siamo a Mediaset. Cosa c' entra Sky». Maurizio, fa tutto il cellulare. Lo stesso oggetto che molti anni fa, quando hanno fatto conoscenza, ha fatto una brutta fine: per la prima volta, a Mosca viene dato un telefono portatile dal suo aiutante-autista-factotum, che lo sta portando in Toscana per un impegno. Breve spiegazione: tutto semplice, no? Qualcuno aveva già il numero, e chiama Maurizio giusto tra le montagne dell' Appennino: squillo irritante, meccanismo incompreso e incomprensibile. L'ordine è quello di fermarsi alla prima piazzola: e il rivoluzionario strumento finisce la sua breve esperienza in una scarpata. Quella più lunga - ma non lunghissima - di uno degli uomini seminali del giornalismo sportivo italiano è finita giusto 10 anni fa, al San Matteo di Pavia, vinto da troppi nemici, primo fra tutti un tumore che non è riuscito a impedirgli, fino alla fine, di essere Maurizio Mosca, di lavorare, di dire la sua, di scrivere, creare, sperimentare, andare in studio. Esserci, insomma. Ci era riuscito anche da quel letto di ospedale, aveva convertito uno dei suoi marchi di fabbrica, il "Ce l' ho con", dalla televisione all' ancora imberbe sito Internet della testata sportiva di Mediaset, che decollava anche grazie a lui, a quel blog che faceva pensare a un Maurizio 2.0: in realtà, gli articoli li consegnava scritti a pennarello in calligrafia perfetta, pulita; e quell' ultimo contributo - ce l' aveva con Mourinho, che eccedeva nel vessare Balotelli - lo dettò da quella camera bianca, dalla quale non sarebbe più uscito. Era un fiume sempre ricco e ogni tanto persino in piena, Mosca, che oggi - a dieci anni di distanza - deve venire definitivamente indicato come l' inventore dell'infotainement sportivo: e attenzione, che non significa affatto avere rinunciato alla professione, al taglio giornalistico. Semplicemente, Maurizio ha dato vita di sana pianta a una maniera di comunicazione, a un messaggio legato al calcio (e non solo: è stato uno dei maggiori narratori italiani del pugilato, tanto per fare un esempio) che ha cambiato e ancora oggi influenza la maniera di raccontare il pallone e il suo immaginario. Il grande Aldo Biscardi, per carità, ha altrettanti meriti: ma ricordiamoci che se nella sua lampada non ci fosse stato il genio Maurizio, forse oggi si parlerebbe di un altro Processo, di un altro calcio parlato in tv. Calcio parlato che in un momento del genere, senza il calcio giocato, sarebbe diventato per una volta fondamentale per tenere viva una passione gelata dall' emergenza. E allora vai di pendolino, vai di bombe, vai di «aaaahhh, come gioca Del Piero», e di chissà quale altra trovata finto-pagliaccesca e in realtà geniale, piccolo capolavoro di comunicazione. Ci manca Maurizio, in tv, fuori dalla tv. Era una persona specchiata, aperta con tutti, stessa faccia e stesso atteggiamento, dal presidente potente allo stagista. Che magari, rivolgendosi al maestro, gli avrebbe confessato: «Maurizio, ho paura del Coronavirus». Risposta scontata: «Chiiiii? Non lo conosco».

·        9 anni dalla morte di Giuseppe D'Avanzo.

Ciao Peppe: nove anni fa l'addio a D'Avanzo, giornalista del rigore e della verità. Pubblicato giovedì, 30 luglio 2020 da Ezio Mauro su La Repubblica.it. Nel 2011 la morte di Giuseppe D'Avanzo. Ci ha lasciato un metodo di lavoro e una concezione del mestiere che ha segnato la piccola storia di un giornale, e a cui vogliamo restare fedeli, ricordando le parole dell’ultimo saluto a Peppe: non finisce qui. Questa mattina, come ogni anno, le telefonate tra colleghi del 30 luglio, e poi la chiamata a Marina. Succede da quel 2011, quando Peppe è morto all’improvviso a 57 anni, con il tempo soltanto di chiamare per nome Bolzoni, l’amico di sempre che era con lui: “Attilio...”. Poi la notizia che arriva al giornale, la redazione che non riesce a crederci, e infine la fatica e lo smarrimento di continuare senza di lui, soli. Da nove anni. Manca la persona, naturalmente e prima di tutto. La presenza così autentica e dunque così marcata, piena, i baffi e gli occhiali e l’eleganza semplice, naturale, la voce ruvida come il carattere, le impennate, le ombrosità, gli slanci di confidenza e d’intesa, l’ossessione e la capacità di pretendere da se stesso e dagli altri ogni volta di più, cercando il massimo: e magari mandando al diavolo tutto, quando quella differenza decisiva di impegno e di qualità non arrivava. Scontri furiosi, una passione d’amicizia profonda che ogni volta li superava, un’intesa culturale che li annullava, aprendo la strada a qualche nuovo progetto comune. Ma oltre a questa impronta umana che ha segnato il giornale, manca il suo giornalismo. E su questo - che oggi ripetono tutti - vale la pena riflettere. D’Avanzo era un cronista del potere, a cui era esterno per scelta e per vocazione, e su cui svolgeva un’inchiesta permanente. Il governo del Paese, le lobby, gli apparati dello Stato, l’antistato delle mafie, le influenze internazionali, le deviazioni istituzionali, il contropotere della magistratura. Era mosso dalla cronaca, perché sapeva il mistero che i reporter conoscono in silenzio, e cioè che la cronaca non racconta soltanto, come si pensa in genere, ma in realtà rivela. Dunque partiva dai fatti, leggeva, studiava, si documentava, andava sul posto, e restituiva al lettore la ricchezza di ciò che aveva incontrato, di quel che aveva capito. Ma già il giorno dopo cercava la seconda dimensione che sta dietro la facciata degli avvenimenti, li trascende e li spiega, perché è fatta di strategie, motivazioni, interessi, calcoli, azzardi e alleanze. E qui, proprio qui, sta il segreto ogni volta occulto del potere. Dunque questo era il campo dove il suo giornalismo doveva compiere la sua indagine, lo spazio vero e faticoso che permette l’intelligenza degli avvenimenti, la comprensione dei fenomeni, al di là della superficie delle vicende appena scalfita dalla luce frontale dei riflettori tv. Era un lavoro in cui si mescolavano le notizie e le analisi, i fatti e la loro interpretazione, spostando ogni volta l’interrogativo del cronista più avanti, fino a cercare il nucleo profondo in cui il potere custodisce le sue ragioni e le sue ossessioni. Sapeva perfettamente che nell’intimità di questo scavo si correva il rischio di cadere nel pozzo della stessa ossessione, per venirne catturati e finirne prigionieri. Ma in quel luogo, ripeteva, bisognava per forza arrivare: perché solo lì si capisce tutto e si padroneggia ogni cosa. E infatti il potere, incalzato quotidianamente dal suo giornalismo, reagiva come da manuale, replicando ogni volta un modello che lui anticipava: quando leggeranno questo, reagiranno così, perché non possono fare altrimenti. Ma noi a quel punto chiederemo conto di questa contraddizione, e staremo a vedere. Parlava con Franco Cordero, che aveva voluto nel suo giornale, per dare un nome e una fisionomia giuridica ai mostri procedurali che il potere creava nel codice per proteggersi, sfigurando il diritto, la separazione degli ambiti, la dignità del parlamento. E tutto questo lo portava in una dimensione fantasmatica, extra-istituzionale, dove lo stesso potere si trasforma in comando e il comando in abuso, mentre la sua legittimità decade a privilegio e la dismisura genera il sopruso. Intellettualmente, la partita lo ingaggiava e lo sfidava, portandolo a studiare, ad approfondire, a scartare, cercando la chiave nella filosofia, nella teoria dell’arbitrio, nella mutazione della rappresentanza in unzione, sfiorando il paganesimo politico nell’egolatria disegnata da Cordero. Tutto partiva e ritornava al giornalismo, trovando infine la sua sintesi nella forma più semplice, dichiarata e nuda delle dieci domande a Silvio Berlusconi, l’uomo che in quel momento radunava la massima concentrazione di potere in Italia. D’Avanzo le scrisse un venerdì pomeriggio, spiegando a Palazzo Chigi che avrebbe voluto rivolgerle direttamente al Premier, in un’intervista. La risposta fu una denuncia: era la prima volta che delle domande giornalistiche venivano portate davanti a un tribunale perché le togliesse di mezzo, evitando al Premier il fastidio di vedersele riproposte sul giornale (e sui giornali di tutto il mondo) ogni giorno, e più ancora l’imbarazzo di dover rispondere. Quando il giudice disse che le domande erano perfettamente legittime, la risposta di Berlusconi infine arrivò, sia pure nello spazio protetto di un libro firmato dal suo notaio di fiducia, e pubblicato dalla casa editrice di sua proprietà. D’Avanzo spiegò che al di là del merito, questa era la prova del limite dentro il quale il Premier era costretto a muoversi, non essendo libero di accettare un confronto aperto nello spazio libero di un’intervista con contraddittorio. Aveva altri progetti, era pronto a scavare in altre direzioni. Non ne ha avuto il tempo. E a noi resta un metodo di lavoro e una concezione del mestiere che ha segnato la piccola storia di un giornale, e a cui vogliamo restare fedeli, ricordando le parole dell’ultimo saluto a Peppe, nove anni fa: non finisce qui.

·        9 anni dalla morte di Elizabeth Taylor.

Anna Corradini Porta per "Libero Quotidiano" l'8 ottobre 2020. In camera da letto avevano una lavagna. Di solito era Richard che si alzava per primo, non certo per vedere l'alba. Dell'alba non gliene fregava proprio niente, anche per via di quella "stramaledettissima luce" che gli ammazzava le pupille, come diceva lui. Si alzava per primo perché era il primo ad avere bisogno di bere un goccetto. E l'umore della giornata dipendeva dal tempo che impiegava, appena sveglio, a raggiungere la bottiglia di vodka. Liz era così gentile da mettergliela sempre a portata di mano: due o tre passi ad occhi chiusi, qualche imprecazione in gallese e Richard poteva versarsi la prima razione. Un attimo prima di tornare a letto, dove dormiva rannicchiata come una gatta la sua bella Liz e un attimo dopo aver bevuto due dita di vodka, Richard era preso da una vena romantica. Allora andava alla lavagna e col gesso scriveva una delle tante pazze, irriverenti dichiarazioni d'amore che da anni, da quando cioè si erano sposati, dedicava alla sua bella signora. Scriveva cose del tipo «ti amo tanto mia vecchia ragazza grassa», oppure «sei il mio adorabile elefante bianco» e anche, con un po' più di serietà «non saprei vivere senza di te. Morirei. Svegliati presto amore mio, quando dormi mi manchi e io mi sento maledettamente solo e triste». La lavagna era il termometro degli alti e bassi del grande amore di Liz e Richard, un amore comprovato da una convivenza turbolenta e felice, da un continuo desiderio uno dell'altra, che non era solo desiderio fisico ma di affetto, di compagnia, di semplice vicinanza, di dialogo. Difficile trovare due persone così strettamente legate anima e corpo, desideri e abitudini, impennate e dolcezze, qualità e stranezze. Per questo forse, io che ero diventata loro amica, ero sicura che non si sarebbero mai lasciati. Ricordo che quando li incontrai la prima volta sul set di La bisbetica domata, diretto da Zeffirelli, ero una giovanissima giornalista alle prime armi ma non persi tempo e dissi subito a Liz che ero incantata dalla loro straordinaria storia d'amore e che ero pronta a giurare che sarebbe durata per sempre. Lei quasi si commosse per la mia sincerità e per l'impeto con cui mi ero dichiarata e mi rispose: «Auguro anche a te un amore come sto vivendo io, sono sicura che te lo meriti».

SENTIMENTO PROFONDO. Tornando ai loro messaggi sulla lavagna Liz ripeteva sempre «se ti perdessi Richard, sarei perduta. Sarei una foglia secca portata dal vento, non si sa dove, non si sa da chi. Ricorda che io ti amo veramente». Richard, parlando con me nelle varie occasioni in cui ci si incontrava sui set, al festival di Cannes, a Los Angeles ribadiva l'inesauribile concetto di quel dono prezioso che era sua moglie. «Anna devi credermi, Liz è l'unica donna che mi abbia dato la sensazione di aver bisogno completamente, assolutamente di me. Ogni giorno ho voglia di riconquistarla. Mi piace tutto di lei, la sua figura tonda e arrendevole, la tenerezza disarmante del suo sguardo, i suoi capelli grigi che danno alla sua testa corvina un tocco umano di maturità». Gli alti e bassi del loro amore avevano per protagonista, come potete immaginare, la famosa lavagna: quando non c'era scritto nulla voleva dire che avevano litigato, una delle solite liti spaventose ma di brevissima durata, magari scoppiata per una marca di wisky o perché Richard voleva mettersi un paio di scarpe gialle con i pantaloni azzurri. O perché Liz, come era successo sul set della Bisbetica domata, si era mangiata tutte le mele verdi di un albero del giardino di Zeffirelli, con un risultato disastroso. Ma i temporali passavano in fretta, Richard trovava parole dolcissime ogni giorno da scrivere sulla famosa lavagna che viaggiava con loro ovunque andassero. Liz rispondeva ai dolci messaggi di Richard a modo suo: gli faceva trovare sotto il piatto della colazione delle letterine d'amore con tanti fiorellini colorati disegnati a matita. Questo era un altro dei tanti modi che avevano di dirsi "ti amo". Anche quando mangiavano insieme con una voracità primitiva, quasi sensuale, lasciavano intuire, anche al più disattento dei commensali, il profondo sentimento che li legava: si capiva l'ingordigia che avevano ancora l'uno dell'altra. L'unico punto doloroso della loro storia era il fatto che Liz non poteva dargli un erede perché aveva subito l'asportazione delle ovaie dopo i tre figli dei precedenti mariti. «Non so farmene una ragione», ripeteva con le lacrime agli occhi, «sarebbe stata la prova più grande del mio amore per Richard ma Dio non me l'ha permesso». Poi, dopo 12 anni di matrimonio, inaspettato, dolorosissimo, devastante è arrivato il divorzio, che ha anche inghiottito la nostra amicizia: non ci siamo più sentiti perché insieme avremmo ricordato un periodo particolarmente felice che non c'era più. Divorzio sul quale si è detto di tutto, si è parlato di tradimenti, di difficoltà con l'andare del tempo a reggere un rapporto che li consumava anima e corpo. I divorzi, tanto per ricordarlo sono stati due, il primo nel 1974, seguito nel 1975 da un nuovo matrimonio che sembrava averli riuniti e il secondo divorzio definitivo nel 1976.

GRANDE DOLORE. A questo punto decisi di incontrare Burton sul set de Il viaggio diretto da De Sica che si girava nei dintorni di Taormina. Richard appena mi vide mi abbracciò con le lacrime agli occhi. «Anna», mi disse con un filo di voce, «questa volta è finita per sempre e non so se riuscirò a sopravvivere a questo dolore». Ma come è potuto accadere, gli chiesi, un amore come il vostro io non l'avevo mai visto prima e non credo che lo vedrò ancora. «Io e Liz eravamo come due amanti quando scappano il fine settimana, travolti dal desiderio, affamati di tenerezza e di sesso, disposti a tutto per avere tutto, spaventati che qualcosa o qualcuno potesse impedire di stare insieme ancora. Per noi questa atmosfera era quella di tutti i giorni e ci ha consumato, annientato». Pensavo che dopo questo incontro io e Burton ci saremmo rivisti ancora. Ma non fu così. Per anni non ne seppi più, finché non apparve sui giornali la notizia che aveva sposato una ragazza di 27 anni e con lei era andato a vivere in Svizzera. Ne fui in qualche modo felice convinta che avesse trovato consolazione. Ma non era così. Una notte, improvvisamente, squillò il mio telefono. Erano quasi le due, col cuore in gola, spaventata, non immaginando chi potesse essere, risposi. Dall'altra parte c'era Richard che con un filo di voce mi diceva: «Anna, se avrai occasione di rivedere Liz, dille che l'ho amata tanto e l'amerò sempre». Non feci in tempo a dire una sola parola perché aveva già riattaccato. Dopo qualche settimana i giornali di tutto il mondo annunciarono la morte di Richard Burton per emorragia cerebrale.

Emanuela Minucci per "La Stampa" il 10 agosto 2020. «Lei Cleopatra? È ridicolo: somiglia a una fantesca durante l'allattamento. Spiegami dov' è bella questa piccola sfera, questo batuffolo di grasso. La faccina è passabile, ma scura, troppo scura. Scommetto che si fa la barba tutti i giorni...». Quella mattina del 1963 a Cinecittà, sul set di Cleopatra, Marco Antonio-Richard Burton, appoggiato a una colonna dorica di cartapesta, la corazza aperta sul petto come una camicia a Saint Tropez, era alla ventesima sigaretta e al terzo bourbon. Ma, soprattutto, non sapeva di stare scrivendo l'incipit del più furioso romanzo d'amore dell'epoca Hollywoodiana. Da quel giorno il copione decise per lui. Antonio e Cleopatra dovevano innamorarsi e lo fecero sul serio. E quella bambolina dagli occhi viola di nome Liz trasformerà per sempre l'imperatore in servus, schiavo della donna più femminile del pianeta. «Il segreto di Liz è che incarna anche dopo anni la magia del rapporto occasionale» confiderà Burton, innamorato come un gatto, a un amico. La sposerà due volte questa mini-donna di un metro e 58, l'unica ad avere in mano il telecomando per farlo tornare, spesso fra le lenzuola. «Lei è la mia notte in bianco» scrive sul diario Richard, raccontando la loro vita-ottovolante, tra sberle, bottiglie di whisky vuote e alzatine stracolme di caviale grigio arrivate sui jet privati, suite miliardarie distrutte dopo liti furibonde. Botte, insulti, urla, svenimenti e minacce. Una tempesta che diventò presto un rituale che i naufraghi Liz e Richard sapevano come lasciare alle spalle: dissolvenza scandita dal ciak di un abbraccio fuori misura anche per il Cinemascope.

Richard come Lassie. Quella bambolina che da piccola entrava nelle case degli americani accarezzando il muso di Lassie, collezionava mariti e figli come figurine Panini. Già, perché prima di sposare Burton, la giovane Liz convolò a nozze con Conrad Hilton junior (1950), erede della dinastia alberghiera, poi Michael Wilding (1952) Mike Todd (1957), e infine - si fa per dire- il cantante Eddie Fisher (1959). E fu all'ombra del quarto matrimonio e tre figli affidati ad altrettante solerti tate che Liz e Richard finiscono nella centrifuga di un amor-fou destinato a riempire i giornali perché entrambi sposati (lui con l'attrice irlandese Sybil Christopher). «Quando la vidi fu una scossa elettrica, mi avvicinai a lei come un entomologo a una farfalla rara - raccontò anni dopo Burton al Sunday Times, con gli occhi lucidi per l'emozione - ci misi meno di tre secondi per capire che avrei rinunciato al whisky e al fumo pur di portarla a letto. Liz non è una donna, è una strega, ma non chiedetele il segreto, non saprà spiegarvelo, è così e basta».

La dolce vita. Fu l'inizio di una relation dangereuse che assunse presto i contorni di uno scandalo e consolidò la reputazione della Taylor come femme fatale regalando a Burton l'accesso all'Olimpo di Hollywood. Intanto il mondo si sconvolgeva. In anni in cui l'adulterio e il divorzio erano condannati dal comune senso del pudore e dai codici penali (in Italia per esempio, per non dire del Vaticano che additò la coppia come esempio di immoralità) i due amanti cambiavano Stato e continenti come smoking o abiti in lamè. Trascinando a corredo di un amore contra legem stuoli di bimbi (fra cui Maria, figlia adottiva di Burton nata il 1° agosto 1961 in Germania e da subito molto amata dalla Taylor) e bambinaie, cuochi, parrucchieri e soprattutto - per parte di Liz - centinaia di bauli pieni di abiti e capricci. Sono mesi difficili per la coppia, ma redditizi per i settimanali di gossip.

Ogni fuga, ogni cena, ogni lite pubblica vengono immortalate dai fotoreporter. Secondo Sam Kashner e Nancy Schoemberg autori di Furious Love (Il Saggiatore, 2013) fu proprio la caccia forsennata a Liz e Richard in via Veneto a suggerire a Fellini la figura del paparazzo ne La Dolce Vita. Dopo aver preteso il proprio divorzio e quello dell'amante (anche lui con prole a seguito, due bambine) da buona collezionista di mariti Liz pretende la quinta fede all'anulare: «Quando amo una persona devo sposarla, tutto qui» spiegò a un giornalista di Usa Today con la sua voce da eterna bambina dagli occhi viola. E l'ancillus Richard ancora una volta obbedì: «Quel che Liz vuole Liz ottiene». Il 15 marzo 1964 al Ritz Carlton di Montreal Antonio e Cleopatra, al secolo Richard Walter Jenkis e Elizabeth Rosemond Taylor, convolano a giuste e tempestose nozze. E lui farà di tutto per stupirla con effetti siderali. Per esempio regalandole il diamante più grande del mondo, 68 carati di abbagliante purezza a forma di goccia. Peccato che quei 48 grammi costati a Burton un milione e 100 mila dollari fossero troppo pesanti per il ditino mignon di Liz che lo volle trasformare presto in collier. Una piccola, grande e cocciuta decisione, quella di smontare, ancora una volta, qualcosa. Prima le famiglie, poi gli anelli più preziosi. Quindi l'amore più grande del mondo, quello con Richard che dura dieci anni, un'eternità per i parametri usa-e-getta di Liz fino al primo divorzio, arrivato il 26 giugno 1974: dopo due lustri scanditi da film e vita vera che a volte supera per dirompente e autolesionistica energia le sceneggiature più ardite. In realtà si tratta di un matrimonio a tre: lei, lui e l'alcol.

Liz e Richard si ubriacano quasi ogni giorno. Il loro amore affoga in un mare di Martini, bicchieri di Bordeaux e whisky irlandese consumati sin dal primo mattino a bordo delle Rolls Royce bianche. Si amano e litigano come portuali anche in pubblico lui uno e 95 di altezza per 92 chili che bistratta la bambolina irresistibile e lei che lo colpisce a sangue sul viso con la mano «armata» di anelli Cartier.

La foto col ghepardo. Ma il divorzio dura appena un anno perché già nel 1975 Liz decide di riavvolgere il nastro. E Richard, pur dichiarando di essere contrario alle seconde nozze, farà ancora una volta quello che vuole «quella meraviglia di donna distante come Venere, il pianeta». I due si ripeteranno per la seconda volta Yes I will in gran segreto, il 10 ottobre 1975 in un parco naturale del Botsawa. L'unica foto del matrimonio ritrae i due sposi con in mezzo un ghepardo accarezzato affettuosamente da Liz come fosse già una pelliccia. Il felino come simbolo di un demone che minaccia la loro pirotecnica unione. Nei ritagli di tempo concessi da questo amore epico, la Taylor vincerà due Oscar come migliore attrice mentre Burton - che quel premio non riuscirà mai ad aggiudicarsi nonostante ben sette candidature - gliene regalerà uno, personale: «Sei la più grande attrice del mondo». Ma in casa Liz non riesce a recitare. Il secondo matrimonio con Richard durerà solo 18 mesi. Nonostante ciò lei continuerà a sposare, in modo seriale e democratico - arrivando a collezionare sette mariti - arruolando dal carpentiere al politico, dall'attore al cantante, passando per il rampollo miliardario. Burton, invece, non divorzierà mai, dentro di sé, da Liz. Tre giorni prima di morire per una emorragia cerebrale il 5 agosto 1984 a 58 anni, le scriverà una dichiarazione di amore eterno, indicibile, fragilissimo e forte: «Ti amo donna stupenda, se qualcuno ti fa del male mandami un messaggio. Basta che tu scriva "Ho bisogno" o una sola magica parola "Elizabeth" e arriverò più veloce del suono. Sai di certo quanto ti amo. Ma la verità fondamentale e perfida , assassina e immutabile è che io e te ci fraintendiamo totalmente.

Torna da me prima che puoi». Liz leggerà queste parole solo al ritorno dal suo funerale. E sino alla fine dei suoi giorni ripeterà: «Richard è stato il grande amore della mia vita. Ho sempre pensato che ci saremmo sposati per la terza e ultima volta. Ci siamo amati disperatamente». Qualcuno sostiene che per gli eterni innamorati l'Aldilà è una nuvola a due piazze.

DAGONEWS il 4 luglio 2020. Elizabeth Taylor e Richard Burton sono stati a lungo la coppia più famosa di Hollywood. Si erano incontrati sul set di Cleopatra e la loro storia d’amore proibita è stata condannata persino dal Vaticano. Liz era ancora sposata con il marito numero quattro Eddie Fisher, quando iniziò la sua storia d'amore appassionata con il co-protagonista Burton, che all’epoca era ancora sposato con la prima moglie Sybil Williams. Era il 1962 e tutti gli occhi erano puntati su quella star che era diventata la prima donna a guadagnare un milione di dollari per interpretare l’ultima regina d’Egitto. All’epoca lei aveva 26 anni, Richard 36. Per mesi sono stati inseguiti dalla stampa che li ha finalmente immortalati insieme su uno yacht in quello che da molti venne considerato un “vagabondaggio erotico”. Dopo aver concluso le riprese, sia Taylor che Burton divorziarono e si sposarono in Canada nel 1964, appena nove giorni dopo la fine ufficiale del matrimonio con Fisher. All'inizio, la loro storia d'amore sembrava essere l’immagine del matrimonio perfetto: la coppia viveva una vita dorata, viaggiava per il mondo e Burton ricopriva la moglie con diamanti, pellicce e abiti firmati. Hanno anche legato le loro vite professionali insieme intraprendendo più progetti cinematografici, diventando un bene prezioso a Hollywood. Tuttavia, quando le porte della loro mega casa si chiudevano la loro storia era tutt’altro che romantica come testimoniano i diari di Burton in cui nel 1969 scriveva di un matrimonio alimentato dal sesso, da discussioni esplosive, piccole gelosie e una quantità preoccupante di alcol. Gli scritti hanno rivelato che sia Burton che Taylor consumavano quantità eccessive di alcol, il che li ha portati a liti pesantissime. In un passaggio scritto nel 1969 si legge: «Nell'ultimo mese, con pochissime eccezioni, Elizabeth è andata a letto non solo confusa, ma devastata. È incapace di mantenere l’attenzione, incapace di camminare dritta, parla a voce lenta e con una vocina da bambina demente. La noia di trovarmi in presenza di qualcuno a cui devi ripetere tutto due volte è come un dolore fisico che prende lo stomaco. Se fosse qualcun altro, me ne andrei a gambe levate, ma questa donna è la mia vita». Nel suo diario si vantava anche della bellezza senza età di sua moglie, commentando i suoi seni che «era ancora turgidi come dieci anni prima e il suo sedere solido e rotondo». Nel maggio di quell'anno, scrisse della loro insaziabile vita sessuale, descrivendo la moglie come una donna capace di regalare l’eccitazione tipica del sesso occasionale. Burton ha anche documentato le loro violente liti: «Mi ha schiacciato la testa con le dite piene di anelli. Se lo avesse fatto qualcun altro, l'avrei ucciso. Continuo a ribollire per la rabbia quando ci penso». L'attore ha raccontato che le liti esplosive sono andate avanti per 15 mesi mentre la coppia diventata sempre più dipendente dall’alcol. Nel 1972, già si vociferava che entrambi avessero altre relazioni e nel 1974 hanno divorziato. Tuttavia la loro separazione non è durata a lungo e nel 1975 la coppia si è risposata in Botswana. Burton in seguito disse del secondo matrimonio: «Voleva sposarsi di nuovo. Io non volevo. Ma l'ho sposata lo stesso. Ciò che Liz vuole, lo ottiene. A quel punto avevo smesso di bere, quindi avrei dovuto essere abbastanza sobrio da sapere cosa stavo facendo, ma non lo ero». Tuttavia, il secondo matrimonio è durato poco e, dopo che Burton tornò ad abusare di alcol, i due divorziarono una seconda volta nel 1976. Burton in seguito si sposò con Suzy Miller, un mese dopo la conclusione del suo secondo divorzio da Taylor. Anche questa unione non durò e nel 1983 convolò a nozze con Sally Hay. Burton morì un anno dopo a 58 anni. Liz si è sposata altre due volte: nel 1976 con John Warner e nel 1991 con Larry Fortensky, prima di divorziare nel 1996. È morta a 79 anni nel 2011.

·        9 anni dalla morte di Leda Colombini.

Leda Colombini la mondina rivoluzionaria che lottava contro il carcere. Monica Fantauzzi il 14 gennaio 2020 su Il Dubbio. Fu partigiana, bracciante e deputata della repubblica una vita per I più deboli. Il lavoro, l’occupazione delle terre accanto agli uomini le battaglie per il diritto delle donne all’istruzione, l’incontro con Nilde Iotti e infine l’impegno per I diritti delle detenute. Era il 1994, quando, per la prima volta, cinque bambini uscirono dal carcere romano di Rebibbia femminile per vedere il mare. Alcuni di loro non volevano scendere dal pullman, altri, i due più temerari, si fiondarono sulla sabbia cercando di raccoglierne il più possibile. Lí, accovacciata sul bagnasciuga, c’era una donna. La sua storia iniziava molti anni prima, ma quel giorno avrebbe incrociato quella di altre donne, alcune delle quali oggi sono libere, altre ancora recluse. Leda Colombini fondò “A Roma Insieme” nel 1992, con l’obiettivo di trovare un’alternativa al carcere per madri e bambini. «Leda ricordava le battaglie in carcere con estrema commozione. Forse in quei bambini, e nelle loro madri, rivedeva parte della sua storia personale», ricorda Francesco Piva, professore di Storia Contemporanea per oltre quarant’anni e autore nel 2009 di La storia di Leda, da bracciante a dirigente di partito; un libro che nei traccia il percorso formativo alla militanza politica e sindacale. Oggi, a dieci anni da quella pubblicazione, Piva sfoglia quelle pagine con delicatezza: «Gli do un’occhiata nel caso mi dovessero sfuggire delle date, sai, è stata una vita intensa quella di Leda». Leda Colombini nacque a Fabbrico di Reggio Emilia il 10 Gennaio del 1929 in una famiglia estremamente povera. Il nonno era mezzadro e la madre, dopo esser rimasta incinta dal figlio del padrone, partorì tre figlie. Il padre non le riconobbe mai, e la madre le allevò da sola, aiutata dal suo vecchio genitore. Fin da bambina comprese che la madre soffriva per quella condizione; una condizione che, di fatto, le impediva di mandare la figlia a scuola oltre la primaria. Finita la quinta elementare infatti. Leda va subito a lavorare come “mondina” nelle risaie vicine a Fabbrico. «Quando non lavora si chiude nella biblioteca del Comune. Legge qualunque cosa, anche se, in pratica, trova quasi tutti libri rosa. Quando torna dalle sue compagne, nelle risaie, le donne si affrettano a metterla al centro. Così tutte in fila, possono ascoltare Leda che narra le storie imparate anche per loro». La storia di Leda inizia a essere “rivoluzionaria” a partire da quegli anni. Nessuno nella sua famiglia era politicizzato; conobbe l’esistenza dei partigiani durante i “filò”, vale a dire le serate in cui famiglie contadine si riunivano nella stalla per riscaldarsi; si mangiava, si raccontavano storie e nascevano amori. Fu lì che sentì parlare per la prima volta della Resistenza e della possibilità di parteciparvi attivamente, cucendo maglioni, calze e vestiti per i partigiani. Alla fine della guerra si iscrive giovanissima al Partito Comunista Italiano ed entra nelle file dell’Udi dove conosce Nilde Iotti. Il partito la manda alla scuola centrale per quadri dirigenti, dislocata allora a Milano. Furono sei mesi che Leda ha ricordato come «difficilissimi» ma anche fondamentali. Prima di allora parlava solo il dialetto e – come lei stessa ha raccontato – in quei mesi imparò l’italiano, un po’ di storia, di economia e di geografia. In effetti, subito dopo la guerra, il Pci si ritrovò con masse di iscritti per la maggior parte analfabete, per questo fu allestito un vero e proprio sistema scolastico- educativo che, partendo dalle sezioni, passava per le province, le regioni e arrivava fino alle scuole nazionali, come quella di Milano dove approdò Leda. Dopo quel periodo ritornò a Fabbrico ma, nell’estate del ’ 49, il giovane segretario nazionale della Federbraccianti, Romagnoli, la chiamò a collaborare nella gestione del grande sciopero nazionale dei braccianti – lo sciopero dei 40 giorni – che ovviamente coinvolgeva anche le mondine. Ogni anno, la stagione della “monda” richiamava nelle risaie del Piemonte decine di migliaia di braccianti soprattutto dell’Emilia Romagna che il sindacato assisteva a diversi livelli, dalla all’allestimento di iniziative culturali e ludiche per il tempo libero. Sempre nel ‘ 49, al congresso nazionale della Federbraccianti entrò nella segreteria nazionale che le affidò la guida delle braccianti ( su un milione di iscritti, costituivano quasi la metà). In questa nuova veste, Leda – poco più che ventenne – affrontò le fragili condizioni lavorative delle donne in diversi comparti agricoli: oltre all’annuale campagna per le mondine, diede innovativo impulso all’azione sindacale tra le braccianti più sfruttate e meno riconosciute, quelle del Sud ( raccoglitrici di olive di castagne, di gelsomini ); «Furono gli anni in cui si mise alla testa dei cortei, accanto agli uomini, occupando le terre. La notte le capitava di dormire nelle stalle, insieme agli asini». «Quando pubblicammo il libro – ricorda ancora Piva – Leda volle presentarlo a Fabbrico, da dove era partita, più di ottant’anni prima». La sala era gremita di facce che non esistono più, facce di contadine che, silenziosamente, portavano sulla pelle i segni di quelle lotte. Se iniziò a varcare la soglia del carcere, fino a morirci, era perché vedeva nelle donne recluse la tragica eredità di una battaglia mai vinta. «Se si concedessero gli arresti domiciliari alle donne condannate per reati che prevedono soluzioni alternative alla detenzione, il 97% delle donne non varcherebbe la soglia dei penitenziari, e con esse neanche i bambini». Diceva Leda, vent’anni fa. Oggi a Leda Colombini è dedicata la prima e, praticamente unica casa famiglia per madri detenute, non è una sezione “carina” all’interno di un carcere, né un istituto di custodia attenuata, è una casa. Con delle finestre e non delle sbarre. Sono 2.713 le donne recluse ora in Italia, ossia appena il 5% dell’intera popolazione detenuta ( 61.174, per una capienza regolamentare di 50.476). Nonostante la legge imponga una serie di situazioni ritenute incompatibili con il regime carcerario, e nonostante tra queste vi sia appunto quella di «madre di prole di età inferiore a tre anni con lei convivente», le madri oggi in carcere sono 52, con 56 figli al seguito. Nel sud del Malawi, c’è una prigione di massima sicurezza, Zomba prison. Venne costruita durante la colonizzazione inglese, con una capienza di 340 persone massimo. Oggi ospita più di 2.000 detenuti, tra cui decine di madri con bambini. Nell’angolo di terra rossa recintato dove vivono quelle detenute, è stata composta una canzone. Se il grado di civilizzazione di un paese si misura dalle sue prigioni, come scrisse Dostoevskij dopo aver trascorso quattro anni di reclusione in Siberia, quella canzone sarebbe potuta essere stata scritta anche in Italia. «Tu uomo, non hai pietà, cosa stai facendo a mio figlio ma, fratello, cosa ha fatto lui di male? Io l’ho cresciuto da sola. E da sola sto soffrendo» Leda morí all’età di 82 anni, nel carcere di Regina Coeli. Dove tutto è cemento ma lei vedeva sabbia.

·        8 anni dalla morte di Whitney Houston.

Molestie, violenze, droga e alcol: la maledizione di Whitney Houston. Pubblicato domenica, 19 gennaio 2020 su Corriere.it da Laura Zangarini. La rivelazione di Robyn Crawford: «Sono stata l’amante di Whitney Houston ma non potevo dirlo». Whitney Houston con il marito, il musicista Bobby Brown, e la piccola Bobbi Kristina intorno alla metà degli Anni Novanta (foto Getty Images) Da qualunque punto di vista la si esamini — l’infanzia, il successo, la morte — quella di Whitney Houston è stata un’esistenza tragica. Le molestie subite da bambina, le violenze inflitte dal marito Bobby Brown, la dipendenza dalle droghe ne hanno precocemente dissipato l’immenso talento. Fino alla scomparsa, l’11 febbraio 2012, quando “The Voice” viene trovata senza vita nella vasca da bagno della Suite 434 del Beverly Hilton Hotel, sulle colline di Hollywood, California. La polizia annota la presenza su un tavolino di una bottiglia aperta di champagne e di un cucchiaio con una «sostanza cristallina bianca». Alcune settimane dopo il referto dell’autopsia attribuisce la morte di Houston ad «annegamento accidentale» in seguito a overdose di droga, farmaci e alcol. A 48 anni la sua stella si è spenta per sempre. La sua scomparsa commuove il mondo. La sua vita viene scandagliata, raccontata nei dettagli più intimi. Oggi sappiamo che a farle più male sono stati quelli che erano a lei più vicini. I fratelli che la iniziarono alla droga quando era appena adolescente; il padre ed ex manager, John Russell, che nel 2002 la cita in giudizio chiedendole un risarcimento di 100 milioni per averla aiutata nella carriera e nei momenti difficili. Due anni fa il film biografico di Kevin McDonald, Whitney, rilancia altre rivelazioni shock: da ragazzina la star è stata molestata sessualmente dalla cugina Dee Dee Warwick, sorella della cantante Dionne: a parlarne in Whitney è il fratellastro, l’ex giocatore di basket Gary Garland-Houston. Le avvalora l’assistente personale della popstar, Mary Jones: conferma che Whitney le aveva parlato di una donna che la molestava quando era giovane. Basterebbero questi eventi traumatici a spiegare la sua tensione autodistruttiva. «C’era qualcosa di molto disturbato in lei», racconta McDonald a Vanity Fair «come se non si sentisse mai a proprio agio nei suoi panni. Era una donna bellissima, ma mai particolarmente “sexy”. Ho visto e ripreso persone che avevano subito abusi sessuali durante l’infanzia: qualcosa nel suo modo di fare mi ricordava quel tipo di comportamento. Credo che dietro il suo autolesionismo ci fosse principalmente l’essere stata vittima di abusi». Il successo planetario, i duecento milioni di dischi venduti nel mondo (nel 2009 Whitney Houston entra nel Guinness World Records come la donna più premiata di tutti i tempi), il film che nel 1992 la consacra e la rende immortale, The Bodyguard, con il singolo I Will Always Love You, non placano i tormenti di Whitney. Potrebbe forse riuscirci l’amore. Certo non quello con Robyn Crawford, conosciuta a 16 anni, sua storica assistente e amica: una relazione al centro di gossip e speculazioni fino alla pubblicazione, nel 2019, di una biografia in cui Crawford sostiene che la loro relazione è durata anni. Si è interrotta dopo la firma del primo contratto discografico di Whitney: temeva che se fosse diventata di pubblico dominio avrebbe potuto danneggiare la sua carriera. Houston frequenterà per un periodo il comico Eddie Murphy; ma è Bobby Brown, cantante e musicista R’n’B, che sposa il 18 luglio 1992. È il futuro padre di Bobbi Kristina, che arriva un anno dopo le nozze. Il loro non è un matrimonio facile: Bobby ha tre figli da due precedenti relazioni, ha problemi di droga e con la giustizia, è un “bad boy” che da giovane ha militato in una gang di strada. È brutale, infligge a Whitney violenze fisiche e psicologiche, la picchia: durante una vacanza a Capri, nel 1997, lei si presenta all’ospedale con il volto tumefatto. Dice di essere scivolata sugli scogli, cerca di nascondere i lividi e le lacrime dietro un enorme paio di occhiali neri, l’asciugamano premuto sul viso. Nel 2003 chiama il 911 per violenza domestica: quando la polizia arriva a casa della coppia, in Georgia, Whitney ha contusioni su una guancia e un labbro tagliato. Riprecipita con lui nel baratro della cocaina. Due rehab nel 2004 e nel 2005 non bastano a salvarle la carriera: arriva tardi ai concerti, non canta più come prima, annulla eventi e date poco prima degli show. Eppure prova a tenere in piedi il matrimonio con tutte le sue forze. Nel 2007 è costretta ad arrendersi. Chiede la separazione. «Era la mia droga» dirà a Oprah Winfrey in una intervista nel 2009: «Non ho fatto niente senza di lui, nemmeno sballarmi. Eravamo io e lui insieme, eravamo complici, per me era il massimo. Qualunque cosa abbiamo fatto, l’abbiamo fatta insieme». La sua carriera riprende tra alti e bassi. Il 9 febbraio 2012, due giorni prima di morire, arriva al Beverly Hilton Hotel: deve prendere parte a una serata organizzata a margine dei premi Grammy, a Hollywood. Canta Jesus Loves Me in duetto con Kelly Price: sarà la sua ultima apparizione in pubblico. La storia si ripete. Il 31 gennaio di tre anni dopo, la figlia Bobbi Kristina, 22 anni, viene ritrovata dal fidanzato Nick Gordon priva di conoscenza nella vasca da bagno della loro villa ad Atlanta, in Georgia. In corpo ha un cocktail letale di alcol, droga e farmaci. Ha subito danni cerebrali irreversibili: muore dopo sei mesi di coma, il 6 luglio, senza avere mai ripreso conoscenza. A darle il cocktail tossico, accusano gli Houston, è stato Nick. Cresciuti insieme — lui è orfano, Whitney lo ha «adottato» anche se non legalmente —, i due sono venuti allo scoperto nel 2012 annunciando il fidanzamento. «Una relazione incestuosa», secondo Cissy Houston, la nonna di Krissy, come Bobbi Kristina viene affettuosamente chiamata in casa e dagli amici. Gordon è violento, fa uso di sostanze stupefacenti. Durante il coma di Krissy razzia gioielli e soldi dal conto di lei. Gli Houston insistono: il colpevole è lui. Il rapporto del medico legale parla però di morte dovuta a «immersione associata a intossicazione da droghe»: la causa ufficiale non verrà mai accertata. «Il medico legale — riporta il foglio dell’autopsia — non è stato in grado di stabilire se Bobbi Kristina Brown si è suicidata, se qualcuno l’ha uccisa o se il decesso è stato accidentale». Gli Houston e Bobby Brown lo citano in giudizio. E vincono la causa: Gordon non si presenta in tribunale, viene condannato in contumacia al pagamento di 36 milioni di dollari a titolo di risarcimento civile. Non ha mai pagato quei soldi. Né mai nessuno li pagherà. È morto all’alba del 1° gennaio scorso, stroncato da una overdose di «black tar», l’eroina messicana nota come “catrame nero”. Aveva 30 anni. La maledizione non è finita.

·        7 anni dalla morte di Alberto Bevilacqua.

Eros, romanzi pop e film cult. La vita magica di Bevilacqua. Considerato più un bestsellerista che un vero autore, lo scrittore-regista Alberto Bevilacqua è però ancora molto letto e amato. Luigi Mascheroni, Venerdì 12/06/2020 su Il Giornale. Esempio paradigmatico e impietoso dell'impossibilità di conciliare critica e mercato, Alberto Bevilacqua (Parma, 1934 - Roma, 2013) ancora oggi è sinonimo più di autore di successo che di grande scrittore. Vinse - caso rarissimo - tutti e tre i maggiori premi italiani: il Campiello nel 1966 con Questa specie d'amore, lo Strega nel 1968 per L'occhio del gatto e il Bancarella nel 1972 per Un viaggio misterioso. Eppure non è mai entrato nel canone letterario del nostro Novecento. Ha persino ricevuto, in vita, il «Meridiano» dedicato ai Romanzi (nel 2010, curato da Alberto Bertoni con una dettagliatissima biografia di Antonio Franchini). Ma più che un monumento alla sua narrativa sembra un riconoscimento della Mondadori alle sue vendite (ancora oggi è felicemente ristampato negli Oscar). Per dire: quando Livio Garzanti nel '74 decise di pubblicare (parole sue) «un libro brutto di successo» di Bevilacqua, Pasolini che già lo detestava perché lo aveva battuto allo Strega nel '68 se ne andò a Einaudi, dicendo che un vero editore non poteva sporcarsi il nome così... Eppure Bevilacqua resta oggi uno scrittore amatissimo (ai tempi anche come regista) nonostante la Critica con la «A» maiuscola, nel senso di Accademica, non gli abbia mai perdonato di essere popolare (cioè che scriveva per tutti), semplice (cioè non sperimentale) e disimpegnato (cioè non ideologico). Comunque, a parziale risarcimento, ecco oggi la biografia Alberto Bevilacqua (edizioni Il Rio) scritta da Alessandro Moscè, un amico e discepolo che lo frequentò negli ultimi anni, intervistandolo a lungo. Libro che, al netto di alcuni eccessi lirici e qualche scivolata agiografica, svela alcuni aspetti inediti o poco noti dello scrittore-regista. Ad esempio.

STRUMENTI DI LAVORO. Bevilacqua usava solo la macchina per scrivere Olivetti Lettera44 (ma a un certo punto non trovava più i nastri e doveva farla inchiostrare di continuo), e se trovava anche un solo errore sul foglio ribatteva l'intera pagina. «Le penne blu e rosse disposte come soldatini». E i sigari Davidoff slim che fumava di continuo. Non ha mai usato il computer perché, diceva, «le statue del gruppo I Prigioni di Michelangelo non avrebbero avuto la stessa forma se fossero state realizzate con lo scalpello elettrico». E forse aveva ragione.

CENSURA SÌ O NO? Bevilacqua a vent'anni scrive il suo primo romanzo, dal titolo La polvere sull'erba, che Leonardo Sciasca legge in bozza, rimanendo «scosso e turbato», e fa avere al suo fraterno amico (ma non parente nonostante il cognome) Salvatore Sciascia delle edizioni omonime di Caltanissetta. E qui si apre un giallo. Il romanzo, che tocca eventi rimossi e scottanti (le vendette incrociate nell'immediato dopoguerra fra partigiani e fascisti nel Triangolo rosso emiliano), così com'è scritto, non esce. Qualcuno parla di rifiuti, censura, ripensamenti da parte dell'autore (siamo cinquant'anni prima del Sangue dei vinti di Giampaolo Pansa). Comunque il manoscritto rimane nel cassetto (del padre di Bevilacqua) fino al 2000, quando lo scrittore lo ribatte a macchina e lo fa uscire da Einaudi, ristampato nel 2008 (lancio editoriale: «Ecco finalmente il romanzo censurato di Bevilacqua»). È nota però, rarissima, un'edizione effettivamente stampata con lo stesso titolo da Salvatore Sciascia nel '55. In questi giorni ne è spuntata una copia sul mercato online. Ma chi ha letto entrambe le versioni sostiene che siano due libri differenti. Il primo, costituito da quattro racconti, quasi «prove d'autore», sembra non avere attinenze coi temi scottanti delle rappresaglie tra partigiani e repubblichini che sarebbero alla base della censura. E il secondo non sembra scritto cinquant'anni prima, forse neanche riattualizzato. Il mistero si infittisce...

MISTERI. Oltre all'astronomia (il telescopio era uno dei suoi oggetti preferiti), del bagaglio culturale dello scrittore facevano parte la medianità, la telepatia (in cui credeva) e l'esoterismo. «I circoli alchemici, del resto, influenzarono Dante e Petrarca proprio nell'Emilia. Nel Parmigianino si possono leggere simboli che Bevilacqua ritrovò nei frequenti viaggi in Tibet». «E lo stesso fiume Po ha conservato nei secoli un'atmosfera orientale, un senso magico che non sempre può essere razionalizzato».

CASA D'INFANZIA. «L'eros è un tema che mi è stato dentro fin dall'inizio. Quando si vive alla brava lo si scopre negli ambienti più infimi. Quando mio padre venne epurato (era un aviatore della squadriglia di Italo Balbo, ndr) ci sbatterono a vivere tra due case di tolleranza. Io ero un bambino, non mi rendevo conto di che cosa si trattasse, ma queste puttane benevolenti a volte mi invitavano a mangiare da loro. Ma oltre a mangiare coglievo che lì intorno accadevano certe cose». Di cui si ricorderà nei suoi romanzi.

EROS&PRIAPO. Inguaribile dongiovanni, e secondo alcuni a volte anche dongiovanna, Bevilacqua mise la «classificazione dell'animo femminile» al centro dei suoi romanzi (alcuni titoli: La Califfa, Il curioso delle donne, La donna delle meraviglie, La Grande Giò, Il gioco delle passioni, I sensi incantati..) «che lo ha fatto amare sia dagli uomini in cerca di stabilità sentimentale o di conquiste, sia dalle donne, le quali rimanevano stupite dall'esattezza con cui le coglieva nelle sfumature, nei lati insoliti, più segreti».

MUSE. Cinematograficamente, per lui, la musa fu Romy Schneider (che scelse per interpretare La Califfa accanto a Ugo Tognazzi nel film che diresse nel 1970 tratto dal suo stesso bestseller) «considerata una specie di divinità che provocava soggezione nelle masse». Bevilacqua tenne un diario sui giorni in cui girava La Califfa, quando lei era affranta dalla fine del rapporto con Alain Delon: «Si perdeva nei greti del Po, contro i muri delle case abbattute». «Un'attrice senza fanatismo, non del tutto consapevole della sua intensità». «Aveva sempre scelto amanti sbagliati, che si erano approfittati di lei, che l'avevano utilizzata. Maliziosa, dura, interscambiabile».

AMICIZIE PAZZE. Bevilacqua conobbe bene il pittore Antonio Ligabue (1899-1965). Ecco una sua confessione: «Conservo la foto di un sesso femminile. È stato intagliato da Ligabùn, sul tronco di un robusto pioppo a Baccanello Po. Credo che sia ancora là, perché nessuno sa che si tratta di una sua invenzione. È una di quelle sculture, lui le chiamava così, che lo impegnavano con fervore. Ligabue era tutto istinto, un uomo primitivo e viscerale, che captava le sensazioni come un ronzio di mosche».

PADRI NOBILI. Lo scrittore fu anche legato a Jorge Luis Borges: «Alcune delle mie storie sono finite in mano a Bioy Casares, suo amico e collaboratore, e sempre Bioy gli fece leggere alcuni miei testi poetici. Una volta Borges venne a Milano per un incontro con Ionesco e i due discussero a lungo sulla mia poesia. Borges era affascinante perché sensitivo. Non vedeva ma aveva cento occhi e sentiva tutto».

MITI MALEDETTI. Uno, per lui, fu Louis-Ferdinand Céline. Fu un capo della Resistenza italiana a Parigi, di Parma e amico dello zio, qualche anno dopo la fine della guerra, a portare un giovanissimo Bevilacqua a vedere, dietro il cancello della sua casa, l'autore del Viaggio al termine della notte. «Era osteggiato da molti colleghi, tra cui Sartre. Scorsi da lontano quest'uomo che mi impressionò. Trasmetteva qualcosa di indecifrabile, come fosse piovuto da un altro pianeta. Ecco, Céline non era terreno fino in fondo. Fu in quel momento che mi balenò l'idea di scrivere una biografia su di lui». Non lo fece. Ma nel 2011 intitolò Viaggio al principio del giorno la propria autobiografia (in cui si racconta anche di Céline).

CULT-ISSIMO. Nel 1962 il regista Mario Bava, maestro assoluto dell'horror italiano, chiese a Bevilacqua di aiutarlo a scrivere un film a episodi tratto da tre maestri del racconto del terrore dell'800: Maupassant, Tolstoj e Cechov. Nacque I tre volti della paura (1963), capolavoro del cinema di genere italiano amatissimo da Quentin Tarantino e Roman Polanski. Commento di Bevilacqua: «Gli americani mi definiscono un autore di culto, un cult, perché ho scritto i film di Mario Bava». Nota a margine: distribuito in tutto il mondo con il titolo di Black Sabbath, il film ispirò il nome della band heavy metal inglese.

COSE (NON) NOSTRE. Rivelazione su un episodio americano degli anni Sessanta: «Joe Colombo, il grande imprenditore e designer, ma anche pittore di qualità, mi invitò a cena e mi propose in pratica di scrivere Il padrino, ma non accettai. Un padano come me non poteva saperne granché di una stortura tutta italiana, ma non emiliana. Colombo disse che la mafia erano anche le donne, e rise a lungo».

UNA MITE VECCHIAIA. A proposito di donne. Bevilacqua ne ebbe molte. Ma quella a cui fu più legato - e qui usciamo dalla biografia di Alessandro Moscè, che glissa su questa parte - fu Michela Miti (nome d'arte di Michela Macaluso), diventata celebre per le sue partecipazioni in due film cult della commedia sexy all'italiana del filone di Pierino (ma soprattutto nel per noi monumentale Biancaneve&Co., 1982) e che poi recitò in alcune pièce teatrali e nel film Gialloparma (1999) scritti da lui. Michela Miti e la sorella dello scrittore, Anna, furono per mesi protagoniste di un'aspra polemica sulle cure prestate a Bevilacqua nella clinica Villa Mafalda a Roma, dove è morto nel settembre 2013.

·        7 anni dalla morte di Franco Califano.

«Ero pazza di lui: bello e maledetto. Un poeta. Erano gli anni di Tutto il resto è noia: vivevamo così... Io di giorno sul set, la notte con lui per Roma, poi di nuovo sul set senza toccare letto. Iniziavano allora le mie storie di droga. Tra noi era una grande attrazione ma anche un continuo tira-e-molla. Mi amava quando c’ero, mi dimenticava subito dopo. Gli piacevano troppo le ragazzine... È durata due anni e sono stati bellissimi» [Caterina Piretti in arte Katiuscia ad Adriana Marmiroli, La Stampa – da Anteprima di Giorgio Dell’Arti].

Dagospia il 14 agosto 2020. Di Franco Califano, nato nel 1938 a Tripoli, e morto a Roma nel 2013, tutti ricordano le sue canzoni dal contenuto poetico, ma pochi rammentano le sue vicissitudini giudiziarie. Fu arrestato e carcerato due volte benché non avesse commesso reati, essendosi limitato a sniffare coca. Affari suoi di cui si impicciò la giustizia, rendendo difficile e dolorosa la vita del cantante e compositore. Oggi vogliamo ricordarlo per ciò che egli era veramente, un artista e non un criminale che tuttavia dovette combattere nei tribunali. Vittorio Feltri, allorché era inviato del Corriere della sera, raccontò l’ultimo processo che Califano subì a Napoli. Un omaggio alla memoria.

Articolo di Vittorio Feltri pubblicato da “Libero quotidiano”. Franco Califano, il cantante delle borgate romane, ha occupato tutta l'udienza di ieri. E chi ha ascoltato la sua difesa, pronunciata da Vincenzo Siniscalchi, qualche idea su di lui se l'è fatta: non sarà uno stinco di santo, avrà avuto delle debolezze, avrà forse peccato di leggerezza, ma da lì a dire che è un camorrista e uno spacciatore di stupefacenti, e quindi meritevole della condanna chiesta dal P.M. (dieci anni) ce ne corre. E come. Sono due, sostanzialmente quelli che lo hanno incastrato, naturalmente pentiti. Uno è Pasquale D'Amico, l'altro Gianni Melluso, sedicente corriere della droga, ma con un curriculum che lo pone tuttalpiù a livelli di teppaglia paesana, al quale a un certo punto dell'inchiesta viene in mente che l'ugola di Primavalle non emetteva neanche un acuto se non si nutriva di cocaina. E aggiunge: «la polverina gliela davo io, a chili». Di qui il sospetto degli inquirenti: se ne comprava quantità industriali, significa che almeno in parte era destinata alla rivendita. Pertanto Califano non era soltanto un consumatore, cosa di cui l'interessato non ha mai fatto mistero, ma anche un piazzista. E dove distribuiva? Ipotesi: nel mondo dello spettacolo, notoriamente ricettivo; cosicché con l'utile del commercio si pagava il dilettevole. Ma su che cosa poggia questa equazione? Sul nulla, non c'è una prova, non un indizio, non un riscontro obiettivo, secondo il linguaggio dei tecnici del ramo giudiziario. E allora, che razza di processo è? Un momento. Per capire come stanno le faccende, bisogna rammentare che l'istruttoria regge esclusivamente sulle ammissione dei pentiti. O si crede loro all'ingrosso, e di conseguenza si condanna in blocco la massa degli imputati, oppure se ne mette in dubbio la parola, e si assolvono tutti quanti. Ecco perché anche Tortora si trova invischiato, e in una posizione analoga a quella del cantante: qualcuno, e si sa chi sono, ha fatto i loro nomi con la più classica delle chiamate di correo e, a questo punto, si salvi chi può. È inutile pretendere, come fanno molti commentatori, che in aggiunta a quanto si è acquisito emergano, elementi concreti che consentano al tribunale di decidere su qualcosa d'altro che non sia il chiacchiericcio nebuloso degli ex camorristi e dei loro aiutanti. Ma torniamo all'udienza. Siniscalchi si è attenuto alle carte, da cui risulta che Melluso ha consegnato pacchi di cocaina a Califano. Però questi nega, e non già di aver sniffato, bensì di aver acquistato da Gianni il bello, precisando che i suoi fornitori erano altri, tra cui Pasquale D'Amico. Per quale ragione il cantante dovrebbe mentire? E in ogni caso, dov' è il reato? È forse vietato dal codice annusare? D'Amico conferma: «Sì, ho rifilato della polverina a Califano. Anzi, gliene ho consegnato un pacco da 250 grammi, in pagamento di un concerto piazzaiolo in provincia di Napoli cui assistette Cutolo in persona, per quanto già ricercato». Il pentito va oltre: la partita costituiva un campione d'assaggio. «Qualora fosse piaciuto - ha detto - avrei provveduto ad ulteriori spedizioni in modo di dare il via a un traffico cospicuo». Ma un seguito non ci fu, quantomeno nelle carte non se ne fa cenno. Conclusione: è vero che il mattatore della Hit-parade tirava cocaina, è assodato che ne ha ricevuta da D'Amico (e non da Melluso) tuttavia è assolutamente arbitrario ritenere che ciò basti per dargli la patente di spacciatore o addirittura di camorrista. Obiezione: un semplice tossicodipendente che cosa se ne fa di 250 grammi di polvere? Il quantitativo è troppo per non pensare al commercio. Risposta: uno come Califano mica tutte le sere poteva andare in cerca della bustina, faceva il pieno per un paio di mesi. Lui, ieri, era presente all'arringa del suo avvocato e durante una pausa non s' è fatto pregare per parlare: «Rispetto il Collegio giudicante - ha detto - e ringrazio i magistrati che, concedendomi gli arresti domiciliari, mi hanno permesso di riprendere il lavoro e di ritrovare, così, il morale che stavo perdendo. Ma sono stanco di pagare debiti che non ho mai contratto. Nel 1970 sono stato in galera e non avevo nulla sulla coscienza. Ora, e già da due anni, sono di nuovo detenuto senza aver commesso reati. Certo, qualche volta ho sniffato, ma raramente, perché detesto i vizi e i viziosi. E infondo sono fatti miei. Unica consolazione, il pubblico: mi applaude freneticamente ad ogni apparizione, che non ho mai spacciato altro se non le mie canzoni. D'Amico insiste di avermi dato un pacco di droga molto grosso: esagerato, per un ritornello in play-back, mi pare troppo. Tortora? poveraccio, serve più lui di me a questo processo: evidentemente il suo indice di ascolto è più elevato del mio". Gli esperti del Foro napoletano prevedono per Califano un'assoluzione per quanto riguarda l'associazione camorristica. E sul resto, una mite condanna, tale da consentirgli un ritorno immediato alla libertà, avendo scontato già parecchia reclusione. Il taccuino della giornata, dopo le polemiche di giovedì, deve registrare il seguito del giallo delle lettere di Nadia Marzano a Pasquale Barra. Ha ragione Pannella: sono scomparse davvero, sia dal fascicolo della donna sia dal carteggio generale. Volatilizzate. In un primo momento il presidente Sansone aveva detto a un cronista che c'erano: ieri invece, dopo affannose ricerche, ha ammesso che le missive sono sparite. Forse non ci sono mai state. Ma sono poi così importanti? «Certo - assicura il capo radicale -, perché contengono l'ennesima dimostrazione che Barra è un mentitore, né più né meno come gli altri pentiti che sono serviti a montare il castello di bugie contro Tortora e quanti, come lui, hanno avuto la sfortuna di incappare in questa vergognosa inchiesta". S' è fatto tardi e il professor Alberto Dall'Ora non ha avuto spazio per la terza arringa in favore all'ex presentatore di "Portobello". L'intervento è rinviato a lunedì in chiusura del processo. Poi, Camera di consiglio. E entro venerdì, sabato al massimo, la sentenza.  

Gino Castaldo per “la Repubblica” il 31 luglio 2020. Negli ultimi anni della sua vita il Califfo era un uomo amareggiato, portava le sue ferite tutte in faccia, il volto bruciato dalle passioni proibite e dai colpi che la vita gli aveva inferto. Ma Franco Califano stava sempre a testa alta, non rinunciava mai al suo orgoglio di eroe spavaldo, vissuto e consumato dalla vita. Le sue carte, diceva sempre, se l'era giocate tutte, fino all'ultima, e per fermarlo hanno dovuto rinchiuderlo in carcere, vittima di ingiustizie colossali, malato di cocaina ma accusato insieme a Enzo Tortora di spaccio e associazione a delinquere, più di tre anni di galera, per poi essere assolto con formula piena. Una vita mai rinnegata, vissuta pericolosamente, con amici imbarazzanti come Francis Turatello («l'ho conosciuto dopo essere uscito dal carcere la prima volta, nel 1970, io mi ero comportato bene, non avevo fatto la spia e lui mi ammirava, ci conoscemmo e diventammo amici») in una vertigine di donne, alcune famose, come Dominique Boschero o Mita Medici, tante altre anonime, le commesse e le casalinghe per cui andava pazzo riconoscendo la femminilità fuori dagli stereotipi, in passato attore di fotoromanzi, gigolò occasionale, mediocre attore di cinema, dissoluto e incorreggibile, eppure straordinario poeta della canzone. «A me piacciono sempre le donne, anzi mi piacciono di più, ora» mi disse nel settembre del 2008, tanto per non smentirsi, a pochi giorni dal compleanno dei settanta (era nato a Tripoli, per caso, perché quel 14 settembre del 1938 la madre partorì praticamente in aereo, mentre volavano sui cieli di Libia, e dovettero atterrare forzatamente). L'incontro avvenne in Campidoglio, dove ci fu l'annuncio del concerto a piazza Navona che pochi giorni dopo avrebbe sancito una volta per tutte il tributo della città a quel figlio così scomodo ma sempre amato e riverito. «Io che a Roma nun ce so' manco nato. Ma non sai quanto me rode per questa cosa», lui che di Roma e della romanità era stato un cantore unico, autore inimitabile per voci femminili come Ornella Vanoni e Mia Martini, e cantante egli stesso, tecnicamente molto poco dotato, ma con uno stile irresistibile in cui il personaggio sovrastava e caricava di riverberi la voce del cantante.

La sua canzone più importante?

«Tutto il resto è noia » diceva senza esitare il Califfo, «è la cosa in cui credo, oggi più che mai, e poi è una frase che ormai come popolarità ha superato anche "m'illumino d'immenso"». La frase se l'era tatuata sul braccio, la frase della svolta, il marchio indelebile, una di quelle invenzioni che entrano nella lingua parlata, diventano un modo di dire.

Ma da adulto, ora, quali sono le cose che ama di più?

«Le donne, sempre, ma lo sai che col tempo mi piacciono ancora di più, di più, anche se oggi c'è una selezione maggiore, adesso ho la mania delle donne brutte, anzi non proprio brutte, bada bene, anche perché non esiste la donna brutta, esistono le donne e basta, ma una cosa è certa: della categoria "veline" ora come ora non saprei che farne, a me ora piace una donna meno bella, anzi trovare qualità in una donna meno bella».

Ma c'è qualcosa d'altro che le interessa oltre le donne?

«I giovani, tantissimo, che sono il mio fiore all'occhiello. Questa estate ho fatto serate con venti-trentamila persone e, ti sembrerà strano, erano tutti giovani. Uno pensa che Califano piace a quelli più maturi, e invece no, so' ragazzi, è incredibile come conoscono Tutto il resto è noia , ma ti dirò di più conoscono anche le canzoni vecchie, che sono più vecchie di loro, e poi mi chiamano sempre a parlare all'università, e soprattutto alle facoltà di Giurisprudenza».

E perché mai proprio a Giurisprudenza?

«E che ne so? Ma non solo, anche a Psicologia, vado a Tor Vergata, alla Luiss e ci vado sempre molto volentieri perché coi ragazzi mi diverto. All'inizio si comincia a parlare delle tematiche che sono più vicine alla scuola, poi immancabilmente si passa alla vita privata, vogliono sapere di me Sono curiosi della mia vita».

Ora sta preparando il concerto di Piazza Navona. Sarà diverso dal solito?

«Sì, sto facendo le prove, perché poi diciamolo, checché se ne dica, io continuo a lavorare sempre. Per il concerto ho preparato un "middle" (intendeva "medley", ndr ) di canzoni per far capire di più quante ne ho scritte, e quindi sarà un po' più lungo del solito, ci metterò cose che non cantavo da tempo. Sarà più completo, come fosse anche una specie di riassunto della mia vita».

Lei non sembra un uomo che vive di rancori, eppure qualche eccezione c'è, negli ultimi tempi ha mostrato un certo risentimento nei confronti di Pippo Baudo. Come mai?

«Ma perché lui è stato offensivo, mi ha detto: "ma quando la scrivi una canzone decente". Ma come fai a dire a me una cosa del genere? Pensa di potersi permettere tutto, e poi ogni volta che gli ho presentato una canzone, è successo tre volte, me le ha fatte sempre cambiare, modifica quà, modifica là, ma chi se ne importa, resto sereno, posso vivere anche senza Sanremo».

Ma l'anno prossimo?

«Perché no, basta che non ci sia Baudo, con lui non vado da nessuna parte, e comunque sottopormi a una richiesta mi darebbe molto fastidio, dovrebbero pensarci loro a invitarmi, sperando che il prossimo conduttore abbia la mente abbastanza libera per chiedermi di partecipare (il conduttore dell'edizione 2009 fu Bonolis ma Califano non fu invitato, ndr) ».

Ma non ha pensato a una lunga autobiografia completa, come fosse un grande romanzo della sua vita?

«Ho appena scritto un riassunto, una biografia che si intitola Senza manette (firmato con Pierluigi Diaco, ndr), ma lì non c'è sesso, non ci sono le donne, racconto le mie disavventure in prima persona. Un libro con tutta la mia storia per intero sarebbe troppo grosso, troppo pieno di cose, belle o brutte, inutili o utili, paradossalmente per uno come me ce vorrebbero tre film tipo Padrino Uno Due e Tre, la mia vita è troppo piena, non c'è un momento di pace, anzi diciamo meglio di relax, perché la pace c'è sempre Sarebbe bello, ma chi lo fa?».

E la pace l'ha mantenuta anche in galera?

«Lasciamo stare, è meglio. Alla fine per fortuna la verità è venuta fuori, ma la cosa peggiore era non poter fare il mio lavoro. Mi ricordo che stavo ancora ai domiciliari e già facevo i concerti, chiesi un permesso speciale, me lo concessero, solo che in ogni città dove andavo a cantare dovevo prima passare dai carabinieri».

Era il periodo in cui in concerto diceva che l'unico vero giudice era il pubblico?

«E certo, è il pubblico che m' ha salvato la vita».

Al collo porta una croce e una stella di David dorata, eppure non è ebreo. Come mai?

«È perché sono amico degli ebrei, la croce invece è una cosa mia, e devo dire che col passare del tempo divento sempre più cattolico. È una cosa incredibile, chissà, io la parola anziano non la contemplo, preferisco adulto ma può darsi che l'essere "troppo" adulto ti faccia fare pace con Dio. C'è sempre un po' di canaglietta, poi forse anche un po' di paura, ma del resto non costa nulla... Però è vero che crescendo ci si avvicina a Dio. Di sicuro sono sempre più cattolico. Non sai l'emozione quando ho visto questo Papa, Ratzinger, i precedenti non mi hanno mai particolarmente colpito».

Beh, Califano, deve ammettere che questa è davvero sorprendente, non è così automatico pensare che le possa piacere un Papa come Ratzinger, non trova?

«Si meravigliano perché in genere a questi je' piace er Papa bonaccione, col cascherino sotto braccio, che dice "buon appetito" dalla finestra, invece Ratzinger mi fa impazzire, mi piace il fatto che non si ferma troppo a carezzare i bambini, ne carezza al massimo due e va dritto, perché ha da fare, non ha il tempo».

Ma con questo avvicinamento non vorrà negare di esere stato un gran peccatore?

«Ma noooo, certo, ci mancherebbe altro, sono stato un grandissimo peccatore, solo che Dio ci ha insegnato a perdonare e quindi tutti i miei peccati devono per forza essere perdonati».

Forse per lei ci vorrebbe un condono.

«Ah quello sicuro. Ma se mi dici che devo perdonare anche uno che ha ucciso mio padre, allora non puoi castigarmi perché ho peccato. E poi dico: come può esistere l'inferno? Cazzo vuol dire l'inferno? Non parliamo del purgatorio. Ma che è, Tangentopoli? In questo caso non sanno quello che dicono. Come può esistere un Dio che non perdona e ti manda all'inferno per l'eternità? È l'unica cosa della religione che non mi sta bene. Detesto i misteri, e infatti dico sempre che Dio assomiglia un po' all'amore, l'amore è un'altra cosa piena di misteri, la passione è un'altra cosa. Ho avuto storie più importanti di altre, ma come si fa a dire: questo è amore, questo no».

Sembrerebbe un bel testo per una canzone.

«Senza dubbio, ho sempre detto che l'amore si scopre dopo, se è stato un amore lo capisci quando ti lasci con una donna e sei commosso e ti auguri a vicenda delle belle cose, ti dici che ci sarai sempre, allora vuol dire che è stato un bel rapporto. Ma se finisce tra le volgarità e le carte degli avvocati, allora no».

Nei mesi scorsi le è stato trovato un tumore che fortunatamente è stato curato. È cambiato il suo approccio alla vita?

«Il medico mi ha detto che devo dimagrire, per stare bene, e poi io non sto mai fermo, non mi piace il relax, è quello che fa invecchiare. Non bisogna mai fermarsi, io dico sempre che invecchierò solo cinque minuti prima di morire».

Giusto il tempo di far incidere sulla lapide il titolo di una sua canzone: Non escludo il ritorno.

·        7 anni dalla morte di Enzo Jannacci.

L'importante è esagerare: quanto ci manca Enzo Jannacci, che oggi avrebbe compiuto 85 anni. Pubblicato mercoledì, 03 giugno 2020 da La Repubblica.it. Avrebbe compiuto 85 anni oggi. Vincenzo Jannacci, detto Enzo. Detto, "l'Enzino". Nato a Milano il 3 giugno 1935 e morto nella sua città il 29 marzo del 2013. Il dottor Jannacci, perché era medico, il cantautore, il cabarettista, l'artista. Al suo numero di telefono fisso, quando si chiamava, poteva capitare di sentire la segreteria telefonica, quella voce inconfondibile che diceva: "Il dottor Jannacci riceve per appuntamento, sia i pazienti della mutua, cioè della Usl, sia i pazienti privati. Comunque lasciate un messaggio con il vostro numero telefonico. Grazie e tanti saluti". La sua città gli ha dedicato, un anno dopo la morte, un luogo che più simbolico forse non si può: la Casa dell'accoglienza di viale Ortles, il dormitorio - come lo conoscono tutti - dei barbun, quelli che ha cantato in 'El purtava i scarp del tennis', quello dove sono passati e passano tanti dei suoi tipi, quelli che ha raccontato raccontando Milano. Una Milano in cui gli emigranti (pugliesi, come un pezzo della sua famiglia) dovevano farsi strada vivendo nei quartieri popolari che negli anni Cinquanta nascevano come dormitori della città e della fabbrica, e la sua Vincenzina è stato un manifesto politico, in questo. Liceo scientifico, poi il Conservatorio. Ma, parallelamente, la laurea in medicina, professione della sua vita assieme alla musica e allo spettacolo. Cardiochirurgo, esperienza in Africa con Christiaan Barnand e negli Stati Uniti e poi il ritorno in Milano e la professione portata avanti sino alla fine, nello studio medico nella sua casa natale di via Sismondi, non lontano dall'Ortica, il quartiere della banda, e del palo, ma facendo visite anche nell'ambulatorio del Naga, che ha sempre accolto stranieri e italiani in difficoltà. Un figlio con sua moglie Giuliana Orefice, Paolo, che negli anni diventa il suo alter ego, musicista come lui.

I sodalizi artistici: con Giorgio Gaber, Adriano Celentano, Sergio Endrigo, Dario Fo, Cochi e Renato, Paolo Conte, Beppe Viola, con i suoi amici di fede sportiva (il Milan, solo quello) come Diego Abatantuono e i rivali di tifo come Teo Teocoli, Paolo Rossi, con cui partecipa a Sanremo nel 1994 con una canzone che è un concentrato di cronaca, 'I soliti accordi'. La passione per il jazz. Il teatro, il cinema, la tv. Muore poco prima di compiere 78 anni, di sera, nella clinica in cui era ricoverato per un tumore ormai incurabile. Grazie Enzo, e tanti saluti.

·        6 anni dalla morte di Robin Williams.

Robin Williams, 9 anni dopo la verità sul suicidio: "Non era depressione o Parkinson, ma la demenza da corpi di Lewy". Una fine terrificante. Libero Quotidiano il 12 agosto 2020. Nessuna depressione, Parkinson o problemi economici: dietro il suicidio di Robin Williams, che l'11 agosto sconvolse Hollywood e il mondo, c'è solo un dramma clinico. A rivelarlo la moglie del grande comico, Susan Schneider, che nel documentario Robin’s Wish sulla morte del divo (che si impiccò in camera da letto a soli 63 anni) entra nei dettagli. A stroncare fisicamente e psicologicamente Williams fu una grave e rarissima malattia neurodegenerativa che gli era stata da poco diagnosticata dopo mesi di analisi e consulti, la demenza da corpi di Lewy, dall'impatto devastante. "Se gli fosse andata bene avrebbe avuto magari tre anni di vita e sarebbero stati tre anni duri, probabilmente sarebbe stato internato. Alla fine, non aveva nemmeno più il controllo della sua voce, era sobrio, completamente pulito, ma soffriva di ansie". Non era paranoia, era l'effetto della malattia che minava memoria, psiche e controllo delle emozioni. Una bomba a orologria scoppiata già sul set dell'ultimo film Una notte al museo - Il segreto del faraone. "Era chiaro a tutti che a Robin stava succedendo qualcosa - spiega il produttore David E. Kelly -, ricordo che un giorno mi disse 'Non so cosa mi stia succedendo, non sono più io’. Era come se avesse dentro qualcosa che lo stesse consumando".

Straziante racconto della moglie: ​"Ecco gli ultimi giorni di Robin..." Il dramma della demenza, il desiderio di lasciare un messaggio positivo e poi il suicidio. Negli Stati Uniti sta per uscire il documentario sugli ultimi giorni di vita dell'attore americano che si impiccò nella sua abitazione a soli 63 anni. Novella Toloni, Sabato 08/08/2020 su Il Giornale. Si annuncia come un pugno dritto allo stomaco il documentario "Robin's Wish" che ripercorre gli ultimi giorni di vita di Robin Williams. Il cortometraggio, diretto da Tyler Norwood, uscirà negli Stati Uniti martedì 1 settembre ed è pronto a mostrare per la prima volta la lotta dell'attore contro la demenza da Corpi di Lewy. Un doloroso viaggio a ritroso nel tempo nel quale la moglie, Susan Schneider Williams, ha svelato retroscena strazianti dei giorni antecedenti al suicidio.

La moglie di Robin Williams: "Ecco le vere cause della sua morte". Il docufilm arriva a sei anni esatti dalla morte dell'attore statunitense. L’11 agosto 2014 Robin Williams è stato trovato impiccato nella sua villa a Paradise Cay, in California. Un gesto estremo compiuto dall'attore che secondo l’autopsia è morto per asfissia, conseguenza dell’impiccagione. A gettarlo nello sconforto il repentino declino della malattia scoperta nel 2013, la demenza diffusa del corpo di Lewy, una patologia neurodegenerativa che porta allo squilibrio mentale. "Con questo documentario ho voluto chiudere il cerchio e onorare la memoria di Robin - ha spiegato il regista Norwood in una conferenza - Per il mondo intero sarà un momento per guardare più in profondità nel carattere ispiratore e nelle esperienze vissute di un uomo davvero incredibile, qualcuno che ha toccato il cuore di tutti noi. Spero che faremo del bene al mondo, mostrando quello che stava attraversando Robin". Il documentario "Robin's Wish" ha ricostruito gli ultimi giorni di vita di uno degli attori più brillanti e amati del panorama cinematografico mondiale, attraverso le confessioni e i contributi degli attori, dei registi e dei medici che lo videro nell'ultimo anno. Tra loro il regista Shawn Levy che lo diresse nella sua ultima pellicola "Notte al museo - Il segreto del faraone" e che si accorse - durante le riprese - del peggioramento di Williams: "Sul set fu chiaro a tutti che qualcosa non andava in lui". E' stata soprattutto la moglie Susan Schnieder a raccontare il dramma vissuto e il tragico declino di Robin Williams: "La sua andatura era lenta e claudicante e a volte non riusciva a muoversi e quando ne usciva, era frustato. La cosa peggiore era quando si bloccava mentre parlava, perché non riusciva a trovare le parole. Aveva problemi di vista, non riusciva a valutare ne la distanza, ne la profondità. Era sempre confuso, poi gli hanno diagnosticato la malattia. Lo sapeva, era cosciente del brutto male che aveva, ma cercava sempre di controllarsi. L’ultimo mese, non ce la faceva più ed è così che è arrivata la caduta finale". A pochi giorni dall'anniversario dalla scomparsa, però, la moglie svela: "Abbiamo sofferto tanto per la sua decisione, tutta la famiglia, ma l’ho perdonato, non posso rinfacciargli nulla. Per me, è stato il miglior uomo che io abbia mai conosciuto".

·        6 anni dalla morte di Philip Seymour Hoffman.

Philip Seymour Hoffman moriva sei anni fa. Ecco 15 cose che forse non sapete della star di Hollywood. Pubblicato domenica, 02 febbraio 2020 su Corriere.it da Francesco Tortora. Sono già passati 6 anni dalla morte di Philip Seymour Hoffman, celebre attore americano scomparso per overdose il 2 febbraio del 2014 all'età di 47 anni. Il corpo della star di Hollywood è trovato senza vita nella sua abitazione di New York, nel West Village, Manhattan. Appassionato di recitazione fin da ragazzo, Philip segue corsi di arte drammatica nella Grande Mela dove si diploma nel 1989. Attore eclettico, già dai primi film dimostra un talento smisurato. Tra le sue pellicole più celebri ci sono "Boogie Nights - L'altra Hollywood", "Il grande Lebowski", "Magnolia", "Il talento di Mr. Ripley", "Quasi famosi", "Ubriaco d’amore", "Red Dragon" e "La 25ª ora". La consacrazione arriva nel 2006 quando vince l'Oscar per l'interpretazione di "Truman Capote - A sangue freddo", in cui veste i panni del grande scrittore americano. Successivamente ottiene altre tre nomination all'Oscar nel 2008 per "La guerra di Charlie Wilson", nel 2009 per "Il dubbio" e nel 2013 per "The Master". Ecco 15 cose che forse non sapete di Philip Seymour Hoffman, definito dal New York Times "uno dei migliori attori della sua generazione".

La morte. A causare il decesso dell'attore sarebbe stato un mix di eroina, cocaina e benzodiazepine. La mattina del 2 febbraio Hoffman sarebbe dovuto andare a prendere i figli a scuola, ma non si è mai presentato all'appuntamento. E' il drammaturgo David Katz, suo amico, a trovarlo senza vita nell'appartamento di Bethune Street (nella foto). L'attore - confermeranno i media - aveva ancora il laccio emostatico e la siringa nel braccio.

La dipendenza. La mattina della scomparsa di Hoffman gli inquirenti hanno trovato nel suo appartamento una cinquantina di bustine con la scritta "Ace of Spades" contenenti eroina, una ventina di siringhe usate in una tazza di plastica e altre buste con polvere bianca all'interno. L'attore aveva avuto i primi problemi di dipendenza da alcol e droga durante la giovinezza, ma poi per 23 anni era riuscito a rimanere sobrio e "pulito". Negli ultimi anni, invece, aveva ricominciato prima a bere e poi a prendere droga, come l'eroina che gli è stata fatale.

Lo sport e l'infortunio. Da adolescente Hoffman ha praticato diversi sport, ma si è infortunato durante un match di wrestling che gli ha impedito di continuare con le attività agonistiche. Per questo ha deciso di dedicarsi alla recitazione. Hoffman ha continuato a seguire le competizioni sportive ed è stato sempre un grande fan dei New York Knicks.

Cameriere e bagnino. Come tanti colleghi, prima di aver successo come attore, Philip ha fatto diversi lavori come il cameriere, il commesso di un negozio di alimentari e persino il bagnino.

L'amore. Philip Seymour Hoffman ha avuto un lungo rapporto sentimentale con la costumista Mimi O’Donnell, dal 1999 al 2013. La coppia si è incontrata sul set teatrale di "In Arabia We'd All Be Kings", opera diretta proprio dall'attore americano. Dalla loro relazione sono nati tre figli, Cooper Alexander (2003), Tallulah (2006) e Willa (2008).

Imputato per stupro: il primo ruolo. Hoffman debutta come attore professionista in un episodio di "Law & Order" nel 1991. L'episodio era intitolato "The Violence of Summer". Il suo personaggio è l'imputato in un caso di stupro.

Recita con la febbre. In "Almost Famous", film di Cameron Crowe del 2000, Hoffman gira tutte le scene con la febbre. Nonostante ciò la sua prova cinematografica è superba e l'attore ottiene giudizi lusinghieri da parte della critica.

Valanga di premi. Per il suo ruolo più celebre in "Truman Capote - A sangue freddo", Hoffman ha ottenuto ben 23 premi. Oltre all'Oscar, l'attore ha ricevuto, tra l'altro, un Golden Globe e un Critics Choice Award. Hoffman ha ottenuto anche tre Tony Award, l'equivalente degli Oscar per il teatro. Durante tutta la sua vita, la star ha vinto 73 premi e ricevuto altre 54 nomination.

Il film più amato. Hoffman in un'intervista ha dichiarato che la sua serie preferita era "Breaking Bad", mentre il film che amava di più era "Quei bravi ragazzi" di Martin Scorsese. Tra i suoi idoli cinematografici invece ha indicato Daniel Day-Lewis, Paul Newman, Meryl Streep e Christopher Walken.

Sul set con il fratello. Hoffman ha recitato in "Love Liza" nel 2002, film scritto da suo fratello maggiore, Gordy.

La grande amicizia. Grande amicizia tra Hoffman e l'attrice Julianne Moore. I due sono apparsi in tre film insieme: "Boogie Nights - L'altra Hollywood", "Il grande Lebowski" e "Magnolia".

L'altro Hoffman. Philip e Dustin a Hollywood: è il solo caso in cui due persone con lo stesso cognome sono state premiate con l'Oscar per la migliore interpretazione maschile. Il primo con "Truman Capote - A sangue freddo", il secondo con "Kramer contro Kramer". Dustin Hoffman ha vinto inoltre un Oscar come migliore attore non protagonista per "Rain Man - L'uomo della pioggia".

Un connubio artistico. Hoffman è apparso in tutti i primi lungometraggi di Paul Thomas Anderson, tranne nella pellicola "Il petroliere". Regista e attore hanno lavorato insieme in 5 film: "Sydney", "Boogie Nights - L'altra Hollywood", "Magnolia", "Ubriaco d'amore" e "The Master".

In cattedra. Nel 2003 Hoffman è tornato al college a New York, ma da professore. L'attore ha tenuto un corso durato solo un semestre alla Columbia University intitolato "Directing the Actor". In "Almost Famous", film di Cameron Crowe del 2000, Hoffman gira tutte le scene con la febbre. Nonostante ciò la sua prova cinematografica è superba e l'attore ottiene giudizi lusinghieri da parte della critica.

La storica rivalità. Hoffman ha avuto una storica rivalità professionale con Heath Ledger. Nel 2005 il primo, interpretando "Truman Capote - A sangue freddo", ha soffiato l'Oscar al secondo, protagonista del pluripremiato "I segreti di Brokeback Mountain". Nel 2009 le parti si sono invertite. Ledger riceve l'Oscar postumo come miglior attore non protagonista per l'interpretazione di Joker ne "Il cavaliere Oscuro" battendo nella stessa categoria Hoffman candidato per "Il dubbio". I due attori sono uniti anche per il tragico destino. Heath Ledger è infatti scomparso prematuramente nel 2008, a soli 29 anni, a causa di un cocktail letale di farmaci. 

·        6 anni dalla morte di Giorgio Faletti.

Nino Materi per “il Giornale” il 27 febbraio 2020. Roberta Bellesini è stata per 14 anni la moglie di Giorgio Faletti, senza mai stargli un «passo indietro». Lei gli è stata accanto. Come fanno le vere donne di valore, quando dividono la vita con un vero uomo di valore. E Giorgio lo era: artista tra i più versatili (attore, cantante, scrittore) di un' epoca così recente da distinguerne ancora perfettamente i contorni. Oggi Roberta abbina l' attività professionale con la gestione di ciò che riguarda la memoria del «suo» Giorgio Faletti. Che però è anche il «nostro» Giorgio: cioè di tutti quegli italiani che, in 40 anni di carriera, hanno apprezzato le doti intellettuali e umane di Faletti. Qualità esaltate dall' ironia - anzi, dell' autoironia - che distingue i comici normali dai grandi umoristi. Perché è facile fare battute sugli altri, più difficile scherzare su se stessi quando il destino non ha voglia di farti ridere. Accanendosi, cattivo, contro di te. «Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare». La frase di John Belushi nel film Animal House, Faletti è riuscito a praticarla nel momento più drammatico. «Era in coma - ricorda Roberta -. Finalmente si svegliò. Le macchine a cui era attaccato facevano parecchio rumore. Giorgio socchiuse gli occhi e, per prima cosa, gli venne una battuta: Ma mi avete ricoverato in un casinò di Las Vegas?. I medici scoppiarono a ridere». Figuriamoci poi cosa poteva essere Faletti nei momenti felici.

Un esempio.

«Nel giorno del nostro matrimonio - racconta Roberta - il sindaco che celebrava le nozze civili continuava a sbagliare il mio nome. Ogni volta mi chiamava diversamente. Allora Giorgio gli disse: Caro sindaco, mi ha reso bigamo ancora prima di sposarmi?».

Roberta, cosa prova parlando di Giorgio?

«Fino a qualche anno fa, riascoltare la sua voce mi faceva male. Ripercorrere il cammino fatto insieme era doloroso. Ma più recentemente quell' angoscia è sparita. Adesso sono felice di raccontare Giorgio. Di impegnarmi per evitare che venga dimenticato».

Una paura, quella dell' oblio, che in lui era ricorrente.

«Temeva che le sue opere non resistessero alla prova del tempo. Invece...».

Invece?

«Ha quasi più ammiratori oggi di quando era in vita».

La prova che è rimasto tra noi.

«È bello parlare di Giorgio per ciò che ha fatto quando era in vita, ma è altrettanto bello parlare di lui e dei suoi lavori per quello che ancora possono dare».

Un' esistenza piena di gratificazioni in cui lei ha ricoperto un ruolo importante?

«Eravamo complementari. Ci siamo amati. Dal primo all' ultimo giorno».

Lei è molto più giovane di Giorgio.

«È vero. Ma tra noi il ragazzino era Giorgio».

Con lo zainetto sempre sulle spalle.

«E un sorriso che ti riempiva l' anima».

Eravate entrambi di Asti, vi incrociavate spesso?

«Mai visto. Non sapevo chi fosse».

Come vi siete conosciuti?

«In casa di amici. Guardando la finale degli Azzurri agli Europei di calcio».

Era il 2000. Come scoccò la scintilla?

«Stava per uscire Nonsense, il suo quinto album. Me ne parlò con un entusiasmo che mi colpì. E da allora cominciammo a vederci».

Seguirono 14 anni di vita insieme.

«Con Giorgio sempre pronto a rimettersi in gioco. A sperimentare. In perenne ansia da prestazione».

Lei ha messo ordine nella sua vita?

«In un certo senso sì. Giorgio è diventato più metodico, sistematico».

Pur rimanendo un vulcano di idee.

«Quelle non gli sono mai mancate. Un dono».

Quando le chiese di sposarla?

«Era ricoverato in ospedale. Io gli dissi: Richiedimelo quando sarai guarito. Accettare adesso sarebbe circonvenzione di incapace».

Beh, in quanto a umorismo, anche lei non scherza...

«Vivere accanto a Giorgio senza essere ironici sarebbe stato impossibile».

«Io uccido», primo di una lunga serie di best seller, ha venduto 5 milioni di copie ed è stato tradotto in 35 lingue.

«Lo scrisse in appena tre mesi. Un genio».

Nel giorno della presentazione ufficiale del libro fu colto da ictus.

«Una strana coincidenza».

Quel malore fu determinato anche dalle sciocchezze che si dicevano in giro, tipo che «Io uccido» non l' avesse scritto lui.

«Non credo. Paradossalmente la mancanza di promozione del libro accentuò il suo successo».

In che modo?

«Il passaparola tra i lettori si rivelò più efficace di qualsiasi operazione di marketing».

Ma è vero che Giorgio aveva pensato di firmare il romanzo con uno pseudonimo?

«È vero: voleva firmarlo George Bed-Maker, la traduzione maccheronica in inglese del suo cognome: Giorgio Fa-letti».

Lo scrittore americano Jeffery Deaver ha detto di lui e del suo lavoro: «Uno come Faletti dalle mie parti si definisce larger than life, uno che diventerà leggenda».

«Era orgogliosissimo di questo giudizio. Anche perché Deaver era uno dei suoi miti letterari».

Creativo. E mai volgare. Neppure quando interpretava lo «sceriffo» Vito Catozzo, quello di «Porco il mondo che c' ho sotto i piedi» o «Che se io saprei che mio figlio mi diventerebbe orecchione, vivo ce lo faccio mangiare il certificato di nascita...».

«Come comico poteva vivere di rendita, non lo ha mai fatto. Non era nella sua indole raschiare il fondo del barile. Quando capiva di aver dato tutto si tuffava subito in un' altra avventura».

Accadde così anche con il successo a Sanremo di «Signor tenente».

«All' inizio non si era reso conto della bellezza di quella canzone».

Un brano fuori dagli schemi.

«Il testo era forte e l' idea di associare le parole a una musica minimale era davvero innovativa».

Giorgio autore anche per Mina, Branduardi, Masini e tanti altri.

«Abbinare testi e melodia gli riusciva naturalmente».

Giorgio attore. In «Notte prima degli esami» dice una frase cult: «L' importante non è quello che provi alla fine della corsa, ma quello che provi mentre corri».

«È una frase fuori copione, ideata proprio lui. Che il regista Brizzi trovò bellissima inserendola subito nella sceneggiatura».

Il nonno di Faletti era un antiquario e raccoglieva oggetti antichi, opere d' arte, mobili e libri.

«Giorgio, da bimbo, trovò anche un baule zeppo di gialli. Il suo amore per i thriller cominciò lì».

Ma Giorgio aveva una passione segreta di cui nessuno ha mai parlato?

«Quella per la pittura. Conservo in casa un suo quadro. Stile informale-ironico».

Cosa rappresenta?

«Una bandiera americana che si disintegra».

Un messaggio politico?

«L' impegno di Giorgio non era quello legato a una logica di partito, ma si ispirava a un più alto concetto di impegno civile e sociale».

Altri quadri originali?

«Spartiti musicali dipinti e bandiere nazionali reinterpretate».

Un approccio che, forse, avrebbe incuriosito il nostro comune amico Carlo Vanoni, apprezzatissimo critico d' arte controcorrente.

«Giorgio ha fatto molte mostre. Uno sperimentatore anche in questo campo».

Quando si trasferì a Milano, Faletti frequentò i corsi della neonata scuola teatrale milanese «Quelli di Grock», fondata da Maurizio Nichetti.

«Incominciò la carriera come cabarettista nel locale milanese Derby negli anni '70, nello stesso periodo in cui sul palco del locale circolavano Diego Abatantuono, Teo Teocoli, Massimo Boldi, Paolo Rossi, Giorgio Porcaro, Francesco Salvi, Enzo Jannacci».

Nel 1985 entrò nel cast di «Drive In» e poi a «Striscia la notizia» in coppia con Lando Buzzanca.

«L' apice della popolarità».

Nel 1990 partecipò a «Fantastico» con Pippo Baudo , successivamente a «Stasera mi butto... e tre!» con Toto Cutugno .

«Era lanciatissimo. Ma anche fragile. Aveva bisogno di continue rassicurazioni».

Seguirono altri dieci anni di successi. Nel 2003 la scelta di sposarvi. Non vi è mai mancato un figlio?

«No. Giorgio amava i bambini. Ma forse non era tagliato per fare il padre».

Perché?

«Perché Giorgio stesso era un bambino...».

In che senso?

«L' entusiasmo. Il sorriso. Gli occhi celesti. Erano quelli di un bimbo».

E poi quell' approccio sempre positivo alla vita.

«Era abituato a vedere il mezzo bicchiere sempre pieno. Una volta, quando era malato, mi disse: Vabbè, a un altro sarebbero servite tre vite per avere le mie soddisfazioni».

Nel suo ultimo post aveva scritto: «A volte immaginare la verità è molto peggio che sapere una brutta verità. La certezza può essere dolore. L' incertezza è pura agonia».

«Il giorno dopo ci lasciò».

Che rapporto aveva con la fede?

«Era convinto che esistesse un altrove».

Ma non in un senso strettamente cristiano.

«Pensava che nulla si crea e nulla si distrugge. E che ci fossero altre energie».

Una filosofia sublimata nello spettacolo «L' ultimo giorno di sole» in tour da oltre 4 anni. Canzoni e musiche pensate per un' attrice sua amica, Chiara Buratti e affidate alla cura di un' altra sua amica, Andrea Mirò, moglie di Enrico Ruggeri.

«Abbiamo debuttato il 4 luglio 2015 esattamente a un anno dalla sua scomparsa. Una rappresentazione che è stata premiata perfino a New York all' Italian Theater Festival».

Giorgio se l' è portato via un tumore il 4 luglio 2014, a 63 anni. Lei ha trovato in un cassetto il racconto «La ricetta della mamma». L' ha prima portato in libreria e poi ne ha tratto un corto.

«Con protagonisti Giulio Berruti e Andrea Bosca. L' abbiamo presentato all' Asti Film Festival. Il pubblico ha gradito».

Ne «La ricetta della mamma» c' è un sicario che s' introduce in casa di un uomo per uccidere un testimone di giustizia, ma viene tradito dalla buona cucina...

 Il cibo, altro pallino di Giorgio.

«È stato un creativo perfino davanti ai fornelli. Celebri le sue cene tra risate e intingoli».

Una passione mutuata dalla madre.

«Riusciva a mettere assieme gusti apparentemente contrastanti, ma che poi, magicamente, si armonizzavano».

Dalla mamma Giorgio aveva ereditato pure il senso dell' ironia.

«Erano legatissimi. Non potevano fare a meno l' uno dell' altra. Anche se il loro rapporto è a volte conflittuale. Forse perché avevano lo stesso carattere».

 Era figlio unico.

«Il papà morì presto e Giorgio si è sempre occupato anche della mamma».

Giorgio sosteneva che «essendo un comico, la sua esistenza poteva solo essere comica».

«La sua vita, la nostra vita insieme, sono state molto di più».

Nell' ultima intervista disse: «Sul mio epitaffio scriveranno: Qui giace Giorgio Faletti, morto a diciassette anni. Ho tanta energia e voglia di mettermi in gioco. Non ho paura di rischiare».

«La summa del suo pensiero. E, un po', anche del mio». 

·        5 anni dalla morte di Francesco Rosi.

Francesco Rosi, il regista che ha denunciato il male del Paese. A cinque anni dalla sua scomparsa un documentario in onda su Sky Arte omaggia l'autore che con il suo lavoro ha anticipato la narrazione di una democrazia inquinata dalla corruzione fin dalla sua nascita. L'Espresso il 09 gennaio 2020. Il 10 gennaio di cinque anni fa scompariva il regista Francesco Rosi che attraverso i suoi film aveva raccontato il potere che corrompe e si corrompe quando si mischia alla criminalità. Sul grande schermo ha portato pellicole di impegno civile come Salvatore Giuliano, Lucky Luciano, La sfida, Il caso Mattei, Cadaveri Eccellenti, Tre Fratelli, che hanno obbligato a riflettere intere generazioni. Ma soprattutto Rosi ha anticipato la narrazione di una democrazia inquinata dalla corruzione fin dalla sua nascita. Nel giorno dell'anniversario Sky Arte dedica al regista una serata proponendo il documentario dal titolo "Citizen Rosi" presentato alla Biennale del cinema di Venezia 2019. È un film per la regia di Didi Gnocchi e Carolina Rosi, una produzione Andiamo Avanti Productions e 3D Produzioni con Istituto Luce Cinecittà e in collaborazione con Sky Arte in onda venerdì 10 gennaio alle 21.15 su Sky Arte e in streaming su Now TV. Il racconto si snoda attraverso i film di Francesco Rosi messi in fila non nell’ordine in cui sono stati girati, ma in base alla precedenza storica dei fatti di cronaca che raccontano. In questo modo il documentario non racconta solo il lavoro del grande regista, ma restituisce anche mezzo secolo di storia d’Italia. Rosi ha inventato un nuovo stile narrativo per un cinema che prima di lui non esisteva. I suoi film nascevano da ricerche e inchieste sulla realtà del Paese: lavorava sui documenti, su “ciò che era noto”. Ci accompagna in questo viaggio la figlia Carolina testimone fin da bambina del lavoro del padre, che ha assistito con amore e pazienza fino alla morte. Ed è Rosi stesso, in frammenti delle sue interviste, a dare senso e intensità al suo cinema. Tanti gli intervistati: magistrati, giornalisti, registi e amici. Tra gli altri: Marco Tullio Giordana, Lirio Abbate, Gherardo Colombo, Giancarlo De Cataldo, Roberto Saviano, Giuseppe Tornatore.

·        5 anni dalla morte di Pino Daniele.

Pino Daniele, il ricordo a cinque anni dalla morte: il bluesman che ha fatto innamorare l'Italia. Il 4 gennaio del 2015, a Roma, moriva il musicista che ha conquistato un intero Paese (e non solo) con la sua musica meticcia: il torrido suono nero del blues e il calore del mediterraneo. Carlo Moretti il 4 gennaio 2020 su La Repubblica. Cinque anni senza Pino Daniele, ma bisognerebbe dire cinque anni senza Pino, come ricordando un amico fraterno. Perché, come sanno tutti quelli che hanno amato la sua musica, Pino Daniele è stato molto di più del celebrato artista che ci raccontano le cronache musicali ufficiali. Pino è stato per tanti anni una compagnia quotidiana, la voce calda che ci ha fatto innamorare del suono di Napoli, la città che negli anni Settanta ribolliva di blues, di echi di jazz e di rock anglosassoni ma, ancora, anche di tammurriate e di antichi suoni del Mediterraneo. Grazie a quel filo di voce che sembrava sempre sul punto di rompersi ed era invece così vera e potente, grazie a quel timbro nostalgico e all’acuto profondamente incazzato da “nero a metà”, abbiamo imparato ad amare Napoli e i suoi lazzari felici, ci siamo riconosciuti e ritrovati, come tanti Masaniello, ad impazzire di gioia ai suoi concerti. Ci sorprese nel 1977 con il bianco e nero della copertina di Terra mia e, nell’anno in cui sulla strada del rock esplodeva la bomba del punk nelle nostre orecchie grazie a lui risuonavano i mandolini di un brano immortale come Napul’è, il blues profondamente partenopeo di Ce sta chi ce penza e di Che calore. Non era che l’inizio di una migrazione che dalla tradizione percussiva tipica delle tarantelle sarebbe arrivata alla fusion in cui Pino Daniele avrebbe liberato la sua passione per il blues e per il jazz. L’epifania di quello che prenderà il nome di neapolitan power fu Pino Daniele, l’album del 1979 in cui Pino si sbarbava in copertina, quattro riquadri nello specchio di casa sua, affiancati come fossero un’opera di pop art. Le note di Je sto vicino a te ci svelarono la straordinaria formula inedita nata dall’incontro tra Pino e Rino Zurzolo, nelle prime suonate nel salotto di casa del contrabbassista, e poi dall’amicizia con il sassofonista James Senese, il fratello di blues, dalla scoperta dei ritmi spezzati della batteria di Agostino Marangolo, delle percussioni di Rosario Jermano e delle tastiere di Ernesto Vitolo. Il salto di qualità fu enorme e non che in Terra mia non ci fosse qualità: ora però era nato un nuovo stile e avrebbe fatto scuola, oltre che molta strada. Non solo per la forza della musica, perché era evidente che Chi tene ’o mare e Basta ‘na jurnata ’e sole nonostante il dialetto avevano la forza per poter parlare un linguaggio universale. Una lingua che si piegava naturalmente alle esigenze della sua musicalità come dimostrano l’intuizione di Ue man!, il blues elettrico del suo secondo album in cui per la prima volta Pino utilizzava l’anglo-napoletano. Un mix sempre più frequente negli album a seguire, a cominciare da I say i’ sto ccà che apriva Nero a metà del 1980 e da Yes I know my way da Vai mo’ del 1981, l’album che vede l’arrivo nella formazione di Tony Esposito alle percussioni e di Tullio De Piscopo alla batteria. Ecco gli album di un decennio incredibile: Bella ‘mbriana, Musicante, Ferryboat, Bonne Soirée, Schizzechea with love, Mascalzone latino. Per tutti gli anni Ottanta l’ispirazione non lo abbandona, Pino continua a sperimentare, a cercare un suo suono, si spinge verso i ritmi latino americani, scolpisce sempre melodie memorabili. Tutti album bellissimi, registrati uno via l’altro anno dopo anno, nessuna canzone inferiore al livello delle altre. Pino il perfezionista continua a studiare la chitarra ogni giorno per otto ore. Negli anni Novanta arriva la svolta pop di Un uomo in blues, anche nei suoni, che non soddisfa tutti i vecchi fan ma riscuote un grande successo commerciale trainato dalla popolarità del singolo ’O scarrafone. E’ il cambio di stile che segnerà anche gli album futuri, segnati comunque da altissima qualità, grandi melodie prestate anche alle colonne sonore dei film del grande amico Massimo Troisi.

Pino Daniele e l’«appucundria»: quanto ci manca uno che sappia raccontare Napoli con amore. E rabbia. Pubblicato sabato, 04 gennaio 2020 su Corriere.it da Amalia De Simone e Silvia Morosi. Nel ricordare il cantante scomparso 5 anni fa la malinconia ti prende allo stomaco: dipingeva la città senza mai cadere negli stereotipi. “Appucundria” è quando la malinconia ti mangia lo stomaco e ti senti triste, solo, incompleto. Io l’ho capita veramente un pomeriggio di cinque anni fa quando ci ritrovammo in migliaia in Piazza del Plebiscito a cantare a casaccio e a squarciagola l’eredità di Pino Daniele. Era morto e nessuno di noi voleva crederci. E allora l’appucundria ci scoppiò in petto. Qualcuno derubricò il tutto come l’ennesima sceneggiata. D’altronde parlare in questi termini di Napoli dei napoletani è abituale quando non si ha voglia o strumenti per affrontare la complessità. Invece era tutto vero. E ancora l’assenza è incolmabile. Soprattutto ora che la poesia è merce rara, che non c’è più musica che racconti di un popolo che ancora cammina “sott o mur” e che è vivo quando alla fine “allucca pe dispietto”. Si, che la racconti senza approfittarsene, senza operazioni di uso e consumo. Che la racconti cruda, ma con l’amore, quello che non risparmia il giudizio, quello che vede che è bellissima e anche bruttissima. Come in queste giornate invernali di luce sul mare che ti puoi solo innamorare. Innamorare fino a quando non lanciano i botti sulle ambulanze o non ti rassegni a quella camorra invisibile che si abbuffa sugli appalti dei cantieri eterni, che occupa gli ospedali e li usa per i propri affari, che avvelena, che toglie lavoro e opportunità, che usa la politica e inquina l’economia, che cerca di soffocare la cultura che resiste, si agita e propone, imponendo invece i propri canoni da spazzatura. Non c’è più stato qualcuno così consapevole del valore di una città e di un popolo da restituire con la stessa dose di grazia e rabbia che tutto questo ci fa “fessi e contenti” e che se si cade nell’inettitudine ad un certo punto si finisce per camminare con la bocca salata di mare e invece non avere nulla. Oggi che la città è in vendita per i vicoli col ritorno prepotente e dannoso del marketing degli stereotipi da tamorra, cornicelli,munacielli e San Gennari, manca chi ci sbatta in faccia che Napoli ha una identità culturale così forte che non ha bisogno di amplificatori posticci, che questa città non è l’oleografia commercializzata in tutto il mondo. Manca qualcuno che ci dica con parole e musica che sappiano volare, che anche se saremo sempre lazzari con «a guerra rint e mman» abbiamo un mondo da cambiare. E che, nonostante tutto, ci salveremo se sapremo prenderci cura dei bambini, a «voce d’e criature» che sale piano piano e non ti fa sentire solo.

Pino Daniele, il ricordo della figlia Sara a 5 anni dalla morte. Pubblicato sabato, 04 gennaio 2020 da Corriere.it. Il 4 gennaio del 2015 ci lasciava Pino Daniele, uno dei più amati musicisti italiani: il cantante ebbe un malore nella sua casa di Magliano, in Toscana. La figlia Sara — avuta dalla seconda moglie Fabiola Sciabbarasi — lo ha ricordato postando su Instagram una fotografia in bianco e nero che la ritrae, piccola, in compagnia del papà, accompagnata dalle parole: «Ti penso tutti i giorni, ma oggi un po’ di più. Il dolore piano piano si sta trasformando in forza, con la consapevolezza che ogni giorno che passa assomiglio sempre di più a te». Solo poche settimane fa la giovane aveva ricordato il padre con un'altra immagine e le parole: «Badi a me dal 1996». A cinque anni dalla scomparsa anche Napoli, la sua città, lo ricorderà con concerti e incontri. Alle 12.30 di sabato in ricordo dell'artista sarà celebrata una messa dal parroco Salvatore Giuliano, nella chiesa di Santa Maria dell'Aiuto. Torna anche l'appuntamento con il pianoforte del maestro Danise che — per il quarto anno — si esibirà sul Lungomare per chiamare a raccolta tutti i fan con «Pino Daniele, I still love you», come si legge sulla pagina Facebook dell'evento. Saranno 38 le canzoni ad essere suonate e cantate sul Lungomare.

·        4 anni dalla morte di Anna Marchesini.

Quattro anni senza Anna Marchesini. Il ricordo di Pippo Baudo: "Era lei la mente del Trio".

Pubblicato giovedì, 30 luglio 2020 da Silvia Fumarola su La Repubblica.it La magnifica attrice, capace di passare agilmente da importanti ruoli teatrali a sketch comici rimasti nell'immaginario italico, grande doppiatrice e imitatrice, moriva il 30 luglio 2016. Parla il presentatore che, complice 'Fantastico', le fu vicino: "Era un'artista completa, di grandissima intelligenza". Era una donna spiritosa, intelligente, che ha cambiato la comicità femminile lasciando il segno. Quattro anni fa moriva Anna Marchesini. A 63 anni se ne andava un’artista a cui le donne devono tanto, perché ci ha insegnato a ridere di noi stesse. Attrice, autrice, protagonista con il Trio (gli amici Massimo Lopez e Tullio Solenghi) di spettacoli memorabili. Da Domenica In al Festival di Sanremo a Fantastico alla parodia de I promessi sposi, irresistibile, il Trio ha fatto scoprire al pubblico televisivo un nuovo modo di ridere. Lei, Anna, talento immenso, era l’anima del gruppo. Una vita insieme, poi la carriera da solista. Con le sue donne - dalla Signorina Carlo (con quel tormentone “siccome che sono cecata”) alla sessuologa maliarda Merope Generosa alla Bella Figheira fidanzata di Don Rodrigo nei I promessi sposi - ci ha fatto ridere di cuore; le abbiamo voluto bene perché era unica. Tante attrici, come Paola Cortellesi, hanno raccontato di averla scelta come modello, perché era moderna, ironica, non aveva paura di trasformarsi. Neanche di imbruttirsi, ed era una donna molto bella. Pippo Baudo, complice a Fantastico, a Domenica In e a Sanremo, la ricorda con immenso affetto: “Anna era un’artista completa perché sapeva fare tutto, ed era una donna di grandissima intelligenza, parliamoci chiaro era lei la mente del Trio. Tutti dotati di grande talento: Lopez era l’estroverso, se ne usciva sempre con idee spiritosissime. Solenghi era straordinario. Ma Anna sapeva tenere insieme la creatività”. “Quando facevano Fantastico”, racconta il conduttore, “mi chiamavano a cose fatte, preparavano gli sketch e poi mi chiedevano: “Ti piace e non ti piace?”. Anche se chiedevo un piccolo ritocco, non si offendevano mai. Li obbligai a fare gli sketch in diretta, come in teatro. Quanto ci siamo divertiti, era bello lavorare insieme”. Dalla famiglia degli ayatollah, che creò un incidente diplomatico con l’Iran, a quella reale inglese, vinceva la comicità surreale con Marchesini primadonna. “Era straordinaria, forte, scriveva benissimo, ma è stata una donna molto sfortunata dal punto di vista sentimentale. Mi ricordo quando mi chiamò: “Pippo scendi che dobbiamo brindare, mi sono sposata”. Mi sono subito preoccupato, lei era innamoratissima ma poi il matrimonio finì. Anna era legatissima alla figlia, ha resistito a vivere di più, ha combattuto la malattia - era devastata dall’artrite reumatoide - per Virginia. La adorava, avevano un rapporto bellissimo. Anche in questo è stata unica, ha sempre sdrammatizzato”. Donna di carattere, grande osservatrice, artista sensibile, un vero camaleonte, Marchesini per Baudo è un’artista che è stata il modello per tante giovani attrici “perché è ancora modernissima. “Nello spettacolo, di donne capaci di fare tutto ci sono lei, Bice Valori e Franca Valeri. Restano le più grandi, quelle che hanno innovato la comicità femminile. Anna sapeva trasformarsi: quando voleva faceva la bella – aveva un fisico pazzesco - e quando serviva si imbruttiva, si trasformava completamente. Era al servizio dei personaggi. Puntava sull’ironia anche quando faceva la seduttrice, le parodie delle giornaliste del tg erano eccezionali. Le vedi oggi e continui a ridere. Quando il Trio mi chiamò per la parodia dei I promessi sposi non ho avuto un dubbi, era una follia ma mi fidavo di loro. Non eravamo colleghi, eravamo amici”.

·        4 anni dalla morte di Bud Spencer.

Elvira Serra per il Corriere della Sera il 12 giugno 2020.

I primi ricordi con suo padre?

«Le piccole magie per farmi accettare una puntura. Faceva comparire una moneta dietro il mio orecchio, una volta perfino un pulcino. La cosa più incredibile era quando si infilava una sigaretta accesa nella bocca, e poi l'apriva con la cicca ancora incandescente».

Momenti solo vostri?

«Le pernacchie sulla pancia, le penniche distesa a pelle di leone su di lui, le sue smorfie per farmi ridere, la barba che odorava di pulito. Il profumo inconfondibile, Eau d'Orange Verte di Hermès. Ho continuato a sentirlo anche dopo che se ne è andato».

Lo useranno in tanti...

«No, era lui. Mi è successo mentre scendevo dal furgone con cui trasporto i miei quadri. Ero sola e ho sentito quel profumo fortissimo».

Cristiana Pedersoli, Cri Cri per il suo papà, ha avuto un padre XXXL. Che non era soltanto la taglia dei suoi indumenti, ma anche la misura della sua celebrità (quando Benigni vinse l'Oscar con La vita è bella , il settimanale Time lo definì l'attore italiano più famoso al mondo). Bud Spencer, al secolo Carlo Pedersoli, attore, imprenditore, atleta, cantante, pilota d'aerei, armatore, marito e padre, ha lasciato questa terra il 27 giugno di quattro anni fa alle 10.30 del mattino, circondato dalle persone che amava. Il 17 uscirà in libreria Bud. Un gigante per papà (Giunti, 160 pp., 16,50 euro) scritto dalla secondogenita Cristiana, 57 anni, pittrice e scultrice. Prima di lei c'è Giuseppe («Peppotto»); dopo, Diamante («Didda»).

Quando si è accorta che suo padre non era solo «suo»?

«Quando sono andata a scuola e ho visto l'emozione negli occhi dei miei compagni di classe».

Era gelosa?

«No, mai stata. Ricordo invece una volta in cui mio padre andò a incontrare gli operai della Fiat e ci portò con sé. Mio fratello, vedendolo assediato, cominciò a prenderlo a pugni sulla pancia».

I film li conoscerà a memoria. Il suo preferito?

« Piedone lo Sbirro , perché è il personaggio che lo rappresenta totalmente per la sua umanità, la difesa dei deboli, il senso di giustizia, l'empatia, la napoletanità. E poi anche per la musica. Una volta sono andata da un ferramenta a Morlupo, dove abbiamo la casa di famiglia, e appena sono entrata, dalla radio è uscita la colonna sonora».

Sembra che suo padre non smetta di comunicare con lei.

«La cosa più significativa è successa un paio di mesi dopo che non c'era più. Un fan continuava a scrivermi dicendo che papà voleva che cercassi tra i cassetti di una credenza in radica con una ribaltina. La descrizione era molto precisa, ma io non avevo un mobile del genere e non ricordavo che ci fosse a casa dei miei genitori...».

E invece...

«Insisteva e infine, nella camera da letto di mia madre, ho trovato l'armadio. Nei cassetti c'era un astuccio con una foto di mio padre abbracciato a sua madre, nonna Rina. Voleva dirmi che erano insieme e stava bene...».

Terence Hill?

«È come uno zio. Quando avevo dieci anni ero innamorata di lui, era di una bellezza incredibile, con modi sempre gentili e affabili. Lui e papà erano agli antipodi, ma erano due gentiluomini e il fatto di essere entrambi credenti li univa. Ogni tanto viene a cena a casa di mamma, ci lega un affetto profondo».

Nel libro scrive che il giorno del funerale è stato uno dei più belli della sua vita.

«So che può sembrare brutto. Ma c'era così tanto amore, quel giorno, eravamo tutti così orgogliosi di stringere le mani di migliaia di sconosciuti per i quali papà era stato importante. Uno si presentò in tuta e scarpette: era arrivato in bici da Napoli».

Suo padre è sepolto al Verano: lo vanno ancora a trovare?

«È nella cappella di mio nonno materno (Giuseppe Amato, produttore della Dolce vita , ndr ). I suoi fan continuano a lasciare lettere stupende, scatole di fagioli, magliette da tutto il mondo. Alcuni doni li lasciamo lì, altri li conserva affettuosamente mamma».

Perché questo libro?

«Avevo bisogno di mettere per iscritto il mio papà e i miei ricordi, perché la figura di Bud Spencer era troppo predominante. Volevo raccontare che era altro. Era mio padre».

Massimo Bulgarelli per noidegli8090.com il 16 agosto 2020. Bud Spencer e Terence Hill sono una delle coppie più amate del nostro cinema, forse la migliore. Tra il 1967 e il 1985 la coppia girò insieme 16 film, il diciassettesimo cioè l’ultimo, fu Botte di Natale del 1994 con la regia dello stesso Terence Hill. Una coppia che adoro. Il mio codice morale si è formato grazie a loro e a Kenshiro. Mamma e papà insomma. Ecco, immaginate cosa vuol dire di notte, su una tv locale, beccare un film western con un biondo e un omone grosso con la barba che fanno a botte contro tutti e notare dopo qualche istante che non sono Bud e Terence. Praticamente un treno che passa velocemente dalla stazione “Confusione” a “Spavento” per fare capolinea a “Curiosità”. Mi vado subito ad informare. Io sciocco che pensavo di aver trovato una somiglianza, che fosse solo una coincidenza: Cinque (5, five, V) film all’attivo per questa inquietante coppia. Inquietante magari più per me, per come ne sono venuto a conoscenza. Facciamo ordine: escono i primi film di Bud Spender e Terence Hill, tra cui “I quattro dell’Ave Maria” e “Trinità“. Il botteghino sorride ed incassa dappertutto e proprio per questo, nel 1974, dato l’enorme successo dei due e dei “cazzotti western”, la Aetos Film pensò di fornire la loro replica esatta con un film. Esce cosi “Carambola“, in cui i protagonisti sono Michael Coby, nome d’arte di Antonio Cantafora, e Paul L. Smith, nome d’arte di Adam Eden. I nostri due sosia. E cosi in parallelo mentre quelli veri continuavano sfornare film come “Altrimenti ci Arrabbiamo”, i sosia, che verranno poi venduti col nome di Simone e Matteo, realizzavano il seguito di Carambola e altri film come Simone e Matteo – Un gioco da ragazzi e Noi non siamo angeli. Nei cinema Tedeschi (popolo che adora Bud e Terence quasi più di noi, e di questo ci dovremmo vergognare) quando uscì “Un gioco da ragazzi” ci fu una rivolta, dove il pubblico lanciò le sedie della sala contro lo schermo una volta scoperto l’inganno. Bravi, avete fatto bene. In Francia invece ogni loro film veniva venduto come “Trinità” che fa cose. I film comunque avevano una colonna sonora di tutto rispetto, curata da Guido e Maurizio De Angelis noti in questi film con lo pseudonimo di Juniper, mentre in quelli di Bud e Terence come Oliver Onions (ehehe sentivano anche loro puzza di bruciato).

Ecco quelli originali, che magari ve li siete dimenticati leggendo. Ma c’è una cosa che non vi ho detto, che renderà ancora più magica questa favola. In Italia Simone e Matteo hanno le stesse voci di Bud Spencer e Terence Hill (si, anche se Italiani gli originali erano doppiati per avere una voce più godibile). Questo dettaglio fu la concreta spinta che fece partire il treno di cui vi parlavo prima. Come è andata a finire questa storia? Scemando grazie a dio. Il pubblico capì l’inganno abbastanza presto, la corda tirata si spezzò e i due decisero di dismettere gli abiti dei cloni per proseguire la carriera con i loro nomi reali. Antonio Cantafora è stato impiegato come caratterista in numerose produzioni, l’ultima accreditata è del 2004 ne “Il cartaio” di Dario Argento.  Paul L. Smith invece, dopo aver lavorato in film di tutto rispetto come “Fuga di Mezzanotte” e ”Dune” è morto nel 2012 in Israele in circostanze mai chiarite. Bene, ora che conoscete anche voi questa storia, occhio a quando vedete un belloccio biondo con gli occhi azzurri e un barbuto enorme che tirano cazzotti a destra e a manca: non fidatevi ne dei vostri occhi e ne delle vostre orecchie. Fidatevi solo del vostro cuore perchè non è tutto oro quello che luccica. Ma soprattutto perchè se sono Simone e Matteo vedrete un brutto film. Vi lascio con un pezzetto di un film preso da YouTube in modo da passare subito dal teorico al pratico.

Sebastiano Pigazzi, il nipote di Bud Spencer, al cinema con Guadagnino: «Con nonno  e Laura Zangarini guardavamo le Olimpiadi di notte: mi ha insegnato ad andare sempre oltre». Emilia Costantini su Il Corriere della Sera il 9/10/2020. La prima volta che ha tentato un provino per un film diretto da Gabriele Muccino, gli è andata male: è stato scelto un altro attore. «Ma non mi sono abbattuto, anzi, sono stato motivato a spingere in altre direzioni - afferma il ventiquattrenne Sebastiano Pigazzi Pedersoli - come per dimostrare a me stesso che avevano sbagliato a scegliere l’altro attore». E adesso, il giovane nipote di Bud Spencer (al secolo Carlo Pedersoli) è tra i protagonisti della serie Sky-Hbo firmata da Luca Guadagnino: «We are who we are», dal 9 ottobre su Sky Atlantic e in streaming su Now Tv. «La bocciatura di Muccino è stata un incentivo: lo ritengo indirettamente responsabile del mio approdo a questa nuova opportunità».

Bud Spencer, la famiglia e i film. Una storia di formazione con protagonisti due adolescenti americani,Fraser e Maggie, (Jack Dylan Grazer e Alice Braga) che, insieme alle loro famiglie composte da militari, vivono in una base americana in Italia. Tra amicizie, amori e segreti, si incontrano e si scontrano con altri ragazzi, tra i quali Enrico (Pigazzi). «Il mio personaggio è un ragazzo veneto, una sorta di bed boy - spiega l’attore - Non è cattivo, è un po’ borderline: ha avuto esperienze di droga e ha combinato pasticci. Insomma, una madre non avrebbe piacere che sua figlia uscisse con un tipo del genere. Ma Enrico è di cuore, ama il gruppo di amici americani e cerca di farli ambientare e divertire. È un tipo strano, tra pregi e difetti». Strano anche il modo in cui Sebastiano è stato scelto dal regista. «Una grossa occasione, nata in maniera casuale - racconta - Ero in aeroporto, stavo rientrando a Roma da New York. Ma mi ero già proposto a Guadagnino, inviando un mio video alla produzione Sky. Mentre aspettavo il mio volo, che per fortuna era in ritardo, al gate chi ti incontro? Proprio lui! Ci guardiamo. Poi il regista si mette a sedere e mi son detto: ok, o adesso o mai più, o la va o la spacca. Mi siedo accanto e gli attacco bottone. La nostra conversazione è durata venti minuti e poi... mi ha scritturato. Era destino».

Bud Spencer, a Budapest la prima statua per l'attore (nella stazione della metro di Jovanotti). Un destino segnato alle sue ascendenze: è figlio di Diamante, ultimogenita di Spencer, nonché pronipote, da parte della nonna, del produttore Giuseppe Amato. «La passione per la recitazione l’ho sempre avuta - confessa - molto attratto, ma anche molto scettico sulle mie reali possibilità». Nonostante un nonno e bisnonno così famosi? «Impossibile paragonarmi a loro, esempi irraggiungibili. E poi nonno non ha mai incoraggiato i suoi parenti stretti a percorrere la sua strada. Mia madre, da ragazzetta, ha fatto comparsate in qualche suo film, più per gioco che per convinzione. Nonno sapeva che questo è un mestiere complicato e sarebbe stato preoccupato per me». Che nonno era col nipotino? «Non quello tradizionale che ti racconta le favole, era più amico che nonno. Spesso giocavamo a scopa. Ma il ricordo più bello è quando restammo svegli fino all’alba per vedere le Olimpiadi. Era in là con l’età, ma con uno spirito giovane. Abbiamo riso e scherzato tutta la notte. Mi mancano quelle serate». La scelta dello pseudonimo Bud Spencer è un enigma. «Hanno detto che fosse appassionato di Spencer Tracy e che bevesse la birra Budweiser. Non gli ho mai visto guardare i film di Tracy né bere quella birra». L’insegnamento più importante ricevuto da lui? «Non diceva mai “ok, mi fermo qui”, andava oltre. E non dimentichiamoci che è stato campione di nuoto, pilota di aerei, elicotteri... Ricordo un episodio che mi raccontò. Quando era centravanti della Nazionale pallanuoto, aveva un avversario tosto che, durante la gara, gli sferra un pugno sott’acqua, molto scorretto. Nonno incassa la botta ma dopo un po’, mentre l’arbitro era distratto, ricambia con una gomitata nelle parti basse. Una lezione importante: non farsi mai mettere i piedi in testa». Il film più amato dal nipote? «“Piedone l’africano” per il suo rapporto con il ragazzino africano Bodo, di cui prese le difese antirazziste. Nonno non temeva di stare dalla parte giusta. “Lo chiamavano Trinità”, un classico insuperabile. La coppia Spencer-Hill è stata snobbata dalla critica, ma quei film ora sono dei cult». Insomma, un nonno sui generis: «Quando ho incontrato Guadagnino, non ho detto che ero il nipote di..., per non fare il raccomandato. Poi il regista lo ha scoperto e mi ha detto: “Tuo nonno è una leggenda”. Mi ha fatto piacere».

·        4 anni dalla morte di Marta Marzotto.

Cesare Lanza per “la Verità” il 30 marzo 2020. L'ho incontrata tante volte e alcune volte l' ho intervistata, a lungo: non c' erano domande alle quali Marta Marzotto rifiutasse di rispondere. Tra i tanti argomenti, quello che ricordo con maggior divertimento è il decalogo, ovviamente sull' amore, che riuscii ad avere da lei. Ecco, subito, i dieci strepitosi consigli che Marta, con sincerità e ironia, e - come sempre nella sua vita - senza superbia né arroganza, si ingegnò a dare alle donne innamorate e desiderose di amare ed essere ricambiate e rispettate.

1 Fate sesso, se avete desideri, senza problemi. Non fate come me. Ogni lasciata è perduta.

2 Volate alto, metteteci fantasia. Se non avete una storia d' amore, inventatevela. Al cinema, da ragazza, mi immedesimavo, ero la protagonista, vivevo il film in tutti i ruoli.

3 Parlate poco di voi e di quello che avete in mente, mai di sesso, ma cercate di essere protagoniste.

4 Nessun complesso verso i tabù. Nessuno mai vi ringrazierà, se siete fedeli. Non fate collezionismo, ma cogliete l' attimo fuggente.

5 Accennate il primo passo, se vi va. Potete avere chi volete.

6 Vince chi fugge, ma inutile fuggire se lui non vi insegue.

Fatevi trovare.

7 Gelosia al punto giusto: stuzzicare senza soffocare.

8 Siate più costose possibili. Più costate, più valete. Ovviamente, entro i limiti delle sue possibilità.

9 Perdonate. Ma non dimenticate. Ogni tanto, ricordate E l' unico perdono totale resta comunque, e sempre, soltanto la vendetta.: Si può amare contemporaneamente, a patto di essere fedelissimi nei sentimenti. Ognuna di noi, in amore, è quella che il tuo uomo o i tuoi uomini ti consentono di fare. Credo basti questo imprevedibile decalogo per farci riflettere sulla complessa personalità di una delle donne più affascinanti che abbia incontrato in vita mia. L' ultima volta che ho incontrato Marta, fu nella sua casa di Milano, qualche settimana prima della morte. Ricordo una mia malinconica sensazione: voleva fare il bilancio della sua vita? Mi sembrava pronta ad aprirsi, ancor più di quanto facesse abitualmente. I ricordi mi portano inevitabilmente alle vicende dei suoi tre grandi amori. Umberto Marzotto, Renato Guttuso, Lucio Magri. Una storia romanzesca, degna di un grande romanziere russo come Lev Tolstoj! Marta ha amato con passione tutti e tre, per un certo periodo perfino contemporaneamente. Dopo di loro, più nessuno: niente sesso, amicizie affettuose sì, «che orrore, mi disse «l' idea del sesso con la dentiera sul comodino... Con i miei tre uomini ho volato, ora non mi va di zoppicare». Il triplice volo finì quando Guttuso morì: si accese un (ipocrita) scandalo. Una volta l' incontrai nei giorni del suo 70° compleanno. Le dissi subito che volevo parlare solo dei suoi amori e delle sue emozioni amorose. Ironizzò: «Alla mia età! Non ricordo, non ricordo. E chissà come si fa, l' amore. Sembra di ricordare che una si sdraia e aspetta». Ci vedemmo all' Hotel Inghilterra, a Roma. La invitai a parlare, senza elusioni, di tutti i suoi amori.

«Tutti i miei amori! Parli come se dovessimo prendere l' elenco telefonico. E allora voglio stupirti un' altra volta: io, in vita mia, ho avuto solo tre uomini: Marzotto, Guttuso e Magri.»

- Fammi capire però, in che senso tre uomini soltanto?

«Nel senso che pensi tu!»

- E tutti i flirt che ti sono stati attribuiti? I pettegolezzi, le indiscrezioni sui giornali, nei salotti?

«Quella è panna montata, a volte anche divertente. Ma sfido chiunque a sostenere seriamente, a dimostrare che io abbia avuto altri amori. La verità è che io sono sempre stata molto difficile, in amore. Timida e difficile».

- Spiegami!

«Io ero una ragazza povera, poverissima. Ed ero tesa a conquistare il mio posto al sole. Una ragazza non stupida, ai miei tempi, per prima cosa difendeva, come si diceva, la sua virtù».

- Cominciamo da Umberto Marzotto.

«Era il principe azzurro. Io, a quindici anni, già facevo sfilate ed ero molto corteggiata. Allora non si parlava di top model, ci chiamavano mannequin volanti. Ero alta, lunga, forse la ragazza più alta di Pavia Umberto arrivò come l' angelo salvatore: aveva tutto quello che una ragazza può sognare, biondo, occhi azzurri, intelligente, colto, sportivo. Un nobile. L' uomo dei sogni».

- Era, anche, molto ricco.

«E io sinceramente innamorata, cercavo il mio posto al sole: non sapevo bene cosa volevo dalla vita, ma questo traguardo mi era chiaro. Uscire dalla mia condizione sociale. E tuttavia di Umberto Marzotto mi innamorai: abbiamo fatto cinque figli insieme. Scusami, se avessi voluto il patrimonio dei Marzotto, un figlio solo sarebbe bastato, o no?».

- Consentimi: vergine al matrimonio?

«Al matrimonio no. Per Marzotto, sì».

- Come andò? Una stagione matrimoniale felice?

«Ero gratificata, stavo bene, senza pensieri. Soffrivo di gelosie, ma cercavo di perdonare, ero complice. Lui aveva grande classe, era tenero Con lui scoprii il vero sesso. Ed ero entrata in un mondo dorato».

- E i problemi? Le sue infedeltà?

«Se il Padreterno ci avesse voluto fedeli, ci avrebbe fatto fedeli».

- Te lo chiedo con animo laico: ti sembra giusto affibbiare al Padreterno i problemi coniugali?

«Insomma, voglio dire, è la vita. Umberto era un uomo tenerissimo. Ma mi mollava. Era molto generoso, ma quando ero incinta e poi nasceva uno dei nostri figli, io restavo ad allattare, a casa, e lui partiva, a Cortina, a caccia a Dubrovnik Fino al giorno in cui scoprii un suo tradimento, con una delle mie migliori amiche. Fu un trauma».

Poi, Renato Guttuso.

«Lo conobbi l' anno in cui nacque il mio primo figlio, Vittorio. Fu l' anno in cui Guttuso vinse il premio Marzotto: a una cena in casa di Rolly Marchi, che si occupava di vendere i suoi quadri. Eravamo seduti spalla a spalla. Vidi un quadro bellissimo ed esclamai: io questo lo voglio! E una voce bellissima alle mie spalle: daglielo, Rolly. Chissà, forse era un regalo. Ma Rolly me lo fece pagare. Com' era giusto».

- E poi?

«Passò tanto tempo. Un giorno scendo a Roma in vacanza e Graziella Lonardi mi obbligò a telefonargli: voleva che glielo presentassi, per acquistare un suo quadro, in realtà, credo, per conoscerlo. Mi diede il primo bacio, quando lasciammo la casa. Ero emozionatissima».

- Com' era, Guttuso?

«Era un uomo da corteggiamento all' antica. Mi scrisse subito decine di lettere fermo posta, a Orbetello. Con frasi irresistibili. Negli anni, poi, mi scrisse migliaia di lettere».

- Quale differenza, tra Marzotto e Guttuso?

«Umberto mi aveva sedotto con il suo fascino. E per il fisico. Di Renato mi innamorai per la mente: era un incantatore di serpenti, pieno di erotismo, al limite con i confini della pornografia, ma ricco di sottigliezze, di sfumature».

- Geloso?

«Molto».

- Sensuale?

«Sfrenato. Ma non chiedermi particolari, non sono il tipo».

- E tutti sapevano.

«Sì, tutti sapevano. Nelle mie storie, anche quando arrivò Magri, tutti sapevano tutto. Non c' erano slealtà».

- È difficile pensare che non ci siano stati altri uomini, davvero, nella tua vita.

«Che vuoi sapere? Di fronte alla tua smisurata curiosità, potrei anche lasciarmi andare a una confidenza.»

- Quale?

«Ho qualche esitazione. Perché lui non ha mai saputo niente, sono certa che non abbia mai immaginato niente. E spero che non si dispiaccia per questa rivelazione. La verità è che ero pazza di lui. E avrei lasciato chiunque, per lui».

- Chi?

«Pietro Ingrao».

- E a quando risale, questa passione segretissima?

«Agli anni Ottanta».

- E quindi, diciamolo ancora per l' ultima volta, i tuoi uomini sono stati solo tre.

«Importanti, importantissimi. Ma solo tre».

- Arriviamo a Magri. Da un amore a due, da due a tre. Contemporaneamente.

«Come ti ho detto, tutti sapevano tutto. Renato mi scrisse una lunghissima poesiola, che cominciava con: "Ave Martina, madre di Dia" e finiva con "ma liberaci dal Magri e così sia"».

- Com' era Magri?

«Un formidabile rivoluzionario da salotto. Guai se per il gigot d' agneau non c' erano il purè di mele e la salsa di menta: non ci si poteva sedere a tavola. O se i chicchi di caviale non erano g-g-g grossi grani grigi».- Sento un perfido sarcasmo.

«Fu di un' abilità diabolica, nell' accendermi. Chissà, psicologicamente, la castellana voleva prevalere sulla Castellina. Penso che lui sia stato fedele soltanto a Luciana. Per il resto, si sentiva in dovere di andare a letto con chiunque.

Bello, intelligentissimo e infelice».

- Durò molto?

«Dieci anni. Dormivamo abbracciati, quasi senza respirare. Voleva un figlio da me.

Ma non potevo accontentarlo.

Lui in fondo amava solo sé stesso, il resto era tutta una posa plastica.

»- Puoi definire in tre sole parole i tre uomini della tua vita?

«Il fascino di Umberto. La fantasia di Renato. La stronzaggine di Magri».

- Escludendo, pare di capire, il terzo, chi ti manca di più?

«Guttuso. Anche per la qualità culturale della vita, al suo fianco. Mi fece conoscere Leonardo Sciascia, Alberto Moravia che addirittura mi intervistò, e ne fui lusingatissima.»

- Verso Marzotto e Guttuso hai parole affettuose, rispettose. Verso Magri no.

Sei risentita.

«Di più: schifata.»

- Cosa gli rimproveri?

«La grettezza, l' egoismo, il cinismo... Dopo lo scandalo e il chiasso successivo alla morte di Guttuso, lui si impaurì. Pensa, mi propose di vederci di nascosto: dopo dieci anni!».

- Mai più visto?

«Una volta, in coda all' aeroporto. Volse lo sguardo, per far finta di non avermi visto. Gli diedi un colpetto sulla spalla: guardi onorevole, sarei io a dover far finta di non vederla, non certo lei».

- Alla morte di Guttuso, in conseguenza, dello scandalo, tu perdi tutti e tre i tuoi uomini, di colpo.

Renato muore. Marzotto chiede il divorzio. Magri scappa.

«È così. Tre volte vedova.»

·        4 anni dalla morte di David Bowie.

Tutte le magie di Bowie canzone per canzone. La (vera) storia di Ziggy. Genio o vampiro di idee altrui? Indagine sulla natura del grande cantante inglese. Alessandro Gnocchi, Martedì 20/10/2020 su Il Giornale. Da quando l'uomo che cadde sulla Terra è tornato in cielo, trasformato in stella nera, c'è un nuovo David Bowie in città, tutto da scoprire. Il tempo passa e appare sempre più chiaro che David Bowie è stato qualcosa in più di un musicista. Era un artista e non ha passato (solo) il tempo a chiedersi quale batteria suonasse meglio su un brano rock, ha passato il tempo a interrogarsi cosa significasse l'espressione «essere umano». Occhio a prendere sottogamba l'apparente camaleontismo di Bowie. Il trasformismo, la capacità di reinventarsi, saltare da un personaggio all'altro, da Ziggy a Halloween Jack da Alladin Insane al Thin White Duke e aggiungete pure a volontà; il passare da uno stile all'altro, il folk da hippie, il glam, l'elettronica, la dance, il soul nasconde due o tre cose che mancano a quasi tutti gli artisti: una sconfinata curiosità per il nuovo; una visione del mondo moderna, anzi postmoderna; e una familiarità anche maggiore con una visione ancestrale del mondo, che, guarda caso, finisce con lo spingersi due o tre passi anche oltre il postmodernismo, che si direbbe una versione for dummies di certi archetipi culturali che appartengono non solo all'Occidente ma alla storia dell'umanità. Troppo per un canzonettaro? Per niente. Come mostra bene Paolo Madeddu in David Bowie, Changes. La storia dietro le canzoni. Volume 1. 1964-1976 (Giunti, pagg. 400, euro 25, in libreria da domani). Trattasi di accurata analisi dei dischi e dei testi di David Bowie, dagli esordi a Blackstar, anche se il primo volume si arresta al 1974 di Diamond Dogs, ad esempio il Bowie enciclopedico di Nicolas Roegg o Ashes to Ashes di Chris O' Leary. Ebbene, e anche questo è una notizia, il libro di Madeddu, per ora, si fa nettamente preferire sia al primo, accurato ma povero nell'interpretazione dei brani, sia al secondo, più approfondito nella analisi della musica ma per il resto un autentico disastro. Madeddu è insieme più veloce e più interessante, specie laddove menziona, accanto al materiale ufficiale, le registrazioni mai uscite e affidate ai bootleg. I libri «rock» indispensabili di autori italiani si contano sulle dita di una mano sola, del resto è ovvio, siamo il paese del melodramma, non dei Black Sabbath. Questo si candida a diventare uno dei pochissimi. Per ora. Perché la parte davvero difficile deve ancora arrivare: Blackstar, il disco pubblicato da Bowie nel 2016, appena prima di morire, è il monolito di Kubrick... Ma anche le opere apparentemente leggere degli anni Ottanta, come Let's Dance o Never Let Me Down, sono in realtà assai impegnative. Non c'è dubbio che Bowie avesse una cultura esoterica di prima mano. Questo interesse affondava le radici nel buddismo, non dimentichiamo che Bowie, da giovane, si ritirò in un monastero in Scozia assieme all'amico e produttore di sempre Tony Visconti. Il buddismo esoterico è la fonte di ogni sapere iniziatico. Nell'album Hunky Dory (1971) si esprime con chiarezza, cosa che basta a escludere una vera affiliazione (prima regola del fight club gnostico: non si parla mai del fight club gnostico). Leggiamo alcuni versi: «Sono più vicino all'Alba Dorata / Immerso nell'uniforme figurativa di Crowley / Sto vivendo un film muto / Che rappresenta / il sacro reame di Himmler (...) Non sono un profeta o un uomo dell'età della pietra / Solo un mortale con potenziale da superuomo / Mi potrete dire tutto quanto / Nel prossimo Bardo» (da Quicksand). Ed ecco qui: l'esoterismo della Golden Dawn, la setta gnostica guidata dal poeta William Butler Yeats e distrutta dal «satanista» Aleister Crowley, il nazismo magico, che tanti guai procurerà a Bowie, e naturalmente il buddismo (il Bardo è il limbo delle anime in attesa di reincarnazione). Bowie è in un momento di impasse, indeciso tra oscurità e luce, tra baciare il dente della vipera o abbandonare il proprio ego, proclamando la morte dell'uomo. Deve dedicarsi all'esoterismo in profondità o servirsene per i propri fini, come raggiungere il successo? Si accorgerà che è un falso dilemma, almeno per il momento. Infatti Bowie sta per raggiungere l'apice del successo con Ziggy Stardust, un personaggio che nasce e muore sotto il segno dell'ermetismo. Questa visione trova il momento più caotico e affascinante in Diamand Dogs, un calderone che mescola 1984 di George Orwell e Wild Boys di William Burroughs. L'ambientazione distopica è un classico di Bowie, che avrebbe voluto realizzare un musical tratto da 1984. Fu fermato dalla erede. Qui l'attenzione è sulla capacità di condizionare le masse. Bowie non ammirava i dittatori ma forse avrebbe gradito essere uno di loro. Di David Bowie, in sostanza, non sappiamo ancora nulla, nonostante egli non ci abbia mai nascosto nulla. Il libro di Paolo Madeddu ci fa intravedere il vero profilo di Ziggy.

David Bowie: il genio dai mille volti. Un libro raccoglie i leggendari scatti di Masayoshi Sukita, il fotografo che he immortalato il Duca Bianco per quarant'anni. Gianni Poglio il 10 gennaio 2020 su Panorama. “In piedi, in mezzo a Piccadilly Circus, di fianco a due pazzi che agitavano  un’enorme mappa di Londra piena di cerchi gialli e frecce colorate: Guarda David, ti abbiamo convocato perché è qui che atterreranno gli alieni. Quando? Tra oggi e il 1972…. Era un mondo folle la Londra musicale di fine anni Sessanta, un sensazionale miscuglio tra gente di talento e improvvisatori in acido travestiti da artista. Una ventina d’anni dopo quel surreale pomeriggio, ho saputo che uno dei due era diventato pilota d’aereo. Ci penso con preoccupazione ogni volta che devo volare…”. Non era mai banale nelle interviste David Bowie, così come non lo era nell’espressione della sua arte, della sua straripante personalità: è questo quello che raccontano le leggendarie immagini di Masayoshi Sukita (raccolte nel libro Bowie by Sukita), il fotografo giapponese che l’ha immortalato per quattro decenni, svelando attraverso l’obiettivo la caleidoscopica personalità di un precursore nato. Non è mai stato di moda Bowie, perché lui le mode le ha anticipate tutte per poi abbandonarle quando il resto del mondo se ne infatuava: è stato punk prima del punk, glam prima del glam, elettronico prima dell’elettronica, androgino e ambiguo prima che tutti scoprissero l’arte del travestimento, quotato in borsa con il suo catalogo di album e canzoni prima che i colleghi si accorgessero dell’esistenza di Wall Street… Sukita lo incontrò per la prima volta volta a Londra, nel mezzo della prima Bowie-mania: “Era il 1972. Nel 1968 c’era stato 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick, nel 1969 l’allunaggio dell’equipaggio americano dell’Apollo 11. In linea con i tempi, David decise di creare un mondo extraterreno. Prima con la canzone Space Oddity ed il suo protagonista Major Tom, e poi con un alter ego, Ziggy Stardust” racconta il fotografo. L’impatto di Bowie-Ziggy, l’alieno androgino dai capelli arancioni, è potentissimo: con la sua prima maschera, Bowie stempera per sempre i confini tra i sessi e fonde per la prima volta l’iconografia dell’Occidente con quello dell’Oriente, grazie agli outfit del fashion designer giapponese, Kansai Yamamoto. Era tutto David Bowie, genio, sregolatezza, professionalità estrema e trasgressione. Sono storia del rock and roll i racconti della cantautrice, addetta e stampa e groupie newyorkese Cherry Vanilla (raccolti nel libro Lick Me - Come sono diventata Cherry Vanilla, Odoya Edizioni): “La prima con David volta fu carnale, passionale e animalesco… Credo che si sentisse a suo agio nel farsi di coca con me. . Una volta gli avevo organizzato le cose in modo tale che potesse fare acquisti nella boutique di Yves Saint Laurent in Madison Avenue, che avevo riservato tutta per lui, e comprare un favoloso cappotto di lana… Poi, si fece di corsa tutti e cinque i piani di scale fino al mio appartamento, mi scopò senza levarsi di dosso il cappotto e subito dopo se ne andò via per incontrarsi con Mick Jagger…”. Chi scrive ha ancora vivido il ricordo di una lunga intervista a New York nel 1999 per il lancio dell’album Hours… Si presentò a piedi e puntualissimo nella sede della Virgin-Emi all’interno di una enorme stanza bianca che aveva più cartelli No smoking che pareti. Le sue prime parole furono: “Lei fuma? No, perché se anche lei ha questa abitudine potremmo ricreare un angolo di vecchia Europa nella proibizionista America dove accendersi una sigaretta è quasi diventato impossibile”. Poi, esperito il rito del tabacco, dipinse con poche ma chiare parole il senso della sua arte: “La missione di un artista è andare oltre, non replicare, continuare a sperimentare cose nuove anche se destinate a una popolarità inferiore a quella dei grandi successi”. Reinventarsi è sempre stata la sua ossessione, come quando dall’America, nella seconda metà dei Settanta, si trasferì a Berlino per creare ed incidere tre album storici, lontani anni luce dalla sua produzione precedente: Low, Heroes e Lodger. Con lui, in Germania, c’era il rocker americano Iggy Pop, talentuoso complice artistico e compagno di bizzarrie. Come quella di noleggiare un auto e girare freneticamente nel posteggio circolare e sotterraneo di un hotel berlinese fino ad esaurimento della benzina…

Lo scatto della cover di Heroes è ancora oggi il fiore all’occhiello di Sukita, oltre che una delle immagini simbolo della musica contemporanea: “Dovetti solo assecondare quella che fu una vera e propria performance di David. Fotografarlo a New York con il costume di Kansai Yamamoto era stato facile: la maschera di Ziggy Stardust e il fatto che Bowie fosse un giovane e bellissimo essere umano dall’aspetto androgino aiutavano. Per Heroes Bowie non voleva di certo essere ritratto per il suo bel viso, cercava altro. A un certo punto, infatti, iniziò a spettinarsi e ad assumere espressioni dolorose e sofferenti. Non mi era mai accaduto prima e non mi è più accaduto dopo. I personaggi pubblici, davanti a una macchina fotografica, vogliono sempre apparire belli e d’aspetto gradevole” ricorda.

Fiducia totale e volontà di stupire: erano questi i pilastri del rapporto tra Bowie e Sukita. Un rapporto che uscì dalla freddezza dello studio fotografico quando, nel 1980, David si lasciò immortalare in treno e per le strade di Kyoto e che è proseguito fino al 2009, l’anno dell’ultima volta di Bowie davanti all’obiettivo di Masayoshi: “Gli feci alcune foto a New York nello studio- ufficio di un collega, forse proprio Mark Higashino, non ricordo bene. Venne come un vecchio amico che vuole farti un favore, sapendo, forse, che sarebbe stata l’ultima session insieme. Lo fotografai con gli abiti che indossava, nulla di più”. Ha vissuto immerso nella musica, David Bowie e dalla musica, si è fatto scortare fino all’ultimo respiro. Congedandosi dal mondo, nel 2016, con un disco, Blackstar, uscito nel giorno del suo compleanno, l’8 gennaio (due giorni prima della morte), intriso di simboli e parole che prefiguravano lucidamente la fine senza che nessuno riuscisse a comprendere che quella stella nera sulla cover dell’album era lì a dire che i suoi giorni erano contati. E che il testo del brano Lazarus era in realtà un testamento: “Guarda qui, sono in paradiso, ho cicatrici che nessuno può vedere, ho il mio dramma, nessuno me lo può togliere…”. L’ultimo imprevedibile colpo di teatro, perché, come ha scritto uno dei suoi migliori amici, il produttore Tony Visconti, “la sua morte non è stata diversa dalla sua vita: un’opera d’arte”.

David Bowie visto da vicino: due interviste indimenticabili. Prima a New York, poi a Lucca prima di uno show nel 2002: incontri ravvicinati con il mito. Gianni Poglio il 10 gennaio 2020 su Panorama. Era tra quegli artisti che avevo sempre sognato di intervistare. Di persona, ovviamente. La prima occasione si palesò nel 1999 poco prima della pubblicazione dell'album Hours. L'appuntamento era di quelli che non si possono mancare: una chiacchierata "one to one" negli studi della Emi Virgin a New York. Arrivai a destinazione e lo aspettai in una mastodontica sala riunioni, troppo grande per essere una sala d'attesa. Per riempire quel salone sterminato, ci voleva lui con il suo incontenibile carisma. Fece un ingresso silenzioso, accompagnato da una PR che me lo presentò spiegandogli che ero italiano e che mi trovavo lì per un'intervista da pubblicare su un mensile chiamato Tutto Musica. Diciamo che ro emozionato...Di fronte a me c'era la storia della musica ma anche uno degli artisti che hanno scritto la colonna sonora di milioni di vite, inclusa naturalmente la mia. L'inizio fu folgorante. David estrasse dalla tasca della giacca nera un pacchetto di sigarette e a sorpresa mi disse: "Lei fuma? No, perché se anche lei ha questo vizio potremmo ricreare un angolo d'Europa nella proibizionista America dove fumare è quasi diventato impossibile". Dissi solo "Per me va non c'è problema" e ci accendemmo l'agognata sigaretta. Mezz'ora in tutto, in cui parlammo di tutto e di più. Fu sorprendente sentirlo ammettere che considerava il suo ultimo album molto bello, ma che sapeva benissimo che per la maggior parte della gente lui era quello dei grandi successi degli anni Settanta o di Let's dance, il singolo pubblicato nel 1983. "Detto questo" aggiunse "La missione di un artista è andare oltre e continuare a sperimentare cose nuove anche se destinate a una popolarità inferiore a quella dei grandi successi". Lo ha fatto fino all'altro ieri. Basta ascoltare il suo ultimo capolavoro: Blackstar. La seconda volta fu vicino a Lucca nel 2002 prima di un concerto al Lucca Summer Festival. Ci incontrammo in albergo. Lo intervistai insieme a Patrizia Guariento, una collega di Tv Sorrisi e Canzoni. Ricordo ancora perfettamente la sua voce roboante mentre raccontava dei favolosi anni Sessanta a Londra e dintorni "Io sono cresciuto nell'era della creatività. Ho avuto la fortuna di di vivere in una metropoli dove si respiravano cultura e arte. Ogni artista è figlio del suo tempo e io sono figlio di un momento storico straordinario. E lo sa perché? Perché chi aveva talento sapeva che prima o poi ce l'avrebbe fatta. Nella musica come nella pittura, nel cinema o nella letteratura. Io sapevo fare un po' di tutto, ma con il tempo mi convinsi che la mia migliore qualità era la voce. Quindi, comprai un microfono...". 

David Bowie visto da vicino: due interviste indimenticabili. Gianni Poglio il 10 gennaio 2020 su Panorama. Era tra quegli artisti che avevo sempre sognato di intervistare. Di persona, ovviamente. La prima occasione si palesò nel 1999 poco prima della pubblicazione dell'album Hours. L'appuntamento era di quelli che non si possono mancare: una chiacchierata "one to one" negli studi della Emi Virgin a New York. Arrivai a destinazione e lo aspettai in una mastodontica sala riunioni, troppo grande per essere una sala d'attesa. Per riempire quel salone sterminato, ci voleva lui con il suo incontenibile carisma. Fece un ingresso silenzioso, accompagnato da una PR che me lo presentò spiegandogli che ero italiano e che mi trovavo lì per un'intervista da pubblicare su un mensile chiamato Tutto Musica. Diciamo che ero emozionato...Di fronte a me c'era la storia della musica ma anche uno degli artisti che hanno scritto la colonna sonora di milioni di vite, inclusa naturalmente la mia...'L'inizio fu folgorante. David estrasse dalla tasca della giacca nera un pacchetto di sigarette e a sorpresa mi disse: "Lei fuma? No, perché se anche lei ha questo vizio potremmo ricreare un angolo d'Europa nella proibizionista America dove fumare è quasi diventato impossibile". Dissi solo "Per me non c'è problema" e ci accendemmo l'agognata sigaretta. Mezz'ora in tutto, in cui parlammo di tutto e di più. Fu sorprendente sentirlo ammettere che considerava il suo ultimo album molto bello, ma che sapeva benissimo che per la maggior parte della gente lui era quello dei grandi successi degli anni Settanta o di Let's dance, il singolo pubblicato nel 1983. "Detto questo" aggiunse "La missione di un artista è andare oltre e continuare a sperimentare cose nuove anche se destinate a una popolarità inferiore a quella dei grandi successi". Lo ha fatto fino all'ultimo. Basta ascoltare Blackstar...La seconda volta fu vicino a Lucca nel 2002 prima di un concerto al Lucca Summer Festival. Ci incontrammo in albergo. Lo intervistai insieme a Patrizia Guariento, una collega di Tv Sorrisi e Canzoni. Ricordo ancora perfettamente la sua voce roboante mentre comodamente seduto su una poltrona raccontava dei favolosi anni Sessanta a Londra e dintorni "Io sono cresciuto nell'era della creatività. Ho avuto la fortuna di di vivere in una metropoli dove si respiravano cultura e arte. Ogni artista è figlio del suo tempo e io sono figlio di un momento storico straordinario. E lo sa perché? Perché chi aveva talento sapeva che prima o poi ce l'avrebbe fatta. Nella musica come nella pittura, nel cinema o nella letteratura. Io sapevo fare un po' di tutto, ma con il tempo mi convinsi che la mia migliore qualità era la voce. Quindi, comprai un microfono...".  

David Bowie: i 20 brani da consegnare alla storia. David Robert Jones, nato a Londra l'8 gennaio del 1947, avrebbe oggi 73 anni. Oggi la Parlophone Records ha annunciato l’uscita di "Is It Any Wonder?", un EP con 6 tracce inedite di Bowie. Gianni Poglio l'8 gennaio 2020 su Panorama. L'8 gennaio 2019 David Bowie avrebbe compiuto settantatre anni. Proprio nel giorno del suo ultimo compleanno, l'8 gennaio 2016, era uscito Blackstar, un album straordinario e geniale che abbiamo voluto al primo posto nella nostra classifica dei 15 migliori dischi del 2016. Due giorni dopo l'uscita di Blackstar David Bowie è morto a New York per un tumore che sarebbe stato diagnosticato solo tre mesi prima. Proprio oggi la Parlophone Records ha annunciato l’uscita di Is It Any Wonder?, un EP con 6 tracce inedite di David Bowie che saranno pubblicate nel corso di sei settimane. La prima traccia, già disponibile, è una versione mai pubblicata di The Man Who Sold The World, tratta da ChangesNowBowie, una sessione registrata per la radio e trasmessa dalla BBC il giorno del 50esimo compleanno di David l’8 gennaio 1997. Per celebrare uno degli artisti più geniali del nostro tempo, abbiamo selezionato 20 canzoni straordinarie. Le abbiamo scelte includendo grandi classici e qualche brano meno noto, ma non per questo meno epocale...

1) Space Oddity

2) 1984

3) Life on Mars

4) Ziggy Stardust

5) Hang on to yourself

6) The man who sold the world

7) Heroes

8) Absolute beginners

9) This is not America

10) Fantastic Voyage

11) Be my wife

12) Station to station

13 Modern Love

14) The stars are out tonight

15) Slip Away

16) Loving the alien

17) Five years

18) Sense of doubt

19) Warszawa

20) Lazarus 

·        4 anni dalla morte di Ettore Bernabei.

Cesare Lanza per “la Verità” il 12 gennaio 2020. Ho ricordi nitidi di Ettore Bernabei, il leggendario direttore generale che governò la Rai senza firmare un solo documento. Lo incontrai una sola volta, ma ricordo bene l' affabilità della conversazione, al di là dell' intervista che dovevo fargli. A capo di viale Mazzini, il grande boiardo ottenne risultati eccellenti, ma era anche intransigente con fermezza: disse no ai Beatles, coprì le gambe delle gemelle Kessler «per non far agitare i mariti» e, dopo averlo voluto, fermò Dario Fo «per rispetto al pubblico». Ettore Bernabei, c'è bisogno di presentarlo? Il mio unico dubbio è se questo mitico protagonista del potere (assolutamente democristiano) in Italia sia stato più influente come direttore della Rai, per 14 anni, dal 1960 al 1974, o come leader dell' Italstat, per 17 anni, dal 1974 al 1991. E non solo: infine, dopo i 70 anni, inventò e guidò Lux vide, una società di produzioni televisive dai grandi ascolti. Quando lo intervistai rimasi affascinato dalla sua personalità, perentoria e ironica, duttile e persuasiva. Mi aveva ricevuto nel piccolo studio nella sua casa romana, in via Flaminia. «Sempre sono stato oggetto di polemiche e di critiche e, quasi sempre, ho scelto di non replicare. Tra le accuse ricorrenti, negli anni Settanta e Ottanta, era in voga quella di "boiardo di Stato", uno slogan usato, ovviamente, in senso dispregiativo. Mettevo tutto nel conto: chi guida un' azienda pubblica è esposto ad attacchi».

Boiardo: secondo il dizionario Garzanti, era un antico titolo nobiliare presso i russi e altri popoli slavi. In Italia, spregiativamente: alto dirigente di un ente, di un' azienda; boiardi di Stato, i manager delle aziende pubbliche. Lo provocai: in Rai, c' era stata un' altra accusa pesante, era considerato un dispotico censore. Mi puntò addosso, con divertimento, i suoi occhi grandi e chiari. E rispose con ironia accentuata dall' accento toscano: «Ovvio, mi dicevano che ero un sopraffattore, che decidevo in base a visioni politiche, con discriminazioni faziose. Ma non ho mai fatto favori deteriori ai miei amici. Ero coerente verso la mia parte politica, la Dc. Constato con piacere che oggi, sempre più spesso, si dice e si scrive che quella Rai faceva una buona televisione». Gli dissi che la sua passione politica era legata, più che alla Dc, alla fedeltà di acciaio ad Amintore Fanfani. «I miei maestri», ammise, «sono stati Giorgio La Pira e Fanfani. Politicamente, la stessa cosa. La Pira, come sindaco di Firenze, applicò le visioni che aveva da sempre: un' architettura cristiana dello Stato. E mantenne alcune promesse: lavoro per i disoccupati, la casa per i senza casa, una chiesa dove pregare». A Fanfani lo presentò La Pira: quando Amintore fu nominato ministro del Lavoro e Giorgio divenne il suo sottosegretario, Bernabei fu nominato direttore del quotidiano fiorentino Il Giornale del Mattino. Poi, una folgorante, stupefacente carriera. «Avevo 30 anni. Mi trovai a fare la campagna elettorale per La Pira sindaco e, nel '56, Fanfani mi chiamò a dirigere Il Popolo, l'organo ufficiale della Dc. E mi trasferii a Roma». Poi, quasi subito, la Rai. A 39 anni, come direttore generale. «Non nascondo che avvertii qualche disagio all' inizio, per l'età e per l'inesperienza. Ma ero molto deciso. Autoritario? Era il 1960,15 anni dopo la fine della guerra e della caduta del fascismo. Non trovai dirigenti democristiani, socialisti, liberali C'erano tutti i dirigenti della vecchia Eiar fascista. Un po' strano, no? Dovunque era cambiato tutto, anche alla Fiat, massima azienda del Paese. Alla Rai non era cambiato nulla. E dunque il primo problema fu di assumere personale più giovane e qualificato». E ancora: «Il capo dei programmi era Sergio Pugliese, un bravo scrittore di commedie, volenteroso, ma senza esperienza. Allora la buona tv consisteva nella prosa, nel varietà o nel riprendere, dai teatri, spettacoli concepiti e magari validi per 1.000 spettatori, non certo per le grandi platee televisive». Ricordo che gli chiesi se fosse vera la leggenda: davvero aveva diretto la Rai, da padre padrone, senza mai firmare un documento? «Non c' era niente di strano. Non esisteva la burocrazia di oggi e, comunque, io non avevo vocazione per le carte e la burocrazia». E come dirigeva? «Andavo a vedere cosa c' era in pentola. La mia preoccupazione era che non ci fosse mai un' offesa per il pubblico. E non si verificavano, di norma, incidenti. Fu per questo scrupolo, di evitare offese al pubblico, per un semplice intervento effettuato allo scopo di non portare offesa ai telespettatori, che nacque lo stop a Dario Fo». Quindi era autoritario? «La mia responsabilità era anche decidere. E decidevo». Chi erano i suoi collaboratori? «Nominai alcuni miei assistenti, tra cui Angelo Guglielmi: intelligente, capiva le cose. La mia televisione poneva dei limiti, affidati al buon senso del padre di famiglia. Ma aveva anche una notevole apertura di vedute. E facemmo trasmissioni di avanguardia, certo non conformiste. E il legame con Fanfani? «Era un uomo straordinario, un grande percettore di insegnamenti. Prendeva da chicchessia tutto ciò che c' era di valido, di giusto. Era rispettoso delle gerarchie, a volte anche semplicemente per il fattore anagrafico. Ad esempio rispettava La Pira anche perché era più vecchio, sia pure di quattro anni». Una ricetta per un buon programma tv? «Semplice, rispettare il pubblico e non plagiarlo, rispettarlo per quello che è e non per quello che si vorrebbe che fosse. Mai scrivere, produrre, creare per sé stessi! E alla larga dai format! Ogni Paese deve rispettare la sua identità». Gli chiesi anche qualcosa dell' Italstat. «Mai avrei pensato di dover occuparmi, in vita mia, di case, strade e ponti. Presi la finanziaria dell' Iri nel settembre del '74, quando aveva 450 miliardi di fatturato annuo, e la lasciai nel maggio del '91 a quota 6.000. Ho già detto che mi chiamavano, con ostilità, boiardo di Stato Ma noi abbiamo avuto i bilanci sempre in utile e non abbiamo fatto pagare una lira a Pantalone». Infine, la Lux vide, di cui era molto orgoglioso per i programmi: «La serie su Carlo Magno, la Bibbia con 20 film di 90 minuti ciascuno, Padre Pio». Fiero per il successo di due dei suoi numerosi figli: «Matilde segue la commercializzazione, Luca la produzione esecutiva». Gli chiesi di indicarmi i migliori programmi. «Per l' informazione, il Tv7 legato a Sergio Zavoli e il Tg diretto da Fabiano Fabiani, poi L'Odissea, il Leonardo, il Pinocchio, La Cittadella». I migliori attori? «Alberto Lupo, Gastone Moschin, Gino Cervi». Le attrici? «Silvana Mangano, Irene Papas e le gemelle Kessler, grandissime: impeccabili professioniste». Ettore Bernabei era nato a Firenze il 16 maggio 1921. Si spense a Monte Argentario (Grosseto) il 13 agosto 2016. A 95 anni. Cosa apprezzo maggiormente di lui? Il merito. Ha utilizzato il suo potere per migliorare il Paese. Nella sua tv, mai superata per qualità, il servizio pubblico si sentiva: Tv7, gli sceneggiati incentrati sui classici. E poi gli Atti degli Apostoli con la regia di Roberto Rossellini e il Gesù di Nazareth di Franco Zeffirelli. E Alberto Manzi che insegnava a leggere e scrivere agli italiani. La «mamma Rai» di Bernabei ha valorizzato, o inventato, fior di professionisti: Enzo Biagi, Alberto Ronchey, Arrigo Levi, Angelo Guglielmi, Mario Motta, Umberto Eco, Leone Piccioni, Brando Giordani, Angelo Romano, Renzo Arbore, Antonello Falqui. Non vorrei tuttavia santificarlo. Bernabei è anche quello che ha detto dei Beatles: «È inutile trasmettere il loro concerto, di questi ragazzi tra un mese non se ne ricorderà più nessuno!». Era sempre molto schietto, di Eco diceva: «Lo preferivo come autore tv».

Su Silvio Berlusconi: «Prego perché possa avere la grazia di perdonare i suoi persecutori e conquistare il rispetto dei suoi avversari». Sui quotidiani: «I grandi giornali padronali, cioè il Corriere della Sera, La Stampa, Il Messaggero, eccetera, sono sempre stati antidemocristiani. Stavano con le destre laiche, i repubblicani, i liberali e i circoli finanziari internazionali che li sostengono e che non amano per niente la Chiesa cattolica». E di lui cosa è stato detto? Giovanni Minoli (marito di sua figlia Matilde): «Bernabei è stato sempre anche l' uomo di raccordo tra Fanfani e Aldo Moro, i due cavalli di razza della Dc. Era "uomo di fiducia" per entrambi: durante il rapimento Moro fu casa Bernabei il luogo di incontri riservati tra Fanfani, Bettino Craxi e Claudio Martelli per immaginare strategie di un' impossibile salvezza. Non ha mai invaso la mia vita privata. Gli ho sempre dato del lei, per tutta la vita».

Giuliano Ferrara: «Fu il distillato purissimo del regime democristiano al suo colmo». E Sergio Zavoli: «Ha saputo unire l' Italia con una linea laica». Myrta Merlino era sua amica: «La Rai ha un potenziale esplosivo superiore a quello della bomba atomica. Tra i suoi compiti c' è quello di mandare la sera gli italiani a letto tranquilli, e con qualche soddisfazione». Ma su di lui c' erano anche perfidie e veleno. Ad esempio, Giorgio Bocca: «Come per il fox trot, capita di provarne nostalgia solo perché eravamo più giovani». E Sergio Saviane definiva la Rai delle censure di Bernabei: «Uno stabilimento di tosatura delle pecore». Concludo rievocando episodi celebri. Fu lui a coprire le lunghissime gambe delle Kessler con la calzamaglia nera. Anni dopo spiegò: «Dovevamo far sognare senza svelare. La calzamaglia era strategica. Grazie a essa, l' italiano medio dimenticava la cellulite o le gambe storte della moglie, ma gli restava il dubbio su come fossero davvero le gambe delle Kessler. Quindi, poi, tornava sereno dalla moglie cellulitica. La famiglia era salva e le Kessler mandavano gli italiani a dormire tranquilli, gli italiani che poi dovevano votare. Le Veline invece fanno venir voglia di dargli un morso. Ma poiché non c' è nulla da mordere, la gente si arrabbia». Insomma, mai ammetteva di aver censurato: «Negli anni in cui una parte della Dc sosteneva che in Russia i comunisti mangiavano i bambini crudi, io arruolai Dario Fo». Gli chiesi anche perché avesse detto la drastica battuta: «I telespettatori italiani sono 20 milioni di teste di cazzo». Non rispose, ma replicò con un sorrisino furbo, simile a quello di un bambino. 

·        4 anni dalla morte di Marco Pannella.

Pannella voleva una politica migliore, non mirava all’antipolitica. Francesco Damato su Il Dubbio il 16 Settembre 2020. Pannella non fu tenero con i politici del suo tempo ma paragonarlo a Beppe Grillo mi sembra francamente troppo. L’ elefantino rosso col quale Giuliano Ferrara firma sul Foglio gli articoli in cui riesce a combinare meglio i suoi umori, o la passione e la razionalità che s’intrecciano producendo bollicine, ha allungato questa volta la sua proboscide sui radicali. Ai quali Giuliano contesta di poter guidare il fronte del no alla presunta – secondo lui – antipolitica del taglio dei seggi parlamentari, preteso dai grillini prima e persino a prescindere da altre modifiche alla Costituzione che in qualche modo li compensino o, secondo i casi, li completino sulla strada dell’efficienza. Non è per antipatia personale – credo verso la senatrice Emma Bonino, troppo abortista per i suoi gusti e sentimenti antiabortisti, che Giuliano l’ha proboscitata insieme col compianto Marco Pannella ed altri esponenti della galassia radicale. È altro che stavolta il fondatore e tuttora ispiratore del Foglio mostra di non perdonare ai radicali: la loro antipolitica, precedente a quella che ha portato i grillini dove i radicali non hanno neppure sognato mai di arrivare. Penso naturalmente ai risultati elettorali del 2018 e al ruolo centrale che i grillini si sono assegnati come i democristiani di una volta, facendo ruotare attorno a loro, ma soprattutto ai loro problemi, governi, alleanze, equilibri, si fa per dire, in uno spettacolo che giustifica quel volto terreo di Emma Bonino nella foto che l’ha ritratta domenica scorsa nella manifestazione di piazza romana dei Santi Apostoli per il no referendario del 20 settembre. C’è del vero, per carità, nella rappresentazione dei radicali da parte di Giuliano. Pannella non fu tenero con i politici del suo tempo ma paragonarlo a Beppe Grillo mi sembra francamente troppo. Sarò ingenuo, peccherò di indulgenza e di un conformismo a questo punto funebre, ma nell’antipolitica di Pannella io ho spesso avvertito, al netto delle sue esagerazioni e dei suoi errori, l’aspirazione ad una politica diversa e migliore. Lo ha appena testimoniato Gianfranco Spadaccia difendendo Pannella dalla sostanziale caricatura di Ferrara. L’antipolitica di Grillo, per non parlare di quella meno gridata ma forse ancora più profonda di Davide Casaleggio, mi sembrano fine a sé stessa, diretta non a migliorare la politica ma semplicemente ad abolirla. È questo ciò che inquieta di più e che fa addirittura dire a Francesco Alberoni di temere più Grillo che il “truce”, come Ferrara chiama Matteo Salvini, mai scosso dai dubbi, neppure da quelli suggeritigli nel Foglio ogni tanto da Annalisa Chirico. Che lui di rimando chiama Cirichessa. Neppure l’antipolitica, quindi, è unica nel suo genere. Ce ne sono di diversi tipi e finalità, che non sono certamente io a poter e dovere ricordare a Ferrara, con tutti gli uomini e le stagioni più o meno “trasversali”, come lui stesso ha ammesso, in cui gli è capitato di scrivere di politica e di farne. Nello stesso giorno del processo di Giuliano ai radicali mi è capitato di leggere un’intervista a Libero dell’ex ministro dell’Interno Marco Minniti. In cui si racconta, fra l’altro, della sua esperienza di funzionario del Pci “quarant’anni fa” in un ufficio dove era appeso questo cartello: «Qui si lavora, non si fa politica», cioè – ha spiegato Minniti – «inutile chiacchiera politicista». Sì, è facile dirlo o spiegarlo così quarant’anni dopo gli Ottanta del secolo scorso. Allora si era consumata un’altra tappa del politicismo di Enrico Berlinguer, maturata nella famosa teorizzazione del “compromesso storico”. Che si era realizzato solo nella forma minimale della maggioranza di cosiddetta “solidarietà nazionale”, appoggiando il Pci dall’esterno, fra il 1976 e le prime settimane del 1979, due governi monocolori democristiani presieduti da Giulio Andreotti. Il 23 luglio del 1981, quando la Dc, pur rimasta acefala col sequestro e l’assassinio di Aldo Moro, si era affrancata da quel passaggio obbligato, imposto nel 1976 dalla indisponibilità del Psi ancora guidato da Francesco De Martino a partecipare a governi o maggioranze senza il Pci, ripose nei cassetti saggi, ricordi e altro ancora del “compromesso storico” e sventolò la famosa “questione morale” contro la Dc e i suoi ritrovati, o ritrovandi alleati di un tempo, dai liberali ai socialisti. Ne parlò ad Eugenio Scalfari in una intervista storica quanto il suo compromesso. Mi chiedo, anche a tanti anni di distanza da allora, e alla luce degli effetti prodotti da quella che fu definita la nuova, ennesima svolta berlingueriana, se non fu un’esplosione di antipolitica. Che, fra l’altro, per onesta ammissione di post- comunisti come Piero Fassino, offuscò a tal punto Berlinguer da farsi superare da Craxi nella ricerca della modernizzazione della sinistra e dello stesso sistema istituzionale. Poi, certo, gli eredi di Berlinguer si tolsero la soddisfazione, diciamo così, di vedere Craxi nella polvere. Ma fu anche polvere della sinistra, non a caso oggi costretta a convivere con l’antipolitica dei grillini e a scambiare Giuseppe Conte per il leader del campo “progressista”, come dice Nicola Zingaretti assolvendolo dalla precedente alleanza con Salvini, o per «l’ultimo ancoraggio della politica antipopulista che abbia una sua tenuta e una sua prospettiva di legislatura». Così ha scritto forse troppo ottimisticamente Ferrara del presidente del Consiglio a conclusione del processo ai radicali, e annunciando il suo rumoroso sì referendario di domenica prossima: un barrito, più che un annuncio.

Caro Giuliano Ferrara, non sono i radicali l’origine e la causa dei grillini. Gianfranco Spadaccia su Il Riformista il 15 Settembre 2020. No, non ci sto. Sono disposto ad affrontare un dibattito razionale e civile fra le ragioni del Sì e quelle del No. Sono anche disposto a mettere a confronto le ragioni di una scelta di opposizione costruttiva con le ragioni di chi spesso sostiene, a mio avviso, passivamente e acriticamente l’attuale alleanza di governo. Ma se qualcuno, per controbattere alle mie ragioni, pretende di farmi passare e di fare passare i radicali, con Pannella, come i precursori di Grillo e del populismo, si merita una risposta altrettanto tranchant. Populisti un accidente. Non eravamo populisti quando negli anni ‘60 chiedevamo e ci sforzavamo di operare per il passaggio da una democrazia bloccata a una democrazia compiuta; quando negli anni ‘70 lottavamo per il divorzio e per la riforma dei diritti civili o proponevamo di mettere mano alle strutture e alle leggi fasciste sopravvissute all’avvento della democrazia e della Repubblica e chiedevamo a gran voce l’unità, il rinnovamento e l’alternativa della sinistra; quando negli anni ‘80 e ‘90 tentammo inutilmente la strada dell’unità dei partiti laici e socialisti e, con i referendum Segni, la riforma del sistema politico che obbligasse i maggiori protagonisti della politica italiana, a cominciare dal PCI, a fare i conti con i problemi di governo della società e dello Stato, creando alleanze compatibili con questo scopo. Che funzionò pure per più di un decennio e almeno tre legislature, fin quando il Mattarellum non fu sostituito dal Porcellum di Berlusconi e Calderoli. La lotta alle degenerazioni della partitocrazia è sempre stata condotta in nome della legalità costituzionale e per riconquistare un pieno e corretto funzionamento della democrazia. E lo stesso referendum sul finanziamento dei partiti era tutt’altro che antipolitico (ma scherziamo? Nessuno più di noi si è battuto per la nobiltà, la necessità, l’efficacia della politica, della buona politica, cioè del governo della polis). Nasceva al contrario dall’esigenza di congegnare un sistema alternativo, che proponemmo, di sostegno pubblico all’attività politica, che non fosse di esclusivo appannaggio dei partiti esistenti e dominanti nel campo dell’opposizione e della maggioranza. E teneva conto della necessità di riportare alle loro funzioni democratiche partiti politici che avevano ereditato dal fascismo la mostruosa concezione del “partito-Stato”, del partito che occupa e prevarica le istituzioni, come peraltro sta oggi facendo il M5S dietro lo schermo dell’onestà e di una “diversità antropologica”, di cui proprio i radicali hanno sempre insegnato a diffidare, da chiunque venisse proclamata. Non è guardando alla nostra storia che Ferrara troverà l’origine e la causa degli attuali populismi. Li deve cercare piuttosto nelle numerose pratiche partitocratiche che ha frequentato e sostenuto nella sua lunga attività di giornalista e di politico: nella incapacità di partiti che hanno solo cambiato i loro nomi e non sono mai riusciti a cambiare se stessi e tanto meno le istituzioni e lo Stato democratico. È vero, Grillo è arrivato buon ultimo, ma non dopo Pannella: è arrivato dopo Bossi e la Lega, dopo la Rete e l’Italia dei Valori, dopo Orlando e Di Pietro: precedenti che una classe dirigente per così dire “di sistema”, da Ferrara sempre difesa e sostenuta, ha sistematicamente ignorato, sperando di poterli esorcizzare o neutralizzare, coinvolgendoli nelle proprie pratiche di potere. È in base a queste logiche che oggi siamo arrivati al M5S di Di Maio, alla Lega di Salvini e ai Fratelli d’Italia della Meloni. In quel terribile incubatore dell’antipolitica che è stata la retorica di Mani Pulite e l’illusione della moralizzazione per via giudiziaria della Repubblica, Pannella è stato dall’altra parte e c’è stato praticamente da solo, con il “Parlamento degli inquisiti”, mentre la “nuova” destra e sinistra secondo repubblicana, compresa quella berlusconiana, in quel frangente soffiava forte sul repulisti, sull’ordalia, sulla rimozione delle ragioni politiche del default economico e civile dell’Italia e sulla ricerca di comodi capri espiatori. Non c’è stato politico più lontano di Pannella dal populismo e dall’idea di una semplice followership dei sentimenti prevalenti dell’elettorato. Non c’è stato partito politico più alieno di quello radicale dal “facilismo” economico-sociale o istituzionale, che ha dilagato nella politica ridotta a perenne inseguimento dei desideri e delle illusioni di una opinione pubblica smarrita. Certo anche noi abbiamo le nostre responsabilità. Ma la nostra responsabilità è stata quella di non essere riusciti a convincere le classi dirigenti dei partiti politici (dalla Dc al PCI e ai partiti laici e socialista, nella prima repubblica, “berlusconiani” e “antiberlusconiani” nella seconda) che abbiamo sempre avversato per le loro politiche, ma con i quali abbiamo sempre, sempre dialogato. La nostra responsabilità è di non avere avuto la forza di realizzare quella democrazia dell’alternanza che presupponeva una alternativa di sinistra democratica (e un centro destra liberale e non biecamente conservatore, quando non reazionario). L’attacco di Ferrara ci dice però che, nonostante le nostre divisioni, anche questa volta i radicali sono pericolosi per i difensori dello status quo. E le sue parole alzano un polverone che serve ad allontanare l’attenzione degli elettori del 20 e 21 settembre dal simbolo grillino di questa pseudo riforma: le forbici. Per impedire che tutto si riduca a una sforbiciata occorre un significativo successo dei No. Solo se questo si verificherà, e non con le assicurazioni di Ferrara o con le parole – che restano spesso solo parole – di Zingaretti, si potrà sperare di riaprire in Italia un vero e serio dibattito sulle riforme (che includa e non escluda anche il discorso sulla legge elettorale e l’ineluttabilità della restaurazione proporzionale): riforma costituzionale, certo, riforma elettorale e dei regolamenti parlamentari pure ma, anche, riforma della giustizia, riforma di una economia bloccata, di una amministrazione pubblica ingolfata da mille intralci e blocchi burocratici e da una inammissibile sovrapposizione e contrapposizione di poteri.

Vittorio Feltri e il ricordo di Marco Pannella: "Una giornata intera con lui? Un lento suicidio, era instancabile". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 30 luglio 2020. Qui di seguito pubblichiamo un articolo scritto dal direttore Feltri nel 1987 che racconta di un intero giorno passato con il leader dei Radicali Marco Pannella. Punta Raisi per chi arrivi dal cielo ha l'allegrezza di un cippo funerario, ma, nella circostanza, mi sembra assai più entusiasmante della Cicciolina. Segnala il traguardo. Abbiamo fatto un volo pazzesco con un aereo cui mancano soltanto i pedali per essere un regolamentare giocattolo da luna-park. Mi aveva sempre fatto sorridere il Papa, che baciava la terra al termine dei viaggi; ora capisco quanto avesse ragione: non staccherei più le labbra dalla pista, una sensazione dolcissima, il piacere di rinascere. Sono le 18.30. Sto con Marco Pannella da undici ore e se ho i nervi logori credo di essere giustificato. Non avete idea di cosa sia capace quest' uomo che suscita odi ed amori esagerati. Stargli appresso una giornata equivale ad un lento suicidio. All'inizio, quand'ero fresco, avevo sostenuto con lui vivaci discussioni. Poi, sarà stata la trasvolata sul mare, tra momenti drammatici e scene alla Ridolini, ho ceduto. Gli ho persino promesso, per sfinimento, che voterò per il suo circo. E pensare che m' ero immaginato un servizio tranquillo. La sveglia è alle 7.20. «Sono andato a letto alle 4», dice il capo radicale: «tre ore di sonno, in campagna elettorale, debbono bastare». Sfoglia i giornali e s' arrabbia subito con Scalfari. «Da quattro anni non mi metteva in prima pagina, stavolta mi dedica addirittura il fondo per darmi del fascista. Sa perché? Per la Cicciolina. Ci voleva la porno-star perché s' accorgesse che esistiamo. Tutti uguali i quotidiani. Per loro contano più le tette dei cervelli». Il Manifesto gli ha pubblicato un'intervista, se la legge d'un fiato con l'aria di uno che è a caccia d'errori. Non ne trova ed è contento: «Sono stati corretti, bravi».

DISORDINE E SIGARETTE. Pannella, abruzzese di Teramo, non è sposato. Vive da single in una piccola casa di buon gusto che il disordine non rovina. Esce senza neanche fingere di sistemare qualcosa, i posacenere sono colmi, mozziconi cortissimi di Gauloises. Alle 9.15 siamo alla sede romana del Corriere, è atteso per il dibattito-graticola coi giornalisti. Non se ne fa un problema e lo affronta con la consueta spavalderia, sparando slogan e sentenze. Indossa un completo «blu metallizzato», camicia bianca e cravatta celeste, lo stesso abbigliamento col quale si presenterà a Tribuna politica. È disinvolto, gesti ampi da dominatore del palcoscenico. Sulle scale incontra un paio di persone che lo riconoscono e salutano, un po' sorprese di trovarselo lì; risponde con cenni del capo e la chioma canuta ondeggia solenne. Si va di fretta. Al gruppo del Pr, vicino a Montecitorio, sono impazienti di consegnargli l'agenda del giorno, che è fitto d'appuntamenti. Il prossimo è alle 12 con Ilona Staller per la registrazione di un programma Euro Tv. La ragazza, intanto, esaurisce il giornaliero tour in via del Corso e in piazza Colonna; la macchina ogni tanto si ferma per consentire al popolo plaudente di toccare la porno-candidata che distribuisce baci e carezze. I numerosi fan si eccitano come militari dopo una lunga consegna, la guardano rapiti. Ipnotizzati. La diva ne approfitta: «Mi dai il voto, cicciolino?». Gli apprezzamenti si sprecano. Il più gentile: «Il voto? Solo quello? Ma a te te do tutto, anche l'anima de li mortacci». La base non sarà chic, però è spontanea. Il TG 3 Lazio reclama il rispetto di un'opzione per un servizio. Pannella e l'attrice ungherese acconsentono: colloqui sfibranti al microfono. Ed è la volta del TG 1, conferenza stampa. Marco è in forma, ha una battuta per chiunque, nei paraggi, gli rivolga la parola. «A Pannè, 'ndo sta' a bonona?». «In lista». «È vero che te la voi portà ar governo ar posto de la Falcucci?». «Sarebbe un passo avanti, no?». Un astante riflette ad alta voce: «È sempre mejo 'na Cicciolina che fa il ministro de 'na Falcucci che fa 'a Cicciolina». Telefonate, telex, telegrammi, prenotazioni di alberghi: un'ossessione. Il tempo è misurato. E, naturalmente, si salta il pasto: Pannella ci è abituato, il sottoscritto - che non ha nulla da rivendicare, né aspira a seggi - un po' meno. Pazienza. La prossima tappa è all'aeroporto dell'Urbe, via Salaria 825. Da qui partiremo per Palermo dove proseguirà la distensiva giornata radicale. Il raduno è davanti all'hangar dell'aeroclub. Il primo a presentarsi è Emilio Vesce, 48 anni, quello che grazie al teorema padovano si è fatto cinque anni e mezzo di galera, accusato - senza prove - di terrorismo e messo fuori per un rigurgito di dignità giudiziaria. È candidato nel Veneto e in Emilia, i pronostici lo danno per sicuro eletto. Auguri.

IL JET PRIVATO. Arrivano gli altri: un inviato del Giorno e un giovanotto della «rosa» che tiene la cassa. È assente soltanto il leader. Sono le 16. Mi hanno promesso che viaggeremo su un jet privato, genere alta finanza, e sono sereno come a Linate quando ci si affida all'Alitalia (che ho prontamente rivalutato). Sul piazzale, intanto, hanno trascinato un modesto apparecchio dalle ali che fremono al soffio del Ponentino. Fa tenerezza, sembra quello di Antonio Locatelli. Un trabiccolo - penso - che useranno sulla rotta di Fregene per addestrare i piloti in erba. Un corno. È il nostro. Colto da malore, manifesto il proposito di rinunciare all'incarico: al Corriere capiranno. Ma non capisce Pannella che, giunto trafelato, senza indugi si tuffa a bordo con noncuranza come si trattasse di prendere la «circolare destra». E urla: «Annamo ch' è tardi». Fantozzianamente rassegnato, salgo. L'abitacolo è suppergiù quello di una «Ritmo» e pende a sinistra, la parte del super radicale. Un signore di mezz' età, che tutti chiamano «comandante Tatulli», siede alla cloche e avvia i due motori che rivelano una preoccupante svogliatezza, tossicchiano, sbuffano, cigolano. I miracoli avvengono sul serio: il «cosino» decolla. Soffrendo - noi più di esso - prende quota. Sul volto di Tatulli leggo una moderata soddisfazione. Nonostante il rumore assordante, e gli oggettivi pericoli della situazione ambientale, Pannella discetta di politica: «La Dc? Se vince, e il Pci perde, ma i laici guadagnano, si rifà il pentapartito a condizione che De Mita si tolga dai piedi. All'avellinese conviene che il suo partito cali un po' e Natta tenga. I due colossi si sorreggono a vicenda, fingono di litigare, tuttavia si coccolano perché sanno che la forza dell'uno è la forza dell'altro e viceversa. Il loro nemico è l'agglomerato che va dai liberali ai socialisti; se acquista consistenza, addio Ciriaco e ciao Alessandro: nell'elettorato sparirebbe la paura del rosso e, a quel punto, chi più appoggerebbe il bianco?». Sarebbe un discorso interessante, da approfondire, se non fosse che l'oggetto che ci trasporta, pomposamente definito velivolo, ha abbandonato da un pezzo la terra sotto di sé e si è avventurato nel cielo opaco sul mare. Il panorama è disgustoso: acqua plumbea, orizzonte viola quaresimale, nuvole blu di tonalità identica al monopetto di Marco. Vesce si appassiona alla perigliosa navigazione, l'inviato del Giorno ogni tre secondi si asciuga le mani, io precedo a un'intima commemorazione di me medesimo e considero con disappunto che, in caso di probabile sciagura, domani i giornali riserveranno un titolone a Pannella; e a noi, mezza riga di sommario: «Tra le vittime, un paio di cronisti e due collaboratori del battagliero esponente radicale». Nemmeno la consolazione di un'evidenza postuma. Imperversano raffiche di vento, un motore singhiozza, il comandante armeggia nervosamente sul quadrante, gira una chiavetta. Giuro che cadiamo. Mi volto: Pannella dorme, la bocca semiaperta. Una calma così in certi momenti è indisponente. Superiamo il temporale. Tatulli mi sollecita a guardare giù: «Vede là? È Ustica». «Grazie per l'informazione, è quello che occorreva per rilassarmi». Atterraggio perfetto, il pilota - bisogna dargliene atto - è un fenomeno. Sulla pista, una ragazza bruna, carina: «Svelti ragazzi, il comizio è fra mezz' ora». La macchina è pronta, portiere che sbattono, stridore di gomme: come nei film di Cosa Nostra. In effetti, sono di nuovo cose nostre: guida la bambina e non vi dico come, 190 all'ora, clacson pigiato, dallo scalo alla periferia di Palermo, sorpassi acrobatici a un centimetro dal guard rail. L'ideale per una ricreazione dopo la sfida aeronautica. La tribuna è in piazza Politeama, traffico micidiale, slalom fra le auto. Non basta l'abilità della conducente ad assicurare puntualità all'oratore. Il quale, dato che la strada non si decongestiona, decide di proseguire a piedi, di corsa, fra la meraviglia della gente che lo riconosce e gli batte le mani. Onestamente, è più popolare di Gei Ar. Sul palco, braccia conserte, assiste severo Gaetano Azzolina. Il chirurgo in Sicilia è primo nella lista radicale e ha molti estimatori: applausi. Ma è Pannella ad assaporare l'ovazione massima. Strapazza il Pci che «corteggia i Verdi e a Roma, e a Vittoria, che è alle porte di questa città, esalta il sindaco comunista Monello, rappresentante ufficiale degli abusivisti dell'edilizia». Storie di soprusi Ma non trascura gli altri: «Tutti ladri. Hanno divorato le Usl, annientato la giustizia, saccheggiato le Regioni. Partecipano in massa alla lottizzazione e si abbuffano. I radicali, poiché non hanno le mani pulite e nessuno può accusarli di furto, sapete come li liquidano? Dicono che sono buffoni. Meglio buffoni che criminali». Il comizio dura un'ora e mezzo. Le invettive pannelliane sono una goduria per la cospicua folla. E quando il leader scende dalla traballante impalcatura, quasi lo portano in trionfo. Ma ha altri impegni e fugge fendendo i capannelli degli aficionados. Ovunque vada, qualcuno lo blocca: uomini e donne che gli raccontano storie di soprusi, i ragazzi dell'Isef pretendono che ascolti i loro guai, e così frotte di pensionati, ex carcerati, disoccupati. Vedono in lui una specie di difensore civico. Anche coloro che non votano per la «rosa» ritengono che egli sia l'unico ad avere il coraggio di protestare, d'andare controcorrente. «Marco- gridano - non ti fare schiacciare pure tu dai potenti». Schiacciarlo? E chi ci riesce? Eccolo a Canale 21, e sono già le dieci. Tiene il pallino fino alle 23.30. «La mafia esiste - declama dal video -. Ne esistono parecchie. E la più ingorda, la peggiore, è quella che sta a Roma nei palazzi ministeriali». I telefoni dell'emittente privata squillano senza requie. Ma lui è schizzato via. È a Sicilia 1, altra tv, e ripete invettive, attacchi feroci a destra e a manca. Inesauribile. La mezzanotte è trascorsa da molto. Non ne posso più. Quelli del seguito, distrutti. Non s' è mangiato, non un caffè, non una bibita. Ma chi glielo fa fare, onorevole? Mi risponde aggrottando la fronte: «L'indolenza degli altri». E riparte con l'aereo. Ancora un aereo giocattolo «perché costa di meno». 

Quando Montale colse la spirituale radicalità di Marco Pannella. Valter Vecellio su Il Dubbio il 18 maggio 2020. Il 19 maggio 2016 morì il leader radicale. Nel ’75 il Nobel per la poesia lo omaggiò: ” Dove il potere nega, in forme palesi, ma anche con mezzi occulti, la vera libertà, spuntano ogni tanto uomini ispirati come Andrej Sacharov e Marco Pannella, che seguono la posizione spirituale più difficile che una vittima possa assumere di fronte al suo oppressore. Il rifiuto passivo. Soli e inermi, essi parlano anche per noi”. Un grazie non formale, un grazie vero, al professor Paolo Armaroli, per quanto ha scritto sul Dubbio a proposito di Marco Pannella (“Un anarchico con il senso dello Stato”, 6 maggio). Anarchico, non saprei. Libertario e liberale certamente sì; e dunque radicale, a pieno titolo membro di quella tribù che Gaetano Salvemini definisce dei “pazzi melanconici”. Armaroli non si abbandona, come molti fanno, al bozzetto di colore; il suo nostalgico rimpianto coniuga l’esperienza umana al riconoscimento politico “alto” del personaggio. Per questo grazie.Ho avuto modo di essere diretto testimone della simpatia e della considerazione che l’uno nutriva per l’altro. Gennaio 2011: i radicali fiorentini ebbero l’idea di presentare una mia biografia su Pannella; doveva essere una cosa per non più di cinquanta persone, tante si pensava di raccoglierne. All’ultimo minuto, Pannella – impegnato in uno sciopero della fame che poi diverrà anche della sete – mi rimprovera bonariamente per non averlo invitato. “Sei in digiuno…”, cerco di giustificarmi. “No, la verità è che non mi vuoi tra i piedi”. S’arriva a Firenze, nel frattempo gli organizzatori di prodigano a trovare una sala più grande, e a pubblicizzare ulteriormente l’evento, annunciando la presenza del diretto interessato. Non so come Armaroli viene a conoscenza della cosa, fatto è che si presenta nella sala. Ne nasce uno splendido “duetto”, un confronto (e un consenso) alto sul contingente, le sue cause e le possibili e probabili conseguenze, che giustamente offusca il libro stesso (comunque, grazie ai due, l’editore ha la soddisfazione che tutte le copie portate sono vendute). Al di là dell’intervento “ufficiale”, credo una manciata di minuti, quello che costituisce il pregio dell’evento è costituito dal “prima” e dal “dopo”, purtroppo non registrato: lì si tocca con mano la confidenza, l’amicizia, la reciproca considerazione. Non solo ad Armaroli, che ha colto e ben descritto il Pannella con alto e rispettoso profilo istituzionale, ma a tutti noi, propongo alcuni punti della riflessione e dell’agire pannelliano che mi sembrano di straordinaria attualità. Penso ad alcuni momenti chiave, non completamente compresi (o forse sì: proprio perché se ne comprende portata e significato sono stati frettolosamente messi in soffitta). Marzo 1959. Il ventottenne Pannella affronta dalle colonne del “Paese” nientemeno che Palmiro Togliatti. Il “migliore” si fa latore di una proposta: unità delle forze laiche. Pannella, spalleggiato da Franco Roccella e da altri “ragazzi” che si sono formati alla palestra dell’Unione Goliardica Italiana, oppone “l’unione laica delle forze”. Non è un calembour semantico. Sono due linee politiche ben distinte, che presuppongono e lasciano intendere obiettivi e percorsi diversi, perfino opposti. Oggi non si pongono più questioni di “egemonia” come allora; ma la riflessione su “unità” e “unione” non ha perso nulla della sua pregnanza e attualità. Si pensi ora alla vista lunga di quando, negli anni “90, scrive quel “Manifesto contro lo sterminio per fame nel mondo” (la nuova shoah), poi sottoscritto da centinaia di premi Nobel: un documento politico unico nel suo genere, dove già si prefigura quello che accade oggi; e si offrono soluzioni e proposte operative concrete. Ancora non si profilava la tragica realtà di un domani che è quasi oggi: entro il 2050 saranno svariate decine di milioni di esseri umani che sotto la pressione dei cambiamenti climatici, la desertificazione, incalzati da fame e malattia, si riverseranno nel cosiddetto mondo “civile”. Le guerre che sempre più si combatteranno non attorno ai pozzi petroliferi, ma sulle rive dei grandi fiumi, in Asia, Africa, America Latina. Si pensi a quel: “Per il diritto alla vita, per la vita al diritto”; e a “Dove c’è strage di diritto c’è strage di persone e popoli”; e lo si raffronti a quanto accade tutti i giorni nel “pianeta giustizia”. Si pensi alla sua ultima grande battaglia politica: quella per il diritto umano e civile alla conoscenza: quanto mai attuale, in questi giorni di Coronavirus, stretti come siamo nella tenaglia delle omertà di un regime totalitario come la Cina e le fake news di un capace di ogni cosa che vuole a tutti i costi essere riconfermato alla Casa Bianca. E’ il 1975 quando il poeta Eugenio Montale, “laureato” proprio quell’anno con il Nobel per la Letteratura, scrive sul “Corriere della Sera”: “Dove il potere nega, in forme palesi, ma anche con mezzi occulti, la vera libertà, spuntano ogni tanto uomini ispirati come Andrej Sacharov e Marco Pannella, che seguono la posizione spirituale più difficile che una vittima possa assumere di fronte al suo oppressore. Il rifiuto passivo. Soli e inermi, essi parlano anche per noi”. Montale comprende perfettamente l’ulteriore “salto” di Pannella che fa tesoro delle esperienze dei Gandhi e dei Tolstoi, dei Capitini e dei Dolci; e le coniuga con altre: quelle dei Thoreau, dei Martin L.King, dei César Chavez e Bertrand Russell: il diritto; e opera così il “salto”, il passaggio ulteriore: nonviolenza che si accompagna al culto del diritto… Armaroli è tra i pochi che, in occasione del novantesimo anno dalla nascita di Pannella, ne parla in termini “politici”: come penso lui avrebbe desiderato si facesse. Perché Pannella non lascia eredi, e nessuno può essere così arrogante, così presuntuoso, così imbecille da pensare e credere di esserne il “continuatore”. Però Pannella lascia un enorme patrimonio, culturale, ideale, politico; un “giacimento” che ancora da esplorare, dissodare, indagare. Questo credo sia il modo migliore per ricordarlo e – se si vuole – celebrarlo. Quello che credo chieda: che il “testimone” da lui raccolto dai Salvemini, dai Rossi, dai Pannunzio, dai Silone e dagli altri “pazzi malinconici”, sia a sua volta raccolto, custodito, valorizzato, tramandato; non se ne smarrisca memoria, si lavori nel solco tracciato con ulteriori semine. Che Paese è mai questo dove non c’è una facoltà di scienze politiche, di legge che non senta l’urgenza di dedicare un corso specifico al “dire” e al “fare” di Marco Pannella?

Caro Marco Pannella, ti ho sognato o forse eri proprio tu…Valter Vecellio su Il Riformista il 19 Maggio 2020. Ciao Marco, come va? Lo sapevo che mi saresti apparso in sogno, questa notte. Come dici? Non è un sogno? È un ennesimo declinare del tuo “spes contra spem”? E sia. La puzza che chiami “aroma” di quel tuo pestilenziale sigaro in effetti è ben reale: segno che anche “altrove” qualche brutta abitudine sopravvive… Qui da noi, come sai, le cose vanno come vanno. Vedi? Giungono a sintesi tutte le cose che per una vita hai sollevato e indicato. Anche quelli che sembrano giochetti di parole. Sollecitati dalla pandemia e dai suoi disastrosi effetti, li senti tutti che parlano di “unità”? Viene da pensare a quel lontano marzo del 1959, quando “duellasti” con il “Migliore”, Palmiro Togliatti, dalle colonne del Paese. Lui che propone l’unità delle forze laiche; e tu gli opponi “l’unione laica delle forze”. Un bel dibattito, un aspro confronto, e non solo tra voi due. Anche oggi, passati sessant’anni, tocca spiegare la fondamentale differenza tra “unità” e “unione”; come la prima sia la mortificazione della democrazia, e la seconda il suo “sale”. Lo so: “profeta” non ti piace; allora dico che sei stato un “visionario” pragmatico e concreto, quando negli anni ‘90, scrivi quel “Manifesto contro lo sterminio per fame nel mondo”, poi sottoscritto da centinaia di premi Nobel: non è un generico appello alle coscienze, di quelli ce ne sono migliaia; è piuttosto l’unico documento politico nel suo genere, dove si prefigura quello che oggi accade; e soprattutto si offrono soluzioni e proposte operative concrete. Non ha perso nulla della sua drammatica urgenza e attualità, quel documento; anche oggi, come allora, lo ignorano: volutamente, dolosamente. Scandalosamente. Penso poi a quel: “Per il diritto alla vita, per la vita al diritto”; e a “Dove c’è strage di diritto c’è strage di persone e popoli”. È quello che accade oggi. Ricordi? Nella famosa prefazione ad Undergound: a pugno chiuso che Pier Paolo Pasolini a suo tempo definì “manifesto del radicalismo italiano”, a un certo punto scrivi del fascismo degli antifascisti; hai l’ardire di fare una lunga lista di nomi: «…Sono i Moro, i Fanfani, i Rumor, i Colombo, i Pastore, i Grochi, i Segni e – perché no? – i Tanassi, i Cariglia, e magari i Saragat, i La Malfa…». Bisogna avere i capelli bianchi per ricordare quei nomi, e i volti a cui corrispondono quei nomi. Però anche oggi – legittimamente – si può fare lo stesso ragionamento, la situazione non si è evoluta, anzi; basta sostituire quei nomi a quelli degli attuali inquilini nei vari “palazzi” dei poteri istituzionali o reali che siano. Avevi ragione quando parlavi di giustizia, diritto, carcere; quando come un ossesso ripetevi: diritto umano e civile alla conoscenza; al sapere. Solo in una cosa, ti sei sbagliato: ricordi? Dicevi che da vivo ti trattavano come se tu fossi morto; e prevedevi che da morto ti avrebbero trattato come tu fossi vivo. Qui, sì sei caduto in errore: da morto ti trattano come se tu non sia mai esistito. Cancellato. Rimosso. Segno che sei ancora pericoloso. Un trattamento comune, tutti “soffittizzati”: una buona e numerosa compagnia: Gaetano Salvemini, Ernesto Rossi, Mario Pannunzio, Altiero Spinelli, Ignazio Silone, Nicola Chiaromonte, Piero Calamandrei, Pier Paolo Pasolini, Leonardo Sciascia, Enzo Tortora, e sai quanti altri ne posso citare: tutti – per dirla con Salvemini – «pazzi malinconici». Tutti trattati da morti quando erano in vita; tutti messi in “soffitta” una volta morti; al massimo esibiti con “medaglioni” di mediocre “colore”, in occasione di qualche anniversario. Tu, con in più lo sfregio di sentirti dire ancora oggi che da dio Crono hai divorato i tuoi “figli”, mentre sono loro che si sono cibati della tua carne… Si è fatta l’alba, Marco. È ora che tu vada. Torna presto. Come dici? Non sei mai andato via, siamo noi che non ti vediamo? Può essere. Anzi, è senz’altro così. Anche noi, forse, un po’, senza volerlo, ti abbiamo “soffittizzato”. Però tu ogni tanto un colpo battilo ugualmente…

Ritratto di Marco Pannella, il narciso che se lo poteva permettere. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 5 Maggio 2020. Un giorno mi disse, uscendo dalla sede del Partito radicale: «Ho voglia di auto blu. Sono un politico, ho dato a questo Paese gli occhi per vedere e la voce per parlare. Voglio andare al governo. Ti meraviglia». No, dissi, benché mi meravigliasse molto. Pannella lo hanno seppellito così: un bravo matto amato da tutti (quando in realtà era molto più detestato) ma così sincero e sorprendente anche quando faceva incazzare la Chiesa, i democristiani e in genere i bravi ragazzi della politica, che ogni volta – quando digiunava – speravano in molti che ci lasciasse la pelle. Eugenio Scalfari che aveva con lui un rapporto infastidito e pieno di gelosie reciproche, mi chiese di andarlo a intervistare in ospedale: «Marco stavolta sta veramente male. Vai a vedere». Lo trovai malconcio, un felice moribondo pieno di cannule e di flebo, contento di sapere che stava davvero rischiando la pelle, perché era la sua arma. Mi spiegò, al solito baretto di via di torre Argentina, la scienza del digiuno protratto: soltanto cappuccini, non ricordo quanti, e tenere sempre pronto l’aggeggio per misurare la pressione. Sapeva farsi del male ma con sapienza, senza masochismo, come sistema di comunicazione. Poiché sul Riformista mi permetto di spesso la prima persona, ricordo quello che poi è rimasto un rimpianto della mia vita. Successe questo: l’ambasciata francese di palazzo Farnese aveva invitato me e Pannella per discutere di mafia con dei giornalisti francesi. Marco e io ce la cavavamo con la loro lingua e così parlammo a lungo e nulla fu realmente memorabile se non che, arrivati davanti alla fontana di piazza Navona da cui si vede San Pantaleo, Marco mi disse: «Io sono venuto per te, non per il dibattito. Vuoi venire nel Partito radicale? Stasera sei nostro ospite all’Ergife sull’Aurelia e domani facciamo le cose fatte come si deve». Mi resi conto che l’operazione per cui Pannella aveva bisogno di energie fresche era quella che avrebbe portato Francesco Rutelli al Campidoglio di Roma, ma dopo aver stipulato un patto che passava attraverso un gruppo di persone che mi erano indigeste. Motivo per cui abbandonai il famoso albergo di buon mattino lasciandogli una breve lettera di ringraziamenti.  Non ricevetti risposta. Pannella non era un santo o un angelo, ma un politico. Questa la sua sincera nobiltà. E un politico, se non è un parassita che vuole arricchirsi, deve voler governare, non essere un arredo. Apparteneva a una generazione di radicali socialisti e comunisti che si era scannata e amata nel parlamentino universitario dell’Orur. Lui aveva venticinque anni nel 1955 quando aveva fondato il Partito radicale come una costola di sinistra del Partito liberale italiano (che era ormai un partito conservatore). Tutti quei fondatori hanno poi litigato per gruppi e si sono contesi vicendevolmente il merito di quella fondazione che comunque comprendeva l’argenteria dell’epoca: con Marco erano Eugenio Scalfari, Ernesto Rossi, il creatore del Mondo Mario Pannunzio (oggi nessuno può avere la più larvale idea dell’importanza culturale di quella testata per pochi scrittori e ancor meno lettori), Leo Valiani, il filosofo Guido Calogero e tanti altri. Eugenio Scalfari scrisse la sua parte di storia nell’indimenticabile La sera andavamo a via Veneto che è quella di un gruppo rompighiaccio nella storia d’Italia, ma anche di grandi amici-nemici. E la storia dell’Italia che quel gruppo scardinò (ma con cui fece anche i conti e trattò, assorbì, ne fu assorbita) fu quella del mondo cattolico conservatore figlio di Pio XII, il papa principe Eugenio Pacelli che «allargò le sue grandi ali bianche» sulle macerie della Roma bombardata il 19 luglio del 1943 come lo cantava De Gregori, figlia e madre di una Roma pretesca e nera, poi venne Papa Giovanni XXIII che provocò uno smottamento o un avvicinamento laico e Pannella era di nuovo in testa.  Ma sull’altra frontiera, opposta a quella papale, c’era il comunismo cingolato e cirillico che veniva dal freddo. Non quello (astutamente accomodante) di Togliatti e Longo. Il Pci non era un partito santificabile: nel 1956 aveva fatto fuoco e fiamme. Come anche Giorgio Napolitano ha ricordato con straordinaria onestà in una splendida intervista americana, ricordiamo il ruolo che il Pci, insieme a Mao dalla Cina, ebbe per far muovere i carri armati contro gli insorti di Budapest, giusto un anno dopo la nascita del Partito radicale. Il divorzio fu un cavallo di battaglia socialista, specialmente di Loris Fortuna, ma Pannella – che politicamente era anche un cuculo che faceva le uova nei nidi altrui o ne rubava le uova – si aggregò e in parte impadronì della battaglia. Era tipico dell’epoca e di quella politica. Facevano tutti a gomitate.  La guerra per il divorzio fu magnifica e terribile, piena di anatemi e per nulla sostenuta dal Pci. Il Pci, dopo la “svolta di Salerno” che includeva tutti i non fascisti e i fascisti pentiti, aveva approvato l’articolo 7 della Costituzione che riconosceva come validi gli accordi di conciliazione firmati da Mussolini. Togliatti non voleva dispiacere i cattolici e considerò il divorzio un tema non attuale La sua storia extraconiugale con Nilde Jotti gli fece provare quanto il suo partito fosse ferocemente contrario alla dissoluzione dei matrimoni e il Pci si aggregò a Pannella e a Loris Fortuna soltanto quando la partita era stata vinta. Poi, ci fu la seconda guerra contro il referendum abrogativo guidato da Amintore Fanfani, segretario della Dc e nelle urne gli italiani votarono per il divorzio. Giorgio Forattini disegnò allora la storica vignetta di una bottiglia di champagne di cui salta il tappo con la faccia di Fanfani che, a causa della sua statura, era chiamato appunto “il tappo”. Pannella era partito da battaglie civili minime ed efficaci: quella per i diritti degli handicappati che non potevano attraversare la strada, il rispetto per chi non è perfetto, per chi non è in buona salute e quindi anche per chi per libera scelta, decide di morire. Questo è stato uno dei punti più aspri e contesi della politica pannelliana insieme a quella per l’aborto. L’aborto come pratica era sempre esistito grazie a un bel numero ginecologi – “cucchiai d’oro” – che si arricchivano praticando interruzioni di gravidanze nei loro studi. Ma la massa degli aborti clandestini era praticata in condizioni miserabili per opera delle cosiddette mammane, sul tavolo di cucina o peggio. La conseguenza era un alto tasso di mortalità per infezioni ed emorragie in un clima di segreto e di vergogna che comportava un prezzo ulteriormente umiliante e infernale per le donne. Tuttavia, la battaglia per l’aborto che condusse alla legge 194 fu pesante e atroce, perché il fronte di quelli che in America si chiamano “pro life” (e che non coincidono necessariamente con i cattolici) puntava i piedi per limitare i casi in cui “consentire” l’aborto, attraverso il nulla osta di una commissione e previo l’esame della donna richiedente, insomma un imbuto di ostacoli e di tritacarne che poi diventò più semplicemente la pratica dell’aborto nel servizio sanitario nazionale da cui sono esentati i medici che intendono avvalersi dell’obiezione di coscienza. Avrebbe compiuto 90 anni un paio di giorni fa, ma Marco arrivò comunque a 86, aveva un cancro e detestava la morte che però fronteggiava col suo spirito guascone e sapeva avere paura. La sua arma di seduzione era la disobbedienza: il bavaglio alla bocca in televisione su TeleRoma56. Accendersi una canna per farsi arrestare. Dichiararsi seguace del Mahatma Gandhi praticando la non violenza, proporre l’impossibile Partito radicale transnazionale, capire che bisognava schierarsi con Enzo Tortora e non lasciarlo ammazzare da un regime cattocomunista come in realtà avvenne, cooptare Domenico Modugno – il mitico “Mister Volare” – col suo blu dipinto nel blu quando era ormai stanco vecchio e magnifico, stare dalla parte di Leonardo Sciascia quando non era ancora di moda accusare la potente casta dei professionisti dell’antimafia. Un po’ Cristo e un po’ Robin Hood, amava i carcerati, i poveracci brutti sporchi e cattivi e – che dio lo perdoni – parlava ininterrottamente per ore come Fidel Castro. Si impossessava di ogni microfono non lo mollava più. Era un narcisista? Altroché: se lo poteva permettere. Era un leader, un pifferaio magico che raccoglieva masse di discepoli e non li portava nel baratro, ma li educava alla virtù della disobbedienza. E quell’Italia color della “Celere” (la polizia in grigioverde con elmetto e manganello che caricava a legnate chiunque manifestasse) era molto preoccupata, scandalizzata, furiosa, indignata per le enormità da barone di Munchausen che era Pannella, per la sua sacrale mancanza di rispetto per tutto ciò che sembrava sacro. E questo, allora – non oggi – era una novità e non ci sarebbe stato l’oggi senza lo ieri, che era Marco. Poi, aveva questa passione per le culture miste: ci trovammo in Alto Adige per una meravigliosa campagna di Alexander Langer che le aveva proprio tutte: mezzo ebreo, mezzo ladino, mezzo tedesco e mezzo italiano, aveva ancora posto per altri mezzi e si formò allora con lui e con loro una comunità di amici e gente senza patria o con eccesso di patrie che era magnifica e il ricordo fa quasi piangere perché credevamo tutti, con Langer e con Pannella, di appartenere a una umanità senza patrie e confini e bandiere e per ciò stesso molto più morale, bella esemplare e degna di amore di una patria col filo spinato e l’alza-bandiera. E poi a Trieste di Saba e dei poeti, nella Trieste di Joyce e dei camminamenti per la Jugoslavia e i ragazzi che indossavano sei paia di jeans uno sull’altro per contrabbandarli al check point poliziesco e le birrerie e i segreti per varcare la frontiera guardando il mare in vista del castello dei von Taxis che ebbero l’idea di scrivere Taxis sulle loro auto da noleggio.  Pannella amava l’umorismo, era di sentimenti forti e multipli, apparteneva alla generazione di cui anch’io mi sentivo parte degli antimilitaristi che cantavano L’Amour et la Guerre di Aznavour. A Radio Radicale si contendeva il microfono con un altro mito scomparso, Massimo Bordin, che con quella sua voce da cronista di boxing negli anni Quaranta, leggeva e commentava i giornali. Ho avuto anche l’onore di essere letto e commentato dai due, roba da tremare. Era a tutti i costi antiproibizionista, era sicuro che l’unico modo per combattere droghe e mafia fosse di liberalizzare la droga e metterla sotto il controllo dello Stato e della Sanità pubblica. Non era facile stare dalla sua parte su tutto, ma tutti stavamo prima o poi dalla sua parte. Ci siamo anche reciprocamente irritati, ognuno pretendeva. Finisce la sua storia così, con un enorme lascito, un ingombrante ricordo, ma molto festoso. Senza di lui non avremmo osato, con lui ci siamo buttati a capofitto e anche i meno dotati in temerarietà hanno emesso qualche ringhio. Era scanzonato e aveva la faccia di chi ti può prendere per il culo, ma con rispetto. Sapeva sempre mettersi nelle scarpe degli altri ed essere gli altri. Ecco perché tutti lo hanno incensato, ma nessuno lo ha fatto ministro. E a lui questo bruciava: «Credimi, ho voglia di auto blu. Ho voglia di ministero, un bel doppiopetto per Palazzo Chigi …».  E rideva. O almeno, sorrideva con tutti quei denti bianchi che aveva.

 “Amo i non violenti, i libertati gli omosessuali. Credo al dialogo, alle carezze, agli amplessi”. Il Dubbio il 2 maggio 2020. Oggi Marco Pannella avrebbe compiuto 90 anni. Per ricordalo pubblichiamo la bellissima introduzione che fece al libro di Andrea Valcarenghi “Underground a pugno chiuso”. Oggi Marco Pannella avrebbe compiuto 90 anni. Per ricordalo pubblichiamo la bellissima introduzione che fece al libro di Andrea Valcarenghi “Underground a pugno chiuso”.

Carissimo Andrea, mi chiedi una “prefazione” a questo tuo libro. L’ho letto e riletto per settimane, compiendo i gesti della preparazione ad una critica, ad un giudizio, ad una presentazione, a questa apparente ed ennesima mia complicità o connivenza con qualcuno di voi. Annoto allora quel che mi par buono, ed è molto; quello da cui dissento, che non è poco; ricorro alle categorie di bello e di brutto e trovo bei racconti, davvero, come belle sono tante pagine, rasi, annotazioni cui dà ogni tanto risalto per contrasto il “brutto” della proclamazione ideologika-klassista, residuo obbligato del borghesaccio che eri e che come tutti noi rischi di tornare ad essere, preoccupazione tua e di tanti altri anziché occupazione piena e creativa; proclamazione, insomma, in luogo di azione di classe. Cerco di comprendere perché mi hai chiesto questo servizio, per meglio adempierlo, umilmente e se possibile efficacemente, da compagno che accetta e vuole accrescere i labili o inadeguati motivi comuni di fiducia e di solidarietà. Non ci riesco. Arrivo a sospettarti dei calcoli più imbecilli e frustri. Smadonno. Penso ad Umberto Eco, lettore-prefatore della nostra epoca scritta; ma no, piuttosto a Franco Fortini, Luigi Pintor, Adriano Sofri, cui dovevi rivolgerti, che dovevi convincere e che avrebbero saputo cogliere l’occasione per dirci un po’ meglio di quanto non sappiamo quel che siete, quel che siamo, e per rispondere nello stesso tempo alle loro diverse e così significative esigenze di moralità politica. Io queste cose non le so fare. Con all’orizzonte i miei cinquanta anni ed un quarto pieno di secolo, dietro le spalle, di impegno, di lotte (e di felicità: qui vi fotto tutti!) non ho scritto un solo libro, un solo saggio, non ho “pubblicato” nulla – semplicemente perché non ho potuto, perché non ne sono capace. Scorro le pagine che ti hanno dato Carlo Silvestro e Michele Straniero, così importanti, adeguate, ben costruite, magnificamente psico-pirotecniche. Spostale e saranno un’ottima prefazione. Cosa vuoi da me? Pensi davvero che il mio nome sia divenuto merce buona per il mercato di compra-legge, o di chi vuoi o vorresti chiamare alla lettura con questo libro? No; ne ho la prova, so che sai che non è così. Tu non leggi i miei “scritti”, le migliaia di volantini ciclostilati, di comunicati-stampa, di foglietti del Partito Radicale, che sono le sole cose ch’io abbia mai prodotto, in genere scrivendole in mezz’ora, per urgenze militanti, nella bolgia di via XXIV Maggio ieri, in quella di via di Torre Argentina 18 oggi. Tu sei un rivoluzionario. Io amo invece gli obiettori, i fuori-legge del matrimonio, i capelloni sottoproletari anfetaminizzati, i cecoslovacchi della primavera, i nonviolenti, i libertari, i veri credenti, le femministe, gli omosessuali, i borghesi come me, la gente con il suo intelligente qualunquismo e la sua triste disperazione. Amo speranze antiche, come la donna e l’uomo; ideali politici vecchi quanto il secolo dei lumi, la rivoluzione borghese, i canti anarchici e il pensiero della Destra storica. Sono contro ogni bomba, ogni esercito, ogni fucile, ogni ragione di rafforzamento, anche solo contingente, dello Stato di qualsiasi tipo, contro ogni sacrificio, morte o assassinio, soprattutto se “rivoluzionario”. Credo alla parola che si ascolta e che si dice, ai racconti che ci si fa in cucina, a letto, per le strade, al lavoro, quando si vuol essere onesti ed essere davvero capiti, più che ai saggi o alle invettive, ai testi più o meno sacri ed alle ideologie. Credo sopra ad ogni altra cosa al dialogo, e non solo a quello “spirituale”: alle carezze, agli amplessi, alla conoscenza come a fatti non necessariamente d’evasione o individualistici – e tanto più “privati” mi appaiono, tanto più pubblici e politici, quali sono, m’ingegno che siano riconosciuti. Ma non è questa l’occasione buona per spiegare ai tuoi lettori cosa sia il Partito Radicale; andiamo avanti. Non credo al potere, e ripudio perfino la fantasia se minaccia d’occuparlo. Non credo ai “viaggi” e sarà anche perché i “vecchi” ci assicurano sempre che “formano” (a loro immagine) i “giovani”, come l’esercito e la donna-scuola. Non credo al fucile: ci sono troppe splendide cose che potremmo/potremo fare anche con il “nemico” per pensare ad eliminarlo. E voi di Re Nudo dite: “tutto il potere al popolo”, “erba e fucile”. Non mi va. Lo sai, non sono d’accordo. Brucare, o fumare erba non m’interessa per la semplice ragione che lo faccio da sempre. Ho un’autostrada di nicotina e di catrame dentro che lo prova, sulla quale viaggia veloce quanto di autodistruzione, di evasione, di colpevolizzazione e di piacere consunto e solitario la mia morte esige e ottiene. Mi par logico, certo, fumare altra erba meno nociva, se piace, e rifiutare di pagarla meno cara, sul mercato, in famiglia e società, in carcere. Mi è facile, quindi, impegnarmi senza riserve per disarmare boia e carnefici di Stato, tenutari di quel casino che chiamano “l’Ordine”, i quali per vivere e sentirsi vivi hanno bisogno di comandare, proteggere, obbedire, torturare, arrestare, assolvere o ammazzare, e tentano l’impossibile operazione di trasferire i loro demoni interiori (di impotenti, di repressi, di frustrati) nel corpo di chi ritengono diverso da loro e che, qualche volta (per fortuna!), lo è davvero. Ma fare dell’erba un segno positivo e definitivo di raccordo e speranza comuni mi par poco e sbagliato. Né basta, penso, aggiungervi come puntello il vostro “fucile”. La violenza dell’oppresso, certo, mi pare morale; la controviolenza “rivoluzionaria”, l’odio (“maschio” o sartrianamente torbido che sia) dello sfruttato sono profondamente naturali, o tali, almeno, m’appaiono. Ma di morale non m’occupo, se non per difendere la concreta moralità di ciascuno, o il suo diritto ad affermarsi finché non si traduca in violenza contro altri; e quanto alla natura penso che compito della persona, dell’umano, sia non tanto quello di contemplarla o di descriverla quanto di trasformarla secondo le proprie speranze. Insomma, quel che vive, quel che è nuovo è sempre, in qualche misura, innaturale. Perciò non m’interessa molto che la vostra violenza rivoluzionaria, il vostro fucile, siano probabilmente morali e naturali, mentre mi riguarda profondamente il fatto che siano armi suicide per chi speri ragionevolmente di poter edificare una società (un po’ più) libertaria, di prefigurarla rivoluzionando se stesso, i propri meccanismi, il proprio ambiente e senza usar mezzi, metodi idee che rafforzano le ragioni stesse dell’avversario, la validità delle sue proposte politiche, per il mero piacere di abbatterlo, distruggerlo o possederlo nella sua fisicità. La violenza è il campo privilegiato sul quale ogni minoranza al potere tenta di spostare la lotta degli sfruttati e della gente; ed è l’unico campo in cui può ragionevolmente sperare d’essere a lungo vincente. Alla lunga ogni fucile è nero, come ogni esercito ed ogni altra istituzionalizzazione della violenza, contro chiunque la si eserciti, o si dichiari di volerla usare. Se la lotta rivoluzionaria presupponesse davvero necessariamente: morte di compagni, il loro “sacrificio” e questa esemplarità, la “presa” del potere; e, a potere preso, o nelle more della conquista, il ripetere contro i nemici i gesti per i quali io sono loro nemico, gesti di violenza, di tortura, di discriminazione, di disprezzo, consideratemi pure un controrivoluzionario, o un piccolo borghese da buttar via alla prima occasione. Non sono, infatti, d’accordo. L’etica del sacrificio, della lotta eroica, della catarsi violenza mi ha semplicemente trotto le balle; come al “buon padre di famiglia”, al compagno chiedo una cosa prima d’ogni altra: di vivere e d’essere felice. Penso, personalmente, che avendo un certo bagaglio di speranze, di idee e di chiarezza non solo questo sia possibile, ma che non vi sia altro modo per creare e vivere davvero felicità. Ma esser “compagno” (come esser padre) non è scritto nel destino né prescritto dal medico. Se le vie divergono, lo constateremo e cercheremo di comprendere meglio. Ma basta con questa sinistra grande solo nei funerali, nelle commemorazioni, nelle proteste, nelle celebrazioni: tutta roba, anche questa, nera: basta con questa “rivoluzione” clausevitziana, con le sue tattiche e strategie, avanguardie e retroguardie, guerre di popolo e guerre contro il popolo, di violenza purificatrice e necessaria, di necessarie medaglie d’oro; la rivoluzione fucilocentrica o fucilo-cratica, o anche solo pugnocentrica o pugnocratica non è altro che il sistema che si reincarna e prosegue. Non solo il “Re” ma anche questa “Rivoluzione” vestita di potere e di violenza è nuda, Andrea. Tollera ch’io lo scriva nel tuo libro, se questa lettera sarà accolta come prefazione. E tollera molto altro…Siete, sei “antifascista”, antifascista della linea Parri-Sofri, lungo la quale si snoda da vent’anni la litania della gente-bene della nostra politica. Noi non lo siamo. Quando vedo nell’ultimo numero di Re Nudo, ultima pagina, il “recupero” di un’Unità del 1943 con cui si invita ad ammazzare il fascista, dovunque capiti e lo si possa pescare, perché “bisogna estirpare le radici del male”, ho voglia di darti dell’imbecille. Poi penso che tutti sono d’accordo con te, tranne noi radicali, e sto zitto, se non mi costringi, come ora, a parlare e a scrivere. Capisco le vostre ragioni: anche voi dovete dimostrare (a voi stessi?) che il PCI è oggi degenerato; che ieri era meglio d’oggi; che quando aveva armi e potere rivoluzionario era più maschio, più coraggioso, più duro e puro. Invece (come Partito, qui non parliamo dei “comunisti”) era semmai, peggio, perfino molto peggio d’oggi. Comunque non era migliore sol perché teorizzava qua e là l’assassinio politico e popolare come atto di igiene e di garanzia contro “il male”. Per chi l’ha ammazzato, certamente, Trotzky era peggio e più schifoso d’un fascista, e ancor più profonda radice del male. Ma, per voi che riesumate, ad onta dell’Unità di oggi, quella di ieri, credendo di legarvi così alle tradizioni di classe, popolari, operaie, non c’era davvero nulla di meglio da recuperare che questi concetti controriformistici, barbari, totalitari, contro le “radici del male”? Tu che hai “compreso”, ti sei sentito “compagno” di Notarnicola (e hai fatto bene); che hai vissuto almeno quanto me fra sottoproletari, paria, emarginati, come puoi non comprendere il fascismo di questo antifascismo? Come puoi, ancora, sopportare l’inadeguatezza dell’ingiuria, dell’insulto, del disprezzo, del manicheismo dozzinale, classista, non laico, fariseo, nello scontro di classe che cerchiamo di vivere e di sostenere, nel viver diverso e nuovo che presuppone e che genera? Perché, anche tu, fra fucile, antifascismo e poteri-al-popolo-a-pugno-chiuso, continui a vivere di quella vecchia nuova-sinistra che così puntualmente e efficacemente denunci nel libro? Come noi radicali, voi renudisti sostenete che non esistono dei “perversi”, ma dei “diversi”. Nelle famiglie, nelle scuole, nelle fabbriche o negli uffici perfino i torturatori sono anch’essi, in primo luogo, e generalmente delle vittime. Tranne che per certi psicanalisti, uccidere il padre non è la soluzione, non aiuta a superare l’istituzione, la famiglia; o non basta e non è comunque necessario. Sosteniamo, insieme, che non esistono nelle carceri, negli ospedali, nei manicomi, nelle strade, sui marciapiedi, nei tuguri, nelle bidonville, dei “peggiori”, ma anche lì, dei “diversi” malgrado la miseria (che è terribile proprio perché degrada, muta, fa degenerare: e se no, perché la combatteremmo tanto?), malgrado il lavoro che aliena (che rende “pazzi”), malgrado che lo sfruttamento classista sia “secolare”, quindi incida sull’ereditarietà. Sogniamo – e v’è rigore e responsabilità nei nostri sogni – una società senza violenza e aggressività o in cui, almeno, deperiscano anziché ingigantirsi e esservi prodotte. Sosteniamo che è morale quel che tale appare a ciascuno. Lottiamo contro una “giustizia” istituzionale (e “popolare”) che ovunque scambia diversità per perversione, dissenso per peccato. Come possiamo, allora, recuperare proprio in politica, nella vita di ogni giorno nella città, il concetto di “male”, di “demonio”, di “perversione”? Quel che voi chiamate “fascista” si chiama “obiettore di coscienza”, “divorzista”, “abortista”, “corruttore radicale”, “depravato”, per altri. La “stella gialla” dei ghetti è un emblema terribile, ma non meno per chi l’impone che per chi l’indossa. Ma chi sono, poi, questi “fascisti” contro i quali da vent’anni ci costituite (non dirmi che non c’entri, che sei troppo giovane: qui parliamo di generazioni politiche, le uniche che contino), in unione sacra, in tetro e imbelle esercito della salvezza? Mussolini, Vittorio Emanuele III, Farinacci, i potenti che seppero imporre un regime vincente, senza più vera opposizione, qual era il fascismo in Italia, furono spazzati via dalla guerra; senza la quale essi sarebbero ancora al potere come i Franco ed i Salazar. Furono abbattuti solo perché ritennero che, entrando nel conflitto, avrebbero guadagnato “con poche migliaia di morti” il diritto di sedersi al tavolo della pace dalla parte dei vincitori. Il vero fascismo fu il loro, non quello della RSI; nato morto, senza potere autonomo. Dal 1948, in Italia, tutte le forze politiche si sono mobilitare per “ricostruire lo Stato”: questa “ricostruzione” fu la bandiera degli anni Cinquanta. In questa ricostruzione che continua ininterrotta, in questa oppressione che si è riaffermata, che ha ritrovato la sua continuità ed aumentato la sua forza, dove sono mai i “fascisti” se non al potere ed al governo? Sono i Moro, i Fanfani, i Rumor, i Colombo, i Pastore, i Gronchi, i Segni e – perché no? – i Tanassi, i Cariglia, e magari i Saragat, i La Malfa. Contro la politica di costoro, lo capisco, si può e si deve essere “antifascisti”, cioè “antidemocristiani”. Noi radicali lo siamo. Lo sono anch’io, il più laicamente e spassionatamente, cioè il più chiaramente e duramente, possibile. Poiché non siamo fatti di sola razionalità, verso e contro costoro è giusto che anche la nostra emotività venga mobilitata, secondata. Quanto di sdegno, d’istinto, possiamo avere non può che essere pienamente indirizzato contro i successori reali, storici, del fascismo dello Stato. Questo, e non l’altro, è il concreto fronte politico sul quale oggi si lotta. Invece, sotto la bandiera antifascista, si prosegue una tragica operazione di digressione. Come se, negli anni in cui il fascismo si affermava, si fossero mobilitate le energie democratiche e popolari innanzitutto contro i Dumini e gli altri assassini materiali di Matteotti, dei Rosselli, degli antifascisti; o se pensassimo davvero che fu “fascismo” quello dei ragazzi ventenni che casualmente e “stupidamente” indirizzarono la loro generosità e la loro sete di sacrificio verso la Repubblica Sociale, divenendo poi “oggettivamente” sicari dei tedeschi e dei nazisti, assassini e torturatori. Scatenando, rilanciando la caccia contro gli Almirante e gli altri ausiliari di classe, di chiesa, di Stato, facendone i demoni, dando loro dignità di “male”, dirottando sdegno, rabbia, rivolta, contro di loro, servite oggettivamente il potere, il fascismo, quali oggi concretamente vivono e prosperano nel nostro paese. In tutta questa vostra storia antifascista non so dove sia il guasto maggiore: se nel recupero e nella maledizione d’una cultura violenta, antilaica, clericale, classista, terroristica e barbara per cui l’avversario deve essere ucciso o esorcizzato come il demonio, come incarnazione del male; o se nell’indiretto, immenso servizio pratico che rende allo Stato d’oggi ed ai suoi padroni, scaricando sui loro sicari e su altre loro vittime la forza libertaria, democratica, alternativa e socialista dell’antifascismo vero. Il fascismo è cosa più grave, seria e importante, con cui non di rado abbiamo un rapporto di intimità. Altro che roba da “vietare” con la “legge Scelba” (serve a “sciogliere” la DC?), da reprimere con qualche denuncia a qualche carabiniere, per legittimare meglio la funzione antioperaia, o da linciare a furor di popolo – antifascista! Il rapporto fra fascismo-capitalismo e sinistra è complesso, allarmante, incombente, presente, ambiguo, da oltre cinquant’anni, 1973 compreso. A proposito: veniamo al libro. Michele Straniero, nel suo intervento, ammonisce la sinistra a non lasciar ai fascisti l’elogio e il mito di Balilla (“Fischia il sasso, il nome squilla, del ragazzo di Portoria/ e l’intrepido Balilla, sta gigante nella storia”, cantavano a scuola nel ventennio). A modo suo, e vostro, ha ragione. Sassi come segnali di rivolta, come detonatori della rabbia e della forza popolari, ne individui anche tu, nel libro; e ne fai una sorridente e rapida apologia. Leggendoti, avevo pensato proprio a Balilla che tira il sasso, la popolazione insorge, i nemici scappano, poi tornano, più numerosi e per sempre. Fine della storia. Prima di passare ad altro, ho una confessione da fare. Ti ho letto non solo con attenzione, con consenso, ma anche con invidia: non riuscirei mai a raccontare con la tua chiarezza, la tua semplicità, la tua efficacia anche solo una parte delle nostre cronache radicali, o più semplicemente della mia vita di militante. So che questo dipende da una migliore intelligenza di quel che si è fatto, che è accaduto, che si vuole e non (o non solo) da capacità specifiche, “letterarie”: forse anche per questo è nato e cresciuto il disagio del dover scrivere questi fogli. E forse a questa invidia dobbiamo far carico se, spesso, nelle pagine migliori, nei racconti così vivi, rigorosi, animati dell’assedio del Corriere della Sera, della soirée capannea in piazza Scala mi sono detto che anche mio padre avrebbe amato poter raccontare le sue avventure universitarie, militari, fiumane, di studente nazionalista, come tu sai fare, con lo stesso amore per il gioco ludico, con la stessa innocenza. Ma basta. Se tutto quello su cui sono andato scrivendo finora ci divide, Andrea, nulla di ciò è essenziale nel tuo libro, o nell’esistenza che vi si affaccia e si esprime, e che conosco. Tu, a Milano, noi altrove, abbiamo dovuto e forse saputo, ogni giorno per anni quanto lunghi, inventare tutto, rifiutare ogni strumento esistente, ogni scorciatoia, ogni facilità, per poter avanzare almeno di un poco. I mezzi che ci si offrivano già pronti, che facevano la forza apparente di tanti altri, non erano omogenei, non prefiguravano quel che cerchiamo, e cerchiamo di costruire. La fantasia è stata una necessità, quasi una condanna, piuttosto che una scelta; sembrava condannarci ad esser soli, voi lì, noi ancora più sparsi e con più fronti addosso. Così abbiamo parlato come abbiamo potuto e dovuto, con i piedi, nelle marce, con i sederi, nei seat-in, con gli happening continui, con erba o con digiuni, obiezioni che sembravano “individuali” e “azioni dirette” di pochi, in carcere o in tribunale, con musica o con comizi, ogni volta rischiando tutto, controcorrente sapendo che un solo momento di sosta ci avrebbe portato indietro di ore di nuoto difficile, troppo spesso considerati “diversi” dai compagni e colmi invece d’attenzioni continue, di provocazioni, di colpi da parte dei pula e non dei minori. Abbiamo durato, rifiutando di sopravvivere, ricominciando sempre, facendo anche delle sconfitte materia buona per dar volto e corpo alle nostre testarde, ed alla fine semplici e antiche, speranze. Noi abbiamo colto qui qualche successo che tutti ora riconoscono. Tu anche, ma eri più solo. Questo, nel libro, non riesci ad ignorarlo, o nasconderlo. Ho sempre pensato a te come ad un compagno impegnato in un’opera comune, il lotte necessariamente convergenti e da organizzarsi insieme. Tu no, è questa la differenza. Quando accettai, e tenni a lungo, la “direzione responsabile” di Re Nudo, fra decine d’altre, non era per abitudine, o con indifferenza. Non eri un nome di più, un ennesimo compagno di un’ora o d’una occasione. Un compagno assente, certo. L’altra faccia del tuo libro, vorrei che tu lo comprendessi, sono le lotte che abbiamo dovuto condurre senza di te, su cui era giusto e naturale contare, perché le condividevi e le condividi. Le battaglie per i diritti civili sono mancate a tutto il Movimento: un inconsapevole razzismo di generazione, un rifiuto di “politica” (quella senza kappa) un po’ da struzzi, in proposito, un rozzo paleo-marxismo (in moltissimi, non in te), un’indifferenza che era cecità dinanzi a concreti scontri di classe e libertari, hanno fatto strage soprattutto a Milano. Così, oggi, sei uno dei pochi che resti sulla breccia, di tutti i tuoi compagni di un anno, e ci è andata bene. Ti ho conosciuto in un periodo in cui incontravo Pino Pinelli, Ivo della Savia, Felice Accame, Carlo Oliva, Oreste Scalzone, e poi Pietro Valpreda e Roberto Gargamelli o il Marco Maria Sigiani e il Meldolesi, il Risé e tanti altri che ricordi all’inizio del tuo libro, ma che ben presto scompaiono. Continueremo ancora a lungo a marciare divisi? Segnali, ogni tanto, le nostre vittorie – anche se tendi involontariamente a sminuirle, facendole mie, individuali e non – come sono – di quel collettivo felice e raro che è il Partito Radicale. Oggi, con la battaglia che abbiamo iniziata per i dieci referendum abrogativi di tutto il merdaio legislativo del regime, lo scontro diventa agli occhi di tutti, per molti versi, generale e conclusivo. Ancora una volta, ti sarà concretamente estraneo? Non mi pare possibile né accettabile. Il tuo è il libro di un prezioso Gavroche della nostra contestazione, di una generazione politica che è forse l’unica a non essere ancora interamente battuta dal regime della DC (già PNF) e dell’introvabile sua opposizione. Drammatico, solido, rapido e allegro; anche per me sorprendente autobiografia non narcisistica d’un militante senza obbedienze (ma senza abbandoni e distrazioni) che racconta come tutto possa tramutarsi nell’oro o nel miraggio d’una politica nuova e libera: erba, musica, pipa e fucili di parole o di cartone, penitenziario militare, carcere giudiziario, aula di tribunale, una soirée alla Scala, giochi violenti attorno al grande Corriere, un po’ di vernice su un monumento da scoprire, una caserma, un albergo, voterò per questo libro quando sarò chiamato a far parte – prossimamente – nelle giurie del Viareggio, dello Strega, del Campiello. Avrò argomenti per difenderlo, lettori per sostenermi. Lo leggeranno i trentamila del festival di Zerbo; altri cinquemila renudisti che non riuscirono ad arrivarci; i diecimila della Statale che han fatto in questi anni – come racconti – clap-clap al Capanna; il mezzo migliaio di compagni che ti han conosciuto nelle carceri militari e civili o in caserma; i vecchi beatniks, provos, onda verde, hippy, situazionisti, freaks di questi dieci anni, dalle lotte contro le diffide ed i fogli di via, al Vietnam; gli “zii” – ed i nipoti del Partito Radicale, che ormai son tanti…e i gruppi collegati di “Stampa Alternativa, di Marcello Baraghini e Guido Blumir. Un centinaio di migliaia di persone; anche se, proprio loro, non ne avrebbero bisogno. Consiglierei piuttosto di leggerlo ai genitori-disperati per i figli-persi e contestatori; ai progressisti-bene in mal di politica dei redditi e di programmazione, sconvolti ed indignati di non esser divenuti i vostri idoli; a quanti si meravigliarono e scandalizzarono nel vedere le rare sedi del prestigioso partito dei Pannunzio e dei Carandini, dei Benedetti e dei Piccardi divenute il ritrovo e il covo di bande sottoproletarie e capellute, di studenti in rivolta e comunisti, di anarchici e trotzkisti, prima ancora di riempirsi di fuori-legge del matrimonio e di obiettori di coscienza, di femministe e di omosessuali, di freaks e di abortisti, di veri credenti e di vegetariani nudisti, di “avanzi di galera” d’ogni genere. Capirebbero finalmente qualcosa di se stessi, oltre che di voi, di noi. E le loro facce ne diverrebbero meno peste e bolse. Altri, scorgerebbero in questa storia un affresco felice d’una Milano troppo a lungo e tetramente edita: quella stessa d’un altro – ma celeberrimo – scrittore di storia e lotte meneghine: il prefetto Mazza, coni suoi corifei dello Specchio. E avrebbero pienamente ragione: come chi preferisce sottolineare quanto facile e piacevole sia leggerti. Ora basta. Ho da occuparmi di trovare il primo milione per il quotidiano del PR. Sembra che sia urgente. Se ho ben capito, infatti, per un quotidiano (anche se minimo, anche se “alternativo”) è necessario poco meno di un mezzo miliardo in un anno. Con Re Nudo, mi darai una mano? Marco Pannella, luglio 1973

L’ultima battaglia di Marco Pannella, quella del diritto alla conoscenza. Matteo Angioli su Il Riformista il 2 Maggio 2020. “Siamo su una strada radicalmente diversa da quella sulla quale eravamo nel 1948. Il ‘48 era l’apertura della strada dei diritti umani, della responsabilità individuale dei vari attori che violavano i diritti, della protezione delle collettività”. Si espresse così, il 29 maggio 2017, Cherif Bassiouni, professore emerito di diritto penale, uno dei padri della Corte Penale Internazionale (CPI). Stando alle scelte compiute da alcuni membri del governo, Di Maio in primis, si direbbe che la strada opposta a quella tracciata nel 1948 sia proprio ciò di cui l’Italia necessita. Una strada verso la modernità che ci conduce dritti a Pechino passando per la via della seta. Poco importa se è in realtà una via della sete di conoscenza che la pandemia Covid19 ha rivelato ed accelerato violentemente. Il professor Bassiouni si sarebbe spento quattro mesi più tardi, a Chicago, dove insegnava ciò a cui si era dedicato per tutta la vita: il diritto, stessa fonte di vigore che muoveva Marco Pannella. Negli ultimi anni, il professore aveva voluto impegnarsi al fianco di Marco in un’iniziativa che molti hanno descritto come “l’ultima battaglia di Marco Pannella”, quella per il diritto alla conoscenza. Dopo aver collaborato all’istituzione della CPI, i due saggi si ritrovarono ancora insieme. Pannella oggi avrebbe compiuto 90 anni e trovo che le parole dello straordinario accademico rafforzino la visione e il progetto che ci ha lasciato Marco. Progetto connesso con il motto di Radio Radicale “conoscere per deliberare”, che ha trovato nuove ragioni dopo la sciagurata avventura militare in Iraq del 2003, il cui esito ha opacizzato i sistemi di democrazia consolidata degli Stati Uniti e del Regno Unito e reciso quasi mortalmente il rapporto fiduciario tra governo e cittadini. La guerra prima e la volontà poi di appurare formalmente le responsabilità politiche di quell’azione politico-militare hanno intormentito e avviluppato Washington e Londra in un pressappochismo e uno smarrimento di leadership di cui aggressivi sistemi autoritari stanno oggi approfittando. Gli argini che restano ancora fieramente in piedi sono rappresentati dalla Regina e da istituzioni democratiche solide perché edificate su un principio che ha permesso loro di resistere alla prova del tempo: la separazione dei poteri esecutivo, legislativo e giudiziario. Nulla però è scontato ed è qui che infatti non si parrà la nobilitate di troppi attori politici che non sono altrettanto all’altezza di tale prova. Ragion di stato, realpolitik, parlamenti incapaci di vigilare sugli esecutivi, multinazionali con poteri e bilanci più importanti di quelli degli Stati, regimi autoritari in aumento, democrazie che vanno snaturandosi sotto i colpi di misure emergenziali che limitano le libertà fondamentali indefinitamente (Ungheria), politicizzano la giustizia (Polonia), riducono il Parlamento a seccatura amministrativa da consultare sbrigativamente o rendono il sistema giudiziario l’ombra di se stesso ipotizzando la celebrazione di processi a distanza (Italia) in vista, magari, di sbrigarli su Whatsapp. Il 26 aprile, in un articolo sull’Espresso intitolato “La conoscenza negata in tempo di morbo” sull’accesso alle informazioni e la risposta del governo al coronavirus, Roberto Saviano ha evocato l’iniziativa di Marco Pannella e del Partito Radicale dicendosi dispiaciuto di “non averne compreso pienamente l’importanza quando lui era ancora in vita”. La battaglia non è che all’inizio, Roberto, e per quanto il tratto percorso sia breve, ti assicuro che è più che farcito di insospettabili insidie. Già cinque anni fa ci rampognavano con la storia che era un’iniziativa “poco chiara”, “velleitaria”, “elitaria”. Tuttavia, nei prossimi mesi una commissione dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa si dedicherà ad un progetto di risoluzione sul diritto alla conoscenza. Come immagini, ogni parola, ogni aiuto sarà prezioso. Mai come oggi la mancanza di un diritto civile e politico alla conoscenza è più evidente. Cherif Bassiouni si era convinto che il diritto alla conoscenza è fondamentale per sanare le debolezze del sistema democratico, perché è “un passo in avanti importante, è un passo di principio; ma la battaglia sarà lunga, perché ogni passo sarà combattuto dagli Stati (…) Ma, ovviamente, non abbiamo scelta, non possiamo rimanere indifferenti”. Ho voluto festeggiare i 90 anni di Marco con le parole di un’altra persona. Una voce che si unirà alle tante di compagni, amici, colleghi, avversari e giornalisti che oggi 2 maggio trasmetterà Radio Radicale. Molti di loro sono gli stessi che sono venuti a salutarlo quattro anni fa a casa prima che ci lasciasse il 19 maggio dopo la sua quarantena iniziata il 2 marzo 2016. Discutendo con gli altri sento spesso dire “chissà che casino avrebbe fatto Marco”. La mia risposta è la stessa ogni volta: non lo so. Quel che so è che, muniti del nostro “affetto stabile” da quasi-Stato-etico, sarei uscito volentieri con lui per accompagnarlo a Radio Radicale dove, affumicando lo studio e il virus, avrebbe ascoltato e dialogato con gli ascoltatori. Magari con Massimo Bordin a distanza di sbuffo di Toscanello. Sarei stato felice di vederlo incarnare con la sua “parola ornata” una coscienza collettiva, divenendo una sorta di oasi per i radioascoltatori. Un miraggio? Buon compleanno, Marco.

Il calabrone radicale vola ancora: da oggi il congresso. Valter Vecellio su Il Riformista il 31 Ottobre 2019. Non è vero: il calabrone può volare, non sfida le leggi della gravità. “Semplicemente” l’entomologo francese Antoine Magnan, quando enuncia la teoria di questo “assurdo”, sbaglia i calcoli. Li rifà, e scopre l’errore. Lo ammette, ma la “leggenda” resiste, perché la credenza è suggestiva, la smentita molto meno. Marco Pannella muore il 16 maggio di tre anni fa; tanti vaticinano che la sua morte coincide con quella del Partito Radicale di cui è cuore, cervello, anima. Il calabrone radicale però è ancora vivo. Gracile, fragile, debole; ma vivo. Determinato, raccoglie l’eredità politica, il patrimonio culturale e ideale di Pannella; in particolare le battaglie per cui si è battuto allo spasimo: il diritto umano e civile alla conoscenza; la “giustizia giusta”, per tutti e ciascuno, che affascina personaggi come Leonardo Sciascia ed Enzo Tortora; la nonviolenza coniugata al diritto. Un patrimonio di valori non tanto da gestire, piuttosto da condividere, in senso letterale: partecipazione a un progetto, una tensione d’insieme: l’unione di “bruniana” memoria, come ci ricorda Aldo Masullo. Un quotidiano proporre quel “vecchio” motivo che un giovanissimo Pannella contrappone a uno smaliziatissimo Palmiro Togliatti: “Unione laica delle forze”, in luogo dell’“unità delle forze laiche”. Da oggi, dunque, e fino al 2 novembre, a Napoli, il congresso degli iscritti italiani al Partito Radicale (presso la Fondazione FOQUS). All’ordine del giorno del congresso la centralità del “Caso Italia”, a partire dalla questione giustizia e informazione. La questione Giustizia si sviluppa a partire da alcune proposte di legge radicali, su temi cruciali: amnistia e indulto; revisione del sistema delle misure di prevenzione e delle informazioni interdittive antimafia, le procedure di scioglimento dei comuni per mafia; riforma del sistema dell’ergastolo ostativo e del regime del 41 bis; abolizione degli incarichi extragiudiziari dei magistrati. E ancora: responsabilità civile dei magistrati, abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale, separazione delle carriere dei magistrati. Sul fronte informazione il rilancio della proposta radicale sulla riforma della Rai, e la campagna per la vita del servizio pubblico Radio Radicale. Altra carne allo spiedo è costituito dal “Comitato promotore del referendum contro la riduzione dei parlamentari”. I radicali sono ben consapevoli che si tratta di un impegno gravoso, di questi tempi impopolare, ma lo ritengono atto dovuto: «Dobbiamo resistere», dice il segretario radicale Maurizio Turco, «alla ulteriore degenerazione e putrefazione della democrazia italiana. La richiesta di referendum è accompagnata dalla proposta per l’elezione diretta del presidente della Repubblica, e per l’elezione del parlamento in collegi uninominali». Dite che questi radicali pannelliani senza “se” e senza “ma”, sono ambiziosi, velleitari? Forse; ma non è la prima volta che a dispetto di ogni pronostico riescono a far saltare il banco (s)partitocratico. Da sempre conoscono il “sugo del sale”: hanno una “visione” che va al di là di una sia pur astuta gestione di un precario “esistente”. Hanno fatto loro il salveminiano “non mollare”; lo coniugano con il paolino “Spes contra Spem”. Si traduce in quell’aforisma di Henri Bergson che per Pannella era un manifesto di vita: «La durata è la forma delle cose». Metodo che è forma e sostanza insieme, fini qualificati dai mezzi usati: il diritto umano e civile alla conoscenza, il diritto al diritto. Chissà: potranno forse cominciare a spuntare i primi germogli di una lunga, lenta, faticosa semina; quel necessario vaccino da opporre ai veleni di cui un po’ tutti si è vittime.

Grazie Marco, hai salvato la mia vita e mi hai fatto rinascere. Sergio D'Elia su Il Riformista il 2 Maggio 2020. Buon compleanno Marco, mio salvatore, mio maestro, mia guida. Sei stato l’uomo che ha salvato la mia vita, mi ha fatto rinascere, da una prima vita segnata dalla violenza a una seconda dedicata alla nonviolenza, al diritto, ai diritti umani. Mi hai aiutato a capire che non è vero che i fini giustificano i mezzi, che è vero semmai il contrario: che i fini più nobili, le idee giuste possono essere pregiudicati e distrutti da mezzi sbagliati usati per conseguirli. E che uccidere le proprie idee è il delitto peggiore che si possa commettere. Mi hai insegnato la nonviolenza, questa forza sottile e invisibile, eppure dura e durevole come un filo d’acciaio, religiosa nel senso originario della parola, che tiene insieme, lega indissolubilmente le persone anche se si trovano su fronti opposti. La nonviolenza è la forza della coscienza, del dialogo, dell’amore, la forza che ha connotato la tua vita, Marco: mai ‘contro’ qualcosa o qualcuno, ma sempre ‘per’ e ‘con’.  Quanti violenti hai disarmato con la nonviolenza! Violenti e nonviolenti – dicevi – non sono nemici, sono fratelli, i veri nemici sono i rassegnati, gli indifferenti, gli inerti. Rivoluzionari gli uni e gli altri, solo che – aggiungevi – i violenti sono rivoluzionari per odio, i nonviolenti lo sono per amore. Come ha scritto Mariateresa Di Lascia, la tua “strega”, nel suo romanzo-capolavoro, Passaggio in ombra: “l’unico coraggio che bisogna avere nella vita è quello di amare”. Mi hai svelato il segreto del cambiare se stessi – modo di pensare, di sentire e di agire – se si vuole cambiare il mondo in cui si vive. E mi hai indicato la via maestra e un metodo infallibile: “Spes contra spem”, il motto di Paolo di Tarso nella Lettera ai Romani, che è stata la cifra della tua vita. Cercare di essere speranza al di là di ogni speranza, proprio quando ovunque – nel mondo che ci circonda e nel proprio mondo interiore – sembrano prevalere disperazione, indifferenza e rassegnazione. Vivere come soggetto attore della speranza, vivere nel modo e nel verso in cui si spera vadano le cose, essendo noi stessi proposta, prova e corpo del cambiamento. Grazie di tutto, Marco. Buon compleanno!

·        4 anni dalla morte di George Michael.

Simona Marchetti per "corriere.it" il 6 ottobre 2020. Quando è morto nel 2016, George Michael non ha lasciato nulla all’ex compagno Kenny Goss, al quale ha peraltro continuato a passare una generosa indennità mensile prima della loro rottura, avvenuta nel 2011. E ora l’uomo d’affari texano ha denunciato la famiglia del cantante, chiedendo almeno 15.000 sterline al mese (circa 16.500 euro) come mantenimento, spiegando che lui aveva fatto affidamento sui soldi di George per vivere. Nella citazione Goss sostiene inoltre che l’ex Wham! «non fosse sano di mente» quando ha fatto testamento nel 2013, lasciando buona parte della sua fortuna – stimata in quasi 100 milioni di sterline, 110 milioni di euro – a familiari e amici, escludendo però da ogni lascito sia l’ex Wham!, Andrew Ridgeley, sia il compagno di allora, Fadi Fawaz.

«Kenny marito casalingo». «Durante i loro ultimi anni insieme, Kenny è stato effettivamente un marito casalingo – ha detto infatti al Sun un’anonima fonte vicina a Goss - ed era George che provvedeva finanziariamente a lui. Quindi la sua tesi è che ha rinunciato alla sua carriera di mercante d’arte per prendersi cura della star nei tredici anni della loro relazione, durante i quali ha anche creato una fondazione di beneficenza insieme con George. Kenny ritiene che, essendo stata una persona importante nella vita di George, abbia ancora diritto a ricevere l’indennità che lui gli passava e chiede almeno 15.000 sterline al mese per vivere, contestando inoltre la capacità di intendere e di volere di George nel momento in cui ha fatto testamento». Come riporta il tabloid, lo scorso anno Goss ha venduto dei dipinti del valore di centinaia di migliaia di sterline che possedeva insieme con il cantante e adesso sta aspettando che venga fissata la data dell’udienza per far valere quelli che lui ritiene siano i suoi diritti di ex compagno.

Ex fidanzato di George Michael fa causa alla famiglia: vuole 15mila sterline al mese. Kenny Goss visse una relazione di 13 anni con la popstar, mettendo da parte la sua carriera di mercante d'arte: ignorato nel testamento, ora chiede una sorta di assegno di mantenimento. Antonello Guerrera su La Repubblica il 06 ottobre 2020. Un altro ex ragazzo di George Michael se la prende con la famiglia del defunto cantante e chiede denaro. Dopo Fadi Fawaz, che ha occupato per molti mesi la casa nel centro di Londra dove passava molto tempo con Michael prima della morte di quest'ultimo e prima dello sfratto di qualche tempo fa deciso dalla famiglia di George, ora è la volta di Kenny Goss, il 62enne mercante di arte che con l'ex leader dei Wham! condivise una relazione lunga 13 anni, prima che si separassero nel 2011. Ora, a quasi quattro anni dalla morte di Michael nella notte di Natale del 2016 a Goring, nel suo letto, Goss chiede alla famiglia dell'artista 15mila sterline al mese, circa 17mila euro. Una sorta di assegno di mantenimento. A raccontare la storia è il tabloid inglese Sun. Questo perché Goss sarebbe stato ignorato ingiustamente dal testamento del suo amato George. Che, sempre stando alla sua ricostruzione, avrebbe firmato quel documento di lascito nel 2013, tre anni prima di morire, in condizioni non lucide, sotto l'effetto di alcol, droghe o medicinali, permettendo così ai suoi familiari di tenere fuori lui, ma anche Fawaz e l'ex "collega" dei Wham! Andrew Ridgeley. Secondo i suoi avvocati, Goss avrebbe lasciato addirittura il lavoro per stare al fianco di Michael per oltre un decennio, assistendolo nei momenti difficili e diventando una sorta di "partner casalingo". Dunque, in base a ciò, avrebbe tutto il diritto di ricevere parte della eccezionale eredità e patrimonio lasciati dall'artista alla sua famiglia e qualche amico, in particolare le sorelle Melanie e Yioda e il padre Kyriacos. In tutto 97,6 milioni di sterline, oltre cento milioni di euro, ma neanche una piccola parte ai suoi compagni e fidanzati. Che ora la reclamano.

·        3 anni dalla morte di Tomas Milian.

Tomas Milian, poesia dell’antieroe con la pistola in mano. Emanuele Ricucci il 03/03/2020 su Il Giornale Off. Oggi avrebbe compiuto 87 anni. Tre anni fa il cinema aveva dato l’ultimo saluto a Tomas Milian, l’attore di origini cubane (Tomás Quintín Rodríguez Milián), morto il 22 marco 2017 a Miami, che aveva lavorato con Pasolini, Lattuada e Monicelli ma era diventato celebre per aver interpretato due personaggi in più pellicole: Nico Giraldi, un maresciallo (dal 1981 ispettore) di polizia romano dai modi poco garbati ma efficaci, che conosce bene gli ambienti malavitosi avendone fatto parte in gioventù col soprannome de “er Pirata” e Sergio Marazzi, alias “er Monnezza”, un ladruncolo romano. Ma Tomas Milian aveva recitato anche in film di alto livello: apprezzata dalla critica fu la sua interpretazione in “La luna” (1979) di Bernardo Bertolucci e e quella, come protagonista, in “Identificazione di una donna” (1982) di Michelangelo Antonioni. Noi oggi lo ricordiamo con questo bel ritratto che gli fece il nostro Emanuele Ricucci (Redazione). È una tragedia vedere Starsky e Hutch – Paul Michael Glaser e David Soul – canuti quasi estinti, anche loro. Uno che spinge la carrozzella dell’altro. Straziante indurimento della nostalgia del presente. Che torna a colpire, subito. Pensare a Bud Spencer come un goffo cherubino. Aver salutato Cannavale e Lechner, e poi Toffolo, Albertazzi. Ripensare all’infanzia. Ricordare, per poi poter solo immaginare. Lo sentivo che stava per crepare anche lui. E disturbato, ero andato a cercarlo. Quasi me lo sentivo. Così, mi ero andato a ricercare una sua lontana intervista, in Rai. Ero andato a ricordare, a rasserenarmi, vigliaccamente a pensare che quel tempo non finisse mai. Quando avevi un nonno che ti prendeva sulle gambe e rideva quando un buffo tizio vestito con la tuta da meccanico, come un arlecchino, con le spillette sul cappello, tirava uno sberlone in testa ad un impacciato malandra romano che girato di spalle chiedeva: “chi è?” e si sentiva rispondere: “so’ l’anima de li mortacci tua!”. Il barbone folto, nero. I capelli ricci corvini, come una donna greca. Pippo Baudo parlava con Tomas Milian. E lui, senza matita nera sugli occhi e, soprattutto, senza la voce che lo ha reso immortale, quella di Ferruccio Amendola, parlava una lingua meravigliosa: il romano. Che è il blues di chi viene da niente e ha il cuore enorme. Che è poesia della scanzonatezza, la cadenza della furbizia, da Rugantino a Tomas Milian. Certo, il suo era un romano accennato, che si mischiava con l’italiano e qualche caduta anglo-spagnola. Perché Milian, o meglio Tomás Quintín Rodríguez Milián, era cubano. Era figlio di un generale alla corte di Machado, prima che Batista gli sottrasse il potere. Prima che, tornato dall’esilio impostogli dal rovesciamento di fronte, il padre Tomás gli si ammazzasse davanti agli occhi. Un figlio di un popolo che canta, come poteva non finire a Roma, dove parlare è cantare, e muovere la mascella, agitare le mani e le braccia, e fermarsi a bocca aperta, davanti al Colosseo e alla Colonna Traiana, come anche alla fine di un lungo insulto rivolto a qualcuno, è la normalità. Baudo incalzava Milian, che ricordava semplicemente di essere uno venuto dal nulla. Che aveva fatto l’imbianchino a New York. Venuto dal nulla, ma mai che non fosse nulla, nei suoi personaggi, apparentemente gretti, vuoti, sterili, farseschi. Che fosse Nico Giraldi, il poliziotto, da giovanotto un piccolo malavitoso, o Sergio Marazzi, per tutti er Monnezza, oppure un pistolero degli spaghetti Western, Milian era tra le braccia dei più grandi a riempire i contorni di una commedia che tra un vaffanculo e l’altro trovava sempre la sua redenzione: il criminale poteva crescere e capire, come il maresciallo Nico; il criminale era uno che interpretava la strada e in ogni schiaffo che riceveva c’era una morale; era un burbero che perdeva sempre, ovunque fosse, sarebbe stato trovato e condannato, perché il bene, tra un ceffone e una rivoltellata, vinceva sempre, perché il carisma dell’uomo che non si nega a se stesso, e la virilità, vincevano sempre. Era tra le braccia dei grandi, Milian, tra quelle di Cocteau, con cui iniziò tutto nella sua Italia – una pantomima al Festival di Spoleto del ’59 -, così come quelle di Bruno Corbucci, Bernardo Bertolucci, Michelangelo Antonioni – con cui riscoprì il senso della drammaticità -, Alberto Lattuada, Luchino Visconti e Mauro Bolognini, che per primo credette in lui quando arrivò nello Stivale con appena qualche dollaro in tasca. Registi mitologici, che Dio li benedica per aver dato un’immagine al tempo. E poi Broadway, gli States, quelli della fuga da ragazzino e quelli della maturità cinematografica, con  Tony Scott, Oliver Stone, Steven Spielberg, Steven Soderbergh e tanti altri. Sembrava nulla. Ma Milian, e il mondo dei suoi personaggi, è una terzina del Belli letta con un sigaro in bocca, all’ombra di un bar di Campo de’ Fiori, durante la primavera, ritratto in un angolo, mentre il vociare del mercato sovrasta tutto. Un’ indimenticabile e piacevole trasgressione. Un cinema sporco e sudato. Romanticamente espressivo. Antieroico – mai paladino, ma bandito o criminale convertito -, erotico. Maschio. Un buono tra cattivi bonaccioni, in un’epoca in cui una “buona” contestazione, significava un’ottima carriera: “«Non sopporto quelli che si proclamano rivoluzionari, che parlano sempre dell’eversione e poi finiscono per non fare nulla. Non solo, ma si recano alla dimostrazione sulla bella auto di papà e d’estate sospendono le agitazioni perché devono andare al mare, sono contestatori questi?». «Non ha paura a proclamare queste idee?». «E perché? Uno deve fare la propria scelta di vita. Perché mi devo mettere a fare l’arrabbiato, l’impegnato? Forse perché va di moda? Io non voglio scendere a questi espedienti. Se il pubblico mi vuole, mi deve accettare come sono. Almeno avranno la sicurezza che sono sincero, che non prendo in giro», come disse in un’intervista nel 1971, lo stesso in cui Pablo Neruda vince il Nobel per la Letteratura, lo stesso in cui viene reso noto all’Italia il tentativo di Golpe da parte di Junio Valerio Borghese del dicembre dell’anno precedente. Fa male realizzare. Realizzare che la poesia di un tempo s’è persa nel vento, mentre cadono uno dopo l’altro i punti di riferimento. Tutti. Disincantata, possibile, comica, rasserenante. Versi versati, come lacrime, sorridendo, nel nuovo che avanza e che a forza di avanzare rischia di marcire. Che ti fa, per un po’, dimenticare il mito, quello che ogni tanto vai a ricercare per sentirti sicuro che quel tempo non passerà mai, per sentirti rasserenato e, a suo modo, legato ancora al ricordo proprio di quel tempo meraviglioso. Ma alla fine è giusto così: il cappello del mito è l’eternità. Già elegante ed affascinante di per sé. E l’eternità non si costruisce solo in vita, si sancisce con la morte. Proprio come accade per questo Paese morente, che nella musealizzazione inquietante di se stesso, va a cercare il suo volto da giovane, la sua identità, nel tempo che fu, l’ultima Italia. Che vive nel mito di se stessa. La rende un museo, e ci va tutte le domeniche di crisi. Gli italiani ci portano la famiglia a vedere Craxi, Totò, il Totocalcio, Macario, il mare pulito, il pesce fresco, Pavarotti, le cozze a Taranto mangiate crude, il mondiale ’82, il grande Milan e il Festivalbar. Guarda com’eravamo. Forse saremo eterni, altrimenti, “so’ uccelli aspri. E che vor dì a ispetto’? Che so’ cazzi amari!”

·        3 anni dalla morte di Nicky Hayden.

Nicky Hayden moriva 3 anni fa: la lezione di un campione che piaceva a tutti (e che sapeva battere pure Rossi). Pubblicato giovedì, 21 maggio 2020 su Corriere.it da Alessandro Pasini. Se vi diciamo che Nicky Hayden piaceva a tutti, chi non lo conosceva penserà: ecco la solita retorica di quando qualcuno se ne va. E Nicky se ne è andato a 35 anni il 22 maggio 2017 all’ospedale di Cesena senza essersi più risvegliato dopo che sei giorni prima era stato investito mentre procedeva in bici sulla provinciale Riccione-Tavoleto: non aveva rispettato uno stop, ed è stato travolto proprio a due passi dal circuito di Misano. Facile allora dire adesso che piaceva a tutti, non si fa sempre così? Bé, per Nicholas Patrick Hayden da Owensboro, Kentucky, la storia è differente. Lui infatti, caso più unico che raro, piaceva davvero a tutti. E a ognuno per un buon motivo. Piaceva alle ragazze perché basta vedere le foto.

Piaceva ai motociclisti perché ci dava dentro senza risparmiarsi e sapeva stare in alto anche senza possedere il talento dei predestinati. Forse era perché lo sapeva, e conosceva se stesso, e onorava l’importanza e la potenza delle maniche rimboccate e delle dita sporche di grasso. Nicky era Bruce Springsteen che canta «I’m on fire» e guida la Ford Thunderbird sognando di conquistare la bionda ricca che vive in collina: solo che lui il sogno lo ha realizzato. «A volte non mi sembra vero di essere accostato ai grandi del passato come Spencer, Lawson, Rainey…», ha detto una volta, ma non parlava da falso umile. Semplicemente – così onesto da apparire fuori tempo — constatava una realtà, salvo rivendicare con orgoglio la legittimità della sua più grande vittoria, il Mondiale MotoGp del 2006. Molti sostenevano, e sostengono ancora oggi, che era successo solo perché Rossi era caduto nell’ultima gara di Valencia. Nicky — un grande nel trovarsi lì al momento giusto per colpire a porta vuota — ha sempre replicato col sorriso: «Ragazzi, io questo titolo l’ho meritato. Ricordate che la pista non mente mai».

Piaceva ai giornalisti perché tra un «You kno’», un «brother» e un «I mean» raccontava storie belle di polvere, Midwest, Route 66, America totale: era o non era il Kentucky Kid? Storie di una famiglia dove andavano in moto tutti ma proprio tutti, forse anche il pesce rosso in salotto: «Tutto quello che ha due ruote fa per noi»; di papà Earl che lo seguiva passo a passo per il mondo e gli aveva regalato la passione per il numero 69 sul cupolino, «comodo perché si legge al contrario anche quando cadi»; di Indianapolis giardino di casa e di Laguna Seca villeggiatura felice; di vita leggera, di sorrisi e mai nessuna invidia: «Com’è essere compagni di Valentino? – raccontava ai tempi della Honda —. Figo. E qualche volta ne approfitto con le ragazze. Passano al box, mi chiedono di lui e io dico loro: è qua dietro, vicino al mio motorhome, vieni che te lo presento…». Piaceva alle Case perché era un lavoratore serio, tester indefesso, professionista totale, sempre disponibile alla dura vita di coppia nel box, pure con divinità come Rossi e Stoner: prima in Honda, poi in Ducati, poi di nuovo in Honda, lui faceva il suo senza mai battere ciglio, guidando e cooperando con una ruvida etica del lavoro. Mai sentito nessuno lamentarsi di Nicky. E se lo ha fatto aveva bevuto, o si era visto un altro film. Piaceva agli avversari perché era leale, mai sporco né vendicativo: l’unica volta che si è incazzato sul serio è stato sempre in quell’incredibile 2006 quando Pedrosa in Portogallo lo ha speronato e gli stava per fare perdere il Mondiale che poi avrebbe vinto la gara dopo. Ma, a parte che in quell’occasione si sarebbe incazzato pure Gandhi, anche lì Nicky se la prese con un certo stile e nuovamente ripartì dall’unica strada che conosceva: rimboccarsi le maniche, dimenticare il passato, stare sul presente perché il futuro non potrà che essere migliore.

Piaceva agli sponsor perché era uno di quelli che si chiamano «personaggi positivi» , ragazzi che non se la tirano, comunicativi, trasversali, non finti, mille facce in una – skater o attore, studente o rockstar – e poi simpatico, easy, lontano dai divismi, disincantato come sanno esserlo gli uomini che si conoscono e conoscono la vita, e sanno che alla fine è meglio non prenderla mai troppo sul serio. Piaceva, insomma, a tutti. Un giorno, in una pista qualunque in qualche parte del mondo, raccontò che si considerava il tipo più fortunato del mondo perché faceva la cosa che più amava nella vita. «You kno’, mica capita a tutti, sai?». E poi un sorriso, l’occhio strizzato, pugno contro pugno, e l’espressione che distingue sempre gli uomini veri: «Thanks man». No, grazie a te Nicky. Ci si vede in giro prima o poi.

·        3 anni dalla morte di Paolo Villaggio.

Maurizio Porro per “la Lettura - Corriere della Sera” il 18 maggio 2020. A quasi tre anni dalla morte, Paolo Villaggio (Genova, 30 dicembre 1932-Roma, 3 luglio 2017) è, come tutti i grandi, un presente storico che continua a darci il suo contributo alla tragedia del vivere con quel sense of humour che secondo lui non tutti gli italiani hanno. Esce ora - inseguendo nel catalogo le parole coraggiose di Basaglia, Moro, Mattei, De Sica, Terzani, Jotti, Merlin, Matteotti e altri - un breve libretto-breviario di Villaggio con due interviste speculari: la prima, rilasciata nel '75 alla tv svizzera, pressoché nuova per noi, a ridosso del successo di Fantozzi, dove Villaggio fustiga a suo modo i costumi e ci conferma che il ragioniere Ugo è fra i grandi infelici dei tempi moderni; la seconda, a cura della figlia Elisabetta, è un testo inedito, una chiacchierata dell' ottobre 2006 a tu per tu con il nipote Andreas e quindi più vera, familiare, didascalica. Ecco qui L' uguaglianza con cui Paolo Villaggio ripropone la tragica storia del suo popolare personaggio di travet che riassume, in equilibrio delicato tra reale e surreale, Gogol', I burosauri e i cartoon: resterà nella storia del cinema come Charlot o lo schlemiel , sciocco sfortunato della cultura yiddish. La dimensione civile e il discorso sulla dignità forse non sono state le ragioni immediate del successo della saga di Fantozzi con 500 mila copie dei primi due libri, in cui pochi credevano, cui seguono i primi due film del grande Luciano Salce con tre miliardi di lire nel 1975 e 1976. Ma era ben presente, si vede bene in controluce nella scelta di gag, nevrosi, tic e vizi, quel famoso italiano impiegato schiavo delle mode e sfortunato più di Paperino e Willy il coyote. Villaggio si compiace del successo inaspettato quando trionfavano i western spaghetti e Malizia e ci tiene a quel tragico inserito nella seconda puntata (appunto: Il secondo tragico Fantozzi ), parola poco amata da editori e produttori: «Un successo è sempre corrispondenza felice tra un personaggio e un momento storico e spettatori e lettori si sono tutti identificati in Fantozzi in questo momento tragico: è la risposta italiana ai catastrofici hollywoodiani». Così negli anni di piombo il diario del ragioniere fa ridere gli italiani di ogni censo ed età, ai quali Villaggio insegna che il consumismo non rende felici: «L' uomo crede di esserlo con autostrade, macchine, code, mentre in realtà il mondo in cui è costretto a vivere è un inferno». Villaggio dice che con la crescita dei media i comici durano meno: si è partiti da quelli della miseria, della fame e poi è arrivata la commedia con Sordi «primo antagonista antipatico ma comicissimo del nostro cinema». Qui germoglia l' italiano medio con elettrodomestici, weekend, tennis, utilitaria: perderà sempre «non perché io voglia essere giudice negativo ma perché il nostro momento storico è nevrosi pura e Fantozzi sa che finirà in catastrofe». L' autore, anche paroliere per due pezzi del suo amico De André, parla di Fracchia, dell' autobiografismo latente, del senso dell' iperbole usata affinché l' italiano non potesse riconoscersi subito allo specchio. Villaggio racconta quanto si fosse divertito a fare il cabaret a Milano e la tv, mentre il cinema lo definisce un mestiere meno divertente. Infine va in biblioteca e confessa le sue letture iniziando dalla cotta giovanile per Hemingway, calandosi poi nel mondo di Francis e Zelda Fitzgerald, segue Borges che si porta dietro i sudamericani di successo come García Márquez, infine Bulgakov e «Kafka che sta al vertice della piramide nevrotica» fino alla scoperta di un altro «uomo senza qualità», quello di Musil, mentre non ha il coraggio di affrontare le tremila pagine di Marcel Proust. Al nipote, passati trent' anni da quel boom, confesserà cos' avesse voluto dire scegliere di fare l' attore, mestiere da devianti, «per quelli che non erano riusciti a seguire la strada maestra o a finire l' università. Trovo che fare questo lavoro che non oso neanche chiamare lavoro, sia dovuto a una malattia, a un timore, alla paura di non essere competitivo, di non apparire, di non venire fuori dalla mischia. L' attore si maschera perché non si piace, ma l' appagamento viene solo dalla finzione». Bergman ne sarebbe lieto. Torna fuori il Fantozzi che si nasconde in lui e la teoria romantica dell' attore che vuole entrare in altre vite, che diventa Amleto o Arlecchino, per dimenticare il suo presente. Villaggio teenager scelse come esempio e mito Gary Cooper, ma poi abbassò il tiro e preferì, in anticipo su Woody Allen, Humphrey Bogart: per uscire con le ragazze indossa trench, cappello e sigaretta pendula. «Il vero modello - confessa nonno Paolo - era mio fratello. Somigliava a Ho Chi Minh, era molto comico, ma insegnava matematica alla Normale di Pisa, evidentemente sbagliando mestiere: io ho copiato tutto da lui, che era un pagliaccio senza accorgersene. Una sera lui disse che aveva avuto la fortuna d' avere un gemello come me che guidava il tandem: entrambi abbiamo pensato di essere a rimorchio dell' altro». Il nonno fa davvero il nonno, con l' amarezza saggia che gli spetta, quando dice che i giovani oggi non hanno più fiducia nei valori della cultura e insegna a stare alla larga dalla globalizzazione, una pressione violentissima che provoca una omologazione pazzesca. Qui sorpassa a sinistra Pasolini: «Si diventa tutti uguali, è una specie di vera dittatura». Lo deprime la mancanza di allegria dei giovani, Ibiza gli pare un inferno. Ci sono anche le difficoltà del padre e poi del nonno, com' è ora: «Il nonno ha finito la sua corsa disperata e competitiva al successo, tende a ritirarsi, si guarda indietro, così ha la possibilità di occuparsi veramente di voler bene a quelli che lo circondano». Ma Paolo-Ugo vuole bene anche ai libri, alle città come Londra, ai film, vuole bene a Mark Twain, ai Sette samurai e alla Dolce vita di Fellini, ammira La corazzata Potëmkin che ha irriso, ama Truffaut, Ford, Monicelli, Il segreto del bosco vecchio che ha girato con Olmi, ma abiura García Márquez con i suoi Cent' anni di solitudine . Per il The end confessa che gli piacerebbe vivere in una città anche piccola della nostra meravigliosa provincia, ancora meglio Firenze o Venezia. Ma poi non s' è mai mosso da Roma.

·        3 anni dalla morte di Charles Manson.

Giancarlo Dotto per Dagospia il 30 luglio 2020. Chi era davvero Charles Manson? Luca Buoncristiano prova a dare la sua versione, “Una svastica sul viso” (Ed. El Doctor Sax), a pochi giorni e 51 anni dopo la strage di Cielo Drive, il giorno in cui il feto nella pancia di Sharon Tate non aveva ancora le parole per chiedere pietà o gridare vendetta. Questione di gusti. Ognuno si sfregia come peggio crede. Il nostro Bobby Solo si sfregiava il viso con le lacrime, Charles Manson preferiva le croci naziste (che poi, in realtà, erano induiste). Disegnatore, con lo pseudonimo di Joe Rotto, di un’apocalisse permanente che non ha bisogno del Covid per manifestarsi e scrittore dall’humour assai nero, Buoncristiano è uno che passa la vita a disdire il suo nome e dunque il suo destino calandosi senza protezione nei pozzi irrespirabili delle vite altrui, scambiandoli ogni tanto per sublimi. Dopo aver setacciato tutto quanto, ma proprio tutto, sia mai uscito dall’impresa di demolizione chiamata Carmelo Bene, tende ora l’orecchio allo spasimo per ascoltare il rumore di Charles Manson e delle sue budella miserabili. Mettendo insieme le parole che ha detto e quelle che si è dimenticato o non avrà più il tempo di dire. “Chi è Charles Manson?”. La prima volta che un reporter lo domanda al diretto interessato senza tanti giri di parole, lui dimostra di essere intanto l’unico vero Joker degno di competere con l’originale di Gotham City. “I’m nobody!”. Slacciando ghigni come una scodella rotta e strabuzzando occhiatacce da matto. L’uno, i centomila e soprattutto i nessuno di quell’altro incontenibile buffone sotto mentite spoglie di Pirandello, lui ghiacciato e non per questo meno sinistro nell’obitorio della sua drammaturgia tutta di testa. La differenza è che spuntano svastiche nella fronte di uno e fiori nella bocca dell’altro. Non cambia molto. Manson non ha incrociato Bobby Solo, ma ha incrociato Bobby Beausoleil e peggio o meglio non gli poteva capitare. “Il mio migliore amico”. Forse, l’unico. Un fottuto genio di musicista, “bello come un Al Pacino demoniaco”. Un fratello più che un amico, uno con cui condivideva acidi e rock and roll. Che vuoi di più della vita? Beausoleil accoltellò a morte Gary Hinman per dimostrare cos’è un amico all’amico del cuore. Manson aveva reciso un orecchio a Hinman, che non l’aveva presa bene e anche per questo morì tra le bestemmie. L’altro paradosso del guitto Manson: passato alla storia del crimine come un efferato serial killer, non avendo mai ucciso nessuno. Solo orecchie mozzate e stragi farneticate. In qualche caso, ecco il guaio, preso fin troppo alla lettera dai suoi strafatti seguaci. Chi è Charles Manson, ora che l’incidente di ostinarsi vivo con tutto il suo caleidoscopio da ceffo deforme non costringe più le istituzioni a sotterrarlo vivo? Era un mostro? Sì, lo era. Come tutti i mostri senza fissa dimora, che non fosse una cella, mai amati da nessuno se non qualcuno più mostruoso di loro. Un mostro dalle mille facce. Un prototipo sociopatico del “Sono come tu mi vuoi”, aspettando in silenzio che qualcuno si accorgesse di lui. “Ero un beatnik, non un hippie”. Non era un figlio dei fiori. Lui i fiori li annusava, tutt’al più, per capire se erano commestibili. Più di mezzo secolo in gabbia, tra istituti di correzione, riformatori e galere. La sua storia nel mondo dei reietti inizia in “un pomeriggio di un caldo giorno d’agosto a Cincinnati…” quando la madre Kathleen stufa di scorrazzarlo sull’asfalto cocente, “assetata a morte”, lo vende alla cameriera del bar per due pinte di birra. Salvò poi, rinsavire e rastrellare tutta la città per giorni interi, lei e lo zio, per riportarlo a casa. Povero Charlie. Disgrazia peggiore non gli poteva capitare di una madre sobria. Un feroce assassino? Il ritratto di Buoncristiano in forma di monologo, che importa quanto reale e quanto immaginario, lo fa capire: Manson è il nostro incubo preferito. Dopo essere stato per tanti anni un pezzetto di merda da schivare, a cominciare da chi avrebbe dovuto amarlo. Una rockstar fallita, una specie di lebbroso della vita, un cane bastonato che sbanda e rantola nei recessi del mondo, Manson diventa, a sua insaputa, l’icona unificante e indiscutibile del Male. Quando lo capisce, corregge la croce in svastica e la smorfia in ghigno. Si sotterra nella maschera che gli ha dettato il mondo. Manson non è stato altro che inferno. Non ha conosciuto altro che inferno. Da sociopatico s’è infilato come il peggiore dei virus nel caos poroso dell’amore libero e delle allucinazioni da acido, diventando lui stesso la più estrema delle allucinazioni. Non avendo mai avuto una famiglia (non certo quella subìta da figlio, meno che mai quella negata da marito e padre) sognava di farsene una di adulatori della sua musica. O quanto meno de suoi deliri, dopo che la sua musica fu trattata come carta per pulirsi il culo. Manson è il mostro utile, conclamato e confezionato, che esonera tutti noi dal sospetto di essere parte di lui, che ci scagiona dall’abisso malcelato della nostra doppiezza. (“Io sono solo ciò che vive dentro di voi…”). Nella realtà, ma chi ha la sfrontatezza di guardare in faccia la realtà, era una specie di nano tascabile di un metro e cinquantasette. Se ne stava chiuso in un minuscolo armadietto il giorno in cui lo vennero a cercare e non lo trovavano, perché nessuno poteva immaginare che un uomo si potesse nascondere in quel buco. Probabile che l’inferno di Manson non fosse tanto diverso da quello di Polanski e di tanti altri, solo che Manson non ha conosciuto la confortevole redenzione del talento. Meno che mai il consolante lusso del percepirsi infelice. La svastica sulla fronte è l’unica sua debolezza, l’unica concessione a un cliché mondano, dentro lo spartito di una “musica brutal”. Lo stesso teatro della crudeltà dove tutti ci agitiamo, ognuno sbattendosi a modo suo. “Nella tua trappola ci son caduto anch’io”. Vista da qui, dalla gola profonda di Cocciante, siamo tutti vicini della porta accanto. Tutti nello stesso spartito. Chi è il martire? Chi è il carnefice? Le occhiate bestiali di un Manson in formato demonio non suonano più minacciose delle sdolcinate strofe dell’Alex del Piero in versione querula badessa nello spot di Sky, quando dal suo puff celeste convoca la mandria delle anime belle a sprofondare nella stessa melassa. Solo che l’uno ci fa sapere i suoi polmoni tisici e i denti marci, nemmeno più buoni per masticare gli adorati pop corn, l’altro la sua plastica di alta sartoria. “La bestia vuole essere ingannata” diceva Nietzsche. E forse pensava alla voce di Del Piero.

·        3 anni dalla morte di Tullio De Mauro.

De Mauro, l’addio 3 anni fa  Le parole da curare  e i neologismi 2020. Pubblicato domenica, 05 gennaio 2020 da Corriere.it. Il 5 gennaio 2017, tre anni fa, morì Tullio De Mauro. Ricorda il grande linguista la nuova edizione del progetto Il potere delle parole. La promuove il Fondo De Mauro, presieduto dalla sociologa Chiara Saraceno. È prevista una serie di incontri, al via il 14 gennaio, ai quali parteciperanno Sabino Cassese, giudice emerito della Corte Costituzionale, gli scrittori Hamid Ziarati di origini iraniane, Nicola Brunialti e Christian Raimo, la professoressa Eva Cantarella, il giornalista Rai Antonio Sgobba, l’ex partigiano ultracentenario Bruno Segre. L’obiettivo è ragionare su come cambia il significato dei vocaboli nel tempo, con accademici, intellettuali, rappresentanti del volontariato, del mondo produttivo, delle istituzioni. Tutti gli incontri si svolgeranno in via dell’Arsenale 27 a Torino, dalle 18,30. Ignoranza, libertà, Costituzione, uguaglianza, empatia e resistenza sono le parole al centro della nuova edizione. Ogni ospite si prenderà cura di una parola e poi scriverà un testo che verrà pubblicato nella seconda edizione del Dizionario che cura le parole, edito dal Fondo Tullio de Mauro, con il sostegno dalla Fondazione Crt. Uno strumento destinato soprattutto alle scuole. «Le parole non giacciono morte o mummificate ma si riempiono di sensi per ogni parlante che le usa in produzione o le interpreta in ricezione, o ancora le presenta e ne discute al Fondo che porta il nome di Tullio, che di parole si è sempre occupato», osserva Silvana Ferreri, moglie di Tullio De Mauro. A proposito di come cambia la lingua nel tempo, l’inizio dell’anno è anche un momento per fare il punto sui nuovi vocaboli entrati nei dizionari. Qui - da cisgender, caregiver, ramen a poliamore - i neologismi dello Zingarelli 2020.

·        2 anni dalla morte di Stephen Hawking.

FRANCESCA PIERANTOZZI per il Messaggero il 14 settembre 2020. «Alla fine, avrò vissuto una bella vita», scrisse Stephen Hawking nella sua autobiografia, pubblicata nel 2013 a 76 anni, 5 anni prima di morire e 50 anni dopo la diagnosi di Sla. Sì, fu una vita bella, piena, intensa, anche sentimentalmente, conferma oggi Leonard Mlodinow, suo amico e collega, l'unico forse ad aver condiviso con Stephen lo studio della fisica e le cene in famiglia. Leonard c'era quando Stephen incontrò Jane a 20 anni, c'era quando si innamorarono, quando decisero che si sarebbero sposati anche se la diagnosi della Sla suonò come una sentenza di morte, c'era quando rivoluzionava la cosmologia moderna applicando la fisica quantica all'universo intero, e c'era quando incontrò Elaine dai capelli rosso fuoco, c'era quando litigavano a tavola, c'era quando si lasciarono e quando arrivò la giovanissima Diana. In «Stephen Hawking» un memoir appena uscito in Gran Bretagna per le edizioni Allen Lane, Mlodinow smentisce che il grande fisico pop star, sia stato solo spirito e mente imprigionato su una sedie a rotelle e dentro un sintetizzatore vocale: Stephen «non era un santo» scrive affettuosamente Mlodinow, ricordando come, quando voleva avere ragione, alzasse a tutto volume il suo sintetizzatore vocale per far tacere l'interlocutore. Né rinunciò mai all'amore, non fu «vittima passiva» nelle mani delle infermiere che negli anni si susseguirono al suo fianco. Due di loro dopo Jane, con cui ebbe i tre figli divennero sue compagne. E con entrambe la vita sentimentale fu più tumultuosa di quanto l'iconografia ufficiale abbia potuto lasciar pensare finora. Mlodinow racconta, con pudore e vivacità, l'incontro con Elaine Mason, l'infermiera che cominciò a occuparsi di lui nell'85, quando, dopo la tracheotomia, perse definitivamente la voce. Con Jane era finita, gli era stata accanto per più di vent' anni, occupandosi di lui, studiando con lui, scrivendo con lui, accompagnando la diminuzione del corpo. «Jane aveva finito per annichilirsi, una volta mi disse che non sapeva più chi fosse realmente - scrive Mlodinow Era convinta che l'attività sessuale avrebbe potuto ucciderlo, diceva che ormai aveva il corpo di una vittima dell'olocausto». Ma Stephen non era una vittima. Mlodinow racconta come Stephen non se la prese quando Jane gli annunciò che aveva un nuovo amore, Jonathan Hellyer Jones, il capo del coro della chiesa di Cambridge. Al contrario, chiese discrezione e accolse anche Jonathan in casa, in un ménage che ormai comprendeva i tre figli, Bob, Lucy e Tim e anche Elaine. «La famiglia evolve e deve includere tutti» era l'idea di Stephen. Con Eilane la relazione fu «tempestosa». Mlodinow ricorda come lei fu accusata di maltrattamenti - mai però confermati dalle inchieste - ma che in realtà la love story era fatta di molta passione, di liti e riconciliazioni. «Elaine non si sentì come Jane respinta dalla condizione fisica di Stephen, al contrario, era attratta da lui. Si separò dal marito, amava la forza di Stephen». Si sposarono nel '95. «Di sicuro scrive Mlodinow la loro fu una relazione tempestosa. Un momento era pazzo ti odio, non ti voglio vedere mai più e il minuto dopo era sei l'amore della mia vita, non potrei mai vivere senza di te». Elaine ha confessato di avere scoperto l'amore con Stephen, di non aver mai davvero amato il primo marito. Con Mlodinow, la ex signora Hawking (si separarono nel 2006 quando lui si innamorò di Diana King, un'altra delle sue infermiere, 39 anni più giovane) ammise che «Stephen aveva bisogno di stare sempre al centro dell'universo: questo gli dava energia, amava la gente. Ha avuto una vita dura, ma era incredibilmente coraggioso. Mai, nemmeno una volta, l'ho sentito lamentarsi, ma aveva bisogno di stare al centro, e sì, questo a volte mi pesava, soprattutto quando ero stanca, o quando flirtava con una delle infermiere ma poi passava. È stato il mio unico amore».

·        2 anni dalla morte di Sergio Marchionne.

Due anni fa scompariva Sergio Marchionne, il manager che ha tracciato la rotta di Fca. Pubblicato sabato, 25 luglio 2020 da Luca Piana su La Repubblica.it Il manager di origine abruzzese si spense nell'ospedale di Zurigo il 25 luglio del 2018, dopo 14 anni alla guida del gruppo automobilistico. Ha condotto il Lingotto sulla scena internazionale e gettato di fatto le basi per il prossimo passo: il matrimonio con Psa. Due anni esatti. Era il 25 luglio del 2018 quando la vita di Sergio Marchionne giunse al termine. Era stato ricoverato qualche giorno prima all'ospedale universitario di Zurigo, che in seguitò fece sapere che il manager italo-canadese era già da tempo in cura presso le sue strutture. La scomparsa colse di sorpresa i colleghi di lavoro e lo stesso vertice di Fca, il gruppo automobilistico che il manager guidava da 14 anni e che aveva contribuito a trasformare in maniera profonda, conducendo l'acquisizione della Chrysler e trasformando la Fiat in un'azienda con solide radici in Nord America, il mercato automobilistico più ricco del mondo. Pochi giorni prima, il presidente John Elkann e il consiglio di amministrazione di Fca avevano dovuto correre ai ripari, accelerando un cambio al vertice che era già stato programmato ma non ancora definito nei dettagli. Come amministratore delegato venne scelto Mike Manley, il manager inglese che aveva collaborato a lungo con Marchionne e dato grande impulso allo sviluppo del marchio Jeep. Di tutta corsa fu necessario anche ridisegnare il comando di Ferrari, che Marchionne aveva concordato di conservare anche dopo il cambio della guardia in Fca, restando presidente con poteri operativi. Come amministratore delegato fu scelto Louis Camilleri, mentre lo stesso Elkann assunse la presidenza. In due anni le prospettive del gruppo Fca sono mutate, muovendosi però lungo una direzione che Marchionne aveva contribuito a indicare. Il manager di origine abruzzese (il ritratto), che aveva saputo costruirsi una luminosa carriera prima in Canada, poi in Svizzera dove la famiglia Agnelli l'aveva chiamato a guidare il colosso dei servizi di sicurezza e certificazione Sgs, aveva infatti lavorato a lungo a un ulteriore progetto di crescita di Fca, puntando in maniera particolare sull'americana General Motors. All'epoca le condizioni per l'operazione non si erano create e, così, negli ultimi anni si era dedicato a rafforzare il profilo finanziario di Fca, con l'obiettivo dichiarato (e raggiunto) di arrivare a cancellare l'indebitamento netto del gruppo, proprio per presentarsi a eventuali partner con un profilo più solido. Il matrimonio annunciato a fine 2019 da Fca e dal gruppo francese Psa, che dovrebbe essere portato a termine nel primo trimestre 2021 e dare vita a una nuova holding denominata Stellantis che controllerà tutti i marchi delle due aziende, è il frutto ultimo del lavoro di Marchionne. Il nuovo gruppo sarà il quarto costruttore automobilistico al mondo, con Fca che potrà beneficiare del successo di Psa sul mercato europeo e il gruppo francese dell'importante presenza del partner in Nord America e in Brasile. Marchionne era giunto alla guida di Fca in uno dei momenti più bui della sua storia. Le scomparse prima di Gianni e poi di Umberto Agnelli erano arrivate in un momento di grande debolezza industriale e di incertezza strategica. Il manager aveva iniziato abbandonando la prospettata unione con General Motors, per poi intraprendere un processo di trasformazione continuo, sia a livello industriale, sia finanziario. Forse propio la capacità di intercettare e di dar esecuzione alle attese della comunità finanziaria sono state due delle sue maggiori qualità. Le operazioni che portarono a enucleare dal gruppo sia la Ferrari che il business dei camion e delle macchine agricole di Cnh Industrial diedero grande slancio al titolo, permettendo di superare crisi globali come quella del 2008 e quella del 2011 senza eccessivi traumi, nonostante la necessità di ridisegnare di continuo gli obiettivi industriali del gruppo. Tra le tante testimonianze dell'epoca vale forse la pena di citare quella di Max Warburton, l'analista della banca d'affari Bernstein che seguì Fca nei 14 anni di Marchionne. Il 21 luglio, quando si seppe che le sue condizioni erano gravi e che non sarebbe più tornato al lavoro, Warburton scrisse: "Forse non è universalmente rispettato. Probabilmente lavorare con lui era un inferno. Ma nella comunità finanziaria è chiaro che molti di noi si sentono fortunati per aver potuto osservarlo al lavoro e privilegiati per aver potuto interagire con lui".

 Dagospia il 5 novembre 2020. Il ''Fatto Quotidiano'' pubblica un estratto del nuovo libro di Gad Lerner "L'infedele. Una storia di ribelli e padroni", in libreria da oggi per Feltrinelli. Solo una volta ebbi l'occasione di incontrare personalmente Sergio Marchionne. La Fiat aveva già firmato accordi separati con i sindacati metalmeccanici, isolando la Fiom Cgil. E, perseguendo la medesima logica di rottura, nel 2012 era uscita da Confindustria. Fui invitato a cena al Lingotto da un suo stretto collaboratore che da decenni seguiva con discrezione e competenza le relazioni con la stampa della Fiat. Naturalmente ero compiaciuto che Marchionne volesse fare una chiacchierata con me e, soprattutto, ero curioso. Dunque, nella foresteria, in una sede ormai deserta, ci trovammo solo in tre. Marchionne mi fece molte domande sulla situazione politica e sugli orientamenti della Cgil, che stava vivendo un periodo di forte isolamento. Manifestò un atteggiamento sprezzante nei confronti del ceto imprenditoriale italiano per via dei troppi suoi esponenti (fece i nomi) che si davano alla bella vita campando di rendita. Enfatizzò la mole di lavoro cui si sottoponeva. Ma devo confessare che a spiazzarmi e a rimanermi impressi furono due dettagli di quella cena, peraltro frugale. Il primo fu la quantità di sigarette che Marchionne accendeva e spegneva in continuazione fra una portata e l' altra. Mai avevo visto un fumatore così incallito. Il portacenere di fianco al piatto si riempiva di mozziconi, uno dopo l' altro. All' uscita, il collaboratore che lo accompagnava anche nei frequentissimi spostamenti fra Torino e Detroit mi confidò che il rivestimento interno del jet privato con cui volavano, e in cui giocavano a carte, doveva essere cambiato spesso, perché impregnato di fumo. Ma ancor di più mi impressionò il desiderio manifestato da Marchionne di mostrarmi la scena di un film di Lina Wertmüller, nella quale egli vedeva racchiusa la condizione strutturale dell' Italia e la sua stessa filosofia di vita. Si trattava di Pasqualino Settebellezze, risalente al 1975. Invano, più volte, il cameriere tentò di azionare il videoregistratore già predisposto nella saletta. Tanto che, finita la cena, prima di congedarmi, Marchionne, un po' innervosito dall'inconveniente tecnico, mi condusse nel suo ufficio sottostante dove finalmente il filmato partì. Era una scena terribile. Pasqualino, interpretato da Giancarlo Giannini, prigioniero in un lager nazista, si trovava al cospetto di Hilde, la sadica comandante del campo. Un donnone maturo, cui l' attrice Shirley Stoler donava sembianze che inevitabilmente richiamavano la cancelliera Angela Merkel. Alle sue spalle, un ritratto di Hitler. Sul pavimento, il tappeto con disegnata una svastica. Nelle mani di lei, un frustino. "Ora tu fai amore con me, poi io uccido te con mie mani, hai capito?" Il poveretto si toglieva i pantaloni della divisa da deportato e invano cercava di ottemperare alla prestazione sessuale richiesta. Allora la carceriera gli allungava una ciotola di cibo per dargli l' energia necessaria e, nell' attesa, intonava un canto nazista. Quando poi Pasqualino la spogliava e riusciva a compiere fino in fondo il suo dovere, Hilde finalmente lo ricambiava con accenti di verità sconsolata e crudele: "Tu fai schifo a me, tua voglia di vivere, tuo amore Tu merda subumana mediterranea riesci a trovare la forza per tua erezione di maschio Per questo rimarrete voi, vincerete voi, piccoli vermi vitali senza ideali né idee". Il guappo napoletano Pasqualino sopravvivrà e verrà nominato kapò della baracca 23, ma a condizione di indicare sei prigionieri da eliminare subito, altrimenti verranno sterminati tutti. In quello spietato confronto fra la vitalità mediterranea e la disciplina germanica, Marchionne trovava forse lo spirito di rivincita che lo animava e al tempo stesso lo induceva all' autodistruzione con il fumo. Un' incarnazione dello spirito animale del capitalismo che non avrei mai saputo concepire. Né saprei dire veramente quanto egli si identificasse nel disperato maschio italiano Pasqualino, e quanto invece nella sua altrettanto disperata aguzzina tedesca. Quando morì di cancro, nell' estate del 2018, Sergio Marchionne venne celebrato anche a sinistra come un manager lungimirante che aveva saputo imporre la sua visione del mondo. Dell' enorme ricchezza che aveva accumulato, non sapeva che farsene. Mai se l' è goduta.

·        2 anni dalla morte di Bernardo Bertolucci.

Da “il Messaggero” il 26 luglio 2020. Torna l'appuntamento con Mi ritorni in mente, in cui Massimo Cotto ricorda gli incontri più interessanti della sua carriera di giornalista con le grandi star del mondo dello spettacolo. Dopo Elton John, Mick Jagger, Madonna, David Bowie e Paul McCartney, oggi è la volta di Bernardo Bertolucci. «Non dica sciocchezze e si sieda». Bernardo Bertolucci sorride e mi indica la poltrona. Avevo appena espresso la mia felicità nel trovarmi di fronte a un monumento del cinema. Unico regista italiano ad aver vinto un Oscar per la regia, maestro riconosciuto anche dalle più grandi rockstar. Al suo nome, ho visto Madonna sciogliersi e Patti Smith accendersi. Lo dicevo a Bertolucci e lui rideva. «La smetta, altrimenti mi fa venire l'ansia da prestazione. Io sono molto emotivo, sa?». E mi racconta di quella volta, a Parigi. Ristorante che più chic non si può. Bertolucci sta pranzando. Poco lontano da lui, a un altro tavolo, c'è Jean-Luc Godard, padre della Nouvelle Vague e mito di Bertolucci, perché anche i miti hanno i loro miti. A un certo punto, qualcuno dal tavolo di Godard fa cenno a Bertolucci di avvicinarsi. Bertolucci si alza, è emozionato, forse troppo. «Avevo mangiato troppe ostriche. Insomma, per farla breve, comincio a parlare, cerco di spiegare a Godard quanto sia stato importante per me. E gli vomito addosso. Vomito addosso a Godard». Bertolucci racconta anche di quell'altra volta, da Piperno, storico ristorante nel Ghetto di Roma. Bertolucci esce dal ristorante con Billy Wilder. Ad aspettarli, c'è una vecchia Fiat 500, con alla guida una ragazza che deve accompagnare i due registi a Cinecittà. Wilder si mette davanti, Bertolucci dietro. La ragazza ingrana le marce e parte a scheggia. Guida come una pazza per le strade di Roma. La 500 sembra un maggiolino tutto matto. Wilder, che ha domato Marilyn Monroe e Gloria Swanson, è terrorizzato. Ha le mani sul cruscotto. Suda, ha gli occhi sbarrati. A un certo punto si volta verso la ragazza e chiede: «Quanti ne ammazzi ogni volta che guidi?». E lei: «Meno di quanti ne avete ammazzati voi americani in Vietnam». Beviamo qualcosa mentre un tramonto incredibile incendia Roma. Sono qui per farmi raccontare il suo Sessantotto, dopo l'uscita di The Dreamers, il film che lanciò la carriera di Eva Green. È il 10 ottobre 2003. «Il 68 fu la massima espressione degli anni Sessanta, che non cominciarono il primo gennaio 1960 ma, simbolicamente, con le morti di Marilyn Monroe e John Fitzgerald Kennedy, per terminare ben oltre il tramonto del decennio, nel 1978, con l'uccisione di Aldo Moro. Fu lì che si capì che il sogno era finito. I Sessanta furono scoperta e utopia, meraviglia continua per chi era giovane allora. Si andava a dormire sapendo che ci saremmo svegliati non l'indomani, ma nel futuro. Il futuro, per noi, era credere di poter cambiare il mondo, alimentati dalla fantasia e dalle pulsioni del vivere guardando non solo al nostro fianco, ma avanti. Non basta: non esiste ricordo di un morto durante gli accadimenti del Maggio parigino. Oggi qualsiasi movimento, anche non violento, ha un inciampo violento». Bertolucci rivela un particolare di tutti i suoi film: c'è un'idea di base, ma poi i personaggi quasi si ribellano, scelgono altre strade. «La sceneggiatura è solo una piattaforma di lancio. Esistesse un controllore costretto a bacchettarmi a ogni cambio di passo, avrebbe molto lavoro. La libertà del regista è un dono dell'arte. Mi eccita cogliere al volo le occasioni che un volto, un corpo, una nuova cadenza imprimono alla mia idea. Sangue e carne valgono mille storie sulla carta. Molti anni fa incontrai Jean Renoir a Los Angeles. Stavo allestendo il cast per Novecento. Pochi giorni dopo avrei incontrato De Niro e Depardieu, all'epoca poco più che sconosciuti. Furono loro, indirettamente, a farmi capire che la realtà è davanti alla macchina da presa, non nella sceneggiatura, che è sempre dietro. Un regista deve essere servitore della realtà, non di un'idea, per quanto suadente e meravigliosa». Gli dico che il Sessantotto è uno dei pochi eventi che è soggetto a continue riletture. «Se ripenso a quello che io pensavo fosse il futuro, mi sento ingenuo, forse ridicolo. Ma quelli erano i tempi, quelli eravamo noi. Il 68 non è stato un fallimento. Il nostro modo di porci oggi agli altri, la condizione della donna, i diritti delle minoranze sono stati conquistati nel 68. Il modello di vita di oggi fu disegnato allora. Chi non c'era deve capire, chi c'era deve ricordare. Mi addolora pensare che tutto sia appassito velocemente, per poi rinascere più tardi. Pensi a Ultimo Tango a Parigi. Lo girai nel 1972, solamente quattro anni dopo, ma era già tutto cambiato. Il 68 era iniziazione alla vita anche attraverso il sesso, Ultimo tango è invece Eros e Thanatos, una danza di morte». Bertolucci ha un sorriso disarmante. Gli chiedo di dirmi la prima immagine che gli viene in mente pensando al Maggio parigino. «Il pavé. Si facevano le barricate, con quelle pietre. C'era anche un bellissimo slogan: Sous le pavé, la plage, sotto il pavé, la spiaggia. Che belli, gli slogan di allora: Siate realisti, domandate l'impossibile, Proibito proibire. Il gusto del paradosso è insito nella cultura francese». Il discorso cade brevemente sulla musica. La musica con cui è cresciuto. «Una piccola collezione di 78 giri. Vivevo a cinque chilometri da Parma, con i miei genitori, mio fratello e il nonno. Mi sono nutrito del jazz degli anni Trenta, per poi passare, negli anni Sessanta, a un altro jazz, quello di Miles Davis, Coltrane e Monk. Ho amato anche il melodramma. Ricordo uno dei miei primi amori, naturalmente infelice, che rivivevo con il commento sonoro del Ballo in Maschera o del Trovatore. Senza dimenticare il rock». Poi, si torna alle rivoluzioni. «Una delle ragioni per cui la Storia si ripete è che chi ha vent' anni tende per fattori anche ormonali a ostentare posizioni estreme. A vent' anni non esiste la mediazione, solo l'assoluto. Pensi ai fatti di piazza Tienanmen. Per un mese, gli studenti cinesi hanno attirato l'attenzione dei media , senza essere fermati dalla polizia né dal governo. Il segretario del partito comunista cinese li raggiunse in piazza, il giorno prima del massacro. Lo vidi in televisione, con le lacrime agli occhi, scongiurare i ragazzi di abbandonare la piazza. Diceva: Avete vinto, andatevene. Io domani non riuscirò a fermare l'esercito. Le cose mi stanno sfuggendo di mano. Non lo ascoltarono. A vent' anni non capisci. Gli ormoni non dormono mai e conducono a sublimi, ma terribili errori». Ultima domanda: Bertolucci, lei crede nel destino? «Non più. Seguo il buddismo tibetano. Il destino è la sceneggiatura della nostra vita che ci scriviamo da soli».

Ottavio Fabbri per “Libero quotidiano” il 17 luglio 2020. Parigi, primavera/estate 1972. Ieri sera mi ha telefonato Bertolucci e sapendo che ero di passaggio a Parigi mi ha invitato per questa mattina sul set del suo nuovo film scritto da lui e da Kim Arcalli, caro amico, sceneggiatore e geniale montatore del cinema più raffinato di questi anni. Siamo alla Salle Wagram, magico vecchio luogo di danze, lampioni, di affusolate colonne e segreti sospiri, scelto da Bernardo per iniziare a raccontare il suo “Ultimo tango a Parigi”. «Non è ancora arrivato... oggi ha la prova costumi». Immagino, senza dovere farne il nome, che si tratti di Marlon Brando, protagonista del film dopo il rifiuto di Belmondo e di Alain Delon. La Produzione è la Paramount società acquisita dalla Gulf&Western di Charles Bluhdorn, interessantissimo tycoon austriaco. Appare nella grande sala una piccola sarta, aiuto della bravissima costumista Gitt Magrini. «Dottor Bernardo... c’è di là uno addormentato in sartoria... che? Forse è la controfigura de Brando? Ie assomiglia davvero, dotto’!». Bertolucci si alza di scatto dalla panchetta su cui si era seduto e corre verso il locale adibito a sartoria, io lo seguo velocissimo con una curiosità ancor più forte della sua preoccupazione di non aver ricevuto degnamente la più grande star e leggenda del cinema americano. «What are you doing here! I am so sorry Marlon! Nobody told me that you were waiting! I am terribly sorry!». «Don’t be sorry Bernardo! Arrived very early... I found a seat and I fell asleep... I have still the jet lag, I crashed».

IL MITO. Non oso dare la mano a questo mito che comunque non ci pensa neanche e prende sotto braccio il suo regista iniziando a chiacchierare come vecchi amici. Brando racconta ridendo di una giornalista americana che gli ha chiesto come si fa nella vita a diventare Marlon Brando e lui ha risposto: «Semplice... basta avere la faccia di Marlon Brando». Si ripresenta la piccola sarta con un cappotto di cammello in cui riesce anche ad inciampare. «Bernardo... c’è un casino di là. Che è questo il paltò del dottor Brando?». «Ma no! Questo è il mio!». «Let me try Bernardo! I love it». E se lo infila allacciandosi anche la cintura. «It’s perfect! I will do the movie with this wonderful coat!». Bertolucci ha una momento di intensa sofferenza. «Ok, I like». Il cappotto in cammello di Brando in “Ultimo Tango” rimarrà per sempre una indimenticabile icona del film più controverso della storia del cinema. E Brando non restituirà mai il cappotto al suo regista che ne parlerà ancora per anni come dell’«Ultimo Cappotto a Parigi».

·        2 anni dalla morte di Marco Garofalo.

Marco Garofalo, le cause della morte del coreografo di Amici. Redazione Notizie.it il 17/05/2020. Il 19 aprile 2018 si spegneva a 61 anni Marco Garofalo. Ma quali furono le reali cause della morte del ballerino e coreografo di Amici? Era il 19 aprile del 2018 quando Marco Garofalo, ballerino e coreografo di fama nazionale ma noto soprattutto per essere stato professore di danza moderna nel programma Amici di Maria De Filippi, è venuto a mancare a causa di quello che diverse fonti hanno descritto come “un brutto male“. Nel corso della sua carriera Garofalo aveva lavorato in diversi programmi televisivi Rai e Mediaset, curando personalmente le coreografie e donando quel tocco personale che ha fatto sì venisse ricordato anche dopo la sua scomparsa. Stando ai resoconti pubblicati nei giorni successivi alla morte, Marco Garofalo stava lottando contro un brutto male che lo aveva colpito diverso tempo prima; una malattia che lo avrebbe costretto a combattere duramente durante gli ultimi anni della sua vita ma contro il quale, purtroppo, non è riuscito a vincere. Con la sua morte, Marco Garofalo ha lasciato la moglie Rosa e i due figli Alessio e Clarissa, oltre a decine di ballerine e ballerini che sono rimasti orfani della sua competenza e della sua professionalità artistica.

Dopo aver iniziato a lavorare in televisione come ballerino dagli anni ’70 e come coreografo dal 1989, negli ultimi anni si era concentrato anche sull’insegnamento accettando di diventare professore di danza moderna nel programma Amici di Maria De Filippi per due edizioni consecutive, ritornando in trasmissione per uno stage poco prima della sua scomparsa. La scomparsa di Garofalo suscitò molte reazioni nel mondo della televisione e dello spettacolo, a partire da Stefano Jurgens, che lavoro con lui per diversi anni e che ebbe modo di dire: “Un maestro di danza, un amico, un collega, e anche più. Un abbraccio d’amore a Rosa, ai figli e a tutti coloro che lo amano da sempre. Ciao Marco, il cielo è bello per te”. Garofalo lavorò per lungo tempo anche con Lorella Cuccarini, che poco dopo la scomparsa lo salutò in questo modo: “Eri uno dei più talentuosi. Quanti balletti abbiamo realizzato insieme, quanto sudore, quanti sogni condivisi. Riposa in pace Marco, e salutami Silvio”. Simili commenti si ebbero all’epoca anche da parte del direttore artistico di Amici, Luca Tommassini, che commentò: “Qualche settimana fa ho rivisto Marco dopo tanti anni. Felice di poter lavorare ancora nonostante la malattia. Felice di essere nel cuore di Maria, che non lo ha mai dimenticato. Nessuno potrebbe dimenticare quel ragazzo “pasoliniano”, che ho conosciuto quando avevo 9 anni. Un amico, un maestro. Ciao Marco!”. L’anno successivo alla scomparsa, Garofalo ricevette un omaggio postumo anche dall’ultima trasmissione per cui aveva supervisionato le coreografie, Ciao Darwin, dove durante l’ultima puntata il conduttore Paolo Bonolis lo volle ricordare con queste parole: “Questi ballerini sono tutti figli di Marco Garofalo”. Sui social il figlio Alessio pubblicò all’epoca una bella e toccante immagine che lo ritraeva da piccolo insieme al padre. Ecco le sue parole affettuose: “Orgoglioso di aver avuto un padre come te, un rapporto inspiegabile che nessuno si può immaginare, eri un padre, un amico, un fratello.. sei stato uno dei migliori se non IL MIGLIOR coreografo della televisione italiana ma la cosa che ci legava era il Calcio, la cosa che amavi son da bambino e che ci ha sempre legato sin da quando ero piccolo.. lascerai un vuoto incolmabile ma goditi il viaggio più bello.. ti amo MIO BOSS”.

·        1 anno dalla morte di Karl Lagerfeld.

Karl Lagerfeld, l’erede principale del suo patrimonio è Baptiste Giabiconi. Pubblicato martedì, 25 febbraio 2020 su Corriere.it da Francesco Tortora. Non sarà la gatta Choupette a ereditare l'intero patrimonio (valutato 170 milioni di euro) di Karl Lagerfeld. A un anno dalla morte del celebre stilista tedesco, il modello Baptiste Giabiconi ha smentito le ipotesi formulate al tempo dai media e ha confessato di essere «l'erede principale» della fortuna accumulata dal mitico designer di Chanel. 

L’eredità. Giabiconi ha rilasciato un'intervista al programma francese «Sept à Huit» e ha presentato il libro «Karl e moi», in uscita nelle librerie francesi il 27 febbraio. Secondo il modello saranno 7 gli eredi principali di Karl Lagerfeld, scomparso nel 2019 a 86 anni per un tumore alla prostata. Il 30enne non ha specificato a quanto ammonta la ricchezza che riceverà: «Ci sono sette eredi principali di Karl Lagerfeld — ha dichiarato —. Nell'elenco, sono quello che otterrà la cifra maggiore. Sono dunque il primo erede». Lo stilista ha lasciato una parte delle sue ricchezze a Françoise, la tata che tuttora si prende cura della sua gatta Choupette. «Karl ha adottato tutte le misure per assicurarsi che Choupette fosse al sicuro, fino alla fine» ha spiegato Giabiconi. Le identità delle altre persone che beneficeranno dell'eredità non sono state rivelate.

Una relazione filiale. Infine, Giabiconi è tornato anche sulla sua decennale relazione con Lagerfeld, descrivendola come «un rapporto filiale» e smentendo di essere stato il suo amante: «È stata una relazione padre-figlio molto forte — ha precisato —. Un amore che non può essere descritto. Non c'è mai stato nulla, non c'è mai stata l'ombra di un'ambiguità». Giabiconi ha anche dichiarato che Lagerfeld avesse persino pensato di adottarlo: «Karl mi ha sempre detto “Non c'è amore nella vita, ci sono solo prove d'amore”. Voleva proteggermi, rassicurare anche me. Non preoccuparti Baptiste, mi diceva. Sarai al sicuro. Mi manca perché mi sentivo come se stessi imparando tanto da lui, soprattutto nel conoscere la vita. Ma è già meraviglioso avere trascorso più di dieci anni al suo fianco».

Baptiste Giabiconi. «Grazie a Karl Legerfeld ho imparato tutto. Per ore in silenzio osservandolo lavorare». Pubblicato martedì, 25 febbraio 2020 su Corriere.it da Gian Luca Bauzano. Di seguito il testo della prima intervista rilasciata da Baptiste Giabiconi a Parigi subito dopo la scomparsa del grande stilista Karl Lagerfeld e pubblicata da 7 sul numero del 10 maggio 2019. La folta chioma di Baptiste, l’adolescente di Marsiglia, alle prime armi nel mondo della moda che incontra nel 2008 lo stilista mito Karl Lagerfeld, ora ha lasciato il posto a un taglio di capelli militare. Identifica il Baptiste Giabiconi giovane uomo: 30 anni il prossimo 9 novembre, parte inscindibile per più di un decennio della quotidianità di kaiser Karl. I media così avevano ribattezzato Lagerfeld, scomparso lo scorso febbraio, artefice della rinascita di Chanel e Fendi. Re Mida di ogni progetto in cui compariva il suo nome. Giabiconi e Lagerfeld sono stati legati da quella che la poetica Romantica avrebbe definito corrispondenza d’amorosi sensi. Ma intrisa di energia, come di un fuoco. «Il nostro? Un rapporto basato su uno scambio reciproco. Guardandoci capivamo tutto l’uno dell’altro. Ardeva come qualcosa dentro. In maniera intima e profonda», rivela Giabiconi. «Da Karl ho imparato tutto. Anche a non sentirmi ferito da ciò che veniva pubblicato o detto su di noi. È stato il mio Pigmalione». Viceversa? «Non voglio sembrare presuntuoso. Mi ripeteva: “La tua presenza mi ha portato e continua a regalarmi serenità». Baptiste, angelo custode dallo sguardo malandrino, grazie a Lagerfeld si è trasformato in modello e cantante di successo; all’attivo passerelle e campagne griffate: da Chanel a Fendi, a Dior; star maschile del Calendario Pirelli 2011. Il giorno dell’incontro con l’angelo custode di kaiser Karl, Parigi sembra ancora dolersi della recente perdita dello stilista. La pioggia batte violenta sulle finestre della suite dell’Hotel Regina affacciata sulle Tuileries. Immerse come la Tour Eiffel in lontananza in una vaporosa nebbia. Baptiste, mentre parla, svela il suo segreto: il sorriso. Solare e carico di energia. Si illumina, gli occhi scuri sono mobili. Scivola veloce a un ricordo della loro matura quotidianità. «Trascorrevamo assieme ogni momento. Anche se a Parigi abitavamo in case differenti: Karl in Quai Voltaire 17, io dietro il suo palazzo, tra Rue Lille e Rue des Saints-Pères. Mi chiedeva di stare al suo fianco quando creava. Voleva solo me». Lo accudiva? «Al contrario. Stavo seduto nella stanza dove lavorava. In silenzio, leggendo. Ore e ore. Lo osservavo. La mia presenza gli dava energia». Come accadde un’estate a Saint-Tropez. «Trascorreva l’agosto sulla Costa Azzurra a La Ramatuelle. Era in crisi. La collezione non decollava. Lo raggiunsi. Nel giro di un paio di giorni la collezione fatta. Mi ringraziò: “È stata la tua presenza”. Ho imparato molto da quelle giornate silenziose». Come? «Osservandolo. Il suo modo di fare, di essere. Mi sono entrati dentro. Quanto devo poi ai suoi racconti. In viaggio o mentre passeggiavamo. Mi descriveva i luoghi visitati, le persone eccezionali conosciute. Lezioni di vita. Non ho studiato molto, ma Karl è stato la migliore università potessi mai desiderare». Un rapporto in crescendo, la narrazione di successi condivisi e sfide superate. Iniziato quasi per caso. Giabiconi, genitori corsi, due sorelle più grandi, nasce nel 1989 a Marignane, la patria degli elicotteri. Mentre studia e lavora come meccanico elicotterista, si impegna anche a rendere tonico e statuario il fisico adolescenziale. Scatta un essenziale book fotografico. Ma le immagini gli fanno guadagnare nel 2008 un servizio sul magazine italiano Slurp. Colpisce Lagerfeld. «In quel periodo Karl cercava un giovane modello per la campagna della sua collezione (nel 2006 lo stilista lancia la linea K Karl Lagerfeld ndr). Cercava un ragazzo che lo ricordasse quando era giovane. Andai a Parigi. Ci incontrammo. Mi scelse. Poi mi volle per un servizio sulla rivista Numéro. Un’empatia immediata. Mi propose di raggiungerlo a Parigi. Di restare al suo fianco. Mi chiese di dargli del tu. Ero l’unico». Non si spaventò, non ebbe paura? «Non mi feci molte domande. Un’occasione unica. Non potevo perderla. Ma la affrontai pensando solo di mettermi alla prova». Baptiste ne parla con la madre («Le dispiaceva andassi via, ma avevo 19 anni e la vita davanti»), gli dà il consenso. Inizia l’avventura al fianco di kaiser Karl. Nel giro di un triennio entra a far parte dello star system fashion: servizi su magazine patinati illustri da Vogue ad Harper’s Bazaar; campagne al fianco di Kate Moss (Just Cavalli) e Coco Rocha (Coca-Cola Light). Eletto da Lagerfeld star maschile di The Cal 2011: darà volto e corpo a contemporanee divinità mitologiche, sarà Apollo e Narciso. E sul corpo non aveva ancora tutti i tatuaggi che ora lo decorano. «Rappresentano cose che amo, momenti importanti: ho una civetta, una divinità greca e una preghiera. Sulla mano destra le note della melodia del mio primo singolo». Giabiconi con i suoi due album Oxygen e Un Homme Libre riceve altrettanti dischi d’oro. Partecipa pure alla seconda edizione francese di Ballando con le stelle: Lagerfeld («Ottimo ballerino di tango argentino»), per vederlo danzare ogni sabato in tv, chiudeva prima l’atelier di Chanel; ogni settimana gli faceva trovare il camerino invaso dai bouquet di Lachaume, il più costoso fiorista parigino. «Ogni nuovo progetto, ogni proposta la condividevo con lui. Mi aiutava a prendere le decisioni giuste. Mi ha messo in grado di camminare da solo ora che non c’è più. Anche a livello economico. Mi ha consigliato negli investimenti. E oggi sono sereno». Certo che senza di lei, Lagerfeld non avrebbe mai incontrato l’altro grande amore della sua vita: la gattina Choupette, il più bel regalo che poteva fargli. «In realtà fu quasi un rapimento», replica. Poi sorride. Rapimento? «Choupette era stato il regalo per il mio compleanno nel 2011. Ho sempre adorato i gatti sacri di Birmania. Un amico mi fece la sorpresa». Poi fu Karl a farla a Baptiste. Giabiconi deve tornare in famiglia per le vacanze di Natale; chiede a Lagerfeld se può fare da baby sitter al micio. Lo stilista nicchia, poi accetta. «I primi giorni mi aggiornava. Poi il nulla. Mi spaventai». Poi quando rientra a Parigi scopre che Lagerfeld si è innamorato di Choupette («Pensi, non gli piaceva neppure il nome. Lo trovava ridicolo»). Non vuole restituirgliela. Alla fine cede. Forti attriti. Si rischia la frattura tra i due. «Karl divenne malinconico. Capii che ci teneva davvero. Dopo qualche settimana mi presentai con Choupette in braccio. Gli dissi: “La amo molto. Ma voglio stia con te. Ho visto quanta gioia ti dà. Sarà come avere una parte di me al tuo fianco”. Karl si illuminò. Mi ripeté infinite volte che era il più bel regalo che potessi fargli». Choupette da quel momento è diventata una star milionaria. Oggi vive con due governanti, le sono a fianco da anni. «Ho ricevuto la notizia della scomparsa di Karl al telefono. Ero a Londra. Sconvolto. Le ultime settimane mi aveva chiesto di restare solo. Voleva essere ricordato al meglio. Ma il mio di ricordo, nel cuore, resta il suo sguardo. Dolce e gentile. Lo nascondeva dietro le lenti scure. Non voleva apparire fragile. Ma la sua generosità e umanità lo facevano e lo renderanno per sempre un grande».

·        1 anno dalla morte di Jeffrey Epstein.

Epstein, un anno di misteri. Matteo Carnieletto il 10 agosto 2020 su Inside Over. Questa è una storia da percorrere a ritroso. À rebours: indietro e allo stesso tempo controcorrente, come il libro di Joris-Karl Huysmans. Dobbiamo muoverci nell’ombra del dubbio e della miseria umana, un misto di violenza e abusi. E pure di una morte – quella di Jeffrey Epstein – ancora avvolta nel mistero. È il 10 agosto di un anno fa, quando le agenzie battono la notizia della morte di 76318-054 (è questo il numero identificativo scritto sulla tuta arancione di Epstein). Si tratta di un suicidio, si affrettano a dire dal carcere che lo ospita, il Metropolitan Correctional Center di Manhattan. Ed è la cosa più logica. Solamente qualche settimana prima (23 luglio), infatti, il miliardario americano aveva cercato di ammazzarsi ed era stato trovato privo di sensi nella sua cella. Al secondo tentativo, Epstein riesce a farcela. Con le poche cose che ha attorno, crea una corda rudimentale, se la stringe attorno al collo e lascia che il cappio faccia il resto. Sono momenti che si fatica anche ad immaginare: la pressione sul collo, prima leggera, si fa sempre più pesante. Il respiro inizia a mancare e il volto di quell’uomo un tempo così potente diventa sempre più scuro. I piedi scalciano. Gli ultimi pensieri sono sempre più confusi. Manca l’ossigeno, il collo comincia a cedere. Forse arriva il pentimento, se non dei crimini, almeno di aver deciso di ammazzarsi in questo modo. Perché? Gli occhi si chiudono, il corpo sussulta. Il collo cede. Poi tutto si ferma. Per sempre. Potrebbero esser andati così gli ultimi momenti di vita di Epstein. Potrebbero esser stati questi gli ultimi istanti di vita dell’amico dei presidenti Usa. Dobbiamo però dare per scontato che si sia trattato di un suicidio e non abbiamo alcuna certezza in merito. Solo la versione fornita dalle istituzioni americane. Erano in molti a volere morto Epstein. Sapeva troppo, aveva troppe prove. In poche parole, era pericoloso. Sono molte, però, le cose che non tornano in quella notte di un anno fa. Troppe, forse.

L’arresto di Jeffrey Epstein. Quando viene arrestato, il 6 luglio del 2019, Epstein crede di farla franca, ancora una volta. L’accusa è pesantissima – traffico di minori – ma non è nuova. Nel 2005, infatti, la polizia di Palm Beach inizia ad indagare su di lui, in seguito alla denuncia di un genitore di una 14enne che lo aveva accusato di molestie. È solamente la punta dell’iceberg. Gli investigatori trovano altre 36 ragazze di soli 14 anni che erano state molestate da lui. Il miliardario ammette le sue colpe e, nel 2008, viene condannato a 18 mesi di custodia con rilascio per lavoro. Un modo un po’ complicato per dire che verrà trattato coi guanti, tanto che qualche mese dopo sarà già in semi libertà. Il 1° luglio, in un’intervista concessa al New York Times, Epstein si paragona a Gulliver, la cui “giocosità” con i lillipuziani aveva provocato “conseguenze indesiderate”, come ricorda James Patterson in Sporco ricco (Chiarelettere). “È quel che accade con la ricchezza. Porta benefici, ma anche oneri imprevisti”, disse. Il 13 luglio, dopo aver scontato poco più di due terzi della condanna, Epstein torna libero. E, ricorda Patterson, esce dal carcere di Palm Beach nello stesso modo in cui era entrato: in limousine. Quando viene arrestato per la seconda volta, Epstein è tranquillo. La trafila, pensa, sarà la stessa. Qualche giorno in carcere, qualche interrogatorio, e poi, ungendo gli ingranaggi giusti, la libertà. Ma questa volta qualcosa va storto. Jeffrey sapeva che prima o poi sarebbe tornato in cella, tanto che si era fatto realizzare un murale a tema carcerario al secondo piano della sua casa di New York: Quello sono io. Mi sono fatto dipingere così perché c’è sempre la possibilità che mi capiti di nuovo. Così fu. Subito dopo l’arresto, l’Fbi perquisisce la casa di Epstein a Manhattan, una reggia da 77 milioni di dollari. La ribalta. Vengono trovate “centinaia di fotografie sessualmente suggestive di donne completamente o parzialmente nude”. Alcune di queste sarebbero minorenni. La cassaforte viene aperta e gli agenti trovano diversi compact disc, oltre a 70mila dollari in contanti, una pistola, 48 diamanti e un finto passaporto austriaco, con timbri di entrata e di uscita.

Il mistero sulla sua morte. In quello stesso giorno (l’8 luglio) i pubblici ministeri dell’Unità di corruzione pubblica del distretto ministeriale di New York lo accusano ufficialmente. Gli avvocati di Epstein tentano la carta della cauzione. Offrono una cifra esagerata – 600 milioni di obbligazioni – pur di mandarlo ai domiciliari. Ma non c’è nulla da fare. Il giudice distrettuale, Richard M. Berman, respinge la proposta (18 luglio). Jeffrey resta in cella e il 23 luglio si registra un primo fatto insolito, come scrive Patterson nel libro citato: “Epstein fu trovato rannicchiato sul pavimento della cella, in stato di semi-incoscienza e con il collo coperto di lividi. La direzione del carcere lo sottopose a sorveglianza speciale in attesa che un’indagine chiarisse se le lesioni erano il risultato di un tentativo di suicidio o di un’aggressione da parte di Tartaglione (il suo compagno di cella, Ndr)”.

Suicidio o aggressione? Nessuno lo sa con certezza. Ma, invece di controllarlo con più attenzione, Epstein viene depennato dall’elenco dei detenuti ritenuti a rischio suicidio. La sorveglianza su di lui si fa quindi più blanda, da permanente a ogni trenta minuti. Gli agenti arrivano, danno un’occhiata fugace e poi passano oltre. Questo cambiamento, però, si rivelerà fatale. Il giorno in cui viene trovato morto, infatti, ci sono 18 secondini – di cui due dedicati solamente a lui – per 710 detenuti. I due, però, si addormentano. Entrambi crollano sotto i colpi del sonno, lasciando che il miliardario si suicidi indisturbato. O, possiamo solamente ipotizzare, che qualcuno lo ammazzi. Perché le videocamere che quella notte vegliavano sulla sua camera non funzionano. O meglio: i pochi filmati che registrano sono inutilizzabili. Un vuoto che oggi potrebbe aiutarci a capire cosa è realmente accaduto in quella notte. Ma che forse non sapremo mai. Un altro vuoto, l’ennesimo, in questa storia.

L’uomo che sussurrava ai potenti. C’è un’immagine che, più di tutte, spiega il rapporto tra Epstein e i suoi (veri o presunti) amici. Un quadro che ritrae Bill Clinton mentre indossa un abito blu da donna, simile a quello usato da Monica Lewinsky ai tempi del Sexgate, e un paio di scarpe rosse col tacco. L’ex presidente americano, coi capelli un po’ cotonati e le guance rossicce, indica, un po’ ammiccante, chi gli sta davanti. Una sorta di “Zia Sam”. I want you, voglio te. Epstein teneva questo dipinto in bella vista nella sua casa di Manhattan. Si tratta di un’opera realizzata da Petrina Ryan-Kleid e intitolata Parsing Bill. Non sappiamo se quella del miliardario americano sia l’originale oppure una stampa, ma certifica bene il rapporto tra i due. Tra il faccendiere e l’ex presidente. Un rapporto molto più stretto rispetto a quanto affermato da Bill. Chi passava davanti al quadro sorrideva pensando all’amicizia tra i due. E alla strafottenza di Epstein.

“Jeffrey – disse una volta Clinton attraverso un portavoce, come ricorda Patterson – è al tempo stesso un finanziere di enorme successo e un autentico filantropo, con un’acuta comprensione dei mercati globali e una conoscenza approfondita della scienza del XXI secolo”. I due viaggiano insieme, anche su quello che verrà chiamato Lolita Express, l’aereo privato di Epstein su cui si sarebbero consumate tante violenze. Secondo quanto affermato da Virginia Giuffre, una delle accusatrici di Epstein, l’ex presidente americano sarebbe stato anche sull’isola privata del magnate: “Era accompagnato da due ragazze molto giovani di New York. Epstein disse con una risata: ‘Bill mi deve dei favori’. Non ho mai saputo se dicesse sul serio o se fosse una battuta. Aggiunse: ‘Tutti mi devono dei favori'”. Già, ma chi erano quei tutti? Certamente, il principe Andrea. I due vengono fotografati per la prima volta insieme nel 2010, dopo il primo arresto del magnate americano, mentre passeggiano per Central Park a New York. Pochi mesi dopo, nel 2011, cominciano a piovere dure critiche su questa amicizia. Molti chiedono che il principe si ritiri, che non agisca più per conto della corona. Ma ci vorranno anni prima che ciò avvenga e il Duca di York continuerà a frequentare Epstein a lungo. La sua principale accusatrice, Virginia Roberts Giuffre, si ricorda bene delle molestie del principe:

Il mio lavoro era intrattenerlo a oltranza, dal prestargli tutto il mio corpo durante un massaggio erotico o magari lasciare che mi salisse sulla schiena per cavalcarmi. I racconti forniti dalla Giuffre, all’epoca 17enne, sono molti. E molti sono scabrosi. Dopo la morte di Epstein, appare sempre più chiaro che qualcosa, nel suo rapporto con il principe Andrea, non andava tanto che la regina Elisabetta II, giocando d’anticipo (se di anticipo si può parlare dopo dieci anni dall’inizio di questa storia) decide di allontanarlo dagli eventi e dai compiti ufficiali della Corona. Sono molti i nomi che, nel corso degli anni, si sono affiancati al miliardario americano. È l’agosto del 2009 e Alfredo Rodriguez, ex domestico di Epstein, deve fare i conti con la legge. Cerca una soluzione per uscirne nel modo migliore e afferma di esser stato licenziato perché aveva denunciato al 911 la macchina di una delle tante massaggiatrici di Epstein. Un’onta nei confronti del sovrano di Palm Beach. Rodriguez sa di essersi scoperto. Sa che nessuno lo farà più lavorare e così si cerca un’assicurazione rubando tutti i documenti che gli capitano a tiro: “Le carte – scrive Patterson – riportavano i nomi di ragazze minorenni e i luoghi in cui Epstein le aveva portate. L’elenco comprendeva varie località della California, Parigi, New Mexico, New York e Michigan. E i nomi, gli indirizzi e i numeri di telefono di uomini molto in vista, tra i quali Henry Kissinger, Mick Jagger, Dustin Hoffman, Ralph Fiennes, David Koch, Ted Kennedy, Donald Trump, Bill Richardson, Bill Clinton e l’ex primo ministro israeliano Ehud Barak“. Una piccola parte degli amici di Jeffrey. Aveva troppi segreti, Epstein. Forse ha fatto in tempo ad affidarli alla sua socia, Ghislaine Maxwell, anche lei arrestata solo di recente. Molti temono possa fare la stessa fine di Jeffrey, di quell’Icaro con la passione per i massaggi, come disse in un’intervista del 2007. Anche lui, credendosi al di sopra di tutto, è finito bruciato. Insieme ai suoi tanti segreti.

Il caso Jeffrey Epstein. Roberto Vivaldelli il 10 luglio 2020 su Inside Over. “Investo nelle persone, che si tratti di politica o scienza. È quello che faccio”. Un finanziere, perfettamente inserito nell’élite e nei circoli più esclusivi degli Stati Uniti. Amico di politici, imprenditori, attori, registi, perfino di un membro della famiglia reale inglese (il principe Andrea). Chi era, davvero, Jeffrey Edward Epstein, il magnate morto all’età di 66 anni per un apparente suicidio il 10 agosto 2019 nel carcere di New York, il Metropolitan Correctional Center, dove era detenuto in attesa di essere processato per le accuse di abusi sessuali su minori, sfruttamento della prostituzione e traffico minorile? Jeffrey Epstein è nato il 20 gennaio 1953 a Brooklyn, New York. Sua madre, Pauline, lavorava part-time come assistente a scuola, e suo padre, Seymour, era un guardiano del Dipartimento dei Parchi divertimento di New York City. Una famiglia umile, appartenente alla classe media americana. Ma Jeffrey Epstein seppe subito farsi notare diplomandosi brillantemente alla Lafayette High School di Brooklyn all’età di 16 anni. Sebbene si iscrisse alla Cooper Union e successivamente alla New York University nei primi anni ’70, non riuscì a conseguire una laurea in nessuna delle due università. Malgrado ciò, ottenne un lavoro come insegnante di fisica presso la Dalton School, una scuola situata nell’Upper East Side, nel 1974. Tuttavia, il suo impiego fu di breve durata: fu licenziato due anni dopo per “scarso rendimento”.

La carriera finanziaria. Prima che Jeffrey Epstein lasciasse il suo lavoro di insegnante presso la Dalton School, stabilì un legame importante con Alan Greenberg, CEO di Bear Stearns, genitore di uno dei suoi studenti. Colpito dall’intelligenze di Epstein e dalle capacità dello stesso con i numeri e i calco matematici, Greenberg gli diede un lavoro come assistente a Bear Stearns nel 1976. Nel 1981 Epstein lasciò Bear Stearns e fondò la sua società di consulenza finanziaria, Intercontinental Assets Group Inc (IAG). Nel 1988 Epstein fondò J. Epstein & Company (che in seguito sarebbe stata ribattezzata Financial Trust Company), una società che si occupava di gestire i soldi dei milionari. Fu durante questo periodo che divenne consulente finanziario del miliardario Leslie Wexner, l’amministratore delegato di L Brands e Victoria’s Secret. A partire dalla metà degli anni ’90, trasferì la sua compagnia nelle Isole Vergini americane per evitare di pagare le tasse. All’inizio degli anni 2000, cominciò a investire in hedge fund e startup. Nello stesso periodo ha creato la sua organizzazione no profit, la Jeffrey Epstein VI Foundation, donando milioni di dollari come l’Università di Harvard. Nel 1992, Epstein era il proprietario ufficiale della più grande residenza privata a Manhattan. In seguito acquistò immobili a Parigi, Miami, New Mexico e l’intera isola di Little St. James nelle Isole Vergini americane. Divenne amico di moltissime celebrità e uomini potentissimi, tra i quali Bill Clinton, Donald Trump, Bill Gates, Kevin Spacey, Woody Allen e il Principe Andrea. 

Le accuse e il patteggiamento. Ma non c’era solo la finanza nel mondo di Jeffrey Epstein. Insieme alla sua complice Ghislaine Maxwell, infatti, era al vertice di una vera e propria piramide della prostituzione e del traffico di minori chiamate a soddisfare le perversioni del finanziere e dell’élite che frequentava. Nel 2005 i genitori di una ragazza di 14 anni dissero alle autorità di Palm Beach, in Florida, che Epstein aveva abusato sessualmente della figlia. Sebbene le indagini alla fine abbiano scoperto dozzine giovani donne e minori che sarebbero state presumibilmente abusate sessualmente da Epstein, alla fine venne accusato “solo” di istigazione alla prostituzione e induzione alla prostituzione minorile. Dopo che l’indagine passò all’FBI, nel 2007 gli avvocati di Epstein riuscirono a patteggiare un accordo segreto con il sostituto procuratore Alexander Acosta, che garanti al finanziere l’immunità su tutti i reati federali. “È stato l’unico caso, nella mia carriera, nel quale non mi sono sentito in grado di proteggere le vittime” ha rivelato l’ex capo della polizia di Palm Beach nel documentario targato Netflix Epstein: soldi potere e perversione. “A Epstein – ha sottolineato l’avvocato delle vittime del finanziere, Jack Scarola – era stata concessa l’immunità contro tutte le accuse federali, sia per sé che per i suoi complici, conosciuti e non. Per me è inspiegabile come un pubblico ministero possa aver accettato un patteggiamento del genere. In 45 anni di pratica non ho mai visto nulla del genere”. Epstein finì per scontare una pena detentiva di appena 13 mesi, durante la quale, secondo quanto riferito, gli fu permesso di lasciare la prigione sei giorni alla settimana per lavorare fuori dal suo ufficio di Palm Beach. In un’intervista rilasciata al giornalista George Rush, Jeffrey Epstein dichiarò: “In realtà, la mia pena è stata più dura, più dura di chiunque altro accusato di istigazione alla prostituzione. Innanzitutto, non sono mai uscito di casa. Le ragazze che venivano a casa mia venivano per guadagnare soldi. A New York, tra l’altro, per la stessa accusa, la pena è una multa di 100 dollari. Ho avuto due capi d’accusa, uno era istigazione alla prostituzione. Niente a che fare con i minori. L’altra accusa legata a una minorenne era induzione della prostituzione minorile. Nessuna accusa si riferiva a rapporti sessuali effettivi”.

2018, nuove grane giudiziarie. Nel 2018, il Miami Herald rivelò che Jeffrey Epstein pagava ragazze minorenni al fine di ottenere massaggi e altre prestazioni sessuali, offrendo loro denaro per reclutare altre ragazze. Joseph Recarey, il principale detective di Palm Beach sul caso, spiegò Epstein aveva messo in piedi uno schema piramidale sessuale. Brown e l’Herald identificarono circa 80 donne che sostenevano di essere state molestate o abusate sessualmente da Epstein ma il finanziere si giustificò spiegando che le ragazze erano tutte consenzienti e che avevano mentito sulla loro età. Il magnate venne poi perseguito dal distretto meridionale di New York, il quale sosteneva che gli abusi di Epstein nei confronti delle ragazze minorenni fossero avvenuti nelle sue abitazioni di Manhattan e in Florida Jeffrey Epstein fu accusato di abusi sessuali e di traffico internazionale di minori l’8 luglio 2018. Nell’accusa, i pubblici ministeri affermarono che il finanziere aveva molestato ragazze di appena 14 anni dal 2002 al 2005. Epstein si dichiarò non colpevole. Il giudice distrettuale americano Richard Berman si oppose alla richiesta di cauzione avanzata dai suoi legali spiegando che Epstein rappresentava un pericolo per sé e per gli altri e quindi non doveva essere rilasciato.

La testimonianza di Virginia Giuffre. IlGiornale.it ha riportato la testimonianza di Virginia Giuffre, una delle più note accusatrici di Epstein e del Principe Andrea. “Indossavo la mia divisa bianca sexy – una minigonna bianca e una polo bianca attillata – e studiavo un libro di anatomia quando mi ha avvicinato questa sorprendente donna di circa 40 anni con un accento inglese molto corretto”, ha raccontato Virginia Giuffre in una intervista del 2015 al Daily Mail. Scatta così la trappola: la donna le chiede se vuole fare la massaggiatrice per un miliardario molto famoso: Epstein, appunto. La ragazza accetta. E inizia l’incubo. Virginia entra nella villa di Palm Beach del miliardario e, subito, nota che la scala è arredata con diverse foto di giovani ragazze nude. Ma non solo. Secondo quanto riferisce lo stesso Daily Mail, la ragazza sarebbe stata fotografata di nascosto mentre era nuda. Un’altra donna la porta nella camera di Epstein e poi nella stanza dei massaggi. Il miliardario è steso – completamente nudo – a pancia in su. Comincia a farle delle domande: dove abitava e cosa faceva per vivere. Sembra voler diventare suo amico. Ma non è così. Virginia è debole, gli confessa di aver preso dell’ectsasy e lui prontamente risponde: “Quindi sei una cattiva ragazza nel corpo di una brava”. La donna che ha accompagnato la ragazza le fornisce istruzioni precise e così Virginia si mette l’olio sulle mani. Ma poi è la donna a muoversi: anzi, a spogliarsi. “Si tolse la camicia e iniziò a strofinarsi il seno su Jeffrey e mi disse di togliermi i vestiti. Ha fatto sesso con me e la donna mi ha accarezzato. E io pensavo: ‘Questo è sbagliato. Questo non è un massaggio legittimo’”. Poi la donna dà 200 dollari a Virginia e le fa i complimenti, invitandola a tornare il giorno successivo. E così la giovane entra non solo nella vita di Epstein ma in un vero e proprio girone degli orrori che si sarebbero verificati anche a bordo del suo Boeing 727, rinominato “Lolita Express” su cui salì – tra gli altri – anche l’ex presidente americano Bill Clinton.

La morte: suicidio oppure omicidio? Secondo la versione ufficiale, il 10 agosto 2019 Jeffrey Epstein si è suicidato presso il carcere Metropolitan Correctional Center di New York, impiccandosi, dopo aver passato un mese in carcere in seguito alle accuse di abusi sessuali e traffico di minori. Il 24 luglio tentò di suicidarsi ma venne salvato quasi per miracolo. Ci sono però alcune cose che non tornano in questa versione. La prima: il milionario avrebbe confidato alle guardie del carcere che qualcuno stava cercando di ucciderlo. A rivelarlo una fonte interna dell’istituto penitenziario che ha poi passato le informazioni al Daily Mail. La stessa fonte aveva incontrato il milionario caduto in disgrazia in varie occasioni durante la sua detenzione al Metropolitan Correctional Center, affermando che Epstein, normalmente riservato, sembrava invece essere di buonumore: “Non c’era alcun sospetto che facesse pensare ad un suo gesto così estremo – ha raccontato – da quello che ho visto, stava iniziando ad adattarsi alla prigione e non sembrava il tipo da volersi togliersi la vita”. Al milionario, tuttavia, era stata tolta la sorveglianza, scatenando la rabbia del procuratore generale William Barr: “La morte di Epstein solleva una serie di domande a cui bisogna dare risposta – spiegò Barr – Oltre alle indagini dell’Fbi ho consultato il ministro della giustizia, che ha deciso di aprire un’inchiesta sulle circostanze della sua morte”. Secondo un secondino della prigione, Epstein era tenuto in una sezione speciale ad alta sicurezza, ma non era sorvegliato dai funzionari della struttura. Successivamente, un patologo forense assunto dal fratello del milionario ha contestato la versione ufficiale dell’autopsia, sostenendo altresì che vi sono prove che suggeriscono che Jeffrey Epstein non si sia suicidato ma che potrebbe essere stato strangolato. L’ufficio del medico legale di New York guidato da Barbara Simpson aveva concluso in agosto che Epstein si era impiccato nella sua cella in attesa del processo per le accuse di traffico sessuale di minori. Tuttavia, il celebre patologo forense Michael Baden, intervistato da Fox & Friends, ha dichiarato che il milionario ha subito una serie di lesioni – tra cui un osso del collo rotto – che “sono estremamente insoliti nel suicidio per impiccagione e potrebbero verificarsi molto più comunemente nello strangolamento”. L’ex medico legale di New York poi aggiunto: “Le prove indicano un omicidio piuttosto che un suicidio”. Intervistato dal Miami Herald, Baden ha criticato anche la scientifica e il modo in cui sono state raccolte le prove: “Hanno portato via troppo in fretta il corpo fuori dalla cella, e questo non si dovrebbe fare perché così hanno compromesso alcune prove”. C’è poi il mistero delle telecamere. Poco dopo la morte di Epstein, il Washington Post aveva riferito che i filmati registrati da almeno una delle videocamere posizionate fuori dalla cella di Epstein erano del tutto “inutilizzabili”. Il quotidiano sosteneva che non fosse chiaro il motivo per cui quei filmati registrati fossero così danneggiati o imperfetti da essere inutilizzabili dagli investigatori o cosa sia visibile in quelli non compromessi. Sempre secondo il Washington Post, sarebbero stati almeno otto i membri del personale dell’Ufficio federale delle carceri (Federal Bureau of Prisons) che hanno ignorato l’ordine di non lasciare il miliardario da solo nella sua cella. C’è poi un’altro elemento da considerare. Secondo i tre giornalisti investigativi che hanno scritto Dead Men Tell No Tales ci sono forti dubbi sul fatto Epstein si sia suicidato nel carcere di New York: il sospetto è che molte persone avrebbero avuto interesse a farlo tacere per sempre.

Le isole degli orrori. Isole degli orrori immerse nel paradiso terrestre. All’inizio di quest’anno sono emerse nuove accuse contenute in un rapporto stilato dal procuratore generale delle Isole Vergini, Denise N. George, che ha allargato le dimensioni del traffico sessuale che aveva portato all’arresto di Epstein. Gli investigatori hanno trovato le prove di centinaia di abusi sessuali su ragazze minorenni, anche di 11 e 12 anni, i cui nomi erano stati inseriti in un database. Le violenze sulle giovanissime sarebbero avvenute tra il 2001 e il 2018 nelle due isole caraibiche di proprietà del finanziere, Little Saint James e Great Saint James. Un paradiso privato nelle isole Vergini dove regnava il silenzio più assoluto: pare che Epstein elargisse mance per mettere a tacere i suoi abusi. “Arrivava con il suo jet privato e insieme a lui c’erano sempre delle ragazzine, erano giovanissime, penso non avessero più di 16 anni. Poi prendeva l’elicottero per andare a Little St. James. Qui lo vedevamo circa due volte al mese”, aveva raccontato un dipendente dell’aeroporto di St. Thomas. Secondo l’accusa, il finanziere statunitense si sarebbe avvalso anche di un database per registrare tutti i movimenti e le disponibilità delle ragazzine. E tra le storie che si intrecciano sul caso Epstein, è spuntata anche la vicenda di una 15enne. La giovane sarebbe rimasta intrappolata sull’isola e costretta a subire abusi sessuali. La ragazzina cercò di fuggire a nuoto, ma gli uomini della sicurezza di Jeffrey Epstein riuscirono a riprenderla e le sequestrarono subito il passaporto per evitare che si allontanasse di nuovo.

L'amicizia con Bill Clinton. Tra gli amici di Jeffrey Epstein c’era sicuramente l’ex Presidente Usa Bill Clinton. Il finanziere prestava all’ex presidente il suo jet per viaggiare oltreoceano. I registri di volo ottenuti da Fox News dimostrano che Bill Clinton ha compiuto almeno 27 viaggi a bordo del Boeing 727 di Epstein, soprannominato “Lolita Express”, dal 2001 al 2003. Secondo Fox News, l’ex presidente dem viaggiò ripetutamente tra il 2001 e 2003 con Jeffrey Epstein e con altri passeggeri. I registri di volo ufficiali depositati presso la Federal Aviation Administration mostrano inoltre che Clinton ha viaggiato in alcuni dei viaggi con ben 10 agenti dei servizi segreti statunitensi. Il jet ha guadagnato il suo soprannome – Lolita Express – perché secondo quanto ricostruito era dotato di un letto dove gli ospiti del finanziere facevano sesso di gruppo, anche con ragazze molto giovani e minorenni. Tra coloro che viaggiavano regolarmente con Bill Clinton c’erano i soci di Epstein: Ghislaine Maxwell e l’assistente di Epstein, Sarah Kellen, entrambi indagati dall’Fbi e dalla polizia di Palm Beach per aver reclutato ragazze per il milionario e i suoi amici. Clinton è stato inoltre accusato di essere l’amante di Maxwell. La vicenda viene raccontata nel libro A Convenient Death: The Mysterious Demise of Jeffrey Epstein, scritto dai giornalisti investigativi Alana Goodman e Daniel Halper. A questo si aggiunge il fatto che, come rivelato da Steve Scully, 70 anni, ex dipendente di Epstein, l’ex presidente democratico frequentò Epstein anche nella tristemente famosa “villa delle orge” situata sull’isola caraibica di Little St James, ubicata nell’arcipelago delle Isole Vergini americane e di proprietà del milionario. Di recente, il Daily Telegraph, scrive La Repubblica, ha pubblicato una foto di Bill Clinton, risalente al 2002, con Ghislaine proprio prima di imbarcarsi sul “Lolita Express” alla volta di Londra. Se davvero l’ex presidente dem era l’amante della Maxwell, forse lo si scoprirà ma ciò che è sicuro è che fra i due c’era grande affinità. La complice di Epstein, infatti, è stata invitata persino al riservatissimo matrimonio di Chelsea Clinton ed Epstein ha finanziato diverse iniziative filantropiche di Bill Clinton. Che ringraziava il magnate-pedofilo così: “Un filantropo impegnato, con conoscenza dei mercati globali e del XXI secolo, ho sempre apprezzato la sua generosità nell’ultimo viaggio in Africa per la democratizzazione dell’area, la lotta alla povertà e all’Aids”, disse nel 2002 tramite un portavoce.

Cacciato dal club di Trump. Come spiegato da Bloomberg, il finanziere era un membro del club di Donald Trump, a Palm Beach, Mar-a-Lago e The Donald volò sull’aereo di Epstein almeno una volta. “Conosco Jeff da quindici anni. Ragazzo fantastico” dichiarò Trump al New York magazine nel 2002. “È molto divertente stare con lui. Si dice anche che gli piacciono le belle donne tanto quanto me, e molte di loro sono più giovani”. Tuttavia, pare che ad un certo punto Donald Trump sia venuto a conoscenza della condotta dell’amico e lo abbia cacciato dal club. Infatti, Bradley Edwards, un avvocato che rappresentava le vittime di Jeffrey Epstein, confermò che Trump escluse Epstein dalla sua tenuta di Mar-A-Lago “perché aveva aggredito sessualmente una ragazza minorenne al club”. Durante le elezioni del 2016, Trump dichiarò che Bill Clinton avrebbe avuto un forte legame con Epstein. Riferendosi a Clinton, il tycoon osservò: “Un bravo ragazzo ma avrà un sacco di problemi secondo me, con la famosa isola, con Jeffrey Epstein. Molti problemi”. Poco dopo il suo arresto, Donald Trump chiarì il suo rapporto con Epstein. “Lo conosco, proprio come tutti quelli di Palm Beach”, osservò il Presidente Usa. “La gente a Palm Beach lo conosceva. Ho avuto un con lui un litigio, molto tempo fa” ha ammesso il tycoon. “Non credo di sentirlo da almeno 15 anni. Non sono un suo fan”.

Il Principe Andrea. Tra i frequentatori di Jeffrey Epstein e Ghislaine Maxwell c’era anche il Principe Andrea. Come riportato da IlGiornale.it, sono da poco emerse alcune vecchie foto riscoperte dal settimanale Chi che metterebbero in luce il rapporto tra il duca di York e la complice di Jeffrey Epstein, che per anni ha aiutato e coperto il pedofilo ad abusare di decine di minorenni. Correva l’anno 2000 e all’esclusivo party di Halloween organizzato da Heidi Klum, vengono immortalati il terzogenito della regina Elisabetta con la ricca ereditiera, figlia dell’editore Robert Maxwell. Il tema del party è “Prostitute e Protettori”. Il Principe è stato accusato da Virginia Giuffre di ripetuti abusi. “Non è stata una storia morbosa di sesso, è stata una storia di abusi, io sono stata oggetto di un traffico” d’esseri umani, denunciò alla fine dello scorso anno in un’intervista alla Bbc, bollando come “ridicole scuse” e “stronzate” le giustificazioni evocate da Andrea per insistere a smentire i rapporti intimi. In queste ore sono aumentate le pressioni sul principe Andrea da parte degli investigatori Usa che indagano sui presunti traffici sessuali e le violenze compiute dall’ex finanziere Jeffrey Epstein. Dopo l’arresto da parte dell’Fbi di Ghislaine Maxwell, ex compagna e confidente di Epstein, accusata di complicità e falsa testimonianza, gli inquirenti hanno nuovamente chiesto al terzogenito della regina Elisabetta di farsi avanti e di collaborare con la giustizia americana.

I presunti rapporti con i servizi segreti. Alla fine dello scorso anno Ari Ben-Menashe, una ex spia isrealiana e sospetta figura dietro a Robert Maxwell, il magnate inglese della stampa, ha rivelato agli autori del libro Epstein: Dead Men Tell No Tales che il finanziere conduceva una complessa operazione di intelligence per conto del Mossad. La tesi del libro è che a introdurre Epstein nei circoli dell’intelligence israeliana fu Robert Maxwell. Da giovane il finanziere frequentava la casa di Maxwell, il discusso editore britannico proprietario di molti giornali, soprattutto perché interessato a sua figlia Ghislaine, con la quale ebbe una lunga relazione. È proprio nella casa di Londra di Ghislaine che secondo il racconto di Virginia Roberts il principe Andrea avrebbe abusato di lei quando aveva 17 anni. La stessa Ghislaine è sospettata di aver facilitato gli incontri con ragazze minorenni. Ospite di Going Underground, trasmissione televisiva in onda su Russia Today, Ari Ben-Menashe ha ribadito ciò che aveva già raccontato ai giornalisti americani: “Israele lo negherà, ma Jeffrey Epstein è stato messo in contatto con gli israeliani e con l’intelligence militare da Robert Maxwell”. Secondo Ari-Ben-Menashe, Jeffrey Epstein e Ghislaine Maxwell avrebbero procurato ragazze minorenni ai politici e ai potenti di tutto il mondo, per poi ricattarli per conto dei servizi segreti israeliani. Va rilevato però che le accuse di Ben-Menashe vanno prese con le pinze: l’accusa viene infatti da un enigmatico faccendiere e uomo d’affari israeliano di origine iraniana che sostiene di aver lavorato per il Mossad dal 1977 al 1987. Una figura misteriosa arrestata nel 1989 negli Stati Uniti con l’accusa di traffico di armi e scagionata nel 1990.

DAGONEWS il 2 luglio 2020. Ghislaine Maxwell, la socialite, ereditiera britannica e ape regina del pedofilo Jeffrey Epstein è stata arrestata dall'FBI, dopo essere stata accusata di coinvolgimento nei presunti crimini sessuali del finanziere. Secondo fonti delle forze dell’ordine è stata arrestata nel New Hampshire e dovrebbe comparire in un tribunale federale oggi stesso. Il portavoce dell'FBI e della Procura degli Stati Uniti a Manhattan hanno rifiutato di commentare. Figlia del magnate dei media Robert Maxwell, Ghislaine è stata l’ex compagna di Epstein ed è stata al suo fianco per decenni anche dopo la fine della relazione. È accusata di aver gestito il giro di minorenni che facevano sesso con il finanziere e con i suoi amici ricchi e potenti. Una di quelle adolescenti, Virginia Roberts Giuffre, ha lanciato quell'accusa contro Maxwell nel 2015. Epstein, iscritto nel registro dei predatori sessuali, è stato arrestato la scorsa estate con l'accusa di aver sfruttato dozzine di ragazze minorenni a New York e in Florida all'inizio degli anni 2000. Ha tentato il suicidio in custodia a fine luglio, e poi è stato ritrovato morto all'inizio di agosto. Due delle guardie incaricate di monitorare Epstein ora sono sotto accusa per non averlo adeguatamente sorvegliato durante quella notte. Un giorno prima del suo suicidio, una corte d'appello federale ha pubblicato la trascrizione di una deposizione del 2016 in cui Epstein ha ripetutamente rifiutato di dire se Maxwell gli aveva procurato le ragazze.

Caso Epstein, arrestata negli Stati Uniti la compagna Ghislaine Maxwell. Pubblicato giovedì, 02 luglio 2020 da La Repubblica.it. La fuga di Ghislaine Maxwell pare finita. Perché, secondo quanto riporta la rete americana Nbc, l’Fbi ha arrestato la 58enne compagna e “socia” di Jeffrey Epstein, il miliardario e pedofilo americano suicidatosi la scorsa estate in un carcere di New York. La donna era latitante da diversi anni e negli ultimi tempi si erano diffuse voci su una possibile fuga in Europa. Invece Maxwell è stata arrestata “sulla costa orientale” degli Stati Uniti, pare in New Hampshire. Non lontano, da quelle parti, la “socialite” e donna dei salotti buoni londinesi era stata vista l’ultima volta, con il suo allora e giovane compagno Scott Borgerson, a Manchester by the Sea, Massachusetts, scenario di un recente, omonimo e bellissimo film drammatico di Kenneth Lonergan, con Casey Affleck e Michelle Williams. Anche la vita di Ghislaine Maxwell pare un film, poi però tramutatosi in un thriller dai risvolti sempre più inquietanti. La sua stella è caduta insieme a quella di Epstein, quando si è scoperto il mercato clandestino di minorenni e prostitute di quest’ultimo, che condivideva anche con i suoi amici. E che, secondo gli inquirenti, sarebbero state procacciate in parte proprio da Maxwell. La donna, infatti, può essere la chiave di molti misteri che rimangono del caso Epstein. E potrebbe inguaiare (o scagionare?) definitivamente il principe Andrea. La famigerata foto del figlio di Elisabetta che cinge la vita della minorenne Virginia Giuffré Roberts, secondo quest’ultima violentata da Andrew per almeno tre volte nelle magioni di Epstein, è stata scattata circa vent’anni fa proprio nella casa del centro di Londra di proprietà di Maxwell, che appare tra l’altro nella foto. Sarebbe stata proprio Maxwell, secondo l’accusa, a “procurare" l’allora 17enne Virginia ad Andrea. Insomma, Ghislaine Maxwell serba in sé molti segreti scomodi e molto probabilmente tanti nomi di vip coinvolti negli orrori sessuali di Epstein. Ogni parola della donna potrebbe essere determinante a far luce nell’ancora oscuro impero pedofillo e di sfruttamento della prostituzione del miliardario suicida. Pare che Maxwell comparirà già oggi davanti ai giudici. Molti saranno incollati alle tv, ai computer e ai telefoni: lei di Epstein sa tutto.

Ghislaine Maxwell, chi è la "dama nera" complice delle violenze di Epstein (che imbarazza la regina). È stata arrestata dopo un anno da fuggiasca, Ghislaine Maxwell. Ma chi è la misteriosa donna mondana britannica, che per anni ha coperto e aiutato Jeffrey Epstein negli abusi sulle minorenni? Mariangela Garofano, Venerdì 03/07/2020 su Il Giornale. Dopo un anno in fuga, la dama nera complice dei crimini di Jeffrey Epstein è stata arrestata. La cattura di Ghislaine Maxwell è avvenuto nella mattinata di giovedì 2 luglio nel New Hampshire, nella lussuosa dimora nei boschi, in cui la donna risiedeva.

Ma chi è Ghislaine Maxwell e che ruolo ha avuto all’interno del giro di pedofilia di Jeffrey Epstein?

Chi è Ghislaine Maxwell? Ultima di nove figli, la giovane Ghislaine nasce in Francia, ma cresce in Gran Bretagna con la famiglia. Perde la madre molto giovane e vive con il padre, il barone dell’editoria Robert Maxwell. Personaggio influente e molto ricco, Maxwell muore misteriosamente durante un’uscita con il suo yacht. Da questo momento la figlia, in gravi difficoltà a causa dei debiti del padre, vola nella Grande Mela. Qui, grazie alla sua scaltrezza e alle sue conoscenze nel jet-set internazionale, conosce Jeffrey Epstein. Siamo agli inizi degli anni '90 ed Epstein, benché già affermato nel mondo della finanza, non ha ancora concluso la scalata verso il successo che lo porterà a diventare uno dei più milionari più influenti d’America. Ghislaine lo introduce a diversi industriali e addirittura a membri della famiglia reale, come il principe Andrea di York. In cambio Epstein permette a Ghislaine di vivere di nuovo una vita agiata, fatta di feste ed eventi sfarzosi. Ma i due hanno in comune molto di più di party e ville ai Caraibi. Epstein ha l’ossessione per le ragazze giovani e Ghislaine per accontentarlo inizierà ad adescare ragazze minorenni con l’inganno. Il giro di prostituzione minorile che i due mettono in piedi viene coperto per anni e i due vivono e abusano di decine di adolescenti. Nel 2005 il gioco perverso di Epstein subisce una battuta d’arresto, quando viene accusato di aver abusato di una ragazza di 14 anni. Dopo anni di investigazioni, l'uomo finisce dietro le sbarre nel 2008, per uscirne nel 2009. Soltanto nel luglio 2019 il milionario verrà arrestato per l’ultima volta e morirà in carcere ad agosto dello stesso anno. Da quel momento la Maxwell diventa una Primula Scarlatta e scompare dalla circolazione. A giugno fonti rivelano che la la donna si sarebbe nascosta a Parigi, nel lussuoso appartamento di un milionario. Nata in Francia ma di nazionalità britannica, la Maxwell possiede ben 3 passaporti, inglese francese e americano. Questo, al momento dell’arresto, è stato considerato un fattore di rischio dall’Fbi, per un'eventuale fuga della donna.

L'amicizia con Andrea di York. L’amicizia della Maxwell con il duca di York risale ai tempi dell’università. Sarà Ghislaine a presentare il figlio di Elisabetta a Jeffrey Epstein nel 1999. Ghislaine ed Epstein vengono invitati in diverse occasioni a ricevimenti ed eventi nelle tenute reali dei Windsor, come Sandringham e Windsor Castle. Ma Andrea e la Maxwell sono legati anche da un’altra figura, le cui illazioni fanno tremare il principe: Virginia Giuffre. La donna sostiene di essere stata “svenduta” al duca di York proprio dalla Maxwell. Una sera di marzo del 2001 Virginia, all’epoca 17enne viene portata all'esclusivo Tramp Club di Londra, dove conoscerà il principe reale e verrà costretta a fare sesso con lui a casa della Maxwell a Belgravia. A causa delle infamanti accuse, Andrea si è ritirato dalla vita pubblica, ma continua a negare di aver conosciuto la ragazza. Ora, l’arresto dell’amica Ghislaine potrebbe compromettere del tutto la sua posizione. Dagli Stati Uniti gli inquirenti chiedono da tempo la collaborazione del principe nelle indagini sul suo rapporto con Epstein, ma stando a fonti Usa, il terzogenito della regina non ha intenzione di cooperare.

I capi d'imputazione. Ma quali sono i capi d’imputazione a carico della Dark Lady del jet set internazionale? Ghislaine Maxwell è stata accusata di cospirazione nell’adescamento di minore a viaggiare a scopo sessuale, adescamento di minore per intrattenere rapporti sessuali, cospirazione nel trasporto di minore con l’intento di intrattenere rapporti sessuali, trasporto di minore per intrattenere rapporti sessuali. Audrey Strauss, della Procura distrettuale di New York, ha affermato ai microfoni dei reporter che la Maxwell “ha giocato un ruolo centrale nell’identificazione, nell’adescamento e nel fingersi amica delle vittime minorenni di Epstein”. Oltre ai 4 capi d’accusa sopracitati, la diabolica complice del magnate è accusata di spergiuro durante una deposizione nel 2016. L’accusa afferma che la Maxwell ha “mentito ripetutamente, quando le venivano chiesti chiarimenti riguardo alla sua condotta, inclusi i rapporti con i minori”. “Mentiva perché la verità era indescrivibile”, ha aggiunto la Strauss. Come riportato dal Daily Mail, la lussuosa dimora nascosta nel verde del New Hampshire, in cui Ghislaine è stata arrestata, fu acquistata da un anonimo assistente della Maxwell 8 mesi fa, tramite un’agenzia immobiliare online. Per non essere riconosciuta, gli agenti immobiliari hanno rivelato che la Maxwell non ha voluto rivelare la sua identità, al momento della compravendita dell'immobile. “Mi dissero che non volevano che comparisse il suo nome”, riferisce l’agente. “Così ho pensato fosse una star del cinema", precisa. A incuriosire ulteriormente gli immobiliaristi fu la strana richiesta della Maxwell: “Voleva sapere se ci fossero aeree preposte al decollo e all’atterraggio, cosa che mi sembrò molto strana”.

Flavio Pompetti per "Il Messaggero" il 3 luglio 2020.

IL CASO NEW YORK. L'Fbi ha arrestato ieri mattina in una villa di Bradford, nel New Hampshire, Ghislaine Maxwell, ex amante e complice di Jeffrey Epstein nello sfruttamento sessuale di ragazze minorenni. «Eravamo da poco venuti a conoscenza che la signora Maxwell si era trasferita nella proprietà ha raccontato Audrey Strauss, la procuratrice capo ad interim del distretto di New York-Sud, che indaga sulla vicenda Continuava a condurre una vita di agio e di privilegio, mentre le sue vittime sono perseguitate dalla memoria degli abusi che hanno subito da lei e da Epstein».

GLI INQUIRENTI. Gli inquirenti contestano alla donna di origini britanniche quattro capi di accusa per aver «assistito, facilitato e contribuito lo sfruttamento sessuale e l'abuso» delle minorenni che erano cadute nella loro rete, e con due casi di spergiuro, durante un interrogatorio da lei sostenuto nel 2006. La Maxwell era scomparsa dalla circolazione dopo l'arresto e il suicidio in cella di Epstein lo scorso agosto. Era stata avvistata a Parigi qualche tempo fa, e a marzo aveva depositato una denuncia nelle Isole Vergini per un ricco rimborso delle spese legali, contro il patrimonio dell'ex amico. «I due aguzzini agivano in coppia, in un accordo perfetto come se fossero soci in affari» ha raccontato agli inquirenti Virginia Giuffre, la donna che accusa il principe della casa reale britannica Andrea di averla violata nella dimora newyorkese di Epstein. La procura di New York ha documentato la collaborazione nel breve periodo tra il 1994 e il 1997, anche se il rapporto è stato ben più duraturo. Jeffrey e Ghislaine si erano conosciuti nel '92; lei figlia dell'editore, deputato al parlamento britannico, e bancarottiere, Robert Maxwell, caduto accidentalmente dal suo yacht e morto al largo delle Canarie. Lui consulente finanziario dall'attività misteriosa, ricco e ben introdotto nell'alta società statunitense.

LE PROPRIETÀ. Sono stati amanti occasionali, ma con puntuale continuità hanno procurato giovani donne da introdurre nelle stanze dei giochi che Epstein aveva nelle sue proprietà: nell'Upper East Side di New York, a Palm Beach in Florida, e nel ranch di Santa Fe, in New Mexico. Ghislaine ha spesso effettuato il primo contatto con le minorenni. Cercava di farle parlare, e raccontare dettagli privati. Poi le portava a fare shopping, o al cinema e al ristorante, prima di invitarle a conoscere il benefattore Jeffrey. Nelle dimore private del finanziere le ragazze acquistavano maggiore familiarità con i due, c'erano sempre più allusioni sessuali. Poi Jeffrey e Ghislaine si mostravano sempre più spesso nudi, e incoraggiavano le giovani a fare altrettanto. Infine Ghislaine mostrava come praticare i massaggi, e nel corso dei massaggi le avance di Jeffrey diventavano abusi.

DUE PARTICOLARI. La procura di New York ha individuato nell'imputazione tre vittime al momento anonime che erano tutte minorenni all'epoca dei fatti. Due particolari del documento sono rivelatori sull'andamento futuro della causa: il fatto che la vittima numero tre abbia subito abusi nella residenza londinese di Epstein, e l'attribuzione dell'inchiesta non alla sezione per i delitti sessuali, ma a quella della corruzione internazionale. Tutto fa sospettare che il duca di York sarà trascinato nel processo. La procuratrice Strauss si è rifiutata di parlare della sua posizione, ma ha rinnovato l'invito perché il principe Andrea si faccia avanti volontariamente, così come ha chiesto a «chiunque conosca altri dettagli sulla vicenda» a contattare il suo ufficio. Il rinvio a giudizio del caso potrebbe arrivare tra breve.

Da "Il Corriere della Sera" il 3 luglio 2020. «Attirava» le ragazzine, diventava loro amica, le portava al cinema e a fare shopping. E così pian piano le conduceva per mano nelle stanze di Jeffrey Epstein a Manhattan, nella sua villa in Florida, nel ranch in New Mexico, a Londra. Conquistata la loro fiducia, le istruiva su come compiacerlo, partecipava lei stessa alle sue perversioni. E mentiva: «Non sono a conoscenza di altri suoi rapporti sessuali, tranne che con me», disse nel 2016 agli inquirenti. Sono sei i capi d'accusa contro Ghislaine Maxwell, arrestata ieri alle 8,30 del mattino dall'Fbi in una bella casa nel bosco di Bradford, in New Hampshire: dall'associazione a delinquere per l'adescamento di minori, al traffico sessuale, fino alla falsa testimonianza. Ghislaine era la fidanzata, la migliore amica e la «manager della vita di Epstein», il finanziere newyorchese incriminato l'anno scorso per traffico sessuale di minorenni e trovato impiccato nella sua cella. Lo aveva conosciuto nei primi anni Novanta a New York, dopo aver lasciato Londra in seguito alla morte in misteriose circostanze del padre in bancarotta, il magnate dei media Robert Maxwell, caduto dallo yacht «Lady Ghislaine». Epstein le aveva permesso di tornare a vivere nei lussi cui era abituata, e lei ricambiava introducendolo nell'alta società, presentandogli ora il Principe Andrea - anche lui coinvolto nello scandalo sessuale - ora i Clinton. Forse, come disse una sua amica, Ghislaine pensava che «se avesse fatto ancora un'altra cosa per lui, Jeffrey alla fine l'avrebbe sposata». Ma gli abusi - secondo le 18 pagine degli inquirenti - risalgono già al 1994, ai primi anni trascorsi insieme. E a 58 anni, Maxwell si ritrova ancora legata a quell'uomo. La stessa procura federale che ha perseguito Epstein, quella del Southern District of New York, ha aperto il caso contro di lei. È la stessa che ha visto il potente procuratore Geoffrey Berman licenziato da Donald Trump nei giorni scorsi, dopo aver condotto indagini sul suo entourage. A firmare l'accusa è, infatti, la vice procuratrice Audrey Strauss, temporaneamente al posto di Berman. Le tre donne citate dagli inquirenti come «Vittima numero uno», «numero due» e «numero tre», riferiscono fatti avvenuti tra il 1994 e il 1997, quando erano minorenni, la più giovane quattordicenne. Il ricatto psicologico includeva l'uso del denaro: molte delle «prede» erano ragazze di famiglie povere, che Ghislaine convinceva ad accettare denaro in modo che si sentissero in debito. Lei si spogliava per farle spogliare, le massaggiava per spingerle a fare massaggi a lui, restava nella stanza. «La presenza di una donna adulta normalizzava l'abuso». Non è la prima volta che Maxwell viene accusata, ma questa è la prima causa penale contro di lei. «Puntiamo al carcere», ha precisato la procuratrice Strauss in conferenza stampa a New York, invitando altre sopravvissute a farsi avanti. Finora molteplici cause civili si erano concluse con patteggiamenti: secondo l'ex avvocato di Epstein Alan Dershowitz, Ghislaine avrebbe pagato un milione di dollari a Virginia Giuffre, che la accusava di averla reclutata nel club Mar-a-Lago di Trump in Florida, preparata al sesso con Epstein ma anche con il Principe Andrea. Epstein si è ucciso il giorno prima che venissero resi pubblici migliaia di documenti legali che riguardavano lui e Ghislaine. L'ha sempre protetta: nel famoso patteggiamento del 2008 in cui lui si dichiarò colpevole di adescamento minorile, scontando 13 mesi di carcere ed evitando pene federali, Ghislaine e ad altre «assistenti» ottennero l'immunità. Forse, anche dopo la morte di lui, si sentiva intoccabile. Era stata avvistata la scorsa estate seduta in un fast food di Los Angeles con un romanzo di spionaggio in mano, come se prendesse in giro i paparazzi. Ma l'Fbi ha spiegato in conferenza stampa ieri che, nell'ultimo anno, mentre Maxwell «sgattaiolava» in lussuose residenze «indifferente al trauma delle sue vittime», gli agenti seguivano i suoi spostamenti in attesa che le accuse fossero formalizzate. «Non è facile quando i fatti risalgono così indietro nel tempo». Il caso del Southern District of New York non coinvolge altri personaggi come il Principe Andrea, ma la procura ha detto che «le porte sono aperte se vuole parlare». Di certo c'è chi trema al pensiero di cosa racconterà Maxwell in tribunale. «Non contano niente, sono solo spazzatura», diceva di quelle ragazzine. Ma poi si metteva a digiuno per essere magra come loro: «Faccio la dieta di Auschwitz». Suo padre era ebreo, sua madre una ricercatrice dell'Olocausto, lei adorava le provocazioni.

Spuntano le foto del principe Andrea al party "Prostitute e protettori". Con lui c'è Ghislaine Maxwell. Il settimanale Chi, in edicola domani 8 luglio, ha ritrovato alcune vecchie foto che ritraggono il principe Andrea di York in compagnia di Ghislaine Maxwell. I due, immortalati nel 2000 al party dal controverso tema "Prostitute e Protettori", sembrano ottimi amici. Mariangela Garofano, Martedì 07/07/2020 su Il Giornale. L’arresto dell’adescatrice di minorenni Ghislaine Maxwell sta facendo tremare il principe Andrea. Alcune vecchie foto riscoperte dal settimanale Chi, in edicola da domani, metterebbero in luce il rapporto tra il duca di York e la complice di Jeffrey Epstein, che per anni ha aiutato e coperto il pedofilo ad abusare di decine di minorenni. Correva l’anno 2000 e all’esclusivo party di Halloween organizzato da Heidi Klum, vengono immortalati il terzogenito della regina Elisabetta con la ricca ereditiera, figlia dell’editore Robert Maxwell. Il tema del party è “Prostitute e Protettori”, non esattamente il genere di festa alla quale ci si aspetterebbe di trovare un principe reale. All’elegante Hudson Hotel di New York sono presenti parecchi vip, persino l’allora milionario Donald Trump con la moglie Melania. Nelle foto il principe, che indossa una semplice giacca blu, è rittatto sorridente tra la Klum e la Maxwell, con parrucca a caschetto bionda e mise leopardata. I due sembrano divertirsi un mondo e soprattutto, gli altri invitati alla festa concordano sul fatto che la coppia è arrivata ed è andata via dal party insieme. L’amicizia tra la Maxwell e Andrea risale ai tempi del college. Entrambi di nazionalità britannica, i due vengono immortalati spesso insieme sui rotocalchi e in diverse occasione, con loro c’è anche Jeffrey Epstein. La diabolica coppia Epstein-Maxwell appare ad eventi prestigiosi organizzati dall'amico Andrea, nelle splendide tenute di Windsor Castle e Sandringham. Nonostante il principe abbia negato di essere a conoscenza del giro di prostituzione minorile del milionario, Virginia Giuffre, una delle “schiave sessuali” del magnate pedofilo, lo ha pubblicamente accusato di aver intrattenuto rapporti sessuali con lei quando aveva solo 17 anni, nel 2001. A fare da tramite tra i due sarebbe stata proprio Ghislaine Maxwell, che avrebbe “svenduto” la giovane al duca, dopo una serata passata al Tramp club di Londra. Le foto del party newyorkese confermerebbero inoltre, che all’epoca dei rapporti con la Giuffre, Andrea e Ghislaine frequentavano insieme feste ed eventi mondani. Le infamanti accuse della Giuffre hanno costretto il duca a ritirarsi dalla vita pubblica. Ma ora l’arresto della Maxwell potrebbe riportare a galla indiscrezioni che getterebbero ulteriore fango sulla posizione già compromessa del principe.

Luigi Ippolito per "corriere.it" il 4 luglio 2020. Non sono dei bei momenti per il principe Andrea, dopo l’arresto di Ghislaine Maxwell, la sua amica stretta accusata di procurare ragazzine da stuprare al magnate pedofilo Jeffrey Epstein: perché quelle stesse vittime sostengono di essere state offerte in pasto anche al figlio della regina Elisabetta. E ora Ghislaine, l’unica che conosce la verità, potrebbe decidersi a vuotare il sacco. Ieri i magistrati americani che indagano sulla vicenda – nella quale Andrea, al momento, non figura come accusato – hanno di nuovo chiesto al principe di farsi avanti per testimoniare: “Saremmo grati se il principe Andrea venisse a parlare con noi – ha detto la procuratrice Audrey Strauss – vorremmo avere il beneficio delle sue dichiarazioni. La nostra porta rimane aperta, vorremmo ascoltare le sue parole”. Gli avvocati di Andrea affermano che lui si è già offerto per tre volte di testimoniare, ma i magistrati americani replicano che il principe ha sempre rifiutato di farsi intervistare, fornendo “zero cooperazione”: tanto che il Dipartimento di Giustizia Usa ha formalmente chiesto l’intervento del ministero degli Interni britannico – una mossa che potrebbe far finire Andrea di fronte a un tribunale. L’ombra più pesante gettata sul principe è data dalle accuse di Virginia Roberts, la donna oggi 36enne che sostiene di essere stata costretta da Epstein – del quale era una “schiava sessuale” - ad andare a letto con Andrea per tre volte nel 2001, quando lei era solo una 17enne. Sono accuse che il principe nega con veemenza, affermando di non aver mai conosciuto Virginia. L’amicizia fra Andrea e Ghislaine Maxwell, ora al centro dell’attenzione dei magistrati, risale alla metà degli anni 90: e fu lei che poi fece conoscere Epstein al principe. Nel 1999 Andrea li ospitò entrambi al castello di Balmoral e l’anno dopo li invitò a Windsor al “Ballo del Decennio”; pochi mesi dopo il principe organizzò nel castello di Sandringham la festa di compleanno per Ghislaine (con Epstein come ospite), dopo di che i tre se ne andarono in vacanza assieme in Thailandia. Nel 2006 Ghislaine viene invitata al 18esimo compleanno di Beatrice, la figlia di Andrea, e in seguito viene fotografata a fianco al principe nell’esclusivo recinto reale di Ascot. Nel 2008 Epstein subisce una prima condanna per prostituzione minorile: con l’aiuto di Ghislaine, che era anche la sua amante, aveva organizzato un traffico internazionale di ragazzine delle quali approfittava assieme ai suoi facoltosi amici. Nonostante ciò, Andrea non interrompe la pericolosa amicizia: anzi, nel 2010 partecipa a una festa nella casa newyorkese del magnate e l’anno dopo viene fotografato assieme a lui a Central Park. L’estate scorsa Epstein viene arrestato di nuovo con l’accusa di traffico sessuale di minori, ma viene poi trovato morto in cella, ufficialmente suicida. Alla fine dell’anno scorso Andrea si era deciso a concedere un’intervista televisiva, nella speranza di mettersi lo scandalo alle spalle: ma la mossa si era rivelata un clamoroso boomerang. Il principe non aveva mostrato nessun rimorso per la sua amicizia con Epstein né aveva espresso compassione per le vittime del magnate pedofilo. Il risultato della catastrofica apparizione tv fu che Andrea – su iniziativa di Carlo e William e con l’approvazione della regina – venne privato di ogni ruolo ufficiale nella monarchia. Ma ora Buckingham Palace trema: perché l’arresto di Ghislaine Maxwell cambia tutto e lo scandalo che potrebbe seguirne farebbe impallidire le turbolenze seguite alla fuga di Harry e Meghan. Ghislaine è la donna che compare nella celebre foto in cui Andrea abbraccia la giovane Virginia Roberts: ed è dunque a conoscenza di molti segreti. Il suo rapporto con Andrea è sempre stato così stretto – per quanto platonico – che perfino Sarah Ferguson, l’ex moglie del principe, aveva più volte espresso la sua preoccupazione per la malsana influenza esercitata dalla donna. Lei una volta si era portata dietro Andrea a una festa a tema a New York intitolata “magnaccia e prostitute” e lui aveva perfino chiesto alla regina (inutilmente) di averla con sé nei viaggi ufficiali. Ma adesso le preoccupazioni per Elisabetta sono ben più serie: se la posizione di Andrea dovesse aggravarsi, il crepuscolo del suo regno rischia di conoscere una crisi senza precedenti.

Flavio Pompetti per “il Messaggero” il 6 luglio 2020. Una squadra di circa venti poliziotti di diverse agenzie, una carovana di 15 veicoli e un paio di elicotteri sono stati impiegati nell'atto finale della caccia a Ghislaine Maxwell, arrestata in una tenuta del New Hampshire giovedì scorso con l'accusa di aver procacciato vittime sessuali per il suo amico Jeffrey Epstein, e di avere collaborato a seviziarle e a stuprarle. Gli elicotteri avevano iniziato a sorvolare la mattina presto la proprietà: sessanta ettari di terreno intorno ad una villa lussuosa di sette stanze e tre bagni dal nome propiziatore di Tuckaway, (in inglese: Nascosto), che la donna aveva acquistato circa un anno fa tramite una società anonima, pagando la cifra di un milione di dollari in contanti. Gli agenti hanno infranto la serratura del cancello, e dopo aver percorso a tutta velocità il vialetto interno di circa un chilometro hanno abbattuto la porta d'ingresso. Ghislaine era seduta su un divano con tuta e scarpe sportive, come se fosse pronta ad essere portata via. «Da qualche tempo si era convinta che l'epilogo fosse vicino» ha raccontato alla Bbc l'amica ed ex banchiera Laura Goldman, che l'aveva sentita al telefono due settimana prima. L'ereditiera britannica ha passato le prime due notti nel vicino carcere della contea di Merrimack. Poi è stata trasferita a New York, dove in settimana comparirà in tribunale per l'incriminazione ufficiale. La procura che ha condotto l'inchiesta è il distretto meridionale di Brooklyn, lo stesso che è stato appena decapitato da Donald Trump del suo capo Geoffrey Berman. Berman siederà a sua volta davanti ai politici di Washington domani per rispondere alle domande sul licenziamento, e con ogni probabilità gli saranno chiesti anche dettagli sul caso Epstein. Ora gli ambienti dell'alta finanza e della politica, negli Usa come in Inghilterra, tornano a tremare nell'attesa di possibili rivelazioni. L'attrice ed attivista Rose McGowan, a suo tempo al centro della denuncia di abusi sessuali contro Harvey Weinstein, ha pubblicato una foto del produttore a fianco di Epstein e della Maxwell, e ha chiesto senza mezze parole che anche amici di Epstein come Bill Clinton e il principe britannico Andrea siano arrestati. I due hanno sempre negato di aver partecipato a festini nelle diverse case di proprietà del loro amico, ma Virginia Giuffre dagli Usa accusa il duca di York di averla stuprata diciannove anni fa durante una visita alla casa newyorkese nella quale lei, diciassettenne, era una delle schiave sessuali al servizio di Epstein. Maxwell rischia fino a 35 anni di carcere per i sei capi di accusa che le sono contestati; potrebbe essere tentata di negoziare uno sconto della pena in cambio di rivelazione che aiutino ad ampliare l'inchiesta. La sua amica Goldman assicura però che non comprometterà mai il principe Andrea, del quale è molto amica da quando era bambina.

Caso Epstein, le foto con Ghislaine Maxwell che imbarazzano Clinton. Pubblicato domenica, 05 luglio 2020 da Antonello Guerrera su La Repubblica.it. Il "Daily Telegraph" pubblica un'immagine dell'ex presidente americano sul "Lolita Express", l'aereo del milionario pedofilo. Con lui, la donna accusata di procacciare le minorenni all'uomo suicidatosi in carcere la scorsa estate. A giorni la 58enne dovrebbe apparire di fronte alla corte di New York. In molti tremano: in primis il principe Andrea. Tra i tanti amici potenti di Ghislaine Maxwell, uno era sicuramente Bill Clinton. Tanto che l'ex presidente americano avrebbe preso per almeno 26 volte il "Lolita Express", ossia il Boeing 727 privato di Jeffrey Epstein, il milionario americano pedofilo suicida in carcere la scorsa estate e compagno inseparabile della Maxwell, la britannica 58enne dei salotti buoni arrestata giovedì scorso in New Hampshire perché accusata di essere complice di Epstein e di aver procacciato diverse minorenni all'uomo, con il quale avrebbe partecipato anche agli abusi sessuali. Ora il "Daily Telegraph" ha pubblicato una foto di Clinton, risalente al 2002, con Ghislaine proprio prima di imbarcarsi sul "Lolita Express" alla volta di Londra. L'amicizia tra i due non è un segreto: per anni si è speculato su una relazione sentimentale/sessuale tra Maxwell e Clinton (già scottato dal caso Lewinsky), cosa sempre smentita dall'ex presidente. Lei è stata invitata persino al riservatissimo matrimonio di Chelsea Clinton ed Epstein ha finanziato diverse campagne umanitarie dell'ex presidente americano che difatti lo ringraziò pubblicamente: "Un filantropo impegnato, con conoscenza dei mercati globali e del XXI secolo, ho sempre apprezzato la sua generosità nell'ultimo viaggio in Africa per la democratizzazione dell'area, la lotta alla povertà e all'Aids", disse nel 2002 tramite un portavoce. L'ultimo viaggio in Africa cui faceva riferimento Clinton era un tour di sette giorni di carattere umanitario cui parteciparono l'attore americano Kevin Spacey e il comico Chris Tucker nel 2002, un progetto della fondazione Clinton co-finanziato da Epstein. Poi, tutti fecero tappa a Londra, invitati dal principe Andrea, con l'ex presidente che era stato invitato alla conferenza del Labour a Blackpool, dove era atteso come ospite d'onore. Quella sera Andrea invitò poi tutti al palazzo reale, ospiti suoi, durante il quale Ghislaine e Spacey (accusato pure lui di molestie sessuali di recente ma mai condannato) pare si sedettero per scherzo anche sulle sedie della Regina e del marito principe Filippo della Throne Room di Buckingham Palace, in una foto, ritrovata sempre dal "Telegraph" e diventata virale nelle ultime ore. "Se la ridevano", ha detto una "fonte" al giornale, "nessuno si ricorda se Andrea fosse nella sala del trono in quel momento ma era lui che li aveva invitati". A scandalo esploso, Clinton ha sempre detto di non sapere nulla degli "orrendi crimini" di Epstein, pur ammettendo di essere salito almeno quattro volte sul suo aereo: "Non lo vedevo già da un decennio e non sono mai stato nelle sue tenute di Little St James Island, New Mexico o Florida". Un nuovo libro, "A Convenient Death: The Mysterious Demise of Jeffrey Epstein", pubblicato in America, sostiene che il motivo principale degli incontri tra Clinton e Maxwell fosse proprio una relazione sessuale tra i due. Ma il portavoce di Clinton ha sempre smentito aggiungendo che, essendo un ex presidente, "Clinton era accompagnato dal Secret Service americano e dal suo staff in ogni tappa dei suoi viaggi". Ma Clinton ovviamente non è il solo finito nella rete di Ghislaine, che a giorni dovrebbe apparire di fronte alla corte di New York. Molti tremano. In primis il principe Andrea, in passato grande amico di Epstein e accusato di aver violentato per tre volte l'allora 17enne Virginia Giuffré, che gli aveva fatto conoscere proprio Maxwell, in una storica foto proprio a casa di quest'ultima a Londra, scattata un anno prima del viaggio di Clinton e Spacey. Ma ce ne sono tanti altri: il presidente americano Donald Trump, la famiglia Gates, Elon Musk, l'avvocato Dershowitz, fino a Naomi Campbell. Si parla anche di video girati di nascosto da Epstein nelle sue mansioni per ricattare i suoi ospiti ma per non c'è mai stata conferma. E Ghislaine parlerà e metterà nei guai gli altri, per limare la probabile sentenza a 35 anni che incombe su di lei, o rimarrà in silenzio? Lo sapremo presto.

Antonio Grizzuti per "La Verità" il 7 luglio 2020. Negli Stati Uniti l'hanno ribattezzata «Clinton body count», letteralmente «la conta dei morti dei Clinton». Una teoria in voga ormai da svariati anni oltreoceano, e secondo la quale intorno alla coppia presidenziale si concentrerebbe un numero assai elevato di morti sospette. Tutte persone considerate, a vario titolo, nemici dell'ex presidente e della sua first lady. E a quella lista, già di per sé piuttosto lunga, rischia oggi di aggiungersi un altro nome eccellente. Sull'argomento abbiamo già scritto su queste stesse pagine poco meno di un anno fa, in occasione del decesso dell'imprenditore Jeffrey Epstein, trovato impiccato il 10 agosto 2019 presso il Metropolitan correctional center di New York. Non è un mistero che Epstein - finito in cella per abusi, sfruttamento della prostituzione e traffico di minori - e Bill Clinton intrattenessero rapporti assai stretti. Nel libro A convenient death: the mysterious demise of Jeffrey Epstein, pubblicato a fine maggio, la giornalista Alana Goodman e lo scrittore Daniel Halper arrivano a sostenere che Clinton avesse instaurato una relazione con una donna appartenente alla cerchia ristretta del controverso uomo d'affari americano. Una misteriosa signora che in molti fanno coincidere con Ghislaine Maxwell, ex fidanzata di Epstein nonché organizzatrice per suo conto dei festini a luci rosse che si svolgevano sull'isola caraibica di Little Saint James, nota anche come «Pedophile island». Dopo mesi di latitanza, lo scorso 2 luglio la Maxwell è stata arrestata a Bradford, nel New Hampshire. Gli agenti le hanno contestato la violazione di sei crimini federali, tra cui l'adescamento di minori e il traffico di esseri umani. Pur essendo stata smentita a più riprese da Bill Clinton, la relazione amorosa è tornata al centro delle cronache a seguito della pubblicazione, da parte del Daily Telegraph, di una foto che ritrae i due sulla scaletta del «Lolita express», il jet privato utilizzato per gli spostamenti su Little Saint James. Sull'isola proibita Clinton giura di non averci mai messo piede, ma ultimamente alcuni testimoni hanno contraddetto la sua versione. Un documentario andato in onda su Netflix poche settimane fa ha riportato le dichiarazioni di Steve Scully, responsabile delle comunicazioni dell'atollo, che chiamato in causa non ha avuto dubbi: «Bill Clinton è stato su quell'isola». Circostanza confermata anche da una delle vittime di Epstein, Virginia Giuffre, la quale però ha aggiunto di non aver notato alcun comportamento esecrabile da parte dell'ex inquilino della Casa Bianca. Una cosa pare certa: che fosse o meno per visitare l'arcipelago della perdizione, come dimostrano i registri di volo ottenuti dall'emittente Fox News, Bill ha volato sull'aeroplano di Epstein per ben 26 volte. Visto il precedente di Jeffrey Epstein, impossibile non temere che anche Ghislaine faccia la stessa tragica fine. Portandosi così nella tomba tutti gli oscuri segreti relativi a quegli incontri dissoluti. Basti pensare che nelle ultime ora ha circolato la voce, poi smentita, che la donna fosse risulta positiva al Covid. Non sono in pochi oggi a temere per la possibilità che, sotto pressione degli inquirenti, il braccio destro di Epstein possa scoperchiare un vaso di Pandora. Oltre a rivelare i particolari (scottanti?) sull'amicizia con Clinton, la Maxwell potrebbe mettere definitivamente nei guai il principe Andrea, già finito sotto i riflettori per l'amicizia con Epstein. Sarebbe stato lui ad aprire, nel 2002, le porte della riservatissima sala del trono della regina Elisabetta nella quale Ghislaine Maxwell e l'attore Kevin Spacey - accusato di molestie sessuali, anche nei confronti di minorenni - posano divertiti nella foto pubblicata qualche giorno fa sempre dal Daily Telegraph. Troppi segreti sulle spalle di una sola persona, che adesso deve scegliere se parlare e, soprattutto, chi tradire. E ora il tempo stringe, perché con il passare delle ore aumenta il rischio che i misteri finiscano sottoterra insieme a lei. Lo sanno bene le autorità, che per questo motivo hanno chiesto ai giudici di fissare un'udienza già per la giornata di venerdì. Certo, l'eventuale morte di Ghislaine Maxwell, oltre a compromettere definitivamente le indagini sulle violenze sessuali, andrebbe a rinfocolare una teoria che fino all'anno scorso era appannaggio esclusivo dei complottisti. Quando cioè, a seguito del contestato suicidio in carcere, il presidente Donald Trump aveva retwittato il post nel quale l'attore Terrence Williams affermava che «Jeffrey Epstein aveva informazioni su Bill Clinton e ora è morto». Sono una cinquantina le persone decedute in circostanze misteriose che i detrattori ricollegano in qualche modo a Bill e Hillary, e che i debunker si affrettano prontamente a smentire. C'è il torbido caso di Don Henry e Ken Ives, due adolescenti dell'Arkansas finiti schiacciati da un treno nel 1987 mentre giacevano sui binari, e che l'allora governatore Clinton si affrettò a derubricare come incidente. Qualcuno ha sollevato il sospetto, però, che quella tragedia fosse legata al traffico di droga e che l'ex presidente stesse tentando di coprirlo. Nella nebbia anche la vicenda dell'ex socio James McDougal, la cui morte in prigione avvenuta nel 1998 fu definita dagli inquirenti un «duro colpo» alle indagini sullo scandalo immobiliare Whitewater, incentrato sugli sventurati investimenti immobiliari dell'omonima società di cui facevano parte i Clinton. Sembra che la prossima pagina di questo libro giallo aspetti solo di essere scritta.

DAGONEWS il 7 luglio 2020. E adesso c’è da tremare sul serio. Ghislaine Maxwell ha accesso a una serie di video di abusi sessuali che non solo riguardano Jeffrey Epstein, ma anche i potenti che hanno approfittato delle ragazzine che venivano date loro in pasto dal porcone. Secondo un’amica l’ape regina, adesso, vuole usare quei filmati come assicurazione per salvarsi le chiappe.  Maxwell, 58 anni, è stata arrestata nel suo nascondiglio a Bradford, nel New Hampshire, giovedì scorso. È stata accusata di sei crimini federali, tra cui traffico sessuale di minorenni e falsa testimonianza. Le vittime raccontano che era proprio lei a portare le ragazze minorenni al porcone dopo aver stabilito un rapporto di fiducia con loro. Un lavoro che Maxwell ha svolto assicurandosi di potersi giocare la carta vincente con la giustizia il giorno in cui la bomba sarebbe esplosa. Lo scorso luglio, quando gli agenti hanno fatto irruzione nella casa di Epstein a Manhattan dopo il suo arresto, hanno trovato migliaia di foto di minorenni e una cassaforte piena di compact disc etichettati "ragazze nude". «Ghislaine è sempre stata astuta. Non sarebbe stata con Epstein tutti quegli anni senza avere un’assicurazione – ha raccontato un’amica –  I nastri segreti che mostrano gli abusi sessuali possono essere la sua carta vincente per negoziare con le autorità. Ha copie di tutto quello che Epstein aveva. Il finanziere non solo amava farsi riprendere con le ragazze minorenni, ma voleva assicurarsi di poter ricattare gli uomini ricchi e potenti che avevano approfittato della sua generosità. Scommetto che una volta che Ghislaine dirà dei video, questi uomini tremeranno nelle loro scarpe di pelle italiana. Ghislaine si è assicurata di aver eliminato le chiavette USB. Sa dove sono sepolte le prove e le userà per salvarsi il culo». Il giorno dopo il suicidio di Epstein lo scorso agosto, il New York Times ha pubblicato un resoconto del giornalista James B. Stewart che aveva intervistato Epstein nell'agosto 2018. Nel corso della loro conversazione, Epstein disse di avere materiale sui suoi famosi ospiti di casa, «potenzialmente dannoso o imbarazzante, compresi dettagli sulle loro inclinazioni sessuali e l’uso di droghe ricreative». La prossima apparizione in tribunale di Maxwell è prevista per venerdì a New York. Se condannata per i crimini che le vengono contestati rischia fino a 35 anni di carcere. Ma ha ancora un asso nella manica da giocarsi.

Caterina Galloni per "blitzquotidiano.it" il 7 luglio 2020. Emergono nuovi particolari sull’arresto di Ghislaine Maxwell. La socialite, ex fidanzata e socia di Jeffrey Epstein, si nascondeva nel New Hampshire, nella tenuta da $ 1 milione acquistata in segreto solo otto mesi fa. Non a caso il nome è Tuckedaway, nascosta. A dare la notizia è il Daily Mail. Un vicino avrebbe visto due piccoli aerei sorvolare l’area intorno alle 6 del mattino, poi era andato al lavoro prima dell’arrivo dell’FBI. La splendida tenuta è stata venduta per $ 1,07 milioni 13 dicembre 2019 alla società Granite Reality LLC. e per il momento si tratta dell’unica attività commerciale. I procuratori federali hanno riferito che Maxwell era nascosta nel New England da luglio 2019, quando Epstein era stato arrestato. Ha cambiato il numero di telefono, indirizzo e-mail e ordinava online con nomi diversi.

I conti bancari. In un documento legale i PM affermano che negli ultimi 4 anni aveva almeno 15 conti bancari di sua proprietà o associati al suo nome. A volte il loro saldo totale massimo è stato di $ 20 milioni. Sempre i PM hanno aggiunto che le finanze di Maxwell erano “poco trasparenti”. Dal documento emerge che tra il 2007 e il 2011 Epstein ha trasferito più di $ 20 milioni nei conti di Maxwell. Quei soldi sono poi tornati nelle casse dell’ex finanziere. Da qui l’ipotesi di uno schema mirato a tenere le autorità all’oscuro del denaro. Maxwell è accusata dalla procuratrice del Southern District di New York di avere arruolato e addestrato numerose minorenni per conto di Epstein morto suicida quasi un anno fa in prigione. E’ stata accusata di aver mentito sotto giuramento quando è stata citata in giudizio da Virginia Giuffre Roberts, una delle accusatrici di Epstein che sostiene di aver fatto sesso con il principe Andrea quando aveva 17 anni. Epstein è stato accusato di aver abusato di decine di altre ragazze e Maxwell secondo l’accusa per 14 anni avrebbe pagato delle giovani affinché avessero rapporti sessuali con Epstein. Maxwell, figlia  del defunto magnate dell’editoria britannica Robert Maxwell, aveva un’impressionante rete internazionale di amici e conoscenti tra cui i Clinton e il principe Andrea. E il procuratore generale è tornata a sollecitare il figlio della regina a rendere “le sue dichiarazioni” direttamente di fronte agli inquirenti USA

DAGONEWS il 5 luglio 2020. Quando a Jeffrey Epstein venne chiesto chi era Ghislaine Maxwell lui risposte semplicemente: «È la mia migliore amica». Era il 2003 e lo scandalo non era ancora esploso. All’epoca sembrava che lei fosse la persona che organizzava la sua agente e lo introduceva nei salotti dell’alta società newyorkese. Ma c’era molto di più. Nulla ancora si sapeva del loro rapporto perverso. Ma ora che la bomba è deflagrata la domanda è: perché la figlia di un editore, una socialite inglese in vista, si sia trasformata in una pappona? La figlia prediletta del magnate dell’editoria Robert Maxwell aveva ricevuto un'educazione nelle migliori scuole: aveva frequentato il Marlborough College e poi l'Università di Oxford prima di trasferirsi a Londra negli anni '80 per fondare il Kit Kat Club, che pretendeva di essere la versione femminile dei club dove si riuniscono i potenti. Ha poi lavorato per il quotidiano di suo padre "The European" ed è stata nominata direttrice della squadra di calcio Oxford United, di proprietà di famiglia. Questa felice esistenza è andata in frantumi nel novembre 1991 quando suo padre è annegato dopo essere misteriosamente ''caduto'' dallo yacht Lady Ghislaine. Ben presto è emerso che il suo impero era costruito sui proventi della criminalità organizzata. È emerso che, senza un'adeguata autorizzazione preventiva, Maxwell aveva utilizzato centinaia di milioni di sterline dai fondi pensione delle sue società per sostenere le azioni del gruppo Mirror e salvare le sue società dal fallimento. Mentre il nome della sua famiglia affondava, Ghislaine decise di trasferirsi a New York, dove si stabilì in un piccolo appartamento e iniziò a reinventarsi come socialite. Lì a nessuno interessava dei suoi scandali di famiglia e la sua rete di contatti in vista negli Usa non l’ha mai abbandonata. A 30 anni conobbe Epstein. Fu attratta dalla somiglianza con suo padre e ben presto i due furono inseparabili. C’è chi ha raccontato che lei era distrutta e inconsolabile per la morte del padre e che Epstein l’ha salvata. La loro storia d'amore presto si trasformò in un’amicizia perché Epstein non voleva legarsi con una sola donna. Per gli estranei, Ghislaine era una sorta di confidente che lo aiutava a gestire i suoi contatti, i viaggi e l’agenda, un ruolo che avrebbe ricoperto per più di un decennio, introducendo Epstein ai Clinton, ai Kennedy e ad altri leader mondiali. Il suo rapporto con il principe Andrea, che Ghislaine conobbe attraverso Sarah Ferguson, fece entrare Epstein nei circoli reali. All'inizio degli anni 2000 fu invitato a Balmoral, così come alla festa di compleanno della figlia del duca. In cambio dei suoi contatti, Epstein ha dato a Ghislaine uno stile di vita esagerato, ben oltre quello che si poteva permette con gli 80mila dollari all’anno del suo fondo fiduciario. Il resto è storia e adesso tocca a Ghislaine fornire i tasselli mancanti del puzzle.

Paola de Carolis per il "Corriere della Sera" il 5 luglio 2020. È stata amica di Bill Clinton, Donald Trump e JFK junior, ha frequentato i salotti più mondani del mondo anglosassone, i matrimoni dei Kennedy così come le feste dei reali inglesi. Basta digitare il suo nome su Internet che eccola con la principessa Diana, con Sarah Ferguson, Rupert Murdoch, Elon Musk, Michael Bloomberg, il conte Gianfranco Cicogna, al matrimonio di Chelsea Clinton, alle corse di cavalli di Ascot, a Balmoral, al castello di Windsor. Ieri il Daily Telegraph ha trovato l’immagine che per i britannici è forse la più raccapricciante. Ghislaine Maxwell a Buckingham Palace seduta sul trono di Elisabetta. Al suo fianco, Kevin Spacey, altro personaggio accusato di molestie nei confronti di minori. Dopo mesi di latitanza, Maxwell è stata raggiunta dalla legge. È accusata di aver procurato donne e ragazzine, alcune di soli 14 anni, per Jeffrey Epstein e il suo giro, di averle preparate e trasportate da New York a Palm Beach, dalle Isola Vergini a Londra, nonché, stando alla procuratrice Audrey Strauss, di aver attivamente partecipato in alcuni casi alle violenze sessuali. La mondanità trema, perché secondo indiscrezioni l’unico modo di convincere le autorità statunitensi a garantirle uno sconto sulla pena sarebbe quello di fornire i nomi di chi, come Epstein, morto suicida in carcere lo scorso agosto, ha avuto rapporti sessuali con minori. Per il principe Andrea la situazione si complica. Il duca di York ha lasciato le associazioni benefiche che rappresentava così come il ruolo ufficiale nella famiglia reale, ma i guai non sono scomparsi. È stato implicato da una delle vittime di Epstein, Virginia Roberts Giuffre, che sostiene di essere stata obbligata ad avere rapporti sessuali con lui tre volte, una quando ancora minorenne. Lo studio legale cui si è affidato assicura che il terzogenito di Elisabetta ha offerto di collaborare con gli inquirenti ben tre volte, due nell’ultimo mese, e che sinora nessuno ha raccolto l’offerta, né attraverso gli avvocati né a livello governativo. Per le vittime, però, l’arresto di Maxwell rende un processo molto più probabile. Se la vicenda arriverà in tribunale è possibile che il principe venga convocato. Andrea nega di aver conosciuto Giuffre ma c’è una foto che li ritrae insieme, con Maxwell sullo sfondo. «Ghislaine non dirà nulla su Andrea», assicura Laura Goldman, ex banchiera che nonostante tutto è rimasta amica di Maxwell. «Erano molto legati», ha sottolineato rivelando per la prima volta che tra di loro ci fu più di un’amicizia. «Ghislaine non ha dimenticato che quando morì suo padre Andrea le fu vicino. E poi lo considerava ingenuo, un po’ stupido, un privilegiato per il quale se c’erano ragazze in giro erano persone di servizio». L’impressione è che per Ghislaine Andrea fosse disposto a giocare ogni carta. Fu lui a organizzarle la festa per i 38 anni nonché una visita privata a Buckingham Palace assieme a Bill Clinton nel 2002, lui a ridarle credibilità in pubblico quando lo scandalo investì la sua famiglia, lui a riportarla nella società in cui era cresciuta, i balli, le prime file alle sfilate, la mondanità più sfrenata. Forse in lei riconosceva la difficoltà di una famiglia ingombrante. Robert Maxwell, imprenditore miliardario nato in Cecoslovacchia, unico della sua famiglia a scampare all’Olocausto, proprietario del tabloid Mirror, morto nel 1991 lasciando un buco di 460 milioni di sterline nel fondo pensione dei suoi dipendenti, era un padre duro, che adorava Ghislaine ma che dai figli (nove, sette ancora in vita) non accettava debolezze. Il sesso con una minorenne va ben oltre l’ingenuità o la stupidità: Andrea e Ghislaine dovranno rispondere dei fatti.

Eleonora Barbieri per "Il Giornale" il 5 luglio 2020. Jeffrey Epstein nasce a Brooklyn nel 1953. Cresce a Coney Island, la spiaggia dei newyorchesi, ed è uno studente eccezionale, tanto da diplomarsi con due anni di anticipo. Inizia a frequentare Matematica, ma lascia la New York University nel 1974, senza laurearsi. Eppure, pochi mesi dopo viene assunto come insegnante di fisica e matematica in una scuola privata d'élite dell'Upper East Side, la Dalton School, dove impiegano due anni a scoprire che il suo curriculum è falso (dopo il licenziamento, comunque, viene assunto da Alan Greenberg, padre di due suoi alunni e ceo di Bear Stearns e, da lì, la sua carriera finanziaria decolla). È il primo di una serie di eventi quasi inspiegabili nella vita di Epstein, un miliardario (sì, ma come lo è diventato?, e perché imprenditori e uomini dell'alta finanza, come Leslie Wexner e Steven Hoffenberg, hanno affidato i loro soldi a lui?), potente amico di tanti potenti della Terra, da Clinton a Trump, passando per il principe Andrea d'Inghilterra, premi Nobel, imprenditori, avvocati (sì, ma come ne è diventato così amico? E poi, ricattava qualcuno di loro?), proprietario di case faraoniche a New York (possedeva un palazzo da 77 milioni di dollari...), a Parigi, in Florida, in Messico, nelle Isole Vergini (aveva comprato Little St James, ribattezzandola Little St Jeff, ora nota come «l'isola delle orge» o «l'isola del pedofilo»), accusato da oltre cento donne, in gran parte minorenni all'epoca dei fatti, di abusi sessuali e di essere state oggetto di una «tratta» sessuale. Epstein ha schivato indagini e denunce e ottenuto immunità (sì, ma come è stato possibile?), fino all'arresto nel luglio del 2019 con le accuse di traffico sessuale e traffico sessuale minorile, che lo portano in cella al Metropolitan Correctional Center di New York, detto «le tombe», dove viene trovato impiccato la mattina del 10 agosto (suicidio, omicidio commissionato da qualche «amico» potente o vendetta in carcere?). L'immunità, ottenuta in un patteggiamento nel 2008, in cambio di pochi mesi di carcere «alleggerito», era stata estesa anche ai suoi eventuali complici, ovvero, innanzitutto, la ex compagna ed ereditiera britannica Ghislaine Maxwell: una anomalia rimasta tale fino all'altro ieri, quando la donna è stata arrestata in New Hampshire. Secondo le accuse, la bella ed elegante Ghislaine procacciava le ragazzine, le «indottrinava» sui gusti di Epstein e partecipava agli abusi. Tutta la storia è ricostruita dalla docu-serie di Netflix Jeffrey Epstein: soldi, potere e perversione: quattro episodi, diretti da Lisa Bryant, basati sulle interviste alle vittime, le «sopravvissute», gli atti giudiziari, le testimonianze dei poliziotti di Palm Beach che per primi sollevarono il caso e di alcune delle persone che lavorarono per lui. Il materiale, frutto di un lungo lavoro di cronaca e di ricerca, si basa sul libro Filthy Rich, scritto da James Patterson (con John Connelly e Tim Malloy) già nel 2016, poi riaggiornato nel 2019 e ora pubblicato in Italia da Chiarelettere, con il titolo Sporco ricco (pagg. 240, euro 18,60). Nella serie compare lo stesso Patterson, che spiega come iniziò a occuparsi dell'affare Epstein prima che finisse sotto i riflettori del mondo intero: il bestsellerista abitava vicino a casa sua a Palm Beach e, quando Epstein fu arrestato nel 2008, nella piccola comunità fu uno scandalo. Poi, qualche tempo dopo la scarcerazione, Tim Malloy incrociò Epstein in giro in pantofole per Madison Avenue, accompagnato da due bellissime ragazze, e così i due amici, Patterson e Malloy, decisero di seguire la traccia di denaro, amicizie influenti e perversione, non solo presunta, visto che era stata ammessa da Epstein in occasione del patteggiamento del 2008. I fatti giudiziari del 2008 sono cruciali: la polizia di Palm Beach aveva raccolto decine di testimonianze di ragazzine (solitamente di tredici-quattordici anni, ma anche di dodici) che erano state cooptate da Epstein e da Ghislaine per fargli un «massaggio» nella sua villa di Palm Beach; ma poi quel «massaggio» si era trasformato in una molestia sessuale e, soprattutto, le vittime erano state esortate a estendere l'«invito» ad amiche e compagne di scuola. Così è stato costruito uno «schema di piramide sessuale», in cui le vittime diventavano a loro volta «reclutatrici», facendo delle scuole di West Palm Beach (una zona vicina alla lussuosa Palm Beach, ma disagiata) un vero e proprio territorio di caccia. Nel 2008, il procuratore della Florida, Alexander Acosta (ex segretario al Lavoro dell'amministrazione Trump), consentì a Epstein di firmare un patteggiamento che garantiva l'immunità a lui e a eventuali complici, in cambio di diciotto mesi di carcere. Come è stato possibile? Da qui, oltre dieci anni dopo, riprendono le indagini della procura federale di New York, che portano all'arresto di Epstein un anno fa (e di Ghislaine l'altro ieri). Epstein era pronto a pagare centinaia di milioni di cauzione, pur di non lasciar parlare le sue vittime in tribunale. Non era più un uomo «misterioso» e «carismatico», la sua vita sarebbe finita a breve. Le sue vittime hanno trovato una voce. Molto resta inspiegato.

"Così Epstein pagava le modelle russe". E Deutsche Bank finisce sotto accusa. Deutsche Bank ha reagito all’offensiva delle autorità newyorchesi annunciando investimenti per rafforzare i propri apparati di vigilanza interna. Gerry Freda, Mercoledì 08/07/2020 su Il Giornale. Le autorità di New York hanno di recente inflitto a Deutsche Bank una sanzione milionaria a causa dei legami intercorsi tra l’istituto di credito e il magnate Jeffrey Epstein. Il dipartimento per i Servizi finanziari dello Stato di New York ha infatti comminato tale multa al gigante tedesco accusando quest’ultimo di non avere adeguatamente monitorato le operazioni finanziarie opache condotte dall’uomo d’affari incriminato dal 2013 al 2018. La sanzione citata è il primo provvedimento adottato nel mondo da un ente di vigilanza finanziaria contro un istituto di credito responsabile di complicità con Epstein, morto in carcere lo scorso 10 agosto mentre attendeva di essere processato per traffico di minori. Il dipartimento statale ha, nel dettaglio, comminato ultimamente a Deutsche Bank una multa di 150 milioni di dollari. Alla base della condanna della banca tedesca vi è stata, da parte delle autorità locali, la constatazione del fatto che il colosso finanziario avrebbe chiuso un occhio su molteplici movimenti di denaro effettuati in vita da Epstein per scopi poco leciti. In particolare, il gigante teutonico avrebbe accordato al chiacchierato magnate di effettuare centinaia di transazioni milionarie opache, principalmente dirette a chiudere le vertenze legali di Epstein e a “pagare donne”. L’uomo d’affari newyorchese, secondo l’agenzia statale, avrebbe infatti ottenuto da Deutsche Bank, dal 2013 al 2018, finanziamenti di oltre 7 milioni di dollari diretti a tacitare le controversie giudiziarie in cui egli era implicato, nonché trasferimenti di denaro superiori ai 2,6 milioni per fare piaceri e regali a delle donne. Tra le operazioni finanziarie opache del presunto pedofilo accordategli in passato dalla banca tedesca vi erano, per la precisione, alcune intese a “pagare modelle russe”. La principale colpa della banca, ad avviso del dipartimento dello Stato di New York, sarebbe stata quella di commettere gravi mancanze nelle istruttorie propedeutiche alle frequenti erogazioni di denaro a beneficio di Epstein. Un comunicato della medesima autorità chiarisce con le seguenti parole le responsabilità dell’istituto di credito: “Se quei finanziamenti e quei movimenti di denaro siano o meno serviti a Epstein per coprire vecchi suoi crimini, per perpetrarne di nuovi o per qualche altro scopo lo dovranno stabilire le autorità penali. Tuttavia, il fatto che quei movimenti di liquidità fossero in sé sospetti e rischiosi doveva apparire evidente al personale della banca, in qualsiasi livello fosse inquadrato. L’incapacità dell’istituto di credito di riconoscere quei rischi costituisce una grave mancanza alle proprie regole di condotta e di trasparenza”. Deutsche Bank ha reagito alle contestazioni avanzate nei propri confronti dal dipartimento citato ammettendo di avere commesso “un errore” nell’avere intrattenuto rapporti con Epstein a partire dal 2013. La medesima azienda ha contestualmente comunicato di essere profondamente “dispiaciuta” per avere avuto a che fare con il presunto pedofilo e per avere condotto delle istruttorie “carenti” riguardo ai movimenti di denaro effettuati da quest’ultimo. Il colosso finanziario ha infine evidenziato di avere deciso, al fine di non ripetere gli sbagli commessi nel caso del magnate incriminato, investimenti di circa un miliardo di dollari nel rafforzamento dei propri apparati di vigilanza sulle operazioni rischiose o sospette. Obiettivo della banca sarà appunto evitare che si verifichino in futuro altri scandali suscettibili di danneggiare l’immagine aziendale, attualmente sotto attacco, oltre che per la vicenda-Epstein, anche per il presunto scambio di favori con al centro lo stesso istituto di credito e il Cremlino.

Riccardo Barlaam per ilsole24ore.com l'8 luglio 2020. Pagamenti ai presunti complici. Bonifici a modelle russe. Prelievo in contanti da 100mila dollari per «mance e spese di casa». Quando Jeffrey Epstein chiedeva di effettuare operazioni finanziarie, la filiale americana di Deutsche Bank, il più grande istituto bancario tedesco, non faceva molte domande né effettuava i controlli necessari su transazioni giudicate «sospette» e «ad alto rischio» per un cliente di cui erano noti i trascorsi legati a crimini sessuali. In un accordo giudiziale appena annunciato, la banca tedesca ha accettato di pagare una multa di 150 milioni di dollari al New York Department of Financial Services (Dfs) per chiudere l’inchiesta aperta nel 2019 sui rapporti bancari con il finanziere. Il New York State Department of Financial Services ha spiegato che la banca tedesca è stata multata perché «non ha controllato in modo appropriato le attività bancarie condotte in nome» di Epstein dal 2013 al 2018. A causa della mancata supervisione, «la banca ha approvato centinaia di transazioni per milioni di dollari che avrebbero dovuto portare a un controllo aggiuntivo, alla luce della storia di Epstein». Tra le transazioni, alcune riguardano pagamenti a persone accusate di coinvolgimento negli illeciti di Epstein. Sotto la lente sono finiti anche i rapporti di Epstein in cui ha fatto da tramite Deutsche Bank con le banche corrispondenti Danske Bank Estonia e Fbme Bank. Epstein, arrestato nel maggio 2019 con l’accusa di sfruttamento di minorenni e abusi sessuali, si è suicidato impiccandosi nell’agosto scorso nella cella dove era recluso a New York. Il finanziere era amico dei presidenti Donald Trump e Bill Clinton così come del principe Andrea d’Inghilterra, finito anch’egli nel turbine dell’inchiesta per gli abusi sessuali sulle minorenni. La sua ex compagna Ghislaine Maxwell, accusata di aver gestito per anni l’agenda degli appuntamenti con le minorenni, è stata arrestata pochi giorni fa in New Hampshire. Rischia fino a 30 anni di prigione: molti temono che possa raccontare le sue verità, verità che potrebbero essere imbarazzanti per molti “potenti”. Epstein nel 2008 era stato condannato in Florida per sfruttamento della prostituzione su ragazze minorenni. «Il comportamento criminale e gli abusi sessuali del signor Epstein erano noti da anni, ma le grandi istituzioni bancarie hanno continuato a ignorare la sua storia e hanno prestato la loro credibilità e i loro servizi in cambio dei guadagni finanziari», ha scritto il governatore dello stato di New York Andrew Cuomo in una nota. Gli inquirenti hanno stabilito che Deutsche Bank non è riuscita a monitorare correttamente le transazioni di Epstein nonostante le «ampie» informazioni pubblicamente disponibili sulla sua condotta sessuale. Ciò ha portato la banca a effettuare senza controlli centinaia di transazioni per Epstein che avrebbero dovuto spingere maggiore cautela, compresi i pagamenti alle vittime, i presunti complici e gli studi legali che rappresentano Epstein e i suoi complici. Nei rapporti con Danske Estonia, coinvolta nel 2018 in uno scandalo legato al riciclaggio di denaro dalla Russia da 150 miliardi, e Fbme Bank, gli inquirenti hanno affermato che Deutsche Bank non è riuscita a monitorare adeguatamente le banche corrispondenti e le società di compensazione del cambio con il dollaro. L'amministratore delegato di DB Christian Sewing in una nota interna ha scritto che è stato un errore accettare Epstein come cliente nel 2013. La banca ha anche riconosciuto carenze nei controlli su Danske Estonia e Fbme. «Dobbiamo tutti contribuire a garantire che questo genere di cose non si verifichi più». In tarda serata Deutsche Bank ha diffuso il seguente comunicato: «Riconosciamo il nostro errore nell’accettare Epstein come cliente nel 2013 e le debolezze dei nostri processi, abbiamo imparato dai nostri errori e dalle nostre carenze. Immediatamente dopo l'arresto di Epstein, abbiamo contattato le forze dell'ordine e offerto la nostra completa assistenza nelle indagini. Siamo stati completamente trasparenti e abbiamo affrontato queste questioni con il nostro regolatore, adeguato la nostra tolleranza al rischio e affrontato sistematicamente i problemi. Abbiamo investito circa 1 miliardo di dollari in formazione, controlli e processi operativi e abbiamo allargato il nostro team contro i crimini finanziari a oltre 1.500 persone. La nostra reputazione è la nostra risorsa più preziosa e ci rammarichiamo profondamente per i nostri rapporti con Epstein».

Erica Orsini per “il Giornale” l'11 luglio 2020. Sorvegliata speciale 24 ore su 24. Ghislaine Maxwell, l' ex fidanzata del pedofilo miliardario Epstein, viene monitorata ogni minuto della sua permanenza nel carcere federale di Brooklyn per evitare tentativi di suicidio. I magistrati, davanti ai quali la «dama nera» comparirà per la prima volta martedì 14 luglio nell' udienza per stabilire la cauzione, temono che Maxwell voglia replicare il gesto già compiuto dal suo compagno di crimini. Per questo hanno ordinato di farle indossare soltanto abiti di carta e di privarla delle lenzuola. Inoltre alcuni agenti la proteggono costantemente per proteggerla da eventuali aggressioni da parte delle altre detenute. La donna, accusata di aver procurato a Epstein le minorenni vittime dei suoi abusi e di aver partecipato ad alcuni di questi, è stata arrestata la settimana scorsa nel New Hampshire. La procura ha chiesto che venga trattenuta in carcere in attesa del processo senza poter pagare una cauzione, ma la legge le dà comunque il diritto di chiederla. Martedì prossimo dunque dovrebbe quindi comparire per la prima volta di fronte al giudice, anche se è possibile che al suo posto si presenti soltanto la sua squadra legale, il che garantirà ad ogni modo lo spettacolo visti i nomi che l' accusata è riuscita a mettere insieme. Il team è formato da quattro avvocati, due di una società di New York, gli altri due provenienti da Denver. Tra i primi spicca la figura di Christopher Everdell, che ha lavorato per più di dieci anni per il governo, indagando su frodi complesse, terrorismo e traffico internazionale di droga. La squadra che ha incastrato il noto trafficante El Chapo era guidata da lui. Anche Mark Coen era procuratore federale mentre l' altra coppia, Laura Menninger e Jeffrey Pagliuca, hanno difeso Maxwell nelle precedenti azioni civili intentate contro di lei dalla vittime di Epstein. In questi giorni, durante i quali nessuno di loro ha rilasciato commenti, stanno vagliando un dossier di milioni di pagine dato che alcune accuse risalgono a metà degli Anni Novanta. E si tratta di accuse pesanti come macigni visto che, secondo la Procura, la donna era legata a filo doppio al predatore sessuale Epstein. Per il caso è stato chiesto che non venga concesso il pagamento di una cauzione dato il rischio che Maxwell possa fuggire dal Paese. Ha tre passaporti , dispone di enormi somme di denaro, di amicizie influenti in tutto il mondo e nessun motivo familiare la costringe a rimanere negli Stati Uniti. Ma il fatto che sia rimasta lì per un anno dopo l' arresto di Epstein potrebbe invece giocare a suo favore e indurre il giudice a garantirle la libertà su cauzione.

DAGONEWS il 12 luglio 2020. Un avvocato che rappresenta molte accusatrici di Jeffrey Epstein, tra cui Virginia Roberts Giuffre, che ha raccontato di aver fatto sesso con il principe Andrea, sostiene che il duca di York potrebbe essere stato segretamente filmato a casa del miliardario pedofilo. "Non c'è dubbio che il principe è finito nei video registrati nelle stanze della proprietà di Epstein", ha detto David Boies. Andrea ha negato le accuse contro di lui, incluso il fatto di aver fatto sesso con la Roberts tre volte, la prima quando lei aveva solo 17 anni. Boies, che rappresenta più di una dozzina di vittime di Epstein, ha detto al ''Mail on Sunday'': 'Sappiamo che c'erano telecamere in tutta la villa di New York e nelle altre proprietà di Epstein. Sappiamo che c'è una grande quantità di filmati salvati e archiviati. Il principe è sicuramente immortalato in quelle immagini''. Molte delle vittime di Epstein hanno raccontato di aver visto telecamere di sorveglianza in aree private delle sue proprietà, comprese le camere da letto. Una donna ha ricordato di essere incappata in una ''porta nascosta'' della stupenda residenza newyorkese, dietro la quale vide diversi uomini davanti a molti schermi, ognuno dei quali inquadravano le attività in ogni stanza della casa, le camere da letto e quelle in cui si facevano i massaggi. Maria Farmer, che racconta di essere stata molestata da Epstein con sua sorella negli anni '90, dice di aver visto una "sala multimediale" che aveva televisori installati con i feed delle telecamere di sorveglianza. D'altronde sarebbe questa l'origine del successo e del potere di Epstein: prima invitava amici ricchi e potenti, li faceva accoppiare con il suo esercito di ragazzette raccolte in giro per l'America, documentava tutto, e poi teneva tutti per le palle.

Emily Stefania Coscione per iodonna.it il 12 luglio 2020. La scrittrice Christina Oxenberg, amica di Ghislaine Maxwell e cugina alla lontana del principe Andrea, ha rivelato che l’ex compagna del magnate americano – arrestata la scorsa settimana nel New Hampshire e messa immediatamente sotto sorveglianza anti-suicidio in una prigione di Brooklyn – sarebbe in possesso di video hard registrati dallo stesso Epstein e ora consegnati all’FBI come parte di un accordo di cooperazione che le assicurerebbe una condanna meno lunga dei 35 anni di carcere che le spetterebbero.

La minaccia dei “sex tape”. Nel corso degli anni trascorsi a fianco di Epstein, la Maxwell, 58 anni, si sarebbe procurata copie di tutte le registrazioni effettuate dal miliardario, suicidatosi in carcere lo scorso agosto dopo essere stato accusato di sfruttamento della prostituzione e traffico di minori. E i nastri minacciano ora di esporre tutti quegli amici facoltosi della coppia che avrebbero frequentato i festini nelle residenze del magnate sparse per il mondo. Tra questi, anche il principe Andrea, 60 anni, il quale però continua a negare di aver mai avuto rapporti sessuali con l’allora 17enne Virginia Giuffre e si rifiuta di cooperare con le autorità americane. Che farà la regina? Le minacce della Maxwell costituiscono un vero e proprio incubo per Buckingham Palace, che non avrebbe ancora messo in atto una “strategia” che aiuti il principe a evitare non solo l’umiliazione di una testimonianza forzata al processo, ma anche accuse più gravi. Il danno alla reputazione del terzogenito di Elisabetta, però, è ormai evidente e nonostante Andrea si sia già ritirato permanentemente dalla vita a corte, rinunciando, lo scorso autunno, ai suoi incarichi ufficiali, la sovrana è sotto pressione. A furor di popolo, il duca di York potrebbe addirittura perdere il titolo, con ripercussioni anche per le figlie Beatrice ed Eugenia.

Fl.P. per “il Messaggero” il 16 luglio 2020. L'esistenza di un misterioso marito della ereditiera inglese Ghislaine Maxwell è una delle sorprese emerse durante l'udienza dello scorso venerdì, con la quale la donna ha cercato di ottenere la libertà su cauzione di 5 milioni di dollari in attesa del processo. La richiesta è stata rigettata dalla giudice Alison Nathan. Troppo facile sarebbe per la donna che vanta potenti amicizie ai vertici delle società di mezzo mondo, sottrarsi alla giustizia e cercare di raggiungere la nativa Francia, la quale negherebbe eventuali richieste di estradizione. Ghislaine ha ascoltato il verdetto in collegamento video da una sala del carcere di Brooklyn nel quale è prigioniera. Si è presa la testa tra le mani, e ha versato lacrime di disperazione. Dovrà aspettare in cella il 21 di luglio data della prima udienza del processo che dovrà stabilire il ruolo che lei ha avuto nel reclutare vittime sessuali per il suo amico Jeffrey Epstein. La presenza di un presunto coniuge nella sua vita è stata rivelata da uno dei procuratori che le contestava il fatto di aver presentato una domanda di liberazione senza specificare l'identità e la consistenza finanziaria del marito al quale aveva fatto cenno nel documento. Nell'estate del 2019, quando la Maxwell fece la prima ispezione nella villa del New Hampshire nella quale è stata arrestata due settimane fa, era accompagnata da un uomo, e i due si presentarono all'agente immobiliare come il signor Scott Marshal e la sua signora Janet Marshall. Scott è il nome di Borgerson, il ceo di una società che gestisce dati elettronici sulle spedizioni marittime, e che i tabloid inglesi hanno indicato come l'ospite statunitense e probabilmente l'amante, che Ghislaine ha avuto negli ultimi anni. I due si erano conosciuti nel 2014 durante una conferenza sull'ecologia marina nella quale la donna era relatrice. L'estate successiva Borgerson salutò la moglie e i figli mentre partiva per un viaggio di lavoro in Inghilterra, e due giorni dopo mandò il primo video saluto. Era a Miami, in compagnia romantica con la Maxwell che ha quattordici anni più di lui. La famiglia guardò con sgomento le immagini-confessione della coppia che si baciava davanti al mare. Negli ultimi quattro anni i due avrebbero vissuto insieme in una casa sulla costa a Manchester by The Sea, non lontano da Boston, dove ha sede la società di Borgerson. Due delle ex minorenni che accusano Ghislaine erano presenti in aula venerdì scorso. I legali della donna offrivano la garanzia di un soggiorno in un albergo di lusso per la propria assistita, l'utilizzo di un bracciale elettronico, e limiti severi alla socialità. Una delle vittime che ha chiesto di rimanere anonima ha implorato la giudice di rigettare la richiesta: «L'ho conosciuta per un lungo periodo di dieci anni ha raccontato e so quanto può essere manipolativa e intrigante. Se la lasciate libera, io avrò bisogno di essere protetta da personale di sicurezza». Il telefono della donna è squillato nel cuore della notte qualche tempo fa, e qualcuno ha minacciato la figlia di due anni, se la madre avesse insistito con le accuse alla Maxwell. La seconda testimone, Annie Farmer, ha ricordato che aveva 16 anni quando incontrò Ghislaine la prima volta. «Non ha mai mostrato nessun rimorso per quello che ha fatto a me e a tante altre ragazze». Al culmine di una vita di feste sfarzose, la Maxwell abitava da sola nella villa in New Hampshire nella quale ha fatto irruzione la polizia il 2 di luglio. L'unica compagnia era quella di una guardia del corpo assunta da suo fratello.

Da “il Giornale” il 15 luglio 2020. L'ex fidanzata di Jeffrey Epstein, Ghislaine Maxwell, accusata di aver reclutato ragazze per il finanziere, si è dichiarata non colpevole. La socialite britannica è apparsa in un'audizione, in collegamento video, al tribunale di Manhattan. Maxwell, 58 anni, è stata trattenuta senza cauzione, dal suo arresto avvenuto il 2 luglio nella sua tenuta nel New Hampshire, dove i pubblici ministeri affermano che si è rifiutata di aprire la porta agli agenti dell'Fbi, che hanno fatto irruzione nell'appartamento. È stata accusata di aver reclutato tra il 1994 e il 1997 almeno tre ragazze, di cui una di appena 14 anni, per permettere a Epstein di abusarne. Un'accusa sosteneva di aver aiutato a curare le vittime per sopportare abusi sessuali e che talvolta si trovava lì quando Epstein le abusava. Ha anche affermato di aver mentito durante una deposizione del 2016 in un procedimento civile derivante dall'abuso di Epstein di ragazze e donne. Epstein si è suicidato in carcere nell'agosto 2019. Nei documenti del tribunale, gli avvocati di Maxwell hanno sostenuto che dopo la morte di Epstein i media hanno tentato di «sostituirla» con lui, anche se non aveva avuto più contatti con l'uomo da circa un decennio. I pubblici ministeri avevano sostenuto nei documenti del tribunale, depositati lunedì, che per Maxwell ci sarebbe stato il pericolo di fuga, se fosse stata liberata su cauzione da 5 milioni di dollari, cosa raccomandata dai suoi avvocati. «L'imputata non ha solo il motivo per fuggire, ma i mezzi per farlo in modo rapido ed efficace», hanno scritto i pubblici ministeri, citando il suo accesso a milioni di dollari e le scarse informazioni sulle sue finanze fornite dai suoi avvocati. Gli avvocati di Maxwell hanno affermato che «nega vigorosamente le accuse, intende combatterle e ha diritto alla presunzione di innocenza».

Estratto dell’articolo di An.Lo. per “la Repubblica” il 15 luglio 2020. Ghislaine Maxwell […] ha sostenuto la sua innocenza […] negando di aver convinto le sue prede a vendersi […] sfruttandole poi come schiave sessuali con suo perverso amico […] L'ereditiera figlia di Robert Maxwell, l'ex editore e deputato britannico morto in circostanze misteriose nel 1991, rischia di restare molto a lungo dietro le sbarre. […] fissato la data del processo fra un anno, il 12 luglio 2021. Negata la libertà su cauzione […] Troppo alto il rischio di fuga: grazie all'enorme patrimonio personale - 20 milioni di dollari depositati su conti in banche inglesi e svizzere. E i tre passaporti: britannico, americano e francese, Paese, quest' ultimo, dove non è prevista l'estradizione con gli Stati Uniti. […] Maxwell […] rischia fino a 35 anni di carcere […].  Capace di nascondersi, grazie alla protezione di mercenari britannici assunti dal fratello Kevin, che […] si sono occupati della sua sicurezza e delle sue necessità, pagandone i conti con una carta di credito intestata ad una delle società di famiglia. Suggerendole perfino di avvolgere il cellulare in carta stagnola per non farsi intercettare, com' è stato ritrovato nella sua borsa al momento dell'arresto, lo scorso 2 luglio nel New Hampshire. […]

Quale segreti nasconde Ghislaine Maxwell. Roberto Vivaldelli il 20 luglio su Inside Over. Quanti e quali segreti nasconde Ghislaine Maxwell, socia e presunta complice del finanziere Jeffrey Epstein, morto lo scorso 10 agosto in un carcere di New York? Arrestata il 2 luglio, la Maxwell rischia fino a 35 anni di carcere se condannata: è stata accusata di aver reclutato tra il 1994 e il 1997 almeno tre ragazze, di cui una di appena 14 anni, per permettere al suo ex compagno di abusarne. L’accusa afferma che Maxwell “ha assistito, facilitato e contribuito agli abusi di Jeffrey Epstein sulle ragazze minori, aiutando, tra le altre cose, Epstein a reclutare e infine abusare le vittime conosciute dalla coppia di età inferiore ai 18 anni”. Accuse rispetto alle quali la Maxwell si è dichiarata non colpevole. Nel frattempo è detenuta, in attesa del processo, presso il Metropolitan Detention Center di New York.

Sparita dai radar prima di essere arrestata dall’Fbi. L’ex complice di Epstein, che è stata per lo più fuori lontana dai riflettori a partire dal 2016, è stata arrestata nella sua tenuta a Bradford, nel New Hampshire, lo scorso 2 luglio. Nessuno sapeva, fino a quel momento, dove si fosse nascosta. Prima del 2 luglio, circolavano varie voci e indiscrezioni su dove si fosse nascondesse: secondo Vanity Fair si trovava Londra, mentre altri tabloid suggerivano che Ghislaine Maxwell si fosse rifugiata negli Usa. Il New York Post l’aveva punzecchiata mentre mangiava un hamburger a Los Angeles, mentre leggeva un libro intitolato The Book of Honor: The Secret Lives and Deaths of CIA Operatives. Il Daily Mail, invece, l’ha scovata a Manchester-by-the-Sea, Massachusetts, in una casa da 1,6 milioni di dollari di proprietà del suo amante americano, il milionario Scott Borgerson, 44 anni. Quest’abilità nello sparire letteralmente nel nulla ha convinto i pubblici ministeri statunitensi a tenerla in carcere. I suoi legali, infatti, hanno proposto una cauzione di cinque milioni di dollari e la consegna del passaporto, ma secondo i pubblici ministeri americani c’è il rischio che la Maxwell si dia alla fuga: secondo le condizioni di cauzione proposte, infatti, la 58enne avrebbe rinunciato a tutti i suoi passaporti e si sarebbe limitata a una proprietà a New York con monitoraggio elettronico Gps. Come riporta l’ordine di carcerazione “il rischio di fuga” della Maxwell è esacerbato “dalla natura del suo stile di vita”. In particolare, si legge, “l’imputato si è effettivamente nascosto per circa un anno. Successivamente, lo stesso imputato – che aveva precedentemente fatto molte apparizioni pubbliche – ha smesso completamente di apparire in pubblico, nascondendosi nel New England”. A questo si aggiunge il fatto che, come rivelato da uno dei procuratori che segue il caso, la donna accusata di essere stata la complice del finanziere pedofilo Epstein, è segretamente sposata ma si rifiuta di svelare l’identità’ del marito. Per gli inquirenti, riporta l’Ansa, la presenza del “coniuge misterioso” rappresenta un aspetto non irrilevante che conferma una volta di più la necessità di tenere in carcere l’imputata, viste le difficoltà nello stabilire la reale portata della ricchezza a sua disposizione. Ricchezza che aumenterebbe le possibilità di fuga. Sta di fatto che dopo l’arresto di Jeffrey Epstein, Ghislaine Maxwell, secondo quanto riporta l’Independent, si sposta continuamente. Cambia smartphone nonché indirizzo e-mail di continuo. Non vuole farsi localizzare. Non voleva farsi trovare dai federali oppure da qualcuno che la stava cercando e che magari voleva farle del male? Le stesse persone che potrebbero aver ucciso Epstein in carcere?

I segreti di Ghislaine. Come spiega l’Independent, Maxwell potrebbe essere la chiave per rendere note molte verità sul mondo criminale di Epstein: gli investigatori sostengono che abbia tenuto un piccolo libro nero che documenta i viaggi e gli alloggi del finanziere e dei suoi assidui frequentatori, tra i quali ricordiamo l’ex presidente Bill Clinton, il principe Andrea, il regista Woody Allen oltre al fondatore di Microsoft Bill Gates. “Se collaborasse con gli investigatori – scrive l’Independent – Maxwell potrebbe coinvolgere molti altri personaggi che frequentavano Epstein”. In questo senso, come spiegato da IlGiornale.it, una fonte anonima amica dalla Maxwell ha rivelato al Daily Mail che il materiale hard trovato dagli inquirenti costituirebbe una sorta di “assicurazione” per la donna. “Ghislaine è sempre stata molto abile. Non avrebbe vissuto con Epstein tutti quegli anni senza avere un’assicurazione”, ha spiegato la fonte. “La scorta di video hard che ha messo da parte, credo serva a Ghislaine come carta per uscire di prigione, se le autorità hanno intenzione di trattare. Potrebbe implicare persone importanti”. La complice di Epstein potrebbe dunque fare nomi e cognomi dei frequentatori dei party a base di sesso con minorenni a casa Epstein: “Se Ghislaine affonda, porterà con se tutti coloro che sono implicati”.

Il padre e quella morte mai chiarita: fu omicidio? Un altro mistero riguarda la sua famiglia e suo padre. Ghislaine Maxwell è figlia del celebre editore e imprenditore Robert Maxwell, grande antagonista di Rubert Murdoch, morto il 5 novembre 1991 alle Isole Canarie per un presunto attacco cardiaco, sebbene tre patologi forensi di fama smentirono quest’ipotesi. “È stato un omicidio? Suicidio? O solo un incidente?”, si chiedeva il Guardian qualche tempo fa rispetto alla misteriosa morte dell’editore. Le ultime parole di Robert Maxwell furono comunicate alle 4.45 del 5 novembre 1991 quando contattò il ponte del suo yacht di lusso per lamentarsi della temperatura della sua cabina, chiedendo, con il suo solito tono burbero, che l’equipaggio alzasse l’aria condizionata. Dodici ore dopo, un pescatore spagnolo vide il suo corpo nudo fluttuare nell’Oceano Atlantico, a 15 miglia dalla sua barca. Nei giorni che seguirono la sua morte, emerse che l’editore era preoccupato della disastrosa situazione finanziaria del suo impero. Senza averne l’autorità, aveva usato centinaia di milioni di sterline dai fondi pensione delle sue società per ripianare il suo debito aziendale e il suo stile di vita sopra le righe. Come nota l’Independent, nessuno può essere sicuro di ciò che stava passando per la testa di Maxwell quando lasciò la sua cabina e si diresse verso la parte posteriore del suo yacht da 15 milioni di sterline. Di certo non c’era nulla nella sua vita precedente che suggerisse che fosse il tipo di uomo che avrebbe perso sonno durante una crisi finanziaria. Aveva cominciato la sua vita senza avere nulla, arrivando in Gran Bretagna come da rifugiato all’età di 17 anni in fuga dal nazismo. Come sottolinea Tom Bower, uno dei suoi biografi in Maxwell: The Final Verdict, questa non era una novità: “Chiunque avesse combattuto in prima linea nelle spiagge della Normandia, affrontando il pericolo costante e la morte per mesi e mesi, era improbabile che avesse paura”. L’indagine sulla sua morte non è riuscita a rispondere a nessuna delle domande chiave. Le prove mediche erano ambigue. Si dice poi, come ben documentato nel libro del 2002 Robert Maxwell: Israel’s Superspy: The Life and Murder of a Media Mogul che fu un “super” agente del Mossad, il servizio d’intelligence israeliano. Secondo un altro saggio, Dead Men Tell No Tales, scritto da giornalisti investigativi americani, a introdurre Epstein nei circoli dell’intelligence israeliana fu proprio Robert Maxwell. Da giovane il finanziere frequentava la casa del famoso editore, soprattutto perché interessato a sua figlia Ghislaine, con la quale – com’è noto – ebbe una lunga relazione. Secondo l’ex agente del Mossad Ari-Ben-Menashe, Jeffrey Epstein e Ghislaine Maxwell avrebbero procurato ragazze minorenni ai politici e ai potenti di tutto il mondo, per poi ricattarli per conto dei servizi segreti israeliani.

Chiara Severgnini per corriere.it il 31 luglio 2020. Alcuni documenti, desecretati per volontà della giudice federale statunitense Loretta Preska, portano alla luce nuovi dettagli sul ruolo che Ghislaine Maxwell, 57 anni, avrebbe giocato nella gestione del circuito di abusi sessuali e pedofilia che ruotava attorno Jeffrey Epstein, il consulente finanziario  incriminato nel 2019 per traffico di minori e poi trovato impiccato nella sua cella in circostanze sospette. Tra le carte ci sono anche scambi di mail tra Maxwell ed Epstein e i registri di volo del jet privato del magnate. In aggiunta, nel dossier ci sono anche le deposizioni in cui Virginia Giuffre — principale teste nel processo contro Epstein — ha descritto gli abusi subìti e quelli a cui ha assistito: la donna riferisce di aver visto il magnate e Maxwell partecipare a sesso di gruppo con ragazze giovanissime — «direi di età compresa tra i 15 e i 21 anni», si legge in una delle testimonianze — sull’isola privata del consulente finanziario ai Caraibi.

Le carte. Il dossier è stato reso pubblico il 30 luglio, nonostante il tentativo dei legali di Maxwell di impedirne la divulgazione. Si tratta di oltre 80 documenti relativi ad una causa civile per diffamazione intentata nel 2015 contro Maxwell da Virginia Giuffre, una delle donne che hanno accusato Epstein di avere fatto di loro delle «schiave sessuali», per se e per i suoi amici (tra cui spicca il principe Andrea, figlio della Regina Elisabetta, che però nega ogni accusa). La causa era stata chiusa con un accordo extragiudiziale tra le parti e le carte relative al processo dovevano quindi restare confidenziali, ma la giudice Preska ha ritenuto che l’interesse pubblico, ora che Maxwell è coinvolta in una nuova causa, sia prevalente rispetto all’accordo di segretezza.

Le accuse contro Maxwell. Maxwell è stata arrestata il 2 luglio, dopo mesi di latitanza, in una villa di Bradford, nel New Hampshire. È accusata di essere stata complice degli abusi che avvenivano nelle proprietà di Epstein alla fine degli Anni 90 e all’inizio degli Anni 2000: secondo quanto riferito da Giuffre, sarebbe stata proprio Maxwell ad avvicinarla e a convincerla ad avere rapporti con Epstein, nel 2000, dopo averla conosciuta nel resort di Donald Trump a Mar-a-Lago. All’epoca, Giuffre aveva 17 anni e lavorava come guardarobiera. L’ipotesi dell’accusa è che Maxwell abbia gito in modo simile anche con altre donne e ragazze: faceva conoscenza, poi diventava loro amica, conquistava la loro fiducia e le introduceva al circuito sociale di Epstein, per poi indurle ad avere rapporti con lui (e, in alcuni casi, anche con gli amici di lui). In alcuni casi il ricatto psicologico includeva l’uso del denaro: molte delle donne coinvolte provenivano da famiglie povere e Ghislainele convinceva ad accettare assegni o doni, in modo che si sentissero in debito. Maxwell, inoltre, avrebbe organizzato e gestito le trasferte di minori dagli States ai Caraibi o a Londra per i giochi sessuali di Epstein. E, come emerge anche dalle carte appena desecretate, è accusata anche di aver partecipato in prima persona alle violenze sessuali.

Il processo. Non è la prima volta che Maxwell viene accusata di avere un ruolo nel circolo di abusi che ruotava attorno al suo ex compagno: nel corso degli anni, è stata più volte coinvolta in cause civili. alcune delle quali concluse con accordi extragiudiziali non resi pubblici. Pubblicamente, la donna ha sempre negato ogni accusa. Questo è il primo processo penale intentato contro di lei. I capi d’accusa sono sei e vanno dall’associazione a delinquere per l’adescamento di minori al traffico sessuale, fino alla falsa testimonianza. La donna si è dichiarata non colpevole, anche questa volta: «Nessun coinvolgimento e nessuna conoscenza dei presunti misfatti di Epstein», si legge in una memoria depositata in tribunale in occasione del processo al magnate, nel 2019.

Estratto dell’articolo di Alberto Flores D’Arcais per “la Repubblica” l'1/8/2020.(…)Nelle carte Virginia Giuffre racconta come Epstein si vantasse delle giovanissime ragazze che arrivavano sull' isola: «La cosa più terribile che gli ho sentito dire è che erano arrivate due dodicenni dalla Francia come regalo di compleanno di un suo amico». La terza accusatrice ricorda anche come sul jet privato di Epstein abbiano viaggiato decine di persone famose: non solo Bill Clinton ma - secondo alcuni media Usa che hanno letto la testimonianza della donna - anche Al Gore, Naomi Campbell, Heidi Klum e il grande avvocato Alan Dershowitz, quello che ha difeso O.J.Simpson e più recentemente Donald Trump dalle accuse di impeachment .

Giuseppe Sarcina per il “Corriere della Sera” l'1/8/2020. L' avvocato Jack Scarola chiede alla sua assistita, Virginia Giuffre: «Ci sono mai state orge nell' isola privata di Jeffrey Epstein? C' era anche Bill Clinton?». Risposta: «Sì, Clinton era accompagnato da due ragazze molto giovani di New York. Jeffrey Epstein disse con una risata: "Bill mi deve dei favori". Non ho mai saputo se dicesse sul serio o se fosse una battuta. Aggiunse: "Tutti mi devono dei favori"». Adesso si capisce perché i legali di Ghislaine Maxwell, l' ex fidanzata del finanziere Jeffrey Epstein, abbiano cercato in tutti i modi di impedire la pubblicazione delle carte processuali riferite alla causa intentata nel 2015 da Virginia Giuffre. La donna, oggi 36 anni, ha raccontato in tribunale di essere stata costretta ad avere rapporti sessuali con Epstein e i suoi amici. Faceva parte dell' ampio giro di ragazzine reclutate agli inizi degli anni Duemila da Ghislaine Maxwell, 58 anni, figlia del controverso editore britannico Robert Maxwell. Ieri Loretta Preska, giudice del Southern District di New York, ha deciso di «desecretare» gli atti del contenzioso che si chiuse nel 2017 con una somma (mai quantificata), versata da Maxwell, come ha poi fatto in tante altre occasioni. Bill Clinton era già stato chiamato in causa nei mesi scorsi, quando dai registri di volo, si scoprì che era stato molte volte ospite del jet privato di Epstein, il cosiddetto «Lolita Express». Ora la trascrizione della testimonianza di Giuffre ci trasporta nella Little St. James Island, proprietà privata del finanziere, suicidatosi in un carcere di Manhattan il 10 agosto dello scorso anno. In quel puntino delle Virgin Islands, disperso nei Caraibi, Epstein si trastullava con massaggi e festini sessuali. Ghislaine organizzava, riceva gli ospiti illustri e partecipava attivamente alle orge. Nella lista degli invitati, oltre al nome dell' ex presidente democratico, ricorrono quelli del principe Andrea d' Inghilterra, figlio della regina Elisabetta, la cui posizione sembra aggravarsi: Epstein avrebbe costretto Virginia a fare sesso con il principe «e a raccontargli i dettagli dell' abuso sessuale», per poter ricattare il membro della famiglia reale britannica. C' era anche il celebre avvocato Alan Dershowitz, che all' inizio dell' anno ha difeso Donald Trump nella procedura di impeachment al Congresso. Come Clinton e Andrea, anche lui ha più volte smentito ogni coinvolgimento. Virginia ricorda che fu avvicinata da Ghislaine nel 2000. Aveva 15 anni e lavorava nella spa del resort di Mar-a-Lago di Donald Trump. Non è una coincidenza. Jeffrey, Ghislaine e Donald frequentavano insieme i locali di Manhattan e gli eventi mondani di Palm Beach in Florida. Lo stesso presidente lo ha confermato in una conferenza stampa, lo scorso 24 luglio, augurando a Maxwell di «stare bene». Nella documentazione ci sono anche le mail scambiate tra Jeffrey Epstein e la sua partner. Alcune risalgono al 2015, mentre Maxwell aveva dichiarato di non aver avuto più contatti con lui da oltre dieci anni. In una di queste il finanziere scrive: «Non hai fatto niente di male e ti invito a regolarti di conseguenza. Esci, gira a testa alta, vai alle feste». Completamente diversa la conclusione di Virginia Giuffre: «Ghislaine è la persona che abusava di me in modo sistematico. Era lei che mi aveva ingaggiata, spiegato che cosa dovessi fare, addestrata a diventare una schiava sessuale. Merita di rispondere di tutto ciò davanti alla giustizia. E mi disgusta che sia una donna».

"Clinton mi deve certi favori...". E nelle carte di Epstein spunta anche Bill. Nelle carte segrete sul caso Maxwell, appena desecretate dal giudice Preska, appare un nome di grande rilevanza: quello di Bill Clinton. L'ex presidente degli Stati Uniti sarebbe stato visto sull'isola privata di Jeffrey Epstein, il quale ha affermato che gli doveva "dei favori". Mariangela Garofano, Sabato 01/08/2020 su Il Giornale. L’arresto della “madam" di Jeffrey Epstein, Ghislaine Maxwell, sta portando alla luce nomi e aneddoti collegati al defunto milionario accusato di pedofilia. Tra i nomi presenti nei documenti recentemente desecretati dal giudice Loretta Preska, ce n’è uno molto scomodo: quello dell’ex presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton. Come si apprende dal Daily News, la documentazione consiste in centinaia di pagine facenti parte di una causa intentata da Virginia Giuffre contro Ghislaine Maxwell nel 2015. La donna, che sostiene di essere state una schiava sessuale di Epstein e dei suoi facoltosi amici, ha accusato la “dama nera” di essere colei che adescava le minorenni per gli appetiti malati di Epstein e di aver abusato in prima persona delle ragazze. “Ricordo di aver chiesto a Jeffrey, che ci fa qui Bill Clinton?”, si legge nei documenti ora resi noti al pubblico. “Lui si mise a ridere e disse che gli doveva un favore. Non mi disse mai che favore gli dovesse. Non so se fosse serio o se stesse scherzando. Una volta mi disse che tutti erano in debito con lui, e che tutti gli dovevano dei favori”. A quanto sostiene la Giuffre, Clinton sarebbe stato presente sull’isola privata ai Caraibi di Epstein, Little Saint James. “Vidi Clinton con due ragazze di New York sull’isola”, ha dichiarato la Giuffre, ma un portavoce dell’ex presidente ha affermato che Clinton non ha mai messo piede sull’isola del “peccato” del magnate. Bill Clinton tuttavia, fu fotografato in compagnia di Jeffrey Epstein a bordo del suo jet diretti in Africa, per una missione umanitaria, e nelle foto del matrimonio della figlia Chelsea tra gli invitati fa capolino un’elegante Ghislaine Maxwell. Oltre che nelle carte appena svelate, il nome di Bill Clinton si legge anche in “A convenient Death: The mysterious demise of Jeffrey Epstein”, libro che cerca di far luce sulla misteriosa morte per suicidio del magnate. Il legale Alan Dershowitz, accusato anch’egli dalla Giuffre di aver abusato di lei, ha rivelato di quando Epstein invitò l’ex presidente americano a partecipare ad un festino hard con Mick Jagger e diverse ragazze, durante un viaggio in Asia. Clinton, secondo i racconti di Epstein, avrebbe declinato l’invito, ma il diabolico milionario specificò che se fece qualcosa con le ragazze, “non lo fece in pubblico”.

Caso Epstein, una testimone mette in difficoltà Clinton: "Era sull'isola con due ragazze". Pubblicato venerdì, 31 luglio 2020 da La Repubblica.it. Virginia Giuffre, la grande accusatrice di Jeffrey Epstein, il milionario morto suicida l'anno scorso mentre si trovava in carcere con l'accusa di traffico sessuale di minorenni, ha raccontato di aver visto l'ex presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton, sull'isola privata di Epstein nel 2011, accompagnato da "due ragazze giovani" arrivate da New York. E' quanto emerge dalla testimonianza di Giuffre contenuta nei documenti che la corte federale di Manhattan, a New York, ha desecretato ieri notte, secondo quanto riporta l'agenzia Agi. Il testo, registrato nel 2011,  fa parte di una causa avviata dalla ex ragazza dell'harem di Epstein nei confronti dell'ex amante e collaboratrice di Epstein, Ghislaine Maxwell. Secondo la donna, interrogata dall'avvocato Jack Scarola, Epstein avrebbe detto che Bill Clinton gli doveva dei favori e per questo si trovava sull'isola. "Lo disse con una risata" ha spiegato Virginia Giuffre che non ha mai ricevuto una spiegazione sull'entità dei favori in questione: "Non l'ho mai saputo. E non ho saputo se dicesse sul serio o fosse solo una battuta. Ma mi disse che tutti gliene dovevano e che lui li aveva tutti in mano". Alla domanda dell'avvocato se ci fossero state orge nell'isola, Giuffre risponde "sì" e conferma che Clinton si trovava sull'isola con "Queste due ragazze giovani di New York". Già in passato era emersa l'amicizia tra Clinton e Epstein. Il milionario aveva offerto numerose volte un passaggio sul suo jet privato, soprannominato "Lolita Express". Sul jet era costante la presenza di minorenni durante i voli verso l'isola caraibica di Little Saint James, di proprietà di Epstein. Giuffre ha raccontato che sull'aereo salivano spesso personaggi famosi, inclusi l'ex vicepresidente Al Gore e le modelle Naomi Campbell e Heidi Klum. La Fondazione Clinton, nel 2019, aveva confermato la presenza dell'ex presidente in quattro voli, ma dai documenti di bordo in mano alla procura risulta che l'ex presidente prese posto sul jet almeno undici volte. Tra i documenti di Ghislaine Maxwell desecretati dal tribunale degli Stati Uniti, c'erano anche delle e-mail scambiate tra la socialite e Jeffrey Epstein dell'inizio del 2015 in cui l'uomo la rassicura scrivendole "Non hai fatto nulla di sbagliato (...). Esci a testa alta, non come una criminale in fuga". Lunedì potrebbero essere pubblicati ulteriori documenti relativi al caso Epstein e fra questi potrebbe esserci anche parte della deposizione di Maxwell. Tutto dipenderà dalla battaglia legale in corso per cercare di bloccarne la pubblicazione. Nel procedimento giudiziario contro la socialite, la Giuffre accusava la Maxwell di averla attirata con l'inganno, quando era un'adolescente, nella cerchia dell'ex finanziere, offrendole un lavoro come massaggiatrice. Secondo la Giuffre, Epstein e la Maxwell le fecero pressioni affinché avesse rapporti sessuali con ricchi e potenti personaggi, tra i quali il principe Andrea, politici statunitensi e ricchi imprenditori. I legali della Maxwell si sono a lungo opposti alla pubblicazione dei documenti, che contengono le deposizioni della Giuffre, decisa il 23 luglio dal giudice della corte federale di Mahnattan, Loretta Preska. Rimangono invece ancora riservati i documenti contenenti le deposizioni della Maxwel, sui quali pende la decisione di un giudice di appello. Epstein, già condannato in passato per abusi sessuali, si è ucciso lo scorso agosto nel carcere di New York, dove era in attesa del processo per nuovi reati sessuali, tra i quali il traffico di minori. La Maxwell, figlia dell'ex editore Robert Maxwell, è invece stata arrestata il 2 luglio con l'accusa di aver preso parte ai traffici sessuali di Epstein. Il 14 luglio si è dichiarata non colpevole davanti al giudice ed è ora in carcere in attesa di processo.

Anna Guaita per ''Il Messaggero'' il 3/8/2020. Sono stati distrutti dopo due anni. I tabulati che elencavano i turni delle guardie del corpo del principe Andrew non sarebbero più disponibili. Gli investigatori di New York non avranno dunque modo di convalidare o contestare l'alibi che il principe cita a propria discolpa per la notte del 10 marzo 2001. Lui assicura che si trovava nella sua villa di Sunninghill Park, nella contea di Bershire, insieme alle due figlie Beatrice e Eugenia, allora di 10 e 11 anni. Ma Virginia Roberts Giuffrè sostiene invece che il principe quella notte la passò con lei, a fare sesso, in una lussuosa casa nel quartiere di Belgravia a Londra. La Giuffrè aveva allora 17 anni, e la sua testimonianza è oggi al centro del processo per sfruttamento sessuale di minori ai danni di Ghislaine Maxwell, l'ereditiera britannica che per anni era stata al fianco del pedofilo Jeffrey Epstein, suicida in carcere un anno fa. Giuffrè sostiene che Epstein e Maxwell la obbligarono a intrattenere il principe varie volte, sia nel ranch che Epstein aveva nel Nuovo Messico, sia a New York, che a Londra e nell'isola privata che il finanziare possedeva nei Caraibi. La questione dei tabulati era stata sollevata da una guardia reale, che ha detto al tabloid britannico Daiy Mail di avere un ricordo diverso di quella notte rispetto a quel che dice il principe. L'uomo sostiene che Andrew era tornato a notte fonda a Buckingham Palace su un'automobile guidata da una delle guardie del corpo, e assicura di ricordare bene perché il principe era stato maleducato con le guardie di turno al palazzo e lui aveva presentato un reclamo sulla sua condotta. Proprio questa ex guardia ha chiesto di vedere i tabulati e si è sentito rispondere dopo quasi cinque mesi di attesa che non esistevano più perché vengono conservati solo per due anni: «Sono deluso ha detto l'uomo al Daily Mail -. E sono sorpreso anche di scoprire che i documenti circa la famiglia reale e la sua protezione vengono distrutti, per di più appena dopo due anni». La testimonianza della Giuffrè che coinvolge il principe fa parte di un processo per diffamazione che la donna aveva intentato contro Ghislaine Maxwell nel 2016 e che si era risolto con un accordo fra le due parti. I documenti erano allora stati sigillati con il benestare del giudice che aveva avuto la gestione del caso, ma sono stati in parte desecretati l scorsa settimana dal giudice Loretta Preska, che sta adesso presiedendo al nuovo processo contro la Maxwell. La 58enne cittadina britannica è tuttavia riuscita a ottenere che per il momento non venga resa nota quella parte dei documenti del processo in cui erano state trascritte le sue testimonianze. I suoi avvocati ricordano che Ghislaine aveva accettato di testimoniare a patto che le sue parole rimanessero confidenziali e sigillate, e solo a quella condizione aveva parlato della sua vita sessuale privata e dei contatti che aveva avuto con numerosi vip. Il giudice deciderà il 22 settembre se quell'accordo debba essere ancora considerato valido. Nel frattempo, la lunga ricostruzione che Giuffrè ha fatto degli anni fra il 2001 e il 2003, come «schiava del sesso» di Epstein e Maxwell, rimane l'unica testimonianza pubblica di una delle ragazze. E le pagine sul principe sono ricche di particolari piccanti, come il fatto che lui era «in adorazione» del corpo giovane della 17enne Virginia, tanto che arrivava a baciarle e leccarle i piedi. Come il fatto che ogni volta che la vedeva lui la abbracciava come se rivedesse una cara amica, mentre lei fra sé e sé sbuffava al pensiero di quello che le sarebbe toccato fare. Il principe dal canto suo nega con forza di aver avuto questi rapporti con la giovane, anche se non ha mai negato l'amicizia con Epstein.

L'amico gli sconsigliò di vedere Epstein, ma Andrea replicò duro: "Sei solo un bigotto". Un amico del principe Andrea di York ha rivelato di avergli sconsigliato di frequentare Jeffrey Epstein, ma la replica del duca fu molto dura: "Lasciami in pace, sei solo un bigotto". Mariangela Garofano, Mercoledì 19/08/2020 su Il Giornale.  Secondo l’Express il principe Andrea rifiutò il consiglio di un amico di tagliare i ponti con Jeffrey Epstein. Il duca di York fu introdotto al magnate pedofilo nel 1999 da Ghislaine Maxwell, all’epoca già da tempo amica di Andrea e ben inserita nell’alta società britannica. Ma quando nel 2005 Epstein venne indagato per la prima volta per traffico della prostituzione, il terzogenito di Elisabetta non smise di frequentarlo, attirandosi le critiche del bel mondo. Un conoscente ha rivelato a Vanity Fair di aver tentato di convincere il duca a non frequentare più il disgraziato finanziere, a causa delle pesanti accuse a suo carico. Ma il consiglio dell’amico non fu accolto dal duca in modo positivo, al contrario, Andrea dimostrò di non avere alcuna intenzione di rinnegare l’amicizia con Epstein. “Dopo che Jeffrey fu condannato, telefonai ad Andrea e gli dissi: ‘Non puoi continuare ad avere un rapporto con Jeffrey’”, racconta la fonte, che prosegue: “Lui mi disse: "Smettila di tormentarmi. Sei solo un bigotto! Lasciami in pace, Jeffrey è mio amico, essere leali con gli amici è una virtù. E io gli sarò fedele"”. Nemmeno una condanna per traffico della prostituzione fecero dunque cambiare idea a “Randy Andy” circa il suo “amico”. Anzi, lealtà a parte, pare che il fatto che Epstein potesse essere colpevole di reati su minori e registrato come predatore sessuale, fosse una sottigliezza tale da definire l’amico preoccupato come un puritano. Quando a novembre scorso Andrea rilasciò la famosa intervista per la Bbc, dichiarò di essere pentito dei suoi legami con il finanziere, ma di non aver mai sospettato nulla circa i reati da lui commessi. Jeffrey Epstein è stato arrestato a luglio 2019 con l’accusa di abuso e traffico di minore. Ad agosto dello stesso anno fu trovato impiccato nella sua cella, in circostanze ancora oggi non del tutto chiare. Quasi esattamente un anno più tardi la sua complice, la raffinata “adescatrice” di ragazze Ghislaine Maxwell, viene arrestata dopo un anno in fuga. La donna, accusata di cospirazione nel traffico di prostituzione minorile e abuso di minore, è detenuta in isolamento, sorvegliata 24 ore su 24 in attesa del processo, che avrà luogo a luglio 2021.

Le perversioni del principe Andrea nelle carte desecretate del processo Epstein. Pubblicato lunedì, 03 agosto 2020 da Enrico Franceschini su La Repubblica.it “Dovevo lasciare che mi montasse sulla schiena come per cavalcarmi e voleva perfino leccarmi le dita dei piedi”, avrebbe raccontato Virginia Giuffre spiegando nei dettagli i due giorni trascorsi con il duca di York nel 2001 nel ranch del miliardario nel New Mexico. Era già accusato di avere fatto sesso con una minorenne. Poi è saltato fuori che a costringerla ad andare a letto con lui sarebbe stato Jeffrey Epstein, allo scopo di comprometterlo per poterlo ricattare e usarlo come suo lobbista nei confronti delle autorità giudiziarie americane. Adesso sul principe Andrea saltano fuori anche presunte perversioni: “Dovevo lasciare che mi montasse sulla schiena come per cavalcarmi e voleva perfino leccarmi le dita dei piedi”, avrebbe raccontato la donna in questione, l’americana Virginia Roberts Giuffre, secondo un manoscritto appena desecretato che sarebbe uscito dalle carte del processo al miliardario pedofilo morto suicida in carcere nel 2019 e a Ghislaine Maxwell, la dama dell’alta società inglese recentemente arrestata negli Stati Uniti dopo una lunga latitanza. Il documento, riportano agenzie di stampa e siti di news, descrive nei dettagli i due giorni trascorsi dal duca di York nel ranch di Epstein in New Mexico nel 2001 in compagnia di Virginia, la “schiava del sesso” di Epstein e Maxwell. All’epoca dei fatti, Virginia aveva 17 anni. Oggi, sposata e con figli in Australia, è diventata la principale accusatrice del terzogenito della regina Elisabetta nello scandalo di abusi sessuali che gira attorno allo scomparso e controverso uomo d’affari americano. “Il mio lavoro era intrattenerlo a oltranza, dal prestargli tutto il mio corpo durante un massaggio erotico magari lasciare che mi salisse sulla schiena per cavalcarmi”, afferma Roberts nel manoscritto. “Gli piacevano i miei piedi”, continua “e per questo mi ha persino leccato tra le dita. Tra noi non c’era alcuna passione, per lui ero solo una ragazza come tante e per me lui era solo un altro lavoro. Non è mai stato semplice soddisfare i desideri sessuali degli strani uomini che mi presentava Epstein. E il principe era uno di loro”. Non è la prima volta che parla dei gusti particolari di Andrea sotto le lenzuola: “Entrò con me nella vasca, mi leccò le dita dei piedi e mi portò a letto”, aveva già dichiarato anni fa, all’inizio dello scandalo. Per le 48 ore con Andrea nel ranch, Virginia avrebbe ricevuto dal miliardario 1000 dollari. Ma era tornata a New York disgustata dall’incontro, facendo il conto alla rovescia in attesa di tornare a casa. Al rientro, Epstein e Maxwell le domandarono come era andata con il principe e lei rispose che lo aveva soddisfatto in ogni modo e che le era sembrato contento. Il duca di York ha sempre negato le accuse e perfino di averla mai incontrat, sebbene ci sia una foto, pubblicata da tutti i giornali, che lo ritrae mentre le cinge la vita sorridente, con Ghislaine Maxwell alle loro spalle. La regina Elisabetta, per prendere le distanze dalla vicenda, ha esautorato Andrea da ogni compito di rappresentanza della famiglia reale. Il principe non è nemmeno apparso nelle fotografie ufficiali del recente matrimonio di sua figlia Beatrice con il conte italiano Edoardo Mapelli Mozzi.

DAGONEWS il 5 agosto 2020. Un amico di Ghislaine Maxwell ha rivelato i dettagli di una “inquietante” canzone che gli è stata commissionata da Ghislaine Maxwell per il party per il 40esimo compleanno di Jeffrey  Epstein. Christopher Mason, 54 anni, che vive a Manhattan, scrive canzoni satiriche e dopo l'incontro con Maxwell nel 1989, gli venne chiesto di esibirsi al party del pedofilo milionario dove cantò una canzone in cui si “parlava di erezioni che duravano 24 ore” e di “scolarette che avevano una cotta per Epstein”. «Mi presento, mi siedo in mezzo alla stanza a gambe incrociate con il completo di Karate di Epstein che Ghislaine mi aveva chiesto di indossare. Era studiato in modo da farlo andare di matto quando mi avesse visto vestito in quel modo. In questa stanza, c'era un'atmosfera da club con gentiluomini che si godevano la reciproca compagnia. A pensarci a posteriori è stato tutto molto inquietante. Per scrivere i miei versi prendo informazioni sulla persona facendo domande in giro, ma Ghislaine mi disse che non dovevo parlare con nessuno di quello che stavo facendo. Mi venne chiesto di inserire nella canzone dei versi in cui si diceva che Epstein aveva erezioni di 24 ore e che le sue studentesse avevano una cotta per lui». Poi  Christopher si è soffermato sul rapporto perverso che legava Ghislaine a Epstein: «Era come se fosse diventato un padre da cui ricevere approvazione. Lei era la sua preferita e avrebbe fatto qualsiasi cosa per compiacerlo». Secondo Christopher, Ghislaine ha incontrato Epstein dopo che si era trasferita in un "modesto" appartamento con una camera da letto a New York: «Dopo averlo incontrato per lei è cambiato tutto. Nella sua vita erano tornati aerei privati e yacht».

Elisa Messina per "corriere.it" il 6 agosto 2020. Tra i nomi delle ragazze presenti nella villa degli abusi del milionario americano Jeffrey Epstein compare ora un nome noto nell’alta società britannica, quello della 44enne Clementine Hambro, detta “Clemnie”. Aveva 23 anni, non era minorenne, all’epoca del viaggio a Little St. James Island, proprietà privata del finanziere suicidatosi nel carcere di New York il 10 agosto scorso, ma il nome di Clamnie (venuto fuori dopo che sono stati resi noti i registri di volo dei jet privati) è di quelli che fanno rumore all’interno dell’inchiesta americana sul caso Epstein. Tanto che alla sua storia il tabloid britannico Daily Mail dedica la prima pagina di oggi e raccoglie le sue dichiarazioni in merito.

La pupilla di Lady D. Miss Hambro era la più piccola delle damigelle di nozze al matrimonio di Carlo e Diana d’Inghilterra, nel 1981. Quella che, nella celebre foto del bacio degli sposi dal balcone di Buckingham Palace, ha il dito in bocca e l’aria annoiata. Naturale che fin da piccolissima frequentasse case e palazzi delle famiglie inglesi che contano: il suo bisnonno era Sir Winston Churchil e la sua educatrice nell’elitaria scuola materna Pimlico di Londra era una giovanissima Lady D. Dopo aver vissuto per un periodo negli Stati Uniti - dove ha fatto in tempo a frequentare una scuola di recitazione, lavorare come attrice e come impiegata in una casa d’aste, chiudere la relazione con un finanziere americano a pochi giorni dalle nozze - Clementine Hambro è tornata nella madrepatria e si è sposata con Orlando Fraser (uno dei sei figli di Lady Antonia Fraser, celebre storica e moglie di Harold Pinter) da cui ha avuto quattro figli. E ora è un attiva autrice di testi di giardinaggio.

Il suo nome tra i passeggeri del jet di Epstein. Il nome di Clamnie Hambro risulta, per due volte, nell’elenco dei passeggeri che hanno volato a bordo dei jet privati di Jeffrey Epstein. In entrambe le occasioni era stata ospite nelle lussuose ville dove, in base all’inchiesta, Epstein abusava di ragazze minorenni assieme ad altri amici e con la complicità della ex fidanzata e socia Ghislaine Maxwell. Una di queste ville era a Little St James nelle Isole Vergini.

«Ai Caraibi non mi sono divertita». Al Daily Mail Clamnie Hambro ha raccontato le circostanze dei due soggiorni precisando però di non aver mai subito alcun abuso e neppure di avervi assistito. All’epoca dei viaggi, nel 1999, miss Hambro aveva 23 anni e lavorava per la casa d’aste Christie’s a New York. Il primo viaggio, da New York a Santa Fe, in Nuovo Messico, dove Epstein aveva acquistato un ranch, era stato per motivi lavoro, racconta lei: con altre colleghe doveva visionare la nuova dimora e discutere su quali opere d’arte il milionario avrebbe acquistato. Il secondo viaggio, invece, quello nell’isola caraibica era stato un invito personale, di piacere. Ma di piacevole, forse, c’era stato poco in quel soggiorno, se Hambro si è sentita in dovere di precisare: «Non conoscevo nessuno, non mi sono divertita e così non ci sono mai più tornata». Stiamo parlando delle proprietà caraibiche di Epstein finite sotto inchiesta anche da parte dei procuratori delle stesse Isole Vergini: nelle ville del milionario si praticavano abusi di ogni genere ai danni di giovani donne e bambine di 13 anni. Epstein e gli amici portavano le ragazze alle Vergini, quindi le spostavano in barca o in elicottero nella proprietà di Little St. James, secondo l’accusa, proprio per agire indisturbati.

«Ero giovane e ingenua». Miss Hambro nega di aver visto o subito abusi nelle circostanze dei suoi viaggi ma non difende Epstein: «Sono stata molto fortunata» ammette. «Ora so cosa è successo su quell’isola. il mio cuore va a coloro che sono state abusate da lui e confido che ottengano la giustizia che meritano». Nel suo discorso, la pronipote di Churchill dichiara anche: «Ero giovane e ingenua, non immaginavo cosa sarebbe successo».

I testimoni degli abusi. Molti dei dettagli sugli abusi di Epstein e sul ruolo “organizzativo” avuto dalla sua socia Ghislaine Maxwell sono venuti fuori dopo che la giudice federale americana Loretta Preska ha tolto i sigillo ai documenti dell’inchiesta: Ghislaine, che nega ogni coinvolgimento, sarebbe stata la vera regista del circolo di abusi sessuali e pedofilia di Epstein. Tra le carte ci sono anche scambi di mail tra Maxwell ed Epstein e i registri di volo del jet privato del magnate. In aggiunta, nel dossier ci sono anche le deposizioni in cui Virginia Giuffre , principale teste nel processo contro Epstein, ha descritto gli abusi subìti e quelli a cui ha assistito ed è anche una delle accusatrici del principe Andrea d’Inghilterra, sodale di Epstein: la donna riferisce di aver visto il magnate e Maxwell partecipare a sesso di gruppo con ragazze giovanissime — «direi di età compresa tra i 15 e i 21 anni», si legge in una delle testimonianze — sull’isola privata del consulente finanziario ai Caraibi. Ma i nomi presenti nei registri dei voli potrebbero rivelare ancora molte sorprese circa le frequentazioni del miliardario pedofilo.

Anche la damigella di Lady Diana nella villa di Epstein. Le indagini sul caso Epstein proseguono, rivelando nuovi retroscena, tra cui la presenza, nella villa degli abusi, di Clementine Hambro, nipote di Winston Churchill e damigella al matrimonio di Lady Diana. Francesca Rossi, Giovedì 06/08/2020 su Il Giornale. Lo scandalo Epstein sembra un fiume in piena da cui riemergono ogni settimana indiscrezioni che non smettono di indignare l’opinione pubblica, né di instillare nuovi dubbi su questa squallida vicenda. L’ultimo retroscena in ordine di tempo vede coinvolta una personalità di spicco del gotha inglese, la bisnipote di Winston Churchill, figlia del banchiere Richard Hambro, ovvero la quarantaquattrenne Clementine Silvia Hambro. Una donna molto conosciuta non solo per la sua ascendenza, ma anche per essere stata, a soli 5 anni, la più giovane damigella al matrimonio di Lady Diana, avvenuto il 29 luglio 1981. Oggi Clementine Hambro si trova, suo malgrado, invischiata nel caso Epstein, ma il suo ruolo sembrerebbe marginale, per nulla collegabile né a quello di vittima, né a quello di carnefice. Stando alle notizie riportate dal Daily Mail, la Hambro, oggi scrittrice, avrebbe viaggiato sul jet privato di Epstein per due volte, nel febbraio e nel marzo 1999. Dai documenti depositati al tribunale di New York i viaggi avrebbero portato via Clementine da due delle case private di Epstein. La prima volta dal ranch in New Mexico, la seconda dall’isola privata ai Caraibi, a Little St. James, ovvero nell’ormai nota “villa degli abusi”, come la chiamano i giornali. Dunque si trattò di viaggi di ritorno. Non sappiamo, invece, come la Hambro sia arrivata nelle due residenze. Inoltre, a quanto risulta, il finanziere americano sarebbe stato su entrambi i voli, mentre la sua ex fidanzata e presunta complice Ghislaine Maxwell avrebbe preso parte solo a uno di questi. All’epoca Clementine Hambro, che aveva solo 23 anni, lavorava per la nota casa d’aste Christie’s e si sarebbe recata nelle abitazioni dell’imprenditore per consigliarlo in merito a degli acquisti di oggetti d’arte. Quindi la nipote di Churchill avrebbe avuto con Epstein un contatto professionale e nulla di più. Il Dailly Mail ha riportato le parole della scrittrice, inorridita dallo scandalo ma decisa a spiegare la sua posizione in questa storia da incubo. La Hambro ha raccontato: “Il primo volo fu un viaggio di lavoro con delle colleghe per vedere la nuova casa di Epstein a Santa Fe e per discutere sul tipo di oggetti d’arte che lui aveva intenzione di comprare. Il secondo viaggio, a Little St. James, fu un invito personale che pensai potesse essere carino accettare, ma non conoscevo nessuno lì, non partecipai davvero e non tornai mai più. Il mio cuore si spezza al pensiero dei sopravvissuti, ora so cosa accadde su quell’isola”. Clementine Hambro ha sottolineato anche di non aver subito alcuna molestia mentre si trovava nelle dimore di Epstein, rivelando: “Nel corso di questi due viaggi, nessuno abusò di me, né io fui testimone di abusi o di qualunque altra situazione sconveniente, con minori o meno”. Riferendosi a Epstein, la Hambro ha aggiunto: “Sono sconvolta dalle rivelazioni sul suo comportamento…Sono stata chiaramente molto fortunata, il mio pensiero va a quanti hanno subito abusi da lui e ho fiducia che otterranno la giustizia che meritano”. Guardandosi indietro, riflettendo sulla “se stessa” degli anni di quei viaggi, Clementine Hambro ha ammesso una certa mancanza di consapevolezza, dichiarando: “Ero giovane e ingenua, non potevo neanche concepire ciò che sarebbe successo”. Il Times riporta anche un’altra notizia relativa al comportamento riprovevole di Epstein. Un’indiscrezione raccontata nel libro “The Grifter’s Club”, scritto da quattro giornalisti. Sembra che nell’ottobre del 2007 Epstein sia stato cacciato dal Mar-a-Lago Club di Donald Trump per aver molestato la figlia minorenne di un altro socio. L’episodio sarebbe accaduto proprio nel periodo in cui l’imprenditore stava per patteggiare in un’altra vicenda simile che lo vedeva coinvolto. Benché sembri che la Hambro non abbia avuto nulla a che vedere con l’intricato e terribile scandalo Epstein, la sua presenza è un’ulteriore prova evidente del potere di quest’uomo e, soprattutto, dei suoi legami con i personaggi di spicco del jet set internazionale.

La testimonianza shock: "Una pervertita procurava le ragazze a Epstein. Conosceva Andrea". Non si arrestano i pettegolezzi sul legame del principe Andrea e il pedofilo Jeffrey Epstein. Secondo una nuova indiscrezione il figlio della regina Elisabetta avrebbe soggiornato sull'isola privata del magnate con un'altra "complice chiave". Mariangela Garofano, Sabato 08/08/2020 su Il Giornale. Una nuova rivelazione confermerebbe il legame tra il principe Andrea e il milionario pedofilo Jeffrey Epstein. A quanto riportato dal Mirror, un’altra donna oltre a Ghislaine Maxwell sarebbe stata complice "chiave” del magnate nel traffico di minorenni. La donna, la cui identità per ora è segreta, sarebbe di nazionalità britannica e avrebbe soggiornato con il duca di York sull’esclusiva isola di Little Saint James, di proprietà del milionario deceduto.

Ghislaine Maxwell, chi è la "dama nera" complice delle violenze di Epstein (che imbarazza la regina). Secondo quanto trapelato, la vacanza del principe con la donna avvenne alcune settimane prima che la damigella di Lady Diana, Clemmie Hambro, volò sull’isola, aggiungendosi alle frequentazioni "reali" del magnate.“Jeffrey godeva dei suoi legami con la famiglia reale e l’aristocrazia britannica”, ha dichiarato una fonte. “Faceva sempre i loro nomi quando aveva bisogno di una porta aperta. I suoi legami con la famiglia reale sono molto più profondi di quanto la gente creda”. Ed ora questa nuova donna del mistero inglese, aiutante del perverso milionario, confermerebbe ulteriormente la stretta connessione tra Epstein e i salotti dell'alta società britannica. Maria Farmer, vittima del magnate, racconta che la donna senza scrupoli procurava ad Epstein le minorenni dall’Inghilterra e si riferisce a lei come la “babysitter”.

Virginia Giuffre: "Fui costretta ad un’orgia con il principe Andrea". “Procurava le ragazze dall’inghilterra. Era una pervertita e ne è uscita pulita, dopo tutte le schifezze che ha combinato per Jeffrey”, racconta ancora Maria Farmer. Ghislaine Maxwell non era quindi la sola complice di Epstein, ma un’altra “Crudelia De Mon” aiutava il ricco americano ad abusare delle minorenni. “È sotto i radar ma protetta dai soldi”, conclude la Farmer, riferendosi alla donna misteriosa, il cui ruolo è venuto alla luce con l’arresto di Ghislaine Maxwell. L’amicizia tra la “madame” di Epstein e Andrea di York risale ai tempi dell’università, ed è proseguita negli anni, tra feste nelle tenute reali ed eventi prestigiosi. Il terzogenito di Elisabetta è stato accusato da Virginia Giuffre di aver avuto rapporti intimi con lei all’età di 17 anni, costretta proprio dalla Maxwell. “Schiava sessuale” del diabolico magnate, la Giuffre ha inoltre accusato la donna di aver abusato in prima persona delle ragazze.

Anna Guaita per "Il Messaggero" l'11 agosto 2020. Aveva 19 anni. Un po’ troppo grandicella per i gusti perversi di Jeffrey Epstein. Ma Paris Hilton aveva una pelle purissima, occhi di un blu penetrante, lunghi capelli biondi e un corpo perfetto. E quando Ghislaine Maxwell la vide a una festa a New York, la sua reazione fu immediata: «Sarebbe perfetta per Jeffrey!». La socialite britannica nel 2000 non era più la girlfriend del miliardario pedofilo, ma – secondo le denunce di varie giovani vittime - continuava nella sua attività di procurare ragazzine per il suo harem. In carcere da un mese, proprio per l’accusa di traffico umano e sfruttamento di minorenni, la Maxwell dovrà rispondere delle accuse nel processo che si terrà nel luglio dell’anno prossimo.

Quel massaggio dall’accusatrice di Epstein: la foto che imbarazza Clinton. Il Corriere della Sera il 19/8/2020. A poche ore dal discorso di Bill Clinton alla convention democratica, spuntano nuove foto dell’ex presidente Usa, mentre si fa fare un messaggio al collo da una delle accusatrici di Jeffrey Epstein. Le immagini, pubblicate dalDaily Mail, risalgono al 2002 e ritraggono Clinton, allora 56enne, seduto mentre Chauntae Davies gli faceva un massaggio al collo, durante uno scalo in aeroporto dopo un viaggio sul «Lolita Express», l’ormai famoso jet privato del finanziere morto suicida un anno fa in cella dopo essere stato accusato di abusi sessuali e traffico di minorenni. Il tabloid britannico riporta anche la testimonianza della donna che racconta come le foto siano state scattate in un aeroporto in Portogallo: «Mentre eravamo nel terminal, l’ex presidente si era lamentato di avere il collo rigido per essersi addormentato sulla poltrona», ha raccontato Davies spiegando che la fotografia risale al 2002 quando prese parte ad una missione umanitaria dell’entourage di Epstein. La donna, che all’epoca aveva 22anni e lavorava come massaggiatrice personale del miliardario, successivamente lo ha accusato di averla stuprata più volte, reclutata dalla sua fidanzata di allora, Ghislaine Maxwell, ora in carcere. La foto non è compromettente ma di certo imbarazzante, soprattutto alla vigilia del discorso alla convention. Davies ha tuttavia chiarito che, anche se «incoraggiata» da Maxwell a massaggiare Clinton, l’ex presidente con lei «si è sempre comportato da vero gentleman» e che tra loro «non c’è stato alcun rapporto, di alcuna natura». Anche Clinton, nonostante abbia viaggiato più volte sul «Lolita Express», si è sempre difeso strenuamente da ogni accusa di essere a conoscenza di ciò che capitava nelle residenze di Epstein.

Stati Uniti, la foto che imbarazza Bill Clinton: massaggio dall'ex vittima 22enne di Jeffrey Epstein. Pubblicato martedì, 18 agosto 2020 da Antonello Guerrera su La Repubblica.it. Bill Clinton che si fa massaggiare la schiena da una vittima di Jeffrey Epstein. Non è una foto compromettente ma di certo imbarazzante quella che ha scovato il tabloid britannico Daily Mail in esclusiva e che coinvolge 'l'ex presidente americano a poche ore dal suo intervento alla conferenza democratica di Milwaukee per lanciare ufficialmente la sfida di Joe Biden a Donald Trump. Gli scatti sono eloquenti: Clinton seduto su una sedia di un aeroporto che si compiace del massaggio al collo e alla schiena da parte dell'allora 22enne americana Chauntae Davies, all'epoca massaggiatrice di Epstein e successivamente sua vittima e accusatrice. Siamo nel 2002, secondo il Daily Mail in un non precisato aeroporto portoghese per fare scalo, l'ex presidente americano e marito di Hillary Rodham ha 56 anni ed è in viaggio sul famigerato "Lolita Express", il jet del miliardario pedofilo Epstein, insieme alla compagna e sospetta complice di quest'ultimo, la britannica Ghislaine Maxwell, ufficialmente per un "tour umanitario" in Africa. Davies sembra una semplice collaboratrice degli Epstein. In realtà, molti anni dopo, accuserà il miliardario (suicidatosi in carcere l'anno scorso a New York) di averla stuprata più volte, e anche Ghislaine Maxwell, di "averla reclutata" per le oscene e criminali attività di Epstein, di cui era diventata "una schiava". Un'accusa non nuova per l'ex donna dei salotti buoni britannici ed americani e per la quale è stata recentemente arrestata. Maxwell ora è sotto processo e in carcere a New York, dove è controllata 24 ore su 24 dai secondini, dopo il suicidio dell'ex compagno, amico di moltissimi potenti, incluso il figlio della Regina Elisabetta, il Principe Andrea, coinvolto in pesanti accuse di stupro. Davies, tuttavia, ha chiarito che, seppur "incoraggiata" da Maxwell a massaggiare Clinton, l'ex presidente con lei "si è sempre comportato da vero gentleman e che tra loro due non c'è stato alcun rapporto, di alcuna natura". Anche Clinton, nonostante abbia viaggiato più volte sul "Lolita Express" del miliardario pedofilo, si è sempre difeso strenuamente da ogni accusa di esser a conoscenza di ciò che capitava nelle magioni di Epstein.

DAGONEWS il 26 agosto 2020. «Una mia amica ha fatto sesso con il principe Andrea su ordine di Jeffrey Epstein». A raccontarlo è Lisa Phillips, ex modella di 42 anni, che ora vive a Los Angeles, intervista nel documentario “Surviving Jeffrey Epstein”. La donna ha aggiunto che all’epoca dei fatti l’amica aveva circa 20 anni, ma non ha voluto svelare la sua identità. Ripercorrendo il suo rapporto con Epstein, Phillips racconta di averlo incontrato quando aveva circa 20 anni dopo essere stata invitata sull’isola di Little St James: «Trovavo Jeffrey molto affascinante e sembrava davvero carino. Avevo accennato al fatto che avevo vissuto in Inghilterra e lui disse: "Oh, ti piacerebbe incontrare un principe?". Si è avvicinato un uomo e l’ho riconosciuto: era il principe Andrea. È stato un incontro breve e lui è stato molto gentile». La donna ha poi raccontato di non aver mai visto nulla di strano sull’isola e di aver incontrato Epstein durante eventi di beneficenza, feste e spettacoli teatrali. Ma nel 2004 un’amica le avrebbe raccontato che Epstein le aveva detto di andare da Andrea per fare sesso con lui mentre erano nella casa del finanziere a New York. «Dopo quella rivelazione ho avuto un’ultima conversazione con Epstein – ha concluso Phillips – Gli ho chiesto perché lo aveva fatto e lui mi ha risposto: “Oh, è bello avere cose sulle persone”». Una fonte vicina al principe Andrea ha smentito le accuse, definendole «non verificate, non comprovate, rigurgitate per sentito dire senza alcuna prova».

Epstein può inchiodare Clinton: "Conosco persone potenti..." "Conosco persone molto potenti, come Bill Clinton". Ecco le minacce del magnate-pedofilo Jeffrey Epstein a una delle sue vittime adolescenti. Roberto Vivaldelli, Venerdì 28/08/2020 su Il Giornale. Più i giorni e le settimane passano e più emergono nuovi dettagli sul rapporto di amicizia fra l'ex presidente degli Stati Uniti Bill Clinton e Jeffrey Epstein, il magnate-pedofilo morto, in circostanze da chiarire, il 10 agosto 2019 presso il Metropolitan Correctional Center di New York. Come riportato nei giorni scorsi dal New York Post, secondo i documenti del tribunale, Epstein avrebbe usato la sua amicizia con Clinton per intimidire una ragazza di 15 anni, costringendola ad accettare una "violenza sessuale violenta e prolungata". "Epstein ha spiegato a Jane Doe 15 - nome fittizio della ragazza - quanto fosse potente. Ha tenuto a precisare che era vicino a Bill Clinton". Il finanziere portò la ragazza sul suo jet privato, il Lolita Express, nel 2004. A imbarazzare Bill Clinton c'è però anche del materiale fotografico. In una foto pubblicata sui media americana lo scorso 18 agosto, l'ex presidente sorride entusiasta mentre riceve un massaggio da una vittima di Jeffrey Epstein, Chauntae Davies, dopo un volo sul jet personale del magnate-pedofilo. Clinton, 56 anni al momento degli scatti del settembre 2002, si sarebbe lamentato di avere il torcicollo durante una sosta durante il viaggio umanitario verso l'Africa con Epstein e il suo entourage, ha spiegato Chauntae Davies. "Ti dispiacerebbe provarci?": questa la domanda di Clinton alla ragazza, secondo il racconto di Davies al Daily Mail. "Ghislaine è intervenuta per essere divertente e ha detto che potevo fargli un massaggio", ha detto Davies. "Tutti hanno riso, ma Ghislaine nel suo accento inglese ha insistito e ha detto che ero brava". Nonostante il momento di disagio, Davies ha tenuto a precisare che "il presidente Clinton è stato un perfetto gentiluomo durante il viaggio e non ho visto assolutamente nessun comportamento scorretto che lo coinvolgesse". Il gruppo, che comprendeva anche gli attori Kevin Spacey e Chris Tucker, ha visitato Ghana, Nigeria, Ruanda, Mozambico e Sud Africa durante la gita umanitaria di cinque giorni. Bill Clinton ha già ammesso di aver viaggiato con Epstein in più occasioni, ma ha negato di essere in qualche modo coinvolto nei crimini del finanziere morto la scorsa estate. Il suo portavoce ha sottolineato che Clinton non sapeva "nulla" dei "gravi crimini" presumibilmente commessi da Epstein, con il quale non parlava "da oltre un decennio". A giugno era emersa una nuova e pesante indiscrezione sul controverso rapporto che imbarazza i Clinton con il magnate-pedofilo amico dei vip dell'altà società americana: l’ex presidente Usa aveva negato più volte di avere mai messo piede nella residenza privata del finanziere, ammettendo esclusivamente di avere viaggiato per quattro volte con il chiacchierato imprenditore a bordo dell’aereo personale di quest’ultimo, il Lolita Express. Ma una testimonianza rilanciata dai media Usa, infatti, contraddice la tesi dell'ex presidente degli Stati Uniti. Steve Scully, 70 anni, ex dipendente di Epstein, ha rivelato tutto ai produttori della serie tv in onda su Netflix, "Jeffrey Epstein - Soldi, potere e perversione". Secondo quanto riportato da Scully, l’ex presidente democratico frequentò Epstein anche nella tristemente famosa "villa delle orge" situata sull’isola caraibica di Little St James, ubicata nell’arcipelago delle Isole Vergini americane e di proprietà del milionario. Jeffrey Epstein prestava inoltre all’ex presidente il suo jet per viaggiare oltreoceano. I registri di volo ottenuti da Fox News dimostrano che Bill Clinton ha compiuto almeno 27 viaggi a bordo del Boeing 727 di Epstein, dal 2001 al 2003. Gli intrecci fra i Clinton, Jeffrey Epstein e Ghislaine Maxwell non finiscono di certo qui. Secondo il Sun, Hillary Clinton avrebbe dato un lavoro al nipote di Ghislaine Maxwell presso il Dipartimento di Stato americano dopo i viaggi del marito sull'isola di Jeffrey Epstein. Alexander Djerassi, figlio della sorella di Maxwell, Isabel, ha lavorato come "capo del personale" nel Bureau of Near Eastern Affairs da maggio 2011 a giugno 2012 mentre Clinton era Segretario di Stato, dice il suo LinkedIn. Prima di entrare nel Dipartimento di Stato - dove ha anche lavorato come "assistente speciale" dal 2009 - Djerassi ha lavorato per la campagna presidenziale 2008 di Clinton, anno nel quale venne sconfitta da Barack Obama.

"Epstein si prenderà cura di te". Così il padre la portò nella tana del lupo. Una nuova indiscrezione sul rapporto che legava Ghislaine Maxwell a Jeffrey Epstein è emersa in un podcast sulla vita del pedofilo milionario. Mariangela Garofano, Lunedì 05/10/2020 su Il Giornale.  Stando al New York Post, durante il podcast su Jeffrey Epstein è emerso che a presentare il milionario pedofilo a Ghislaine Maxwell fu il padre di lei nel 1988. Il re dell’editoria britannica Robert Maxwell, molto attaccato alla figlia minore, affermò che Epstein si sarebbe preso cura “sentimentalmente” dell'adorata figlia. A raccontare che fu proprio il padre a presentarle il magnate americano, fu Ghislaine, la quale però inizialmente non era interessata al diabolico ereditiero. “Di punto in bianco Ghislaine disse che fu il padre ad averla messa in contatto con Epstein”, viene riportato nel podcast condotto dalla giornalista investigativa Julie K. Brown. “L’idea era che Epstein si prendesse cura di lei a livello sentimentale, non finanziariamente. Su questo punto Ghislaine fu molto chiara". Maxwell morì in circostanze misteriose nel 1991, al largo delle Canarie, dopo essere uscito con il suo yatch, chiamato Lady Ghislaine. Prima della sua scomparsa, Robert Maxwell era stato accusato di aver rubato milioni di sterline dal fondo pensionistico della sua compagnia, lasciando la famiglia in bancarotta. Dopo la morte del padre la giovane Ghislaine approda nella Grande Mela, dove diventerà la persona più intima per il magnate. Ma cosa legava Robert Maxwell a Jeffrey Epstein? Stando a quando emerso nel podcast, quest'ultimo fu aiutato finanziariamente dal barone dell’editoria britannica. Per questo motivo, alla sua morte decise di prendere con sé la figlia finita in disgrazia.“Robert Maxwell fu una delle ragioni per cui Epstein diventò ricco”, ha rivelato una fonte. Epstein e la figlia del suo benefattore presenziano a feste ed eventi dell’alta società newyorchese ed internazionale sempre in coppia, fino a quando l’Fbi non scoprirà la natura predatoria del ricco finanziere. Ghislaine Maxwell che per anni ha procurato ragazze minorenni al perverso magnate, è stata arrestata a luglio 2020 con accuse molte pesanti a suo carico. Cospirazione nel traffico di minorenni e adescamento di minore sono due dei capi d’imputazione a suo carico. Due moderni Bonnie and Clyde, Maxwell ed Epstein hanno approfittato di centinaia di giovanissime per più di vent’anni, ma Ghislaine non era forse davvero così innamorata di Epstein come si dice. A rivelarlo è Juan Alessi, il domestico della villa di Epstein a Palm Beach. “Ghislaine mi confidò: lo odio, ma non posso andarmene”, ha raccontato Alessi, spiegando che il motivo per cui la donna non poteva lasciare il milionario era di natura finanziaria. Jeffrey Epstein è stato arrestato a luglio 2019, con l’accusa di traffico di minorenni. Dopo un mese in carcere a Manhattan, il 10 agosto viene trovato impiccato nella sua cella, prima di poter rivelare i nomi degli importanti uomini collegati ai suoi traffici illeciti.

"Picchiata e stuprata a 13 anni da Epstein": il racconto choc della vittima. Nel nuovo libro sulla vita del magnate pedofilo Jeffrey Epstein, l'autore riporta il racconto inedito di una delle vittime del milionario, che ha rivelato di essere stata "picchiata e stuprata" da Epstein a soli 13 anni. Mariangela Garofano, Martedì 20/10/2020 su Il Giornale. È da poco uscito l’ultimo libro sulla vita del pedofilo Jeffrey Epstein, The Spider, Inside the Criminal Web of Jeffrey Epstein and Ghislaine Maxwell. Il libro, scritto dal giornalista investigativo Barry Levine, rivela dettagli inediti sulla vita del milionario e della complice degli abusi da lui commessi, Ghislaine Maxwell. Tra le tante vittime che Epstein ha attirato nella sua “rete”, Levine è riuscito a contattare, dopo anni passati a sfuggire alla paura del suo aguzzino, una donna, le cui rivelazioni sulle violenze subite dal magnate sono a dir pico sconcertanti. La donna, che ha preferito restare nell’anonimato con il nome di Jane Doe 4, ha rivelato di essere stata adescata e in seguito stuprata da Epstein nel 1984, per anni. All’epoca il perverso finanziere aveva 31 anni e conobbe Jane durante una vacanza in South Carolina. La ragazzina, appena 13enne, era la figlia della donna da cui Epstein affittò la casa in cui trascorrere le vacanze. Jane faceva la babysitter ai figli dei villeggianti e così, quando Epstein la assunse, si recò nell’appartamento del milionario, convinta di trovarci dei bambini da accudire. Ma non fu così: il facoltoso 31enne non aveva figli e come in un film dell’orrore, venne costretta ad assumere alcol e droga e infine violentata. “Epstein non aveva figli”, racconta Levine nel libro, aggiungendo: “E quando arrivò a casa sua, diede a Jane Doe 4 droga e alcol. Più tardi, quella stessa notte, venne stuprata da Epstein per la prima volta”. Via via che ci si addentra nel racconto, emerge una realtà terrificante, che coinvolge anche altri perversi personaggi, amici di Epstein. “Gli stupri continuarono per anni. Epstein fotografava la ragazza mentre era addormentata sotto l’effetto della droga e dell’alcol”, racconta l’autore. “Quando Jane Doe si accorse delle foto e gli chiese di dargliele, Epstein diventava violento. Gli abusi andarono avanti per tanti anni, come si legge nella causa intentata da Jane insieme ad altre vittime, nel 2019. Epstein la portò a New York, per offrirla come “carne fresca” al suo circolo di amici”. A questo punto il racconto diventa sempre più disturbante. Nei documenti Jane rivela di come gli amici del pedofilo, per ora "non identificati", si divertissero a stuprarla e picchiarla. Il racconto di Levine è crudo e risulta difficile per il lettore accettare che uomini adulti possano commettere simili orrori nei confronti di una bambina di tredici anni. Orrori che per anni e anni Jane Doe si è rifiutata di raccontare, per paura di ritorsioni da parte di Epstein e dei suoi amici potenti. La forza del magnate stava proprio nell’instillare nelle giovanissime vittime il terrore di una vendetta nei loro confronti o della loro famiglia, motivo per cui, tante delle donne abusate da bambine, hanno preso il coraggio di denunciare le violenze subite molti anni dopo. Jeffrey Epstein è stato catturato a luglio del 2019, con l’accusa di traffico della prostituzione minorile ed è morto nella sua cella un mese dopo l’arresto. Proprio come un ragno, Epstein ha tessuto una gigantesca tela in cui intrappolare le sue vittime, a partire dagli anni 80, fino a poco prima di essere arrestato. Aiutato dalla diabolica signora dei salotti del’alta società, Ghislaine Maxwell, il finanziere è riuscito a portare avanti una vera e propria “tratta” di ragazze per anni, nello sfrenato lusso delle sue dimore.

 "Troppe incongruenze", il suicidio di Jeffrey Epstein solleva ancora dubbi. Fresco di pubblicazione, "The Spider, Inside the Criminal Web of Jeffrey Epstein and Ghislaine Maxwell, scava nella vita del finanziere pedofilo, portando alla luce tutti i dubbi dei legali e dei compagni di cella, riguardo il suo presunto suicidio. Mariangela Garofano, Mercoledì 21/10/2020 su Il Giornale. Si è speculato tanto sulla morte del milionario pedofilo Jeffrey Epstein. Il finanziere, arrestato a luglio 2019 con l’accusa di traffico di minorenni, il 10 agosto dello stesso anno viene rinvenuto morto all’interno della cella in cui sta scontando la sua pena. Nell’ultimo libro sulla sua vita, fatta di lusso, vizi e perversioni, l’autore Barry Levine porta alla luce alcune incongruenze sullo “strano” suicidio del magnate newyorchese. “Se ci fossero stati dei cambiamenti mentali evidenti in Epstein, William Mersey, il suo compagno di cella, non li ha notati”, scrive Levine a proposito dell’eventualità che Epstein avesse mostrato comportamenti suicidi. “Mersey notò una solo cambiamento nel comportamento di Epstein i giorni precedenti alla sua morte. ‘L’unica cosa che notai era che mangiava i suoi pasti per terra e che mi disse che in quel modo era più semplice’. L’altro avvenimento chiave accadde il 9 agosto: i compagni di cella di Epstein vennero trasferiti e non rimpiazzati. Epstein fu lasciato da solo nella cella”. Levine racconta questo particolare come una stranezza, forse solo una coincidenza, ma il giorno dopo Jeffrey Epstein, rimasto solo nella sua cella, viene trovato senza vita, impiccato con le lenzuola. Anche i suoi legali, dopo la morte del loro assistito, hanno espresso dubbi riguardo al suicidio del milionario americano. “La morte di Epstein è avvenuta il 10 agosto”, racconta a Levine l’avvocato Martin Weinberg, che prosegue rivelando un particolare da non sottovalutare. “Il 12 agosto avremmo depositato una richiesta di cauzione in attesa di processo. Quindi, a noi suona alquanto improbabile che un detenuto in attesa di processo decida di suicidarsi il 10 agosto, quando la richiesta per la cauzione sarebbe stata depositata il 12”. Della stessa opinione di Weinberg è il noto patologo forense Michael Baden, il quale fu assunto dal fratello di Epstein per effettuare un’ulteriore autopsia sul corpo del fratello, al fine stabilirne la causa del decesso.

Morte Epstein, l'autopsia smentisce l'ipotesi del suicidio? Oltre a ritenere che la morte di Epstein non fosse un suicidio, le analisi sul corpo del magnate effettuate da Baden rilevarono che Epstein era morto da almeno 45 minuti quando fu trovato dalle guardie penitenziarie e che la decisione delle stesse di spostare il corpo fu “irregolare, se non sospetta”. Jeffrey Epstein, filantropo milionario, con amicizie talmente potenti da far sospettare che facesse parte dei servizi segreti israeliani, si è davvero tolto la vita? O qualche amico, che era solito riprendere a sua insaputa durante i rapporti sessuali con giovani ragazze, decise di impedirgli di parlare? Nonostante la versione ufficiale ritenga che Epstein si sia ucciso, i dubbi sulla morte del diabolico finanziere, amico di primi ministri e principi reali, restano e molto probabilmente rimarranno con lui nella tomba.

DAGONEWS il 22 ottobre 2020. Una serie di documenti della causa civile contro Ghislaine Maxwell sono stati desecretati svelando dettagli hot della sua relazione con Jeffrey Epstein. 418 pagine di interrogatorio all’ape regina messa sotto torchio durante l'interrogatorio per la causa per diffamazione intentata da Virginia Giuffre nei suoi confronti. Gli avvocati di Maxwell hanno lottato con le unghie e con i denti affinché la deposizione non fosse resa pubblica per non influenzare l'esito del processo penale. Ma alla fine ogni singola pagina del bombastico interrogatorio, in cui si minimizzano anche i rapporti tra Epstein e Bill Clinton, è stato reso noto. Nella deposizione del 2016, Maxwell ha negato di aver invitato minori di 18 anni a casa di Epstein, tranne i figli di  alcuni amici, e negava categoricamente di aver "portato" Giuffre a 17 anni a casa di Epstein. «Virginia Giuffre si è presentata come massaggiatrice ed è stata invitata per eseguire un massaggio. È stata accompagnata dalla madre con cui ho parlato mentre lei era a casa. Non l'ho portata di sopra». Nella causa civile Virginia Giuffre sosteneva che Maxwell l'aveva trascinata nella cerchia di Epstein da adolescente, con il falso pretesto di darle lavoro come massaggiatrice. Giuffre ha affermato che Maxwell ed Epstein l'hanno spinta a fare sesso con uomini ricchi e potenti, come il principe Andrea che ha sempre negato tale affermazione. Nel corso dell'accesa deposizione, Maxwell si è scagliata ripetutamente contro gli avvocati di Giuffre, ha cercato di opporsi all'interrogatorio e a un certo punto ha battuto il pugno sul tavolo: «Possiamo essere chiari, non ho minacciato nessuno». Si è rifiutata di rispondere alle domande sulla sua vita sessuale con Epstein, ha negato di aver partecipato a orge, ha respinto le domande sulle ragazze minorenni e ha negato di aver scattato delle foto alle giovani nude. Alla domanda se Epstein avesse una "preferenza sessuale per le minorenni", Maxwell ha risposto: «Non posso dirvi qual è la storia di Jeffrey. Non sono in grado di farlo». Maxwell ha negato di aver mai visto massaggiatrici compiere atti sessuali con Epstein: «Non ho mai visto nessuno avere rapporti sessuali con Jeffrey, mai». Ma quando le è stato chiesto di rispondere alla domanda se avesse visto atti sessuali eseguiti per Epstein dalle massaggiatrici, Maxwell ha detto: «Non rispondo a domande sul sesso consensuale tra adulti. Se volete parlare delle menzogne della Giuffre sono felice di parlarne. Non ho mai visto attività inappropriate tra minorenni e Jeffrey». Maxwell ha ammesso di aver incoraggiato le ragazze a eseguire massaggi perché avrebbero guadagnato più soldi e che si trattava di "consigli per fare carriera", ma ha negato di aver mai fatto "sesso non consensuale" con nessuno. Ha anche affermato di non essere mai stata nella stanza con Virginia quando Epstein riceveva massaggi da lei o da qualsiasi altra ragazza "sotto i 18 anni". Ad un certo punto, le è stato chiesto se avesse mai visto Epstein in compagnia di ragazze giovani, ma  lei ha risposto: "Ho amici che hanno figli". Quando le è stato chiesto se avesse costumi in lattice o un cesto della biancheria pieno di sex toys nella villa di Epstein a Palm Beach, Maxwell ha detto: «Non ricordo nulla che possa essere un dildo». Maxwell ha rifiutato di rispondere quando gli è stato chiesto se le piaceva farsi pizzicare i capezzoli, dicendo che non avrebbe discusso della loro vita sessuale. Ha difeso il suo lavoro per lui, dicendo in seguito che il suo stipendio era inferiore a $ 500.000 e che solo una piccola parte riguardava trovare massaggiatrici per lui. Ha negato di aver violentato Virginia o qualsiasi altra persona, dicendo: «Non ho mai avuto rapporti sessuali non consensuali con nessuno». Quando le è stato chiesto se avesse “addestrato” Virginia su come eseguire massaggi sessuali, ha risposto: «No ed è assurdo e tutta la sua storia è una gigantesca bugia. Ghislaine ha ammesso di aver visitato un'università con l'obiettivo di assumere dipendenti per Epstein. Anche se ha detto che non riusciva a ricordare quale università fosse, ha detto di esserci andata due volte.

I RAPPORTI CON BILL CLINTON Nella stessa deposizione Maxwell ha negato che Bill Clinton fosse sull'isola di Epstein e ha evitato di dare informazioni sul rapporto tra l’ex presidente ed Epstein. «Ha volato sugli aerei di Jeffrey Epstein con il presidente Clinton, è corretto?» le è stato chiesto. La Maxwell è stata evasiva: «Ho volato, sì». «Sarebbe giusto dire che il presidente Clinton e Jeffrey sono amici?» hanno chiesto gli avvocati di Giuffre. «Non sarei in grado di dire qual era il loro rapporto, no» ha detto Maxwell. «Sono conoscenti?» hanno incalzato i legali. «Non lo classificherei in questo modo» ha continuato Maxwell. «Gli ha appena permesso di usare il suo aereo? ha insisto l'avvocato. «Non riesco a classificare la relazione di Jeffrey» ha detto Maxwell.

EPSTEIN, LA CIA E L'FBI? Poi gli avvocati hanno continuato scavando nella vita di Epstein, cercando di capire se avesse rapporti con CIA o FBI: «Sa se Jeffrey Epstein ha avuto qualche rapporto con il governo degli Stati Uniti o ha lavorato per la CIA o l'FBI nella sua vita?» È stato chiesto a Maxwell che ha commentato dicendo di non esserne a conoscenza. «Sa se Jeffrey Epstein ha amici nella CIA o nell'FBI?» è stata pressata.  «Non ne ho idea» è stata la risposta. «Sa che Jeffrey Epstein ha detto di aver lavorato per il governo per recuperare fondi rubati? Ti ha mai detto che lavorarava per il governo degli Stati Uniti?» ha continuato l'avvocato di Giuffre. Ma Maxwell ha sempre risposto: «Non ne ho idea». Infine le è stato chiesto se Epstein fosse affiliato al governo israeliano. Maxwell ancora una volta ha detto di non esserne a conoscenza.

Le strane rivelazioni su Epstein: "Rapporti con Mossad e la Cia". È stata resa pubblica la lunga deposizione rilasciata da Ghislaine Maxwell nell'ambito della causa civile intentata contro di lei nel 2015. Gli inquirenti sospettano che Epstein fosse legato al Mossad. Roberto Vivaldelli, Venerdì 23/10/2020 su Il Giornale. È stata pubblicata, nelle scorse ore, la lunga deposizione rilasciata da Ghislaine Maxwell nell'ambito della causa civile intentata contro di lei nel 2015. Arrestata il 2 luglio, la Maxwell rischia fino a 35 anni di carcere se condannata: è stata accusata di aver reclutato tra il 1994 e il 1997 almeno tre ragazze, di cui una di appena 14 anni, per permettere al suo ex compagno, il finanziere Jeffrey Epstein, morto per un apparente suicidio lo scorso anno in un carcere di Manhattan, di abusarne. L’accusa afferma che Maxwell "ha assistito, facilitato e contribuito agli abusi di Jeffrey Epstein sulle ragazze minori, aiutando, tra le altre cose, Epstein a reclutare e infine abusare le vittime conosciute dalla coppia di età inferiore ai 18 anni". Accuse rispetto alle quali la Maxwell si è dichiarata non colpevole. Come riporta l'agenzia Adnkronos, la trascrizione della deposizione resa pubblica nelle scorse ore risale al 2016 e fa riferimento al procedimento intentato contro la Maxwell da Virginia Giuffre, che la accusa di averla adescata quando era ancora minorenne e di averla gettata in pasto a Epstein per i suoi traffici. La Maxwell, figlia dell'ex magnate dei media britannico Robert, ha a lungo tentato di mantenere riservata la deposizione, la cui diffusione era invece richiesta dai legali della Giuffre.

Quelle domande degli inquirenti sui rapporti fra il finanziere e l'intelligence. Ma la deposizione lascia spazio a moltissimi dubbi circa le reali attività del finanziere-pedofilo. Era legato ai servizi segreti? È ciò che si chiedono agli inquirenti. Come riporta Il Messaggero, gli inquirenti chiedono a Ghislaine Maxwell se è "a conoscenza del ruolo che Epstein aveva nei rapporti con la Cia? E con l'Fbi? - chiede li procuratore durante l'interrogatorio. -Sapeva della sua collaborazione con la Sec (le autorità fiscali, ndr) per scoprire cifre sottratte all'erario? Aveva parlato con lui del supposto ruolo di gestore di affari negli Usa per conto del governo di Israele?". La Maxwell nega, ovviamente, ma questo non basta per fugare i dubbi circa i rapporti del magnate con l'intelligence. I legali della ereditiera dell'impero editoriale britannico hanno lottato per evitare che il verbale fosse divulgato, fino a suscitare il sospetto che il testo comprendesse l'elenco degli uomini potenti e famosi implicati nei traffici di Jeffrey Epstein.

Epstein lavorava per i servizi segreti? Come riporta da IlGiornale.it, l'ipotesi che Jeffrey Epstein fosse legato all'intelligence israeliana è supportata da alcune testimonianze. Alla fine dello scorso anno Ari Ben-Menashe, una ex spia isrealiana e sospetta figura dietro a Robert Maxwell, il magnate inglese della stampa, ha rivelato agli autori del libro Epstein: Dead Men Tell No Tales che il finanziere conduceva una complessa operazione di intelligence per conto del Mossad. Come scriveva La Stampa, il miliardario americano che ha messo nei guai il principe Andrea era forse una spia che lavorava per i servizi segreti, ricattando i politici e imprenditori che aveva ospitato nelle sue dimore, piene di minorenni e di telecamere nascoste. Secondo i tre giornalisti investigativi che hanno scritto Dead Men Tell No Tales ci sono forti dubbi sul fatto Epstein si sia suicidato nel carcere di New York: il sospetto è che molte persone avrebbero avuto interesse a farlo tacere per sempre. La tesi del libro è che a introdurre Epstein nei circoli dell’intelligence israeliana fu proprio Robert Maxwell, padre di Ghislaine. Secondo Ari-Ben-Menashe, Jeffrey Epstein e Ghislaine Maxwell avrebbero procurato ragazze minorenni ai politici e ai potenti di tutto il mondo, per poi ricattarli per conto dei servizi segreti israeliani. Va sottolineato, tuttavia, che le accuse di Ben-Menashe vanno prese con le pinze: l'accusa viene infatti da un enigmatico faccendiere e uomo d'affari israeliano di origine iraniana che sostiene di aver lavorato per il Mossad dal 1977 al 1987. Una figura misteriosa arrestata nel 1989 negli Stati Uniti con l'accusa di traffico di armi e scagionata nel 1990.

I segreti di Ghislaine. Come riportato da InsideOver, Maxwell potrebbe essere la chiave per rendere note molte verità sul mondo criminale di Epstein: gli investigatori sostengono che abbia tenuto un piccolo libro nero che documenta i viaggi e gli alloggi del finanziere e dei suoi assidui frequentatori, tra i quali ricordiamo l’ex presidente Bill Clinton, il principe Andrea, il regista Woody Allen oltre al fondatore di Microsoft Bill Gates.

Flavio Pompetti per “il Messaggero” il 23 ottobre 2020. Chi era davvero Jeffrey Epstein, e come si guadagnava da vivere? La domanda che aleggia da tempo intorno alla memoria del finanziere scomparso due anni fa, suicida in una cella di carcere di Manhattan, è tornata alla ribalta ieri, con la lettura della deposizione che la sua amica-collaboratrice Ghislaine Maxwell, rese quattro anni fa agli investigatori newyorkesi nel corso di una causa di diffamazione. «Lei era a conoscenza del ruolo che Epstein aveva nei rapporti con la Cia? E con l' Fbi? - chiede li procuratore durante l' interrogatorio. - Sapeva della sua collaborazione con la Sec (le autorità fiscali, ndr) per scoprire cifre sottratte all' erario? Aveva parlato con lui del supposto ruolo di gestore di affari negli Usa per conto del governo di Israele?». Le risposte sono altrettanti no. Ma il fatto che le domande siano inserite nel verbale fa pensare che la procura stia lanciando avvertimenti a chissà quanti finanzieri, evasori fiscali, faccendieri internazionali, i cui nomi devono ancora emergere dal profilo misterioso di Epstein.L' interrogatorio verteva sul ruolo di procacciatrice di schiave sessuali minorenni che una delle vittime di Epstein, Virginia Giuffre, aveva lanciato contro Maxwell. I legali della ereditiera dell' impero editoriale britannico hanno lottato allo spasimo per evitare che il verbale fosse divulgato, fino a suscitare il sospetto che il testo comprendesse l' elenco degli uomini potenti e famosi che, secondo le testimonianze di alcune delle giovani donne, sono stati ospiti negli anni degli harem che Epstein aveva allestito con l' aiuto della Maxwell nelle sue ville sparse intorno al mondo. Il tribunale ha finito per intimare la pubblicazione del documento di 458 pagine, e ieri mattina i media lo hanno ispezionato in cerca di nuovi dettagli. La lettura è risultata avara di novità. Ghislaine Mazwell con l' aiuto dei suoi due legali ha opposto un muro di omertà alle domande degli inquirenti. «E' vero che lei e Epstein avevate in casa cestini pieni di giocattoli sessuali?» chiede ad un certo punto il procuratore. «Chiarisca per favore cosa intende per giocattoli sessuali» risponde la donna. Ghislaine rigetta l' idea di aver adescato prede per conto del suo amico: «Mi incaricavo di dirigere i lavori di manutenzione delle case, tenere in ordine piscina e sauna». Nei suoi ricordi Epstein non le pagava un salario, ma le ha prestato soldi, e le ha anche intestato automobili. Ammette però che una funzione chiave era la fornitura di massaggiatrici. Il suo amico esigeva un massaggio almeno una volta al giorno. «L' operazione implicava atti sessuali?» chiede l' inquisitore. «Non ho mai indagato» risponde Maxwell. In quanto alla Giuffre, che la accusa di averla istruita all' età di 17 anni alle pratiche sessuali da espletare con l' anziano datore di lavoro, Ghislaine nega di averla portata nella tana dell' orco per la prima volta nella villa di Mar a Lago, in Florida: «La mamma l' ha accompagnata in macchina. Io sono rimasta con lei nel parcheggio, mentre Virginia è salita sopra». È chiaro che la deposizione è stata preparata con cura dal team difensivo, e che Maxwell dispone di avvocati molto scaltri nel negoziare con gli investigatori. Quello che sorprende invece è come questi ultimi abbiano carte in mano ancora tutte da svelare. Un intreccio di connivenze nel quale i servizi sessuali e il reato di pedofilia potrebbero essere stati un semplice strumento di ricatto, con il quale il finanziere scomparso aveva accumulato una ricchezza altrimenti inspiegabile. Il duello tra la procura newyorkese e la difesa della Maxwell è solo alle fasi iniziali, a tre mesi dal clamoroso arresto in New Hampshire. Il nocciolo dello scandalo deve ancora emergere, e forse non lo conosceremo prima del processo, la cui prima udienza è fissata per il 12 di luglio del prossimo anno.

DAGONEWS il 29 ottobre 2020. «Ghislaine Maxwell viene svegliata, spogliata e perquisita ogni tre ore per evitare che si uccida come ha fatto Jeffrey Epstein». È quanto ha raccontato Brian Basham, amico dei Maxwell, che ha rivelato che le guardie carcerarie hanno smesso di parlarle ed è in isolamento in una cella minuscola. «Non ha nemmeno un tavolo sul quale appoggiare un pc – ha continuato - La famiglia mi ha detto che ci sono due telecamere che la inquadrano costantemente e che la seguono quando si muove. La svegliavano ogni tre ore per perquisirla e il rumore fuori dalla sua cella con le guardie che ridono, scherzano e urlano è molto inquietante, quindi dorme molto». Il suo team legale sostiene che donna non sia trattata allo stesso modo degli altri detenuti del Metropolitan Detention Center di Brooklyn, New York. L’ape regina di Epstein è in attesa del processo e, visto il suicidio in carcere di Epstein, adesso gli occhi sono costantemente puntati su di lei. In una dichiarazione del tribunale di agosto, è comunque emerso che “la donna non ha mai avuto tendenze suicide”.

Francesco Giambertone per il “Corriere della Sera” l'1 novembre 2020. Nella gigantesca rete di contatti e giri di soldi di Jeffrey Epstein c' era finito pure lui, e chissà come. Terje Rød-Larsen, 73enne presidente dell' International Peace Institute, un think tank newyorchese che da 50 anni lavora con le Nazioni Unite, non è mai stato citato nelle indagini per abusi sessuali e traffico di minorenni che portarono nell' agosto 2019 Epstein in carcere, dove si suicidò poche settimane dopo. Eppure tra il potentissimo finanziere e il diplomatico norvegese, che nel 1990 fu tra i principali promotori degli accordi di Oslo tra Israele e palestinesi, un rapporto c' era. Certificato dai soldi, diretti sempre da Epstein a Rød-Larsen, e svelato dalla stampa norvegese, con grande imbarazzo di tutti: un prestito personale di 130 mila dollari nel 2013, e una serie di donazioni anonime all' organizzazione per un totale di 650 mila dollari tra il 2011 e il 2019, di cui il board non conosceva la vera origine. Le rivelazioni hanno fatto scattare un' indagine interna con cui il direttore Kevin Rudd - ex premier australiano, che ha definito quelli di Epstein «crimini odiosi» - ha accertato che la cifra versata dal finanziere contribuì all' 1% dei ricavi dell' organizzazione in quegli anni. E poi sono arrivate le inevitabili dimissioni del presidente: Rød-Larsen, già ministro nel suo Paese, in una lettera si è scusato per il «grave errore di giudizio» e ha ammesso che «non avrei dovuto ingaggiare una relazione finanziaria con Epstein, ma è stata una faccenda totalmente personale, e il prestito fu saldato dai miei conti privati». A cosa gli servissero quei soldi, perché li avesse chiesti al finanziere e come i due si fossero conosciuti, è ancora da capire. Ma nel frattempo il segretario generale dell' Onu Guterres ha scelto di ritirarsi dalla presidenza onoraria dell' organizzazione che le Nazioni Unite contribuirono a fondare.

Da "Ansa" il 6 novembre 2020. La villa di Jeffrey Epstein in Florida sarà demolita. Lo ha detto al Wall Street Journal l'imprenditore immobiliare Todd Michael Glaser che ha firmato il contratto di acquisto della mansion appartenuta al finanziere trovato impiccato l'anno scorso in carcere a New York mentre era in attesa di un nuovo processo per abusi, sfruttamento della prostituzione e traffico di minori. Casa Epstein, ubicata nella zona più cara di Palm Beach a poca distanza da Mar-a-Lago, era stata messa sul mercato in luglio per quasi 22 milioni di dollari. Glaser, uno dei costruttori dietro il grattacielo di Miami One Thousand Museum disegnato da Zaha Hadid, ha detto che l'accordo dovrebbe arrivare in porto in dicembre e il piano è di raderla al suolo e costruire sul terreno un'altra villa ex novo. "Palm Beach sarà felice di non vederla più", ha detto l'imprenditore al Wall Street Journal senza rivelare il prezzo pattuito, che altre fonti vicine all'affare hanno indicato in quasi 18 milioni di dollari. Epstein aveva comprato la proprietà nel 1990 per 2,5 milioni di dollari. Oltre alla townhouse di New York, ancora in vendita per 88 milioni di dollari, la villa era stata teatro di incontri illeciti tra gli amici vip del finanziere e ragazze minorenni. 

DAGONEWS il 9 novembre 2020. Ghislaine Maxwell è riuscita ad attirare "ragazze e minorenni" nelle grinfie del pedofilo Jeffrey Epstein perché le giovani vedevano in lei "una protettrice". È quanto si legge nella nuova biografia “The Spider” di Barry Levine che ha dichiarato a Newsweek: «L'aspetto più preoccupante è che le ragazze guardavano alla sua figura di donna come la protettrice e si sono sentite al sicuro inizialmente grazie alla presenza di Maxwell. Lei e Jeffrey dovevano apparire come coppia che faceva da mentore alle giovani donne, dava loro borse di studio, le aiutava a superare i loro problemi, dava loro soldi per le famiglie. La presenza di Maxwell in quella relazione ha sicuramente aiutato a reclutare molte di queste ragazze che non erano preparate al fatto che lei sarebbe stata un predatore quanto Jeffrey». In “The Spider” si descrive anche il momento dell’incontro di Maxwell con Epstein dopo il trasferimento a New York nel 1991 in seguito alla morte del padre: «Ho passato molto tempo nel libro cercando di esplorare la mente di Maxwell quando ha incontrato Jeffrey Epstein per la prima volta – ha continuato Levine - Ghislaine è passata dall’ala di suo padre a quella di Epstein che ha assunto questo ruolo di figura paterna, amante, mentore, confidente. Per un po' penso che Ghislaine fosse davvero sotto il suo incantesimo. Contava anche su Jeffrey per mantenersi e sapeva che senza di lui non avrebbe potuto fare quella vita. Questo è il motivo per cui è andata avanti a reclutare ragazze». Levine ha anche invitato i pm a includere tra le prove il racconto di Christina Oxenberg, amica di Maxwell e cugina del principe Andrea. «Nel mio libro ho raccolto una confessione molto convincente avvenuta nel 1997. Maxwell confessò a Christina non solo che aveva bisogno che Epstein la sposasse, ma che non riusciva a tenere il passo con il suo appetito sessuale. A causa dei suoi bisogni impossibili da soddisfare per Maxwell, lei si era sentita obbligata a portare giovani ragazze in grado di soddisfarlo. Jeffrey e Ghislaine erano diventati una specie di Bonnie e Clyde dei predatori. La cosa più preoccupante del coinvolgimento di Ghislaine è che era disposta a fare tutto questo perché credeva di essere innamorata di lui, voleva che la sposasse e voleva compiacerlo». 

Flavio Pompetti per “il Messaggero” il 16 dicembre 2020. «La Ghislaine che io conosco non ha nulla a che vedere con la persona descritta nell' atto di accusa. Ghislaine è una donna meravigliosa e amorevole. Io non ho mai visto in lei comportamenti meno che appropriati». La scrivania della giudice Alison Nathan si sta riempiendo di lettere come questa scritta dal marito di Ghislaine Maxwell Scott Borgerson, amministratore della società di analisi di mercato Cargo Metrics.

LA RICHIESTA. Il fascicolo accompagna la richiesta di scarcerazione in attesa del processo per l' ex partner di Jeffrey Epstein, che dallo scorso luglio è detenuta in un carcere di Brooklyn dopo il raid dell' Fbi che la stanò dal nascondiglio in una villa del New Hampshire. La coppia offre come garanzia per la libertà provvisoria tutto quanto dichiara in suo possesso: 22,5 milioni di dollari tra proprietà immobiliare e contanti, ai quali si aggiungono i circa sei milioni garantiti da familiari della donna. Un operatore di borsa avrebbe contribuito un milione di dollari al fondo, più la promessa di pagare il costo della scorta della quale avrebbe bisogno se fosse liberata. I legali di Ghislaine assicurano che «lei non chiede altro che di restare negli Usa per potersi difendere da accuse che riguardano fatti accaduti 25 anni fa, raccolte presso un pugno di testimoni senza conferma di prove». Parole ben diverse da quelle pronunciate dalla pubblica accusa nell' udienza di luglio, quando Nathan rigettò una simile richiesta, che prevedeva tra l' altro lo spostamento della Maxwell in un albergo di lusso di New York. La procura aveva parlato di «una candidata ideale per sottrarsi al giudizio, in quanto dispone di denaro, amicizie altolocate e tre passaporti pronti per l' uso». Da allora la donna che è accusata di aver procurato e irretito giovani prede sessuali a beneficio di Epstein, e che rischia 35 anni di carcere se riconosciuta colpevole, risiede in un carcere di Brooklyn affollato da immigrati clandestini, dove si trova in isolamento.

GLI AVVOCATI. I suoi avvocati descrivono una vera e propria persecuzione giudiziaria, con una telecamera fissa nella cella e una seconda che la segue in ogni spostamento, inclusi i colloqui durante le visite. Di notte le guardie la sveglierebbero ogni 15 minuti con una torcia elettrica puntata in faccia per controllare che respiri. «Il governo sottolinea quello che le è permesso - scrivono in una nota i legali - ma omette la lunga lista delle cose che le sono vietate». Al centro della discussione in aula la prossima settimana sarà la dinamica dell' arresto di luglio, quando Ghislaine, consapevole dell' arrivo di estranei nella villa nella quale viveva isolata e rinchiusa, cercò di sottrarsi alla cattura nascondendosi. Borgerson offre una giustificazione nella lettera che ha spedito alla giudice: sua moglie viveva nel terrore della rissa mediatica che si era scatenata dopo l' arresto e la morte di Epstein, e temeva di essere stata raggiunta da giornalisti in cerca di uno scoop. A fianco della testimonianza del marito ci sono poi decine di documenti inviati dagli amici, tutti rimasti ignoti per volontà del tribunale. Ghislaine è stata a lungo una presenza di peso nella scena sociale newyorkese, e ha al suo fianco molte persone di primo piano disposte a garantire che è una persona retta, e capace di rispettare gli impegni della liberazione condizionale. Le memorie difensive parlano di una donna provata dalla prigionia, che perde peso e capelli mentre è costretta a vivere in un ambiente affollato, sotto la minaccia di contagio per il coronavirus. Maxwell in effetti è stata posta in isolamento nelle scorse settimane dopo che uno dei secondini della prigione era risultato positivo al test per il virus, ma la direzione del carcere assicura che gode di ottima salute, e che non ha bisogno di alcun trattamento particolare.

Epstein: nuovo sangue. Piccole Note su Il Giornale il 21 luglio 2020. Il caso Epstein, il miliardario pedofilo perito in una prigione di New York, continua a far scorrere sangue. Un uomo armato ha infatti ucciso il figlio del procuratore distrettuale Esther Salas, alla quale recentemente era stato affidato il caso di alcuni clienti della Deutsche Bank: che avevano denunciato l’Istituto finanziario per manovre oscure riguardanti i fondi del miliardario Jeffrey Epstein depositati presso la banca. L’assassino, travestito da fattorino della Federal express, ha suonato al campanello e ha aperto il fuoco contro il figlio e il marito del magistrato. Il marito è stato ferito, ma il ragazzo è rimasto ucciso. La Salas si è salvata perché era nel seminterrato, sfuggendo così all’attacco criminale. “Figlia di un ebreo messicano e di una cattolica cubana, [la Salas] è stata la prima latina a servire come giudice federale nel New Jersey”, scrive il Timesofisrael nel ricordare una figura importante per la magistratura di New York. La donna, infatti, ha avuto tra le mani vari casi importanti, ma certo il più pesante è quello che le è stato appena affidato, dato che nella rete del pedofilo Epstein, anche lui residente a New York (nell’East Side), era caduta gente importante, almeno a stare alla sua agenda, nella quale erano registrati uomini tra i più potenti del mondo. Nessuna sicurezza che l’obiettivo dell’attentatore fosse quello di minare quell’inchiesta, ma tutti i media vi hanno fatto cenno, come di una certezza impossibile da dimostrare. Sospetto che è stato fugato successivamente dall’inchiesta dell’Fbi, che ha individuato l’attentatore in Roy Den Hollander, uno squilibrato ferocemente anti-femminista che aveva anche avuto a che fare con la Salas, alla quale aveva indirizzato critiche puntute. Hollander è stato trovato morto suicida il giorno successivo. Trovato il colpevole, concluso che era un pazzo, il caso è chiuso. Anche se la dinamica dell’attentato sembrava far intendere un lavoro da professionisti, con una pianificazione del crimine non lasciata al caso, anche se non andato a segno compiutamente per  puro caso. Non sfugge che il fattaccio di cronaca nera sia avvenuto proprio mentre il caso Epstein era tornato prepotentemente alla ribalta con l’arresto della compagna di merende del pedofilo, Ghislaine Maxwell, accusata di ingaggiare le giovani fanciulle usate poi dal miliardario per i suoi scopi. Una vicenda disseminata di pressioni e intimidazioni, come avvenne per Lauren Book, senatrice democratica che aveva fornito elementi agli inquirenti, pesantemente minacciata per questo: “Bambina, è meglio che ti fermi”, era il contenuto delle telefonate minatorie a lei indirizzate  (Yedioth Aeronoth). Così l’uccisione di Daniel, questo il nome del figlio della Salas, cala come una mannaia sull’inchiesta che riguarda la Maxwell: una minaccia esplicita ai magistrati, di colpirli negli affetti più cari. I segreti di Epstein sono troppo esplosivi per esser rivelati. Non solo perché toccano gli ultra-potenti, ma anche perché potrebbero cambiare il corso della politica americana, dati ad esempio i rapporti dei Clinton con il miliardario. Finora si sa solo che l’ex presidente degli Stati Uniti ha usato più volte dei suoi jet privati, i cosiddetti Lolita express. E ci si è dovuti accontentare delle spiegazioni al riguardo di Bill, che ha parlato di viaggi innocui, anzi a scopo di beneficenza. Bill, il cui ritratto in abiti femminili e posa bizzarra è stato scoperto in una residenza di Epstein. Che ci sia una spinta per rivelare qualcosa, almeno qualcosa, di quanto avveniva nelle lussuose residenze del miliardario, è palese. Lo dimostra la serie Tv di Netflix sul suo conto e l’arresto della Maxwell. Il sangue di Daniel cala come un monito a frenare questa spinta. Sia che la sua morte sia realmente legata a questa oscura vicenda sia che tale monito sia solo percepito.

La (strana) morte di Jeffrey Epstein, spiegata. Roberto Vivaldelli il 26 luglio 2020 su Inside Over. Quanti misteri dietro la morte del finanziere Jeffrey Epstein. Arrestato all’aeroporto Teterboro nel New Jersey il 6 luglio 2019 per abusi sessuali e traffico internazionale di minorenni, Epstein è morto in carcere presso il Metropolitan Correctional Center di New York il 10 agosto 2019. “Sabato 10 agosto 2019, alle 6.30 circa, il detenuto Jeffrey Edward Epstein è stato trovato non cosciente nella sua cella. Successivamente è stato dichiarato morto dal personale ospedaliero”, si legge in una dichiarazione del Metropolitan Correctional Center. Il 23 luglio, esattamente tre settimane prima della sua morte, Epstein fu trovato privo di sensi nella sua cella con lesioni al collo. Il finanziere sostenne di essere stato aggredito da un suo compagno di cella, mentre il personale del carcere sostenne che si trattava di un apparente suicidio. Come tutte le prigioni federali, scrive il New York Times, il Metropolitan Correctional Center di Lower Manhattan ha un programma di prevenzione dei suicidi pensato per i detenuti che rischiano di togliersi la vita. Dopo l’apparente tentativo di tre settimane prima, Epstein, 66 anni, è stato messo sotto stretta sorveglianza e riceveva valutazioni psichiatriche quotidiane. Ma solo sei giorni dopo, il 29 luglio, quella misura è stata tolta: non era più necessario, almeno secondo la direzione del carcere. Dodici giorni dopo, è stato trovato senza vita per un apparente suicidio. Le guardie che facevano il loro giro mattutino hanno trovato il suo corpo alle 6:30 del mattino.

L'autopsia: "Morto per impiccagione". Il giorno successivo, l’11 agosto 2019, viene eseguita l’autopsia sul corpo del milionario. Per attendere i risultati bisogna però attendere il 16 agosto 2019: secondo Barbara Sampson, un’esaminatrice medica di New York, Jeffrey Epstein si è suicidato impiccandosi con il lenzuolo della sua brandina. Lenzuolo che aveva legato alla parte alta del letto a castello di cui era dotata la sua cella. Barbara Sampson, responsabile medico legale, ha dichiarato in una nota di aver optato per il suicidio “dopo un’attenta revisione di tutte le informazioni investigative, compresi i risultati completi dell’autopsia”. È davvero così? Quella ricostruzione non convinceva però gli avvocati di Epstein, i quali affermano subito di non essere “soddisfatti” delle conclusioni di Sampson e che avrebbero condotto le proprie indagini, incluso il tentativo di visionare i video dell’area intorno alla cella di Epstein al momento del decesso. A finire sotto accusa sono però anche le guardie carcerarie che dovevano controllare la cella del finanziere ogni trenta minuti: lo stesso Attorney general William Barr, infatti, ha parlato immediatamente di “gravi irregolarità”. Sulla sua morte sono state aperte due inchieste, una dell’Fbi e una del Dipartimento di Giustizia. “La morte di Epstein solleva una serie di domande a cui bisogna dare risposta – ha detto Barr in una dichiarazione – Oltre alle indagini dell’Fbi ho consultato il ministro della giustizia, che ha deciso di aprire un’inchiesta sulle circostanze della sua morte”.

Epstein alle guardie: "Qualcuno vuole uccidermi". Poche settimane prima di morire, come riportato dal Daily Mail, Epstein aveva confidato alle guardie del carcere che qualcuno voleva ucciderlo. La stessa fonte aveva incontrato il milionario caduto in disgrazia in varie occasioni durante la sua detenzione al Metropolitan Correctional Center, affermando che Epstein, normalmente riservato, sembrava invece essere di buonumore: “Non c’era alcun sospetto che facesse pensare ad un suo gesto così estremo – ha raccontato – da quello che ho visto, stava iniziando ad adattarsi alla prigione e non sembrava il tipo da volersi togliersi la vita”. Come riportato dal Giornale.it, secondo un secondino della prigione, Epstein era tenuto in una sezione speciale ad alta sicurezza, ma non era sorvegliato dai funzionari della struttura che avrebbero potuto evitare il suicidio, sempre ammesso che di questo si tratti. La decisione di escludere Epstein, che era forse il detenuto più importante del sistema carcerario federale dalla sorveglianza, ha sconcertato anche alcune ex guardie carcerarie che hanno bollato questo come un “fatto insolito”. Cameron Lindsay, un ex guardia carceraria, ha rivelato alla Bbc News che toglierli la sorveglianza è stata una decisione scioccante, soprattutto per un detenuto come lui, con accuse così gravi, e che oltretutto aveva già tentato di togliersi la vita, non si potevano assolutamente correre rischi. C’era la necessità di sorveglianza ventiquattro ore su ventiquattro”. Com’è potuto accadere in un carcere di massima sicurezza come quello dove sono rinchiusi i criminali più pericolosi del mondo? Solo negligenza? O c’è dell’altro? Secondo quanto emerso da fonti citate dal Washington Post, sarebbero stati almeno otto i membri del personale dell’Ufficio federale delle carceri (Federal Bureau of Prisons) che hanno ignorato l’ordine di non lasciare il miliardario da solo nella sua cella. Due delle guardie penitenziarie che avevano il compito di vigilare sull’uomo, accusato di abusi su minori e sfruttamento della prostituzione minorile, sono invece state messe in congedo amministrativo. Shirley Skipper-Scott, direttrice del carcere, è stata trasferita in un ufficio regionale nel nord-est, ed è stata sostituita da James Petrucci, direttore della prigione federale di Otisville, New York. Successivamente, il 22 agosto 2019, 20 guardie carcerarie che lavoravano al Metropolitan Correctional Center di New York hanno ricevuto mandati di comparizione legati alle indagini sulla morte del magnate.

Il patologo forense Baden: "È stato strangolato". A mettere in discussione la versione ufficiale sulla morte per impiccagione di Epstein è il celebre patologo forense Michael Baden, che intervistato da Fox & Friends, ha dichiarato che il milionario ha subito una serie di lesioni – tra cui un osso del collo rotto – che “sono estremamente insoliti nel suicidio per impiccagione e potrebbero verificarsi molto più comunemente nello strangolamento”. L’ex medico legale di New York poi aggiunto: “Le prove indicano un omicidio piuttosto che un suicidio”. Intervistato dal Miami Herald, Baden ha criticato anche la scientifica e il modo in cui sono state raccolte le prove: “Hanno portato via troppo in fretta il corpo fuori dalla cella, e questo non si dovrebbe fare perché così hanno compromesso alcune prove”. Michael Baden, 86enne, è un medico e patologo forense molto conosciuto negli Stati Uniti. Nel 1995, quando OJ Simpson era sotto processo per gli omicidi della sua ex moglie e della sua compagna, Baden disse che le prove dimostravano l’innocenza dell’ex giocatore di football. La cosa davvero curiosa è che non esiste alcuna foto del corpo di Epstein di come è stato rinvenuto nella sua cella, come ha sottolineato anche Baden. E altri patologi forensi consultati dalla trasmissione 60 minutes affermano che conoscere la posizione in cui è stato trovato Epstein chiarirebbe alcuni aspetti dell’autopsia. Tra le lesioni riscontrate su Epstein durante l’autopsia vi sono infatti contusioni su entrambi i polsi, un’abrasione sull’avambraccio sinistro e un’emorragia muscolare profonda nel muscolo della spalla sinistra. C’è anche una lesione nella parte posteriore del collo, un taglio sul labbro e un segno di iniezione sul braccio, sebbene non sia noto se queste ultime lesioni siano avvenute durante un tentativo di rianimazione di Epstein all’ospedale. Il dottor Baden ha affermato che i piccoli capillari scoppiati, che si trovano sul viso, sulla bocca e sugli occhi di Epstein sono spesso un’indicazione di strangolamento. Ma sono le ferite al collo di Epstein a convincere Baden che non si è trattato di un suicidio. Le foto dell’autopsia mostrano fratture della cartilagine tiroidea sinistra e destra, che si trova nella parte anteriore del collo, e dell’osso ioide sinistro, un osso a forma di U che si trova sotto la mascella e funge da ancoraggio per la lingua. “Non ho mai visto tre fratture come questa in un’impiccagione suicida”, afferma Baden.

Il giallo delle telecamere non funzionanti: "Cancellati per errore i filmati". A destare ulteriori sospetti sulla strana morte di Epstein c’è un altro elemento: il malfunzionamento delle due telecamere posizionate fuori dalla cella del carcere di New York dove il 10 agosto 2019 si sarebbe suicidato il finanziere. A darne notizia era stato per primo il Washington Post, il quale aveva riferito che i filmati registrati da almeno una delle videocamere posizionate fuori dalla cella di Epstein erano del tutto “inutilizzabili”. Il quotidiano sosteneva che non fosse chiaro il motivo per cui quei filmati registrati fossero così danneggiati o imperfetti da essere inutilizzabili dagli investigatori o cosa sia visibile in quelli non compromessi. È possibile che in una struttura di altissimo livello come quella del Metropolitan nessuna delle telecamere fosse funzionante? Che non si sia riusciti, ad oggi, a visionare nessuno dei filmati? Sul caso indaga l’Fbi. Come riportato lo scorso gennaio dalla Bbc, secondo i pubblici ministeri, il primo video di sorveglianza sarebbe stato “distrutto per un incidente”. I pubblici ministeri statunitensi affermano inoltre che la prigione ha salvato “per errore” i filmati dalla cella sbagliata. “Il video richiesto non esiste più sul sistema di backup e non lo è almeno da agosto 2019 a causa di errori tecnici”. La richiesta del video è stata fatta  dall’avvocato da Nick Tartaglione, l’ex agente di polizia di New York che ha condiviso la cella con il finanziere. Il Federal Bureau of Prisons non ha voluto rispondere alle domande dei colleghi della Bbc.

La trasmissione 60 minutes indaga sulla morte misteriosa di Epstein. 60minutes, programma d’inchiesta in onda sulla Cbs, ha dedicato un’intera puntata alla misteriosa morte di Epstein. Le domande a cui va data una risposta in questa vicenda sono molte, ammette la stessa emittente. Come abbiamo già rilevato, secondo un atto di accusa federale, il 23 luglio 2009 Epstein fu trovato “sul pavimento della sua cella con una striscia di lenzuolo al collo”. Il governo afferma che si era trattato di un tentativo di suicidio fallito, ma Epstein ha affermato che il suo compagno di cella, l’ex poliziotto Nick Tartaglione, 52 anni, lo aveva aggredito brutalmente. Tartaglione, accusato di aver ucciso quattro uomini, ha negato tale accusa. Epstein a quel punto viene riportato nella sua vecchia unità e gli viene assegnato un nuovo compagno di cella, sottolinea la Cbs, ma la notte prima della sua morte, il compagno di cella di Epstein viene rilasciato. Un’altra incredibile “coincidenza”. Secondo i documenti del tribunale, “nessun nuovo compagno di cella è stato assegnato” prima di morire, anche se gli era richiesto di averne uno. Quella notte, i pubblici ministeri federali affermano che “Epstein è stato scortato nella sua cella  verso le 19:49 circa” da Noel e Michael Thomas, le due guardie che stavano facendo il turno di notte nell’unità di Epstein, che presumibilmente non lo hanno controllato fino a “poco dopo le 6:30” del mattino successivo. Le due guardie sono state accusate di falsificazione di documenti e cospirazione per frodare il governo federale.

Jeffrey Epstein, medico forense rivela: "Ecco la prova che è stato assassinato". Torna a farsi predominante l'ipotesi di omicidio nel caso Epstein. Dopo l'archiviazione per suicidio, un medico legale della famiglia ha portato in televisione le prove che dimostrerebbero che l'imprenditore accusato di abusi sessuali sarebbe stato assassinato. Novella Toloni, Venerdì 17/01/2020, su Il Giornale. "Gli occhi di Jeffrey Epstein avevano i capillari scoppiati, il che prova che è stato assassinato", così il dottor Michael Baden ha riacceso i riflettori su uno dei casi giudiziari più eclatanti degli ultimi anni e che ha coinvolto direttamente uno degli esponenti della famiglia reale, il principe Andrea. Secondo il medico forense non si sarebbe dunque trattato di suicidio ma bensì di omicidio. Il dottor Balden era presente all’autopsia sul cadavere del magnate Jeffrey Epstein e, durante una puntata della trasmissione del "Dr Oz", ha mostrato le prove che confermerebbero che Epstein è stato assassinato. L’imprenditore americano Jeffrey Epstein è stato arrestato nel luglio del 2019 con l’accusa di abusi sessuali e traffico internazionale di bambini. Nello scandalo sessuale finì anche il terzogenito della regina Elisabetta, il principe Andrea, storico amico del magnate americano e anche lui accusato di abusi sessuali su una minorenne. Imprigionato nel carcere Metropolitan Correctional Center di New York, Jeffrey Epstein è stato trovato morto impiccato nella cella un mese dopo l’arresto, mentre era in attesa di giudizio. Oggi, in seguito alle dichiarazioni del medico forense Michael Baden, torna a farsi predominante l’ipotesi dell’omicidio. Come riporta il Mirror , Balden ha mostrato alla televisione americana le prove che dimostrerebbero l’omicidio per strangolamento. A suggerire questo epilogo sono i capillari scoppiati all’interno degli occhi, che sarebbero una diretta conseguenza dello strangolamento manuale. Il patologo forense, che era presente al momento dell'autopsia su Epstein, ha esaminato le foto nel programma americano "Dr Oz" spiegando: "In un’impiccagione le arterie, i vasi sanguigni e le vene sono intasate e la persona è pallida. Il viso è pallido. Ti soffoca, non c'è sangue che sale. Con uno strangolamento invece c'è una forte pressione che provoca la rottura dei capillari come nel caso di Epstein". Non solo. Anche il pallore delle gambe di Jeffrey Epstein dopo il decesso non sarebbero da associare al suicidio: "Il sangue si deposita dopo la morte. La cosiddetta lividità, se tu pendi, va nella parte inferiore delle gambe che dovrebbero essere marroni viola, ma queste non lo sono". Il dottor Baden è stato assunto da Mark Epstein, fratello di Jeffrey, per mettere in discussione l’archiviazione per suicidio, ma non è l’unico ad aver messo in dubbio la tragica fine dell’imprenditore. Anche l’ex sindaco di New Yor, Rudolph Giuliani, l’attuale primo cittadino Bill de Blasio e Laurence Tribe, professore di legge di Harvard, credono tutti che dietro la sua morte ci sia ben altro. Tutto mentre spuntano nuove rivelazioni, da altre donne coinvolte negli abusi, che coinvolgerebbero per l'ennesima volta il principe Andrea.

Da “il Giornale” il 16 gennaio 2020. Prove di centinaia di abusi sessuali su ragazze minorenni, anche di 11 e 12 anni, i cui nomi erano stati inseriti in un database, sono state trovate dagli investigatori che continuano a indagare su Jeffrey Epstein, il finanziere morto suicida in cella nell' agosto scorso. Le nuove accuse sono contenute in un rapporto stilato dal procuratore generale delle Isole Vergini, Denise George, che ha allargato le dimensioni del traffico sessuale che aveva portato all' arresto, l' estate scorsa, di Epstein. Gli abusi sarebbero avvenuti nelle due isole caraibiche di proprietà del finanziere, Little Saint James e Great Saint James. Epstein, secondo l' accusa, si sarebbe avvalso anche di un data base per registrare movimenti e disponibilità di ragazze e bambine inserite nel suo «harem». Nel luglio 2018, il finanziere aveva negato l' attracco degli investigatori al porticciolo di una delle sue isole, Little Saint James, per un monitoraggio di routine.

DAGONEWS il 16 gennaio 2020. Sono emerse nuove foto dell'ex presidente Bill Clinton in posa con Ghislaine Maxwell a bordo del jet privato di Jeffrey Epstein nei primi anni 2000. In una foto Clinton è ritratto in cima ai gradini del "Lolita Express" con la mano sulla spalla dell’ape regina Maxwell. In un’altra immagine Clinton posava in compagnia di Chauntae Davies, massaggiatrice personale di Epstein e hostess sull'aereo, che ha accusato il finanziere di averla violentata in più occasioni. In altri scatti si vede Clinton mentre si rilassa a bordo del jet con un sigaro in bocca mentre legge un giornale. Sullo stesso volo in quell’occasione viaggiavano Kevin Spacey e il comico Chris Tucker, che accompagnavano l’ex presidente in un viaggio umanitario di cinque giorni per la Clinton Foundation nel 2002. Non ci sono prove che suggeriscano che Clinton, Tucker o Spacey siano stati coinvolti in attività sessuali mentre volavano sull’aereo. Davies aveva 22 anni e ha raccontato che in quell’occasione non venne aggredita sessualmente. «Saltai sulla sedia quando mi resi conto che i miei compagni di viaggio erano arrivati . C’era  Bill Clinton che camminava sull’aereo e continuava a presentarsi. Ho pensato che fosse affascinante e dolce. Arrivarono altri ospiti e mentre l'aereo chiudeva il portellone continuavo a guardarmi intorno. C'erano Chris Tucker, Kevin Spacey e Bill, accompagnati ovviamente anche dai servizi segreti. Stavo andando in Africa con il gruppo di persone più eclettico che si possa immaginare. L'ex presidente era gentiluomo che fumava sigari e giocava a carte. Ho scritto sul mio diario quanto desideravo che potesse essere di nuovo presidente. Era carismatico, divertente, gentile e simpatico. Sull’aereo raccontava barzellette e noi tutti ridevamo. Poi è stato messo un film, ognuno si è seduto sulle poltrone giganti o sul pavimento e lo abbiamo guardato tutti insieme fino a quando non ci siamo addormentati». Nel 2002 e nel 2003, Clinton fece quattro viaggi sull'aereo di Jeffrey Epstein: uno in Europa, uno in Asia e due in Africa.

·        1 anno dalla morte di Massimo Bordin.

Bordin, voce roca e anima tersa di radio radicale…Valter Vecellio su Il Dubbio il 16 aprile 2020. Un anno fa la morte dello storico direttore della radio pannelliana. Chissà se sono stati catalogati davvero tutti. Nell’archivio di Radio Radicale, se si digita il nome: Massimo Bordin, compaiono ben 1.109 “pagine”. Già questo dà l’idea di come Bordin e Radio Radicale siano un qualcosa di inscindibile. Lo ricordano tutti per la conduzione, unica, di “Stampa e regime”, la rassegna dei quotidiani condotta per oltre un decennio, dal lunedì al lunedì al venerdì. Ingiusto tuttavia “inchiodare” Bordin alla sola rubrica in cui eccelle, curata con rara acribia e sapiente gusto dell’ironia. Ingiusto anche “inchiodarlo” alle domenicali, fluviali, conversazioni con Marco Pannella, due ore in diretta, senza reverenze e pudori, a parlare di tutto, su tutto: passato, presente, futuro. Un’impresa, tenere testa a Pannella. Non so se quella di Marco era reale amnesia, o una piccola provocazione, ma s’intestardiva a dare solo il nome di battesimo, delle persone citate. Ecco un logorante slalom: se cita Bettino o Giulio, il gioco è facile; ma se si arriva a Vittorio, ce ne vuole per capire: intende il vecchio rivoluzionario comunista Vidali, o Foa? Umberto può essere solo Terracini; ma Gianna (Preda)? Fausto (Gullo)? Giano (Accame)? E “Bobo”? No, non è Maroni della Lega, si riferisce a Guido Rossi, vecchio sodale dell’Unione Goliardica Italiana… Pannella, che vuole sempre l’ultima; e Bordin che gliela concede, ma con lo sberleffo di Bertoldo, che costretto a inchinarsi dinanzi al re, lo fa porgendogli le terga… Anche qui, meglio lasciar ad altri il ricordo dello storico scazzo, la clamorosa rottura in diretta: undici anni di ininterrotta direzione dell’emittente e come un fulmine a ciel sereno Bordin proclama che non c’è più il rapporto di fiducia, con Pannella, l’editore; di conseguenza si dimette. Lo stesso Marco resta di stucco, nega, una delle rare volte che resta senza parola… Comunque Bordin non abbandona del tutto la radio. “Semplicemente” si “limita” a fare il giornalista che è sempre stato: fino all’ultimo cura gli speciali giustizia, un cult per avvocati e operatori del diritto che hanno la possibilità di ascoltare integralmente le udienze dei processi; le conversazioni-analisi dal Medio Oriente con Fiamma Nirenstein; scandaglia il pianeta Stati Uniti, con Giovanna Pajetta. Trova il tempo per redigere una quotidiana rubrica di sapido commento per Il Foglio, “Bordin Line”; e quando ne viene richiesto, editoriali per i giornali della catena Monti, e Panorama. Il tutto condito da un’intensa attività di moderatore e partecipante a dibattiti e manifestazioni, presentazione di libri, che legge accuratamente e postilla: preciso, puntuale, lavora di fioretto: ti infilza e gli dici anche grazie… Non si risparmia davvero. Memorabile il suo ultimo intervento il 22 febbraio 2019, all’ottavo congresso del Partito Radicale. Un lucido, implacabile “J’accuse”, quello di Bordin, già segnato dalla malattia, stanco ma non domo: «Questi – sillaba parlando della posizione assunta dal governo Lega-M5S nei riguardi della Radio Radicale – non vogliono fare sentire quello che succede in Parlamento, a questi gli dà fastidio che si senta che il Parlamento discute una legge finanziaria che non è depositata. Questo sono, questo inevitabilmente la diretta dal Parlamento dimostra, questo non vogliono far sentire, per questo ci vogliono chiudere». Fama di disincantato che ti osserva stando di lato, è membro di quella comunità che Giuseppe Prezzolini chiamava “apoti”, quelli che “non la bevono”. Non bevono, s’intende, la versione ufficiale, la verità confezionata ad arte; ma neppure insegue le fantasie di retroscenisti incapaci di scorgere la “scena” reale, le ubbie di dietrologi che costruiscono labirinti in cui si smarriscono. Bordin, non a caso laureato in filosofia è intriso di quel cinismo che costituisce la cifra dei pensatori greci di questa “corrente” di pensiero: tende all’autonomia spirituale. Non al punto di escludere ogni desiderio e ogni esigenza; si guarda bene dal condannare la civiltà con le sue conquiste. Ma osserva, e “vede” con occhio disincantato e partecipe insieme; sa dov’è e cos’è il gusto del sale. Una decina d’anni fa il riconoscimento più gradito, il “Premiolino”. Il cliché vuole Bordin con l’eterno sigaro in bocca; tossicchiante; un po’ curvo; una eleganza ricercata e un’apparente, trasandatezza come certi personaggi dei film americani in bianco e nero; la parlata lenta, riflessiva; una cultura che nulla concede al nozionismo, “figlia” di buone, selezionate, letture; la battuta salace, che fulmina; la memoria di ferro. Si aggiunga una rete di conoscenze non comune, coltivata fin dai tempi dell’università, la mai rinnegata militanza nella IV Internazionale trotskista. Se ne va con discrezione; con dolcezza affida al Foglio del 2 aprile un ultimo pensiero di tenerezza struggente: «Capita a volte, la sera, quando si è troppo stanchi o troppo innamorati, di forzarsi a vedere in tv qualcosa che non si era messo in conto…». Si intuisce che da quel programma nasce poi una discussione, un confronto; e Bordin ha un’opinione evidentemente non condivisa, c’è qualcosa che non gli torna; ma, conclude, «vilmente ho taciuto». In quel tacere che non ha nulla di vile, c’è l’essenza di un Bordin capace di delicatezze che spiazzano; e indovini che c’è un altro Bordin, oltre quello che credevi di aver conosciuto, che solo pochi hanno avuto la fortuna e il privilegio di conoscere e apprezzare. Che la terra ti sia lieve, Massimo.

Massimo Bordin, quanto ci manca la tua voce. L’innamoramento «porta alla retorica», l’amore invece aiuta a capire i fatti e i protagonisti, senza «cercare colpevoli e sensazionalismi». Ricordo del direttore di Radio Radicale, inimitabile cantore del potere. Massimiliano Coccia il 16 aprile 2020 su L'Espresso. «E buongiorno agli ascoltatori eccoci a Stampa e regime, la rassegna stampa di Radio Radicale”» è il saluto che manca nell’etere radiofonico da ormai un anno, tanto è il tempo intercorso dalla morte di Massimo Bordin. Un tempo corto e pieno di ogni cosa diversa, dalla salvezza dell’emittente cui ha dedicato le energie residue, alla stagione del Papeete, al cambio di governo, alla pandemia, un tempo sempre più piccolo, carico di contraddizioni umane che la sua voce roca e la sua tensione emotiva sarebbero state in grado di teatralizzare, tra una chiosa e un commento che non diventava mai una sentenza della Cassazione ma il riflesso di un certo modo di essere, dove la serietà era la cifra di una analisi e mai un vezzo e dove la seriosità, la retorica, la volontà di mistificare i fatti erano il nemico peggiore. Bordin, romano di padre veneto, cresciuto a San Giovanni in via Vetulonia, vissuto a Testaccio, cresciuto politicamente tra la IV Internazionale e il collettivo del Manifesto a Monteverde, ha sempre detestato i generi, le categorie e le indicazioni temporali e quando qualcuno lo apostrofava come «maestro» amava rispondere con una frase di Alberto Arbasino adattandola al giornalismo: «La carriera dello scrittore italiano ha tre tempi: brillante promessa, solito stronzo, venerato maestro», diceva. Per poi concludere: «Quella del solito stronzo è senza dubbio la più divertente». Tuttavia le migliaia di ore di registrazioni che ci ha lasciato, i centinaia di migliaia di fogli e taccuini con appunti, scalette, corrispondenze, i ritagli di giornale, gli articoli che sono stati catalogati per Radio Radicale in questi mesi da Andrea Maori, sono materia di studio piena e autentica che determina il compimento di un vero e proprio metodo di lavoro giornalistico composto da una rigorosa analisi delle fonti, che si mescolava con libri, riviste, una capillare rete di informatori sparsi in ogni angolo del Paese, personaggi con cui Bordin amava intrattenersi, di cui amava la cialtronesca movenza, ma di cui testava l’affidabilità nel corso del tempo; un segmento questo che veniva implementato dall’analisi storica dei fatti e degli argomenti trattati - essendo dotato di una memoria sfavillante sapeva a memoria date, luoghi, processi, eventi, manifestazioni, nomi di deputati e gruppi di appartenenza, autori di libri, nomi di assassini, di giudici, di testimoni. Un database cerebrale che allenava quotidianamente immettendo una quantità enorme di informazioni, mescolandosi in modo mimetico con i posti che attraversava. Ad esempio negli anni del processo Tortora fece di Napoli la sua casa e grazie ad Antonio Cerrone, anima della radio nella città partenopea, ne riuscì a catturare le sfumature e l’essenza e così quell’odore dei quartieri Spagnoli, la linea di fuoco di Scampia, i processi ai Casalesi e ai Di Lauro, la nuova e vecchia camorra avevano nel racconto radiofonico la trama e le immagini di un serie televisiva, facendosi da parte nella narrazione diventando “uno del posto” è riuscito sempre a dipingere i pezzi più dolenti, sanguinari, eccessivi del nostro Paese. Un metodo questo che applicava anche alla politica che guardava con attenzione, arguzia e tenerezza sempre perché più dell’opinione e del giudizio sapeva fare spazio ai difetti essenziali e ai pregi efficaci. Le giornate trascorse interamente in radio dall’alba al tramonto erano la necessaria condizione per riuscire ad immettere un numero enorme di informazioni e di connetterle, stessa alchimia che ha animato “Stampa e regime”. In questa modalità operativa era quasi bandito l’innamoramento che «porta sempre alla retorica» ma era invece stabile l’amore per i fatti e i protagonisti, per l’inchiostro, il nastro e la carta. La pressoché totale verbalizzazione a mano di ogni singolo passaggio della sua esistenza giornalistica rendeva evidente la passione unica che nutriva per le parole, parte integrante di un metodo di dialogo con l’interlocutore o con l’ascoltatore. L’assenza totale di anafore, di metafore calcistiche, di similitudini scontate, del battutismo di seconda categoria, sono una lezione pratica di rispetto verso l’altro, ogni parola costava impegno. Di qui le sue massime, le vestizioni lessicali, i sospiri, i colpi di tosse erano un tappeto sonoro adatto per un giornalismo che non faceva il verso a nessuno. Anche il ricordo visto con questa lente di ingrandimento non si perde in mezzo ai rivoli del sentimentalismo ma diventa subito memoria e quel sigaro tra i denti, l’altezza e lo stile, il garbo e la metamorfosi della riottosità, le risate con la rincorsa, la passione smodata per l’umanità la più alta e la più infame, i ritagli dei giornali, gli espedienti per svignarsela, la rara capacità di decidere quando scientificamente essere antipatico, ruvido e fastidioso, gli amori, gli amici, il «tirare tardi e aspettare mattino», le grappe bianche e le conversazioni senza fine con i colleghi durante i festival, il rivolgersi ad Alessio Falconio che lo ha succeduto, dopo Paolo Martini, alla guida della Radio con «scusa direttore, ma secondo te…», la memoria di ogni secondo della nostra storia politica, la razionalità del giocatore, il gusto nel vestire e nel raccogliere le provocazioni facendole raffreddare, i caffè lasciati raffreddare, le fughe a pranzo con il figlio Pierpaolo, l’amore per la sua compagna Daniela Preziosi raccontato in punta di penna su “Il Foglio”, il riserbo sul periodo più difficile e la lotta generosa e senza sconti per la vita di Radio Radicale sono un dono prezioso per il futuro del dibattito pubblico di questo Paese. Un dono che ebbe la forma del testamento politico e giornalistico che pronunciò al Congresso straordinario del Partito Radicale a febbraio dello scorso anno nel corso del quale ribadì la natura radicale di un organo di servizio pubblico, un dono irregolare che servirebbe a scrostare l’ineleganza di un mestiere che si fa sempre più in modo urlato, alla ricerca di colpevoli e di sensazionalismi, senza la dolce curiosità che servirebbe, una curiosità che ha animato Massimo Bordin fino all’ultimo giorno e che forse si è mescolata alla rabbia per essersene andato troppo presto da dover rinunciare a girare per Roma fino all’alba, alle conversazioni notturne con gli amici di sempre, ai poker a casa del professor Pellicani e al dire ogni giorno: «E con questa segnalazione chiudiamo qui oggi la puntata di oggi di “Stampa e Regime”».

Perché Radio Radicale è la voce della Repubblica. Siamo entrati in questo archivio immenso, unico in Italia: 540 mila registrazioni, 43 anni di eventi politici e giudiziari registrati a tappeto - prima dello streaming, prima del grillismo. Susanna Turco il 28 gennaio 2019 su L'Espresso. È l’antidoto all’invasione del selfie, del franco coloniale, del Lino Banfi che è in noi. La difesa all’assalto dell’iper presente. La paziente e ossessiva opera di impilatura, giorno dopo giorno, della cronaca di un Paese: file audio contro i piatti di pastasciutta su Instagram, microfoni contro le sfilate di divise altrui, fino a totalizzare un archivio audio-video da oltre 845 mila pezzi e 540 mila registrazioni che rappresenta - forse più di qualsiasi altro - l’Italia degli ultimi quarant’anni. Eccola, Radio Radicale. Antica come la prima Repubblica, all’avanguardia al punto che in lei ha creduto pure Google, che le ha finanziato con 420 mila euro un progetto sperimentale che si concluderà l’anno prossimo. Tentacolare, in qualche modo: anomala, soprattutto. Forse è per questo che il governo gialloverde ha deciso di tagliarle i finanziamenti - come farà con altre realtà non allineate, dall’Avvenire al Manifesto.

Andreotti e Brunetta. Fastidiosissimo sarebbe però scivolare nella retorica, perché l’unica cosa assente dai corridoi della radio è appunto la retorica. C’è invece tutto il resto, all’ultimo piano in un palazzo accanto alla stazione Termini, proprio dove una volta ai tempi di Roma città aperta la terribile Banda Koch interrogava e torturava. Una minutaglia frenetica che si fa mondo. Gente che entra e esce in una totale orizzontalità dei ruoli, fogli e foglietti appiccicati sulle bacheche, manifesti, fili elettrici, avvisi, spaghi, carrelli, armadi, divieti di fumo si suppone infranti, ripostigli traboccanti di audiocassette, video, nastri, scatole di cartone, scritte a penna. L’effigie di un Renato Brunetta in versione beato, e sotto la scritta “ovunque proteggi” (il parlamentare azzurro è l’autore di uno degli emendamenti salva radio) e, non distante, una robusta immagine di Andreotti.

Dice: e che ci fa Andreotti? «È stata proprio Radio Radicale a smentire Andreotti. Una delle rare volte, forse l’unica, in cui è accaduto». La voce fonda della spiegazione viene dalla stanza all’angolo, una scrivania da un mare di carte dietro cui è sepolto Massimo Bordin, pilastro della radio e di Stampa e Regime, la rassegna stampa alla quale il premier Giuseppe Conte ha dedicato sontuosi aggettivi («articolata, dettagliata ed efficace», ha detto prima di concludere che i finanziamenti, comunque, non arriveranno - Bordin ricambia definendolo «il nostro acuto presidente del Consiglio»). Ecco l’aneddoto: «Era il 1984, alla festa dell’Unità ci fu un dibattito sulla Germania in cui Andreotti si era lasciato andare alla citazione: “La Germania la amo talmente che mi piace tantissimo avercene due, invece che una”. Naturalmente la cosa non fece piacere ai tedeschi, e si scatenò una polemica. Andreotti smentì, disse: “Ma quando mai ho detto una cosa del genere!”, sicuro del fatto suo, anche perché il dibattito era in tarda serata e la battuta era alla fine dell’incontro, quindi figuriamoci se c’era qualcuno che l’aveva ascoltata. E invece c’era Radio Radicale. Ecco, anche questo vuol dire essere servizio pubblico».

Da Salvini al Csm. Quell’Andreotti del settembre 1984 è tra i 2.117 interventi del sette volte presidente del Consiglio che si trovano sul sito della radio. Ma, per una volta, il divo Giulio è uno dei tanti. Accanto a 43 anni di lavori parlamentari. Accanto a Matteo Salvini che spunta per la prima volta a fine 1998 in una riunione del “Blocco padano per Milano” in cui dice che «a mio giudizio il regime totalitario è anche quello italiano», e la seconda a fine 1999, al Quinto congresso della Lega, quando proclama: «Con o senza Formentini, la Padania la faremo, sicuramente». Sicuramente. Accanto a un Matteo Renzi che nel 1997 a un convegno del Ppi esclama: «Io più che morire democristiano vorrei vivere popolare». Accanto all’unico intervento in Parlamento di Eduardo De Filippo, conservato dalla radio che fino ai primi anni Novanta è stata l’unica a registrare i lavori di Camera e Senato. Accanto al Paolo Borsellino che in un incontro organizzato dall’Msi a Bologna, molti anni prima di essere ammazzato, disegnava la sua riforma della giustizia. Accanto a 38 discorsi di fine anno dei Capi di Stato (il più breve, quello famoso di Francesco Cossiga: cinque minuti). Accanto ai processi - da Cucchi a Rostagno, da Ilva alla Strage di Bologna - che fino a pochi anni fa era soltanto questa radio a registrare, una seduta alla volta, senza saltarne una altrimenti non ha più senso. Accanto alle sedute del Csm, di cui è tutt’ora l’unica a tenere traccia. «Le sedute del Consiglio superiore della magistratura le registriamo dalla metà degli anni Ottanta. Loro non hanno nulla, solo noi. Tant’è vero che negli ultimi Plenum ne hanno pure parlato, o si sono posti il problema: se loro chiudono, come facciamo? Dovremo provvedere», racconta Guido Mesiti, uno degli otto che lavorano all’archivio. «Sui processi, capita che magistrati e avvocati vengano da noi: perché tutt’ora, nei tribunali, non fanno gli indici delle udienze. Quindi, se vuoi per esempio ritrovare un interrogatorio in centinaia di ore, come fai?». E ci sono stati casi in cui la registrazione di Radio Radicale ha fatto fede rispetto a quella del tribunale - che magari era incomprensibile, o saltata. Episodio limite, racconta Mesiti, quello attorno al presunto bacio Riina-Andreotti: «La procura di Palermo mandò la polizia ad acquisire materiale perché Andreotti era stato in quel periodo in tutta una serie di Feste dell’Amicizia, organizzate dalla Dc: volevano avere gli orari precisi dell’inizio effettivo della registrazione per capire se Andreotti avesse avuto un margine nei suoi spostamenti». Oggi, grazie alla tecnologia, il mare di 540 mila registrazioni è conservato (quasi tutto) in un unico server (con un altro di back up), mentre la copia fisica è divisa tra un hangar ai confini della Capitale e gli armadi della redazione. Tutto nasce, in fondo, da una modalità proto-grillina. Racconta Bordin: «Quando la radio nasce, insieme con l’ingresso dei radicali in Parlamento, il colpo mediatico di Pannella è quello di rappresentarsi come un deputato che accetta di sedersi in uno studio radiofonico: e il primo che gli fa una domanda, e lui gli risponde. Il che non era affatto una cosa scontata, assolutamente, rispetto alla forma di comunicazione politica dell’epoca». Oggi, l’equivalente sarebbe lo streaming. Allora, era l’onda delle radio libere, quelle della comunicazione diretta, che oggi si è spostata sui social.

Servizio pubblico. Su quella spinta, Radio Radicale ha cominciato a registrare tutto, a tappeto: e nel giro di qualche anno si è ritrovata a diventare servizio pubblico, pur non essendolo tecnicamente. Racconta Bordin: «Noi abbiamo detto subito chi eravamo, come la pensavamo. E siamo arrivati al paradosso che una radio di partito faceva più servizio pubblico del servizio pubblico, perché il servizio pubblico era più di partito che la radio di partito. Questa è la verità». Più imparziale della lottizzata Rai, insomma. In questi 43 anni, in effetti, la radio ha effettuato una specie di copia della realtà, della somma degli eventi politici, istituzionali, partitici, giudiziari. Una copia maniacalmente esatta. Il leader radicale Marco Pannella, del resto, s’arrabbiava se qualcuno si azzardava anche solo a sfumare gli applausi. «Se sono tre minuti di applausi, bisogna registrarli tutti e tre», ecco il diktat. Racconta Paolo Chiarelli, l’amministratore delegato: «Noi facevano l’integrale, mentre la Rai ha sempre solo conservato i servizi montati». Quella cosa, che allora sembrava solo mania, oggi è una ricchezza che non ha pari. Ogni giorno, gli eventi vengono registrati in giro per l’Italia e messi subito sul sito, poi nel giro di un giorno indicizzati, controllati, archiviati. Ancora Chiarelli: «Siamo partiti su cassetta, una fortuna perché da lì è stato più facile. Dai primi anni Duemila abbiamo digitalizzato, adesso abbiamo un sistema automatico - sviluppato insieme a una società che partecipa alla creazione degli stenografici della Camera - che opera una trascrizione multimediale dell’audio. In più grazie al finanziamento di Google, stiamo elaborando un sistema che estrarrà automaticamente i concetti chiave di una registrazione, sul modello di una agenzia di stampa. Insomma stiamo arrivando al compimento del lavoro iniziato nel 1976, quando ci dicevano che facevamo uno sforzo inutile. Stiamo creando un sistema che rende completamente fruibile tutto». Sul modello Einstein: tutti sanno che qualcosa è inutile, finché non arriva qualcuno che non lo sa, e la rende un patrimonio.

Antonio Russo, inviato di Radio Radicale ucciso a Tblisi mentre indagava sulla guerra in Cecenia.

I numeri. Adesso, però stanno per arrivare i tagli. Già è operativo il primo: dal Mise per il 2019 sono stati erogati 5 milioni di euro, invece dei soliti 10. «E lì arriverà il nostro vero impoverimento. Nostro, e di chi non ci potrà più ascoltare», racconta il direttore Alessio Falconio. Alle pareti, dietro di lui, ci sono enormi cartine dell’Italia, divisa per zone. In ogni zona c’è un cerchietto, più grande, più piccolo, di colori diversi. «Sono i 250 impianti dai quali trasmettiamo. Una rete che tra affitti e utenze costa da sola 3,7 milioni l’anno». Tutta la radio, compresi i 52 dipendenti e 20 collaboratori che rappresentano un terzo delle uscite, e i 2 milioni necessari a coprire gli eventi, costa circa 12 milioni di euro, dice Chiarelli. Costi che oggi sono coperti da un lato dal contributo della Legge sull’editoria (4 milioni) e dell’altro con la convenzione erogata dal ministero dello Sviluppo economico, 10 milioni lordi, 8,2 netti (esiste dal 1994, fu decisa dal governo Ciampi, l’ultimo della prima Repubblica, e attuata da quello di Silvio Berlusconi). Adesso, il governo ha dimezzato la convenzione, per il 2020 è previsto il taglio completo dei fondi dell’editoria. Questo cosa significa? Dice Chiarelli: «Fino a maggio siamo coperti, perché il governo ci ha rifinanziato per 5 milioni, poi dovremo trovare una soluzione: o si chiude, o si cambia, si vedrà quale può essere la via d’uscita, ci stiamo lavorando. Ma, per come sono ripartiti i costi, lavorare con cinque milioni in meno è impossibile. Non è che puoi chiudere metà rete, o tagliare metà redazione, o eliminare l’archivio. E allora, come abbiamo detto ai Cinquestelle, tanto vale dirlo subito: se ritenete che questa cosa sia inutile, chiudetela. Scegliete. Ma non si può partire dai tagli».

Quale mercato? Veramente il premier Conte, seguito a ruota dal vicepremier Luigi Di Maio, ha detto che «bisogna aprirsi al mercato», i tempi sono cambiati. «Ma quale mercato? È come dire a una biblioteca di aprirsi al mercato delle librerie», spiega Falconio: «Il servizio pubblico non ha mercato, questo è evidente. Il servizio pubblico ha un mercato suo. Quale inserzionista pubblicitario potrebbe mai accettare che gli spot non vadano in onda perché, improvvisamente, si deve stravolgere il palinsesto per mandare in onda un’audizione in commissione Finanze del ministro Tria?». Vuol dire che la radio chiuderà? Bordin rifiuta di farsi prendere da sentimentalismi: «Questa radio ha combattuto per la propria sopravvivenza sin da quando è nata, e su più fronti, quindi nessuno si illuda, non verremo sopraffatti da crisi di panico. Crisi di noia, semmai: noia da combattimento. I Cinquestelle considerano i media tradizionali un nemico, e che possiamo farci? Mica possiamo cambiargli la testa, è un problema loro. D’altra parte, quelli che avevano le leve del potere in passato, mica erano amici nostri. Anzi, l’attacco più serio alla sopravvivenza di Radio Radicale venne nel 1996 dal governo Prodi, quando fecero quella buffonata di Rai Parlamento». Beh, ma non si è mai parlato di azzerare i finanziamenti. «Il governo di adesso è più diretto perché sono più rozzi, solo per questo. E lo dicono pure», spiega Bordin: «Hanno riqualificato a livelli da asilo infantile la categoria della obiettività della stampa, che poi si riduce alla questione che la stampa per essere obiettiva non deve parlare male del governo. E vabbè, questa è una cosa vecchia come il mondo: vogliono una stampa asservita. E lo vogliono rozzamente. Senza spazi di agibilità. Vediamo se riescono. Del resto, Radio Radicale non credo che gli piaccia, come non gli piace il Manifesto, come non gli piace l’Avvenire. Sono forme anomale, forze che possono portare allo spariglio. Quindi se possono farli fuori sono contenti». Così, semplicemente? «Le cose, in genere, sono semplici».

BORDIN LINE, QUANTO CI MANCHI. Il Foglio Quotidiano 17 Aprile 2020. Un appunto contro il luogo comune, un commento eterodosso, un duello a distanza nel nome del garantismo. Ricordo fogliante di Massimo Bordin a un anno dalla morte.   Dichiarazioni-bomba da riscontrare, di Massimo Bordin (5 aprile 2012). Un anno fa oggi moriva Massimo Bordin, voce storica di Radio Radicale (di cui fu anche direttore dal 1991 al 2010) e storico collaboratore del Foglio. Per sette anni esatti, dal 3 aprile 2012 al 2 aprile 2019, il Foglio è uscito ogni giorno con la sua rubrica Bordin Line: appunto, nota o commento eterodosso alla cronaca politica e giudiziaria. Con il titolo “Una passione unica” , lo scorso anno abbiamo pubblicato un libretto con un’ampia antologia della Bordin Line. In queste pagine, oggi, vi proponiamo qualche altro stralcio di quella sua “passione unica”. Parlamentari, avanti un altro Nelle proposte degli indignati “anti casta” si può rintracciare una interpretazione del mandato parlamentare come una sorta di sussidio, come la cassa integrazione, che non sia destinato a durare in eterno, così che altri bisognosi possano fruirne. Due legislature, dieci anni al massimo, e poi via, avanti un altro, intimano Grillo e i suoi grillini. L’onorevole Pionati, che è un moderato ma vuole seguire lo Zeitgeist, ieri ha avanzato la sua proposta: vent’anni al massimo e non parliamone più. Ha esagerato? Non è detto. Gli Usa non saranno un paese per vecchi ma il vice-presidente Biden è stato senatore per 27 anni prima di arrivare al fianco di Obama, e nessuno si è scandalizzato. Mitterrand al ventesimo anno da senatore è arrivato all’Eliseo. Non si può prevedere dove arriverà Pionati, ma il problema forse non sta nella durata del mandato. L’Unità e Il Fatto annunciavano ieri una nuova importante testimonianza nell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia. Se vi state chiedendo come sia possibile nel momento in cui le carte sono già sul tavolo del giudice per la udienza preliminare, la risposta è che è possibile. Se mai il problema sta nell’immagine che gli stessi magistrati dell’accusa danno della loro inchiesta. Ma come? Avete stizzosamente risposto ai critici e ai dubbiosi che le loro critiche e i loro dubbi si fondavano sull’ignoranza della mole probatoria racchiusa negli atti dell’inchiesta e ora, a tempo praticamente scaduto, vi affannate a portare testimonianze fuori sacco? Si può parlare di materiale acquisito in tempi recentissimi? Neanche per idea. Ci si basa su una telefonata, o più probabilmente un tabulato telefonico, agli atti da una ventina d’anni, in cui è coinvolto un tizio, vecchia conoscenza delle procure di mezza Italia, che in seguito avrebbe rilasciato – scrivono sul Fatto Rizza & Lo Bianco – “dichiarazioni che più di un inquirente definisce una bomba , ma ancora tutte da riscontrare”. Un dettaglio marginale, nessuno è perfetto. (12 ottobre 2012) Neo magistrati in carcere Mentre i Radicali, i carcerati e altre persone di buon senso e di buona volontà sono mobilitate no a domani, per quattro giorni di la, in scioperi della fame e varie iniziative non violente su amnistia e diritto di voto per i detenuti, io, che sono sostanzialmente un vile, mi sono limitato a raccogliere da fonte degna di fede voci che arrivano dalla mailing list dei magistrati progressisti. Una storia indicativa, però. Discutono fra loro dell’opportunità di una proposta per la nuova scuola di formazione dei magistrati. Si tratterebbe di far passare un paio di settimane in carcere ai neo magistrati freschi di concorso vittorioso. Naturalmente non in cella, e facendoli tornare a casa la sera. Si parla di inserirli fra gli agenti di custodia, ma è un’ipotesi. Sta di fatto che sulla mailing list si riversano due tipi di pareri contrari alla novità. Il primo è quello dei diretti interessati che non paiono entusiasti. Non li approvo ma sono portato a capirli, ho già detto che sono un vile. Il secondo è quello di qualche magistrato anziano, che sostiene che così si rischia di condizionare la loro serenità di giudizio quando dovranno emettere una sentenza. L’argomento, fondatissimo, mostra nel modo più chiaro lo stato delle nostre carceri e della nostra giustizia. (21 novembre 2012) Rosario anti “casta” “Dimezzamento del numero dei parlamentari e non più di due mandati”. Lo dicono tutti, destra, sinistra e centro, in genere alla ne del talk-show quando il conduttore chiede loro cosa intendano fare contro la famigerata “casta”. Rispondono con aria stanca, recitano un rosario nel quale si vede benissimo non credono minimamente. Pensano piuttosto che alla ne qualcuno dovrà farlo e sono in parte rassegnati, anche se non consenzienti, ma i più intelligenti fra loro si rendono anche conto che si tratta di una sciocchezza. Basterebbe abbattere le spese, e non sarebbe così difficile, senza toccare la rappresentanza. Per di più la faccenda dei due mandati è storicamente una clamorosa esemplificazione di un utilizzo partitocratico dell’incarico parlamentare. L’idea non è di Grillo ma fu del primo Pci per garantire una pensione almeno ai migliori dei suoi numerosi funzionari. Per questo Botteghe Oscure inventò il criterio, con le dovute eccezioni, della non ricandidatura al terzo mandato. Altri dovevano subentrare e le casse del partito se ne sarebbero giovate. Due mandati perché allora uno non bastava per una pensione decente. Altri tempi. (1 febbraio 2013) La condanna (in primo grado) di Del Turco Dunque l’hanno condannato e la pena inflitta in primo grado è molto pesante, quasi dieci anni. L’entità non deve stupire perché non solo il reato è grave ma il processo, per come si era messo, non offriva possibilità di mediazioni. Possibile che un personaggio politico moralmente irreprensibile come Ottaviano Del Turco, che fu scelto dai socialisti quando era loro assolutamente necessario eleggere un segretario al di sopra di ogni sospetto, sia divenuto, alla ne della sua carriera politica una sorta di satrapo che addirittura pretendeva che le tangenti gli venissero portate a domicilio? Quale terribile torsione o diabolica doppiezza ha caratterizzato la sua vita ? In un caso simile le prove dovrebbero essere evidenti e gli accusatori tanto se ne resero conto che parlarono, al momento dell’arresto, di prove schiaccianti. Salvo poi alla ne del processo modificare alcuni capi di imputazione perché la difesa aveva dimostrato che in determinati giorni, citati dai pm nel capo d’accusa, Del Turco sicuramente non aveva potuto commettere il reato che gli era imputato. “E’ vero” , rispose l’accusa, “vorrà dire che cambieremo la data”. Si potrebbe scegliere anche altro, ma forse è questo l’esempio più evidente per mostrare che di questa vicenda sentiremo ancora parlare. (23 luglio 2013) In alto i cuori, in alto i gagliardetti Sono un lettore attento dei comunicati del Movimento cinque stelle e in particolare di quelli di Beppe Grillo. Non lo dico per vantarmi, mi pagano anche per questo. Da un po’ di tempo avevo fatto caso che al termine dei proclami era sempre inserito uno slogan, un motto per incitare alla mobilitazione. Tecnica antica, un po’ retrò, se si vuole, ma che funziona sempre. “Al lavoro e alla lotta!” , si concludevano così i comizi del vecchio Pci e come lo diceva Occhetto, nessun altro. Oppure “Hasta la victoria siempre!” in calce al pamphlet di Che Guevara “Creare due, tre, molti Vietnam”. Ovviamente non solo a sinistra si usa questa tecnica. Nella messa in latino, al momento più solenne, l’ociante dice “Sursum Corda” ma non credo che Beppe Grillo sia un cultore della messa all’antica, e forse nemmeno del latino. Per questo quando ho visto che i suoi proclami si concludono da un po’ con il motto “In alto i cuori” non ho pensato alla messa ma a qualcosa di politico che però non mi veniva in mente, c’era solo un vago ricordo di risse universitarie. Così ho controllato. E’ il titolo italiano dell’inno delle Camicie Brune. “In alto i cuori, in alto i gagliardetti / serriamo i ranghi è l’ora di marciar” eccetera. Mi sono informato meglio e ho trovato conferma che l’inno era in voga in anni passati. Chi l’avrà suggerito al “dottor Gribbels”? In ogni caso ho capito perché dice che se non ci fosse stato il M5s ci sarebbe stata Alba dorata. Si vede che qualcuno aveva già avuto la stessa idea. (23 ottobre 2013) La “fattoria dei magistrati” La manifestazione è venuta bene. Migliaia di persone, standing ovation nei passaggi salienti dell’intervento di Barbara Spinelli, e soprattutto la presenza dei magistrati in solidarietà dei quali la manifestazione si teneva ovvero i pubblici ministeri del processo sulla trattativa. Prendo queste notizie dal Fatto di ieri. Del resto la vicenda la conoscete, si tratta delle minacce rivolte da Riina al dottor Di Matteo e al rischio che esse possano essere messe in atto, estese agli altri magistrati che nel processo rappresentano l’accusa. Qualcosa però nel resoconto del Fatto non c’è. Sabato è uscita su Repubblica, ma non sul Fatto, la notizia di un allarme in procura a Palermo. Una fonte confidenziale ha avvertito che Matteo Messina Denaro, latitante e non al 41 bis come Riina, sta preparando un attentato contro il procuratore aggiunto Teresa Principato che il mese scorso ha fatto arrestare alcuni famigliari e complici del boss di Castelvetrano. Il blitz ha dato i suoi frutti e il rischio per la dottoressa Principato ora è serio. Ma nella “fattoria dei magistrati” del Fatto quotidiano alcuni magistrati sono più uguali degli altri, e nella manifestazione “contro le minacce ai magistrati” non risulta, almeno dal resoconto, che della vicenda si sia fatto cenno. (14 gennaio 2014) I tacchini da talk-show si beccheranno Tanti anni fa, un mio amico siciliano, un avvocato che non ha mai difeso mafiosi, tanto per capirci subito, mentre prendevamo l’aperitivo mi fece il seguente discorso: “Vedi, questi finiranno per realizzare quello che dissennatamente tu e, in modo interessato, molti di quelli che la pensano come te, continuate a chiedere. Alla ne si arriverà davvero alla separazione delle carriere e perno alla abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale. E non voglio pensare a che altro. Ma non succederà per le battaglie dei radicali e dei socialisti. Il fatto è che questi sono stupidi”. Parlava di certi pubblici ministeri. Alcuni, anche famosi, erano stati suoi compagni di liceo. Ne faceva ritratti impietosi. Quella chiacchierata, condita da aneddoti esilaranti, mi è ritornata in mente ieri alla notizia dell’indagine sul padre del presidente del Consiglio. Ma non è detto che finisca come sostiene il mio amico. Basta vedere i social forum. Il “dibbbattito” è già partito. I tacchini da talk-show si beccheranno. “Giustizia a orologeria! Complotto!”. Ma in realtà è cosa priva della grandezza del male. Una meschina ritorsione da burocrati, al massimo. “Nessun orologio! L’indagine è di sei mesi fa”. Giusto a ricordarci che il circo giudiziario non funziona senza la sua appendice mediatica. Sei mesi fa non era una notizia. Gli ipocriti diranno che la giustizia deve fare il suo corso. Anche perché le vacanze sono comunque nite. (19 settembre 2014) Una bufala sulla depenalizzazione Sul blog di Grillo ieri è partita una campagna, subito ripresa da creduloni ed esagitati che affollano la rete, a proposito dei provvedimenti di depenalizzazione varati dal governo. Grillo propone un elenco di 112 reati dall’incesto al maltrattamento di animali passando per il furto e sostiene che sono stati depenalizzati. Non è solo, anzi arriva dopo una campagna di stampa condotta dal Fatto quotidiano. Su internet la cosa però fa più impressione perché la bufala propinata si abbina ai commenti ovviamente indignati di chi pensa di stare per vivere dentro “Blade runner”. Anche qualche altro parlamentare, oltre ai grillini, prende sul serio la cosa e decide di cavalcarla. Si va da Saverio Romano di Forza Italia, che twitta la sua protesta, a Loredana De Petris di Sel, preoccupata per gli animali quanto l’ex ministro Brambilla. Nessuno però si è preoccupato di verificare come in realtà il provvedimento riguardi principalmente le imputazioni più lievi, sanzionabili con multa e ammenda, e la depenalizzazione consista nel rendere il provvedimento, da penale, amministrativo, snellendo la trala burocratica e rendendo così più rapida e certa la sanzione. dicembre 2014) “Corda e sapone” per un suicida Su Twitter una attenta lettrice con acuta sensibilità sociale mi segnala l’ennesimo suicidio in un carcere italiano. Argomento sgradevole come pochi, di quelli che non si contestano, perché sono incontestabili, ma si fuggono perché inquietano. Esempio per eccellenza: la Shoah. In questo caso la storia ha due protagonisti, un ergastolano suicida e una pagina di Facebook. Già sull’ergastolano c’è da interrogarsi, volendo. Non era un mafioso né un serial killer. Era un romeno, Ioan Gabriel Barbuta di 39 anni, condannato all’ergastolo per l’omicidio di un vicino di casa. Chi sa che casa fosse e che tipo di vicino. Uno solo comunque. Non come Olindo e Rosa che per avere la stessa pena hanno dovuto fare molto di peggio ai loro vicini. Comunque Ioan Gabriel ha pensato di impiccarsi e quello che conta è che c’è perfettamente riuscito, malgrado la sorveglianza. E siamo al secondo protagonista, la pagina Facebook, gestita da uno dei numerosi (ma quanti sono?) sindacati degli agenti di custodia, l’Alsippe, qualsiasi cosa voglia dire questa sigla. Commenti imbarazzati per quello che potremmo chiamare un increscioso episodio? Ma no. Roba tipo: “Uno di meno” La faccenda dei due mandati è una clamorosa esemplificazione di un utilizzo partitocratico dell’incarico parlamentare Del Turco non aveva potuto commettere il reato. “E’ vero” , rispose l’accusa, “vorrà dire che cambieremo la data” Grillo propone un elenco di 112 reati dall’incesto al maltrattamento di animali e sostiene che sono stati depenalizzati. Ma è una bufala La “gogna mediatica”: il pm non ha trovato indizi sufficienti per indagare qualcuno ma almeno lo indica al pubblico ludibrio o “Sono solo extracomunitari”. Peraltro i romeni sono membri dell’Ue ma, se hanno faticato a realizzarlo Alemanno e Gasparri, perché prendersela con gli agenti di custodia? “Fornirgli corda e sapone” scrive simpaticamente un altro utente della pagina sindacale. Ma se un senatore del M5s, Giarrusso, ha pubblicamente proposto di impiccare Renzi, perché inerire sul sindacalista? E, infine, se il ministero ha aperto un’inchiesta, ha senso chiedersi a cosa possa servire? (19 febbraio 2015) Lupi, ultima vittima della discovery La parola chiave è “discovery”. Suona bene alle orecchie del profano di procedura penale perché almeno è una parola inglese, dunque moderna per definizione, e lontana dai tempi immutabili degli azzeccagarbugli e del loro latinorum. E’ addirittura musica soave per il giurista che ne coglie il suono anglosassone, evocatore per lui di un processo finalmente ad armi pari, promessa mai mantenuta a sud delle Alpi. Eppure, da quando la discovery è divenuta parola corrente nel processo penale, ha portato in auge come mai prima espressioni quali “gogna mediatica” e “macchina del fango”. Eterogenesi dei ni o riprova che le peggiori persecuzioni, con l’unica eccezione forse del nazismo, nascono e si affermano in nome del “bene comune”. Con la discovery si sono trovate messe alla gogna, metaforica ma non meno umiliante, signorine dai costumi leggeri divenuti non più privati, mariti non irreprensibili ma nemmeno fuorilegge, uomini e donne appartenenti ai ceti sociali più diversi dai muratori ai ministri, dalle puttane alle principesse. Chi scrive, pur se per indole e ideali è più portato alla difesa di puttane e muratori, deve ammettere che il fenomeno è interclassista e l’ultima vittima della discovery è il ministro Lupi, per il quale qui non si prova nessuna simpatia e più ancora delle dimissioni si sarebbe preferito non vederlo riconfermato. Ma è singolare che ora lo si voglia fuori dal governo senza nemmeno il rituale avviso di garanzia. Come è potuto succedere? La discovery, appunto. Fino agli anni 80 c’era il mandato di cattura che veniva “spiccato” dal pm. Uno veniva sbattuto in galera e poi, con calma e in segreto, si vedeva. Oggi il pm deve prima far valutare al gip l’emissione di un ordine di custodia cautelare. Altro linguaggio e altra prassi. Se il gip è d’accordo si procede, se invece ritiene quella del pm una pessima idea non lo sapremo mai. Quando il provvedimento viene emesso, e non “spiccato” , avviene la discovery. Ovvero, lealmente, l’accusa scopre le sue carte. Così la difesa potrà regolarsi meglio. E che si vuole di più? L’indagato è messo nelle condizioni di difendersi n dal momento in cui si chiude la porta del carcere. Josef K. fu trattato assai peggio. Nella discovery ci sono le accuse per tutti gli indagati, l’ordine di custodia è unico, cambia solo l’indirizzo. Meglio, così la difesa ha un quadro completo. E ci sono le intercettazioni, che non possono mancare se non a scapito dell’accuratezza dell’indagine. Funzionano così: devono fondarsi su indizi di reato o almeno essere indispensabili alla prosecuzione delle indagini. In parole povere si può intercettare anche chi non è indagato e a maggior ragione se parla con chi invece lo è. Il pm, naturalmente, non sta ad ascoltare in cuffia. Ci pensa l’addetto della polizia che stende un brogliaccio e ogni cinque giorni dovrebbe farlo valutare al magistrato per scegliere le telefonate rilevanti ma i pm non ce la fanno a tenere il passo delle intercettazioni da loro stessi richieste e in genere solo grazie a una proroga di indagine riescono a fare una scrematura. E allora come è possibile che si ritrovino nelle ordinanze telefonate prive di rilievo penale ? Servono a definire il “contesto” è la risposta. Ma possono finire sui giornali? No. Ma la sanzione è una multa, ammortizzata da un po’ di copie in più. Dunque ci finiscono. La “gogna mediatica” è una specie di sanzione anticipata. Il pm non ha trovato indizi sufficienti per indagare qualcuno ma almeno lo indica al pubblico ludibrio. Un po’ come la carcerazione preventiva. So che sei colpevole perché, come Pasolini, “io so” , ma so anche che non ho prove e dunque ti tengo dentro n che posso, sperando che tu me le fornisca. Con la pubblicazione delle intercettazioni il pm sfiora l’autolesionismo. Faccio sapere a tutti, dunque anche a te, che ti sto puntando. La politicamente tempestiva pubblica gogna può far evitare la pena forse in futuro dovuta. Estremo paradosso della discovery. (19 marzo 2015) Il pm Henry John D’Alema Insomma – fermo restando che se per avere un appalto si corrompe un pubblico amministratore si commette un reato, e grave – la notizia su cui si è dibattuto con accanimento ieri consiste nell’esistenza di una inchiesta che ha appurato, fra l’altro, come Massimo D’Alema, che al momento non ha alcun incarico pubblico né di partito, abbia buoni rapporti con una cooperativa fra le maggiori della Lega Coop. Non erano necessarie intercettazioni per sospettarlo. Né stupisce che a valorizzare una simile acquisizione investigativa sia il pm Henry John D’Alema. (1 aprile 2015) Inseguire farfalle e trattative Prevedibile, inevitabile, il nuovo libro sulla trattativa è firmato direttamente dal pm Nino Di Matteo insieme al giornalista Salvo Palazzolo. Le anticipazioni di Repubblica non possono essere esaustive, e dunque il libro bisognerà leggerlo, ma qualcosa di più chiaro sul senso dell’accusa forse fanno intendere e fanno riemergere la questione, molto tecnica, di come si possa imputare, attraverso naturalmente il codice penale che non lo contempla, il reato di trattativa. Quanto alle critiche all’inchiesta, ieri se ne è occupato Attilio Bolzoni, addebitando ai critici la tesi della sopravvenuta sparizione della mafia. Non so altrove, ma qui non si è mai sostenuta. Però quando Bolzoni sostiene che nel 1963 alcuni dettero per sconfitta la mafia per essere poi clamorosamente smentiti da omicidi e stragi che ripresero dopo pochi anni in un terribile crescendo no al 1993, qui, dove pure non si dà per sparita la mafia ma nemmeno trionfante, non si può fare a meno di osservare che negli ultimi anni non ci sono state più stragi e nemmeno delitti eccellenti anche perché tutti i capi sono sepolti da ergastoli che scontano al 41 bis e perno la maa ha bisogno di tempo per riorganizzarsi. Bisognerebbe evitare di concederglielo mettendosi a inseguire farfalle e trattative. (7 maggio 2015) Quelli che ci insultano per il nostro bene La federazione italiana tabaccai ha annunciato una sua campagna che supera l’aspetto meramente corporativo e credo meriti attenzione. Il presidente dei tabaccai ha inviato quella che definisce “una civile nota di disappunto” al ministro Beatrice Lorenzin per il tono della nuova campagna anti fumo, condotta dal ministero all’insegna dello slogan “Ma che, sei scemo?”. “Non sono scemo, sono un fumatore consapevole” , sta scritto nelle cartoline prestampate da inviare al ministero della Salute. La questione supera il tema del fumo e civilmente i tabaccai segnalano che si può fare prevenzione senza insultare. E qui sta il punto centrale della faccenda. Ormai gli insulti sembrano essere le coordinate di qualsiasi discorso sulle questioni pubbliche. Sdoganato – e promosso a elemento di programma politico – il vaffanculo, gli insulti entrano ora a vele spiegate nella pubblicità progresso. E’ il grado zero del discorso, regressione culturale allo stato puro, altro che progresso. E’ il fondo, astioso e autoritario, di chi vuole il nostro bene a tutti i costi. (27 ottobre 2015) M.me Le Pen e Grillo, due populismi Alcune categorie politiche si dilatano e perdono i loro connotati di riconoscibilità. Non intendo dal punto di vista teorico, ma almeno per il minimo necessario a capire e a capirsi. Populismo, per esempio. Sono riconducibili a questa stessa categoria sia M.me Le Pen che Grillo? Ovviamente no. Con una battuta si potrebbe dire che il Front national viene del neofascismo e punta a superarlo, il M5s, al contrario, rischia di arrivarci partendo dal web. Per ora comunque i pentastellati più che ai lepenisti sono vicini a Podemos, almeno nell’immaginario di una larga parte del loro elettorato. Il Fn è una formazione che si va modi- cando partendo però da una struttura ideologica compatta che il M5s non ha, se non, forse, nelle intenzioni di Casaleggio. Infine, il sistema elettorale della quinta Repubblica fu concepito per ridimensionare, se non tagliare, le estreme. In Italia ad oggi non siamo nemmeno sicurissimi del sistema col quale voteremo alle prossime elezioni politiche. Tutto ciò premesso, da oggi il dibattito sui grandi giornali probabilmente si orienterà sulla “avanzata europea delle forze populiste” e sulle possibili analogie fra la situazione italiana e quella francese. Durerà tutta la settimana. (8 dicembre 2015) La mafia come retrovia Nel processo Maa Capitale le udienze finora non sono state elettrizzanti, si susseguono le testimonianze degli ufficiali del Ros citati dall’accusa per rendere edotto il tribunale delle varie tappe dell’inchiesta e della raccolta di prove e indizi. Ogni tanto qualche imputato chiede di rilasciare una dichiarazione spontanea in cui ribadisce la propria innocenza più a beneficio delle agenzie di stampa che dei giudici. Più incisivi i controesami delle difese che in qualche occasione hanno evidenziato lacune investigative e incongruenze. Ma queste prime testimonianze mostrano un ambiente che stenta a omologarsi allo stereotipo del controllo mafioso. Mancano i killer, c’è un personaggio addetto al recupero crediti ma pesantemente criticato dagli altri per la sua sbadata inconcludenza. Ci sono molti tipi assai poco raccomandabili e con lunghe fedine penali, poco propensi però alla disciplina di gruppo. In fondo la squadra messa insieme da Carminati ha pochi elementi. Molti personaggi ben rappresentano un certo milieu molto romano, di commercianti e imprenditori edili alle prese con l’usura, non sempre o solo nella parte delle vittime. Sociologicamente si va dal gioielliere dei Parioli al grossista di mozzarella. Fra usura ed estorsione invece il ruolo che l’accusa ritaglia con notevole messe di registrazioni anche video per Carminati e i suoi due o tre sodali. Naturalmente non mancano amministratori locali accusati di corruzione. E la mafia propriamente detta? Una sorta di potente retrovia attestata sul litorale e a Roma sud. Nel processo ci arriveremo, assicurano i pm. (19 febbraio 2016) L’intervista di Vespa a Riina jr. Il dibattito sull’intervista di Vespa a Riina jr. continua, in spregio al monito caro ad Alessandro Milan che tutte le mattine ricorda agli ascoltatori della sua rassegna stampa che “la carta costa”. Comunque, una volta trasmessa l’intervista ognuno la può valutare come meglio crede. Anche se da alcuni commenti emerge un sotto-tema di qualche interesse. Bruno Vespa catalizza una notevole ostilità, non sempre motivata, come riesce solo a un’altra diversissima icona delle tv e delle librerie: Roberto Saviano. Personalità diversissime, a cominciare dal look, che hanno in comune solo due cose: i loro detrattori e i successi di share e di vendite. Non è azzardato pensare che in molti casi, non in tutti certo, la seconda sia la causa della prima. Quanto al dibattito parlamentare, molti trovano normale che a occuparsi della faccenda sia stata la commissione Antimafia e non, se mai, quella di vigilanza Rai. A me pare singolare e indicativo. Infine ci sarebbe da notare che ieri qualcosa di serio sulla mafia e la società, sui giornali c’era. Ma era l’editoriale di Paolo Mieli sul Corriere, che parlava di mafia, antimafia e Confindustria. Cose serie e complicate sulle quali disponibili ad appassionarsi sono pochi. Quelli capaci di ragionare. (8 aprile 2016) E’ necessario tornare a occuparsi del dottore Ingroia, perché a tutto c’è un limite. Ieri sera alcuni tg hanno proposto la sua versione a proposito dell’indagine per peculato che lo riguarda e si sono potuti apprendere nuovi particolari dalla sua viva voce, sottolineati dalla sua mimica inconfondibile. La sua linea difensiva è la seguente: i dati usati dai magistrati palermitani sono sbagliati in partenza. Non mi si può accusare, dice Ingroia, di aver incrementato il passivo della società partecipata regionale per avere incassato un “premio di risultato” di 117 mila euro a fronte di un attivo conseguito di soli 33 mila. Ovviamente, sostiene Ingroia, nell’attivo era compresa anche la cifra del mio premio, dunque l’azienda non ci ha rimesso e non capisco di che mi si accusi. Questa la tesi. Può essere che la parola abbia tradito il pensiero ma il ragionamento del dottore Ingroia, preso alla lettera, porta a concludere che a fronte di un attivo societario di circa 150 mila euro, la Regione Sicilia, governata dall’ineffabile Crocetta, lo ha gratificato di un premio pari a oltre l’80 per cento dell’utile conseguito. Siccome la società partecipata resta gravata da un passivo accumulato che si conta in milioni, la linea difensiva del dottore Ingroia rappresenta un caso lampante di quella che Ernesto Rossi chiamava la socializzazione delle perdite e la privatizzazione dei profitti. Il fatto che il dottore Ingroia, ora avvocato, consideri la sua una brillante tesi difensiva, aiuta retrospettivamente a capire come abbia svolto il ruolo di pubblico accusatore. Qui ci si continua a chiedere quando finirà questa costosa buffonata. Roma tra la Svizzera e la Germania. Niente “fontanelle che zampillano” descritte in un esilarante reportage sulla capitale pubblicato dal blog di Beppe Grillo e scritto in uno stile nordcoreano. La Acea ha da tempo ridotto la pressione che determina il flusso dell’acqua dalle fontanelle pubbliche e ora minaccia di fare la stessa operazione con i rubinetti delle nostre case. L’acqua è un bene comune ma anche prezioso e dunque non va sprecato. D’accordo. Però è anche vero che qualcosa di simile a Roma non s’era mai visto. Dunque quel racconto di una città immaginaria dove tutto funziona a meraviglia, tranne i mezzi pubblici perché anche l’apologeta più sfacciato sa dove fermarsi, è stato messo in rete nel momento oggettivamente meno propizio. Restava comunque azzardato descrivere Roma ai tempi della Raggi come una via di mezzo fra una località di vacanza svizzera e una metropoli tedesca. Forse però è proprio l’incongruenza evidente a rendere fruttuosa, da un punto di vista politico, l’operazione mediatica. L’improntitudine è irritante ma è anche un segno di forza o almeno come tale può essere percepito. In fondo sono gli stessi che propongono come statisti Di Maio e Di Battista. Pensano di potersi permettere tutto e vogliono farlo sapere. (30 agosto 2017) Ciancimino e la famosa trattativa Nella condanna di Massimo Ciancimino per il reato di calunnia, ai danni di Gianni De Gennaro e Lorenzo Narracci, pronunciata ieri a Caltanissetta c’è un dettaglio che dice molto. Il pubblico ministero aveva chiesto una pena di 5 anni e 9 mesi che il giudice ha, diciamo così, arrotondato a 6 anni. Quei tre mesi in più rispetto alla richiesta dell’accusa suggeriscono l’idea che le motivazioni saranno, se possibile, un ulteriore passo nella demolizione dell’attendibilità del “super teste” su cui si regge in gran parte il processo sulla cosiddetta trattativa. Ciancimino jr. ha ormai collezionato un album Panini di condanne e procedimenti pendenti per i reati più vari, dalla detenzione di candelotti di dinamite al riciclaggio, passando naturalmente dalla falsa testimonianza. L’aspetto più singolare, e indicativo, è che, nella maggior parte dei casi, queste vicende giudiziarie, concluse o ancora in corso, rimandano a un periodo nel quale Ciancimino aveva già iniziato la sua collaborazione, se così si può dire, con la giustizia e la sua carriera di “icona dell’antimaa” , tuttora osannata da sconsiderati sventolatori di agende rosse guidati dal fratello del giudice Borsellino. La questione vera è che l’apporto di un personaggio simile è, in mancanza d’altro, comunque irrinunciabile per gli inventori della famosa trattativa. Prova ne sia il fatto che pochi giorni fa il dottore Ingroia, nella veste di avvocato di parte civile, con raro sprezzo del pericolo e del ridicolo ne ha chiesto l’inserimento fra i testimoni nel processo “’Ndrangheta stragista” che si svolge a Reggio Calabria. (17 novembre 2017) Breve storia dell’albero Spelacchio Breve storia dell’albero Spelacchio, raccontata dalle massime autorità della città che ebbe per sindaci Ernesto Nathan e Giulio Argan e ora Virginia Raggi o chi per lei. Il 9 dicembre presenta l’albero come “il nostro omaggio alla città” , lo denisce “certicato e molto bello” nella sua semplicità, sobrietà e sostenibilità. Gli addobbi prevedono 600 palle e 300 cascate di led da 10 metri. I romani lo vedono e comprendono perché la sindaca avesse usato quei termini. Viene subito chiamato Spelacchio da tutti. Con quel nome tracima sui social ed è oggetto di articoli e filmati. Ride mezzo mondo. Il battesimo popolare dell’albero è stato troppo tempestivo, osserva il 21 dicembre l’assessora all’ambiente Pinuccia Montanari, per non pensare quanto meno a un mezzo complotto. Poi l’assessore si profonde in giustificazioni degne di John Belushi in “The blues brothers”: veniva da dieci mesi di siccità, gli aghi potrebbero essere caduti per via delle decorazioni troppo strette. Mancano giusto le cavallette. In ogni caso è evidente che c’è una regia in corso, conclude, riproponendo “il complotto di Spelacchio”. Oggi l’epilogo raccontato dall’assessora e dalla sindaca. L’albero è entrato nel quotidiano della gente e ha rapito l’attenzione di radio e tv. Oltre che per l’aulica improntitudine le parole di Montanari sono significative per l’esclusione dell’odiata carta stampata ma anche del solitamente amato web. La sindaca tira le somme dell’operazione Spelacchio annunciandone il riciclo sotto forma di riuso creativo. Non solo gadget ma anche una casetta di legno dotata di fasciatoio in legno. Simbolo di tempi nuovi, da immaginarsi tristi e regressivi. (9 gennaio 2018) Il ministero della democrazia diretta L’annunciato ministero “per la democrazia diretta” induce al sorriso, ma siccome prima di ridere, o piangere, è meglio capire, occorre immaginare. Il ministero dovrebbe avere una sede, anche se modesta, probabilmente negli uci distaccati della presidenza del Consiglio nella galleria Colonna, nulla più che qualche stanza. Una bella e grande per il ministro, una comunicante per il suo sta, un’altra più ampia per i (pochi) funzionari. Nel corridoio, che affaccia sulla porta, naturalmente a vetri in nome della trasparenza, la postazione più delicata: quella dell’uscierecentralinista. “Pronto, ministero della democrazia diretta. Chi vuole? Il ministro? Le passo la segreteria”. La democrazia diretta, che è comunque una cosa seria, finirebbe con una telefonata ma nascerebbe un magnifico personaggio letterario. Il centralinista del ministero della democrazia diretta. (2 marzo 2018) Il ministro dell’Interno gioca a flipper Da ultimi gli articoli di Fiorenza Sarzanini sul Corriere della Sera e di Arianna Ciccone sul web mettono in la gli atti di violenza contro immigrati e rom che stanno caratterizzando questa estate nel nostro paese. Sono articoli meticolosamente attendibili e il pessimismo induce a pensare che, al di là dello scrupolo delle autrici, possano perno essere approssimati per difetto. Va però anche aggiunto che una semplice, per quanto impressionante sequenza, va comunque confrontata statisticamente e non è lavoro da giornalisti ma da istituti che pure esistono ma hanno i loro tempi, che non sono quelli della informazione. Per di più, sulle ultime e più impressionanti vicende, ancora la cronaca lascia spazio, con le sue contraddizioni e zone d’ombra, a possibili letture diverse. Tutto questo però non toglie, anche a voler essere minimalisti per autocontrollo, che l’impressione di un aumento di episodi violenti a sfondo razzista abbia un suo solido fondamento. Né rassicura l’atteggiamento del ministro dell’Interno, non solo per le sue dichiarazioni e citazioni. Compaiono sui social foto che ritraggono Salvini sulla spiaggia che si fa selfie con altri bagnanti o al bar che gioca a flipper. Eppure nessuno invoca un suo maggiore impegno, forse considerando che nelle sue funzioni di ministro in soli due mesi, oltre tutto, ha già causato due incidenti diplomatici, con Tunisia e Ucraina. Meglio dunque che giochi a flipper. E’ evidente anche alle pietre come in ogni caso, impegnandosi, potrà solo peggiorare la situazione che, al di là delle sue foto, non può essere denita, come al solito, drammatica ma non seria. Stavolta è anche seria. (31 luglio 2018) L’idea di giustizia di Lega e M5s La bagarre inscenata dai leghisti sulla questione del disegno di legge Molteni ha coinciso con la reiterazione degli attacchi del M5s alle modiche della legge sulle intercettazioni. I temi sono lontani dal punto di vista della procedura, il primo riguarda il giudizio, ovvero la fase nale, il secondo le indagini, ovvero la fase che può originare il processo, ma è innegabile che all’origine delle rispettive prese di posizione ci sia la stessa idea di “giustizia”. Un "idem sentire" , come diceva Umberto Bossi quando voleva fare colpo sul professore Miglio, che si mostra con l’immagine di un sacrificio umano in onore di alcuni idoli del tempo, primi fra tutti la semplificazione e l’efficienza. L’indagine non deve trovare limiti nei diritti delle persone, si scatenino Trojans e telecamere e peggio per i passanti. Il ne del processo è la condanna e l’unica condanna possibile deve essere il carcere. Se poi le galere si inzeppano no al doppio della loro capienza, come documentava ieri uno splendido articolo sul Mattino, poco male. Sarà solo Rita Bernardini, con pochi altri, a cercare di impedirlo senza naturalmente riuscirci. In nome della lotta alla casta e alle pastoie burocratiche si torna a forme tribali. Sarebbe auspicabile che Berlusconi mandasse una volta per tutte a quel paese Salvini e Bersani smettesse di considerare possibile il dialogo con la tribù dei cinque stelle, ma non succederà. Tutto lascia pensare che il piano continuerà a inclinarsi. (13 dicembre 2018) Senza medaglie di stagnola Passato il weekend resta la scia delle polemiche su Freccero, sul ritorno in Rai di Daniele Luttazzi, sulla collocazione di Luca Bizzarri Paolo Kessisoglu. Altro preme e la faccenda può restare in stand-by senza per questo uscire di scena. Tocca però rispondere al direttore del Fatto che ha citato questa rubrica. Naturalmente si è trattato di una citazione critica e questo non può che rassicurarci. Secondo tradizione l’argomentazione criticata era rovesciata nel suo assunto per meglio essere confutata. Ma il punto non è nemmeno questo. Il punto è che Travaglio mi definisce polemicamente “sedicente liberale”. Non posso accettarlo. La realtà è che mai mi sono presentato a qualcuno come un liberale, non ho questa pretesa, in un mondo di Montanelliani e liberal di ogni ordine e grado non ho medaglie di stagnola di questo tipo nel cassetto. (8 gennaio 2019) Il caso vuole che per una bizzarra quasi coincidenza di date, oggi sia l’anniversario dell’arresto di Totò Riina, avvenuto il 15 gennaio del 1993. E’ passato un quarto di secolo, la memoria può annebbiarsi, eppure ieri risultava difficile comprendere le affermazioni dei due ministri, quello in borghese e quello mascherato, precipitatisi a Ciampino per rimarcare come “storica” la data di ieri. Cesare Battisti era un membro di secondo piano di un gruppo terrorista di poche decine di persone che si sciolse nel giro di tre anni, non prima di aver ucciso cinque persone, a causa della dissociazione del suo fondatore, un tizio di Verona. Insomma non è la caratura criminale di Battisti a rendere storica la giornata, né il pericolo da lui rappresentato attualmente. Certo i tempi della sua latitanza sono stati molto lunghi ma neanche questo è un dato così straordinario. Un paio di anni fa, sempre dal Brasile venne estradato un camorrista di rango, Pasquale Scotti, dopo una latitanza lunga grosso modo quanto quella di Battisti. Nessun ministro o oppositore parlò di giornata storica, al massimo qualche cronista giudiziario napoletano. La caratteristica della latitanza di Battisti, più che la durata, è il suo svolgimento sotto gli occhi di tutti fra la rive gauche e Copacabana. L’obbiettivo della evidente strumentalizzazione governativa non è lui ma i suoi amici , “la sinistra”. Qui, dove pure non si dà per sparita la maa, non si può fare a meno di osservare che negli ultimi 22 anni non ci sono state più stragi Sdoganato, e promosso a elemento di programma politico, il vaanculo, gli insulti entrano a vele spiegate nella pubblicità progresso Sono gli stessi che propongono come statisti Di Maio e Di Battista. Pensano di potersi permettere tutto e vogliono farlo sapere In nome della lotta alla casta e alle pastoie burocratiche si torna a forme tribali. Tutto lascia pensare che il piano continuerà a inclinarsi quella di Mitterrand e poi di Lula. Il cambio del regime brasiliano ha reso possibile tutto ciò. Prima che comparisse Bolsonaro, Battisti non era al centro dei pensieri del governo. Ora si può leggere qualsiasi cosa. Perno un paragone fra un cancro e l’Internazionale socialista di Pietro Nenni e Willy Brandt. (15 gennaio 2019) Dibba e Di Maio, marcatura a uomo Continua l’affiancamento, la marcatura a uomo verrebbe da dire, di Di Battista nei confronti di Di Maio. Ieri i due hanno varcato le Alpi per incontrare una rappresentanza di gilet gialli. Il copione sembra essere quello dei due poliziotti, quello buono e quello cattivo. L’abbigliamento aiuta a distinguere i ruoli. Di Maio con i suoi terribili completini grigi nella parte del mediatore istituzionale, Di Battista col giubbotto da movimentista, a rappresentare il movimento di lotta e di governo nel tentativo di arginare la perdita di punti nei sondaggi a tutto vantaggio di uno che è sicuramente più abile di loro a travestirsi. Infatti si comincia a notare come il ritorno in campo del girovago Dibba non stia producendo i risultati sperati dalla Casaleggio Associati. Forse la parabola si sta compiendo. Non basta una cravatta a fare un governante e in tempi dicili emerge l’inadeguatezza anche degli agitatori a casaccio. In parole povere chi li ha votati comincia a non darsi, a nutrire il dubbio del giocatore d’azzardo che alla ne del primo tempo comincia a pensare di aver puntato sulla squadra sbagliata. Questo sembrano dire i sondaggi nel momento in cui le migliori opportunità sono state già estratte dal famoso contratto. La legislatura ora dovrà proseguire affrontando i problemi notoriamente più controversi fra gli alleati di governo oltre le inevitabili difficoltà impreviste e per i pentastellati la partita si fa sempre più dicile. (6 febbraio 2019) Il Pci e l’equivoco sul sequestro Moro Il libro di Giovanni Bianconi sul 16 marzo 1978, giorno del rapimento di Aldo Moro, pubblicato da Laterza nella collana dedicata ai giorni più importanti della storia del nostro paese, non è solo molto bello. È imprescindibile. Almeno di fronte alla marea di sciocchezze cresciute e autoalimentatesi nel corso del tempo. Bianconi nel suo libro fa un lavoro da grande cronista e rimette in la i fatti, dalla sera di vigilia di quella giornata, l’agguato, la reazione dei partiti, l’accelerazione del voto di ducia al governo col Pci nella maggioranza, le prime indagini e le prime manifestazioni no al voto denitivo sul governo a tarda notte. Il risultato della lettura è molto significativo. La radice, la base delle successive farneticazioni, - no a quelle di chi sostiene che Moro non sia stato rapito a via Fani ma in un altro posto, sta tutta in quelle prime 24 ore così come si trovano puntuali smentite, prese solo dallo svolgersi dei fatti, a molto avventurose ricostruzioni. Sostenere, come fece da subito il Pci ma anche molti altri, che si aveva a che fare non con una formazione politica ma con una accolita di assassini utilizzata da imprecisati servizi segreti, non servì solo e tanto a stravolgere l’identità e la natura politica delle Br, quanto e soprattutto a rafforzare quella “linea della fermezza” che caratterizzò da subito tutto l’arco politico con l’eccezione di socialisti, radicali e della parte più saggia dell’estrema sinistra. E’ la lezione principale del libro di Bianconi e spiega anche perché le baggianate in materia durino da quarant’anni. (19 marzo 2019)

·        1 anno dalla morte di Franco Zeffirelli.

Zeffirelli, che visse con l’elmetto in testa e senza peli sulla lingua. Manuel Fondato il 21 Luglio 2020 su  culturaidentita.it, fonte ilgiornale.it. Franco Zeffirelli, che ci lasciava poco più di un anno fa, il 15 giugno 2019, aveva tutto per non piacere: sincero fino ad essere urticante nei giudizi, orgogliosamente cattolico e, forse per alcuni il peccato esiziale, fieramente anticomunista. Di questo era consapevole e lo diceva apertamente, com’era suo costume: ”I comunisti mi odiavano perché non mi accodavo. Essere dei loro significava avere vita e carriera protetti. E io l’ho pagata cara. Per questo ho fatto carriera soprattutto all’estero. Contro di me negli anni ’70 prepararono perfino un attentato. Doveva sembrare un incidente d’auto. La scampai solo perché un amico mi avvertì in tempo”. Naturalmente la morte funge sempre da lavacro e l’estate scorsa fu un coro unanime di elogi per il “venerato maestro” scomparso. Di maestri Zeffirelli ne ebbe due, di cui uno realmente venerabile (per la Chiesa): il suo professore Giorgio La Pira, futuro sindaco di Firenze e Luchino Visconti, con il quale ebbe anche un profondo legame sentimentale. Secondo lui il regista del Gattopardo, gattopardianamente, si adattava all’egemonia imperante della sinistra, pur disprezzandola. Visconti, cercando sempre di dargli raccomandazioni per farlo accettare nel pantheon degli intellettuali, gli sconsigliò di girare quello che poi si sarebbe rivelato uno dei suoi capolavori: la trasposizione di Romeo e Giulietta, il cui successo valicò anche i confini italiani; una costante per lui quella di essere più apprezzato all’estero che in patria. La storia rimase al centro della sua filmografia con pellicole del calibro di Fratello Sole e Sorella Luna, La bisbetica domata, con protagonista la coppia più celebre di Hollywood Richard Burton ed Elisabeth Taylor. Memorabile anche il suo Gesù di Nazareth per la tv. Naturalmente la critica non si unì agli applausi internazionali e del pubblico italiano. Di Fratello Sole, Sorella Luna ad esempio, scrisse che era “inverosimile e fazioso”, nonostante i frati di Assisi, che qualcosa di più conoscevano in materia, lo avessero lodato. Nemmeno nella sua passione per il calcio trovava pace. Viveva anche quella con l’elmetto in testa e senza peli sulla lingua. Da buon fiorentino non sopportava la Juventus e quello che rappresentava. Si soffiò il naso con una sciarpa bianconera che l’incauto Mike Bongiorno gli aveva porto in segno di distensione, duellò con Giampiero Mughini, agli albori della sua carriera da opinionista tv, in una celebre puntata de L’appello del martedì, lo strampalato programma condotto da Maurizio Mosca. Nonostante la sua dichiarata omosessualità non legò mai con il movimento gay, che, nemmeno a dirlo, non apprezzava e liquidò con queste parole: ”l’omosessuale non è uno che sculetta e si trucca. È la Grecia, è Roma. È una virilità creativa”. Grande amico di Berlusconi, che lo fece eleggere con Forza Italia a Palazzo Madama, trascorse gli ultimi anni in una casa di Silvio sull’Appia Antica. Dimora che ora il Cavaliere ha deciso di abitare in luogo del caotico Palazzo Grazioli, magari cercando quella pace che l’ultimo illustre inquilino non trovò quasi mai in vita.

·        1 anno dalla morte di Luke Perry.

Luke Perry: le curiosità che non conoscevi sull’attore scomparso a 52 anni. Notizie.it l'11/10/2020. Luke Perry, attore divenuto famoso per avere interpretato Dylan in Beverly Hills 90210, è morto a 52 anni: tante curiosità legate alla sua vita. Luke Perry è morto il 4 marzo 2019, a causa di un ictus, a soli 52 anni. L’attore statunistense, divenuto noto per avere interpretato il ruolo di Dylan McKay in tutte le stagioni della serie Beverly Hills 90210, l’11 ottobre avrebbe compiuto gli anni. Con la sua interpretazione aveva conquistato una intera generazione di teenager – e non solo – di tutto il mondo. La sua carriera, nonostante la prematura scomparsa, è ricca e lunga. Tante, inoltre, sono le curiosità che avvolgono la sua vita. Beverly Hills 90210 non è né la prima né l’unica serie in cui Luke Perry ha recitato, seppure sia quella che gli ha donato maggiore successo. Prima di interpretare il ruolo di Dylan Mckay, infatti, l’attore ha recitato in altre soap opere americane, tra cui Destini e Quando si ama, trasmesse anche in Italia. La notorietà, tuttavia, arrivò in maniera singolare. Luke Perry infatti non sostenne mai un vero e proprio provino per il ruolo di Dylan Mckay. Egli stava tinteggiando le strisce pedonali davanti gli studi di registrazione quando Tori Spelling, figlia del produttore di Beverly Hills 90210 nonché attrice che avrebbe interpretato il personaggio di Donna, lo notò. Inizialmente l’attore statunitense avrebbe dovuto avere il ruolo di Steve Sanders, ma alla fine gli fu affidato quello del bad boy milionario. Un bad boy che, tuttavia, non trovava riflesso nella realtà. Luke Perry era in realtà una gran brava persona. Un aneddoto raccontato dal figlio di Tom Hanks è sufficiente a dimostrarlo. In base al racconto, infatti, un giorno l’attore statunitense si trovava su un aereo e per far calmare due bambini in preda al pianto si mise a gonfiare dei palloncini per poi regalarglieli.

L’atteggiamento da uomo normale inoltre non lo abbandonò mai. Come quando “il ragazzo più cool del mondo” si ritrovò in un centro commerciale della Florida davanti a 10mila ragazzine che avrebbero voluto un autografo e, soltanto dopo 90 secondi, scappò via, spaventato dalla folla. Il gesto causò una vera e propria rivolta, ma le sue fans lo perdonarono. L’ombra del miliardario Dylan Mckay gli rimase tuttavia sempre a fianco, causandogli anche qualche problema in carriera. Quando Beverly Hills 9020 giunse ai titoli di coda, infatti, per Luke Perry fu difficile proporsi per un altro ruolo da protagonista.

La morte. L’ultimo ruolo interpretato da Luke Perry è quello di Wayne Maunder nel film C’era una volta… a Hollywood di Quentin Tarantino, dove ha interpretato Wayne Maunder. Il film uscì quando l’attore era già morto, a maggio del 2019. Le riprese, invece, erano state effettuate un anno prima. Poco prima che un ictus lo colpisse, Luke Perry aveva deciso di sposare la fidanzata Wendy Madison Bauer, nonostante stessero insieme da poco tempo. Ella gli è rimasta accanto negli ultimi giorni di vita insieme alla ex moglie Minnie Sharp e ai due figli Jake e Sophie.

Chiara Ferrara. Nata a Palermo, classe 1998, è laureata in Scienze delle comunicazioni per i media e le istituzioni e iscritta all'Albo dei giornalisti pubblicisti. Prima di collaborare con Notizie.it ha scritto per Mediagol e itPalermo.

·        1 anno dalla morte di Nadia Toffa.

Ilaria Ravarino per ''Il Messaggero'' il 3 agosto 2020. A quasi un anno di distanza dal giorno in cui è finita la sua battaglia contro la malattia, il sorriso di Nadia Toffa illumina quello di una bambina di pochi mesi, Alba Nadia Maria, figlia della sorella della giornalista de Le Iene scomparsa lo scorso agosto. «Ha lo stesso sorriso birichino di Nadia, sua mamma Silvia le somiglia molto», racconta la madre di Toffa, Margherita Rebuffoni, con la voce ancora rotta dall'emozione. Da poche ore ha ritirato, sul palco dei Magna Grecia Awards, una targa alla memoria della figlia, scomparsa a soli quarant' anni, salutata da una lunga standing ovation del pubblico. «Non me lo aspettavo che la mia Nadia avesse tante persone che le volevano bene - dice - Quando tocchi con mano un simile amore vieni sommerso dall'emozione. E poi quell'applauso è stato un modo bellissimo per superare la paura di questi mesi e tornare alla normalità». Da quando, il 13 agosto del 2019, Nadia Toffa si è spenta nella casa di cura di Brescia, dove era ricoverata per un tumore cerebrale, si sono moltiplicate le iniziative in sua memoria: una fondazione, premi giornalistici, festival, un murales e un reparto ospedaliero a Taranto, di cui era cittadina onoraria. Persino le nuove autoambulanze di Milano, la città che l'aveva adottata nella sua lunga militanza a Le Iene, dallo scorso dicembre ricordano Toffa con una sua immagine affissa all'interno dell'abitacolo. «Continuano ad arrivarmi centinaia di lettere per lei. Mi scrivono tante persone sofferenti, gente che tocca la malattia con mano. Tante mamme mi parlano dei loro bambini malati. Io sento che è come se Nadia li abbracciasse tutti. Se poi ho qualche dubbio su come rispondere, guardo la sua foto e mi lascio ispirare: vado a dormire e al mattino so cosa fare». Un rapporto strettissimo, quello tra Margherita e la sua figlia minore, che non si è interrotto nemmeno con la morte della giornalista. «Anche se Brescia, la nostra città, è stata violentemente sconvolta dal coronavirus, noi siamo riusciti a vivere con serenità quei momenti. La nipotina, nata in pieno Covid, ci ha tenuti occupati con cambi, pappe e biberon. Le giornate sono volate. È stato un dono. Un dono di Nadia». Il dolore della famiglia - la madre, il padre Maurizio e le due sorelle, Silvia e Mara - oggi si stempera nel rispetto dell'eredità morale lasciata da Nadia, quel suo considerarsi una guerriera del cancro che le attirò sui social, negli ultimi mesi di vita, le antipatie di chi non ne condivideva l'approccio alla malattia. «Lei ci ha insegnato a non demordere mai. Ad affrontare le difficoltà senza paura. Niente avviene per caso: dobbiamo avere coraggio e affrontare la vita con fiducia nell'avvenire. Io per fortuna ho fede, e mi affido». Eredi professionali, dentro e fuori da Le Iene, secondo la madre non ce ne sarebbero: «La passione che Nadia metteva nel lavoro, talmente forte da riuscire a penetrare l'anima delle persone, era speciale. Ha fatto inchieste importanti, ha aiutato chi aveva bisogno di lei. Era una donna passionale, avrebbe fatto qualsiasi cosa per dare una mano agli altri. Arriverà senza dubbio qualcuno più bravo di lei, Nadia stessa amava i suoi colleghi più giovani. Ma era, e rimarrà, unica». Di Toffa oggi restano le inchieste giornalistiche realizzate per Le Iene - celebre quella sull'inquinamento ambientale a Taranto - e soprattutto i suoi libri: il reportage sul gioco d'azzardo, il discusso Fiorire d'inverno, il postumo Non fate i bravi. E presto potrebbero uscire altri volumi. «Prossimamente arriverà in libreria un nuovo libro, ne stiamo curando la copertina, decidendo il titolo e facendo le ultime correzioni. Abbiamo materiale anche per un altro volume: Nadia scriveva sempre, soprattutto di notte. Mi ha lasciato 450 pagine di materiale. Anche se non tutto è pubblicabile, sono sorpresa della mole di scritti che ha prodotto. Me li leggeva a colazione, ricordandomi ogni volta dove avrei potuto ritrovarli: sulla scrivania del computer». Il sogno di Margherita, però, sarebbe quello di riuscire a pubblicare anche qualcos' altro: «Una bellissima canzone, scritta e incisa da lei: si intitola La donna altalena ed è un brano sulla vita e sull'amore, in senso lato. Per l'uomo, per la donna, i bambini e la natura. Universale».

Dagospia il 12 agosto 2020. Comunicato Stampa. “Credo che se Nadia ci vedesse fare quello che stiamo facendo si ammazzerebbe dalle risate!  A un anno di distanza stiamo per farvi vedere qualcosa per cui non siamo assolutamente attrezzati, perché in questo speciale dedicato a Nadia parleranno tutte le persone che hanno lavorato con lei, che normalmente stanno dietro la telecamera non sanno stanno qui, dove sono seduto io e dove non sappiamo stare, ossia davanti… Questa cosa che ci costa moltissimo, come vedrete, la facciamo solo per lei”. Con le parole di Davide Parenti, che prima l’ha voluta come inviata e poi come conduttrice, si apre domani, in prima serata su Italia1, “Le Iene per Nadia”, la puntata speciale che la grande famiglia de “Le Iene” ha scelto di dedicare a Nadia Toffa, la nota giornalista scomparsa un anno fa. Un ricordo commovente ma anche divertente, in condivisione con il pubblico che non ha mai smesso di manifestare affetto e stima nei confronti della grande “guerriera”.  “Le Iene per Nadia”, fatto da Davide Parenti e Max Ferrigno, è un omaggio con contenuti inediti, ricordi, interviste, racconti e immagini che ripercorrono momenti della vita lavorativa di Nadia: dal primo servizio realizzato in cui vestiva i panni dell’inviata, alla sua prima conduzione, dalle prime apparizioni in tv fino alle ultime, momenti di gioia e spensieratezza ma anche testimonianze di chi ha vissuto da vicino la sua malattia. Rivedremo estratti di servizi realizzati da Nadia che, a livello mediatico, suscitarono più clamore: la storia di Gabriella Mereu, la dottoressa miracolosa che utilizzava un pendolo “magico” per guarire i pazienti da ogni malattia (2015); l’inchiesta a difesa del “Made in Italy” per cui Nadia volò fino a Pechino e alcuni momenti del ritorno in onda di questa prima edizione senza di lei. La toccante intervista in cui si raccontò, senza veli, a Silvia Toffanin per Verissimo (2018), e il premio che vinse come migliore giornalista tv dell’anno (2015) grazie al reportage, realizzato con Gaston Zama, sulle violenze del califfato; il servizio in cui provò la “dieta Mima Digiuno” del Prof. Valter Longo e la partecipazione allo show “Vi dedico tutto” di Biagio Antonacci in cui fecero una visita improvvisata a Eros Ramazzotti. Autori e addetti ai lavori che hanno lavorato con lei e che l’hanno amata raccontano aneddoti e ricordi su quanto capitava sia davanti che dietro le quinte. Dallo scherzo a Teo Mammucari in cui Nadia avrebbe dovuto farlo innamorare (2013) a Celebrity Games (2012), le olimpiadi sportive a cui hanno partecipato vari personaggi televisivi delle trasmissioni Mediaset; dai racconti divertenti sul suo modo atipico di parlare con chiunque mantenendo la distanza di un solo centimetro, alla puntata dello show condotta insieme a Fedez e J-Ax; dall’intervista al suo primo amore cinematografico Terence Hill (2018) che poi le regalò una ciotola autografata dove mangiare i fagioli, alle partecipazioni a Caduta Libera, lo show di Gerry Scotti e al Maurizio Costanzo Show. Fino ad arrivare allo storico 1°ottobre del 2019 quando “Le Iene Show” tornarono in onda dopo la sua scomparsa. Un momento indimenticabile quello della prima puntata senza Nadia che portò alla reunion di 100 Iene per lei, dove parteciparono tra gli altri Afef, Claudio Bisio Enrico Brignano, Alessandro Cattelan, Geppi Cucciari, Luciana Littizzetto, Enrico Lucci, Luca e Paolo, Simona Ventura, Fabio Volo. Un'unica grande famiglia pronta a stringersi nell’abbraccio più caloroso, prima di tornare in scena. Entrarono in studio tutti i personaggi che avevano vestito i panni da Iena e in quell’occasione indossarono di nuovo la “divisa”. Poi Alessia Marcuzzi le dedicò un commovente ricordo. Max Ferrigno, che insieme a Davide Parenti organizzò la reunion, racconta: “Abbiamo pensato a lungo come ripartire senza Nadia ma, con un po' di fortuna abbiamo fatto una prima puntata molto bella. Non credo ci possa venire una cosa ugualmente bella se la riprovassimo altre mille volte e la cosa ancora più magica è che sono venute persone che Nadia non l’avevano mai nemmeno incrociata ma hanno capito che senza di loro, senza le loro conduzioni, senza i loro servizi, senza la loro storia, Nadia non sarebbe diventata quello che è stata”. E, sul discorso che fece la Marcuzzi a nome di tutti, afferma: “Alessia prima del suo discorso di apertura di questa prima puntata era davvero emozionata, si sentiva addosso una responsabilità molto grossa perché non voleva rappresentare il dolore di tutti. In quell’occasione è stata davvero molto brava”. “Erano tutti nomi di primo piano della televisione italiana, non c’era quindi la volontà di provare quel momento con loro perché si voleva lasciare l’emozione e la spontaneità del momento – commenta il regista Antonio Monti - per cui abbiamo lasciato che il flusso delle persone entrasse in studio. È stato un momento storico e allo stesso tempo emozionante, un saluto corale che fondamentalmente non aveva nulla di preparato”. “Una volta mi chiamò Biagio Antonacci, mi disse che voleva fare una cosa che non fosse solo un concerto, ma anche un racconto della sua vita. A me venne immediatamente in mente le, e si scatenò subito una grande empatia tra loro due”, sono le parole del regista Roberto Cenci. Infine, il pensiero di tutte le persone che lavorano a Le Iene dedicato a Nadia: “Forse ora qualcuno potrebbe pensare che hai perso, ma chi ha vissuto come te, non perde mai”. I momenti più significativi dei dieci anni di carriera di Nadia vengono così raccontati nello speciale, tra immagini dei servizi e ricordi di chi le era a fianco.

2009: Il primo servizio da inviata. Nadia Toffa realizzò con l’autore Riccardo Festinese il suo primo servizio che ricorda: “Aveva questa pettinatura pazzesca e parlava un bresciano insopportabile che cercavamo di strapparle via! Il capo (Davide Parenti, ndr.) mi disse, prendi questa qui e falle fare questo pezzo”. Sempre su quello che fu il suo primo servizio in onda l’autore Filippo Casaccia afferma: “Quando il suo primo servizio ha funzionato, è stata inarrestabile!”

2011: La prima vera aggressione a Nadia. “Lei ha pianto ma non ha voluto che il suo pianto fosse messo all’interno del filmato, considerandola una propria debolezza” racconta l’autore Marco Fubini. Era il 2011 e in quell’anno a condurre lo show c’erano Ilary Blasi, Luca Argentero ed Enrico Brignano che, durante la diretta, tolsero a Nadia il collare cervicale che aveva intorno al collo, acclamando il coraggio che aveva dimostrato durante quella prima aggressione. “Le aveva prese da 4 uomini e aveva capito che il lavoro che aveva iniziato a fare, non dà moltissimo, era un lavoro pieno di pericoli” – commenta così Davide Parenti l’accaduto. “Era quella semplicità che faceva star bene” racconta l’autore Riccardo Spagnoli, ripensando a uno dei tanti momenti di ilarità e scherzo vissuto in redazione.

2013: la prima volta a Taranto per l’Ilva e l’impegno per la città. “Era appena uscita la notizia di uno studio epidemiologico dell’Ilva che diceva che a Taranto si muore per colpa dell’incremento di alcool e sigarette. Lei leggendo questa notizia mi dice che non era possibile e che voleva farne un servizio. Mi ricordo che dal primo incontro con il primo ragazzo intervistato ci fu un grande amore per la causa” ricorda Riccardo Spagnoli (autore) parlando di quel servizio realizzato con Nadia. Nacque così il grandissimo impegno della Iena a sostegno della città e dei suoi abitanti, iniziato documentando le nubi tossiche che si alzavano dall’azienda e le malattie che hanno causato a chi lavora e abita lì attorno. Un impegno talmente grande che ha portato Nadia ricevere la cittadinanza onoraria di Taranto, seguendo una proposta partita proprio dai cittadini con appelli e messaggi social, per i numerosi servizi dell’Ilva e sull’emergenza inquinamento in città. La Iena aveva incontrato più volte i cittadini, parlato con le famiglie e i bambini, e ascoltato e raccontato le storie di chi si era trovato a combattere contro il cancro. Nel 2017 Nadia è stata anche madrina della campagna “Ie Jesche Pacce Pe Te”, realizzata dal gruppo “Amici del Mini Bar” del quartiere Tamburi di Taranto e ha dato grande risalto alla raccolta fondi - tramite la vendita di magliette che recitavano quello slogan - destinata alla realizzazione del reparto di pediatria dell'Ospedale Santissima Annunziata di Taranto.  Il 25 settembre 2019, grazie a una petizione firmata da più di 90mila persone, il reparto di oncoematologia pediatrica dell'ospedale Santissima Annunziata è stato a lei intitolato.

2013: l’inchiesta sulla Terra dei Fuochi. Tra le sue inchieste più note anche quella realizzata con l’autore Marco Fubini sulla Terra dei Fuochi, nella quale la giornalista spiegava, attraversando i luoghi contaminati tra Caserta e Napoli, quanto marcio ci fosse in quelle terre, e l’entità del danno. Mostrò come il cibo coltivato in quelle terre fosse contaminato e reso tossico a causa dello sversamento di rifiuti accumulatisi nel corso degli anni, provocando di fatto l’innalzamento del tasso di mortalità, soprattutto infantile. Per quel servizio parlò anche con Carmine Schiavone, il boss dei casalesi, poi pentito, che le raccontò alcuni terribili retroscena sul modus operandi degli agricoltori. Fubini ricorda la nascita di quell’inchiesta così: “In quell’anno tutta la televisione italiana ha parlato della Terra dei Fuochi e in quella stagione noi eravamo tra i primi ad occuparcene. Era un problema comune perché quello che veniva coltivato in quelle terre andava a finire su tutte le tavole”.

2016: Il servizio sulla medicina non convenzionale e Eleonora Brigliadori. Il 2016 fu l’anno in cui la giornalista, tra gli altri servizi, mostrò i metodi “da santone” con cui la showgirl Eleonora Brigliadori sosteneva di poter allontanare le malattie attraverso il “metodo Hamer” che si basava sull'autoguarigione attraverso la mente. Durante le riprese del servizio la Brigliadori, infastidita dalle domande della Iena, le sferrò un colpo per allontanarla.

Open Space: “OpenSpace” - la sua prima esperienza da conduttrice in studio - è stato il primo social talk della televisione italiana, un mezzo diretto fra il pubblico e i vari personaggi dello spettacolo, della politica o dello sport invitati in studio a rispondere a domande dirette formulate in rete, tramite il sito web del programma dai telespettatori. La Toffa intervistò, tra gli altri, Luigi Di Maio, Matteo Salvini, Roberto Saviano, il Prof. Umberto Veronesi, lo chef Joe Bastianich e Raffaele Sollecito.

2017: Tutti con il fiato sospeso per Nadia. All’interno di questo speciale “Per Nadia” rivedremo anche il momento in cui, dopo il primo malore, il grande pubblico rimase con il fiato sospeso per quanto accaduto alla Iena. Era il 2 dicembre 2017 e Nicola Savino, Matteo Viviani e Giulio Golia diedero la notizia in diretta. Poco prima delle 13.00 arrivò in redazione una telefonata in cui dissero che Nadia era svenuta all’interno della hall di un albergo di Trieste, città in cui l’inviata era a girare un servizio per lo Show. Soccorsa immediatamente e trasportata in ospedale, avvisarono che il suo era un “codice rosso”. Max Ferrigno, autore della trasmissione, ricorda quel momento: “Dopo il primo malore, siamo arrivati all’ospedale di Trieste e lei si è svegliata. Per tranquillizzare un po’ tutti, ovviamente il primo pensiero di Nadia era per la mamma e per la sua famiglia, abbiamo fatto una fotografia (si riferisce alla foto che ritrae il gesto di “vittoria” che divenne virale nel giro di pochi minuti, ndr.). E mi ricordo che con lei ridevamo perché mi diceva: “ma pensa se devo fare una fotografia facendo la “v di vittoria” che prende un milione e mezzo di like. Sono la nuova influencer!”

2017: La prima intervista dopo il malore. Il racconto delle ultime settimane della Iena dopo il malore Davide Parenti le commenta così: “In realtà queste due dita a “v” non furono una vittoria ma l’inizio della malattia vera di Nadia. Il giorno dopo la trasferimmo da Trieste a Milano con un elicottero e dopo due giorni venne urgentemente operata. Lei ovviamente vedeva “Le Iene” in televisione e voleva tornare, come un bambino vuole tornare a giocare, però i medici dicevano che non era assolutamente possibile per cui, per dare una risposta a tutti, organizzammo a casa sua questa intervista”. In quell’intervista Nadia dichiarò: “Io non ricordo il malore, ma mi ricordo l’ambulanza. Nella mia vita non l’avevo mai presa. All’inizio ho pensato fosse successo un incidente perché sentivo un’ambulanza, ma dopo un po’ mi sono resa conto che forse sentivo la sirena un po’ troppo vicina. Quindi ho realizzato e mi sono detta: 'Vuoi vedere che è la mia ambulanza?'… Ero lucida, ma non mi sono resa conto di ciò che stava accadendo, della gravità. Nessuno sapeva cosa avessi. Stare in ospedale ti riporta un po’ al succo delle cose…rivaluti anche la fisicità, le cose basilari”. Dopo questa intervista ci fu la pausa natalizia e “Le Iene” tornarono in onda i primi di febbraio e con loro tornò in onda anche la giornalista che, per quell’occasione decise di raccontare al mondo, quello che ancora nessuno sapeva. Seduta al centro della scrivania, tra Nicola Savino e Matteo Viviani, Nadia parlò del suo male. “Quel momento era talmente inaspettato che ricordo che Matteo e Nicola erano completamente di profilo, proiettati verso Nadia, ignari di quanto lei stesse per raccontare”, ricorda Antonio Monti, regista della trasmissione.

2018: la dedica di Jovanotti. “Un mese dopo questo suo ri-debutto televisivo, il male che aveva colpito la Toffa, tornò facendo diventare necessario un secondo intervento – ricorda Davide Parenti - Nadia lo affrontò e dopo pochi giorni era già sul palco di Jovanotti, a sgambettare con lui”. L’inviata e Nicola Savino avevano fatto un’incursione sul suo palco durante il concerto, costringendo l’artista a indossare i panni da Iena e a rispondere ad alcune domande sul “come si fa”. In quell’occasione Lorenzo Jovanotti le dedicò, prendendola anche in braccio, “Una ragazza magica” e “Bella”, due delle sue canzoni più conosciute. 

2019: Le ultime apparizioni in tv. Davide Parenti “E poi ci fu l’ultima puntata che riuscì a fare, il 5 maggio del 2019, che corrisponde anche all’ultima volta in cui, molti di noi, l’hanno vista. Lei normalmente entrava in scena camminando, però non riusciva più a farlo, per cui, con le telecamere spente, l’aiutammo a raggiungere il centro del palco. Partì il balletto e lei era presente, non in grado di muoversi, ma in grado di sorridere”. “Ricordo Nadia nell’ultimo periodo, ogni settimana, ogni puntata, era sempre più difficile per lei. Si era anche ipotizzato di cominciare la puntata in maniera più tranquilla, tutti seduti al banco, ma lei si è sempre rifiutata, ha sempre voluto fare l’ingresso ballato” ricorda il regista Antonio Monti.

Un anno senza Nadia Toffa, l'omaggio delle amiche Iene. Pubblicato mercoledì, 12 agosto 2020 da Silvia Fumarola su La Repubblica.it. Coraggio e passione. Nadia Toffa le metteva nel lavoro e nella vita, colpiva al cuore. Il 13 agosto di un anno fa moriva la iena per cui l’Italia aveva fatto il tifo, la ragazza che sorrideva sempre, a tutti “perché non voglio che le persone siano tristi”. Aveva 40 anni. Ha combattuto contro il tumore, è stata di ispirazione per tanti malati, non ha mollato mai: tutto raccontato, documentato. E il 13 agosto in prima serata su Italia 1 andrà in onda lo speciale Le iene per Nadia dalla prime apparizioni in tv al servizio sull’Ilva di Taranto all’inchiesta sulla Terra dei fuochi, alla dedica di Lorenzo Jovanotti durante il concerto. Nel 2013 si occupa per la prima volta dell’Ilva, un impegno importante che ha portato Nadia a ricevere la cittadinanza onoraria di Taranto, dopo la proposta partita dai cittadini con appelli e messaggi social. Era diventata una bandiera, aveva parlato con le famiglie e i bambini, ascoltato le storie di chi si era trovato a combattere contro il cancro. Nel 2017 Nadia era stata la madrina della campagna “Ie jesche pacce pe te”, realizzata dal gruppo Amici del Mini Bar del quartiere Tamburi di Taranto; aveva sostenuto la raccolta fondi - tramite la vendita delle magliette con quello slogan - per il reparto di pediatria dell'Ospedale Santissima Annunziata di Taranto. Il 25 settembre 2019, grazie a una petizione firmata da più di 90mila persone, quel reparto era stato intitolato a lei. Dopo la sua morte, la trasmissione riprese con cento iene riunite (tra gli altri Afef, Claudio Bisio Enrico Brignano, Alessandro Cattelan, Geppi Cucciari, Luciana Littizzetto, Enrico Lucci, Luca e Paolo, Simona Ventura, Fabio Volo) solo per lei, lo scricchiolo innamorato del giornalismo d’inchiesta, che non si fermava davanti a nessuno. Aveva realizzato il suo sogno quando cominciò a lavorare al programma. Convinse Davide Parenti, papà delle Iene, a farle un provino. Lei lavorava già in una televisione privata. Lui, perplesso, le spiegò che il mestiere si impara sul campo: e Nadia mollò il lavoro sicuro e si presentò in redazione, tutti i giorni: “La prima a arrivare, l’ultima ad andare via” racconta Parenti, che spiega come il lavoro per Nadia fosse la vita. Una passione assoluta. “Era innamorata del suo mestiere, non si fermava mai. Non passa giorno senza pensare a lei, è sempre con noi”. Poi divenne conduttrice, “energia pura” come l’hanno definita, entusiasta della vita. Con una vena di follia contagiosa per cui si faceva voler bene: “Credo che se Nadia ci vedesse riderebbe” dice Parenti “perché in questo speciale che le abbiamo dedicato  parleranno tutte le persone che hanno lavorato con lei, quelle che normalmente stanno dietro le telecamere e non è facilissimo stare davanti… Questa cosa ci costa moltissimo la facciamo solo per lei”. C’è la commozione, inevitabile, ma ci sono tante risate in un amarcord che ricostruisce la personalità della piccola grande “guerriera”. Quando si ammalò fu criticata perché definì il cancro “un dono". “Ma per lei” spiega Parenti “era un modo per rivendicare la forza d'animo con cui reagire, da guerrieri. Nadia non voleva spaventarci, e voleva lanciare sempre un messaggio positivo, infondere forza”. Un atteggiamento che ha contraddistinto la sua lotta, sempre col sorriso. Una forza che colpì anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che nel giorno più triste, si unì al dolore di parenti e amici "colpito dalla prematura scomparsa" ricordando su Twitter "la vivacità e simpatia del suo impegno di giornalista e il coraggio con cui ha affrontato la malattia". Le amiche Iene le dedicarono un post commosso: "Qualcuno potrebbe pensare che hai perso, ma chi ha vissuto come te, non perde mai. Hai combattuto a testa alta col sorriso, con dignità e sfoderando tutta la tua forza, fino all'ultimo, fino a oggi. D'altronde nella vita hai lottato sempre. Hai lottato anche quando sei arrivata da noi, e forse é per questo che ci hai conquistati da subito. È stato un colpo di fulmine con te, Toffa". Nadia Toffa si era sentita male nel dicembre 2017 in un albergo di Trieste. Le sue condizioni erano apparse subito molto serie, fu trasferita al San Raffaele a Milano. Dopo due mesi di cure, a febbraio 2018 era tornata in video: "Ho avuto un cancro", spiegò al pubblico. Poi aveva raccontato la lotta contro il tumore in un libro, Fiorire d'inverno. In un post su Instagram, aveva definito "quello che tutti considerano una sfiga, il cancro", "un dono, un'occasione, una opportunità". Parole che le avevano attirato feroci critiche sui social e non solo. Ma al di là delle polemiche, era diventata il simbolo di chi combatteva la malattia, a testa alta. "Non vinciamo sempre", aveva scritto in una lettera a Repubblica, "non siamo sempre i più forti, i più sani, i più intelligenti, e quando succede di inciampare, di farci male, ricordiamo di essere così fragili che tutto si può scompaginare all'improvviso, con la facilità con cui si soffiano via le briciole dalla tavola". Le Iene per Nadia è un omaggio con contenuti inediti, ricordi, interviste; ripercorre momenti della vita lavorativa di Toffa: dal primo servizio da inviata alla prima conduzione, le inchieste più importanti, quelle che suscitarono più clamore, fino alle ultime apparizioni in tv. E tante curiosità: lo scherzo a Teo Mammucari in cui Nadia avrebbe dovuto farlo innamorare (2013), i racconti divertenti sul suo modo di parlare con chiunque mantenendo la distanza di un centimetro, la puntata condotta insieme a Fedez e J-Ax; l’intervista al primo amore cinematografico Terence Hill (2018) che le regalò una ciotola autografata per mangiare i fagioli. Fino al primo ottobre del 2019 quando il programma tornò in onda dopo la sua scomparsa con le cento iene a renderle omaggio. “Abbiamo pensato a lungo come ripartire senza Nadia, con un po' di fortuna abbiamo fatto una prima puntata molto bella” dice Max Ferrigno, che insieme a Davide Parenti organizzò la reunion, “non credo possa venire ugualmente bella se la riprovassimo altre mille volte”.

L'omaggio delle Iene. Un altro giorno con Toffa a un anno dalla morte. Video, tributi e un brano inedito: il programma di Parenti celebra la sua inviata scomparsa. Valeria Braghieri, Giovedì 13/08/2020 su Il Giornale. Un anno senza. Avresti potuto essere ancora coraggiosa, Iena, bionda, figlia («penso che le madri non dovrebbero mai restare sole, senza i figli. È troppo»). E avresti potuto essere tutto quello che non hai fatto in tempo a diventare. In un anno, e nel resto della vita. Avresti potuto evitare di lasciare «quell'uomo dolce» con una scusa. Ancora un anno senza fare la brava, poi ci avresti pensato tu a cosa metterci in quest'anno. Hai perso, un anno fa. Ma hai vinto. Come tutti quelli che se ne sanno andare anche meglio di come ci sono stati. Per quelli che muoiono alla tua età (quarant'anni tondi) il discrimine è la lotta. Per gli altri, quelli che durano più a lungo, che hanno il balsamo dell'invecchiare piano e pensano di aver avuto il tempo di finire ciò che avevano iniziato, è invece la dignità. La complicità col distacco. Avresti aggiunto un anno al diario della battaglia, con certe foto che abbiamo ancora negli occhi: il mento sempre in alto. Il collo e la mandibola protesi in posa eroica come le polene sulle navi antiche. Invece è arrivato il giorno che da un anno rifiutiamo. Per i tuoi genitori, che vivono da allora in una distesa piatta e disabitata e per quanti ti avevano conosciuta a distanza e dei quali sei diventata parente. Oggi ci getti una voce dalla tua lontananza. Speciali in tv, articoli sui giornali, vecchi video, interviste, omaggi (la puntata di stasera de Le Iene per Nadia, su Italia 1) e una canzone inedita: un anno senza Nadia Toffa. La tua sagoma sottile che balla al tramonto sulla spiaggia, tua madre che ti racconta, le Iene che ti ricordano. Tutto a dirci che è passato un anno e che manca qualcosa di necessario. Il malore, il servizio interrotto, la diagnosi: glioblastoma. I sorrisi, la rabbia, la stanza della chemio, le occhiaie scure sotto al trucco e le parrucche. E la lotta: «Non siamo dei malati, siamo dei guerrieri». E poi quell'intervista in radio: «adesso non ho più paura di morire». Eppure hai convinto tutti che ce l'avresti fatta, infatti poi è stato anche peggio. Te ne sei andata in piedi, rendendo la rassegnazione ad una lenta condanna uno shock. Alla fine la tua morte è stata un incidente brutale. Malgrado i diari puntuali, le descrizioni minuziose, malgrado la verità. Ma come, se n'è andata? Sfileranno stasera in prima serata vestiti di nero, che era anche la tua divisa d'ordinanza per andare in onda: Afef, Claudio Bisio, Enrico Brignano, Alessandro Cattelan, Geppi Cucciari, Luciana Littizzetto, Enrico Lucci, Luca e Paolo, Simona Ventura, Fabio Volo, Alessia Marcuzzi, gli autori, gli addetti ai lavori del programma. Le Iene per Nadia. Ti ricorderanno loro e ti racconterai da sola. Un'altra volta. Con buona pace degli hater e di quanti abbiano frainteso e si siano infastiditi del tuo diritto a durare come volevi. Con buona pace di quanti non ti troveranno, per piangerti o per offenderti, perché tua madre ti ha seppellita al sicuro, in un posto segreto. E adesso sono fatti vostri, com'è giusto che sia. Solo sua, di nuovo sua figlia. Di nuovo in braccio solo a lei. Ha lasciato che fossi del mondo mentre eri malata, perché era così che volevi. Ma nella quiete sei tornata sua: di tua madre e basta. A parte stasera, che saremo di nuovo in tanti a sbalordirci del fatto che sia finita com'è finita. Davanti alla tua faccia mai vinta che snuda i denti in uno dei tuoi proverbiali sorrisi.

Un anno senza Nadia Toffa: «Stava male, ma al mattino mi spediva foto con i fiori». Roberta Scorranese il 12 agosto 2020 su Il Corriere della Sera. «Fiorire d’inverno». Questo era il titolo dell’autobiografia che Nadia Toffa aveva pubblicato mesi prima della sua morte, il 13 agosto di un anno fa. E lei faceva proprio questo, fioriva d’inverno, cioè si metteva di traverso, osava strade scomode e andava incontro alle critiche con una icona-emoticon che accompagnava molti suoi messaggi Whatsapp: la stella cometa che si avvolge su sé stessa. Perché, come confessò al Corriere della Sera durante una delle ultime interviste rilasciate dall’inviata e conduttrice delle «Iene», nel febbraio 2019, «io sono così, come una stella che gira, gira, gira e non si ferma mai».

La malattia. Si fermò in un giorno d’estate, stremata nel corpo da una malattia che ha combattuto a modo suo, anche attraverso un racconto minuzioso e asciutto su Instagram: i ricoveri, le terapie anticancro, le piccole conquiste come la ricrescita dei capelli dopo la chemio. Foto e testi dettagliati. «Rivendico il diritto di parlare apertamente della nostra malattia, che non è esibizionismo né un credersi invincibili, anzi: è un diritto a sentirsi umani. Anche fragili, ma forti nel reagire», diceva rispondendo ai tanti che la accusavano di spettacolarizzare il dolore. È anche per questa sua naturale predisposizione a raccontarsi che «Le Iene», la trasmissione che l’ha resa famosa, la ricorda domani sera con uno speciale in cui a parlare sono soprattutto le sue parole, le sue battute, i suoi scherzi ai colleghi.

Gli hater. «Noi abbiamo saputo prima di lei della sua malattia — racconta Davide Parenti, principale autore della trasmissione —. Ricordo benissimo quando si sentì male in trasferta, a Trieste. La corsa in elicottero fino a Milano, l’operazione d’urgenza. Dunque, le settimane d’incertezza: quanto sarà grave? ci chiedevamo». Poi Nadia cominciò a fare Nadia: ovvero a fiorire d’inverno. «Lei è sempre stata così, un uragano, una che diceva tutto quello voleva, raccontava la malattia sui social, ne parlava liberamente — continua Parenti —. Cercavamo di proteggerla, sapevamo che andava incontro a critiche. Lei faceva finta di niente ma noi sapevamo che gli hater sui social la facevano soffrire». Durissimo fu l’attacco di Filippo Facci in una puntata di «TvTalk» su Rai3, per esempio (seguirono le scuse di Max Bernardini, precisa Parenti), quando la accusò di fare della malattia uno show mediatico, riferendosi ad alcune dichiarazioni nelle quali Toffa alludeva ad una guarigione.

Il coraggio. Il punto è che la popolarità di Nadia amplificava ogni frase e lei affrontò la malattia con la stessa energia senza riserve che metteva nei servizi televisivi (dall’inchiesta sulle cliniche che curavano con macchine non funzionanti fino alle ricerche ambientali nella zona intorno all’Ilva di Taranto). Forse troppa? Lei replicava: «Sono una che si dà per intero». O tutta o nulla: questo era il nodo. Alessia Marcuzzi, che ha lavorato con lei alle Iene, racconta: «Negli ultimi mesi ricevevo da Nadia tante fotografie di fiori con scritto buongiorno. Oggi quando ne vedo una mi viene da postarla, perché immagino che lei possa vederla». E se a molti quell’atteggiamento ottimistico non andava giù, furono tanti i messaggi di vicinanza arrivati alla famiglia in quel 13 agosto di un anno fa, da Jovanotti a Fiorello. E lei, Toffa, confessò al Corriere la sua paura più recondita: «Che mia madre resti sola. Penso che le madri non dovrebbero mai restare da sole, senza i figli. È troppo».

Alessandra Menzani per "Libero Quotidiano" il 13 agosto 2020. «Quella di stasera non è televisione, ma un atto d'amore. Le Iene, la sua seconda famiglia, mettono in campo tutto, video, cuore, testimonianze, immagini, per Nadia Toffa, morta un anno fa a quarant' anni. «Parleranno tutte le persone che hanno lavorato con lei, che normalmente stanno dietro la telecamera, non sanno stanno qui, dove sono seduto io e dove non sappiamo stare, ossia davanti. Ci costa moltissimo, lo facciamo solo per lei». Parola di Davide Parenti, che prima l'ha voluta come inviata e poi come conduttrice: così si apre stasera su Italia 1 Le Iene per Nadia, la puntata speciale dedicata all'amica scomparsa. Ci sono il primo servizio in cui vestiva i panni dell'inviata, la sua prima conduzione, gli esordi tv, momenti di gioia, ma anche testimonianze di chi ha vissuto da vicino la sua malattia.

Sul campo. Ci sono le sue inchieste più clamorose: la storia di Gabriella Mereu, la dottoressa miracolosa che utilizzava un pendolo "magico" per guarire i pazienti da ogni malattia (2015); l'inchiesta a difesa del "Made in Italy" per cui Nadia volò fino a Pechino e alcuni momenti del ritorno in onda di questa prima edizione senza di lei. La toccante intervista a Silvia Toffanin per Verissimo (2018), il premio che vinse come migliore giornalista tv dell'anno (2015) grazie al reportage, realizzato con Gaston Zama, sulle violenze del califfato; il servizio in cui provò la "dieta Mima Digiuno" del Prof. Valter Longo e la partecipazione allo show Vi dedico tutto di Biagio Antonacci. Stasera si racconta il modo di parlare atipico di Nadia: lei manteneva la distanza di un solo centimetro dall'interlocutore. Quando morì, ci fu una puntata indimenticabile: 100 iene storiche, da Afef a Simona Ventura, si stringevano in un abbraccio unico per lei. Max Ferrigno, che insieme a Davide Parenti organizzò la reunion (senza prove nè copione), racconta: «Non credo ci possa venire una cosa ugualmente bella se la riprovassimo altre mille volte». «Alessia Marcuzzi prima del suo discorso di apertura era davvero emozionata, si sentiva addosso una responsabilità molto grossa perché non voleva rappresentare il dolore di tutti». «Qualcuno potrebbe pensare che hai perso, ma chi ha vissuto come te, non perde mai», si legge alla fine. È stato nel 2009 il primo servizio di Nadia da inviata. Lo fece con l'autore Riccardo Festinese, che ricorda: «Aveva questa pettinatura pazzesca e parlava un bresciano insopportabile che cercavamo di strapparle via! Il capo (Davide Parenti, ndr) mi disse, prendi questa qui e falle fare questo pezzo». Due anni dopo fu aggredita. «Lei ha pianto ma non ha voluto che il suo pianto fosse messo all'interno del filmato, considerandola una debolezza», racconta l'autore Marco Fubini. Era il 2011. «Le aveva prese da 4 uomini e aveva capito che il lavoro che aveva iniziato a fare era un lavoro pieno di pericoli», ricorda Parenti. Poi ci fu l'impegno per l'Ilva e Taranto. Un impegno talmente grande che l'ha portata a ricevere la cittadinanza onoraria. Lo stesso anno, l'inchiesta sulla Terra dei Fuochi. La giornalista spiegava, attraversando i luoghi contaminati tra Caserta e Napoli, quanto marcio ci fosse in quelle terre, e l'entità del danno. Mostrò come il cibo coltivato fosse contaminato e reso tossico a causa dello sversamento di rifiuti accumulatisi nel corso degli anni.

Il primo malore. Poi arriva il maledetto 2 dicembre 2017, il primo malore. Nicola Savino, Matteo Viviani e Giulio Golia diedero la notizia in diretta. Presto scopre il male incurabile, ma decide di non smettere di lavorare. Davide Parenti: «E poi ci fu l'ultima puntata che riuscì a fare, il 5 maggio del 2019. Lei normalmente entrava in scena camminando, però non riusciva più a farlo, per cui, con le telecamere spente, l'aiutammo a raggiungere il centro del palco. Partì il balletto e lei era presente, non in grado di muoversi, ma in grado di sorridere». Margherita, mamma di Nadia, parla spesso della figlia "guerriera". «Oggi esce sua canzone inedita, l'aveva incisa pochi mesi prima della morte, a marzo del 2019». Al Giornale di Brescia, aggiunge un dettaglio sconvolgente circa il luogo di sepoltura della figlia. «Lo sappiamo solo io e mio marito e non lo diremo mai. Perché abbiamo il terrore che possano portarcela via come era accaduto anni fa con la salma di Mike Buongiorno. Non riuscirei più a vivere. Abbiamo avuto il permesso dal Vescovo e l'abbiamo sepolta in luogo che resterà segreto». 

Le Iene per Nadia: dal primo servizio all'intervista dopo il malore. Le Iene News il  13 agosto 2020. Un anno fa, il 13 agosto 2019, ci lasciava la nostra Nadia. A un anno di distanza i suoi compagni di viaggio la raccontano, la ricordano e la festeggiano. In questa prima parte de Le Iene per Nadia partiamo dal suo primo servizio, arrivando fino al malore che ha tenuto tutti con il fiato sospeso e al suo ritorno in onda. E poi c’è la musica: dal duetto con Anna Oxa alla dedica di Jovanotti dopo un’incursione sul palco. Il 13 agosto 2019, ci lasciava la nostra Nadia. A un anno di distanza la raccontiamo con ricordi, interviste e immagini sulla sua vita con tutti noi. Partiamo dal 2009 e dal suo primo servizio con Riccardo Festinese: “Quando indossa per la prima volta la divisa da Iena è fuori di sé, lo voleva tanto”. Dopo quel servizio Nadia diventerà inarrestabile. C’è anche la musica: qualche anno più tardi intervista Anna Oxa finendo a cantare con lei “Senza pietà”. Nel 2018 arriva perfino sul palco nel mezzo di un concerto di Jovanotti che le dedica una versione inedita di “Bella” solo per lei. Con il suo primo malore a Trieste, tutti rimaniamo con il fiato sospeso fino a quando lei pubblica una foto sui social per tranquillizzarci. Quello scatto raccoglie oltre un milione e mezzo di like. La vicinanza delle persone non è solo virtuale ma anche reale. In migliaia le dedicano momenti di raccoglimento e di preghiera per starle vicini. Nonostante le cure, vuole tornare a Le Iene. La raggiungiamo a casa sua per la prima intervista dopo il malore. Ci racconta che cos’è successo e ci lascia con un messaggio: "Ho un marito impegnativo che si chiama Le Iene. Non è lavoro, è la mia vita. Quando ci prendiamo carico dei problemi delle persone non è che arriviamo a casa e ce ne dimentichiamo. Non è fare lo show. C'è tanto amore e passione, è come se il problema fosse tuo”. Dopo questa intervista e una pausa del programma, torna a condurre Le Iene. In quell’occasione racconta quello che ancora il mondo non sapeva. E con tutta la su energia chiede: "Non trattateci da malati, siamo tutti dei guerrieri!”.

Le Iene per Nadia: l'inchiesta sull'Ilva di Taranto, i bambini e le magliette per l'ospedale. Le Iene News il  13 agosto 2020. In questa seconda parte de Le Iene per Nadia, raccontiamo la sua inchiesta sull’Ilva con le storie di chi ha perso una persona cara e l'incontro con i bambini malati di tumore. Sostiene le magliette "Ie Jesche pacce per te!": con il loro acquisto e un’asta di beneficenza a cui partecipa tutta Italia il reparto di oncologia pediatrica nell’ospedale di Taranto diventerà realtà e verrà intitolato a lei. Nella prima parte de Le Iene per Nadia ve la abbiamo raccontata dal suo primo servizio al malore che ha tenuto tutti con il fiato sospeso fino al suo ritorno in onda. Ora ci concentriamo sulla sua battaglia per Taranto e contro l’inquinamento dell’Ilva. Nel 2013 esce uno studio che sostiene come a Taranto si muore per alcol e sigarette. Nadia vuole farne un servizio con Riccardo Spagnoli per dimostrare che la causa è altro. La sua inchiesta sull'inquinamento dell’Ilva parte dall'incontro di Vincenzo del quartiere Tamburi, uno dei più colpiti dai fumi dell’acciaieria: ci racconta quanti suoi parenti, amici e conoscenti sono malati di tumore. Ci sono anche bambini che non potevano giocare nemmeno nei parchi, contaminati. Tutto il quartiere è tinto di rosa dalle polveri dell'Ilva. Nel giro di poche ore a Taranto riesce a farsi amare da tutti. Anche dai più piccoli che le raccontano che cos’è per loro l'Ilva e perché perdono i capelli. C'è anche Gabriella, la bimba che poi, dopo aver saputo cosa è successo a Nadia, le manderà un videomessaggio: "Non preoccuparti per i capelli perché crescono più forti e più lunghi di prima”. A Taranto Nadia conosce anche un barista e la sua maglietta speciale per gli amici del quartiere Tamburi, quella con la scritta "Ie Jesche pacce per te!", io esco pazzo per te. Nadia la fa comprare in tutta Italia per aiutare l'ospedale di Taranto. Grazie a questo e alle donazioni, qualche anno più tardi apre il reparto di oncologia pediatrica che verrà intitolato a lei. I tarantini la accolgono come una di loro e la ringraziano anche con la cittadinanza onoraria.  Nel 2013 arriva a Le Iene Teo Mammucari, lei decide di dargli il benvenuto particolare con uno scherzo: prova a farlo innamorare di lei.

Le Iene per Nadia: la Terra dei Fuochi. Le Iene News il  13 agosto 2020. Terza parte de Le Iene per Nadia: l'inchiesta sulla Terra dei fuochi. Per la prima volta si scopre che non è un dramma solo di Caserta e Napoli, ma che coinvolge l’Italia intera. Frutta e verdura coltivate lì vengono mangiate da tutti noi. Come anche il sushi degli all you can eat di un’altra sua famosa inchiesta. Dopo il primo servizio e il malore che ha tenuto tutti con il fiato sospeso fino al ritorno in onda, abbiamo raccontato la sua inchiesta sull’inquinamento dell’Ilva di Taranto. Le Iene per Nadia passa ora al suo arrivo tra Caserta e Napoli nel “triangolo della morte”. È il 2013, con Marco Fubini lanciano la prima forte denuncia del dramma della Terra dei fuochi. Nadia incontra alcuni pentiti che per anni hanno riversato lì rifiuti pericolosissimi e bruciato tonnellate di materiale altamente tossico avvelenando terra, acqua e aria. Per primi diciamo che il problema non è solo campano ma dell'Italia intera perché la frutta e la verdura coltivate in quei terreni arrivano sulle tavole di tutti gli italiani. Per dimostrarlo seguiamo gli agricoltori per capire a quali multinazionali vengono vendute. Anche il sushi degli all you can eat viene mangiato da tutti. Nel 2017 dopo il servizio di Nadia sui rischi di alcuni di questi ristoranti, i clienti iniziano a stare molto più attenti. C'è chi usa il nostro nome: "Non temiamo iene, il sushi lo facciamo bene" recita una campagna di volantini. La nostra Iena si presenta in questo ristorante che non ci teme. Gli esami del sushi sono ottimi e ne nasce un’amicizia con Feng, il titolare: “Per me Nadia è una di quelle persone con il cuore molto morbido, ma di fronte al male ha come un coltello e non ti lascia spazio”.

Le Iene per Nadia: la prima aggressione e la dottoressa smascherata. Le Iene News il  13 agosto 2020. Nella quarta parte de Le Iene con Nadia, vi raccontiamo della prima aggressione che ha subìto da quattro uomini per un servizio, della dottoressa che diceva di guarire i tumori usando un pendolo e delle interviste a Luigi Di Maio e Matteo Salvini. Dopo il suo primo servizio e il malore che ha tenuto tutti con il fiato sospeso fino al ritorno in onda, abbiamo raccontato la sua inchiesta sull’inquinamento dell’Ilva di Taranto e quella sulla Terra dei fuochi, ora con la quarta parte di Le Iene per Nadia torniamo al 2011 quando Nadia prova per la prima volta sulla sua pelle i pericoli anche fisici del lavoro di cui è innamorata. Subisce un’aggressione da quattro uomini, piange dopo aver preso spintoni, calci e sberle ma non vuole che quel pianto finisca nel servizio perché non intende chiedere pietà al pubblico per quella che ritiene una sua debolezza. Dopo quell’aggressione deve portare un collarino per 10 giorni. Alla scadenza esatta, lo toglie nello studio de Le Iene in diretta. Quattro anni più tardi si occupa del caso di Gabriella Mereu, la dottoressa della provincia di Cagliari che, ricevendo i pazienti in una stanza d'hotel, diceva di curarli da qualsiasi disturbo, dalle calvizie al cancro, usando solo un pendolo magico. Nadia la raggiunge con Gaston Zama, nei panni di un finto paralizzato su una sedia a rotelle. Basta una seduta per rialzarsi, ma la dottoressa non sa che si trova davanti a Le Iene! Nello stesso anno Nadia conduce anche il programma Open Space. Con la sua energia e il suo entusiasmo riesce a entrare in confidenza con i politici, da Luigi Di Maio a Matteo Salvini, con uno stile nuovo. 

Le Iene per Nadia: 100 Iene riunite per lei. Le Iene News il  13 agosto 2020. Nella quinta parte de Le Iene per Nadia riviviamo la sua emozione nell’intervista al suo idolo Terence Hill. E soprattutto ci emozioniamo ancora una volta con 100 Iene riunite per ricordarla. Dopo il suo primo servizio e il malore che ha tenuto tutti con il fiato sospeso fino al ritorno in onda, abbiamo raccontato la sua inchiesta sull’inquinamento dell’Ilva di Taranto e quella sulla Terra dei fuochi e abbiamo visto anche i pericoli del suo lavoro con la prima aggressione subita. Con la quinta parte de Le Iene per Nadia, torniamo al 2018 quando incontra emozionata il suo primo amore cinematografico: Terence Hill. L’intervista, realizzata con Ricky Messa, è anche l'occasione per un’abbuffata di fagioli con Trinità! Porta il suo entusiasmo pure in una puntata speciale di “Caduta Libera”. È euforica e prima di cadere nella botola vuole due baci portafortuna da Gerry Scotti. Nel 2015 Nadia torna a parlarci di cosa arriva sulle tavole degli italiani. Vola fino a Pechino per un’inchiesta in difesa del Made in Italy. Si finge imprenditrice per acquistare la passata di pomodoro e scoprire come viene prodotta. Incontra alcuni imprenditori che la esportano in Italia, perfino con dentro i vermi. Dopo la sua inchiesta è cambiata la nostra legge. Il primo ottobre 2019 iniziamo la prima stagione de Le Iene senza di lei. Abbiamo aperto la puntata invitando tutte le persone che hanno indossato la nostra "divisa". All’invito rispondono 100 Iene. Nadia riesce anche questa volta a farci incontrare tutti per festeggiare la vita. Da quella reunion, ogni puntata si è chiusa finora con il filmato di lei che balla al tramonto su una spiaggia.

Le Iene per Nadia: le donne dell'Isis e tutte le sue battaglie per gli altri. Le Iene News il  13 agosto 2020. Nella sesta e ultima parte de Le Iene per Nadia raccontiamo il suo reportage sul dramma delle donne dell’Isis, per cui viene premiata come miglior giornalista televisiva 2015. E tutte le sue lotte per aiutare chi soffre, dall’anoressia alla prostituzione minorile. Dopo il suo primo servizio e il malore che ha tenuto tutti con il fiato sospeso fino al ritorno in onda, abbiamo ripercorso la sua inchiesta sull’inquinamento dell’Ilva di Taranto e quella sulla Terra dei fuochi, abbiamo visto anche i pericoli del suo lavoro con la prima aggressione e rivissuto la riunione delle 100 Iene per la prima puntata senza di lei. Per Nadia vivere e lavorare vuol dire cercare di migliorare le vite degli altri. È il 2015, l’Isis è agli albori, ancora se ne sa poco. Un video in cui alcuni miliziani parlano delle donne yazide come fossero carne al macello la fa partire. Incontra alcune profughe del sedicente Stato islamico che le raccontano l’inferno e gli orrori subiti. Per questo reportage viene premiata miglior giornalista televisiva dell’anno. Nel 2013 mette tutta la sua passione per cercare di aiutare una ragazza anoressica. Due anni più tardi con Open Space si occupa ancora di anoressia e di alcune agenzie che nella moda vogliono modelle sempre più magre. Con Osvaldo Verri si dedica ai “piccoli schiavi del calcio”, con Enrico Didoni ai furbetti del porta a porta disposti a tutto pur di avere un contratto, firmato spesso con l’inganno. Ferma anche un uomo che sa di avere l’Hiv e vuole avere rapporti sessuali non protetti. Con Marco Fubini mette la parola fine a un fenomeno agghiacciante in un campo nomadi di Bari: la prostituzione dei bambini.

Sempre per aiutare chi soffre. Un anno fa ci lasciava Nadia Toffa: il suo amore per Taranto in uno speciale tv. Lo speciale stasera su Italia 1 ripercorre la sua vita lavorativa, circondata dall'affetto delle sue «Iene». La Gazzetta del Mezzogiorno il 13 Agosto 2020. «Credo che se Nadia ci vedesse fare quello che stiamo facendo si ammazzerebbe dalle risate! A un anno di distanza stiamo per farvi vedere qualcosa per cui non siamo assolutamente attrezzati, perché in questo speciale dedicato a Nadia parleranno tutte le persone che hanno lavorato con lei, che normalmente stanno dietro la telecamera non sanno stanno qui, dove sono seduto io e dove non sappiamo stare, ossia davanti…». Con le parole di Davide Parenti, che prima l’ha voluta come inviata e poi come conduttrice, si aprirà stasera, su Italia1, “Le Iene per Nadia”, la puntata speciale che la grande famiglia de “Le Iene” ha scelto di dedicare a Nadia Toffa, la nota giornalista scomparsa un anno fa. Un ricordo commovente ma anche divertente, in condivisione con il pubblico che non ha mai smesso di manifestare affetto e stima nei confronti della grande guerriera. “Le Iene per Nadia” è un omaggio con contenuti inediti, ricordi, interviste, racconti e immagini che ripercorrono momenti della vita lavorativa di Nadia: dal primo servizio realizzato in cui vestiva i panni dell’inviata, alla sua prima conduzione, dalle prime apparizioni in tv fino alle ultime, momenti di gioia e spensieratezza ma anche testimonianze di chi ha vissuto da vicino la sua malattia. Sarà ricordato il suo grandissimo impegno a sostegno di Taranto e dei suoi abitanti, un impegno talmente grande che ha portato Nadia ricevere la cittadinanza onoraria di Taranto, seguendo una proposta partita proprio dai cittadini con appelli e messaggi social, per i numerosi servizi dell’Ilva e sull’emergenza inquinamento in città. La Iena aveva incontrato più volte i cittadini, parlato con le famiglie e i bambini, e ascoltato e raccontato le storie di chi si era trovato a combattere contro il cancro. Nel 2017 Nadia è stata anche madrina della campagna “Ie Jesche Pacce Pe Te”, realizzata dal gruppo “Amici del Mini Bar” del quartiere Tamburi di Taranto e ha dato grande risalto alla raccolta fondi - tramite la vendita di magliette che recitavano quello slogan - destinata alla realizzazione del reparto di pediatria dell'Ospedale Santissima Annunziata di Taranto. Il 25 settembre 2019, grazie a una petizione firmata da più di 90mila persone, il reparto di oncoematologia pediatrica dell'ospedale Santissima Annunziata è stato a lei intitolato.

·        In memoria de Bee Gees.

Il falsetto che fece ballare tutto il mondo. Tornano i Bee Gees (solo in documentario). Barry Gibb: «Del nostro gruppo e di quell'epoca mi restano ricordi fantastici». Stefano Giani, Lunedì14/12/2020 su Il Giornale.  Tutto cominciò all'isola di Man appena finita la guerra. Tre fratelli e una sola voce - un falsetto inimitabile - avrebbero fatto cantare e ballare generazioni di innamorati e non solo. Davanti a loro, un nome che era una sigla. Un acronimo. Bee Gees. Ovvero B.G. scritto però per esteso, come l'anglofonia l'avrebbe pronunciato. Quella sigla stava per Brother Gibb e la G aveva un curioso plurale, appunto perché erano in tre. Barry, il più grande. Robin e Maurice, in mezzo. Una decina di anni dopo arrivò pure Andy, che stava per unirsi al gruppo quando, a trent'anni, se lo portò via un cuore matto, non adeguatamente esorcizzato da una canzone - Arrow through the heart - che lui stesso aveva scritto. E sapeva di presagio. Il destino volle che se ne andassero al contrario. Prima il più giovane. Poi i due gemelli, in tempi diversi come le loro fisionomie. Oggi di quell'epopea resta il barbuto Barry, 74 anni (foto), con un figlio d'arte, nonno di due nipoti e una tonnellata di nostalgia, cullata in quella Miami dove oggi vive e negli anni Settanta vide approdare tre voci promettenti, oscurate dai Beatles. E al 461 di Ocean Boulevard, dove Eric Clapton aveva messo a punto un doppio album da brividi con tanto di foto in copertina, sarebbero nati anche Main course e quella Jive talking ispirata dal rumore cadenzato delle ruote del bus sulle giunture dell'asfalto. Barry è pure la voce guida e il complice di Frank Marshall, il produttore di Jurassic world, Indiana Jones e soprattutto Chi ha incastrato Roger Rabbit, che firma il documentario The Bee Gees: How can you mend a broken heart, dal 14 dicembre in edizione originale sottotitolata su Prime video, Apple tv e Google play. «Un peccato, avrei tanto voluto che il pubblico lo vedesse sul grande schermo. Mi mancherà». Marshall ci è rimasto male e non ne fa mistero ma il 2020 è figlio di una cattiva stella e un dio minore. La nostalgia di Barry e il dispiacere del regista non devono ingannare. Il film è bello anche se è sempre amaro parlare di chi non c'è più. E nel doc sono più quelli che ci hanno lasciato di coloro che sono fra noi. È bello il tono, lontanissimo da lacrime e rimpianti. Come se fossero ancora tutti qui. «Ho avuto la totale collaborazione di Barry, prezioso e umile. Il film riflette i suoi veri sentimenti e il dolore di essere rimasto solo» aggiunge ancora Marshall ma «that's life» conclude Barry negli ultimi fotogrammi. «A me restano fantastici ricordi, ognuno ha i suoi. Robin e Maurice ne avrebbero di diversi. Abbiamo avuto tre vite differenti, non la stessa». E quella Stayin'alive, intonata da Barry Gibb. Solo. Sul palco di Glastonbury, tre anni fa. Sembra la colonna sonora di se stesso. Eppure, all'epoca, fu tutt'altro. «Negli anni Sessanta ero un ragazzo, fan dei Bee Gees come tanti altri. Amavo la loro musica e l'ho amata anche nei decenni successivi, quando uscì Saturday night fever. Ho voluto raccontare la loro parabola, fatta di gloria e normalit. È una storia molto dolce» confessa Marshall con un sorriso: «Una celebrazione della loro fraternità e allo stesso tempo dell'eredità di Robin e Maurice. Ho guardato al lavoro di Nigel Sinclair sui Beatles perché mi era piaciuto ma ho tentato di scrivere sui Bee Gees una pagina definitiva».

Michele Prima per “la Lettura - Corriere della Sera” il 30 novembre 2020. Barry, Robin e Maurice Gibb avevano un sogno: «Volevamo vivere davanti al mare, in tre ville con piscina una accanto all' altra». C' è una saga familiare dietro a una delle carriere più luminose nella storia del pop, quella dei Bee Gees, la band formata dai fratelli Gibb nel 1958 che ha attraversato cinque decenni di successi, cadute nell' oblio e rinascite. Si sono sciolti ufficialmente nel 2012 con la scomparsa di Robin Gibb a 62 anni (che segue quella del gemello Maurice nel 2003 a 53 anni) dopo avere venduto oltre 200 milioni di dischi, avere scritto mille canzoni e averne piazzate 20 al numero uno in classifica. Secondo la Rock and Roll Hall of Fame, nella quale sono stati inseriti nel 1997, «solo Elvis Presley, i Beatles, Michael Jackson, Garth Brooks e Paul McCartney hanno venduto più dei Bee Gees». Merito di un talento fuori dal comune e di un legame solidissimo, come racconta a «la Lettura» il loro storico manager, Michael Eaton: «In quella famiglia regnava l' amore». Le tre ville con piscina davanti al mare sono quelle che i Bee Gees comprano a Miami nel 1975 riunendo i genitori Hugh e Barbara, la sorella Lesley e il fratello Andy in una città che diventa casa loro. In quell' anno i Gibb hanno appena vissuto una delle loro rinascite. Il successo degli anni Sessanta come trio pop vocale che ha prodotto hit come To Love Somebody è svanito, ma Barry Gibb ha iniziato a cantare in falsetto guidando la band verso un' interpretazione del soul scandita da melodie pop cristalline che li lancia al primo posto in America con il singolo Jive Talkin , seguito da Nights on Broadway. È stato Eric Clapton (con cui condividono il manager Robert Stigwood) a convincere i fratelli Gibb a trasferirsi a Miami (nati sull' Isola di Man nel Regno Unito hanno vissuto a Manchester prima di volare a Brisbane, Australia, e tornare in Inghilterra) e cercare un nuovo sound nei Criteria Studios: «Per me erano un gruppo rhythm & blues, ma non se n'erano resi conto», dice Eric Clapton. «Se sono stato io a creare la svolta che li ha resi così popolari, è la cosa migliore che abbia fatto». È una delle scene più belle del documentario The Bee Gees: How Can You Mend a Broken Heart diretto da Frank Marshall (produttore con la Amblin Entertainment fondata con Steven Spielberg della saga di Indiana Jones , di Jurassic Park e della serie di Jason Bourne ) e prodotto dallo stesso team premiato per Living in a Material World , il documentario su George Harrison firmato da Martin Scorsese. How Can You Mend a Broken Heart (titolo della loro prima numero uno in America, scritta da Robin e Barry nel 1970) racconta la lunga carriera dei Bee Gees. Ma racconta anche l' intensa vicenda di una famiglia che ha sfruttato una eccezionale complementarità artistica per creare armonie vocali tra le più perfette nella storia della musica pop e un catalogo di canzoni tra i più solidi ed eterogenei di sempre. Nel film generazioni di musicisti confessano di avere assorbito la loro lezione - Justin Timberlake, Chris Martin (Coldplay), Mark Ronson. Fino a Noel Gallagher (ex Oasis) che riassume così le loro qualità inarrivabili: «Quando in una band ci sono fratelli che cantano, è come avere uno strumento che nessun altro può comprare». Il film rivela anche le personalità dei Gibb, cresciuti cercando di proteggersi dal successo ma anche l' uno dall' altro: «Si può imparare a scrivere canzoni ma non a diventare famosi come siamo diventati noi», dice Barry. Michael Eaton è il loro manager dal 1970 e ha vissuto al loro fianco gloria e dissidi, sconfitte e ritorni. «Robin era riservato, nessuno lo conosceva davvero, un talento conflittuale che a volte è entrato in competizione con Barry, il fratello maggiore, il più dotato come autore. Maurice era la colla che teneva tutto insieme, portava la pace e tutti lo amavano. Hanno avuto un successo incredibile ma hanno imparato a gestirlo». Quando i Bee Gees arrivano a Miami nel 1975 realizzano un sogno, ma nessuno poteva prevedere che cosa sarebbe successo dopo. Ai Criteria Studios sperimentano con i sintetizzatori una novità che sta prendendo piede in America, la disco music. La sottocultura del clubbing nata a New York come rivendicazione, libertà e divertimento nella comunità gay e tra le minoranze latine, afroamericane e italiane dei quartieri più poveri si muove dal club underground The Loft di David Mancuso a Chelsea fino alle nuove discoteche di Manhattan, il Paradise Garage e lo Studio 54 che inaugura il 26 aprile 1977. I Bee Gees rispondono a queste influenze con You Should Be Dancing , che vola al primo posto in America grazie a un falsetto incredibile di Barry Gibb e a una linea di basso raddoppiata dai fiati creata da Maurice. Nel frattempo Robert Stigwood ha un' intuizione. Compra i diritti di un articolo del «New Yorker», Tribal Rites of the new Saturday Night («Riti tribali del nuovo sabato sera») scritto dall' inglese Nick Cohen e decide di produrre un film sulla vita ai margini riscattata dalla gloria della discoteca del diciannovenne italoamericano di Brooklyn Tony Manero, interpretato da un attore al suo primo ruolo importante, John Travolta. I Bee Gees sono in Francia per lavorare a un nuovo album. «Stigwood ci ha chiamato: sto facendo un film indipendente, avete due o tre canzoni?», ricorda Barry Gibb. «In due giorni abbiamo scritto e registrato Stayin' Alive, Night Fever e More Than a Woman . Ci hanno anche chiesto un titolo, a noi piaceva Night Fever ma era considerato troppo sexy, e poi doveva esserci la parola Saturday , così abbiamo detto: perché non lo intitolate Saturday Night Fever ?». È uno dei più grandi successi di tutti i tempi: la colonna sonora di Saturday Night Fever firmata dai Bee Gees esce il 15 novembre 1977, vende 45 milioni di copie, al numero uno in America per 24 settimane, John Travolta viene nominato all' Oscar e il film guadagna oltre 110 milioni di dollari in un anno. Secondo Michael Eaton, i Bee Gees «hanno alzato il livello artistico di un genere portando le melodie nella disco music. Erano in grado di assorbire suoni diversi e renderli propri e di cambiare direzione perché scrivevano solo materiale originale». In Saturday Night Fever ci sono anche colpi di genio nati per caso: il giro di batteria di Stayin' Alive è uno dei più riconoscibili nella storia del pop, tutti hanno cercato di imitarlo. Il batterista Dennis Byron aveva lasciato lo studio per un problema, non c' erano sostituti e i Bee Gees presero la batteria di Night Fever e ne fecero un loop. Nell'album per scherzare diedero un nome al batterista: Bernard Lupe. «È diventato uno dei più richiesti al mondo - dice Eaton - ma non è mai esistito». Saturday Night Fever è un fenomeno inarrestabile ma innesca una reazione contro la disco music da cui i Bee Gees sono travolti. Come racconta uno dei primi dj di New York, Nicky Siano, tutto comincia quando «le case discografiche usano la parola "disco" per vendere ogni tipo di spazzatura commerciale. Era una musica di liberazione, è diventata una moda e il pubblico ha finito per odiarla». Il docu-film racconta lo smarrimento dei Bee Gees, che fanno tour sold out mentre le radio rifiutano di passare i loro pezzi e il conduttore di Chicago, Steve Dahls, organizza nello stadio dei Red Sox l' evento Disco Sucks («La disco fa schifo») che finisce con un' inquietante falò di album, in cui vengono bruciati anche dischi di musica nera. «Il film rende giustizia alla loro bravura: dal vivo - continua Eaton - suonavano come in studio, ognuno aveva una voce unica e la combinazione era magica». I Bee Gees escono dagli anni Settanta con un' ennesima reinvenzione di sé stessi: «Se non possiamo più andare in radio, scriveremo per altri». Negli anni Ottanta e Novanta fanno pochi dischi e non vanno in tour, si chiudono in studio e aprono la terza fase della loro carriera con i 15 milioni di copie di Guilty di Barbra Streisand, album di duetti con Barry che contiene la hit Woman in Love , seguito da Heartbreaker di Dionne Warwick e dal brano Chain Reaction di Diana Ross, da pezzi country per Kenny Rogers e Dolly Parton, una collaborazione con Celine Dion in Immortality nel 1998 e ancora per Tina Turner e Michael Jackson. Nel docu-film Berry confessa: «Non abbiamo mai fatto parte di una categoria. Abbiamo trovato il nostro posto in diverse ere musicali, di cui ho visto molti protagonisti sparire. Noi invece siamo rimasti sempre in giro». Secondo Eaton «poche altre band sono durate così a lungo. Hanno trovato una nuova voce oltre il falsetto. Il talento nella scrittura li ha resi speciali, più di ogni cosa». La morte di Maurice nel 2003 e di Robin nel 2012 è l' ultimo atto di una storia familiare che assume contorni epici, già segnata nel 1988 dalla scomparsa a soli 30 anni, per un attacco al cuore indebolito dalla droga, del fratello minore Andy di cui i Bee Gees hanno lanciato la carriera con il singolo I Just Want To Be Your Everything del 1977. Il finale di How Can You Mend a Broken Heart è commovente. Barry, che oggi ha 74 anni, è nella sua casa di Miami: «Avevamo un sogno: volevamo essere ricordati per le canzoni. Lo abbiamo fatto, oltre le aspettative. Ma preferirei avere qui i miei fratelli e non avere scritto nessuna hit». C' è però un ultimo momento di gloria, che arriva con i titoli di coda: la sua esibizione al Festival di Glastonbury nel 2017, la celebrazione dell' eterno ritorno della disco music con il pubblico in delirio sulle note più alte del suo inconfondibile falsetto in Stayin' Alive.

·        I Compleanni.

Maurizio Porro per corriere.it il 21 aprile 2020. Gianrico Tedeschi, da quattro anni assente dalle scene, è uno dei 1377 abitanti di Pettenasco, paese a fianco degli amati monti visti alla finestra e dell’amato lago d’Orta, al confine tra Piemonte e Lombardia. Con la moglie e partner Marianella Lazlo, ma senza il resto della famiglia e gli amici che avrebbero voluto spegnere con lui le candeline, lunedì 20 aprile festeggerà 100 anni. Batte la sua amica Franca Valeri il cui secolo scocca il 31 luglio: entrambi milanesi, si incontravano nei molti teatri cittadini aperti. Come vive un grande attore la offensiva crudele, la pena del contrappasso della vecchiaia ce lo dice una delle due figlie, Enrica. Ha scritto un libro sul padre che da piccola le faceva conoscere gli scrittori e la rese invidiata a scuola perché recitava «My Fair Lady»: il libro «Semplice, buttato via, moderno. Il “teatro per la vita” di Gianrico Tedeschi» (Edizioni Viella) identifica lo stile naturale della recitazione del padre. E confida: «Gianrico sottotenente, fu catturato in Grecia nel ’43 perché non aderì alla Repubblica di Salò e per due anni fu in campo di concentramento a Lipsia, in Germania e in Polonia insieme ad altri 650.000 ufficiali, tra cui gli amici Guareschi, Lazzati, Enzo Paci, trattati come in un lager, senza diritti. Lì iniziò a recitare proprio «Enrico IV» di Pirandello (che riprese nel 1994) esperienza che lo segnò a vita, porta magica tra realtà e finzione, perché la sua regìa era precisamente e silenziosamente contro i carcerieri. E per fortuna aveva i suoi libri, tra cui molti umoristi. Fu liberato dagli scozzesi che arrivarono in sottana con le cornamuse». Ora? «Ogni tanto chiede in che piazza si recita, il germe non si è spento, certo il palco gli manca. Gli artisti sono un po’ bambini e da vecchi ci ritornano, lui ha sempre conservato un suo pallino interiore, giocoso ma riflessivo, ha una spiritualità coltivata nel tempo, vive come se fosse uno dei suoi personaggi e il fanciullo dentro di lui ha ripreso forza. È sempre stato un uomo di misura, silenzioso, alla sera s’accendeva sul palco». Tedeschi ha avuto 70 anni di una carriera lunga, felice, a due velocità, su due binari che si incontrano spesso, comico e tragico: ultimi spettacoli sono stati «La compagnia degli uomini» con Luca Ronconi al Piccolo, «Farà giorno» diretto da Maccarinelli (si può vederlo il 18 aprile alle 21.15 su Rai5) e «Dipartita finale» con Branciaroli e altri seniores al Parenti, sua ultima casa. Ha recitato con tutti i grandi, da Visconti a Strehler e a tutti si sente oggi debitore. Ha detto: «Ho sempre avuto un rispetto profondo per i compagni di lavoro mi hanno insegnato tutti qualcosa, la Magnani, Mastroianni, tutti. Non bisogna prendersi sul serio. L’inizio in prigionia mi ha dato il senso della comunità e l’idea che il teatro parli della società criticandola, mostrando il marcio con ironia, con la fiducia che si può cambiare, c’è sempre una via di riscatto. Ricordate Eduardo: Niente fa ridere come il tragico». E Tedeschi ha seguito quella strada, ha fatto Arlecchino e Peachum nell’«Opera da tre soldi», il cabaret intelligente di Ionesco con la Vitti, Thomas Bernhard col «Riformatore del mondo» («ma io non sono così negativo»), l’amato iniziatico Pirandello, il Ruzante e la commedia musicale, accanto a Tognazzi, Rascel, Delia Scala, Carotenuto. «Poi nel 2005 — dice la figlia — sentì il bisogno di raccontare la sua vita, a volte anche bersagliato dai fascisti, in “Smemorando”, ma ogni sera quando parlava della prigionia si commuoveva. Parola dei tecnici». La prof. Tedeschi, che insegnava sociologia a Roma, ricorda il passato, i gargarismi di papà sempre con grandi sciarpe per proteggere la gola e si rivede bambina col letto pieno dei libri che Gianrico le portava anche per sorridere, Shaw e Jerome, Mark Twain e Woodhouse. «Lui ha iniziato come maestro a scuola, ha fatto le magistrali prima di pedagogia alla Cattolica e anni fa gli ex allievi di una scuola gli hanno portato come ricordo i registri. Quando ha smesso di recitare si è chiuso in se stesso con la levità e la leggerezza di un fanciullo che non gioca più, capisce ma osserva distaccato e rimpiange la comunità del teatro non la gratificazione personale, non è mai stato primattore e infatti i giovani da sempre lo adorano».

Naomi Campbell, Melania Trump e gli altri: le celebrità che compieranno 50 anni nel 2020. Pubblicato mercoledì, 01 gennaio 2020 su Corriere.it da Paola Caruso. Belle e affascinanti come se il tempo per loro si fosse fermato. Sono Naomi Campbell e Claudia Schiffer che nel 2020 raggiungeranno un traguardo: 50 anni. Mezzo secolo sulle spalle. Una vita sulla passerelle (Naomi sfila ancora) e sotto i riflettori (la tedesca è diventata anche imprenditrice) che va avanti con successo, un po' grazie anche ai social dove le super modelle degli Anni 90 possono mostrare la loro esistenza dorata tra impegni e momenti privati. A guardare le immagini su Instagram c'è solo da rimanere meravigliati dalla loro «inossidabilità». Il tempo scorre come una carezza senza lasciare troppi segni. Eppure non sono le uniche splendide «prossime cinquantenni» tra le celebrità. Ecco le star classe 1970 — donne e uomini — che si apprestano a spegnere le 50 candeline nei prossimi 12 mesi. Nella foto Cindy Crawford, da sinistra, Carla Bruni, Claudia Schiffer, Naomi Campbell, e Helena Christensen protagoniste della sfilata di Versace nel 2018.

Naomi Campbell. Naomi Campbell continua a lavorare nella moda come quando era la top più gettonata alle fashion week. Nel 2019 ha posato per Calvin Klein (vedi foto), Valentino e per gli orologi di Chanel. Non è un caso se da poco ha ricevuto il British Fashion Icon Award (nel 2018 ha vinto invece il CFDA Fashion Icon Award) e non ne vuol sapere di andare in pensione. La top compie 50 anni il 22 maggio 2020: ha dichiarato di non essere pronta per diventare mamma, ha sconfitto i suoi demoni del passato (alcol e stupefacenti) e al momento è una single felice.

Claudia Schiffer. Per vedere com'è Claudia Schiffer oggi bisogna cercare sul suo account Instagram i pochi selfie. La modella che il 25 agosto 2020 compirà 50 anni pubblica sui social molte immagini nostalgiche del passato glorioso. D'altra parte in carriera ha collezionato oltre 700 copertine di riviste e nel 2019 è stata anche sulla cover di «Vogue Italia». Nuda.

Uma Thurman. Il 29 aprile tocca a Uma Thurman spegnere le 50 candeline. Musa di Quentin Tarantino (della quale il regista è stato innamorato e i due hanno anche avuto una relazione) potrebbe essere la protagonista del nuovo capitolo di «Kill Bill» che Tarantino intende girare prossimamente. Intanto, nell'ultimo film «C'era una volta a Hollywood» il regista ha voluto nel cast la figlia di Uma: Maya Thurman-Hawke. Buon sangue non mente.

Melania Trump. Melania Trump festeggia il mezzo secolo il 26 aprile. Ex modella oggi First Lady si fa notare per lo stile e i look (non sempre apprezzati). Nata in Slovenia a Novo Mesto, predilige le scarpe con i tacchi alti, possibilmente Louboutin (quelle con la suola rossa) che non sono per le tasche di tutte. Chissà che cosa le regalerà il marito per il compleanno... si spera non un dono riciclato, come quello che Trump ha fatto al figlio primogenito Donald Jr. per Natale, in pratica il presidente ha regalato al figlio un regalo che il figlio gli aveva fatto a sua volta tempo prima.

Matt Damon. Il 50esimo compleanno di Matt Damon è l'8 ottobre 2020. L'attore non è un tipo social, non ha un account Instagram, ma una famiglia che lo sostiene in tutto e per tutto. Mai senza la moglie su un red carpet, a meno che la dolce metà non possa partecipare. Cresciuto insieme a Bell Stiller ( i due erano compagni di gioco) è legatissimo a Ben Affleck con il quale lavora sul set e come produttore. Oggi, con la chioma brizzolata è ancora più affascinate.

Ethan Hawke. Coetaneo dell'ex moglie Uma Thurman (con la quale ha due figli), Ethan Hawke festeggia i 50 anni il 12 gennaio 2020. Su Instagram non ha molti follower (285 mila) e mostra un pizzetto sale e pepe, mentre i capelli sono probabilmente tinti (in altre foto sono più grigi). Insomma, l'attore che ha anche una casa discografica con due soci non si fa mancare nulla.

Paolo Sorrentino. I 50 anni per Paolo Sorrentino si festeggiano il 31 maggio. Il regista del film «La grande Bellezza» nel 2019 ha girato la serie «The Young Pope» sull'onda del successo di «The New Pope» con protagonista Jude Law. Lanciatissimo verso il prossimo successo, che sia cinematografico o televisivo.

Mariah Carey. Il 27 marzo è il compleanno di Mariah Carey. Mezzo secolo anche per lei. Innamorata del Natale (le sue canzoni natalizie sono un successo garantito) è mamma di due bellissime gemelle che spesso mostra sui social. La cantante non si fa mai vedere fuori posto o senza trucco, segno che ci tiene ad apparire splendida. Come darle torto.

Walter Nudo. Walter Nudo è del segno dei gemelli: il suo 50esimo è il 2 giugno. Nella primavera del 2019 ha avuto un malore al cuore dal quale si è ripreso e adesso il suo cuore è innamorato: basta guardare la foto con la fidanzata Roberta Nigro postata su Instagram a Natale. L'amore ha un effetto anti-age?

Jennifer Connelly. Il 12 dicembre è il giorno del 50esimo di Jennifer Connelly, l'attrice lavora nel cinema da quando era una ragazzina: ha fatto il suo debutto nel 1984 nel film «C'era una volta in America» e non si è mai fermata. Ve la ricordate in «Phenomena» di Dario Argento (1985)? L'ultimo film: «Top Gun: Maverick» accanto a Tom Cruise che uscirà nelle sale nel 2020. 

«Noi ventenni e i ricordi dei primi 20 anni del secolo. In quarta elementare scoprii che c’erano le lire». Pubblicato mercoledì, 01 gennaio 2020 su Corriere.it da Enrico Galletti. Quando è scoppiato il disastro al World Trade Center nel 2001, a New York, mia madre mi aveva appena messo a letto. Erano quei due anni di età a giustificare il fatto che mentre uno dei quattro aerei di linea si andava a schiantare con la prima torre, io mi voltavo nel letto e richiudevo gli occhi. Avrei sentito parlare dell’11 settembre sei-sette anni dopo ascoltando per la prima volta Imagine di John Lennon sul mio iPod: l’utopia di un mondo in pace e quelle note che avrei risentito a sedici anni cantate da Madonna in piedi in mezzo alla folla di Place de la République nell’atmosfera grigia dopo gli attacchi a Parigi. I miei genitori mi parlavano del giradischi, di quelle che per loro erano grandi rivoluzioni del nuovo millennio, cassetta e vhs, per me ancora oggetti da collezione. A casa mia, chiusa in qualche cassetto, dev’esserci ancora la macchina da scrivere che mia madre si portò al concorso per diventare maestra. L’abbiamo tirata fuori un giorno e l’ho provata: abituato al tap dello schermo, con un dito ho premuto tre tasti contemporaneamente ed è stato un fallimento. È stato bello a scuola, in quarta elementare, quando io e i miei compagni di classe abbiamo saputo della lira. Ammetto, quasi con rammarico, di non aver mai visto una banconota da centomila ma di aver sentito il confronto con quei tempi più e più volte. Siamo quelli che l’euro al banco per il gelato non basta più, figli dei ragazzi di ieri che invece «il Calippo al limone era più buono e costava mille lire». Non abbiamo fatto i militari, l’ultimo giorno di naja è stato il 30 giugno del 2005: avevamo sei anni, ma ci hanno detto che quei giorni aiutavano a crescere, che «solo così ti facevi le ossa». A noi, ragazzi del '99, certe cose le hanno solo raccontate. Ma il bello di essere giovani - così giovani – è che la gente un po’ ti scusa. «Hai vent’anni e non puoi mica sapere tutto», ti ripetono anche ora, quando il primo ventennio del Duemila ha esattamente la tua età. Ci hanno detto di Nassirya, della crisi, dei loro ricordi di Giovanni XXIII e di quella volta che, nel 1962, chiese di dare una carezza ai propri bimbi, al ritorno a casa, e di dire che quello era il tocco del loro Papa. Me lo hanno raccontato i miei genitori ascoltando quelle parole in un video su Youtube, giurando di aver ricevuto quella carezza per davvero. Ricordo invece l’abbraccio tra Bergoglio e Benedetto XVI, quel primo «Buonasera» di Papa Francesco che risuonò alla radio alzata a tutto volume sul pulmino di minibasket che ci riportava a casa dopo tre ore di allenamento. Avevamo tredici anni, quella volta a marzo, eravamo sei ragazzi e stavamo zitti: tutti avevano capito che stava succedendo qualcosa di grande. Nel 2006, quando Fabio Cannavaro alzava al cielo la Coppa del Mondo a Berlino, eravamo lì a gioire, di gran lunga più felici di undici anni dopo, di fronte al sogno negato dell’Italia fuori dai mondiali in Russia per quello zero a zero contro la Svezia. Nel 2007 abbiamo visto Steve Jobs lanciare l’iPhone, il telefonino che sarebbe diventato lo status symbol della nostra generazione, insieme alle Converse, allo zaino dell’Eastpack e alle Stan Smith ai piedi. C’eravamo nel 2008 quando Barack Obama diventava il 44esimo presidente degli Stati Uniti, quando sui social che sono diventati il nostro habitat rimbalzava la foto del piccolo Ayan senza vita su una spiaggia turca, il video del Ponte dei genovesi che si sbriciolava, quel primo tweet di Donald Trump. Il nostro primo voto, poi, resterà indelebile: era il 4 marzo di due anni fa, il giorno dopo sarei partito per il viaggio di quinta liceo in Grecia. Sul pullman, smartphone alla mano, si seguiva lo spoglio, mentre tutti ci dicevano che non eravamo stati fortunati. Una mia prof disse che la nostra prima volta sarebbe stato «un voto inutile». Ci rimasi male. Se guardo l’album dei ricordi, oggi, vedo gli scatti delle gite delle elementari: un centinaio di foto tutte storte scattate con la macchina usa e getta che prendevi dal tabaccaio e poi buttavi. Su buona parte delle stampe c’è un dito che copre tutto, ma in fondo è bello così. Siamo giovani, ma abbiamo visto le cabine telefoniche sparire dai paesi senza mai esserci entrati. La storia, ad un certo punto, non ce l’hanno raccontata più, abbiamo cominciato a vederla noi. Ripenso alla mia agitazione il 6 aprile del 2009, il giorno del terremoto a L’Aquila. O al 20 maggio del 2012, quando la terra tremò in Emilia. Le scosse erano arrivate anche da noi: i giochini sulla mensola che cadono sul pavimento della cameretta nel cuore della notte, poi le prime immagini al telegiornale. Il giorno del sisma in Abruzzo ero piccolo, e a scuola non ci volevo andare. È toccato alla nostra maestra Marinella il compito ingrato raccontarci tutto. Quella mattina mise ognuno al proprio banco a preparare disegni da spedire in Abruzzo. E quello in gran parte servì ad attutire il colpo, forse il primo che ricevevamo. Poi arrivarono gli altri: il naufragio al Giglio, gli attentati, Charlie Hebdo, Nizza, il Bataclan: la paura senza più filtri. Avevamo perso l’innocenza, quei morti cominciavano a fare paura. L’impatto col mondo e con i suoi fardelli ci ha portato anche a seguire gli sviluppi della politica, che in questi vent’anni ci ha etichettati a modo suo, a suon di ministri che ci hanno chiamati «choosy», «bamboccioni», «sfaticati», d’un tratto poi «risorse» da non far scappare all’estero. Siamo cresciuti nel cuore della seconda Repubblica, siamo i millennials venuti su col mantra del «se hai vent’anni vattene dall’Italia». Siamo ancora qua, invece, e della storia ora siamo pure protagonisti. Come quella prima volta in piazza, lungo un corteo, a brandire cartelli e preghiere per salvare il pianeta. Greta Thunberg, la persona dell’anno secondo Time, è una di noi. Ricordo quella marea di amici, tutti della mia età, affollare largo Cairoli a Milano per la prima volta. Poco più avanti un signore sull’ottantina sceso in piazza dopo anni col suo cartello: «Orgoglioso di questi nipoti». Ci ricorderemo anche di lui domani, parlando ai nostri bimbi che ci faranno quelle inevitabili domande su di noi, figli del Duemila, generazione che guarda indietro e nel frattempo cammina. 

·        I 60 anni di Snoopy.

Settant'anni portati benissimo: buon compleanno Snoopy. Luigi Laura il 27 settembre 2020 su Il Quotidiano del Sud. Questa settimana i Peanuts, il famoso fumetto creato da Charles Schultz, compie 70 anni. La famosa banda di personaggi, che comprende l’insicuro Charlie Brown, sua sorella Sally, la scontrosa Lucy e il fratello Linus, dipendente dalla coperta, hanno infatti esordito il 2 ottobre 1950 e sono stati pubblicati quotidianamente fino al 13 febbraio del 2000, il giorno dopo la morte dell’autore. I personaggi di questa striscia sono solo bambini con la nota eccezione del bracchetto Snoopy, il cane di Charlie Brown, che negli anni è diventato forse la vera superstar del fumetto. Per farci raccontare dei Peanuts ho fatto alcune domande a Carlo Chendi, una vera e propria leggenda del fumetto italiano, autore di centinaia di storie della Disney, alcune indimenticabili, tra cui i duetti tra Pippo e la strega Nocciola. Chendi ha anche creato diversi personaggi, come il papero alieno Ok Quack, la cui astronave è in grado di ridursi alle dimensioni di una moneta, e l’investigatore Umperio Bogarto, entrambi disegnati da Giorgio Cavazzano. Ma parlare di quanto fatto da Chendi nella sua carriera richiederebbe molto più spazio delle poche righe a disposizione in questa rubrica, e quindi iniziamo con le domande anche se, in futuro, dovremo sicuramente tornare a parlare di quanto fatto da questo autore.

Ti ricordi come hai conosciuto i Peanuts?

«Ho iniziato a scrivere storie nel 1952 e a collaborare con la Walt Disney nel 1954. Allora la vera patria del fumetto era l’America, dove si è sviluppato e diffuso sui giornali quotidiani come forma di intrattenimento per adulti. Io ero curioso di vedere quali fumetti si pubblicavano in quel periodo sui quotidiani, ma in Italia era quasi impossibile trovarli. Avevo scoperto che alcuni libri con ristampa di strips e comics americani si potevano trovare da “Algani”, una edicola – libreria in piazza della Scala a Milano. Così, ogni volta che andavo a Milano a consegnare le mie storie agli editori con cui collaboravo, non mancavo di andare da “Algani” a frugare tra le pubblicazioni che arrivavano dall’America. Ed è così ho trovato nel 1957 un libro con la ristampa (in bianco e nero e in lingua originale) di personaggi che non avevo mai visto: i Peanuts».

Nella tua enorme collezione di disegni originali c’è anche una tavola dei Peanuts che ti ha regalato proprio Charles Schultz. Come sei entrato in contatto con lui?

«Ero un suo sfegatato ammiratore e così quando sono riuscito a trovare il suo indirizzo, gli ho mandato alcune pubblicazioni con le storie che scrivevo per la Disney e gli ho detto quanto ammirassi Peanuts, i suoi personaggi, la sua originalità, le sue battute così efficaci e indimenticabili (“Era una notte buia e tempestosa…”) e che in definitiva doveva conoscermi molto bene, perché io “ero Charlie Brown”. Fu così gentile da rispondermi, dicendomi tra l’altro che si rammaricava di non conoscere l’italiano per leggere le mie storie e, enorme sorpresa, mi mandò una strip originale con dedica. Da allora è capitato che negli anni, ci siamo scambiati qualche lettera e biglietti di auguri per Natale».

Cosa ti piace dei Peanuts?

«Mi piacciono tutti i personaggi: Charlie Brown, Shermy, Snoopy, Violet, Schroeder, Lucy, Linus, Pig Pen, Sally, Woodstock, Piperita Patty, Marcie, Replica (o Ripresa), Spike… Mi piace la “Ragazzina con i Capelli Rossi” (Proust ha anticipato Schulz scrivendo: “Una ragazza con i capelli rossi e la pelle dorata è rimasta per me come l’idolo inaccessibile”), sono un seguace del “Great Pumpkin” (la “Grande Zucca”, che in italiano è stato tradotto come “Grande Cocomero”), e idealmente faccio compagnia a Linus quando la notte di Halloween, aspetta nell’Orto delle Zucche che arrivi, appunto, “Great Pumpkin” a portargli regali. Circa Beethoven, ho gli stessi gusti di Schroeder per la musica classica (e per la Nona e la Quinta). Mi piacerebbe confidare i miei guai a Lucy nel banchetto dove, invece di vendere limonate come fanno di solito i bambini, psicanalizza, in particolare, Charlie Brown. Seguo con passione le “avventure” di Snoopy contro il Barone Rosso. Per farla breve, di Peanuts mi piace tutto. Charles Monroe Schulz è stato, a mio parere, uno dei più grandi autori di fumetti, un vero autentico artista, un poeta».

Nello scrivere le tue storie c’è qualcosa che hai “rubato” o che ti sarebbe piaciuto rubare alla banda di Charlie Brown e dei suoi amici?

«Mi sarebbe piaciuto “essere” Schulz… ero un suo lettore, ma lui era un artista, mentre io ero e sono, un “artigiano” delle storie a fumetti. Per quanto riguarda la mia formazione professionale, sono partito da Floyd Gottfredson, Carl Barks e, in Italia, Jacovitti».

Come fanno i Peanuts a essere ancora attuali dopo 70 anni dalla loro prima apparizione?

«Una caratteristica delle opere d’arte, è che non invecchiano mai. I personaggi e le tematiche della produzione di Schulz, non imitano altre creazioni (anche letterarie o cinematografiche), i personaggi non sono “figurine di carta” ma persone vere, un po’ come sono persone vere i vari abitanti di Spoon River, il capolavoro di Edgar Lee Masters. Bisogna considerare inoltre che nel corso degli anni le strips di Peanuts sono state pubblicate su 2.600 testate in 70 Paesi, e tradotte in 20 lingue. E che, solo negli Stati Uniti, i libri sono quarti nella classifica dei più venduti: 36 milioni di copie. Si stima (stima prudenziale) che Peanuts abbia avuto 300 milioni di lettori».

Chi ti conosce sa che sei una miniera di aneddoti. Per chiudere, ce ne racconti uno che coinvolga i Peanuts?

«Negli Stati Uniti i diritti per la pubblicazione dei comics per adulti sono distribuiti e ceduti da grosse e potenti agenzie di stampa, i Syndacates. Quando Schulz ha proposto la sua strip all’United Feature Syndicate, il nome doveva essere “L’il Folks”, “tipetti”, ma c’era già un’altra serie che si intitolava così, allora i dirigenti del syndicate battezzarono la nuova strip Peanuts, che in slang inglese sta per “cosucce, cose da poco”. Al syndicate credevano poco nel nuovo fumetto proposto da Schulz. Intanto, investirono appena 338,88 dollari per il suo lancio e proposero un formato di stampa molto più piccolo rispetto ad altre strips che erano stampate nel formato di 19 x 5 cm, mentre Peanuts, era proposto ai quotidiani come “tappabuchi”, riempitivo di spazi bianchi, in formato di 14 x 2,5 cm. Schulz un po’ amareggiato, diceva che in stampa le sue vignette erano grandi come i francobolli della posta aerea. Un’altra curiosità: il primo nome di Snoopy era Sniffy, ma, su suggerimento della madre di Schulz, fu poi cambiato in Snupi, che con la grafia inglese divenne Snoopy».

·        Lada-VAZ 2101: storia e foto della Fiat 124 sovietica. I suoi primi quarant'anni.  

Lada-VAZ 2101: storia e foto della Fiat 124 sovietica. Edoardo Frittoli l'1/10/2020 su Panorama. Fu un percorso lungo e tortuoso quello della penetrazione della Fiat nel mercato sovietico di mezzo secolo fa, non privo di incognite e assolutamente pionieristico. Tutto era partito dallo storico accordo tra la casa torinese (ultimo grande atto di Vittorio Valletta alla guida del gruppo) e il neonato Ministero sovietico dell'Industria automobilistica e del Commercio siglato il 15 agosto 1966. Solo quattro anni dopo quell'accordo che fu battezzato "l'affare del secolo", il colossale stabilimento sul Volga della AvtoVAZ (Volkhsky Avtomobilny Zavod) entrò a pieno regime produttivo, sfornando variopinte berline del tutto identiche alle Fiat 124, lanciate sul mercato italiano l'anno stesso dell'affare italo-sovietico, il 1966.

Una anticipazione del lancio della vetture italiana si era avuta qualche mese prima, il 22 aprile 1970, quando sei VAZ 2101 erano state assemblate di fronte alla stampa internazionale per rispettare la scadenza inizialmente prevista per l'inizio della produzione di serie, che corrispondeva al centenario della nascita del padre dell'Urss Vladimir Il'ič Ul'janov Lenin. Ma a causa dei ritardi nelle consegne dei materiali e nell'assemblaggio del macchinario proveniente non solo dall'Europa ma anche dagli Stati Uniti (la Fiat si era fatta mediatore di un primo scambio commerciale tra le due potenze rivali) si dovette attendere il 1 ottobre 1970 perché le prime Lada-VAZ 2101 facessero la loro comparsa nei pochi concessionari della capitale Mosca, un ritardo determinato dalle difficoltà dovute ad una rete distributiva a quei tempi praticamente inesistente in un paese che contava solamente una vettura ogni 238 abitanti, oltre che dalle distanze enormi dell'Unione Sovietica e da una rete stradale e infrastrutturale gravemente arretrata. La sfida che la Fiat e l'Urss di Leonida Brezhnev si preparavano ad affrontare era davvero gigantesca: l'obiettivo era nientemeno che la motorizzazione di massa delle repubbliche socialiste sovietiche partendo dal lavoro di uno stabilimento da un milione e mezzo di metri quadrati non a caso realizzato nella città di Togliatti (o Togliattigrad) in onore del leader comunista italiano. Per la casa torinese guidata da Valletta si trattava anche della prova sul campo di quella politica di internazionalizzazione del marchio Fiat alla ricerca di nuovi sbocchi oltrefrontiera inaugurata all'esaurirsi degli anni del boom economico per la saturazione del mercato interno. A partire dalla sua fondazione la mega fabbrica del Volga, costata allora circa 800 milioni di dollari (finanziati per la parte italiana anche dall'IMI), fu meta di un flusso costante di tecnici italiani impegnati a portare da Torino il know-how occidentale e ad addestrare le maestranze sulle tecniche di produzione della Fiat 124. La tre volumi italiana fu contemporaneamente portata sulle strade russe per una serie di test di resistenza che misero a dura prova la vettura del Lingotto, tanto che la rottura netta dei semiassi posteriori dopo appena 10.000 chilometri percorsi impose ai tecnici russi e italiani la modifica della meccanica originale della Fiat 124, che si era arresa alle strade dissestate e alle condizioni climatiche estreme della nuova patria d'adozione. Pur mantenendo inalterato il design nato sotto la Mole, furono più di 800 le modifiche tecniche applicate al prototipo della Lada-VAZ 2101 che riguardarono soprattutto il rinforzo delle sospensioni e dei lamierati, l'aumento della luce da terra, l'impianto elettrico, e soprattutto il gruppo propulsore. Il motore quattro cilindri da 1,2 litri con la distribuzione in testa era stato completamente riprogettato in Unione Sovietica dalla Nami (l'agenzia nazionale per lo sviluppo tecnico automobilistico) che permetteva di erogare 60 Cv per una velocità massima di oltre 140 Km/h, prestazioni da sogno rispetto alle poche e antiquate concorrenti sovietiche come le Moskvich o la ZAZ 965, una anacronistica e poco apprezzata brutta copia della Fiat 600. A parte il nuovo cuore, le prime Lada-VAZ 2101 sfornate dallo stabilimento del Volga non si distinguevano affatto dalle sorelle italiane anche se un curioso dettaglio, che caratterizzava la prima serie, saltava all'occhio: al centro del paraurti metallico anteriore era infatti presente un foro che permetteva di inserire una manovella per l'accensione manuale del motore in caso (non infrequente) la batteria soccombesse alla morsa del gelo russo.

La 2101, chiamata anche "Zhiguli" (nome della catena montuosa nei pressi di Togliatti) e alla fine della sua lunga carriera "Kopeyka" (o centesimo di rublo) ebbe da subito un successo strepitoso, al netto dello scarsissimo potere d'acquisto dei cittadini sovietici degli anni '70, reso visibile a partire dal 1971 quando la rete di distribuzione e vendita fu perfezionata anche se i tempi di attesa della nuova berlina dal look occidentale rimasero biblici. Impressionante fu anche il ritmo produttivo dello stabilimento VAZ, isola fordista nella Russia della collettivizzazione dei mezzi di produzione. Al ritmo di oltre 2,200 "Zhighuli" prodotte ogni giorno, già nel 1972 una 2101 giallo limone fu addobbata con bande adesive che celebravano la 500.000 unità uscita dalla catena di montaggio di Togliatti, cifra triplicata solamente due anni dopo con l'aggiunta di una terza linea di assemblaggio. Oltre alle vendite nazionali, che interessarono anche le forze dell'ordine, i parchi auto governativi e molti taxi (dato lo spazio generoso per i passeggeri e l'ampio bagagliaio) poco tempo dopo il lancio della nuova berlina si cominciò a organizzarne l'esportazione (vietata in Italia per non generare concorrenza su un modello identico marchiato Fiat). Così imponente fu la produzione che a partire dal 1974 una parte delle Lada 2101 prodotte sul Volga furono destinate all'export sia nei paesi del Patto di Varsavia che verso l'Europa occidentale. Le sorelle russe andarono così ad affiancare le Fiat 124 italiane (ormai uscite di produzione) nella vicina Finlandia (già dal 1971) dove fu considerata l'auto entry level per il prezzo di mercato irrisorio, ed arrivarono fino in Canada (nel 1979 con l'evoluzione 2106 derivata dalla 124 Special), in tutto il Sudamerica e nei paesi del Medio Oriente e Nord Africa. Per quanto riguardò i paesi allineati con Mosca, uno dei mercati più ricchi per le Zhiguli fu certamente Cuba dove ancora oggi si possono trovare per le strade dell'isola caraibica. La Lada VAZ fu prodotta in diverse serie (che non si discostarono mai dal progetto originale) e in configurazione station wagon e pick-up risultando una delle automobili più longeve dal dopoguerra. Prodotta fino al 2012 a Togliatti (negli ultimi anni con il nome di Lada Riva) e in Egitto fino al 2017, la Lada derivata dalla 124 risulta la terza automobile più venduta al mondo dopo il Maggiolino Volkswagen e la Ford Model T, sfornata in milioni di unità da una delle opere più colossali mai realizzate in Unione Sovietica - lo stabilimento del Volga- capace di 270 chilometri di linee di montaggio, una vera metropoli dell'automobile dove furono impiegati oltre 100.000 operai nel picco della produzione nello stabilimento oggi parte del gruppo Renault. Cinquant'anni fa la Russia sovietica muoveva così i primi passi verso la motorizzazione di massa, fenomeno che significò anche uno dei primi atti della distensione dopo gli anni più duri della guerra fredda e che fu reso tangibile dalla diffusione di un'"automobile del popolo", una delle primissime "world car" che parlava italiano e che rimane ad oggi un caposaldo della memoria collettiva dei Russi.

·        Fiat Panda: i suoi primi quarant'anni.  

Fiat Panda: i suoi primi quarant'anni.  Edoardo Frittoli il 20 marzo 2020 su Panorama. La Panda fu un modello che rappresentò il passaggio della casa torinese ad una nuova era almeno per quanto riguardava il settore delle super utilitarie, un inedito trait d'union con vetture allora considerate di fascia superiore come la 127 o l'ultima nata in casa Fiat, la Ritmo. Fino al 1980, infatti, le strade italiane erano state percorse da utilitarie concepite negli anni cinquanta. L'esempio più lampante era rappresentato dalla presenza nei listini del Lingotto della 126, diretta filiazione di quella minuscola 500 che contribuì in maniera determinante alla motorizzazione di massa degli Italiani. La minicar torinese, in vendita dal 1972, condivideva la quasi totalità della meccanica con la sua antenata lanciata nel 1957: motore bicilindrico posteriore (come la trazione) e raffreddamento ad aria. Le dimensioni erano ridottissime sia negli ingombri esterni che nello spazio a disposizione dei passeggeri e dei loro bagagli. Anche gli aspetti legati alla sicurezza, nella prospettiva delle nuove normative in materia a livello europeo indicavano che la vita delle utilitarie Fiat di prima generazione si stava avvicinando necessariamente alla ne. Non fu facile arrivare dal primo schizzo della Panda alla sua produzione. Gli anni settanta avevano rappresentato un periodo particolarmente difficile per il settore dell'auto, a causa della crisi petrolifera che a partire dal 1973 aveva falcidiato il mercato mondiale ed eroso le finanze dei grandi costruttori, costringendoli a ripensare in modo sostanziale le proprie strategie. La conseguenza diretta della crisi fu che le risorse messe a disposizione per l'oneroso processo di progettazione e produzione di modelli concettualmente nuovi furono drasticamente ridotte. Alla crisi del settore si erano aggiunti gli effetti negativi di una lunga stagione di agitazioni nelle fabbriche italiane, che aveva rallentato significativamente la produzione con ingenti danni economici per le case automobilistiche già in sofferenza. Per quanto riguardava la casa torinese, dalla seconda metà degli anni settanta i vertici aziendali erano ulteriormente preoccupati per la crescente penetrazione nel mercato italiano delle marche estere, che ormai si avvicinavano alla soglia del 40% con modelli più avanzati di quelli della Fiat che in Italia rappresentava l'unica realtà nel settore in grado di competere con le grandi case mondiali dalla Francia al Giappone alla Germania. Fu soltanto alla metà del 1975, sotto la brevissima gestione di Carlo de Benedetti, che l'idea della Panda vide la luce. Le sue forme iniziarono a delinearsi dalla prestigiosa matita di Giorgetto Giugiaro, patron della Italdesign alla quale la casa del Lingotto aveva affidato il compito di disegnare l'utilitaria del futuro. Era la prima volta che Fiat adava ad uno studio esterno lo studio di un modello destinato alla grande produzione di serie. Mentre le strade d'Italia brulicavano ancora di vecchie e scoppiettanti 500, si andavano definendo le forme rivoluzionarie della nuova piccola italiana. Fin dai primi disegni di Giugiaro si potevano intuire le caratteristiche generali e anticipare il risultato finale. La Panda era una due volumi tre porte (dotata quindi di portellone posteriore) dalla linea spigolosa e squadrata che caratterizzava le auto della seconda metà del decennio. Per quanto riguardava i propulsori che avrebbero dovuto essere montati sotto il cofano delle Panda, Fiat scelse due motori ben collaudati, semplici e robusti. Si trattava del bicilindrico di 652cc. montato sulle 126, opportunamente rivisto per poter essere montato anteriormente e portato da 24 a 30 Cv di potenza. Affianco del due cilindri che avrebbe equipaggiato il modello base della Panda, fu impiegato il rodato 4 cilindri da 903cc. della Fiat 127, della Autobianchi A112 e delle derivate commerciali come il piccolo furgone 900T. Le due versioni, denominate Panda 30 e 45 dalla potenza dei rispettivi motori che la spingevano, erano pressoché identiche da un punto di vista estetico. A parte i propulsori già ben conosciuti, quello che davvero colpiva erano le dimensioni generose della vettura. Lunga 3,38 metri (25 centimetri in più della 126) era alta ben 1,44 metri. Anche la luce da terra era un aspetto inedito per una utilitaria della sua classe, comparabile soltanto alla ormai attempata Renault 4 d'oltralpe. Anche gli interni erano innovativi, frutto della grande creatività di Giugiaro. Il cruscotto era infatti una grande tasca portaoggetti ricoperta in tessuto sfoderabile e lavabile che si sviluppava per tutta la larghezza dell'abitacolo, alla quale era ancorato un posacenere scorrevole ed asportabile a piacere. Anche la panca posteriore nascondeva una novità: oltre che reclinabile in maniera tradizionale era anche richiudibile a libro, permettendo una configurazione a "culla" , molto utile per proteggere e bloccare carichi instabili durante la marcia. I sedili erano a struttura tubolare ricoperti di tela imbottita. I poggiatesta (così come le cinture di sicurezza) erano di serie solo sulla 45 mentre sul modello base, la 30, erano solo ottenibili su richiesta. Questa scelta, non al passo con i tempi, fu l'unico oggetto di disappunto da parte della stampa di settore che per il resto fu più che soddisfatta delle prime prove su strada. Dai primi esemplari di pre-serie alla produzione di massa, la strada della nuova utilitaria degli anni '80 fu rallentata da non pochi ostacoli. Due erano gli stabilimenti scelti da Fiat per la linea di montaggio: la fabbrica siciliana di Termini Imerese e quella brianzola della Autobianchi di Desio. Alla fine del 1979 entrambe le fabbriche furono paralizzate da lunghi e violenti scioperi che rappresentarono la coda del continuo conflitto nelle grandi aziende metalmeccaniche che infiammò gli anni settanta. L'11 novembre 1979 lo stabilimento di Desio, da settimane in agitazione per la vertenza sindacale in corso alla Fiat, fu oggetto di un vero e proprio attentato terroristico. Nel piazzale dove si trovavano centinaia di vetture bloccate ai cancelli dai picchetti degli operai, furono gettate bombe incendiarie che bruciarono nella notte una ventina di veicoli. La lunga fase di conflitto ai cancelli di molti stabilimenti Fiat fece anche esaurire le scorte dei motori destinati alle Panda, che dovettero attendere diversi mesi prima di poter raggiungere i concessionari italiani ed esteri. Non mancò neppure una singolare minaccia di ricorso da parte del Wwf nel dicembre del 1979 per l'utilizzo giudicato improprio del nome di un animale riconducibile al simbolo mondiale dell'organizzazione ambientalista. Finalmente arriva la Panda (marzo 1980). La consegna dei primi lotti fu effettuata solamente alla metà del mese di marzo del 1980 (dopo che la piccola italiana fece mostra di sé al Salone di Ginevra all'inizio del mese) al prezzo di listino di 30 milioni e 970mila lire per la 30 e 4 milioni e 700mila lire per la top di gamma 45, dotata anche di luce di retromarcia e predisposizione autoradio. Il successo per la nuova utilitaria degli anni '80 fu subito clamoroso. Era la seconda macchina ideale, con spazio sufficiente per svariati utilizzi. Apprezzata da giovani, famiglie e anche dai professionisti, la Panda raggiunse il milione di esemplari prodotti già nel 1984, raddoppiando le vendite quattro anni più tardi. Nel 1982 il primo leggero restyling con il nuovo frontale in plastica caratterizzato dal logo Fiat a cinque righe oblique e da una nuova strumentazione. Affianco dei due modelli d'esordio furono commercializzate anche le versioni Super con interni più ricchi e curati. L'anno successivo, il 1983, vide il debutto di un modello rivoluzionario e unico nel segmento delle utilitarie. Si trattava della Panda a trazione integrale, la 4X4. Costruita a Termini Imerese montava un motore aumentato a 965cc, con trazione integrale inseribile fornita da una consociata Fiat, l'austriaca Steyr-Puch. La piccola fuoristrada, leggera e agile (ancora in listino nelle ultime serie della Panda) diventò presto un mezzo di culto e di pubblica utilità, venendo largamente usata dalle forze dell'ordine e da enti e associazioni di pubblica assistenza. Giunta al traguardo dei due milioni di esemplari nel 1988, la Panda fu un successo anche all'estero. In Spagna fu commercializzata con il marchio Seat (la Fiat iberica) e sul mercato francese fu lanciata la Panda "34", versione potenziata della entry level italiana. Dalla seconda metà degli anni ottanta cambiarono i propulsori. Il glorioso 4 cilindri da 903cc lasciò spazio al nuovo 999cc "Fire" , mentre andò in pensione il vecchio bicilindrico sviluppato da quello della 500 che fu sostituito da un 4 cilindri da 769cc. Le versioni Super della nuova 45 guadagnarono la quinta marcia di serie. Numerose le versioni speciali del periodo, dalla bicolore "College" alla 4X4 "Sisley" no alla "Italia 90" che celebrò i Mondiali di calcio. Aggiornata nei motori e negli allestimenti, dotata di motori ad iniezione e catalizzatore negli anni '90 e addirittura di un cambio automatico a variazione continua per la "Selecta" la Panda rimarrà sostanzialmente invariata no alla ne del 2003 quando l'ultimo esemplare di oltre 4 milioni e mezzo di unità prodotte uscì dalla linea di Mirafiori. Ma il mito dell'utilitaria degli italiani prosegue tuttora passando dalla seconda (2003) alla terza serie (2011-2016) no all'attuale attraverso una gamma estremamente variegata di versioni diesel e benzina, a metano e da oggi anche ibrida. La Panda segnò un primato anticipando i tempi sul tema dell'ecologia e della riduzione delle emissioni. Prima in assoluto nei listini, Fiat presentò la "Elettra" all'inizio del 1990, la prima full-electric prodotta in serie con la carrozzeria della piccola torinese. Anche in questo caso fu una Panda ad indicare la strada per il futuro.

·        Le auto più brutte.

Giosuè Boetto Cohen per corriere.it il 31 ottobre 2020. A distanza di anni è facile domandarsi come certe automobili possano essere entrate in produzione. Aver destato interesse sui tavoli da disegno, superato le riunioni del «centro stile» e quelle con l’amministratore delegato. Peggio ancora, per quale ragione la gente le abbia acquistate. Talvolta con entusiasmo. Ma nel tempo in cui queste decisioni venivano prese, molti fattori influenzavano il lavoro dei progettisti, da quelli di ordine tecnico  giuridica (per esempio le nuove norme in materia di sicurezza). Cerchiamo quindi di essere magnanimi nello stilare questa improbabile classifica, che saltando arbitrariamente tra le epoche e le marche, contiene alcune verità, ma è probabilmente viziata dal gusto personale. Differentemente non potrebbe essere: l’automobile resta una delle emanazioni più dirette del nostro «io».

AUSTIN 1800. Anche i geni possono sbagliare. E’ quanto è capitato ad Alec Issigonis, il papà della Mini Minor, nel 1964, con la Austin 1800. Il successo della Mini e della A40 era stato tale che il board della BMC seguì ciecamente il suo progettista anche nel segmento superiore. Ma soluzioni d’avanguardia e interni spaziosi non bastano per fare una bella berlina. Che infatti fu un fiasco. Tre anni più tardi Pininfarina propose uno studio aerodinamico sulla stessa meccanica, una forma dieci anni in anticipo sui tempi. L’ingegner Issigonis ne fu entusiasta, non così il management della BMC. Il disegno rivoluzionario nato a Torino sarebbe risuscitato solo nel 1974, nelle forme della Citroen CX.

RENAULT 12. E’ stata un successo, si potrebbe dire, da world-car. Ma oggi è ancora più inguardabile che nel 1969, quando uscì dalle linee di montaggio in Francia. E poi da quelle in Spagna, Portogallo, Irlanda, Romania, Messico, Sud America, perfino l’Australia, per oltre quattro milioni di esemplari. Qualcuno ebbe il fegato di comprarla in Canada e Stati Uniti. Cosa piaceva di questa tre volumi dal sedere spigoloso e cascante? L’essere proprio una tre volumi, con un grande bagagliaio, tanto spazio dentro, una meccanica robustissima. Scusate se è poco, verrebbe da dire. In fondo anche la nostra Fiat 128 (diretta concorrente) sembrava un cappello con le ruote.

SIMCA 1000. Continuiamo a infierire sull’industria d’oltralpe. La Simca 1000 è un altro esempio di design funzionalista che, a prima vista, concede poco all’occhio. Nonostante porti la firma di due illustri stilisti: Mario Revelli di Beaumont e Mario Boano. Prodotta dal 1961 per ben diciassette anni, ebbe successo anche in Italia e vendette quasi due milioni di esemplari. Un risultato notevole per l’epoca. Nata da un progetto congiunto Fiat-Simca, riprendeva lo schema semplice ed economico delle «tutto dietro» , inaugurato dal Maggiolino, seguito da molte Renault e dalle piccole Fiat di Giacosa.

ALFA ROMEO 155. E’ nell’opinione comune (ma anche di qualche top manager) una di quelle auto che non avrebbe dovuto nascere. Soprattutto col marchio Alfa. Costruita dal 1992 al 1998 in pieno periodo Fiat, fu la vettura che diede il colpo di grazia allo stabilimento di Arese. Peraltro di Alfa aveva davvero poco. Pianale della «Tipo» rinforzato, un disegno dei più anonimi, meccanica tutta torinese che abbandonava la trazione posteriore, compresi il celebre ponte De Dion con blocco cambio-differenziale. I clienti Alfa si sentirono un po’ a disagio, e non solo per la plastica e i vellutini «cheap» degli interni. Ma era già successo a quelli della Lancia (che sarebbero finiti peggio). Il marchio del Biscione, con la 155, uscì di fatto dal mercato internazionale delle berline sportive.

ASTON MARTIN LAGONDA. Si può essere brutte anche costando una montagna di denaro. E’ il caso della Aston Martin Lagonda, limousine di piccola serie costruita in 645 esemplari tra il 1976 e l’89. Se qualcuno ha dei dubbi può confrontarla con quello che la Casa era stata in grado di fornire a James Bond negli anni ’60 (grazie anche alla collaborazione con il carrozziere milanese Touring). La linea schiacciata della Lagonda, che qualcuno soprannominò la sogliola d’Oltremanica, non ebbe successo in Occidente. Gli interni erano supertecnologici, ma funzionavano male (come moti gadget dell’epoca). Le prenotazioni vennero soprattutto dagli sceicchi arabi.

Lancia Delta seconda serie. Vero è che migliorare un capolavoro è un’impresa impossibile. E tale era la Delta di Giorgetto Giugiaro. Un’auto che se ci fosse oggi, appena appena ritoccata, faremmo la fila per comprarla. Ma la Delta serie 2 del 1993-1999 - più che un’auto brutta, è una gigantesca occasione mancata. Tanto il patrimonio di modernità, di stile, di successo sportivo della prima serie era stato dilagante, tanto la vettura che seguì pareva ordinaria e priva di appeal. Chiusa anche lei in logiche industriali improntate al massimo risparmio (era strettamente imparentata con la Tipo e la lancia Dedra), ha contribuito in modo determinante ad affossare lo storico marchio.

NSU PRINZ. Dopo alcune brutture recenti, una pagina storica. Ma con beneficio di inventario, perché in realtà la NSU Prinz, utilitaria tedesca prodotta tra il 1957 al ’73, doveva la sua linea ad una lontana cugina d’America, la Chevrolet Corvair. Pantografata al minimo, ovvio. Come alcuni ricorderanno, il disegno a doppio guscio della Corvair fu ripreso anche dalla Fiat per le sue berline 1300-1500. E da una parte e dall’altra dell’Atlantico questa linea curiosa a sandwich, con il tetto a pagoda, ottenne consensi. Non è ben chiaro cosa fruttò, alla piccola Prinz, la sua nomea negativa. Forse il fatto che fosse – un po’ come la Bianchina – leziosa. Un “voglio, ma non posso” che, se di colore verde, si diceva addirittura che menasse gramo.

ALFA ROMEO ARNA. Dicono che persino i Vigli Urbani di Milano si vergognassero. Perché guardare la Arna e pensare al blasonato scudo del Biscione (anche senza più la scritta Milano) faceva male al cuore. Sono nella memoria di tanti le vicende dell’accordo Alfa-Nissan, una alleanza planetaria di cui si senti parlare a lungo, tra entusiasmi e timori, alla fine degli anni ’70.

Il parto della montagna avvenne nel 1983 con la Arna, una due volumi con la carrozzeria della “Cherry” nipponica e la meccanica Alfasud. L’auto era nata vecchia e non rifletteva l’immagine di marca. Per fortuna, dopo solo tre anni, l’incubo era finito e le Arna sparirono velocemente dal mercato. Tranne quelle nel piazzale dei Vigili Urbani.

FIAT DUNA. Chiudiamo con un luogo comune. Per molti italiani è la pietra di paragone, l’auto più brutta di sempre. La Fiat Duna, tre volumi compatta del 1987, sembra una “Uno” con la coda, ma è più legata alla 127 brasiliana in quanto a pianale e meccanica. E’ stata infatti concepita per il mercato sudamericano e solo successivamente proposta in Europa. In questa chiave si può spiegare – forse – la sua oggettiva bruttezza. La sindrome del bagagliaio nelle berline piccole e povere sembra incurabile: dalla Duna alla Brava, dalla Renault Classic alla Dacia Logan. Quel metro cubo di spazio chiuso, così gradito nei mercati emergenti, così discreto perché nessuno veda cosa c’è dentro, è una maledizione alla quale, da noi, è impossibile sfuggire.

·        50 anni fa nasceva lo Statuto dei lavoratori.

50 anni fa nasceva lo Statuto dei lavoratori: ideato da Di Vittorio, scritto da Brodolini e varato da Donat Cattin. David Romoli su Il Riformista il 20 Maggio 2020. Napoli, febbraio 1952, Congresso della Cgil: il segretario generale Giuseppe Di Vittorio propone la definizione di uno “Statuto dei lavoratori” con il preciso obiettivo di “portare la Costituzione nelle fabbriche”. Per raggiungere la meta ci vollero 18 anni e una rivolta operaia senza pari nell’Occidente del dopoguerra. Il risultato non fu neppure giudicato sufficiente dal partito dello storico segretario della Cgil, nel frattempo scomparso. Quando lo Statuto dei lavoratori fu sottoposto al voto della Camera, il 15 maggio 1970, il Pci si astenne, come anche il Psiup e il Msi. Fu approvato con i voti della maggioranza di allora (Dc, socialisti e liberali) e del Pri. Il 20 maggio fu pubblicato sulla Gazzetta ufficiale. Quando Di Vittorio lanciò la sua campagna per far entrare la Costituzione nelle fabbriche, la Carta fondativa della Repubblica era in vigore da quattro anni. Garantiva libertà e diritti ma non a tutti: si fermava ai cancelli delle fabbriche e, di fronte alle manifestazioni operaie, veniva sospesa e rimpiazzata dal piombo della polizia del ministro degli Interni dc, Mario Scelba. A Modena, il 9 gennaio 1950, la polizia aveva aperto il fuoco sugli operai che protestavano contro 500 licenziamenti, ferito 200 persone, ucciso sei manifestanti. Con la Corea in fiamme e il rischio del conflitto nucleare dietro l’angolo, al culmine della Guerra fredda, i governi non andavano per il sottile. La Dc, nonostante le insistenze di Scelba e degli americani, evitò la messa fuori legge del Pci ma per il resto lasciò mano libera ai nuovi reparti di polizia del ministro, la Celere, e acconsentì alla sospensione di fatto di ogni diritto nelle fabbriche. Gli operai più attivi e sindacalizzati venivano falcidiati. La repressione politica era sfacciata e conclamata. L’appello di Di Vittorio restò lettera morta. Le cose, anzi, peggiorarono ulteriormente. Pochi mesi dopo, nel dicembre 1952, la Fiat inaugurò la pratica turpe dei reparti-confino, dove concentrare e isolare gli operai più attivi per evitare il contagio. Il primo fu l’Officina Sussidiaria Ricambi, Osr, ribattezzata seduta stante Officina Stella Rossa. Dalla Fiat i reparti confino si diffusero ovunque. I licenziamenti si moltiplicarono. La persecuzione contro la Fiom fu metodica. Non bastò. La nuova ambasciatrice degli Usa in Italia, Clara Boothe Luce, fu tassativa: o la Fiom debellata alla Fiat o gli Usa avrebbero sospeso ogni commessa con la fabbrica torinese. Vittorio Valletta, presidente e ad, obbedì. Contro la Fiom fu lanciata una campagna persecutoria, senza esclusione di colpi, spudoratamente anticostituzionale. Nel 1955, nelle elezioni per la Commissione interna, per la prima volta la Fiom perse la maggioranza e a partire da quel momento non ci fu più limite all’imperiosità di un comando ormai senza più limiti. Il colonnello Renzo Rocca, alto dirigente del Sifar, il servizio segreto, mise a disposizione gli archivi dei servizi per facilitare il ricatto e la persecuzione dei militanti operai. L’ex capo partigiano bianco Edgardo Sogno, amico dell’ambasciatrice Usa, e il provocatore di professione Luigi Cavallo, espulso dal Pci si occuparono di orchestrare la campagna che portò alla disfatta della Fiom. Nella flotta di aziende italiane che navigava verso il boom economico, la Fiat era la portaerei. Dava a tutti gli indirizzi. Il metodo Fiat, basato da un lato sul paternalismo e dall’altro sulla repressione di ogni dissenso, non poteva essere adottato da tutte le aziende. Ma la politica di repressione fu comune a tutti. I bassi salari, inferiori a quelli di tutti i Paesi concorrenti, e l’assenza programmatica di diritti furono il motore segreto del boom. Le cose sarebbero dovute cambiare all’inizio degli anni 60, con l’ingresso del Psi al governo e la nascita del centrosinistra. Non fu così. Qualche legge fu varata, come quella che vietava il licenziamento delle donne colpevoli di essersi sposate, ma le velleità iniziali furono sopite dal “rumore di sciabole” del 1964, il golpe minacciato più che tentato dal comandante dei carabinieri De Lorenzo con alle spalle il capo dello Stato Antonio Segni. A smuovere le acque e rendere possibile ciò che pochi mesi prima sarebbe stato inimmaginabile fu la grande rivolta operaia iniziata nel 1968 ed esplosa l’anno successivo. I socialisti e non i comunisti furono i più pronti a cogliere la richiesta di libertà e diritti che arrivava da quelle lotte. La strategia che Pci e Cgil avevano messo a punto in vista del rinnovo dei contratti del 1969 aveva come obiettivo un maggior controllo operaio sulla produzione. Guardava soprattutto alla fascia rappresentata dagli operai specializzati, nucleo centrale e asse portante del sindacato nelle fabbriche, più che sugli operai dequalificati, spesso di fresca immigrazione del Sud, che furono invece il cuore della mobilitazione operaia. L’ “aristocrazia operaia” di qualche diritto, in virtù dell’alta specializzazione, poteva godere. Gli operai-massa no: volevano soldi e diritti, non “un nuovo modo di fare la produzione”. Il Psi era più sensibile a quei temi e fu più lesto a far propria la campagna sui diritti. L’uomo di punta era Giacomo Brodolini, ex azionista, sindacalista e ex vicesegretario della Cgil. Era stato lui a scrivere il documento di condanna dell’invasione dell’Ungheria poi firmato dal segretario Di Vittorio, che fu per questo costretto a una sorta di autocritica feroce e stalinista. Vicesegretario del Psi e poi del Psu, nato dall’effimera unificazione del Psi e del Psdi, deputato dal 1953 ed eletto senatore nel 1968, Brodolini aveva una visione complessiva delle riforme necessarie per portare la democrazia in quelle fabbriche nelle quali non era mai entrata. Nominato ministro del Lavoro nel dicembre 1968, destinato a rimanere in carica meno di 8 mesi prima di essere ucciso da un tumore, segnò una vera rivoluzione nelle relazioni industriali. Marcò la distanza dai predecessori anche nei comportamenti personali. Mai un ministro aveva espresso così apertamente solidarietà ai braccianti in lotta, due dei quali erano stati uccisi dalla polizia ad Avola, o aveva passato la notte di Capodanno in una tenda, con gli operai che protestavano contro i licenziamenti. Consapevole del poco tempo che gli restava, Brodolini cercò di varare in tempi fulminei le riforme che aveva in mente. Rimodellò radicalmente il sistema pensionistico. Abolì le “gabbie salariali”, che differenziavano gli stipendi del Nord da quelli del Sud. Istituì una commissione nazionale per dar vita a uno “Statuto dei diritti dei lavoratori”, presieduta dall’allora giovanissimo Gino Giugni. Ma il progetto, affermò poi lo stesso Giugni, era tutto di Brodolini, che morì l’11 luglio 1969, prima di vederlo approvato. Il nuovo ministro del Lavoro, il dc Carlo Donat-Cattin, dovette fronteggiare i tentativi degli industriali e delle loro sponde politiche nel governo e nella Dc di affondare lo Statuto ancora prima che vedesse la luce. Lo fece con la ruvidezza tipica dell’uomo. In Parlamento accusò senza mezzi termini la Fiat di operare “massicci licenziamenti di carattere politico e antisindacale”. Respinse al mittente le critiche allo Statuto “ispirate da una mentalità privatistica dei rapporti sindacali”. Le lotte operaie fecero il resto. Nel maggio 1970 lo Statuto fu approvato. Il Pci scelse di non votarlo pur senza bocciarlo. «Lascia ancora troppe armi al padronato», spiegò Pajetta. Il principale punto di dissenso era in realtà la decisione di non applicare le norme che vietavano il licenziamento senza “giusta causa” nelle aziende al di sotto dei 15 dipendenti. Non c’era solo il famoso art. 18 sui licenziamenti in quello Statuto. Vietati l’uso di guardie private per la sorveglianza degli operai e i controlli audiovisivi. Regolamentate le perquisizioni all’entrata e all’uscita dalle fabbriche. Calmierati gli accertamenti per le assenze dovute a malattia o infortunio. Non era il socialismo ma la fine di un regime tirannico che aveva retto per due decenni. Il quotidiano del Psi, Avanti!, riprese nel sottotitolo il messaggio lanciato 12 anni prima da Di Vittorio: “La Costituzione entra in fabbrica”. Da allora i tentativi di ricacciare la Carta fuori da quei cancelli delle fabbriche dalle porte degli uffici sono stati continui, soprattutto a partire dagli anni 90 del secolo scorso, e alla fine vincenti. La resistenza della Cgil di Cofferati, che convocò a Roma la più grande manifestazione della storia italiana nel marzo 2002, fermò l’attacco del governo Berlusconi contro l’art. 18, sui licenziamenti senza giusta causa, ma 9 anni dopo il governo tecnico di Mario Monti, con Elsa Fornero ministra del Lavoro, ridusse drasticamente le funzioni di quel baluardo sostituendo in molti casi l’obbligo di reintegro con un indennizzo economico. Il colpo di grazia lo ha dato il jobs act di Renzi, nel marzo 2015. Dopo aver più volte ripetuto che non c’era alcun bisogno di cancellare l’art. 18, l’allora premier e segretario del Pd si mosse in maniera opposta quando la Commissione europea reclamò “la prova d’amore” in cambio della concessione di flessibilità. Una campagna stampa mirata e astuta, del resto, aveva a quel punto già trasformato agli occhi di molti lo Statuto da garanzia di libertà e diritti costituzionali in privilegio degli occupati con il posto fisso a danno dei precari. Degli “anziani” a scapito dei giovani. Come sempre, la favola bugiarda partiva da una base di verità, salvo poi stravolgerla. Lo Statuto era stato in effetti pensato quando l’organizzazione del lavoro e gli assetti produttivi poggiavano su fondamenta molto diverse da quelle attuali, ancora compiutamente fordiste. A moltissimi lavoratori quelle norme non offrono davvero più alcuna protezione. Non è una buona ragione per togliere diritti a chi ancora ne ha. Sarebbe in compenso un ottimo motivo per mettere a punto un nuovo Statuto dei lavoratori. Adeguato ai tempi. Capace di far entrare la Costituzione anche oltre i recinti invisibili dei nuovi luoghi di lavoro. Storia di Carlo Donat Cattin, il sindacalista che portò i diritti in fabbrica. Paolo Guzzanti de Il Riformista il 15 Maggio 2020. La storia di Carlo Donat Cattin, uno dei più importanti leader sindacalisti e capo di una delle fazioni più forti della Democrazia cristiana, è una delle più drammatiche e rapidamente dimenticate della Prima Repubblica. Eppure fu lui a portare a compimento nel 1970 insieme al giuslavorista socialista Gino Giugni (che sarà per questo “gambizzato” dai terroristi nel 1983) quello Statuto dei lavoratori che aveva varato il socialista Giacomo Brodolini nel 1969 poco prima di morire. Donat Cattin era uno dei pochi maschi alfa della Dc, uno di quel sangue ligure piemontese fatto di durezza, silenzio e intransigenza di una stirpe montanara e di scoglio forte e taciturna, con idee duramente trattabili, ma inflessibili. Era uno che non andava giù alla destra Dc e alla destra politica in genere (che oggi, sia detto per inciso non esiste più sul panorama politico, occupato da altre destre) perché il suo sindacato – da lui creato con una scissione dalla originaria Cgil – era spesso più intransigente del sindacato guidato dai comunisti. La destra conservatrice di allora, un genere di destra di cui oggi non c’è più traccia, lo definiva «un comunista da sagrestia», sbagliando totalmente perché Donat Cattin, come Brodolini, apparteneva a quella sinistra spesso più a sinistra delle Botteghe Oscure, ma che nel frattempo governava, e aveva accesso a quella che il vecchio leader socialista Pietro Nenni aveva chiamato «la stanza dei bottoni». Carlo Donat Cattin oltre che farsi un suo sindacato, si era di fatto anche una sua personale Democrazia cristiana all’interno del grande corpaccione elettorale cattolico con la corrente “Forze Nuove” che nei momenti di maggior splendore raggiungeva il venti per cento. Donat Cattin era dunque un politico politicante, in questo più affine al socialista Pietro Nenni – il quale dall’esilio francese aveva portato lo slogan la politique d’abord, la politica prima di tutto – che non ai comunisti infinitamente più togliattiani, ovvero sottili e duttili ma anche gelosi del loro primato nella classe operaia e del sindacato malvolentieri condiviso con i socialisti al governo insieme ai democristiani. Erano state tutte queste contraddizioni logiche e politiche a mettere sotto stress una politica che si era arenata con l’uccisione di Aldo Moro sulla soglia del compromesso storico e che era fortemente animata dalle frange estremiste che praticavano la politica delle armi piuttosto che le armi della politica, ad imitazione di quanto avveniva nella Repubblica federale tedesca con la Rote Armee Fraktion.  Fu quindi un fatto imprevisto, ma al tempo stesso di piena coerenza storica, l’emersione del ruolo di un figlio di Carlo Donat Cattin, Marco, come terrorista, anzi un leader del terrorismo rosso, uno dei più sanguinari “comandanti” di Prima Linea, una organizzazione combattente comunista affine e concorrente delle Brigate Rosse. Per il padre non fu soltanto uno shock, ma la fine della sua carriera politica, almeno come dirigente. L’emersione del nome del figlio – che poi si pentì e morì tragicamente in un terribile incidente stradale mentre tentava di salvare alcuni automobilisti dallo stesso incidente in cui era coinvolto – prese subito la forma di uno scandalo che coinvolse Francesco Cossiga nella sua qualità di ministro degli Interni (ma che in quel momento era capo del governo) e Donat Cattin, ministro dell’industria in un governo Andreotti, che dovette dimettersi, sostituito il 25 novembre 1978, da una new entry: Romano Prodi.  Non si è mai capito da quanto tempo e a chi esattamente fosse noto il fatto che Marco Donat Cattin fosse un terrorista. La sua identificazione avvenne per opera di uno dei tanti pentiti allora gestiti dai corpi speciali e quando la storia venne allo scoperto, lo scalpore raddoppiò quando emersero imbarazzanti dettagli sul retroscena della vicenda che diventarono terreno di uno scontro violentissimo perché Cossiga era ora presidente del Consiglio e messo formalmente in stato d’accusa. Alla fine di un dibattito accesissimo, fu assolto con 597 no contro 416 sì dal sospetto di aver avvertito Donat Cattin padre della situazione di suo figlio, suggerendogli di farlo sparire alla svelta. Fu una faccenda brutta e penosa perché Donat Cattin, quasi spezzato nella sua struttura di vecchia quercia dovette ammettere di avere chiesto a Cossiga se avesse notizie di suo figlio Marco. E Cossiga ammise di aver risposto di non avere alcuna notizia del latitante. Carlo Donat Cattin restò fuori dalla politica finché fu recuperato da Bettino Craxi che lo volle ministro della Sanità in piena crisi per il diffondersi dell’Aids. Era un ruolo per lui secondario, ma non c’era ormai altro. Anche per il presidente del Consiglio Cossiga, benché salvato dal voto, fu l’inizio di un profondo turbamento umano perché – mi raccontò più volte – mai si sarebbe atteso un personale e rovente accanimento in Parlamento da parte di Enrico Berlinguer che era, tecnicamente, suo cugino. Il commento gelido di Berlinguer a questa manifestazione di sorpresa, fu: «Con i cugini si mangia soltanto l’agnello a Pasqua». Cossiga sparì dalla politica e fu recuperato da Ciriaco De Mita, su consiglio di Eugenio Scalfari che a quei tempi riceveva a pranzo Cossiga una volta a settimana, quando Amintore Fanfani si giocò lo scranno di presidente del Senato per guidare un governicchio balneare che, alla fine, mise fuori anche lui. Allora Cossiga fu riammesso nel circolo del grande perdono cattolico comunista ed eletto presidente del Senato e di lì, quasi con un plebiscito, spedito al Quirinale perché considerato un uomo ormai privo di qualsiasi tossina pericolosa. Errore drammatico perché, come sappiamo, dopo i primi quattro anni di settennato, l’ex presidente del Consiglio umiliato alla Camera per il caso Donat Cattin cominciò a togliersi i sassolini dalle scarpe.  A Donat Cattin, che era stato un fautore dell’incontro storico con i comunisti, era del tutto passata la voglia di quella stagione. Anche lui, in maniera analoga a quel che fece Cossiga, invertì la rotta facendosi portatore del cosiddetto «preambolo» che consisteva nello smontaggio di quanto ancora rimaneva della collaborazione fra Dc e Pci: la nuova linea era quella di sbattere fuori i comunisti da ogni maggioranza, anche se Giulio Andreotti fece tutto il possibile e anche l’impossibile per riagganciare il Pci grazie al quale sperava un giorno di arrivare al Quirinale. Nel 1986 come ministro della Sanità di Craxi (che lo apprezzava proprio per la sua incompatibilità con i comunisti e la disponibilità con i socialisti) si trovò il Pci di traverso ogni volta che se ne presentava l’occasione. Così fu attaccato violentemente sulla questione – oggi dimenticata– dell’atrazina: un diserbante inquinante, che superava la quantità massima concessa dall’Europa di 0,1 microgrammi per litro. I sindacati aderenti alla Cgil dichiararono guerra insieme ai verdi di Marco Boato finché il Pci non propose una mozione di sfiducia personale insieme alla Sinistra indipendente e Verdi, che non passò ma che contribuì ad azzopparlo ulteriormente, mentre la stella del suo protettore Craxi perdeva di forza. Sull’Aids, Donat Cattin fece una gaffe che gli valse molte palate di fango, non del tutto immeritate. Disse infatti che «l’Aids ce l’ha chi se lo va a cercare», alludendo pesantemente alla forte incidenza di omosessuali maschi fra gli infettati dal virus Hiv E in questa battutaccia c’era un po’ di tutto: una vena di cattolicesimo conservatore, una rusticana ostilità per le élite intellettuali e omosessuali molto diffusa nel Piemonte e nella Liguria operaie e che costituivano paradossalmente lo stesso bacino sardo-ligure-piemontese di cui era nutrito il Pci di Gramsci, Togliatti, Longo, Berlinguer e fino a Natta. Nulla di più che una significativa coincidenza geografica con l’antico Regno di Sardegna, che però nella vecchia e buona Repubblica che chiamiamo “prima” come se ce ne fossero state altre, aveva un certo valore codificato dall’asprezza di i duelli mortali, combattuti senza mettere di mezzo amici o parenti, perché con quelli, al massimo, ci si mangia l’agnello a Pasqua. Donat Cattin fu il secondo padre dello Statuto dei lavoratori, dopo Giacomo Brodolini, ma probabilmente pochi lo ricordano per questo e dunque lo facciamo noi nel tentativo di rimettere insieme alcuni pezzi e capire come andarono le cose.

Giacomo Brodolini il socialista di parte e la storia dello Statuto dei lavoratori. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 14 Maggio 2020. Fra poco saranno cent’anni dalla nascita e ovviamente a chi c’era sembra ieri: Giacomo Brodolini inventore, creatore di un oggetto clamoroso e misterioso: lo Statuto dei diritti del lavoratori. Oggi, detto così, sembra un nome enfatico e burocratico, ma i tempi erano il 1969, l’anno dell’autunno caldo per la scadenza dei contratti, ma anche l’anno dell’inizio di una cosa che non si era mai vista né sentita: il terrorismo. Cominciò con una bomba carta davanti al Senato ad agosto, poi ci furono alcuni botti qua e là e di colpo – fatto enorme, mai del tutto chiarito malgrado milioni di pagine e lunghi processi – la strage in una banca a piazza Fontana a Milano. Brodolini nel 1969 sapeva già di star per morire di cancro (si sarebbe spento in una clinica svizzera di lì a poco) e decise di passare la notte dell’ultimo dell’anno con gli operai dell’Apollon in sciopero. Ai suoi tempi, esisteva ancora un Partito socialista che competeva con il Partito comunista e fra i due partiti girava la famosa “cinghia di trasmissione” che era la Cgil, il sindacato rosso in cui comunisti e socialisti convivevano anche nei momenti più duri della loro lunga e poco fraterna competizione. Stalin, durante i due anni di alleanza con Hitler dal settembre del ’39 al giugno del ’41 quando i tedeschi invasero l’Urss capovolgendo i fronti della guerra, aveva dichiarato guerra ai socialisti occidentali che solidarizzavano con i governi borghesi delle democrazie occidentali, chiamandoli «social-fascisti», definizione sprezzante cui Palmiro Togliatti, allora numero due a Mosca del Comintern, aderì. Poi Togliatti fu rispedito in Italia per aprire a tutte le forze antifasciste anche di destra e la pace fu fatta fra i due partiti che combatterono insieme nella guerra di Liberazione, anche se molti socialisti portavano i fazzoletti tricolori di Giustizia e Libertà del Partito d’Azione e Brodolini era uno dei loro: Partito d’Azione come Riccardo Lombardi, Francesco De Martino e tanti altri. Fra socialisti e comunisti c’erano differenze sostanziali e spesso i primi erano più “a sinistra” dei comunisti, come accadde per lo Statuto dei lavoratori dove la parte socialista della Cgil, che era minoritaria, fu dominante anche sulla parte comunista guidata da Giuseppe Di Vittorio. E Giuseppe Di Vittorio aveva già pagato, da comunista, un alto prezzo per la sua amicizia con i socialisti e con lo stesso Brodolini. Era accaduto per i cosiddetti “fatti d’Ungheria” dell’ottobre del 1956, quando una rivolta guidata dai leader comunisti ungheresi contro l’oppressione dell’occupante sovietico, portò ad un cambio dei vertici del partito comunista ungherese. Nikita Krusciov era da poco succeduto a Stalin dopo una breve lotta di potere e non si sentiva nell’animo di procedere in modo staliniano, con un intervento armato. Il Pcus era diviso e a fare la differenza furono due leader non sovietici: il presidente cinese Mao Zedong e il leader comunista italiano, Palmiro Togliatti che fecero pendere la bilancia dalla parte dell’intervento che avvenne con estrema violenza e schiacciò nel sangue sotto i cingoli dei carri armati la rivolta degli operai e degli studenti di Budapest. Questo evento spaccò la sinistra italiana perché fra i socialisti soltanto Lelio Basso e Giorgio Vecchietti espressero una linea di “comprensione” per l’intervento e per questo furono marchiati con il nomignolo spregiativo di «carristi». Non soltanto Giacomo Brodolini non era un carrista e si indignò moltissimo, ma trascinò nella sua indignazione il segretario comunista della Cgil Giuseppe Di Vittorio, il quale sottoscrisse il messaggio preparato da Brodolini con un linguaggio molto esplicito di condanna e «profondo cordoglio per i caduti nei conflitti che hanno insanguinato l’Ungheria» a causa «dell’intervento di truppe straniere». Di Vittorio aveva appoggiato il socialista Brodolini il quale faceva anche parte della Direzione socialista e quindi si ripropose di nuovo la questione del “social-fascismo” anche se in termini capovolti. Inoltre, il Psi di cui Brodolini era un dirigente e poi un vice segretario, era diventato da alcuni anni un partito di governo, avendo accettato l’unico compromesso storico che abbia funzionato, e cioè la coalizione di governo che vedeva i socialisti fino a quel momento chiamati «socialcomunisti» per la loro alleanza nel Fronte popolare, insieme ai democristiani di Aldo Moro, malgrado le aperte riluttanze di Amintore Fanfani, che rappresentava insieme i sentimenti più conservatori e le posizioni più avanzate dal punto di vista sociale. No, non era facile a quell’epoca dividersi con chiarezza e stabilire chi fosse più a sinistra di chi. D’altra parte, era arrivato lo tsunami del Sessantotto, con tutte le sue frange ribellistiche e rivoluzionarie che avevano messo in crisi la sinistra comunista. Antonio Giolitti, figlio dello storico presidente del Consiglio prefascista Giovanni Giolitti. Antonio era stato il più vicino collaboratore di Togliatti, molto fiero di averlo al fianco come simbolo della continuità del suo partito con la democrazia liberale. Quando vide che Togliatti aveva vinto e applaudito la repressione dell’Armata Rossa sugli insorti ungheresi, ruppe con pochi altri formando una mini-secessione dal Partito comunista, che trasmigrò nel Psi di Pietro Nenni, Riccardo Lombardi e Rodolfo Morandi. I due partiti avevano entrambi la falce e il martello nel simbolo (sarà Craxi a togliere «tutta quella ferraglia russa») frutto dell’antica posizione pro-bolscevica, che nel Psi si aggiungeva al libro aperto – simbolo dell’istruzione come fonte di elevazione sociale – e il sole inteso come Sol dell’Avvenir. Ero allora nei miei secondi anni Venti ed ero un redattore dell’Avanti! che aveva sede in Vicolo della Guardiola e usava l’antica rotativa dell’Avanti di Milano che era stata portata via dai nazisti in fuga e poi recuperata. Le riunioni con Brodolini, Nenni e talvolta Riccardo Lombardi avvenivano spesso in un salone densamente affumicato ed erano riunioni lunghissime, di una qualità e di uno spessore oggi non riproducibile, o forse soltanto inutile. Nella galleria storica dei direttori dell’Avanti! era stata mantenuta la foto di Angelica Balabanoff ma non quella del suo partner nella direzione Benito Mussolini. La Balabanoff, cosa molto curiosa, dopo essere stata membro del Partito bolscevico a Mosca, dopo la guerra rientrò nel Partito socialista italiano e di lì partecipò nel 1947 alla scissione anticomunista di Giuseppe Saragat a palazzo Barberini dove fondò il Partito socialista democratico italiano, con cui noi socialisti di allora dovemmo riconciliarci, ma sempre guardandoci in cagnesco. Saragat all’epoca del varo dello Statuto dei Lavoratori era diventato presidente della Repubblica e per la sua nota passione per il vino si diceva che facesse l’alzabandiera con bianco rosso e verdicchio, ma dettò un solenne epitaffio in memoria di Giacomo Brodolini e del suo Statuto dei lavoratori. Quello Statuto, che pochi anni più tardi fu riconosciuto difettoso in molte sue parti e poco adatto all’economia moderna che prevede una fisiologica mobilità, inserì in maniera definitiva nella legge italiana i diritti fondamentali in particolare in materia di assunzione e di licenziamento dei lavoratori, rendendo quest’ultimo quasi impossibile. Rimproverato dal leader repubblica Ugo La Malfa, Brodolini rispose che i socialisti erano effettivamente di parte: «Da una parte sola, quella dei lavoratori».

·        L'Sos di 50 anni fa: così Danilo Dolci inventò la radio libera.

L'Sos di 50 anni fa: così Danilo Dolci inventò la radio libera. Il 25 marzo 1970 due collaboratori del sociologo trasmisero da Partinico, in provincia di Palermo, il grido di protesta della Sicilia più povera. Furono bloccati dopo 26 ore. Lucio Luca il 25 Marzo 2020 su La Repubblica.  “Sos, Sos... siamo i poveri cristi della Sicilia occidentale e questa è la radio della nuova resistenza. Qui si sta morendo…». Il 25 marzo del 1970 - sì esattamente cinquant’anni fa - furono in pochi, anzi pochissimi, ad ascoltare il messaggio disperato lanciato dai 98,5 megahertz della modulazione di frequenza e sui 20.10 delle onde corte. Pochi all’inizio, alle 17,30 di quel pomeriggio rimasto nella memoria, ma sempre di più, una Valle intera, durante le 26 ore di vita della prima radio locale italiana della storia: la Radio Sicilia Libera ispirata da Danilo Dolci. E per l’occasione si moltiplicano le iniziative: Navarra Editore regala l’ebook “Danilo Dolci. La radio dei poveri cristi” curato da Salvo Vitale e Guido Orlando. Radio 100 Passi e il circuito 100 passi medianetwork (radio100passi.net) che riunisce emittenti su tutto il territorio nazionale, ricorderà quell’esperienza riproponendo ampi stralci originali di quella trasmissione, l’intervista a Pino Lombardo e ad Amico Dolci, figlio di Danilo. “Sos, Sos... la popolazione del Belice è abbandonata, qui tra lo Jato e il Carboi viviamo nello sfascio, siamo dei poveri cristi...”. Due anni prima c’era stato il terremoto. Quattrocento morti, anziani, donne, bambini, settantamila sfollati. Interi paesi rasi al suolo dalla furia della natura. I sopravvissuti stavano affrontando un altro inverno dentro le baracche, il secondo di chissà quanti altri ancora, senza né luce né riscaldamenti, in situazioni igieniche infami. E nel frattempo i boss della mafia e i politici corrotti si spartivano i miliardi della ricostruzione. Speculavano sulla disperazione. “Sos, Sos... aiutateci, questa è la radio dei poveri cristi, l’unico mezzo che abbiamo per farci sentire. L’articolo 21 della Costituzione dice che tutti hanno il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. Non ci fermeremo...”. E invece Franco Alasia e Pino Lombardo, due giovani uomini di cultura che da anni lavoravano al fianco di Dolci, il sociologo, musicista, filosofo, pacifista, scrittore, poeta che aveva scelto Trappeto per fondare la sua comunità-laboratorio “Borgo di Dio”, furono bloccati dai carabinieri dopo un giorno di denunce e accuse pronunciate al microfono. Decine di uomini fecero irruzione come se in quella stanza di Palazzo Scalia ci fosse un summit di mafia. Armi in pugno, bloccarono Franco e Pino, che si erano barricati nei locali. Trovarono un bidone con cento litri di benzina che sarebbe dovuto servire ad allontanare chiunque si fosse avvicinato, sequestrarono le modeste attrezzature radiofoniche e arrestarono i due amici di Dolci. “Pensavamo che a un certo punto avrebbero staccato la corrente elettrica, mai avremmo immaginato un blitz di quelle proporzioni – raccontò qualche tempo fa Pino Lombardo, che all’epoca aveva 32 anni e dopo essere rientrato dal Venezuela, dov’era stato maestro elementare ma anche calzolaio e macellatore di polli, era rimasto affascinato dalle idee e dal carisma di Dolci. Pino era l’allievo prediletto del sociologo triestino, insieme a Franco Alasia, studente-operaio di Sesto San Giovanni che aveva fatto il viaggio degli emigranti all’incontrario e dal ricco Nord si era trasferito nel Sud più povero e derelitto per coltivare l’utopia di un mondo nel quale tutti gli uomini erano davvero liberi e uguali. Non lo sapevano Pino e Franco che cinquant’anni dopo in tanti avrebbero ancora ricordato quella folle impresa. Non immaginavano, forse, che grazie a loro per la prima volta una voce che non fosse di Stato, aveva violato l’inviolabilità dell’etere. Sì, la radio dei poveri cristi della Valle dello Jato, fu la prima emittente libera d’Italia. Ben prima di Milano International, Radio Parma, Radio Biella, che arrivarono soltanto cinque anni più tardi dando vita a una stagione di radio libere, e anche un po’ pirata, che ha segnato intere generazioni. Quell’esperimento durato appena lo spazio di un giorno e due ore aveva dato dunque ragione al sociologo triestino che combatteva dalla parte di chi non aveva voce: “Per evitare al massimo inciampi, bisogna trasmettere da acque extraterritoriali, magari su un’imbarcazione che non batte bandiera italiana”, ripeteva ai suoi amici. Franco e Pino erano stati fermati ma il germe della radio, in un momento nel quale esisteva solo la verità della Rai, era stato lanciato. E forse non è un caso che questa piccola rivoluzione culturale sia partita da una Sicilia laboratorio che non ha mai intuito del tutto le sue potenzialità. Franco aveva chiesto aiuto ad alcuni amici del Nord e si era fatto mandare un mixer, due microfoni, un’antenna. Pino e l’antropologo Antonino Uccello si erano occupati di raccogliere le voci di quei disperati a cui il terremoto del Belice aveva rubato tutto, Dolci aveva invece scritto una lettera al presidente della Repubblica Saragat, al premier Mariano Rumor e al ministro dell’Interno Franco Restivo per avvertirli che in quel lembo di terra a metà strada fra Palermo e Trapani, in un paesino sconosciuto chiamato Partinico, stava per scoppiare una rivoluzione pacifica: "Signori – denunciò Dolci - nessuna casa, neppure una sola casa lo Stato italiano è stato capace di costruire in più di due anni. Per questo, assumendomi la responsabilità dell'iniziativa, specifico: ogni cura abbiamo preso affinché sul piano tecnico radiofonico questa trasmissione non sia di nocumento ad alcuno. Impedire in qualsiasi modo l'ascolto della voce dei più sofferenti sarebbe un delitto, una crudeltà senza senso”. Alle 17,30 di quel 25 marzo di cinquant’anni fa, la piazza di Partinico cominciò a riempirsi quando si udirono le prime parole di Pino Lombardo e Franco Alasia. “Sos, Sos, aiutateci”. Una folla guidata proprio da Danilo Dolci fece da scudo umano a quei due visionari asserragliati a Palazzo Scalia. Riuscirono a resistere fino all’irruzione dei carabinieri, furono processati, condannati e poi amnistiati. Alla fine lo Stato gli restituì le apparecchiature, i generatori elettrici e persino i fusti con i cento litri di benzina. L’esperienza di Danilo Dolci, l’idea di una radio politica ripresa qualche anno dopo da Peppino Impastato, aveva vinto. Scrisse Italo Calvino: “A vegliare a Partinico stanotte è la coscienza d'Italia, una coscienza che è per così poca parte rappresentata dalla classe dirigente, e che è amaro privilegio dei poveri”. Da quel giorno niente fu come prima.

·        25 anni di Ruggito del Coniglio.

Alvaro Moretti per “Il Messaggero” il 21 settembre 2020. Si dovrebbe partire dai numeri, forse. Due come Marco Presta e Antonello Dose, per 25 anni di Ruggito del Coniglio, uguale: 5 mila puntate, 8500 ore in diretta, oltre 40 mila telefonate in diretta, ma anche tonnellate di affetto della gente che su Radio 2 li segue, traducibile in derrate alimentari. Negli studi di via Asiago ogni mattina, da ogni luogo d'Italia, l'affetto si misura anche così: maritozzi, soppressata, nduja, vino rosso. «Noi a quando finirà tutto questo non pensiamo, immaginiamo un giorno in cui arrivando a via Asiago troveremo il pass scaduto. Forse finiremo per sopraggiunto colesterolo». La direttrice di Radio 2, Paola Marchesini, se li coccola: «Sono una risorsa enorme per le rete e per i 25 anni gli regaliamo la diretta tv dal 28 su RaiPlay: la nostra vita raccontata con la loro ironia è migliore». Siamo partiti dai quintali di affetto che si fa carne. «È soprattutto un programma che fa ingrassare, il nostro».

Visto l'andazzo avete pensato ad una lista per le nozze d'argento?

«Ci aspettiamo tanto silver plate, anzi chiediamo che ci mandino le cose più brutte, i gargarozzi, quei regali improponibili dei matrimoni».

Ci sarebbe da chiarire una cosa con Wikipedia.

«Siamo nati il 5 ottobre 1995, come programma quotidiano, lì invece è scritto 2. Sappiatelo».

Un sogno?

«Eleggere un Presidente del Coniglio per annunciarlo noi, di domenica sera, un Dpcm».

A parte gli scherzi è una cosa da non dire qui nello studio del Ruggito, eppure in 25 anni avete attraversato la storia quotidiana del Paese: i giorni belli e quelli brutti.

«Nassirya, L'Aquila, Amatrice... Cambiando tono e scaletta, ce l'abbiamo fatta. Una sola volta abbiamo capito che proprio non si poteva andare avanti: era la mattina del crollo della scuola di San Giuliano. C'era il pubblico in sala A a via Asiago, siamo rimasti con loro a parlare. Il miracolo di andare avanti lo fa sempre la radio».

Per voi più di un mezzo, una dimensione.

«Pensate al lockdown: la Rai ci aveva messo a disposizione il tostapane per fare il programma da casa. Ma noi siamo un programma in presenza. Sembrava più servizio pubblico, così. Dose disinfetta tutto da febbraio, peraltro. E abbiamo capito quanto sia stato importante parlare alla gente in quei giorni, e per noi alzarci presto come tutte le mattine, attraversare la città vuota per esserci. Ci siamo tutti aggrappati alle nostre stupidaggini, che ci hanno fatto stare meglio. Eppoi così abbiamo potuto collezionare tutti i modelli di autocertificazioni».

Un social prima dei social.

Dose: «Sì. Io frequentavo i raduni degli ascoltatori, ci sono stati i rimorchi, i matrimoni: poi sono diventati troppi». Presta: «Aveva la glicemia in zona Champions. C'era il registro delle unioni coniglie, civili, ma anche incivili tra uomini e cani... I conigli erano già su Facebook così ci siamo alleati con Zuckerberg e siamo mezzo milione».

Certo, un 3 per cento alle elezioni lo potreste ottenere.

«Forse, ma non abbiamo quella perversione mentale. Abbiamo pochi haters, nessuna querela: siamo dei falliti demodè».

Nel 95 si telefonava da casa.

Presta: «Certo. Poi vennero i cellulari e hanno cominciato a chiamare dappertutto. Una restauratrice stamattina parlava appesa alla volta di San Fruttuoso, appesa come una lonza».

Altre chiamate da luoghi improbabili?

«Il top da un carro funebre durante il corteo... Spesso, dalle sale operatorie durante gli interventi».

In diretta dovete molto improvvisare eppure Dose viene da Grotowski e Barba; Presta dall'accademia, Ronconi, la Vitti, Camilleri...

«Serve una applicazione: serve la fatica impiegatizia per divertirsi con serietà, da umoristi».

I vostri collaboratori sono un segreto del successo.

«Paiella e Di Giovanni in 10' creano canzoni che restano in testa. Poi la follia di Ratti. E Paola Minaccioni: fuoriclasse, nei giorni del Covid doveva debuttare a Broadway... Il virus ci ha favorito... Il regista Paolo Restuccia, Ludovica, Angelica e Maria Lucia tra 7 mila telefonate trovano le 5 buone: geniali».

In radio 25 anni, amici e complici al dopo catechismo in una parrocchia di Roma Sud. Siete entrambi sposati, ma anche coppia di fatto. Una storia di amicizia lunga e a un certo punto il libro di Antonello in cui racconta della sua sieropositività. Lo sapevano solo il compagno di Dose e il suo medico.

Presta: «All'inizio ci sono rimasto male, poi ho capito che ha protetto me e i suoi genitori, ma soprattutto se stesso». Dose: «Potevo scegliere... il decennio giusto, la mia famiglia era contraria a che scrivessi il libro. Mi è pesato, ma in questi casi tu diventi il problema, ti identificano con la malattia. C'è lo stigma. Capita assurdamente anche a chi prende il Covid ora».

Una trasmissione che ha aiutato a parlare di omosessualità, inclusione, malattia.

«È la radio che fa il miracolo. Sentono persone che amano e le accettano per come sono. Questa è politica». I riferimenti? Presta: «Alto Gradimento, Vaime, Francesco Rocca. E sempre grazie ad Arbore che ci segnalò». Dose: «Eugenio Barba e il mio maestro Daisaku Ikeda».

Eredi?

Presta: «Facemmo un contest per giovani conduttori, non andò bene. A me sembra che ai giovani la radio non interessi: eppure la seguono 35 milioni di italiani. Il problema è che alla radio devi avere qualcosa da dire, devi leggere il giornale. Un oggetto che a noi piace fisicamente. Senza i giornali non ci sarebbe stato il Ruggito».

Oltre le nozze d'argento?

«Stiamo bene insieme: siamo un caso clinico, karmico. Attenzione, però, che tutti siamo scritti a matita».

·        Vent’anni di Grande Fratello.

Il reality che ha cambiato la televisione. Vent’anni di Grande Fratello: la storia del reality che ha cambiato la tv. Antonio Lamorte Il Riformista il 14 Settembre 2020. Il 14 settembre del 2000 si aprivano per la prima volta le porte degli studi del Grande Fratello. E per la prima volta andava in onda il reality show che sarebbe diventato il più celebre e longevo nel suo genere. I concorrenti erano dieci ed erano persone comuni. Per 99 giorni nella cosiddetta “casa” del Grande Fratello furono costantemente ripresi dalle telecamere di Canale 5. Sul loro destino nel programma venne inaugurato il meccanismo di eliminazione attraverso il televoto. Fu soltanto una delle tante novità del reality che ha rivoluzionato completamente il modo di fare televisione. Il programma venne importato da Endemol Shine Italy e basato sull’olandese Big Brother. Il nome venne preso dal romanzo distopico di George Orwell, 1984, nel quale un regime totalitario monitora costantemente la vita dei cittadini senza lasciare loro il minimo spazio di libertà e privacy. I concorrenti del Grande Fratello venivano infatti costantemente ripresi attraverso le telecamere con il fine di rappresentare la loro vita reale all’interno della casa trasformandola in una forma di intrattenimento. All’interno degli studi trovava spazio anche il cosiddetto confessionale, una stanza dedicata ai momenti di sfogo e intimità dei concorrenti che in quel caso erano inquadrati in primo piano.

L’IMMORALITA’- Per questi motivi il programma fu fortemente stigmatizzato e nella stessa Mediaset, che alla fine mandò in onda il format, ci furono duri confronti sulla percorribilità o meno del progetto. Leonardo Pasquinelli, all’epoca capo dell’intrattenimento Mediaset, ha svelato al Corriere della Sera che «quando è arrivato il Grande Fratello ci fu una grande discussione, in azienda c’era chi sosteneva che fosse un programma ai limiti della moralità e spingeva per trasmetterlo in seconda serata su Italia1». Alla fine andò in diretta in prima serata e in diverse strisce quotidiane su Canale 5. Lo stesso Pasquinelli ha affermato che la scelta della conduttrice e scrittrice Daria Bignardi derivò dalle stesse discussioni: «Fu essenziale per mitigare l’impatto critico in un Paese cattolico come il nostro. Era il volto giusto per unire alto e basso, per dare un manto borghese e rispettabile a uno show popolare e indecente». Alla conduzione di Bignardi venne aggiunta la figura dell’inviato ricoperta da Marco Liorni. Alle critiche sulla supposta immoralità del Grande Fratello si opposero le considerazioni che lasciavano spazio a un’interpretazione sociologica del programma. Analisti e telespettatori furono incuriositi da come potessero convivere, per poco meno di 100 giorni, nella stessa casa, 10 sconosciuti di diversa estrazione sociale e collocazione geografica, senza contatti con l’esterno e con minimi supporti di natura tecnologica. Oltre alle prime serate su Canale 5 e alle strisce quotidiane, al GF venne dedicato un canale in diretta sull’emittente a pagamento Stream, la diretta online sul portale Internet Jumpy, un settimanale in edicola ogni sabato, una puntata mensile speciale con contenuti inediti battezzata Il diario di Grande Fratello e condotta da Marco Liorni.

L’ESORDIO – Il 14 settembre del 2000 divenne dunque una data emblematica nella storia della televisione. Su Canale 5 andò in diretta la prima puntata del Grande Fratello. I concorrenti erano 10 – non sarebbero stati mai più così pochi – ed erano Nip, il contrario di Vip, Not Important Person. Ovvero persone comuni. La loro età andava dai 23 ai 35 anni. Prima di entrare nella casa i 10 passarono un giorno segregati in un hotel. Fu l’unica edizione nella quale non si aggiunsero concorrenti a gioco iniziato. La prima serata fu un mezzo flop in quanto non riportò i risultati sperati. Circa 5 milioni e mezzo di telespettatori seguirono la puntata con quasi il 25% di share. I 10 milioni di telespettatori furono superati il 9 novembre alla nona puntata. Le eliminazioni avvenivano ogni due settimane e venivano messe in atto attraverso il televoto dei telespettatori. Questi ultimi potevano scegliere la loro preferenza in un ballottaggio tra i due concorrenti che precedentemente avevano raccolto più nomination fra tutti i componenti della casa. Il primo concorrente a essere eliminato fu Francesca Piri. Il meccanismo di nomination ed eliminazione fece scuola per tutti i successivi reality-show. Nei 99 giorni di reality furono diversi i tentativi di irruzione all’interno della casa. La trasmissione Quelli che il calcio sorvolò con una mongolfiera gli studi di Cinecittà nel tentativo di comunicare ai concorrenti i risultati delle partite. La produzione sventò la retata diffondendo musica ad alto volume e intimando ai 10 di non uscire in giardino, pena l’eliminazione dal reality. Il telegiornale satirico di Canale 5 Striscia la notizia riuscì invece a recapitare un tapiro d’oro nella casa con un elicottero telecomandato. Fece molto discutere l’opinione pubblica, a nemmeno una settimana dall’inizio del reality, il rapporto che Pietro Taricone e Cristina Plevani ebbero al riparo dalle telecamere, dietro una tenda nella casa. Un episodio che comunque non venne punito dalla produzione. Nel 50esimo giorno a un partecipante estratto a sorte fu permesso di comunicare con l’esterno. Il sorteggio premiò Rocco Casalino.

IL  FINALE – L’ultima puntata si tenne il 21 dicembre del 2000. La serata segnò il record di ascolti con oltre 16 milioni di telespettatori e quasi il 60% di share. A vincere la prima edizione fu Cristina Plevani, soprannominata “la Cenerentola triste”, bagnina di Iseo che si aggiudicò come premio un assegno di 250milioni di lire, circa 130mila euro. Oggi Plevani fa la cassiera part-time in un supermercato e l’istruttrice di nuoto e fitness. Secondo e terzo classificato si piazzarono Pietro Taricone e Salvo Veneziano. Taricone, che si occupava di amministrazione di condomini, è diventato uno dei personaggi più noti del reality, lavorò nel mondo dello spettacolo come attore ed ebbe una figlia con l’attrice polacca Kasia Smutniak. È scomparso tragicamente in un incidente paracadutistico nel 2010. Salvo Veneziano, pizzaiolo di Siracusa, si è affermato come imprenditore dopo aver investito la sua notorietà nell’apertura di diverse pizzerie. Tra gli altri concorrenti Roberta Beta è diventata una conduttrice e reporter radiofonica; Lorenzo Battistello ha aperto un cafè a Barcellona; Maria Antonietta Tilloca lavora in una casa di produzione cinematografica; Marina La Rosa “la gatta morta” ha lavorato per alcuni anni nel mondo dello spettacolo tra fiction, cinema e teatro partecipando anche al reality L’isola dei famosi. La maggior parte dei cosiddetti “gieffini” è tornata comunque a una vita fuori dai riflettori del mondo dello spettacolo. A fare tanta strada è stato invece Rocco Casalino, all’epoca del GF ingegnere elettronico, in seguito giornalista e oggi portavoce e capo dell’ufficio stampa del presidente del Consiglio dei ministri Giuseppe Conte. È indubbiamente il concorrente del reality maggiormente al centro delle attenzioni di pubblico e media ancora oggi.

L’EVOLUZIONE – Nelle edizioni successive il Grande Fratello si è evoluto e trasformato. I concorrenti sono aumentati, è stato permesso l’ingresso a reality in corso, sono state pensate delle edizioni VIP. Dalla casa di Cinecittà sono venuti fuori diversi personaggi del mondo televisivo e dello spettacolo come l’attore Luca Argentero, la conduttrice Eleonora Daniele, lo speaker radiofonico Ascanio Pacelli e il dj Tommaso Vianello in arte Tommy Vee. Il reality ha trasformato gente comune in vip – bene o male tutti i partecipanti sono diventati protagonisti di tour in locali ed eventi in giro per l’Italia – e ha rivoluzionato il modo di fare televisione anticipando le interazioni e la pervasività dei social network. Pare che nel settembre 1999 John De Mol, l’inventore del Grande Fratello in Olanda, pronunciò una frase emblematica: «Big Brother sarà per la Endemol quello che Topolino è per la Disney. Stiamo lavorando a una cosa che diventerà immensa: tra vent’anni, quando si parlerà di televisione, si parlerà della TV prima di Big Brother e della TV dopo Big Brother». E a giudicare dall’influenza sui media e sul modo di pensare l’intrattenimento, quella frase suona oggi come una profezia. 

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI? (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Le Famiglie influenti.

Dinastie. Alessandro Bertirotti il 10 dicembre 2020 su Il Giornale. È tutta questione di… cognizione di sé. Non ci possiamo certo meravigliare di questa notizia. È così da sempre, ed abbiamo testimonianze del diverso trattamento sanitario riservato ai membri della famiglia dei faraoni dell’antico Egitto, rispetto a quello propinato agli schiavi. Ed oggi, esistono sempre i faraoni, le loro famiglie, pargoli compresi, e gli schiavi. I primi sono coloro che gestiscono le finanze del mondo, trasversali e presenti in ogni dove e comunque, e gli altri sono i cittadini che, da nuovi schiavi, si adeguano alle leggi. Ho già avuto occasione di scrivere, proprio in questo blog, che azioni identiche, specialmente quando si tratta di azioni al limite della legalità, o persino illegali, non sono considerate realmente identiche se a commetterle sono persone che appartengono a classi sociali diverse. E qui non si tratta solo di classi sociali, ma parliamo di dinastie. La famiglia Agnelli è la dinastia italiana, non una dinastia. Almeno nell’immaginario collettivo popolare, al di là della presenza nella nostra nazione di altrettante importanti famiglie che hanno contribuito a rendere grande un’Italia che oggi, effettivamente, non esiste più. Non è sufficiente recarsi in Svizzera, in qualche costosissima ed inaccessibile ai più clinica privata, per recuperare una cosiddetta vita normale, ossia scevra, nel caso del nostro creativo rampollo torinese, dalla necessità di alterare il proprio stato di coscienza con qualche dipendenza. Eh sì! Esiste una differenza antropologica importante fra gli schiavi, antichi oppure moderni, e i faraoni. I primi tirano avanti con dipendenze di basso livello, affidandosi alla commiserazione popolare che non può certo rimediare alle loro deficienze esistenziali, mentre i secondi fingono miglioramenti che sanno di poter comprare, mantenendo intatti i propri vizi. Perché questo? Perché per gli schiavi i vizi sono l’unica occasione di fuggire dalla loro condizione di subalterni a tutto e a tutti, mentre per i faraoni i vizi sono un vero e proprio stile di vita, una concezione antropologica del mondo. Un mondo che credono di avere ai loro piedi. Ritengo quindi che sarebbe bene diventare consapevoli, e mi riferisco a noi schiavi, del nostro plusvalore come silenziosi individui che si adattano alle proprie frustrazioni e che il più delle volte fanno, delle proprie sottomissioni ai poteri dinastici, l’occasione per migliorare davvero. Senza fatica, una reale fatica, non esiste alcun cambiamento altrettanto reale.

Giusi Fasano per il “Corriere della Sera” il 10 dicembre 2020. Lui non le chiama dipendenze ma debolezze, spettri, demoni. E ogni volta che cade è perché quei demoni hanno vinto un match, mai la partita. Lapo Elkann è così, come lo descrivono i suoi amici, «quasi senza anticorpi, zero meccanismi di autodifesa». Uno che «sta facendo i conti con le sue dipendenze», per dirla con chi gli ha parlato in questi giorni, «provo a domarle», come dice lui. Capace di rialzarsi, sì, ma per camminare sempre sulla linea del confine. Fino alla caduta successiva. L'errore di questa volta sono quattro grammi di cocaina in tasca buttati via frettolosamente alla vista di una pattuglia dei carabinieri. È stato la sera del 12 settembre, a Rapallo, ma la notizia è nota da ieri, pubblicata dal Fatto Quotidiano. Quella sera Lapo è in compagnia di un uomo che i carabinieri conoscono come spacciatore. Loro vedono lui, lo spacciatore, e si avvicinano per controllarlo ma non fanno in tempo a raggiungerlo perché scappa. Lapo infila istintivamente la mano in tasca e butta per terra il suo contenuto, soldi compresi. La pattuglia recupera tutto, lo identifica, lo porta in caserma per compilare e consegnare il verbale di sequestro della cocaina e lo lascia andare. A questo punto sono due le strade possibili: segnalarlo alla prefettura per uso personale di sostanze stupefacenti o mandare la segnalazione alla Procura di Genova ipotizzando il reato di spaccio. I carabinieri scelgono la seconda opzione e così nasce il fascicolo contro di lui per quel reato. «Da archiviare», decide il pubblico ministero Silvia Saracino che manda la richiesta al giudice delle indagini preliminari. Il capitolo finale di questa storia non è scritto perché il gip non ha ancora deciso ma - per seguire il ragionamento dello stesso pm - è improbabile immaginare Lapo come uno spacciatore. «Siamo soddisfatti della richiesta del pubblico ministero e non vogliamo commentare in alcun modo i fatti» taglia corto l' avvocato dell'ereditiero degli Agnelli, Giovanni Anfora. Commenta invece la sua fidanzata, Joana Lemos, che sul suo profilo Instagram pubblica una fotografia di lui in un momento di relax, nella loro casa in Portogallo. L'immagine trasmette serenità e lei scrive: «Ti amo, sono fiera di te». Agli amici aggiunge «Fiera e orgogliosa di lui sempre». L' overdose del 2005 a Torino con il trans che gli salva la vita, il finto rapimento a New York del 2016 per recuperare soldi per la droga, l' incidente stradale a Tel Aviv nel 2019 e ancora una volta la capacità di rialzarsi, di mettere in piedi la Fondazione Laps per aiutare le famiglie fragili in tempo di Covid. Ecco. Lapo è così, generoso mentre fa i conti con i suoi demoni.

DAGONEWS il 15 dicembre 2020. In casa Agnelli il feeling tra i due cugini John e Andrea resta pessimo. L'amministratore delegato di Exor, cassaforte di famiglia e che ha dunque l'ultima parola sulle decisioni che contano nel gruppo, sta cercando il sostituto di Camilleri, che da un giorno all'altro ha mollato la Ferrari, dopo una stagione di Formula 1 particolarmente disgraziata. Dietro all'uscita del manager però ci sarebbero ragioni molto personali, forse legate al Covid da cui ha detto di essere guarito nei giorni scorsi. Il fatto di aver lasciato anche il ruolo di presidente di Philip Morris International è il segnale che i travagli del Cavallino non fossero il motivo principale dietro alla decisione. "Yaki" ha preso il suo posto ad interim, ma non può lasciar passare troppo tempo: il circo delle auto da corsa ricomincerà presto e il nuovo ad deve prendere in mano la scuderia il prima possibile. Ha un nome che gli frulla per la testa: Alessandro Nasi, suo lontano ma influente cugino. Il ramo dei Nasi ha il 27% delle quote della Giovanni Agnelli e C. S.a.p.az., l'accomandita che controlla la Exor (Alessandro è vicepresidente della società insieme ad Andrea Agnelli). Più noto per essere diventato il fidanzato di Alena Seredova dopo la rumorosa rottura con Buffon, Nasi da giugno 2020 guida la Comau, società specializzata nell’automazione industriale per l’industria automobilistica, controllata da Fca. Ma il suo ingresso nel gruppo risale al 2005 e da allora ha ricoperto ruoli in Fiat Powertrain Technologies e in CNH Industrial, gruppo che produce macchinari per l’agricoltura e le costruzioni, di cui è membro del cda. È anche presidente di Iveco Defence Vehicles e membro del cda Exor. Insomma è un ingranaggio discreto ma consolidato della nuova generazione di Agnelli, e una sua promozione ad amministratore delegato di Ferrari lo catapulterebbe nella prima linea familiar-aziendale. Cosa che sta facendo venire un embolo al povero Andrea, che da quando è un bambino sogna di entrare in Ferrari, tanto da aver lavorato in Formula1 quando era più giovane. Invece, come supremo sgarbo, il suo detestato cugino fece entrare Lapo e non lui nel cda di Maranello, e al massimo gli ha offerto la presidenza della società, ma senza deleghe e solo abbandonando quella bianconera. Nel cassetto dei sogni di Andrea c'è il piano di fondere Ferrari e Juventus e di guidare lui questa inedita ''polisportiva'' di lusso, da quotare poi in borsa. Peccato che al momento il "dottor" Andrea Agnelli (ma non è mai entrato in una facoltà universitaria) abbia una bella gatta da pelare, cioè l'esame-farsa di Luis Suarez. Perché a essere indagato dalla procura e anche dalla Federcalcio è Paratici, ma l'ordine di andare avanti con la cittadinanza del calciatore sarebbe venuto proprio da Andrea. Non solo. La prossima semestrale della Juve potrebbe certificare un debito lordo monstre da 600 milioni, che metterà la famiglia davanti a un bivio: o dovrà entrare un grosso fondo straniero, vedi il Milan, o dovranno aprire il portafogli per iniettare centinaia di milioni nella società. La mente di tutte le operazioni di Andrea? Francesco Roncaglio, 42enne ex bocconiano che siede nel cda della Juve e che guida Lamse, la holding di partecipazioni che fa capo al presidente della Juventus e a sua sorella Anna. Ora ha un compito difficile: trovare un modo per far uscire Andrea dal pantano giudiziario e finanziario in cui si trova la squadra, ed evitare che la sua stella si appanni troppo a vantaggio dell'emergente Nasi. La guerra tra cugini continua. 

Dall'articolo di Francesco Bonazzi per ''la Verità'' il 15 dicembre 2020. La principale società dove da sempre le due famiglie [Agnelli e Ginatta] sono socie si chiama Investimenti industriali, una spa presieduta dalla vera mente finanziaria tanto di Andrea Agnelli quanto di Roberto Ginatta, ovvero il milanese Francesco Roncaglio (42 anni, non indagato), che siede anche nel cda della Juventus, della Banca del Piemonte ed è amministratore delegato della Lamse. Quest' ultima è la società di partecipazioni di Andrea Agnelli, che controllava pariteticamente la Investimenti industriali insieme alla famiglia Ginatta. Quaranta giorni dopo i sequestri, il 31 luglio, di fronte al notaio Monica Tardivo, va in scena un' assemblea straordinaria della Investimenti industriali, che ha 3.620.000 euro di capitale, per deliberare un aumento di capitale da soli mille euro. Gli Agnelli lo sottoscrivono, sotto la regìa di Roncaglio, mentre Matteo Ginatta lascia cadere l' opzione e va in minoranza per un pugno di euro. Risultato: gli Agnelli prendono il controllo della società con un esborso ridicolo, mettono in minoranza gli amici di una vita nella loro ora più dura e la quota di Investimenti industriali in mano allo Stato, che tenta di rifarsi della mega fregatura rifilata a Invitalia, si deprezza in pochi minuti di centinaia di migliaia di euro.

Lapo Elkann: «Io da 20 anni tra i narcotici anonimi. Se stai male i soldi non contano». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 31 ottobre 2020. Il nipote di Gianni Agnelli si racconta in 3 ore d’intervista: «Ho capito con tristezza che mia madre è autodistruttiva. Amerei che non ci fossero più battaglie ma è lei che le vuole». Alla fine, c’è un momento in cui Lapo Elkann volta la testa per nascondermi le lacrime che stanno arrivando. Lo vedo serrare la faccia, come a scacciarle via. In quell’istante, è un ragazzo di 43 anni seduto nella cucina di casa, a Milano, maglietta bianca e jeans. Sugli scaffali, decine di piccole Ferrari tutte in fila e nessun giocattolo che possa consolarlo. Non succede mentre racconta dei giorni in cui voleva suicidarsi, anche se ne sta parlando per la prima volta, né quando ripercorre i tanti accidenti della sua vita: gli abusi in collegio, il finto rapimento a New York, l’overdose e il coma nella Torino della sua Fiat a casa del trans Patrizia, l’incidente a Tel Aviv e di nuovo il coma... Del passato, parla senza emozione. In tre ore d’intervista, ripete forse trenta volte che il passato è alle spalle e conta invece costruire il presente e il futuro.

Il bene che vuole fare con la Onlus Laps. Ogni cosa in lui, ogni pensiero, ogni parola pronunciata a velocità triplicata è proiettata verso il bene che vuole fare con la sua Onlus Laps, in soccorso dei bambini che, come è successo a lui, soffrono di dislessia e disturbi dell’apprendimento, e di quelli abusati e di chi soffre di dipendenze e discriminazioni o di quei «buchi emotivi» che, confessa, sono ancora la sua battaglia quotidiana. Però, nell’istante in cui la sua voce s’inceppa, in cui lui stesso s’inceppa, non stiamo parlando del passato, ma di sua madre, di Margherita Agnelli e di un non detto che è un adesso di beghe legali per storie di testamenti ed eredità. Lapo volta il viso altrove e il torrente di parole si ferma quando gli chiedo qual è il problema di fondo con lei. Silenzio e piccole Ferrari che sembrano roteare tutto intorno. Ora, Lapo parla al rallentatore: «Prima di rispondere, ci voglio pensare cautamente». Prima di lasciarlo rispondere, bisogna ripercorrere l’intervista dall’inizio.

La sua vita è fatta di tanti «prima» e «dopo», qual è il momento in cui sente di volersi dedicare agli altri?

«Ero nel carcere di Nisida, un ragazzino, arrestato a undici anni, mi fa: Lapo, Lapo, sei figo! Chiedo perché. E lui: perché pippavi e andavi a prostitute. Mi sono sentito rabbrividire. Era un baby killer della camorra, aveva ucciso tre persone. Gli ho chiesto che avrebbe fatto se uno gli avesse dato un’opportunità e mi ha risposto: io, se torno al quartiere, mi do sei mesi di vita, m’importa solo di farmi e di andare a donne. Mi sono sentito male. Mi sono detto: adesso, con tutta la fortuna e i privilegi che hai, ti dai una mossa e vedi di fare la differenza».

La sta facendo?

«Ero già una macchina che andava forte, ma in questa pandemia ho avuto la fortuna di avere accanto una donna che mi ha messo le ruote motrici e che, come me, sente il bisogno di restituire».

Parla di Joana Lemos, la sua fidanzata portoghese?

«Ha vinto la Parigi-Dakar, sa che vuole dire cavalcare le dune e quindi avere a che fare con una persona non facile: io non sono molle, non sono inattivo. Durante il lockdown, abbiamo fatto la campagna Never Give Up per la Croce Rossa, abbiamo portato gli igienizzanti a Locri, due ambulanze per i disabili in Sicilia, abbiamo distribuito le pizze a Napoli, i pasti a Milano, le mascherine negli ospedali, siamo andati ad aiutare in Spagna e in Portogallo».

Joana ha cinque anni più di lei ed è così diversa dalle sue ex, come entra nella sua vita?

«Ero in un ristorante e ho visto uno sguardo che era una forza della natura. Poi, ho visto anche il resto e mi è piaciuta in tutto. Ci ho provato subito in modo lapesco e mi è andata male».

In «modo lapesco»?

«Le ho scritto un messaggio: ti voglio. La volevo molto prima che lei volesse me. Non ha risposto. Ho dovuto ricominciare in modo lapesco-romantico: costruire un rapporto dove ci si conosce, si vedono nello sguardo passioni, valori, la voglia di presente e di futuro. Lei ha molte cose mie: determinazione, costanza, caparbietà, bontà, generosità. Come me, dà così tanto agli altri che a fine giornata può essere sfinita. È una donna che mi porta su ed è la prima che non sta con me per la visibilità o i soldi. Non ci nascondiamo niente. Abbiamo i codici del telefono l’uno dell’altro. È probabilmente la prima volta che non sono birichino, non guardo altrove e non ho più il complesso del seduttore».

Il complesso del seduttore?

«Prima, ero insicuro e la mia donna doveva piacere agli altri e, quasi quasi, non piaceva a me. Joana, invece, piace a me. Con lei, voglio costruire».

«Costruire» che significa?

«Costruire una vita, vedo una prospettiva lunga. Se arrivassero figli, sarei felice».

Quali altri complessi ha?

«Nella mia educazione, c’è stato il machismo: ho sofferto per smettere di considerarlo vincente, accettare le mie debolezze e imparare a chiedere aiuto. Ci sono riuscito grazie all’amore della mia fidanzata e dei miei fratelli e nipoti. Ho imparato ad amarmi. Non ero orgoglioso di me. Colpa dell’insicurezza dell’infanzia: se soffri di Adhd, di disturbo da deficit di attenzione e iperattività, e anche di dislessia, ti senti di meno e vuoi dimostrare di essere di più».

Quando ha capito che il machismo era un disvalore?

«Da tanto. Post incidente a Torino. Ma metterlo in pratica è stato diverso dal capirlo. Tutti i giorni è una battaglia. Ho buchi emotivi che colmavo con iperattività, iperprogettualità e con le sostanze. Io non ho mai usato le sostanze per divertimento, ma sempre per autodistruzione, per non sentire i vuoti. Oggi, quei vuoti li accetto e li so gestire».

La prima volta con una sostanza?

«Non posso chiamare “sostanza” un essere umano, ma la prima volta è stata una prostituta. Dopo essere stato abusato, ero confuso, non sapevo se ero etero, mi chiedevo se ero io colpevole. Col sesso a pagamento, avevo il controllo, sapevo quello che stava succedendo. Ma questo ha incrementato il buco e ha portato a uno scalare di problematiche, perché il passo successivo sono gli spinelli e via via peggiorando. Il mio problema non è una “sostanza” in sé, ma il fatto che non so limitarmi. Posso lasciare la coca, ma diventare ossessivo-compulsivo o work alcoholic e lavorare 14 ore al giorno. L’intensità è una forma di sostanza, una dipendenza. Il demone è lì, non dorme, devi sempre domarlo. Da vent’anni, faccio un’ora al giorno con i narcotici anonimi, ho completato “i 12 passi” quattro volte. La sobrietà è il mio orgoglio più grande, perché, senza, non ho niente, rischio di perdere le mie aziende, le persone che amo, me stesso».

Perché una terapia di gruppo quando potrebbe avere i migliori terapisti?

«Ho provato anche i Rehab a cinque stelle, ma se stai male non conta se sei ricco, povero, se hai l’Aids: sei uguale agli altri. Il mio gruppo di narcotici anonimi è in America: lo preferisco perché lì si parla di soluzioni, non di problemi».

Cos’è successo a Tel Aviv un anno fa?

«È stato un incidente, ricordo solo che sono stato in coma sei giorni, mi sono svegliato e ho avuto shock forti: ero in un ospedale di emergenza, ho visto persone morire, ho perso i capelli per alopecia, ho avuto uno stress post traumatico e 15 operazioni ai polmoni».

In questa inclinazione all’autodistruzione, c’è mai stato il pensiero di farla finita?

«A New York, dove ho vissuto per un po’ dopo l’incidente di Torino. Abitavo al 33esimo piano: la tentazione di buttarmi era continua. Non ho avuto il coraggio e l’amore per la vita è stato più forte».

Al suo esordio da brand manager in Fiat riuscì a far tornare simpatica l’azienda con le sue felpe e spingendo per lanciare la 500, ma dopo l’overdose lasciò. La Fiat le manca?

«Io per la Fiat sarei salito sul ring contro Mike Tyson e non l’ho mai lasciata, resto azionista e le resto grato. Mi ha permesso di imparare da tanti grandi, come Sergio Marchionne che mi ha dato svariati calci nel didietro insegnandomi a mordere il freno. Amo la Fiat perché amavo mio nonno e, quando è morto, ho giurato che avrei dato tutto per quest’azienda. Ero con lui in America quando si è curato. Poi, ha deciso di tornare a morire in Italia e io, per seguirlo, ho lasciato Henry Kissinger, con cui lavoravo».

Era accanto a lui quando è mancato?

«Non si poteva, però so che è morto con un sorriso. Per me, è stato come perdere un faro. Sono andato in paranoia perché non si trovava un carro funebre Fiat. Ho fatto di tutto per farlo fabbricare in tempo. E con la morte di mio nonno ho imparato anche che quando le cose vanno male la gente ti volta le spalle. Al funerale, ho visto molti tramare, fare giochi di potere. Ho riconosciuto sciacalli negli occhi di banchieri, di persone della finanza e della politica. È una cosa che ho vissuto con la mia anima e il mio cuore. Era stato Kissinger a insegnarmi a leggere negli occhi delle persone».

Che altro ha imparato da lui?

«Tanto, e soprattutto ero con Kissinger dopo l’11 settembre 2001 e, dall’America, ho imparato il motto united we stand, divided we fall. Uniti stiamo in piedi, divisi cadiamo. Lo applico anche alla mia Onlus: ora, il progetto è sostenere altre associazioni che lo meritano, creare un’Hub della solidarietà. Se posso mettere a disposizione la mia visibilità, io ci sono».

Dice «united we stand divided we fall» e penso ai tre bambini di «Magari», il film diretto da sua sorella Ginevra. Eravate così voi due e John? Spersi, in balia di adulti problematici, unitissimi?

«Mio fratello, come nel film, ha avuto un ruolo difficile perché doveva fare da mediatore fra mio padre e mia madre e infatti è uno da situazioni complesse, lo dimostra costantemente. Mia sorella ha dovuto sopportare un fratellino rompiscatole e iperattivo, ma era sempre con me. L’amore che ho per loro è indistruttibile. Andrò a vivere a Torino per stare più vicino a John e, se dovessi rinunciare a soldi o aziende per i miei fratelli, lo farei perché hanno dovuto supportarmi e subirmi, hanno sofferto e affrontato difficoltà per colpa mia e non mi hanno mai giudicato. Siamo uniti non per le aziende, ma per l’amore che ci lega e perché ci accettiamo come siamo. Sono importanti per me, come è importante mio padre».

Che padre è stato Alain Elkann?

«Ha avuto un ruolo due volte difficile perché nostra madre ci portò in Brasile senza dirglielo e perché competeva con un nonno superuomo, che era la Ferrari, la Juve. Papà è uno scrittore e a me affascinava più Del Piero che un romanzo, però papà c’è sempre stato».

Tre fratelli uniti contro cosa?

«Uniti “per” qualcosa: per confrontarci, per fare. Abbiamo caratteristiche diverse che possono renderci utili l’un l’altro. Poi, ci sono stati percorsi durissimi di sofferenza: un figlio che affronta le conseguenze di scelte irragionevoli e incomprensibili di una madre ne soffre. Non conosco un figlio che non ne soffrirebbe. Ma questo non è il luogo per parlarne, ci sono persone che se ne stanno occupando, perché purtroppo non è possibile dialogare con mia madre, avendoci io provato un milione di volte».

Parla delle guerre sull’eredità di famiglia?

«Sono cose che si affrontano nelle sedi preposte, per scelta sua».

Questo rapporto difficile fa più male ora o faceva più male da bambino?

«Fortunatamente, e molto tristemente, mi ci sono abituato. Ho dovuto imparare a proteggermi. Ci convivo accettandolo: mi rendo conto che mia madre ha visioni contorte e illogiche di come stanno i fatti».

Qual è il problema di fondo con sua madre?

(Silenzio. Pausa. «Ci voglio pensare cautamente». Silenzio). «In primis, io non sono in grado di carpire e capire che infanzia ha avuto, ma ho capito con tristezza che è autodistruttiva e autolesionista e fa prevalere cose che io non farei prevalere su quello che dovrebbe essere una famiglia. Lei ha diviso la famiglia in due. Nel futuro, amerei che non ci fossero battaglie, ma le vuole lei e, se c’è da difenderci, ci difenderemo. È una scelta sua e io me ne rammarico».

Che vede, se guarda avanti?

«Il piacere di lavorare nelle mie aziende, in Italia Independent, in Garage Italia, in Independent Ideas, ma sempre più solo da azionista e da creativo, visto che ormai hanno una guida forte, così da seguire sempre più progetti che aiutino a migliorare il mondo attorno a me e il mondo dentro di me. Ora, per la prima volta, guardo avanti e vedo una vita senza più montagne russe».

CARTA D’IDENTITÀ.

La vita — Lapo Edovard Elkann è nato a New York il 7 ottobre 1977. Si è laureato alla European Business School di Londra, ha fatto l’anno di militare negli Alpini, e l’operaio alla Piaggio di Pontedera, con lo pseudonimo di Lapo Rossi. È stato eletto quattro volte di fila Best Dressed Man da Vanity Fair.

La carriera — All’inizio ha lavorato in Salomon, Danone, Ferrari, Maserati e, nel 2001, è stato assistente personale di Henry Kissinger. In Fiat si è poi occupato del rilancio del marchio, e della vendita di nuovi modelli, come Grande Punto e 500. Nel 2013 entra nella Automotive Hall of Fame, come solo l’Avvocato prima di lui. Ha fondato diverse società, tra cui Italian Indipendent group, e la Fondazione benefica Laps.

Angelo Allegri per ''il Giornale''  il 15 giugno 2020. C'era una talpa del Kgb ai vertici della Fiat, primo gruppo industriale italiano. Di più: c'è un uomo legato ai servizi segreti russi nel cuore della famiglia Agnelli, la dinastia «reale» del capitalismo tricolore. Si chiama Serge de Pahlen, è il secondo marito di Margherita, figlia dell'Avvocato, ed è il padre di cinque dei suoi otto rampolli. Sembra la trama, fin troppo avventurosa, di un thriller spionistico. Invece è l'accusa contenuta in quella che è considerata una delle più complete analisi del potere ex sovietico apparse negli (...) (...) anni recenti. A muoverla è Catherine Belton, a lungo corrispondente del Financial Times da Mosca. Terminato l'incarico e tornata a Londra ha messo a frutto anni di contatti con oligarchi, banchieri, uomini dei servizi di sicurezza: il risultato, un libro uscito a fine maggio in edizione inglese, «Putin's people», ha suscitato grande attenzione tra gli esperti di cose russe, che ne hanno sottolineato la ricchezza di fonti e la profondità di analisi. Nella ricostruzione dell'ascesa al potere di Putin c'è anche un gustoso capitolo italiano dedicato appunto a de Pahlen. «Secondo un ex alto funzionario dei servizi di intelligence russi», scrive la Belton, de Pahlen era stato «reclutato dal Kgb durante gli anni Ottanta», ed era diventato «parte di una rete gestita da Igor Shchegolev, più tardi ministro delle comunicazioni con Putin, che a suo tempo era in servizio per il Kgb con la copertura di un incarico da corrispondente a Parigi per l'agenzia di Stato Tass». I compiti di de Pahlen, secondo la Belton, erano quelli di contribuire a fornire attrezzature per il settore petrolifero russo attraverso un network di aziende fidate. In quel periodo «stringe un legame dal valore incalcolabile», aggiunge la Belton, quello appunto con l'ereditiera di casa Agnelli. I due si incontrano a Londra nel febbraio del 1982 e nell'aprile del 1983 nasce la loro primogenita Maria. La coppia vive a Rio de Janeiro, dove de Pahlen dirige la filiale sudamericana di Technip, multinazionale francese che si occupa di tecnologia per l'estrazione del petrolio. Dopo il matrimonio viene chiamato dall'Avvocato in Fiat do Brasil e verso la fine degli anni Ottanta arriva la nomina a presidente di Fiat Russia, con la vice-presidenza per le attività internazionali. A lungo de Pahlen, scrive Catherine Belton, fa avanti e indietro con Mosca, «coltivando i rapporti con i pezzi grossi del Partito e i banchieri stranieri più vicini al regime sovietico. La Fiat era sempre stata un partner chiave dei sovietici, e secondo due ex intermediari del Kgb, divenne un fornitore di tecnologia dual-use (ufficialmente a scopo civile ma utilizzabile anche per impieghi militari; ndr), attraverso una miriade di società amiche». De Pahlen, classe 1944, è nato in Normandia, ma la sua è una famiglia di antichissima nobiltà russa, le origini risalgono al medioevo, che viveva fino alla prima guerra mondiale tra San Pietroburgo e uno splendido castello nei Paesi Baltici. Con la fine dell'impero zarista il padre di Serge, che porta lo stesso nome, è costretto all'esilio e arriva in Francia. I legami con la cultura del Paese d'origine non vengono però mai recisi e anzi, Serge junior diventa un cultore dell'eredità slava, dell'identità tradizionale della Russia cristiana. Il conte e Margherita vivono nella tenuta della Pecherie, tra Losanna a Ginevra, dove, come scrive Gigi Moncalvo (I lupi e gli Agnelli, Rubbettino), uno dei giornalisti che meglio conosce casa Agnelli, «hanno costruito una cappella ortodossa tutta in legno e tronchi a vista, decorata da icone di padre Stamatis Skliris, uno dei maestri del genere. Il piccolo tempio è stato benedetto dal Patriarca di Mosca, Alexis II, la massima autorità religiosa greco-ortodossa». Dal punto di vista professionale gli anni Novanta segnano la grande ascesa del conte: attraverso gli ambienti della diaspora russa in Francia ha già coltivato buoni rapporti con il sindaco di San Pietroburgo Anatoly Sobchak. Nel 1991 collabora a riportare in patria le spoglie dell'ultimo erede degli zar, il Gran Duca Vladimiro e in quell'occasione conosce ufficialmente il vice di Sobchak, Vladimir Putin. Tra i due scatta la scintilla. Per de Pahlen Putin è l'uomo in grado di riportare la Russia alla grandezza di un tempo. Lo racconta alla Belton Kostantin Malofeev, uno degli oligarchi più vicini sia all'inquilino del Cremlino sia al marito di Margherita Agnelli. «De Pahlen ha scelto subito Putin. Ha detto: quest' uomo la pensa come noi». Quando Putin, in trasferta a Parigi, incontra per la prima volta Jaques Chirac passa la sera precedente con de Pahlen per preparare il vertice. Più tardi è sempre de Pahlen a presentare Putin a Gianni Agnelli, in un incontro che avviene a Villar Perosa e a cui partecipano Cesare Romiti e l'amministratore delegato di Fiat Auto Paolo Cantarella. Per il conte franco-russo l'apogeo è la prima visita di Putin in Italia da presidente. «Era ospite di Confindustria per un suo attesissimo discorso», scrive il già citato Moncalvo. «In prima fila Gianni e Umberto Agnelli, Giuseppe Morchio, Gabriele Galateri di Genola. Voi della Fiat avete un uomo eccellente in Russia, disse pubblicamente Putin. Umberto, alla fine, andò a stringere la mano a Serge: Ha fatto un ottimo lavoro. Gliene siamo grati». Il conte de Pahlen si lega soprattutto a uno degli uomini emergenti dell'era putiniana, Konstantin Malofeev, capofila dell'ala più tradizionalista, più legata agli ideali della vecchia Russia. Malofeev, monarchico e zarista, noto in Italia per essere stato nominato presidente onorario dell'associazione Associazione Culturale Lombardia Russia, vicina alla Lega, conosce de Pahlen in una manifestazioni di legittimisti nel 1991, quando ha solo 17 anni. Ma la coppia è destinata a durare. Nel 2005 Malofeev crea un fondo di investimento, Marshall Capital, specializzato in azioni del settore telecomunicazioni e tecnologia. Non si sa chi siano gli investitori che gli affidano i loro denari, ma, dice la Belton, il giovane finanziere riesce ottenere «l'appoggio degli uomini dell'ex Kgb più vicini a Putin». Grazie a una serie di speculazioni su quote di società pubbliche come Rostelecom guadagna soldi a palate e oggi al suo fondo viene attribuito un valore intorno al miliardo di dollari. Ma non si occupa solo di affari. Con de Pahlen i rapporti sono stretti, insieme creano tra l'altro la Fondazione di San Vassily il Grande, che ha come obiettivo la diffusione dei principi della religione ortodossa nel mondo.

LA CRISI. A essere bruscamente interrotto è invece il rapporto di de Pahlen con la Fiat. Qui l'aristocratico manager russo è probabilmente vittima, piuttosto che della troppa vicinanza al Cremlino, delle lotte intestine di casa Agnelli (vedi anche l'altro articolo in queste pagine). Alla morte dell'Avvocato, Margherita lamenta di essere stata tagliata fuori dal grosso dell'eredità, senza che nemmeno gli sia stato presentato un rendiconto realistico dei beni posseduti dal padre. I rapporti con i figli maschi del primo matrimonio, Yaki e Lapo Elkann, si guastano (sono migliori quelli con la figlia Ginevra). Nel 2004 Margherita raggiunge un accordo con la madre Marella per la divisione del patrimonio, ma più tardi l'intesa sarà oggetto di un contenzioso giudiziario, successivo alla scoperta di una serie di beni controllati da una finanziaria del Liechtenstein. Poco dopo la firma tra madre e nonna, Yaki Elkann, ormai ai vertici del gruppo, smantella la struttura internazionale. Serge de Pahlen, che la moglie Margherita propone di mettere al vertice in attesa che il figlio faccia esperienza, viene allontanato causa «ridimensionamento» delle attività. Per Yaki è il primo atto da neo-presidente della casa torinese. La madre Margherita fa notare a Moncalvo un particolare: Yaki, che nella lettera di licenziamento si rivolge al patrigno dandogli del lei, ha trascorso gran parte dell'infanzia e dell'adolescenza a casa di quest' ultimo. De Pahlen, da parte sua, non reagisce e nel giugno del 2005 chiude formalmente il rapporto di lavoro con il gruppo torinese. Oggi si occupa di attività finanziarie e immobiliari (anche uno dei figli, Peter, lavora in Russia nel settore), e della gestione del patrimonio familiare, che è tutt' altro che trascurabile. Se si considerano insieme i suoi beni personali e quelli di Margherita, frutto dell'eredità paterna, si sfiorano, secondo la rivista svizzera Bilanz, i 2 miliardi di franchi svizzeri. La sua passione è una piccola casa editrice, Les Editions des Syrtes, dedicata, come dice una presentazione su Internet «all'infinito mondo slavo, alla sua letteratura e alla sua grande cultura». Quanto alle accuse sui rapporti con il Kgb, dice al Giornale di non trovarci «nulla di consistente» e di non volerle commentare.

Angelo Allegri per ''il Giornale'' il 15 giugno 2020. Tre figli dal primo matrimonio con lo scrittore Alain Elkann (John Philip Jacob ,detto Jaki. Lapo e Ginevra) e cinque dall'unione con Serge de Pahlen (Maria, Pietro, Sofia, Anna et Tatiana). Il ménage familiare di Margherita Agnelli, 64 anni, è ricco e complicato. Con lei e il marito, tra l'altro, vivono nella tenuta di Allaman, tra Ginevra e Losanna, anche alcuni dei numerosi nipoti. Due tra di essi, Anastasia e Sergey (nella foto sopra, che risale a qualche anno fa, la piccola Anastasia, che oggi ha 14 anni, è con la madre Maria e i nonni) sono stati al centro di una complicata vicenda giudiziaria. Serge de Pahlen e Margherita Agnelli hanno chiesto e ottenuto che venissero tolti alla mamma e affidati a loro. La storia inizia con le nozze tra Maria e un giovane russo di modeste condizioni economiche. Il matrimonio dura poco e la conclusione è amara: accanto alle questioni finanziarie si litiga anche per la custodia dei figli.  Il nonno de Pahlen, riesce a portarli dalla Russia dove vivono, fino in Svizzera. Ma a complicare le cose è anche un nuovo legame sentimentale di Maria che la porta a vivere per qualche tempo nella capitale della Georgia Tbilisi. De Pahlen e Margherita decidono di assumere in proprio l'educazione dei bimbi e alla fine riescono a fare togliere alla figlia la potestà genitoriale. A lungo burrascosi sono anche i rapporti con Yaki e Lapo. A suo tempo fece rumore il mancato invito di Margherita al battesimo di Leone Mosè, primogenito di Jaki e di Lavinia Borromeo. Al funerale di Marella Agnelli (foto in alto), moglie dell'Avvocato, nel febbraio scorso, l'unità della famiglia, si è, almeno apparentemente ricomposta. Margherita ha accolto i partecipanti alla cerimonia all'ingresso della chiesa e letto un passo delle Sacre scritture. All'eredità della madre Margherita aveva rinunciato al momento della sistemazione delle quote ereditarie. Da quella vicenda e al termine di una controversia che l'ha vista opporsi al resto della famiglia, la figlia di Gianni Agnelli ottenne una quota di eredità dal valore di circa 1,2 miliardi. Molti erano frutto dei beni posseduti all'estero dall'Avvocato. Margherita è però convinta che molti altri le siano stati tenuti nascosti.

Stefano Lorenzetto per il Corriere della Sera il 19 aprile 2020. Certo non assomiglia allo zio Gianni Agnelli, il quale diceva di sé: «Non sono un grande pedagogo. So come si fa. Ma non sono un bravo educatore». Samaritana Rattazzi, seconda dei sei figli di Susanna, la sorella prediletta dell' Avvocato, sa come si fa e lo fa con le parole, essendo giornalista professionista. Gliene sono bastate appena 1.122, circa il 10 per cento di quelle della presente intervista, per spiegare alle nipotine Elena, 8 anni a maggio, e Vicky, 3 a giugno, che servono gli affetti di famiglia, il rispetto per la natura, la pietà per gli animali e lo stupore per la vita, se vuoi essere davvero felice. Il risultato è Mignon e il drago , fiaba illustrata da Andrea Rivola, che l' editore Marietti junior manderà in libreria appena possibile e che sarà seguita da altri due volumi.

Ha il dono della sintesi.

«Mi viene dal Lycée Chateaubriand di Roma: tesi, antitesi, sintesi. Se servono tre parole per dire una cosa, ne uso due».

Ha ambientato la storia in Siberia.

«E nel XII secolo. Quanto di più lontano da noi. Volevo raccontare alle mie nipotine un mondo incontaminato».

Da che cosa nasce questa esigenza?

«Mignon sono io. Fino ai 10 anni ho vissuto in una estancia a Balcarce, in Argentina, dove papà era stato nominato presidente della Ferrania. Non c' era la neve, ma la vastità sì. Nel 1958, quando l' azienda fu rilevata dalla Kodak, tornammo in Italia. Il mio unico amico era il cane Pluto. Andammo ad abitare a Roma. Restai sbigottita perché dalla parte opposta di via Dandolo c' erano le case. Fino ad allora all' orizzonte avevo visto soltanto montagne altissime, distanti decine di chilometri. Un infinito fatto di natura, cieli blu e tempeste elettriche. Ho ancora il terrore dei temporali».

Per Elena e Vicky è la Mamie del libro?

«No, mi chiamano nonna Sama. Prima dell' emergenza coronavirus, le vedevo per 15 giorni ogni due mesi. Vivono a Parigi. Il padre lavora per una società farmaceutica. Invece mia figlia Anna, dopo il bachelor in Arte alla Brown University di Providence e il master in management dei Servizi museali alla Luiss, ha messo la sua laurea in Fisioterapia a disposizione dei pazienti neurologici in una clinica per bimbi svantaggiati».

Hanno confidenza con i temi sanitari.

«Elena è turbata dalla quarantena della sua maestra, che ha un figlio residente a Hong Kong. Nella scuola c' è una sezione cinese, quindi la paura del Covid-19 la tocca da vicino. È importante che le famiglie proteggano psicologicamente i bambini. Dobbiamo tranquillizzarli».

E lei lo ha fatto con le fiabe.

«Me le scrivevo per non dimenticare i nomi dei protagonisti: guai se ne sbagli uno, i nipoti ricordano tutto. Mia sorella Ilaria le ha lette: "Perché non le pubblichi?". Ero perplessa, avrei voluto che restassero in famiglia. Cercando sul Web, mi sono imbattuta nell' editore Pietro Marietti, faccia da gentiluomo piemontese. Gliele ho spedite. Dopo una settimana mi ha risposto. Mi ha fatto cercare dalla editor Alessandra Berello, che mi ha detto: "C' è dell' incanto in Mignon". Era l' aprile dell' anno scorso. Credo che non sapesse di essere incinta. A gennaio ha partorito un bimbo dal nome fantastico: Ulisse. Ci siamo scelte a vicenda».

Parla più da mamma che da nonna.

«Figli e nipoti rendono la vita migliore. La mia primogenita, Maria, la ebbi a 23 anni. Fu un battesimo di fuoco. Nacque con una cerebropatia congenita a causa del cordone ombelicale attorcigliato attorno al collo. Visse solo per quattro anni e mezzo, stesa nel letto, senza pronunciare una parola. Girammo il mondo nella speranza di farla guarire. Ricordo che mia madre Suni chiese al professor Andrea Prader, lo scopritore della sindrome di Prader-Willi, direttore della Pediatria al Policlinico di Zurigo: "È il caso che Samaritana abbia altri bambini?". La guardò severo: "Signora, sua figlia ha le stesse probabilità che le ricapiti di qualunque altra donna seduta nella mia sala d' aspetto". Non ho mai creduto che non potesse succedere a me, né che dovesse accadermi di nuovo. Ho pensato solo: è una grazia che Maria sia nata in questa famiglia. Morì due mesi prima che mettessi al mondo la mia ultimogenita. Anna è cresciuta nel lutto».

Sogna Maria qualche volta?

«Mi è capitato non tanto tempo fa. L' ho vista seduta in mezzo a un prato fiorito. Il posto che le spetta in paradiso. Glielo dico da credente e da cristiana».

Avrà trovato consolazione anche nel suo secondogenito, Pietro, il dottor Guido Zanin di «Un medico in famiglia».

«Se lei mi chiedesse di definirlo con tre aggettivi, userei questi: simpatico, intelligente, gentile. Ma per un mese dei suoi 48 anni non ci siamo parlati. Fu quando, a due esami dalla laurea in Scienze politiche, mollò tutto per fare l' attore. Mi arrivò un plico giallo con dentro la locandina della commedia Piccole anime e una lettera: "Se vuoi venire a vedermi in teatro al Testaccio, siediti in ultima fila, altrimenti m' impappino". Mi misi nella prima. Del resto, come Pietro, sono sempre stata una ribelle, da piccola anche ombrosa. Ora sono migliorata».

Lei in che modo si ribellava?

«Tenevo testa ai miei genitori. Ero l' unica dei sei figli a venire castigata perché osavo ribattere alla mamma. Appena sedicenne, persi un anno di scuola: mi ero innamorata di un ragazzo ventenne. La notte scappavo di casa per vederlo».

Davvero birichina.

«L' unico maschio di cui ero solo amica, e lo sono tuttora, si chiama Enrico Vanzina, lo scrittore, mio compagno di banco. Così fui esiliata per nove mesi in Argentina, a casa di un' italiana, Giuliana Lebuis. L' anno prima ero stata rinchiusa in un collegio in Germania. In compenso ho avuto la fortuna di non subire come istitutrice Constance Parker, l' inglese che diceva a mia madre e ai suoi sei fratelli: "Don' t forget you are an Agnelli", non dimenticare che tu sei una Agnelli. Ricordo con affetto la tata Gina Cristoforetti, un' amabile signora di Trento, detta Ghina. Ci ha tenuto in braccio tutti».

Era impulsiva anche sua madre. Nel 1945 sposò il conte Urbano Rattazzi appena 18 giorni dopo averlo conosciuto.

«Era passionale. Le assomiglio. Ho in circolo il sangue della mia bisnonna americana, Jane Allen Campbell, la cui figlia, Virginia Bourbon del Monte, donna estremamente libera e affascinante rimasta vedova a 35 anni, si oppose al senatore Giovanni Agnelli che voleva toglierle la patria potestà sui sette figli. Tengo la bandiera degli Stati Uniti appesa sopra la testiera del letto. Sono un grande Paese.

Si meritano un presidente migliore di Donald Trump».

Il suo primo marito, il dantista Vittorio Sermonti, era giornalista all'«Unità». Chissà che scandalo in famiglia.

«Non erano contenti, inutile dirlo. Lo conobbi grazie al critico letterario Cesare Garboli, per lunghissimo tempo un grande amore di mia madre. Prima d' incontrare Vittorio, non capivo nulla di Dante. È stato un ottimo padre».

Essere figlia di Susanna Agnelli l' ha agevolata nella vita?

«Certo. Però è un privilegio che bisogna meritare. L' ultima cosa che puoi fare è rivelarti peggiore degli altri. Morta Maria, dovetti cercarmi un lavoro per non impazzire. Giuseppe Ciranna, direttore della Voce Repubblicana , nell' assumermi come praticante fu molto schietto: "Ti prendo nonostante tu sia la figlia di una deputata del Pri. Non vedo perché non dovrei farlo, visto che sei brava"».

Chi fu il suo maestro di giornalismo?

«Guido Vigna, caporedattore del Corriere Medico . Mi ha insegnato l' umiltà.

Tornata da Vermicino, dove in un pozzo si era consumata la tragedia di Alfredino Rampi, avrei voluto commentare quell' oscena sfilata di autorità in tv. Lui mi ordinò: "Scrivi solo ciò che hai visto"».

Lasciati i giornali, aprì Public Affairs, società che interfaccia affari e politica.

«La mia creatura migliore».

Ma riuscirebbe a fare lobbying anche con il governo attuale?

«Non credo proprio».

Lo zio Gianni seguiva il suo lavoro?

«L' avvocato Agnelli aveva ben altro a cui pensare».

Strano modo per definire un parente.

«Per tutti in famiglia è stato sempre l' Avvocato. Solo mia madre lo chiamava Gianni. Così come lo zio Umberto era il Dottore, persino per Allegra Caracciolo, la sua adorata seconda moglie».

Perché è uscita dall' accomandita Fiat?

«Mia madre suddivise le azioni tra i figli. La quota più grande andò a Cristiano. Io ho dovuto vendere tutto per far fronte al fallimento di una società calabrese della quale ero presidente. Ho imparato a mie spese che non bisogna mai fidarsi di come si descrivono certe persone. Credo d' aver salvato solo cinque azioni».

Si direbbe che gli Agnelli siano sempre in bilico fra rigore e sregolatezza.

«Dipenderà dall' infanzia gelida. Mia madre raccontava che da bambina, nella casa di corso Oporto a Torino, faceva di proposito la pipì a letto per avere una sensazione di calore e di vita».

Da bambina a lei leggevano le fiabe?

«Non me lo ricordo. Mamma e papà erano assorbiti dalle loro occupazioni. I nonni materni erano morti prima che io nascessi e quelli paterni vivevano a Sestri Levante, mentre noi abitavamo in Sudamerica. So solo che il mio libro preferito è stato Il piccolo principe , quello che recita: "Non si vede bene che col cuore. L' essenziale è invisibile agli occhi"».

Nella sua favola cita due volte il «cuore puro». Valore desueto, la purezza.

«Proprio per questo mi piace tanto. Una bimba sa esattamente di che parlo. Una delle mie sorelle mi ha chiesto: ma come fai a essere così brava a rivolgerti ai più piccoli? Le ho risposto: m' inginocchio per stare alla loro altezza».

Dagospia il 26 novembre 2020. L’intervista integrale a Carlo De Benedetti su "Quattroruote" Dicembre, in uscita il 28 novembre 2020.   “Io non volevo distruggere la Fiat, semmai ridimensionarne i costi, ma non il ruolo di produttore di automobili. Un ruolo che è finito”. Così Carlo De Benedetti spiega a Quattroruote la sostanziale differenza tra il piano da lui proposto nel 1976, e mai accettato, e lo scenario attuale dopo il matrimonio annunciato tra FCA e PSA, sul quale aggiunge: “Vendere era l’unica alternativa valida. John Elkann ha fatto benissimo e ha gestito la trattativa molto bene. Per quelli della mia generazione e per quelli che hanno passato tutta la vita alla Fiat, sentimentalmente è un dispiacere enorme ma la Fiat non è più a Torino da qualche anno. Da sola non poteva farcela”. A 44 anni di distanza l’Ingegnere affida a Quattroruote l’esclusivo racconto dei retroscena della sua reggenza, i motivi per cui il suo piano di rilancio fu respinto, i rapporti con i fratelli Agnelli e gli scontri con Romiti e gli altri top manager. E il grande orgoglio di aver ideato, in soli 100 giorni, l’auto che ancora oggi resta la bestseller della Casa: la Panda. “Dovetti pormi il problema di una gamma sorpassata. Bisognava fare qualcosa, ma nell’automotive senza soldi è difficile. Conoscevo di fama Giorgetto Giugiaro perché aveva disegnato la Golf per la più grande Casa del mondo. Era un uomo messo all’indice dal sistema Fiat per una legge non scritta in forza della quale chi lasciava l’azienda non poteva più metterci piede e lui a diciassette anni ci aveva lavorato per poco tempo. Gli dissi: “Voglio una macchina jeans, che ricordi la Citroën 2CV. Però non abbiamo soldi da spendere: dev'essere una macchina con le lamiere piatte, perché gli stampi costano meno. Il chassis dev'essere quello della 127 e deve poter montare i motori due cilindri della 126 e quattro cilindri della 127. Siamo a maggio e a settembre voglio i disegni”. Quando poco dopo decisi di andarmene – spiega l’Ingegnere a Gian Luca Pellegrini, direttore di Quattroruote – la cosa semplice sarebbe stata dirgli di tenersi i disegni. Invece Umberto Agnelli volle fare suo il progetto della Panda. Giugiaro non venne mai accettato come designer del gruppo ma venne fuori il modello più venduto della storia del marchio. Ho l’orgoglio di aver fatto da solo una vettura, disegnata da Giugiaro e adottata da Umberto.” Passarono solo 100 giorni dalla nomina di Ad alla sua decisione di lasciare l’azienda. Poco più di tre mesi in cui De Benedetti si rese conto di come la sua visione, e le sue aspettative di manager, non potevano combaciare con quelle della gestione famigliare firmata Agnelli. “Quando sei nato e vissuto a Torino, fai il fornitore della Fiat e ti chiamano a fare l'amministratore delegato, non fai tante analisi e tanti ragionamenti: accetti e via. Fu una decisione presa d'istinto. Poi mi accorsi di avere sbagliato”, ammette l’Ingegnere, sottolineando come nel giro di pochi giorni passò dall’essere Ad della Holding con cinque deleghe a doversi occupare di tutta l’azienda sostituendo Umberto Agnelli che aveva deciso di candidarsi in politica. “Mi fu chiesto di occuparmi dell'intera azienda. Cosa che io non gradii”, spiega De Benedetti a Quattroruote. “Ero entrato da poco, dovevo ancora fare esperienza. Però sì, tenga presente che all'epoca la Fiat era gestita dalla famiglia Agnelli come un fatto padronale. Altro che corporate governance: se uno dei fratelli prendeva una decisione, la discussione terminava lì”. E fu proprio la decisione dell’Avvocato Gianni Agnelli di non prendere in considerazione il piano di restauro aziendale proposto dal manager a decretare la fine del rapporto: “Volevo riportare la Fiat al profitto puntando sul controllo di gestione. Gli dissi che dovevamo mandare via 60 mila persone. Mi chiese dove fossero tutti quei dipendenti. Gli risposi “Avvocato, se sapesse leggere i conti saprebbe trovarli" e gli feci vedere che il peso del costo del lavoro sul venduto era inaccettabile secondo i parametri degli altri costruttori. Erano gli anni del terrorismo, licenziare 60 mila persone era un fatto rivoluzionario, visto dalla prospettiva dell'impresa. Agnelli andò a Roma per parlarne al governo e Amintore Fanfani rispose che il piano era impossibile da realizzare. Avevo il 5% della Fiat, ero il singolo azionista più grande e non ero disposto a vedere distruggere i miei soldi. Per un manager poi, dirigere un’impresa senza poter intervenire sul problema che ne compromette la competitività è la peggiore cosa. E lì uscii.” Finì così il suo brevissimo mandato in Fiat, durante il quale non mancarono scontri aperti con gli altri top manager a partire da Cesare Romiti, Paolo Volpolini, direttore del personale ricordato come “ottima persona ma intellettuale comunista”, e il direttore delle strategie Gianmario Rossignolo: “Lo feci fuori perché sosteneva che l’automobile fosse un’industria finita e un mestiere da Paesi sottosviluppati. Che senso aveva per la Fiat avere un capo della strategia convinto che l’auto fosse finita. Umberto comunque lo ripescò”. La lettera di dimissioni fu di fatto il secondo no che l’Ingegnere rivolse ad Agnelli. Il primo risaliva alla fine del mandato dell’Avvocato come presidente di Confindustria: “Mi chiese se fossi interessato a sostituirlo. Risposi di no. Fui una delle poche persone a dire di no ad Agnelli”.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Le Famiglie Reali.

Francesca Pierantozzi per “il Messaggero” il 28 ottobre 2020. E vissero tutti, se non felici, almeno riconciliati, alla corte dei Sassonia-Coburgo-Gotha, sovrani dei Belgi. Ieri c' è stata la prima foto della famiglia allargata, a chiudere un feuilleton che dura da oltre vent' anni. Sorridenti, «sereni, guariti e riconciliati» come hanno detto in un comunicato l' ex re Alberto II posa finalmente accanto a Delphine Boël, la figlia naturale nata nel 68 dalla sua lunga relazione con la baronessa Sybille de Sélys Longchamps. Sulla poltrona accanto, sorridente e riconciliata anche lei, la moglie di Alberto e madre dei suoi tre figli legittimi (tra cui l' attuale re Filippo), Paola di Liegi, già Ruffo di Calabria. La storia di Delphine, pittrice e artista quotata, era ormai nota a tutti, mancava soltanto l' abbraccio del papà, dopo che a gennaio Alberto era stato costretto, davanti all' irrefutabile prova del test Dna, a riconoscere la paternità. Filippo aveva fatto il primo passo un paio di settimane fa, ricevendo la sorellastra nella sua residenza privata al Palazzo di Laeken, e postando una foto tra fratelli, lei in jeans e maglietta colorata, lui in camicia a quadretti e giacca un po' sformata. La cosa era molto piaciuta ai Belgi e alla fine anche al recalcitrante padre: «Io e mia moglie - aveva subito scritto Alberto - siamo molto felici dell' iniziativa del Re, che indica giorni migliori per tutti, in particolare per Delphine». E voilà che il nome della figlia veniva finalmente pronunciato. Aprendo le porte al riconoscimento finale della nuova principessa (anche se, nata fuori del matrimonio, non entra nella linea della successione al trono, non avrà incarichi pubblici, né alcuna dotazione in denaro). «Dopo i tumulti, le ferite e le sofferenze, è arrivato il tempo del perdono, della guarigione e della riconciliazione» hanno scritto da palazzo reale ieri, per suggellare la pace fatta tra figlia, padre naturale e matrigna. Quando Alberto incontrò Sybille de Sélys, nel 1966, aveva 33 anni, i suoi tre figli erano nati, e il matrimonio con Paola era in crisi. Lei soffriva il clima, l' atmosfera, la vita in Belgio, narrano le cronache, e entrambi conducevano vite separate. Sybille era la figlia dell' ambasciatore belga in Grecia e moglie, infelice, dell' imprenditore Jacques Boël, ed è ad Atene che scoppiò il colpo di fulmine. «Veniva spesso a casa da noi - racconta Delphine, a lungo definita la Mazarine belga, dal nome della figlia segreta di François Mitterrand - spesso quando uscivano mi portavano con loro, al rientro, se mi ero addormentata, era lui che mi riportava in braccio a casa». Nel 1976 Sybille decide di trasferirsi a Londra, dove Delphine studia alla prestigiosa Chelsea School of Art. Alberto le chiama ogni giorno, le va trovare. Pensa al divorzio, ne parla al fratello, re Baldovino, ma poi rinuncia. Nell' 84, lui e Paola, fino ad allora praticamente separati a palazzo, si ritrovano. Alberto rompe quasi completamente i contatti con la seconda famiglia.

LA RIVELAZIONE. Nel 93 diventa re. Delphine fa la sua vita, diventa un' artista riconosciuta, ha due figli. Nel 99, una biografia di Paola di Liegi scritta da un giornalista 18enne fiammingo, Mario Daneels, rivela per la prima volta al pubblico l' esistenza della figlia segreta del re. Delphine chiama il padre, ma lui rifiuta qualsiasi contatto: «Non sei mia figlia», le dice. Rifiuta anche di aiutarla quando Sybille viene ricoverata per problemi cardiaci. Per Delphine è l' inizio di una battaglia: «Per la verità, per nient' altro. Non volevo certo che qualcuno mi chiamasse Sua Altezza reale, volevo solo essere sorella di mia sorella e dei miei fratelli, volevo avere il diritto di esistere».

Irene Soave per corriere.it il 12 settembre 2020. A Delphine Boël, 52 anni, ci sono voluti vent’anni di dichiarazioni stampa e sei di tribunale culminati in un test del Dna (cui il re ha accettato di sottoporsi, l’autunno scorso, solo perché il giudice gli aveva imposto una multa di 5 mila euro per ogni giorno in cui avesse perseverato nel rifiuto). Ma alla fine Alberto II del Belgio — 85 anni, 4 bypass — ha dovuto riconoscerlo: la gentildonna, e sedicente «artista d’avanguardia», è sua figlia, frutto di una relazione extraconiugale durata 18 anni con la baronessa Sybille de Selys Longchamps. Come tale, ha diritto a un ottavo della sua eredità. «Non lo faccio per i soldi», ha detto Delphine Boël a ogni udienza (e c’era da crederle, il gentiluomo Jacques Boël che le ha fatto da padre è un industriale ben più ricco del re). «Né per i titoli nobiliari. Ma solo perché la verità non si perda». Ieri però ha alzato la posta. L’avvocato che la segue da anni, Marc Uyttendaele, ha chiesto ieri in tribunale per lei un posto nella linea di successione accanto ai fratelli Philippe, Astrid, Laurent. E, naturalmente, il titolo: principessa. «Non è che li voglia o non li voglia. Delphine non vuol essere una figlia a prezzo ridotto, ma desidera gli stessi privilegi, titoli e prerogative dei fratelli». I legali di Alberto rispondono che solo un decreto reale, mai un giudice, può investire una principessa. Il clima gelido fra Delphine e il padre autorizza a disperarne. La loro telenovela giudiziaria va avanti in tribunale dal 2013, e per alcuni ha avuto un peso nell’abdicazione di lui, che per «salute malferma» ha lasciato la corona al figlio Filippo proprio quell’anno. Ma i pettegolezzi sono iniziati ben prima. Quando nel 1993 Alberto fu costretto a succedere al fratello Baldovino, morto a 63 anni senza eredi, dovette porre fine a una vita dorata a base di feste, yacht e modelle. Di questo periodo gli era rimasta Delphine, nata nel 1968, quando lui già da 9 anni era sposato con Paola Ruffo di Calabria e avevano già i loro tre figli. Privatamente, raccontano gli avvocati di Delphine, l’aveva riconosciuta. Ma se per un principe scapigliato una figlia extra-moenia era un’intemperanza, per un re era inaccettabile, e Alberto tagliò i ponti. Per i pettegoli di corte il casus belli dell’ostilità di Delphine (e Sybille) fu allora, e fu da Bella Addormentata: all’incoronazione lui nemmeno le invitò. Poi nel 1999 un diciottenne, Mario Danneels, scrisse una biografia della regina, Paola dalla dolce vita al trono. Intervistò parenti, dignitari e nemici, e il segreto di Pulcinella deflagrò. Da Alberto II nessun commento. Nel discorso di Natale, quell’anno, accenna solo a un’antica «crisi fra me e la Regina». Nel 2005 Delphine racconta a una tv francese di essere «certamente» figlia del re belga. A giugno 2013 lei lo cita in giudizio: lui ha l’immunità reale, lei spera di rivalersi sugli altri figli. Ma a luglio Alberto abdica e parte un processo. Anche mediatico: il giorno stesso dell’abdicazione la baronessa Sybille va in tv e vuota il sacco. Una liaison durata dal 1966 al 1984 (il re ha sempre negato); la gravidanza inattesa — «Mi credevo sterile» — nel 1969; le promesse del re di divorziare, rimangiate per ragion di Stato. Sembra un romanzo d’appendice, però è cronaca giudiziaria: la pronuncia della Corte d’Appello sulle pretese avanzate oggi dalla gentildonna è attesa per il 29 ottobre.

 Enrica Roddolo per il “Corriere della Sera” il 3 ottobre 2020. Una favola contemporanea, scritta in tribunale però. La favola di Delphine Boël, principessa del Belgio, per decisione della corte d'appello di Bruxelles che ha attribuito alla figlia «illegittima» dell'ex del re Alberto titoli e prerogative reali. E stirpe di principi saranno pure i suoi figli, Josephine e Oscar. Delphine come i figli nati dalle nozze di Alberto e Paola Ruffo di Calabria nel 1959: Laurent, Astrid e Philippe, l'attuale re. «Una vittoria giudiziale non rimpiazzerà mai l'amore vero di un padre, ma assicura giustizia», dicono i legali di Delphine, 52 anni, rinata principessa. A proposito: a Sua Altezza Reale la principessa del Belgio, non spetterà alcun appannaggio, ma l'ex re pagherà i 3,4 milioni di euro di spese legali, per il giornale De Standaard. Il conto della lunga battaglia dell'artista. Nel 2005 Delphine ha dichiarato di essere sua figlia ma l'azione legale è partita solo dopo l'abdicazione del re costretto alla prova del Dna: il tribunale gli intimò una multa di 5 mila euro per ogni giorno di ritardo del test. «Pensavo di non poter avere figli, non prendevamo precauzioni...è stato un periodo bellissimo, Alberto (allora solo principe di Liegi, ndr ) pur non essendo la figura paterna ufficiale era dolce con lei», disse anni fa la madre di Delphine, baronessa Sybille de Selys Longchamps del legame con il re dal 1966 al 1984. Le nozze della Dolce Vita, i fiori d'arancio di Alberto e della bellissima italiana Paola avevano consegnato al mondo l'immagine da rotocalco di una coppia felice, vitale per un Paese storicamente diviso: «Ci sono poche cose che uniscono quanto un re, un Paese diviso come il Belgio, tra fiamminghi e valloni», ha scritto Jeremy Paxman nel suo «On Royalty». Tanto più che il percorso del Belgio, nel dopoguerra, fu travagliato: Leopoldo, padre di Alberto, messo in discussione per le scelte durante l'occupazione, nel 1951 abdicò a favore del primogenito Baldovino che sarà re dei Belgi con Fabiola fino al 1993, al regno di Alberto e Paola. Le prime voci di una figlia illegittima circolarono su una rivista satirica, e riemersero poi in una biografia reale. Si pensò anche a pettegolezzi diffusi da sostenitori dell'indipendenza fiamminga per imbarazzare la monarchia. Finché nel 1999 il re confessò una «lunga crisi coniugale, poi superata». Ora Delphine non è più solo il frutto della crisi, ma principessa di Saxe-Coburgo Gotha. «La famiglia reale belga è imparentata solo alla lontana con quella britannica - dice al Corriere da Londra lo storico Hugo Vickers -. Ma in ogni caso sì, Delphine ora è imparentata anche con Elisabetta II, ma in fondo per diritto di sangue lo era già».

La moglie tradita e il test del dna. Il nuovo "ricatto" della principessa. Il casato regnante del Belgio potrebbe annoverare presto una nuova principessa tra le sue fila, ma non grazie a una prossima nascita, bensì come risultato di una battaglia legale che ha visto fronteggiarsi l’ex re Alberto del Belgio e la non più presunta figlia Delphine Boёl. Francesca Rossi, Lunedì 14/09/2020 su Il Giornale. Delphine Boёl ha vinto e ora vuole la ricompensa che le spetta di diritto, ovvero diventare principessa. All’inizio del 2020 la 52enne ha dimostrato in tribunale, grazie all’esame del DNA, di essere la figlia naturale dell’ex re Alberto del Belgio, di 86 anni. Infatti sua madre, la baronessa Sybille de Selys Longchamps fu amante dell’ex sovrano per 18 anni, dal 1966 al 1984, quando Alberto era ancora un principe. La baronessa sostenne che la gravidanza non era stata programmata, al contrario e rivelò in un’intervista: “Pensavo di non poter avere figli perché avevo avuto un’infezione” e aggiunse: “Non avevamo preso alcuna precauzione”. A quanto pare Alberto del Belgio promise a Sybille che avrebbe divorziato da Paola Ruffo di Calabria e l’avrebbe sposata. Non accadde mai. Nel 2013 il monarca abdicò in favore del figlio a causa di problemi di salute e oggi ha il titolo di “re emerito”. Il 2013 è anche l’anno in cui Delphine iniziò la sua battaglia legale per dimostrare di fronte al mondo intero i suoi natali aristocratici. Non è un caso che lo scontro a suon di carte bollate sia iniziato proprio 7 anni fa. Nel momento in cui Alberto del Belgio abdicò, perse anche l’immunità e, dunque, non poté evitare in alcun modo il processo. Come Spiega La Repubblica il 16 maggio 2019 la Corte d’Appello di Bruxelles stabilì che il re Alberto del Belgio avrebbe dovuto sottoporsi all’esame del DNA. Se non lo avesse fatto, gli sarebbe stato imposto di pagare 5mila euro di multa per ogni giorno di rifiuto. Alberto, seppur di malavoglia, dovette acconsentire e poi rendere pubblico l’esito. Le voci sull’esistenza di un presunto, quarto figlio dell’ex sovrano iniziò a circolare quando venne pubblicata una biografia non ufficiale della regina Paola Ruffo di Calabria, nel 1999. Nel 2005 Delphine Boёl dichiarò in un’intervista che il suo padre biologico non era Jacques Boёl, bensì Alberto del Belgio. Nel 2013 tentò anche di disconoscere Jacques, ma il tribunale di Bruxelles ritenne “infondata” la richiesta. Benché il test del DNA avesse dimostrato che non vi era alcun legame di parentela tra i due, davanti alla legge Jacques manteneva il suo ruolo di “padre legale” di Delphine. Fino alla decisione che cambiò le carte in tavola, ovvero il test del DNA anche per Alberto del Belgio. L’ex re ha anche ammesso di essere il padre di Delphine e ora sua figlia chiede gli stessi titoli, gli stessi privilegi e lo stesso trattamento riservato agli altri discendenti e suoi fratellastri, l’attuale re Philippe, i principe Astrid e Laurent. Al momento non sappiamo ancora se le verrà riconosciuta anche quest’altra vittoria e in che modo, se parziale o totale. L’avvocato di Delphine Boёl, Marc Uyttendaele, ha dichiarato: “La questione non è se Delphine voglia o non voglia diventare principessa. Non vuole essere considerata una figlia a ribasso, ma ambisce esattamente agli stessi privilegi, titoli e capacità dei suoi fratelli e di sua sorella”. Lo scorso agosto la donna ha rivelato all’agenzia stampa francese AFP che il riconoscimento della paternità le ha “veramente cambiato la vita” e che fino al 1999 lei si sentiva solo “la discendenza ‘sporca’ di Alberto II”. Se il tribunale concedesse a Delphine Boёl titoli nobiliari e privilegi la sua esistenza cambierebbe ulteriormente, così come quella dei suoi figli. Per questo motivo la questione è tutt’altro che semplice e conclusa. Uyttendaele ha poi rivelato alla tv RTL che la vita di Delphine, prima del riconoscimento, è stata “un lungo incubo a causa di questa ricerca di identità”, mentre l’ammissione del re emerito Alberto del Belgio è stata un “sollievo”. Occorre anche ricordare che, almeno in apparenza, la Boёl non è affatto una Cenerentola moderna che ha dichiarato guerra al re per motivi economici. Il suo padre legale, Jacques Boёl è l’erede di una famiglia di industriali e, secondo quanto riportato da La Repubblica, sarebbe perfino più ricco di Alberto del Belgio. Ora Delphine spera in un riavvicinamento al sovrano emerito e che quest’ultimo lasci da parte la freddezza che ha caratterizzato i loro rapporti in questi anni. Dal canto suo Alberto del Belgio ha sottolineato quella che considera un’ingiusta intromissione nella sua vita privata. L’ultimo capitolo di questa vicenda verrà scritto con la sentenza del prossimo 29 ottobre. Chissà se Alberto e Delphine riusciranno a superare i contrasti e a essere davvero, seppur con un certo ritardo, padre e figlia.

Articolo di Torsten J. Schuster/Story/RvB pubblicato da “Oggi” il 7 settembre 2020. Lady Christa Mayrhofer-Dukor è cugina di Grace Kelly, habitué della Corte monegasca (su cui non lesina rivelazioni) e dei Principi. Insomma, una insider cui chiedere aggiornamenti sul Principato.

Lady Dukor, Alberto è stato davvero contagiato dal corona-virus?

«Sì, e anche se ha superato tutto per ora preferisce non mostrarsi in pubblico, se non per impegni imprescindibili. La vita di tutti è cambiata, inviti, ricevimenti, impegni ufficiali sono ridotti al necessario. Alberto ne soffre, anche se è felice con sua moglie».

Felice? Sembrammo sempre così glaciali, in foto...

«Charlène è terribilmente goffa, ma ha dato ad Alberto un figlio maschio e questa è la ragione per la quale lui l'adora. Senza quel figlio, Montecarlo sarebbe finita e Alberto era molto preoccupato. Charlène ha salvato il Principato. Il piccolino, poi, è delizioso».

Cosa direbbe Grace Kelly di Alberto "succube" della moglie?

«Non penso che Charlène sia una persona buona, anche se è carina con Alberto, che fa tutto quello che dice lei. Prima del matrimonio, ha dovuto sottoporsi a dei test medici per dimostrare di poter procreare. Poi, si sono dati molto da fare, ma è comunque servito altro per assicurare la nascita del figlio maschio. Non voglio scendere in dettagli, dico solo che il fatto che lei abbia accettato tutto questo l'ha fatta diventare speciale per Alberto».

Ma lei cosa pensa di Charlène?

«È una persona un po’ arrogante, non mi va a genio».

Sa se vogliono altri figli?

«Per nessun motivo. Lui voleva il maschio, e poi il parto gemellare è stato difficile, non vorrebbero affrontarlo ancora. Inoltre, se facesse altri figli Alberto avrebbe problemi con le sorelle, visto che i loro perderebbero altre posizioni nell'elenco degli eredi al trono».

Non trova questa storia del figlio maschio un po' medievale?

«Certo. Si deve però considerare che, nella dinastia monegasca, alcune generazioni fa, sul trono di Montecarlo ci furono alcune donne terribili. Per questo motivo, poi, si scelse di prevedere solo uomini sul trono».

Charlène pare un tipo molto distante da Grace.

«Assolutamente. Certo non è brutta, ma Grace era un'altra cosa: aveva carisma, era elegante, gentile, fantastica, tutti erano ai suoi piedi. Un po' ci somigliamo. Charlène e Grace non sono paragonabili. Ma forse dovrei tacere: Alberto è felice con lei».

Christa, è vero che lei si rivolge ad Alberto con "mio Principe"?

«Sì, ai miei occhi lui è il mio principe, da quando era un bambino incredibilmente carino. Quel titolo gli sta a pennello».

Prima delle nozze lui ha avuto una vita amorosa vivace. Eppure sembra un tipo un po' noioso...

«Sa essere incantevole e dà sempre l'impressione di interessarsi davvero alle donne che frequenta, le fa sentire le più importanti per lui. Ma prima.di Charlène nessuna era stata disponibile a prestarsi al "circo" che è la vita di Alberto. Poi è arrivata la Wittstock, che si dichiarò ben disposta alla maternità e questo lo colpì. Quanto alla noia... Certamente Alberto non è estroverso, istrionico. Ma sa essere divertente con chi gli è accanto».

Alberto ha riconosciuto due figli illegittimi e ce ne sarebbe un'altra, quindicenne, avuta da una ragazza brasiliana.

«Credo che riceverà un po' di soldi e con questo si chiuderà la storia».

La principessa Caroline è sparita quasi del tutto. Perché?

«Sono tempi difficili per il coronavirus. Dall'inizio dell'epidemia la famiglia di Montecarlo non esce quasi più. E preferiscono stare a casa, o isolati in barca, per non essere fotografati con la mascherina. Fossi in Caroline farei lo stesso».

Lei ha conosciuto Ernst August von Hannover? Sembra violento e di recente è finito in una clinica psichiatrica.

(respira profondamente) «Le voci che lo vogliono alcolizzato sono vere perché ogni volta. quando è ubriaco, perde il controllo e picchia la gente in giro. Lo conosco. È arrogante. O semplicemente un uomo infelice».

Come ha potuto Caroline, così elegante, sposarlo?

«C'è solo una risposta: Montecarlo. Non poteva sposare uno qualunque, doveva essere un nobile di alto rango, con una montagna di soldi. Caroline sapeva di non potersi presentare con un piccolo nobile qualsiasi».

Ma sapeva anche che non sarebbe mai stata felice con lui.

«Non aveva scelta. Ernst è l'erede dell'ex casa reale degli Hannover. Non era importante fosse bello, doveva essere nobile. Dopo una certa età, la posizione del marito è importante».

Quindi non c'era amore?

«Forse un po', non credo certo che lei provasse orrore per lui. Ma da quando è separata sembra felice».

Anche lei, Christa, è stata, diciamo così, molto attenta al rango dei suoi mariti...

«Il primo era un avvocato. Mia figlia e io abbiamo pianto tanto quando è morto, era delizioso. Pensavo non mi sarei mai più sposata. Il mio secondo marito era Karl Wlaschek, fondatore della catena austriaca dei supermercati Billa. Aveva 22 anni più di me, è stato un matrimonio fantastico. Mi aveva sposata per la mia parentela con Grace. Mi ha fatto a lungo la corte e quando ho saputo che era il terzo uomo più ricco d'Austria, l'ho sposato. Quando è morto, nel 2015, mi ha lasciato un po' di soldi (si parla di circa 3 milioni di euro, ndr). Dopo, non volevo un altro marito, ma poi è entrato nella mia vita il professor Dukor, di tre anni più grande di me, un aspetto fantastico, un uomo da sogno. Tutte mi invidiavano. Purtroppo anche lui è morto».

Però non sembrano matrimoni d'amore.

«Non lo sono neanche a Monaco. Quando Charlène ha saputo di dover sottostare a controlli medici prima di essere sposata, fu chiaro anche a lei che Alberto non la sposava per amore. Così è la vita in quei ranghi. Charlène voleva diventare la moglie del reggente di Monaco e si è buttata su questo obiettivo come un avvoltoio. Ma parlare di "affari" è esagerato. Alberto e Charlène si piacevano, anche se lei per Alberto non era il grande amore».

 La Storia, il Potere, i re e... Cromwell. Hilary Mantel racconta l'ascesa e la caduta del braccio destro di Enrico VIII Tudor. Hilary Mantel, Giovedì 29/10/2020 su Il Giornale. 

Rovine (I) Londra, maggio 1536. Mozzata la testa alla regina, se ne va. Il morso dell'appetito gli rammenta che è ora di una seconda colazione o magari di un pranzo anticipato. Le circostanze di questa mattina sono inedite e non ci sono regole a guidarci. I testimoni, che al trapasso dell'anima si sono inginocchiati, si alzano e si rimettono il cappello. Sotto le falde, i volti sono sbigottiti. Poi però torna sui suoi passi, per ringraziare il boia. Ha eseguito il suo compito con stile; e sebbene il re lo abbia ben retribuito, è importante ricompensare un buon servizio con un incentivo e una gratifica in denaro. Lui, che è stato povero, lo sa per esperienza. L'esile corpo giace sul patibolo nel punto in cui è caduto: prono, le mani distese, nuota in una pozza color cremisi mentre il sangue cola fra le tavole. Il francese hanno fatto venire il boia da Calais aveva raccolto la testa, l'aveva avvolta in un telo di lino e l'aveva porta a una delle donne velate, rimaste accanto ad Anna negli ultimi momenti. La donna aveva preso il fardello rabbrividendo da capo a piedi. Eppure l'aveva tenuto saldamente, e una testa pesa più di quanto ci si aspetti. Lui, che ha combattuto in guerra, sa anche questo. Le donne si sono comportate bene. Anna sarebbe stata fiera di loro. Non permettono che venga toccata dagli uomini; con i palmi protesi costringono ad allontanarsi chiunque tenti di aiutarle. Scivolando nel sangue, si chinano sul corpicino inerte. Le sente trattenere il fiato mentre sollevano quel che resta di lei, tenendola per le vesti; temono che la stoffa si strappi e le dita sfiorino la carne, che già comincia a raffreddarsi. Ciascuna ha cura di non calpestare il cuscino fradicio di sangue dove la regina era inginocchiata. Con la coda dell'occhio, vede passare una presenza, un uomo snello, con il corpetto di cuoio, che fugge via. È Francis Bryan, un solerte cortigiano, che corre ad annunciare a Enrico la ritrovata libertà. Conta pure su Francis, pensa lui: è un cugino della defunta regina ma anche gli sovviene adesso di quella che verrà. Al posto della bara i funzionari della Torre hanno trovato una cassa di frecce. Il corpo è piccolo e ci sta. La donna che tiene la testa si genuflette stringendo il fradicio fagotto e, non essendovi altro posto, lo sistema ai piedi del cadavere. Si alza facendosi il segno della croce. Le mani dei presenti si muovono imitandola e si muove anche la sua; ma poi la ferma, stringendo appena il pugno. Le donne la guardano per l'ultima volta. Poi si allontanano con le mani discoste per non sporcare gli abiti. Uno degli uomini di Kingston, il luogotenente della Torre, tende degli asciugamani di lino troppo tardi perché siano di qualche utilità. Questa gente è da non credere, dice lui al francese. Giorni e giorni che preparano, e neanche una bara? Sapevano che sarebbe morta, dubbi non potevano averne. «Forse invece sì, Maître Cremuel». (I francesi non riescono mai a pronunciare il suo nome). «Forse ne avevano, perché la signora stessa, io credo, pensava che il re avrebbe mandato un messaggero a fermare l'esecuzione. Perfino salendo i gradini s'è voltata a guardare, l'avete vista?». «Il re non pensava certo a lei. La sua mente è tutta per la nuova sposa». «Alors, forse questa volta avrà miglior fortuna», dice il francese. «Dobbiamo sperarlo. Se sarò costretto a tornare, il mio onorario aumenterà». Poi si gira e comincia a pulire la spada. Lo fa amorevolmente, come se gli fosse amica. «Acciaio di Toledo». Gliela mostra, per fargliela ammirare. «Per avere una lama come questa dobbiamo ancora rivolgerci agli spagnoli». Lui, Cromwell, tocca il metallo con un dito. A guardarlo adesso, non direste mai che suo padre era un fabbro ferraio; ha familiarità con il ferro e l'acciaio, con ogni materiale estratto dalla terra e forgiato, colato e battuto, reso a filo tagliente. Sulla lama del carnefice sono incise la corona di spine di Cristo e le parole di una preghiera. Ora gli spettatori se ne vanno, cortigiani, aldermanni e funzionari comunali, grumi di uomini in seta e catene d'oro, con la livrea dei Tudor e le insegne delle corporazioni di Londra. Decine e decine di testimoni, e nessuno che saprebbe dire con certezza cos'ha visto; capiscono che la regina è morta, ma tutto è accaduto troppo in fretta per poter comprendere. «Non ha sofferto, Cromwell», dice Charles Brandon. «Magari avreste preferito il contrario, Lord Suffolk». Brandon gli ripugna. Mentre gli altri testimoni s'inginocchiavano, il duca era rimasto rigido sulle gambe; odiava talmente la regina da non concederle neppure quella cortesia. La rivede avanzare incerta verso il patibolo: lo sguardo, come dice il francese, rivolto alle sue spalle. Anche mentre pronunciava le ultime parole, mentre chiedeva di pregare per il re, sbirciava oltre le teste della folla. Eppure non ha consentito alla speranza di fiaccarla. Poche donne riescono a mostrarsi così risolute nell'ora estrema, e non molti uomini. Si è accorto che tremava un poco, ma solo dopo l'ultima preghiera. Non c'era il ceppo, il boia di Calais non l'ha usato. Le è stato chiesto di inginocchiarsi con la schiena dritta, senza alcun appoggio. Una delle donne le ha legato la benda sugli occhi. La regina non ha visto la spada, neppure la sua ombra, e la lama le ha attraversato il collo con un sospiro, più rapida delle forbici nella seta. Tutti noi be', quasi tutti, a parte Brandon ci rammarichiamo di essere arrivati a tanto. Ora la cassa di olmo viene portata nella cappella, dove sono state alzate le lastre tombali, perché Anna possa giacere accanto al cadavere di George Bolena, suo fratello. «Hanno condiviso il letto da vivi», dice Brandon, «dunque è giusto che condividano la tomba. Vedremo se si piaceranno ancora». «Venite, Segretario Particolare», dice il luogotenente della Torre. «Ho fatto preparare uno spuntino, se vorrete degnarmi di questo onore. Oggi ci siamo alzati tutti presto». «Riuscite a mangiare, signore?». È la prima volta che suo figlio Gregory vede morire qualcuno. «Dobbiamo lavorare per mangiare», dice Kingston, «e mangiare per lavorare. Che può cavare il re da un servo negligente, che in pancia non ha neanche un tozzo di pane?». «Negligente», ripete Gregory. Di recente è stato mandato a imparare l'arte di parlare in pubblico e il risultato è che, sebbene gli manchi ancora quella padronanza necessaria alla dovizia retorica, ha sviluppato più interesse per le singole parole. A volte sembra che le trattenga per esaminarle. A volte che le punzecchi con un bastone. A volte, e il paragone è inevitabile, che le avvicini con l'interesse di un cane, che scodinzola fiutando la merda di un suo simile. «Sir William», chiede al luogotenente, «era mai stata giustiziata una regina d'Inghilterra?». «Non che io sappia», risponde l'altro. «O quantomeno, giovanotto, non da quando sono in servizio». «Capisco», dice lui: lui, Cromwell. «Dunque gli errori commessi negli ultimi giorni sono dovuti alla vostra mancanza d'esperienza? Non riuscite a far qualcosa per la prima volta e a farla bene?». Kingston scoppia a ridere di cuore. Avrà pensato che era una battuta. «Vedete, Lord Suffolk», dice rivolto a Charles Brandon. «Cromwell sostiene che ho bisogno di tagliare qualche testa in più». Non ho detto questo, pensa lui. «È stata una fortuna trovare quella cassa per le frecce». «Io l'avrei messa in un letamaio», ribatte Brandon, «e il fratello sotto. E avrei fatto assistere il padre. Non so che cosa abbiate nella testa, Cromwell. Perché lo avete lasciato vivere, col rischio che ci possa recare danno?». Si volta verso Brandon, adirato; l'ira è un sentimento che finge spesso. «Lord Suffolk, voi stesso avete offeso molte volte il re, per poi chiedere perdono in ginocchio. E poiché siete quello che siete, non dubito che tornerete a offenderlo. E dunque? Volete un re che sia completamente estraneo al concetto di clemenza? Se lo amate come sostenete, badate un poco alla sua anima. Un giorno si troverà al cospetto di Dio per rispondere di ogni suo suddito. Se dico che Tomaso Bolena non è un pericolo per il regno, non lo è. Se dico che vivrà ritirato, così sarà». Traduzione dall'inglese di Giuseppina Oneto e Stefano Tummolini.

Elisabetta II fa i conti col passato schiavista: Kensington nel mirino.  Luigi Ippolito su Il Corriere della Sera il 28/10/2020. Neppure i palazzi reali sfuggono alla furia del revisionismo storico che spazza la Gran Bretagna: da Kensington Palace a Hampton Court, il passato delle residenze della regina verrà messo sotto la lente per portarne alla luce i legami nascosti con il retaggio schiavista. È un esame di coscienza che arriva sull’onda del «Black Lives Matter», il movimento anti-razzista partito dagli Stati Uniti e sbarcato con furore da questa parte dell’Atlantico: una spinta che ha portato all’abbattimento di statue legate al commercio degli schiavi ma anche alla messa in discussione di personaggi storici che sembravano intoccabili, dall’ammiraglio Nelson al filosofo David Hume. Ora tocca ai palazzi reali: lo ha annunciato in una intervista al Times Lucy Worsley, la curatrice di Historic Royal Palaces, l’ente che si occupa delle residenze della monarchia. Tutte le proprietà che risalgono alla dinastia Stuart, ha spiegato, «contengono un elemento di denaro derivato dalla schiavitù»: dunque un esame critico del loro passato è più che dovuto. Non che ci si proponga di abbatterli o di chiuderli: ma si vuole inquadrarli nel contesto che li ha originati, senza glissare sugli aspetti più controversi: «La Gran Bretagna è brava a mettere da parte il lato più impegnativo della storia», ha commentato amara Lucy Worsley. Gli Stuart erano strettamente legati al commercio degli schiavi in quanto re Carlo II diede il sigillo reale alla Royal African Company, che detenne il monopolio della tratta degli schiavi fino al 1698 e continuò a praticarla fino al 1731: e fra i membri della Royal African Company c’era il fratello di Carlo II, che poi salì a sua volta al trono come Giacomo II. Il commercio degli schiavi venne bandito in Gran Bretagna solo nel 1807, ma si dovette attendere fino al 1834 per abolire la schiavitù. Lo scoperchiamento degli scheletri negli armadi dei palazzi reali fa seguito a un rapporto del National Trust, l’ente che si occupa del patrimonio culturale britannico, che aveva appurato come una terzo delle sue proprietà, fra cui anche Chartwell, la residenza di Winston Churchill nel Kent, fossero legate «al ruolo talvolta scomodo che la Gran Bretagna ha giocato nella storia globale». Ma adesso nel mirino dell’indagine di Lucy Worsley c’è soprattutto Kensington Palace, una delle residenze più amate dai reali, dai londinesi e dai turisti: qui abitano William e Kate — e fino all’anno scorso anche Harry e Meghan — e qui teneva corte la principessa Margaret, la sorella ribelle di Elisabetta. Purtroppo il palazzo venne acquistato e rimodellato da re Guglielmo III, che aveva ricevuto dal mercante di schiavi Edward Colston azioni della Royal African Company: dunque quelle stanze sono state in parte costruite sul sangue degli schiavi. E così Hampton Court, la reggia di Enrico VIII fuori Londra, pure venne ricostruita da Guglielmo III grazie a proventi sospetti.

Caterina Belloni per “la Verità” il 21 ottobre 2020. Nome, età, indirizzo, titolo di studio, caratteristiche della casa in cui si abita, mezzi usati per recarsi al lavoro. In un censimento nazionale rientrano tutti questi elementi, ma alla raccolta dati del Regno Unito presto sarà aggiunto un quesito in più: le preferenze sessuali. Ai sudditi di Sua Maestà Elisabetta verrà chiesto infatti di precisare quale opzione descrive meglio il loro orientamento sessuale, indicando tra alcune possibilità: eterosessuale, gay o lesbica, bisessuale, transessuale o con un diverso orientamento sessuale, che però va precisato per iscritto. Una domanda decisamente intima, che sarà rivolta a tutti i cittadini che hanno compiuto 16 anni, all'interno del Censimento previsto in primavera. Chi non se la sente potrà evitare di dare la risposta, ma probabilmente non verrà visto di buon occhio, visto che la raccolta dei dati personali da questa parte della Manica è una faccenda più che seria. Viene realizzata dall'Istituto nazionale di statistica ogni dieci anni sin dal 1801, è obbligatoria per legge e quindi prevede per chi non restituisce il questionario compilato una multa che arriva anche a mille sterline. Ragion per cui l'adesione è sempre molto alta, come dimostra il fatto che dieci anni fa il 94 per cento dei cittadini ha completato il modulo e l'ha restituito nei tempi previsti. A spingere l'Istituto di statistica ad inserire una domanda tanto «delicata» è stato il desiderio di raccogliere maggiori informazioni sulle inclinazioni dei britannici, in modo che Governo, istituzioni pubbliche e associazioni abbiano un quadro il più possibile preciso del territorio e dei suoi bisogni e possano programmare interventi mirati. Come ha spiegato chiaramente Iain Bell, responsabile del progetto: «Senza dati precisi sulle dimensioni della comunità Lgbt a livello nazionale e locale, chi prende le decisioni deve agire alla cieca, privo di informazioni sulla natura dei problemi che queste persone vivono in termini di salute, di educazione, di impiego». Per il momento la Gran Bretagna ha delle stime sull'orientamento sessuale a livello nazionale e regionale, ma secondo Bell un censimento dettagliato consentirebbe di fornire alle autorità locali e centrali un quadro migliore. La sua spiegazione ha convinto anche Nancy Kelley, direttore esecutivo dell'associazione di volontariato Stonewall, che si batte per i diritti della comunità Lgbt. «Da sempre gay, lesbiche, bisessuali e transessuali stanno in incognito e proprio questa mancanza di visibilità ha limitato la possibilità di offrire loro supporto e garanzie» ha dichiarato parlando alla stampa. Con britannico aplomb, insomma, nessuno fa polemica all'idea che la gente venga costretta a confessare quali siano le sue inclinazioni sessuali nel censimento del 2021, che costerà allo Stato qualcosa come 906 milioni di sterline (poco meno di un miliardo di euro) e coinvolgerà 30.000 operatori almeno. Se venisse fatta in Italia probabilmente la stessa richiesta susciterebbe reazioni indignate e anche il sospetto che si tratti di uno stratagemma per mappare alcune categorie. Pratica del resto diffusa pure in Gran Bretagna, come dimostra un episodio del 2016. All'epoca sui moduli di iscrizione delle scuole di Londra alle famiglie italiane era stato chiesto di precisare se i loro figli fossero «italiani», «italiani-siciliani» o «italiani-napoletani». Una domanda assurda, accolta come una forma di discriminazione. E contro la quale si era mobilitato anche Pasquale Terracciano, allora ambasciatore italiano in Uk.

Andrea Tomasi per vanityfair.it il 18 settembre 2020. Mille e passa anni di re, regine e varia nobiltà prima che qualcuno alzasse la mano e dichiarasse di voler vivere liberamente la propria omosessualità. Il coming out che Ivar Mountbatten fece due anni fa ha rappresentato senza dubbio un punto di svolta nella storia della monarchia britannica, che si appresta a celebrare quest’estate le sue prime nozze arcobaleno, quelle che vedranno appunto Ivar dire sì al fidanzato James Coyle, amore nato sulle piste di Verbier e così forte da buttar giù il muro dell’ipocrisia. Storia, quella della corona inglese, tuttavia non sgombra di precedenti più o meno documentati, relazioni a diversa gradazione di pericolosità che hanno tenuto banco nei pub e sulle pagine dei tabloid, ancora prima nelle cronache di storici pettegoli e non, nelle novelle e nei canti popolari. Un susseguirsi di nomi che tira dentro eredi al trono e sovrani celeberrimi, altri monarchi appannati dal tempo e figure minori, che spesso si ricordano proprio per quei gossip su gusti e inclinazioni privatissimi. Prendete Edoardo, quartogenito di Elisabetta II, esile figura schiacciata dai fratelli e dalle rispettive malefatte amorose, principino gentile che sui giornali degli Anni 80 tutti presi a parlare di Diana e Sarah faceva notizia per l’assenza di fidanzate, per il carattere mite e la timidezza estrema, per quella passione per il teatro e lo spettacolo nella quale in tanti lessero indizi inequivocabili. “È gay?”, si chiedevano stampa e popolo, domanda che a un certo punto fu posta direttamente alla sposa prescelta, quella Sophie Rhys-Jones saltata fuori in piena crisi post mortem di Diana. «Assolutamente no, Edoardo paga il pregiudizio: chissà perché se un uomo è appassionato d’arte deve per forza di cose essere omosessuale», rispose la prima donna a comparire al fianco del principe. Ineccepibile annotazione che però, nonostante la nascita di due figli, non ha mai messo a tacere il dubbio, figlio sì più del pregiudizio che di indizi concreti. Più strutturato il sospetto che avvolge il fratello di Edoardo, Carlo. Già, proprio lui, il marito traditore, per la patria il marito infame, non avrebbe in passato disdegnato la compagnia maschile. Anzi, in giovane età ma non solo, il futuro re si sarebbe circondato di collaboratori preferibilmente gay, su tutti quel Michael Fawcett fidatissimo che sua altezza reale è stato costretto a liquidare sull’onda di uno scandalo sessuale piuttosto rognoso, l’accusa di aver violentato un giovane paggio dopo il diniego di questi. Paggio che, tra le varie accuse lanciate e giudicate da diverse corti frutto di una mente instabile, a un certo punto affermò che il rapporto tra Fawcett e Carlo non era solo professionale: oltre a stendere il dentifricio sullo spazzolino del principe, Michael stendeva se stesso nel letto di sua altezza.  «Li sorpresi una mattina, quando portai la colazione in camera a Carlo», raccontò George Smith, poi morto in circostanze mai chiarite a soli 44 anni. Un’accusa, quella della doppia vita di Carlo, rilanciata in tempi recenti dal settimanale americano The Globe, certo non tra le testate più attendibili, che sgranò in copertina una foto piuttosto confusa del principe assieme a un giovane aiutante. “The kiss”, il titolo scritto sotto, richiamo forse a quello leggendario di Diana e Dodi rubato da Mario Brenna in un pomeriggio sardo d’estate. Un bacio che ci vuole una certa fantasia a vederlo per davvero, con certezza non una prova. Sono invece alcune lettere, frasi scritte nere su bianco, a raccontare la tenera amicizia che legò in giovane età la principessa Margaret, scalmanata sorella di sua maestà, alla figlia dell’ambasciatore americano a Londra Lewis Douglas. Impossibilitata a ricevere a corte dei baldi giovani, e sicura di non incorrere in sconvenienti incidenti di percorso, la sessualmente vorace Margaret avrebbe esplorato le prime gioie del corpo assieme alla quasi coetanea Sharman, le cui tendenze omosessuali sarebbero poi divenute famose nei decenni a venire. Ben due anni di relazione prima dell’entrata in scena di Peter Townsend, l’uomo sposato per il quale Margaret perse la testa, nonché fonte dello scontro con Elisabetta che molto avrebbe pregiudicato il loro rapporto. «Se Margaret e Sharman sono state amanti? Non lo so, non ho elementi per dirlo», disse decenni dopo in un’intervista Anthony Armstrong Jones, marito di Margaret che nella Swinging London degli Anni 60 non si premurò poi molto di nascondere la propria bisessualità, elemento che avrebbe spinto Elisabetta a dissuadere la sorella dalle nozze se solo non le avesse negato pochi mesi prima il “sì” a sposare Townsend. Bisessuali, ma per diversi storici più omo che etero, sarebbero stati anche il duca di Kent, quinto figlio di re Giorgio V nonché zio di Elisabetta, e lord Mountbatten, cugino dei Windsor, ultimo viceré d’India ma soprattutto figura di assoluto riferimento per Carlo, il suo mentore. Entrambi regolarmente sposati – George con la carismatica ed elegantissima Marina di Grecia, Mountbatten con la rampantissima Edwina Ashley – i due uomini tenevano banco nel chiacchiericcio dei club per veri gentlemen a causa dei proibiti passatempi. Il duca di Kent era talmente chiacchierato, anche per via di un certo vizietto per le droghe, che quando morì nel 1942 in un incidente aereo si fece subito strada la teoria complottista dei servizi segreti che si erano sbarazzati di un elemento di eccessivo imbarazzo per la corona. In quanto a Mountbatten, in molti si riferivano a lui usando sprezzanti il soprannome Mountbottom, gioco di parole che alludeva al ruolo sessuale prediletto dall’illustrissimo viceré, nomignolo nato, si dice, durante le ripetute frequentazioni delle basi della Marina, anni spregiudicati quelli indiani nel corso dei quali anche Edwina non mancò di dare scandalo, su tutti con Jawaharlal Nehru, l’uomo che nel 1947 sarebbe diventato il primo ministro dell’India libera. E c’è una foto di Mountbatten nella quale traspare il legame speciale con il cugino David, poi diventato re Edoardo VIII, l’uomo che per amore di Wallis Simpson rinunciò al trono e provocò una crisi istituzionale con pochi precedenti. Amore indiscutibile e a tratti eroticissimo – mamma Mary era convinta che la pluridivorziata Wallis tenesse in pugno David grazie a pratiche imparate nei bordelli di Shangai – che tuttavia non sopì del tutto l’altra parte del principe, colui che a 18 anni diede disposizione affinché “Lord Mountbatten mi segua in ogni viaggio e occupi una camera comunicante con la mia ovunque ci troviamo”. I due fecero insieme il giro delle colonie, mesi e mesi sempre insieme, mai una donna al loro fianco. Sino a quella tappa a Delhi dove Mountbatten conobbe Edwina e lì decise di fermarsi. Al suo posto comparve allora Edward Metcalfe, ufficialmente responsabile dei cavalli del principe ma di fatto sua ombra, l’uomo a cui scrivere lettere piene d’affetto che Metcalfe perderà durante un viaggio a New York e che salteranno misteriosamente fuori solo dopo il 1972, anno in cui David morì a Parigi accanto alla sua Wallis. La quale, nel 1950, aveva aperto le porte di casa, e della loro intimità, all’eccentrico miliardario americano Jimmy Donahue, gay dichiarato e ben presto inseparabile compagno dei duchi di Windsor. Edoardo VIII non è tuttavia l’unico sovrano bisessuale a essersi seduto sul trono d’Inghilterra. Di almeno altri otto vi sono testimonianze e frammenti scritti che raccontano di baci rubati e sotterfugi per vedersi, passioni indicibili e in alcuni casi sopite con la violenza. La regina Anna, moglie devota e madre sfortunata – rimase incinta diciassette volte, ma nessuno dei suoi figli le è sopravvissuto – dopo la morte del marito divenne inseparabile da Sarah Churchill, da lei trattata come sua pari persino di fronte a una corte allibita. Un cambio di prospettiva dopo la vedovanza pure per Guglielmo d’Orange, che sepolta la moglie Mary, morta di vaiolo, si legò a due nobili olandesi: le voci in merito a tali relazioni si fecero così chiassose da spingere il sovrano a una presa di posizione ufficiale in cui descrisse il rapporto scevro da qualunque implicazione carnale. “Amo in modo naturale la tua persona, e adoro tutte le altre tue parti”, scrive non senza malizia Giacomo I a George Villiers, da lui promosso Conte di Somerset nonostante non così nobili natali. Un’amicizia preceduta da un’altra passione cocente, quella per il cugino Esme Stuart di 24 anni più grande: “Già all’età di 13 anni sua altezza non perdeva occasione per mettergli le braccia intorno al collo e baciarlo”, scrive uno storico del tempo e c’è da credergli, visto che le spoglie mortali del sovrano riposano dentro Westminster Abbey tra quelle di George ed Esme. “Dopo il re, finalmente abbiamo una regina”, pare fossero soliti brindare in tono canzonatorio i sudditi di Giacomo I. Il re in questione, tuttavia, era una donna, Elisabetta I, sulla cui sessualità sono state scritte decine di libri: maschio, femmina, vergine, ninfomane, persino ermafrodita stando alle più ardite ipotesi. “Bellissimo ed effemminato” viene invece perpetuato ai posteri Riccardo II, “che la sera si tratteneva in serate alcoliche con i militari pronte a concludersi in innominabili eccessi”. “Avvezzo a ogni vizio, specialmente alla sodomia” era anche Guglielmo II, sempre a dar credito a chi rilesse i suoi 13 anni di regno caratterizzati dall’assenza a corte di donne: sua maestà rifiutò di prendere moglie, non ebbe amanti né figli illegittimi, ma di contro riempì i palazzi di baldi giovanotti invitati a farsi crescere i capelli (alla sua morte nel 1100, il primo ordine di Enrico I, il fratello succedutogli, fu che tutti gli uomini a corte si rasassero). Confessò pubblicamente di aver commesso “atti impuri con altri uomini” l’eroico Riccardo Cuor di Leone, la cui abitudine di condividere tutto con il giovanissimo re di Francia Filippo II, compreso il letto la notte, ha fatto lungamente discutere e litigare gli studiosi. John Gillingham, nell’ultima biografia dedicata al leggendario sovrano, sostiene che il fatto di dormire insieme fosse solo un atto politico di fiducia estrema, un modo per sancire quell’alleanza che avrebbe portato l’allora duca di Aquitania a prendersi il trono del padre Enrico II. Per tanti altri, invece, i due si amarono di un amore travolgente e fisico, per altro comprensibile visto che Riccardo viene narrato come uno splendore biondo dagli occhi di ghiaccio, il tutto per un metro e 95 di altezza. Decisamente meno bello Edoardo II, protagonista della più struggente delle passioni omosex almeno per come ce l’ha tramandata la penna di Christopher Marlowe (da cui Derek Jerman trasse nel 1991 un film magistrale con una Tilda Swinton in stato di grazia). È sicuro che quello tra il re e Piers Gaveston sia stato un amore totalizzante, nato per caso quando Edoardo I decise di affiancare a quel figlio così fragile un valido soldato. Divenuto inseparabile dal principe, Gaveston venne allontanato da corte per “cattiva influenza” ma subito richiamato quando Edoardo II ascese al trono. Ben presto inviso a tutti, specie alla moglie di Edoardo, la principessa Isabella di Francia figlia di Filippo IV, data in sposa per unire le due nazioni, Gaveston fu nuovamente costretto all’esilio dal re accerchiato e quindi barbaramente ucciso, stessa sorte toccata all’altro favorito del re, Ugo Despenser il giovane, e infine allo stesso Edoardo II, obbligato ad abdicare per quell’amore che non si poteva pronunciare. Fino a due anni fa.

La regina Elisabetta II infuriata: la rivolta del personale porta alle dimissioni la governante più fidata. Patricia Earl, 56 anni, lascia l'incarico di governante della tenuta di Sandringham dopo 32 anni al servizio di Sua Maestà. Eva Grippa su La Repubblica l'11/12/2020. Procede a fatica e pieno di intoppi il piano anti-covid studiato per tenere al sicuro la regina Elisabetta e suo marito il principe Filippo nel Castello di Windsor per Natale. Un piano che fa acqua da tutte le parti, e quindi continua a suscitare l'attenzione di curiosi e royal watchers al pari di una puntata di The Crown. In ballo c'è la rivolta del personale di servizio reale, una questione aperta già a settembre quando è stato comunicato a tutti gli impiegati - una ventina di persone con compiti di pulizia, lavanderia e mantenimento della residenza - la necessità di chiudersi assieme alla coppia reale nel castello di Windsor per quattro lunghe settimane, senza la possibilità di trascorrere il Natale e le feste a casa con i propri parenti. Decisione che in pochi hanno accettato, in barba alla devozione dovuta alla sovrana (loro datore di lavoro) e alla Corona in generale. Messa al corrente dei fatti, Elisabetta II si era infuriata(così dicono fonti vicino a corte), ottenendo tuttavia un nulla di fatto. Nonostante i tentativi di scendere a patti con il personale la questione non si è risolta e così ora, a pochi giorni dal Natale, arrivano le dimissioni di Patricia Earl, 56 anni, governante della tenuta di Sandringham, da 32 anni al servizio di Sua Maestà. La donna si è trovata a gestire con estremo "imbarazzo" l'insurrezione degli impiegati a corte e il loro rifiuto di restare chiusi in una bolla anti-covid che avrebbe permesso agli anziani coniugi (Elisabetta ha 94 anni, Filippo 99) di trascorrere il Natale nella tenuta del Norfolk, come da loro abitudine da oltre 30 anni a questa parte. Quando possibile, Sua Maestà ama restare a Sandringham perfino fino all'anniversario della morte del padre, re Giorgio VI, che cade il 6 febbraio. A seguito della rivolta del personale, tuttavia, i piani sono necessariamente cambiati: la "bolla" di sicurezza è stata creata a Windsor, quindi la regina e suo marito sono stati trasferiti lì e vi resteranno per l'intera durata delle festività. La dipartita di Patricia Earl è stata "completamente amichevole", si affanna ad assicurare una fonte vicina a Buckingham Palace al The Mirror. Semplicemente la professionista non poteva restare a capo di una ciurma in pieno ammutinamento. La sig.ra Earl è stata decorata dalla regina con il Royal Victorian Order nel 2018 per il suo lungo servizio come governante, da 32 anni al servizio nella tenuta e da 14 a capo del personale di servizio.

La regina Elisabetta dice addio al suo Dorgi. Il nuovo ritratto ufficiale della regina Elisabetta e del principe Filippo nasconde un segreto, ma Sua Maestà è triste per la perdita dell'adorato dorgi. Francesca Rossi, Venerdì 11/12/2020 su Il Giornale. Questa settimana le pillole reali fanno un'incursione nella moda secondo Kate Middleton e il principe Carlo. Se la prima si è riconfermata la maga del riciclo durante l'ultimo tour, il secondo si reinventa stilista. Lo stile è anche la carta vincente di "The Crown”, soprattutto per quel che concerne il personaggio di Lady Diana. Intanto la regina Elisabetta, chiusa nella bolla del Castello di Windsor piange la morte del suo adorato dorgi Vulcan. Per fortuna c'è il principe Filippo accanto a lei. Proprio nell'ultimo ritratto ufficiale della coppia, pubblicato per l'anniversario di nozze, scopriamo un tenero segreto d'amore. Ricostruire lo sterminato guardaroba di Lady Diana per la tanto discussa serie “The Crown” non è stato proprio un gioco da ragazzi. Anche la principessa, come la regina Elisabetta, lanciava segnali (non di fumo, ma di stoffa), con i suoi abiti. Il look è stato, per lei, l’emblema di una rivoluzione e di una evoluzione personali. La costumista Amy Roberts ha ricreato alcuni outfit originali, ma per altri ha preferito usare la fantasia. La timida Diana indossa abiti ampi, gonne plissettate e “spensierate” (nel senso che svolazzano in ogni dove) che fanno la gioia dei paparazzi. In una scena, infatti, la principessa accetta di posare per levarsi di torno i fotografi, ma il risultato sono degli scatti controluce che fanno letteralmente scomparire la gonnellina trasparente, evidenziando le sue gambe. Da quel momento Lady Diana prese l’abitudine di usare la pochette per coprire scollature e trasparenze. C’è, poi, un discutibile ma simpatico maglione a pecorelle che la principessa indossò a due partite di polo negli anni Ottanta e che viene riproposto nella serie. Dettaglio curioso: l'unica pecora nera (tutte le altre sono bianche) una volta guarda verso sinistra, un’altra verso destra. Nessun segreto. Il maglione venne danneggiato e il brand che lo ha creato, Warm and Wonderful, lo sostituì con uno nuovo. Per realizzare il vestito da sposa, invece, le sarte hanno lavorato per quattro mesi. Un totale di 600 ore. Potete vedere gli outfit più iconici della serie andando sul sito della mostra virtuale “The Queen and The Crown”. Non ve ne pentirete. Il principe Carlo ha voluto celebrare il decimo anniversario di Campaign for Wool, l’iniziativa di cui è il patron e che promuove la sostenibilità della lana, contribuendo alla creazione di tre sciarpe in edizione limitata, ideate dalla stilista Amy Powney. I profitti verranno devoluti alla “Prince’s Foundation” in Scozia. Sul profilo ufficiale della campagna troviamo una foto che mostra l’erede al trono intento a scegliere i tessuti per la realizzazione delle sciarpe e un video di presentazione della capsule collection. Il principe vuole sensibilizzare il pubblico sull’uso consapevole di risorse naturali sostenibili. Il tema non è sconosciuto alla nuora Kate Middleton. Gli esperti, infatti, l’hanno colta di nuovo con le mani nel sacco, anzi, nell’armadio. In occasione del mini tour Christmas Express in Yorkshire la duchessa ha riciclato ben tre cappotti. Un capospalla di Hobbs blu già usato per la visita in Galles del 2020, un cappotto di lana Catherine Walker visto durante il tour in Norvegia nel 2018 e, infine il cappotto lungo e verde di Alexander McQueen, che abbiamo notato a Bradford all’inizio del 2020. Parsimoniosi questi royal! L’amore di Sua Maestà britannica per gli animali, in particolare per i cani di razza dorgi, non è una novità. Un affetto incondizionato che parte da molto lontano, dal 1933 per la precisione, quando in casa Windsor entrò il primo corgi, Dookie, di proprietà del padre di Lilibet, Giorgio VI. Quando Elisabetta compì 18 anni, le venne regalato il cagnolino Susan. Due esemplari che hanno dato vita a una vera e propria dinastia che arriva fino ai giorni nostri. Ogni scomparsa dei suoi piccoli amici a quattro zampe turba profondamente la regina (chi ha animali sa bene cosa vuol dire). Nel 2018, però, Sua Maestà fu colpita al cuore dalla morte del corgi Willow, ultimo discendente di Dookie e, dunque, ultimo legame con un tempo che non tornerà più. Ora un’altra scomparsa taglia di nuovo le radici famigliari della regina. All’inizio di dicembre 2020 Elisabetta ha detto addio al dorgi Vulcan, il suo penultimo cane, nato dall’incrocio tra un corgi reale e il bassotto della principessa Margaret. La monarca si occupa personalmente dei sui cagnolini, li porta a passeggio, cura la loro alimentazione con pollo, agnello, manzo e coniglio e non tollera l’idea di venderli (ma regalarli sì), né di farli partecipare a gare canine. Oggi con lei rimane l’ultimo esemplare, la dorgi Candy, l’unica oltre a Filippo che allieterà il suo Natale solitario. Questa è la breve storia di un simbolo d’amore nato…per caso. Lo scorso 19 novembre, per i 73 anni di nozze della regina Elisabetta e del principe Filippo, è arrivata sui social una nuova fotografia ufficiale scattata a Windsor. Sua Maestà guarda con il marito i biglietti d’auguri realizzati dai nipotini, impeccabile nel suo vestito blu pallido di Stewart Parvin e tre file di perle che sono l’essenza stessa dell’eleganza. Non potete, però, non aver notato la spilla Chrysanthemum in diamanti e zaffiri appuntata sul cuore di Elisabetta. Un gioiello che nasconde un piccolo segreto d’amore. Nel 1947, durante la luna di miele, Lilibet venne immortalata con la spilla appuntata sul petto mentre era nelle Broadlands House insieme a Filippo. Nel 2007 i fotografi decisero di ispirarsi proprio a quelle immagini per confezionare un servizio fotografico che celebrasse i 60 anni di matrimonio di Elisabetta e Filippo. Stesse pose, stessi sguardi…stessa spilla. E pensare che il gioiello non è un regalo del duca di Edimburgo, ma fa parte del tesoro reale e venne indossato per la prima volta dalla regina nel 1946, in occasione dell’inaugurazione di una petroliera. Eppure Elisabetta ha scelto di nuovo questo “emblema per caso” di un amore nato altrettanto casualmente quando non era che una bambina.

"Non sposarla", "Troppo libertina". Così Meghan ha stravolto la vita della regina Elisabetta. Cosa è successo alla corte reale inglese nel 2020? Oltre alla pandemia, la Regina e tutta la famiglia hanno dovuto affrontare l'uragano Meghan Markle e la Megxit che ha cambiato per sempre gli assetti della royal family. Carlo Lanna, Mercoledì 30/12/2020 su Il Giornale. È stato un anno turbolento per la famiglia reale inglese, non solo per la pandemia da Covid-19. Un 2020 da cancellare che ha portato a un vero e proprio scossone alle fondamenta dei Windsor. Tutto a "causa" di Meghan Markle. L'attrice, che ha fatto breccia nel cuore del secondogenito di Lady D. e del principe Carlo, è stata la fautrice della Megxit. I duchi di Sussex, stanchi di seguire le regole di corte e di essere tampinati dai giornalisti a caccia di scoop, hanno chiesto e ottenuto la loro indipendenza dalla Corona. Da quel momento in poi, dall'8 gennaio del 2020, la vita calma e pacata della Regina Elisabetta, come quella di William e Kate, ha subito un radicale cambiamento. C'è da dire che Meghan, da sempre, è stata guardata con diffidenza a corte, proprio perché non riusciva a seguire alla lettera i rigori e le regole di Palazzo. La Megxit è stato un fattore scatenante, un grido che gli ex duchi hanno lanciato al mondo intero. La coppia ha così rinunciato ai benefici di una vita agiata ed è fuggita a Los Angeles, lontano da Londra e lontano dalla Regina. La frattura è stata tremenda e, a distanza di quasi un anno, i Windsor ancora non riescono a digerire quello che è successo. Nel corso di questo turbolento 2020, la stampa internazione è andata alla ricerca di tutte le cause che avrebbero spinto i duchi a tagliare i ponti con la sovrana, scoperchiando un vero e proprio vaso di Pandora. Liti e dissidi interni, che sono radicati nel tempo, sono stati i fattori che hanno convinto Harry e Meghan a chiedere la loro indipendenza. Ecco, quindi, qualche retroscena e litigio che ha fatto rompere la Corona.

Quando il principe Filippo ha detto: "Meghan si doveva fare da parte". In una biografia dedicata al marito della regina Elisabetta, il Principe si sarebbe sbottonato sul suo rapporto con Meghan e l'idea che si era fatto di lei. Secondo quanto è stato riportato, Filippo ha ammesso che "Meghan avrebbe anteposto il bene della Corona e quello di Harry solo per accrescere la sua popolarità". Il libro di Ingrid Sewad, pubblicato nell’ottobre del 2020 e intotolato "Prince Philip Revealed: A Man Of His Century", rivela tutta l’indignazione di Filippo causata appunto dalla Megxit. Il Principe non "avrebbe capito in che modo Meghan abbia influenzato la vita del nipote", tanto è vero che si sarebbe molto "innervosito quanto è venuto a conoscenza del vertice per varare la Megxit a Sandrigham", rifiutando persino di partecipare alla riunione con la sovrana e il Principe William. "È deluso dal comportamento della duchessa. Meghan si sarebbe dovuta far da parte per sostenere la monarchia e non pensare al suo tornaconto", rivela la giornalista nella biografia. E poi aggiunge: "Filippo non capisce perché la Markle abbia rinunciato a tutto questo, invece di sostenere Harry e aiutarlo nei compiti reali". Parole dure e che hanno lasciato il segno.

William ha accusato Harry di "aver danneggiato la sua reputazione". Sono agli onor di cronaca i litigi tra William e Harry, litigi che hanno spinto il marito di Meghan ad appoggiare poi l'idea di una vita libera e indipendente dalla Corona. I due fratelli, da sempre, hanno vissuto una condizione diversa. Il primo presto diventerà re, il secondo è consapevole che sarà ricordato come l’eterna testa calda della royal family. "Libertà", la biografia non ufficiale sui duchi, pubblicata nell'agosto del 2020, ha svelato nuovi retroscena che, secondo i giornalisti Scobie e Durant, avrebbero minato il rapporto tra i fratelli e causato la Megxit. Come Kate, anche William non ha approvato le scelte in fatto di cuore di Harry e si racconta di una frattura nata durante uno scambio acceso di pareri. Il duca di Cambridge avrebbe accusato il fratello di "aver danneggiato la sua reputazione e l'immagine stessa della corona inglese agli occhi del popolo". Questo perché, secondo il punto di vista di William, "Meghan era troppo libertina, andava troppo contro corrente e non era la persona adatta per rappresentare la monarchia nel mondo". Harry non avrebbe mai perdonato il fratello per queste esternazioni. Ad oggi, quasi un anno dopo, i due si sarebbero sentiti poche volte sono attraverso un computer.

La Regina contro le posizioni politiche dei Duchi. La politica. Altro tasto dolente della vita di Meghan e di Harry. La ex duchessa ha sempre mantenuto fede al suo credo. Da femminista e da ambasciatrice di pari diritti, non si è mai tirata indietro e liberamente si è scagliata su tutti quei leader politici che la pensavano diversamente da lei. Primo fra tutti? L’ex presidente Usa Donald Trump. Costretta a chinare il capo e a non poter far sentire la sua voce (politica), Meghan è fuggita da Londra. A settembre, in una lunga intervista che gli ex duchi hanno rilasciato sul Time, entrambi si sono espressi politicamente a favore del neo-eletto John Biden. Quelle dichiarazioni, come un tornado, si sono abbattute su tutta la famiglia reale, aprendo una ferita non del tutto rimarginata. Come hanno riportato alcune fonti interne, la Regina si sarebbe indignata per le dichiarazioni del nipote e di Meghan, che avrebbero messo, di nuovo, in una cattiva posizione tutta la Corona. Per questo la sovrana avrebbe addirittura minacciato di rimodulare gli accordi della Megxit, per evitare altri scivoloni del genere. La coppia, però, non facendo parte più della famiglia, può esprimere opinioni personali. Anche di natura politica.

Kate Middleton che ha consigliato a Harry di "non sposare Meghan". Un’altra biografia che è stata pubblicata il 30 giugno del 2020 ha messo in evidenza altri problemi tra i famigerati Fab4 (acronimo per "Fabolous Four" usato per descrive i rampolli della casa reale). Problemi che avrebbero spinto Harry e Meghan a prendere le distanze da Kate, William e da questo clima "tossico". Kate avrebbe consigliato più volte al Principe di non sposare Meghan. Prima della frattura, Harry era molto legato alla Middleton, tanto da considerarla una sorella acquisita, ma secondo le fonti, non avrebbe digerito questo affronto da parte sua. Kate avrebbe messo in guarda il Principe da Meghan, affermando che "la Markle aveva una pessima influenza su di lui e che lo portava a spendere milioni di sterline in viaggi e in regali costosi, senza pensare agli impegni e gli obblighi di corte". I litigi hanno raffreddato i rapporti tra i due, e di conseguenza, hanno costretto i Duchi a prendere le distanze dalla famiglia reale.

La faida reale è iniziata per… un paio di calze. I magazine britannici, nel corso del 2020, ancora stupiti dalla Megxit, hanno scandagliato i gossip reali (veri o presunti tali) per scovare il vero motivo delle liti tra Meghan e Kate, in cui sarebbero annidati i motivi della fuga dei Duchi da Londra. Già nel 2018 le due duchesse avrebbero avuto i loro diverbi. Proprio durante quel magnifico royal wedding, la Markle chiedeva che le sue damigelle d’onore non indossassero le calze, perché a Londra si paventava una giornata molto calda. Kate, però, che è molto rigida nei protocolli di corte, ha insistito affinché almeno le damigelle più giovani e sua figlia Charlotte avessero le gambe coperte. Questo tiro e molla non ha fatto altro che incrinare il rapporto tra le due, che all'epoca era già abbastanza precario.

"Meghan ha subito un trattamento diverso a Corte". A gettare benzina sul fuoco sulla frattura tra i duchi di Sessex e la Corona inglese, nel mese di giugno, ci ha pensato un’amica fidata della Markle. La donna, che ha preferito restare nell'anonimato, ha rivelato quali sono i motivi che avrebbero spinto la Markle a chiedere la sua indipendenza. Ha affermato che Meghan "per mesi ha subito un trattamento molto diverso da parte dello staff reale solo perché, diversamente dalla Middleton, non era originaria di Londra, ha lavorato come attrice, e solo perché prima di Harry era stata già sposata una volta". E ha aggiunto che "Meghan era sempre stata definita come una donna viziata e materialista, quando in realtà in molti hanno sempre sostenuto il contrario". Dal racconto emerge che, sia la Middleton che la Markle fin dalla primo momento sono sempre state nemiche giurate. A dividerle? Una diversa estrazione sociale. Insomma, il 2020 è sicuramente stato un anno duro per la famiglia reale inglese. Fra indiscrezioni, smentite e conferme (come la Megxit) la Regina ne ha vista e passate di cotte e di crude. Ma il "vortice Meghan" non è ancora finito. Solo in queste ore hanno avanzato altre richieste...

Emiliana Costa per "leggo.it" l'11 dicembre 2020. Meghan Markle, il dramma segreto del principe Harry: «È terrorizzato dalla moglie. Voci di divorzio...». Primi rumor di crisi tra i duchi di Sussex. La biografa reale Angela Levin, intervenendo a TalkRadio, ha definito «forte e autoritario» il carattere di Meghan Markle, a tal punto da terrorizzare il principe Harry. L'esperta ha anche criticato il comportamente del secondogenito di Carlo e Diana nei confronti della royal family, scaricando però la colpa alla moglie Meg. Secondo Levin, Harry trascurerebbe la regina Elisabetta, Carlo, William e Kate Middleton, perché spaventato dal carattere di Meghan al punto da piegarsi alla sua volontà. Questo spiegherebbe anche il visibile imbarazzo di Harry durante gli interventi pubblici accanto alla moglie, come se avesse paura poi di essere rimproverato. «Era un uomo così grande - aggiunge Levin -. Ora sembra solo terrorizzato e spaventato ogni volta che parla, come se temesse di essere sgridato da Meghan». Alle voci di una seconda gravidanza, fa sapere l'esperta, si rincorrono anche i primi rumor di divorzio. Crisi matrimoniale tra i Sussex? Staremo a vedere.

Da "liberoquotidiano.it" il 29 ottobre 2020. E' passato quasi un anno da quando il principe Harry e Meghan Markle hanno deciso di divorziare dalla Royal family e fuggire dal Regno Unito. Ma qual è stato il motivo della rottura definitiva con la regina Elisabetta? Finora tra le ipotesi più accreditate c'erano le pressioni dei tabloid britannici e il rapporto distaccato con i parenti del principe. Ma adesso ci sarebbe dell'altro: secondo il magazine Express, Meghan Markle avrebbe pronunciato un'accusa ben precisa nei confronti dei reali, definendo "sessiste" le norme su cui si basa da anni la corte inglese. E proprio questa presunta discriminazione nei confronti delle donne a palazzo avrebbe spinto i duchi di Sussex a "scappare" da Londra alla volta prima del Canada e poi della California. Nel libro Finding Freedom, una biografia della coppia uscita nelle librerie un paio di mesi fa, viene raccontato un episodio che risale al periodo del fidanzamento tra Harry e Meghan e dà un'idea delle rigide regole di corte. Nel 2016, Meghan iniziò a indossare una collanina con le iniziali del suo nome e di quello di Harry. Ma la cosa non fu apprezzata da Kensington Palace, che Infatti convocò l'ex attrice americana e le proibì di farsi fotografare con il gioiello per non attirare ancora di più l’attenzione dei paparazzi. La duchessa di Sussex, però, avrebbe mal digerito le continue ingerenze sul suo atteggiamento. Arrivando anche a violare il divieto delle effusioni in pubblico. I rapporti, così, sarebbero diventati sempre più tesi, fino alla fuga finale. 

Da "leggo.it" il 25 novembre 2020. L'aborto spontaneo, secondo il racconto di Meghan, è avvenuto nel luglio di quest'anno. La duchessa ne scrive fra le righe nell'articolo, fotografando il momento esatto in cui spiega di aver capito ciò che stava accadendo: «Ho saputo in un momento in cui stringevo fra le braccia il mio primo bambino che stavo perdendo il secondo», ricorda. Poi alcuni dettagli: «Dopo aver cambiato il pannolino» ad Archie - scrive - «ho avvertito un forte crampo e mi sono accasciata sul pavimento con lui fra le braccia, mormorando una ninna nanna per tenerci calmi entrambi. Ma il tono allegro contrastava con la mia sensazione che qualcosa non stesse andando per il verso giusto». «Alcune ore più tardi - prosegue la narrazione sul New York Times - ero stesa in ospedale, tenendo la mano di mio marito. Sentivo il calore del suo palmo e gli ho baciato le nocche. Avevamo entrambi il volto bagnato dalle lacrime. E guardando i freddi muri bianchi» della stanza «ho cercato d'immaginare come avremmo mai potuto rimarginare» il senso di quella perdita. La rivelazione sull'aborto spontaneo segue non poche indiscrezioni circolate negli ultimi mesi sulla possibile seconda gravidanza della duchessa di Sussex. E spiega il rinvio della prossima fase di un processo intentato dalla stessa Meghan - con il sostegno di Harry - contro il tabloid britannico Daily Mail, accusato di aver pubblicato a suo tempo una lettera privata scritta da lei al padre Thomas Markle, in violazione (secondo la denuncia) sia della sua privacy familiare sia dei suoi diritti di copyright. Una causa tuttora aperta, e che non ha mancato di suscitare polemiche, il cui rinvio era stato chiesto proprio dagli avvocati della stessa duchessa e concesso dalla corte in base a ragioni che la giudice che presiede le udienze aveva ritenuto nei giorni scorsi di non voler rendere pubbliche d'autorità.

La royal family si stringe intorno a Meghan per superare il dolore dell'aborto. La decisione di condividere un momento tanto doloroso della sua vita come l’aborto non ha lasciato indifferenti. Nemmeno la Royal family. Francesca Rossi, Giovedì 26/11/2020 su Il Giornale. Le parole di Meghan Markle sull’aborto non potevano lasciare indifferenti. A colpire il pubblico non è stato solo il tema in sé, tanto delicato quanto traumatico, ma anche il fatto che a rompere il silenzio sia stata la duchessa di Sussex. Per mesi la moglie del principe Harry ha cercato di difendere con le unghie e con i denti la sua privacy, ma ora ha scelto di raccontarsi in un editoriale del New York Times, dal titolo “Le perdite che condividiamo”, firmandosi solo “Meghan Markle, attivista e madre”. In uno dei passaggi più toccanti dell’editoriale la duchessa ha scritto: “Sapevo, mentre stringevo il mio primogenito, che stavo perdendo il secondo”. Meghan non ha rivelato a che punto fosse la gravidanza, ma nell'editoriale ha specificato: "Guarire significa preoccuparsi degli altri e condividere la sofferenza, di qualsiasi sofferenza si tratti. ‘Stai bene?’. 'Noi ce la caveremo’”. Una frase che aveva fatto pensare a una presunta indifferenza della Firm nei confronti di Meghan Markle, di una nuova dimostrazione di insensibilità da parte della regina Elisabetta. Le indiscrezioni trapelate, però, direbbero l'esatto contrario. Non è chiaro se i Windsor sapessero dell’editoriale ma, secondo gli insider intervistati da Vanity Fair America, la royal family si è stretta fin da subito attorno alla coppia ed "è stata di supporto” tanto per Harry quanto per Meghan. Del resto sono già accadute tragedie simili nella famiglia reale britannica. La duchessa di Sussex è la prima royal a raccontare il momento esatto in cui ha perso il bambino, ma non la prima a parlare di aborto spontaneo. Zara Phillips e Sophie di Wessex avevano già affrontato con tatto l’argomento. Quest’ultima, nel 2001, soffrì moltissimo a causa di una gravidanza extrauterina, ma trovò la forza di affrontare il dolore, sperando in una nuova possibilità di diventare madre (come sappiamo, poi esaudita). Zara Phillips, invece, rivelò la notizia di un secondo aborto spontaneo a poche settimane di distanza dall’annuncio della seconda gravidanza, nel dicembre 2016. In un’intervista alla BBC, riportata dal Telegraph, la nipote della regina Elisabetta dichiarò: “Hai bisogno di un periodo in cui non ne parli, perché è troppo difficile ma, come succede per tutte le cose, il tempo è un grande guaritore”. Forse il tempo ha aiutato anche Meghan Markle a condividere la sua tristezza, ma chissà perché per lei non c’è stata la stessa empatia riservata a Zara e Sophie. La duchessa di Sussex, dunque, ha ricevuto affetto e comprensione dalla royal family, che avrebbe lasciato da parte discussioni e divergenze di vedute per aiutare un membro del casato in difficoltà. Purtroppo, però, Meghan Markle non ha ricevuto nemmeno la stessa empatia da molti utenti social. Il suo editoriale ha spaccato il web in due, tra quanti ne lodano il coraggio e quanti, invece, ritengono si tratti dell'ennesimo espediente di un'attrice consumata e ipocrita che vuole attirare l'attenzione. Su Vanity Fair America un insider molto vicino ai Sussex, spiega alla royal editor Katie Nicholl che la duchessa “ha voluto scrivere il saggio accorato per aiutare le altre persone che hanno attraversato il trauma dell’aborto spontaneo e per aiutare a rompere il silenzio su una questione che è ancora considerata da molti un tabù”. Un’altra fonte ha chiarito che i duchi “hanno deciso che volevano parlarne e che questo era il momento giusto per farlo. Oggi stanno bene”.

E adesso scoppia il caos a Londra Lo "schiaffo" terribile alla Regina. Secondo le indiscrezioni, il Principe Harry avrebbe rifiutato l'invito della Regina chiedendo di spostare l'incontro dopo le feste di Natale. Elisabetta sarebbe molto indignata. Carlo Lanna, Lunedì 19/10/2020 su Il Giornale. Scoppia il caos a Buckingham Palace. Secondo quanto è trapelato da un’indiscrezione di Vanity Fair, pare che ci siano diverse tensioni tra la Regina Elisabetta e il Principe Harry. Qualche settimana fa in rete è cominciata a circolare una notizia in cui la sovrana avrebbe chiamato il nipote prediletto a rapporto, imponendo il suo arrivo a Londra al più presto. Le fonti interne (ma non ancora confermate) avevano rivelato che a questo incontro privato non sarebbe stata invitata Meghan Markle. Questo perché, sul banco c’erano troppi problemi personali su cui discutere. Come i lavori di ristrutturazione al Frogmore Cottage, che dovrebbero essere a carico del Principe Harry e di Meghan, ma anche l’attivismo politico dei Sussex, i quali in una video intervista si sarebbero schierati a favore del candidato Biden per le imminenti elezioni presidenziali. Sulla vicenda, però, ci sarebbe un colpo di scena.

La Regina chiama a Londra Harry. Ma non vuole Meghan Markle. Da quel che sembra, il Principe Harry non avrebbe nessuna intenzione di volare a Londra e parlare con la nonna, chiedendo di posticipare l’incontro a dopo le feste natalizie. È stata l’esperta Katie Nicholl a lanciare l’indiscrezione che, in poco tempo, ha fatto il giro del web. La giornalista conferma però che non ci sarebbero attriti tra il principe e la sovrana, almeno per il momento. Pare che il rifiuto di Harry sia legato principalmente alla pandemia da Covid-19. L’ex duca pare che voglia restare in America ancora per qualche mese ed evitare spostamenti, visto che in Inghilterra il virus è tornato più irruente che mai. Per la sua salute e quella di Meghan e di Archie, il Principe avrebbe parlato con Elisabetta chiedendo di posticipare l’incontro così urgente. Voci interne di palazzo, però, fanno sapere che la Regina sarebbe delusa dalla richiesta di Harry e in molti ipotizzano che dietro tutto questo possa esserci lo zampino di Meghan. La Marke infatti sarebbe lei stessa molto delusa dalla sovrana per non essere stata invitata all’incontro e, per questo motivo, avrebbe spinto il Principe Harry a non recarsi a Londra. Ovviamente si tratta solo di speculazioni, ma Nicholl fa sapere che "tutto può essere possibile" quando si tratta degli ex duchi di Sussex. Sta di fatto che per il nipote di Elisabetta questo potrebbe essere il secondo Natale lontano da casa. Già lo scorso anno, con lo spettro della Megxit, la coppia reale era fuggita a Los Angeles, oggi vista la situazione sanitaria, i due potrebbero restare in America ancora per molto tempo. Su tutte il resto, non resta che attendere gli sviluppi.

Meghan Markle come Lady D: l’orologio da 17 mila sterline. Notizie.it il 19/10/2020. Meghan Markle porta al polso uno dei preziosi orologi appartenuti a Lady Diana: il suo valore è di 17 mila sterline. Meghan Markle e Harry hanno annunciato via social che prenderanno parte a Time100 Talk: nella foto con cui la coppia ha annunciato la propria partecipazione all’evento la duchessa indossa un orologio che sarebbe appartenuto a Lady Diana dal valore di 17 mila sterline. Non è la prima volta che Kate Middleton e Meghan Markle sfoggiano alcuni dei gioielli più iconici appartenuti a Lady D (ed ereditati dai due figli della compianta principessa a seguito della sua prematura scomparsa). Stavolta, annunciando la propria partecipazione al dibattito online Tim100 Talk, l’ex duchessa del Sussex Meghan Markle ha sfoggiato un prezioso orologio appartenuto a Diana dal valore di ben 17 mila sterline. Lady Diana non si separava mai dall’orologio, e sono molte le foto in cui la principessa appare con ben 2 di questi oggetti al polso (di solito uno dei due era del Principe Carlo, che spesso gli affidava ai suoi mentre era occupato in qualche attività sportiva). Oltre all’orologio al polso nello scatto Meghan indossa anche un bracciale dal valore di 5 mila sterline, mentre l’abito è un Alexander MxQueen (dal valore di 2 mila sterline) già sfoggiato dall’ex duchessa nei mesi scorsi.

La verità sui dissidi tra Harry e William: "La colpa non è di Meghan". Un esperto di corte e consulente della serie tv sui reali inglesi, racconta la verità dietro i conflitti tra Harry e il Principe William. Carlo Lanna, Giovedì 22/10/2020 su Il Giornale. Non si placano le voci sui rapporti non del tutto idilliaci tra Harry e il Principe William. Da quando Meghan Markle è entrata a far parte della famiglia le cose tra i due si sono complicate giorno dopo giorno. Alcune fonti rivelano che i fratelli da mesi non si rivolgono più la parola, altri ben informati invece affermano che entrambi stanno cercando di appianare le divergenze e costruire un nuovo tipo di rapporto fraterno, sulle polveri di ciò che è rimasto. Nel mezzo però ci sono le parole di Robert Lacey. Lui è un esperto di Corte e, di recente, non solo è stato ingaggiato da Netflix come consulente per la serie The Crown, ma ha anche pubblicato una biografia, dal titolo "Battle of Brothers", in cui racconta il suo punto di vista sul rapporto tra Harry e William. Dalle considerazioni emergono nuove indiscrezioni. "La colpa non è di Meghan", rivela l’esperto. Affermando che la radice dei dissidi tra Harry e il Principe William è ben più profonda. La Markle non ha fatto altro che acuire tutte le criticità di un rapporto che è sempre stato difficile da gestire. Lacey, infatti, rivela che fin da quando i due principi erano solo dei ragazzini, la conflittualità tra di loro è sempre stata molto alta. Da una parte c’era William che è stato cresciuto come un re, e dall’altra c’era Harry che ha subito un trattamento diverso, proprio perché era un eterno secondo. Ma l’esperto afferma anche altro. Non è Harry la pecora nera della famiglia, anche William ha dato una buona dose di problemi. Come le uscite di nascosto per recarsi nei sotterranei di Highgrove, ad esempio. "William amava divertirsi –afferma-. Lo faceva lontano da occhi indiscreti. Harry, sotto questo punto di vista, è stato poco furbo". Ma alla fine era l’ex duca dei Sussex che finiva sui giornali e che subiva tutte le attenzioni della stampa inglese. L’arrivo di Meghan, secondo le parole dell’esperto, è stato un punto di rottura per il rapporto tra Harry e William. Non la causa scatenante ma la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Il duca aveva trovato, finalmente, il suo spirito affine e voleva vivere quella vita che da sempre aveva desiderato, William che invece ha pensato solo all’immagine della famiglia, si è intromesso in un rapporto puro e semplice, rompendo di nuovo gli equilibri. Dal libro emerge quindi un’immagine diversa del principe. William, secondo Lacey, non è il "classico principe azzurro".

Nicola Bambini per "vanityfair.it" il 6 novembre 2020. Il principe Filippo, con il suo potere persuasivo, avrebbe potuto impedire la Megxit. Parola della biografa Ingrid Seward che, parlando con Fox News, è tornata sulle clamorose dimissioni del principe Harry e di Meghan Markle da membri senior della famiglia reale, spostando però il focus su un personaggio che sarebbe potuto essere decisivo. «Il duca di Edimburgo ha una grande influenza sul nipote». «Se Filippo fosse stato più giovane (lo scorso giugno ha compiuto 99 anni, ndr) avrebbe affrontato il duca di Sussex, facendogli capire le conseguenze negative della sua scelta sulla monarchia», aggiunge l’esperta. «Si sarebbe rivolto a lui con tono deciso, chiedendogli se fosse sicuro di ciò che stava facendo. Gli avrebbe pure ricordato che non può tenere un piede a Palazzo e un altro all’esterno». D’altronde, come ricorda la stessa Seward nel libro «Prince Philip Revealed», lo storico marito della regina Elisabetta sa bene cosa significa sacrificarsi per il bene della corona. Quando nel ‘53 la moglie salì sul trono, infatti, lui rinunciò alla carriera in marina per aiutarla nei suoi obblighi di sovrano, accompagnandola alle cerimonie, alle cene di Stato e nei viaggi all’estero e in patria. «Per questo Filippo non è mai riuscito a comprendere davvero la decisione di Harry, è molto lontana dal suo modo di pensare», conclude la biografa. «Ne ha risentito anche il loro rapporto, nonno-nipote». Tra l’altro pare che il principe consorte – due anni fa – abbia dato alcuni consigli ai Sussex per affrontare in coppia la vita reale, ma il suggerimento sembra proprio essere caduto nel vuoto. «La Megxit l’ha sconvolto». Lui che ha scelto nel 2017 di ritirarsi a vita privata e che quindi è stato tagliato fuori dall’ormai celebre meeting di Sandrigham: chissà, se ci fosse stato il principe Filippo, magari la questione sarebbe finita in maniera diversa.

La regina Elisabetta ha deciso: la royal family va in terapia di gruppo. È il magazine australiano New Idea a lanciare l’indiscrezione secondo cui la regina Elisabetta avrebbe deciso di risolvere i conflitti famigliari con l’aiuto di un professionista. Francesca Rossi, Giovedì 05/11/2020 su Il Giornale. La situazione all’interno della royal family è diventata talmente complicata e burrascosa che neppure l’autorità della regina Elisabetta riesce più a smorzare i toni. Da tempo, ormai, William e Harry non sono più i fratelli uniti e complici che ricordiamo nelle foto e nei filmati accanto a Lady Diana. Sono cresciuti, hanno preso strade diverse, ma tutto questo, da solo, non basta a spiegare gli attriti che si sono creati tra loro, rafforzati dalla distanza. Il principe William non riuscirebbe a comprendere davvero le scelte di Harry e, a questo proposito, avrebbe persino confessato a un amico: “Sono stato la spalla di mio fratello per tutta la mia vita. Ora non posso più farlo”. A dire il vero l’intera royal family non riuscirebbe a giustificare la decisione del principe Harry di dimettersi da membro senior dei Windsor per inseguire una nuova vita oltreoceano. Neppure il principe Filippo risparmia critiche al nipote e soprattutto a Meghan Markle. Secondo la biografa Ingrid Seward, il marito della regina avrebbe paragonato la duchessa di Sussex a Wallis Simpson. La regina Elisabetta sarebbe addirittura furiosa per il comportamento del nipote, in particolare per la sua mancanza di rispetto nei confronti di tradizioni secolari come, per esempio, la neutralità politica. Il rapporto tra Kate e Meghan, poi, sarebbe stato un fallimento su tutta la linea. Troppi problemi, troppe frizioni difficili da gestire. Sua Maestà non ne può più e per questo avrebbe preso una decisione: la royal family andrà in terapia. Questo, almeno, è ciò che filtra dalle indiscrezioni lanciate dal magazine australiano New Idea. La regina Elisabetta avrebbe organizzato una “riunione d’emergenza”, così la definisce il giornale, che dovrebbe aver luogo durante le vacanze di Natale. Stando alle voci parteciperanno il principe Carlo, il principe William, il principe Harry e le mogli Kate e Meghan. Lo scopo del “vertice” è quello di appianare i dissidi con l’aiuto di un professionista, qualcuno che riesca a far venire a galla i motivi più profondi di litigi e incomprensioni, per poi indirizzare la royal family verso un chiarimento collettivo. L’esito della terapia famigliare è tutt’altro che scontato e c’è il rischio che i festeggiamenti natalizi si trasformino in un campo di battaglia. Alcuni dettagli del presunto incontro, però, non sono ancora chiari. Non sappiamo, per esempio, se avverrà a Sandringham, dove la regina Elisabetta passa abitualmente il Natale, oppure a Windsor, la residenza in cui la sovrana sta trascorrendo la quarantena. Non è scontato neppure che Harry e Meghan siano fisicamente presenti. Anzi, i tabloid ritengono che i duchi non abbiano alcuna intenzione di muoversi dalla California e vogliano celebrare la festa più importante dell’anno nella loro nuova casa a santa Barbara, lontani anni luce dalla royal family e dalla regina Elisabetta. Tuttavia non è escluso che partecipino alla riunione in videoconferenza. La notizia di questa possibile terapia di gruppo è interessante, poiché l’idea sarebbe partita dalla monarca, che dimostrerebbe una volta in più di essere una donna al passo con i tempi e molto intelligente, in grado di capire quando la situazione inizia a sfuggirle di mano e disposta anche a cedere una parte della sua autorità in favore di un aiuto esterno ma professionale. L’incognita su questa presunta terapia famigliare, però, resta. Non sappiamo se la notizia sia vera o no, se sia stato solo un pensiero non concretizzato della regina Elisabetta. Non ci resta che attendere ulteriori sviluppi, ammesso che riescano a trapelare novità e indiscrezioni in merito. Una cosa sembra certa. La royal family si starebbe trasformando in una specie di covo di “parenti serpenti” e questo è deleterio per la monarchia. In particolar modo il rapporto infranto tra William e Harry potrebbe avere ripercussioni future sui Windsor. Il biografo Robert Lacey ci ha avvertito: “Se la frattura tra i principi non verrà ricomposta, potrebbe diventare un trauma capace di stravolgere la monarchia, al pari dell’abdicazione e della morte di Lady Diana”.

Ora arriva la triste indiscrezione: "William e Harry non si riconcilieranno mai". L’esperta reale Ingrid Seward è convinta che il rapporto tra William e Harry non tornerà mai più come prima e che la presenza di Kate e Meghan non farà altro che complicare la situazione. Francesca Rossi, Venerdì 30/10/2020 su Il Giornale. Il legame già compromesso tra i principi William e Harry potrebbe non ricomporsi mai più. Parola dell’esperta reale Ingrid Seward. La frattura sarebbe insanabile e il fatto che i due fratelli vivano in due continenti diversi non fa che peggiorare una situazione già complicata, in cui fin dall’inizio trovare una via d’uscita è stata una vera impresa. Ingrid Seward non sembra avere molti dubbi in proposito e durante il podcast del Mirror, “Pod Save The Queen”, ha spiegato: “I rapporti in famiglia sono sempre complessi, è difficile fare previsioni. A volte lo sforzo per riparare una relazione rotta è troppo grande, allora si preferisce lasciare tutto com’è. Io dubito che il loro rapporto torni quello che era un tempo, non lo credo proprio".

Il principe William ha portato Harry sulla cattiva strada: "Così iniziò a bere". La distanza geografica sarebbe l’ostacolo più semplice da superare con i mezzi di comunicazione che abbiamo oggi. La ferita profonda sarebbe stata causata da due diversi modi di vivere e concepire l’istituzione monarchica. Da una parte ci sono William e Kate, perfetti e a loro agio nei ruoli affidati loro dalla regina Elisabetta. Dall’altro i ribelli Harry e Meghan che sono fuggiti da una vita che non comprendevano (che forse Harry non ha mai capito oppure ha smesso di comprendere) e stanno cercando la loro strada. È evidente anche la differenza caratteriale tra William e Harry, dovuta soprattutto a due tipi di educazione diversi, come ha chiarito a “Pod Save The Queen” il biografo Robert Lacey: “Da piccoli erano molto vicini, poi la logica di Palazzo che prevede un trattamento differente per l’erede al trono, li ha allontanati sempre di più” e ha aggiunto: “Verso l’erede al trono c’è stata più attenzione e gentilezza. Il secondogenito invece è stato trattato da riserva, come accade sempre a palazzo”.

La verità sui dissidi tra Harry e William: "La colpa non è di Meghan". Un fattore, quello dell’educazione, impossibile da ignorare, poiché influenza tutta la vita dei principi fin da bambini. È stato così per la regina Elisabetta e la sorella Margaret, per il principe Carlo e Andrea e anche per William e Harry. Lacey ha rivelato: “I royal baby, da piccoli, sono messi all’incirca sullo stesso piano, godono tutti di molta attenzione. Poi però, a causa dei loro diversi destini, chi non rientra nella linea di successione diretta viene spinto verso l’esterno”. A tutti questi problemi se ne somma un altro, specifico del caso di William e Harry. La presenza delle loro mogli. I giornali hanno ripetuto innumerevoli volte che tra Kate e Meghan Markle non sarebbe mai nata un’amicizia. Personalità troppo diverse, le loro, come il giorno e la notte. Poco importa che il palazzo reale abbia smentito la presunta rivalità tra le due. Quasi nessuno ha mai creduto fino in fondo che le duchesse andassero d’amore e d’accordo. Persino la biografia “Finding Freedom” sottolinea la freddezza nei rapporti tra Kate e Meghan, benché appaia più sbilanciata in favore della seconda. A proposito delle incomprensioni tra i Cambridge e i Sussex, Ingrid Seward ha detto: “William e Harry potrebbero tornare vicini, ma finché ci saranno Kate e Meghan al loro fianco, questo non sarà possibile”.

L’indiscrezione: "William non ha voluto pranzare con Harry". Messa in questo modo una riconciliazione tra i fratelli sembra davvero un’ipotesi remota. Le mogli di William e Harry non sono certo delle comparse sulla scena, bensì personaggi stabili e molto forti. Dobbiamo, quindi, abbandonare ogni speranza (o pia illusione, dipende dal punto di vista) di rivedere, un giorno, i fratelli insieme, come avrebbe voluto Lady Diana e i Fab Four uniti per davvero e non per dovere, non per salvare le apparenze? Parrebbe di sì, però è anche vero che la speranza è sempre l’ultima a morire.

Harry e William mai così lontani. Torna pure il fantasma di Lady D. Il principe William non è ancora re, ma si sta già comportando come tale, dimostrando prudenza e sangue freddo di fronte agli eventi che hanno cambiato la sua vita nell’ultimo anno. Francesca Rossi, Venerdì 09/10/2020 su Il Giornale. Il principe William non è ancora un re, ma ne ha già tutte le caratteristiche, dalla prudenza alla capacità di riflessione, dal senso del dovere all’obbedienza passando per la difesa della Corona a tutti i costi. Si è comportato da futuro re prudente quando ha consigliato al fratello di non affrettare il matrimonio con Meghan Markle. Consiglio che Harry avrebbe preso come un affronto alla sua libertà personale. Secondo la nuova biografia di Robert Lacey, “Battle Of Brothers”, il duca di Cambridge avrebbe perfino chiesto aiuto a Charles Spencer, il fratello di Lady Diana, affinché parlasse con Harry, convincendolo a rimandare le nozze. Il conte Spencer, come anche le sorelle di Lady Diana, hanno un rapporto speciale con i figli di Diana. In un certo senso rappresentano quasi un naturale “prolungamento” della principessa. Eppure anche Charles ha fallito, creando (involontariamente) una frattura profonda tra i fratelli. Cosa avrebbe fatto il principe William se fosse stato davvero re? Si sarebbe comportato come la regina Elisabetta, che dovette impedire alla principessa Margaret di sposare il suo grande amore, Peter Townsend? Non lo sappiamo, perché conosciamo William solo come potenziale sovrano. Tuttavia possiamo immaginare che “re William” non avrebbe privato il fratello della felicità, però forse gli avrebbe imposto di attendere un certo tempo prima di sposarsi. Ma questa non è che Storia controfattuale. Di fatto sembra proprio che William e Harry fatichino a ritrovarsi e la nuova rivelazione secondo cui la regina Elisabetta avrebbe deciso di assegnare tutte le cariche militari di Harry, compresa quella di capitano generale dei Royal Marines, a William, non fa che inasprire la tensione tra i due. Il duca di Sussex, prima fiero dei suoi gradi, non sarà che un militare in pensione con le sue medaglie appuntate sul petto, senza più onori, né divisa. E William? Da futuro re accetterà le cariche per obbedienza alla Corona, poco conta che il suo amore fraterno si ribelli. Il dovere e la fedeltà hanno separato i figli di Lady Diana, mandando all’aria i piani della principessa affinché rimanessero uniti e non invischiati nel labirinto del protocollo. Proprio Diana potrebbe essere un nuovo terreno di scontro tra il principe William e Harry. Il suo personaggio e, soprattutto, i suoi disturbi alimentari, saranno in primo piano nella nuova serie di “The Crown”, targata Netflix. Ovvero la casa di produzione con cui Harry ha firmato un contratto milionario. William e i Windsor non gradirebbero il fatto che le fragilità della principessa diventino di nuovo oggetto di una morbosa attenzione, come spiega un insider al Sun: “William e gli altri membri della royal family sono…a disagio per questo…è solo l’ennesima di una lunga serie di criticità tra fratelli…”. Speriamo che gli sceneggiatori abbiano scelto la via del “far intuire” più che del “mostrare”, del buon gusto unito alla verità storica. Benché dalle indiscrezioni sembri una chimera. Con buona probabilità, anche stavolta il principe William non lascerà trapelare il suo dolore, né il suo disappunto. Non si lamenterà, non darà spiegazioni, come impone il motto di famiglia. Seguirà da lontano il clamore dei giornali, assaggiando già da principe la solitudine dorata che vive un (futuro) re.

Harry a 4 anni sapeva già tutto: "Io non sarò re e farò quello che vorrò". Il biografo Robert Lacey racconta nel suo nuovo libro un aneddoto legato all’infanzia di William e Harry, forse una delle prime volte in cui i fratelli hanno realizzato di avere due personalità. Francesca Rossi, Sabato 10/10/2020 su Il Giornale. La vita da royal baby non è fatta solo di privilegi e comunque la si guardi non è affatto paragonabile a un’esistenza in una famiglia normale. William e Harry lo sanno bene. I loro destini sono stati chiari fin dal principio e i due fratelli ne hanno preso consapevolezza molto presto grazie (o a causa, dipende dalla prospettiva) dell’educazione ricevuta a corte. Così racconta Robert Lacey nel suo ultimo libro, “Battle of Brothers”. Soffermandosi sull’infanzia dei figli di Lady Diana, l’autore cita un aneddoto, riportato in queste ore dal People, che potrebbe spostare indietro nel tempo l’inizio delle incomprensioni tra William e Harry:“Ken Wharfe, che negli anni Ottanta era la guardia del corpo dei ragazzi, ha rivelato un episodio davvero significativo. Un’accesa discussione tra fratelli sul sedile posteriore dell’auto” e spiega: “Erano in viaggio da Londra a Highgrove e iniziarono a litigare, neppure la tata riuscì a fermarli. Harry, che all’epoca aveva 4 anni, si rivolse verso William e gli disse: ‘Tu un giorno sarai re, non io. Così potrò fare tutto quello che voglio’”. Stando al racconto di Lacey, Lady Diana era in auto con i bambini, seduta davanti. Ascoltato lo strano commento, si sarebbe girata e, sbigottita, avrebbe chiesto al principe Harry: “Dove diavolo hai imparato questa cosa?”. Neppure la principessa del Galles riusciva a spiegarsi quella consapevolezza prematura nel suo secondogenito. Chi poteva avergli messo in testa quell’idea, se la principessa lottava ogni giorno per cercare di non far sentire ai bambini il peso del loro futuro, trattandoli alla pari? Lady Diana non era la sola persona che si occupasse di William e Harry. Proprio su questo punto il giudizio di Robert Lacey è molto critico. Il biografo scrive che i duchi “sono stati danneggiati dall’educazione e hanno reagito trovando strade diverse”. Insomma, sarebbe stato un comunissimo litigio tra fratelli, se non ci fosse stata di mezzo una corona. A corte i figli del principe Carlo avrebbero ricevuto un’educazione diversa in base al loro ruolo futuro. Nei confronti del duca di Sussex vi sarebbe stata una maggiore tolleranza per quel che concerneva piccole ribellioni o marachelle. In fondo non sarebbe toccato a lui regnare. Regole più severe, improntate al senso del dovere, sarebbero invece state imposte al duca di Cambridge fin da piccolo. Questo, in parte, potrebbe giustificare una diversità di carattere tanto marcata tra William e Harry. È possibile, anzi probabile, che i due (ex) royal baby abbiano assorbito fin dai primi anni un’atmosfera piuttosto rigida, in cui prima ancora che bambini erano membri della royal family ai primi posti nella linea di successione, ma con delle differenze evidenti legate al diritto dinastico. Qualcosa che Lady Diana non poteva ignorare, ma a cui forse non è riuscita a opporsi drasticamente (e per dirla tutta non ne ha avuto neanche il tempo). Sul rapporto a volte conflittuale tra il primogenito erede al trono e i suoi fratelli si potrebbero scrivere dei libri (pensiamo, tanto per rimanere a Londra, alle incomprensioni tra la regina Elisabetta e la principessa Margaret). Nell’aneddoto narrato Robert Lacey mette in evidenza la presunta voglia di libertà che avrebbe caratterizzato tutta la vita di Harry, sfociata poi nella Megxit. Una specie di rifiuto delle responsabilità regali prima ancora del noto passo indietro dei Sussex. Una crepa creatasi nell’infanzia di William e Harry e divenuta col tempo più profonda. Anche su questo Robert Lacey è chiaro e i tabloid hanno già riportato diverse volte questo commento sul destino dei duchi e, di conseguenza, della royal family: “Ora vivono lontani, ma la corona deve fare in modo di ricomporre la frattura, che rischia di diventare devastante per la monarchia”.

Il principe William ha portato Harry sulla cattiva strada: "Così iniziò a bere". Le nuove indiscrezioni sulla biografia “Battle of Brothers” di Robert Lacey gettano un’ombra sul principe William, accusato di aver condotto il fratello sull’orlo del baratro dopo la morte di Lady Diana. Francesca Rossi, Mercoledì 07/10/2020 su Il Giornale. La biografia “Battle of Brothers”, di Robert Lacey, uscirà il prossimo 15 ottobre, ma già promette scintille. Una delle indiscrezioni contenute nel libro e riportate dal Daily Mail coinvolgerebbe direttamente il principe William, disintegrando il mito del futuro re serio e posato, del fratello protettivo, del modello d’ispirazione per Harry e per tutta la royal family. Chiariamo subito che le affermazioni di Lacey sono molto forti, ma sono anche tutte da dimostrare. Il dubbio è d’obbligo. L’autore sostiene che il seme della discordia tra il principe William e il principe Harry sarebbe stato gettato molto prima della Megxit, nel periodo immediatamente successivo alla morte di Lady Diana. Un momento di grande fragilità per entrambi i fratelli, costretti a vivere un lutto gravissimo quando erano ancora dei bambini. Sul Daily Mail Lacey dichiara: "Quando Harry raggiunse William a Eton nel 1998, un anno dopo la morte di Diana, la vita e la tragedia avevano unito ancor di più i fratelli che si supportavano reciprocamente. Trascorsero due degli anni in cui furono più a stretto contatto" e aggiunge: "William aveva fondato un circolo intimo e fidato di amici di Eton e suo fratello vi fu invitato. Ma molti membri del circolo avevano due anni più di lui e ciò rende verosimile che il quattordicenne sia stato iniziato a certe tentazioni troppo presto. L’evidente fiducia di Harry in se stesso era fuorviante. Non era maturo come appariva". Secondo l'autore Harry avrebbe anche iniziato a bere e a fumare, tutto sotto gli occhi del fratello maggiore, il quale non solo non si sarebbe preso cura di lui, ma lo avrebbe addirittura invogliato a tenere questi comportamenti sbagliati, trascinandolo sulla cattiva strada. La smania festaiola dei giovani principi avrebbe varcato perfino i cancelli di Highgrove, residenza di famiglia del principe Carlo. Lacey svela che l'erede al trono avrebbe adibito la cantina dell’antica dimora a discoteca, una sorta di circolo privato per i figli e i loro amici dal nome Club H. Lo scrittore lo descrive così: “Era dotato di un bar ben fornito e di un sistema audio all’avanguardia che ha fatto tremare ogni piano dell’edificio vecchio di 200 anni”. Tuttavia quando Carlo era in casa il principe William e il principe Harry avrebbero preferito un locale non troppo lontano, The Rattlebone Inn, dove sembra abbiano avuto accesso agli alcolici pur essendo minorenni. Robert Lacey spiega che i gestori del pub avrebbero finto di non vedere, in qualche modo rassicurati dal fatto che i ragazzi fossero sempre accompagnati dalle guardie del corpo. Quel periodo, però, sarebbe stato interrotto dalla partenza del principe William per il Belize. Un anno sabbatico in cui il duca di Cambridge avrebbe viaggiato e scoperto il mondo, mentre suo fratello sarebbe rimasto da solo a fronteggiare una situazione più grande di lui, demoni difficili da sconfiggere senza un adeguato sostegno. Robert Lacey punta il dito contro William, accusandolo di aver trascinato Harry nel fango, non essersi preso cura di lui e averlo abbandonato a se stesso quando aveva più bisogno. Il primogenito di Carlo e Lady Diana sarebbe poi diventato il principe senza macchia e senza paura, mentre a Harry sarebbe stata affibbiata la definizione, molto meno lusinghiera, di principe ribelle e scapestrato. Ripetiamo che in casi come questo conservare lo spirito critico è fondamentale. Non sappiamo come siano andate davvero le cose, non abbiamo abbastanza elementi per stabilirlo. Se volessimo fare delle ipotesi, potremmo suggerire che il principe William abbia tentato di proteggere Harry, ma non ci sia riuscito, che non fosse in grado di farcela da solo. Teniamo conto del fatto che entrambi erano molto giovani quando hanno perso la madre. Perfino per William può essere stato troppo dover portare il peso del lutto e, nello stesso tempo, essere la spalla su cui Harry poteva piangere. Una situazione insostenibile per qualunque ragazzino, anche per il più responsabile. Lacey, però, è molto critico anche nei confronti del principe Carlo. Nel 2002 i problemi di Harry vennero sbattuti in prima pagina, ma Carlo venne descritto come un padre premuroso, attento. Secondo il biografo, invece, l’erede al trono si sarebbe fatto distrarre non poco dalla sua storia con Camilla Parker Bowles e dalla volontà di farla accettare ai sudditi e alla royal family. Harry sarebbe stato trascurato dalla famiglia nel momento di maggior debolezza. Questo avrebbe compromesso, forse irrimediabilmente, i rapporti con il principe William e persino con Carlo e la regina, spingendolo a costruirsi una nuova vita lontano da Londra.

Quando Meghan diceva: "Voglio essere la più potente al mondo". L’indiscrezione arriva da Lady Colin Campbell: Meghan Markle avrebbe ordinato al suo staff di farla diventare la donna più famosa al mondo utilizzando, se necessario, perfino polemiche e controversie. Francesca Rossi, Giovedì 15/10/2020 su Il Giornale. “Che se ne parli bene o male, purché se ne parli”. La logica dietro a questo famoso detto, usato sia dentro che fuori dal mondo dello spettacolo, non ha bisogno di spiegazioni. Una filosofia della popolarità a qualunque costo che, grazie a Meghan Markle, avrebbe varcato perfino la soglia di Buckingham Palace. A lanciare questa nuova indiscrezione (da dimostrare), che ha per protagonista la duchessa di Sussex, è la sempre informata Lady Colin Campbell, biografa reale. Lo scorso 10 ottobre la vispa aristocratica 71enne è stata intervistata da Graham Norton sulla BBC e davvero non si è risparmiata. La Campbell, infatti, sostiene che Meghan Markle avesse studiato un piano dettagliato per diventare la donna più famosa del mondo, ordinando poi al suo staff di aiutarla a metterlo in pratica. La scrittrice ha confessato: “Meghan Markle aveva chiesto al suo team di PR di farla diventare la donna più famosa al mondo”. Quando avrebbe dato voce al suo intento, la duchessa viveva a Londra e la Megxit era ancora una possibilità poco plausibile. Lady Colin Campbell non si è fermata qui e ha anche dichiarato: “Davvero istruì i suoi addetti alle pubbliche relazioni perché la trasformassero nella donna più famosa del mondo. Seguendo una vera strategia. In questa chiave si leggono anche tutte le polemiche che l’hanno riguardata. E che appunto servono per attirare l’attenzione”. Sembra, insomma, che Meghan Markle si sia servita (e lo faccia ancora) delle controversie per far parlare di sé e rimanere al centro della scena. Proprio lei che ha sempre chiesto la privacy, che secondo la biografia “Finding Freedom” avrebbe cercato di schivare ogni giorno, dal suo arrivo a corte, le polemiche social e non, di voler volare alto. Sempre lei che ha appena fatto sapere di voler allontanare da sé la negatività criticona dei social, paragonando chi usa questi nuovi mezzi di comunicazione a un "tossicodipendente". Lady Colin ha un’opinione anche sulla vita di Harry e Meghan negli USA: “Lo dico adesso, anche se tutto è accaduto circa un anno fa. Ma davvero Meghan Markle in America si sta comportando in modo molto poco adatto al suo essere legata alla famiglia reale. Come se se ne stesse dimenticando”. La biografa è piuttosto scettica anche nei confronti degli interventi e dei discorsi online della duchessa. “Partecipa a imprese commerciali e si intromette nelle questioni politiche: cose che un membro della royal family non fa”. A questo proposito il magazine Amica ci ricorda che Meghan Markle è stata tra i protagonisti del Fortune’s Most Powerful Women Next Gen Virtual Summit, un evento online che si è svolto il 13 e il 14 ottobre 2020 e a cui era possibile assistere solo dietro pagamento di un biglietto da 1500 euro. Un’iniziativa inadeguata, almeno in questi termini, per una Windsor. Lady Colin Campbell tira in ballo anche il principe Harry: “Lo scorso anno ho saputo da fonti private che Meghan, con la connivenza di Harry, si stava informando su tutte le cose che in America le sarebbero state proibite in quanto membro della royal family” . Dunque i Sussex avevano in mente di andar via già molto tempo prima dell’annuncio ufficiale. Se ci fidiamo della Campbell, rimane un dubbio: Meghan Markle ha stilato la lista dei comportamenti proibiti negli Stati Uniti al fine di evitarli, oppure di utilizzarli tutti per attirare l’attenzione? Lady Colin ha una sua teoria: “Essere la persona più conosciuta sulla Terra era un obiettivo deliberato, che aveva quindi una certa linea di condotta per il suo raggiungimento. Ecco, io credo che se non riesci a creare controversie non sei poi così famoso”. Già nel suo libro, “Meghan and Harry, The Real Story”, Lady Colin ha riservato alla duchessa giudizi tutt’altro che teneri: “Meghan Markle ha sempre desiderato essere una star, per questo ha sempre avuto una certa propensione all’esagerazione”. Ha poi inferto un’altra stoccata alla moglie del principe Harry, confidando che sarebbe “assetata di fama e successo” e “tutta la vita di Meghan è come se fosse un palcoscenico”, poiché il suo vero obiettivo sarebbe da sempre quello di “diventare qualcuno, lasciare il segno”. La biografa, però, non può ignorare che anche le sue interviste e il suo libro sono dei fari accecanti puntatati sulla Markle. Per questo ai microfoni della BBC ha ammesso: “In qualche modo anch’io sto contribuendo ad aumentare la sua popolarità. Ma a me importa solo che ci sia una storia interessante da raccontare”.

"Ha oltrepassato il limite": la furia della Regina su Harry. Il principe sarebbe atteso, a breve, nella sua residenza di Frogmore Cottage per un duro confronto con la sovrana. Il personale è stato allertato dalla staff reale. Novella Toloni, sabato 10/10/2020 su Il Giornale. Il principe Harry è pronto a tornare in Gran Bretagna. Questa volta però la sua non sembra essere una libera scelta. A richiamare in patria il duca di Sussex è stata la regina Elisabetta che, secondo il tabloid britannico The Sun, ha richiesto un confronto urgente con il nipote. Il personale di servizio della residenza dei Sussex è stato allertato (dopo mesi di inattività) e questo la dice lunga sul possibile, quanto imminente, ritorno a corte di Harry. La condotta di Harry e Meghan negli Stati Uniti non sembra aver entusiasmato la regina Elisabetta che, anzi, sarebbe furiosa con il nipote per le dichiarazioni politiche rilasciate sul tema delle elezioni americane. Nelle scorse settimane i duchi di Sussex, infatti, si sono schierati apertamente contro Trump e durante un intervento sulla ABC non hanno fatto mistero di "preferire" Biden. Uno smacco alla corona, che storicamente è tenuta alla neutralità politica. E così, dopo mesi di silenzio, da Buckingham Palace è addirittura arrivata una precisazione in merito alle parole di Harry e Meghan: "Il duca non è un membro attivo della famiglia reale e qualunque commento faccia è a titolo personale".

Harry e William mai così lontani. Torna pure il fantasma di Lady D. Insomma la famiglia reale prende le distanze dalle posizioni del principe e della consorte, ma la regina non è disposta a tollerare altri passi falsi dei Sussex. Per questo avrebbe chiesto un confronto faccia a faccia con Harry. A rivelarlo, in esclusiva, è il quotidiano The Sun che ha svelato di un'accesa telefonata intercorsa tra Elisabetta II e Harry subito dopo il rientro al castello di Windsor della sovrana. "Ha oltrepassando il limite - hanno confermato gli addetti ai lavori di palazzo - la regina è pronta a rimproverarlo per la sua condotta. Al personale Frogmore Cottage e Windsor è stato detto di prepararsi alla possibilità che Harry possa tornare. Potrebbe essere entro poche settimane, ma il nome di Meghan non è stato menzionato". Il principe Harry potrebbe dunque tornare nel Regno Unito per discutere della sua condotto negli States, ma senza Meghan Markle e il piccolo Archie. Gli insider reali rivelano: "Anche se Harry dovrà isolarsi per due settimane per le regole anticontagio la tenuta è abbastanza grande per i colloqui in modo socialmente distante. Ci sono molte questioni di cui parlare non solo le sue dichiarazioni politiche, ma anche la sua situazione dei visti negli Stati Uniti e il punto sulla Megxit".

Paola De Carolis per il “Corriere della Sera” il 12/10/2020. Una situazione «insostenibile, «invivibile», quasi «insuperabile»: l' anno orribile della duchessa di Sussex è stato il 2019. Il divorzio dai Windsor, l' addio alla Gran Bretagna e il trasferimento in California non sono che la punta di un iceberg la cui vera insidia si è mossa lungo i canali dei social. Meghan Markle è stata «la persona più "trollata" dell' anno, maschio o femmina, in tutto il mondo». Lo ha rivelato lei stessa a tre adolescenti statunitensi che sono andati a intervistarla con il marito, per un podcast sulla salute mentale, Teenager therapy. «Per otto di quei 12 mesi - ha sottolineato la duchessa - non sono neanche stata visibile, ero in pausa maternità o al fianco di un neonato, eppure ciò che è stato costruito e diffuso.. è quasi insuperabile. È così enorme che quasi non si riesce a pensare a come ti fa sentire». Markle può risultare simpatica o meno, ma la campagna denigratoria da cui è stata colpita è senza precedenti: il peso, il colore della pelle, le aspirazioni, i gusti, gli abiti, i capelli, lo yoga. Meghan ha ricevuto critiche e minacce che, prima ancora della decisione dei Sussex di abbandonare i reali, avevano portato Buckingham Palace a creare nuove regole per i social. Nell' intervista ha esposto i danni inflitti alla salute mentale dal trolling e raccontato che è riuscita a stare meglio grazie alla scrittura, poche frasi in un diario ogni sera: «Un' ancora».

Spunta la verità: "La regina voleva mandare Harry e Meghan in Africa". La Megxit poteva essere evitata e la regina Elisabetta avrebbe cercato in tutti i modi di impedire a Harry e Meghan di abbandonare i loro doveri di corte, studiando perfino una specie di “piano B”. Francesca Rossi, Martedì 06/10/2020 su Il Giornale. La regina Elisabetta avrebbe cercato con ogni mezzo possibile di impedire la Megxit. Lo rivela il libro del biografo reale e storico Robert Lacey, “Battle of Brothers”. Quest’anno solo “Finding Freedom” è riuscito a catturare così tanto l’attenzione di media e pubblico. Del resto Lacey è una voce puntuale e autorevole, uno storico, oltre che esperto reale. Certo, più ancora della sua indiscussa fama, sono le sorprendenti rivelazioni contenute nella biografia ad affascinare i fans dei Windsor, stimolando i tabloid a centellinare giorno per giorno gli aneddoti contenuti nel libro. Uno di questi si focalizza sull’impegno della regina Elisabetta per evitare la Megxit. Sua Maestà non poteva ignorare che l’allontanamento di Harry e Meghan avrebbe avuto delle conseguenze sulla popolarità e sull’immagine della royal family, così avrebbe cercato in tutti i modi di evitarla.

L’indiscrezione: "William non ha voluto pranzare con Harry". Secondo Robert Lacey la sovrana aveva studiato una strategia, una specie di “piano B” per consentire ai Sussex di mettere una discreta distanza tra loro e il gossip, senza rinunciare ai loro ruoli come “working members” (senior che hanno un ruolo istituzionale, che lavorano per la monarchia) dei Windsor. Lo storico sostiene che Elisabetta non fosse contraria all’idea di far vivere a Harry e Meghan “una vita normale”, purché ciò avvenisse in uno Stato del Commonwealth. In questo modo Harry e Meghan avrebbero avuto una maggiore indipendenza e tranquillità lontani da Buckingham Palace, ma non dalla Corona. La regina Elisabetta aveva anche pensato alla possibile destinazione. Il Sudafrica. Quale luogo migliore se non quello in cui era nato l’amore tra i Sussex? Il posto in cui Harry ha sempre detto di sentirsi a casa, con cui ha un legame speciale tramandatogli da Lady Diana. Robert Lacey descrive così la strategia della sovrana: “L’idea era proporgli un trasferimento in Sudafrica, a Johannesburg, dove avrebbero conservato un ruolo di grande responsabilità all’interno del Queen’s Commonwealth Trust e avrebbero inoltre potuto portare avanti i loro progetti sociali”. Elisabetta II non sarebbe stata insensibile nei confronti di Harry e Meghan. Del resto anche lei aveva vissuto un’esperienza simile in gioventù.

La regina Elisabetta furiosa con Harry e Meghan. A rischio la Megxit. Dal 1949 al 1952 si trasferì a Malta per stare accanto al principe Filippo, allora tenente comandante della Marina Reale sul cacciatorpediniere Hms Chequers. Per Elisabetta quelli furono anni spensierati, di libertà, lontani dal protocollo e dal gossip. Dovette rientrare, però, quando il padre morì, il 6 febbraio 1952. Allora la futura regina era impegnata in un tour tra Australia e Kenya. Aveva nostalgia della famiglia e pare che il suo rimpianto sia quello di non essere rimasta accanto a Giorgio VI nelle sue ultime ore. La vita di Elisabetta cambiò nel giro di poche ore, ma questo non significa che abbia dimenticato quegli anni lontano da Buckingham Palace. Una curiosità: a Malta Elisabetta visse i primi anni di matrimonio andando in giro in auto da sola e abitando nella bella Villa Guardamangia (il nome originale è Villa Medina) una casa dei primi anni del Novecento. La regina conserva uno splendido ricordo della villa, al punto da ritornarvi nel 1992, per il 60esimo anniversario di matrimonio e nel 2007 durante una visita ufficiale (durante la quale sembra che i proprietari della casa le abbiano impedito l’accesso). Forse quando Harry annunciò pubblicamente il desiderio di andare via, di cambiare aria, la regina Elisabetta tornò con la mente a quei giorni felici a Malta e il “piano B” potrebbe esserne una prova.

Panico per Harry e Meghan: "La regina Elisabetta pronta a cambiare gli accordi della Megxit". Purtroppo, però, la strategia è fallita. Secondo Lacey l’esito infausto della trattativa sarebbe dipeso anche da un passo falso della regina Elisabetta: “L’errore della sovrana, su pressione dei figli Carlo e Andrea, è stato sostituire lo storico segretario privato Christopher Geidt con Edward Young” e ha concluso: “Se ci fosse stato Geidt al vertice di Sandringham le cose sarebbero andate diversamente” perché questi aveva compreso le potenzialità di Harry e Meghan e i modi giusti per sfruttarle. La Megxit sarebbe figlia anche di un errore di calcolo, ma non di scarsa empatia regale. Per Lacey, comunque, una cosa è certa: “Elisabetta voleva unire, non certo dividere”.

"Siete solo dei pagliacci". Lo zio di Kate si scaglia contro Meghan Markle. Sulla Megxit si sfoga il fratello di Kate Middleton, il quale si lascia andare a dichiarazioni al veleno su Meghan Markle e il Principe Harry. Carlo Lanna, Lunedì 05/10/2020 su Il Giornale. Tempi duri per la corona inglese. La famiglia reale non solo deve fare i conti con una disarmante crisi economica e sociale scaturita dalla diffusione del virus, ma deve ancora fronteggiare i malumori interni a causa dell’uscita di scena di Meghan Markle e del Principe Harry. Sono trascorsi mesi da quell’annuncio senza precedenti, da quella fatidica data di inizio gennaio in cui è stata annunciata la famigerata Megxit e, a distanza di quasi un anno, le polemiche non si sono placate. Ancora oggi, però, c’è chi non riesce proprio a digerire la scelta degli ex Duchi del Sussex. Meghan ed Harry ora vivono a Los Angeles ma quella "libertà" tanto agognata pare che sia proprio un miraggio. Sulle polemiche si pronuncia anche Gary Goldsmith. Lui è il fratello di Carlole Middeleton e zio della duchessa di Camdridge, e di recente si è lanciato in affermazioni poco lusinghiere rivolte al principe e a Meghan. Sono trapelate durante uno scambio di battute su Linkedin. Lo sfogo è stato poi cancellato ma il The Sun è riuscito comunque ad intercettare la conversazione, pubblicando un articolo che in poche ore ha fatto subito il giro del web. "Sono dei pagliacci", afferma Gary in riferimento al comportamento di Meghan e del Principe. "Con tutto quello che sta succedendo al mondo, stanno facendo di tutto per stare al centro dell’attenzione – aggiunge -. Per favore, chiudete il becco e allevate il vostro bambino. Smettetela di parlare e di pretendere”. Poi l’affondo indirizzato al principe: “Harry, hai perso tutto il nostro amore e il rispetto. Meghan, sei disonesta. Tacete, qui c’è un’economia da salvare", conclude. Le pungenti dichiarazioni dello zio di Kate Middleton lasciano il segno. Fino ad ora dalla casa reale nessuno ha replicato o ha rettificato quanto accaduto, ma quello che è avvenuto evidenzia un malcontento molto profondo. Non solo la famiglia reale ma anche i Middleton stanno covando dell’astio nei riguardi degli ex duchi. La situazione è molto complicata e di difficile soluzione. A queste dichiarazioni, che secondo i ben informati sono già arrivate alle orecchie di Meghan, ci sono altri problemi che la ex coppia reale deve affrontare. La causa in tribunale contro la stampa inglese, ad esempio, sta regalando un colpo di scena dopo l’altro. Come l’accusa rivolta alla Markle. La duchessa avrebbe aiutato Scobie e Durand a scrivere la sua prima autobiografia. Per tutto il resto, si attendono i risvolti sulla questione.

"L'omaggio ai caduti? Una messa in scena". Quel sospetto su Harry e Meghan. I duchi di Sussex sono tornati in pubblico in occasione della Giornata della Memoria, ma la loro uscita ufficiale, con fotografo al seguito, non è stata apprezzata dal popolo social che si è scagliato contro di loro. Novella Toloni, Lunedì 09/11/2020 su Il Giornale. Mentre a Londra la regina Elisabetta II rendeva omaggio al Milite Ignoto, durante una cerimonia privata all'abbazia di Westminster, dall'altra parte dell'oceano il principe Harry e Meghan facevano altrettanto in un cimitero di Los Angeles. Un parallelismo che mostra, se mai ce ne fosse ancora bisogno, la reale scissione tra i duchi di Sussex e la famiglia reale. Il gesto di Harry e Meghan, però, non ha raccolto il favore della gente e sui social la coppia reale è finita letteralmente alla gogna. Con l'addio al Regno Unito e la rinuncia ai doveri reali Harry e Meghan hanno fatto un passo indietro rispetto agli obblighi che la famiglia deve mantenere. Ma mentre l'ultima uscita celebrativa della regina, del principe William e di sua moglie Kate rientrava negli impegni istituzionali, quella del principe Harry e Meghan Markle è apparsa, agli occhi di molti, una mera trovata pubblicitaria. Nella giornata dell'8 novembre, in occasione del centenario del Remembrance Sunday, il principe Harry e sua moglie Meghan Markle sono stati fotografati mentre visitavano il cimitero nazionale di Los Angeles. Una visita definita "privata" nella quale hanno deposto una ghirlanda e reso omaggio ai caduti. La commemorazione, però, è stata immortalata dagli scatti di un fotografo professionista, chiamato dai duchi, e per molti il senso di "privato" e "personale" dell'omaggio è scivolato via in un batter d'occhio. Per gli internauti i Sussex hanno trovato solo l'occasione per tornare in pubblico e far nuovamente parlare di sé.

A riportare le decine di commenti negativi contro i Sussex - comparsi nelle ultime ore sui principali social network - è stato il tabloid britannico Express, che ha raccolto una parte delle pubblicazioni. Per gli utenti del web Harry e Meghan hanno dato vita a una "messa in scena" del Giorno della Memoria e hanno duramente criticato la coppia: "Capisco perfettamente il desiderio di commemorare la giornata da veterano dell'esercito. Ma non capisco le fotografie troppo da messa in scena", "Pensavo volessero la privacy e non lavorare alla Royals?", "Oh guarda, hanno preso il loro fotografo e l'hanno trattato come un servizio fotografico sono incredibili", "Niente come celebrare personalmente la giornata come chiudere il cimitero al pubblico e portare con sé un fotografo".

Estratto del libro di Vittorio Sabadin “La guerra dei Windsor” pubblicato da "La Stampa" il 9 novembre 2020. Il 9 luglio 2016, seduta nella tribuna di Wimbledon, Meghan Markle aveva visto Serena Williams alzare le braccia al cielo dopo avere facilmente sconfitto in finale la tedesca Angelique Kerber, e conquistato il ventiduesimo Slam della sua carriera. Da quella donna eccezionale, la miglior tennista di tutti i tempi, Meghan aveva solo da imparare. L' aveva conosciuta due anni prima in California, (...) si erano scambiate i numeri di telefono e tenute in contatto. Nate nello stesso anno, a poche settimane di distanza l' una dall' altra, avevano scoperto subito di avere anche altro in comune: ambizione, determinazione, sogni nel cassetto ancora da esprimere al di fuori della carriera che avevano scelto. Williams progettava di diventare una creatrice di moda. Meghan ancora non lo sapeva con sicurezza, ma di certo non si sarebbe fermata dov'era. Era arrivata a Londra un mese prima, decisa a fare conoscenze importanti e magari a trovare un lavoro migliore. Meghan era convinta che Londra, esaurita la spinta propulsiva di Suits , sarebbe stata una buona scelta. Tornare a Los Angeles non serviva a niente. Andare a New York per elemosinare un lavoro a Broadway neppure. Ma sull' agenda del suo telefono c' erano ormai quasi tutti i nomi che le servivano per attraversare l' oceano, e trovare sull' altra sponda un' accoglienza adeguata ai suoi talenti. La partecipazione di Serena Williams a Wimbledon era l' occasione giusta. Sarebbe andata a sostenere la sua cara amica e avrebbe fatto altre conoscenze. Conobbe Lizzie Cundy, ex moglie del calciatore del Chelsea Jason Cundy, diventata una star della tv in un programma dedicato alle mogli e alle ragazze di sportivi famosi, note con l' acronimo di WAG (Wives And Girlfriends). Incontrò anche, su un livello sociale più elevato, Violet von Westenholz figlia del barone Piers von Westenholz, ex sciatore olimpico e grande amico del principe Carlo: è praticamente cresciuta con William e Harry sulle piste di Klosters. Con Lizzie Cundy fu molto esplicita. La regina delle WAG britanniche ha raccontato che Meghan le disse chiaro e tondo che voleva lasciare Suits, trasferirsi a Londra, unirsi magari al cast di Made in Chelsea e sposare un britannico «ricco e famoso». I gentlemen ricchi e famosi non mancano di certo in Inghilterra, ma Cundy sapeva che unirsi al cast di Made in Chelsea sarebbe stato un po' più complicato. Le consigliò di incontrare Ashley Cole, che aveva però il difetto di essere un noto sciupafemmine e, secondo Lady Colin Campbell, anche di essere di colore. Meghan, insinua la sempre pungente biografa reale, non ha mai voluto legarsi a uomini di colore. C' erano stati contatti anche con Matt Cardle, ma il vincitore dell' X Factor inglese ha poi smentito di essere andato oltre qualche scambio di complimenti su Twitter. Non si sa chi sia stato a organizzare l' incontro tra Meghan e il principe Harry. Tutti i sospetti ricadono su Violet von Westenholz, la quale sapeva che Harry voleva mettere la testa a posto e incontrare finalmente una ragazza da sposare. La gente lo amava e pensava che si divertisse molto, ma dietro all' apparenza sbarazzina e spensierata si celavano ancora un profondo sconforto e una grande solitudine. Spesso Harry si arrabbiava per nulla e aggrediva persone senza motivo: aveva bisogno di ritrovare una stabilità che solo l' esercito gli aveva garantito. Harry si lasciò facilmente convincere ad andare all' appuntamento con Meghan, fissato al 5HS, uno dei più esclusivi club privati di Londra, aperto dal miliardario Robin Birley al 5 di Hertford Street, nel quartiere di Mayfair. Il principe non aveva mai sentito parlare di Meghan Markle, né aveva mai visto una sola puntata di Suits. Probabilmente, nel sentire il suo nome, aveva reagito con la domanda che molti facevano in quei giorni a Londra: «Meghan chi?» Anche Meghan ha sostenuto di non sapere nulla di Harry, ma è stata smentita da molte amiche che hanno ricordato i libri che aveva in casa su Lady Diana e le molte volte in cui aveva rivisto le immagini del suo funerale, con il piccolo Harry che seguiva il feretro. Quando annunciò a Lizzy l' appuntamento, lei commentò che quella era davvero una «buona pesca» e Meghan rispose: «Sì, lo so». Il primo appuntamento andò molto bene. Harry probabilmente fu colpito dalla determinazione di questa nuova ragazza, dalla mancanza di qualsiasi atteggiamento riverente nei suoi confronti, dalla sua ostentata indipendenza e forse anche da tutte le frasi che, secondo i suoi detrattori, Meghan sa usare molto bene quando vuole conquistare qualcuno. Fu lei a proporre di rivedersi il giorno dopo e a scegliere la Soho House di Dean Street, il club privato con sedi in tutto il mondo di cui aveva conosciuto il direttore a Toronto. I servizi segreti, gli ambasciatori a Washington e a Ottawa devono essersi messi all' opera «per conoscere meglio questa ragazza», come consigliava William. A palazzo i funzionari incaricati di occuparsi con la massima discrezione della vicenda avevano capito benissimo che ogni informazione negativa su Meghan sarebbe stata bollata come «sessista e razzista». C' era anche un altro evidente problema, irrisolvibile. Nel suo sito web, Meghan interveniva spesso prendendo posizione su temi come il razzismo, il femminismo, le identità culturali e la politica. Il ruolo di una duchessa della Royal Family non prevedeva che ci si esprimesse con così tanta libertà: richiedeva silenzio, riflessione, neutralità. Meghan avrebbe mai accettato di stare zitta? Molti ne dubitavano.

La verità dietro la Megxit: Harry e Meghan sono scappati dalla regina per un equivoco. Per mesi le pagine dei tabloid sono state riempite da innumerevoli congetture sul reale rapporto tra la regina Elisabetta e Meghan Markle, ma qual è la verità? Francesca Rossi, Venerdì 02/10/2020 su Il Giornale. Non sono rari i titoli di giornali che contrappongono la regina Elisabetta a Meghan Markle. La prima nel ruolo della nonna sovrana arrabbiata perché pretende il rispetto delle tradizioni, la seconda nella veste scomoda della ribelle che vuole a tutti i costi svecchiare la monarchia inglese. Siamo sicuri che il rapporto tra la monarca e la duchessa sia così complicato? O magari lo è diventato col tempo? Oppure ancora qualcuno ha giocato su una ipotetica rivalità? Stando alle indiscrezioni dei tabloid, l’affaire della tiara di nozze avrebbe rappresentato un punto di rottura nella relazione, già in precario equilibrio, tra Elisabetta e Meghan. Quest’ultima avrebbe preteso di indossare, per il suo matrimonio, una tiara di smeraldi russi appartenuta alla granduchessa Vladimir. La regina, infastidita da tanta supponenza e considerando che all’epoca del royal wedding i rapporti diplomatici con la Russia non erano idilliaci, avrebbe imposto la sua insindacabile volontà, scegliendo la tiara al posto di Meghan Markle e dichiarando senza giri di parole: “Meghan non può avere tutto. Avrà la tiara che io le darò”. Secondo la biografia “Finding Freedom”, però, le cose non sarebbero andate affatto così. Certo, il libro in questione è sfacciatamente sbilanciato in favore dei Sussex, ma presenta una versione dei fatti che non può essere esclusa a priori. La regina Elisabetta avrebbe solo consigliato Meghan Markle sulla scelta della tiara, ma entrambe si sarebbero fin da subito trovare d’accordo sul diadema a fascia della regina Maria. Insomma, il fatto non sussiste. La sovrana e la duchessa avrebbero sempre nutrito un sentimento reciproco di rispetto e simpatia, almeno fino alla Megxit. Per raccontare l'inimicizia tra la monarca e la duchessa i tabloid avrebbero calcato la mano su questo episodio, dimenticando tre piccoli particolari ben evidenziati, invece, dagli autori di Finding Freedom: l’impulsività mescolata a un possibile complesso di inferiorità di Harry e Meghan, il silenzio della sovrana e l’(onni)presenza dello staff regale che avrebbe complicato e alcune volte perfino ostacolato i rapporti tra Harry e la regina Elisabetta, favorendo le fughe di notizie. Una prova potrebbe essere l’appuntamento con la nonna che Harry non riusciva a ottenere dai funzionari di corte, nonostante le numerose insistenze. Dal canto loro, invece, Harry e Meghan avrebbero spinto troppo per accelerare la Megxit, sentendosi esclusi dalla famiglia, incompresi e inascoltati. La loro smania di fuggire li avrebbe portati a travisare episodi innocui, come quello avvenuto durante la registrazione del discorso natalizio nel 2019. La regina Elisabetta non avrebbe voluto la foto dei Sussex sulla sua scrivania, in bella mostra. L’esperto reale Russel Myers spiegò a Channel 5: “Il fatto che non ci fosse la loro foto sulla scrivania della regina è stato fondamentale. In quel momento si sono sentiti rifiutati”. L’esperta Katie Nicholl, invece, ribatté che la scelta delle foto da esibire durante il discorso natalizio era dettata solo dall’ordine di successione al trono: da Giorgio V fino a Baby George. L’impressione è che la Megxit sia un grande equivoco del silenzio e dell’incomprensione. Se nonna e nipote (insieme a Meghan) si fossero parlati da soli, subito, senza far caso all’agenda, forse l’uscita di scena dei duchi si sarebbe potuta evitare. O, almeno, ridimensionare.

Emily Stefania Coscione per "iodonna.it" il 2 ottobre 2020. A rivelarlo è stata Ingrid Seward, nota royal watcher inglese, in un’intervista televisiva a Sky News: il principe Filippo si sarebbe lanciato contro Meghan, 39 anni, per non aver voluto sostenere la monarchia e il marito Harry. E il duca di Edimburgo non comprende come la duchessa di Sussex abbia potuto dare priorità alla «propria voce», anziché assistere e sostenere Harry nei suoi doveri reali.

I sacrifici di Filippo. Quando Elisabetta divenne regina, nel 1952, il duca di Edimburgo rinunciò a una promettente carriera militare per porsi al servizio della moglie, rimanendo al suo fianco per oltre sette decadi, ma camminando sempre qualche passo indietro. E non ha nascosto la propria delusione nei confronti del nipote Harry, con cui condivide la passione militare ma che ha visto rinunciare improvvisamente a tutti i suoi ruoli ufficiali per seguire la moglie oltre Oceano e condurre una vita completamente diversa.

L’assenza dal summit. Il principe, però, non vuole più farsi coinvolgere in questioni riguardanti Harry e Meghan. Secondo quanto rivelato da Ingrid Seward, Filippo, affranto dalla notizia della loro partenza e dal fatto che le nuove generazioni di reali non sembrano condividere i suoi principi, non ha voluto prendere parte al summit sulla Megxit a Sandringham, lo scorso gennaio, rifiutandosi di discuterne, in quell’occasione, con Elisabetta, Carlo e William. Il duca di Edimburgo fu visto lasciare in fretta la residenza pochi minuti prima del loro arrivo.

I dubbi del principe. Filippo fa fatica a comprendere i motivi alla base della decisione di Harry di abbandonare il suo paese e tutto ciò che gli era familiare: «Il principe non capisce cosa abbia reso così insopportabile la vita del nipote” ha aggiunto la Seward, che ha scritto una nuova biografia, Prince Philip Revealed: A Man of His Century, pubblicato oggi in Gran Bretagna dalla  casa editrice Simon & Schuster UK. «Harry e Meghan avevano tutto, una bella casa, un figlio perfetto. E un’opportunità unica di impattare globalmente con il proprio lavoro benefico».

Non tutte le principesse scappano (e Meghan dovrebbe saperlo). La vita a corte è davvero così soffocante e dura? Dalla regina Elisabetta all’imperatrice Sissi fino alla principessa Sofia di Svezia, non tutte le principesse fuggono davanti ai doveri di corte come hanno fatto il principe Harry e Meghan Markle. Francesca Rossi, Venerdì 18/09/2020 su Il Giornale. La Megxit è stata una decisione sensata o dettata da un capriccio, o magari dall’incapacità di conciliare diversi ruoli? Il principe Harry e Meghan Markle hanno gettato la spugna troppo presto, rinunciando ai doveri, ma anche ai molti privilegi reali? Da mesi ci facciamo queste domande senza riuscire davvero a darci una risposta. La Storia, però, può venirci in aiuto. Pensiamo alla zarina Caterina II. Non era che una semplice principessa tedesca, una straniera su cui nessuno avrebbe scommesso neanche un rublo. Tradita e umiliata da un marito inetto, tenuta in considerazione solo per la sua capacità di generare eredi, Caterina si ritrovò sola in un ambiente ostile, ma non si piegò. Si adattò al clima ostile e, infine, colse l’occasione per spodestare suo marito con un colpo di Stato (forse ne ordinò perfino la morte) e a inaugurare uno dei regni più potenti e importanti di Russia. Anche Maria Antonietta era una straniera invisa alla corte francese. Le sue origini austriache le vennero rinfacciate fino al patibolo, dando adito anche a penosi giochi di parole (in francese “austriaca” si dice “autrichienne”, che contiene la parola “chienne”, “cagna”, da qui “la cagna austriaca”). Come dimenticare, poi, l’imperatrice Sissi? I viaggi, gli estenuanti esercizi di ginnastica non erano che un modo per sfogare l’insofferenza che nutriva nei confronti delle opprimenti regole di palazzo. Una volta l’imperatrice avrebbe detto: “Voglio tanto bene all’imperatore. Se almeno non fosse imperatore!”. Persino la regina Elisabetta ebbe i suoi grattacapi in tal senso. Proprio lei che oggi è un simbolo di abnegazione alla Corona e tra i reali più popolari e amati. Quando salì al trono Winston Churchill era disperato. Riteneva che una donna non fosse in grado di governare. Elisabetta, poi, aveva l’aggravante di essere troppo giovane. “È solo una bambina”, tuonò Churchill. La giovane regina, allora 27enne e madre di due figli, non si fece intimorire. Incontrò il suo primo ministro e iniziò a lavorare con lui, accettandone i consigli ma mantenendo integra la sua volontà. Con il tempo Churchill imparò ad ammirarne le doti politiche e diplomatiche, rendendosi conto di aver dato giudizi troppo affrettati. Sembra che sia arrivato a volerle bene come fosse sua figlia, mentre Elisabetta lo considererebbe il suo primo ministro preferito. Oggi la principessa Sofia di Svezia, moglie del principe Carl Philip, tra i reali moderni più chiacchierati ed ex modella, sostiene che non tornerebbe mai sulle passerelle e aggiunge: “Credo di aver trovato un equilibrio fantastico e credo sia positivo essere riuscita ad attraversare anche anni tempestosi” sconfiggendo le “molte crisi d’identità” che l’hanno accompagnata negli anni. Harry e Meghan Markle, invece, non sono riusciti a reggere pressioni ben più blande di quelle descritte. Stando alle indiscrezioni scagliate dai tabloid come bombe, la duchessa di Sussex non avrebbe mai digerito il suo ruolo da "eterna seconda" all'ombra di Kate Middleton. Il desiderio di primeggiare e l'ambizione - forse troppo marcata - sarebbero tra le cause degli attriti con la cognata. Per non parlare della continua fuga di Meghan dai paparazzi e dagli articoli di giornale diventati, per lei, quasi un'ossessione. I Sussex si sono sentiti "perseguitati" da giudizi che la maggior parte dei reali, moderni e non, semplicemente ignora(va). Perché alla fine tutto questo fa parte del gioco. Un gioco che ha delle regole ben precise. Loro volevano giocare, il gioco era bello. Ma mal tolleravano quelle regole. Hanno provato a cambiare, ma non è stato possibile. Le regole (e il pacchetto di corte) hanno vinto, loro no.

Lady Diana e il principe Carlo, decenni dopo spunta una pesantissima foto: la verità che non ci hanno raccontato. Roberto Alessi su Libero Quotidiano il 13 dicembre 2020. A volte basta una foto per rivivere momenti lontani nel tempo. Attimi di spensieratezza distanti dalla tristezza e dal peso della quotidianità. Forse era proprio quello che voleva Giancarlo Giammetti, collaboratore storico di Valentino (di cui è stato anche compagno di vita per dodici anni), quando ha pubblicato sul suo profilo Instagram una foto che ritraeva la principessa Diana Spencer sorridente con lo stilista e il principe Kyril di Bulgaria in vacanza. Con loro, ha tenuto a precisare Giammetti su Instagram, c'era anche il principe Carlo. Forse per ricordare che la "Principessa triste", come viene chiamata Diana, è stata anche felice con Carlo. Una foto condivisa non a caso, ma per celebrare l'eterna icona che è tornata al centro delle cronache internazionali grazie alla premiata serie tv The Crown. E viene raccontato anche il matrimonio infelice con Carlo, dai loro primi incontri alla nascita dei loro figli. Tra Diana e Carlo è sempre stata una lontananza poi finita in tragedia o, come nella foto di Giammetti, ci sono stati momenti d'amore come lascia intendere quella posa rilassata e consapevole della Principessa? Anche in una vicenda così tragica da culminare con la morte di Diana, l'amore ne ha caratterizzato i momenti più felici. Forse quelli vissuti lontani da corte, a bordo di una barca in mezzo al mare, distanti da tutti, solo lei, Carlo, pochi amici e quell'intimità nascosta che mai nessuno potrà conoscere e che è bello pensare ci sia stata veramente. O no? 

Dopo anni di silenzio spunta la verità: "Lady Diana licenziò la tata per gelosia". Il libro di Robert Lacey, “Battle of Brothers”, cerca di chiarire il motivo per cui Lady Diana avrebbe licenziato la tata di William e Harry, una vicenda di cui non si è mai saputo molto. Francesca Rossi, Lunedì 12/10/2020 su Il Giornale. La storia della royal family inglese è piena di segreti e misteri più o meno importanti. Alcuni di questi riguardano la vita e la morte di Lady Diana. Uno in particolare potrebbe spiegare molte cose sul comportamento e sul carattere della principessa del Galles. Si tratta di una storia che potrebbe sembrare niente di più che un capriccio della moglie di Carlo, un gesto per ottenere attenzione e considerazione. Il licenziamento della prima tata dei principi William e Harry, ovvero Barbara Barnes. Secondo la biografia di Robert Lacey, “Battle of Brothers”, Lady Diana decise di fare a meno dell’aiuto della Barnes per riaffermare la sua autorità materna, ma la royal family, a partire dal principe Carlo, non comprese le ragioni profonde di questa scelta.

Lady Diana era gelosa della baby sitter di William. Uno stralcio del libro, riportato dal Daily Mail, sostiene che Barbara Barnes fosse tanto impeccabile quanto estremamente rigida e protettiva nei confronti dei royal baby. Forse troppo. “Il piano delle stanze dei bambini era controllato da Barbara come fosse il Vaticano…quello era il suo regno” ha detto una fonte al biografo. Dunque Lady Diana non avrebbe temuto solo il confronto con questa tata perfetta e inattaccabile, ma soprattutto che le portasse via l’affetto dei figli, accentrandolo su di sé, visto che con William e Harry passava tutta la giornata. Inoltre il suo metodo educativo non sembrava avere difetti. Durante il primo colloquio con Carlo e Lady Diana la tata spiegò: “Non credo che nell’allevare un bambino reale sorgano problemi diversi da quelli degli altri. Basta trattarli tutti come individui”. La fragile principessa del Galles non riusciva a opporsi all’indole fiera e caparbia della Barnes. Quest’ultima, come scrive Tatler, “scoprì presto di dover fare da tata anche alla sua datrice di lavoro 21enne”. Barbara aveva 42 anni quando entrò a far parte dello staff di Kensington Palace, quindi la differenza d’età e di esperienza di vita tra le due donne era molto profonda. Inoltre, all’epoca, il matrimonio di Lady Diana stava già mostrando i primi scricchiolii. I numerosi impegni con le cause umanitarie che la principessa aveva abbracciato e gli enti benefici di cui era patrona, uniti alle incomprensioni con Carlo e ai disturbi alimentari che la tormentavano, le sottraevano tempo ed energie che avrebbe potuto spendere con i suoi figli.

Carlo non ha mai voluto Diana. "L'amore? È una stretta di mano". Questa situazione favorì la tata e il suo metodo educativo, togliendo spazio al ruolo materno di Lady Diana. Una fonte ha persino rivelato a Lacey che la Barnes sarebbe diventata “una madre surrogato”. Un’affermazione molto forte. Di fatto, però, i figli dell’erede al trono si erano affezionati a lei, la chiamavano “Baba”. Barbara insegnò a William e Harry a camminare e persino a leggere e a scrivere (forse le ultime due attività furono dedicate soprattutto a William). Nel 1986 Lady Diana prese una decisione definitiva: avrebbe licenziato Barbara Barnes. Non sarebbe stato facile. La tata era benvoluta a corte ed era stata fortemente raccomandata da Lady Anne Tennant, dama di compagnia della principessa Margaret. In più era una donna molto discreta (non spifferò mai nulla ai giornali sulla sua vita a Kensington Palace, neanche dopo il licenziamento) e già questo la faceva sembrare una perla rara a corte. Alla fine Lady Diana trovò un appiglio e furono proprio i paparazzi a offrirglielo, seppur involontariamente. Barbara Barnes era stata fotografata sull’isola di Mustique al compleanno di Lord Glenconner, suo precedente datore di lavoro. Scatti normalissimi, per nulla scandalosi, ma alla principessa non piacque il fatto che i giornalisti trattassero la sua tata come una celebrità. Ordinò allo staff di mandare via la donna e di farlo in fretta, in modo da cancellare il prima possibile il suo ricordo dal palazzo.

Il mito di Lady Diana rivive con The Crown. Torna la serie tv sui reali inglesi. Forse quello di Lady Diana fu un comportamento impulsivo, dettato dalla gelosia e dalla frustrazione per dei continui paragoni che la vedevano perdente, ma il libro di Robert Lacey ci offrirebbe anche un’altra chiave di lettura. È possibile che la tata, magari del tutto inconsapevolmente, si sia dimostrata troppo invadente, autoritaria, perfino accentratrice, tanto da infastidire Lady Diana, che si sarebbe sentita minacciata come donna e come madre. Non sapremo mai se tutto ciò sia vero o se la principessa abbia esagerato. Di fatto, però, questo aneddoto potrebbe essere un’ulteriore dimostrazione della fragilità incompresa della principessa del Galles, troppo spesso confusa con un carattere capriccioso. 

Antonella Rossi per "vanityfair.it" il 4 novembre 2020. Ha fatto storia l’intervista in cui Lady Diana raccontava i retroscena del suo matrimonio, e non solo, davanti a 23 milioni di telespettatori in tutto il mondo, e a 25 anni di distanza fa ancora discutere. Ora è il conto Charles Spencer, fratello della principessa, da sempre difensore della sua memoria, a renderla di nuovo attuale. Era il 1995. Diana concesse un’intervista al programma Panorama della BBC in un momento in cui tutti volevano sapere, tutti la cercavano per avere delle dichiarazioni, ma nessuno riuscì ad ottenere un «sì» da Kensington Palace, fatta eccezione per l’allora ancora sconosciuto Martin Bashir. È proprio contro il giornalista che oggi Charles Spencer si scaglia, reo di «pura disonestà», come l’ha definito in una lettera inviata a Tim Dove, direttore generale dell’emittente, per aver convinto Diana a rilasciare dichiarazioni con l’inganno. Tra le più famose, quella sul «Matrimonio a tre», in cui la principessa parlava del marito Carlo e della storia, mai interrotta, con l’amante Camilla Parker-Bowles, oggi sua moglie e futura regina consorte, l’ammissione della relazione con il capitano James Hewitt e il fatto che non avesse mai desiderato di diventare regina. E pensare che fu proprio Charles Spencer a fare da intermediario tra Diana e Bashir. Il conte credette alla buona fede del giornalista, che gli aveva mostrato alcuni estratti conto bancari che riportavano pagamenti a due dipendenti di palazzo reale da parte dei servizi di sicurezza britannici, che volevano ottenere informazioni riservate sulla principessa. Estratti conto che successivamente si sono rivelati falsi, ma Spencer lo avrebbe scoperto solo dopo. «Se non avessi visto quei documenti non avrei mai presentato mia sorella a Bashir», ha continuato il conte nella lettera. L’emittente era già stata tirata in causa in passato per questa vicenda, quando Bashir aveva reso conto  a Tony Hall, ex direttore generale della BBC. Un’inchiesta interna che aveva portato a galla la falsità dei documenti presentati a Spencer. «Non fu una buona idea produrre questi documenti e il signor Bashir lo ammette. Ma abbiamo confermato che in nessun modo sono stati utilizzati per ottenere l’intervista con la principessa Diana», dichiarò un portavoce dell’emittente all’epoca, forte anche di una nota manoscritta di Diana, in cui la principessa esprimeva la volontà di rilasciare quelle dichiarazioni. Oggi però il fratello chiede ulteriori chiarimenti. Dalla BBC si sono scusati per la falsificazione e promettono di indagare, anche se non nell’immediato perché Bashir è malato gravemente di Covid-19 e non può essere interpellato. Hanno tuttavia precisato che i conti fasulli non influirono sulla volontà di Diana di concedere quell’intervista. Un altro tassello nella vita tormentata di Lady D, che a 23 anni dalla morte fa ancora parlare di sé.

Lady Diana è stata ingannata? "Le hanno mostrato documenti falsi per parlare del tradimento". Una nuova bufera si abbatte sulla royal family e stavolta è il “fantasma” di Lady Diana a provocarla attraverso la storica intervista alla BBC del 1995. Francesca Rossi, Mercoledì 04/11/2020 su Il Giornale. È l’intervista più famosa e scandalosa nella storia della royal family, quella concessa da Lady Diana al programma Panorama della BBC nel 1995. Due anni prima della morte, quando ormai era un personaggio di fama planetaria, amato dall’Africa all’Australia, la principessa del Galles si confessò di fronte a 23 milioni di telespettatori e al giornalista Martin Bashir, dimostrando un coraggio insospettabile. Raccontò senza più alcun timore il naufragio del suo matrimonio “affollato” a causa dell’ingombrante presenza di Camilla, ammise il tradimento con il capitano James Hewitt, di non aspirare al trono e svelò ripicche e gelosie della sua vita col principe Carlo. Quelle dichiarazioni spaccarono letteralmente il popolo inglese a metà tra sostenitori di Lady D. e detrattori. Proprio in queste ore, però, arriva il colpo di scena. L’intervista sarebbe stata ottenuta con l’inganno. A denunciarlo è il fratello di Lady Diana, il conte Charles Spencer, che punta il dito contro proprio Martin Bashir. La questione è abbastanza intricata. In questi giorni il conte Spencer ha inviato una lettera a Tim Dove, direttore dell’emittente televisiva, accusando Bashir di “pura disonestà”, poiché il giornalista avrebbe ottenuto l’intervista dalla principessa presentando dei documenti falsi. Bashir presentò al conte degli estratti conto bancari che certificavano il pagamento a due dipendenti di palazzo in cambio di informazioni riservate su Lady Diana. Questi pagamenti risultavano effettuati dai servizi di sicurezza britannici. Dopo aver visto questi documenti, Charles avrebbe deciso di presentare Martin Bashir alla sorella e da quell’incontro sarebbe nata l’idea dell’intervista. Peccato, però, che gli estratti conto fossero falsi. Purtroppo il conte Spencer se ne rese conto quando era troppo tardi. Nella lettera a Dove Charles ha chiarito: “Se non avessi visto quei documenti non avrei mai presentato mia sorella a Bashir”. La questione dei pagamenti fasulli non è nuova e ha già dato il via, qualche anno fa, a un’inchiesta interna dell’emittente. Martin Bashir dovette dare spiegazioni a Tony Hall, ex direttore generale della BBC. All’epoca il portavoce dell’azienda specificò: “Non fu una buona idea produrre questi documenti e il signor Bashir lo ammette. Ma abbiamo confermato che in nessun modo sono stati utilizzati per ottenere l’intervista con la principessa Diana”. Come se non bastasse la BBC ha in mano un documento manoscritto in cui Lady Diana affermò che rilasciare l’intervista fosse una sua precisa volontà. Tutto chiarito? Neanche per sogno. Charles Spencer non è ancora convinto e vuole vederci chiaro. Come riporta l’Express l’emittente si è scusata per la falsificazione, promettendo di aprire una nuova inchiesta, ma non subito. Martin Bashir, infatti, ha contratto il coronavirus e ora è gravemente malato. Dunque è impossibile che possa dare ulteriori risposte nell’immediato. Secondo la BBC, però, questi estratti conto falsi non influirebbero affatto sull’intervista in sé, né sulla volontà della principessa di raccontare la sua vita (a prescindere dalla già citata nota manoscritta). Tuttavia possiamo farci una domanda: senza quei documenti e l'incontro con il giornalista, Diana avrebbe cercato comunque di rendere pubblici con una intervista i retroscena del suo matrimonio? Difficile dirlo ora. Charles Spencer vuole difendere a tutti i costi la memoria di Lady Diana, dissipare ogni possibile ombra sulla sua vita e ciò è comprensibile. Non ci resta che sperare nella guarigione di Martin Bashir e in possibili nuove dichiarazioni che ci aiutino a dipanare la vicenda.

Il trauma infantile di Lady Diana. ​E ora il fratello rompe il silenzio. In una intervista Charles Spencer, fratello di Lady Diana, racconta l’infanzia infelice della principessa del Galles, segnata dal divorzio dei genitori e dell’abbandono della madre, Frances Spencer. Francesca Rossi, Lunedì 14/09/2020 su Il Giornale.  Non serve essere psicologi per sapere quale impatto abbia l’infanzia di un bambino sulla sua futura vita adulta. Su questo tema delicato si è espressa anche Kate Middleton che, durante il suo mini royal tour all’inizio del 2020, ha dichiarato: “I primi 5 anni di vita sono fondamentali. Cruciali per la nostra salute e felicità da adulti”. Chissà se la duchessa di Cambridge, pronunciando quelle parole, è stata sfiorata dal pensiero dell’infanzia triste che ebbe sua suocera, Lady Diana. L’esistenza della principessa del Galles è stata più volte segnata da eventi dolorosi, spesso riportati impietosamente sulle prime pagine dei tabloid, o addirittura ripresi dall’obiettivo inquisitore dei paparazzi. C’è stato un avvenimento, però, a cui non era presente nessun fotografo. Un aneddoto finora chiuso tra le mura di Althorp, la residenza della famiglia Spencer e che potrebbe essere stata la prima grande sofferenza di una giovanissima Lady Diana. Il divorzio dei suoi genitori. Ad aprire le pagine di questa storia drammatica è il fratello della principessa, il conte Charles Spencer, in una intervista rilasciata al Sunday Times Magazine. Questi ha rivelato che Lady Diana “ha sofferto tanto per il divorzio dei nostri genitori”. Quando John VIII conte Spencer e la moglie Frances decisero di lasciarsi, Diana aveva circa 6 anni e Charles 3. Era il 1967. La madre della futura principessa del Galles abbandonò la famiglia per seguire il suo nuovo amore, il ricco erede Peter Shand Kydd, che sposò nel 1969 (i due divorziarono nel 1988, quando Peter lasciò la moglie per una donna più giovane). Il conte Spencer non rimase a guardare. Riuscì a ottenere la custodia legale dei figli, ma l’infanzia dei giovani Spencer non fu affatto semplice. Lady Diana continuava a pensare alla madre lontana e si sentiva disorientata. Le sue giornate divennero una lunga attesa del ritorno di Frances, la quale, prima di lasciare la residenza di Althorp, aveva promesso alla figlia che sarebbe venuta a trovarla molto presto. Un patto a cui Lady Diana si aggrappò con tutte le sue forze pur di non dover affrontare la solitudine. Come ha ricordato il conte Spencer, la futura principessa “aspettava la mamma sulla soglia di casa” ma Frances “non è più tornata”. Di notte la piccola Diana sentiva il fratello piangere (le sorelle maggiori erano in collegio). Avrebbe voluto raggiungere la sua camera e consolarlo, ma non ce la faceva neppure a scendere dal letto. Aveva “troppa paura del buio” ha rammentato ancora Charles. La tragedia dell’abbandono e l’illusione di rivedere la madre ha influito sul destino e sulle scelte dei piccoli Spencer i quali, comunque, non erano completamente soli. Charles ha spiegato: “Nostro padre era una persona tranquilla, costante fonte di amore, mentre nostra madre non era proprio tagliata per la maternità”. Per Charles Lady Diana fu la prima, fondamentale figura femminile della sua infanzia e lo sottolineò anche al funerale della principessa, nel 1997, quando la definì “la sorella maggiore che da bambina mi ha fatto da madre”. Sembra che sul divorzio dei genitori di Lady Diana abbia pesato la morte del piccolo John dopo sole 10 ore di vita. Una tragedia da cui i conti Spencer non si sarebbero più ripresi. Nella biografia di Lady Diana scritta da Andrew Morton, è di nuovo Charles a raccontare quei momenti: “È stato un momento terribile per i miei genitori e, probabilmente, la radice del loro divorzio poiché non credo che se ne siano fatti una ragione”. Nel 1976 il padre di Lady Diana sposò Raine, contessa di Dartmouth (figlia della celebre scrittrice Barbara Cartland). Secondo le indiscrezioni il rapporto tra le due fu tutt’altro che idilliaco (pare addirittura che una volta Diana abbia tentato di spingere giù dalle scale la matrigna, ma è importante mantenere un buon grado di scetticismo su questa faccenda, non solo per l’estrema gravità, ma soprattutto perché non è mai stata dimostrata). Tuttavia Lady Diana e Raine avrebbero trovato dopo molti anni una buona intesa. L’assenza della madre potrebbe spiegare il bisogno d’amore che accompagnò la principessa del Galles per tutta la vita? Forse. Sia Diana che Frances si sposarono giovanissime e vennero catapultate in una realtà del tutto nuova per loro. Bastano questi similitudini per cercare di capire le scelte della madre di William e Harry? D’altro canto la mancanza di una figura così importante potrebbe aver spinto Lady Diana a diventare una mamma diversa, sempre presente e amorevole con i figli. In casi come questo il rischio di cadere nella psicologia spicciola è alto. Rimane, però, un fatto. L’abbandono di Frances ha segnato i suoi figli e, purtroppo, la principessa non ha avuto il tempo di riprendere totalmente le fila di quel rapporto sospeso.

DAGONEWS il 21 settembre 2020. «Diana diceva che l’unica cosa che Carlo aveva imparato sull’amore dai suoi genitori è stata una stretta di mano». Se vi sembra un’esagerazione vale la pena leggere le rivelazioni tratte dalla biografia “Prince Philip Revealed” di Ingrid Seward che ripercorre il complicato rapporto del principe Filippo con il primogenito Carlo. Carlo aveva 4 anni quando il principe Filippo partecipò a un suo compleanno. A otto anni Carlo aveva visto suo padre solo a due compleanni. Non era presente nemmeno alla sua nascita il 14 novembre 1948: era troppo impegnato a giocare a squash e, vedendo il figlio appena nato, dichiarò che sembrava "un budino di prugne". Per il bambino, l'amore di sua madre e suo padre, come il cibo e il vestiario in quegli anni austeri del dopoguerra, era severamente razionato. Filippo aveva un ruolo nell'Ammiragliato quando nacque Charlo, e nel giro di un anno tornò nel Mediterraneo come secondo in comando del cacciatorpediniere HMS Checkers. Da quel momento iniziarono una serie di separazioni che avrebbero rovinato la giovane vita di Carlo, stabilendo un modello che è proseguito fino alla sua età adulta, con tutte le sue terribili conseguenze. Non era insolito che i figli di famiglie aristocratiche fossero affidati alle cure di tate in quel periodo. Ma, anche per gli standard del tempo, Filippo ed Elisabetta vedevano molto poco la loro prole. La principessa Elisabetta ha trascorso il suo 24° compleanno, nell'aprile 1950 quando Charles aveva solo 18 mesi, a Malta a guardare suo marito giocare a polo ed è tornata a casa solo ad agosto per mettere al mondo la seconda figlia Anne. La regina trascorse la fine dell'estate a Balmoral prima di raggiungere Filippo a Malta di nuovo per una vacanza, lasciando la figlia di quattro mesi e il figlio di due anni a trascorrere il Natale senza di loro a Sandringham. Nonostante le frequenti assenze di Filippo in mare, era lui che aveva l'ultima parola nell'educazione dei suoi figli. Aveva solo 26 anni quando nacque Carlo e voleva che suo figlio fosse a sua immagine e somiglianza. Mentre Carlo cresceva come un bambino timido e diffidente, Filippo era determinato a fare di suo figlio un uomo e lo costrinse ad andare tre volte in palestra per allenamento e boxe. Il metodo di Filippo per insegnargli a nuotare consisteva nel trascinarlo, o talvolta gettarlo, nella piscina di Buckingham Palace.  «Filippo tollerava Carlo, ma non era un padre amorevole - ha detto Eileen Parker, l'ex moglie di uno degli amici più intimi di Filippo, Mike Parker  - Penso che Carlo avesse paura di lui. Era molto silenzioso quando Filippo era nei paraggi». Diverso il rapporto con la figlia Anna. Prestava più attenzione a lei che a suo figlio semplicemente perché era più reattiva. Rideva con Anna in un modo che non aveva mai fatto con Carlo. Anna è tanto simile a suo padre quanto Carlo è diverso. Lei e Filippo sono energici, attivi e allo stesso tempo resilienti. «Un personaggio come Filippo, che vede l’ essere duro come una necessità per la sopravvivenza, voleva irrobustire suo figlio, ma lui era molto sensibile - ha detto Lady Edwina Mountbatten - Non è stato facile per nessuno dei due». Quando si trattava dell'istruzione di Carlo, Filippo era fermamente convinto che suo figlio dovesse seguire le sue orme e frequentare Gordonstoun nel nord della Scozia. Filippo aveva un'avversione che rasentava il disprezzo per l'establishment britannico e per molte delle sue istituzioni elitarie, come le scuole pubbliche all'antica Inghilterra. Per lui, sapevano di privilegio immeritato. Il terreno fertile per una rete di vecchi ragazzi di cui, come principe straniero, non era membro. Carlo odiava Gordonstoun. Trovava difficile adattarsi al suo ambiente austero, soddisfare le sue esigenze atletiche e fare amicizia. La cosa più difficile da sopportare per il giovane principe era l'atteggiamento degli altri ragazzi. È stato immediatamente preso di mira "maliziosamente, crudelmente e senza tregua", come quando lo registrano di notte mentre russava. Ma di fronte ai problemi Filippo gli scrisse di rialzarsi al posto di empatizzare con lui. Carlo ancora ricorda l'umiliante giorno in cui i suoi genitori andarono a Gordonstoun per vederlo recitare in Macbeth. «Ho dovuto sdraiarmi su un enorme tappeto di pelliccia e ho avuto un incubo - ricorda Carlo – Sono rimasto sdraiato lì e mi dimenavo. Tutto quello che potevo sentire era mio padre che rideva». Non c'era modo che suo padre potesse trasformare Carlo nell'uomo che voleva che fosse. Né avrebbe ammesso che la sua insistenza nel mandarlo a Gordonstoun fosse un errore. Diana aveva più volte parlato dell’infanzia di Carlo ed era convinto che, se fosse stato educato normalmente, sarebbe stato in grado di gestire meglio le sue emozioni. Invece i suoi sentimenti sembravano essere stati soffocati alla nascita. Secondo lei, non aveva mai ricevuto amore dai suoi genitori. Solo le sue tate gli mostravano affetto ma, come ha spiegato Diana, non era come essere baciato e coccolato dai tuoi genitori. «Quando incontrava i suoi genitori, non si abbracciavano: si stringevano la mano» racconta Diana. Gli uomini di Windsor sono famosi per i loro scatti d’ira e Carlo non era da meno. Quando era arrabbiato con Diana, gridava, urlava e lanciava oggetti e non sembrava essere in grado di controllarsi. Dopo si scusava sempre e Diana attribuiva il suo modo di fare a come era stato educato da bambino. Quindi, secondo Diana, Filippo non era un genitore particolarmente bravo. Con la nascita del terzo e quarto figlio, Andrea ed Edoardo, la regina e Filippo hanno adottato un approccio diverso alla genitorialità. Filippo con loro è stato meno esigente e più presente.

Il Principe Carlo compie 70 anni: niente auguri da Harry e Meghan. Nonostante la data così importante, Harry e Meghan ormai in pianta stabile a Los Angeles, non hanno fatto gli auguri al Principe Carlo per i suoi 70 anni, sottolineando in questo modo una frattura con la Casa Reale che ormai sembra insanabile. Roberta Damiata, Sabato 14/11/2020 su Il Giornale. Nonostante il covid, tutto il mondo ha fatto oggi gli auguri al principe Carlo che compie 70 anni. Una data importante per il principe ancora in attesa (e chissà ancora per quanto) di diventare re. Ovviamente vista la pandemia le faraoniche feste che si davano per occasioni simili purtroppo sono solo un lontano ricordo. La Regina viene tenuta isolata dal resto della famiglia così come il principe consorte. Allo stesso modo anche William e Kate e i loro tre figli devono seguire un rigido protocollo, non soltanto come appartenenti alla famiglia reale, ma anche a protezione della loro salute in quanto “guide” del Regno Unito. Questo però non ha impedito a tutti di poter fare gli auguri per il raggiungimento di una data così importante per l'erede al trono, attraverso i social. “Auguriamo un buon compleanno a Sua Altezza Reale il Principe di Galles” hanno scritto il figlio maggiore di Carlo e sua moglie Kate e allo steso modo sul sito uffciale della Royal Family è comparsa una foto in bianco e nero risalente ai primi anni di vita del principe in braccio ad una giovanissima Regina Elisabetta. La cosa che però tutti hanno notato è che da parte di Harry e Meghan, almeno al momento, nessun accenno di auguri o una frase gentile nei confronti del papà e del suocero della ex coppia reale. Non si può certo parlare di dimenticanza, piuttosto di un silenzio “molto rumoroso” che forse sottolinea, una volta di più la frattura tra la famiglia reale e Harry e Meghan che al momento sono in pianta stabile a Los Angeles insieme al figlio Archie. Una frattura ormai insanabile e non certo per quest’ultimo episodio che è l’ennesimo in una famiglia ormai divisa. Ad aprire un’ulteriore finestra su queste frizioni anche il libro di recente uscita “Finding Freedom” che racconta i retroscena della coppia Harry & Meghan e della loro insofferenza nei confronti di una monarchia considerata ormai obsoleta dal loro punto di vista. Niente da fare quindi, il principe Carlo di sicuro festeggerà il suo compleanno insieme alla moglie Camilla Parker Boowl con cui è in procinto di partire anche per un viaggio in Germania per una visita che sarebbe la prima dopo l’emergenza del coronavirus.

Il principe Carlo scherza sul suo stile senza tempo: «Pensavo di essere un orologio fermo...». Maria Teresa Veneziani Il Corriere della Sera il 6 novembre 2020. Il principe Carlo la moda sostenibile la praticava ben prima che diventasse una tendenza dettata dagli allarmi ambientali. Sua Altezza Reale il Principe di Galles ha parlato del suo guardaroba senza tempo e del suo impegno per uno stile di vita più green e responsabile con Edward Enninful, direttore di British Vogue. E a sorpresa, sottolinea il legame con l’Italia che ha voluto come partner nel progetto The Modern Artisan, una vera scuola per tramandare i saperi dell’artigianato. «Due anni o tre anni fa, io e mia moglie siamo andati a visitare la sede di Yoox Net-a-Porter — racconta Carlo —. Fu allora che conobbi Federico Marchetti (imprenditore fondatore del portale Yoox n.d.r) che ho trovato molto piacevole. A un certo punto gli ho detto: “Dovrebbe venire a vedere cosa stiamo facendo a Dumfries House”, perché avevamo avviato un progetto di formazione tessile in alta moda e abilità di cucito». «Purtroppo, le eccellenze artigianali si stanno perdendo — sottolinea il Principe — : le generazioni più anziane stanno arrivando alla fine della loro vita lavorativa e non è stata prestata abbastanza attenzione a tramandare i saperi ai giovani con l’istruzione professionale. Da qui l’idea di mettere in contatto gli studenti di design del Politecnico di Milano con gli studenti qui in Scozia.

«Pensavo di essere un orologio fermo». Enninful lusinga il Principe: «Ho sempre ammirato il modo in cui si veste, mi parli del suo senso dello stile. Da dove proviene? ». «Pensavo di essere come un orologio fermo, sono molto contento che pensi che abbia stile», scherza Carlo. «Mi interessano i dettagli, le combinazioni di colori e cose del genere. Sono fortunato perché ho accanto a me persone meravigliose che si prendono cura delle cose che apprezzo, e per questo cerco di farle durare a lungo». Come ha ricordato la rivista «People», il principe è noto per aver spesso fatto rammendare le maglie e riparare le scarpe e pure per aver fatto rattoppare vecchi abiti confezionati su misura dai sarti di Saville Row, a Londra». Il Principe lo conferma: «Appartengo a quel genere di persone — e sono sempre di più — che farebbero riparare le scarpe, o qualsiasi capo di abbigliamento, se possibile, invece di buttarlo via. Ed è per questo che, da un punto di vista economico, ritengo ci siano enormi opportunità per giovani che vogliano creare piccole imprese coinvolte nella riparazione, manutenzione e riutilizzo. È una delle ragioni per cui ho provato qui, a Dumfries House, ad avviare una sorta di mercato dell’usato. Puoi portarvi le cose — che si tratti di elettrodomestici o altro — per farle riparare».

«Dal calzolaio quando ero bambino». Carlo rievoca ricordi d’infanzia sorprendenti per un erede al trono d’Inghilterra. «Quando ero bambino, portavamo le nostre scarpe dal calzolaio in Scozia e lo guardavamo affascinato mentre strappava le suole e ne metteva delle nuove». Poi sottolinea ancora una volta come la moda e lo stile siano sempre più strettamente collegati anche alla sostenibilità. «Mi sembra che ci siano enormi opportunità, in particolare ora, all’interno del settore della moda sostenibile, per contrastare la tendenza dell’abbigliamento usa e getta. Il consumatore ha un potere immenso nel decidere dove acquistare e le migliori aziende hanno la responsabilità di aprire la strada green ponendo ogni sforzo per ridurre l’impatto ambientale». Come è noto il Principe Carlo è un esperto giardiniere e nella residenza di Highgrove House, nel Gloucestershire, ha creato dal 1996 anche un’azienda agricola dove si coltivano prodotti esclusivamente biologici e si alleva bestiame molto pregiato come manzi, tori, pecore e frisone.

Il potere del consumatore e le aziende modello. Il Principe nell’intervista rilasciata a Vogue Uk ricorda ancora che a inizio 2019 ha lanciato il Sustainable Markets Council. «Dopo anni di tentativi in questa aerea, 40 anni nel mio caso, ora finalmente vedo che l’interesse generale è enorme. Per fortuna, perché è già troppo tardi. Abbiamo solo un piccolo spiraglio di opportunità per de-carbonizzare i vari settori dell’economia. È quello che stiamo facendo con la Sustainable Markets Initiative, che ha l’obiettivo di ridurre l’impatto ambientale e arrivare a emissioni zero tra il 2035 e il 2050. Perché altrimenti perderemo completamente questa battaglia. Il fatto confortante è che i grandi investitori e i manager sono tutti molto più desiderosi di impegnarsi su questi temi».

Il tight riciclato e il corpo che cambia. Pratica il riuso il Principe. Come il tight indossato al matrimonio del Duca e della Duchessa del Sussex che risale al 1984 (firmato Anderson & Sheppard). «Ha mai pensato di indossare qualcosa di nuovo?», chiede Enninful. «L’ho considerato. Ma nel caso di quella particolare giacca da mattina, finché posso continuare a indossarla, lo farò perché ho occasione di sfoggiarla solo poche volte all’anno. La difficoltà è che, invecchiando, si tende a cambiare forma e non è così facile re-indossare i vestiti... Se non dovessi più riuscire ad entrarci, allora dovrei provvedere con qualcosa di nuovo. Non sono certo però di trovare grandi novità alla mia età». Poi il Principe ribadisce di non sopportare alcuno spreco, compreso quello alimentare. «Preferisco di gran lunga trovare un altro uso. Questo è il motivo per cui parlo da così tanto tempo della necessità di un’economia circolare, piuttosto che lineare in cui basta produrre, prendere e buttare via. Il che è una tragedia, perché inevitabilmente sfruttiamo eccessivamente le risorse naturali che si stanno rapidamente esaurendo».

Bufera su Buckingham Palace. Carlo ha speso più di 6 milioni di euro per mantenere i figli. Sarebbero stati spesi più di sei milioni di euro per il sostentamento dei figli del Principe Carlo. E si abbatte così una nuova bufera su Londra e la casa reale. Carlo Lanna, Martedì 29/09/2020 su Il Giornale. Nel corso degli ultimi giorni sono trapelate nuove indiscrezioni sui membri senior di Buckingham Palace. Più precisamente, The Express ha pubblicato un approfondimento dedicato al Principe Carlo focalizzando l’attenzione sulle sue finanze personali e sul modo in cui ha investito tutti i guadagni dalle rendite annuali. Il tabloid ha fatto emergere una verità molto preoccupante che ha gettato nello scompiglio la famiglia reale inglese, e ha fatto indignare tutta l’opinione pubblica britannica. Secondo quanto è trapelato, il principe Carlo avrebbe aiutato economicamente sia Harry che William e, di conseguenza, anche Kate e la stessa Meghan. Il principe Carlo lascia l'azienda dopo 35 anni. Si prepara a diventare re? Dal rapporto che è emerso dal tabloid inglese pare che il figlio della Regina abbia speso più di sei milioni di euro per i suoi due figli. Somma spesa per supportare la vita dei principi e i loro progetti futuri. Questa somma così ingente sarebbe emersa dal bilancio annuale dei conti di palazzo, che copre un arco di tempo dall’aprile del 2019 fino al marzo del 2020 (poco prima del lockdown). Secondo le prime informazioni, Carlo avrebbe suddiviso la somma in parti uguali, così da evitare attriti tra i due Principi, con la promessa che il denaro avrebbe dovuto essere beneficiato anche dalle rispettive moglie e figli. I soldi però non stati prelevati dalla casse reali, ma più precisamente dal conto personale di Carlo. Proveniente dalla rendita annuale del Ducato di Cornovaglia che, solo negli ultimi 12 mesi, è quantificata in 24 milioni di euro. Secondo le stime però, il compenso che è stato percepito da Harry e William nell’ultimo anno sarebbe aumentato di ben 600mila euro e dell’11% rispetto al 2018. Sta di fatto, però, che il Principe non ha usato il denaro della corona, ma i suoi guadagni per sostenere la vita dei figli e nipoti. Quando la notizia è stata pubblicata dalla stampa inglese, in molti hanno criticato la scelta di Carlo di continuare a spendere soldi per il sostentamento dei figli. Entrambi sono adulti e di conseguenza entrambi sanno come gestire il loro patrimonio. Le critiche maggiori sono state rivolte ad Harry. Secondo gli accordi, ora che l’ex duca è libero dalla Corona dovrebbe pensare lui stesso al sostentamento della famiglia invece pare che abbia accettato di buon grado il dono del padre. "Dovrebbe restituire i soldi", tuona un sostenitore della corona. La polemica comunque sui compensi percepiti da Harry e Meghan è cominciata mesi fa, quando il Principe Carlo avrebbe pagato di tasca sua il compenso per la sicurezza della coppia. L’indiscrezione è stata smentita da fonti interne, ma sull’argomento nessuno è mai riuscito a fare chiarezza. In molti credono che il gesto di Carlo sia solo un modo per continuare a sentirsi legato al figlio, dato che ora vive con la moglie a Los Angeles.

Nico Riva per "leggo.it" il 10 ottobre 2020. C'è chi è schiavo dell'usa-e-getta e chi invece preferisce riutilizzare e riciclare all'infinito. In questo secondo gruppo possiamo sicuramente inserire il Principe Carlo e proclamarlo "Re del riciclo": il 71enne figlio della Regina Elisabetta II indossa infatti la stessa giacca dagli anni '80. E il motivo è tanto semplice quanto lodevole: tutelare l'ambiente. Il tabloid inglese Hello! sottolinea l'attenzione del Principe del Galles nella promozione e sensibilizzazione ambientale. Di certo, anche il suo scarno guardaroba ne è una dimostrazione: perché avere migliaia di giacche quando si possono tenere in ottimo stato una o due, da riutilizzare anno dopo anno? Sembra sia questo il ragionamento dell'erede al trono britannico. Infatti, in tutte le foto ufficiali del Principe degli ultimi 40 anni, possiamo vedere Carlo indossare o un cappotto color cammello o una giacca di tweed marrone a doppiopetto della Anderson & Sheppard. O l'una o l'altra, dagli anni '80. Stando a quanto riporta il tabloid, pur di non comperare un nuovo cappotto, il Principe li ha fatti aggiustare nel corso degli anni. Questo poi non vale solamente per i soprabiti, ma anche per le scarpe, i completi e ogni altro capo d'abbigliamento. La filosofia di Carlo è questa da decenni: riparare e riciclare è meglio che comprare compulsivamente nuovi vestiti e accessori. Il suo impegno nel sostenere la moda eco-friendly si è visto anche in altre occasioni. Alla London Fashion Week di settembre 2019, il padre di William e Harry ha collaborato con i designer più ecosostenibili e offerto i materiali presenti nei giardini reali della sua residenza ad Highgrove per la fare tessuti per la collezione Primavera-Estate 2020 di Vin + Omi. Nel 2010 ha fondato la Campagna per la Lana (Campaign for Wool), un'associazione che unisce fattorie, manifatture tessili, stilisti, fashion designers e artigiani di tutto il mondo sotto un unico obiettivo: produrre capi in lana di qualità nel pieno rispetto della sostenibilità e delle tutela ambientale e animale. Da anni l'ex marito di Lady Diana crede nella moda sostenibile e in virtù della sua posizione offre un sostegno prezioso alle aziende più attente all'ambiente, e lancia appelli a tutto il settore affinché l'industria della moda sia più responsabile. Erede al trono occupato dalla madre, il Principe Carlo si è indubbiamente guadagnato la Corona come difensore dell'Ambiente. 

Dal dentifricio al tappo della vasca. Ecco tutti i vizi del principe Carlo. L'erede al trono è stato etichettato come il "principe più viziato" per le sue manie e bizzarre richieste soprattutto in tema di guardaroba e cura della persona. Novella Toloni, Venerdì 11/09/2020 su Il Giornale. La lavatrice? Bandita. Il dentifricio? Nelle giusta dose già sopra lo spazzolino. I lacci delle scarpe? Stirati ogni giorno. La lista delle bizzarrie richieste dal principe Carlo è lunga e sorprendete. Sarà per questo che il primogenito della regina Elisabetta, da tempo, è soprannominato il "principe più viziato" della famiglia reale. Nel corso degli anni sono emerse molte delle manie dei reali inglesi ma l’erede al trono è sicuramente quello che ne ha di più e soprattutto più imbarazzanti. Secondo le biografie reali, infatti, il principe Carlo sin da piccolo è stato abituato a non fare proprio nulla. Gli altri fanno per lui, sistemano e preparano affinché l'erede si stanchi il meno possibile e trovi tutto pronto come lui desidera. Inevitabili i vizi, protratti nel tempo, che i domestici e maggiordomi del principe Carlo conoscono alla perfezione e mettono in atto ogni mattina al suo risveglio.

L'etichetta del risveglio del principe Carlo. A svelare parte delle manie di Carlo è il biografo reale Brian Hoey, autore di alcune dei libri reali più venduti nel mondo: "Il principe di Galles non solleva niente. Si alza la mattina e il suo accappatoio è lì ad aspettarlo; entra in bagno e tutto è già pronto e posizionato. Anche quando esce dalla vasca l'asciugamano è piegato in modo speciale, quindi deve solo sedersi e avvolgerlo su se stesso". Persino il contenuto della vasca è dettato da regole precise: l'acqua "appena" tiepida, la vasca riempita solo per metà e il tappo posizionato sempre in una certa posizione.

Il principe Carlo tradì Lady Diana. E lei lo fece vergognare con il vestito della vendetta. Fissazioni e manie che riguardano anche il dentifricio del principe Carlo. Paul Burrell, ex maggiordomo reale, ha raccontato che a occuparsene deve essere sempre lo stesso cameriere, che spreme la giusta quantità di dentifricio dal tubetto per lui (un pollice) e lo posiziona sullo spazzolino pronto per essere semplicemente utilizzato.

Le regole della biancheria e degli indumenti. Sono molti i libri e le rivelazioni fatte da ex dipendenti che confermano le fissazioni del principe Carlo. Dopo i rituali del risveglio e della cura della persona, il primogenito della regina Elisabetta non sarebbe solo neppure quando si tratta di vestirsi. Quattro valletti lo aiutano a cambiarsi d’abito da quattro a cinque volte al giorno. "Nel suo camerino i suoi vestiti sono disposti per lui - ha svelato l'ex maggiordomo Burrell - anche i suoi calzini, sinistro e destro, sono esattamente al posto giusto affinché il principe faccia meno sforzi e la sua biancheria intima è piegata sempre in un certo modo". La rapidità e la sveltezza a Clarence House non sono contemplate. Il principe Carlo pretende che le lenzuola in cui lui e la moglie Camilla dormono siano stirate per almeno un'ora, anche quando la coppia è in viaggio. Per non parlare poi dei lacci delle scarpe, puliti e stirati tutti i giorni come del resto il pigiama reale. E guai a usare la lavatrice, messa al bando dal reale da molti anni. Gli abiti di Carlo e Camilla vengono lavati esclusivamente a mano da tre camerieri addetto ai vestiti della coppia. E se qualcuno sbaglia qualcosa, tutti vengono rimproverati. Ma del resto il principe Carlo è destinato a diventare re e come tale ha sempre avuto un trattamento particolare: "E' cresciuto con uno stile di vita così privilegiato che non è più abituato a scegliere da solo".

Carlo non ha mai voluto Diana. "L'amore? È una stretta di mano". Sono state riempite pagine di libri e giornali sul rapporto freddo e scostante tra il principe Carlo e Lady Diana, eppure il gelo tra loro non deriverebbe solo dalla mancanza d’amore, ma anche da un’educazione forse eccessivamente severa. Francesca Rossi, Venerdì 25/09/2020  su Il Giornale. Conosciamo bene il rapporto burrascoso tra il principe Carlo e Lady Diana, cominciato decisamente con il piede sbagliato. L’erede al trono era talmente impacciato e insicuro sul suo futuro con Diana da far innervosire perfino il principe Filippo. Quest’ultimo, stanco di vederlo tentennare, gli avrebbe intimato: “O la sposi o la lasci”. Per non parlare della frase pronunciata dal principe di Galles il 24 febbraio 1981, giorno dell’annuncio del fidanzamento ufficiale. Un giornalista della BBC chiese ai futuri sposi se si amassero e Carlo rispose semplicemente: “Qualunque cosa significhi la parola amore”. Avete letto bene. Ma cosa avrà voluto dire?!? Non tentò neanche di fingere per evitare le polemiche dei paparazzi. Si limitò a queste poche, scialbe parole che avrebbero fatto infuriare qualunque promessa sposa. Tranne Diana, così ingenua da non comprendere in che guaio si stava mettendo. La riottosità del principe nascondeva il sentimento mai spento per Camilla (benché la giovane Spencer non gli fosse indifferente, almeno inizialmente), ma anche le pressioni della famiglia affinché il matrimonio con Lady Diana si celebrasse il prima possibile. La rassegnazione del principe Carlo, però, avrebbe anche un’altra origine: l’educazione impartitagli a corte e, soprattutto, l’assenza dei genitori. Nella nuova biografia dedicata al duca di Edimburgo, “Prince Philip Revealed”, di Ingrid Seward, vengono fuori dei dettagli inediti sull’infanzia dell’erede al trono. Un bambino cresciuto dalle tate, con una madre regina e un padre fin troppo assenti. Nella biografia leggiamo: “Diana diceva che l’unica cosa che Carlo aveva imparato sull’amore dai suoi genitori è stata una stretta di mano”. Forse la principessa non esagerava. La regina Elisabetta e Filippo salutavano il figlio proprio così. Non vi erano altre dimostrazioni d’affetto. Il timido, sensibile Carlo provava soggezione nei confronti del padre, tanto diverso da lui. Filippo costrinse il figlio ad andare tre volte in palestra, a prendere lezioni di boxe. Sport per cui Carlo non era portato. Quando l’erede aveva 8 anni, suo padre aveva partecipato ai suoi compleanni solo 2 volte. Inoltre la prima volta che il duca vide il principe appena nato disse che somigliava a un “budino di prugne”. Filippo voleva fare del figlio un uomo forte. A quanto pare, per insegnargli a nuotare aveva un metodo discutibile ma definitivo: buttarlo nella piscina di Buckingham Palace. Secondo Lady Diana la scarsa empatia dimostrata dal principe Carlo deriverebbe proprio da questa educazione per certi versi traumatica, perfino castrante. Parere condiviso da Lady Edwina Mountbatten (moglie dello zio di Carlo, ultimo viceré dell’India), che dichiarò: “Un personaggio come Filippo, che vede l’essere duro come una necessità per la sopravvivenza, voleva irrobustire suo figlio, ma lui era molto sensibile. Non fu facile per nessuno dei due”. Forse se il principe Filippo e la regina Elisabetta avessero appoggiato le inclinazioni del figlio, le cose sarebbero andate diversamente. E Carlo avrebbe capito fin da subito cosa significa amare.

Fuga da Windsor per un rave party, tredici guardie della Regina in cella. Francesca Pierantozzi per “il Messaggero” il 9 settembre 2020. Perfino la Regina Elisabetta quest' anno ha dovuto rinunciare alla festa: i 94 compiuti il 21 aprile sono stati celebrati in sordina, dentro la bolla creata a Windsor per proteggerla dal Covid. Un castello a tenuta stagna presidiato notte e giorno dalle sue guardie, le Gallesi col tradizionale colbacco d'orso e la marsina rossa. Peccato che, al calar della sera, complice una bella serata di fine giugno, tolto il colbacco e pure la marsina, ben sedici soldati sui trenta della squadra che si è confinata con la Sovrana, hanno non solo fatto esplodere la bolla che doveva proteggere Sua maestà e il principe consorte Filippo (che con i suoi 99 anni è anche lui persona più che vulnerabile all'epidemia), non solo hanno infranto le regole nazionali allora in vigore sul lockdown, e quelle interne al loro reggimento - che chiedono totale fedeltà alla Regina ma si sono bellamente uniti a un pubblico di ragazzi festanti in un prato vicino, dando vita a un simpatico mini rave con alcol e cocaina. La cosa, resa nota soltanto ora dai giornali britannici, ha portato al «più grosso numero di soldati mai carcerati in una sola volta per un singolo crimine». Per ora sono tredici le guardie condannate: l'accusa è aver infranto le regole del confinamento, essere venuti meno ai loro obblighi militari, aver messo in pericolo la Regina: si va dai 14 ai 28 giorni di prigione, assortita col taglio della paga per tutto il periodo del carcere. Nessuna clemenza per i quattro risultati positivi alla cocaina: quando usciranno dal carcere militare di Glasshouse, a Colchester, saranno radiati dal Reggimento e dall'esercito. «Le pene sono state molto severe» ha commentato una fonte, citata dai media. Il loro comandante, colonnello Henry Llewelyn-Lisher, ha chiesto di non avere indulgenza per una inaccettabile «disobbedienza». Altri tre ufficiali saranno giudicati nei prossimi giorni e difficilmente potranno sfuggire al carcere. I civili coinvolti nella festa vicina al castello, dovranno invece solo pagare la multa per aver infranto il lockdown, ovvero cento sterline. Lo scandalo è tanto più grande dal momento che la regina stessa aveva scelto di non fare nessuna festa nemmeno per i 99 anni del marito, il 10 giugno. Tutto il castello si era chiuso per proteggere i sovrani. Le Guardie gallesi avevano preso alloggio al Combermere Barracks, a Windsor, e hanno accettato di non incontrare né amici né familiari durante il confinamento per evitare di esporre al rischio del contagio la Regina e il Principe Filippo. Alla fine, però, non hanno più sopportato la clausura e una sera di fine giugno, smessa la divisa, sono usciti a «sgranchirsi», questa la tesi della Difesa, in un parco lì vicino. L'idea sempre secondo il resoconto fornito ai giudici militari era farsi una partita a calcio e al massimo una birra. Peccato che in quel momento e in quello stesso parco un gruppo di ragazzi avesse pensato di organizzare un rave. Le Guardie, invece di disperdere la folla e eventualmente sanzionare gli indisciplinati festanti, si sono uniti alla celebrazione venendo meno a qualsiasi obbligo di prudenza nei confronti della Regina.  

Kate Middleton ha chiesto e ottenuto che alcuni passaggi di un articolo a lei dedicato fossero cancellati perché "offensivi e falsi". Biagio Carapezza, Lunedì 21/09/2020 su Il Giornale. Kate Middleton ha vinto la battaglia legale intentata contro la rivista britannica Tatler. A dare il via all'azione legale della futura regina sono stati alcuni paragrafi pubblicati e da lei giudicati lesivi per se stessa e per la sua famiglia. Gli avvocati incaricato dalla Middleton hanno dichiarato che i passaggi incriminati, contenuti in un articolo pubblicato lo scorso mese di giugno, riporterebbero "inaccuratezze e falsificazioni". La mossa di Kate Middleton ha dato i suoi risultati. Richard Dennen, direttore della rivista considerata la bibbia dell'aristocrazia britannica e letta dagli stessi membri della famiglia reale, e vecchio amico della duchessa fin dai tempi dell'università, ha deciso di rimuovere i paragrafi condiderati diffamatori dalla futura regina del Regno Unito. Nonostante la copertina del numero di giugno recasse una foto della Middleton e il titolo "Caterina la Grande", l'articolo pubblicato all'interno descriveva la condizione fisica della donna come "pericolosamente magra". Inoltre definiva Kate "esausta e intrappolata" a corte a causa della quantità enorme di impegni cui presenziare accumulatisi dopo la Megxit. L'articolo inoltre presentava un ritratto impietoso di Carole Middleton, madre di Kate, descritta come una "snob altezzosa" e "spinta da idee di grandezza". La Condé Nast, casa editrice del periodico, ha ora acconsentito la cancellazione dei paragrafi sgraditi con il fine di salvaguardare il lungo rapporto che la lega alla famiglia reale britannica. In queste ore è riemerso anche un vecchio aneddoto su Kate. Nel 2008, quando già faceva coppia con William, la duchessa ha inviato ai suoi amici delle mail in cui chiedeva loro di chiamarla Catherine e non più con il diminutivo Kate. Questo richiesta è stata avanzata perché il nome completo suonerebbe più adatto ad una regina. L'intento non sembra essere però riuscito visto che, dopo anni e anni, tutti continuano a rivolgersi al lei usando in nome abbreviato. La duchessa sembra però non rassegnarsi e continua imperterrita a firmare la sua corrispondenza con il suo nome per esteso.

Il silenzioso potere della Corona che protegge Kate e non Meghan. Kate Middleton e Meghan Markle hanno combattuto battaglie molto simili contro i tabloid, ma la prima ne è uscita vincitrice, la seconda piuttosto malconcia. Francesca Rossi, Martedì 22/09/2020 su Il Giornale. In quattro mesi Kate Middleton ha vinto la guerra contro Tatler, il giornale da sempre definito “la bibbia dell’aristocrazia” e letto perfino dalla royal family. L’articolo “Catherine The Great”, ovvero “Caterina la Grande”, dovrà essere “ripulito” da tutte le accuse e critiche poco edificanti riservate alla futura regina consorte d’Inghilterra. Ricorderete che nel pezzo scritto da Anna Pasternak (la nipote del celebre Boris) la duchessa di Cambridge veniva definita una “arricchita, kitsch e pericolosamente magra proprio come la principessa Diana”. Non solo. Il principe William era etichettato come “assolutamente furioso” a causa della Megxit e Kate “esausta e intrappolata” nei doveri di corte diventati ancora più gravosi dopo l’allontanamento di Harry e Meghan. Il giornale non ha avuto parole affettuose nemmeno per la famiglia Middleton. Carole, madre di Kate, è stata bollata come “terribilmente snob”, una donna “spinta da idee di grandezza”. La royal family è famosa per la sua strategia del silenzio sfoderata di fronte a quasi tutte le provocazioni e le polemiche provenienti dai tabloid. Stavolta, però, le cose sono andate diversamente. Già a giugno, quando l’articolo venne pubblicato da Tatler, Buckingham Palace decise di replicare, sostenendo che nel pezzo vi fossero “una serie di inesattezze e false dichiarazioni che non sono state inviate a palazzo prima della pubblicazione”. Alla fine gli avvocati di Kate Middleton hanno avuto la meglio e Tatler ha dovuto cancellare le dichiarazioni incriminate dalla versione online del magazine (nulla si può fare per quella cartacea, che potrebbe persino diventare un oggetto da collezione per gli esperti). L’editore, come riporta Vanity Fair, ha fatto un passo indietro per “proteggere il suo rapporto di lunga data con la famiglia reale”. Kate Middleton, però, sarebbe rimasta delusa dall’articolo, vedendolo come “una frecciata estremamente crudele e offensiva”, “disgustoso e sessista”, soprattutto perché il caporedattore del magazine è Richard Dennen, suo amico dai tempi dell’università. Questa storia, seppur con esito diverso, l’abbiamo già letta. Lo scorso maggio la duchessa di Sussex ha perso la sua battaglia contro il Daily Mail, citato in giudizio aver pubblicato, senza permesso, dei passaggi di una lettera inviata da Meghan Markle a suo padre nell’agosto 2018. Per il giudice Mark Warby queste accuse sarebbero “irrilevanti”. Inoltre non si contano più le volte in cui Harry e Meghan hanno chiesto, invano, ai tabloid di rispettare la loro privacy. Allo stesso modo sono molti gli articoli in cui la Markle viene pesantemente colpita per le sue origini e a causa dell’atteggiamento della sua famiglia d’origine. Nella biografia “Finding Freedom” viene sottolineato che la duchessa di Sussex avrebbe voluto rispondere alle invettive, ma lo staff di corte le avrebbe sempre consigliato di tacere. Alla luce di questi fatti dovremmo pensare che alla corte inglese si usino due pesi e due misure? Perché Kate Middleton ha potuto replicare e vincere la stessa guerra che a Meghan non sarebbe stato consentito combattere finché viveva a Palazzo e che ha perso una volta libera di difendersi? La risposta ha diverse sfumature e non c’entra solo il futuro di Kate in veste di regina. Harry e Meghan sono stati sconfitti perché hanno perso l’appoggio della royal family, mettendo l’oceano tra loro e Buckingham Palace. Non ci sono mezze misure per la Firm: o si è dentro, o si è fuori (poco importa che Harry e Meghan stiano vivendo un periodo di transizione di 12 mesi imposto dalla regina Elisabetta). Inoltre Kate Middleton e Meghan Markle hanno avuto due atteggiamenti diversi nei confronti della stampa. La prima di solito ignora le critiche, la seconda avrebbe fatto di ogni provocazione quasi una persecuzione (e chi provoca gongola quando il guanto di sfida viene raccolto). Kate ha aspettato, lasciando lavorare gli avvocati e sferrato il colpo decisivo al momento giusto, Meghan si è esposta troppo, fin da subito, senza una strategia. Kate Middleton ha ottenuto ciò che giustamente chiedeva ma, in realtà, è il silenzioso potere della royal family inglese ad aver trionfato ancora una volta.

Il gesto di Kate che fa infuriare tutti: ​"Non può farlo, è una privilegiata". I figli di Kate Middleton tornano a scuola ma un gesto in particolare della duchessa fa indignare l'opinione pubblica e una nuova bufera si abbatte sulla casa reale inglese. Carlo Lanna, Venerdì 18/09/2020 su Il Giornale. C’è sempre grande attenzione da parte della stampa quando si parla dei reali inglesi. Non solo Meghan ma anche Kate Middleton finisce molto spesso nel mirino dei fotografi e dei royal gossip. Rispetto alla ex duchessa del Sussex, la moglie del principe William ha un comportamento più consono alle regole di corte, ma in casi eccezionali, anche Kate può commettere qualche errore. E proprio uno di questi ha fatto infuriare l’opinione pubblica della capitale Inglese. C’è un fatto in particolare che ha innescato una polemica silenziosa ma pungente che si è scatenata su un gesto compiuto proprio da Kate Middleton. La accusa più grande? Ha accompagnato i figli a scuola anche se non poteva farlo. Come in Italia, anche in Inghilterra le scuole sono riaperte dopo mesi di chiusura forzata. Anche nel Regno Unito si guarda con apprensione al ritorno tra i banchi di scuola, tra mascherine e obbligo di distanziamento sociale. Come tutti i bambini inglesi, anche Charlotte e George sono tornati a studiare, dopo che sono stati costretti a una didattica online. Lo scorso lunedì sono rientrati alla Thomas’s Battersa School, il prestigioso istituto di Londra, che ha accolto a braccia aperte i suoi piccoli studenti. Le norme di corte, per i figli di Kate, prevedono regole ben precise. Ad esempio, il primo giorno, i fotografi devo immortalare la duchessa e i figli nel momento in cui si apprestano ad entrare a scuola. Quest’anno, per evitare assembramenti, la stampa non è stata invitata al primo giorno dei piccoli eredi. E già questo ha fatto indignare molti giornali. Ma non è finita qui. Le norme anti-Covid impongono un ligio rispetto delle regole. I genitori non possono accompagnare i figli dentro l’istituto. I bambini devo restare ai cancelli e lì verranno accolti dalle maestre, rigorosamente con indosso le mascherine. Kate Middleton, però, in barba alle regole ha accompagnato i figli fin dentro l’aula, facendo indignare molti genitori che erano presenti sul luogo. Chi ha riportato l’accaduto ha affermato che la duchessa ha avuto un "trattamento privilegiato" e che ha infranto "una regola base imposta dal governo". La Nichol, giornalista ed esperta di corte, ha giustificato il gesto della Middleton affermando che tutti "hanno avuto un anno difficile. Ed è lecito essere preoccupati per i propri figli". L’esperta afferma inoltre che Kate ha accompagno i figli fin dentro la classe solo per regalare a George e Charlotte un momento di spensieratezza. Per ora dalla casa reale tutto tace.

Il futuro del piccolo Archie? Tutto dipenderà da Kate Middleton. La Megxit non ha cambiato la linea di successione. Secondo le leggi di corte, Archie quando si sposerà dovrà chiedere il permesso a Kate Middleton. Carlo Lanna, Lunedì 07/09/2020 su Il Giornale. Sappiamo fin troppo bene che gli assetti della famiglia reale inglese sono cambiati. Nel momento in cui Harry e Meghan hanno deciso di prendere le distanze dai Windsor, ogni cosa lì a corte ha subito diversi scossoni. Alcune vecchie abitudini, però, sono dure a morire. Ad esempio, la "Libertà" che la ex duchessa ha chiesto e ottenuto per se stessa e suo figlio? Tutto sarà dipeso da Kate Middleton. Strano ma vero, ma è così. Infatti, anche se i due duchi non fanno parte della linea diretta di successione, secondo alcune disposizioni della Corona, il loro futuro dovrà essere comunque “pilotato” dalla stessa royal family, grazie agli atti redatti nel 2013 del Succession to the Crown.

Harry e Meghan, la linea di successione cambia? Secondo quando è riportano in queste disposizioni reali, le prime sei persone in linea di successione al trono, quando si sposeranno, dovranno chiedere il permesso al sovrano in carica. Per ora c’è ancora Elisabetta che siede sul trono, ma quando sarà la volta di Archie, l’erede dei Sussex dovrà chiedere il permesso a Kate Middleton, perchè Regina d’Inghilterra. E dunque, l’atto parla molto chiaro e per il figlio di Meghan non ci sarà scampo. Può anche non essere un membro effettivo della famiglia reale, ma il legame di sangue con i Windsor non può essere mai cancellato. Secondo i calcoli, però, Archie, sarebbe settimo in linea di successione dato che prima di lui ci sono i figli di William, ma con i recenti cambiamenti al "vertice", Baby Sussex corre un vero e proprio pericolo. Il Principe Carlo, secondo i rumor, tra un paio di anni sarà Re per volere di Elisabetta e quindi Archie salirebbe automaticamente al sesto posto e, non appena William e Kate Middleton saranno i nuovi sovrani, diventerà persino quinto nella linea di successione. E quindi, se il Succession Act resterà ancora in vigore, quando il figlio di Meghan sarà pronto per sposarsi, dovrà chiedere udienza a Kate. Si tratterà sicuramente di una formalità, ma non sarà detta l’ultima parola. E quindi, se così fosse, la Megxit è stato solo un capriccio da parte di Meghan? Come è stato riportato nella biografia, i malintesi e i dissapori con la famiglia non sono stati il fattore scatenante. La voglia di indipendenza è stata dettata da ben altre esigenze. Eppure la libertà di Harry e Meghan non sarà una libertà totale. Archie sarà un cittadino canadese ma sarà comunque legato a un doppio filo con la corona e a Kate Middleton.

Luigi Ippolito per "corriere.it" il 28 settembre 2020. Altro che gli Obama: il vero modello sono le Kardashian. Si pensava che col contratto da 150 milioni di dollari stipulato con Netflix, Harry e Meghan puntassero a produrre documentari impegnati: e invece hanno accettato di girare un reality show su se stessi. E i tabloid londinesi già sparano titoli che evocano le serie più trash della tv inglese. La rivelazione viene dal Sun: i duchi di Sussex, ormai saldamente impiantati in California, verranno seguiti per tre mesi dalle telecamere e il programma sarà trasmesso l’anno prossimo. Ovviamente tutti assicurano che lo show sarà all’insegna del buon gusto e non è chiaro se la troupe avrà accesso anche alla magione da 15 milioni di dollari che Harry e Meghan hanno acquistato a Santa Barbara. L’obiettivo del programma è documentare in diretta le attività filantropiche e di beneficenza dei Sussex: ma non c’è dubbio che Netflix, dopo aver sganciato quel sostanzioso assegno, ha tutta l’intenzione di capitalizzare il marchio reale e non si accontenta di averli semplicemente dentro le quinte. Vai quindi con la kardashianizzazione di Harry e Meghan. Ma dietro il progetto c’è soprattutto lei, che si dice ansiosa di mostrare al pubblico «il vero lato di se stessa». Anche se, notano a Londra, il tutto fa a pugni con la sbandierata intenzione di recuperare la privacy, che era stata presentata come una delle ragioni della loro fuga dagli impegni reali. Emerge ora con sempre più chiarezza l’agenda di Meghan: adoperare la patina di regalità acquisita col matrimonio per entrare nell’Olimpo delle celebrità. E magari, un domani, scendere in politica, come fanno presagire le sue mosse più recenti. A Londra non si è spenta l’eco del video trasmesso dalla coppia la scorsa settimana, in cui fanno irruzione nelle presidenziali americane e lanciano un neanche troppo velato invito a votare contro Trump. Un’iniziativa che ha suscitato malumori a Buckingham Palace e che molti giudicano come una violazione degli accordi sulla Megxit stipulati a marzo. In tutto questo, ci si chiede quale sarà il ruolo del povero Harry, relegato a principe consorte. Si sottolinea il disagio che traspare dai video in cui fa il ventriloquo della moglie: qualcuno ha scritto che sembra un ostaggio (gli manca solo la casacca arancione, come nei video dell’Isis…). Ma forse gli va bene così, sempre meglio che fare il reale di seconda fila a Londra.

Luigi Ippolito per il "Corriere della Sera" il 24 settembre 2020. Un intervento a gamba tesa nelle presidenziali americane che ha causato costernazione a Londra. E l'immediata, stizzita reazione di Donald trump. L’ultimo video di Harry e Meghan dalla California ha decisamente passato il segno: perché i duchi di Sussex lanciano un appello che è stato letto da più parti come un invito neppure troppo velato a votare contro l'attuale inquilino della Casa Bianca. Il che è una grossolana violazione delle regole di imparzialità della Casa reale britannica: e sfiora l’incidente diplomatico. Nel video incriminato, si vedono Harry e Meghan seduti su una panchina in un parco: lei definisce le presidenziali Usa «le elezioni più importanti della nostra vita» e lui aggiunge che «è vitale che rigettiamo i discorsi d’odio, la disinformazione e la negatività online». Parole che sono apparse come un affondo nei confronti di Trump che ha risposto per le rime, dicendo di «non essere un fan» dell'ex attrice americana e augurando «molta fortuna» a Harry, perché «ne avrà bisogno». Le reazioni a Londra non hanno tardato ad arrivare. Un ex consigliere reale ha detto al Times che le dichiarazioni dei duchi di Sussex provocheranno preoccupazione a Buckingham Palace: «L’arena politica è molto sensibile per tutti i membri della famiglia reale. Non puoi avere una istituzione apolitica, qual è una monarchia ereditaria, e avere membri della famiglia reale che fanno anche i più vaghi commenti politici». Diversi esperti della monarchia hanno commentato che a questo punto Harry e Meghan farebbero bene a rinunciare a tutti i loro titoli: perché non ci può essere un’altezza reale, tuttora in linea di successione al trono, che si immischia negli affari di un altro Paese. D’altra parte l’ingresso diretto in politica di Meghan viene considerato sempre più probabile, perché tutte le sue mosse puntano in quella direzione. Di recente ha avuto un incontro, molto pubblicizzato, con Gloria Steinem, l’icona del femminismo americano: e l’attivista ha rivelato che loro due si sono messe al telefono e hanno chiamato una serie di elettori per incoraggiarli a votare («ciao, sono Meg», si presentava la duchessa agli sbigottiti interlocutori). Gloria Steinem ha dato il suo viatico alla duchessa, che ha definito «intelligente, autentica, divertente, e politica»: e ha aggiunto che durante il loro incontro la duchessa ha espresso tutta la sua ammirazione per Kamala Harris, la donna nera scelta da Joe Biden come vicepresidente. Ma non è tutto. Il contratto da 150 milioni di dollari stipulato con Netflix ricalca quello analogo degli Obama e può fornire a Meghan, che vede in Michelle O il suo modello di ispirazione, una straordinaria piattaforma; inoltre, la nuova fondazione dei duchi di Sussex ha fra i suoi obiettivi, oltre ad attività commerciali e di marketing, anche il «lobbying politico». D’altra parte, quando era entrata a far parte della famiglia reale, Meghan era stata definita «la duchessa attivista», perché se ne sottolineava l’impegno femminista e il desiderio di avere un impatto politico grazie al suo nuovo ruolo. Le cose sono andate diversamente, come sappiamo: la «Megxit» ha portato alla fuga in California dei duchi di Sussex. Ma questo non ha messo la sordina alle sue ambizioni politiche, che ha coltivato fin da ragazza. Arriverà fino al punto di candidarsi alla Casa Bianca, come qualcuno suggerisce? Chissà. Ma d’altra parte, si fa notare, se ci è arrivato uno come Trump, tutto è possibile. E a questo proposito c’è anche chi ha immaginato che sulla sua strada Meghan potrebbe trovare proprio Ivanka, la figlia prediletta di The Donald.

Roberta Mercuri per "vanityfair.it" il 10 ottobre 2020. «Confesso. Sono sette mesi che lei è tornata in California, ma non l’ho chiamata neppure una volta. Sono un po’ intimidito e molto spaventato, anche solo a pensarlo». «Lei» è Meghan Markle. A parlare è Patrick J. Adams, fidanzato «televisivo» dell’ex attrice, per sette anni, in Suits. Nella serie tv, lui era era Mike Ross, lei Rachel Zane. I due si frequentavano, da amici, anche fuori dal set. Ma adesso il trentanovenne attore, intervistato da «Radio Times», ha ammesso che non ha il coraggio di chiamare la duchessa di Sussex: «Potrei chiamarla in qualsiasi momento, lo so. Ma il fatto è che non saprei cosa dirle. Adesso, lo confesso, mi fa paura. È come se tra di noi ci fossero dei muri contro cui temo andrei a sbattere per poterle parlare». Quando la casa reale britannica ufficializzò il fidanzamento tra Harry e Meghan, Patrick reagì alla notizia con ironia. A un utente che su Twitter chiedeva un suo commento, rispose così: «Mi aveva detto solo che usciva a prendere il latte…». Ma fu su Instagram che la star volle fare i suoi migliori auguri alla «fidanzata» televisiva: «Essere stato il partner sullo schermo di Meghan per gran parte degli ultimi 10 anni, mi rende particolarmente qualificato nel dire: “Sua Altezza reale, siete un uomo molto fortunato e so che la vostra lunga vita insieme sarà gioiosa, prospera e divertente”». E ancora: «Meghan, amica mia, sono felicissimo per te». Al royal wedding a Windsor, il 19 maggio 2018, Patrick c’era. Con il suo amore «vero», la moglie Troian Bellisario. Attrice anche lei. «Quando sono nati i nostri figli, ci siamo scambiati messaggi e anche mandati regali». Ora Meghan, con Harry e Archie, vive in California. Proprio come Patrick. Eppure lui non ha il coraggio di cercarla, perché la vita di lei è diventata «enormous»: «Ormai ha una vita così piena. È davvero cambiato tutto, per lei. Mi manca la mia amica Meghan, ma sono  felice che stia bene».

L’esperta: "Il principe Harry a disagio, Meghan Markle predominante". Un’esperta di linguaggio del corpo ha analizzato il video in cui il principe Harry e Meghan Markle si esprimono sulle imminenti elezioni americane, notando l’imbarazzo del duca e la sicurezza della duchessa, che domina incontrastata la scena. Francesca Rossi, Venerdì 25/09/2020  su Il Giornale. Il principe Harry e Meghan Markle hanno scatenato una tempesta con le loro dichiarazioni a carattere politico, espresse durante la cerimonia virtuale organizzata dalla rivista Time, che ha inserito i Sussex tra le 100 persone più influenti al mondo. Buckingham Palace è corsa ai ripari con una nota ufficiale che, di fatto, abbandona Harry al suo destino. Il comunicato sottolinea che i duchi non hanno più un ruolo di rappresentanza a corte, dunque le loro affermazioni non possono più rispecchiare la linea di condotta e di pensiero della royal family. Tuttavia il principe Harry rimane un Windsor e le sue esternazioni potrebbero avere un peso diplomatico non indifferente, anche perché gli Stati Uniti sono nel vivo di una campagna elettorale che si svolge in un clima difficile. Non sono solo le parole di Harry e Meghan Markle a sollevare le critiche, ma anche il loro atteggiamento. L’esperta di linguaggio del corpo Judi James ha spiegato al Daily Mail che il principe sembra tutt’altro che sicuro di sé e convinto del suo discorso. Analizzando il video della discordia la James ci fa notare alcuni particolari che potrebbero sfuggire se poniamo l’attenzione esclusivamente sulle parole. Infatti l’esperta ha dichiarato: “Harry è teso, lo si capisce dai numerosi rituali diversivi. È a disagio e a un certo punto sembra persino scrocchiarsi le nocche, un gesto di auto-aggressione che, come mangiarsi le unghie, indica la mancanza di tranquillità”. Poi ha aggiunto: “Lo sguardo è incerto, sa che quelle frasi avrebbero avuto delle ripercussioni sui rapporti con la sua famiglia d’origine”. Il parere di Judi James fa riflettere. Se l’esperta ha ragione e il principe Harry aveva dei dubbi, per quale motivo ha pronunciato le parole che stanno facendo indignare il popolo americano, inglese e la royal family? Impossibile che non abbia previsto le conseguenze. È un giovane uomo intelligente abbastanza da capire le implicazioni di ogni suo gesto pubblico e ha troppa dimestichezza con le telecamere e i giornali per sottovalutare la situazione. Di tutt’altro tenore è stato l’atteggiamento di Meghan Markle, come ha precisato Judi James: “Lo spazio è associato al potere ed è evidente che sulla panchina lei prenda la porzione più grande. Adotta una postura identificabile con il controllo e il marito sembra farsi da parte per lasciarle il centro della scena”. Questa affermazione dell’esperta è davvero forte e potrebbe essere usata dai detrattori dei Sussex per sostenere che nella coppia la personalità dominante sia quella della duchessa o, addirittura, che quest’ultima manipoli il marito. Non possiamo dire con certezza che sia così, non abbiamo prove inconfutabili per dimostrare una tesi così netta. Tuttavia la spigliatezza di Meghan Markle è molto evidente e fa risaltare ancora di più il contrasto con l’apparente timidezza del principe Harry. La carriera di attrice spiega poco questo contrasto visto che, come abbiamo già detto, il duca è abituato a una vita sotto i riflettori. C’è anche un altro particolare che merita una menzione, l’abbigliamento di Harry e Meghan. Casual ma sobrio. Da notare la mancanza della cravatta per lui e di gioielli vistosi per lei. Forse i duchi vogliono comunicare vicinanza ed empatia a chi li segue. L’immagine di Meghan Markle con i capelli lunghi, sciolti, quasi “selvaggi” è in netto contrasto con la sua apparizione più patinata nel programma America’s Got Talent. Vanity Fair ha raccontato che la duchessa è intervenuta con un video per appoggiare il concorrente Archie Williams, con una storia dura alle spalle. In quel caso Meghan ha scelto un abbigliamento molto più elegante e hollywoodiano, da star. In lei convivono due “anime”, l’attrice e l’attivista, entrambe molto fiere e caratterizzate. Al contrario del principe Harry, che sembra non aver ancora trovato la sua voce, quasi disorientato di fronte alla personalità dirompente della moglie.

Harry e Meghan attaccano Trump: ma scatenano la furia della regina. Harry e Meghan si sentono sempre più distanti dalla famiglia reale e infrangono anche l’ultimo tabù, parlando di politica americana in pubblico e suggerendo in maniera fin troppo diretta le loro preferenze sulle prossime presidenziali. Francesca Rossi, Giovedì 24/09/2020 su Il Giornale. Harry e Meghan hanno dato un calcio all’ultimo baluardo della royal family: la neutralità politica, ovvero il divieto, per la Firm, di esprimere opinioni sulle spinose faccende della cosa pubblica. Il principe e sua moglie non si sono limitati a dire la loro sulle prossime presidenziali americane, ma hanno persino suggerito agli elettori, in modo piuttosto esplicito, a chi dare la preferenza. Inutile dire che le simpatie dei Sussex convergono su Biden e non certo su Trump. Del resto sono indimenticabili gli screzi tra l’attuale presidente degli Stati Uniti e Meghan Markle. Alla corte inglese, però, sembra scoppiata una bomba, tanto è l’imbarazzo e l’incredulità nei confronti del nuovo gesto di ribellione di Harry e Meghan. Anche i sudditi inglesi sarebbero furiosi, tanto da chiedere alla regina Elisabetta di togliere alla coppia il titolo di duchi del Sussex. Harry e Meghan, infatti, sono intervenuti sulla ABC per la cerimonia del Time che li ha eletti tra le personalità più influenti del mondo. Dal giardino della nuova casa a Santa Barbara il principe ha dichiarato: “È fondamentale rifiutare l’incitamento all’odio, la disinformazione e la negatività online. Ciò a cui siamo esposti e ciò con cui ci impegniamo online ha un effetto reale su di noi”. Meghan, invece, ha sottolineato che le prossime elezioni sono “le più importanti della nostra vita”. I duchi non hanno effettivamente fatto i nomi dei candidati alla Casa Bianca, ma gli esperti hanno letto in queste frasi, nei trascorsi di Meghan con Trump e nell’invito dei Sussex a cambiare l’attuale situazione americana uno sbilanciamento fin troppo evidente nei confronti di Biden. Una frase che il presidente americano, rispondendo ai giornalisti, ha commentato così: "Non sono un suo fan e auguro tanta fortuna a Harry, ne avrà bisogno". Devono essersene resi conto anche a Buckingham Palace, se nel comunicato ufficiale emesso dallo staff regale e riportato dal Daily Mail possiamo leggere: “Il duca non è un membro attivo della famiglia reale e qualunque commento faccia è a titolo personale”. Insomma il Palazzo se ne lava le mani. Con questa nota la regina ha escluso il nipote dalla royal family, poco conta il famoso periodo di transizione di 12 mesi per rendere effettiva la Megxit. Senza troppi giri di parole la corte inglese ci sta dicendo che ormai ha ben poco da spartire con Harry e Meghan. Il portavoce dei Sussex, James Holt, minimizza l’accaduto: “Harry non stava parlando di un candidato o di un partito, ma del tono del dibattito, specie online”. In apparenza ciò è vero ma, di fatto, l’opinione politica di Harry e Meghan è facilmente intuibile ascoltando il loro discorso ed è poco credibile che ciò sia dovuto a un errore di valutazione. Dopo l’apparizione dei duchi i social network si sono infiammati. Un utente dichiara: “Perché un principe britannico e sua moglie sono coinvolti in un’elezione negli Stati Uniti? Cosa c’entrano? Non abbiamo combattuto una guerra per porre fine alle interferenze della monarchia britannica?” . Un altro rincara la dose: “Perché un principe del Regno Unito incoraggerebbe i cittadini statunitensi a votare alle loro elezioni? Come può essere consentito?”. Dan Wootton, editorialista del Sun, non le manda a dire: “Se Harry e Meghan vogliono sostenere il partito democratico americano è una loro scelta, ma allora devono rinunciare immediatamente ai loro titoli reali se non vogliono danneggiare la monarchia”. Norman Baker, autore del libro “And What Do You Do? What The Royal Family Don’t Want You To Know”, precisa anche che Harry “non può parlare di elezioni politiche rappresentando di fatto ancora la famiglia reale”. Il giornalista Piers Morgan sottolinea: “Il loro comportamento è inaccettabile”. Già Lady Colin Campbell aveva svelato nella sua biografia, “Harry e Meghan, La Loro Vera Storia”, che l’obiettivo finale di Meghan Markle sarebbe la Casa Bianca. A tal proposito c’è già chi immagina una sfida all’ultimo voto nel 2024 tra la duchessa e Ivanka Trump. Harry e Meghan si sono esposti troppo e male, hanno rinunciato a una neutralità che avrebbe potuto sostenerli nelle loro iniziative umanitarie, soprattutto tenendo conto della delicatissima situazione politica americana in questo periodo. Harry rimane un Windsor anche senza l’appoggio della famiglia e le sue esternazioni potrebbero avere un peso diplomatico non indifferente. Un fardello di cui, considerati i precari equilibri geopolitici, nessuno sente il bisogno.

 (ANSA 2 settembre 2020) - Harry e Meghan alla conquista di Hollywood sulla scia di Barack e Michelle Obama. I Duchi del Sussex hanno fondato una società di produzione e firmato un accordo pluriennale con Neflix che li pagherà per realizzare documentari, film, serie tv e programmi per bambini. L'accordo dà al secondogenito di Carlo e Diana e alla ex attrice di "Suits" una vasta piattaforma globale sei mesi dopo il clamoroso "divorzio" dalla casa di Windsor. I Duchi potranno comparire di persona nei documentari ma, come Meghan ha più volte ribadito, non si parla per lei di un ritorno al mestiere di attrice. Netflix avrà l'esclusiva di tutti i prodotti sfornati dalla società dei Duchi. "Il nostro obiettivo è creare contenuti che informino ma che diano anche speranza", hanno detto i Sussex spiegando che, "nei panni di nuovi genitori", è importante per loro creare "programmi per famiglie che siano fonte di ispirazione". Due settimane fa Variety aveva rivelato in esclusiva che la coppia aveva avviato all'inizio dell'estate concreti passi con gli studi portando in giro tra Disney, Apple e Nbc la proposta di un loro progetto finora assolutamente top secret. Hanno detto ora di avere scelto Netflix per la "capacità senza precedenti" di far arrivare ai suoi 193 milioni di abbonati "contenuti che abbiano impatto e provochino azioni". Meghan è tornata qualche mese fa a lavorare a Hollywood ma è stato per beneficenza, prestando la sua voce alla docuserie di Disney + "Elephants" che ha debuttato in aprile sul canale in streaming, con i proventi destinati all'organizzazione Elephants Without Borders che si prende cura degli elefanti nel Botswana. Quanto a Harry, prima di rinunciare ai titoli reali, aveva annunciato che avrebbe lavorato con OprahWinfrey per una serie di Apple Tv+ sulla salute mentale. Poi, all'inizio di agosto, il Duca era apparso a sorpresa nel trailer del documentario di Netflix "RisingPhoenix" sulla storia dei giochi paralimpici.

DAGONEWS il 9 settembre 2020. Mejo di un film! Harry e Meghan avevano già studiato tutto e progettavano di fare un accordo con Netflix già prima di sposarsi. Lo sostiene la biografa del duca di Sussex Angela Levin, che ha incontrato e intervistato nel 2018: “la coppia ha sfruttato la famiglia reale firmando l’accordo con la piattaforma di streaming. Parlando allo show tv The Royal Beat, ha detto: "Penso che sia il più grande sfruttamento della famiglia reale. È inspiegabile che possano aver negoziato l’accordo in così breve tempo. Loro che escono dalla famiglia reale, e ricevono subito 150 milioni di sterline. Secondo me era tutto scritto fin dall’inizio, prima delle nozze.

Luigi Ippolito per "corriere.it" il 16 settembre 2020. Meghan ha fatto la fine di Trotskij e Bucharin: come gli oppositori di Stalin venivano cancellati dalle foto sovietiche ufficiali, così la duchessa di Sussex è stata del tutto oscurata nelle immagini utilizzate dalla casa reale per festeggiare ieri i 36 anni del principe Harry. Una scelta che non è passata inosservata agli occhi dei giornali inglesi, ma soprattutto a quelli dei fan dell’ex attrice americana, che hanno accusato Buckingham Palace di comportamento «immaturo e meschino». Colpisce soprattutto la foto scelta da William e Kate. È un’immagine scattata nel 2017, quando i duchi di Cambridge si sono sfidati a una gara di corsa con Harry: non solo si tratta di un’istantanea pre-Meghan, ma soprattutto in mezzo ai tre c’è una corsia vuota, quasi a sottolineare la «scomparsa» dell’intrusa americana. Inoltre, la foto evoca i tempi in cui il terzetto si muoveva affiatato, prima che l’arrivo di Meghan provocasse una frattura tra William e Harry. La regina è stata più discreta, se vogliamo: ma anche il suo account ufficiale ha postato una foto in cui ci sono soltanto la sovrana e il nipote, senza traccia di Meghan. E altrettanto ha fatto il principe Carlo, che ha scelto un’immagine che lo ritrae assieme al figlio, senza consorte. Ovviamente, le fonti ufficiali smentiscono letture maliziose: «La gente vuole leggerci troppo dentro – ha commentato una portavoce di Kensington Palace, la residenza di William e Kate —. Si tratta soltanto di un bello scatto». Ma l’impressione è che la damnatio memoriae abbia già avviato il suo corso.

Le pretese di Harry e Meghan: un milione di dollari a discorso. Harry e Meghan dettano legge, stilando una lista di regole minuziose per quel che concerne i loro futuri discorsi pubblici, dal compenso (si parla di un milione di dollari a intervento) fino alla richiesta di conoscere in anticipo il pubblico che li ascolterà. Francesca Rossi, Venerdì 11/09/2020 su Il Giornale. Harry e Meghan fanno sul serio e vogliono dimostrare che una vita oltre la royal family è possibile, così come l’indipendenza economica al di fuori del protocollo reale. Questo, almeno, è ciò che ci raccontano le ultime indiscrezioni del Telegraph. I Sussex si stanno ritagliando un avvenire totalmente plasmato dalla loro volontà e, per far questo, hanno anche iniziato a stabilire i primi, proverbiali “paletti” per quel che concerne i futuri discorsi pubblici.

Regole d'acciaio, inamovibili, attraverso cui la coppia vorrebbe costruirsi un’immagine e, chissà, forse perfino un brand. Per il momento, dati i rischi dell’emergenza sanitaria in corso, si tratta di norme relative soprattutto agli interventi virtuali, da remoto, ma poco importa. Stando alle notizie raccolte dal tabloid Harry e Meghan avrebbero incaricato la New York Harry Walker Agency (la stessa con cui hanno firmato gli Obama, i Clinton e Oprah Winfrey) di rappresentarli, curando nei minimi dettagli l’esposizione mediatica conseguente ai discorsi. L’agenzia e i duchi avrebbero già iniziato la loro collaborazione, preparando insieme un modello di quattro pagine con domande mirate a cui dovranno rispondere gli organizzatori degli eventi a cui i Sussex saranno invitati. Il documento, dal titolo “modulo di richiesta evento virtuale” potrebbe essere il mezzo con cui Harry e Meghan vogliono dimostrare che la ricerca della libertà non è stata un capriccio, ma un’esigenza che si è fatta sempre più pressante. I duchi di Sussex vogliono controllare ogni aspetto dei loro interventi, senza lasciare nulla al caso. A cominciare dal compenso, un particolare non da poco che la coppia chiede di conoscere in anticipo. Sembra che il cachet in questione possa arrivare addirittura a un milione di dollari a discorso. Ed è solo l’inizio.

A quanto sembra i Sussex vorrebbero decidere anche chi modererà le loro partecipazioni e a chi sarà affidato il compito di presentarli. Il Telegraph ha visionato il modello, spiegando che “prima di accettare qualsiasi cosa, la coppia desidera una stima dei partecipanti e una descrizione di chi sono”. Sembra di capire che Harry e Meghan vogliano preparare i loro interventi in base a chi avranno di fronte (non è affatto detto che sia un male, anzi) e confrontarsi con un pubblico che non sia totalmente sconosciuto per loro. Per quanto riguarda gli sponsor siamo sulla stessa lunghezza d’onda. I duchi esigono in anticipo anche i nomi di chi finanzierà gli eventi. Chiedono, inoltre, quali altre personalità interverranno, se verranno mostrati dei video e di che tipo, se ci saranno uno o più marchi visibili e quali. Infine i Sussex gradirebbero informazioni dettagliata sulle modalità di svolgimento dei loro discorsi e pretendono che la parte tecnica sia curata in maniera impeccabile, in modo da evitare problemi di connessione, per esempio. Le richieste sono numerose ma non impossibili, a ben pensarci. In effetti la maggior parte delle teste coronate e dei personaggi molto in vista ha a disposizione esperti e interi uffici stampa che “monitorano” e preparano ogni apparizione pubblica, in modo da evitare eventuali situazioni imbarazzanti o sconvenienti. L’obiettivo è quello di mantenere un profilo sobrio ma di alto livello, costruendo e proteggendo un certo tipo di immagine che, negli anni, si dovrebbe fondere con il personaggio. Non è strano, dunque, che anche Harry e Meghan si comportino alla stessa maniera, consci anche del loro valore (soprattutto economico, viste le grandi aspettative che il pubblico nutre nei loro confronti). Non dimentichiamo, poi, che il principe Harry rimane un Windsor, anche se non ha più il trattamento di altezza reale e non è più un membro senior della royal family. I Sussex iniziano a camminare sulle loro gambe e sanno già che tipo di passo vogliono mantenere. Le loro pretese possono apparire un tantino snob, eccessive, vi si può forse intuire un vago capriccio dettato dall’ambizione, ma non è detto che sia così (non del tutto). Harry e Meghan chiedono di essere presi sul serio, puntualizzando con le loro richieste di avere a cuore i temi di cui si occupano. Per questo e anche per il successo della loro carriera la preparazione è fondamentale. Non possono permettersi passi falsi. Hanno stabilito le regole del gioco, ma ora dovranno iniziare a giocare e farci vedere che sanno farlo. Liberi dalle imposizioni di corte, un fastidio, ma da una certa prospettiva anche uno scudo protettivo, Harry e Meghan sapranno fare buon uso del potere che deriva dalla loro immensa popolarità?

La lussuosa vita di Harry e Meghan tra regali e una proposta milionario. L’indipendenza economica di Harry e Meghan passa anche attraverso gli omaggi milionari di amici vip, come rivela la biografia “Finding Freedom” e ora i Sussex potrebbero guadagnare un milione di dollari in un colpo solo grazie a un podcast su Spotify. Francesca Rossi, Mercoledì 02/09/2020 su Il Giornale. Da quando Harry e Meghan hanno annunciato il loro addio alla royal family, i tabloid hanno cercato di capire da dove potessero arrivare i futuri introiti necessari ai duchi per mantenere il loro elevato tenore di vita. Si è parlato di un possibile ritorno a Hollywood di Meghan Markle e di un presunto cachet stellare da 50 milioni di dollari per un’apparizione cinematografica. I giornali hanno anche ipotizzato che i Sussex potessero dedicarsi alla carriera di conferenzieri o di scrittori. L’argomento finanziario è tornato alla ribalta quando Harry e Meghan hanno acquistato una villa a Santa Barbara del valore di 14 milioni di dollari. Come pagheranno il mutuo da 50mila euro mensili, si sono chiesti gli esperti reali e i giornalisti? Davvero il principe Carlo avrebbe aiutato il figlio e la nuora sborsando 5 milioni di euro d’anticipo per la lussuosa dimora? Non dimentichiamo, poi, la questione della restituzione dei 2,5 milioni di euro di soldi pubblici usati per la ristrutturazione di Frogmore Cottage. Parliamo di rate mensili da 20mila euro per 11 anni. Non esattamente uno scherzetto. Stando al Sunday Mirror, però, Harry e Meghan non dovrebbero avere alcuna difficoltà a far fronte ai loro debiti. Secondo le indiscrezione il colosso di Spotify avrebbe offerto alla duchessa di Sussex un milione di dollari (circa 840mila euro) per un podcast esclusivo. Non sappiamo ancora su quali temi verterà la serie, ma possiamo azzardare l’ipotesi di un programma dedicato alle questioni sociali care a Meghan, come i diritti delle donne e la lotta alla discriminazione razziale. Una possibilità non così aleatoria, visto che Spotify avrebbe lasciato carta bianca alla Markle per quel che concerne il progetto del podcast. Gli agenti della duchessa sarebbero in trattative con il gigante della musica da settimane e secondo il Sunday Times entro pochi giorni Meghan presenterà un’idea concreta e ben strutturata. Non è chiaro se il principe Harry parteciperà e in che modo. Forse per Harry e Meghan si stanno concretizzando le prime proposte di lavoro, ma la coppia può contare anche su un altro tipo di “guadagno”, benché in forma indiretta. I regali. I Sussex non sono più membri senior della famiglia reale, dunque non sono neanche tenuti a rispettare le regole del protocollo in materia di omaggi. Per esempio, di norma, i reali inglesi non possono accettare doni che superino il tetto delle 150 sterline. È loro vietato anche tenere doni che possano metterli in imbarazzo, ovvero porli in una condizione di obbligo, di debito (o di ricatto, dipende dai punti di vista) nei confronti di chi ha fatto il regalo. Tuttavia possono tenere omaggi come fiori o libri. Questo non è più il caso di Harry e Meghan, i quali in passato hanno accettato diverse volte doni e favori di vario tipo (anche quando erano ancora altezze reali), come svela la biografia Finding Freedom. Omaggi per un totale di 4,5 milioni di dollari. L’ultimo in ordine di tempo è il prestito della residenza a Beverly Hills da 11 milioni di dollari di Tyler Perry. Il produttore cinematografico avrebbe messo a disposizione la sua casa per Harry e Meghan senza chiedere un dollaro d’affitto. Se torniamo indietro nel tempo, però, troviamo altri regali da sogno. Partiamo dal fidanzamento dei Sussex. Secondo gli autori Scobie e Durand già nel 2016, in occasione dei primi appuntamenti romantici, ai duchi sarebbe stata concessa gratuitamente una stanza da 500 dollari a notte dell’hotel-club Soho House. Il gentile omaggio sarebbe arrivato dal proprietario dell’albergo, il canadese Markus Anderson, amico di Meghan. Sembra che lo stesso Anderson abbia organizzato per i neofidanzati persino un fine settimana da 6mila dollari. L’amore e gli incontri tra il principe e l’attrice sarebbe stato favorito anche dall’ex amica del cuore della duchessa, Jessica Mulroney, che avrebbe prestato alla coppia il suo jet privato da 65mila dollari a viaggio. Arriviamo, così, al giorno del royal wedding, nel maggio 2018. Per l’occasione la regina Elisabetta ha regalato ai Sussex la residenza di Frogmore Cottage, a Windsor. Vanity Fair riporta che di recente sarebbe stata venduta per 4 milioni di dollari una villa nella stessa zona. Da questo particolare possiamo farci un’idea del valore della stessa Frogmore Cottage. Ancora durante il matrimonio di Harry e Meghan la ditta di diffusori aromatici Diptique avrebbe messo a disposizione svariati profumatori per l’ambiente da 170 dollari ciascuno, in modo da coprire l’odore di muffa della St. George’s Chapel, a quanto risulta detestato dalla duchessa. Le vacanze, poi, meritano un capitolo a parte. Dopo le nozze i Sussex sarebbero stati ospiti di George e Amal Clooney nella loro villa sul Lago di Como e l’attore avrebbe anche messo a disposizione della coppia il suo jet privato, evitando che i neosposi spendessero qualcosa come 17mila dollari in biglietti aerei. Lo scorso anno, poi, Elton John ha invitato Harry e Meghan per una vacanza tra Ibiza e Nizza, mettendo a disposizione un altro aereo privato. Persino la gravidanza della duchessa ha avuto due sponsor d’eccezione, cioè Serena Williams e Amal Clooney, che avrebbero pagato i 400mila dollari del baby shower. Il confine tra indipendenza economica e arte dello scrocco sembrerebbe piuttosto sottile, ma i Sussex hanno tutto il tempo per riscattarsi.

E ora esce (tutta) la verità: la regina non ha mai escluso Meghan. Disponibile dal 27 agosto anche in Italia, "Libertà" è il libro che racconta la verità su tutti i gossip di Meghan Markle e del Principe Harry, facendo luce anche sulla Megxit. Carlo Lanna, Sabato 29/08/2020 su Il Giornale. Fin da quando è stata annunciata l’uscita di "Finding Freedom", la biografia dedicata a Meghan Markle e al Principe Harry è diventata argomento di discussione che ha accesso un vero e proprio dibattito tra gli estimatori dei Windsor. Definito come un "libro-scandalo" e capace di gettare nel caos tutta la famiglia reale inglese a causa delle rivelazioni in esso contenute, alla luce dei fatti, ciò che Omid Scobie e Carolyn Durand hanno portato a galla è un ritratto ben diverso delle aspettative. “Finding Freedom” dal 27 agosto è disponibile qui in Italia grazie alla Harper Collins che ne ha curato la traduzione e regala ai lettori una visione d’insieme su una tra le coppie più amate e discusse della monarchia inglese. Una storia, quella di Harry e Meghan, ancora tutta da scrivere che nel libro dei due giornalisti ed esperti di corte viene raccontata come un perfetto romanzo d’amore, in cui non si lesinano dettagli sulla vita e i segreti di palazzo. Non un vero e proprio retroscena su ciò che accade a Buckingham Palace, ma un resoconto di cuore e di pancia su un momento storico molto importante che ha rivoluzionato gli assetti della royal family. "Libertà", questo è il titolo che è stato scelto per la versione italiana, nelle sue 400 pagine ha un unico obbiettivo da perseguire: far capire come e perché Harry e Meghan hanno deciso di voltare le spalle alla Corona. E finalmente si scioglie il nodo alla matassa dopo tante indiscrezioni. Fin dalle prime pagine, non è difficile comprendere in che direzione gli autori vogliono spingere i fili del racconto. Si parte da un’introduzione in cui Omid e Carolyn spiegano il motivo per quale hanno deciso di scrivere un libro su Meghan e Harry. Da quel che sembra, i due quotati giornalisti (rispetto ad altri) conoscono molto bene i menage di Corte e, soprattutto, sono voci autorevoli in fatto di rumor e gossip reali. Sono gli unici che hanno vissuto, nel vero senso del termine, alcuni dei momenti più importanti della vita dei Windsor. Aprire una parentesi sulla vita del Principe Harry, eterno secondo nel cuore di Carlo, ha messo in moto tutta una serie di considerazioni sulla sua autorevolezza all’interno della famiglia. E se fino ad oggi tutti i pettegolezzi avevano descritto il giovane Harry come una testa calda e un uomo succube di Meghan, nel libro traspare invece l’idea di un giovane coscienzioso e alla costante ricerca del suo posto del mondo. Harry, fin da ragazzo, ha sempre vissuto con la consapevolezza di sentirsi un outsider e un diverso, grazie anche agli insegnamenti di Lady Diana. Per questo ha sempre cercato il modo di distinguersi e di fuggire dal rigore di corte. L’arrivo di Meghan Markle, in quel giugno del 2016, per lui è stato come un segno da parte del destino. Il principe ha trovato la sua anima affine, il lato destro del suo cuore, una donna che crede nei suoi stessi ideali. Ecco perché la loro storia d’amore, dentro e fuori le mura di palazzo, è stata così epica: entrambi hanno voluto prendere in mano le redini della loro vita e scrivere, da soli, il loro lieto fine. E si parte proprio dal principio. La biografia, con un tratto deciso e molto cordiale, inizia nel tratteggiare le figure di Meghan e di Harry ancora prima di quell’appuntamento alla Soho House di Londra, che li ha uniti indissolubilmente. Fin da quando l’immagine della Markle è apparsa al fianco del Principe sono state tante le parole che si sono spese sul suo conto. Vere e non vere, "Libertà" sfata diversi miti sull’immagine di Meghan. Conosciuta solo come la protagonista di Suits, prima di diventare attrice, la Markle ha cercato di sbarcare il lunario come giornalista, food blogger e persino come paladina dei diritti sulle donne. Tra le pagine del libro traspare una Meghan dolce, carismatica, ma anche forte e combattiva. Non così diversa caratterialmente dal Principe. E attraverso i ricordi del loro primo appuntamento, ricostruito soprattutto grazie all’intervento di diversi amici fidati della coppia, si intuisce come i futuri Duchi di Sussex, almeno all’inizio della loro storia, non hanno mai pensato al futuro, non hanno mai pensato a regole e imposizioni di Corte. Hanno vissuto come due adolescenti quel forte desiderio che è nato tra di loro. Una storia che per mesi si è fortificata in segreto, tra cene a lume di candela e brevi soggiorni in località sperdute. Meghan non è affatto una donna arrivista che ha plagiato il principe: ha rubato solo il suo cuore. Il sogno però si è infranto con la realtà, durante una festa privata di Halloween in cui una persona vicina all’entourage di Beatrice di York (cugina di Harry e figlia del Principe Andrea) ha spifferato alla stampa della nuova love story del Principe. Da quel momento in poi tutto è andato a rotoli. Harry e Meghan sono stati costretti a reagire, bersagliati dai tabloid che montavano accuse inesistenti e pettegolezzi atti solo per appannare il principe e a criticare la giovane attrice. Nel mirino infatti sono finite le idee politiche della Markle, il suo passato da valletta in tv e il colore della pelle. E proprio per questo motivo la vita dei due futuri sposi finisce nel caos. Diversamente, però, da quello che è trapelato in rete negli ultimi periodi, gli autori della biografia hanno sottolineato alcuni dettagli molto particolari. Quei fotografi e quei giornalisti così insidiosi, non hanno mai creato fratture tra Meghan e Harry, né tantomeno il buon nome della famiglia è stato messo in cattiva luce. Tutti quegli articoli diffamanti, non hanno fatto altro che aumentare le paure del Principe per l’incolumità sua e della Markle. Proprio quei giornalisti che hanno "provocato" la morte di Lady D, ora tornano a disturbare la sua quiete, facendo riemergere dal passato disturbi mai del tutto superati. Di grande impatto, infatti, è il capitolo 4 del libro che apre una lunga parentesi sui problemi mentali di Harry che ha subito a causa della morte della madre. E proprio per questi motivi, la coppia ha sempre cercato di vivere lontano dall’attenzione dei fotografi, simbolo di una voglia di indipendenza e di liberà. Il terzo incomodo nella loro relazione? Sono stati proprio i tabloid inglesi, come il The Sun e il Daily Mail. Al centro del discorso, inoltre, ci sono anche i legami di Meghan con il resto della famiglia. Primo fra tutti con Kate e William. E nonostante i continui rumor di dissidi tra i famigerati " Favolosi 4" (nomiglolo con cui sono stati soprannominati i rampolli di corte Kate, Harry, William e Meghan), i rapporti sono sempre stati molti sereni e cordiali. Meghan è stata ben accetta all’interno della famiglia e la Regina ha sempre avuto un rapporto molto amichevole con la Markle. E sì, la Martkle non è stata mai esclusa dalle grazie della sovrana. Si legge, infatti, di una versione diversa dai fatti che fotografa una nuova verità. E anche se William ha consigliato al fratello di non "correre troppo" e di "ponderare bene le scelte di cuore", questo non ha di certo influito sul loro rapporto. I due principi hanno preso solo due strade diverse. Ancora oggi, pur non vivendo a Londra, sono ancora molto legati. La cosa certa è che sia Harry che Meghan sono stati indirizzati verso la scelta giusta, ma alla fine agitio sempre e comunque secondo il loro istinto. Dunque, non è assolutamente vero che in famiglia ci sono stati trattamenti diversi solo perché Harry aveva intrecciato una storia con una donna comune. La biografia fa capire come il secondogenito di Carlo e Diana è sempre stato uno spirito libero, rispetto a William, che è nato e cresciuto per essere re di Inghilterra. Harry ha vissuto in una campana di vetro, sperando solo di trovare una donna con cui condividere avventure e ideali, e Meghan racchiude tutto ciò che lui ha sempre desiderato. Non un memoriale. Né tantomeno un’autocelebrazione. "Libertà" analizza i fatti e, seppur romanzando sulla storia d’amore che ha fatto sognare tutto il mondo, traspare un’unica verità: Meghan e Harry hanno sempre voluto fare la differenza. I duchi di Sussex hanno seguito un protocollo perché ingabbiati in una vita fatta di regole e “imposizioni”, ma in quanto figure di spicco e aperte a far del bene, hanno deciso di chiudere le porte a titoli e rimostranze solo per un bisogno innato di pensare al prossimo. Diritti civili e sociali. Ambiente, viaggi e energie rinnovabili. La coppia d’oro della monarchia si è resa conto di voler far ancora di più, di lasciare un’impronta in questo mondo in cui stiamo vivendo. Ma essere un duca ha un costo e per questo motivo Harry e Meghan hanno deciso di rinunciare alla sicurezza della corona, per poter scrivere una nuova pagina della loro vita. E il libro finisce proprio sul più bello, spiegando come la scelta di abbandonare la famiglia reale è stata ponderata, non è stata una presa di petto. Anzi, è stata guidata non da quei litigi in famiglia (mai del tutto confermati), ma gli ex duchi sono stati spinti proprio da quella stampa scandalistica che ha impedito loro di poter essere liberi, nonostante fossero "ingabbiati" in una vita di riverenze, impegni d'ordinanza e di obblighi. Una scelta voluta e per nulla forzata che ha cambiato il volto della corona inglese, e che ha regalato la possibilità ai Windsor di guardare al futuro e costruire una "nuova monarchia".

 La regina Elisabetta e il disturbo ossessivo compulsivo: «Le matite in fila, per sentirsi al sicuro». Nicola Bambini su vanityfair.it il 2 settembre 2020. Stando ai racconti dell’insegnante Marion Crawford, riportati nel nuovo libro «The Royal Governess», la sovrana da bambina aveva strani comportamenti legati all’ordine: «Faceva lo stesso con i piatti, ma non sono riuscita a capire di cosa avesse paura». Nuove rivelazioni sulla mitica regina Elisabetta. Nel libro «The Royal Governess», scritto da Wendy Holden e uscito la settimana scorsa, ci sono infatti alcuni interessanti aneddoti sull’infanzia della sovrana, raccontati in passato dalla sua insegnante privata, Marion Crawford. «Aveva studiato psicologica infantile e si accorse di alcuni comportamenti ossessivo-compulsivi dell’allora principessa». «Metteva in fila sia le matite quando studiava, che i piatti in sala da pranzo», si legge in un estratto dell’opera riportato dal Sun. «Le chiesi perché lo facesse e mi rispose che così si sentiva al sicuro». La signora Crawford non si sarebbe mai immaginata di trovare in un simile atteggiamento in quel contesto privilegiato: «Le chiesi di cosa avesse paura, ma proprio mentre stava per rispondermi entrò sua madre». La stessa Crawford, all’inizio degli anni Cinquanta, pubblicò un libro sulla giovane Elisabetta, ancor prima che venisse incoronata regina: già in quelle pagine non si faceva mistero di alcune maniacalità della sovrana. «Mi preoccupai quando la vidi saltare giù dal letto più volte durante la notte per mettere le scarpe dritte e sistemare i vestiti in un certo modo», scriveva. «È sempre stata metodica». In effetti il rigore e la disciplina sono aspetti cari a Lilibet. Da quanto è sul trono si alza ogni giorno alle 7.30 del mattino e accende la radio su BBC 4 dove ascolta il programma «Today» sorseggiando una tazza di té, sempre Early Gray. Poi si concede un bagno nella vasca in cui devono esserci massimo 17 centimetri d’acqua, infine vestizione e via in ufficio, dove ogni cosa è meticolosamente al suo posto. Insomma, il disturbo ossessivo-compulsivo era e rimane una voce di corridoio, mai certificata. La passione di Elisabetta per l’ordine, invece, è evidente a tutti.

 Christine Keller, sesso, droga e 007 la squillo ragazzina vestita di Profumo. Amori sfrenati, doppi giochi e sullo sfondo la Guerra fredda. Ha un faccino pulito, un passato equivoco e le idee chiare su quello che vuole. Fu protagonista del primo grande scandalo del dopoguerra. Che fece crollare il governo inglese. Massimo M. Veronese, Venerdì 28/08/2020 su Il Giornale. Aveva un faccino pulito, di quelli di cui non bisogna fidarsi mai e l’aria da adolescente difficile, il broncio perenne sulle labbra, intrigante e permalosa. Si guardarono un attimo e lui fu perduto per sempre. Fingendosi stupita da quello sguardo che la divorava, abbandonò in punta di piedi il bordo della piscina per mettersi un asciugamano perché non aveva niente addosso.

Christine Keller, scomparsa nel 2017. Era una sera afosa di luglio, di quelle che scaldano il sangue. Era l’inizio della fine. Christine Keeler aveva gambe lunghe e fretta di arrivare. A quindici anni viveva su un vagone ferroviario parcheggiato in un campo vicino al Tamigi, a dodici era già donna, a diciassette aveva messo al mondo un bambino con un sergente americano di stanza dalle sue parti, ma il piccolo, prematuro, non sopravvisse. Non aveva invece scrupoli, ma una bellezza da togliere il fiato, da vendere a caro prezzo. Il primo impiego è al Murray Cabaret club, a Soho, il quartiere popolare e un po’ malfamato della vita notturna londinese, il suo lavoro, raccontava, è «andare in giro senza vestiti addosso». Poi call girl. Una squillo. A 16 anni la piccola Christine, come scrisse il severo lord Dennings, incaricato di redigere il rapporto ufficiale sul caso Profumo «aveva due occhi fatali per ogni uomo e viveva già nel peccato». Di certo innocente non era. Calcolatrice, ambiziosa, spregiudicata. Ma non innocente. Il suo biglietto d’invito per la Londra bene è un osteopata di grido, Stephen Ward, frequentatore assiduo del Murray club. È il medico di Liz Taylor e Winston Churchill, ritrattista a tempo perso, quasi sempre al verde, senza nemmeno un conto in banca. La sua specialità è organizzare orge, preferibilmente sadomaso, il suo appartamentino è un viavai continuo di ragazzine sempre un po’ su di giri. Insegna loro a fumare marijuana, le divide con gli amici, tutti pezzi grossi della Londra che comanda. Si dichiara «simpatizzante comunista», ma c’è chi dice sia ricattato dai servizi segreti sovietici che nei salottini rosa shocking della sua casa di Wimpole Mews nascondevano dietro finti specchi cineprese, macchine fotografiche e microfoni per catturare, tra i sospiri, i segreti di chi conta. C’è anche il dottor Ward al ricevimento del Visconte di Astor, quella sera di luglio davanti alla piscina della tenuta del Berkshire, «house party» li chiamano e durano alcuni giorni con gli invitati, lord, ricconi ed «easy girls» che dormono nella villa e si aggirano nudi per i corridoi. C’è Christine, senza accappatoio, vicino alla siepe di rose, ma c’è soprattutto lui, John Profumo, il ministro della Guerra del governo di Harold Macmillan, quarantaseienne astro nascente dei conservatori, brillante, affascinante, ricco e sposato con una star del cinema, Valerie Hobson. Il padre, un barone ligure di origini ebree, lo ha educato secondo i canoni dell'aristocrazia inglese, è cresciuto ad Oxford, a 25 anni era già deputato. Ha tutto, ma da quella sera vuole solo lei. Tre giorni dopo Christine è da lui, ma è lui ad essere suo. «Non so spiegarmi il fascino di John - racconta -. Era piccolo, calvo e non proprio bello, ma aveva una personalità dominatrice e mi faceva regali molto costosi. Eugenij invece dopo essere stato con me mi scansava e mi guardava con astio quasi a rimproverarmi quei minuti di debolezza». Perché Profumo non immagina di dividere i favori di quello splendore con l’addetto navale dell’ambasciata sovietica, il capitano Eugenij Ivanov, spione del Kgb, amante di liquori, sigari, belle donne e partite di poker. Il nemico mortale dell’Occidente. Per questo il controspionaggio allerta subito Profumo: lascia perdere la ragazzina, ne va dello sicurezza dello Stato. Tra i due sono strazianti lettere dì addio e poi improvvisi ripensamenti, finisce, dopo pochi mesi di fuoco sotto la pelle. Troppi. L’anno dopo, un giorno qualsiasi, Christine, dopo una violenta lite col suo amante giamaicano, lo spacciatore Aloysius «Lucky» Gordon, si rifugia dall’amica Mandy Rice-Davies, biondina specializzata in frustate. Lui, furioso di gelosia, cerca invano di farla a pezzi con un’accetta. Si mette allora con un altro tipaccio, Johnny Edgecombe, ma quando lei lo molla, lui, pazzo di lei, spara sette colpi di pistola contro la casa del dottor Ward. Arriva la polizia, la cronaca mette gli occhi addosso a quella squillo ragazzina dall’aria perbene e la fama per male. Bastano mille sterline a convincerla a rivelare in esclusiva al Sunday Pictorial, di come un dottore di grido l’abbia spinta soltanto l’anno prima tra le braccia del ministro della Guerra per aver informazioni riservate sul dislocamento delle testate atomiche in Germania da trasmettere a un capitano del Kgb.

È la fine. Profumo ammette di conoscerla, ma giura ai Comuni che «niente di scorretto nelle nostre relazioni» è mai avvenuto. Ma lei insiste. Dice di essersi recata a casa sua una notte, dice che la moglie non c’era. Descrive le stanze, i mobili, persino il telefono col dispositivo antiascolto. Non dimentica nulla. Lo scandalo diventa politico, l’opposizione laburista chiede la testa di Profumo e del premier Macmillan, sui tabloid gli inglesi divorano storie di spie, bordelli di lusso, festini in ville aristocratiche. La foto di Christine, nuda seduta a cavalcioni di una sedia girata al contrario, lo sguardo sfrontato dentro l’obiettivo, diventa un manifesto sesso, droga e rock’n’roll della swinging Londra anni ’60. Le ragazzine si vestono e si truccano come lei. Messo alle strette Profumo confessa, si dimette da ogni carica, ammette il suo «profondo rimorso» ma nega d’aver mai rivelato segreti di Stato. Il giorno dopo la Borsa di Londra precipita, l’anno dopo cade anche il governo di Sua Maestà, lo «scandalo del secolo» travolge il potente MI5, il controspionaggio britannico, spaventato dall’idea che in piena Guerra fredda preziosi segreti militari siano scivolati tra le lenzuola sul tavolo del nemico. Il processo è un romanzo d’appendice che non finisce più, il pubblico impazzisce, i giornali vendono milioni di copie, la gente compra tutto quello che esce. Ma finisce male per tutti. Stephen Ward, accusato di favoreggiamento alla prostituzione, si uccide con i barbiturici senza aspettare la sentenza, Ivanov, richiamato in patria, viene degradato ed espulso dal partito, Mandy Rice-Davis apre un locale notturno a Tel Aviv. Christine condannata per falsa testimonianza e ostacolo alla giustizia, finisce a fare la lavandaia nel penitenziario di Halloway per sei mesi, quando esce dice di essere diventata «una ragazza a posto», sposa in segreto un perito meccanico, James Levermore, cambia taglio e colore dei capelli, giura di voler diventare «una moglie comune come tante». Va a vivere in un bungalow, in una strada tranquilla e alberata alla periferia di Londra, ma il matrimonio dura cinque mesi e meno di un anno dura anche quello con Anthony Platt, un ricco uomo d’affari londinese, padre del suo unico figlio. Finisce in miseria abbandonata da tutti: «Mia madre si è guadagnata un posto nella storia britannica - dice Seymour Platt - ma ha pagato un altissimo prezzo personale ». Solo dopo trent’anni, in un’intervista alla Bbc, ammette: «Si, sono stata una spia dei sovietici. Ma avevo diciassette anni e non sapevo che c’era gente che veniva arrestata per le idee che professava». Se ne è andata quattro anni fa, a 75 anni, uccisa da una polmonite, la serie tv in sei episodi che quest’anno la Bbc le ha dedicato, The trial of Christine Keeler, protagonista l’attrice Sophie Louise Cookson, ha spopolato come sessant’anni fa. «È vero che ho fatto sesso per soldi, ma solo per disperazione - scrive nella sua autobiografia -. Ma ironicamente a crearmi più problemi è stato il sesso fatto per passione più che quello fatto per denaro». John Profumo è morto nel 2006 all’età di 91 anni. Si dedicava all’assistenza di drogati e carcerati. La moglie lo ha perdonato, la regina riabilitato da anni. Lo ha ucciso un attacco di cuore. Cominciato quarantacinque anni prima, sul bordo di una piscina, vicino a una siepe di rose.

Alice di Battenberg, la suocera della Regina Elisabetta che fu «curata» da Freud con la sterilizzazione forzata. Elena Tebano il 26 agosto 2020 su Il Corriere della Sera. Vittoria Alice Elisabetta Giulia Maria di Battenberg era la principessa di Battenberg, Grecia e Danimarca. In Italia è poco conosciuta, ma era la suocera della regina Elisabetta II del Regno Unito: uno dei suoi figli è il duca di Edimburgo Filippo. Adesso, grazie al lavoro di ricerca dello psicologo Dany Nobus della Brunel University di Londra, si scopre anche che è stata una paziente del padre della psicanalisi Sigmund Freud. Che però, invece di curarla, l’ha fatta sottoporre a una procedura a dir poco abominevole, come racconta lo Spiegel. Alice di Battenberg aveva 45 anni quando, alla fine degli anni 20, arrivò nella clinica Kurhaus Schloss Tegel di Berlino: da giorni non mangiava niente per espiare i peccati che era convinta di aver compiuto, credeva di essere «l’unica sposa prescelta da Gesù Cristo» e strisciava a terra pensando di poter sentire così i messaggi che le arrivavano dalla Terra Santa. Il sanatorio di Tegel, la prima clinica psicoanalitica al mondo, era stata fondata da Ernst Simmel. Lo psicoanalista sosteneva che «tutto ciò che minaccia psicologicamente la mente e il corpo umano con malattie e decadimento può essere contrastato qui con una terapia naturale e appropriata»: il suo progetto aveva attirato l’attenzione di Freud, che visitava spesso la clinica. Solo che Simmel non riuscì a guarire la principessa, anche perché Alice di Battenberg — già piuttosto riottosa alle cure — aveva problemi di udito ed era impossibile sottoporla a una “ordinaria” terapia psicoanalitica. Il suo più grande progresso fu sentirsi dire — scrive lo Spiegel — che «lui, il direttore della clinica, poteva d’ora in poi assumere il ruolo di Cristo per lei». Simmel allora si consultò con Freud, che, convinto che la psicanalisi non potesse niente contro le psicosi gravi, lo convinse a usare un metodo più radicale: l’irraggiamento delle ovaie con i raggi X. Non per procurarle la menopausa, come si potrebbe pensare, ma come metodo per ridarle vitalità e ringiovanirla. Era stato teorizzato da un medico austriaco dell’epoca, Eugen Steinach, secondo il quale «i testicoli e le ovaie inibivano la produzione di ormoni sessuali nella vecchiaia». La sterilizzazione forzata doveva restituire la libido sessuale alla Principessa Alice. «A metà degli anni Sessanta, Freud stesso fu sottoposto a una cosiddetta vasoligatura», una forma più primitiva di vasectomia. «Inutile dire che il trattamento non ha portato al risultato sperato.  Alice von Battenberg è stata rinchiusa per anni prima di riprendere gradualmente il controllo della sua vita» spiega lo Spiegel. Oggi Nobus, lo psicologo esperto di Freud che ha raccontato la sua storia, è convinto che la principessa avesse solo avuto un grave esaurimento nervoso. Le «cure» con i raggi X certo non l’hanno aiutata a superarlo.

Questo articolo è stato pubblicato originariamente nella newsletter Il Punto - Rassegna stampa del Corriere della sera.

Il principe Carlo lascia l'azienda dopo 35 anni. Si prepara a diventare re? Per i tabloid inglesi la mossa di Carlo d'Inghilterra di lasciare la fattoria biologica nel Gloucestershire sarebbe un chiaro segnale della sua imminente ascesa al trono. Novella Toloni, Mercoledì 19/08/2020 su Il Giornale. Da mesi si vocifera che il principe Carlo sia prossimo all'incoronazione e le ultime mosse del duca lo confermerebbero. L'annuncio della vendita della sua azienda agricola biologica - la Duchy Home Farm che gestisce da ormai 35 anni - suona infatti come il primo passo verso i suoi doveri di re. Dai tabloid inglesi si apprende che il principe Carlo non ha rinnovato la gestione della fattoria che si trova all'interno dei giardini di Highgrove House, la residenza di campagna dei duchi di Cornovaglia. Un segnale, per molti, che il prossimo futuro del primogenito della regina sarebbe pronto a cambiare radicalmente. Gli esperti reali non ci avrebbero mai scommesso eppure tutte le indiscrezioni portano il principe Carlo al trono. Se per molti il predestinato a indossare la corona era il principe William, già pronto a portare la monarchia nel terzo millennio, il coronavirus avrebbe rivoluzionato i piani della sovrana. La regina Elisabetta II a 94 anni suonati non ha mai manifestato l'intenzione di abdicare in favore di figlio o nipote, ma l'inattesa pandemia da covid-19 ha aperto scenari inconsueti sulla successione. Con la regina sempre più isolata per evitare un possibile contagio e la necessità della famiglia reale di dare una guida sicura e decisa al paese, il principe Carlo sembra essere la soluzione più probabile per l'avvicendamento al trono. La conferma sembrerebbe nascondersi dietro il mancato rinnovo della licenza di Home Farm, l'azienda agricola biologica da 400 ettari tra campi e allevamenti, che il principe Carlo gestisce dagli anni '80. A 71 anni, il primogenito della regina il prossimo aprile lascerà e non a un reale ma bensì a un privato, che proseguirà l'opera cominciata dal duca, come confermano da Clarence House. L'azienda rimarrà una delle passioni del principe, amante della natura e pioniere dell'organic, che qui ha dato vita alla sua prima linea di prodotti interamente biologici (Duchy Originals, ndr) e che oggi viene venduta nei migliori supermercati e negozi della Gran Bretagna.

Maria Corbi per "La Stampa" il 28 agosto 2020. I matrimoni sono complicati già quando è l'amore a portare al «sì», figuriamoci cosa accade quando la marcia verso l'altare è voluta dalla ragion di Stato. Anzi, cosa succede lo sappiamo bene visto che la storia di Carlo d'Inghilterra, futuro re della Gran Bretagna, e di Diana, rampolla di una delle più nobili famiglie inglesi, è stato il primo reality a cui abbiamo assistito. Dalla favola, il 29 luglio del 1981, il giorno del matrimonio, all'incubo, il 31 agosto 1997, giorno della morte della principessa, sono stati 16 anni in cui il «c'era una volta» non ha mai concesso la speranza di un lieto fine. Ad aspettare la timida Diana nella cattedrale di St Paul c'era uno sposo renitente. Carlo, allora 33enne, aveva dovuto piegarsi al dovere di Stato che imponeva una linea di successione che mettesse al sicuro la corona dei Windsor. Era il momento di dare nuovi eredi alla patria. Possibilmente con una ragazza aristocratica e vergine. E quindi lo scapolo d'oro del gotha internazionale doveva prendere moglie. Il fatto che lui fosse già saldamente innamorato di un'altra, Camilla Parker Bowles, poteva essere ignorato. D'altronde tra i tanti privilegi delle loro altezze reali non è prevista la felicità sentimentale. La candidata perfetta era lei: Diana Spencer, la figlia più giovane del Visconte Althorp e di Frances Ruth Shand Kydd, dama di compagnia della Regina Madre. E così in mondovisione si coronò il sogno della nazione, non certo di Carlo e probabilmente neanche di Diana, la quale iniziò a capire da subito che le favole sono un'altra cosa. Fu la stessa Diana a raccontare, quando già gli ingranaggi del divorzio si erano messi in moto, di avere scoperto il giorno prima delle nozze che Carlo voleva regalare a Camilla un braccialetto con le lettere F e G intrecciate (le iniziali di Fred e Gladys, i loro soprannomi). Diana, sconvolta, si confidò con le sorelle: «Non posso più sposarlo». Ma loro le ricordarono impietosamente che ormai la sua faccia era sulle tovagliette da tè, che era troppo tardi per tirarsi indietro. Il matrimonio le regalò due figli amatissimi, lo status, la fama planetaria ma non la felicità. E 11 anni dopo la misura della sopportazione era colma. Carlo e Camilla erano sempre più uniti, lei sempre più sola, nonostante cercasse il conforto di un sentimento, intrecciando storie alla ricerca del suo lieto fine. Nel 1992, quando la stampa inglese pubblicò le intercettazioni delle telefonate hot tra i due amanti (quelle dove Carlo le dice: «Vorrei essere il tuo tampax») la coppia reale decise di separarsi come anche Camilla e Andrew Parker Bowles. Iniziò un periodo difficile non solo per i diretti interessati ma soprattutto per la Corona. Diana la ribelle che insegna agli inglesi come mostrare le emozioni, che li fa entrare nei segreti Palazzi reali, che svela l'ipocrisia del suo mondo, che aiuta chi ha più bisogno, è sempre più amata, mentre Carlo non riesce a entrare nel cuore della gente. Diana, diranno poi i soliti amici e i soliti servitori dopo la sua morte, non voleva divorziare, per paura di perdere i figli, prima di tutto, ma anche il suo status di altezza reale. La regina avrebbe fatto un'eccezione e le avrebbe permesso di mantenerlo, ma Carlo si era impuntato.  Il 20 novembre 1995, poi, quando Lady D decise di raccontare tutto al giornalista Martin Bashir in tv la situazione precipitò. La principessa del Galles svelò a 22,8 milioni di telespettatori quello che ormai tutti sapevano, ma l'effetto fu quello di una bomba: «Eravamo in tre in questo matrimonio, un po' troppo affollato». La regina non poteva più rimanere a guardare. Prese carta e penna e scrisse alla nuora: «Mi sono consultata con l'arcivescovo di Canterbury, con il primo ministro e, naturalmente, con Charles. Abbiamo deciso che il percorso migliore per te sia il divorzio». Diana così dovette accettare un divorzio che non voleva, la somma forfettaria 17 milioni di sterline e un mantenimento annuale di 400.000 sterline. La perdita del titolo fu un'umiliazione: avrebbe dovuto inchinarsi al marito e ai figli. Fu William, allora quattordicenne, a consolarla: «Non preoccuparti, mamma, te lo restituirò un giorno quando sarò Re». Nell'estate 1996, il 28 agosto, il divorzio era formalizzato. Due anni dopo Diana morì. Camilla un giorno regnerà accanto a Carlo, ma sarà lei a continuare a regnare nel cuore del popolo.

Kate è la nuova "vittima" di Buckingham Palace: "È stanca..." Troppi impegni per Kate Middleton e ora la duchessa accusa di essere stanca e stressata, ma a quanto pare, la mogie di William è diventata la nuova "vittima sacrificale" di palazzo. Carlo Lanna, Giovedì 27/08/2020 su Il Giornale. A Londra c’è aria di rinnovamento. La famiglia reale inglese, dopo le turbolenze scatenate dalla Megxit, sta cercando di far brillare (ancora una volta) il buon nome dei Windsor. E secondo le indiscrezioni che sono state lanciate su Express, la Regina e il suo entourage stanno cercando una figura forte per ristabilire l’ordine e far trasparire una nuova immagine della royal family. E la scelta è caduta proprio su Kate Middleton. La duchessa di Cambridge, moglie del Principe William e futura Regina d’Inghilterra, pare che sia l’unico membro della famiglia adatta per ricoprire un ruolo così importante. Kate ha classe, è bella, intelligente e soprattutto è una duchessa che sa come dialogare con il popolo. La Middleton potrebbe essere l’ago della bilancia, la donna che potrebbe far svanire tutte le ombre che si sono abbattute sulla Regina e, soprattutto, far dimenticare al popolo inglese la Megxit e gli scandali del principe Andrea. Non è un’impresa facile. Per Kate Middleton questo significa avere più impegni e meno tempo da dedicare alla sua famiglia numerosa. Da febbraio ad oggi abbiamo visto, infatti, una duchessa molto attiva durante la quarantena. Ha cercato di mantenere tutti o quasi gli impegni prefissati, ingigantendo la sua presenza con video chiamate e incontri virtuali, riuscendo persino a pensare alla salute del marito e dei figli. La stampa inglese però afferma che la Middleton non è più "in fiore" come lo era fino a qualche mese fa. Katie Nicholl, la giornalista e esperta di corte che ha curato l’ultimo ritratto della duchessa, afferma che Kate ora è stanca, afflitta e stressata. "Non ride più. Appare come una donna sull’orlo di una crisi", si legge tra le pagine del tabloid inglese. Questo perché, dopo mesi di lavoro, la Middleton non riesce più a mantenere il ritmo, e pare che abbia espresso più volte il desiderio di prendersi un attimo di respiro da tutti gli impegni. Pare che sia impossibile accontentare i voleri della Duchessa. Nonostante gli impegni formali sono diminuiti a causa del virus, sono le responsabilità ad essere aumentate a dismisura. Dopo la fuga di Meghan a Los Angeles e quanto è successo con il Principe Andrea, la Regina ha ben pensato di distribuire il lavoro in maniera diversa, dando a Kate la responsabilità di trasmettere una nuova immagine della corona dopo gli scandali. La Nicholl però ora parta di "vittima sacrificale" di Buckingham Palace. La giornalista è sicura che la duchessa è stata costretta a compiere questi sacrifici per un bene comune. Chissà, quando l’emergenza sanitaria sarà finita cosa ne sarà di Kate.

"L'erba è un'opportunità d'oro": la proposta choc di un miliardario a Harry e Meghan. La proposta choc di coltivare cannabis terapeutica è stata fatta ai Sussex dall'imprenditore greco David, che tra i suoi soci annovera anche Mike Tyson e altre celebrità. Novella Toloni, Lunedì 24/08/2020 su Il Giornale. Una proposta che cade a fagiolo, si potrebbe dire. Proprio mentre il principe Harry e Meghan Markle sono alla ricerca di un impiego per mantenersi economicamente lontano dai favori della famiglia reale, ecco arrivare la proposta choc. Coltivare cannabis nella loro nuova villa di Santa Barbara. Come riporta Express.uk il magnate descrive la sua offerta come "un'opportunità d'oro" che potrebbe fruttare quasi 3 milioni di sterline all'anno ai Sussex. A lanciare l'idea è stato il miliardario di origini greche Alki David il cui patrimonio (stimato circa 2,35 miliardi di sterline) proviene principalmente dalla coltivazione legale della cannabis. La proposta ufficiale è già stata presentata e l'imprenditore ellenico ha invitato i Sussex nella sua casa a Malibu: "Nel materiale che ho trasmesso ai duchi ho chiarito che gli entusiasmanti progressi genetici si stanno sviluppando rapidamente e voglio che ne facciano parte". All'orecchio del magnate ellenico sarebbe arrivata la notizia della necessità di Harry e Meghan di trovare un lavoro al più presto per pagare il salatissimo mutuo acceso per acquistare la lussuosa villa di Montecito, dove vivono insiema al piccolo Archie e alla madre di Meghan da pochi mesi. Per il miliardario Alki David la nuova residenza di Harry e Meghan sarebbe perfetta e idonea per la coltivazione della cannabis in una variante appositamente studiata per i reali. Il terreno e l'esposizione della tenuta nella quale i Sussex si sono trasferiti da inizio giugno, infatti, sarebbero ottimali e parte dei guadagni sarebbe riservata proprio a Harry e Meghan. Il business c'è ed è in forte ascesa in California. Il trentacinque per cento delle licenze di coltivazione della canapa nello Stato, infatti, sono state rilasciate ai coltivatori di Santa Barbara. Anche Mike Tyson e Scott Disick di Keeping Up With The Kardashians sarebbero soci in affari di David e a loro potrebbero presto aggiungersi anche i Sussex. La compagnia di David ha già realizzato in laboratorio un seme di canapa esclusivo e chiamato "Prince Harry", studiato per essere utilizzato come antidolorifico. L'imprenditore greco avrebbe offerto 3,1 milioni di dollari per entrare nell'industria molto redditizia della coltivazione della canapa. David avrebbe fatto leva sui risvolti medici che questo tipo di cannabis offre (largamente impiegata a uso terapeutico), puntando sulla sensibilità del principe e della sua consorte. "Hanno una natura naturalmente premurosa quindi penso che il potenziale medico potrebbe essere un'area che vorranno esplorare", ha dichiarato a Express.uk. Del resto non sarebbe una novità in casa Markle. Il nipote della duchessa - Tyler Dolley - è diventato famoso (e milionario) grazie alla coltivazione di marijuana in Oregon (dove è legale). Alcuni anni fa il giovane ha creato addirittura una speciale varietà di questa sostanza in onore della cugina, chiamandola "Markle Sparkle" e creando non poco imbarazzo a corte, quando ancora la Megxit non si era consumata.

Grane burocratiche per il principe Harry. Ora diventa difficile restare con Meghan. Dopo mesi di lontananza il duca di Sussex potrebbe far presto rientro in patria per risolvere alcuni problemi burocratici legati al suo visto americano. Novella Toloni, Giovedì 20/08/2020 su Il Giornale. Guai in vista per il principe Harry. Il nipote della regina Elisabetta potrebbe esser costretto a rientrare forzatamente nel Regno Unito per colpa di problemi burocratici. Lo status di reale non avrebbe risparmiato il duca di Sussex da una scocciante grana legata al suo visto d'ingresso negli Stati Uniti.

Harry e Meghan cercano lavoro per pagare il mutuo della loro villa. Come ogni normale cittadino il principe Harry ha avuto bisogno di un visto turistico per fare il suo ingresso negli Stati Uniti. Ma oggi quel "lascia passare" non gli garantirebbe più la possibilità di soggiornare a Montecito, Santa Barbara, dove si è trasferito insieme a Meghan e Archie da pochi mesi. A far trapelare l'indiscrezione è stata la scrittrice ed esperta reale Angela Levin che, intervistata da Express.uk, ha parlato della possibilità che la coppia reale torni nel Regno Unito nell'immediato futuro: "Penso che il principe Harry potrebbe tornare. Harry ne avrà bisogno a causa del suo visto, non può restare lì a tempo indeterminato. C'è la questione della cittadinanza e poi ci sono molte implicazioni fiscali". È improbabile, in realtà, che Meghan torni in Gran Bretagna a causa del periodo "orribile" trascorso al cospetto della famiglia reale. Ma per il principe Harry le cose potrebbero andare diversamente. Più che per questioni legali molti si aspetterebbero che il nipote della regina ritornasse in patria per ricucire i rapporti con la sua famiglia e in particolare con il fratello il principe William. "Tutti si augurano che Harry ritorni non per il visto ma per i suoi nonni, suo padre e persino William anche se al momento sono in rottura. Sono la sua famiglia e non credo che Meghan verrà con lui e sono certo che non porteranno Archie", ha affermato Angela Levin.

Dal fatale incontro al divorzio reale: la parabola d'amore tra il principe Harry e Meghan Markle. Oggi però a turbare la vita americana dei Sussex sembrano essere più le questioni burocratiche. Sebbene sia Meghan Markle che Archie siano cittadini statunitensi riconosciuti, Harry è nato e cresciuto nel Regno Unito, il che complica i piani dei Sussex di metter radici durature negli States. Fonti vicine a Palazzo confermano che: "Harry al momento non ha presentato nessuna domanda di doppia cittadinanza e non ha richiesto la carta verde". L'opzione per il figlio del principe Carlo sarebbe la richiesta di un visto "speciale" di tipo diplomatico, che gli consentirebbe di vivere tranquillamente in California. Il principe Harry potrebbe richiedere un visto O-1 riservato a "individui con capacità o risultati straordinari" per questo starebbe accelerando le pratiche per dar vita alla sua nuova organizzazione benefica.

"Ci stanno davvero rovinando...". Esplode la furia di William su Harry. Continua a far discutere la biografia non autorizzata sui "Sussex". Ed emergono nuoi retroscena sulla Royal Family. Novella Toloni, Martedì 18/08/2020 su Il Giornale. La biografia non autorizzata sui Sussex "Finding freedom" - uscita nei giorni scorsi in Gran Bretagna e Stati Uniti - continua a fornire rivelazioni scioccanti sull'addio di Harry e Meghan alla famiglia reale. L'annuncio di voler fare un passo indietro dai doveri monarchici scosse l'opinione pubblica inglese ma fece soprattutto tremare le basi della famiglia reale. A essere maggiormente sconvolti e turbati dall'addio furono la regina Elisabetta e il principe William che, secondo quanto rivelato dagli autori del libro, si infuriò con il fratello minore per "aver danneggiato la reputazione della famiglia reale". A svelarlo è uno degli autori della biografia, Omid Scobie, che durante un'intervista rilasciata in occasione dell'uscita di "Finding freedom" ha raccontato della frattura che l'uscita di scena dei Sussex provocò nel rapporto tra i due fratelli. Il principe William e il principe Harry non si sarebbero mai parlati dopo l'annuncio di addio fatto dai duchi a inizio gennaio: "I fratelli non si sono più parlati fino al vertice di Sandringham. Non si erano visti, troppe divergenze. Ci vorrà davvero del tempo per guarire questa frattura". A ferire maggiormente il principe William sarebbe stata la mancanza di confronto con Harry prima di rendere pubblico il suo desiderio di fare un passo indietro dagli impegni della Corona. Il primogenito di Carlo d'Inghilterra sarebbe stato furioso della leggerezza con cui Harry avrebbe messo in piazza gli affari di famiglia: "Le dichiarazioni dei Sussex non furono discusse internamente. Per questo William si è sentito ferito e tradito dal fratello, perché indossa due "cappelli". Non è solo il fratello ma è anche il futuro re e ha ritenuto che ciò abbia danneggiato la reputazione della famiglia. Harry ha reso gli affari di famiglia di dominio pubblico quando avrebbero dovuto essere discussi in privato e le ripercussioni e i danni di quel gesto continuano tutt'ora". L'addio di Harry e Meghan al Regno Unito ha amplificato, se possibile, ancora di più il distacco emotivo tra il principe William e suo fratello minore. A complicare la situazione c'è anche il difficile rapporto tra Kate Middleton e Meghan Markle. Nella biografia la duchessa di Cambridge è descritta come "snob" e "fredda" nei confronti della duchessa di Sussex e questo non avrebbe favorito il riavvicinamento tra i due principi. L'arrivo di Meghan nella vita di Harry e nella famiglia reale ha infatti sconvolto l'idillio che fino ad allora regnava tra fratelli e cognata. Il rapporto speciale tra Harry e Kate si sarebbe interrotto proprio con l'arrivo della Markle a Palazzo. Kate avrebbe messo in guardia il piccolo di casa Windsor dalle "mire" della bella attrice e questo avrebbe provocato l'allontanamento di Harry dal fratello e dalla cognata, dai quali non si sentiva più appoggiato. Inevitabile il raffreddamento dei rapporti tra le due coppie con Harry sempre più deciso a prendere le distanze dalla famiglia reale.

L'indiscrezione: "Il principe Harry non ha litigato con la regina". Una fonte vicina ad Harry nega che tra lui e la regina ci sia stata una telefonata piccata prima delle nozze con Meghan. Biagio Carapezza, Martedì 18/08/2020 su Il Giornale.  A qualche giorno dalla pubblicazione di "Finding freedom", la biografia non autorizzata sui duchi di Sussex Harry e Meghan iniziano a fioccare le prime smentite in merito ad alcuni episodi contenuti nel testo in questione. La biografia scritta da Omid Scobie e Carolyn Durrand, da tempo annunciata, attesa e temuta, intende far piena luce sulla cosiddetta Megxit, cioè l'addio di Harry e Meghan alla famiglia reale britannica e il trasferimento negli Stati Uniti. La prima secca smentita riguarda la supposta conversazione telefonica molto accesa intercorsa tra Harry e la regina Elisabetta II. Causa della presunta discussione sarebbe stato il diniego, della guardarobiera della regina, a lasciare provare la tiara nuziale senza un precedente appuntamento. Quello della tiara indossata dalla Markle in occasione del matrimonio, è uno dei punti più dibattuti della vicenda. Addirittura la stampa britannica ha coniato il termine "tiaragate" per renderne la gravità. Stando ai due autori del volume, Harry e Meghan avrebbero avuto una discussione poco cortese con Angela Kelly, guardarobiera della regina, al momento della prova della tiara sull'acconciatura. I futuri sposi, sempre a quanto riportato nella biografia, si sarebbero presentati a Buckingham Palace senza alcun preavviso, creando così non pochi imbarazzi. Pare che un infuriato Harry abbia pronunciato questa frase: "Non so cosa diavolo stia succedendo ma questa donna deve fare questo lavoro per la mia futura moglie". A ciò sarebbe seguita la telefonata con la regina virata su toni accesi. Tutto falso riporta una fonte vicina al principe Harry: "La regina è probabilmente la persona che Harry rispetta e apprezza di più al mondo. Che ci sia stata una discussione telefonica è falso e ridicolo". In base alla ricostruzione riportata nel libro, la Kelly si sarebbe trovata a Windsor e sarebbe stata impossibilitata a raggiungere Harry e Meghan a Londra senza il necessario preavviso per la prova del gioiello, facendo così innervosire Harry. I due avrebbero piuttosto dovuto prendere un appuntamento, seguire il protocollo e i parametri di sicurezza come impone la prassi quando si tratta dei gioielli della corona. La tiara indossata da Meghan è stata la Queen Mary's Diamond Bandeau. I tabloid, invece, hanno sostenuto che la sua prima scelta fosse caduta sulla Greville Emerald Kokoshnik Tiara, indossata invece da Eugenie di York per il suo matrimonio, nell'ottobre dello stesso anno. La duchessa di Sussex ha sempre smentito questa ricostruzione e rivendicato la sua scelta.

La rivelazione shock del poliziotto: "Le ultime parole di Lady Diana". A pochi giorni dal 23esimo anniversario dalla scomparsa di Lady D il poliziotto, che fu tra i primi a soccorrerla dopo il drammatico schianto nel tunnel Pont de l'Alma a Parigi, ricorda le ultime parole della principessa prima di morire. Novella Toloni, Mercoledì 02/09/2020 su Il Giornale. Il 31 agosto 1997 perdeva la vita in un tragico incidente automobilistico Lady Diana. Un lutto che travolse la famiglia reale, in particolare i figli William e Harry, ma soprattutto i sudditi inglesi che nella principessa del Popolo vedevano un simbolo. A ventitré anni dalla drammatica scomparsa, oggi, emergono ulteriori dettagli sui suoi ultimi istanti di vita. A raccontare cosa successe negli attimi successivi al violento incidente - che coinvolse l'auto dove Diana Spencer si trovava con il fidanzato Dodi Al-Fayed - è stato uno dei primi soccorritori, il poliziotto Régis Farcy. Nell'intervista rilasciata al quotidiano francese Sud-Ouest in occasione del 23esimo anniversario dalla scomparsa di Lady Diana, il gendarme ha raccontato cosa vide sulla scena del tragico impatto: una vettura completamente sventrata accartocciata contro uno dei pilastro del tunnel Pont de l'Alma a Parigi. "La scena era apocalittica - ha ricordato con lucidità il soccorritore - le luci al neon della strada sotterranea davano un colore pallido. Ho visto un grosso motore fracassato sul davanti. Due corpi giacevano a terra senza vita quelli di Dodi Al-Fayed e Henri Paul, l'autista. Poi ho visto la testa di un passeggero anteriore destro privo di sensi, con un occhio che sporgeva dall'orbita era la guardia del corpo (Trevor Rees Jones, ndr). Dietro una squadra che stava fornendo assistenza a una giovane donna sul sedile posteriore del veicolo danneggiato".

Le ultime ore di vita di Lady Diana. Quella giovane donna, priva di sensi ma ancora in vita, era Lady Diana. Il poliziotto, che oggi è in pensione, ha ricordato con estrema lucidità di non aver riconosciuto immediatamente la principessa, ma di essersi avvicinato a lei mentre un pompiere le stava dando ossigeno per farle riprendere conoscenza. "Aveva gli occhi aperti ed era cosciente - ha svelato Régis Farcy - questo pompiere le teneva la mano per confortarla poi lei disse: "Oh mio Dio, cosa è successo?" prima di essere colpita da un arresto cardiaco". Solo poche ore dopo, alle 4 del mattino, dopo una corsa in ambulanza e l'intervento per cercare di arginare l'emorragia interna il cuore di Lady Diana smise di battere. Che Lady D fosse ancora viva dopo il terribile impatto lo confermò anche la sua guardia del corpo Trevor Rees Jones, unico sopravvissuto all'incidente. Nonostante la perdita di memoria e l'impossibilità di svelare i reali motivi dell'incidente, nel 1998 la bodyguard raccontò al The Sun di aver udito una voce femminile chiedere aiuto e di aver sentito la principessa chiamare "Dodi".

Ora il gioielliere rompe il silenzio: "Lady Diana e Dodi volevano annunciare il fidanzamento". A pochi giorni dall’anniversario della morte di Lady Diana, il gioielliere Alberto Repossi racconta la sua versione su uno dei misteri che ancora avvolgono la fine della principessa del Galles. Francesca Rossi, Martedì 18/08/2020 su Il Giornale. A quasi 23 anni dalla scomparsa di Lady Diana sono ancora tanti gli enigmi da risolvere. Misteri legati ai suoi ultimi giorni, alle presunte scelte fatte dalla principessa del Galles, alle sue parole, alle sue intenzioni. Ce n’è uno in particolare che ancora non ha trovato una soluzione: dove è andato a finire l’anello di fidanzamento che, stando alle indiscrezioni, Dodi al-Fayed avrebbe regalato a Lady Diana? Questo gioiello esiste davvero? Stando alla ricostruzione dei fatti del gioielliere Alberto Repossi l’anello ci sarebbe, eccome. La principessa lo avrebbe scelto e il miliardario egiziano suo (presunto) ultimo fidanzato sarebbe persino andato a ritirarlo nel negozio Repossi di Parigi. Con il suo racconto, raccolto dal Corriere della Sera, Alberto Repossi riapre una questione che sembrava chiusa, almeno ufficialmente. La presenza (o l’assenza) dell’anello, infatti, è fondamentale per cercare di capire quale impronta Lady Diana intendesse dare alla sua vita, a quale futuro avesse pensato. Dodi era solo un ripiego per cercare di dimenticare il (di nuovo presunto) vero amore Hasnat Khan, oppure la principessa era davvero innamorata dell’uomo d’affari egiziano? Insomma l’anello simboleggiava un impegno, oppure faceva parte di una precisa strategia per far ingelosire Hasnat? Prima di tentare di dare una risposta a queste domande, è necessario fare un passo indietro attraverso le rivelazioni di Alberto Repossi, il quale ha raccontato: “Sono passati 23 anni, ma non riesco a dimenticare quell’incontro con Diana e Dodi a Saint Tropez, di mattina presto, per l’anello di Dodi al-Fayed” e ha proseguito: “Diana e Dodi, in crociera nel Mediterraneo, attraccarono a Monaco e la principessa arrivò alla vetrina della nostra boutique accanto all’Hotel Hermitage. Senza entrare indicò un anello che l’aveva catturata, della collezione Dis-moi oui. Poi mi chiamarono per fissare un incontro a Saint Tropez dove erano diretti, per definire la scelta e la misura dell’anello”. Repossi si recò all’appuntamento il 22 agosto 1997 e la conversazione che intrattenne con Lady Diana e Dodi durò appena 15-20 minuti. Il gioielliere mostrò alla principessa diversi tipi di montature, ma Diana aveva già deciso di non modificare nulla dell’anello che aveva visto in vetrina. Il gioiello, però, era troppo largo per le sue dita, così Repossi aprì il suo laboratorio in pieno agosto pur di portare a termine il lavoro. Un impegno che aveva una scadenza ben precisa, come ha confessato il gioielliere: “Mi chiesero di poter ritirare l’anello messo a misura dell’anulare della principessa per il 30 agosto, perché l’1 settembre dissero ci sarebbe stato un annuncio importante, un fidanzamento. L’anello andava ristretto e non era un modello facile”. Se questa teoria venisse dimostrata, stravolgerebbe tutto ciò che crediamo di sapere sulle ultime ore di Lady Diana. Secondo la versione di Repossi Lady Diana e Dodi al-Fayed viaggiarono dalla Sardegna a Parigi pur di ritirare in tempo l’anello. Dunque il gioielliere non ha dubbi: la principessa e il miliardario volevano ufficializzare la loro unione. Ne è talmente certo da aggiungere: “Lei era bella, serena, anche se non raggiante. Il più emozionato era Dodi…Per stemperare la tensione, quando Dodi è venuto poi a ritirare l’anello nella boutique di Place Vendôme ricordo che provammo persino a scherzare sul nome della collezione, quel Dis-moi Oui. E presi l’impegno del riserbo…”. Queste frasi smentirebbero la versione secondo la quale Dodi non sarebbe andato a ritirare l’anello. Repossi ha spiegato: “A settembre ricevetti una telefonata dal tabloid britannico Sun, che aveva saputo dalla compagnia assicurativa dei Lloyds di Londra dell’anello”. Il gioielliere, per rispettare l’impegno sulla riservatezza preso in precedenza, dichiarò di non sapere nulla di questo anello e la faccenda si arenò nell’incertezza fino a una nuova rivelazione. A questo proposito Repossi ha detto: “Anni dopo il bodyguard sopravvissuto allo schianto, Trevor Rees-Jones, rimasto senza memoria, in un suo libro ricordava che Dodi non aveva mai ritirato alcun anello. Impossibile, l’avevo consegnato io stesso. Chiamai il vecchio al-Fayed, gli dissi che era tempo di parlare e mettere al sicuro le prove. La visita del figlio Dodi in boutique era stata registrata dalle telecamere e mettemmo la registrazione in cassaforte…”. Repossi ha le idee molto chiare anche sul motivo per cui il presunto anello di fidanzamento avrebbe conquistato per anni la scena mediatica: “Iniziava il lavoro dell’establishment per preparare la futura unione di Carlo e come idea mia, personale, credo che per una questione mediatica si preferisse far passare quell’ultima estate di Diana come la stagione leggera di una principessa, non come l’anticamera di un fidanzamento, un vero amore…”. Teoria interessante, quella del gioielliere, che venne anche interrogato da Scotland Yard. Vennero analizzati persino il lavoro e i documenti della sua fabbrica, attraverso i quali sarebbe stata dimostrata l’esistenza dell’anello e la successiva modifica. Rimane, però, un quesito. Che fine ha fatto il Dis-moi Oui? Il gioielliere ha potuto solo rispondere: “Non si sa. La Police francese mi disse che gli oggetti personali di Lady D furono dati alla sorella. Non so se c’era l’anello…”. L’anello simbolo delle reali intenzioni della principessa è diventato un fantasma, la cui esistenza potrebbe persino risultare scomoda. Cosa avrà pensato Lady Diana mentre lo sceglieva? O meglio, a chi? A Dodi oppure ad Hasnat? Forse non lo sapremo mai.

Il gioielliere Repossi: «Io, Dodi Al Fayed e l’anello segreto per Diana. Volevano annunciare la loro unione». Enrica Roddolo il 18/8/2020 su Il Corriere della Sera.  «Sono passati 23 anni ma non riesco a dimenticare quell’incontro con Diana a St Tropez, di mattina presto, per l’anello di Dodi Al Fayed». Alberto Repossi, il gioielliere al centro delle cronache (e poi dei processi) dell’ultima estate della principessa dei cuori prima dello schianto fatale a Parigi, si confida con il Corriere. E riannoda le emozioni di quell’agosto lontano che ha cambiato per sempre i Windsor, lasciando un segno nella memoria collettiva. «Diana e Dodi erano in crociera sul loro yacht lungo il Mediterraneo, attraccarono a Monaco e la principessa arrivò davanti alla vetrina della nostra boutique accanto all’Hotel Hermitage. Senza neppure entrare indicò un anello che l’aveva catturata, un anello della collezione Dis-moi oui, Dimmi di sì – racconta il gioielliere -. Poi mi chiamarono per fissare un appuntamento a St Tropez dove erano diretti, per definire la scelta e la misura dell’anello. Così mi presentai qualche giorno dopo nel piccolo hotel di St Tropez che ricordo aveva le camere affacciate sulla piscina centrale, e con sorpresa mi ritrovai davanti Dodi e Diana. Erano soli, senza il solito seguito di bodyguard… in un albergo semi deserto ancora, data l’ora, la conversazione durò 15-20 minuti, non avevamo molto tempo».

Di che cosa parlò con Diana?

«Ero arrivato all’appuntamento con altri esempi di montature preziose che ritenevo anche più importanti per la donna al tempo al centro delle dinamiche mediatiche globali, ma lei mi fermò subito. Disse “va bene questo”, confermando la scelta fatta a Monaco del gioiello visto in vetrina, e non insistetti oltre. Dodi e Diana mi chiesero di poter ritirare l’anello messo a misura dell’anulare della principessa, per il 30 agosto, perché l’1 settembre dissero ci sarebbe stato un annuncio importante, un fidanzamento. L’anello andava ristretto e non era un modello facile da adattare, avrei dovuto rimandarlo in fabbrica che ad agosto era chiusa. Ma ovviamente, davanti alla donna del momento, tutto era possibile, riaprimmo il laboratorio in pieno agosto per l’anello che consegnammo il 30 agosto a Parigi, come promesso. Vennero apposta dalla Sardegna a Parigi per ritirarlo, e anche per trascorrere qualche giorno nella casa che era stata dei duchi di Windsor e che intuii fosse loro intenzione fare un po’ un buen retiro fuori Londra».

Cosa la colpì di Diana?

«Lei era bella, sembrava serena anche se non raggiante… il più emozionato era lui Dodi, più emozionato persino di me che mi trovavo davanti alla donna più inseguita, ammirata al mondo. Per stemperare le emozioni e le tensioni quando Dodi verrà poi a ritirare l’anello nella boutique di Place Vendome ricordo provammo persino a scherzare sul nome della collezione quel Dimmi di sì. Presi l’impegno del riserbo e non parlai dell’anello con nessuno finché…».

Finché?

«A settembre ricevetti una telefonata dal tabloid britannico Sun che aveva saputo dalla compagnia assicurativa dei Lloyds di Londra dell’anello. Il giornalista mi chiese dell’anello consegnato alla principessa, dissi: “Non ne so nulla”, questo era l’impegno di riservatezza che avevo preso con gli Al Fayed. Pubblicarono una foto della collezione Dis-moi oui con la notizia del regalo di fidanzamento… ma non riuscirono ad avere informazioni precise su quale degli anelli della collezione, che nel frattempo avevamo preso l’impegno di annullare, era stato effettivamente scelto dalla principessa. In questo modo la mia promessa di riservatezza era rimasta in un certo senso salvaguardata. E non mi preoccupai oltre. Fu però anni dopo, alla pubblicazione del libro della guardia del corpo sopravvissuta allo schianto, Trevor Rees-Jones, senza ricordare nulla, che capii che era tempo di venire allo scoperto».

Perché?

«Perché nel libro il bodyguard rimasto senza memoria dopo lo schianto, ricordava invece che Dodi non aveva mai ritirato alcun anello. Impossibile, l’avevo consegnato io stesso a Dodi. Chiamai allora il vecchio Al Fayed, gli dissi che era tempo di parlare e anzi di mettere al sicuro le prove dell’effettivo ritiro dell’anello il 30 agosto, poche ore prima dello schianto nella notte. La visita del figlio nella boutique era stata infatti registrata dalle telecamere, mettemmo subito in sicurezza quella registrazione in cassaforte. Sarà l’inizio di una lunga stagione di interrogatori».

Perché quell’anello era al centro di tanta attenzione?

«Iniziava il lavoro dell’establishment per preparare la futura unione di Carlo, e come idea mia, personale, credo per una questione mediatica si preferisse far passare quell’ultima estate di Diana come l’estate leggera di una principessa, non come la stagione che precede un fidanzamento, un nuovo vero amore. Accettai di andare a Londra a testimoniare, fui convocato una prima volta poi una seconda con mia moglie Gio’ e ci separarono.Ricordo ore e ore sotto il torchio di Scotland Yard che passò in rassegna il lavoro della nostra fabbrica, i nostri dipendenti, i documenti doganali… e tutto confermava l’effettiva lavorazione e consegna dell’anello. Nell’ultimo interrogatorio, il terzo, solo con il numero uno di Scotland Yard e il traduttore, io rispondevo in francese, capii che avrei fatto meglio a cambiare versione. Se volevo uscire da quel groviglio di pressioni. Ma non era mia intenzione. Chiamai i miei avvocati a Monaco, spedimmo una lettera raccomandata a Lord Stevens incaricato del caso Diana (che poi si dimise per ragioni di salute), e per risposta da Londra arrivò una precisazione: nessuno aveva mai provato a suggerire di cambiare versione, doveva esser stato un problema di misunderstanding, di traduzione… resta il fatto che persino la Première Dame francese, Bernadette Chirac, che conoscevo bene una sera in quella stagione parlandomi mi suggerì “ma suvvia, non bisogna dire tutte queste cose” alludendo all’anello di fidanzamento».

Che ne è stato dell’anello?

«Non si sa. LaPolice francese mi disse che gli oggetti personali di Lady D furono dati alla sorella. Non so se c’era l’anello...».

Ha vissuto il caso Diana in prima persona, che idea se ne è fatto?

«Il mio interrogatorio dopo l’incidente, il fatto che Diana fu imbalsamata senza autopsia e molto altro mi hanno lasciato perplesso. Certo, trovo incredibile che della principessa entrata nel cuore della gente più di vent’anni dopo non ci sia in tutta Londra una sola statua a ricordarla. Cinque o sei anni fa poi Al Fayed un giorno mi invitò a colazione al Ritz e a un certo punto mi passò un foglio: era la risposta che il magistrato londinese aveva ricevuto dai francesi a proposito della richiesta di Londra di mandare Oltremanica il dottore che aveva imbalsamato Diana e i paparazzi, a testimoniare. Lo impediscono ragioni di interesse nazionale, mi disse adirato Al Fayed che aggiunse: “Basta, adesso attacco anche i francesi”. Gli suggerii di mettersi il cuore in pace, ormai. L’ho visto spesso negli anni, sempre più anziano, sempre più addolorato, amareggiato verso quelli che chiamava “colonialisti”».

Ha avuto contatti con i Windsor, dopo l’incidente?

«Ho incontrato il principe Carlo, assieme a Donatella Versace per un evento con De Beers. È stato uno scambio molto cordiale. E sono rimasto in contatto negli anni con la fondazione della principessa anche per bloccare il proliferare di copie “pirata” dell’anello della principessa di cuori che... quando l’incontrai quell’ultima volta a Saint Tropez aveva anche intenzione di affidarmi una serie di vecchi bijoux da rinnovare: bracciali, collane che la principessa voleva rimontare in modo più attuale e per le quali avevamo già preso appuntamento per rivederci a settembre. Ma il destino ha deciso diversamente».

Harry e Meghan. Meghan le ricorda qualcosa di Diana?

«Mah... di certo Harry deve essersi trovato solo dopo la morte della madre, Diana, che non era solo bella, era intelligente, educata. Un modo di fare regale che ho ritrovato negli anni in altre clienti della maison Repossi. Da Grace a Charlène di Monaco, passando per Carolina: Charlotte Casiraghi e mia figlia Gaia che oggi ha la direzione artistica della maison (con circa il 35% delle azioni, il resto è passato a LVMH nel 2019) andavano a scuola assieme. Poi la sceicca Mozah del Qatar e molte altre».

A proposito di reali, cosa pensa del caso Juan Carlos di Spagna e della fuga in esilio?

«Penso che oggi non c’è più segreto per nessuno, e specie chi porta una corona finisce per essere vittima più che un privilegiato. La vita è scandagliata ogni istante, e un principe o re ha il dovere morale di essere un esempio. Umanamente poi mi dispiace per Juan Carlos che deve aver pensato di poter essere perdonato in virtù dei meriti della sua saggia gestione del Paese dopo il Franchismo. Circostanze diverse ma mi viene in mente Churchill vittorioso nella seconda guerra mondiale, che poi però perse le elezioni del dopoguerra».

Anelli di fidanzamento reali: miti, segreti e leggende dei gioielli più ammirati della storia, da Elisabetta II a Meghan Markle. I diamanti sono i migliori amici delle donne, cantava Marilyn Monroe, ma a giudicare dagli anelli di fidanzamento delle coppie reali, l'affermazione è come minimo riduttiva. Tra zaffiri blu e rubini, montature classiche e creazioni molto più ardite, ogni gioiello racconta una storia a sé. Da quello di Lady Diana "riciclato" da Kate a quello di Grace Kelly, passando per Sofia di Spagna per arrivare fino all'ultima generazione di reali, con Meghan Markle e Beatrice di York,. Serena Tibaldi il 17 Agosto 2020 su La Repubblica. Com'è l'anello? È questa la domanda ricorrente ogni volta che viene annunciata una nuova unione reale. Non si scappa: sarà pure bello sentire i futuri sposi raccontare del loro primo incontro, di come sia avvenuta la proposta e dei piani che hanno per il matrimonio, ma quello che il pubblico aspetta davvero è la foto ufficiale con lui, l'anello di fidanzamento, in bella vista. Non è solo una questione di carati o di rarità della pietra: per carità, quando si parla di famiglie reali si può star sicuri che il gioiello in questione sarà di valore, ma il fascino che esercitano certi pezzi sull'immaginario comune va oltre le mere dimensioni. Per fare un esempio, non c'è star che con le sue vicende susciti lo stesso trasporto, nonostante i solitari sfoggiati da molti divi in genere siano assai più imponenti. Quello che però questi "sassi" da 15 carati e passa non hanno, è la storia: quando si tratta di un matrimonio reale, ciascun pezzo indossato dalla promessa sposa di turno vanta un passato che magari risale a secoli prima. Ha carattere, e questo sì che è impagabile. Ecco dunque gli anelli di fidanzamento di regine e principesse più famosi, amati e discussi della storia contemporanea: magari non tutte le unioni hanno avuto il lieto fine, però questo non ne ha appannato la fama. 

Elisabetta II. Il diamante centrale da 3 carati che adorna l'anello con cui Filippo d'Edimburgo chiese in sposa la futura regina del Regno Unito arriva dalla Russia. Per essere più precisi, fa parte di una tiara donata dallo zar Nicola II ad Alice, la madre di Filippo, che la indossò per il suo matrimonio. A quanto pare la donna non ha esistato un attimo a far smontare il prezioso gioiello pur di dare al figlio una pietra adatta a una futura sovrana. E aveva ragione: a Elisabetta II il gioiello deve essere piaciuto davvero, visto che lo indossa quasi sempre.

Grace Kelly. Il principe Ranieri di Monaco aveva deciso di fare le cose in grande con l'attrice americana. L'anello che le donò fu infatti commissionato a Cartier, che per l'occasione creò un modello di platino, piuttosto classico, con al centro un diamante di taglio baguette da oltre 10 carati, e che ancora oggi è considerato tra i più cari della storia. Non si stenta a crederlo.

Lady Diana e Kate Middleton. L'anello indossato da Diana prima e da Kate Middleton poi non sarà vecchio di secoli, ma è di sicuro uno dei più celebri (e imitati). Al momento di scegliere quale regalare alla futura consorte, il principe Carlo prese la via più facile: diede a Diana il catalogo di Garrard, gioielliere ufficiale dei Windsor, dicendole di scegliere quello che le piaceva di più. Un gesto non romanticissimo ma pragmatico, e pure efficace: Diana adorava quello zaffiro circondato di diamanti, tanto che continuò a indossarlo anche dopo il divorzio. Un dettaglio commovente: alla sua morte il gioiello passò a Harry, che decise di cederlo al fratello al momento del suo fidanzamento con Kate, facendo sì che la futura sovrana porti avanti il ricordo della madre.

Sofìa di Spagna. Una scatolina lanciata in aria da prendere al volo. È così che Juan Carlos offrì l'anello alla sua futura sposa Sofìa. Un approccio insolito, come era pure insolito il design del gioiello: due rubini rotondi uniti da un diamante taglio baguette centrale. 

Maxìma d'Olanda. Assai più romantico il sovrano dei Paesi Bassi, Guglielmo Alessandro, che ha disegnato personalmente l'anello di fidanzamento donato alla regina Maxìma, sposata nel 2002. Il modello, composto da due fasce di diamanti, al centro ha un diamante fancy yellow, cioè giallo, in onore della dinastia reale, gli Orange.

Camilla di Cornovaglia. Non è chiaro se il principe Carlo, per il suo secondo matrimonio con Camilla Parker Bowles, abbia adottato la stessa tecnica usata con Diana, lasciando che fosse la promessa sposa a scegliersi l'anello. Comunque, non è cambiata la fonte del gioiello (un classico solitario taglio baguette), opera sempre di Garrard.

Sarah Ferguson. Al momento il principe Andrea non gode proprio del favore del pubblico, ma all'epoca (i due si sono sposati nel 1986) il pubblico adorò il fatto che fosse stato lui a comporre personalmente l'anello con cui chiedere la mano di Sarah, insistendo che al centro ci fosse uno splendido rubino birmano, chiaro omaggio alle chiome fulve della fidanzata.

Letizia Ortiz. L'attuale sovrana spagnola non indossa mai il suo anello di fidanzamento, una splendida fascia di diamanti baguette. Non che non le piaccia, ma di fatto non può più mostrarlo in pubblico: il principe Felipe chiese infatti alla sorella Cristina e all'allora cognato Iñaki Urdangarin di andarlo a comprare per lui a Barcellona, alla gioielleria Suarez. Iñaki pagò il gioiello con la carta di credito della sua Fondazione Noòs, rifiutando di farsi rimborsare da Felipe; ovviamente, quando poi lui e Cristina furono accusati di frode fiscale proprio attraverso la Fondazione, divenne chiaro come l'anello fosse ormai "impresentabile". Che sfortuna, Letizia. 

Charlotte Casiraghi. Il suo matrimonio con Dimitri Rassam è stato assai meno spettacolare della media a cui i matrimoni reali ci hanno abituato e, in linea con questa loro discrezione, non esistono nemmeno immagini ufficiali della coppia in posa con l'anello bene in vista. Un peccato, perché il solitario montato su una sottile struttura d'oro giallo, merita. 

Meghan Markle. Quello tra Meghan e Harry è stato di sicuro uno dei matrimoni mediaticamente più seguiti di sempre, e la presentazione ufficiale dell'anello, nei giardini di Kensington Palace adorati da Diana, non ha fatto eccezione. La pietra centrale dell'anello arriva dal Botswana, stato africano molto caro a Harry, mentre i due diamanti laterali arrivano da un gioiello di Lady D. Il pubblico ne ha molto apprezzato il significato simbolico, ecco perché molti sono rimasti perplessi alle apparizioni di Meghan dopo la nascita del figlio Archie, in cui sembrerebbe che il gioiello sia stato modificato. Chissà.

Eugenia di York. In linea con l'uso di molti reali, anche Jack Brooksbank ha disegnato da solo l'anello di fidanzamento regalato alla principessa Eugenia. Chiaramente ispirato a quello della suocera Sarah, al posto del rubino ha però un notevolissimo zaffiro padparadscha, sui toni del rosa e dell'arancio.

Beatrice di York. Come cambiano i tempi. Invece di rivolgersi a Cartier o Garrard, come si usava, Edoardo Mapelli Pozzi ha coinvolto Shaun Leane, designer di gioielli assai più modaiolo (ha lavorato spesso con Alexander McQueen), commissionandogli l'anello da donare a Beatrice, l'ultima reale in ordine di tempo ad andare all'altare. Il risultato è in realtà piuttosto classico: un diamante tondo con ai lati 4 diamanti taglio baguette. 

DAGONOTA il 15 agosto 2020. Perché non può essere la principessa Anna (che oggi compie 70 anni) a succedere a sua madre Elisabetta invece di Carlo? Perché la linea dinastica della corona inglese ha previsto fino al 2013 che fossero i maschi primogeniti in linea retta a ereditare il trono. Elisabetta era figlia di Re Giorgio che ebbe solo due femmine e lei, più grande della fumantina Margaret, divenne regina molto giovane. Ora, rispettando la cosiddetta ''legge semisalica'', l'erede è Carlo, seguito dal primogenito William, e poi suo figlio George. Ma poiché nel 2013 è intervenuto il Succession to the Crown Act, invece di tornare indietro nella linea fino al primo maschio ''utile'' (l'ormai americano principe Harry), in caso di morte o abdicazione del principino George (senza eredi), sarebbe la sorella Charlotte a prendere in mano la monarchia, seguita dal fratello Louis. E solo dopo toccherebbe a Harry, e poi dal figlio Archie. La principessa Anna, al momento, è 15^ nella linea. Dunque il suo ruolo – dopo la morte, l'abdicazione, o, terza opzione, la scelta di un reggente – di Elisabetta II, non potrà che essere di ''consigliera'' e spalla del fratello, di due anni più anziano di lei. Sua maestà regina Elisabetta II del Regno Unito, nata nel 1926, prima figlia di re Giorgio VI e attuale sovrano del Regno Unito.

1. Sua altezza reale Carlo, principe del Galles, nato nel 1948, primo figlio della regina Elisabetta II

2. Sua altezza reale il principe William, duca di Cambridge, nato nel 1982, primo figlio del principe Carlo

3. Sua altezza reale il principe George di Cambridge, nato nel 2013, primo figlio del principe William

4. Sua altezza reale la principessa Charlotte di Cambridge, nata nel 2015, figlia del principe William

5. Sua altezza reale il principe Louis di Cambridge, nato nel 2018, secondo figlio maschio del principe William

6. Sua altezza reale il principe Henry, duca di Sussex, nato nel 1984, secondo figlio del principe Carlo

7. Archie Mountbatten-Windsor, nato nel 2019, figlio del principe Henry

8. Sua altezza reale il principe Andrea, duca di York, nato nel 1960, secondo figlio maschio della regina Elisabetta II

9. Sua altezza reale la principessa Beatrice di York, nata nel 1988, prima figlia del principe Andrea

10. Sua altezza reale la principessa Eugenia di York, nata nel 1990, seconda figlia del principe Andrea

11. Sua altezza reale il principe Edoardo, conte di Wessex, nato nel 1964, terzo figlio maschio della regina Elisabetta II

12. James, visconte Severn, nato nel 2007, figlio del principe Edoardo

13. Lady Louise Windsor, nata nel 2003, figlia del principe Edoardo

14. Sua altezza reale Anna, Principessa Reale, nata nel 1950, figlia della regina Elisabetta II

15. Peter Phillips, nato nel 1977, figlio della principessa Anna

16. Savannah Phillips, nata nel 2010, prima figlia di Peter

17. Isla Phillips, nata nel 2012, seconda figlia di Peter

18. Zara Phillips, nata nel 1981, figlia della principessa Anna

19. Mia Tindall, nata nel 2014, prima figlia di Zara

20. Lena Tindall, nata nel 2018, seconda figlia di Zara 

Da dilei.it il 15 agosto 2020. Unica figlia femmina della Regina Elisabetta e di Filippo, filantropa, icona di stile e amazzone di talento, più volte premiata: queste sono sono solo alcune delle espressioni che possono essere utilizzate per descrivere la Principessa Anna, secondogenita della Sovrana d’Inghilterra. La sorella minore del Principe Carlo compie oggi 70 anni. Nata a Londra – a Clarence House per la precisione – è da sempre una figura estremamente discreta, poco avvezza a interagire con i media. Patrona di oltre 200 organizzazioni benefiche, ha il titolo di Principessa Reale e, come già detto, si è distinta per la sua abilità di fantina. La passione viscerale per l’equitazione – che ha trasmesso anche alla figlia Zara – le ha permesso di vincere due medaglie, la prima nel 1971 e la seconda nel 1975. La Principessa Anna è stata anche il primo membro della Royal Family inglese a partecipare ai Giochi Olimpici (ha gareggiato nel 1976 a Montreal). Con alle spalle dieci anni di militanza in Save the Children, Anna ha detto la sua, con un’affermazione che molti hanno interpretato come una stoccata a Meghan Markle e Harry. Intervistata dalla corrispondente reale Katie Nicholl nel maggio 2020 sulle pagine di Vanity Fair, ha affermato che, a suo dire, le giovani generazioni della Famiglia Reale hanno fretta di cambiare l’approccio collaudato nel campo della filantropia. Nota al mondo per la sua attenzione allo stile – ha ereditato dalla madre la passione per i foulard ed è stata una pioniera tra i membri di The Firm per quanto riguarda il riciclo degli abiti – ha dei buoni rapporti con Kate Middleton. Nel corso di diversi eventi ufficiali, le due donne sono state fotografate diverse volte in atteggiamenti complici, con un linguaggio del corpo che dagli esperti è stato letto come un segnale di armonia. Celebre per il suo carattere spigoloso, nel 1974 ha subito un tentativo di rapimento e ha rotto il protocollo ben prima di Meghan e Harry: con suo marito Mark Phillips – sposato nel 1973 – ha rifiutato per i figli Peter e Zara i titoli di Altezza Reale. I due fratelli, nati rispettivamente nel 1977 e nel 1981, sono stati i primi nipoti di un sovrano a non avere un titolo nobiliare. Concludiamo ricordando che, oggi come oggi, il matrimonio tra Anna e Mark Phillips fa parte del passato: nel 1992, l’unica figlia femmina di Elisabetta e di Filippo ha detto sì una seconda volta, andando all’altare con il comandante della Royal Navy Timothy Laurence. 

Enrica Roddolo per il "Corriere della Sera" il 13 agosto 2020. Prende the Tube, la metropolitana di Londra, come un'inglese qualsiasi. Anna, Princess Royal dal 1987 per volere di Elisabetta II (sua madre) è sempre andata per la sua strada. E non le dispiacerà se - colpa della crisi sanitaria - la festa per i suoi 70 anni il 15 agosto, a Buckingham Palace, salterà. Si consolerà veleggiando per i mari del Nord con il secondo marito Sir Timothy Laurence. Il sangue freddo si rivelò utile una sera di marzo del 1974, quando con il primo marito Mark Phillips rischiò il rapimento. Sul Mall diretti a palazzo, furono fermati a colpi di pistola da Ian Bell che sperava in un riscatto di 2 milioni di sterline. L'uomo afferrò la principessa per un braccio, ma lei si liberò a calci e strattoni. Merito del training al quale ogni Windsor è sottoposto: anche Meghan, racconta il libro «Finding Freedom» appena uscito Oltremanica, si è misurata con la prova di sopravvivenza a un tentato attacco terroristico (due giorni con le forze speciali Sas). La verità è che Anna ama l'azione, più che la moda. Così lontana dalle principesse trendsetter. E a proposito dei Sussex, dopo il loro «gran rifiuto» Anna ha detto che «le nuove generazioni non capiscono, vogliono sempre provare a fare in modo nuovo». Parole taglienti. Gran lavoratrice, la prima inaugurazione a 18 anni, è una workaholic nonostante sia solo 14ma nella successione. Sempre pronta a partire per Save the Children UK, di cui è patrona dal 1970. Adorata da papà Filippo, il «principe Dynamo» come diceva Patricia Mountbatten, per il politico vicino al duca di Edimburgo, Gyles Brandreth, tra Anna e il padre c'è sempre stata competizione, Anna e Filippo hanno sempre totalizzato il più alto numero di impegni ufficiali. Nel 2019 sono stati 506 quelli di Anna. Ad accomunarli anche i guai al volante: lei per una brutta multa per eccesso di velocità anni fa, il padre per un incidente d'auto... guidata a più di 90 anni. Interpretata da Erin Doherty in The Crown 3 , un anno prima del tentato rapimento Anna era apparsa al balcone di Buckingham Palace, fresca sposa del capitano Mark Phillips, Oro ai Giochi di Monaco. Ma di un'angelicata castellana non ha mai avuto molto. Alla guida della British Olympic Association, membro del Cio dopo la partecipazione a Montreal nel 1976 - prima Windsor alle Olimpiadi - il suo amore per l'equitazione arrivò (con una decorazione a tema) in cima alla torta nuziale. E a proposito di sì reali la designer dell'abito di Diana, Elizabeth Emanuel, mi svelò che lady D provò il vestito da sposa nella camera di Anna. Cresciuta in solitudine mentre la madre (con la quale avrebbe pranzato a Windsor per un brindisi informale di compleanno) si dedicava al lavoro di regina, «Anna ha le migliori qualità dei genitori ma è indubbio che sia una goccia d'acqua con papà Filippo», dice al Corriere da Londra lo storico Hugo Vickers. Ed Elisabetta, dopo l'uscita di Harry e Meghan, punta su di lei. Un ruolo in prima fila che sarebbe piaciuto al principe Andrea messo però fuori gioco dall'affaire Epstein. «E quando Carlo salirà al trono il suo peso non diminuirà di una virgola, è così strategica per la Corona», dice l'ex segretario Nick Wright. Prima di Meghan, Anna non volle titoli per i figli: Peter, che ha fatto notizia per la promozione del latte in polvere cinese, e Zara che ha gareggiato ai Giochi di Londra 2012. E a proposito di Meghan e i Windsor, emerge ora che i veleni iniziarono nel 2018 quando la famiglia si riunì per i 70 anni di Carlo. Anna è avvisata.

Buckingham Palace, è l’ora di Anna: dopo Carlo, la regina si affida a lei. Enrica Roddolo il 12/8/2020 su Il Corriere della Sera. Il 15 agosto la principessa di Galles compie 70 anni: niente festa (causa Covid) ma una crociera a Nord. Conservatrice, Elisabetta conta su di lei per l’immagine. Prende the Tube, la metropolitana di Londra, come un’inglese qualsiasi. Anna, Princess Royal dal 1987 per volere di Elisabetta II (sua madre) è sempre andata per la sua strada. E non le dispiacerà se — colpa della crisi sanitaria — la festa per i suoi 70 anni il 15 agosto, a Buckingham Palace, salterà. Si consolerà veleggiando per i mari del Nord con il secondo marito Sir Timothy Laurence. Il sangue freddo si rivelò utile una sera di marzo del 1974, quando con il primo marito Mark Phillips rischiò il rapimento. Sul Mall diretti a palazzo, furono fermati a colpi di pistola da Ian Bell che sperava in un riscatto di 2 milioni di sterline. L’uomo afferrò la principessa per un braccio, ma lei si liberò a calci e strattoni. Merito del training al quale ogni Windsor è sottoposto: anche Meghan, racconta il libro «Finding Freedom» appena uscito Oltremanica, si è misurata con la prova di sopravvivenza a un tentato attacco terroristico (due giorni con le forze speciali Sas). La verità è che Anna ama l’azione, più che la moda. Così lontana dalle principesse trendsetter. E a proposito dei Sussex, dopo il loro «gran rifiuto» Anna ha detto che «le nuove generazioni non capiscono, vogliono sempre provare a fare in modo nuovo». Parole taglienti. Gran lavoratrice, la prima inaugurazione a 18 anni, è una workaholic nonostante sia solo 14ma nella successione. Sempre pronta a partire per Save the Children UK, di cui è patrona dal 1970. Adorata da papà Filippo, il «principe Dynamo» come diceva Patricia Mountbatten, per il politico vicino al duca di Edimburgo, Gyles Brandreth, tra Anna e il padre c’è sempre stata competizione, Anna e Filippo hanno sempre totalizzato il più alto numero di impegni ufficiali. Nel 2019 sono stati 506 quelli di Anna. Ad accomunarli anche i guai al volante: lei per una brutta multa per eccesso di velocità anni fa, il padre per un incidente d’auto... guidata a più di 90 anni. Interpretata da Erin Doherty in The Crown 3, un anno prima del tentato rapimento Anna era apparsa al balcone di Buckingham Palace, fresca sposa del capitano Mark Phillips, Oro ai Giochi di Monaco. Ma di un’angelicata castellana non ha mai avuto molto. Alla guida della British Olympic Association, membro del Cio dopo la partecipazione a Montreal nel 1976 — prima Windsor alle Olimpiadi — il suo amore per l’equitazione arrivò (con una decorazione a tema) in cima alla torta nuziale. E a proposito di sì reali la designer dell’abito di Diana, Elizabeth Emanuel, mi svelò che lady D provò il vestito da sposa nella camera di Anna. Cresciuta in solitudine mentre la madre (con la quale avrebbe pranzato a Windsor per un brindisi informale di compleanno) si dedicava al lavoro di regina, «Anna ha le migliori qualità dei genitori ma è indubbio che sia una goccia d’acqua con papà Filippo», dice al Corriere da Londra lo storico Hugo Vickers. Ed Elisabetta, dopo l’uscita di Harry e Meghan, punta su di lei. Un ruolo in prima fila che sarebbe piaciuto al principe Andrea messo però fuori gioco dall’affaire Epstein. «E quando Carlo salirà al trono il suo peso non diminuirà di una virgola, è così strategica per la Corona», dice l’ex segretario Nick Wright. Prima di Meghan, Anna non volle titoli per i figli: Peter, che ha fatto notizia per la promozione del latte in polvere cinese, e Zara che ha gareggiato ai Giochi di Londra 2012. E a proposito di Meghan e i Windsor, emerge ora che i veleni iniziarono nel 2018 quando la famiglia si riunì per i 70 anni di Carlo. Anna è avvisata.

"Il principe Filippo non voleva più sposare la Regina". Spunta la rivelazione. Nel suo nuovo libro la biografa Ingrid Seward racconta un lato inedito e molto “umano” del principe Filippo attraverso un aneddoto legato alle nozze con la regina Elisabetta. Francesca Rossi, Lunedì 19/10/2020 su Il Giornale. Fiero, determinato, tenace, scaltro, perfino insensibile, a tratti rude. Bastano questi pochi aggettivi per descrivere la personalità in apparenza “marmorea” del principe Filippo. Grande amore della regina Elisabetta da tutta una vita, consorte regale abituato e forse anche felice di vivere all’ombra della moglie e padre amorevole col contagocce. Ecco l’immagine che abbiamo di lui, costruita nella nostra mente attraverso i racconti di libri e tabloid. E se il principe Filippo non fosse così inflessibile? Se avesse (avuto) anche lui delle incertezze? Domande che troverebbero una risposta nelle rivelazioni contenute nel libro “Prince Philip Revealed: A Man Of His Century”, della biografa Ingrid Seward. L’esperta reale sostiene che, prima di sposare la regina Elisabetta, il principe Filippo sarebbe stato “pieno di dubbi”, consumato dall’attesa di un futuro che ancora non era sicuro di saper gestire al meglio e di cui, forse, non era consapevole fino in fondo. Stando alle rivelazioni della Seward, a pochi giorni dal royal wedding Filippo sarebbe partito per la Cornovaglia, dove avrebbe trovato l’amica di sempre, la scrittrice Daphne Du Maurier (un suo titolo su tutti, “Gli Uccelli”, da cui Hitchcock trasse un capolavoro cinematografico). Sembra che tra il principe Filippo e Daphne vi fosse quella che Ingrid Seward definisce una relazione “emotivamente intima”. Il Daily Mail puntualizza che tra i due vi sarebbe stata una grande amicizia, “anche se non sessuale”. Insomma, nessun amore, né platonico né fisico. Il principe e la scrittrice inglese si comprendevano a meraviglia, ma niente di più, nonostante le voci dei tabloid che, ancora oggi, sostengono il contrario. Secondo la Seward il principe avrebbe confessato all’amica: “Voglio stare qui con te, non voglio rientrare a Londra”. Panico da matrimonio? Non lo sappiamo con certezza, ma gli indizi ci condurrebbero su questa strada. La Du Maurier, però, non si fece commuovere e diede al principe Filippo il consiglio che le parve più giusto: “Il tuo paese ha bisogno di te”. Una frase in cui è racchiuso tutto un mondo. Il futuro duca di Edimburgo aveva paura ed è comprensibile. La sua fidanzata era (ed è tuttora) una donna molto impegnativa e Filippo, da uomo riflessivo quale è, o almeno appare, non sottovalutò i doveri che quell’unione avrebbe comportato per lui e i grandi cambiamenti che ci sarebbero stati nella sua vita. Il principe aveva subìto l’esilio dalla Grecia, era stato cresciuto dallo zio Louis Mountbatten, sua madre non era stata molto presente a causa di seri problemi psicologici e nessuno avrebbe mai pensato che quel ragazzino figlio di una nobiltà naufragata sarebbe diventato il principe consorte di una delle regine più in vista e potenti del mondo. Piccola parentesi su un dettaglio che accomuna la sovrana e il principe Filippo: entrambi sembravano destinati a una vita molto diversa da quella che hanno poi vissuto. Omero avrebbe detto che “il futuro è sulle ginocchia di Giove”, ovvero è sconosciuto ai mortali e mai come in questo caso risulta vero. Per sposare la regina Elisabetta il principe Filippo rinunciò anche alla carriera in Marina. Per coincidenza conobbe la futura moglie proprio mentre era un cadetto, in occasione della visita di Giorgio VI al Royal Naval College, organizzata dallo zio Louis. All’epoca il principe Filippo aveva 18 anni e la piccola Elisabetta solo 13 ma, stando alle rivelazioni della tata Marion Crawford, “si accorse subito che era unico”. Il resto è storia. Ingrid Seward, però, getta acqua sul fuoco. Filippo avrebbe avuto delle incertezze prematrimoniali giustificabili. Ciò non significa che non amasse Elisabetta o che le fosse infedele già prima delle nozze. Riguardo alle presunte amanti del duca di Edimburgo l’esperta dichiara: “Non esiste un briciolo di prova che siano state relazioni fisiche”. Il principe Filippo ha sposato non solo Elisabetta, ma un regno intero, assumendosi la responsabilità delle sue scelte. La stessa responsabilità che, in piena Megxit, avrebbe portato il duca a schierarsi contro Harry affermando: “Doveva farsi da parte, come ho fatto io”.

Da "elle.com" il 9 agosto 2020. Ha sposato la Regina Elisabetta, è a tutti gli effetti un membro (importante) della royal family, ma non possiamo chiamarlo re. Il principe Filippo, che è conosciuto anche come duca di Edimburgo, ha una storia interessante che ancora oggi rimanda a una domanda lecita e mai scontata a cui rispondere: perché non è re? Il marito della Regina Elisabetta è conosciuto dai fan della royal family semplicemente come “principe consorte”. Molto della sua storia è stato già rivelato nella celebre serie TV The Crown (nota bene: la terza stagione è in arrivo su Netflix il 17 novembre, ndr): sappiamo che Filippo è nato principe di Grecia e Danimarca, e che ha rinunciato a questi tioli per convolare a nozze con Elisabetta. Sappiamo anche che è il figlio del principe Andrea e della principessa Alice di Battenberg, che lasciarono la Grecia e adottarono il cognome Mountbatten per neutralizzarsi come cittadini del Regno Unito. Sappiamo inoltre che Her Majesty the Queen gli ha conferito il titolo di duca di Edimburgo, conte di Merioneth e barone Greenwich al momento delle loro nozze nel 1947. Tuttavia, un dubbio resta: perché, all’incoronazione della Regina Elisabetta nel 1953, Filippo non è stato proclamato re? Questo quesito è anche al centro di un articolo apparso su harpersbazaar.com, che chiarisce: “Nella royalty anglosassone, la moglie di un re è chiamata regina consorte ma il marito di una regina è chiamato principe consorte e non re consorte”. La stessa fonte sottolinea anche che un ulteriore (e anche l’ultimo) riconoscimento di sangue blu è stato dato a Filippo nel 1957, quando la Regina Elisabetta gli ha conferito ufficialmente il titolo di principe del Regno Unito. E a proposito di titoli nella royal family, un chiarimento lungimirante è quello di townandcountrymag.com, che guarda al futuro della monarchia inglese offrendo un prospetto molto interessante. Ammettiamolo, c’è una domanda a cui tutti vorrebbero risposta nel Regno Unito (e non solo): Camilla diventerà Regina? Secondo la fonte, sì, Camilla potrebbe diventare regina consorte quando Carlo sarà incoronato re. Tuttavia, Clarence House (la residenza di Carlo e Camilla) ha annunciato che sarà sua intenzione utilizzare (solo) il titolo di Sua Altezza Reale la principessa consorte. Quanto a Kate Middleton? Inutile prenderci in giro, il popolo non vede l’ora che diventi regina accanto a William. Ma attenzione, niente diminutivi: come per nome di battesimo, lei sarà Queen Catherine.

Emanuela Fontana per “il Giornale” il 2 agosto 2020. Stiamo per entrare nell' era delle cinque regine. Tra una generazione, o anche meno, i troni europei saranno quasi tutti femminili. Non era mai accaduto che un numero così alto di eredi di case reali fossero donne. Spagna, Svezia, Paesi Bassi, Belgio, Norvegia: qui stanno crescendo le future sovrane d' occidente. La figlia di Felipe di (... ) (...) Spagna, Leonor, la nipote del re di Norvegia, Ingrid Alexandra, la figlia del re dei Paesi Bassi, Caterina Amalia, la figlia del re del Belgio, Elisabetta, la figlia del re di Svezia, Vittoria. Ecco i nomi delle regnanti del ventunesimo secolo. Quattro sono adolescenti. Leonor è la più piccola, ha quattordici anni, Ingrid Alexandra di Norvegia e Caterina Amalia dei Paesi Bassi sedici, Elisabetta del Belgio diciotto. Poi c’è Vittoria di Svezia, nata nel 1977. «Per Vittoria, in Svezia, alla sua nascita fu cambiata la Costituzione, che privilegiava la legge salica sulla primogenitura» spiega al Giornale il professore Domenico Savini, storico ed esperto di famiglie reali. La legge salica prevedeva che l' erede al trono fosse maschio, a prescindere dal fatto che una femmina l' avesse preceduto. Ora non esiste più tra le grandi monarchie d' Europa. È in vigore in Giappone, dove la principessa Aiko, diciottenne primogenita dell' Imperatore, non potrà salire al trono. «Questa è una fonte di grande dolore per l' imperatrice Masako», chiarisce ancora Savini. Ma il dibattito è aperto, «in Giappone se ne parla molto». Anche lontano dall' Europa il destino potrebbe volere la successione di una donna. Tra le storiche monarchie d' occidente solo l' Inghilterra potrebbe quindi mantenere la corona sul capo di un uomo. Eppure è terra di grandi regine. «Nella famiglia reale inglese sono sempre state le donne le più forti. Pensiamo sempre alla regina Elisabetta come tutta sorrisi, capellini e borsette, ma è una donna d' acciaio che ha tenuto testa a un cavallo di razza, ma da domare, quale era il principe Filippo». E, tornando indietro, basti pensare alla regina Elisabetta I e alla regina Vittoria, supportata da un ottimo consorte, Alberto di Sassonia. A proposito dei consorti, per le principesse eredi al trono si presenterà prima o poi il nodo della scelta dei mariti. Stare al fianco di una regina è «un lavoro faticoso», bisogna porsi nel ruolo di colui che dà «supporto» del «consigliere», ma anche avere «un ottimo carattere». Occorre convivere con i media «spesso non pietosi», capire che «il destino ha aperto una gabbia dorata, che comunque è pur sempre una gabbia. Non voglio dire che i principi consorti vivano da reclusi, ma certo non possono comportarsi come vogliono». Vittoria di Svezia ha già scelto da tempo. Il marito, Daniel Westling, personal trainer, «svolge il suo compito con grande impegno». Non sono passati nemmeno tre secoli da quando l' Europa si scagliava contro l' impero asburgico perché il potere era nelle mani di una donna, Maria Teresa, grazie alla Prammatica sanzione decisa dal padre, l' imperatore Carlo VI. Era il 1741. «Ma poco prima - ricorda Savini - in Russia Pietro il Grande fece salire al trono la sua seconda moglie. Con Caterina I, Elisabetta e Caterina II abbiamo le prime donne a regnare, anche se Pietro il Grande poteva agire come voleva. Un caso molto diverso da quello di Carlo VI». L' imperatore d' Austria doveva rendere molto più conto del suo operato, e la successione provocò la guerra. Altri tre secoli prima Isabella di Castiglia aveva guidato la Spagna con il marito Ferdinando II d' Aragona, sostenendo l' impresa di Cristoforo Colombo: «Solo una persona di grande genio, e donna, poteva capire quell' idea nel Quattrocento». Dopo di lei, sua figlia Caterina diede filo da torcere a Enrico VIII. E tornando ai tempi più recenti, nel secolo scorso, «pensiamo alle tre regine d' Olanda: Guglielmina, Giuliana e Beatrice. Guglielmina resistette a Hitler». Le regine possono fare la storia.

Elisa Messina per "corriere.it" il 13 agosto 2020. La nuova villa a Santa Barbara acquistata a 14 milioni di dollari. Trasloco numero cinque per l’inqueta coppia dei duchi di Sussex, ma a giudicare dall’investimento in ballo, circa 14 milioni di dollari, secondo le fonti interpellate dal britannico Daily Mail, forse si tratta di una scelta definitiva. Ecco, infatti la nuova dimora acquistata alla fine di giugno dal principe Harry e da Meghan Markle a Santa Barbara, in California, per la precisione a Montecito, la zona della contea dove sorgono le residenze più esclusive e dove abitano molte celebrità di Hollywood. Tanto che la cittadina si è guadagnata il soprannome di Beverly Hills del nord. Nuovi vicini di casa di Harry e Meghan sono infatti Oprah Winfrey, Ellen De Generes, Gwyneth Paltrow e George Lucas.

Due ettari di tenuta come garanzia di privacy. Quella acquistata dai duchi di Sussex, quasi sicuramente grazie all’aiuto finanziario del principe Carlo, il 18 giugno scorso, è una villa indipendente grande circa 1400 metri quadrati: ha nove camere da letti, sedici bagni, una palestra, un’area benessere ed è circondata da una tenuta di oltre due ettari con piscina e campo da tennis. Perché Santa Barbara? Perché, rispetto a Hollywood dove hanno abitato negli ultimi mesi, la ricca cittadina californiana garantisce maggiore privacy e tranquillità. «Questo è il luogo in cui hanno intenzione di essere felici, fare nuove amicizie e crescere Archie, dandogli la possibilità di giocare con altri bambini della sua età», ha detto una fonte vicina alla coppia al sito americano Page Six. Inoltre le caratteristiche della casa sembrano soddisfare le caratteristiche apprezzate dal principe Harry che, essendo cresciuto in storiche e importanti dimore, sente l’esigenza di una casa più intima e personale.Per la coppia questo è comunque il quinto trasloco in appena due anni di matrimonio. Tra ville, dimore storiche e palazzi di città vediamo tutte le case in cui sono passati.

Kensington Palace, la “prima casa”. La “prima casa” dei Duchi di Sussex, dopo le nozze del 19 maggio 2018 è stata un appartamento all’interno di Kensington Palace, storico palazzo reale nel cuore di Londra dove ha abitato Lady D e dove abitano alcuni tra i più importanti membri della Famiglia Reale, William e Kate in primis, con i loro tre figli e dove da scapolo viveva Harry da solo. Non a caso, il profilo ufficiale dei social dei duchi di Cambridge è Kensington Royal, e, in primo momento, anche questo canale di comunicazione, oltre che il palazzo, dei duchi di Cambridge ha ospitato la nuova coppia dei duchi di Sussex. Ma, come abbiamo visto, non ha funzionato. Né la convivenza social (Harry e Meghan lanciarono infatti il loro profilo Sussex Royal) né quella residenziale. Il confortevole appartamento di Harry (Nottingham Cottage) aveva”solo” due camere da letto, così quando Meghan è rimasta incinta la coppia ha iniziato a cercare una nuova casa.

Frogmore Cottage: 3 milioni di lavori per pochi mesi. La scelta è caduta su Frogmore Cottage, una deliziosa residenza indipendente, due piani e 10 stanze, con tutto lo spazio per ospitare una nursery, una palestra e uno studio per lo yoga. All’interno della tenuta di Frogmore House, a Windsor, bellissima residenza vittoriana dove la coppia tenne il party per famigliari e amici dopo le nozze. Ma il cottage necessitava di restauri, così nell’autunno del 2018 iniziano i lavori per trasformare gli interni del vecchio edificio secondo gli standar eco-friendly imposti dalla duchessa: vernici eco, spazio per l’orto, arredi curati da una designer di grido. Lavori costosi, 2,7 milioni di euro ( la cifra esatta è riportata sul Sovereign Grant pubblicato sul sito di Buckingham Palace) e lunghi: la coppia riesce a trasferirsi solo nell’aprile 2019, u mese prima della nascita di Archie. Quando, pochi mesi dopo, nel gennaio 2020, la coppia manifesta la sua intenzione di affrancarsi dai doveri della famiglia reale e vivere in Nord America, la stampa britannica insorge contro lo spreco di una ristrutturazione così costosa. Così tra gli accordi presi all’interno della “Megexit” c’è anche la promessa di rimborsare i costi di ristrutturazione, al ritmo di 18.000 sterline al mese (circa 20.000 euro). Per quanto tempo hanno effettivamente abitato nella storica villa della campagna inglese riadattata secondo il loro personale gusto e stile? Una manciata di mesi: dalla nascita di Archie (maggio 2019) alle vacanze di Natale 2019-2020, quando volano in Canada.

Fuga in Canada: la villa a Vancouver. La prima destinazione di Harry e Meghan, durante le vacanze di Natale, è il Canada, dove la ex attrice ha vissuto quando recitava nella serie Suits: si insediano a Vancouver, in una villa (probabilmente in affitto) affacciata sull’Oceano Pacifico. Una residenza da 14 milioni di dollari (12,6 milioni di euro) con vista mozzafiato sull’Oceano Pacifico. La tenuta è composta da una casa principale di 3.400 metri quadrati con cinque camere da letto e otto bagni e da un cottage per gli ospiti di 715 metri quadrati con tre letti e due bagni. In più la residenza è corredata da un giardino d’inverno su un terreno di quattro acri con due punti di accesso alla spiaggia privata. Qui la coppia resta fino a fine febbraio, quando tornano a Londra per gli ultimi impegni ufficiali con la famiglia reale e definire tutti gli accordi del Megexit con Carlo e la regina Elisabetta.

La casa “in prestito” a Beverly Hills. Alla vigilia della chiusura dei confini tra Canada e Stati Uniti, a marzo, Harry e Meghan volano negli Stati Uniti, in California, a Los Angeles, dove abita la madre di Meghan, Dora Ragland. Qui, si stabilizzano, non si sa se in prestito o in affitto, in una villa sulle colline di Beverly Hills del produttore e regista Tyler Perry, del valore di circa 18 milioni di dollari, la classica casa hollywodiana da vip: 12 stanze da letto, parco, piscina... Lussuosa, ma impersonale. Qui hanno trascorso il lockdown anche impegnandosi in alcune attività di volontariato per le famiglie in difficoltà per via dell’emergenza Covid-19. Ma evidentemente anche questa sistemazione, per quanto lussuosa, si trattava di una soluzione temporanea nella loro personale ricerca della felicità. Così si sono messi alla ricerca di una casa “con più carattere” a Santa Barbara.

"Lei non ha buone intenzioni...". Disastro Harry: colpa di Meghan. Spuntano nuove indiscrezioni su Harry e Meghan a un passo dalla pubblicazione del contestatissimo memoriale, come i rapporti del principe con un amico di vecchia data. Carlo Lanna, Martedì 11/08/2020 su Il Giornale. Manca poco per l’uscita della contestata "Finding Freedom", la biografia dedicata al Principe Harry e all’ex duchessa del Sussex che promette di far tremare tutta la famiglia dei Windsor. Di fatto, ancor prima della sua pubblicazione, le pagine del libro stanno creando scompiglio all’intero della royal family. Gli autori del testo, fin da quando è stata resa nota la data d’uscita, hanno ammesso che le notizie e i fatti ricostruiti promettono un ritratto veritiero della Regina e di tutta la famiglia. Storie, gossip, pettegolezzi, tutti raccontati con un tratto deciso per spiegare come e perché Harry e Meghan hanno deciso di prendere le distanze dalla Corona. E ora la stampa regala in pasto all’opinione pubblica un’altra pagina del memoriale. Tra i retroscena c’è anche quello che riguarda il Principe Harry e Tom Inskip, detto Skippy.

Quando Meghan era "la showgirl di Harry". Secondo quando è riportato in "Finding Freedom", Harry avrebbe litigato con il suo miglior amico proprio a causa di Meghan. I due erano legati da una profonda amicizia fin da quando erano compagni di studio a Eton, ma da quando la Markle è entrata nel cuore del Principe, qualcosa è andato storto. Carolyn Durant e Omid Scobie, autori del memoriale, affermano che Skippy avrebbe cercato di mettere Harry in guardia dall’influenza di Meghan. "Le sue intenzioni non sono buone", avrebbe affermato l’amico di vecchia data. Skippy, parlando con Harry, avrebbe affermato a gran voce che la Markle era una donna molto subdola e lui avrebbe dovuto agire con cautela senza compiere scelte affrettate. "Provate a vivere insieme per qualche tempo, prima di fare il grande passo", continua Skippy. Invece Harry ha agito d’impulso e accecato dall’amore per Meghan, ha deciso lo stesso di sposare l’ex attrice e di fatto ha cambiato per sempre gli assetti della Corona. Il principe non avrebbe accettato di buon grado i consigli dell’amico, tanto è vero che dopo 20 anni, i due ora non avrebbero più rapporti. Eppure Harry e Skippy sono stati molto legati quando erano giovanissimi. Il ragazzo, infatti, era presente quando il principe era un assiduo frequentare dei pub inglesi e quando fu fotografato nudo in una stanza di albergo insieme ad alcune ragazze in abiti succinti. Gli esperti che hanno riportato il fatto non si spiegano un comportamento del genere."È ferito, perché prendere una decisione così drastica non è stato affatto facile", si legge tra le pagine della biografia. Per avere un quadro totale sulla questione, non resta che attendere l’uscita del libro, presta in Inghilterra per l’11 agosto e in Italia il prossimo 27 agosto.

Emily Stefania Coscione per iodonna.it il 12 agosto 2020. Le intenzioni degli autori erano quelle di rivelare il vero “dietro le quinte” della Megxit, soprattutto nel rapporto tra i Cambridge e i Sussex. E a giudicare dalle reazioni a corte, finora Finding Freedom: Harry And Meghan And The Making Of A Modern Royal Family non ha deluso. Ecco le 10 rivelazioni più inaspettate del libro che hanno profondamente irritato la regina Elisabetta. Sarà nelle librerie italiane con il titolo Libertà per HarperCollins dal 27 agosto.

1 – I COMMENTI A CORTE. Uno degli assistenti dei reali avrebbe descritto Meghan Markle come la “showgirl di Harry”, commentando il suo passato controverso. Un altro avrebbe detto di non fidarsi di lei. Harry, però, se la prese ancora di più quando, ancora fidanzato, William gli consigliò di fare con calma e cercare di conoscere bene “this girl”, questa ragazza. Harry lo interpretò come un commento snob, legandosela al dito, stanco già da tempo della dinamica che si era creata tra i due, con William nel ruolo di fratello maggiore e futuro re, intento a tenere sotto controllo il fratellino più spericolato.

2 – IL RIFIUTO DELLA REGINA. Al loro ritorno a Londra, lo scorso gennaio, Harry e Meghan Markle si erano proposti di incontrare subito la regina Elisabetta per discutere le richieste già fatte in diverse conversazioni prima della loro partenza per le vacanze natalizie in Canada. Invece, Elisabetta mandò a dire che era troppo occupata e che li avrebbe incontrati non prima del 29 gennaio. Una Meghan Markle furiosa avrebbe, quindi, avuto l’idea di recarsi direttamente a Sandringham e costringere la sovrana a riceverli, infrangendo le regole di protocollo. Per fortuna, Harry riuscì a farle cambiare idea.

3 – SEMPRE UN PASSO INDIETRO. “Ho rinunciato a tutto per questa famiglia. Ero pronta a fare di tutto”: questo avrebbe confidato Meghan Markle a un amico, lo scorso marzo, delusa dal trattamento ricevuto a corte. Il libro sostiene che, quando erano Londra, Harry e Meghan Markle avevano la certezza di essere “usati” da Buckingham Palace per la loro popolarità tra i sudditi, ma comunque costretti a mantenersi sempre un passo indietro rispetto a coloro che erano più importanti in base al pecking order, ovvero la gerarchia a corte.

4 – IL DISPIACERE DI CARLO. Il principe del Galles rimase molto male quando, nel 2016, Harry oscurò un viaggio ufficiale in Medio Oriente del padre, di grande importanza politica, emanando un comunicato non autorizzato (Carlo lo venne a sapere appena 20 minuti prima della pubblicazione) in cui accusava i media di aver perseguitato la sua fidanzata. In questo modo confermò, quindi, la sua storia d’amore, finendo col “rubare” quelle prime pagine dei giornali che avrebbero dovuto essere destinate al padre.

5 – L’INTRUSIONE A CORTE. Harry e Meghan Markle sostengono che i funzionari della regina, consapevoli dell’enorme popolarità a livello globale dei Sussex, stavano cercando di ridurre in qualche modo la loro crescente importanza, per timore che potesse finire con l’eclissare la regina. Meghan, poi, non riusciva ad abituarsi alle continue interferenze. Come esempio viene riportato l’episodio di una collanina con le iniziali H e M, indossata dall’ex attrice: uno degli assistenti le consigliò di evitare accessori simili, in quanto avrebbero incoraggiato i fotografi, facendola finire sui giornali. Meghan non riuscì a nascondere la sua furia nel sentirsi dire cosa indossare e cosa no.

6 – PER MEGHAN, KATE È UNA SNOB. Secondo i Sussex, Kate Middleton non avrebbe fatto il possibile per aiutare Meghan Markle ad abituarsi alla vita a corte. E l’antipatia sarebbe scoppiata quando Kate si rifiutò di dare un passaggio con la sua Range Rover a Meghan, che all’epoca abitava a Kensington Palace, quando entrambe stavano per andare a fare shopping nella stessa zona. La Sussex si sentì insultata. Kate mandò dei fiori, ma le sue scuse non furono accettate. E le accuse continuano. I Cambridge non avrebbero fatto visita ai cognati per ben 10 mesi, prima e dopo il royal wedding. E quando, lo scorso marzo, Harry e Meghan Markle hanno fatto la loro ultima apparizione da reali senior, nell’Abbazia di Westminster, William e Kate avrebbero ricambiato con freddezza i loro sorrisi.

7 – GLI AMICI ANTI MEGHAN. Harry avrebbe rotto i rapporti con tutti gli amici e conoscenti che avevano fatto commenti negativi o avanzato dubbi sull’idoneità dell’ex attrice al futuro ruolo di duchessa. Harry si è sempre preoccupato dei toni razzisti di una certa copertura mediatica che insisteva sul denigrare l’americana birazziale improvvisamente accolta a corte. E si sarebbe lamentato più volte leggendo i post online meno favorevoli, decidendo poi di chiudere tutti i suoi account personali, inclusa una sua pagina segreta su Instagram.

8 –  L’ACCORDO CON I PAPARAZZI. La duchessa avrebbe ammesso che, quando era ancora un’attrice alla costante ricerca di pubblicità e del prossimo ruolo sul piccolo e grande schermo, aveva preso più volte accordi con i fotografi a Londra, attraverso i contatti del suo agente a Hollywood, per generare opportunità fotografiche da far poi finire sui giornali e mantenere quindi alto il suo profilo mediatico. Ma, dice il libro, Meghan Markle smise immediatamente di farlo una volta iniziata la relazione con Harry, per evitare di mettere a repentaglio la privacy del principe.

 9 – DUBBI SUL FIDANZAMENTO. Il romantico racconto da loro fatto nella famosa intervista registrata per l’annuncio del loro fidanzamento ufficiale, nel novembre 2017, rivelava che Harry aveva chiesto a Meghan Markle di sposarlo di recente, una sera in cui i due si trovavano da soli nella loro abitazione a Nottingham Cottage, la villetta da scapolo del principe a Kensington Palace, ed erano intenti a cucinare un pollo arrosto per cena. Invece, secondo Finding Freedom, si erano fidanzati in gran segreto già nell’agosto precedente.

10 – MEGXIT, L’IDEA FU DI HARRY. Il principe Harry avrebbe deciso di lasciare la corte anni prima di conoscere l’ex attrice. Non si trovava bene, gli mancava un ruolo appropriato e temeva di non potersi fidare di nessuno a palazzo. E sentiva che la nonna, la regina Elisabetta, pur essendo consapevole del suo disappunto, avrebbe sempre dato la precedenza alla monarchia. Ma all’annuncio della Megxit fatto dalla coppia sui social, senza l’approvazione della regina, questa si sarebbe infuriata, chiedendo ai suoi assistenti di risponderesi annunciando lunghe discussioni prima della decisione definitiva sullo status dei Sussex. In poche parole, a decidere tutti i dettagli sarebbe stata solo lei.

Il giorno che Elisabetta mise a posto Harry per colpa di Meghan. E di una tiara. Elisa Messina il 2/8/2020 su Il Corriere della Sera. Un colloquio privato e severo tra nonna e nipote, una “ramanzina” in piena regola alla vigilia delle nozze. La nonna è la regina Elisabetta d’Inghilterra, il nipote che andava rimesso a posto è il principe Harry, che a breve, il 19 maggio 2018, avrebbe portato all’altare la ex attrice americana Meghan Markle. E l’ultimo capitolo di un piccolo giallo che va avanti da tempo e che, via via, si arricchisce di nuovi dettagli e rivelazioni. Al centro di tutto, un diadema, per la precisione, quello che la sposa avrebbe indossato e che effettivamente indossò il giorno delle nozze: la Queen Mary’s Lozenge Bandeau, tiara Ar Decò davvero particolare e preziosa appartenuta alla regina Mary (la nonna di Elisabetta) e indossata anche dalla Principessa Margareth nel 1965.

«Il parrucchiere è qui e vuole la tiara». Dopo aver scelto la tiara in prestito dai gioielli di famiglia, come vuole la tradizione dei matrimoni reali, Meghan avrebbe voluto provarla con l’acconciatura e decise di far venire allo scopo il suo parrucchiere Serge Normant da Parigi. Così quel giorno, secondo le confidenze fatte da una fonte del palazzo al Daily Mail, lei e Harry si sono presentati a Buckingham Palace, hanno chiesto diAngela Kelly, stylist di fiducia della regina, nonché responsabile di tutto il suo guardaroba, chiedendo, più o meno: «Siamo a Palazzo, vogliamo il diadema per la prova, possiamo averlo subito per favore?». A quella richiesta, Angela Kelly avrebbe risposto che non era possibile. Semplicemente perché non funzionava così: si tratta di gioielli particolari, tenuti sotto chiave, non si possono avere all’improvviso solo perché un certo parrucchiere è arrivato da Parigi. C’è un protocollo di sicurezza da seguire. Oltretutto Harry e Meghan si erano presentati senza aver nemmeno chiesto un appuntamento.

«Quello che Meghan chiede è legge». A quel punto Harry sarebbe andato su tutte le furie e avrebbe addirittura usato un linguaggio maleducato contro miss Kelly. Da tempo si parla di una famosa frase «What Meghan wants, Meghan gets» (sostanzialmente «Quello che chiede Meghan è legge») detta con stizza da Harry in merito alla tiara. In un primo momento si era scritto che lui l’avrebbe detta addirittura davanti alla regina perché Meghan avrebbe voluto un altro gioiello e non il diadema della regina Mary. Impossibile. Poi è arrivata la nuova biografia di Harry e Meghan Finding Freedom (non autorizzata, ma molto suggerita, si dice, dalla stessa Meghan Markle) a dare della vicenda la versione pro-Meghan: Harry si sarebbe infuriato con Angela Kelly perché non aiutava Meghan a trovare la tiara giusta per lei. Ancora una volta la fidanzata americana veniva trattata da estranea, oltre che dalla famiglia, anche dal personale del Palazzo nel momento più delicato della sua vita da quasi-principessa, i preparativi delle nozze. No, non è andata proprio così. L’arrabbiatura era sì contro Angela Kelly, ma perché Harry e Meghan non potevano disporre della tiara a loro piacimento. E non, come era stato scritto in precedenza, perché Meghan avrebbe preferito un’altra tiara alla Queen Mary’s Lozenge Bandeau. Insomma, nessun dispetto contro Meghan ma un’oggettiva impossibilità a soddisfare una richiesta intempestiva e inopportuna.

Interviene la regina. La sfuriata di Harry sarebbe poi stata riportata alla regina (è stata la stessa Kelly? Chi lo sa, ma è probabile) ed Elisabetta non ci avrebbe messo un attimo a convocare il nipote per ricordargli chi era, quali erano i suoi doveri e il tono con il quale doveva rivolgersi al personale del Palazzo e in particolare ad Angela Kelly che, negli anni è diventata molto di più della “sarta della regina”, ma la sua confidente e amica. Non a caso è l’unica persona che Elisabetta ha voluto al suo fianco quando da Buckingham Palace è stata costretta a rifugiarsi a Windsor nei giorni più duri del lockdown inglese. «Harry è stato messo al suo posto», rivela la fonte al Daily Mail. Il battibecco sulla tiara, insomma, era stata sanato. Ma era solo l’inizio di una frattura che, mese dopo mese , avrebbe allontanato sempre di più la coppia dei duchi di Sussex dal resto della famiglia reale e dal Regno Unito. Con grande dolore della sovrana che per Harry ha sempre avuto un affetto speciale.

Natalia Aspesi per “la Repubblica” il 29 aprile 2020. Lady in waiting, dama di compagnia, come ai tempi delle regine Tudor e Stuart, Hannover e Sassonia -Coburgo- Gotha, e adesso Windsor, un piccolo gruppo di nobili signore e fanciulle nel ruolo di confidenti, protettrici, medichesse, guardie del corpo, ma anche giullari, spie, cameriere, sguattere, amanti, vittime sacrificali. Quale ruolo ha interpretato Lady Anne Coke, primogenita del conte di Leicester, vedova di Lord Glenconner, per decenni dama di compagnia della principessa Margaret? Come racconta nelle sue memorie Lady in Waiting: My Extraordinary Life in the Shadow of the Crown che in un baleno ha superato le 200 mila copie in Gran Bretagna, soprattutto l' accompagnatrice nei viaggi di rappresentanza e forse, talvolta, la complice e l' amica, sia pure ininfluente. Senza edulcorare troppo, il libro restituisce a Margaret una sua umanità nelle tante ferite che l' hanno devastata, e una dignità sia pure spesso altezzosa che continuano a esserle negate anche nella fortunata serie televisiva The Crown , sempre col bicchiere in mano, disprezzata dal marito Lord Snowdon, circondata da maschi giovani e impresentabili, e anche nella miniserie tratta da I Melrose di Edward St Aubyn, che la descrive come una ridicola villanzona in età. Ma l' autrice ripercorre soprattutto la sua storia personale, una delle tante prodotte da quella classe di immenso e stravagante privilegio che è l' aristocrazia britannica, ancora con sue leggi patriarcali intoccabili in un Paese di antica democrazia. E se anche può innervosire noi plebei la classe con cui, bevendo il tè con una giornalista del Guardian, Lady Anne non fa tintinnare il cucchiaino nella tazza (mai in un salotto elegante davanti al caminetto), il suo racconto dolente eppure sereno è quello di un lungo - 54 anni - martirio matrimoniale e familiare da lei accettato stoicamente. I Leicester erano legati alla famiglia reale anche da ragioni non protocollari, essendo stata una delle loro più affascinanti dame l' amante ufficiale di re Edoardo VII, primogenito della regina Vittoria. Anne aveva diviso con Elisabetta e Margaret i giochi d' infanzia durante la guerra (tramando di assassinare Hitler!) a Holkham Hall, nel Norfolk, l' antica magione dei Leicester così grande (più della televisva Downton Abbey!) che le bambine non riuscivano mai ad avere a colazione le uova alla coque perché nel lunghissimo tragitto dalla cucina alle loro camerette arrivavano sode e fredde. A 22 anni Anne, di bellezza diafana e regale, divenne la fanciulla modello dell' aristocrazia britannica dopo essere stata, nel 1953, vestita di veli bianchi con coroncina di rose in testa, una delle sei damigelle d' onore all' incoronazione di Elisabetta. Una sposa molto ambita per nobiltà, docilità, bellezza e ovviamene verginità, necessaria ma anche fastidiosa almeno per il fortunato sposo, il barone Colin Tennant, che il primo giorno della luna di miele a Parigi la portò in una casa di tolleranza a osservarne le coppie, affinché si istruisse e gli risparmiasse la noia di trovarla impreparata. Bel giovanotto fascinoso, esemplare nell' indossare il tight, il cilindro, la bombetta, si rivelò subito un disastro: viziato, narcisista, aggressivo, crudele, adultero, sempre scontento, forse pazzo. Ereditando lui il titolo, la nobile dimora, l' immensa ricchezza di famiglia derivata dalla produzione di candeggina industriale, sua moglie divenne Lady Glenconner, col compito di accompagnare l' ex amichetta Margaret nei viaggi ufficiali, quando la principessa, graziosa e vivace (però molto piccola, a Corte la chiamavano "la nana reale") sapeva conquistare tutti con la sua intelligenza, preparazione politica e ironia; con tiare di diamanti ospite d' onore di Ronald Reagan e di sua moglie Nancy, meno addobbata in una capanna dello Swaziland alle prese con una onorificenza da appuntare sul perizoma alquanto minuscolo del re locale. Nel tempo terribile dell' Aids, Margaret andava nei reparti dei malati terminali, si sedeva vicino a loro, raccontava storie, li faceva ridere, li rasserenava: «C' eravamo solo noi due, molto prima che arrivasse la principessa Diana con un' orda di fotografi». In comune le due signore avevano, si fa per dire, un uomo, Glenconner, il marito crudele di una, lo sfortunato innamorato dell'altra, o meglio, la coppia sposata condivideva la vicinanza della principessa, i suoi cattivi umori, alcolismo, tabagismo, la sua implacabile infelicità e la sua corte di ragazzi tanto più giovani e impresentabili. Anne la seguiva nei suoi viaggi, Colin la inseguiva nel paradiso vizioso e inaccessibile di Mustique, l' isoletta delle Piccole Antille nel Mar dei Caraibi di sua proprietà. Ragazzi indigeni nudi e dipinti d' oro, festa eterna sulle spiagge, rifugio di celebrità e ricchi sfrenati (anche italiani), un terreno regalato a Margaret che ci andava spesso, esibendo costumi da bagno trasparenti. Tutti d' accordo, tranne il di lei marito Anthony Armstrong-Jones, Lord Snowdon, che ormai l' odiava sfrenatamente, chiamando Colin «quella merda». La parte più spietata delle memorie è quella in cui la lady in waiting confessa i sensi di colpa per aver trascurato, come del resto era stata lei dai suoi genitori, i cinque figli affidati a una serie di governanti, chiusi in collegio, soli e separati, la mamma assente per servire i suoi due tiranni. I risultati furono tragici, a otto anni Charles, il primogenito, l' erede, fu colpito da una sindrome ossessiva compulsiva, adolescente cominciò a drogarsi morendo di epatite. Harry, sposato, padre e omosessuale fu infettato dall' Aids negli anni in cui il male era ancora inarrestabile: le pagine in cui ne è descritta l' agonia, il figlio estenuato disteso sul pavimento d' ospedale, la testa adagiata in grembo alla madre rannicchiata a terra, sono davvero strazianti. Christopher, il terzogenito, dopo un incidente durante una vacanza in Belize, è rimasto seriamente menomato. Dissolta la ricchezza ereditata, Lord Glenconner dovette lasciare Mustique e nel 1982 trovò rifugio nella vicina isola di Santa Lucia dove inseguire i suoi progetti di lunatico piacere: non più il grandioso palazzo esotico disegnato da Oliver Messel a Mustique, ma un paio di casupole di poche stanze in cui Margaret lo raggiunse una volta sola e poi mai più. Lei è morta a 71 anni di un ictus nel febbraio 2002 in un ospedale londinese, lui a 86 anni di cancro nell' agosto 2010, a Santa Lucia, assisto dal suo cameriere personale caraibico, Kent Adonai. «Mia madre mi aveva insegnato che bisogna nascondere le emozioni, ma quella notte, a Santa Lucia, non ce la feci, urlai e urlai». La lettura del testamento era stata velocissima: Colin Tennant lasciava tutto le sue proprietà nei Caraibi dal valore milionario al suo devoto cameriere, sposato e con quattro figli, il titolo nobiliare all' erede più diretto, il figlio del primogenito defunto, Glenconner Hall al figlio del secondogenito, però già da tempo svuotato di ogni cosa di valore e in cattive condizioni. Nulla agli altri figli e nipoti, nulla alla moglie, che pur essendo primogenita dei Leicester, già non aveva ereditato nulla in quanto femmina. A 87 anni Lady Anne dopo aver vissuto sempre all' ombra di Colin e di Margaret, si trova famosa, continuamente in televisione e sui giornali, e a essere patrimonio di se stessa: le sue memorie stanno per essere pubblicate negli Stati Uniti e in altri paesi, diventeranno un serial e lei sta già scrivendo il suo primo thriller blasonato.

Kate e Will, ascesa dei futuri sovrani. Ora sono loro la forza della Corona. Mai uno scandalo, mai uno scivolone. Con la Megxit salgono le loro quotazioni. Perfetti interpreti della linea di Elisabetta II. Gaia Cesare, Lunedì 13/01/2020, su Il Giornale. Il maggiore, William, 37 anni, più timido e taciturno, ha sempre misurato le sue uscite pubbliche e non è mai finito in uno scandalo. Il minore, Harry, 35 anni, più sfacciato e festaiolo, ha sempre voluto fare di testa sua e ha creato non pochi imbarazzi alla Corona, dalle foto in uniforme nazista per una festa in costume alle immagini nudo in un party privato a Las Vegas. Sono passati 22 anni dall'evento più tragico che possa capitare a due ragazzini, la morte della mamma, la principessa Diana, nell'agosto del '97, quando il primo aveva 15 anni e il secondo appena 12. E nemmeno quella tragedia basta più a tenere unito il filo indissolubile tra i due fratelli e discendenti di casa Windsor. «Will» e Harry prendono strade diverse. Con rammarico del maggiore, che secondo il «Sunday Times» a un amico ha confessato: «Ho protetto mio fratello per tutta la vita. Non posso più farlo. Sono triste per questo. Ormai siamo entità separate». Le parole di William sono il frutto della crisi scatenata da Harry e Meghan con la decisione di abbandonare il proprio ruolo di membri «senior» della Casa reale. Ma l'epilogo, seppur amaro, giorno dopo giorno rafforza la figura di William come futuro sovrano, uomo affidabile, padre amorevole di tre bambini, il miglior continuatore della linea impeccabile di Elisabetta II. Con i suoi modi affabili, la sua capacità di non inciampare mai in uno scandalo e in una sbavatura, William si conferma oggi più che mai il fedele interprete e difensore della monarchia britannica che, in qualità di secondo erede al trono in linea di successione, prima o poi si troverà a rappresentare nel ruolo più importante e complicato. Non è un caso che in questi anni molti sondaggi abbiano chiaramente manifestato la voglia degli inglesi di far saltare un giro nella successione e vederlo sul trono al posto del padre e principe Carlo, figura più controversa. Non succederà. Elisabetta II mai lo permetterebbe. Ma l'auspicio dei sudditi conferma come William si sia guadagnato nel tempo stima e rispetto, trasformandosi da principe un po' scialbo rispetto al fratello Harry, a solido riferimento della Corona, perfetto interprete dello stile di nonna Elisabetta: rigoroso, abbottonato e autorevole. Le sue quotazioni sono esplose con la Megxit. Il «Daily Mail» dice che Will batte Harry 65% a 35% nelle preferenze degli inglesi e la moglie Kate straccia Meghan 73% a 27%. Sembra quasi superfluo precisare che a contribuire all'ascesa di consensi di William sia stata la scelta di sposare Catherine Middleton, ormai per tutti Kate, la nuova «principessa del popolo». Entrambi riservati e misurati quanto si addice all'istituzione che rappresentano, entrambi capaci di ottemperare agli obblighi della Corona senza farli sembrare fardelli, il duca e la duchessa di Cambridge hanno portato a corte una ventata di freschezza e modernità senza proclamare la rivoluzione. Perfetta nel suo ruolo, mai uno scivolone, la commoner Kate, che non ha sangue blu, fin qui si è prestata alle esigenze di Sua Maestà e alle richieste dei media senza battere ciglio e senza mai lasciar trapelare stanchezza e insoddisfazione. Lo ha fatto pur subendo limitazioni e obblighi quanto e più di Meghan. Kate e William hanno capito privilegi e limiti del proprio ruolo, ligi interpreti della filosofia: «Mai lamentarsi, mai spiegare». Come disse la regina consorte alla figlia Lilibet, appena diventata regina dopo la morte del padre Giorgio VI: «Non fare nulla è il lavoro più difficile di tutti e richiederà tutta la tua energia. Essere imparziali non è naturale, non è umano. La gente vorrà sempre vederti sorridere, annuire o aggrottare la fronte. Ma appena lo farai avrai dichiarato il tuo punto di vista, e in quanto sovrana questa è una cosa che non puoi permetterti».

Antonello Guerrera per “la Repubblica” l'11 gennaio 2020. Al volante c'è sempre lei. E anche stavolta risolverà la situazione. La propaganda della "ditta" Windsor ieri ha sfoderato l'immagine chiave, e cioè Elisabetta, per la prima volta in pubblico dopo il clamoroso "divorzio" del nipote Harry e di Meghan dalla famiglia reale. Fazzoletto in testa, sguardo di ghiaccio, rossetto fuoco, alla guida del suo Suv scuro poco fuori dalla tenuta di Sandringham per partecipare a una battuta di caccia in campagna col nipote Peter Phillips, l' unico maschio della figlia Anna. È l'immagine della granitica risolutezza che la Regina, a 93 anni, ancora vuole incarnare. E che oggi, ancora una volta, è necessaria dopo il pasticcio che hanno combinato i duchi del Sussex.

Che cosa farà ora Elisabetta? Se il figlio Carlo e il nipote William sono andati su tutte le furie dopo quell'esplosivo post su Instagram di Meghan e Harry, "l'irritata" Regina ha preso in mano la situazione. «È una persona pragmatica», dice durante un incontro con la stampa straniera a Londra William Hanson, esperto dei Windsor e di etichetta inglese, «e non si abbandonerà a vendette o a punizioni. Vuole risolvere la faccenda il prima possibile. Difatti, ha subito attivato figlio e consiglieri per arrivare a un compromesso ragionevole».

La (rara) telefonata. Non a caso, si è scoperto ieri, la lucidissima Elisabetta lo scorso novembre aveva capito che qualcosa non andava e secondo il Daily Mail avrebbe chiamato personalmente il nipote Harry (di norma non lo fa mai con nessun membro della "ditta") per capire le sue intenzioni per il Natale 2019 in famiglia, poi da lui snobbato per il Canada con Meghan e il piccolo Archie. Forse anche a causa dello sgarbo subito, la foto dei duchi del Sussex non era sul tavolino durante il discorso di Natale della sovrana alla nazione. «Il problema non è tanto quello che hanno fatto Harry e Meghan, ma come lo hanno fatto, in quel modo così distruttivo», spiega Hanson.

Pragmatismo. Ora però, in nome del pragmatismo e del venerato understatement inglese, si arriverà a una soluzione. «Perché Elisabetta sa che non camperà per molti anni. Dopo lo scandalo del figlio Andrea e un annus horribilis come il 2019, vuole lasciare la ditta nel miglior stato possibile», continua Hanson. Dopo la conference call di due giorni fa tra Elisabetta, Carlo, William e Harry, ieri sono continuati i negoziati tra gli staff della famiglia reale, che coinvolgono persino il ministro dell'Interno Priti Patel, perché c'è di mezzo la sicurezza della giovane coppia. I sudditi non l'hanno presa bene: secondo un sondaggio YouGov, il 63% dei britannici crede che Carlo debba smettere di finanziare in toto Harry e Meghan dopo la bravata. Sul Times ieri è filtrata una velata minaccia del futuro re: «Niente assegni in bianco».

"Crisi? Quale crisi?" Ma tutto questo a Meghan e Harry pare importare poco. Ieri, sempre su Instagram, hanno pubblicato le foto di una visita a un'associazione culinaria di madri legata alla strage della Grenfell Tower. E dopo la partenza di giovedì notte di Meghan direzione Canada per tornare dal piccolo Archie, ora pare che Harry la raggiungerà presto, a ogni costo. Anche se la soluzione del pasticcio in famiglia è ancora lontana. Giovedì prossimo Harry ha un impegno ufficiale (rugby). Ci sarà?

Vittorio Sabadin per “la Stampa” il 12 gennaio 2020. Il principe Harry riceverà presto una telefonata dal segretario della Regina, che lo inviterà a Sandringham per un colloquio con la nonna. Ci sarà anche Carlo, convocato dalla sua residenza di Birkhall in Scozia, dove si illudeva di passare qualche giorno di vacanza. Per Harry sarà un brutto momento. La Regina è stata fotografata alla guida della sua Land Rover e aveva un aspetto terribile. È vero che stava andando a sparare qualche colpo ai fagiani, ma gli occhi ridotti a una minacciosa fessura non glieli aveva mai visti nessuno. Ha ordinato che la questione della diserzione dei Sussex sia risolta in 72 ore, anche se Harry e Meghan vorrebbero più tempo per concordare titoli nobiliari, rimborsi spese, finanziamenti, disponibilità di Frogmore House, come se fosse la trattativa di un divorzio. Elisabetta si è probabilmente consultata con il marito Filippo, che le avrà detto di mandare i Sussex al diavolo e non pensarci più. Strategia di lungo termine Meghan è tornata in Canada, ufficialmente perché il piccolo Archie era rimasto nella villa di Vancouver Island, e aveva tanto bisogno della mamma. Lasciarlo lì è stato un colpo di genio, tipico della scaltrezza con la quale Meghan tratta gli affari. Lo hanno confermato molti dei suoi ex amici al biografo David Jones, che ha riportato le loro dichiarazioni sul «Daily Mail». «Era chiaro che sarebbe successo - ha detto un confidente -. Con Meghan o si fa come vuole lei o ci si separa. Vuole sempre essere al centro di ogni relazione; vuole stare sotto ai riflettori, ma alle sue condizioni». «È stata in grado di muoversi in fretta - ha detto un altro - perché tutto questo era pianificato da mesi. Non è un'uscita improvvisa. È la strategia di un gioco molto lungo». L'attitudine di Meghan al «cut and run», al tagliare e correre via, dice chi la conosce bene, ha guidato tutte le mosse della sua vita: ha lasciato gli amici di Los Angeles, compreso il marito Trevor Engelson, per inserirsi in un circolo più elevato in Canada. Ha lasciato il Canada per un altro passo in avanti nella scala sociale, il più grande e ambizioso di tutti: l'ingresso nella Royal Family. Ha provato a farsela piacere per qualche mese, poi si è stancata. «È sensibile alle critiche - ha detto un altro amico - e ha bisogno di costante adorazione». C'è dunque da capirla: alla commemorazione dei caduti l'hanno messa in un balcone più piccolo, lontano dalla Regina e soprattutto da Kate. In teatro i Sussex dovevano stare una fila dietro ai Cambridge e se per caso lei incontrava Kate in corridoio doveva pure farle l'inchino. Come può una diva di Hollywood sopportare tutto questo? Ma sono matti questi inglesi? E poi i giornali. Negli Stati Uniti, se sei ricco e rammoderni la casa, tutti ti fanno i complimenti. In Inghilterra se spendi 2,4 milioni di sterline per fare lavori a Frogmore House, come la sala per lo yoga e la cameretta gender neutral per Archie, ti riempiono di critiche, e vanno a sindacare dove hai preso i soldi. I giornalisti sono una sciagura. Solo Tom Brady, quello che l'ha intervistata in tv, amico di Harry da 20 anni, è uno come si deve: l' ha lasciata dire che «esisteva e non viveva», inquadrando la lacrimuccia, senza chiederle se avesse un' idea di come vive senza esistere la gente comune.

L' aiuto di Oprah. I tabloid che Meghan odia hanno notato che i suoi labrador sono già in Canada, e ne deducono che lei non tornerà più. Archie lo sposti con facilità, ma i cani sono sempre un problema. Gli amici dicono che i Sussex andranno a vivere a Toronto, dove la privacy è così rispettata che se sei una celebrità e cammini per strada nessuno ti degna di uno sguardo. È quello che Meghan vuole? Forse no. Si dice che a scatenare tutto sia stato un collaboratore di Carlo, il quale ha scoperto l' esistenza di un contratto firmato dalla duchessa con la Disney, ufficialmente per aiutare gli elefanti in pericolo. ITV avrebbe poi già messo sul piatto 100.000 sterline per la prima intervista dopo la Megxit, precisando che si tratta solo di un' offerta iniziale. Si dice che Oprah Winfrey, la regina della tv americana considerata il più ricco individuo afro-americano del XXI secolo, abbia consigliato alla sua amica Meghan di lasciar perdere gli inchini e i salamelecchi dei Windsor per venire a sfruttare la sua rinvigorita popolarità in America. Lei le insegnerà come fare, insieme con altri amici come gli Obama e i Clooney. A Londra, la sua popolarità ha invece perso 22 punti, e 20 li ha persi Harry, precipitando dal primo al 5° posto. Carlo e la Regina sono molto preoccupati per lui e si rincorrono le voci su una fragilità mentale che si è cercato finora di tenere a bada concedendogli tutto quello che voleva. Ma concedere a Meghan tutto quello che vuole è un' altra storia. L' hanno già fatto, e non è servito a niente.

Vittorio Sabadin per “la Stampa” l'11 gennaio 2020. Gli uomini contano poco o nulla in questa vicenda della diserzione dei Sussex. Sono tre donne ad avere deciso tutto: due, Kate e Meghan, litigando fra di loro in modo non più sanabile; una, la Regina, non riuscendo a mettere pace come avrebbe voluto, a causa dei suoi 93 anni e della mancanza al suo fianco del marito Filippo. Lui sì avrebbe rimesso le cose a posto, convocando i nipoti e le mogli per un discorso molto franco: quanti ne ha fatti a Sarah Ferguson e a Diana, a Carlo e ad Andrea, per spiegare con il suo linguaggio colorito che l'impegno nella Royal Family è una cosa seria, con la quale non si gioca.

Tutti ricordano quando William, Kate, Meghan e Harry venivano chiamati i «fab four». Erano carini, solidali, partecipavano alle iniziative per combattere le malattie mentali, abitavano nello stesso palazzo. Erano esattamente quello che la gente si aspettava da loro: moderni, simpatici, impegnati socialmente, rappresentavano quanto di meglio la monarchia potesse aspettarsi dal proprio futuro. Ma poi è successo qualcosa: le mogli hanno litigato, e quando le mogli litigano lo fanno anche i mariti, succede in tutte le famiglie. Quello che accade nei palazzi reali resta segreto, ma i domestici a volte si lasciano scappare qualcosa. I giornali hanno scritto che Kate si è messa a piangere dopo le critiche di Meghan al vestitino che sua figlia Charlotte avrebbe indossato come damigella al matrimonio. Dicono anche che Meghan abbia rimproverato il personale di servizio dei Cambridge, incapace di assecondare i suoi capricci da attrice. Dicono che abbia fatto a Kate mille dispetti ai quali lei non poteva rispondere, impegnata com' è a rispettare le regole del palazzo, a non spiegare e non lamentarsi mai. Dicono che Meghan non sopporti più il confronto con la cognata, analizzato dai giornali nei dettagli degli abiti, dei gioielli, dell' acconciatura, dell' aspetto fisico. Certe cose fanno piacere quando vinci, non quando perdi il più delle volte. Meghan ha dunque deciso di sparire e di non sottoporsi più al confronto, forse anche perché si nota che fatica a mantenere la forma. Harry l'ha appoggiata in tutto: odia i giornalisti che considera responsabili della morte della madre e ha dunque accettato chela moglie costruisse intorno a sé un assurdo muro di privacy, come fanno i divi di Hollywood. Kate non si nasconde mai, né cela i suoi figli alla vista dei sudditi. La Regina ha accettato tutto. Ha cercato di aiutare Meghan, concedendole anche il privilegio di un viaggio insieme da sole, per conoscersi meglio. L'ha ripresa quando era il caso, anche lei per le sfuriate dell'ex attrice al personale: «Meghan, voglio che tu sappia che noi non trattiamo la gente così». Ma Elisabetta è stata affettuosa e comprensiva, forse solo un po' preoccupata che la sensibilità di Harry potesse essere travolta da quella donna americana divorziata. Ne aveva già vista una plagiare completamente suo zio David, il re Edoardo VIII, quando lei aveva solo 10 anni. Per questo Elisabetta è stata così colpita dall'annuncio delle dimissioni di Meghan e Harry dalla Royal Family. Mai aveva fatto così tanto per qualcuno, nemmeno per i suoi figli. A 93 anni lei continua a compiere il proprio dovere ogni giorno, e c' è chi scappa dopo solo qualche mese, dopo avere avuto tutto e recitando pure la parte della vittima perseguitata. Meghan ieri è già tornata in Canada, dove aveva lasciato il figlio Archie. Harry resterà in Inghilterra per un paio di settimane, poi la raggiungerà. Ora comincia la vera carriera americana della duchessa e del giovane servizievole principe che si porta dietro come un trofeo. Era andata a Londra chiedendo alle amiche di presentarle «qualcuno di famoso»: dopo un calciatore e un campione di X Factor, ha incontrato quello giusto, e se l' è portato a casa. La missione è compiuta.

Enrica Roddolo per il “Corriere della Sera” il 12 gennaio 2020. Che cosa c' è dietro la scelta di Harry e Meghan di dimettersi da «Senior Royal»? C' è l' insofferenza per i riflettori puntati ogni istante, una sovraesposizione che è il destino dei reali. Ma c' è dell' altro. E quel passaggio in cui la coppia dice di volersi «mantenere da sé» lo conferma. Da mesi a Londra si ragiona infatti su una riorganizzazione in Casa Windsor, una «ristrutturazione» aziendale. In fondo per una famiglia reale definita da Filippo, duca di Edimburgo, la «Firm», ditta, nulla di male. Nell' incertezza globale - non solo nella Londra della Brexit - quante società hanno dovuto riorganizzarsi, o peggio tagliare dipendenti, «snellire» i processi decisionali? È quanto può accadere a Palazzo. Uno sfoltimento della «Firm» accelerato dal caso Epstein che ha travolto il duca di York, Andrea. E dall' annuncio di Harry e Meghan. Tra i temi da tempo sul tavolo della regina c' è infatti quello dei nuovi confini della famiglia reale: oggi ricevono appannaggi in tanti e si discute su come contenerne il circuito. Perché pesa sui contribuenti (anche per la sicurezza). Ma è pur vero che rende ben di più. Quanto? Nel 2017 la monarchia ha generato un volano per l' economia di 1,8 miliardi di sterline. E in fondo, per i contribuenti, la monarchia ha un prezzo low cost: 4,50 sterline a persona, l' anno, per Brand Finance. Il giro d' affari della Corona vale 68 miliardi. E oltre a Crown Estate (migliaia di metri quadri di pregio, da Regent Street a St James' s), i ducati di Lancaster e Cornovaglia, i tesori della Royal Collection e i gioielli per 25,5 miliardi, ci sono Intangible assets per 42 miliardi. Ma anche se rendono i reali, al crescere della famiglia, va delimitato il circuito di «prima linea». Carlo ha fatto capire che, quando toccherà a lui, vuole una struttura ai minimi termini, con William dedicato agli affari interni, Harry al Commonwealth e pochi altri impegnati col mestiere di Royal. Al vertice Nato lo schieramento era già minimal: la regina, Kate (William era all' estero), Carlo e Anna. E se Eugenie di York disse sì in pompa magna a Windsor (criticata per i costi di sicurezza),le nozze della sorella Beatrice nel 2020, saranno low profile. Da tempo Her Majesty, 94 candeline ad aprile, s' interroga sul «dopo di lei». The Way Ahead Group, comitato semi-segreto, indaga sul futuro della Corona con riunioni periodiche. Una sorta di think tank Royal del quale fanno parte Elisabetta II, Carlo, William. Si dice che la regina in queste riunioni abbia fatto capire di non voler andare oltre i 95 anni. Ma come fare se il giuramento della Corona del '53 la vincola fino all' ultimo respiro? Così si sono infittite le voci di una reggenza di Carlo (sempre più presente nella vita istituzionale) che si è premurato a rassicurare che la madre resterà al timone a lungo. «Staffetta anticipata? Non credo a meno che la regina si ammali. Piuttosto sono certo che Carlo farà fare una cura dimagrante alla Firm», conferma al Corriere Laurence Bristow-Smith, diplomatico britannico di lungo corso. Quanto alla regina, dopo il caso Harry e Meghan, sembra decisa a trasformare il problema in un' opportunità: l' occasione per definire gli assetti della Corona per le future generazioni. «Ho lavorato con i royals - continua il diplomatico -: se non sei nella prima linea, come loro, sei fuori dalla successione e la vita è solo protocollo e doveri. Harry ha avuto una carriera militare, lei sul set. Sognano un futuro». Per il Times Meghan ha già firmato un accordo con Disney in cambio di una donazione. «Harry e Meghan hanno agito in modo genuino ma senza pensare alle conseguenze, quanto a una reggenza non ci credo», risponde da Londra lo storico vicino ai Windsor, Hugo Vickers. Mentre The Atlantic li accusa di «ipocrisia, il peggiore peccato per gli inglesi». Perché «come possono fare un passo indietro da Royal e continuare a sostenere the Queen?» Dopo una lettera-dichiarazione di guerra? Già, la guerra. Quando Harry parlò con il Corriere a Roma, tempo fa, apparve chiaro come l' esser stato sotto il fuoco in Afghanistan l' avesse cambiato. Le manca quell' adrenalina? Con gli occhi azzurri attraversati dal ricordo delle azioni contro i Talebani rispose: «Oh no, servire il proprio Paese è molto importante ma a nessun essere umano può mancare la guerra». E anticipò l'idea degli Invictus Games «come le para-olimpiadi ma per soldati feriti in missione. Ho guardato agli Usa, l' idea viene da lì». Anche ora Harry guarda Oltreoceano per il domani. Apertura al mondo presa da Diana. Ma la scelta sul futuro dei Sussexes sarà presa domani nella tenuta di Sandringham dove la regina ha convocato per un vertice straordinario Harry, William e Carlo.

 Le dimissioni da reali di Harry e Meghan, il rammarico di William: «Lo proteggevo, ora non posso più farlo». Pubblicato lunedì, 13 gennaio 2020 su Corriere.it da Luigi Ippolito. Londra La frattura fra i duchi di Sussex e la famiglia reale è innanzitutto una rottura tra fratelli, tra i principi William e Harry. E la riprova la si è avuta ieri, quando il maggiore dei due ha fatto filtrare al Sunday Times, attraverso i soliti anonimi «amici», la sua «tristezza» per il fatto che non sono più «una squadra». «Ho messo il braccio attorno a mio fratello per tutta la nostra vita — ha detto William — ma ora non riesco più a farlo. Siamo entità separate». Anche se l’erede al trono non ha chiuso la porta al più giovane: «Tutto ciò che posso fare — ha aggiunto — è provare a sostenerli e sperare che venga il momento in cui saremo tutti sulla stessa lunghezza d’onda. Voglio che ognuno giochi nella squadra». I pettegolezzi attribuivano le «dimissioni» di Harry e Meghan dalla monarchia ai dissapori tra l’attrice americana e Kate, la moglie di William. Ma in realtà ciò che si era incrinato da tempo era proprio il rapporto tra i due fratelli: perché quando Harry aveva annunciato l’intenzione di voler sposare Meghan era stato affrontato di petto da William, che lo aveva messo in guardia dal prendere una decisione avventata. E il più giovane non l’aveva digerita affatto bene: anzi, se l’era legata al dito. Che qualcosa di grave fosse successo lo si era già capito alla fine dell’estate scorsa, quando nella clamorosa intervista a conclusione del viaggio africano Harry aveva ammesso per la prima volta la «frattura» con William: e aveva fatto intendere che i loro destini stavano per prendere strade diverse. Una separazione tanto più dolorosa se si pensa a quanto i due fratelli fossero accomunati dal trauma della perdita della madre, Diana, quando erano poco più che bambini: e al fatto che si erano sempre sostenuti a vicenda per uscire dal cono d'ombra di quella tragedia. Ma in un certo senso era inevitabile che arrivasse il giorno dell'addio, perché il destino riservato ai due non poteva essere più diverso: futuro re il primo, eterno secondo l'altro. E Harry sembra aver sofferto come non mai di quella sindrome del «principe cadetto» che aveva già guastato l'esistenza della principessa Margaret, la sfortunata sorella minore di Elisabetta. Oggi William e Harry si troveranno per la prima volta faccia a faccia dallo scoppio di questa crisi: sarà nel castello di Sandrigham, dove la regina assieme a Carlo ha convocato un summit di emergenza per provare a schizzare il futuro dei duchi di Sussex (parteciperà anche Meghan, in collegamento telefonico dal Canada, dove si è rifugiata). A corte stanno discutendo se alla fine ci sarà una «hard Megxit» o una «soft Megxit» (sulla falsariga della Brexit): ma sottolineano che è difficile immaginare uno scenario in cui la coppia stia con un piede dentro e uno fuori dalla monarchia. Diverse le questioni sul tappeto: da quale «ruolo ufficiale» i duchi di Sussex potranno conservare al mantenimento del titolo di Altezze Reali, da quanto denaro riceveranno dalla regina e Carlo a che tipo di accordi commerciali saranno autorizzati a concludere. Nella trattativa è coinvolto anche il governo: che avrebbe suggerito di accordare a Harry e Meghan la funzione di «ambasciatori del Commonwealth», con base in Canada. Elisabetta spinge per tempi rapidi: e una bozza di soluzione potrebbe essere resa pubblica già mercoledì.

Gb, il principe William: "Sono stato la spalla di mio fratello per tutta la mia vita. Ora non posso più farlo". Secondo il Sunday Times il duca di Cambridge avrebbe confidato a un amico l'amarezza per la scelta di Harry. Lunedì si attende la resa dei conti nella casa reale: l'incontro tra Elisabetta, Carlo, i due principi e Meghan molto probabilmente in collegamento telefonico. Antonello Guerrera il 12 gennaio 2020 su La Repubblica. "Sono stato la spalla di mio fratello per tutta la mia vita. Ora non posso più farlo. Sono molto triste, la nostra famiglia non è più unita: siamo entità separate adesso". È tutta l'amarezza di William nei confronti del fratello Harry, fatta sapientemente filtrare al Sunday Times di oggi, dopo la clamorosa decisione dei duchi del Sussex di uscire dall'orbita della famiglia reale e di trasferirsi in Nordamerica.  Secondo il settimanale domenicale del Times lo avrebbe detto "a un amico", ma pare piuttosto evidente che si tratti di parole condivise direttamente da Kensington Palace per riprendere Harry, come William ha già fatto in passato più volte, più o meno velatamente, come quando prese un volo low cost dopo la polemica estiva dei voli privati del fratello e di sua moglie Meghan: "Sono triste", avrebbe detto William, "tutto quello che posso fare ora e offrire il mio sostegno e sperare che un giorno potremo tutti riconciliarci".

La resa dei conti domani. Domani intanto ci sarà la resa dei conti nella casa reale, cioè l'incontro tra Elisabetta, che l'ha convocato di persona, insieme al figlio Carlo, William e ovviamente Harry, con Meghan molto probabilmente in collegamento telefonico. Qualcosa senza precedenti nella storia recente dei sovrani d'Inghilterra. La regina vuole risolvere la vicenda nelle prossime "72 ore". Non sarà facile perché ci sono in mezzo tanti nodi spinosi: l'onore della famiglia reale, il ruolo di Harry e Meghan, i titoli nobiliari e soprattutto milioni di soldi pubblici che Elisabetta e Carlo dispensano alla famiglia. Tra l'altro il futuro re da tempo ha annunciato uno "snellimento" dei costi della casa reale, uno dei suoi punti principali della futura reggenza, e dunque la "paghetta" ai duchi del Sussex in futuro sarà questione cruciale. Carlo, sempre al Times, l'ha fatto capire due giorni fa: "Niente assegni in bianco".

Il segretario privato di Elisabetta licenziato? Intanto potrebbe saltare la prima testa per il pasticcio di Harry e Meghan: si tratta Sir Edward Young, segretario privato della Regina e uno suoi dei massimi consiglieri, colui che, tra le altre cose, ha organizzato il cameo di Elisabetta a tema James Bond durante le ultime olimpiadi a Londra. Pare la principessa Anna e il principe Edoardo, figli della sovrana, vogliano farlo licenziare perché, secondo loro, Sir Young avrebbe gestito la vicenda in maniera pessima. Essendo di fresca nomina (due anni fa), non avrebbe avuto la confidenza e la franchezza di mettere al corrente Carlo e William della gravità del caso che stavano scatenando i duchi del Sussex. Al di là delle sue possibili responsabilità, Sir Edward sembra più il capro espiatorio perfetto, la vittima da sacrificare per preservare il nome della "ditta" Windsor in pubblico. 

I britannici contro Meghan e Harry. Diversi sondaggi intanto dicono che i sudditi britannici non approvano affatto la scelta di Harry e Meghan di "divorziare" dalla famiglia reale e chiedono innanzitutto il taglio ai loro "stipendi" e molti anche la revoca dei titoli nobiliari, grazie ai quali i due potrebbero accumulare molti milioni in contratti e apparizioni in giro per il mondo. Pare che la celebre conduttrice tv americana Oprah Winfrey abbia già offerto a Harry un programma sulla salute mentale. Solo i più giovani e i "millennials", secondo queste rilevazioni, sembrano difendere invece la decisione dei ribelli trentenni della casa reale. Segno anche di una spaccatura generazionale - e sociale - del Regno Unito sul caso.

Elton John e la reazione di Filippo. Secondo il Daily Mirror, comunque, Harry e Meghan avrebbero comunicato la decisione di diventare "indipendenti" prima a Elton John (con il quale hanno trascorso quest'estate alcuni giorni di vacanza a Nizza con tanto di polemica sui voli privati) e soltanto successivamente alla Regina, con il cantante che avrebbe provato a rincuorarli e a sostenerli per tutto il tempo. Un'altra, grave rottura dell'etichetta reale che ha fatto "risvegliare" persino il cagionevole principe Filippo, il 98enne marito della Regina, che ha commentato con i suoi collaboratori: "Ma che diavolo stanno facendo questi due?"

 «Si comporta come un ragazzino». Dentro la rottura del rapporto tra Harry e la regina. Stefania Saltalamacchia il 3 gennaio 2020 su Vanity fair. Un tempo non c'era nessuno che potesse far ridere la sovrana come il nipote. Elisabetta II ha sempre avuto un debole per lui ma l'arrivo dell'ex attrice americana ha cambiato tutto. Ecco cos'è successo, tappa dopo tappa. La famiglia reale è riunita a Sandringham. La regina ha convocato Carlo, William e Harry per trovare una soluzione al caso Sussex. La 93enne è ansiosa di trovare una soluzione prima che venga fatto un danno irreparabile al marchio più famoso al mondo: la famiglia reale britannica. Ma potrebbe non essere così facile: i rapporti «danneggiati» all’interno dei Windsor, in particolare quello tra Harry e la regina, potrebbero richiedere molto più tempo.

Sua Maestà, che ha sempre messo la corona e il dovere prima di tutto, sarebbe infatti rimasta molto delusa dal comportamento dell’ex nipote del cuore. «Alla fine ha pur sempre 93 anni e questo è stato un vero shock per lei», ha raccontato una fonte a Vanity Fair America, «Dopo tutto quello che ha fatto per Harry, si sente terribilmente delusa». Elisabetta II infatti avrebbe accontentato Meghan e Harry il più possibile, fin dall’inizio. E il secondogenito di Carlo e Diana ora si starebbe comportando da ingrato: «La famiglia è molto sconvolta per il modo in cui i Sussex hanno agito», ha continuato l’insider al magazine, «Harry ha lanciato una bomba e poi ha lasciato i pezzi da raccogliere alla regina. Si comporta come un ragazzino».

Il loro rapporto adesso sarebbe gravemente incrinato. E pensare che un tempo non c’era nessuno che potesse far ridere la sovrana come Harry. La regina ha sempre avuto un debole per lui. L’arrivo dell’ex attrice americana, invece, ha cambiato tutto. Il loro royal wedding è stato il primo passo. «Elisabetta già all’epoca era rimasta molto turbata da alcune delle richieste di Harry e dal modo in cui le ha fatte». Erano i giorni in cui a Buckingham Palace si vociferava: «Quello che Meghan vuole, Meghan ottiene». Poi c’è stata la questione tiara. La 38enne per le sue nozze ne voleva indossare un’altra, quella pare poi indossata da Eugenie di York sposa, ma The Queen non gliel’avrebbe concessa. Questo ha provocato una terribile lite tra Harry e un membro senior dello staff reale.

Quando i Sussex hanno poi fatto sapere di voler lasciare Kensington Palace, la sovrana è rimasta ancora una volta sorpresa. Harry avrebbe lasciato intendere alla nonna di volere un appartamento al castello di Windsor. Lo staff reale replicò allora con un secco non è possibile: Windsor è la casa di Sua Maestà. Frogmore Cottage divenne un buon punto d’incontro, con una costosissima ristrutturazione per adeguarlo ai gusti di Meghan. Secondo la royal editor Katie Nicholl, Elisabetta II si arrabbiò anche in occasione del battesimo di Archie: la coppia avrebbe comunicato la data allo staff di Sua Maestà senza un sufficiente anticipo. Tanto che la regina aveva già preso un altro impegno e fu costretta a saltare la cerimonia del bis-nipote.

La frattura si sarebbe fatta più profonda a partire dallo scorso agosto. Quando Harry e Meghan decisero di non fare visita alla sovrana durante le sue vacanze estive al castello di Balmoral. I Sussex portarono Archie a Ibiza e a casa di Elton John ma mai in Scozia con il resto della royal family. Anche l’ultimo Natale è stato lontano dalla monarca. Come da tradizione, Elisabetta II ha invitato i Sussex a Sandringham ma non ha ricevuto risposta. Un suo assistente dovette chiamare Harry per scoprire che il nipote avrebbe trascorso le vacanze in Canada.

Da parte loro, i Sussex, che hanno lavorato instancabilmente nell’ultimo anno, non si sarebbero sentiti «pienamente ricompensati». Fonti loro vicine sostengono che i duchi si siano sentiti messi da parte, e questo avrebbe causato del risentimento. Le cose poi si sono fatte più difficili quando le loro foto non sono più apparse sulla scrivania della regina, durante il tradizionale discorso di Natale. Ma da Palazzo respingono l’accusa: Elisabetta II ha fatto di tutto per mettere a suo agio la moglie del nipote.

Raffaella Scuderi per “la Repubblica” l'11 gennaio 2020. «Harry si sta comportando in modo inusuale. Credo che la sua salute mentale sia molto fragile». Penny Junor scrisse la biografia del duca di Sussex sei anni fa e non avrebbe mai immaginato che un giorno, «l' arma segreta dei Windsor» - così lo racconta la scrittrice britannica viste le sue straordinarie abilità di rappresentare la casa reale - avrebbe sparato al mondo la dichiarazione «tragica» di tre giorni fa.

Salute mentale fragile?

«Sospetto che la sua testa in questo momento non sia proprio nel posto giusto. Lui stesso in passato ha parlato di instabilità psichica. Aveva difficoltà ad alzarsi dal letto la mattina. E diciamo anche che non ha mai fatto i conti con la morte di sua madre. Recentemente ha ammesso di andare da un terapista».

Crede sia questa la ragione della decisione di lasciare la casa reale?

«Questa è la ragione per cui ha agito così impulsivamente, senza tenere conto della famiglia. E poi c' è Meghan. Sapevamo tutti che erano infelici. Era ovvio dall' intervista che rilasciarono in Africa a Itv , e dalla denuncia di Harry ai tabloid. Meghan disse di essere ferita per la pubblicità negativa. Harry l' ha voluta proteggere, e ha agito col cuore».

Harry ha chiesto consiglio prima di agire pubblicamente?

«Non credo. Harry si è completamente isolato e non accetta consigli da nessuno. Ha chiuso con la maggior parte dei suoi amici. Non parla con il fratello né con la famiglia. E ora vuole fuggire. È troppo isolato. Non è in sé».

Dati questi presupposti, come lo vede il loro futuro?

«Molto difficile. Andare in Canada non li renderà felici. Se la loro preoccupazione è la cattiva pubblicità, da questo momento in poi questa sarà ancora più cattiva. I nostri tabloid li seguiranno senza sosta, anche laggiù, documentando ogni passo che faranno. In più si sono fatti non pochi nemici tra i media. Si sono scagliati contro il Mirror e il Mail on Sunday e hanno annunciato che non prenderanno mai più parte al Royal Rota (accordo tra la stampa e i Windsor, ndr ). È una deriva molto pericolosa».

Nella loro dichiarazione hanno detto di volersi ritagliare "un nuovo ruolo progressista".

«Non possono pensare di fare i reali part-time. E soprattutto, non sono loro a decidere. La casa reale è come un' azienda, e il presidente è la Regina. Loro tutt' al più fanno parte del consiglio d' amministrazione».

Chi è il più arrabbiato a casa Windsor?

«Carlo, con cui Harry probabilmente aveva stretto un accordo di riservatezza che non ha rispettato».

Principe Harry, problemi con la legge ‘Ha evitato la denuncia’: emerge la verità sul passato turbolento. Alicia Saracino Letto Quotidiano il 07/01/2020. Il Principe Harry ha rischiato una denuncia, ed è sfuggito solo grazie alle sue doti. Ecco cosa è accaduto nei dettagli al Duca di Sussex. Il Principe Harry ha sempre avuto un carattere difficile ed ora emerge un problema con la legge da cui è riuscito ad uscire con mezzi poco ortodossi.

Il carattere difficile del Principe Harry. Già dall’ infanzia il secondogenito del Principe Carlo e di Lady Diana ha mostrato un carattere ribelle e poco gestibile. Soprannominato il Principe Monello, ha rischiato di finire spesso nei guai come ha raccontato lo chef di corte. Anche da adolescente gli aneddoti sulla sua irruenza si sprecano, soprattutto a scuola dove venne anche alle mani con i compagni. Per non parlare dei rapporti con le donne in bilico tra conquiste e rifiuti. Al monello di corte però è sempre stato perdonato tutto perché il Principe ha anche un carattere molto divertente e simpatico.

Il rischio di denuncia sfiorato per Buckingham Palace. Da alcune settimane il Principe Harry non è in Inghilterra e non sta effettuando dei viaggi per impegni reali. Il fratello minore del Principe William e e la moglie Meghan Markle hanno deciso di staccare per un po’ dalla vita di corte a causa dello stress dell’ultimo periodo. Come rivela il Daily Express il Principe Harry però ha un carattere solitamente allegro e che conquista tutti come dimostra un episodio risalente a qualche anno fa. L’episodio è narrato nella biografia “Harry: Conversations with the Prince” di Angela Levin. Grande amante della moto, il Principe Harry stava facendo un viaggio deciso all’ultimo minuto per recarsi a mangiare patatine e pesce nel Kent. Parti dunque insieme alle sue guardie del corpo ma non si curò troppo della velocità e venne fermato da alcuni agenti di polizia locale presso Canterbury. I suoi agenti della scorta in borghese mostrarono i tesserini di riconoscimento ma la polizia non voleva lasciarli andare. A quel punto il Principe prese in mano la situazione e togliendosi il casco convinse gli agenti a dargli solo un’amministrazione con il suo sorriso e i suoi modi simpatici. Chissà se il Principe Harry dopo questo periodo di lontananza riuscirà a recuperare un po’ di quel suo carattere allegro o se si aggraverà il suo stato emotivo.

Da liberoquotidiano.it il 23 luglio 2019. Da anni circolano voci secondo le quali il principe Harry avrebbe voluto in realtà sposare Pippa Middleton, sorella della cognata Kate Middleton, piuttosto che l'attrice Meghan Markle. Un semplice gossip, nato già il giorno del matrimonio del fratello William, il 29 aprile 2011, ma che oggi viene avvalorato da un'autorevole fonte. A parlare sul Sun, stavolta, è direttamente il biografo reale Duncan Larcombe, autore di "The Prince Harry: The Inside Story". Il giornalista afferma che Meghan sia per il principe, in verità, un "surrogato" della donna che avrebbe voluto come compagna di vita. È infatti curioso, continua il biografo, che Harry abbia sposato una ragazza molto simile a Pippa, sia esteticamente sia da un punto di vista caratteriale. Le due giovani donne infatti sono entrambe di origini borghese, amano lo sport e mangiare sano. Lacrombe propone un ulteriore parallelismo a sostegno delle proprie dichiarazioni: Pippa Middleton, nel 2012, ha pubblicato un libro di ricette e consigli per l'organizzazione di eventi , "Celebrate: A Year of Festivities for Families and Friends", mentre Meghan Markle, nel 2018, ha lanciato una raccolta di ricette etniche, "Together", realizzata insieme alle donne che vivevano nella Grenfell Tower, andata a fuoco nel giugno 2017. Infine Duncan passa sotto la lente d'ingrandimento lo stile delle due, alla ricerca di ulteriori punti di congiunzione. Entrambe infatti preferiscono vestire casual nel privato, con jeans e sneakers, ed hanno la passione per i cappelli modello panama. In pubblico invece, Pippa come Megan, prediligono invece abiti femminili e moderni, tenere i capelli sciolti e mettere in evidenza lo sguardo optando raramente per rossetti dalle tinte accese. Due donne sicuramente molto simili, ma il biografo dovrà scoprire altro se vuole dissipare ogni dubbio sul matrimonio mancato.

Antonio Riello per Dagospia il 10 gennaio 2020. Una "breaking news" della BBC che sovrasta perfino i venti di guerra e le bizzarre azioni militari volute da Trump (che non si capisce mai se sono farsa o imminente tragedia): Il Duca e la Duchessa di Sussex hanno dichiarato unilateralmente di volersi mettere da parte ed avere solo una "vita privata". Si parla di futuri lunghi soggiorni americani (probabilmente anche canadesi) e della "volontà di diventare finanziariamente indipendenti dalla Corona". Imbarazzo seccato da parte di Buckingham Palace (piuttosto irrituale) e gogna mediatica da parte dei media (prevedibilissimo). Una valanga di critiche provenienti da ogni parte hanno accolto questa comunicazione ufficiale. Una vera tempesta di "invernale scontento". Mr Graham Smith, portavoce del gruppo di opinione "Republic" che vorrebbe l'abolizione della Monarchia, e altri giornali con poche simpatie per i reali esigono che al dichiarato disimpegno di M&H (l'acronimo scherzoso che qualcuno usa per Meghan e Harry) debba seguire tassativamente l'immediata cessazione di ogni supporto finanziario di origine pubblica. "Niente Lavoro" = "Niente Stipendio". Ci sta. Tra le molte voci critiche, c'è chi ha sollevato pure il problema del costo della loro protezione e sicurezza (sono classificati, in gergo burocratico, "internationally protected people"). Chi se ne deve occupare? E quando saranno all'estero? La loro confusa futura collocazione "dentro & fuori lo status reale" è una novità ancora piena di incertezze procedurali. Anche il recente e costoso restauro di Frogmore Cottage (la loro residenza) fatto con denari del contribuente non sta passando sotto silenzio.  Appartenere alla Royal Family non è precisamente una vocazione, è piuttosto una sublime condanna. Bisogna addestrarsi a lungo e duramente per saper fare un "mestiere" che comporta obblighi, limitazioni e oneri. Nel contempo questo "contratto non scritto" garantisce enormi privilegi che vanno ben oltre quelli di una vita molto agiata. Qualcuno paga per questo costoso standard di vita: sono i sudditi britannici con le loro tasse. E' un capitolo di spesa che tecnicamente si chiama "The Sovereign Grant", nel 2019 è ammontato a circa 82 milioni di Sterline (la continuità e la stabilità di un paese hanno evidentemente il loro prezzo). Ad onor del vero bisogna dire che però nel 2018 la Regina, intesa come mera attrazione turistica, ha portato indirettamente nelle casse dell'economia britannica circa 1,8 miliardi di Sterline. I fondi pubblici effettivamente coprono circa il 5% delle attuali spese dei giovani Duchi essendo il restante 95% coperto dalle rendite personali del rubicondo babbo di lui. Meghan, attrice di successo, risulta comunque avere una fortuna personale stimata sui 5 milioni di Sterline, Harry invece un patrimonio intorno ai 20 milioni di sterline (in pratica l'eredita ricevuta alla morte di Lady D nel 1997). Dunque se la caveranno comunque assai bene, considerando anche la loro forte statura mediatica (di per sè garanzia di possibile altri futuri redditi, se sarà necessario). Dalla parte dei sostenitori della Corona (Il "Times" ad esempio, ma anche "The Mail on Sunday" ai ferri corti personalmente con Meghan) le critiche sono paradossalmente ancora più feroci. Il Protocollo di Palazzo non è stato rispettato e in ogni caso come avrebbero potuto essere più egoisti ed intempestivi in questa loro decisione? A differenza del buon William e della ormai collaudata e prolifica Duchesse of Cambridge, vengono visti in sostanza come dei traditori o nel migliore dei casi come degli ipocriti. Sembrano abbandonare il paese in un momento critico e con la famiglia in serie difficoltà (Sua Maestà non solo è vecchia e stanca, ma la crisi di immagine provocata dalle accuse di pedofilia verso Andrew, il Duca di York, sarà a lungo un problemone non da poco). Le azioni dei Windsor sono al ribasso e se si tenesse oggi un referendum Repubblica/Monarchia probabilmente la vittoria del "Sangue Blu" sarebbe risicata (e di certo i giovani non andrebbero a votare). Vediamo rapidamente di capirne qualcosa, rammentando che la questione in realtà si era già posta ad Ottobre del 2019 quando la coppia, in una discussa intervista dal Sud Africa, aveva fatto trapelare la ferma intenzione di non voler esattamente passare tutta la vita a Corte.

1) Harry è da sempre legatissimo alla memoria della madre e di conseguenza ha sempre sentito la Royal Family come un ambiente in qualche modo freddo e ostile. Il suo maggiore interesse pare sia nel proseguire le iniziative di charity della buonanima, come quella dedicata a combattere l'uso delle mine anti-uomo, attiva soprattutto in Africa (Angola).

2) Le sue possibilità di avere un ruolo davvero attivo nella Royal Family sono ragionevolmente piuttosto remote. Rischia di fare la "bella statuina" per tutta la vita (è attualmente il sesto in ordine di ascensione al trono, ma chissà quanti figli sfornerà ancora Kate Middleton).

3) Si dice che il più giovane figlio di Charles abbia un carattere fragile e che la moglie, più risoluta e carismatica, sicuramente lo influenzi assai. I maligni (non mancano mai) sostengono sia addirittura dominato psicologicamente da lei.

4) L'attrice americana, con una mentalità da star system hollywoodiano, non è proprio in linea con le rigide aspettative di casa Windsor. La recente nascita del piccolo Archie ha certamente incrementato la voglia della Duchessa di Sussex di avere una vita più rilassata e spesa in parte anche oltre Atlantico, lontana da atmosfere noiose e ossessivamente formali. Harry si è adeguato volentieri.

Si potrebbe dire che le loro scelte sembrano assolutamente legittime e sensate. Vogliono semplicemente una vita tutta per loro (e se la possono permettere...) e sono curiosi del Mondo. Alla fine, dove sta il problema? E a chi importa davvero di tutta 'sta storia? E' infatti forte l'impressione che una tale bagarre mediatica sia piuttosto un debole e condiviso pretesto per non-parlare invece di tante annose faccende pratiche che in questi giorni il Regno Unito deve iniziare (con faticca ed incertezza) ad affrontare. Insomma il classico polverone per sviare l'attenzione dai guai veri. Per la cronaca, Il Parlamento di Westminster ha inaspettatamente appena mandato in malora anche gli Erasmus universitari... Ciò che dispiace di più, in prospettiva, è che forse con l'uscita di scena di Meghan Markle si perde un' occasione per un necessario (e probabilmente urgente) restyling della Monarchia Inglese. Lei avrebbe potuto essere un segnale importante. Una futura visione meno britanno-centrica e più aderente alla reale natura multietnica del regno avrebbe magari potuto trovare nelle origine afro-americane della Duchessa di Sussex un importante modello di regale ispirazione.

 (ANSA l'8 gennaio 2020) - Harry e Meghan hanno deciso di rinunciare al loro "ruolo senior" di membri della famiglia reale britannica per avere maggiore "autonomia finanziaria" nelle loro attività pubbliche e di beneficenza. Lo rende noto Buckingham Palace confermando le anticipazioni del Sun anche sull'intenzione dei duchi di Sussex di dividere nel prossimo futuro il loro tempo "fra il Regno Unito e il Nord America". La decisione è stata ufficialmente approvata dalla regina. Harry e Meghan si sentono "emarginati" dalla famiglia reale britannica e stanno pensando di trasferirsi per buona parte del 2020 in Canada. Almeno a dar retta al Sun di Rupert Murdoch, secondo il quale i duchi di Sussex starebbero pure valutando se rinunciare ai loro ruolo ufficiale nella Royal Family britannica e al titolo - del quale entrambi godono di diritto - di Sua Altezza Reale. L'indiscrezione, alimentata da presunti "amici" della coppia citati dal tabloid (particolarmente pungente in questi mesi nei confronti di Harry e soprattutto dell'ex attrice afroamericana divenuta sua consorte nel 2018), non trova in effetti conferme da fonti ufficiali di corte, secondo cui "nessuna decisione" è stata al momento presa. Ma a credere al Sun - che dedica la sua apertura di oggi alla faccenda, relegando nelle pagine interne i venti di guerra fra Usa e Iran nel Golfo - i duchi, rientrati in questi giorni nel Regno dagli Usa, dove hanno trascorso le vacanze di Natale con la madre di lei, intendono avere nei prossimi giorni colloqui sul loro futuro con la 93enne regina Elisabetta e con l'erede al troco Carlo, padre di Harry. L'idea di spostarsi in Canada, se non altro per una parte dell'anno, sarebbe nata dopo l'accoglienza cordiale ricevuta dalla coppia e dal piccolo Archie nel Paese nordamericano: Paese che del resto è tuttora legato alla corona britannica e in cui Meghan ha vissuto ai tempi del suo lavoro da attrice per le riprese della serie televisiva Suites a Toronto. 

La bomba di Harry e Meghan fa infuriare la regina. Elisabetta reagisce così. Giada Oricchio su Il Tempo il 9 gennaio 2020. Lo sgomento della Regina Elisabetta, il disappunto del padre, ma God save Meghan Markle e tutti i suoi capricci. L’8 gennaio Harry e la moglie sono usciti allo scoperto confermando ufficialmente che si dimettono da “senior member” della famiglia reale inglese per vivere tra il Canada e il Regno Unito, ma Buckingham Palace frena. La bomba “Meg-exit” ha lasciato la 93enne Elisabetta “profondamente turbata” e Charles e William d’Inghilterra “furiosi” perché non si sarebbero consultati con il resto della famiglia reale. Hanno fatto di testa propria calpestando il secolare protocollo reale, come sempre. Un esperto degli affari di Buckingham Palace, avrebbe riferito a “The Sun”, il primo tabloid ad anticipare i piani dei ribelli duchi di Sussex, che il comunicato non era stato condiviso con il resto dei Windsor: “La loro decisione non è stata chiarita con nessuno. Rompe tutti i protocolli. Questa è una dichiarazione di guerra alla famiglia. C'è rabbia per come hanno fatto questo senza alcun pensiero per le implicazioni per l'istituzione. La regina è profondamente turbata. Il Principe di Galles e il Duca di Cambridge sono pieni di rabbia. I cortigiani non ci credono. Ci sono così tante domande senza risposta, ma non hanno pensato agli altri. L’uscita doveva essere discussa ed elaborata in modo tale che funzionasse per tutti in famiglia”. Sembra che Harry, 34 anni, e Meghan, 38, abbiano deciso di affrettare i tempi dopo che “The Sun” aveva rivelato i piani dell’exit strategy. Impazienti e frettolosi dopo l’esilio volontario di sei settimane nel Nord America, lo Stato che ha sostituito il Sud Africa come opzione numero uno per la loro fuga. Dopo il comunicato dei Duchi di Sussex, Buckingham Palace è corsa ai ripari sottolineando che i dialoghi erano in una fase iniziale: "Comprendiamo il loro desiderio di adottare un approccio diverso, ma queste sono questioni complicate che richiederanno tempo per essere elaborate". Harry e Meghan avevano tenuto all’oscuro del loro passo indietro non solo la famiglia reale, ma anche i membri anziani del loro staff, d’altra parte vanno di furia, corrono, desiderosi di fare soldi, una montagna di soldi, o come dicono loro “diventare finanziariamente indipendenti”. La fonte del “The Sun” ha rivelato: "Vogliono avviare accordi finanziari il prima possibile. Intendono fare un sacco di soldi e iniziare a fare affari”. Al momento vorrebbero mantenere il titolo di Sua Altezza Reale e Duchi di Sussex, il Frogmore Cottage nella Windsor Estate (appena ristrutturato con 2,4 milioni di sterline dei contribuenti) e le sei guardie del corpo, il cui appannaggio ammonta a 600.000 sterline l’anno. Ma non è chiaro chi pagherà i conti e quale sarà il loro ruolo effettivo. Nel comunicato si fa cenno a un “ruolo ibrido” che tradotto significa che riceveranno ancora la paghetta annuale da 2 milioni di sterline dal ducato di Cornovaglia finché non rinunceranno anche ai titoli reali (cosa che potrebbe avvenire nei prossimi mesi o al massimo entro un paio di anni, nda). “The Sun” ha ricordato anche che la coppia ha già creato una squadra commerciale a Hollywood, incluso l'ex direttore aziendale e società di pubbliche relazioni di Meghan Sunshine Sachs, e che presto lo staff inglese sarà congedato: "È un modo scioccante di trattare le persone” ha detto la fonte del “The Sun”. E c’è anche una piccola curiosità: l’ex attrice non indossava la fede nuziale poche ore prima dell’annuncio delle “dimissioni”. Insomma, Meghan e Harry sono i Wally Simpson e Edoardo VIII 3.0 e le americane non portano fortuna alla Corona inglese. Il terremoto era stato ampiamente annunciato, ci sono state molte avvisaglie: la decisione di Harry di denunciare i tabloid per il gossip, le sei settimane sabbatiche in Canada, la volontà di vivere a Frogmore Cottage lontano da William e Kate, la preoccupazione di William per la “fragilità” del fratello, l’esclusione dalle fotografie di Natale, l'uscita ufficiale di un nuovo ritratto con la regina, il principe Carlo, il principe William e il principe George e la storica frase di Harry: “Quello che Meghan vuole, Meghan ottiene”. Non a caso i tabloid puntano il dito contro il ciclone Markle anche se dimenticano che qualche anno fa, il secondogenito di Lady Diana dichiarò di desiderare "una vita normale" e di aver pensato di rinunciare al titolo di Altezza Reale: "Ho sentito che volevo uscire, ma poi ho deciso di rimanere e trovare un ruolo per me stesso". E partì militare per l'Afghanistan. Se la Regina Elisabetta è sul piede di guerra, specie dopo aver pagato 43 milioni di sterline per il matrimonio di un anno e mezzo fa, il padre di Meghan, che non ha mai conosciuto il piccolo Archie, si limita a definirsi “deluso” dando modo alla stampa britannica e americana di sottolineare come la Markle abbia instaurato rapporti familiari complicati: non parla al padre, ai fratelli e alla sorella. Si salva solo la mamma Doria. 

Evviva Meghan Markle, quanto è bella la monarchia quando fa casino. Paolo Guzzanti il 15 Gennaio 2020 su Il Riformista. In Italia forse pochi si rendono conto del trauma e dello scandalo causato dalla decisione di Meghan Markle, la bella moglie “birazziale” del principe Harry, di fare le valigie, uscire dalla Royal Family, e i dorati castelli di casa Windsor e stabilirsi in America con pupa al seguito, senza stipendio e senza doveri istituzionali. Parenti, sì, ma alla lontana. È un fatto del tutto inconsueto, ma perché è così esplosivo? Che cosa c’è dietro? Dietro, c’è proprio il fatto che Meghan sia una nera che sembra bianca. Ma che invece è proprio nera ed orgogliosa di esserlo. Poi, c’è il denunciato bullismo dei due primi principi della successione, William e Henry, i quali sono sospettati di aver alimentato la caccia alla strega Meghan Markle attraverso i feroci tabloid londinesi. Meghan se lo aspettava: “Amici inglesi mi avevano sconsigliato di venire, perché la Gran Bretagna sotto un mantello di political correctness è in realtà un Paese razzista con nostalgie imperiali”. Dichiarazione che ha scatenato putiferi e mobilitato anche le femministe americane. Meghan è una attrice della serie Suits – avventure legali e sentimentali – famosa da otto anni. Inoltre, è schierata con la sinistra liberal americana, odia Trump con tutte le sue forze creando imbarazzi a Corte (dove la pensano quasi sempre come lei ma non possono dirlo) e infine non ha alcuna intenzione di finire la sua vita come una duchessina guardata come una curiosità zoologica: un broadcaster della BBC è stato licenziato proprio per aver pubblicato una immagine di Meghan con in braccio un piccolo scimpanzé. E proprio i tabloid l’hanno fatta a pezzi con centinaia di fotografie in cui lei incinta col pancione aveva sempre una mano sul pancione. Fra le righe si suggeriva che la ragazza provenisse da comunità in cui la gravidanza è vissuta con posizioni e gesti più vicini a una comunità tribale che reale. Così Meghan ha posto un ultimatum al marito: o mi porti fuori da questo Paese che mi dà angoscia o il nostro matrimonio finisce male. La voce è corsa subito a Corte ed è cominciato un periodo litigioso e violento. Carlo, padre di Harry, è furioso col figlio cui ha regalato una fortuna affinché si sistemasse comodo e che si fa soggiogare dalla moglie americana che non capisce quanto siano importanti le sue responsabilità e quanto costoso il suo mantenimento. La vecchia regina l’ha presa male ma con calma: ne ha viste di tutti i colori da quanto Edoardo, fratello di suo padre, preferì l’americana divorziata Simpson al trono, abdicando e finendo persino nelle braccia di Hitler. E poi ha vissuto la stagione degli scandali e degli amori della sorella Margaret bella, sexy, spiritosa e che le rubava la scena. Anche con il marito Filippo dovette accettare il fatto di trovare il suo nome fra quelli dei clienti di una casa d’appuntamenti frequentata da agenti sovietici. Poi la lunga vicenda di Carlo e Diana, Carlo e Camilla, Diana e i suoi amori e morte nell’apocalisse e nell’apoteosi di un genere di principessa di casa reale ancora sconosciuto anche nelle fiabe. Infine, buona ultima, la vicenda dell’inqualificabile ultimogenito principe Andrew, sospettato di essere nel giro dello sfruttamento del sesso minorile gestito da Epstein, che non ancora contento, ha gettato frango su tutta la famiglia con una miserabile intervista alla BBC. Ma proprio Elisabetta che ne ha viste di tutti i colori, oggi è l’altra protagonista della storia nata con l’ingresso in casa reale di una attrice nata e cresciuta nei sobborghi neri di Los Angeles, divorziata, che considera gli inglesi in gran parte dei colonialisti razzisti.  Oggi anche i più convinti repubblicani – e persino gran parte dell’opinione pubblica americana anche di origine irlandese – ammettono che la monarchia Windsor è un prezioso ammortizzatore della democrazia e che in definitiva, per quanto sia costosa, rende in termini di prestigio anche e specialmente perché sa affrontare gli scandali che la rendono molto popolare, più che hollywoodiana, e questa sembra essere la tradizione e il destino degli Windsor, i quali non si chiamavano affatto Windsor ma Sassonia-Coburgo-Gotha e che un secolo fa dovettero imparare a vivere e sopravvivere fra scandali e minacce. All’inizio della Prima guerra mondiale quando dagli Zeppelin facevano piovere su Londra bombe che portavano inciso lo stesso loro nome tedesco, si ribattezzarono Windsor e lavorarono per crearsi un’immagine popolare e persino plebea, visto che l’aristocrazia li snobbava. Re Giorgio impedì nel 1917 a suo cugino lo Zar Nicola secondo (suo sosia e quasi gemello) di rifugiarsi a Londra perché i sudditi inglesi lo volevano morto e lasciò che finisse trucidato dai bolscevichi. La storia di Edoardo e della divorziata americana Wallis Simpson è nota: fu per causa sua che finì al trono il povero Bertie, padre di Elisabetta, balbuziente e goffo che non ne voleva assolutamente sapere (sulla sua incapacità di parlare fu realizzato il film The King’s speech) sconvolgendo la linea di successione. Linea che, tuttavia, ha retto proprio grazie alla ragazza Elisabetta che nei documentari si vedeva un po’ scapigliata mentre giocava a pallavolo coi marinai della Royal Navy durante il viaggio di ringraziamento ai sudditi africani che avevano combattuto per il Regno. Oggi si è confermata una super istituzione: ha preso il controllo della procedura con cui stabilire ruoli, conti, proprietà e le regole con cui proteggere il copyright di famiglia, “the firm” la casa reale. Ha imposto una simulazione: i due dimissionari possono stabilirsi in Canada, che è sempre un pezzo di cuore inglese. Almeno all’inizio. Tutti sanno che Meghan vuole tornare a Los Angeles, ma dovrà farlo per gradi. Intanto, i canadesi si sono sentiti investiti dalla tentazione di accogliere un prolifico ramo mezzo americano della Royal Family e discutono di un imprevisto sogno sbocciato su media: avere una coppia reale regnante. Ancora più incredibile è che dai domini britannici nei Caraibi si levino forti voci di protesta su giornali e social: «La duchessa nera è sangue del nostro sangue, la vogliamo nostra leader e sovrana». E ieri il compassato Wall Street Journal, il tempio cartaceo degli affari e dei repubblicani, suggeriva una rivalutazione della monarchia costituzionale capace di bilanciare le passioni e garantire dignità democratica. È una enormità se si pensa che gli Stati Uniti sono stati la prima Repubblica democratica al mondo, per questo detestati da tutte le teste coronate, e questa è la ragione per cui la First Lady non è banalmente la moglie del Presidente, ma una regina consorte, con funzioni e rango nelle istituzioni. C’è da considerare anche che gli americani degli Stati Uniti detestano, ricambiati, gli americani del Canada. Quando fecero la rivoluzione, i lealisti monarchici fuggirono in Canada come i controrivoluzionari francesi nella Vandea. E nel 1812, quando gli inglesi attaccarono le loro navi perché non rispettavano il blocco dei porti nella guerra contro Napoleone, gli americani tentarono vanamente di conquistare il Canada. Lunga storia, ma geneticamente attiva anche nella memoria. E oggi, grazie alla “birazziale” Meghan e al suo amabile duca, Harry, la competizione si è risvegliata fino a trasmettere le sue onde emotive sui media australiani e persino in India dove i notiziari trattano la vicenda dei due dimissionari membri della casa reale, come un fatto della loro storia interna. Ci saranno strascichi, querele dei principi contro giornali e giornalisti ficcanaso, pettegolezzi sul tesoro e gli affari, e poi la coppia comincerà probabilmente a pendolare finché, dopo la successione di Elisabetta, probabilmente, si stabilirà in America – Stati Uniti e Canada – dove agitare discussioni finora impensabili nelle ex colonie e nel Commonwealth, se sia meglio un presidente o un duca, una principessa dal genoma multiplo o una democrazia fatta solo di apparenze formali e scialbe, visto che a quanto pare la gente adora divertirsi con le regge e le teste coronate, purché facciano casino, facciano discutere e facciano vendere i tabloid popolari e scoppiare o social.

Gb. I Tabloid contro Meghan Markle: "Una diva bizzosa" che vuole "governare il mondo". RaiNews il 10 gennaio 2020.   Una guerra - quella con la stampa inglese - che dura da 4 anni. All'inizio la definirono una "sfacciata divorziata", poi una ragazza dal "tocco volgare". Quando a giugno scorso la Duchessa con Harry lasciarono la Royal Foundation, gli organi di stampa, l'hanno attaccata ferocemente, definendola: "Megxit". William 'rattristato'. Domani vertice di famiglia a Sandringham Tweet 12 GENNAIO 2020 L'ultimo attacco è di questa mattina, sul 'Daily Mail': "Meghan era in missione per mettersi il principe in tasca e governare il mondo", titola il giornale che continua a tenere alta in prima pagina la storia del 'divorzio' dei Sussex dalla famiglia reale. Ma quella tra l'ex attrice americane e i tabloid britannici è una guerra che dura dall'inizio. All'inizio la definirono una "sfacciata divorziata", poi una ragazza dal "tocco volgare". Quattro anni dopo, con l'annuncio, l'8 gennaio, dell'uscita dalla famiglia reale, per Meghan Markle, 39 anni, californiana figlia di padre bianco e madre nera, non sarà la fine del più lungo assedio dei tabloid inglesi a un membro della famiglia reale, ventidue anni dopo la morte della madre di Harry, la principessa Diana, durante una fuga per seminare i paparazzi a Parigi. Meghan resterà l'obiettivo del futuro, come lo è stato fin dal primo giorno, quando aveva incontrato, nel 2016, il principe Harry. Subito erano arrivati i primi rumors sul presunto fidanzamento. I tabloid avevano raccontato dell'acquisto insieme di un albero di Natale a Londra, poi di un viaggio in Norvegia fino alla volta in cui erano stati visti tenersi la mano durante il matrimonio di un amico in Giamaica. Fu proprio Meghan, rompendo ogni protocollo, a rivelare che tra lei e Harry c'era più di un'amicizia. Fu quando, nel 2017, in un'intervista a Vanity Fair, confesso': "Siamo due persone molto felici e innamorate". Due mesi dopo, l'annuncio ufficiale. Da quel punto l'attacco dei tabloid si è fatto più assiduo. Il Daily Mail aveva pubblicato una storia dai contenuti razzisti in cui sottolineva come la famiglia di Meghan fosse passata in un colpo dalle "origini di schiavi a quelle regali".  Il matrimonio, nel maggio 2018, aveva segnato un altro strappo: nella cappella millenaria nel castello di Windsor era risuonato il sermone di un vescovo afroamericano e un coro gospel. La cerimonia, secondo la Bbc, venne seguita da due miliardi di persone, ma non dal padre della sposa, Thomas, 73 anni, ex direttore delle luci a Hollywood, che si era tenuto lontano dopo gli attacchi dei giornali, che lo avevano dipinto alla stregua di un losco arrivista. Era toccato al principe Carlo assumersi gli onori paterni. In mezzo agli attacchi dei giornali, i due sposi avevano annunciato l'attesa per il loro primo figlio e Meghan, puntualmente, era finita nel mirino per aver mostrato con orgoglio il pancione e aver preso un aereo a gravidanza ormai quasi ultimata. Quando nel novembre 2018, la coppia annunciò che avrebbe lasciato a residenza di Nottingham Cottage, nella proprietà di Kensington Palace, dove vive il fratello di Harry, William, i tabloid attaccarono Meghan definendola una "diva bizzosa". Ad aprile dell'anno scorso, i giornali avevano fatto i conti in tasca alla coppia, quantificando il costo degli arredi nella nuova casa: tre milioni. A giugno il duca e la duchessa del Sussex avevano lasciato la Royal Foundation, primo segnale della decisione clamorosa che sarebbe arrivata a inizio 2020: quella di voler diventare indipendenti dalla famiglia reale. Meghan è diventata"Megxit". La notizia che potrebbe aver sottoscritto un accordo con la Disney ha indignato i media inglesi e convinto i sudditi reali che questa giovane divorziata era proprio un corpo estraneo alla tradizione reale. Se Winston Churchill una volta disse "Abbiamo sempre trovato gli irlandesi un po' strani. Si rifiutano di essere inglesi", con un'americana di sangue afro la distanza è apparsa ancora più incolmabile. La beffa, per loro, è che dopo averla vista uscire dalla porta principale, potrebbero ritrovarsela nelle case: tra i progetti per Meghan ci sarebbero apparizioni televisive o cinematografiche. Per lei un ritorno al passato, per gli inglesi un incubo. Domani vertice di famiglia a Sandringham La regina Elisabetta e il principe Harry si incontreranno domani - lunedì 13 - per discutere il futuro del duca di Sussex e della moglie Meghan, che avevano dichiarato di voler diventare  indipendenti rinunciando al ruolo nella famiglia reale. Il negoziato, il cui esito è incerto secondo la Bbc, potrebbe vedere la nascita di una nuova relazione con la famiglia reale, ma esistono, spiega ancora il corrispondente da Buckingham Palace Jonny Dymond, "ostacoli significativi". Il vertice di famiglia si terrà a Sandringham. Una charity in stile Obama nel futuro dei Duchi di Sussex I Duchi di Sussex dovrebbero lanciare la loro nuova fondazione ad aprile sul modello di altre organizzazioni no profit fondate da vip e super-ricchi d'Oltreoceano. Probabilmente aspetteranno fino all'inizio del nuovo anno finanziario britannico per svelare i loro piani e fondare una 'charity' del tipo di quelle guidate da Barack e Michelle Obama, Bill e Hillary Clinton, George e Amal Clooney e Bill e Melinda Gates William rattristato: "Voglio che siamo tutti nella stessa squadra" William intanto - secondo indiscrezioni riportate dal Sunday Times - sarebbe molto triste per quello che sta accadendo. Parlando con un amico avrebbe detto: "Ho tenuto il mio braccio attorno a mio fratello per tutta la vita, adesso non posso più farlo, siamo entità separate". Ed ha aggiunto: "Tutto ciò che possiamo fare, tutto ciò che posso fare è tentare di sostenerli e sperare che arrivi il giorno in cui saremo di nuovo ttti sullo stesso tono. Io voglio che siamo tutti nella stessa squadra".

Il ciclone Meghan alla corte di Londra. Gaia Cesare su Il Giornale il 10 gennaio 2020. Da quando ha messo piede nella Casa reale, appena due anni fa, è stata un ciclone. Nella prima uscita pubblica col principe, da fidanzata, agli Invictus Game in Canada, si è presentata in jeans strappati, tenuta molto poco regale. Allora Meghan Markle aveva 36 anni, oggi ne ha 38. Era già divorziata, tre anni più di Harry e subito fece discutere: un’americana, figlia di un’afroamericana, si avvicinava alla più ambita Casa reale del mondo (ma negli Usa la scambiavano spesso per un’italiana, ha raccontato). Alle nozze in pompa magna con Harry, nel maggio 2018, ha deciso di rompere con la tradizione e di non pronunciare la formula di “obbedienza” al marito, a differenza di Kate con William e della regina Elisabetta II con Filippo. Poi la nascita di Archie: nessuno è stato avvisato che il piccolo stesse per arrivare la notte del parto e la mamma è andata in ospedale in gran segreto, in un’auto guidata dal marito Harry. Paparazzi e giornalisti fregati. Nessuna apparizione pubblica a 24 ore dalla nascita, con il pupo in braccio (come ha sempre fatto Kate), ma una fugace presentazione tre giorni dopo. Obiettivo: preservare il piccolo dagli occhi invadenti di giornalisti e fotografi e parlare direttamente alla gente, con l’account Instagram “Sussex Royal”. Fino alla decisione di curare un’edizione di Vogue nel settembre 2019, dove ha messo in copertina solo donne, tra cui Jane Fonda, per il suo coraggio di parlare di stupro, la prima ministra neozelandese Jacinda Ardern, che ha governato incinta della sua prima bimba, e paladine per i diritti omosessuali e contro il razzismo. Tutto sotto il titolo: “Forze per il cambiamento”. “Capricci di una donna attaccata solo alla fama”, dice chi la denigra, tabloid inglesi in testa. In realtà sono i segnali di una rivoluzione che Meghan Markle e lo sposo Harry hanno portato nella Casa reale inglese, sempre attenta a non entrare nel vivo di questioni divisive e a non esprimere mai opinioni su temi controversi. Piccoli-grandi passi che hanno svecchiato la monarchia inglese scaraventandola nel nostro tempo molto più di quanto abbiano fatto Kate e William. E che le hanno restituito umanità, con ammissioni pubbliche che solo Diana si era permessa di fare. Harry ha confessato al mondo di aver sofferto di problemi mentali dopo la morte della madre (“Mi hanno salvato lo psicologo e la boxe”, ha ammesso) e lei ha detto chiaramente in un’intervista sulla vita a corte: “È dura, io e Harry esistiamo, non viviamo”. E anche questa non è proprio cosa da nulla. Nata a Los Angeles 38 anni fa, da una famiglia comune (la madre è un’insegnante di yoga, il padre divorziato è un pensionato che ha lavorato in tv come direttore luci, nella foto a destra con lei), Meghan è diventata attrice di successo con la serie Suits e blogger dai grandi numeri con il suo The Tig (costretto a chiudere dopo il fidanzamento con Harry). Una donna che ha sempre saputo cosa voleva e come prenderselo. A 11 anni scrisse alla multinazionale Procter and Gamble lamentandosi per una pubblicità sessista. E dopo la sua richiesta lo spot venne modificato. In un discorso pronunciato all’Onu nel 2015 disse: “Sono fiera di essere donna e femminista”. Un concetto che ha ribadito nel 2018, sempre alle Nazioni Unite: “Femminismo significa equità”. Ed eccoci a questi giorni. Con la decisione-shock di “fare un passo indietro come membri senior della Famiglia reale”, di lasciar perdere gli impegni ufficiali di Corte, di vivere parte del tempo in Canada e Stati Uniti, ma soprattutto di trovare “l’indipendenza economica”, Meghan conferma la coerenza della sua biografia e Harry la sua intenzione di uscire dal castello dorato per trovare la sua strada. La duchessa non ha voglia di fare da soprammobile o da manichino a Londra. Vuol far sentire la sua voce ovunque, vivendo in un ambiente che le somiglia di più, quello americano e canadese, e che le è di certo meno ostile. In fondo vuole fare “politica”, nel senso di voler incidere nel sociale potendo esprimere liberamente le sue idee e decidere su quali battaglie impegnarsi. Con Harry vuole combattere le iene dei tabloid che uccisero Diana per strappare una foto e da due anni a questa parte inseguono e massacrano lei. Intende fronteggiare il razzismo di cui è stata vittima (sui social e sui giornali scandalistici) e che Harry ha già denunciato. Punta a difendere la sua privacy, decidendo – come una star e non come un membro della Casa reale – cosa esibire e cosa no. Di fatto vuole tornare alla sua normalità (vedi la copertina del New York Post in bigodini e sigaretta), per quanto normale possa essere la vita di un’ex attrice amica dei grandi vip, da Serena Williams a George Clooney e moglie di un principe (sesto erede al trono ma probabilmente mai Re). Insomma, la Famiglia reale perde un pezzo, anzi due, il mondo guadagna due star e due voci. Magari insignificanti, chissà, ma il pubblico deciderà se ascoltarle. Senza passare prima dalla censura del Palazzo.

Riccardo Luna per repubblica.it il 10 gennaio 2020. Quello che resta della clamorosa scelta di Harry e Meghan di lasciare la famiglia reale britannica è una formidabile lezione di marketing digitale. E non solo perché l’annuncio che ha fatto infuriare la regina è stato fatto tramite un post su Instagram, “come Tommaso Paradiso quando ha lasciato i The Giornalisti” ha commentato qualcuno su Twitter; o come la Isoardi quando ha piantato Matteo Salvini. A parte il momento finale, che è stato anticipato per bruciare i tabloid inglesi che avevano annusato lo scoop e che hanno consentito solo di mandare una mail di cortesia con il testo al padre e al fratello di Harry dieci minuti prima dell’annuncio, è evidente che la mossa era stata pianificata da tempo: almeno da 2 aprile scorso, giorno del debutto dell’account @SussexRoyal su Instagram: quell’account esisteva già, da tre anni lo gestiva un istruttore di scuola guida del Sussex al quale Instagram lo portò via senza neanche avvertirlo. Lo stesso è accaduto per l’account Twitter, detenuto dalla medesima persona, che però Harry e Meghan tengono silente: serve solo a rimandare al profilo Instagram dove oggi hanno più di 10 milioni di followers: tanti, ma non tantissimi. Se la prima mossa è stata impadronirsi dei profili social SussexRoyal, la seconda, in estate è stata registrarne il marchio: è stato fatto tramite intermediari che ne hanno trasferito la proprietà alla coppia a dicembre. Nel frattempo era partita la lavorazione del sito, affidata ad una agenzia canadese che in passato aveva già lavorato con Meghan quando era una attrice. Il sito è andato online l’8 gennaio assieme al famoso post di Instagram, al quale era linkato. E’ un sito elegante, semplice, non banale perché ha una importante sezione di domande e risposte che punta a chiarire esattamente cosa è accaduto e cosa accadrà; in particolare punta a rispondere alla domanda “come hanno campato finora? E come camperanno da oggi in poi?”. Lavoreranno, pare. Si guadagneranno da vivere. Come? Non si sa ancora, ma qualcuno ha calcolato che con 10 milioni di followers già adesso un loro post sponsorizzato può valere tra i 20 e i 30 mila euro. Non è abbastanza per chi ha un tenore di vita come il loro ma i social hanno creato miliardari dal nulla. In fondo, lo abbiamo capito, è un attimo a passare da erede al trono (seppure in sesta fila) a influencer. Un giorno sei a Buckingham Palace e il giorno dopo ti ritrovi a fare post sponsorizzati come una qualsiasi delle sorelle Kardashian. Harry e Meghan possono fare di meglio, la costruzione attenta della loro identità digitale lo dimostra. Ma se il loro obiettivo era anche scappare dai paparazzi e dai tabloid inglesi, rischiano di scoprire che certi troll sui social sono anche peggio. 

Luigi Ippolito per il “Corriere della Sera” l'11 gennaio 2020. La macchina da soldi di Harry e Meghan si è subito messa in moto: e i duchi di Sussex, che hanno già registrato il loro marchio, potrebbero diventare miliardari nel giro di un decennio. «La loro potenzialità di guadagno è illimitata», ha commentato al Daily Mail l' esperto di pubbliche relazioni americano Ronn Torossian. La coppia, fin dall'annuncio di volersi di fatto «dimettere» dalla famiglia reale, ha spiegato di voler «diventare finanziariamente indipendente». Come questo possa funzionare resta ancora da capire: perché dal loro nuovo sito, messo subito online, pare di intendere che vogliano anche continuare ad avere un qualche ruolo ufficiale. «Loro sembrano essere un po' naif su come questo possa funzionare - commenta a Londra l' esperto di questione monarchiche William Hanson - . Non possono avere la botte piena e la moglie ubriaca». Anzi, come l' ha messa giù più crudamente una commentatrice del Telegraph , «essere reali è un po' come essere vergini: non lo si può restare solo un pochino». Ma dove Harry e Meghan stanno spingendo decisamente l' acceleratore è sulle sponsorizzazioni: hanno già registrato il loro marchio su oltre un centinaio di prodotti, incluse felpe, calzini, matite e segnalibri. E le possibilità sono infinite: «Lei potrebbe sostenere prodotti o avere una propria linea di bellezza - sottolinea al Mail James Henderson, il pr che in passato ha dato consigli a Madonna e Naomi Campbell -. E potrebbero perfino lanciare un canale televisivo negli Stati Uniti». Il loro cachet per tenere discorsi sarebbe di diverse centinaia di migliaia di dollari alla volta: con uno speech al mese a testa, porterebbero a casa svariati milioni l' anno. Ma anche una loro semplice apparizione a un evento, senza dover far nulla, frutterebbe almeno centomila dollari a colpo. Il grosso dei guadagni verrebbe però dalle pubblicità sui social media e dalle sponsorizzazioni di marchi: cose che frutterebbero, secondo le stime degli esperti, anche 15 milioni di sterline l'anno. «Direi che oggi la sola Meghan in comunicazione potrebbe valere un milione di dollari al giorno - si sbilancia Luciano Nardi, uno tra i più noti pubblicitari italiani - senza considerare gli introiti che potrebbero originare dall' attività come social influencer per grandi marchi, prime fra tutte le maison di moda e i grandi brand della cosmesi». «Riteniamo che la mossa, intuitivamente governata da Meghan, di lasciare la Casa reale sia di grande astuzia - fa rilevare Stella Romagnoli, direttore generale per l' Italia dell' Associazione internazionale dei pubblicitari -. Infatti oltre all' indipendenza i due ragazzi guadagneranno molto di più, tantissimo, in termini di contratti pubblicitari. So di colleghi, soprattutto americani, che avrebbero pronto un assegno con moltissimi zeri, in particolare per Meghan, che potrà anche riprendere la sua carriera di attrice. E credo che a Hollywood siano già pronti a un' asta al rialzo». C'è poi il versante editoriale. Gli Obama hanno ricevuto per i loro libri un anticipo di quasi 50 milioni dollari: se Harry e Meghan decidessero di scrivere le loro memorie, le case editrici li coprirebbero d' oro. Ma il «botto» lo farebbero se riuscissero a diventare «ambasciatori» di marchi come Google o Apple, che potrebbero pagarli anche 50 milioni a testa. Un salto di carriera notevole per tutti e due: che tuttavia già adesso non se la passano male. Harry incassa infatti dal padre Carlo una «paghetta» annuale di due milioni di sterline, che derivano dagli introiti del Ducato di Cornovaglia (di cui il principe di Galles è titolare). Inoltre il giovane principe può contare sui 20 milioni di eredità ricevuti dalla madre Diana e sui sette milioni che gli sono stati lasciati dalla regina madre (la sua bisnonna). Invece il patrimonio di Meghan è stimato in «soli» 4 milioni, di cui la metà le sono arrivati nel corso di sette anni per aver girato la serie televisiva Suits . Il resto lo ha guadagnato con altri film e con il suo blog The Tig. Ma adesso, grazie alla neonata Sussex S.p.A. , avrà modo di rifarsi ampiamente.

DAGONEWS il 9 gennaio 2020. Non c’è nessuno in Gran Bretagna che sta “godendo” come Piers Morgan, giornalista e personaggio televisivo, che da qualche tempo infilza Harry e la moglie Meghan Markle, accusandoli di essere due viziatelli che non hanno capito cosa voglia dire far pare di un’sitituzione millenaria come la corona inglese. E così dal Daily Mail lancia un lungo e dura attacco contro la coppia all’indomani della “Megxit” in cui, senza peli sulla lingua, torna a sderenare i duchi di Sussex come aveva già fatto su Twitter pochi istanti dopo l’annuncio delle “dimissioni”. «Chi cazzo pensano di essere? Sul serio? – tuona Morgan - Ho visto alcune buffonate reali vergognose ai miei tempi, fatte per pura arroganza, avidità e irriverenza, ma nulla ha mai eguagliato il comportamento del "Duca e Duchessa del Sussex". Ho messo le virgolette perché spero sinceramente che non esistano più per molto tempo ancora. In effetti, se fossi Sua Maestà la Regina, toglierei senza tante cerimonie a Harry e Meghan tutti i loro titoli con effetto immediato e li spedirei di nuovo alla vita da comuni mortali. Questi due pagliacci illusi hanno annunciato ieri che stavano abbandonando la vita come reali. In una serie di dichiarazioni incredibilmente pompose sul loro scintillante nuovo sito in stile Hollywood, hanno dettato legge alla Regina e al resto di noi su come le cose dovrebbero funzionare da questo momento in poi. Per riassumere, vogliono smettere di essere "reali" con tutti i noiosi doveri che comporta e vogliono essere una forza "progressista all'interno dell’istituzione". In altre parole, vogliono essere delle celebrità che riescono a mantenere tutti i vantaggi della vita reale senza le parti dure e noiose. Quindi, vogliono lo sfarzo, il glamour, lo splendore e la stupenda ricchezza ... semplicemente non vogliono guadagnarselo davvero. […] Oh, e cercheranno di essere "finanziariamente indipendenti". È solo quando leggi i dettagli di questa “indipendenza” che ti rendi conto di cosa significhi in realtà. Vogliono vivere con i soldi del padre di Harry, del principe Carlo e dal suo ducato di Cornovaglia, che possiede solo per diritto di essere l'erede della regina. Ci hanno anche informato che intendono continuare a vivere gratuitamente, quando onoreranno il Regno Unito con la loro stimata presenza, a Frogmore Cottage, la loro sontuosa casa a Windsor che è stata loro donata dalla Regina e che è stata rinnovata secondo le loro volontà a spese del contribuente. Oh, e si aspettano che continuino ad avere protezione reale ovunque scelgano di vivere e viaggiare. E vorranno tutte le altre cose come i viaggi reali VIP. Sappiamo tutti che non c'è niente di meglio di questi due coraggiosi eco-guerrieri e della loro gigantesca scia di carbonio lasciato dal loro jet privati. Inoltre, vogliono nuove regole per i media, dicendo che si stanno sbarazzando del tradizionale sistema Royal Rota e inviteranno invece i loro giornalisti favoriti a partecipare ai loro eventi per scrivere solo cose positive su di loro. […] Se vogliono essere i nuovi Kardashian, verranno trattati come i nuovi Kardashian. È stato abbastanza scioccante che Harry e Meghan non abbiano nemmeno avuto la cortesia di dire al Principe Carlo o al Principe William dei loro piani grandiosi. Ma è assolutamente spaventoso che non lo abbiano fatto con la Regina. Questa donna non è solo la nonna di Harry, è la monarca per l'amor di Dio. […] Due parole: Meghan Markle. Non ho fatto mistero della mia antipatia e della sfiducia nei confronti di Meghan. Siamo stati amici per un po', o pensavo che lo fossimo. Di certo ha detto al mondo che lo eravamo in tweet pubblicato (e ora cancellato) prima che la maggior parte della gente in Gran Bretagna avesse mai sentito parlare di lei. Ma dal momento in cui ha incontrato il principe Harry, sono stato scartato più velocemente di una di gomma da masticare, calpestato dai tacchi delle sue Louboutin. Per un po', ho continuato a sostenerla in pubblico, rifiutandomi di credere che qualcuno che sembrava così gentile e normale potesse essere così calcolatore e spietato. Ma non l'ho mai più sentita, e quando l'ho vista fare lo stesso con suo padre Thomas, ho capito che questo è ciò che Meghan fa quando le persone non le servono più o potrebbero essere "problematiche". Per dirla senza mezzi termini, è una manipolatrice che ha fatto una disgustosa scalata sociale insinuandosi nel cuore del principe Harry e ha usato il suo amore cieco come piattaforma per distruggere tutto ciò che una volta aveva tanto caro. Ha causato un'enorme frattura tra Harry e William. E ora lo ha strappato via dalla sua amata nonna, la regina. Niente di tutto ciò mi ha sorpreso. Meghan ha fatto questo genere di cose per tutta la sua vita adulta. Ha rinnegato il 99% della sua stessa famiglia. Ha abbandonato numerosi vecchi amici. Si è sbarazzata del suo ex marito quando ha assaggiato la celebrità della TV. Nulla ha detto di più di Meghan del giorno del suo matrimonio quando ha invitato celebrità appena conosciute come Oprah Winfrey e George Clooney facendoli sedere dove normalmente si accomodano dei familiari. […] Come riferito da Harry a corte durante una discussione prima del giorno del matrimonio: “Quello che Meghan vuole, Meghan ottiene!” Meghan vuole vivere la vita da star sullo sfodo della sua nuova fama reale, prendendo quanto di buono arriva, come  tour di lusso, anteprime di film, galà di beneficenza e feste di Hollywood. Ma non vuole sporcarsi le mani aprendo una sala per una comunità in un mercoledì umido a Stoke-on-Trent. Questo è per il piccolo popolo reale, non una superstar come lei. […] Nessuno dice alla regina cosa fare. È la persona più potente e rispettata in Gran Bretagna. E in questo momento, sta affrontando una minaccia diretta a tutto ciò sulla quale ha lavorato così duramente. Le buffonate sorprendentemente sfacciate ed egoistiche di Harry e Meghan non le lasciano altra scelta se non liberarli e licenziarli entrambeidalla Famiglia Reale. Si sbarazzi di queste sanguisughe, dall’ego sconfinato, Ma’am, prima che sia troppo tardi.

DAGONEWS il 9 gennaio 2020. Non avevano fatto in tempo a dare l’annuncio delle loro “dimissioni” che Piers Morgan si è materializzato su Twitter con un serie di post al vetriolo, cogliendo l’occasione di togliersi qualche macigno dalle scarpe. «La gente dice che sono troppo critico nei confronti di Meghan Markle - ma lei ha abbandonato la sua famiglia, ha abbandonato suo padre, ha abbandonato la maggior parte dei suoi vecchi amici, ha diviso Harry da William e ora lo ha separato dalla famiglia reale. Non ho niente da aggiungere». «Quello che Meghan vuole .. Meghan ottiene» ha aggiunto a un gif della Markle per poi continuare: «Ciò che è stato "doloroso da guardare" è stata la loro assurda ipocrisia e il costante piagnucolio. Tutto a nostre spese». E ancora: «Wow. Che modo vergognoso di trattare la regina. Peccato per Harry e Meghan». «Vengo dal Sussex e sono pronto per fare la mia parte». Poi è tornato sulle nuove regole che Harry e Meghan vorrebbero imporre ai media: «Harry e Meghan hanno appena pubblicato il loro nuovo manuale di regole ai quali i media devono sottostare. Perfino Putin non proverebbe a fare una prodezza come questa.Temo che siano impazziti entrambi». Dopo ha continuato appellandoli come “mocciosi spudorati” e “i due marmocchi più viziati della storia reale”. Infine, dopo aver rimproverato ad Harry di aver trattato male la nonna, ha insistito sul fatto che il contribuente non deve sborsare un centesimo per la nuova vita da celebrities di Meghan e Harry, accusati di non aver mostrato alcuna empatia verso la famiglia reale. «L'unica cosa che Meghan e Harry non fanno è "proteggere" le loro famiglie: le rinnegano!

a) Diana, che usava i paparazzi e i giornali per promuoversi, fu uccisa da un guidatore ubriaco.

b) Harry non è l'unica persona a perdere un genitore da piccolo.

A molti purtroppo è successo, incluso me. Questo non gli dà la licenza di trattare la Regina in modo così spaventoso». 

Valeria Morini per fanpage.it il 9 gennaio 2020. L'annuncio di Meghan Markle e Harry, che hanno manifestato l'intenzione di allontanarsi dalla Famiglia Reale inglese e rinunciare al titolo, è stato un vero choc per i sudditi inglesi. Mentre Buckingham Palace è scossa da un terremoto senza precedenti, anche oltreoceano la notizia è impazzata sui media americani. Il sito US Weekly ha contattato immediatamente il padre della duchessa di Sussex, Thomas Markle, con cui – com'è noto – Meghan è in pessimi rapporti. L'uomo ha risposto in modo stringato condannando la decisione della figlia e del principe Harry: "Dirò semplicemente che sono deluso".

L'annuncio di Harry e Meghan. "Intendiamo fare un passo indietro come membri senior della Famiglia Reale e lavorare per diventare finanziariamente indipendenti, ma continueremo a supportare Sua Maestra La Regina", hanno annunciato Harry e Meghan del tutto a sorpresa, manifestando l'intenzione di vivere tra il Regno Unito e il Nord America, "Questo trasferimento ci aiuterà a crescere nostro figlio con l'apprezzamento per le tradizione reali in cui è nato, ma darà anche l'opportunità alla nostra famiglia di creare lo spazio per concentrarci sul nuovo capitolo, il lancio di un nuovo ente benefico". Una vera "bomba" che ha confermato le impressioni che erano già nell'aria. L'assenza della coppia dal discorso per gli auguri di Natale della Regina era parsa come un segnale allarmante.

La reazione della Regina. Il vero scandalo, in questo caso, non sarebbe tanto l'intenzione di Harry e Meghan, quanto il fatto che i duchi di Sussex avrebbero deciso di annunciare la loro decisione senza prima consultare la Regina. In UK gira voce che Elisabetta II sia rimasta "ferita", mentre un comunicato ufficiale di Buckingham Palace ha punzecchiato la coppia per aver parlato troppo presto: "Le discussioni con il duca e la duchessa del Sussex sono in fase iniziale. Comprendiamo il loro desiderio di adottare un approccio diverso, ma si tratta di questioni complicate che richiedono tempo per essere elaborate".

Chi è Thomas Markle, padre di Meghan. Thomas Markle, 74 anni, non parla con la figlia Meghan da prima del suo matrimonio con il principe Harry nel 2018. L'uomo non ha mai avuto modo di incontrare né il genero Harry (con cui ha però parlato al telefono) né suo nipote, Archie, il figlio primogenito dei duchi di Sussex che ora ha otto mesi. Ai tempi del royal weddding, i freddissimi rapporti tra padre e figlia fecero molto discutere, soprattutto perché la presenza di lui al matrimonio fu annullata pochi giorni prima. A creare la rottura definitiva fu la scoperta che Markle aveva cercato di vendere foto private ai media. In seguito l'uomo raccontò a Good Morning Britain di aver chiesto perdono alla coppia in una conversazione telefonica: "Ho parlato con entrambi e mi sono scusato".

Stefania Saltalamacchia per vanityfair.it il 23 gennaio 2020. Thomas Markle si fa sentire ancora una volta. L’ex direttore della fotografia, che non parla con la figlia Meghan dal maggio 2018, ha rilasciato a Channel 5 una lunga intervista che fa da filo conduttore al documentario Thomas Markle: My Story. Il 75enne in video ha mostrato gli album di famiglia, con la moglie di Harry ancora bambina, i filmini delle vacanze e quelli delle recite scolastiche, aprendo sugli anni insieme alla figlia avuta da Doria Ragland per poi arrivare alla rottura del loro rapporto. Thomas ormai non pensa più di poterlo recuperare: «La prossima volta che ci rivedremo, credo che io sarò nella fossa», ha dichiarato in video. Il documentario, appena andato in onda in Gran Bretagna ora che Meghan e Harry hanno lasciato il Paese per iniziare una nuova vita in Canada, è stato visto da quasi un milione e mezzo di spettatori. E Thomas non si sente in colpa per essersi fatto pagare per i 90 minuti di intervista: «A questo punto, me lo devono», ha continuato,« I reali me lo devono. Harry me lo deve, Meghan me lo deve. Dovrei essere ricompensato per quello che ho dovuto subire. Mia figlia mi aveva detto che si sarebbe presa di me quando sarei stato anziano. Ecco sono nei miei ultimi anni, è tempo di occuparsi di papà». Thomas è partito dal 1981, anno di nascita di Meghan, e dai momenti felici vissuti insieme nella casa di Los Angeles: «Quando è nata non sarei potuto essere più felice. Ho visto il suo viso, le sue piccole dita avvolte attorno alle mie e basta, ero innamorato. Sapevo solo che sarebbe stata speciale. Era semplicemente bellissima e non riuscivo proprio a metterla giù», ha ricordato, condividendo foto inedite e private di quei giorni. Poi è passato alle crepe, alla sua non presenza al royal wedding del 18 maggio 2018. «Ho piano lacrime di invidia», ha spiegato, «Nel vedere il principe Carlo accompagnare mia figlia all’altare». Oggi il loro rapporto è molto complicato: non si sentono più da prima del matrimonio, e i Sussex hanno querelato il giornale che nell’aprile scorso ha pubblicato la lettera privata che Meghan ha scritto al padre nell’estate 2018. Se si andrà in aula è molto probabile che Thomas sarà il primo testimone «contro» la figlia. «Per loro io non esisto», ha aggiunto, «ma Harry, che se ne accorga o meno, fa parte della mia famiglia e io faccio parte della sua». E la loro scelta di allontanarsi dal resto dei Windsor, Mr. Markle non la approva: «Per me è imbarazzante. Quando si sono sposati hanno assunto l’obbligo di far parte dei reali e di rappresentarli. Questa è una delle più grandi istituzioni della storia e loro la stanno distruggendo, indebolendo e la stanno rendendo squallida e ridicola. Penso che entrambi si stiano trasformando in anime perse, non so cosa stiano cercando», ha continuato. E ancora: «Ogni ragazza vuole diventare una principessa. Lei c’è riuscita e ora sta buttando via tutto. Perché? Sta gettando via tutto per soldi». La rabbia di papà Thomas non si placa: «Evidentemente tre milioni di sterline e una casa di ventisei camere da letto non erano abbastanza per loro», ha dichiarato ancora, riferendosi al Frogmore Cottage, la dimora dei Sussex a Windsor. Papà Thomas, inoltre, è molto triste per non aver mai visto il nipote Archie, 8 mesi: «Che Meghan fosse incinta l’ho scoperto ascoltando la radio». La frattura è ormai troppo profonda.

Andrew Morton per Vanity Fair il 7 maggio 2018. Nel settembre 1997 Meghan e le sue compagne guardarono in televisione il funerale di Diana, principessa di Galles, e scoppiarono a piangere quando le telecamere zoomarono sul feretro reale. I mazzi di fiori bianchi erano sormontati da una busta con la semplice intestazione: «Per la mia mamma». Erano le ultime parole indirizzate dal principe Harry alla madre amatissima. Al liceo Immaculate Heart, da lei frequentato a Los Angeles, se ne parlò molto. Nel corso di religione, la classe si trovò davanti a un paradosso tratto dalla vita reale: quello di una bellissima giovane donna, con due bambini piccoli e una missione umanitaria, che finisce stroncata nel fiore degli anni da un banale incidente automobilistico. Dopo la notizia, lei e la sua amica Suzy Ardakani guardarono i vecchi filmati delle nozze di lady Diana Spencer con il principe Carlo, celebrate nel 1981. Secondo amici della famiglia, Meghan era affascinata da Diana non soltanto per il suo stile ma per l’indipendenza dimostrata nel realizzare i suoi obiettivi filantropici: la considerava un modello. Incoraggiate dall’esempio della principessa, lei e Suzy cominciarono a raccogliere abiti e giocattoli per i bambini bisognosi. L’amica d’infanzia Ninaki Priddy ha osservato al riguardo: «Ha sempre avuto una fascinazione per la famiglia reale. Oggi aspira a diventare la principessa Diana 2.0». Meghan Markle è nata il 4 agosto 1981. Tom Markle e Doria Ragland, i suoi genitori, si erano incontrati sul set di General Hospital, la soap opera della Abc, dove Doria era apprendista truccatrice e Tom un affermato direttore delle luci. L’uomo aveva avuto due figli da un precedente matrimonio, Tom Junior e Yvonne. A dispetto dei dodici anni di differenza – Doria era quasi più coetanea di Yvonne che del fidanzato –, la coppia si intendeva a meraviglia. Quanto a Yvonne, la sua indifferenza per Doria sconfinava nell’ostilità. La ragazza si risentiva delle attenzioni che il padre riservava alla nuova fidanzata. Perciò, almeno a detta del fratello, con gli amici liquidava la presenza della fidanzata afroamericana del padre spacciandola per la domestica di casa. Prima del suo arrivo, ciascuno in casa faceva di testa propria: Tom Senior lavorava giorno e notte, Yvonne girava per locali e Tom Junior fumava erba con i suoi amici. Doria assunse il ruolo di pacificatrice hippie, ricostituendo in pratica la famiglia. La donna fu felicissima quando, appena un anno dopo le nozze, scoprì di essere incinta. Anche Tom era fuori di sé dalla gioia. Adorava Meghan, ma amava anche il suo lavoro. Gli capitava ancora di passare 80 o 90 ore la settimana sul set. Doria iniziò ben presto a soffrire per questa situazione. La fatica di occuparsi dei due figli del marito oltre che della propria bambina, gli impegni di una carriera agli esordi e della gestione di quella casa immensa stavano diventando troppo per lei. Per giunta Woodland Hills era un quartiere a prevalenza bianca e, data la pelle scura della mamma e quella chiara della figlia, i vicini davano spesso per scontato che lei fosse la tata. A un certo punto non ne poté più e tornò dalla madre. La separazione si consumò quando Meghan aveva due anni. Tom e Doria (che nel frattempo si stava specializzando come assistente sociale) nel 1983 la iscrissero all’esclusiva combinazione di nido e materna della Little Red School House che a Hollywood è un’istituzione: la scuola d’élite per tutti i rampolli dell’industria dello spettacolo. Qui, gli spettacoli allestiti dalla scuola, interpretati dagli allievi e applauditi dai genitori orgogliosi, risvegliarono il suo interesse per il teatro. In occasione di una festa di Natale, Meghan fu co-protagonista di un adattamento del Grinch. Purtroppo la sua co-star, Elizabeth McCoy, venne colpita da un virus intestinale poco prima dello spettacolo, e Meghan dovette affannarsi a imparare a memoria entrambe le parti. Quando Elizabeth si scusò per l’accaduto, Meghan le disse: «È stata l’esperienza peggiore della mia vita». Per ironia della sorte, nessuno aveva pensato di assegnare la parte a una ragazzina con un’arruffata chioma bionda, grossi occhiali da vista e modi impacciati, seminascosta tra le coriste. La ragazzina si chiamava Scarlett Johansson. In quel periodo, all’insaputa di Meghan, un colpo di fortuna aveva permesso a Tom Senior di rallentare un po’ i suoi frenetici ritmi lavorativi. Nel 1990 aveva azzeccato la sequenza vincente – cinque numeri, ripresi dalla data di nascita di Meghan – a un’estrazione della lotteria di stato della California. La vincita di 750 mila dollari lo aveva ampiamente ripagato delle migliaia di dollari spesi in biglietti in passato. Date le dispute finanziarie ancora in corso dal divorzio con Doria, Tom aveva tenuto segreta la vincita. Ma l’avidità gli si ritorse contro. Per evitare di rivelare il proprio nome all’ente di controllo della lotteria, Tom aveva mandato un vecchio amico di Chicago a ritirare il bottino. Secondo il figlio il piano gli costò carissimo, perché l’amico intascò buona parte del denaro e lo mandò in fumo investendolo in una gioielleria sull’orlo della crisi. Ma c’erano anche altre preoccupazioni che tormentavano la piccola Meghan. In primo luogo il timore dell’emarginazione. John Dlugolecki, per anni fotografo dell’Immaculate Heart, notò che la ragazza non frequentava cerchie specifiche di compagne afroamericane, asiatiche o di altre etnie. Aggiunge che «le altre non la consideravano di razza mista», e precisa: «La vedevano sempre insieme a Tom, mai con sua madre». Perciò per i docenti fu un piccolo shock incontrare finalmente Doria. «Data la carnagione appena più scura, pensavamo tutti che la giovane Markle fosse italiana», ricorda un ex insegnante. «Solo al colloquio con sua madre ci siamo resi conto delle sue origini afroamericane». Una volta arrivata alla Northwestern University, lontana dalla severa vigilanza della madre, cominciò a sperimentare un aspetto diverso: un trucco più deciso, i colpi di sole ai capelli. Non mancò nemmeno di mettere su la tipica «zavorra da matricola», i chili di troppo che gli studenti del primo anno si ritrovano a furia di alcolici, carboidrati della mensa e sortite notturne al Burger King. Decise anche che in fin dei conti sarebbe stato meglio candidarsi a una sorellanza, e scelse la Kappa Kappa Gamma. Superò l’iniziazione ed entrò a far parte di un gruppo di ragazze che nel campus avevano fama di essere «intelligenti e anticonformiste». Com’è naturale, per parecchi studenti la nuova vita sociale aveva un obiettivo preciso: la ricerca di un partner. Più sofisticata e matura di gran parte dei suoi coetanei, Meghan era corteggiatissima. Il suo primo fidanzato fu Steve Lepore, uno studente bianco del secondo anno, originario dell’Ohio, con il fisico scolpito e due metri di statura. Neanche a dirlo, un giocatore di basket. Ma la relazione non durò molto. Gli impegni sportivi imponevano a Steve un rigoroso regime di allenamenti, Meghan invece adorava le feste e non intendeva rinunciare alla possibilità di fare tardi e bersi qualche drink senza chiedere il permesso a nessuno. Nel 2003 si laureò e non molto tempo dopo la sua migliore amica del college, Lindsay Jill Roth, che si stava occupando del casting di un film intitolato Sballati d’amore, con protagonista il sex symbol e attore comico Ashton Kutcher, le procurò un provino per una parte con un’unica battuta. «Sei capace di dire “Ciao”?», le domandò il regista all’audizione. «Sì», rispose lei. Era un’esistenza precaria, la stessa di migliaia di altri aspiranti attori di Hollywood. Il suo motto era diventato «io scelgo la felicità», e quindi cercò di restare positiva anche se il suo magro bilancio le consentiva soltanto una pizza e una bottiglia di vino con gli amici, rare uscite per locali e le lezioni di yoga a cui non rinunciava. Una sera le sue scarse risorse la condussero in un bar di infima categoria a West Hollywood. Entrando, la sua attenzione fu attirata dal vocione di un tizio con un marcato accento newyorkese. Alto un metro e ottantacinque, con i capelli biondo-rossicci e gli occhi azzurri, Trevor Engelson aveva l’aria e l’atteggiamento di un Matthew McConaughey in formato ridotto, ma era nato e cresciuto a Great Neck, nello stato di New York, figlio di un dentista affermato e bisnipote di immigrati ebrei. Trevor di mestiere faceva il produttore. I due divennero subito una coppia. Mentre aspettava la sua grande occasione, Meghan continuava a mantenersi lavorando come direttrice di sala in un ristorante di Beverly Hills e insegnando a confezionare pacchetti regalo in un negozio del quartiere e mettendo a frutto l’impeccabile calligrafia appresa all’Immaculate Heart. In quel periodo Trevor stava producendo Licenza di matrimonio, una commedia romantica interpretata dal celebre comico Robin Williams e da Mandy Moore. In segreto Meghan aveva sperato che il compagno le riservasse almeno una particina nel film, ma questa cosa non era avvenuta. Il fatto che Trevor non si impegnasse più a fondo per includerla nelle sue produzioni diventò una fonte di conflitto tra loro. Nel 2011 avvenne la svolta: lei e Trevor erano ufficialmente fidanzati, quando la scritturarono per girare il pilota delle serie legal Suits. Le riprese si tenevano in Canada e un mese prima delle loro nozze venne confermata la realizzazione della seconda stagione. In questo modo i due sposi iniziarono la loro vita insieme da «separati». Meghan salutò la famiglia e il marito e partì per Toronto, dove avrebbe trascorso nove mesi impegnata nelle riprese. Naturalmente lei e Trevor si sentivano spesso via Skype e FaceTime, ma era dura vivere tanto distanti, soprattutto durante il lungo e grigio inverno canadese. Le cose tra di loro incominciarono a peggiorare. Un tempo Meghan aveva detto di non poter neanche immaginare di vivere senza di lui. E tuttavia, ne fosse o meno consapevole, nel periodo trascorso a Toronto si era costruita un nuovo mondo tutto suo. Nell’estate del 2013, Meghan annunciò che lei e Trevor si sarebbero separati. A quanto pare era stata lei a prendere la decisione. E l’aveva messa in atto così bruscamente che ancora adesso, cinque anni dopo, basta accennare al suo nome perché Trevor abbandoni all’istante il suo atteggiamento accomodante e rilassato. «No comment», risponde secco a chiunque gli faccia domande su di lei. Secondo un loro conoscente, per restituire a Trevor il diamante di fidanzamento e la fede di nozze, Meghan era ricorsa addirittura alla posta raccomandata. Intanto la fama di Meghan aumentava: inviti alle serate di gala, amici famosi, diventa anche una rappresentante dell’Onu. Come se non bastasse, la signorina Markle comparve anche nel ruolo di protagonista di un romanzo femminile, What Pretty Girls Are Made of, scritto dalla sua migliore amica dei tempi del college, Lindsay Roth. Lindsay non soltanto la ringraziò pubblicamente, ma spedì una copia del romanzo a Kensington Palace, destinataria Kate Middleton, insieme a un biglietto in cui definiva la duchessa la più «carina» in assoluto. Dopodiché postò con fierezza il biglietto prestampato di ringraziamento inviato dall’ufficio stampa della duchessa di Cambridge. Nel 2016, allacciandosi la cintura in preparazione dell’atterraggio all’aeroporto di Heathrow, anche Meghan aveva in mente l’amore e il matrimonio. Era di ritorno dall’isola greca di Idra, dove aveva organizzato il weekend di addio al nubilato dell’amica Lindsay. Sul fronte professionale, la visita a Londra doveva servire a promuovere la nuova stagione di Suits e il marchio Ralph Lauren. Ed ecco che, il 1° luglio, avvenne l’incontro con il principe Harry, in un locale esclusivo a Soho, combinato proprio dalla responsabile delle pr del marchio di cui Meghan era testimonial, Violet von Westenholz. Fu un colpo di fulmine, proprio come al cinema. Come in seguito avrebbe confermato Harry, i due continuarono a vedersi ogni giorno, sfruttando al massimo il breve soggiorno londinese di Meghan prima della sua partenza per Toronto, il 5. L’attrice, di solito così controllata, era rapita e, incapace di contenersi, si lasciò sfuggire un indizio: il 3 luglio postò su Instagram una foto di due caramelle della Love Hearts con la scritta: KISS ME. Il suo commento all’immagine: «Love Hearts in London». Quando, poche settimane dopo il primo incontro, Harry le chiese se le sarebbe piaciuto accompagnarlo a un safari ad agosto, lei si sorprese a rispondere di slancio: «Moltissimo!». È probabile che in parecchi, a palazzo, avessero scosso la testa alla notizia che il principe Harry aveva invitato l’ennesimo flirt a un safari in Botswana. Gli esperti di mondanità sapevano che si sarebbe trattato del suo settimo viaggio laggiù, e della quarta ragazza che l’avrebbe accompagnato per qualche nottata romantica sotto le stelle dell’Africa meridionale. Ma il problema era che, al ritorno in Inghilterra, l’etichetta di altezza reale tornava a mettersi di mezzo. Le precedenti relazioni con Chelsy Davy e Cressida Bonas si erano arenate perché né l’una né l’altra tolleravano di vivere sempre sotto i riflettori. Perciò, i due innamorati avevano la necessità di mantenere un riserbo assoluto sulla relazione, almeno per il tempo che sarebbe servito loro a capire, in tutta serenità, se quel rapporto era destinato a durare. Altro che paparazzi: il loro nemico numero uno divenne il jet lag. Quando, prima di lasciare il Sudafrica, consultarono le rispettive agende, fu subito evidente che quell’autunno sarebbe stata lei la più impegnata. Al rientro a Londra anche Harry dovette tornare al suo calendario di impegni. Intanto, nell’ultimo weekend di settembre, Meghan partecipò al suo secondo summit di One Young World organizzato a Ottawa, la capitale canadese. Nel discorso tenuto – senza appunti – al forum sulla parità di genere, Meghan parlò della sua protesta contro il sessismo di Suits. Stufa di vedersi propinare copioni in cui Rachel Zane veniva inquadrata fuori dalla doccia, coperta soltanto da un asciugamano, Meghan se n’era lamentata con la produzione, e i siparietti ammiccanti erano spariti dalla serie. La visibilità del suo intervento alla conferenza rammentò a Harry – sempre che fosse necessario – di avere a che fare con una persona molto speciale. Poco dopo la rivide a Londra. La privacy innanzitutto, perciò i due si appartarono nel modesto cottage del principe sui terreni di Kensington Palace. Il palazzo è forse il villaggio più esclusivo d’Inghilterra, residenza di un ampio assortimento di reali, compresi i duchi di Cambridge e i loro bambini, vari cortigiani e membri del personale in pensione. Come in qualsiasi villaggio, a Kensington Palace le voci e i pettegolezzi sono il pane quotidiano, ma è raro che oltre i cancelli filtrino indiscrezioni. Dunque il riserbo sulla relazione era salvo, ma se Meghan si aspettava una reggia restò amaramente delusa. Il Nottingham Cottage, residenza ufficiale di Harry, era più piccolo della sua villetta di Toronto, e con i soffitti più bassi. E lì, a parte le inevitabili assenze per gli impegni di lavoro, i due inaugurarono la loro convivenza, conducendo in gran segreto una tranquilla vita domestica. I due andarono avanti così per mesi. Era giunto però il momento di prendere una decisione, e la palla era nelle mani del principe, che doveva ottenere il benestare della nonna Elisabetta. Se si fosse presentato da lei qualche anno prima, «in quel caso sì che la conversazione sarebbe stata imbarazzante», mi ha detto un ex dipendente della corte. E il risultato sarebbe stato lo stesso di quando, nel 1955, la sorella della sovrana, Margaret, voleva sposare un altro divorziato, il capitano Peter Townsend: un «no» secco. La sovrana aveva seguito con attenzione – e approvato – il comportamento impeccabile di Harry come suo rappresentante all’estero e il suo impegno nell’ideazione e promozione degli Invictus Games. Un funzionario di corte mi ha detto: «La regina fa affidamento sui nipoti. Nei loro confronti nutre una fiducia che non ha mai dimostrato al figlio maggiore. William e Harry hanno dato prova di saper comunicare davvero con la nazione. Hanno la qualità delle star, eredi credibili e autentici della monarchia». Così, nel novembre del 2017, Meghan e Harry vennero convocati a Palazzo. Scortati dalla guardia del corpo di Scotland Yard, i due percorsero il labirinto di corridoi coperti di tappeti che porta al salotto privato della regina. Nel corso di quell’ora di incontro Meghan ebbe anche modo di vedere in prima persona il rispetto e l’amore di Harry per la nonna, che lei stessa avrebbe definito «una donna straordinaria». Infine, con un’ultima riverenza e un’abbaiata di congedo da parte dei cani, Harry e Meghan presero commiato, lasciando in fretta il palazzo prima che la macchina dei pettegolezzi di corte si mettesse in moto. Missione compiuta.

DAGONEWS il 28 gennaio 2020. Thomas Markle non perde occasione di mettersi in tasca qualche soldo e ha tirato fuori un altro video della figlia che recita all’età di 16 anni. Le immagini, dall'ultimo video condiviso da Markle, mostrano la futura Duchessa del Sussex che si esibisce all'Immaculate Heart High School di Los Angeles: Meghan indossava un abito vero, aveva delle perle al collo e una pelliccia al braccio. Nella stessa recita interpretava una donna in uno spogliatoio e in una spa. «Sono sicuro che se lo vedesse sarebbe piuttosto scioccata – ha detto Thomas – Meghan vestiva sempre i panni di donne glamour». Parlando con Piers Morgan e Susanna Reid, l’uomo ha definito la decisione di Harry e Meghan imbarazzante e offensiva nei confronti della regina. Alla domanda se la figlia fosse vittima di razzismo, Thomas ha concluso: «Non c'è mai stato un problema per Meghan dovuto alla sua razza. Penso che l'Inghilterra sia molto più liberale degli Stati Uniti, non credo che sia vittima di bullismo o di razzismo».

Megxit, Thomas Markle pronto a testimoniare contro sua figlia. Thomas Markle è deciso ad andare contro sua figlia anche in tribunale e a rivelare segreti scottanti dei duchi se Meghan non lo chiamerà e non gli farà conoscere Harry e Archie. Francesca Galici, Lunedì 27/01/2020, su Il Giornale. Harry e Meghan sono ormai lontani da Palazzo e hanno iniziato la loro nuova vita in Canada insieme ad Archie. Il loro scopo era quello di allontanare i clamori, allontanare l'attenzione dalla loro persona ma a distanza di giorni l'interesse sui duchi del Sussex sembra non essere sfumato, anzi. Ora che hanno raggiunto un accordo con la regina Elisabetta II e che con la famiglia reale i rapporti sono di civile (non) convivenza, a creare qualche grattacapo ai Sussex potrebbe essere Thomas Markle, papà di Meghan. L'uomo, ormai da anni in lotta con sua figlia, ha fatto una minaccia ben precisa a Meghan Markle, dichiarando che è disposto a rilasciare un'intervista al mese fino a quando la duchessa non deciderà di chiamarlo e non gli presenterà il principe Harry ma, soprattutto, il piccolo Archie. Thomas Markle ha parlato a distanza di qualche giorno da quando è stata attuata la Megxit e l'ha fatto con Piers Morgan per l'emittente inglese Itv. Nonostante non abbia mai vissuto da vicino la vita a corte, visti a rapporti pressoché inesistenti con sua figlia, il signor Markle ha definito "imbarazzante e dolorosa" per la regina la scelta di lasciare il Regno Unito per trasferirsi in Canada. Parole dure per Thomas Markle, che parla senza filtri e si dice pronto a creare guai a sua figlia e a suo marito se Meghan non acconsente di parlare con lui. Quello che sta cercando di attuare il padre della duchessa di Sussex sembra essere un vero e proprio ricatto, visto che all'emittente inglese ha dichiarato che se lui dovesse parlare a ruota libera potrebbe causare grandi problemi a Meghan e a Harry. Certo, il suo comportamento appare quanto meno contraddittorio dal momento che ha sempre dichiarato di voler chiarire con sua figlia ma a tal proposito ha dichiarato che ormai, arrivati a questo punto, ritiene questo l'unico modo per arrivare alla riconciliazione. "Non voglio rimanere zitto nel mio soggiorno per il resto della mia vita, aspettando che qualcuno mi chiami e entri in contatto con me", ha detto Thomas Markle, che non è fermato solo a questo tipo di minacce contro sua figlia. L'uomo, infatti, si è anche detto pronto a testimoniare contro Meghan per una causa intentata dall'attrice contro alcuni tabloid inglesi. Thomas Markle è già il principale testimone nel processo che vede i duchi confrontarsi contro il Mail on Sunday per un procedimento avviato dopo la pubblicazione di una lettera privata di Meghan a suo padre. Da quella lettera, il giornale avrebbe avviato una presunta campagna di notizie fake contro la duchessa. 

Thomas Markle: “Mi vergogno di mia figlia Meghan”. Presto protagonista su Channel 5 di un documentario in cui racconterà tutta la sua verità, il padre della Duchessa del Sussex ha dichiarato di provare vergogna per il comportamento irrispettoso e avido mostrato da sua figlia. Sandra Rondini, Domenica 19/01/2020, su Il Giornale. Thomas Markle, il padre che Meghan non vede da più di due anni e che lei accusa di aver venduto delle sue lettere private ai tabloid inglesi, in una intervista esclusiva al Sun ha espresso tutto il suo disappunto per il comportamento della figlia. "Questa non è la ragazza che ho cresciuto", ha dichiarato l’ex direttore delle luci di Hollywood, ora in pensione, dispiaciuto nel vedere quanto "Meghan abbia deluso la Royal Family" portando il marito, il Principe Harry, ad abdicare dai suoi doveri di reale. Thomas Markle, che è il protagonista di un documentario dal titolo "Thomas Markle: My Story", che andrà presto su Channel 5, ha definito Harry e Meghan "imbarazzanti" e sua figlia "una cacciatrice di dote che ha svenduto e reso così cheap la Corona inglese da farla assomigliare a un Walmart, gettando al vento il sogno di ogni ragazzina che desidera diventare una principessa e tutto questo solo per soldi". Il padre 75enne, che non ha mai conosciuto il nipotino Archie, non è più disposto ad aspettare il perdono della figlia e passa al contrattacco dalle pagine del Sun insieme a suo figlio, Thomas Junior a cui avrebbe più volte confidato il sogno di riappacificarsi con la figlia da lui amorevolmente cresciuta,nonostante il divorzio dalla moglie Doria Ragland. "Sogna di mettere una foto di se stesso con sua figlia, Harry e il nipote Archie su una parete speciale nella sua casa in Messico", ha dichiarato al Sun il fratellastro della Markle, aggiungendo: "Semmai un giorno riuscirà a farlo, morirà da uomo felice, non da padre rinnegato". Sempre Thomas junior, 53 anni, ha dichiarato al Sun, riferendosi alla Meghexit, che suo padre una volta venutone a conoscenza dai media avrebbe scosso desolato la testa, dicendogli: "Quella non è la figlia che ho cresciuto… Quando si è sposata ha preso un impegno che adesso rinnega, come fosse nulla. Che vergogna...". E ancora: "Mio padre non può credere a quello che è successo. È molto deluso dalle sue azioni perché pensa che Meghan abbia abbindolato la Famiglia reale e si vergogna perché lui l’ha cresciuta con dei valori", ha spiegato Thomas Markle junior aggiungendo: "Per mesi, anni, ha sperato in una riappacificazione ma, adesso che con la Meghexit tutto si è ulteriormente complicato, dubita che ciò accadrà mai. Ci spera, ma ogni giorno sempre meno". Thomas Jr. si è quindi lanciato in una strenua difesa di suo padre, svelando poi anche alcuni dettagli privati sul primo matrimonio di Meghan Markle. "Senza mio padre non sarebbe da nessuna parte. Ha pagato per la sua istruzione, auto, vestiti, affitto, bollette, spendendo migliaia di soldi per sostenere il suo sogno di diventare attrice. Già, una piccola fortuna, tutta spesa per lei, la principessa, a cui ora non importa se la sua famiglia fatica ad arrivare a fine mese... Finge che non esistiamo, è una squallida egoista, sa bene che non abbiamo milioni in banca come lei e Harry". Thomas Senior, come racconta anche nel documentario che sarà presto mandato in onda su Channel 5, ha pagato tutte le spese del primo matrimonio della figlia, quello con il produttore hollywoodiano Trevor Engelson nel 2011, come il sontuoso abito di nozze e il catering. Eppure la figlia, pur sapendo che nel maggio 2018 il padre era malato e doveva sostenere spese mediche extra non coperte dall'assicurazione, non ha speso un dollaro per aiutarlo. Ne è testimone il fratellastro Thomas Jr che ha anche aggiunto di aver provato "compassione" per il primo marito di Meghan, di cui è rimasto amico. Quando lo chiamò al telefono dopo il divorzio, Engelson gli disse: "Non voglio più sentire pronunciare il nome di quella donna in vita mia". "Quando Meghan ci ha presentato Trevor ad una festa, credo fosse il Ringraziamento – ricorda Thomas jr - l’abbiamo tutti trovato molto simpatico. E veniva sempre alle nostre feste di famiglia, come i compleanni, e persino ai funerali. Trevor era di famiglia e lo ricordo così innamorato di Meghan che con lui era tutto zucchero e miele. Mi pare fosse coinvolto nella produzione del film ‘Saw’, roba grossa… Trevor conosceva tutti a Hollywood e ha presentato Meghan praticamente a chiunque potesse aiutarla a fare carriera". E poi l’affondo: "Era un pezzo grosso nell’ambiente ed era ricco. Il marito ideale per Meghan che aveva per lui mille attenzioni, ma il loro matrimonio non è durato più di due anni perché, una volta volta in Canada per girare “Suits”, Trevor poteva raggiungerla solo due volte al mese per via dei suo impegni di lavoro a Los Angeles. Intanto le pagava l’affitto e tutte le spese, mentre lei di nascosto lo tradiva con lo chef dei divi, Cory Vitiello. La delusione di Trevor fu immensa. Era stato usato e gettato via perché ormai non le serviva più. Avrei tanto voluto avvertire Harry che, sposandola, rischiava di fare la stessa fine di Trevor, ma non ce l’ha mai fatto conoscere...”. Quanto a Trevor Engelson, Thomas jr ha aggiunto: "Non potevo credere che lei lo avesse solo usato...sembrava davvero innamorata. Meghan è davvero una grande attrice quando si tratta di simulare sentimenti. Lui ne è uscito devastato, aveva creduto che fosse vero amore, ci aveva messo il cuore e l’anima. Ora si è risposato e sono felice per lui. Ma ai tempi del divorzio da Meghan quando lo chiamai per sapere come stava, lui mi gridò al telefono: 'Se pronunci il nome di quella, non ti parlerò mai più' ". Lo stesso trattamento di Engelson, ricorda il fratello, fu riservato anche allo chef delle celebrità, "tenuto in stand by in attesa di scoprire se Harry avesse o meno intenzioni serie con lei". Quando Meghan capì di aver trovato un varco nel cuore del principe si liberò di Vitiello senza pensarci due volte. "È tipico di Meghan, è il trattamento che riserva a tutti gli uomini della sua vita, da suo padre ai suoi amori. Non sono persone, ma gradini verso la fama e giunta al gradino successivo se li lascia alle spalle senza rimorsi… Ecco perché adesso non le serve più la Famiglia reale. Ha ottenuto quel che voleva: soldi, fama e il titolo di Duchessa. Per lei ora è tempo di passare ad altro”, ha concluso duramente il fratellastro della Duchessa del Sussex che parteciperà col padre allo speciale di Channel 5 in cui promette di rivelare molti segreti che la Markle in questi anni ha cercato di tenere ben nascosti, in attesa di defilarsi da Buckingham Palace con la Meghexit.

DAGONEWS il 27 novembre 2019. Nuovo attacco frontale a Meghan Markle da parte di uno dei membri della sua famiglia: questa volta ad asfaltare la duchessa ci ha pensato Mike Markle, lo zio 80enne, ex diplomatico e fratello del padre Thomas. In una lunga intervista a “Woman” l’ex diplomatico descrive la nipote come una “primadonna”, «una persona che porta rancore pensando di essere stata maltrattata. Questo potrebbe essere uno dei problemi che ha con la cognata Kate». Mike ricorda come ha aiutato la nipote ad assicurarle un prestigioso tirocinio come addetto stampa junior presso l'ambasciata americana in Argentina quando aveva 20 anni visto che Meghan all’epoca stava considerando una carriera nelle relazioni internazionali. «Lei ha fatto la sua scalata sociale e ci ha lasciato alle spalle – ha detto Mike -  Penso che sia quello che succede quando sei una di una classe inferiore che cerca di superare la realtà dei fatti. Visto qual è il suo passato, potrebbe avere una rabbia derivata dal pensiero di essere stata trattata male in passato. Potrebbe essere una parte del problema con sua cognata. Meghan è in qualche modo immatura. Lo vedo nel modo in cui agisce, non solo nei confronti dei familiari, ma di altre persone». La responsabilità del carattere “difficile” della duchessa per lo zio Mike è del padre Thomas: «Può darsi che sia stata prepotente nei confronti del personale perché è stata viziata da mio fratello. Tom ha trascorso più tempo con lei e l'ha aiutata a scuola. Ha sempre avuto più rapporti con lei rispetto agli altri figli. Si sente una primadonna perché lui l’ha sempre trattata molto bene». Mike, che non è stato invitato al matrimonio reale, incalza: «Non ha invitato molte persone, quindi non ha discriminato me. Sarebbe stato bello per lei avere un parte della sua famiglia, ma non la capisco. Non riesco a comunicare con lei perché non le danno la posta al palazzo e in ogni caso non so cosa dovrei scriverle. Sta a lei fare il primo passo. Ho fatto molto di più per lei rispetto alla maggior parte delle altre persone. Ho parlato personalmente con l'ambasciatore in Argentina per lei. L'ho aiutata e non ho chiesto nulla in cambio. Se vuole avere una relazione più stretta, per me va bene, ma deve venire da lei». 

Antonello Guerrera per “la Repubblica” il 31 ottobre 2019. Settanta deputate britanniche, di ogni colore politico, si sono schierate a favore di Meghan Markle e contro i media del Regno Unito. Perché, secondo le tante parlamentari della Camera dei Comuni, la duchessa del Sussex subisce continuamente ingiustizie e scorrettezze da parte di giornali e siti oltremanica, nei quali Meghan verrebbe dipinta con «frasi fuori moda e descrizioni di stampo coloniale». Insomma, secondo loro, ci sarebbe una forma di razzismo, sessismo e comunque di ipocrita bigotteria nei suoi confronti da parte dei giornalisti. «Vere e proprie sfumature xenofobe», rincara la firmataria parlamentare laburista Holly Lynch. «Questo non lo possiamo accettare », scrivono le deputate, «e ci fa piacere che Meghan si sia attivata contro questo disdicevole fenomeno ». Le 70 parlamentari si riferiscono alla "guerra" che Meghan e suo marito, il principe Harry, hanno di recente lanciato contro i media britannici, colpevoli, secondo i duchi del Sussex, di non rispettare la loro privacy. Una mossa per cui le deputate hanno dunque espresso sostegno pieno, dopo il recente, e clamoroso, documentario della rete televisiva britannica Itv, in cui la giovane coppia si è confessata al pubblico come mai aveva fatto prima. In quell'occasione, circa dieci giorni fa, Harry aveva ammesso che lui e suo fratello, il principe William, sarebbero oramai «su due sentieri diversi». «Sì, ci sono state delle incomprensioni tra noi, ma sono cose che succedono soprattutto in una famiglia sotto pressione come la nostra». Meghan era stata ancora più esplicita, manifestando un apparente e profondo disagio verso la sua condizione di "new entry" della Casa reale dei Windsor: «Io esisto, non vivo», aveva rivelato riferendosi alla sua vita costantemente sotto i riflettori. «No, non sto troppo bene. In pochi mi hanno chiesto come ci si senta nei panni di mamma e moglie» dopo la nascita di Archie. E quindi le deputate non ci stanno. Sono celebri e influenti parlamentari laburiste, come Diane Abbott, Jess Phillips e Yvette Cooper, conservatrici come Gillian Keegan, liberal-democratiche come Angela Smith e Wera Hobhouse. Martedì sera non ce l'hanno fatta più, come Meghan. Hanno preso carta intestata e hanno condiviso su Twitter la loro lettera aperta alla duchessa del Sussex. Meghan e suo marito Harry hanno lanciato di recente una serie di denunce contro i tabloid per presunte intrusioni nella vita privata, ingaggiando avvocati specializzati in questo tipo di cause. Meghan ha portato in tribunale il Daily Mail per una lettera personale del - disastrato - padre finita mesi fa sui tabloid. Invece Harry - che di recente ha dichiarato di associare ogni clic di una fotocamera all' immagine di sua madre - ha denunciato Murdoch, il suo Sun e il Daily Mirror per lo scandalo intercettazioni di qualche anno fa. Anche la recente nascita del piccolo Archie è stata a lungo tenuta segreta proprio per tenere lontano i media e il mondo esterno. Non a caso, Meghan e Harry mesi fa si sono trasferiti nella tenuta, più riservata, di Frogmore Cottage, che però ha scatenato polemiche sui giornali per gli alti costi della sua ristrutturazione addebitati ai contribuenti, i quali in cambio si aspetterebbero meno riservatezza dagli amati duchi. Alla fine, ieri, Meghan ha preso il telefono, ha chiamato la deputata Holly Lynch e le ha detto: «Grazie».

Meghan Markle perde un altro membro della sua fondazione. Il nono in 18 mesi. Ha proprio un carattere difficile l'ex duchessa di Sussex, secondo le indiscrezioni la fondazione di Meghan Markle ha perso un altro dipendente in pochi mesi. Carlo Lanna, Venerdì 24/01/2020, su Il Giornale. Il divorzio dalla Corona inglese non ha di certo cambiato le abitudini di Meghan Markle. Come ha riportato il Daily Mail, la "duchessa difficile" continua a far parlare di se anche se in questo momento vive in Canada, serenamente, la sua vita con Harry e il piccolo Archie. Dalle prime ricostruzioni sul caso pare che la "Sussex Foundation" si trova senza un dipendente, un membro di punto dell’attività benefica di Meghan Markle. Non dovrebbe destare nessun sospetto se un dipendente della fondazione decide di voltare pagina e guardare ad altri orizzonti lavorativi, ma quando si tratta di Meghan, ogni cosa finisce sotto l’occhio indagatore della stampa. Infatti, con l’uscita di scena di Natalie Campbell, emerge un dato molto preoccupante per tutte quelle persone che lavorano per l’ex duchessa di Sussex. Il tabloid inglese mette in evidenza che la fondazione, in appena 18 mesi, ha perso ben 9 dipendenti tra: due addetti stampa, un segretario privato, un vice segretario e ben tre assistenti personali. Senza contare la guarda del corpo e le due tate che, ai tempi del Frogmore cottage, hanno lasciato il lavoro al servizio dei duchi. Questo fa capire quando sia difficile il carattere della Markle e quanto può essere difficile lavorare a stretto contatto con la ex duchessa. Prima che la situazione degeneri, però, un portavoce della fondazione invia una nota al tabloid per cercare di mettere a tacere le voci su Natalie. "È stata fondamentale nell’aiutare i Sussex a gettare le basi per la loro organizzazione di beneficenza, e ha avuto un ruolo fondamentale nella creazione e nella realizzazione di altri progetti – afferma la porta portavoce -. Le auguriamo il successo per il suo nuovo impegno lavorativo". Dopo appena 5 mesi Natalie Campbell ha accettato un ruolo dirigenziale in una società idrica. Aveva lavorato a Londra per la Royal Sussex Foundation per trasferirsi poi in Canada ad agosto per organizzare il lavoro, almeno fino a questo momento. Meghan resta dunque una duchessa difficile a tutti gli effetti. Non si conoscono le cause dell’allontanamento di Natalie dalla fondazione, ma non è la prima volta che succede una cosa del genere. Molti sono i “servitori” che sono stati a contatto con Meghan e tutti si sono sempre lamentati del carattere spigoloso della duchessa. Un carattere che la giovane non è riuscita a limare neanche perdendo il suo ruolo nella famiglia reale, anzi si sarebbe acuiti ancora di più. Chissà se capire che avere atteggiamenti da diva non la soluzione a tutti i problemi del mondo.

Il principe Filippo furioso: "Harry e Meghan turbano la regina". Il principe Filippo furioso con il nipote Harry: la decisione di "divorziare" dalla Famiglia Reale pare stia recando troppo turbamento alla Regina Elisabetta. Luana Rosato, Lunedì 13/01/2020, su Il Giornale. Il divorzio dei Duchi di Sussex dalla famiglia dei Windsor continua a creare scalpore a corte e le notizie e i rumor su ciò che sta accadendo ai reali di Britannia continua ad interessare l’opinione pubblica. Dopo l’annuncio di Harry e Meghan Markle, che hanno deciso di "divorziare" dalla Casa Reale per lavorare e mantenersi in libertà, le notizie si sono rincorse di ora in ora e sono state tante le ipotesi nate intorno ai motivi che avrebbero spinto la coppia a prendere questa importante quanto clamorosa decisione. Alla notizia, tuttavia, la Regina Elisabetta ha reagito convocando un incontro ufficiale a Sandringham per discutere sull'intenzione dei duchi di Sussex, Harry e Meghan, di abbandonare lo status di reali senior. Secondo quanto riportato da The Sun, al vertice cui dovranno partecipare anche il fratello di Harry, William, e il padre, l'erede al trono Carlo, sarà assente il principe Filippo che, pare, abbia abbandonato proprio nelle ultime ore il castello. Si dice, infatti, che il coniuge della Regina Elisabetta sia stato allontanato e abbia scelto di non essere presente all’incontro perché furioso con il nipote. Il principe, si legge sul tabloid, si sente “profondamente ferito” e avrebbe accusato Harry e Meghan di una forte mancanza di rispetto nei confronti di Sua Maestà. “Stufo” del comportamento della coppia, dunque, il principe Filippo avrebbe scelto di non essere presente al vertice di Sandringham e, si dice, sia molto preoccupato per la sua amata. “La sua principale preoccupazione è l'impatto che ciò sta avendo sulla Regina - riferisce la fonte - .Gran parte dell'arrabbiatura di Filippo deriva dal vedere il turbamento di Sua maestà”. La Regina Elisabetta, infatti, non si sarebbe mai aspettato un simile atteggiamento da parte del nipote Harry e di sua moglie Meghan, che vorrebbero rivedere gli obblighi legati allo status di “senior royal”, ovvero membri della famiglia piuttosto in alto nell'ordine di successione al trono. Se i due riuscissero ad avere la meglio sulle volontà della Regina, potrebbero avere meno obblighi nei suoi confronti e condurre una vita in completa libertà, stringendo anche accordi per poter essere economicamente indipendenti. Solo dopo il vertice di Sandringham, però, i Duchi di Sussex potranno conoscere le loro sorti e molti sono pronti a giurare che, se la Regina non dovesse essere d’accordo con le loro richieste, la coppia sarà pronta a rilasciare un’intervista choc sulla Famiglia Reale.

La mossa estrema di Meghan: accusare la regina di razzismo. Sono ore decisive per la monarchia inglese, che deve trovare un accordo di uscita per i duchi del Sussex; pare che se la trattativa non dovesse andare come desidera Meghan Markle, la duchessa è pronta ad accusare la regina di razzismo. Francesca Galici, Lunedì 13/01/2020, su Il Giornale. Sono ore intense e convulse a Buckingham Palace, dove non solo si sta decidendo il futuro del principe Harry e di Meghan Markle ma anche della monarchia inglese. È in corso una vera e propria trattativa serrata per definire i termini dell'uscita dei duchi del Sussex dalla Famiglia Reale. Tuttavia, pare che sui termini dell'accordo penda una vera spada di Damocle costituita dalla possibilità che se la trattativa non dovesse andare desidera Meghan, la stessa potrebbe rilasciare un'intervista al veleno. A paventare questa possibilità è il giornalista Tom Bradby di ITV, lo stesso che ha realizzato il documentario in Sudafrica, grande amico dei duchi del Sussex. Bradby ha dichiarato in più di un'occasione che Meghan Markle è pronta a rilasciare "un'intervista senza freni" e questo ha tutto il sapore di una minaccia per la monarchia. Ne è convinto anche il Daily Telegraph, che suppone anche i contenuti di tali dichiarazioni. Il quotidiano è da sempre vicino agli ambienti reali e si mormora che la duchessa del Sussex potrebbe muovere accuse di razzismo nei confronti della Regina Elisabetta II e di tutta la sua famiglia. Sarebbe una mossa molto furba da parte di Meghan Markle, che in questo modo uscirebbe dalla Famiglia Reale nei panni della vittima, acquisendo ulteriore popolarità negli Stati Uniti. A lei, infatti, interessa il consenso oltreoceano e in questo modo lo accrescerebbe in maniera esponenziale. La duchessa del Sussex sarebbe la vittima di un sistema razzista che l'ha costretta a lasciare Londra per rifugiarsi in un Paese civile e accogliente come il Canada. Quella di razzismo nei confronti della Royal Family non sarebbe certo una novità per la monarchia inglese, anzi. Fin dai tempi della Regina Vittoria aleggia quest'ombra sui Windsor che, però, pare non trovi un reale riscontro storico. Inoltre, la predisposizione al razzismo degli inglesi non sussiste se si osserva con attenzione l'evoluzione della capitale del regno. Londra è una delle città più cosmopolite del mondo, dove chiunque può avere la sua possibilità di riscatto sociale ed economico. È accogliente e scevra dai pregiudizi, tanto che non è raro sentire storie di persone arrivate in città per svolgere le mansioni più umili, che col tempo sono arrivate a ricoprire ruoli di grande responsabilità. La stessa Regina Elisabetta II non ha mai mostrato insofferenza nei confronti della moglie di suo nipote, assecondandone spesso le richieste, anche bizzarre, e dedicandole più tempo di quanto non ne abbia dedicato ad altri membri della famiglia. Questi dettagli non sono però noti oltreoceano, dove le amiche di Meghan Markle, donne del calibro di Oprah Winfrey e Serena Williams, hanno già lasciato intendere che ci potrebbe essere proprio il razzismo alla base della fuga da Londra della duchessa del Sussex. Nella mente della regina e degli inglesi è ancora vivo il ricordo dell'intervista che rilasciò Lady Diana, quando affermò di essere soffocata dalla Famiglia Reale e che suo marito non era adatto a governare. Meghan Markle è una donna molto furba e intelligente e potrebbe riproporre lo stesso canovaccio rincarando la dose e la detonazione potrebbe essere molto più potente. Intanto, la duchessa ha già iniziato il suo piano, lasciando Harry a Londra per tornare da Archie, lasciato furbamente in Canada. La duchessa del Sussex avrebbe in questo modo messo Harry sotto scacco. Il duca del Sussex non sarebbe convinto di lasciare la Famiglia Reale per scappare a Vancouver ma è qui che sua moglie ha portato il figlio, al quale Harry non rinuncerebbe mai. La trattativa è appena iniziata ma si prevedono scintille nelle prossime ore, durante le quali potrebbe cambiare per sempre il volto della monarchia.

Cristina Marconi per “il Messaggero” il 14 gennaio 2020. La riunione in casa Windsor è fissata per oggi, a Sandringham, residenza della regina Elisabetta sulle coste del Norfolk. Parteciperanno il primogenito Carlo, di ritorno da un funerale in Oman, William e il fratello Harry, oltre a Meghan per telefono, nella speranza di trovare una strada da seguire per il divorzio del secondogenito di Diana e di sua moglie dal resto della famiglia reale. Perché il no deal impostato dalla coppia con il comunicato incendiario di mercoledì scorso, con la pubblicazione del nuovo sito Sussex Royal e con la decisione di Meghan di volare in Canada senza un confronto è un percorso troppo pericoloso e controproducente, anche nel clima di rabbia attuale. Ieri la regina è apparsa scura in volto alla messa della domenica e William ha lasciato che la sua «tristezza» per la rottura dei rapporti con il fratello, un tempo inseparabile, trapelasse abbondantemente sulla stampa. «Ho messo il braccio intorno alle spalle di mio fratello per tutta la vita e non posso farlo più, siamo entità separate», avrebbe detto a un amico secondo il Sunday Times. «Sono triste per tutto questo. Tutto quello che possiamo fare, e tutto quello che posso fare, è cercare di sostenerli e sperare che arrivi il tempo in cui staremo tutti cantando dalla stessa pagina. Voglio che tutti siano parte della squadra», secondo la fonte. Se si può sperare in un futuro più sereno, resta il fatto che il presente rimane difficile, con alcuni punti da chiarire: l'utilizzo del titolo reale, il lavoro ufficiale che la coppia potrà svolgere, i soldi, il costo della sicurezza e, non ultimo, il tipo di contratti che l'ex attrice di Suits e il nipote della regina potranno firmare per raggiungere la loro «indipendenza economica». Perché i Windsor hanno sempre cercato di stare alla larga dall'utilizzo del brand reale per fare soldi. Ma le intenzioni di Meghan, che prima di Natale aveva prestato la sua voce a un film della Disney in cambio di una donazione a una fondazione che si occupa di protezione degli elefanti, sembrano andare in quella direzione con il loro marchio, Sussex Royal, depositato in modo da coprire ogni tipo di prodotto, dalle felpe ai prodotti di benessere nel Regno Unito e oggetto anche di una richiesta di registrazione internazionale per poter operare in Australia, Canada, Unione europea e Stati Uniti. Sarebbe stato proprio Harry a spingere Meghan Markle a diventare una doppiatrice. A luglio, durante la prima del Re Leone, il Principe ha chiesto all'amministratore delegato della Disney Bob Iger, di prendere in considerazione la moglie. «Non sa che lei sa doppiare? È molto interessata», dice Harry. «Proveremo con piacere. È una grande idea», la risposta di Iger. Così è stata coinvolta per un film e il compenso è andato ad una associazione per la protezione degli elefanti. A ogni modo la stampa britannica sta trattando senza riguardi la scelta dei due, criticandola in maniera spesso feroce, mentre circolano voci secondo cui in molti a Buckingham Palace vorrebbero la testa di Edward Young, segretario personale della regina da due anni, ossia da quando la decentralizzazione della comunicazione reale voluta dal principe Carlo costò il posto al rispettatissimo Christopher Geidt. Sotto la gestione Young ci sono stati innumerevoli scandali e problemi, da quelli legati alla famiglia Markle al disastro dell'intervista di Andrew alla BBC sul suo legame con Jeffrey Epstein. La regina, secondo il nipote Peter Philips, figlio di sua figlia Anna, «sta bene». Impassibile, come al solito.

Regno Unito in attesa del summit reale, Harry e William smentiscono i tabloid: "Nessun veleno fra noi". Si tratta di "una storia falsa" pubblicata "malgrado le nostre smentite", affermano i figli di Carlo e Diana in un testo diffuso dalla Corte. La Repubblica il 13 gennaio 2020. I principi Harry e William hanno smentito in una nota congiunta diffusa a margine del summit reale quanto scritto oggi da un giornale britannico sui presunti toni particolarmente aspri di loro divergenze recenti. Si tratta di "una storia falsa" pubblicata "malgrado le nostre smentite", affermano i figli di Carlo e Diana in un testo diffuso dalla corte denunciando come attribuire loro "l'uso d'un linguaggio aggressivo sia offensivo e potenzialmente pericoloso". Nel comunicato non si indica il nome di alcuna testata specifica. Secondo le interpretazioni più diffuse, l'accusa sarebbe tuttavia contro il Times di Rupert Murdoch. Non tanto per i contenuti pubblicati ieri dall'edizione domenicale (il Sunday Times) sulle affermazioni attribuite a William a proposito di un allontanamento del fratello da lui; quanto per un articolo uscito oggi, nell'edizione del lunedì, in cui si riportano indiscrezioni stando alle quali il duca di Sussex avrebbe di fatto rotto i ponti con il primogenito duca di Cambridge poiché questi si sarebbe mostrato "non amichevole" e irrispettoso nei confronti di Meghan.

Kate Middleton fuori dal vertice della famiglia reale. Intanto che si decideva il futuro dei Sussex, Kate Middleton volutamente si è tirata fuori dai pettegolezzi e dai rumor di Palazzo per dedicarsi alla famiglia. Carlo Lanna, Martedì 14/01/2020, su Il Giornale. Per la royal family ieri è stata una giornata epocale, ma anche molto difficile da affrontare. Si è messo un punto, o almeno un punto e virgola, al divorzio dei Duchi di Sussex dalla Corona inglese. L’attesa summit, indetto dalla Regina nel corso del fine settimana, ha dato i suoi frutti. Infatti, nel corso della serata di lunedì, si è deliberato il destino di Meghan e di Harry. In questo frangente nessuno pare aver fatto caso all’assenza di Kate Middleton. La moglie di William, infatti, nel corso della settimana e mentre la bomba lanciata dalla Markle cominciava a evidenziare i primi danni, è rimasta da sola e come una spettatrice passiva della vicenda. Come riportano le prime voci di palazzo, Kate Middleton è stata esclusa volutamente da tutto questo e a volerlo è stata proprio la stessa Duchessa. Per lei, l’unico vero interesse, è la famiglia. Una vicenda, quella del summit, che non ha sfiorato minimante né la routine né l’animo di Kate Middleton, o almeno così vogliono far credere le fonti ufficiali. Durante quelle ore tremende e dove si sono rincorsi molti rumor, alcuni di questi anche infondati, la duchessa di Cambridge è rimasta nella tenuta di famiglia, a badare i figli e aspettare il ritorno di William. Una scelta che pare sia stata decisa di comune accordo con il marito. Sì, perché dato che l’incontro nel cuore di Sandringham era di vitale importanza, c’era bisogno di discutere della vicenda tra consanguinei e, soprattutto, limitare quanto più possibile la diffusione di rumor e falsi pettegolezzi sulla vicenda. Nessuno ha voluto escludere Kate dalla vita di Corte, è stata solo una mossa per limitare i danni ed evitare la diffusione di gossip. Nel corso della giornata di ieri, la Middleton ha vissuto tra impegni di corte e di famiglia. L’unico avvistamento è nel primo pomeriggio mentre, scortata dalla guarda del corpo, si è diretta alla Thomas’s Battersa School per portare a casa Charlotte e George. Il suo obbiettivo, in tutta questa vicenda, è stato quello di dare priorità alla famiglia, una scelta che rispecchia il carattere e il punto di vista di Kate. Diversamente dalla Markle, la duchessa di Cambridge ha sempre rispettato il suo ruolo e, ora più che mai, ha voluto sottolinearlo. Si è trattata di una sottile vendetta nei riguardi di Meghan? Chi può dirlo. Le due duchesse erano già ai ferri corti da tempo, forse ora la Middleton, non ha fatto altri che far capire chi è la vera altezza reale tra le due.

Imprevisto per Kate Middleton all'ospedale: la gonna si alza e mostra tutto. La duchessa di Cambridge è stata sorpresa dai fotografi mentre cercava di tenere a bada la gonna di tweed svolazzante a causa del forte vento poco dopo l'arrivo all'ospedale di Londra. Novella Toloni, Martedì 28/01/2020, su Il Giornale. Per fortuna che c’è Kate a strappare un sorriso a sua Maestà e sudditi. In tempi in cui la Corona deve combattere contro lotte familiari interne e scandali sessuali provenienti da oltreoceano, la duchessa di Cambridge stempera le polemiche con un fuori programma decisamente goliardico. Poco prima di un incontro ufficiale Kate Middleton si è trovata a "combattere" contro la sua gonna irriverente che, per colpa del vento, l’ha quasi fatta finire in mutande davanti ai fotografi. Un fatto non nuovo per lei che spesso, nel corso degli anni, si è trovata in situazioni (imbarazzanti) simili. La moglie del principe William era attesa questa mattina all’ospedale pediatrico Evelina a Londra per un incontro con i piccoli degenti. La reale, in qualità di patrona sia dell'ospedale pediatrico che della National Portrait Gallery, era presente all'evento per partecipare a un laboratorio creativo dedicato ai piccoli pazienti e alle loro famiglie. Al suo arrivo però qualcosa è andato storto. Complice il forte vento che sferzava la capitale britannica fin dalle prime luci dell’alba, mentre Kate Middleton si apprestava a scendere dall’auto di servizio, la sua gonna di tweed le ha giocato un brutto scherzo, svolazzando di qua e di là. Il tutto davanti agli obiettivi dei fotografi presenti al suo arrivo fuori dall’ospedale. Lei, sorridente e divertita, ha cercato di tenere a bada la gonna firmata, mantenendo le mani ben salde sulle gambe per evitare che il vento mostrasse più del dovuto. Il suo rocambolesco arrivo, però, è stato immortalato dai fotografi che hanno fotografato la duchessa di Cambridge con buffe facce mentre cerca di salvare il salvabile. Tutta colpa della gonna troppo corta per gli standard di Kate che l’aveva indossata, per la prima volta, in occasione della conferenza sulla salute mentale della fondazione Mental Health In Education lo scorso 19 febbraio. A dire la verità il vento non sembra essere mai stato "amico" della duchessa che in più occasioni, negli anni, è stata vittima di qualche folata di troppo. Come quando il "Bild" pubblicò lo scatto del lato B di Kate Middleton il cui vestito non aveva retto al vento, o ancora nel 2014 mentre scendeva dall’aereo reale con in braccio la piccola Charlotte la gonna del suo vestito rosso la mise in forte imbarazzo, lasciando intravedere la biancheria intima della futura regina d'Inghilterra. L’elenco però è ancora lungo.

Concluso il vertice della Royal Family. La Regina: "Sì a nuova vita di Harry e Meghan, senza fondi reali". Si è conclusa la riunione di famiglia a Sandringham durata due ore. Erano tutti presenti: William, Carlo, Harry, Elisabetta, e Meghan in collegamento dal Canada. Dalle prime dichiarazioni ufficiali sembrerebbe approvato un "periodo di transizione". Antonello Guerrera il 13 gennaio 2020 su L'Espresso. La Regina ha detto sì. “Dopo discussioni molto costruttive” e un inedito vertice a quattro appena conclusosi nella tenuta di Sandringham con il figlio Carlo e i nipoti William e Harry, quest'ultimo e la moglie Meghan potranno “dividere il proprio tempo tra Regno Unito e Canada per un periodo di transizione”. Perché “io e la mia famiglia”, ha dichiarato Elisabetta II in un comunicato ufficiale, “sosteniamo totalmente il loro desiderio di farsi una nuova vita". "Anche se avremmo preferito che rimanessero pienamente parte della famiglia reale”, continua la sovrana, “rispettiamo e comprendiamo il loro desiderio di vivere una vita più indipendente pur rimanendo parte importante della nostra famiglia”. Insomma, tutto risolto? Non proprio. Innanzitutto non viene espressamente citata la questione dei titoli reali, che però, dal comunicato, sembra non verranno rimossi ai due, che quindi a questo punto dovrebbero avere la possibilità di mantenerli e nel frattempo fare soldi nell'imprenditoria. Non solo: Elisabetta tiene a sottolineare ai suoi sudditi che Harry e Meghan “hanno già espresso il desiderio di rinunciare ai fondi pubblici”. E infine: “Ci sono molte vicende ancora da sistemare”, sottolinea la sovrana, “e ci sarà ancora del lavoro da fare e decisioni da prendere nei prossimi giorni”. La Regina si riferisce, oltre alla questione dei titoli nobiliari, anche alla questione dei soldi che Carlo passa annualmente ai propri figli mediante lo sfruttamento di beni, fondi, tenute e possedimenti dei Windsor. Inoltre, c’è da capire che cosa succederà con la sicurezza - ovvero chi pagherà per la protezione dei duchi - e poi la tassazione (di norma agevolata per la famiglia reale), i periodi di residenza nei due Paesi, eccetera. Ma almeno Meghan e Harry hanno avuto l’approvazione della sovrana per cambiare vita dopo l’esplosivo “divorzio" dai Windsor da loro annunciato la settimana scorsa. La “Megxit”, dunque, come è stata ribattezzata negli ultimi giorni dai tabloid, è sempre più vicina. E questo, del resto, era l’esito che la regina aveva auspicato - e forse ha imposto, nonostante la furia di Carlo e William - dal momento che Elisabetta vuole risolvere la vicenda il prima possibile per il bene della famiglia e lasciare il Regno in una condizione sostenibile, dopo un "annus horribilis" come il 2019 e lo scandalo sessuale che ha coinvolto suo figlio Andrea. La casa reale non poteva permettersi un altro logorante scandalo.

Cri.Mar. per "il Messaggero" il 14 gennaio 2020. A Se c’è una persona che deve restare al riparo dal pasticciaccio di casa Windsor, questo è William: con un’immagine pubblica impeccabile, una famiglia deliziosa e una moglie inappuntabile, la capacità della monarchia di continuare a sedurre l’opinione pubblica nei decenni a venire è quasi tutta sulle sue spalle. E quindi tra le mille storie e indiscrezioni circolate in questi giorni, solo una è stata prontamente ritrattata e smentita, ossia quella, pubblicata dal Times citando fonti anonime, secondo cui Meghan e Harry sarebbero stati allontanati dal «comportamento da bullo» del secondo in linea di successione al trono, che le cronache di questi giorni descrivono come furioso. Un articolo «falso» secondo una dichiarazione congiunta che ha visto i due principi, o almeno i loro portavoce, per un istante uniti come un tempo: «Per dei fratelli che tengono così tanto alle questioni che circondano la salute mentale, un uso di questo tipo di un linguaggio infiammatorio è offensivo e potenzialmente dannoso». Altre indiscrezioni, questa volta positive, hanno attribuito a William frasi da fratello buono e preoccupato, dispiaciuto di non poter più «tenere il braccio intorno alla spalla di Harry» come ha sempre fatto in passato e speranzoso di poter ritrovare un’armonia. Quando negli anni Ottanta i bambini erano piccoli, secondo gli osservatori dell’epoca, la madre Diana non aveva tenuto abbastanza in considerazione il fatto che William sarebbe stato re e Harry no, lasciando forse che dall’ambiguità nascessero anche i semi di una rivalità che non è iniziata con la presunta accoglienza fredda riservata a Meghan – la quale in questo frangente avrebbe il pieno sostegno di sua madre Doria, preoccupata da un po’ di tempo per la sua tenuta psicologica - e che ha radici lontane. I britannici non hanno fatto pace con il fatto che quei due ragazzini che seguirono il feretro della madre in mondovisione non siano più uniti come un tempo. Ma se da una parte di Harry in questi giorni si può dire apertamente che il suo comportamento è «disgustoso», come fatto da un ex ufficiale dei Marines di cui il duca di Sussex è capitano generale, William, e insieme a lui Kate, devono restare al di fuori di ogni possibile ombra. Anche perché si annunciano tempi difficili, con gli amici della coppia di fuggitivi che dicono che la possibilità di un’intervista televisiva è tutt’altro che remota in caso di disaccordo con Buckingham Palace e che «non sarà gradevole».

La Regina Elisabetta e gli anni di «libertà» a Malta, ecco perché capisce Harry e Meghan. Pubblicato martedì, 14 gennaio 2020 su Corriere.it da Paola Caruso. La crisi «Megxit» si conclusa con un compromesso: Harry e Meghan passeranno «un periodo di transizione» dividendosi tra Canada e Regno Unito. E anche se molte questioni sono ancora da discutere e da definire nei prossimi giorni, la Regina dice di comprendere la volontà del nipote. «La mia famiglia e io (Elisabetta, ndr) siamo totalmente a favore del desiderio di Harry e Meghan di creare una nuova vita da giovane famiglia», spiega il comunicato ufficiale diffuso da Buckingham Palace. La sovrana capisce davvero l’esigenza dei duchi di Sussex di svincolarsi, almeno per un po’ di tempo (ecco il compromesso), perché anche lei da giovane sposa ha avuto la possibilità di allontanarsi dalla Corte. Parliamo degli anni a Malta. Sposata dal 1947, nel 1949 Elisabetta II si è trasferita a Malta quando il marito ha preso servizio come tenente comandante nella marina reale. Ha già dato alla luce un erede (il principe Carlo è nato nel 1948) e per la prima volta assaggia un po’ di libertà, mai sperimentata prima. Qui, Elisabetta ha possibilità di condurre un’esistenza diversa da quella di Palazzo, quasi da commoner, girando da sola in auto per l’isola, andando dal parrucchiere e organizzando pic-nic, come dicono gli storici royal. Conosce il gusto della libertà e dell’indipendenza. Ecco perché Sua Maestà ha accettato il «periodo di transizione», che potrebbe durare anni. E per certi versi è simile al suo, anche se lei non ha mai abbandonati i doveri della Corona. L’idillio lontano dall’Inghilterra, a Malta, è durato poco più di tre anni, fino alla morte di Re Giorgio VI nel febbraio del 1952. Chissà se il periodo di Harry e Meghan da reali «part-time» sarà uguale.

DAGONEWS il 14 gennaio 2020. Il principe Harry è stato accusato di “aver snobbato” la commemorazione dei Royal Marines per gli 11 militari uccisi dall'IRA per andare alla premier del Re Leone dove ha raccomandato Meghan Markle al capo della Disney per un lavoro da doppiatrice. Le polemiche sono esplose dopo il filmato del duca di Sussex che ha messo alle strette Bob Iger, convincendolo che la moglie sarebbe stata molto interessata a lavorare con la società. L'evento si è tenuto ad agosto lo stesso giorno in cui il principe Harry, che è il capitano dei Royal Marines, era stato invitato a onorare le vittime di una bomba dell'IRA alla base dei Royal Marines a Deal, nel Kent, nel 1989. Un’occasione ghiotta per Piers Morgan che ha infilzato il duca: «Harry era stato invitato come Capitano dei Royal Marines per commemorare i militari uccisi dall'IRA. Ha detto "no" e invece è andato alla premiere Disney del Re Leone. Piuttosto che svolgere il suo dovere, stava spingendo sua moglie per il lavoro di doppiatrice. Ora possono avere la loro torta e mangiarla». Un portavoce di Buckingham Palace, che gestisce la comunicazione del duca e della duchessa del Sussex, aveva detto lo scorso agosto: «L’agenda del duca viene fissata con un certo numero di mesi di anticipo e in questa occasione non c’era possibilità di essere presente alla commemorazione».

Enrica Roddolo per il “Corriere della Sera” il 14 gennaio 2020. «Delusa dal passo indietro di Harry e soprattutto Meghan? Commoner come me, entrata in una famiglia reale senza riuscire a calarsi nel ruolo royal? Delusa no, in fondo la coppia è rimasta coerente con il sì d' amore a Windsor, un sì fuori dagli schemi, lei americana, divorziata, due culture diverse», dice al Corriere la principessa Camilla di Borbone che ha sposato, nel 1998, Carlo di Borbone delle due Sicilie. «Però, certo...» Però? «Però mai avrei immaginato che sarebbero usciti allo scoperto con una richiesta d' indipendenza così improvvisa. Anche se capisco la frustrazione del classico lavoro da working royal , che poi è un mestiere di rappresentanza. Non c' è dubbio, è diverso da un vero e proprio lavoro che può assicurare un diverso livello di gratificazione e una fonte di guadagno». In queste ore complesse per la Corona Elisabetta II non ha perso la sua serenità nell' affrontare anche le questioni più spinose. Come pensa stia affrontando questa situazione di crisi? «Dal 1953 da quando fu incoronata a Westminster Abbey a Londra, Sua Maestà ha dimostrato di aver sempre avuto il coraggio di rimettere in gioco la monarchia, l' ha fatto nei momenti di frizione con Diana e poi dopo l' incidente di Diana, e ora con il caso del figlio Andrea, il duca di York. E se provo a immedesimarmi, credo abbia chiaro in mente che nella decisione che dovrà prendere per il futuro di Harry e Meghan nella famiglia dei Windsor, il futuro della monarchia deve venire prima. È donna, madre, nonna ma è cresciuta regina e sa che prima viene l' istituzione». Decisa a fare di una crisi, un' opportunità, in altre parole, tracciare con la scusa dei Sussexes linee guida per il futuro dei Windsor. Quanto a Carlo, l' erede al trono, l' inizio del 2020 gli ha riservato ben due prove del nove: la gestione del caso Andrea e adesso quella del caso Harry. Prove superate? «Vero è che rispetto ai latini, per la mia esperienza di Londra, gli inglesi sono più freddi dei Paesi mediterranei ma concordo, Carlo ha dimostrato in situazioni di crisi di aver imparato la calma delle decisioni difficili».

Alberto Mattioli per ''la Stampa'' il 14 gennaio 2020. Tutti a parlare dei poveri (si fa per dire) Harry & Meghan che salutano i Windsor e mettono su un bel business di ospitate e simili griffato «Sussex Royal». Elisabetta II, pare, non ha gradito e lo sgradevole episodio certo la confermerà nella sua predilezione per cani e cavalli, esseri viventi che hanno il pregio di non sposarsi, non divorziare e soprattutto non parlare. Però, in fin dei conti, la notizia non è così tragica. Non è certo la prima volta che qualcuno decide di togliersi un' ingombrante corona dalla testa. Quelli che scappano sono stati tanti. Inutile ricordare Papa Celestino V, «colui che fece per viltade il gran rifiuto», per la precisione nel 1293. Dante non glielo perdonò mai e infatti lo mandò all' Inferno, soprattutto perché sulla sedia gestatoria così liberata salì subito Bonifacio VIII, che a Dante stava simpatico più o meno come Meghan a Kate (e viceversa). In realtà Celestino, al secolo Pietro da Morrone, era un pio ma sprovveduto eremita del tutto incapace di governare, e figuriamoci una superpotenza come la Chiesa di allora (e di oggi). Anche in tempi più recenti ci sono esempi clamorosi di fuga dai doveri dinastici. Per esempio, il povero Ferdinando I d' Austria, uno scimunito che, in pieno Quarantotto, fu pregato di sloggiare per lasciare il trono al nipote diciottenne Francesco Giuseppe. Il babbeo, celebre per una frase, «Sono Imperatore e voglio gli gnocchi!», si ritirò a Praga. Da lì, ogni volta che il nipote perdeva una guerra e qualche provincia, commentava: «Questo avrei potuto farlo anch' io». Pochi anni prima, i Romanov erano stati protagonisti di un analogo palleggio di responsabilità. Nel 1825, muore lo Zar Alessandro I. L' erede è il fratello Costantino, che fa sapere all' altro fratello Nicola che non vuole saperne. Ma non vuole saperne nemmeno Nicola e i due si palleggiano la corona (e la Russia) per un bel po', finché a Pietroburgo i Decabristi tentano di fare la rivoluzione e Nicola deve decidersi a diventare Nicola I per farne impiccare un po' e spedire gli altri a rinfrescarsi le idee in Siberia. Ma poi, si diceva, i Windsor quello che ha fatto il gran rifiuto l' hanno già avuto. Si tratta di Edoardo VIII, cioè «zio David» per l' attuale Sovrana, che non gli ha mai perdonato l' abdicazione per sposare Wallis Simpson, nel gergo di Elisabetta «that woman». A causa di questo matrimonio diventò Re e Imperatore dell' India suo papà Alberto, alias Giorgio VI, che di regnare e imperare non aveva alcuna voglia. Ed Elisabetta ha sempre pensato che sia stato lo stress da trono (oltre magari ai tre pacchetti di sigarette quotidiani e ad altre complicazioni come la Seconda guerra mondiale) ad aver portato prematuramente il suo adorato genitore alla tomba e lei al suo posto. Neanche Elisabetta era entusiasta della prospettiva. Avrebbe di gran lunga preferito fare la gentildonna di campagna circondata dai suoi cari, soprattutto quelli a quattro zampe. E' andata diversamente, come si sa. Però l' idea di mollare tutto a lei non è mai passata per la testa e a 93 anni continua a fare un mestiere noioso e faticoso come pochi, e a farlo impeccabilmente. Altra tempra, diciamo.

DAGONEWS il 14 gennaio 2020. Dopo il summit senza precedenti della Famiglia Reale a Sandringham per trovare un accordo su Harry e Meghan, la Regina ha pubblicato un comunicato. Ma cosa si nasconde dietro le parole misurate e ben pesate di Elisabetta II? La corrispondente reale del Daily Mail Rebecca English ha esaminato il testo prendendo in considerazione sei frasi chiave del testo per scoprirne il significato nascosto. Oggi la mia famiglia ha avuto una discussione molto costruttiva sul futuro di mio nipote e della sua famiglia. Il fatto che la regina abbia rilasciato la dichiarazione a suo nome e faccia riferimento a "la mia famiglia" e "mio nipote e la sua famiglia" è significativo. La Regina è stata profondamente ferita dagli eventi della scorsa settimana, ma è stata anche presa alla sprovvista dalla reazione contro Harry dopo che ha rilasciato la sua dichiarazione senza farle sapere nulla prima. La Regina vuole che il mondo sappia che non è solo il capo della "Firm", ma anche una nonna. Era improbabile che Sua Maestà - le cui recenti uscite pubbliche erano state progettate per mostrare che la vita reale stava continuando normalmente - avrebbe descritto l'incontro con un termine diverso da "costruttivo" visto che da giorni cerca di stabilizzare la nave e tracciare una via d'uscita dalla crisi. La mia famiglia e io siamo totalmente a favore del desiderio di Harry e Meghan di creare una nuova vita per la loro giovane famiglia. Il riferimento di Sua Maestà a "Harry e Meghan", piuttosto che "il Duca e la Duchessa del Sussex", come vuole il protocollo per le dichiarazioni ufficiali del Palazzo, potrebbe essere un indicatore che alla coppia verrà tolto il titolo di HRH. "Io e la mia famiglia" è anche un tentativo di mostrare un fronte unito e spazzare via i dubbi di divisione all’interno di Buckingham Palace. Sebbene avremmo preferito che rimanessero membri a tempo pieno della Famiglia Reale, rispettiamo e comprendiamo il loro desiderio di vivere una vita più indipendente come famiglia pur rimanendo una parte preziosa della mia famiglia. La Regina, così come altri membri anziani della famiglia reale, mette in chiaro di essere ferita dai eventi recenti. C'è anche lo stupore che Harry, in particolare, si sia sentito spinto dalla decisione  dal progetto di Carlo di una futura monarchia ridotta. Al tempo del Queen's Diamond Jubilee nel 2012, quando la regina, Carlo e i suoi due figli erano sul balcone di Buckingham Palace, Harry venne descritto come "componente chiave" della casa reale. I membri della famiglia reale hanno sempre creduto che Harry abbia sempre portato gioia di vivere e senza di lui e Meghan mancheranno reali di alto rango. La Regina, tuttavia, comprende il suo desiderio di staccarsi e il suo rifiuto di inchinarsi alle convenzioni. Harry e Meghan hanno chiarito che non vogliono fare affidamento su fondi pubblici nella loro nuova vita. La mancanza di dettagli su questo dettaglio fa capire che c’è ancora molto su cui discutere. Si prevede che Harry e Meghan facciano milioni grazie al loro brand, ma non sarà economico mantenere uno stile di via che li vuole divisi tra Canada e Gran Bretagna. La dichiarazione non specifica se Carlo continuerà a dare al figlio la somma di 2 milioni di sterline all'anno. Si evita di affrontare il problema della sicurezza finanziata dai contribuenti e dell'aiuto consolare. Inoltre i reali temono che i loro “incassi” possano svalutare il marchio reale. È stato pertanto concordato che ci sarà un periodo di transizione in cui i Sussex trascorreranno del tempo in Canada e nel Regno Unito. Nel trasferire il figlio, i cani e la famiglia in Canada, Harry e Meghan hanno già fatto capire alla Regina che, almeno per l'immediato futuro, non c'è alcuna intenzione di tornare in Gran Bretagna. In questo la Regina ha avuto pochissima scelta. Non può ordinare loro di tornare, quindi potrebbe anche capitolare per mantenere la pace mentre cerca di formalizzare i nuovi accordi. Queste sono questioni complesse che la mia famiglia deve affrontare e c'è ancora molto lavoro da fare, ma ho chiesto che le decisioni finali siano prese nei prossimi giorni. Qui la regina ammette di navigare in acque inesplorate, ma chiarisce la determinazione a che si lavori 24 ore su 24 per arrivare a una soluzione elegante.

Cosa significa veramente il comunicato della Regina su Harry e Meghan? Lo rivela una psicologa. Dietro le parole della Regina sulla decisione di Harry e Meghan, esiste un significato più profondo. A svelarlo una psicologa. Roberta Damiata, Mercoledì 15/01/2020, su Il Giornale. La decisione di Harry e Meghan di “dimettersi” e quindi allontanarsi dalla Monarchia e anche da Londra, ha creato scalpore in milioni di persone in tutto il mondo, ma nessuno è rimasto così sconvolto come la Regina. La cosa è facilmente immaginabile, e anche comprensibile, ma a dirlo non è la sensibilità comune, piuttosto l’esame del testo, redatto da Sua Maestà, da parte di Jo Hemmings una psicologa inglese. Elisabetta infatti, al contrario delle previsioni e del suo attaccamento alla Monarchia e alla Corona, in questa occasione ha fatto un’insolito passo indietro, rispetto alle rigide regole di palazzo, rilasciando una delle sue dichiarazioni più personali mai fatte fino ad ora, per “rispondere” alla decisione del nipote Harry e di sua moglie Meghan. La psicologa ha analizzato il testo e “letto” tra le righe facendo uscire le reali emozioni e cosa è nascosto dietro le parole di Sua Maestà. La prima cosa che esce fuori da questa analisi, è una profonda tristezza da parte della sovrana per la decisione che l’ha addolorata moltissimo. La psicologa sostiene che il toccante messaggio rivela gran parte del rimpianto per la decisione di suo nipote, ma anche indizi che rivelano che ha perfettamente compreso che la nascita del piccolo Archie, sia stata fondamentale nella decisione presa da Harry e Meghan.

La dichiarazione parte per parte. Leggendo il testo di Sua Maestà la prima cosa che si nota è che ha fatto riferimento alla scelta di Harry e Meghan usando i loro nomi e non il loro attuale titolo. Ha detto “Io e la mia famiglia siamo completamente favorevoli al desiderio di Harry e Meghan di crearsi una nuova vita come una giovane famiglia”. Questo suggerirebbe che potrebbe prendere in considerazione la possibilità di cambiare a tempo debito i loro titoli reali. L’uso dei nomi infatti, è molto insolito per lei che usa invece titoli formali per tutti i membri della famiglia reale quando parla pubblicamente. Allo stesso modo però, suggerisce anche il fatto che l’anziana monarca non sostiene la scelta come Regina, ma la approva invece come nonna.

Grande tristezza. Sempre secondo la psicologa Jo, all’interno del testo la frase più personale che “esterna” la reale tristezza della Regina è la parte in cui scrive: “Sebbene avremmo preferito che rimanessero membri della Famiglia Reale e che lavorassero a tempo pieno, rispettiamo e comprendiamo il loro desiderio di vivere una vita più indipendente come famiglia pur rimanendo una parte preziosa della mia famiglia”.Con queste parole Elisabetta desidera farli sentire parte della sua famiglia, qualunque sia il ruolo che hanno scelto per loro stessi, e di comprendere il loro desiderio di indipendenza che si è acuito dopo la nascita del piccolo Archie, che ha avuto un ruolo fondamentale per Harry e Meghan in questa decisione.

Reali autofinanziati?. La parte più importante, quella che viene messa in evidenza in quasi tutti i titoli e articoli che sono stati scritti in questi giorni, è di sicuro quella che parla di come Harry e Meghan intendono mantenersi quando non avranno più il sostegno finanziario pubblico. La Regina non ha chiarito se non in piccola parte quello che succederà: “Penso comunque che sia un’affermazione favorevole - racconta però la psicologa - tuttavia non risponde alla domanda se riceveranno ancora i fondi dal ducato di Cornovaglia del Principe né se la loro sicurezza personale sarà pagata con i fondi pubblici".

Cambieranno idea? Una delle parti che più ha toccato e ferito la Regina Elisabetta, è stata la conferma di Harry e Meghan di dividersi tra il Canada e il Regno Unito. Sua Maestà ha preso una posizione ferma sulla questione, che sembra suggerire che spera che i due cambieranno la loro decisione in futuro. Ha infatti scritto: “E’ stato quindi deciso che ci sarà un periodo di transizione in cui i duchi trascorreranno del tempo in Canada e nel Regno Unito”. Questa frase suggerisce che non è disposta a lasciarli andare in fretta e che spera che questo passaggio potrebbe non essere definitivo. “Sembra che stia lasciando la porta aperta affinché possano tornare - conclude Jo - e si percepisce un tocco di malinconia in questa affermazione”.

La speranza che tutto finisca presto. E’ indubbio che la decisione di Harry e Meghan sia stata in primo piano e al centro dei titoli di questa settimana, ma le ultime parole della Regina che descrivono le cose come “complesse” mostrano quanto sia desiderosa che questo incubo finisca. Ha scritto “Queste sono questioni complesse da risolvere per la mia famiglia, e c’è ancora molto lavoro da fare, ma ho chiesto che le decisioni finali siano prese nei prossimi giorni”. La psicologa sostiene che questo sia un appello della Regina affinché le voci e le speculazioni su questa vicenda vengano fatte tacere, inoltre l’uso della parola ‘complesso’ e ‘decisioni’ indicano che è desiderosa che tutta questa questione finisca al più presto.

Vittorio Sabadin per “la Stampa” il 14 gennaio 2020. L' unica cosa che la regina Elisabetta ha voluto sottolineare con chiarezza nel suo comunicato è che Harry e Meghan non riceveranno più fondi pubblici dopo il divorzio dalla Royal Family. Dovranno dunque anche loro lavorare per vivere? Non subito. Harry dispone di un patrimonio di circa 35 milioni di sterline, soldi che gli hanno lasciato in parte sua madre Diana e in parte la bisnonna Elizabeth. Meghan avrebbe in banca circa 5 milioni guadagnati recitando in «Suits». Per un po' dovrebbero cavarsela, ma dovranno pur farsi venire in mente qualcosa per tirare avanti. Meghan da questo punto di vista sembra avere le idee molto chiare. Già nel giugno scorso ha fatto depositare da due sue collaboratrici il marchio Sussex Royal, la cui proprietà è stata trasferita ai Sussex in dicembre. Il brand è stato esteso a 100 tipologie di oggetti, che vanno dai prodotti per bambini ai vestiti e perfino ai giornali. Secondo gli esperti di marketing, un marchio come questo vale globalmente 400 milioni di sterline, altro che i 5 milioni che passavano a Harry e Meghan la regina e il principe Carlo insieme, facendoglieli pure pesare. Alla prima del «Re Leone», Meghan ha già mostrato che cosa si aspetta dal principe che si porterà al guinzaglio in America. Mentre lei abbracciava amiche e conoscenti, Harry spiegava al ceo della Disney Bob Iger che sua moglie poteva fare la voce fuori campo nei documentari, ed è stato subito firmato un contratto. In America ci sono poi gli amici della duchessa che la sanno lunga su come si fanno i soldi quando si è famosi: i Clinton e gli Obama vengono ingaggiati per fare discorsi da 400 mila dollari l'uno e hanno aperto fondazioni che contribuiscono contemporaneamente a salvare il mondo e fare crescere il loro conto in banca. C' è poi un' altra amica, Oprah Winfrey, la regina della tv americana, che partendo dal nulla ha messo su un impero da 2,6 miliardi di dollari con programmi tv, giornali e periodici con il suo nome nella testata, discorsi sulla tolleranza e sulle molestie ai bambini, libri sulle diete e sul fitness, un sito web molto ricco di pubblicità, partecipazioni azionarie in Weight Watchers e in decine di altre imprese che vengono rinvigorite solo dall' apparizione del suo nome nel consiglio di amministrazione. Anche Serena Williams potrà fornire qualche idea brillante su come trasformare in denaro la notorietà. Quando ha incontrato Harry, Meghan era nella fase discendente di una modesta carriera di attrice. «Meghan chi?», aveva chiesto Elisabetta la prima volta che gliene avevano parlato. Ora tutto il mondo la conosce e bisogna approfittarne. I Sussex resteranno un po' a Toronto, ma gli inverni a - 20 sono lunghi e duri da sopportare. Lei tornerà appena possibile a Los Angeles, alla corte dei nuovi, veri sovrani del mondo: gli attori e le celebrità.

Le tre donne (più una) che hanno influenzato il destino del principe Harry. Dietro allo strappo con Buckingham Palace ci sono le figure più importanti della sua famiglia, ma anche una psicologa che continua a far parlare di sé. Lo racconta da Londra David Cohen, psicologo, autore, regista e Fellow della Royal Society of Medicine. Stefania De Matteis su La Repubblica il 15 gennaio 2020. Le scelte sono come i cocktails: un’alchimia di diversi ingredienti. La decisione di Harry può far discutere, ma non fa eccezione. “Tutte le scelte sono complicate ed è pericoloso speculare sulle ragioni di qualcun altro, ma è pur vero che esistono alcuni elementi che collegano la decisione di Harry alle donne più importanti della sua vita”, osserva da Londra David Cohen, psicologo, autore, regista e Fellow della Royal Society of Medicine. Vengono in mente Diana e Meghan Markel, ma nel conto entrano altre due donne: la Regina in primis e la psicologa Susie Orbach.

Nipote di un’istituzione. “Ci sono stati un sacco di ottimi genitori nella storia della Casa Reale britannica e altri, decisamente meno buoni”, prosegue Cohen, autore di “Diana: Death of a Goddess” (Diana: morte di una dea, ndr) e “Bringing them up Royal: how the Royals raised their children from Henry VIII to present day” (Allevare reali: come i reali hanno cresciuto i loro figli da Enrico VIII a oggi, ndr). Elisabetta, a quanto pare, è stata una madre molto distante: “Quando nel 1951, la futura Queen Elizabeth II e il Principe Filippo ritornano in patria da un lungo viaggio in Canada e Washington, il piccolo Charles è alla stazione di Paddington ad aspettare la mamma che lo saluta con un buffetto e una stretta di mano”. Mentre il Principe Filippo dimostra una preferenza per la figlia Anna, Charles trova affetto nella Regina Madre con cui stringe un legame più forte che con la madre biologica. “È stata la nonna più magica che ci si potrebbe immaginare e io le ero completamente devoto”, ha raccontato in un’intervista alcuni anni fa. Le cose sono andate diversamente per Harry. “La regina è allo stesso tempo una persona e un’istituzione”, nota lo psicologo. “Non deve essere facile, dunque, avere per nonna una Übergroßmutter, una figura così dominante”.Diana con Harry nel 1995.

Figlio di un'icona. In modi diversi, dunque, Elisabetta ha influenzato entrambe le generazioni dei suoi eredi. “Prince Charles ha sempre avuto un’attrazione per le donne più vecchie di lui, come se potessero dargli l’affetto materno che non ha mai avuto e quando è diventato padre, è stato un padre distante”. Diana, invece, era fatta di tutt’altra pasta. “Forse perché non ha avuto un’infanzia infelice, oppure perché ha sempre nutrito un grande amore per i bambini, era molto vicina ai figli”. Inoltre, organizzava la sua agenda in funzione delle loro necessità. Secondo Cohen, Diana non era un’outsider: lo è diventata. “Quando Charles ha sposato Diana, di tredici anni più giovane, nessuno si immaginava che si sarebbe trasformata in una donna indipendente”. Dopo l’incidente di Parigi, a William e Harry è stato proibito di esprimere pubblicamente i loro sentimenti: li abbiamo visti tutti seguire, senza una lacrima, il feretro della madre. Harry ha parlato di questo trauma un paio di anni fa: “Mia madre era appena morta e io ho dovuto camminare dietro alla sua bara, circondato da migliaia di persone che mi guardavano, mentre altri milioni di persone seguivano il funerale alla tv. A nessun bambino dovrebbe essere chiesto di fare qualcosa di simile, in nessuna circostanza”. Secondo lo psicologo britannico, la rabbia di Harry nasce proprio qui: “A 12 anni, gli è stato chiesto di nascondere i propri sentimenti. Ci sono voluti vent’anni, perché cominciasse a guardarsi dentro, a portare a galla le emozioni, a parlare apertamente dei suoi problemi mentali, a farsi portavoce di una campagna di sensibilizzazione in proposito”.

Marito di un’outsider. Scapolo d’oro, Harry ha avuto molte ragazze. “Nessuna donna ha un’influenza paragonabile a quella di Diana prima e di Meghan poi”, sostiene Cohen. Come Lady D, anche Meghan Markle è un’outsider. “Inoltre, è schietta e di razza mista”. E questa potrebbe essere di più di una coincidenza. “Basta pensare alla relazione di Diana con Hasnat Ahmad Khan, il cardiochirurgo pachistano e a quella successiva con Dodi Al-Fayed, passaporto egiziano”, fa notare lo psicologo. “Harry ha compiuto un percorso ed è maturato molto in questi anni, complice la paternità. È comprensibile che voglia condurre una vita normale, essere se stesso, ma il problema è che la sua vita è dettata da qualcun altro. Non devono preoccuparsi di fare quadrare i conti, ma la pressione sui membri della famiglia reale è enorme: non puoi mai esprimere un parere personale”. La verità è che anche per un’istituzione come la Corona ci sono limiti al controllo che può esercitare. “È proprio in questo spazio che Harry, sentendosi supportato da Meghan, ha trovato un punto di rottura”. Come si spiega, però, uno strappo così eclatante attraverso quegli stessi media che Harry e Meghan accusano? “Diana criticava la stampa, ma la usava sapientemente”, risponde lo psicologo.La psicanalista Susie Orbach che ebbe in cura Lady Diana.

L’incubo dei Windsor. Lo dimostra famosa intervista del 1995 alla Bbc. Anche quella volta, la famiglia reale non era stata avvertita e Diana, parlando con il giornalista Martin Bashir, ha vuotato il sacco davanti a 15 milioni di inglesi incollati alla tv, denunciando i tradimenti del marito, ammettendo i propri, raccontando di soffrire di bulimia, depressione e autolesionismo. Quel 20 novembre è stato un punto di svolta per la Corona - il Daily Mail l’ha definita la “più grande crisi dall’abdicazione di Edoardo VIII nel 1936” -, ma anche per Diana, arrivata al culmine di un percorso di auto-consapevolezza intrapreso con la sua psicanalista Susie Orbach. Figlia di un’insegnante americana e di un parlamentare laburista, Orbach - per usare le parole del 1996 della giornalista americana Nina Darton, è “il peggior incubo dei Windsor”. “Niente a che vedere con un costoso psicologo di Harley Street che Buckingham Palace avrebbe potuto tollerare. Orbach cura pazienti di ogni estrazione e negozia il compenso in base a ciò che si possono permettere. È un’attivista politica, un’idealista, si è unita al movimento per i diritti civili negli Stati Uniti, ha marciato contro la guerra del Vietnam e ha partecipato ai primi gruppi di auto-coscienza femministi”. Nel suo saggio del 1978 “Fat is a Feminist Issue” (Il grasso è una questione femminista, ndr), Orbach esplicita la relazione fra cibo ed emozioni e nel 1995 contribuisce a lanciare Antidote, una campagna per la cosiddetta “emotional literacy”, l’alfabetizzazione emotiva. Se mai avesse avuto bisogno di un testimonial, Diana in tv è stata perfetta: “Non faccio le cose seguendo le regole, mi faccio portare dal cuore e non dalla testa”. Una parabola che Harry, tagliando il cordone ombelicale con la Casa Reale, sembra aver interpretato alla lettera.

Da rivistastudio.com il 15 gennaio 2020. Non è un caso che il loro family drama abbia ispirato quello della famiglia Roy, della serie Hbo Succession, tra il patriarca ancorato a un passato glorioso e un erede al trono mancato. Nelle ultime ore infatti, il figlio di Rupert Murdoch, James, ha fortemente criticato i quotidiani di proprietà del padre per aver minimizzato l’impatto della crisi climatica, mentre gli incendi boschivi continuano a bruciare l’Australia. Come riporta il Guardian, un portavoce di James Murdoch e di sua moglie ha spiegato che «sono entrambi molto delusi dal continuo diniego del cambiamento climatico che le testate della famiglia stanno sostenendo. Soprattutto in un momento come questo, in cui vi sono evidenti prove che confermano il contrario». Tra gli episodi che avrebbero spinto James Murdoch a denigrare una simile linea editoriale generalmente conservatrice, l’attività di Andrew Bolt, commentatore politico dei programmi australiani di proprietà della News Corp che ha più volte promosso le opinioni dei negazionisti della crisi climatica. Ma come sottolinea il Financial Times, le critiche di James farebbero inoltre luce sulle fratture interne alla famiglia relative al piano di successione all’impero paterno. Un tempo ritenuto erede diretto del patrimonio di famiglia, James Murdoch, ex amministratore delegato di 21st Century Fox, nonostante continui a far parte del consiglio di amministrazione della News Corp (che controlla tra gli altri, il Sun, il Times, il New York Post e il Wall Street Journal), non ha più alcun tipo di ruolo dirigenziale della società paterna a differenza del fratello, Lachlan, ancora attivamente coinvolto nelle attività di famiglia.

Cristina Marconi per ''Il Messaggero'' il 15 gennaio 2020. Proteggere una famiglia reale costa già moltissimo, ma farlo tra due Paesi diversi e lontani come Regno Unito e Canada può diventare un problema. E infatti sono proprio le parcelle dei bodyguard di Meghan e Harry uno dei punti più difficili da risolvere per gli sherpa dei Windsor. Il loro compito è trovare nei prossimi giorni un modo per permettere ai duchi di Sussex di realizzare le proprie ambizioni di «indipendenza finanziaria» nel Paese nordamericano senza che questo incida sulla loro incolumità e nel rispetto dell'esigenza di Buckingham Palace di proteggere la monarchia da futuri scandali. Ma non è facile, anche perché, nonostante il premier canadese Justin Trudeau si sia espresso favorevolmente sulla decisione dei due di scegliere il suo Paese e secondo alcuni media si sia addirittura offerto di pagare parte dei costi per la security, ha messo in guardia sul fatto che «ci sono molte discussioni ancora da fare» su soldi e altri aspetti. Anche perché bisogna evitare che l'opinione pubblica canadese, al momento piuttosto favorevole all'arrivo di Meghan e Harry, finisca col ribellarsi contro la monarchia: il Canada ha Elisabetta II come capo di Stato, ma una fetta dell'opinione pubblica ritiene che quando la regina verrà a mancare tutto dovrà cambiare. Anche per questo è importante trovare un equilibrio per soddisfare la richiesta di «protezione internazionale» dei duchi di Sussex. La sicurezza della coppia costa circa ottocento mila euro all'anno e potrebbe quasi raddoppiare vivendo tra due Paesi, ma non è questo l'unico problema. Secondo un ex agente di Scotland Yard, i due hanno «messo la Metropolitan Police in una situazione impossibile», visto che solo a Natale, per sei settimane passate in una situazione relativamente protetta e senza impegni pubblici, sono stati dispiegati sei agenti armati a tempo pieno. E poiché al momento ci sono tre generazioni di reali al lavoro, ossia Elisabetta, Carlo e Camilla e le due coppie più giovani, ossia William e Kate e Meghan e Harry, il personale non basta. In generale nel Paese il numero di agenti dedicati alla sicurezza dovrebbe aumentare da 449 a 540, ma è difficile trovare gli aspiranti bodyguard da formare. E solo tra aerei e trasferimenti in giro per il mondo, si sono spesi più di 5 milioni di euro nel 2018-2019, mentre gli alberghi costano circa 2 milioni all'anno per poter seguire tutti, non solo i reali. Abbastanza per dare fiato agli argomenti dei repubblicani, britannici e non. Il principe Carlo, che finanzia lo stile di vita del secondogenito e della moglie, potrebbe occuparsi di pagare il conto. Dell'incontro a Sandringham è emerso poco, salvo che Meghan, alla fine, non è intervenuta telefonicamente. «I Sussex hanno deciso che non era necessario che la duchessa si unisse», ha spiegato una fonte nel tentativo di fugare le voci secondo cui la regina, Carlo e William non l'avrebbero voluta o che, per ragioni di sicurezza, si sia voluto evitare che qualcuno potesse intercettare e la conversazione. Nella marea di critiche , in difesa della duchessa è giunto Stormzy, rapper, che ha sottolineato come non ci siano ragioni «convincenti» per tutto l'odio che Meghan sta attirando su di sé. «È una donna dolce, fa le sue cose», ha spiegato.

Articolo di Ban Bilefsky pubblicato da “la Repubblica” il 14 gennaio 2020. Alcuni si sono azzardati a supporre che potrebbero diventare il re e la regina del Canada. Tim Hortons, la tipica catena di caffè canadese, offrirà loro "caffé gratis a vita". Altri ancora hanno raccomandato che si trasferiscano a Ottawa, la sonnolenta capitale del Paese, facendo notare che, chiudendo un po' gli occhi, potrebbero fingere che gli edifici del Parlamento siano palazzi. Il principe Harry e sua moglie Meghan Markle hanno entusiasmato la comunità internazionale annunciando di volersi ritirare dagli impegni ufficiali della monarchia e vivere almeno una parte dell' anno in America settentrionale. Anche prima di aver rivelato dove sarebbero andati a vivere, però, molti canadesi erano già contenti all' idea che si stabilissero in Canada. Le voci secondo cui sarebbe stato il Canada il rifugio scelto si erano rafforzate in settimana, dopo che la coppia ha annunciato il piano di volersi trasferire in "America settentrionale" invece che negli Usa. Durante la recente vacanza di sei settimane, la coppia ha affascinato gli abitanti che vivono sull' isola di Vancouver interrompendo una passeggiata per aiutare con galanteria una coppia a scattarsi un selfie, secondo quanto hanno riportato i media locali. Sia i commentatori sia i cittadini canadesi si sono subito profusi in consigli su ogni aspetto possibile, da come dovrebbe vestirsi la coppia reale per superare il rigido inverno canadese a dove dovrebbe vivere. «Farebbero proprio bene a mettere da parte corone, scettri e ghirlande di gemme e gioielli inestimabili e vestire i panni del Canuck (il canadese medio)» ha scritto su The Guardian John Semley, che si dice antimonarchico. Gli atteggiamenti dell' opinione pubblica nei confronti dei reali potrebbero raffreddarsi rapidamente qualora i canadesi dovessero pagare di tasca loro le onerose spese per la sicurezza, dice Philippe Lagassé, un esperto di monarchia britannica all' università di Ottawa. Oltretutto, anche se i due principi hanno detto di voler diventare finanziariamente indipendenti, non è garantito che ottengano il permesso di lavorare in Canada. Lagassè ha infatti precisato che, anche se la nonna del principe Harry è la personificazione dello Stato canadese, ciò non conferisce diritti legali nel Paese alla sua progenie. Malgrado il grosso putiferio, forse i canadesi si stanno rallegrando prematuramente, visto che tutto sommato la coppia reale potrebbe decidere di trasferirsi negli Stati Uniti per stare più vicina alla famiglia della duchessa. Dopo tutto, il principe Harry potrebbe anche fare sue le parole di suo nonno, il principe Filippo, che durante una visita in Canada nel 1976 disse: «Non veniamo qui per motivi di salute. Penso che ci siano modi migliori per godersi la vita ».

Ecco da chi si rifugeranno Meghan ed Harry. Dallo storico vertice di Sandringham sono emersi alcuni punti chiave che dovranno essere seguiti per permettere ai duchi di Sussex di prendere le distanze dalla famiglia reale, tra questi anche le disposizioni sulla loro nuova dimora. Novella Toloni, Martedì 14/01/2020, su Il Giornale. Il vertice di Sandringham si è concluso con una "fumata bianca". La regina Elisabetta II ha dato il suo benestare a Harry e Meghan, che ora potranno avere una vita da indipendenti lontano - o quasi - dalla famiglia reale. L'atteggiamento di apertura mostrato da Sua Maestà evidenzia il lato più futurista della monarchia inglese, ma non deve distogliere l'attenzione dai diktat che saranno imposti ai duchi di Sussex. Un po' come si fa con il bastone e la carota, la sovrana ha assecondato le volontà del principe Harry e di sua moglie Meghan Markle di prendere le distanze dalla royal family ma ad alcune condizioni (sei, secondo i tabloid britannici), tra tutte anche la scelta della dimora dove Harry e Meghan vivranno in Canada. Come riporta il quotidiano inglese The Mirror: "Qualsiasi nuova casa dovrà essere valutata dai servizi di sicurezza del Regno Unito e da Buckingham Palace a causa di problemi di sicurezza". I sussex dovranno dunque sottostare ad alcune regole preventive atte a garantirgli l'incolumità. Libertà, dunque, ma fino ad un certo punto. Difficile dunque sapere se la coppia reale rimarrà nella tanto discussa residenza in riva a lago a Vancouver. Secondo le indiscrezioni Meghan Markle, una volta atterrata in Canada, sarebbe rientrata nella dimora "Mille Fleurs", quella dove insieme a Harry e Archie ha trascorso le festività natalizie. La villa, che si sviluppa su tremila metri quadrati ed è composta da cinque camere da letto, otto bagni e un cottage per gli ospiti, sarebbe di proprietà di un magnate canadese, il miliardario Frank Giustra, co-fondatore di uno dei più importanti studi cinematografici di Hollywood nonché amico e sostenitore della famiglia Clintons. Secondo il New York Post, il magnate canadese Giustra, 62 anni, avrebbe prestato a Harry e Meghan - a titolo gratuito - la villa dove la coppia ha trascorso gli ultimi due mesi, sollecitato dal produttore musicale David Foster, marito della star di Broadway Katharine McPhee, amica di vecchia data di Meghan. Il miliardario ha però smentito con decisione ogni coinvolgimento nella vicenda, affidando le sue parole a Twitter. Se Harry e Meghan decideranno di rimanere nella lussuosa abitazione di Victoria nella British Columbia, appare chiaro che Scotland Yard e Buckingham Palace saranno chiamati a un sopralluogo - in accorto con le forze di sicurezza canadesi che hanno accettato di garantire sicurezza ai Sussex - per mettere in atto un piano di difesa che garantisca l'incolumità della coppia.

Pietro Romano per startmag.it il 16 gennaio 2020. Chi tra Londra e Roma pensava alla duchessa (riottosa) del Sussex come a una futura icona della causa social-ambientalista è servito. Prim’ancora che il marito Harry (su forcing della consorte, sembra, e sotto minaccia di divorzio) decidesse di uscire dalla Royal Family, negli ultimi giorni del 2019, Meghan Markle avrebbe trasferito la sede legale della propria società – Frim Fram Inc – dalla California al Delaware. Sì, il Delaware, lo Stato Usa paradiso fiscale dove i commercialisti di tutto il mondo suggeriscono di portare gli affari per ridurre al minimo la tassazione. Un trasferimento deciso abbastanza in fretta, assicura un esperto fiscale di origine italiana e residenza londinese, per evitare il passaggio del Capodanno e il rischio di dover pagare una parte di tasse del 2020 alle onerose condizioni della California. Insomma, un trasferimento veloce dovuto anche alla previsione di un forte incremento delle entrate, par di capire. Del resto, da un lato all’altro dell’Atlantico già si comincia a nutrire qualche sospetto sulla disinvoltura “finanziaria” della duchessa. Pareva che il premier canadese, il liberal Justin Trudeau, dopo essersi espresso favorevolmente sulla decisione della coppia di scegliere il suo Paese come nuova residenza, addirittura stesse studiando la possibilità di un intervento sulla regina Elisabetta mirato alla nomina di Harry a governatore generale. Il Canada, infatti, ha ancora la Regina come Capo dello Stato. Non solo, però, questa voce è stata informalmente smentita da Ottawa ma sta emergendo anche una netta contrarietà nel governo canadese di accollarsi gli oneri (sia pure in parte) della protezione di Harry e famiglia. Contrarietà condivisa ormai anche da Trudeau. Meghan Markle, però, non pensa di ridurre la propria invadenza. A Londra girano voci di un suo prossimo impegno politico diretto negli Usa, ovviamente in campo democratico, in vista delle elezioni presidenziali di novembre. Uscita dalla corsa la giovane deputata democratica Alexandria Ocasio-Cortez, con la quale aveva stretto amicizia via twitter, la duchessa del Sussex sarebbe intenzionata a sponsorizzare il “socialista” Bernie Sanders. Per affiancare in ultima analisi chiunque sfidasse l’attuale presidente Donald Trump.

Serena Di Ronza per l'ANSA il 17 gennaio 2020. Il futuro nordamericano di Meghan e Harry potrebbe rivelarsi più difficile delle attese. All'apertura di Justin Trudeau per ospitare i duchi del Sussex facendosi carico delle loro spese, i canadesi sembrano rispondere picche, con il 73% che manda un chiaro messaggio: "No grazie". Una risposta netta che non lascia adito a dubbi: il principe e la consorte sono benvenuti in visita in Canada ma niente di più. A gelare Trudeau e i reali è anche il Globe and Mail, il quotidiano più diffuso nel paese.  "Il Canada - tuona - non è una casa di metà strada per chi vuole lasciare la Gran Bretagna restando allo stesso tempo un reale". In un duro editoriale il quotidiano spiega che la "risposta del governo Trudeau" all'annuncio "vago" del duca e della duchessa "dovrebbe essere semplice e succinta: "No". E questo perché un trasloco di Meghan e Harry violerebbe un "tacito tabù costituzionale" e non sarebbe "in linea con la natura dei rapporti esistenti fra il Canada e la Gran Bretagna, e fra il Canada e la Corona". Senza contare che il piano della coppia reale calpesta l'identità canadese: Ottawa ha infatti tagliato i rapporti con il regno britannico già secoli fa e considera la regina Elisabetta solo un leader di facciata. "Il Canada non è la Gran Bretagna e non lo è mai stata. E questo paese ha deciso molto tempo fa di renderlo chiaro senza possibilità di errore. Se si è un membro della famiglia reale, questo paese non può essere considerato casa", argomenta il Globe and Mail, mettendo in evidenza come la regina simboleggia una eredità del passato, l'appartenenza al Commonwealth ma non il presente e soprattutto il futuro del paese. L'analisi del quotidiano riflette il malumore fra cittadini che non vogliono accollarsi le spese di trasferimento e tantomeno quelle per la sicurezza di Meghan e Harry, nonostante la loro popolarità. Il principe infatti è, fra i reali britannici, quello più benvoluto dai canadesi. E anche Meghan è amata e apprezzata. Ma, secondo uno studio di Angus Reid, un canadese su quattro ritiene che la famiglia reale non abbia molto rilievo nella vita del Canada. Il 41% ritiene che non ne abbia affatto. Da qui i dubbi e la contrarietà dei contribuenti canadesi ad accollarsi le spese di Harry e Meghan che, pur volendo conquistare l'indipendenza finanziaria, non sono certo economici da mantenere. Intanto primo impegno pubblico del principe Harry in rappresentanza della corona dopo la clamorosa decisione del passo indietro assieme alla consorte Meghan e l'annuncio del trasferimento della coppia per una parte dell'anno in Canada. La corte ha reso nota la presenza del duca di Sussex a Buckingham Palace in veste di patrono della Federazione Rugby, alla presentazione della Rugby League World Cup 2021. L'evento ha richiamato a Londra i rappresentanti delle 21 nazioni coinvolte nel torneo, con tanto di partitella dimostrativa con alcuni bambini e lo stesso Harry in campo.

Enrica Roddolo per corriere.it il 17 gennaio 2020. Ultimo (forse?) impegno Royal per il principe Harry oggi nei giardini di Buckingham Palace. Dove abitualmente la regina ospita i suoi celebri Garden Party estivi (tre a Londra e uno in Scozia di norma). E oggi, come era prevedibile, dopo il caso Harry e Meghan che ha tenuto con il fiato sospeso il mondo per dieci giorni l’attesa e la curiosità erano al climax. A portare il principe al Palazzo, dal quale vuole invece avere più autonomia in futuro, la Rugby League World Cup 2021. Il duca di Sussex ha discusso con gli ambasciatori della Ruby League e i piccoli atleti della St Vincent de Paul Catholic Primary School di Londra. E si è visto ancora una volta il grande appeal del principe Harry verso i giovani, anche bambini. Poi, è rientrato nel palazzo svelando la nuca con una capigliatura ormai diradata (dalle preoccupazioni degli ultimi mesi?). Che sia l’ultimo Royal duty, l’ultimo Royal engagement del principe? Realisticamente, è assai difficile, la regina Elisabetta ha detto chiaro che non intende perdere Harry «asset della mia famiglia». E difatti, nonostante i piani iniziali di rientro in Canada per ricongiungersi alla moglie Meghan e al figlio Archie, già prima del weekend, il principe dovrebbe fermarsi a Londra ancora fino alla prossima settimana.

Harry potrebbe diventare governatore del Canada: i dettagli. Alice il 14/01/2020 su Notizie.it. Ora che Harry e Meghan hanno divorziato dalla Royal Family si avvicendano voci sulla loro futura vita in Canada. Dopo il cosiddetto “Megxit”, ovvero il divorzio di Harry e di Meghan Markle dalla famiglia reale, è iniziata a circolare la voce che vorrebbe il principe come nuovo governatore del Canada. Harry governatore del Canada? E’ priva di fondamenta la voce che vorrebbe il Principe Harry come nuovo governatore del Canada, ma del resto questa è solo una delle numerose voci che si sono avvicendate dopo che il principe e sua moglie Meghan Markle hanno annunciato il loro definitivo “divorzio” dalla famiglia Reale. I due sembra che vivranno tra il Canada e Londra, e il principe Harry sarebbe rimasto a Buckingham Palace per discutere i dettagli con The Queen mentre la sua sposa avrebbe già fatto i bagagli durante le feste natalizie. I due hanno espresso la volontà di rinunciare ai titoli nobiliari e di lavorare come tutti gli altri, e l’annuncio ha creato non poche polemiche.

La decisione potrebbe essere nata sulla spinta delle sempre più manifeste insofferenze che i due hanno dichiarato di avere a causa della stampa e dei media: dopo aver deciso di far nascere il proprio bambino in una clinica privata (lontana da occhi indiscreti) i due avevano rilasciato un comunicato in cui annunciavano di voler denunciare alcuni dei principali tabloid britannici, colpevoli di aver messo in giro voci false e private riguardanti Meghan Markle. Lei, già divorziata e con un passato da attrice alle spalle, ha confermato difronte alle telecamere della BBC di aver terribilmente sofferto per le pesanti critiche nei suoi confronti.

La "profezia" su Meghan e Harry "Cosa accadrà alla coppia reale". L’analisi delle firme e della scrittura della coppia mette in evidenza una notevole differenza di carattere. Evi Crotti, Sabato 18/01/2020, su Il Giornale. Al di là della cultura, che lascia sempre un imprinting in ogni persona, dalla scrittura di Meghan emerge un carattere egocentrico con un notevole senso estetico e un’accuratezza che la porta a porre tutto sotto controllo affinché nulla abbia a scalfire la sua immagine. Per lei la fisicità conta molto e tiene in modo particolare al “protocollo” che lei stessa si è data; una sorta di narcisismo che se da un lato le permette di essere attenta osservatrice delle regole del Palazzo, dall’altro la porterà a cercare sempre riposte compiacenti e gratificanti il suo Ego, per cui l’adattamento sarà sempre arduo. L’educazione ricevuta ha strutturato un comportamento ammanierato e impositivo (vedi ricci arrotolati verso alto a fine parola e lettere iniziali molto grandi) per cui una sua peculiarità è proprio data dalla determinazione quasi ostinata; non a caso alcuni segni che si rilevano nella firma di Meghan ci riportano alla firma di Marylin Moore. Osservando la grafia del marito Harry si nota che lo scettro sembra essere nelle mani di lei, forse per la sua ricchezza intellettiva e a causa della fragilità di lui al livello affettivo che lo porta a non reggere alle imposizioni della consorte. La coppia L’analisi delle firme e della scrittura della coppia mette in evidenza una notevole differenza di carattere: studiato in lei, più libero in lui. Ciò che però ha portato Harry alla sudditanza o a discussioni solo all’inizio divertenti, è quanto scrissi già due anni fa: “potrebbero nascere profondi malintesi anche con la casa reale”. 

Rebecca English svela: "Harry ha sempre voluto scappare ma nel 2018 qualcosa è cambiato". La corrispondente reale del Daily Mail ha accompagnato per anni il duca di Sussex in giro per il mondo e oggi svela quanto fosse generoso e caloroso e il momento in cui ha visto cambiare la sua personalità. Novella Toloni, Venerdì 17/01/2020, su Il Giornale. Divertente, sensibile, onesto ed empatico con gli altri, così Rebecca English descrive il principe Harry nel suo editoriale sul Daily Mail. La corrispondente reale del quotidiano britannico ha trascorso gli ultimi 15 anni al fianco del duca di Sussex, scoprendone lati del carattere e sfaccettature che molti non conoscono. E’ proprio la giornalista inglese, attraverso il suo articolo, a svelare cosa volesse da sempre Harry cioè "andarsene lontano" e "sapere cosa dicono di lui le persone". Ma confessa anche di aver capito il momento esatto in cui lui è cambiato. Rebecca English ha esordito come corrispondente reale nel 2006 e al fianco del principe Harry ha compiuto numerosi viaggi in tutto il mondo. Insieme hanno condiviso tempo e momenti in cui lei ha potuto approfondire la conoscenza con il rampollo dei Windsor, che mai si è dimostrato diverso da quello che è sempre stato (e ha sempre mostrato): "Harry non ha mai indossato facilmente il manto della regalità. Ha sempre voluto essere uno dei tanti ragazzi. Ma il suo voler solo essere normale non era vicino alla stessa normalità che tutti noi pensiamo. Voleva vivere la sua vita molto privilegiata senza l'irritazione del pubblico e senza il controllo della stampa". La English racconta di un Harry scherzoso e accogliente ma spiega anche: "Questo non significava che gli piacesse o che volesse essere dov’era". Il desiderio di Harry di andarsene lontano da oneri e doveri della famiglia reale è sempre stato forte: "Diverse volte durante i nostri viaggi in giro per il mondo mi ha parlato di come avrebbe voluto andarsene da tutto. Prima dell’arrivo di Meghan il suo più grande desiderio era andare a vivere in Africa e fare la guida turistica, per poter andare nei boschi, lontano da tutto”. Il problema principale del duca di Sussex è sempre stata l’attenzione morbosa riservatagli dai tabloid. Con i media e con ciò che scrivevano di lui era maniacale, attento a leggere ogni articolo lo riguardasse e negli ultimi anni "aveva persino iniziato a frugare articoli online e i commenti sottostanti", confessa la reporter. Una situazione difficile e negativa come ammette la English: "Non era salutare per lui, che però mi diceva: ‘Se si dice di me, allora voglio saperlo. Un giorno mi piacerebbe davvero avere la mia rubrica di giornali in modo da poter scrivere la verità e dire alla gente cosa penso'". A toccare profondamente la corrispondente reale del Daily Mail è stata l’intelligenza emotiva di Harry: "Rara nella famiglia reale. Lavorando con lui in prima persona, non ho mai smesso di meravigliarmi della sua istintiva capacità di connettersi con le persone. Anche con la mia vicenda personale". La English ha poi raccontato di un fatto personale, il ricovero del figlio per una patologia sconosciuta e del suo doppio ruolo, di madre e cronista difficile da portare avanti ma pur sempre fatto con professionalità. Una cosa di cui si era accorto Harry, che l’aveva elogiata in una telefonata notturna inattesa. "Sei stata incredibilmente professionale - le aveva detto lui al telefono - in quell’ospedale nel tuo lavoro, non so come fai a farlo come madre. Lo trovo abbastanza difficile, figuriamoci come genitore per quello che stai passando". Questa umanità, questa voglia di relazionarsi con gli altri è però svanita con l’arrivo di Meghan Markle: "Quattro mesi dopo incontrò la sua futura moglie. Da allora abbiamo appena scambiato una parola. Quando mi sono congratulata con lui per l'arrivo del piccolo Archie, mentre facevamo il tour dell'Australia nel 2018, mi fece appena un accenno. Ma benché Meghan sia stata la miccia degli eventi recenti, Harry è stato in grado di allontanarsi dalla famiglia reale da solo. È davvero saggio divorziare in modo così acuto dall'unica famiglia che capirà mai veramente le pressioni a cui sei sottoposto?”

L’indiscrezione: "Meghan soffre di attacchi d’ansia, andarsene era questione di vita o di morte". Dopo l'annuncio "bomba" del ritiro a vita privata dei duchi di Sussex, molti hanno iniziato a fare congetture sui reali motivi che hanno spinto la coppia ad allontanarsi da Londra. Ed ora arriva la rivelazione: Meghan Markle soffrirebbe di attacchi d'ansia. Mariangela Garofano, Venerdì 17/01/2020, su Il Giornale. In molti si sono chiesti il vero motivo dietro l’addio del principe Harry e di Meghan Markle ai loro ruoli di membri “senior” della Royal Family. C’è chi ha imputato la decisione a Lady Markle, definendola una manipolatrice, che avrebbe plagiato il marito fino ad allontanarlo dalla sua famiglia. Come riporta il Mirror, un amico della Lady d’America avrebbe rivelato che allontanarsi da Londra per Meghan era diventata “una questione di vita o di morte” , lasciando intendere che da diverso tempo la duchessa soffre di attacchi d'ansia. Racconta l’amico: “Aveva detto agli amici più intimi che si sentiva schiacciata nell’anima e che la decisione di andarsene era una questione di vita o di morte – intendendo la morte dello spirito. Ha anche detto di non poter essere la miglior madre per Archie, se non riusciva ad essere se stessa. Sentiva che era un ambiente tossico per lui, perché c’erano troppe tensioni e frustrazioni represse”. Alla luce di questa rivelazione, la decisione di Harry e Meghan sembra acquistare un nuovo significato...Ma non tutti hanno accettato di buon grado la confessione, leggendo tra le righe un escamotage della duchessa per andarsene una volta per tutte dall’ingombrante famiglia del marito. "Secondo me Meghan soffre di rabbia narcisistica, perché non riusciva a controllare tutto nella Royal Family. Fingere che sia colpa dell’ansia è solo un’altra delle sue carte manipolatorie”, scrive piccato un utente su Twitter, a cui fanno eco molto altri, convinti che giocare la carta dell’ansia, sia solo un altro tentativo della Markle, di manipolare gli altri a suo piacimento. "Un tempo era un’attrice mediocre, ma pur sempre un’attrice quando serve”, commenta un altro utente. Se l’indiscrezione rivelata dall’amico di Meghan fosse vera, Harry si sarebbe allontanato dalla famiglia per aiutare la salute mentale di una moglie infelice. I duchi di Sussex hanno annunciato pubblicamente di volersi ritirare dalla vita pubblica di corte, tramite un post su Instagram. La reazione del resto della Royal family è stata ovviamente, di disappunto. Ma il meeting che ha visto Harry confrontarsi con la regina Elisabetta e con Carlo e William, ha visto il duca uscire vincitore dalla dimora di Sandringham. Attraverso un comunicato ufficiale, Sua Maestà ha affermato di sostenere la coppia nella loro nuova vita, sebbene ci siano diversi aspetti da organizzare. Parlando con il Mirror, un insider a Buckingham Palace ha riferito: “Sono emersi dei problemi da affrontare, che non possono essere risolti in pochi giorni. Ci sono persone che stanno lavorando a questi giorno e notte”.

Sandra Rondini per ilgiornale.it il 20 gennaio 2020. Thomas Markle, il padre che Meghan non vede da più di due anni e che lei accusa di aver venduto delle sue lettere private ai tabloid inglesi, in una intervista esclusiva al Sun ha espresso tutto il suo disappunto per il comportamento della figlia. "Questa non è la ragazza che ho cresciuto", ha dichiarato l’ex direttore delle luci di Hollywood, ora in pensione, dispiaciuto nel vedere quanto "Meghan abbia deluso la Royal Family" portando il marito, il Principe Harry, ad abdicare dai suoi doveri di reale. Thomas Markle, che è il protagonista di un documentario dal titolo "Thomas Markle: My Story", che andrà presto su Channel 5, ha definito Harry e Meghan "imbarazzanti" e sua figlia "una cacciatrice di dote che ha svenduto e reso così cheap la Corona inglese da farla assomigliare a un Walmart, gettando al vento il sogno di ogni ragazzina che desidera diventare una principessa e tutto questo solo per soldi". Il padre 75enne, che non ha mai conosciuto il nipotino Archie, non è più disposto ad aspettare il perdono della figlia e passa al contrattacco dalle pagine del Sun insieme a suo figlio, Thomas Junior a cui avrebbe più volte confidato il sogno di riappacificarsi con la figlia da lui amorevolmente cresciuta, nonostante il divorzio dalla moglie Doria Ragland. "Sogna di mettere una foto di se stesso con sua figlia, Harry e il nipote Archie su una parete speciale nella sua casa in Messico", ha dichiarato al Sun il fratellastro della Markle, aggiungendo: "Semmai un giorno riuscirà a farlo, morirà da uomo felice, non da padre rinnegato". Sempre Thomas junior, 53 anni, ha dichiarato al Sun, riferendosi alla Meghexit, che suo padre una volta venutone a conoscenza dai media avrebbe scosso desolato la testa, dicendogli: "Quella non è la figlia che ho cresciuto… Quando si è sposata ha preso un impegno che adesso rinnega, come fosse nulla. Che vergogna...". E ancora: "Mio padre non può credere a quello che è successo. È molto deluso dalle sue azioni perché pensa che Meghan abbia abbindolato la Famiglia reale e si vergogna perché lui l’ha cresciuta con dei valori", ha spiegato Thomas Markle junior aggiungendo: "Per mesi, anni, ha sperato in una riappacificazione ma, adesso che con la Meghexit tutto si è ulteriormente complicato, dubita che ciò accadrà mai. Ci spera, ma ogni giorno sempre meno". Thomas Jr. si è quindi lanciato in una strenua difesa di suo padre, svelando poi anche alcuni dettagli privati sul primo matrimonio di Meghan Markle. "Senza mio padre non sarebbe da nessuna parte. Ha pagato per la sua istruzione, auto, vestiti, affitto, bollette, spendendo migliaia di soldi per sostenere il suo sogno di diventare attrice. Già, una piccola fortuna, tutta spesa per lei, la principessa, a cui ora non importa se la sua famiglia fatica ad arrivare a fine mese... Finge che non esistiamo, è una squallida egoista, sa bene che non abbiamo milioni in banca come lei e Harry". Thomas Senior, come racconta anche nel documentario che sarà presto mandato in onda su Channel 5, ha pagato tutte le spese del primo matrimonio della figlia, quello con il produttore hollywoodiano Trevor Engelson nel 2011, come il sontuoso abito di nozze e il catering. Eppure la figlia, pur sapendo che nel maggio 2018 il padre era malato e doveva sostenere spese mediche extra non coperte dall'assicurazione, non ha speso un dollaro per aiutarlo. Ne è testimone il fratellastro Thomas Jr che ha anche aggiunto di aver provato "compassione" per il primo marito di Meghan, di cui è rimasto amico. Quando lo chiamò al telefono dopo il divorzio, Engelson gli disse: "Non voglio più sentire pronunciare il nome di quella donna in vita mia". "Quando Meghan ci ha presentato Trevor ad una festa, credo fosse il Ringraziamento – ricorda Thomas jr - l’abbiamo tutti trovato molto simpatico. E veniva sempre alle nostre feste di famiglia, come i compleanni, e persino ai funerali. Trevor era di famiglia e lo ricordo così innamorato di Meghan che con lui era tutto zucchero e miele. Mi pare fosse coinvolto nella produzione del film ‘Saw’, roba grossa… Trevor conosceva tutti a Hollywood e ha presentato Meghan praticamente a chiunque potesse aiutarla a fare carriera". E poi l’affondo: "Era un pezzo grosso nell’ambiente ed era ricco. Il marito ideale per Meghan che aveva per lui mille attenzioni, ma il loro matrimonio non è durato più di due anni perché, una volta volta in Canada per girare “Suits”, Trevor poteva raggiungerla solo due volte al mese per via dei suo impegni di lavoro a Los Angeles. Intanto le pagava l’affitto e tutte le spese, mentre lei di nascosto lo tradiva con lo chef dei divi, Cory Vitiello. La delusione di Trevor fu immensa. Era stato usato e gettato via perché ormai non le serviva più. Avrei tanto voluto avvertire Harry che, sposandola, rischiava di fare la stessa fine di Trevor, ma non ce l’ha mai fatto conoscere...”. Quanto a Trevor Engelson, Thomas jr ha aggiunto: "Non potevo credere che lei lo avesse solo usato...sembrava davvero innamorata. Meghan è davvero una grande attrice quando si tratta di simulare sentimenti. Lui ne è uscito devastato, aveva creduto che fosse vero amore, ci aveva messo il cuore e l’anima. Ora si è risposato e sono felice per lui. Ma ai tempi del divorzio da Meghan quando lo chiamai per sapere come stava, lui mi gridò al telefono: 'Se pronunci il nome di quella, non ti parlerò mai più". Lo stesso trattamento di Engelson, ricorda il fratello, fu riservato anche allo chef delle celebrità, "tenuto in stand by in attesa di scoprire se Harry avesse o meno intenzioni serie con lei". Quando Meghan capì di aver trovato un varco nel cuore del principe si liberò di Vitiello senza pensarci due volte. "È tipico di Meghan, è il trattamento che riserva a tutti gli uomini della sua vita, da suo padre ai suoi amori. Non sono persone, ma gradini verso la fama e giunta al gradino successivo se li lascia alle spalle senza rimorsi… Ecco perché adesso non le serve più la Famiglia reale. Ha ottenuto quel che voleva: soldi, fama e il titolo di Duchessa. Per lei ora è tempo di passare ad altro”, ha concluso duramente il fratellastro della Duchessa del Sussex che parteciperà col padre allo speciale di Channel 5 in cui promette di rivelare molti segreti che la Markle in questi anni ha cercato di tenere ben nascosti, in attesa di defilarsi da Buckingham Palace con la Meghexit.

 (ANSA il 20 gennaio 2020) - "Il Regno Unito è la mia casa e un luogo che amo. Questo non cambierà mai, ma io e Meghan non avevamo altra scelta": il principe Harry rompe il silenzio dopo giorni di fibrillazioni e l'annuncio della loro rinuncia al titolo di altezze reali. Lo ha fatto a Londra durante un evento di beneficienza per l'associazione Sentebale, fondata dallo stesso Harry e dal principe Seeiso del Lesotho nel 2006 in onore di Diana allo scopo di perpetuare il suo aiuto ai malati di Aids e Hiv. Lo riferisce Skynews. "Prima di iniziare - ha esordito il duca di Sussex parlando per la prima volta dopo che ieri Buckingham Palace ha accolto la decisione di rinunciare al titolo dettando le condizioni del loro nuovo status - devo dire che posso solo immaginare quello che potreste aver sentito o forse letto nelle ultime settimane. Per questo voglio che ascoltiate da me la verità, per quanto posso condividere. Non come un principe, un duca, ma come Harry, la stessa persona che molti di voi hanno visto crescere negli ultimi 35 anni, ma con una prospettiva più chiara". "Sono cresciuto sentendo il sostegno di molti di voi - ha detto rivolgendosi ai sostenitori dell'ente benefico - e vi ho guardato mentre accoglievate Meghan a braccia aperte vedendomi trovare l'amore e la felicità che avevo sperato per tutta la vita. Alla fine, il secondo figlio di Diana si era fatto impalmare, evviva!. So anche che mi conoscete abbastanza bene da confidare nel fatto che la donna che ho scelto come moglie abbia i miei stessi valori. E' così, ed è la stessa donna di cui mi sono innamorato". "Entrambi facciamo tutto il possibile per onorare la bandiera e svolgere i nostri ruoli per questo Paese con orgoglio. Dopo sposati, Meghan e io eravamo eccitati, fiduciosi ed eravamo qui per servire - ha proseguito - . Per tutte queste ragioni mi dà molta tristezza che siamo arrivati a questo punto. La decisione che ho preso per me e mia moglie di fare un passo indietro non è una decisione presa alla leggera. Ci sono stati molti mesi di discussioni, molti anni di battaglie. So che non avevo sempre ragione, ma al punto in cui eravamo, non c'era davvero altra opzione". "La nostra speranza era di continuare a servire la Regina, il Commonwealth e le mie associazioni militari, ma senza finanziamenti pubblici. Sfortunatamente, questo non era possibile. L'ho accettato, sapendo che non cambierà chi sono o quanto sia impegnato". Lo ha detto il principe Harry ad un evento di beneficenza. "Spero che questo vi aiuti a capire cosa è successo - ha aggiunto -, perchè sono pronto ad allontanare la mia famiglia da tutto quanto io abbia conosciuto finora, per fare un passo avanti in quella che spero possa essere una vita più tranquilla". "Avrò sempre il massimo rispetto per mia nonna, il mio comandante in capo, e sono incredibilmente grato a lei e al resto della mia famiglia, per il sostegno che hanno dimostrato a me e Meghan negli ultimi mesi - ha proseguito -. Continuerò a essere lo stesso uomo che ha a cuore il suo Paese e dedica la sua vita a sostenere le buone cause, le associazioni di beneficenza e le comunità militari, che sono così importanti per me". Harry ha pronunciato il suo discorso visibilmente commosso, nonostante abbia letto un testo scritto precedentemente. Rivolgendosi a una platea di persone a lui vicine, ha toccato anche note molto personali. "Quando ho perso mia madre 23 anni fa, mi avete preso sotto la vostra ala. Avete vegliato su di me per così tanto tempo, ma i media sono una forza potente e la mia speranza è che un giorno il nostro reciproco sostegno possa essere ancora più forte, perché è molto più grande di noi". "Insieme - ha detto sempre rivolgendosi ai sostenitori di Sentebale -, mi avete insegnato a vivere. E questo ruolo mi ha insegnato di più su cosa è giusto ed equo di quanto non avrei mai potuto immaginare". "Stiamo facendo un salto nel buio", ha concluso, ringraziando i suoi interlocutori "per avermi dato il coraggio di fare questo passo". Una tenera allusione ha fatto anche al figlio, che si trova in Canada con la madre Meghan Markle, quando ha definito "un privilegio" "sentire il vostro entusiasmo per nostro figlio Archie, che ha visto la neve per la prima volta l'altro giorno e ha pensato che fosse dannatamente brillante!".

Il principe Harry: «Voglio una vita più tranquilla, ma il Regno Unito resta la mia casa». Pubblicato domenica, 19 gennaio 2020 su Corriere.it da Chiara Severgnini. Il principe rompe il silenzio a Londra durante un evento per la charity Sentebale: «Il Regno Unito resta la mia casa». Harry e Meghan restituiranno tre milioni. «Il fatto che siamo dovuti arrivare a questo punto mi provoca molta tristezza», dice il principe Harry a proposito della decisione, sua e della duchessa Meghan Markle, di fare un passo indietro rispetto ai loro ruoli nella famiglia reale britannica. Il principe è tornato sull’argomento, esponendosi in prima persona, alla cena per i sostenitori di Sentebale, la sua charity dedicata alla lotta all'HIV infantile, a Londra. Il video è stato diffuso anche sull’account Instagram dei Sussex. «Buonasera e grazie per essere qui per Sentebale», esordisce Harry, per poi aggiungere: «Prima di iniziare, posso solo immaginare cosa abbiate letto e sentito nelle ultime settimane, quindi vorrei che voi sentiste la verità da me, per quanto possibile». Dice di parlare «non come principe, né come duca, ma come Harry» e dichiara da subito di amare il Regno Unito («è la mia casa e questo non cambierà mai»). «Non ho preso questa decisione con leggerezza», spiega: «non c'era un’altra opzione». Il fatto che il principe usi, in questo passaggio, il singolare — quasi a rivendicare la paternità della scelta di fare un passo indietro — potrebbe essere un tentativo di smorzare le argomentazioni di chi sostiene che sia stata Meghan a fare pressione per allontanarsi dalla famiglia reale. «Quello che voglio chiarire è che non ce ne stiamo andando» («we are not walking away», nell’originale inglese, ndr), aggiunge Harry: «Volevamo continuare a servire la Regina, il Commonwealth e le mie associazioni militari, ma senza fondi pubblici. Sfortunatamente, questo non è stato possibile». «Ho fatto fare alla mia famiglia un passo indietro rispetto a tutto ciò che conosco e ho sempre conosciuto, per fare un passo avanti verso quella che spero sia una vita più tranquilla». Il principe assicura che lui e la moglie faranno tutto il possibile per «sventolare la bandiera» e portare avanti i loro ruoli «con orgoglio». Nel discorso c'è anche un passaggio dedicato alla moglie Meghan Markle. Rivolgendosi alla platea, il principe dice: «Sono cresciuto ricevendo sempre, da molti di voi, molto sostegno, e vi ho visto accogliere Meghan a braccia aperte, quando avete capito che con lei avevo trovato l'amore e la felicità che speravo da una vita intera». Poi aggiunge: «So che mi conoscete abbastanza da avere fiducia nel fatto che la donna che ho scelto come moglie condivide i miei stessi valori». «Quando ci siamo sposati eravamo entusiasti, pronti a servire il Paese. Per questo mi provoca molta tristezza il fatto che siamo arrivati a questo punto».

Harry e Meghan abbandonano la famiglia reale: abbiamo tutti bisogno di normalità. Natale Cassano il 10/01/2020 su Notizie.it . Davvero è un problema se Harry se ne va? Il principe Harry si “affranca” dalla corte inglese. La “Meghixit”, come l’hanno definita i tabloid inglesi, è la notizia del giorno: chi mai lascerebbe una vita di agi, di protezione sotto l’amorevole ala della famiglia reale britannica, con tutti gli onori che ne conseguono? Per cosa, poi? Cercare una propria indipendenza ed essere costretto a… lavorare? Se al piccolo conte/aristocratico che serbiamo in noi l’idea disgusta – ancora di più dopo anni di sveglie alle 7 per portare a casa la pagnotta – vi sorprenderà sapere che la scelta del duca di Sussex e di sua moglie Meghan tanto rivoluzionaria non è. Soprattutto per la famiglia reale inglese.

Harry si allontana dalla famiglia reale. Basta fare un piccolo viaggio indietro nel tempo, al 1936 e guardare alla storia di Edoardo VIII. Anche allora destò scalpore quando, alla morte del padre Giorgio V, l’erede al trono della Gran Bretagna, d’Irlanda e degli altri domini britannici annunciò l’intenzione di sposare Wallis Simpson, una donna americana divorziata per ben due volte. Divorziata, esattamente come Meghan. E allora come oggi si sollevò un polverone, tanto da costringere Edoardo ad abdicare in favore del fratello Alberto. Il motivo, come potrete immaginare, è strettamente legato alla religione, oltre che all’etichetta reale: il monarca è al contempo capo della Chiesa anglicana, che non permetteva alle persone divorziate di risposarsi, se i loro coniugi erano ancora vivi. Edoardo VIII sceglie quindi un finale adatto a un film e rinuncia alla corona per amore della sua bella.

La regina “seccata”. Ottantaquattro anni dopo la storia si ripete, con qualche piccola differenza che – la Regina Elisabetta mi perdonerà – mi fanno tifare per Harry, da sempre il ribelle. Difficile infatti non provare empatia per lui: sempre in ombra rispetto al fratello William, erede designato al trono, il principe perfetto, sempre attento all’etichetta, mai una virgola fuori posto nella sua vita. Una presenza ingombrante, esattamente come quella della regina madre, dichiaratasi “seccata” dalla scelta del nipote di trasferirsi in Canada con consorte e il piccolo Archie e cercare un’autonomia finanziaria, chiedendo subito le ‘dimissioni’ dalla famiglia reale.

Davvero è un problema se Harry se ne va? Mettiamoci invece nei suoi – colorati – panni: è davvero così una tragedia la voluta indipendenza e la paventata rinuncia al titolo di Altezze reali della coppia? Al di là del risparmio economico che ne deriverebbe, sono abbastanza convinto che allontanare i tanti scandali del secondogenito di Carlo ne gioverebbe all’immagine della famiglia reale. Come detto rimarrebbe solo chi finora non ha creato problemi all’anziana regina – tolto Carlo, che le avrà dato più di un patema d’animo con la storia di Camilla – e le farà passare questi ultimi anni di monarcato (che le auguriamo i più lunghi possibili) con qualche grattacapo in meno. Per Harry significherebbe invece meno visibilità mediatica e la possibilità di vivere una vita senza le costrizioni dell’etichetta reale; insomma una vera vita. A me sembra un win-win, voi non siete d’accordo?

La verità di Harry: “Amo il Regno ma io e Meghan non avevamo altra scelta”. Il principe rompe il silenzio durante un evento di beneficenza. E nel suo futuro potrebbe esserci Netflix. La Repubblica il 19 gennaio 2020. "Il Regno Unito è la mia casa e un luogo che amo. Questo non cambierà mai, ma io e Meghan non avevamo altra scelta": il principe Harry rompe il silenzio dopo giorni di fibrillazioni e l'annuncio della loro rinuncia al titolo di altezze reali. Lo ha fatto a Londra durante un evento di beneficenza per l'associazione Sentebale, fondata dallo stesso Harry e dal principe Seeiso del Lesotho nel 2006 in onore di Diana allo scopo di perpetuare il suo aiuto ai malati di Aids e Hiv. "Prima di iniziare - ha esordito il duca di Sussex parlando per la prima volta dopo che Buckingham Palace ha accolto la decisione di rinunciare al titolo dettando le condizioni del loro nuovo status - devo dire che posso solo immaginare quello che potreste aver sentito o forse letto nelle ultime settimane. Per questo voglio che ascoltiate da me la verità, per quanto posso condividere. Non come un principe, un duca, ma come Harry, la stessa persona che molti di voi hanno visto crescere negli ultimi 35 anni, ma con una prospettiva più chiara". "Sono cresciuto sentendo il sostegno di molti di voi - ha detto rivolgendosi ai sostenitori dell'ente benefico - e vi ho guardato mentre accoglievate Meghan a braccia aperte vedendomi trovare l'amore e la felicità che avevo sperato per tutta la vita. Alla fine, il secondo figlio di Diana si era fatto impalmare, evviva!. So anche che mi conoscete abbastanza bene da confidare nel fatto che la donna che ho scelto come moglie abbia i miei stessi valori. E' così, ed è la stessa donna di cui mi sono innamorato". "Entrambi facciamo tutto il possibile per onorare la bandiera e svolgere i nostri ruoli per questo Paese con orgoglio. Dopo sposati, Meghan e io eravamo eccitati, fiduciosi ed eravamo qui per servire - ha proseguito - . Per tutte queste ragioni mi dà molta tristezza che siamo arrivati a questo punto. La decisione che ho preso per me e mia moglie di fare un passo indietro non è una decisione presa alla leggera. Ci sono stati molti mesi di discussioni, molti anni di battaglie. So che non avevo sempre ragione, ma al punto in cui eravamo, non c'era davvero altra opzione". Nel frattempo si scopre che potrebbe esserci anche Netfix nel futuro del principe e della moglie, ormai fuori dagli “obblighi” della Casa Reale. L'interesse del colosso americano a lavorare con i Sussex è scontato: "Chi non lo sarebbe? Sì, certo", ha detto Ted Sarandos, responsabile contenuti della piattaforma di streaming on demand, intercettato nel weekend a un evento a Los Angeles, dall'agenzia britannica Association Press. Del resto, lo hanno già fatto gli Obama, di cui Harry è grande amico: Barack e Michelle hanno creato la loro società di produzione e firmato un contratto redditizio con Netflix, che ora distribuisce i loro contenuti. Netflix, che tra l'altro produce la serie The Crown, sulla vita della regina Elisabetta II, offrirebbe ai Sussex una piattaforma con 158 milioni di abbonati. Harry ha già partecipato a un documentario sulla salute mentale con Oprah Winfrey, amica della coppia, per Apple Tv. E la scorsa settimana The Times ha rivelato che Meghan, che è diventata famosa per il suo ruolo nella serie “Suits”, presterà la voce per un progetto di Disney, che in cambio finanzierà una ong ambientalista, Elephants without Frontiers. Che l'interesse ci sia è testimoniato, se ce ne fosse bisogno, dal video pubblicato da The Mail on Sunday che mostra Harry che racconta al regista de "Il re leone", Jon Favreau, alla premiere del film di Londra, nel luglio scorso, che la moglie è "disponibile" a lavorare (aveva detto lo stesso al Ceo della Disney, Bob Iger). In base all'accordo raggiunto sabato, Harry e Meghan non avranno più alcun obbligo a nome della casata, ma non potranno più usare il titolo più ambito, quello di Sua Altezza reale: manterranno il titolo però, il che vuol dire che un giorno potrebbero in qualche modo riutilizzarlo (per ora infatti non lo hanno cancellato dall'account su Instagram). In futuro saranno semplicemente Harry e Meghan Markle, i duchi di Sussex. E non riceveranno neanche più soldi pubblici, anzi dovranno rimborsare i fondi dei contribuenti, oltre 2,5 milioni di sterline, con cui nei mesi scorsi hanno ristrutturato Frogmore House, il cottage nei terreni del castello di Windsor regalo di nozze della regina. Non è invece chiaro come e chi pagherà le spese della loro sicurezza ed è probabile che i duchi continueranno a ricevere fondi dal padre, il principe del Galles e dal suo ducato di Cornovaglia, almeno fino a quando non avranno trovato il modo di guadagnare. Nel frattempo il padre di lei, Thomas Markle, non si è lasciato sfuggire l'occasione di spargere fiele: la figlia, ha detto, ha mandato alle ortiche il sogno di tutte, diventare una principessa e sta trasformando "la famiglia reale in un Walmart", un supermercato, "con la corona". Di certo l'addio di Harry e Meghan rappresenta un duro colpo per la monarchia britannica, che perde due membri popolarissimi e ora dovrà puntare tutto su William, secondo nella linea di successione, la moglie Kate, e i tre figli della coppia. Oggi intanto la regina si è mostrata accanto al principe Andrew, per la prima volta quest'anno, dopo la sventurata intervista concessa da lui per spiegare la sua amicizia con Jeffrey Epstein, il finanziere pedofilo morto suicida in un carcere newyorkese. Il duca di York ha accompagnato la madre in chiesa, a Sandringham: la regina sorrideva, lui appariva con un sorriso trionfante.             

Harry «sponsorizza» Meghan alla Disney: «Il punto più basso della monarchia». Pubblicato domenica, 19 gennaio 2020 su Corriere.it da Michela proietti. Adesso che un vecchio video torna a girare in rete non è più chiaro quando il Duca e la Duchessa di Sussex avrebbero cominciato a programmare la fuga all’estero. Forse da quando al battesimo del figlio Archie, come scrive oggi il Corriere, avevano rinunciato per il loro figlio a un titolo. Oppure quando, come dimostra il filmato in questione, Harry e Meghan si «offrivano» come potenziali lavoratori. Il Daily Mail torna sulla questione mostrando un video risalente alla premiere di «The Lion King» a Londra lo scorso luglio: nei frammenti pubblicati si vede (e si sente) chiaramente Harry che sponsorizza Meghan come voiceover (doppiatrice) al boss della Disney Bob Iger. E in effetti pochi mesi dopo Meghan è entrata a far parte di progetto Disney in cambio di una donazione in beneficenza alla associazione Elephants Without Borders. Ma non è tutto: il Daily avrebbe portato alla luce nuovi filmati che mostrano la coppia che parla con il regista del film Jon Favreau, Beyoncé e il marito Jay-Z. Harry di nuovo si spertica in lodi nei confronti della moglie e dice a Favreau: «Se qualcuno ha bisogno di una voce fuori campo ...» prima che Meghan interrompa e sdrammatizzi la «raccomandazione»: «Questo è davvero il motivo per cui siamo qui», dice Meghan, per minimizzare la richiesta insistente del principe Harry. Il Daily si sofferma anche sulla smorfia di stupore della moglie di Iger: quando la richiesta di Harry si fa insistente lei non riesce a dissimulare il suo sguardo allibito. Ora che dopo un periodo di intense trattative è stato annunciata la rinuncia ai titoli di HRH, la coppia sarebbe finalmente libera di stipulare contratti redditizi e il capo dei contenuti di Netflix, Ted Sarandos, ha ammesso che il gigante dello streaming sarebbe «interessato» a una produzione con i Sussex. La coppia avrebbe seguito le orme dei loro amici Barack e Michelle Obama, che hanno concordato un accordo di produzione con Netflix per realizzare progetti cinematografici e televisivi. Immancabili i commenti e le polemiche a questo nuovo capitolo della Megxit: l’autore e commentatore canadese Mark Steyn l’ha definito «il punto più basso della storia della monarchia dall’abdicazione di Edoardo VIII: penso a tutte le cose patetiche che il Duca di Windsor ha fatto dopo aver abdicato e di come grottescamente intratteneva i ricchi annoiati americani e dava loro una sorta di pseudo scorcio di vita reale». Ma molti fan hanno elogiato Harry per aver supportato Meghan, tra cui la giornalista di Buzzfeed Marissa G. Muller che ha scritto: «Il suo amore per lei è innegabile». Nel frattempo Meghan ha confermato il suo team di agenti e pr di Hollywood e, a quanto si dice, sta già discutendo dei futuri progetti nel mondo dello showbiz. Il principe Harry invece ha già firmato un accordo per una serie in sei puntate su Apple TV + che sta producendo con Oprah Winfrey e che si concentra sulla salute mentale.

Da ansa.it il 19 gennaio 2020. A partire dalla primavera Harry e Meghan non dovranno più adempiere ad obblighi legati alla famiglia reale, non utilizzeranno il titolo di altezze reali e non rappresenteranno formalmente la regina. Allora perchè non guardarsi intorno e puntare magari sulla più influente piattaforma in streaming di produzione tv, Netflix, come hanno fatto anche Michelle e Barack Obama? Nulla osta ad un loro coinvolgimento, secondo i vertici di Netflix: Ted Sarandos, a capo dei contenuti, lo ha confermato alla Press Assiciation durante un evento a Los Angeles. "Chi non sarebbe interessato? Si, certo", ha detto.

Harry e Meghan restituiranno tre milioni: mai più «altezze reali». Pubblicato domenica, 19 gennaio 2020 su Corriere.it da Enrica Roddolo. «Dopo molti mesi di conversazioni e più di recente di discussioni, posso annunciare che abbiamo trovato assieme una via per il futuro per mio nipote e la sua famiglia. Harry e Meghan e Archie saranno sempre amatissimi membri della mia famiglia». È la regina Elisabetta, con parole che hanno una dolcezza amara, o forse sarebbe il caso di dire rassegnata, a chiudere - velocemente come aveva chiesto al suo staff di consiglieri - il caso Harry e Meghan esploso a inizio gennaio con il comunicato a sorpresa che i duchi di Sussex avevano affidato al web. Harry e Meghan rinunciano a utilizzare l’appellativo di Altezze Reali, in cambio della loro libertà, ha annunciato ieri la regina. Anche se il fratello dell’erede al trono William (dopo papà Carlo), manterrà il suo posto di sesto Windsor, nella linea di successione. Elisabetta II, anche per placare le polemiche dopo mesi di tensioni dentro e fuori al palazzo, aggiunge di volerli ringraziare per il lavoro nel Paese e nel Commonwealth e oltre, dichiarandosi fiera di Meghan: «Sono particolarmente orgogliosa di Meghan di come così velocemente sia diventata parte della famiglia». In realtà, dietro a queste parole è impossibile non leggere l’amarezza della sovrana che aveva detto all’indomani del vertice straordinario a Sandringham, meno di una settimana fa, di «non voler rinunciare a Harry e Meghan come asset della sua famiglia». E se ne coglie un’eco quando il comunicato ufficiale continua: «Tutti ora speriamo che questo accordo consenta loro di costruire una nuova vita, serena e pacifica». La regina che non ha mai fatto un passo indietro dai suoi doveri, consente quel passo al nipote. E deve costarle molto. Harry e Meghan resteranno comunque duchi, il mondo potrà insomma continuare a chiamarli Sussexes. Ma perderanno le prerogative di Altezze Reali. In fondo era quello che avevano in mente forse sin da quando - al battesimo del piccolo Archie - avevano rinunciato a un titolo per il loro figlio che infatti è soltanto Master Archie Harrison Mountbatten-Windsor. L’accordo che entrerà in vigore in primavera stabilisce che la coppia non riceverà più fondi pubblici, e chiede a Harry e Meghan di restituire i 2,4 milioni di sterline (quasi 3 milioni di euro) pubbliche utilizzate per rinnovare Frogmore Cottage nella tenuta di Windsor. In effetti l’aspetto economico legato al cottage fuori Londra da subito era parso uno dei più spinosi. E si era anche ipotizzato che i Sussexes, che avevano fatto capire di volerlo mantenere come base operativa nel Regno Unito, potessero affittarne la proprietà. Con questa soluzione, forse più diretta, sembra chiaro che potranno disporne come base sul suolo britannico. E senza «ripagare» i contribuenti con i Royal duties, gli impegni nel nome della sovrana. Anche se la regina scrive di essere certa che «continueranno a sostenere i valori di Sua Maestà» pur svolgendo le loro attività autonomamente. Resta da sciogliere il nodo della sicurezza. Il premier canadese Justin Trudeau alla notizia che la coppia si dividerà tra Canada e Londra aveva fatto capire che il tema di chi si sobbarcherà i costi della protezione va discusso. E così sarà. Perché se pure non più Altezza reale, Harry resta un potenziale bersaglio. Qualunque sia il suo futuro di (quasi) privato cittadino la sicurezza dovrà seguirlo sempre. Harry e Meghan come Wallis ed Edoardo? Liberi dal palazzo, lontani dal trono? «Harry ha avuto una vita difficile, ha sofferto molto ed è un ragazzo intelligente - dice al Corriere la scrittrice Simonetta Agnello Hornby -. Nel caso di Edoardo VIII, dubito lui avesse la stessa intelligenza e rinunciò al trono, a fare il suo mestiere di re, per una donna...». La regina, in questa trattativa? Il premier Boris Johnson giorni fa si era detto « a massive fan» della sovrana. «Si è sempre dimostrata estremamente saggia ed è affiancata da persone altrettanto sagge». Già, l’accordo conferma la sua saggezza, pur nella sua tristezza rassegnata di nonna. E di regina.

Da ilmessaggero.it il 19 gennaio 2020. Cosa faranno Meghan e Harry ora che non saranno più Altezze Reali? Il Mail ha pubblicato un video del principe Harry che “sponsorizza” le capacità di doppiaggio di sua moglie con il capo della Disney Bob Iger. La coppia, alla cerimonia d'inaugurazione del film Il re leone, si rivolge anche al regista del film Jon Favreaula, presente all'evento assieme a Beyoncé e il marito Jay-Z. Harry, elogiando le capacità della consorte, dice a Favreau: «Se qualcuno ha bisogno di una comparsa...». A quel punto è intervenuta Meghan scherzando: «Questo è davvero il motivo per cui siamo qui: per proporci!» Harry sta al gioco e dice «Tutto ma non Scar», riferendosi al malvagio zio di Simba che ha ordito un terribile complotto per prendere il posto del piccolo leoncino, figlio del re della foresta. Qualche giorno fa, Ted Sarandos, Chief Content Officer di Netflix, ha ammesso che il gigante dello streaming sarebbe interessato a lavorare con i duchi di Sussex. Nulla osta ad un loro coinvolgimento, secondo i vertici di Netflix: Ted Sarandos, a capo dei contenuti, lo ha confermato alla Press Association durante un evento a Los Angeles. «Chi non sarebbe interessato? Si, certo», ha detto. Il filmato potrebbe sollevare ulteriori domande sul momento esatto in cui la coppia ha deciso di dimettersi dal ruolo di Royals senior, se, come sembra, i due stavano già da qualche tempo considerando lavori alternativi. Le osservazioni di Harry all'evento sorprendono persino la moglie del signor Iger, Willow Bay, che chiede al marito di cosa stessero discutendo lui e Harry, pochi istanti dopo che il Principe rivolgendosi a Iger aveva detto: «Sai che (Meghan ndr.) fa la voce fuori campo?». E un Iger sorpreso risponde: «Oh davvero? Non lo sapevo». Harry a qual punto incalza: «È davvero interessata», spingendo Iger a commentare: «Ci piacerebbe provare».

Harry e Meghan, Carlo continuerà a finanziarli, ma solo per un anno. Pubblicato lunedì, 20 gennaio 2020 su Corriere.it da Paola Caruso. A caldo il principe Carlo, infuriato per le «dimissioni» del secondogenito Harry e della nuora Meghan aveva minacciato di tagliare i fondi alla coppia. Ora che la crisi «Megxit» è rientrata l’erede al trono ci ha ripensato: il principe del Galles, infatti, continuerà a finanzierà i duchi di Sussex, che non possono più fregiarsi del titolo di «altezze reali», con i suoi guadagni privati, ossia quelli ottenuti con investimenti non collegati alla corona e anche con i guadagni sostanziosi che derivano dal ducato di Cornovaglia. Già Carlo elargiva grosse somme ai due (pari a 2,7 milioni di euro l’anno tramite il ducato di Cornovaglia) e qualcosa continuerà ad arrivare, secondo il Telegraph, anche se non si conoscono i numeri di questo «sostegno» a distanza nel periodo di reali «part-time». Certo, il supporto economico paterno non è a tempo indeterminato: secondo gli insider Carlo è disposto ad aprire il portafoglio per un anno e poi al termine dei 12 mesi, quando si ridiscuterà l’accordo del «periodo di transizione» concordato lontano dagli impegni reali, si parlerà anche di questi soldi. Insomma, un anno di respiro, un anno sabatico. Per ora l’accordo è questo, da rinegoziare il prossimo dicembre (o gennaio). Rimane da capire chi pagherà per la loro sicurezza che è di livello molto alto. In Canada già è nata la polemica sulla scorta e il personale della security: i canadesi non hanno molta intenzione di pagare per i Sussex , come indicano chiaramente due editoriali di due giornali nordamericani che indicano i due addirittura «non desiderati». Il fatto è che a Palazzo tutti tacciono sulla questione sicurezza: la Regina non ha neanche voluto affrontarla. A chi arriverà il conto (salato)?

«Il principe Harry è partito per il Canada  per raggiungere Meghan». Pubblicato lunedì, 20 gennaio 2020 su Corriere.it da Luigi Ippolito. Il principe è triste. Molto triste. E non fa meraviglia. Perché alla fine in questa brutta storia (quasi) tutti ci hanno guadagnato qualcosa: la monarchia, la regina, Meghan. Lui no, lui è rimasto col cerino in mano: e adesso dovrà inventarsi una nuova vita che lui stesso dice sarà «un atto di fede». Una nuova vita che è già iniziata: Harry sarebbe già in volo per il Canada, riferisce la Bbc. Domenica sera Harry aveva fatto un discorso che ha spiazzato tutti: aveva ammesso che le cose non sono andate come aveva sperato. Aveva parlato della sua «grande tristezza» per aver dovuto lasciare la famiglia reale, ma ha spiegato che «non aveva altra scelta». In realtà, a metterlo di fronte a un aut-aut è stata la regina stessa, o meglio la corte di Buckingham Palace. Lui, ha spiegato, sperava di poter continuare a fare il reale a metà, di servire la Corona e il suo Paese ma allo stesso tempo di ritagliare un ruolo autonomo per sé e per sua moglie. Niente da fare, gli hanno spiegato: o si è dentro o si è fuori. E per questo lui e Meghan sono stati privati del titolo di altezze reali e dovranno rinunciare ai fondi pubblici (oltre che restituire i tre milioni spesi per ristrutturare il loro cosiddetto «cottage»). «La decisione di fare un passo indietro non l’ho presa alla leggera — si è difeso Harry —. È stata il frutto di mesi di colloqui dopo anni di sfide». Anche se, ha ammesso, «non sempre l’ho fatta giusta». «Quando io e Meghan ci siamo sposati eravamo eccitati, pieni di speranze — ha raccontato —. Per queste ragioni, mi causa grande tristezza il fatto che si sia arrivati a questo». Quindi, in quella che è apparsa come una confessione, ha lasciato traspirare tutta la sua ansia: «Spero che capiate a che punto sono arrivato: mi allontanerò da tutto ciò che ho conosciuto finora e spero di fare un passo verso una vita più tranquilla». Ecco, forse è qui la chiave del suo sfogo — e della sua esistenza. Perché il principe Harry ha cercato per tutta la vita di sfuggire ai suoi demoni: quelli che lo tormentavano da quando la sua infanzia era stata distrutta dalla perdita della madreDiana. Quel bambino costretto a camminare dietro il feretro ha provato in tutti modi a uscire dal tunnel: ma non aiutava il fatto di essere lo spare. An heir and a spare, un erede e un pezzo di ricambio sono le cose da avere, dicono gli inglesi. Lui era quella seconda cosa: è non è facile. Da qui i turbamenti, che lo vedono travestirsi da nazista alle feste o giocare a strip poker a Las Vegas. Ma anche l’ansia di riscatto, cercato sui campi di battaglia in Afghanistan, nel tentativo di trovare un senso, uno scopo. Fino all’approdo del matrimonio. L’unione con Meghan, la donna più matura, più consapevole, doveva rappresentare la stabilità, l’ingresso definitivo nell’età adulta, la paternità, l’assunzione di responsabilità. Ma alla fine si è rivelata la mina che ha mandato a gambe all’aria la sua esistenza. Perché l’arrivo a corte dell’attrice americana era un candelotto di dinamite lanciatonella monarchia britannica. Lei lontana anni luce ma quel modo di essere, di concepire se stessi e il proprio ruolo. Avrebbe potuto rappresentare la novità, la modernizzazione: l’arrivo di una afro-americana, femminista dichiarata. Si è rivelata incompatibile. E a quel punto Harry ha dovuto scegliere. Un dramma, il suo: ha rinunciato a tutto per seguire la donna che ama. Si trasferiranno in America (lei ha già preso il volo, lui è partito lunedì sera) , dove proveranno a plasmare un nuovo percorso: ma è difficile immaginare il principe uscito dal college di Eton e che ama il polo (il gioco a cavallo, non la t-shirt) destreggiarsi nel mondo delle celebrities hollywoodiane. Lei forse ha ottenuto quello che voleva: una nuova parte, un salto di carriera che le consente di rivendersi la patina di regalità acquisita con le nozze. Sicuramente non avrà rimpianti: e forse ce lo farà sapere presto con interviste, libri di memorie, serie televisive su Netflix. La monarchia ne esce scossa, ma è riuscita a fare quadrato.Ha reagito come ogni istituzione tradizionale fa quando è minacciata: chiudendosi a riccio ed espellendo i corpi estranei. In questo modo la regina ha ristabilito il perimetro di cosa è royal e cosa no. Resta Harry: solo, non più padrone del suo destino, se mai lo è stato. Un principe detronizzato, vittima di una semi-abdicazione subìta più che voluta. E che ormai riesce a ispirare soltanto una pena infinita.

Harry e Meghan Markle, il cachet per un discorso in pubblico: oltre lo schiaffo alla miseria. Libero Quotidiano il 27 Gennaio 2020. Schiaffo alla misera. Anzi, no: molto di più. Si parla del principe Harry e di Meghan Markle, in fuga dalla Corona verso l'Australia. Si parla nel dettaglio dei soldi che chiederanno come cachet per le loro prossime apparizioni pubbliche. Cifre snocciolate dal sempre ben informato TMZ, che ha interpellato esperti del settore quali la GDA Speakers, che annovera tra i suoi clienti Nicole Kidman e Diane Keaton. Per intendersi, per un discorso in pubblico i due chiederebbero circa 500mila dollari. E nel caso in cui chiedessero loro di scrivere un libro, le cifre schizzano alle stelle: secondo Darren Prince, agente sportivo, la coppia otterrebbe solo di anticipo tra gli 8 e i 10 milioni di dollari, una "misera" base di partenza. Cifre pazzesche dovute alla probabile guerra al rialzo per assicurarsi l'esclusiva. E ancora, un'apparizione in coppia - per esempio a una cena - con annesso discorso e domande del pubblico viene quotata 1 milione di dollari. Insomma, Harry e Meghan non avranno grossissimi problemi a rendersi autosufficienti.

La verità: "Vogliono crescere Archie lontano dallo sfarzo e dalla regalità". Si torna a parlare di Megxit e a farlo è una scienziata che, in una recente intervista, rivela cosa avrebbe spinto gli ex duchi a lasciare la famiglia reale. Carlo Lanna, Lunedì 27/01/2020, su Il Giornale. L’uscita dei duchi di Sussex dalla famiglia reale inglese da giorni è un argomento caldo, per non dire scottante. Tante sono le news e indiscrezioni che si rincorrono su Meghan Markle e sul principe dopo quell’annuncio che è stato lanciato sui social e che, di fatto, ha sconvolto nelle fondamenta la royal family. Cosa avrebbe spinto la Markle e il Principe a compiere una scelta di questa portata? Ancora non è dato saperlo, visto che, per ora, non c’è ancora nessuna notizia certa e fondata su tutto quello che è accaduto nel corso delle ultime settimane. Sono molte le persone e gli esperti che hanno speso parole sulla Megxit. Alcune di queste hanno vissuto vicino alla Markle i momenti che hanno anticipato la bomba del 9 gennaio. Nel coro di voci c’è anche l’etologa e giornalista Jane Goodall. È una personalità di spicco in Gran Bretagna, ha collaborato per diversi magazine scientifici e, soprattutto, è stata citata come una fra le personalità più influenti da Vogue Uk, nel numero che è stato curato da Meghan Markle in persona. In un’intervista radiofonica che ha rilasciato a “Today” su BBC Radio 4, la donna ha speso parole sulla Megxit, rivelando il motivo della Megxit. E, secondo la Goodall, le motivazioni sono più che nobili. "Ammetto che sono rimasta sorpresa dalla scelta dei duchi – rivela -. Ma ora la comprendo. Harry si è sempre sentito inadeguato e fuori posto. Per questo ha valutato con molta coscienza la voglia di crearsi una sua indipendenza". Al centro di questo divorzio ci sarebbe stata anche una motivazione ben più profonda che riguarda, da vicino, il piccolo Archie. "Meghan ed Harry stravedono per il figlio. Hanno pensato anche a lui quando hanno intrapreso questa strada. Vogliono farlo crescere lontano dallo sfarzo e dalla ricchezza di Corte – afferma -. È stato un atto coraggioso che io ho apprezzato moltissimo". La scienziata ha conosciuto di persona sia Meghan Markle che il Principe Harry. Avrebbe fatto visita ai Duchi lo scorso anno al Frogmore Cottage e, proprio in quel contesto, il duca avrebbe cominciato a parlare di Megxit: "Hanno intenzione inoltre di mettere al mondo un altro figlio, una scelta per contribuire a preservare l’equilibrio ambientale". La scienziata inoltre durante la chiacchierata ha tessuto le lodi di Harry e Meghan, dipingendoli come due persone dal cuore grande e dal grande interesse per le attività di beneficenza.

Spunta una lista di possibili spose del principe Carlo: "Posso dire di essere gay?" Le indiscrezioni di un documentario rivelano che per scegliere la sposa ideale al principe Carlo sarebbe stata sottoposta una lista di possibili candidate, ma l’erede al trono non avrebbe reagito con aplomb britannico a questa sorta di imposizione. Francesca Rossi, Mercoledì 06/05/2020 su Il Giornale. In passato quando i rampolli dei casati reali dovevano sposarsi e le famiglie iniziavano a muovere nella maniera più vantaggiosa possibile per loro le pedine dello scacchiere di alleanze politico-matrimoniali, era prassi far circolare nelle corti d’Europa i ritratti dei giovani in età da marito o da moglie. Una pratica che continuava anche dopo la promessa nuziale. Capitava spesso anche che i pittori di corte si prendessero delle licenze “estetiche” mentre lavoravano a questi ritratti, rendendo i loro soggetti più affascinanti di quanto non fossero in realtà (e causando non poche delusioni quando i futuri sposi si incontravano dal vivo). Potremmo pensare che tale abitudine sa ormai obsoleta tra le famiglie regnanti, invece non sarebbe proprio così, almeno nella royal family inglese e in particolare per il principe Carlo. Secondo le rivelazioni del banchiere Broderick Munro-Wilson, riportate dall’Express, prima di prendere in considerazione Lady Diana al principe di Galles sarebbe stata presentata una lista di possibili candidate a matrimonio. Non più ritratti tra cui selezionare la sposa ideale, ma una serie di nomi (a cui, comunque, potevano essere abbinate delle fotografie presenti su tutti i giornali). Munro-Wilson conosce il principe Carlo e la consorte Camilla personalmente e, secondo la sua opinione, il figlio della regina Elisabetta non sarebbe stato affatto contento dell’esistenza della famigerata lista. Il banchiere ha aggiunto: “Ho pensato, oh poveretto, non sono sicuro che sceglierei qualcuna tra loro”. A dire il vero, però, un nome spiccava sugli altri. A tal proposito Broderick Munro-Wilson ha rivelato: “La sola possibilità era Carolina di Monaco”. Dunque in passato, almeno per un istante, c’è stata la concreta speranza di vedere una Grimaldi sul trono d’Inghilterra. È vero che la Storia non si fa con i “se”, però viene da chiedersi come sarebbe stata la vita del principe Carlo e della royal family inglese se a corte fosse arrivata una delle figlie di Ranieri di Monaco e di Grace Kelly. Munro-Wilson ha ricordato le perplessità dell’erede al trono, forse persino i timori per il futuro, riassunti in una frase secca, incredibile, venata di una punta di cinismo. Il banchiere, infatti, ci dice che dopo aver osservato la lista il principe Carlo avrebbe dichiarato, un po’ per scherzo un po’, forse, per esasperazione: “Potrei diventare gay?”. Munro-Wilson ha poi raccontato: “Scoppiammo a ridere e poi passammo oltre”. A quanto pare il principe Carlo considerava piuttosto sgradevole dover scegliere la donna della sua vita in questo modo e, in effetti, non sembra il massimo del romanticismo. A questo dobbiamo aggiungere, come puntualizza il banchiere, che per gli aristocratici di tale livello la scelta era limitata alle eredi di poche, selezionatissime famiglie. Quello che in passato i nobili chiamavano “mercato matrimoniale” era davvero ristretto e non esisteva la possibilità di uscire da questi rigidi confini. Una opzione concessa al principe William e a Harry, ma non al principe Carlo. Quindi è comprensibile la sua insofferenza verso la lista di mogli ideali. Non dimentichiamo, poi, che oltre al lignaggio alla sposa veniva richiesto un altro requisito, ovvero la verginità (come accadde a Lady Diana). Richieste inutili e inammissibili oggi, ma non fino a poco tempo fa. Il principe Carlo mostrò un certo interessamento per sua cugina, Lady Amanda Knatchbull, ma quella lo rifiutò, dichiarandosi non ancora pronta al matrimonio. Si volse, allora, verso l’ereditiera scozzese Anna Wallace, chiedendole di sposarla per ben due volte. A quanto pare, però, sia il principe Carlo che Anna non erano convinti l’uno dell’altra e il matrimonio sfumò. Come riporta l’Express qualcuno ritiene che il matrimonio tra Carlo e Diana sia stato combinato. È difficile capire se sia andata davvero così. Sembrerebbe certo l’intervento del principe Filippo che non gradiva l’eccessivo tentennamento del figlio nei riguardi della giovane contessa Spencer. Sembra che il duca di Edimburgo abbia intimato all’erede al trono: “O le fai la proposta o la lasci”. Il principe Carlo optò per la prima soluzione e sappiamo come andò a finire. Del resto il suo grande amore era Camilla Parker Bowles. Tuttavia forse per il principe di Galles la giovinezza non è stata semplicissima e le pressioni a cui è stato sottoposto a causa del suo ruolo non devono essere state facili da sopportare. Ora il principe Carlo sembra felice accanto alla donna della sua vita e il passato con i suoi gravi errori, i tradimenti e le ripicche non può essere modificato.

Vittima rivela: "Epstein e la Maxwell si divertivano a far piangere Lady Diana". Maria Farmer, una delle vittime degli abusi perpetrati da Jeffrey Epstein, ha raccontato che il milionario pedofilo e la sua complice Ghislaine Maxwell si divertivano a bullizzare Lady Diana, che diventò uno dei loro "bersagli preferiti". Mariangela Garofano, Venerdì 01/05/2020 su Il Giornale.  Nella storia degli abusi compiuti dalla diabolica coppia formata da Jeffrey Epstein e Ghislaine Maxwell, non sono stati risparmiati nemmeno i membri della Royal Family. Intimi amici del principe Andrea, il milionario e l’amica erano assidui frequentatori degli eventi prestigiosi organizzati dai reali. Una delle vittime di Epstein, Maria Farmer, ha rivelato al Daily Mail che i due si divertivano a bullizzare Lady Diana Spencer. La donna racconta che un giorno la Maxwell, mentre guardavano insieme un album di fotografie che la ritraeva con i reali, le disse: “Guarda, qui avevamo fatto piangere Diana. Non è divertente? Odiavamo Diana”. La Farmer, che rimase scioccata dalla cattiveria della donna, racconta che “erano molto cattivi con lei, offensivi, ma credevano fosse divertente. Una cosa davvero malata”. Lady Diana era uno dei loro “bersagli preferiti”, continua a rivelare la 50enne, aggiungendo particolari sempre più inquietanti sulla personalità deviata della coppia, che lei descrive come due novelli “Bonny e Clyde”. Ghislaine Maxwell, figlia dell’importante editore britannico Robert Maxwell, crebbe nei migliori salotti dell’alta società inglese, ma la sua personalità corrotta la portò a diventare la perfetta "partner in crime" del pedofilo Jeffrey Epstein. Maria Farmer ha rivelato di essere stata abusata non solo dal milionario, ma dalla Maxwell stessa, il cui compito era adescare giovanissime ragazze per Epstein, al fine di trasformarle in “schiave sessuali”. Dopo la morte di Epstein, Ghislaine Maxwell è diventata invisibile, una sorta di Primula Scarlatta, ancora oggi a piede libero, nonostante le gravi accuse della Farmer e di Virginia Giuffre. Quest'ultima ha accusato il principe Andrea di aver avuto rapporti intimi con lei a 17 anni e ha più volte raccontato che fu la Maxwell ad adescarla. Portata nella grande dimora di Jeffrey Epstein a Palm Beach, come “massaggiatrice”, la ragazza divenne ben presto una delle schiave del sesso del pedofilo, “svenduta” ai suoi facoltosi amici per anni. Il duca di York ha negato ogni accusa della 36enne americana durante un’intervista concessa alla Bbc. Ma nonostante i suoi sforzi per discolparsi dalle imbarazzanti denunce, le parole di Andrea non hanno convinto il pubblico, che ha notato una scarsa empatia con le vittime di Epstein. Subito dopo la disastrosa intervista, Elisabetta e il principe Carlo hanno convinto Andrea a ritirarsi a vita privata, per evitare ulteriori scandali e salvare il buon nome dei Windsor.

Il figlio della regina travolto dallo scandalo: "In un momento di intimità mi disse che ero minorenne come le sue figlie". Nella docuserie sui crimini commessi da Jeffrey Epstein, Virginia Giuffre fa una rivelazione scioccante: il principe Andrea scherzava sulla sua giovane età, dicendole "hai l'età delle mie figlie". Mariangela Garofano, Giovedì 28/05/2020 su Il Giornale. Il 27 maggio è uscito “Jeffrey Epstein: Filthy Rich”, la docuserie prodotta da Netflix, sulla vita del pedofilo milionario morto in carcere lo scorso agosto. Nel documentario hanno raccontato la loro storia diverse vittime degli abusi sessuali dell’uomo, tra cui Virginia Giuffre. La donna ha affermato di essere state una “schiava sessuale” del magnate, circuita dalla sua complice Ghislaine Maxwell e “svenduta” a soli 17 anni al principe Andrea. Nella serie viene esplorato il legame d’amicizia che legava il diabolico finanziere al principe inglese, che è costato a quest’ultimo il ritiro della vita pubblica. Come si legge sul Mirror, la Giuffre ha rivelato nuovi particolari decisamente poco edificanti sul conto del duca, che prima di un loro incontro intimo avrebbe scherzato con lei sulla sua età, vicina a quella delle figlie Beatrice ed Eugenia. Racconta la Giuffre: “Ghislaine amava giocare a far indovinare l’età delle ragazze. Chiese al principe Andrea, 'quanti anni ha Virginia secondo te? 'E lui disse 17. Lei esclamò 'giusto!' E scherzarono sulla cosa. Lui mi disse, 'le mie figlie hanno più o meno la tua età, sono solo un po’ più giovani'”. La rivelazione di Virginia aggiunge alle accuse mosse ad Andrea una nota ancora più disturbante, dato che la ragazza all’epoca dei fatti era minorenne. La Giuffre sostiene di aver avuto rapporti intimi con Andrea in diverse occasioni nelle dimore di Epstein in giro per il mondo, tra cui la villa sull’isola privata del milionario, Little Saint James. E proprio ai Caraibi, un altro testimone ha rivelato nel documentario di aver visto il duca di York in compagnia di Virginia e di altre giovani ragazze. Steve Scully, ex dipendente di Jeffrey Epstein, ha rivelato che sull’isola soggiornavano diverse figure note, tra cui membri della corona britannica. “Credo fosse il 2004 quando vidi il principe Andrea”, racconta Scully, che prosegue con particolari sempre più compromettenti. “Era in piscina, con una ragazza che all’epoca non conoscevo, giovane. Era in topless e si stavano scambiando effusioni. La toccava e si strusciava contro di lei”. La giovane a cui Scully fa riferimento era Virginia Giuffre, che l’uomo riconobbe solo anni dopo, quando iniziò la sua battaglia legale contro Jeffrey Epstein. “Puoi dire a te stesso che non sei sicuro di ciò che hai visto, di non aver visto niente. Ma è solo per razionalizzare”, va avanti l’ex dipendente. “Jeffrey Epstein era bravo a nascondere le sue devianze, ma non così bravo”. Virginia Giuffre ha chiesto a gran voce che il terzogenito di Elisabetta venga estradato negli Stati Uniti per essere interrogato sui suoi legami con i traffici illeciti di Epstein, sotto giuramento. Ma il duca, che si era detto disponibile a collaborare, secondo il legale Geoffrey Berman, ha “sbattuto la porta in faccia agli inquirenti”, rifiutandosi di collaborare con l’Fbi. Intervistato dalla Bbc a novembre 2019, il duca ha negato di aver conosciuto Virginia Giuffre e di non essere stato a conoscenza del traffico di minorenni dell’amico.

Camilla imbarazza la royal family. E se la prende con i genitori di Kate Middleton. Camilla Parker Bowles al centro delle polemiche per alcune rivelazioni sul suo passato: si sarebbe comportata da "arpia" con i genitori di Kate Middleton. Elisabetta Esposito, Lunedì 11/05/2020 su Il Giornale. Camilla Parker Bowles nel ruolo "dell'arpia", nei primi anni di convivenza con i consuoceri. È questa l'ultima indiscrezione scottante che proviene da Buckingham Palace: la duchessa di Cornovaglia avrebbe infatti utilizzato per anni un soprannome infelice per i genitori di Kate Middleton. Ma non è tutto: la moglie di Carlo si sarebbe anche ferocemente lamentata del tempo trascorso dal principe George con i nonni materni, preoccupata per la sua educazione. L’ingresso di Camilla nella Royal Family è stato a dir poco burrascoso. Negli anni ’90 fu resa nota la sua relazione clandestina con il Principe Carlo, uno scandalo che portò rapidamente al divorzio dell'erede al trono con Lady Diana. Sembra che inizialmente il Principe William non abbia visto di buon grado questa unione, un rapporto che portò il padre a nuove nozze nel 2005. L’Express racconta però un nuovo dettaglio di questo rapporto conflittuale, proveniente dal passato recente di Camilla. Il tutto è accaduto nel 2010, in occasione del fidanzamento tra il Principe William e Kate Middleton, quando la duchessa di Cornovaglia si ritrovò a incontrare per la prima volta Michael e Carole Middleton. Ed è proprio durante questo incontro che si sarebbe verificato uno dei cliché più classici dei rapporti di famiglia, quello dello scontro fra i consuoceri. Stando ad alcuni informatori vicini alla coppia reale, Camilla avrebbe accolto i Middleton con un poco edificante “Meet the Fockers”. Si tratta del titolo originale del film "Mi presenti i tuoi?", una commedia con Robert De Niro e Dustin Hoffman, in cui due genitori tradizionalisti si trovano - loro malgrado - a dover familiarizzare con due consuoceri a dir poco bizzarri e folkloristici. La duchessa si sarebbe rivista in questa pellicola, si sarebbe sentita la raffinata moglie del futuro re d'Inghilterra, costretta a doversi mischiare con i ben più comuni e chiassosi Middleton. Un gesto incomprensibile da Camilla, considerando come ben conosca il peso e il fastidio di un soprannome. La duchessa fu infatti ribattezza dalla stampa “la terza persona”, un modo crudele per sottolineare il suo ruolo da intrusa nel matrimonio tra Carlo e Lady Diana. Il contrasto tra Windsor e Middleton non si sarebbe tuttavia limitato a una battuta. I rapporti si sarebbero inaspriti nel corso del tempo, fino a scadere in una vera e propria lotta di potere fra nonni alla nascita del piccolo George. Sembra che Carlo e Camilla avessero espresso il desiderio di trascorre più tempo con il nipotino, il quale invece se la spassava allegramente in giro per il mondo con i Middleton. Una fonte anonima ha confermato il disagio provato dai reali, i quali definirono la madre di Kate con l'appellativo di "regina Carole”. Aveva infatti il diritto di veto su tutte le abitudini del piccolo George, dall'ora del pisolino pomeridiano fino all'alimentazione. Tom Parker Bowles, figlio di Camilla, ha più volte smentito il presunto contrasto tra la madre e i Middleton. Nel mentre, la famiglia di Kate ha sempre espresso dispiacere per essere stata dipinta negativamente sulla stampa, poiché apparentemente più coinvolta nell'infanzia del nipote. Al centro la stessa duchessa di Cambridge, che si è sempre adoperata per prevenire qualunque frattura tra le due famiglie. Sembra che i dissidi si siano però appianati: oggi l’immagine dei rapporti tra Windsor e Middleton è molto diversa, i quattro consuoceri si comportano come nonni orgogliosi e affiatati tra loro.

"Lady D. e Camilla erano amiche". La mossa "spregiudicata" di Carlo. C’è stato un tempo molto lontano in cui Lady Diana e Camilla Parker Bowles si frequentavano ed erano persino diventate amiche, prima che il principe Carlo scegliesse con la testa la prima, ma con il cuore la seconda. Francesca Rossi, Lunedì 04/05/2020 su Il Giornale. Incredibile ma vero, almeno stando alle indiscrezioni riportate da Elle. Lady Diana e Camilla Parker Bowles sarebbero state amiche, almeno per un periodo di tempo, prima che il principe Carlo decidesse di sposare la giovane Spencer e relegasse al ruolo di amante Camilla. La scelta dell’erede al trono d’Inghilterra non fu dettata dal cuore, bensì dal ruolo di corte e dal timore di deludere la famiglia. Lady Diana era la sposa che tutti si aspettavano di vedere all’altare accanto a lui, dai membri della royal family ai sudditi. Camilla era il vero amore, ma non possedeva le qualità giuste per ambire a un futuro sovrano, dunque rimase un legame proibito come nei migliori romanzi d’appendice. Sappiamo tutti come è andata a finire la storia di questo pericoloso triangolo, ma forse alcuni non sanno che in un tempo ormai sepolto dai gossip, dalle biografie, dalle ipotesi e dalle certezze, Lady Diana e l’eterna rivale Camilla Parker Bowles si sarebbero frequentate e, a quanto pare, si andavano perfino a genio. Stavano per diventare amiche, insomma. Secondo la biografa della duchessa di Cornovaglia, Penny Junor, nel momento in cui Lady Diana e Carlo cominciarono a frequentarsi, Camilla e il marito Andrew Parker Bowles li ospitarono spesso nella loro tenuta a Bolehyde Manor, nel Wiltshire. Siamo alla fine degli anni Settanta. Carlo e Camilla erano già innamorati dal 1971, quando galeotta era stata una partita di polo nel parco di Windsor. La loro relazione era durata due anni, poi la regina Elisabetta aveva intimato al figlio di cercare altrove una moglie che fosse all’altezza di diventare, un giorno, regna consorte. Camilla Parker Bowles si era fatta da parte, sposandosi con l’ufficiale dell’esercito Andrew Parker Bowles (da cui avrebbe divorziato nel 1995, dopo avergli dato due figli). Il principe Carlo, però, non aveva mai dimenticato quel grande amore e per dirla tutta la cosa era reciproca. Nel 1977 il figlio della regina Elisabetta aveva incontrato la giovanissima Diana e sembrava che ormai Camilla si fosse messa l’anima in pace. La contessa Spencer si recava con Carlo a far visita ai Parker Bowles e secondo i rumors si affezionò molto ai figli di Camilla, Tom e Laura. Esiste perfino una foto che risale al 1980 e ritrae Diana e Camilla mentre tifano per Carlo durante un match di polo e Ludlow. Tutto normale, almeno in apparenza. L’equilibrio, però, era destinato rompersi. Il 6 febbraio 1981, al Castello di Windsor, il principe di Galles chiese a Lady Diana di sposarlo. Da quell’istante, stando alla rivelazione della Junor, Camilla decise che non sarebbe più rimasta in un angolo e Carlo non si sarebbe tirato indietro. Diana divenne sospettosa e diffidente, rifiutò di frequentare ancora quest’amica che nei suoi confronti sembrava sempre simpatica e disponibile. Forse comprese qualcosa, forse intuì soltanto il pericolo. Tuttavia si sentiva forte, pronta a sfidare chiunque volesse far vacillare il suo sogno. Questo, almeno, nelle intenzioni. Il giorno prima del matrimonio, infatti, Lady Diana scoprì che il futuro marito voleva regalare all’amante un bracciale con le iniziali “F” e “G” (i soprannomi che si erano dati Carlo e Camilla, cioè Fred e Gladys). La principessa cambiò idea e pensò di mandare a monte il matrimonio, incurante del gossip e dello scandalo. A quanto pare Diana chiese consiglio alla famiglia, ma la risposta delle sorelle fu piuttosto fredda: “Sfortunatamente la tua faccia è sulle tovagliette da tè, quindi è troppo tardi per tirarti indietro”. Parole in cui vediamo una punta di cinismo, ma anche un certo realismo. Il 29 luglio 1981 Lady Diana sposò il principe di Galles e in chiesa vide anche la sua rivale, Camilla. Da quel momento per la timida Spencer la favola sarebbe finita. Nel 1997 Carlo, ormai divorziato, organizzò una festa di compleanno per quella che non era più solo un’amante, ma una vera e propria fidanzata. Lady Diana tentò di fuggire dal dolore e dall’umiliazione cocente che ancora provava accettando l’invito di Mohammed al-Fayed. Una vacanza a Saint Tropez l’avrebbe aiutata a dimenticare. Ad attenderla trovò il figlio del miliardario egiziano, Dodi. Quello fu l’inizio della fine di una fiaba al contrario in cui la principessa non visse mai felice e contenta.

Giada Oricchio per iltempo.it il 4 maggio 2020. Lady Diana ha tentato il suicidio quattro volte. È la clamorosa rivelazione di un nuovo e controverso documentario che dovrebbe andare in onda su Netflix. Il "The Sun" annuncia nuovi dispiaceri per la Royal Family più celebre al mondo: un documentario di prossima uscita lascerà "molto turbati e arrabbiati" i principi William e Harry d'Inghilterra, costretti ancora una volta a fare i conti con il loro amaro e drammatico passato. Secondo "The Sun", una serie in quattro parti, provvisoriamente chiamata "Being Me: Diana", approfondirà i tormenti fisici e mentali dell'ex moglie del principe Carlo, dall'infanzia dolorosa alla lotta ai disturbi alimentari fino al suo infelice matrimonio che l'avrebbe portata a tentare il suicidio per ben quattro volte. La serie, realizzata dalla compagnia televisiva DSP, già autrice di 127 Hours, userà filmati inediti delle interviste e dei discorsi della Principessa del Galles, girati prima della morte violenta avvenuta a Parigi nel 1997, oltre a testimonianze delle persone che le erano vicine per far luce sul periodo precedente alla separazione da Carlo d'Inghilterra nel 1992. Il progetto è previsto per Netflix ma non è stato ancora commissionato anche perché l'ex duca di Sussex Harry, che ha lavorato con la piattaforma di streaming per uno speciale del 75° anniversario di Thomas The Tank Engine, potrebbe rimanerne sconvolto decidendo di interrompere la collaborazione che lo vede impegnato con la moglie Meghan Markle su progetti futuri. Intanto gli Spencer, la famiglia di Lady D, si è rifiutata di apparire o prendere parte in qualsiasi forma e modo al documentario.

"Ha provato a farlo per 4 volte" Il racconto choc su Lady Diana. Sta per arrivare un nuovo documentario sulla vita di Lady Diana che promette di svelare dettagli molto sconvolgenti, ma Harry e William vogliono boicottare il progetto. Carlo Lanna, Martedì 05/05/2020 su Il Giornale. Il mito di Lady Diana è immortale. La principessa triste, morta tragicamente nell’estate del 1997, ha lasciato un’impronta nel cuore di tutti, soprattutto in quello dei suoi figli. Harry e William, da tempo ai ferri corti dopo la Megxit, di una cosa sono consapevoli: sono ciò che sono grazie agli insegnamenti di Lady Diana. Quella mamma così apprensiva, severa ma giusta, ha permesso ai due principi di poter sognare in grande e di poter vivere una vita diversa, non come due altezze reali. La memoria della defunta moglie di Carlo, però, potrebbe essere a rischio. Secondo quanto riporta il The Sun, prossimamente, potrebbe arrivare in tv un documentario sulla vita di Lady Diana, un documentario che sconvolgerà non solo gli estimatori della principessa ma che metterà in serio pericolo anche l’apparente serenità di Palazzo. Con il titolo di "Being me: Diana" (Essere me stessa: Diana), gli autori promettono una ricostruzione dettagliata della vita (segreta) della principessa. Il documentario si pone l’obbiettivo di raccontare il passato di Lady D., dall’infanzia fino a quando non ha messo piede nella royal family, soffermandosi sui periodi bui prima del suicidio. "Dall’infanzia complicata fino all’infelice matrimonio con il Principe Carlo", recita il comunicato. Una ricostruzione però, secondo quanto è stato rivelato dalla stampa britannica, che potrebbe portare a galla dettagli sconvolgenti sul passato della giovane Lady. "Diana ha tentato il suicidio quattro volte – affermano i produttori –. E noi vogliamo raccontare le motivazioni". Il documentario si fonderebbe su fatti realmente accaduti e su diverse testimonianze di persone che hanno avuto contatti con Diana, come fotografi, stilisti e semplici confidenti. Ancora non c’è una data ufficiale di trasmissione, ma secondo le prime indiscrezioni, pare che il colosso di Netflix avrebbe tutte le intenzioni di accaparrarsi il progetto. La notizia, ovviamente, non è passata inosservata. È arrivata già alle orecchie della famiglia reale inglese. Pare che la Regina sia molto preoccupata delle conseguenze, ma ad essere più indignati sono proprio Harry e William i quali contano sull’appoggio di Meghan e Kate. I due principi che da anni stanno combattendo per proteggere l’eredità di Lady Diana, non sarebbero propensi a dare il loro benestare. Soprattutto Harry che, secondo le voci, avrebbe firmato un accordo con Netflix per la produzione di diversi contenuti. E già si urla al conflitto di interessi. Non resta che attendere i prossimi risvolti.

Il medico: "Una ferita che nessuno aveva notato. Lady Diana poteva essere salvata". Nuovi e incredibili dettagli sul destino di Lady Diana spuntano in una intervista rilasciata da un noto patologo che mette in mostra un particolare che è sfuggito a tutti e che avrebbe potuto mettere in salvo la principessa. Carlo Lanna, Mercoledì 13/05/2020 su Il Giornale. Sono trascorsi più di 20 anni da quel tragico 31 agosto del 1997 e dall’incidente a Parigi in cui è morta Lady Diana. Il mito della principessa triste è ancora oggi nel cuore di tutti, ma sono tantissime le verità celate nell’ombra sul suo infame destino. E in attesa di un documentario, prodotto da Netflix, in cui si promettono scioccanti indiscrezioni, ora spuntano nuove verità sull’incidente mortale direttamente dal patologo Richard Sherpard. Sul numero di Oggi, in edicola il 14 maggio, verrà pubblicata una lunga intervista in cui l’uomo rivela dettagli su quanto è accaduto nell’agosto del 1997 . E Dagospia, sulla questione, ha regalato qualche piccante anticipazione. Il patologo di fama mondiale nel 2004 è stato incaricato dalle autorità britanniche di indagare sulla morte di Lady Diana, scoprendo alcuni dettagli che in passato nessuno aveva notato. "La principessa era incastrata dietro il sedile del bodyguard, per questo motivo hanno avuto serie difficoltà nel liberarla dalla trappola di lamiere – esordisce –. Le condizioni del bodyguard, però, erano più critiche rispetto a quelle di Lady D. In quel frangente nessuno aveva notato di una ferita, uno strappo molto profondo vicino la vena polmonare. Diana era ferita molto gravemente, ma i medici la vedevano stabile ". Il patologo, che già aveva ricostruito l’accaduto in un libro pubblicato qualche anno fa, rivela che quella ferita sfuggita agli occhi dei paramedici è stata più che fatale per Lady Diana. "Nel frattempo quella ferita ha cominciato a sanguinare e lei è svenuta – continua l’esperto –. Solo più tardi quando è arrivata in sala operatoria si è scoperto il vero problema, ma oramai era troppo tardi". Il dottor Richard, durante l’intervista, afferma che Lady Diana si sarebbe potuta salvare se avesse avuto la cintura di sicurezza allacciata. "Avrebbe avuto qualche livido, qualche costola rotta ma sarebbe ancora in vita –aggiunge –. I soccorritori invece, salvando la bodyguard hanno perso tempo prezioso". Il patologo comunque non esprime il suo parere solo sulle condizioni di Lady Diana, ma rivela dettagli anche su Henry Paul. "Il monossido di carbonio che è stato trovato nell’autista è un vero mistero – rivela-. E inoltre non è chiaro perchè sono state rivelate tracce di una medicina che viene usata contro i vermi nell’intestino dei bambini. Suono tutto molto strano". Infatti la provenienza di alcune prove rinvenute sono state messe più volte in dubbio, tanto da ipotizzare che la documentazione sulle analisi possa essere stata compromessa. Sta di fatto che questa verità aggiunge un altro tassello al mistero che aleggia su Lady Diana. 

Da "Oggi" il 13 maggio 2020. Mentre impazzano nuove voci su quattro tentativi di suicidio di Lady Diana (dovrebbe parlarne a breve un documentario Netflix), saltano fuori curiose battute fatte da Carlo («Posso diventare gay?»), torna alla ribalta il presunto flirt tra la bionda principessa e l’ex presidente francese Valéry Giscard D’Estaing, il settimanale OGGI, in edicola da domani, pubblica una intervista con Richard Shepherd, il patologo di fama mondiale che nel 2004, su incarico delle autorità britanniche, indagò sull’incidente del 31 agosto 1997, scoprendo delle stranezze su quello che è successo prima e dopo. Lo specialista, che in un libro si era detto certo Diana poteva essere salvata, dice a OGGI: «Era incastrata dietro il sedile del bodyguard che era molto più ferito di lei: hanno faticato a tirarlo fuori dall’auto. Nessuno poteva sapere che Diana aveva un piccolissimo strappo, nascosto ma molto profondo, nella vena polmonare… Agli occhi dei soccorritori Diana era ferita, ma stabile perché poteva ancora parlare. Per questo motivo hanno dato la precedenza al bodyguard. Nel frattempo la vena nel seno di Diana ha continuato a sanguinare e lei è svenuta. Durante il trasporto in ospedale il suo cuore si è fermato, ma è stata rianimata. Soltanto più tardi in sala operatoria è stato individuato il vero problema e si è cercato di chiudere la vena. Ma purtroppo era troppo tardi». Sarebbe sopravvissuta se si fosse allacciata la cintura di sicurezza? «Sì, non ho alcun dubbio», dice Shepherd a OGGI, «se la sarebbe cavata con qualche livido e qualche costola rotta. Lady Diana potrebbe essere ancora in vita anche se, invece del bodyguard, i soccorritori avessero portato lei per prima in ospedale. È stata vittima di una catena di avvenimenti sfortunati». Shepherd, inoltre, insiste sui misteri che circondano le condizioni dell’autista di Diana, Henry Paul: «Il monossido di carbonio nel sangue di Henri Paul rimane un mistero… È anche molto strano che nel sangue dell’autista siano state trovate tracce di una medicina che viene usata contro i vermi nell’intestino dei bambini. La provenienza di alcune prove sanguigne dell’autista deve essere messa in dubbio, perché esse non sono state trattate con la necessaria precisione e documentate con la necessaria disciplina. Inoltre ci sono delle foto che confermano che alcuni prelievi di Henri Paul sono stati scambiati. Soltanto i prelievi nei quali venne individuato alcol sono senza dubbio dell’autista».

Quelle parole del principe Carlo che fecero sprofondare Lady D nella bulimia. A distanza di tempo emergono nuovi dettagli sulla vita della principessa Diana vittima per anni della bulimia. A scatenare il suo disturbo sarebbe stata una frase pronunciata da Carlo alla vigilia delle nozze. Novella Toloni, Sabato 01/08/2020 su Il Giornale. "Furono gli stilisti ad accorgersi della bulimia della principessa Diana", così Diane Clehane ha raccontato come lo staff di Lady Diana si accorse del suo grave disturbo alimentare alla vigilia delle nozze con il principe Carlo. La scrittrice britannica, autrice del best seller "Diana: The secrets of her style", ha rievocato il drammatico episodio che segnò l'inizio della malattia della principessa, svelando quali parole pronunciate dal primogenito della regina furono in grado di far sprofondare Lady D nel baratro della bulimia.

Lo chef di Lady Diana rivela il rapporto della principessa con il cibo. Sulle pagine della rivista Best Life, Diane Clehane è tornata a parlare di uno degli episodi chiave della vita della principessa Diana, vittima per anni di un serio disturbo alimentare. Furono i designer Elizabeth e David Emmanuel a scoprire il problema di Diana, mentre realizzavano il ricercato vestito da sposa delle nozze reali più attese di sempre. "Oltre a far fronte all'ansia di creare un abito che sarebbe diventato parte della storia reale - racconta la scrittrice - gli Emmanuel hanno dovuto affrontare un problema molto più grave: la vita di Diana che si stava rapidamente restringendo". Dalla prima prova dell'abito al giorno delle nozze Lady D perse, infatti, ben quattro taglie, dimagrendo in modo vistoso e repentino non solo per la pressione e l'ansia prematrimoniale. A scatenare la grave perdita di peso sarebbe stato un commento pronunciato dal principe Carlo durante la cerimonia di fidanzamento, ricorda la Clehane: "Charles aveva fatto un commento sbrigativo alla sua fidanzata. Quando le mise un braccio attorno alla vita per le fotografie ufficiali, disse che la futura moglie era "un po' cicciottella", scatenando gli attacchi cronici di bulimia nella giovane Spencer". Parole che suonarono come un monito per la principessa che, secondo i racconti dell'ultimo documentario a lei dedicato, avrebbe provato a suicidarsi in almeno quattro occasioni durante la vita coniugale con Carlo.

Il documentario choc su Lady Diana: "Harry e William rimarranno sconvolti". Non fu solo l'ansia prematrimoniale a mettere in crisi Lady D: "All'inizio delle prove per l'abito da sposa Diana era una taglia britannica 14 con una vita da 29 pollici; nel giorno del suo matrimonio, aveva una vita di 23 pollici e si era ridotta a una taglia 10". Una perdita di peso resa possibile solo dalla grave disturbo alimentare contro il quale la principessa dovette combattere per lungo tempo. "Aveva perso un sacco di peso e il suo corpo aveva subito cambiamenti piuttosto drastici. Era un problema, ma all'epoca pensavamo che fosse sempre più bella".

La rivelazione: "Per Carlo l’addio di Harry è una tragedia come la morte di Diana". A pochi giorni dall'ufficializzazione dell'allontanamento dei duchi di Sussex dalla Royal Family, un amico del principe Carlo ha rivelato che sarebbe proprio lui il più dispiaciuto per la decisione del figlio Harry, che ha riportato alla sua mente la ferita ancora aperta della scomparsa di Lady Diana. Mariangela Garofano, Lunedì 20/01/2020, su Il Giornale. L’addio dei duchi di Sussex alla Royal Family, ufficializzato nella giornata di sabato 18 gennaio, ha creato subbuglio e stupore tra i membri della famiglia. Uno dei più colpiti per la decisione del figlio minore, è sicuramente il principe Carlo, che sarebbe “profondamente dispiaciuto”. Un amico del principe di Galles, ha rivelato al Mirror che la “Megxit” ha riportato alla mente di Carlo vecchie ferite, come la tragica morte della principessa Diana."Carlo sente che la vicenda sarà vista come un altro disastro. Prima la tragedia accaduta alla madre di suo figlio, ora il disastro del figlio”. Il primogenito di Elisabetta aveva fatto il tifo per le nozze del principe Harry con Meghan Markle, convincendo la madre che un matrimonio misto sarebbe stato un passo importante per la modernizzazione della monarchia. Inoltre, anche Meghan proprio come Carlo, era già stata sposata. Carlo quindi, è stato il più favorevole all’unione tra il figlio minore e la nuora americana, spingendo affinché la regina desse “la sua benedizione per un matrimonio in chiesa” della giovane coppia. Ma ecco che l’annuncio “bomba” dei duchi di Sussex ha mandato all’aria tutti i piani, lasciando Buckingham Palace nello sconforto più totale. Elisabetta aveva chiesto al nipote di preparare una bozza del piano che voleva portare avanti con la moglie, per il padre, ma l’annuncio a sorpresa lanciato su Instagram, ha spiazzato tutti. La regina, nella sua decisione finale, ha dichiarato di accogliere il desiderio del nipote e della consorte, di ritirarsi dagli obblighi istituzionali, ma su una cosa è stata chiara: non potranno essere“reali part time”. Harry e Meghan dal canto loro, pare che rimborseranno ai contribuenti i 2.4 milioni di sterline utilizzati per il restauro della loro dimora di Frogmore Cottage. Nel comunicato ufficiale rilasciato sabato 18 gennaio, la regina ha dichiarato: “Harry, Meghan e Archie saranno sempre membri molto cari alla mia famiglia. Riconosco le sfide che hanno portato avanti in questi due anni e supporto il loro desiderio di una vita più indipendente. Voglio ringraziarli per il lavoro che hanno svolto per questo paese, per il Commonwealth e oltre. Sono particolarmente fiera di come Meghan si sia integrata velocemente all’interno della famiglia. La speranza di tutta la mia famiglia è che l’accordo preso oggi, permetta loro di costruirsi una vita felice e tranquilla”. 

Carlo Lanna per "ilgiornale.it" il 18 febbraio 2020. Il mito di Lady Diana aleggia tra le mura di Buckingham Palace come un fantasma, portatore di segreti celati nell’ombra e verità che resteranno celate per sempre. Il suo è stato un destino crudele e ingiusto che, inevitabilmente, ha segnato la vita della famiglia dei Windsor. Lady Diana è stata la principessa del popolo e la principessa triste, la moglie tradita del principe Carlo e mamma di William e di Harry, i due fratelli reali che ancora oggi non riescono ad accettare la morte di una donna forte e anticonvenzionale. Una vicenda che non troverà mai soluzione, una storia incredibile, fatta di misteri e parole sussurrate, un incidente che non si può dimenticare. E ora sulla morte di Lady Diana continuano a fioccare altri segreti che, almeno fino a questo momento, sono rimasti nascosti nel buio ma al tempo dei gossip e delle news che corrono veloci sul web, riemergono dal magma degli archivi della famiglia reale. Come, ad esempio, secondo le ultime informazioni trapelate in rete, spunta l’esistenza di una lettera che la Regina Elisabetta avrebbe inviato proprio a Lady Diana. Una lettera in cui si discuteva di faccende legate a questioni familiari di vitale importanza. La sovrana avrebbe infatti spedito una lettera a Lady D, invitando la principessa a divorziare immediatamente dal principe Carlo. Tutto sarebbe accaduto dopo quell’intervista che è stata rilasciata da Diana alla stampa, in cui ha affermato di essere stata tradita da Carlo. In quell’instante su tutta la famiglia reale si era abbattuto un vero e proprio tornado e la Regina per salvare la reputazione della Corona è dovuta intervenire. "Ho consultato l’arcivescovo di Canterbury, il primo ministro e anche il principe – si legge nella lettera -. E abbiamo deciso che il miglior percorso per voi è il divorzio". Parole schiette, dure e spesse. La Regina però, da quel che sembra, aveva tutte le intenzioni di mettere a tacere i rumor ed evitare che l’immagine della Corona potesse essere ulteriormente infangata. Il divorzio però, almeno all’inizio, non era l’intenzione ultima di Lady Diana. Ma alla fine è capitolata e ottenne la separazione dal Principe solo il 28 agosto nel 1996. Un anno dopo, a Parigi, Diana è stata coinvolta in quel tragico incidente stradale in cui è morto anche Dodi Al Fayed.

Uno scambio di lettere tra Lady Diana e il Principe Filippo. Ci sarebbe stato uno scambio di lettere tra Lady Diana e il Principe Filippo in cui la ex moglie di Carlo chiedeva aiuto e sperava in un mano per sopravvivere a un matrimonio infelice. Carlo Lanna, Giovedì 20/02/2020 su Il Giornale. Un mito che è diventato leggenda quello di Lady Diana. La memoria della Principessa Triste, morta in un tragico incidente stradale nell’agosto del 1997, è rimasta cristallizzata nel tempo. Amata da tutti e ricordata con affetto dai suoi figli, resta ad oggi una delle figure più controverse della nostra contemporaneità. A distanza di anni dal suo tragico destino, ci si interroga ancora sulle cause della sua morte e, soprattutto, ci si chiede se tutto quello che è accaduto poteva essere evitato. La sua è stata una favola dal triste epilogo, costretta a sposare un uomo che non ha mai amato fino in fondo ma che ha regalato a Lady D due splendidi figli, ora due principi felici e sposati. In un documentario che di recente è stato trasmesso sull’emittente France 3, un episodio è stato interamente dedicato al mito di Lady Diana. In Secrets d’Histoire, programma che analizza la vita dei grandi personaggi storici, ha svelato alcuni retroscena sulla vita di Corte, in special modo ha rivelato di uno scambio di lettere tra Lady Diana e il Principe Filippo (marito di Elisabetta). Da sempre il consorte è stato definito come un uomo burbero che ha sempre avuto un rapporto conflittuale con la moglie di Carlo. Dettagli che sono sempre stati smentiti dalle fonti ufficiali di palazzo e ora il documentario rivela un particolare che, fino a questo momento, era rimasto celato nell’ombra. Sì, il Principe Filippo ha un carattere scomodo, difficile da domare, eppure ha avuto un bellissimo rapporto con Lady Diana e lo attesta uno scambio di lettere che c’è stato tra i due. La principessa che si rivolgeva al principe con "Caro Papà", ha chiesto il suo aiuto per cercare di risolvere le liti che c’erano tra lei e Carlo. Le lettere fanno riferimento al 1992, periodo molto particolare per la famiglia reale, dato che di lì a poco, Carlo e Diana si sarebbero separati. Filippo avrebbe risposto con un "farò il possibile", rendendosi conto della gravità della gravità della situazione. Come riporta il documentario, lo scambio di lettere sarebbe stato molto lungo, e i due si sarebbero confrontati su diversi aspetti delle loro vite da reali. A quanto pare Filippo avrebbe compreso quanto fosse difficile per Diana vivere in quel modo e, mettendo a rischio anche alcune regole di Corte, avrebbe cercato di far tornare la pace tra i due senza riuscire però nell’intento. Chissà, se Carlo avesse ascoltato i consigli del padre ora le cose sarebbero state diverse?

Ecco l'episodio decisivo che ha fatto scattare il divorzio tra Carlo e Diana. Il matrimonio tra Lady Diana e il principe Carlo non è mai stato solido e fin dall’inizio mostrò crepe profonde e insanabili, ma secondo i tabloid nel 1990 ci fu un evento che spinse Lady Diana a prendere la decisione definitiva di divorziare da Carlo. Francesca Rossi, Giovedì 23/04/2020 su Il Giornale. Il matrimonio di Lady Diana con il principe Carlo non nacque sotto una buona stella. Troppe incomprensioni, due personalità inconciliabili, lo spettro onnipresente di Camilla Parker Bowles che non ha mai abbandonato il cuore dell’erede al trono. In questi anni molti tra esperti e fans della royal family si sono chiesti come il figlio della regina Elisabetta abbia potuto preferire l’amante alla giovane, ingenua e bella Diana. In realtà a questa domanda non c’è risposta. Piaccia o meno l’amore non è una forza controllabile e tantomeno possibile da reprimere o da definire. Non si spiega, è così come la vediamo. Il principe Carlo lo ha imparato a sue spese e dopo anni di sofferenze è riuscito comunque a sposare quella che per lui era la donna della vita, Camilla. Purtroppo, però, Lady Diana è rimasta coinvolta suo malgrado in questa guerra di sentimenti giocata sullo scacchiere politico e della ragion di Stato. Guardando al passato potremmo dire che, forse, l’inesperienza potrebbe averla tradita. Eppure non sarebbe strano pensare che se la principessa del Galles avesse saputo cosa l’aspettava, se avesse compreso la natura dell’amore tra Carlo e Camilla e di essere solo “la sposa ideale” perché giovane e vergine, ma non “la sposa giusta”, si sarebbe tenuta molto lontana da Buckingham Palace. Da una parte Diana sarebbe rimasta ignara di ciò che le accadeva intorno, dall’altra avrebbe tentato (anche insieme a Carlo, non lo possiamo escludere) di salvare un matrimonio che in buona parte era già naufragato prima ancora di prendere il largo. Lady Diana, però, negli anni avrebbe subìto diverse umiliazioni in nome di questa unione. Secondo il sito Leggo ve ne sarebbe stata una in particolare che l’avrebbe spinta a gettare la spugna definitivamente. Questo aneddoto è stato raccontato da Ken Wharfe, ex bodyguard della principessa e avrebbe rappresentato il punto di rottura, l’evento davanti al quale Lady Diana dovette arrendersi, poiché perfino il suo ruolo di moglie sarebbe stato messo in discussione. Tutti i giornali riportarono l’incidente di polo in cui venne coinvolto il principe Carlo il 28 giugno 1990. Per fortuna il risultato fu solo un braccio rotto, ma poteva andare peggio. L’erede al trono cadde da cavallo e fu subito trasportato al Cirencester Memorial Hospital di Gloucestershire dove rimase in osservazione per tre giorni. Aveva due fratture al braccio destro e dopo tre mesi dall’incidente dovette essere operato di nuovo al Queen’s Medical Center di Nottingham perché una delle due non era perfettamente guarita. Subito dopo la tragedia sfiorata Lady Diana andò a trovare il marito in ospedale, decisa a rimanergli accanto. La sorpresa e la delusione furono enormi quando, secondo i rumors, la principessa venne messa alla porta in tutta fretta. Non poteva restare con Carlo, poiché questi stava aspettando la visita di Camilla Parker Bowles. Questa sarebbe la versione dei fatti secondo i giornali. Lady Diana capì che in quel matrimonio, paradossalmente, non c’era mai stato posto per lei. Lo stesso valeva per il cuore del principe di Galles. A quanto sembra in quel momento esatto Diana comprese che non avrebbe mai vinto contro Camilla. Non bastavano l’eleganza e la bellezza se non c’era neanche una goccia d’amore tra lei e Carlo. La principessa realizzò che ormai era davvero sola e che avrebbe dovuto reinventarsi una nuova vita, affrontare lo scandalo del divorzio se voleva smettere di soffrire. Questa storia viene riportata anche nei libri “Diana. Her True Story – In Her Own Words” di Andrew Morton e “Diana, la principessa del Popolo” di Tim Clayton e Phil Craig. Gli autori ci rivelano che quando Carlo uscì dal Cirencester Hospital venne fotografato con la moglie, poi i due salirono in auto. Il principe era diretto a Highgrove, dove avrebbe trascorso la convalescenza, mentre Lady Diana tornò a Kensington Palace sola e ferita. Avrebbe voluto raggiungere il marito ma, a quanto pare, lui glielo impedì. C’era già Camilla ad aiutarlo. In quel frangente la principessa avrebbe confidato all’amante James Gilbey: “James, ne ho abbastanza. Se mi lascio coinvolgere, sarò ancora più triste. La cosa da fare è occuparmi del mio lavoro, andare in giro e prendere una boccata d’aria. Se mi fermo a pensare, divento matta”.

Regno Unito, "cafone". "Irrispettoso". Guerra di insulti fra William e Harry. In un lungo retroscena il Mail on Sunday ripercorre il rapporto sempre più difficile tra i due principi della famiglia Windsor negli ultimi mesi. Frizioni, risentimenti, incomprensioni che hanno contribuito alla decisione dei duchi del Sussex a trasferirsi in Canada. Antonello Guerrera il 16 marzo 2020 su La Repubblica. Harry e William, "ecco tutti i motivi dei loro litigi". Li racconta il Mail on Sunday di ieri, in un lungo retroscena a firma di Kate Mansey, che ripercorre il rapporto sempre più difficile tra i due principi della famiglia Windsor negli ultimi mesi. Frizioni, risentimenti, incomprensioni che hanno contribuito alla recente decisione del duca del Sussex e di sua moglie Meghan Markle di abbandonare la famiglia reale, trasferendosi in Canada con il piccolo Archie e iniziare così una nuova vita da imprenditori, star e influencer. Innanzitutto, secondo il Mail on Sunday, William ce l'ha, e tanto, con Harry soprattutto per alcuni suoi comportamenti degli ultimi tempi. Non solo la recente scelta di abbandonare il resto della famiglia e le dichiarazioni poco gradite apparse sul sito dei due "ribelli" Sussex Royal. Ma anche perché, secondo il duca di Cambridge, Harry avrebbe spesso mancato di rispetto verso tutta la famiglia e soprattutto sua nonna, la Regina Elisabetta II. Harry invece sarebbe infuriato soprattutto per l'atteggiamento del fratello William nei confronti di sua moglie Meghan, "spesso arrogante e a tratti cafone". Non solo: il secondo figlio di Diana e del principe Carlo non avrebbe mai accettato l'atteggiamento della famiglia reale, che avrebbe messo "sempre al primo posto William". Il quale, secondo le indiscrezioni degli insider, gli ricorderebbe più volte "chi sarà il futuro re". Harry non è geloso di questo, ma certo sono frasi che "lo hanno fatto sentire sempre più l'ultima ruota del carro", scrive il tabloid britannico. Come quando la Regina qualche mese fa fece un discorso alla nazione con sul tavolo le foto di tutta la famiglia, esclusi Meghan e Harry. O come quando Carlo, in un recente documentario della rete Itv, ha lodato quasi commosso William e non Harry, che invece "ha sempre cercato invece dimostrazioni di affetto dal papà". Il resoconto del Mail on Sunday si basa su numerosi "fonti" della famiglia reale. Il rapporto sarebbe tuttora freddissimo tra i due principi fratelli "e lo sarà ancora per qualche tempo". Il disappunto e il senso di esclusione di Harry però sembrano arrivare da lontano. Come quando, nel 2015, è tornato nel mondo civile dopo i suoi anni da militare: "Quando chiedeva qualcosa allo staff di Kensington Palace spesso si sentiva dire che erano impegnati per William". Decisivo, poi, l'arrivo di Meghan, con la quale, scrive il domenicale, "Harry non solo si è convinto ancora di più di quanto fosse trascurato dai familiari, ma si è deciso a passare all'azione". Meghan che non avrebbe mai conquistato le simpatie di William: il duca di Cambridge avrebbe più volte esortato il fratello "a pensarci bene prima di sposarla. Non la conosci bene". Una discussione tra Meghan e Kate, moglie di William, avrebbe poi fatto piangere quest'ultima, con Harry e consorte che hanno fatto le valigie verso Frogmore Cottage, lontani dal fratello. Prima dell'addio, definitivo, oltreoceano. 

La grande guerra tra William ed Harry: ecco cosa c'è dietro. Ci sarebbero delle divergenze inconciliabili tra il Principe Harry e William, e il problema di fondo sarebbe la realizzazione di una statua dedicata a Lady D. Carlo Lanna, Venerdì 05/06/2020 su Il Giornale. Continuano a fioccare indiscrezioni sul rapporto conflittuale tra il Principe Harry e il Principe William. Nell’ultimo periodo, proprio a causa della Megxit, pare che i figli di Lady Diana non siano riusciti a conciliare le loro incomprensioni, e da quel che riportano le fonti interne di palazzo, pare che i dissidi siano del tutto inconciliabili. Neanche l’improvvisa malattia, affrontata e sconfitta dal principe Carlo, sarebbe riuscita a riavvicinare William e Harry. I due principi sono due rette parallele. Ci sarebbe però un motivo che spiegherebbe perché nessuno dei due riesce a trovare un modo per mettere fine a una lunga serie di litigi. E la colpa non sarebbe né di Kate né di Meghan, dato che per lungo tempo si vociferava che le due duchesse avrebbero spinto i fratelli l’uno contro l’altro. Anzi alla base dei dissidi ci sarebbe la realizzazione di una statua dedicata a Lady Diana. Il Principe Harry e William non hanno mai avuto un rapporto sereno, ma dal 2017 ad oggi, quelle incomprensioni si sono acuite sempre di più per diventare poi assolutamente inconciliabili. Nel marzo di tre anni fa, insieme al Conte Spencer, i due fratelli volevo celebrare il ricordo della madre istituendo una giornata in suo onore, così che il popolo britannico potesse in certo modo mantenere alto il buon nome della Principessa morta a Parigi nel 1997. Si sarebbe chiamata “la giornata della Gentilezza”, e per un solo giorno, a Londra ci sarebbero state diverse manifestazioni per ricordare il mito di Lady D. Per l’occasione, sia Harry che William, avevo contattato lo scultore Ian Rank-Broadley (che ha già lavorato per la famiglia reale inglese per un ritratto della sovrana), per realizzare una statua in onore di Lady D. che si sarebbe dovuto posizione all’interno del White Garden. Il progetto però non si è mai realizzato, proprio perché i due principi in nessun modo avrebbero trovato un accordo e un pensiero comune. È stato un vero e proprio argomento di discussione. Harry e William si sono dibattuti sull’aspetto della statua e sulla reale somiglianza di Lady Diana. Nel 2019, come riportano le fonti interne di palazzo, il progetto era tornato nelle mani dell’architetto, affermando che la statua sarebbe stata ultimata molto presto, ma per un’altra serie di inconvenienti, il progetto è tornato nell’ombra. Sta di fatto che questi dissidi tra il Principe Harry e William sarebbero stati “annunciati” in passato dalla stessa Lady Diana, la quale aveva predetto che i figli avrebbero avuto molti problemi da risolvere una volta diventati adulti, tanto da non riuscire a conciliare le loro divergenze.

Harry e William, un incontro segreto per tornare “fratelli”. Lontani dalle decisioni di palazzo, Harry e William spinti dalle rispettive consorti, sono riusciti a ritagliarsi un po' di tempo per chiarirsi e tornare finalmente uniti come erano un tempo e come Lady Diana avrebbe voluto. Roberta Damiata, Martedì 21/01/2020, su Il Giornale. La cosa che più ha amareggiato i sudditi di Sua Maestà ma anche gli amanti della monarchia inglese in tutto il mondo, della decisione di Harry e Meghan di allontanarsi dalla corona, è stata sicuramente la separazione tra William ed Harry. I due fratelli, attaccatissimi fin dalla nascita, e soprattutto uniti dopo la morte della loro madre, dopo il matrimonio di Harry si erano inevitabilmente allontanati, cosa che avrebbe dato un enorme dolore a Lady Diana che per loro ha voluto sempre il meglio. Il carattere forte di Meghan Markle, le scaramucce con Kate Middleton, avevano irrimediabilmente incrinato i rapporti da i due fratelli che da sempre erano stati l’uno la spalla dell’altro. Ma è proprio di poco fa, la notizia che tra due, sarebbero intercorsi degli “incontri segreti” prima del definitivo trasferimento di Harry in Canada e sembra che questi abbiano dato i loro frutti riuscendo a sanare le loro incomprensioni, anche se, per Harry, rimane il contrasto con il principe Carlo totalmente in disaccordo con la sua decisione di lasciare la corona. L'idea di vedersi, è stata presa da entrambi che si sono resi conto che “ora o mai più”, c’era bisogno di un riavvicinamento prima della partenza di Harry per Canada dove raggiungerà Meghan e Archie. Questi “colloqui di pace” sono stati aiutati da entrambe le consorti, Meghan e Kate. Una fonte ha raccontato al “The Sun”, che i due hanno passato del tempo insieme lontani dal vertice di Sandringham, parlando della loro relazione e discutendo sul loro futuro. Questo ha dato la possibilità di salvare il loro rapporto e di "ritornare fratelli”, dopo quasi due anni di contrasti, supportati da Kate e Meghan che si sono unite ai colloqui in più di un’occasione, e facendo contemporaneamente pace tra di loro. Come dicevamo prima però, se un passo è stato fatto con suo fratello, rimangono invece i dissapori con il padre Carlo. La loro relazione è stata descritta come “Molto complicata con mancanza di fiducia da parte di entrambi”. Harry ha comunque voluto rompere il silenzio e ha parlato della sua “grande tristezza” nel lasciare la famiglia reale, ma che lui e Meghan non avevano altra scelta se non quella di abbandonare i doveri reali, anche se ha spiegato che la coppia “non sta andando via”. Un discorso molto sentito da parte di Harry che ha detto di aver sperato di continuare a servire la regina, il Commonwealth e le varie associazioni senza avere alcun finanziamento pubblico. Ha insistito molto sul fatto che il Regno Unito sarebbe sempre stato la sua casa, e che sua moglie Meghan ha i suoi stessi suoi valori ed era eccitata di avere un ruolo reale subito dopo il loro matrimonio. “Ma non c’era altra opzione - ha continuato - se non quella di fare un passo indietro. - Decisione che ha sottolineato - Non è stata presa alla leggera”.

Vittorio Sabadin per “la Stampa” il 21 gennaio 2020. Harry non pensava che finisse così, voleva continuare a servire il suo Paese e la Regina. Ma evidentemente non si sono spiegati bene, e a lui e Meghan «non sono rimaste altre opzioni». Il discorso d' addio che il duca di Sussex ha tenuto in casa di amici, all' associazione Sentebale che lui stesso ha fondato con il principe Seeiso del Lesotho in nome di sua madre Diana, è stato molto toccante, ma ha evitato accuratamente di affrontare le questioni di fondo che hanno portato al divorzio dalla Royal Family. Harry, che poche ore prima aveva fatto pace con il fratello William, ha letto con emozione un testo preparato con cura, senza ammettere un briciolo di responsabilità in quello che è accaduto, come se non fossero stati lui e sua moglie ad annunciare su Instagram il divorzio prima ancora di avvisare Elisabetta. «Voglio che ascoltiate da me la verità - ha detto -, per quanto posso rivelare. Non come un principe, un duca, ma come Harry». E qual è dunque la verità? «La nostra speranza era di continuare a servire la Regina, il Commonwealth e le mie associazioni militari, ma senza finanziamenti pubblici. Sfortunatamente, questo non era possibile. Il Regno Unito è la mia casa e un luogo che amo. Questo non cambierà mai, ma io e Meghan non avevamo altra scelta. La decisione che ho preso per me e mia moglie di fare un passo indietro non è una decisione assunta alla leggera. Ci sono stati molti mesi di discussioni, molti anni di battaglie». La Regina, ha aggiunto Harry, resterà sempre il suo "comandante in capo" e non le farà mai mancare il suo rispetto. Inevitabile un accenno a Diana: «Quando ho perso mia madre 23 anni fa, mi avete preso sotto la vostra ala. Avete vegliato su di me per così tanto tempo, ma i media sono una forza potente». E il futuro? «Stiamo facendo un salto nel buio», ha ammesso Harry. Se avesse fatto il suo discorso davanti alla "forza potente" dei media, qualcuno gli avrebbe chiesto se l' impegno a rispettare sua nonna non arrivi un po' tardi, dopo i ripetuti e ostentati sgarbi di Meghan alla Regina negli ultimi mesi. E poi davvero vuole far credere di essere stato lui a decidere per sé e per sua moglie? Davvero pensa che qualcuno creda che volessero fare le stesse cose di prima rinunciando solo ai finanziamenti pubblici? Harry si è congedato con un addio un po' strampalato, scritto per fare versare qualche lacrima e per assolvere i Sussex da ogni responsabilità. Ma una cosa vera l' ha detta: dopo le decisioni prese con fermezza da Elisabetta, il suo futuro e quello di Meghan sono diventati un salto nel buio.

Meghan Markle alla Casa Bianca? Un'ambizione che ora irrita i dem. Pronta a lanciarsi in campagne umanitarie per accreditarsi come paladina dei diritti delle minoranze, la Duchessa del Sussex potrebbe entrare in collisione con i sogni presidenziali dei Clooney, Oprah Winfrey e altri potenti amici che da anni negli Usa coltivano lo stesso sogno. Sandra Rondini, Mercoledì 22/01/2020, su Il Giornale. Ci sarebbe una carriera politica volta a candidarsi un giorno alla Presidenza degli Usa dietro la decisione di Meghan Markle di dimettersi con il marito dal ruolo di reale senior all’interno della Royal Family. Lo scorso giugno la Duchessa del Sussex, sostenendo di dover restare a casa ad accudire il piccolo Archie, aveva disertato insieme al marito Harry l’incontro a Corte con il presidente Trump che in passato aveva già attaccato, definendolo "misogino" e "divisivo" e appoggiando attivamente Hillary Clinton durante la corsa delle presidenziali del 2016. Ora, mostrandosi al mondo come paladina dei diritti civili e impegnandosi con Harry in diverse iniziative umanitarie ha intenzione di imporsi come icona del femminismo per puntare dritto alla Casa Bianca. Si sarebbe data 10 anni per raggiungere questo obiettivo. Lo sostiene il principale esperto di pubbliche relazioni del Regno Unito, Mark Borkowski, che ha dichiarato al Post che Harry e Meghan possono aspettarsi di guadagnare non meno di mezzo milione di dollari a discorso e potrebbero persino creare un proprio canale interamente dedicato a inchieste e documentari su temi impegnati. "Con il tipo di lavoro che Meghan e Harry vogliono fare, devono essere liberi dal protocollo e dalla politica del Palazzo", ha detto Borkowski, spiegando: "Non puoi parlare di quello che vuoi e come vuoi con il Palazzo che ti respira sul collo. Come Altezze Reali, infatti, i due erano obbligati a non parlare mai di politica, ora invece possono apertamente schierarsi". Inoltre secondo l’esperto PR la coppia sarebbe "abbastanza esperta da non risultare improvvisata e grossolana in questo campo, anzi". Quanto alla fama e alla ricchezza che ne deriverebbe, per Borkowski "esiste un modo molto intelligente di essere simile ai Kardashian. La gente scherza sui Kardashian, ma è in soggezione davanti al loro enorme valore. Meghan e Harry sono ricchi, famosi e hanno una piattaforma fantastica. Ma quelli che guadagneranno devono essere soldi su cui la stampa non può speculare, non possono di certo prendere del denaro da oligarchi russi e principi mediorientali di paesi che non rispettano i diritti civili delle minoranze. Quindi, sì, saranno la versione intelligente e impegnata dei Kardashian". E ancora: "Ho potuto vederli organizzare feste grandiose ogni trimestre, come Elton John fa per raccogliere fondi per la sua fondazione per l'AIDS. Harry e Meghan hanno una rete di conoscenze di alto profilo e presto la useranno per lanciarsi in grandi progetti umanitari. Meghan, che sogna di arrivare alla Casa Bianca, vuole crearsi un curriculum di tutto rispetto e questo in 10 anni di attività in prima linea sul campo Si è data 10 anni infatti per realizzare questo suo ambizioso sogno". Tuttavia, ha aggiunto Borkowski "al momento la loro preoccupazione principale è scoprire se, senza una connessione diretta con il trono, Oprah e i Clooney li adoreranno ancora o li vedranno come rivali perché anche loro hanno ambizioni politiche". Scesi sullo stesso piano dei loro potenti amici che una volta guardavano a loro solo come a dei reali iberali, ora rischiano di attrarre "antipatie proprio in questa cerchia di amici... basta pensare a quanto fanno i Clooney da anni come coppia nei diritti civili. Non credo che ameranno essere messi in ombra dai nuovi arrivati". Lasciatesi alle spalle le invidie di Palazzo, ora a Harry e Meghan, secondo il famoso PR inglese, "tocca pensare a come arginare quelle dei common americani, vecchie volpi della politica, come i Clooney, gli Obama, i Clinton e anche Oprah Winfrey che corre da sola ma ha una piattaforma di fedelissimi davvero impressionante. Ieri i Sussex erano i loro cari amici della Royal Family, oggi sono avversari nella stessa battaglia e con le stesse ambizioni. Difficile pronosticare come si evolveranno le loro potenti amicizie nello showbiz", ha concluso Borkowski. Intanto il London Evening Standard ha annunciato che Harry ha già in programma tutta una serie di importanti eventi di beneficenza negli Usa, "che – si legge nel quotidiano – sono organizzati in partnership con Sentebale, un’ente di beneficenza che sostiene la salute mentale e il benessere di bambini e giovani colpiti dall'HIV in Lesotho e Botswana. Johnny Hornby, a capo d questa organizzazione, ha dichiarato: 'Il Duca è una figura di primo piano e l'HIV è una sfida da vincere per il mondo intero. Sappiamo che il Duca ha la capacità di sfidare lo stigma che circonda l'HIV e di catturare l’attenzione della gente su questo dramma, spronandola a impegnarsi in questa battaglia. Per questo è un onore averlo al nostro fianco'". Cosa ne penseranno i vari Clooney & co. di questa iniziativa e di tutte quelle che i Sussex hanno in programma negli Usa? Sono in molti a chiederselo,ma solo il tempo potrà dare una risposta.

Caso Sussex, come dovremmo chiamare Harry e Meghan da ora in poi? Harry e Meghan non sono più altezze reali, pur conservando il titolo di duchi di Sussex, dunque quale sarebbe il modo più corretto per rivolgersi alla coppia? Francesca Rossi, Mercoledì 22/01/2020, su Il Giornale. Le monarchie si basano su tradizioni e regole che di solito rimangono immutate nel tempo, almeno nei loro principi fondamentali. Harry e Meghan hanno stravolto molte di queste leggi scritte e non scritte. Il caso Sussex continua a sollevare domande e dubbi, poiché non è usuale che un membro della royal family britannica chieda una maggiore privacy e l’indipendenza economica tentando di sottrarsi al suo ruolo pubblico e, nello stesso tempo, cercando di conservare alcuni privilegi e dichiarando di voler continuare a servire la Corona. Di solito o si rimane nella famiglia reale e se ne accettano prerogative e doveri, o se ne esce del tutto. La situazione di Harry e Meghan appare controversa e per certi versi contraddittoria, pur rispettando i loro legittimi desideri. I tabloid ci hanno parlato di problemi per quel che concerne i costi della sicurezza della coppia, l’utilizzo o meno dei fondi pubblici e del pugno di ferro della regina Elisabetta nel tentare di risolvere la questione il prima possibile e senza trattative. A ben guardare e senza andare troppo lontano una complicazione esiste già nei termini. Come dovremmo rivolgerci a Harry e Meghan da ora in poi? (Il fatto che probabilmente non li incontreremo mai non è una scusa. Accadono cose ben più incredibili, perché proprio questa non dovrebbe succedere?) La coppia ha perso il trattamento di altezza reale, ma conservato il titolo nobiliare. Non è una cosa di poco conto, poiché anche in questo caso entrano in gioco dinamiche relative alla gerarchia, quindi ai diritti e ai doveri. Il comunicato ufficiale con cui Buckingham Palace ha reso noto il nuovo status di Harry e Meghan non è chiarissimo. Il documento dice: “I Sussex non useranno i loro titoli di altezze reali, poiché non lavoreranno più come membri della famiglia reale”. Royal Central ci fa notare che “Sua Altezza Reale” non è un titolo, ma un trattamento, un appellativo che si aggiunge ai titoli nobiliari, ma non ne fa parte. In teoria Harry e Meghan saranno conosciuti, da ora in poi, rispettivamente come Harry il duca di Sussex e Meghan la duchessa di Sussex. Questo dovrebbe riportare alla mente un precedente celebre. Dopo il divorzio dal principe Carlo, anche Lady Diana divenne Diana principessa del Galles, ma fu privata dalla sovrana del trattamento di altezza reale. Eppure il caso di Diana è diverso da quello di Harry e Meghan. I Sussex non hanno divorziato (non ancora, direbbero i più maligni), mentre la principessa del Galles mantenne il suo titolo come da tradizione. Ma per i duchi quale tradizione andrebbe adottata, ammesso che ve sia una? Nel comunicato di Buckingham Palace sembra di leggere tra le righe che a Harry e Meghan siano stati tolti tutti i titoli, oltre al trattamento di altezza reale. Eppure sappiamo che di fatto non è così, almeno per ora. C’è un po’ di confusione in merito. I Sussex hanno dimostrato di tenere poco alle formalità, ma per evitare eventuali imbarazzi, qualora ci capitasse di imbatterci nella coppia prima che il loro status venga definitivamente chiarito, Royal Central sostiene che sarebbe più corretto rivolgerci a loro con gli appellativi di “Sir” e “Ma’am”.

Eva Grippa per "d.repubblica.it" il 22 gennaio 2020. Bimbo nel marsupio, cani al guinzaglio, e via per una sana passeggiata nel Parco Regionale di Horth Hill. Non è bastato un oceano di mezzo per tenere lontani i paparazzi del DailyMail da Meghan Markle (38 anni), sorpresa sorridente e in abiti informali - leggins neri, scarpe da trekking e cappello di lana calcato sulla fronte - mentre abbandona la sua nuova residenza canadese per passeggiare nei boschi dell'isola di Vancouver. In compagnia del suo Baby Archie, 8 mesi, a stento trattenuto nel marsupio, e i suoi due cani: il labrador Oz e il vecchio beagle Guy. Assieme a loro, due persone della security; chi paga il loro stipendio non è ancora chiaro, poiché il costo relativo alla sicurezza personale dei duchi è ancora motivo di discussione. Le fotografie però non sono piaciute alla coppia che ha prontamente messo in guardia la stampa minacciando azioni legali e assicurando che non tollereranno intrusioni nella loro nuova vita privata. Secondo i legali di Harry e Meghan le immagini sono state 'rubate' da paparazzi appostati che avrebbero anche cercato di riprendere gli interni della villa con dei teleobiettivi molto potenti. Intanto, i residenti della comunità che vivono sull'isola di Vancouver hanno promesso di difendere la privacy della giovane coppia. "Lasciateli in pace", ha affermato Anne Girling alla Afp, aggiungendo di aver incontrato Meghan mentre faceva jogging su un sentiero vicino all'abitazione e di essersi salutate con un reciproco "buongiorno". "Quello di cui sono veramente orgogliosa - ha aggiunto un'altra residente, Sue Starkey - è come il nostro vicinato sia molto rispettoso e dia loro spazio". "Sono molto contenta che siano qui e spero che possano trovare un pò di pace", ha aggiunto. Nelle stesse ore, il principe Harry (35 anni) viene ritratto all'aeroporto di Victoria, dove è atterrato dopo gli impegni londinesi, pronto a riunirsi alla famiglia. Il duca ha viaggiato a bordo di un aereo di linea, il volo 85 della British Airways da Londra, per evitare ulteriori polemiche sull'uso sconsiderato di jet privati ai danni dell'ambiente. Harry, Meghan ed Archie hanno per ora stabilito la propria dimora in una villa da 10 milioni di sterline, fa notare il Daily Mail, sull'isolotto di Vancouver, la stessa dove hanno trascorso le loro sei settimane di vacanze durante le festività.

Canada, l'infinita guerra di Harry e Meghan contro i paparazzi. La coppia ha inviato un monito legale ai media canadesi dopo la pubblicazione di alcune foto scattate con il teleobiettivo e altri episodi di intrusione nella loro vita. Lo stato nordamericano prevede però leggi sulla privacy meno severe di quelle britanniche. Kitty Spencer, la nipote di lady D, è accusata di sfruttare la propria immagine per avere fatto pubblicità a un'azienda di latte in Cina. Enrico Franceschini il 22 gennaio 2020 su la Repubblica. Se speravano che andarsene dal Regno Unito avrebbe permesso loro una vita diversa, per il momento sono stati delusi: anche in Canada continua la guerra di Harry e Meghan contro i paparazzi per difendere la privacy. La coppia dei due ex-reali britannici, ma ancora duchi del Sussex, ha inviato tramite i propri avvocati un "monito legale" ai media canadesi, dopo la pubblicazione di foto di lei e di lui, scattate a Vancouver e a Montreal, chiaramente riprese da lontano con il teleobiettivo, e altri episodi di intrusione nella loro vita. Il problema è che le leggi sulla privacy in Canada sono meno severe che in Gran Bretagna, dove in particolare la Royal family gode di forte protezione dopo le polemiche che fecero seguito al tragico incidente d'auto che provocò la morte della principessa Diana a Parigi inseguita dai fotografi. Le immagini che hanno suscitato la protesta legale sono finite entrambe sulle prime pagine dei tabloid in Inghilterra. Si tratta di foto in cui Meghan viene ripresa a passeggio con il figlio Archie in braccio e i suoi due cani al guinzaglio, con un paio di guardie del corpo che la seguono a una certa distanza; e di altre in cui si vede Harry scendere dal volo Londra-Montreal, berrettino in testa, jeans, zainetto, per prendere un altro aereo più piccolo con cui ha raggiunto la moglie a Vancouver, anche lui con scorta al seguito. In entrambi i casi, a parte l'invasione della privacy, le immagini rivelano che il duca e la duchessa godono ancora di protezione da parte della polizia, anche se non è chiaro se si tratti di agenti britannici o canadesi. La scorta era comunque parte degli accordi raggiunti con la regina nei giorni scorsi per stabilire le regole della loro scelta di indipendenza, sebbene resti da stabilire chi ne pagherà le spese, se la Gran Bretagna o il Canada. L'avvertimento legale trasmesso dagli avvocati, scrivono oggi i giornali di Londra, potrebbe essere il preludio a una nuova causa in tribunale da parte della coppia contro i media, sia in Canada che nel Regno Unito. Ma l'esito di un tale procedimento potrebbe essere incerto, appunto per le leggi differenti: quelle canadesi, così come negli Stati Uniti, tendono a previlegiare la libertà di stampa rispetto al diritto alla riservatezza. Meghan ha già fatto causa a un giornale inglese, il Mail on Sunday, per la pubblicazione di una sua lettera privata al padre, Thomas Markle. Quest'ultimo intanto continua a dare interviste, probabilmente a pagamento, alla stampa e alle tivù londinesi: nell'ultima, diffusa oggi, si lamenta ancora una volta di essere stato tagliato fuori dalla coppia, dichiarando che si aspetta di non vedere mai più la figlia, perlomeno da vivo. "Verranno a trovarmi solo quando sarò sepolto sotto terra", dice mister Markle, accusato da Meghan e Harry di avere venduto foto e gossip su di loro fin dai giorni del matrimonio reale, al quale non partecipò per un mai del tutto chiarito malessere cardiaco. Ma in questi giorni Harry e Meghan non sono gli unici del clan Windsor a fare parlare di sé sui media britannici. La nipote di lady D, Kitty Spencer, è questa mattina in prima pagina su tutti i tabloid del regno, accusata di sfruttare la propria immagine di membro della famiglia reale per avere fatto pubblicità a un'azienda di latte in Cina: compagnia rivale di quella a cui ha fatto pubblicità nei giorni scorsi Peter Philips, figlio della principessa Anna e nipote della regina. Insomma, non sarebbero soltanto Harry e Meghan a cercare di guadagnare sulla corona. La controversia sulla nipote di Diana e sul nipote della regina, peraltro, rivela anche quanto è cambiata la Cina, se le industrie del latte di Pechino assoldano addirittura due membri della famiglia reale per farsi pubblicità. Con frasi tipo quella pronunciata da Kitty Spencer: "A Buckingham Palace, quando beviamo il tè, lo vogliamo sempre con un velo di latte, please". La Cina è davvero vicina, anche dentro la tradizionale "cup of tea". Questo il libretto rosso di Mao non lo aveva previsto.

Sabrina Provenzani per il “Fatto quotidiano” il 31 gennaio 2020. Il primo round della guerra fra Harry e i tabloid britannici lo vince la stampa, e a dirlo è l' organo garante del rispetto degli standard giornalistici, a cui Harry si era appellato lo scorso anno. La decisione è la numero 05942-19, HRH The Duke of Sussex V The Mail on Sunday dell' Ipso, l' Independent Press Standards Organisation: il tabloid non ha violato gli standard di accuratezza, non c' erano gli estremi per un reclamo formale. Il caso: a fine aprile 2019 l' edizione domenicale del Daily Mail pubblica un articolo dal titolo: "Drogato e legato tutto quello che Harry non vi ha detto su queste immagini naturalistiche mozzafiato". Che poi sarebbero una serie di foto di rinoceronti, elefanti e altra fauna africana postate sul profilo Instagram del Duca di Sussex. Una delle foto è tagliata in modo da non mostrare che le zampe di un elefante sono legate. Il Mail lo rivela, Harry si appella all' Ipso: secondo lui, il tabloid implica che sia in malafede. Gli va male: il comitato decreta che "non è fuorviante scrivere che le foto postate non raccontavano tutta la storia". Il Mail gongola, perché vive di gossip, ma secondo i più alti standard di accuratezza. Harry è in Canada, dove ha raggiunto la moglie Meghan e il figlio Archie da uomo libero, o meglio liberato dagli obblighi formali della famiglia reale dopo che la regina Elisabetta, a malincuore, ha preferito liberarsene piuttosto che ritrovarsi con un nemico a palazzo. La pronuncia di Ipso è un precedente non incoraggiante: proprio contro il Mail, Meghan ha una causa aperta per violazione del copyright, della sua privacy e della legge sulla protezione dei dati personali per la pubblicazione di una sua lettera privata al padre Thomas, che intanto continua a farsi pagare per parlare malissimo di lei. Causa che rischia di finire in tribunale, con probabile lavaggio pubblico di panni sporchi, benché aristocratici.

L’esperta reale: "Andrea non comparirà nelle foto delle nozze di Beatrice". Profondamente condizionata dallo scandalo in cui è implicato il padre, le nozze della principessa Beatrice saranno decisamente "low profile". Ed ora un'esperta reale afferma che il principe Andrea potrebbe addirittura non comparire nelle foto del matrimonio. Mariangela Garofano, Domenica 19/01/2020, su Il Giornale. La principessa Beatrice ed Edoardo Mapelli Mozzi convoleranno a nozze entro l’anno, ma il matrimonio si preannuncia molto meno “royal” di quello della sorella Eugenia. A causa dello scandalo che ha colpito il principe Andrea, le nozze di Bea e Edo saranno decisamente “low profile”. È recente la notizia che nessuna emittente televisiva manderà in onda la cerimonia nuziale e ora, come riporta il Mirror, l’esperta reale Angela Mollard ha rivelato un altro particolare sul matrimonio. Il padre della sposa potrebbe non comparire nelle fotografie ufficiali delle nozze. “Come sappiamo, il principe Andrea non è andato al party di fidanzamento di Beatrice”, ha affermato la donna a The Royals Podcast, aggiungendo: “C’erano i suoi amici, sua madre. Ma suo padre non c’era. Sarà interessante vedere che ruolo avrà al matrimonio. Credo che lo vedremo passare velocemente lungo la navata e sarà finita lì. Penso proprio che Beatrice arriverà con Fergie e Eugenia sarà la sua damigella d’onore. Sarà una cosa molto ridotta”. Parlando poi delle fotografie del matrimonio, la Mollard ha dichiarato: “Ci saranno dei fotografi, ma non penso che Andrea comparirà nelle foto”. La Mollard ha continuato, affermando che Bea è stata duramente colpita dallo scandalo riguardante i rapporti del padre con Jeffrey Epstein e le accuse mossegli da Virginia Giuffre. “Sfortunatamente, la povera Bea è stata investita in pieno dalle illazioni riguardanti il padre, e la cosa non è ancora stata dimenticata”, ha dichiarato l’esperta, sottolineando poi la diversità tra le due sorelle. Mentre Beatrice è la più timida e pacata delle nipoti della regina, Eugenia pare essere la più mondana. "Quando Eugenia si è sposata, il principe Andrea aveva fortemente voluto che il matrimonio venisse mandato in onda”, spiega la Mollard. E ancora: “Stavolta ha contattato la Bbc, ma hanno rifiutato e Itv ha accettato controvoglia. Mi dispiace molto per Beatrice, perché credo che non avrebbe comunque voluto che le sue nozze venissero trasmesse in televisione. Sono completamente diverse come sorelle. Beatrice è le maggiore, più seria e quieta. Eugenia è la più social ed estroversa”. Insomma, benché Beatrice sia la più riflessiva e meno mondana delle figlie di Andrea, pare che il suo matrimonio sarà condizionato dallo “scabroso” padre. Il duca di York si è ritirato a vita privata dopo la disastrosa intervista rilasciata a novembre alla Bbc. Durante il colloquio con la conduttrice di Newsnight, Andrea è apparso tutto fuorché empatico nei confronti delle vittime di Epstein e ha negato di aver conosciuto la Giuffre. La donna sostiene di essere stata costretta dal magnate ad avere rapporti sessuali con il duca, all’età di 17 anni. I rapporti si sarebbero ripetuti più volte nel corso degli anni, ma Andrea ha sempre negato qualsiasi coinvolgimento nello scandalo del traffico di minorenni portato avanti dall’amico pedofilo.

Nuovi problemi legali per il Principe Andrea: non avrebbe pagato l’acquisto di uno chalet in Svizzera. E dopo il caso Epstein c'è una nuova azione legale per il Principe Andrea; secondo le notizie trapelate in rete non avrebbe saldato l'acquisto di uno chalet in Svizzera. Carlo Lanna, Sabato 09/05/2020 su Il Giornale. Altre ombre e altri scandali si abbattono sulla vita del Principe Andrea, terzogenito della Regina Elisabetta. Dopo quando successo con il caso Epstein e tutti i problemi che si sono riversati sull’immagine della royal family, per l’ex marito di Sarah Ferguson spunta all’orizzonte una nuova e difficile battaglia legale. Questa volta però nessuno scandalo sessuale ma, l’oggetto della controversia, è l’acquisto di uno chalet tra le alpi Svizzere. Il caso è stato riportato da Le Temps, quotidiano svizzero in lingua francese. Secondo il giornalista che ha riportato la notizia, non è affatto facile sbrogliare il nodo alla matassa dato che la proprietà è in comunione tra il Principe Andrea e la stessa Sarah Ferguson. Ma andiamo con ordine. Nel 2014 è stato acquistato uno delizioso chalet a Verbier, in Svizzera. Secondo l’atto di compravendita, il Principe Andrea entro il 31 dicembre del 2019 avrebbe dovuto saldare la restante somma pattuita per l’acquisto dell’immobile. Costato più di 22 milioni di franchi, i rimanenti sei milioni di franchi dovevano essere versati entro la fine dello scorso anno. Tutto questo però non è avvenuto e ora, l’ex proprietario dello chalet "Helora", ha intentato una causa legale nei riguardi del Principe. Ha chiesto non solo i sei milioni che restano, ma anche l’aggiunta degli interessi, facendo lievitare il compenso a ben 8 milioni di franchi. Un portavoce del duca, interrogato sulla questione, fa sapere che la controversia intentata contro Andrea non avrebbe ragione di esistere. Il proprietario dello chalet avrebbe reso noti alcuni dettagli contrattuali che, per legge, devono essere riservati. E soprattutto il Principe Andrea non è l’unico proprietario, dato che condivide il bene con la sua ex moglie (di cui nonostante il divorzio è in ottimi rapporti). La vicenda ora è al vaglio degli inquirenti ma, come fanno sapere alcune fonti di palazzo, il caso non sarà facile e si prevedono molti colpi di scena. Questo scandalo però non aiuta di certo l’immagine pubblica del Principe Andrea, già offuscata dopo quanto successo con il caso Epstein. Lo chalat è degno del nome che porta. Ha sette stanze e uno staff di sei persone. Ha una piscina, una sauna e una vista che mozza il fiato. Nel contratto è previsto anche l’affitto dell’immobile, e si può farlo a una cifra di 22 mila sterline alla settimana. Tra i vicini di casa ci sono il cantante James Blunt e Sir Richard Branson.

Antonello Guerrera per "repubblica.it" il 10 maggio 2020. Il principe Andrea è diventato improvvisamente povero. O meglio: non ha più i soldi per comprare un maestoso chalet in Svizzera da 17 milioni di sterline. Cosa che ha scatenato la furia del precedente proprietario elvetico, che, dopo mesi e mesi di inutile attesa, ha spiattellato tutto alla stampa. Procurando l'ennesima figuraccia internazionale al figlio della Regina Elisabetta, già in disgrazia dopo l'esplosione del "caso Epstein". Andrea, fratello del principe Carlo e della principessa Anna, nel 2014 compra per circa 17 milioni di sterline un lussuoso chalet sulle Alpi svizzere, nel resort di Verbier. Lo fa insieme alla sua ex moglie - ma compagna di una vita, anzi tuttora condividono la stessa casa - Sarah Ferguson, la duchessa di York. Pagano una prima tranche, una seconda e l'ultima era prevista entro il 1° gennaio di quest'anno: ben 6,6 milioni di sterline, interessi inclusi, perché i due acquirenti erano già in forte ritardo coi pagamenti. Il problema è che il duca di York quei soldi ora non li ha, a causa dello scandalo legato a Jeffrey Epstein, il miliardario statunitense pedofilo che gestiva un giro di prostituzione minorile tra molti vip e trovato morto impiccato in una cella di New York la scorsa estate. Andrea era amico di Epstein, lo ha visto anche dopo una prima condanna per traffico di minori ed è stato poi accusato da Virginia Roberts (una delle vittime di Epstein) di averla violentata tre volte quando lei era 17enne, anche nelle magioni dell'americano. La famigerata e disastrosa intervista alla Bbc dello scorso novembre, poi, in cui Andrea ha accampato scuse e alibi ridicoli, è stata il colpo di grazia per lui. Da quel momento, oltre ad avere gli investigatori americani alle costole, Andrea si è ritirato, a tempo indeterminato, dalla vita pubblica e ciò ha prosciugato sensibilmente le sue entrate annuali. Con la conseguenza di non avere più i fondi per completare l'acquisto dello chalet. Così ieri il proprietario svizzero si è deciso a denunciare i duchi di York alle autorità svizzere, nonostante i messaggini Whatsapp di Sarah che, come una "plebea indigente", gli avrebbe scritto più volte nelle ultime settimane: "La prego, ci dia ancora un po' di tempo", "Pagheremo tutto". Non è chiaro ora se i duchi rivenderanno la proprietà per ricompensare il proprietario e chiudere il caso. Il problema è che tutta questa cattiva pubblicità di sicuro abbasserà il valore dello chalet. A Londra qualcuno crede che il proprietario svizzero abbia spifferato tutto ai giornalisti sperando così di ottenere un effetto "leva" e convincere altri membri della famiglia reale a dare una mano - economica - ad Andrea. Magari un tempo. Oggi, dopo tutti i pasticci di Andrea, non è più così. C'è poi un altro caso che offusca la già ottenebrata reputazione del duca di York. Secondo il Financial Times, ci sarebbe un'indagine da parte della Charity Commission (un organismo statale che si occupa delle associazioni no-profit, tra cui anche le piattaforme di Andrea) per accrediti sospetti per quasi 400 mila sterline a favore della sua segretaria privata, Amanda Thirsk, poi scomparsa dopo l'intervista di Andrea alla Bbc.

La consigliera segreta  di Meghan? Michelle Obama. Dal «colpo di fulmine» a Londra ai tacos: gli incontri. Pubblicato venerdì, 24 gennaio 2020 su Corriere.it da Luigi Ippolito. C’è una consigliera segreta che orienta le scelte di Meghan Markle. Un personaggio che le assomiglia: afro-americana, celebrità mondiale, sposata a un marito importante. Questa «guru» nascosta è Michelle Obama: che da un anno a questa parte ha stretto una forte amicizia con la duchessa di Sussex e ne è diventata l’ispiratrice. Il primo incontro era avvenuto nel dicembre del 2018, quando la ormai ex First lady americana era venuta a Londra a presentare il suo libro «Becoming» di fronte a una platea tutta esaurita alla Royal Festival Hall. All’ultimo momento, Meghan aveva chiesto di andare a vederla: ed era stata fatta sgattaiolare in incognito in un palco del teatro. Alla fine della serata, le due donne si sono incontrate al riparo da occhi indiscreti: ed è stato colpo di fulmine. Meghan era incinta di Archie e Michelle – ha raccontato l’Evening Standard – ha condiviso con lei l’esperienza maturata con le sue figlie. E tutte e due hanno scoperto il comune interesse nel promuovere l’educazione delle ragazze. Il loro rapporto è stato cementato l’estate scorsa durante un pranzo in un ristorante di Londra a base di tacos di pollo: in quell’occasione Meghan ha chiesto consigli a Michelle in vista del suo ruolo come «direttrice ospite» di un numero speciale di Vogue, la rivista di moda. E si sono confrontate sulle sfide di essere mogli di uomini rilevanti sulla scena pubblica. Da allora, il loro rapporto si è fatto sempre più stretto: si scambiano messaggi di continuo, come quando in occasione della sua prima festa della mamma a maggio scorso Meghan ha ricevuto un whatsapp da Michelle che diceva «goditela tutta». E così, dopo che nel viaggio africano dello scorso settembre Meghan si è fatta un selfie con un gruppo di donne impegnate per la promozione delle ragazze, Michelle lo ha messo sul suo profilo Instagram. Non è dunque casuale che la signora Obama abbia inviato un messaggio di sostegno pubblico alla duchessa di Sussex, quando lei e il principe Harry hanno annunciato il passo indietro dalla famiglia reale. Ma è soprattutto per il futuro che Meghan guarda a Michelle come a un modello da seguire: con il suo esempio di impegno pubblico ma anche in un’ottica più commerciale, magari per seguirne le orme sullo scia del contratto che gli Obama hanno stipulato con Netflix per la produzione di programmi e documentari.

Una sintonia, quella fra Michelle O e MM, che affonda nelle radici e nell’esperienza comuni: due afro-americane proiettate sulla ribalta mondiale, prima all’ombra dei propri mariti, poi in prima persona. Con tutte le difficoltà che questa posizione ha comportato e comporta.

L'esperto: "Meghan Markle ha commesso un errore di valutazione". Un esperto di Corte cerca di venire a capo della Megxit e afferma che Meghan Markle avrebbe commesso un grave errore di calcolo. Carlo Lanna, Venerdì 24/01/2020, su Il Giornale. A quasi tre settimane dall’annuncio senza precedenti di Meghan Markle e del Principe Harry, gli esperti continuano ad interrogarsi sulle motivazioni di una scelta di questa portata. Sì, perché ancora oggi non si conosce cosa ha spinto gli ex duchi di Sussex a prendere le distanze dalla Corona e, soprattutto, a rinunciare alla loro vita di corte. In molti non credono che, la voglia da parte di Meghan di vivere una vita serena, sia la risposta giusta all’annosa domanda. Proprio per questo motivo un esperto di Corte, sulle pagine del Daily Mail, ha ricostruito quanto è accaduto negli ultimi giorni, cercando di sciogliere il nodo alla matassa. Omid Scobie, in diverse occasioni sia sui giornali che in radio, ha espresso il suo parere su tutto quello che riguarda la realtà dei reali inglesi, illustrando il suo punto di vista sul rapporto di Meghan e di Kate, sul legame della Regia con i nipoti e via discorrendo. In un articolo che è stato pubblicato durante la giornata di ieri, 24 gennaio, l’esperto riprende le redini della questione e rivela cosa ci sarebbe dietro la Megxit. La colpa, come al solito, sarebbe di Meghan Markle. “Ha commesso un grave errore di valutazione – esordisce -. Mi sono confrontato anche con diverse persone che hanno vissuto insieme a lei questi ultimi giorni così tesi, ed è proprio così. Per Meghan diventare duchessa significava solo raggiungere il grado massimo di qualità. Raggiungere una popolarità immediata però, ha fatto fallire il suo progetto di vita all’interno della famiglia reale". L’esperto afferma che Meghan Markle, quando aveva deciso di sposare Harry, non ha fatto i conti con la pressione mediatica e su quanto potesse essere difficile entrare a far parte di una famiglia come i Windsor. "Pensava che la luna di miele sarebbe continuata per sempre – continua l’esperto-. Devo essere sincero, non mi aspettavo da parte sua una presa di posizione così drastica, come non mi aspettavo tutta questa serie di tensioni esterne". Omid definisce inoltre Meghan come una donna ingenua, perché non avrebbe compreso il suoi ruolo di duchessa e l’impatto che la sua stessa immagine poteva avere sul popolo inglese e nel resto del mondo. Voleva essere una duchessa ribelle, fuori dagli schemi, sperare di essere famosa e di non adempiere alle sue regole di donna di corte. Ma così non è stato. "In questo modo, Kate è riuscita a riprendersi il primato di unica donna di corte che Meghan aveva messo in serio pericolo".

Piccoli problemi per il principe Harry: "L'arrivo di Archie gli ha fatto perdere i capelli". Stress e tensioni, il Principe Harry non è affatto sereno dopo la Megxit e ora deve affrontare diversi problemi di salute. Carlo Lanna, Mercoledì 29/01/2020, su Il Giornale. Il dado è oramai è tratto. Il Principe Harry insieme a sua moglie Meghan stanno affrontando tutte le conseguenze della loro scelta. Lasciare la famiglia reale non è decisione facile, eppure gli ex duchi di Sussex, pare che abbiamo trovato il loro giusto equilibrio. Le critiche non mancano e saranno una costante sulla vita lontano da Londra, ma la ex coppia reale nonostante tutto, non ha intenzione di mollare la presa e di godersi a pieni questo periodo di serenità. Peccato che la tranquillità è un pallido miraggio. Come riportano le prime indiscrezioni sulla nuova vita del Principe Harry e di Meghan, la fuga in Canada per ora non è affatto tranquilla, anzi la coppia deve affrontare diversi problemi. Problemi che, inevitabilmente, stanno causando tensioni e stress. Tutto sembra ricadere sul Principe Harry, il quale deve affrontare molte problematiche da solo. Non solo deve trovare un modo per mettere in sicurezza sua moglie e il piccolo Archie da fotografi e giornalisti invadenti, ma deve trovare anche un certo equilibrio dato che, vivere in Canada non è come vivere a Londra. Tensioni e stress che stanno creando qualche piccolo problema di salute al giovane principe. Piccoli problemi che, proprio con il divorzio dai Windsor, si stanno acuendo sostanzialmente. Il dottor Asim Shahmalack della Crown Clinic di Manchester è il primo medico che ha fatto luce sulle condizioni di salute di Harry. Il matrimonio, la nascita del figlio e il divorzio dalla Corona hanno messo a dura prova i capelli del principe, tanto è vero che sta cominciando a perdere la sua chioma, avvicinandosi pericolosamente alla calvizie. "Tutte queste responsabilità stanno affaticando molto Harry. Soprattutto la paternità non è stata gentile con i capelli del Principe – afferma-. Un fattore molto significativo, tuttavia, è il forte gene della calvizie che attraversa tutta la famiglia Windsor". Il medico è convinto che le condizioni si potranno presto aggravare, rivelando così che il giovane ha assolutamente bisogno di trovare un po’ di pace e tranquillità. In Canada i ritmi sono decisamente meno caotici rispetti a Londra, ma su di lui stanno influendo le critiche, le accuse e le voci di corridoio che aleggiano su Meghan. Fuggire è stato un dovere, ma se la salute viene a mancare, cosa succederà al Principe Harry?

Royal Family: effetto Megxit, i titoli reali trasformati in marchi per collezioni e prodotti da vendere sull’e-commerce. Pubblicato sabato, 25 gennaio 2020 da Corriere.it. L’effetto Megxit, si fa già sentire. Ancor prima della Brexit di fine gennaio 2020. E i tabloid britannici non mancano di rimarcarlo. In attesa di scoprire come verrà utilizzato il nuovo brand Sussex Royal, registrato dal principe Harry e dalla moglie Meghan già in quel del Canada, molti dei membri della Royal Family hanno scelto di usare i loro titoli come marchi e-commerce o diventando testimonial di prodotti alimentari o di cliniche di bellezza. Il Daily Mail non ha esitato a sottolinearlo. In particolare le collezioni e-commerce di Sarah Ferguson, moglie del principe Andrea, duca di York. Sul web sono in vendita i prodotti della Duchess Collection: dalle tazzine ai gioielli celebrativi. E come sempre in materia di stile ,The Queen (nella foto, al centro sul balcone di Buckingham Palace tra i figli Andrea, a sinistra, e Carlo il 9 giugno 2018 in occasione dell’annuale cerimonia Trooping the Colour), non si smentisce, mantenendo come sempre il suo regale understatement. Persino vedendo il nipote Peter, figlio della principessa Anna, diventare testimonial non di un antico whisky scozzese, ma di un candido latte made in China. 

«To Meghan Markle» diventa un verbo. Istruzioni per l’uso. Pubblicato martedì, 28 gennaio 2020 su Corriere.it da Orsola Riva. Addio al titolo, benvenuto al verbo. Comunque la si pensi sulla sua decisione di voltare le spalle alla royal family, la scelta di Meghan Markle di fuggire in Canada rinunciando al titolo di altezza reale (ma non a quello di duchessa di Sussex) fa già tendenza, anzi: grammatica. Da un paio di settimane infatti «to Meghan Markle» è diventato un verbo. Se l’è inventato tale Ryan Carter, attore, cantante, ballerino e consulente artistico londinese. Ecco la definizione da lui postata su Twitter diventata in pochi giorni virale: «Meghan Markle, verbo (past tense Meghan Markled): tenere alla tua salute mentale tanto da scegliere di lasciare una stanza/una situazione/un ambiente in cui la tua vera natura non è benvenuta né accettata».

Se Meghan Markle diventa ... un verbo. "Sottrarsi a un ambiente che non ti apprezza per preservare la tua salute mentale", oppure, con accezione negativa, "Scomparire quando non si trae più alcun beneficio da una determinata situazione". La Meghan Marklettologia ha ora un verbo: ecco tutti i significati, come declinarlo e come usarlo nella vita di tutti i giorni Eva Grippa su La Repubblica il 28 Gennaio 2020. La "fuga" dei duchi di Sussex dalla famiglia reale ha generato già un neologismo che sembra rubato al glossario politico, Megxit, ma non è l'unico. C'è chi già parla di un uso del nome proprio della moglie del principe Harry con funzione di verbo: To Meghan Markle. Il significato? Lo spiega puntuale l'autorevole The Guardian: To Meghan Markle, declinato al passato con suffisso ed, significa "Valorizzare sé stesso e la propria salute mentale al punto da lasciare un luogo, una situazione o un ambiente in cui la propria autenticità non è voluta o considerata la benvenuta”. Come la famiglia reale britannica, appunto. L'idea è di un utente Twitter, @ryancarter, e ha fatto in breve tempo il giro del mondo accolta con curiosità e favore. Perché se da molti la scelta di abbandonare titoli e privilegi da parte di Meghan Markle è stata criticata, per altri ha contribuito a fare dell'ex attrice americana un'eroina contemporanea, una che ha saputo chiedere aiuto al proprio compagno e ha salvato se stessa (e forse pure lui), perché stufa di essere perseguitata e diffamata dalla stampa, o criticata dal contesto in cui si era trovata a vivere. Secondo questa teoria, quindi, la duchessa dovrebbe essere considerata una sorta di "santa patrona della salute mentale" e la sua non sarebbe una fuga, quanto piuttosto un dignitoso e necessario sottrarsi a una situazione "tossica".

CON GLI AMICI: To “Meghan Markle it” è un modo di rispettare se stessi, sottraendosi a una situazione prima di superare i confini, per esempio tornare a casa presto quando si esce alla sera, invece di continuare a bere alcol. Difficile tradurlo in italiano, perché suonerebbe un po' come: "Io lo Meghan Marklo prima di farmi del male".

QUANDO SI FREQUENTA QUALCUNO: se la persona con cui esci non si fa viva per giorni e poi ti scrive alle 3 di notte, devi necessariamente Meghan Marklerarla. Ovviamente la maggior parte delle persone non può farlo trasferendosi in Canada per diventare un'influencer, come ha fatto la duchessa di Sussex, ma può comunque voltare pagina per lasciarsi alle spalle partner tossici che inquinano la propria vita. "Ho totalmente meghanmarklerato il mio ex, ieri sera, non rispondendo ai suoi messaggi".

SUL LAVORO: usarlo in questo contesto è un po' un controsenso, perché certo il problema di Harry e Meghan non era dover "lavorare" da reali, ma il nuovo verbo può comunque essere usato per dire che è meglio lasciare un'azienda quando il tuo impegno e la tua professionalità non vengono apprezzate. Esempio: "Sto prendendo in considerazione di Meghan Marklerare: non mi hanno dato un aumento da due anni e potrei avere migliori opzioni altrove". Oppure: "Meghan Marklerò quando finalmente avrò il tempo di aggiornare il mio LinkedIn".

Per i detrattori: l'uso del verbo con accezione negativa. I precedenti utilizzi del nuovo verbo hanno tutti un'accezione positiva. Ma non manca chi suggerisce di usare "to Meghan Markle" con un ben diverso significato come l'Urban Dictionary, una sorta di glossario universario creato dai naviganti della Rete, simile a Wikipedia. Qui, il verbo ha un significato affine al noto ghosting: "scomparire dalla vita di persone che non portano più alcun più alcuna utilità o beneficio, senza alcun riguardo per le relazioni umane". Esempi: "Non mi Meghan Markledare quando esce il tuo film!" (non ti dimenticare di me una volta diventato famoso). Quello che, stando a quanto riportato dai tabloid inglesi e americani, avrebbe fatto l'attrice con alcune persone a lei molto care, abbandonate una volta diventata famosa grazie alla serie "Suits" o una volta entrata a far parte della famiglia reale. Tra chi si lamenta di essere stata cancellata dalla sua agendina di contatti c'è per esempio Ninaki Priddy, amica di vecchia data "fatta fuori" da Meghan Markle dopo aver criticato il modo in cui si è concluso il primo matrimonio di lei con Trevor Engelson. E Millie Mackintosh, la star di "Made In Chelsea" che si diceva sarebbe stata perfino nominata damigella d'onore al Royal Wedding, ma alla fine non è stata inserita nemmeno nella lista degli ospiti perché aveva osato mettere in guardia la futura sposa rispetto alle difficoltà di diventare moglie di un principe. Infine, la curiosità: l'espressione You Just Got MEGHAN MARKLED! ("Sei stato Meghan Markleddato!") cita quella usata in "Suits", la serie che ha reso famosa Meghan Markle, dal personaggio Louis Litt, che era solito servire a persone sgradite il proprio disprezzo con una frase stampa su tazza: You Just Got LITT UP! (Sei stato Littato!).

Ora spunta il figlio segreto di Carlo e Camilla. Un ingegnere inglese si è rivolto alla Alta Corte di Sidney per stabilire se tra lui e i duchi di Cornovaglia c’è un vincolo di parentela. Questo è solo l’ultimo dei grattacapi che sta affliggendo la regina Elisabetta negli ultimi tempi. Novella Toloni, Martedì 28/01/2020, su Il Giornale. Ci mancava il figlio segreto di Carlo e Camilla ad arricchire la già considerevole vetrina di scandali della famiglia reale. Dopo l’abbandono di Harry e Meghan, lo scandalo sessuale in cui è finito il principe Andrea e i malumori dei sudditi sulle questioni economiche, ora un’altra tegola si abbatte sulla dinastia degli Windsor. Un erede segreto e non riconosciuto in giro per il mondo. A fare la scioccante rivelazione è stato – come spesso accade negli ultimi tempo – il quotidiano britannico Daily Mail, che sulle pagine del suo sito internet ha sganciato la bomba del figlio illegittimo. Simon Dorante-Day è un ingegnere elettrotecnico di origini inglesi trasferitosi in Australia dopo la sua adozione. Il 53enne sostiene di essere il figlio illegittimo del principe Carlo di Inghilterra e Camilla Parker Bowles, nato dalla loro relazione quando entrambi erano ancora legati ad altre persone. La vicenda non è però nuova. Da anni l’uomo combatte per dimostrare la sua verità e oggi chiede che venga fatto un test del Dna a Carlo e Camilla per dimostrare che sono sua madre e suo padre. Il suo caso ora è finito in tribunale all’Alta Corte australiana. Come riporta il Daily Mail Simon Dorante-Day è nato in un piccolo borgo dell’Hampshire nel 1966. Una coppia britannica lo ha adottato quando aveva solo 18 mesi, portandolo con loro in Australia. I suoi nonni adottivi avrebbero lavorato per la regina Elisabetta II e suo marito, il principe Filippo, come cuoco e giardiniere. Più volte i due gli avrebbero confessato di essere il frutto dell’amore segreto del principe Carlo e dell’allora diciottenne Camilla. L’uomo ha così deciso di portare avanti un’azione legale contro Buckingam Palace con l’obiettivo di far sottoporre Carlo e Camilla al test del Dna, per poter mettere la parola fine alla vicenda. Sul suo account Facebook il figlio segreto di Carlo e Camilla ha pubblicato numerose fotografie dei reali messe a confronto per provare la sua tesi e ha racconta anche di aver scritto a Meghan e Harry, per fargli sapere della similitudine con il suo matrimonio interculturale (è sposato a una donna aborigena). Ma non solo. Secondo quanto riferisce Simon anche la Megxit sarebbe stato un tentativo della famiglia reale di insabbiare il caso e la principessa Diana sarebbe stata pronta a svelare il segreto poco prima di morire nel 1997. L’uomo ha così presentato una pratica di riconoscimento, poco prima di Natale, all’High Court di Sidney, spiegando: "Sono semplicemente un uomo che cerca i suoi genitori biologici, e ogni strada mi ha portato a Camilla e Carlo". Le autorità competenti, inizialmente scettiche, stanno ora valutando con attenzione la documentazione ricevuta che fornirebbe prove attendibili. Se questo venisse confermato si tratterebbe di una vera e propria bomba. Sempre secondo quanto riferisce il quotidiano inglese, la scottante questione sarebbe stata discussa in forma privata a Sandringham, in occasione della Megxit, cioè durante l’incontro avvenuto tra Carlo, William e la Regina a metà gennaio. Da Clarence House invece non sono arrivati commenti ufficiali.

Tiziana Lapelosa per “Libero quotidiano” il 29 gennaio 2020. Non c'è pace in casa Windsor. Archiviata (si fa per dire) la questione Harry-Meghan, falliti i tentativi di insabbiare lo scandalo che insegue Andrea, il duca di York (una donna, Virginia Giuffre, lo accusa di aver avuto dei rapporti con lei quando era minorenne), ora a far perdere il sonno alla Regina Elisabetta è il presunto figlio di Carlo d' Inghilterra e Camilla Parker Bowles. Simon Dorante-Day è il suo nome, ha 53 anni, è nato in Inghilterra, vive in Australia e fa l' ingegnere. Se fino a poco tempo fa si era limitato a farsi chiamare "Prince Simon" e a postare fotomontaggi con i reali sui suoi profili social, adesso, scrive il Daily Mail online, ha deciso di fare sul serio. Si è infatti rivolto all' Alta Corte di Sidney per ottenere il test del dna dalla Famiglia reale e confermare una volta per tutte se nelle sue vene scorre sangue blu. Lui ne è certo. Anzi certissimo. Il presunto principe, del resto, è nato negli anni in cui Carlo e Camilla già si amavano, e questo depone a suo favore. Il colore dei suoi occhi, però, non ha nulla del colore dei reali. Dettagli, nemmeno gli occhi di Tom, figlio (riconosciuto) di Camilla sono del colore della mamma. Dice pure che la nonna adottiva, un tempo cuoca "reale", gli ripeteva sempre "tu sei il figlio di Carlo e Camilla"... "tu sei il figlio di Carlo e Camilla". E lui se ne è convinto e magari lo è. Del resto pure Delphine Boël, figlia della baronessa Sybille de Selys Longchamps, soltanto pochi giorni fa, a 51 anni, si è vista riconoscere la paternità da parte dell' ex re di Belgio Alberto II di cui sua madre era amante. Anche qui a colpi di carte bollate. Ma torniamo a Prince Simon, ai nonni e ai genitori adottivi. Nonna Winifred, dunque, faceva la cuoca, il nonno Ernest il giardiniere. La figlia Karen e il marito David Day avrebbero adottato il presunto figlio segreto di Carlo e Camilla quando aveva soltanto 18 mesi. Poi il volo verso l' Australia per, si presume, calare il sipario su quello che sarebbe diventato un vero e proprio boccone scandalistico per la Corona per i decenni a venire. Ma ci sarebbe dell' altro. La fuga di Harry e Meghan in Canada sarebbe stata architettata per mettere a tacere questa notizia esplosiva e spostare, dunque, l' attenzione dei sudditi sulla bella famigliola irrequieta e allergica alle regole di corte. E si vocifera pure che Diana, prima di morire, era intenzionata a rivelare l'esistenza di questo figlio illegittimo del suo ormai ex marito. Quanto ci sia di vero in tutto questo è difficile saperlo. In attesa del test del dna, semmai ci sarà, consola il fatto che l' essere blasonati non vaccina dall' essere come i comuni mortali. Nel bene e nel male.

"Scappati in Canada per non ripetere la tragedia di Lady D". La verità dietro la Megxit. In un programma tv che è stato trasmesso in America, un amico di Harry espone il suo punto di vista sulla Megxit, affermando che la scelta è stata presa per un giusto motivo. Carlo Lanna, Venerdì 31/01/2020, su Il Giornale. Non c’è pace per gli ex duchi di Sussex. A poco meno di un mese dalla Megxit, si rincorrono ancora voci e indiscrezioni su quanto è accaduto a Londra in quel fatidico 9 gennaio. L’uscita di scena di Harry e Meghan ha provocato una vera e propria rottura all’interno della famiglia reale. La Megxit però è realtà e ora non si più tornare indietro. Gli ex duchi ora sono in Canada e, anche se sono bersagliati dai fotografi e dalla stampa, stanno già scrivendo un nuovo capitolo della loro vita. I problemi restano, però. Sì, perché nonostante il benestare da parte della Regina, non si comprendono ancora le reali motivazioni che hanno spinti a duchi a prendere le distanze dalla Corona. A gettare benzina sulla Megxit ci ha pensato Nacho Figueras. Lui è il capitano della squadra di polo in cui gioca anche il Principe Harry e, oltretutto, è confidente e amico del duca. Intervenuto in una trasmissione tv in onda in America sul network della ABC, dal titolo "Royal Divide: Harry, Meghan e The Crown", il giocatore ha esposto il suo punto di vista sulla questione. Il programma è andato in onda nel corso della giornata di giovedì, durante il Good Morning America. Secondo Nacho, 42 anni, argentino di origini e chiamato il David Beckham del polo, la scelta di Harry è stata presa con moderazione e non è stata una scelta di petto, come tutti pensano. "La Megxit non è stata una decisione facile per Harry. L’idea è nata solo per proteggere Meghan e suo figlio Archie – rivela -. E inoltre, ha sofferto molto per quello che è successo a Lady D. E ora vuole a tutti i costi una vita normale per impedire che la tragedia si possa ripetere". Il giocatore sottolinea che ha parlato con il Principe poco prima che scoppiasse la bufera. "Non vuole che la sua famiglia finisca nel mirino dei media – continua -. Una decisione del genere? Non arriva così, di punto in bianco. Harry e Meghan ne hanno discusso ampiamente". Effettivamente il fantasma di Lady D. morta nell’agosto del 1997, è una presenza fissa nella vita di Harry come in quella di William. I due rampolli non riescono proprio a dimenticare il dolore subito e, proprio per questo motivo, cercano di proteggere i loro cari ed evitare che gli errori di possano ripetere. Dietro la Megxit quindi non c’è nessun capriccio, solo la voglia di non vivere più sotto una campana di vetro sottile.

Quando Lady Diana pianse per il Principe Carlo. In un documentario dedicato ai reali inglesi, si torna a parlare di Lady Diana e del rapporto conflittuale che aveva con il principe Carlo. Carlo Lanna, Sabato 25/01/2020, su Il Giornale. Il mito di Lady Diana vive nel cuore di tutti. A più di venti anni dalla sua tragica morte in un incidente stradale a Parigi, la sua immagine è come se fosse rimasta cristallizzata nel tempo, simbolo di beltà e di forza d’animo. Gli insegnamenti e il suo lascito vivono attraverso i sorrisi e i gesti di William e di Harry e la sua iconica bellezza è ancora oggi fonte di grande ispirazione. Lady Diana però non ha avuto una vita serena e tranquilla. Legata al Principe Carlo in un matrimonio di comodo in cui aleggiava lo spettro di Camilla, lady Spencer ha lottato con tutte le sue forze per rispettare il suo impegno preso con la Corona inglese. Sappiamo tutti come sono andate le cose, eppure in molti affermano che Diana non si è arresa alle avversità, anzi ha lottato per tenersi stretto il suo principe. Ora, in un documentario che è stato trasmesso qualche giorno su ITV (network inglese), si torna a parlare del mito della Principessa Triste e a farlo è Ken Lennox. Lui è stato uno dei primi fotografi che, al tempo dei corteggiamento tra Carlo e Lady Diana, ha immortalato i due insieme e in atteggiamenti da eterni innamorati. In Inside The Crown: secret of the Royals, Lennox racconta però particolari inediti sul rapporto tra i due, ricordando che è stato uno dei primi fotografi che ha immortalato le crepe nel rapporto tra Carlo e Lady Diana. Tutto è iniziato nel 1983, in un tour che i due hanno intrapreso in Australia. Lennox racconta di una scena molto particolare in cui vide Diana fuori al Sidney Opera House scoppiare a piangere, senza che il Principe Carlo le rivolgesse la più piccola attenzione. Il fotografo ammette che, proprio in quel momento, il matrimonio tra il principe e lady si è disgregato considerevolmente. "Forse Carlo non si rese conto di quello che era appena successo, ma se anche lo avesse fatto, era tipo da lui guardare da un’altra parte – afferma -. Quello è stato il primo segnale di una crepa vivida nel loro matrimonio. E all’epoca nessuno aveva notato un particolare del genere. Di fronte alle telecamere tutto era perfetto, ma dietro le quinte le cose non funzionavano". Il documentario rivela inoltre che, per i diversi sgarri che il principe Carlo ha rivolto alla moglie, Lady Diana avrebbe messo in atto anche diverse sottili vendette, come un urlo di aiuto per far capire alla gente che lei era terribilmente infelice.

“Carlo non diventerà mai Re”. E quel sogno premonitore di Lady Diana. Durante la sua vita di corte, Lady Diana si era rivolta a una donna che era capace di interpretare i sogni, rivelando una profezia che oggi potrebbe diventare realtà. Carlo Lanna, Sabato 16/05/2020 su Il Giornale. La vita di Lady Diana è ancora oggi un vero e proprio mistero. A più di 20 anni dalla sua morte, avvenuta a Parigi in un incidente d’auto, continuano a trapelare indiscrezioni e pettegolezzi (presumibilmente veri) sulla sua vita a Corte. E la vita tra le mura di palazzo non era facile. Lady Diana, infatti, ha sempre affermato di sentirsi spesso fuori luogo e continuamente sotto osservazione. E, soprattutto, era in una condizione emotivamente per nulla stabile, viveva in uno stato di inquietudine perpetuo che la costringevano a far ricorso a diversi farmaci per calmare le ansie. Lo afferma anche Joan Hanger a New Idea. Amica e confidente di Lady Diana, di professione è una futurologa e un’esperta nell’interpretazione dei sogni. E in una recente intervista che ha lasciato al tabloid americano, ha rivelato nuovi dettagli sulla vita di Lady D. rivelando che, poco prima di morire, era affetta da incubi ricorrenti e carichi di significato. La principessa ha conosciuto Joan ad inizio degli anni ’90 e la frequentazione è diventata molto assidua quando Diana ha compreso che la donna poteva esserle di grande aiuto nell’interpretare i suoi sogni. La Hanger conferma la giovane Lady si sentiva sola, stanca e spossata e che, soprattutto durante il fine settimana, era affetta da incubi e deliri onirici. "Sognava di perdersi in continuazione. E questo indica un senso di perdita dell’identità – afferma l’esperta -. Non riusciva a vedere la luce in fondo al tunnel e, soprattutto, non riusciva a proiettarsi nel futuro". Ma non è finita qui. "Lady Diana ha sognato anche abiti strappati che, secondo le letture, sono il simbolo di persone che ti fanno a pezzi – aggiunge -. E poi nei suoi sogni molto spesso appariva anche Carlo." La Hanger afferma che le confessioni di Diana erano quasi profetiche, alla luce di cosa è successo nella famiglia reale. "Mi ha confessato che suo marito non sarebbe mai diventato Re. Lo vedeva decapitato nei suoi sogni, e questo ha un grande significato – rivela -. Può indicare la morte o semplicemente la voglia di andare avanti per la sua strada. Il significato è ambivalente". Sta di fatto che questi pensieri così forti non sono poi così distanti dalla realtà. A questa indiscrezioni sui sogni di Lady Diana, si aggiungono dettagli sulla sua morte rivelati da un celebre patologo inglese. Il quale ha rivelato che nessuno, durante i soccorsi, avrebbe notato di una ferita mortale che se fosse stata curata subitaneamente, forse il destino di Diana sarebbe stato diverso.

Da corrieredellosport.it il 2 giugno 2020. Un clamoroso caso di stupro all'interno della casa reale inglese, messo a tacere ad ogni costo, fino ad arrivare alla morte di Lady D: sarebbe questo il motivo della prematura scomparsa di Diana Spencer, morta in un incidente stradale il 31 agosto del 1997 secondo quanto afferma la rete di hacker Anonymous.

"Quello di Lady Diana non fu un incidente casuale". Seguendo le ricostruzioni di Anonymous, una donna che era al servizio della corte venne costretta ad avere rapporti sessuali da un dipendente molto vicino al principe Carlo, tanto che ad oggi sarebbe ancora al suo servizio. Dopo due violenze, la donna sarebbe stata liquidata dai reali d'Inghilterra con una buonuscita di trentamila sterline per pagare il suo silenzio. Ma Lady D sarebbe venuta in possesso di una registrazione che documentava l'avvenuto stupro e avrebbe minacciato Carlo di renderlo pubblico, cosa che la Royal Family non avrebbe assolutamente potuto permettersi. La registrazione sarebbe poi sparita nei giorni seguenti l'incidente mortale di Diana.

La teoria di Anonymous: "La morte di Lady Diana non fu un incidente". Il gruppo di hacker di Anonymous sostiene di avere le prove che smaschererebbero la royal family inglese, dimostrando che la morte di Lady Diana non fu un incidente, ma un omicidio. Francesca Rossi, Lunedì 08/06/2020 su Il Giornale. Il gruppo di hacker famoso in tutto il mondo con il nome di Anonymous sostiene di possedere i documenti che smentirebbero la versione ufficiale sulla morte di Lady Diana, avvenuta il 31 agosto 1997 nel tunnel dell’Alma, a Parigi. Per anni giornalisti, esperti e scrittori si sono interessati alla prematura scomparsa della principessa del Galles e del suo fidanzato, il miliardario egiziano Dodi al-Fayed. Sono state scritte pagine di giornali e di libri, riempiti di parole interi documentari televisivi su queste morti inaspettate ed eccellenti. Alcune ipotesi virano decisamente sul complotto che vedrebbe la royal family inglese come una sorta di “regia occulta” dietro all’incidente nel tunnel parigino. Secondo le congetture più estreme Lady Diana sarebbe stata uccisa poiché incinta di Dodi al-Fayed. Per i Windsor sarebbe stato impensabile che il principe William, futuro re d’Inghilterra, avesse un fratellastro musulmano. Dunque temendo lo scandalo, la royal family avrebbe ordinato l’eliminazione della principessa. Questa teoria si avvicina molto alla possibile trama di un romanzo e in effetti non è mai stata provata, anzi, le analisi ufficiali del caso ci dicono che Lady Diana morì in un incidente e non era incinta al momento del decesso. Non vi sarebbe nessun retroscena. Forse siamo noi che costruiamo nella nostra mente delle suggestioni per spiegarci una morte improvvisa, assurda nella sua semplicità, perfino banalità da un certo punto di vista. Ora Anonymous tira fuori un’altra possibilità. Naturalmente il condizionale è d’obbligo e ogni virgola delle affermazioni del gruppo di hacker va presa con le proverbiali pinze. Anonymous dichiara di possedere delle registrazioni che comprometterebbero la royal family, ponendola al centro della morte della principessa del Galles. L’incidente sarebbe stata una copertura per occultare l’assassinio di Lady Diana, la quale prima di morire avrebbe realizzato delle registrazioni bomba. In questi documenti audio la madre di William e Harry avrebbe raccontato di una presunta violenza sessuale subita da una dipendente di Buckingham Palace. L’aggressione sarebbe avvenuta proprio nel Palazzo reale e a quanto pare il colpevole sarebbe una persona molto vicina al principe Carlo. Qualcuno che ancora adesso lavorerebbe per l’erede al trono. Lady Diana avrebbe voluto rivelare questa storia ma la royal family, spaventata dalle conseguenze, non glielo avrebbe consentito. La questione è molto grave e delicata, ma nessuno ha ancora visto le prove di cui Anonymous ha parlato. Come sempre dovremmo mantenere un atteggiamento scettico, in cui il giudizio viene sospeso fino a quando non ci sono dati incontrovertibili. Se questi documenti esistono, basta mostrarli. Ne verrà valutata la veridicità e l’attendibilità. Intanto possiamo iniziare a ragionare su alcuni elementi che dovrebbero far suonare un campanello d’allarme nella nostra mente. Per prima cosa viene riproposta la teoria secondo cui Lady Diana sarebbe stata uccisa da un potere più grande, di fronte al quale è difficile, se non impossibile, combattere, ovvero la famiglia reale inglese. Sia nell’ipotesi di Anonymous che in quella della principessa in attesa del figlio di Dodi, vediamo Diana in una posizione di debolezza, sebbene corretta da un punto di vista morale. In un caso lei vorrebbe vivere la sua vita, un fatto giusto e normale, ma le sue presunte scelte indipendenti la portano alla morte, cioè alla privazione del diritto fondamentale a cui aspirava. Questo schema si ripropone anche nella versione di Anonymous. Lady Diana si sarebbe schierata contro un’ingiustizia e anche stavolta ne avrebbe pagato le conseguenze. Così si creano due schieramenti opposti. Da una parte Lady Diana “buona”, dall’altro la royal family “cattiva”. Una visione che appare molto semplicistica e non tiene conto della complessità di certe situazioni, delle dinamiche familiari. Inoltre il presunto movente spiegato da Anonymous non reggerebbe del tutto. Nel tunnel dell’Alma è morto anche al-Fayed, a quanto sembra estraneo ai presunti dissidi descritti dagli hacker tra Lady Diana e i Windsor. Perché coinvolgere una persona innocente, il cui nome avrebbe fatto “rumore”? Solo per “costruire” meglio la versione ufficiale dell’incidente? Sembrerebbe tutto un po’ forzato anche se tirassimo in ballo l’ipotesi dei danni collaterali. Comunque in entrambi i casi non abbiamo dati verificabili su cui lavorare, quindi il metodo di ragionamento razionale (e scientifico) ci impone di essere cauti e attendere le prove.

Un altro "scandalo" sconvolge la Corona: "Kitty Spencer sposerà un magnate di 60 anni". A Londra ha preoccupare la relazione di Kitty Spencer, nipote di Lady D, con il magnate sudafricano Michael Lewis: lei 28enne lui 60enne. Carlo Lanna, Martedì 14/01/2020, su Il Giornale. In questi giorni, dopo il divorzio dei Sussex, tutte le attenzioni sono state rivolte al summit indetto dalla Regina per sbrogliare il nodo della matassa, ma questo non vuol dire che gli scandali a corte si sono presi qualche settimana di vacanza. Anzi, sono sempre dietro l’angolo. Come quello di Kitty Spencer. Lei è una piccola lady, nipote della defunta principessa Diana, figlia del Conte Charles Spencer e dell’ex moglie Victoria Aitken. È una giovane donna che, direttamente, non ha legami con la famiglia reale, anche se possiede un titolo nobiliare per discendenza. Kitty è bella, aitante, è una modella e il suo successo è legato alla catena di negozi "Whitles" che nel 2018 vantava un patrimonio di 80 milioni di sterline. Ma perché la giovane nipote di Lady Diana fa preoccupare la famiglia reale e fa scandalo sui giornali? Dalle ultime indiscrezioni che sono trapelate in rete, Kitty Spenser da tempo sarebbe legata al magnate Michael Lewis, che di anni ne ha 60 ed è di orgini sudafricane. Secondo i tabloid, i due stanno vivendo una romantica storia d’amore lontana però dal flash dei fotografi e dalle insidie dei gossip, eppure come riportano diversi profili social, Kitty e Michael, sono stati pizzicati più volte mente si scambiavano dolci smancerie. Una relazione che va avanti dallo scorso mese di agosto quando, nel cuore di Saint-Tropez, i due si sarebbero perdutamente innamorati. E da quel che sembra, il magnate avrebbe già chiesto la mano della piccola Kitty per continuare a vivere insieme il loro sogno d’amore. In famiglia però questa unione non è vista di buon occhio. Il padre la vorrebbe insieme a un uomo più giovane e più adatto a lei. Kitty Spencer, però, è sempre stata uno spirito libero e una mina vagante. Prima del magnate è stata legata per diverso tempo con il giocatore di cricket Nick Compton e ha avuto una storia anche un Niccolo Barattieri di San Carlo. Ma da quel sembra il legame con il ricchissimo Michael pare più solido che mai. "Ha chiesto la sua mano durante una breve vacanza a Città del Capo – rivela una fonte anonima vicina a Kitty Spencer -. Lui è un uomo discreto che si lascia voler bene". Occhi azzurri, fisico mozzafiato e lunghi capelli biondi. È una madrina di diverse associazioni benefiche e musa di Dolce e Gabbana. Si è trasferita a Londra da Cape Town per inseguire i suoi sogni.

Antonella Rossi per "vanityfair.it" il 3 febbraio 2020. Ha sempre tifato per Harry e Meghan, Paul Burrell, 60 anni, che fu maggiordomo di Lady Diana, e ora torna a farlo interpretando una lettera scritta dalla principessa a favore della decisione dei duchi di Sussex di prendere le distanze dalla royal family. «Amo da morire i miei ragazzi e spero che i semi che ho piantato cresceranno e portino forza, conoscenza e la stabilità necessarie», scriveva la principessa all’uomo che fu a lungo al suo fianco. «Sono le parole di amore incondizionato di una madre appropriate oggi come lo erano quando sono state scritte, più di 24 anni fa», ha sottolineato Burrell, che ha pubblicato l’estratto della lettera sul suo account Instagram insieme a una foto dei principi con la madre, che venne diffusa come Christmas Card nel 1995. Burrell è stato prima al servizio della regina Elisabetta e successivamente al servizio di Diana, dal 1987 all’anno della sua morte. Negli ultimi tempi ha parlato spesso delle difficoltà della vita nella royal family, paragonando addirittura Meghan a Diana. «Meghan è una donna forte e indipendente che si è trovata a far parte della famiglia più tradizionalista di sempre, la Famiglia Reale. La Principessa Diana era cresciuta in una casa grande come Buckingham Palace, eppure si è persa anche lei», aveva commentato un anno fa nel documentario Kate V Meghan, Princesses at War, andato in onda su Channel 5. «Buckingham Palace è un campo minato per chiunque vi entri per la prima volta», aveva aggiunto. «Non erano molto gentili con questa ragazza. Chi vorrebbe far parte di quella famiglia?», aveva aggiunto poi riferendosi all’ex attrice. Lei, come è noto, a differenza di Diana, che sposò Carlo giovanissima, piena di fiducia e di una buona dose di inconsapevolezza, è donna forte e più adulta, che ha capito presto di doversi liberare per essere felice, o almeno per provare a farlo. Se fosse stato tutto già deciso fin dall’inizio, come ipotizzano alcuni gossip, o maturato nel tempo della vita tra Kensington Palace e Frogmore Cottage non è dato sapere, certo è che la nascita del primogenito Archie sembra aver dato una spinta importante alla scelta di indipendenza dei Sussex. La famiglia attualmente è in Canada dopo il vertice a Sandringham che ha visto protagonisti Harry, la regina Elisabetta, Carlo e William. Assente Meghan, rimasta a Vancouver con Archie. Tra Harry e William, oggi, i rapporti sarebbero tesi, a differenza di quanto si sarebbe augurata la madre, che ha seminato in egual misura i suoi insegnamenti. «Siamo fratelli. Saremo sempre fratelli. Al momento siamo sicuramente su percorsi diversi. Ma ci sarò sempre per lui, come so che lui ci sarà sempre per me. Non ci vediamo più tanto come un tempo perché siamo molto impegnati, ma lo amo molto», le parole di Harry nel documentario Harry&Meghan. An African Journey, che di fatto ha segnato la fine della vita londinese a tempo pieno dei Sussex. A leggerlo senza malizia non c’è nessuna acredine, solo due strade diverse prese per scelta e per destino. Forse William avrebbe fatto lo stesso se fosse stato lui il secondo. Ma questo resta impossibile da verificare. Solo il tempo dirà se Harry e Meghan hanno preso la decisione più giusta. Più giusta per loro stessi, ovviamente, non per casa Windsor.

I canadesi contro Harry e Meghan: "Non pagheremo per la loro sicurezza". I duchi di Sussex si sono stabiliti sull'Isola di Vancouver, lontani dalla Gran Bretagna. Ma sembra esserci qualche intoppo. Chi pagherà per il servizio di sicurezza dei duchi? La maggior parte dei canadesi non è disposta a farlo. Mariangela Garofano, Lunedì 03/02/2020, su Il Giornale. Il trasferimento del principe Harry e Meghan Markle in Canada sembra aver sollevato qualche problema per i canadesi. I due sposi, dopo l’addio alla Royal Family, si solo stabiliti sull’Isola di Vancouver, nella provincia canadese di British Columbia, ma a quanto pare non tutti gli abitanti sono felici di averli nel loro Paese. Come riporta il Daily Mail, il 77% dei cittadini canadesi è convinto che i contribuenti non debbano sobbarcarsi le spese per la loro sicurezza. Secondo un sondaggio condotto da Nanos Research, solo il 19% si è espresso a favore, mentre la maggior parte dei cittadini è contrario, visto che i Sussex non si sono stabiliti in Canada come rappresentanti della regina Elisabetta. In pratica, in Canada Harry e Meghan sono due “comuni” cittadini e pur vigendo la monarchia parlamentare, solo il 32% dei cittadini è a favore del mantenimento dei legami con la Royal Family britannica. A gennaio Meghan venne fotografata senza il suo consenso mentre passeggiava con il figlio Archie e i cani, episodio che ha spinto la coppia a intentare una causa contro i fotografi, che si erano appostati nei cespugli ad attendere la duchessa. La mancanza di privacy di cui i duchi lamentano da quando hanno lasciato la famiglia reale in Gran Bretagna e la loro sicurezza sono ancora oggetto di discussione. Chi pagherà per il servizio di security dei duchi, ora che non sono più membri senior della famiglia reale? Agenti di Scotland Yard hanno recentemente rivelato che gli uomini dello staff di sicurezza di stanza a Vancouver Island, presso l’abitazione dei Sussex, sono stati visti svolgere commissioni come comprare caffè e dolci, come dei “domestici”. Si tratta di agenti altamente qualificati e addestrati per proteggere 24 ore su 24 la coppia, il cui compito è di sorvegliarli, non di allontanarsi per fare la spesa. Secondo le stime, il costo per la sicurezza di Harry e Meghan che i contribuenti di Canada e Gran Bretagna si dovranno accollare, si aggira tra i 3 e i 6 milioni di sterline l’anno. Insomma, non proprio una cifra irrisoria, considerando che i duchi non si sono trasferiti in Canada per svolgere un incarico per conto della regina. Il principe e la moglie hanno ottenuto il benestare di Sua Maestà a lasciare i loro incarichi pubblici a favore di una vita più indipendente, anche economicamente. L’addio alla Royal Family di Harry e Meghan è il secondo che Elisabetta ha dovuto fronteggiare negli ultimi mesi, dopo quello del principe Andrea lo scorso novembre.

L'esperto: "Meghan non vede nel suo futuro il principe Harry". "Un piano da tempo prestabilito per un futuro senza Harry", queste le ragioni alla base della Megxit che trasformano Meghan Markle in una vera regina della manipolazione. Carlo Lanna, Venerdì 07/02/2020, su Il Giornale. Un mese dopo da quell’annuncio senza precedenti si comincia a fare la conta dei danni della Megxit. Magazine ed esperti si scatenano su tutto quello che potrebbe accadere a Meghan Markle dopo la scelta di divorziare dalla Corona. Non è affatto facile predire il futuro dato che, ancora oggi, non si conoscono le ragioni di una scelta di questa portata. Diventare duchessa e poi perdere i suoi benefici però, per Meghan, non è uno smacco. Anzi, la Markle è ben contenta di essersi slegata dalla famiglia reale e poter finalmente vivere la sua vita da filantropa in Canada, insieme a Harry e suo figlio. Ma secondo il New York Magazine c’è qualcosa che non quadra. Il marchio dei Sussex e le attività benefiche sono solo il primo step di un progetto ben più grande che la duchessa ha in mente. Infatti, secondo quello che è stato riportato dal magazine americano, Meghan fino ad ora avrebbe seguito un piano prestabilito che sarebbe stato architettato ancor prima che di unirsi in matrimonio con il Principe Harry. L’ipotesi degli esperti potrebbe così svelare un retroscena degno di una spy-story, dato che sono in molti ad affermare che la Markle avrebbe pianificato il royal wedding solo come trampolino di lancio per le sue attività. In questa equazione il principe Harry sarebbe solo una marionetta, caduto nella trappola di Meghan grazie alle sue doti da abile manipolatrice. La Megxit quindi era già nell’aria da diverso tempo, un piano costruito a regola d’arte che avrebbe come unica intenzione quella di sfruttare l’influenza dei reali per poter conquistare quanto più prestigio possibile. E per come si sarebbero evolute le cose, Meghan Markle avrebbe rispettato con rigore tutte le sue intenzioni, pur di raggiungere gli obbiettivi. Gli esperti affermano che il piano si sarebbe azionato dopo la nascita di Archie. Meghan infatti avrebbe mantenuto un profilo basso. Durante il suo congedo avrebbe intensificato le sue attività benefiche, come riporta il traffico sui social, e poi l’idea di lanciare il suo marchio a livello globale per tornare così nella sua amata Hollywood. Da qui in poi la rottura e tutte le indiscrezioni su una vita agita ma sempre e comunque al centro dell’attenzione. In questo futuro quasi apocalittico, però, al fianco di Meghan non è previsto il Principe Harry. Dato che, secondo gli esperti, la ex duchessa tra un massimo di 5 anni chiederà il divorzio. Se così fosse, chissà come reagirà la Regina e tutta la famiglia reale?

Il principe Harry e Meghan Markle sono riusciti a far sparire le loro tracce, ma la royal soap continua. Mentre la coppia (ex) reale si gode finalmente la propria privacy e "si rilassa con Archie e i cani, fa yoga e cucina", il plot della sua storia continua a essere scritto dai tabloid, tra previsioni azzardate - i Sussex presto più ricchi dei Beckham? -  e illecite supposizioni. Eva Grippa il 7 Febbraio 2020 su La Repubblica. Forse, alla fine, sono riusciti a far perdere le proprie tracce. Dopo l'ennesima minaccia di azioni legali in caso di foto rubate da parte dei legali di Harry, infuriato per il furto di immagini della moglie e del figlio Archie a passeggio nell'Horth Hill Park, sembra che i paparazzi abbiamo smantellato le loro tende dall'isola di Vancouver, il luogo in cui i duchi si sono rifugiati dopo la Megxit, consegnando alla regina Elisabetta II le proprie dimissioni da senior royals. "Ci si aspettava potessero modernizzare un ex impero in un momento di delicata transizione politica. Invece, Harry e Meghan se ne sono andati" sintetizza in uno dei suoi titoli il New York Times. E di fatto sono anche spariti. Lo conferma il loro account Instagram ufficiale Sussex Royal, sempre in attività eppure riflesso di una comunicazione profondamente impersonale. Dove sono Harry (35 anni), Meghan (37) ed Archie (9 mesi)? Cosa bolle in pentola? Barricati in casa, e non è ancora chiaro chi pagherà per la loro sicurezza. Il trasferimento in Canada della coppia ha creato imbarazzo al primo ministro del Paese, Justin Trudeau, che per via della sua amicizia con la coppia reale (o meglio, ex reale) sembra avesse addirittura "rassicurato la regina che il Canada avrebbe pagato una parte dei costi relativi alla loro sicurezza". Poi, tutti si sono messi a fare i conti e scoperto quanto costa mantenere l'altissimo livello di sicurezza richiesto per proteggere Harry, Meghan e Archie, è stato fatto un passo indietro. La spesa sarebbe compresa tra i 3 e i 6 milioni di sterline all'anno poiché le loro 15 guardie lavorano a turni per coprire 24 ore su 24, rivela il Daily Mail. Al momento, non è chiaro se sia la coppia a pagare di tasca propria ogni misura presa; dopo l'ultima incursione dei paparazzi i duchi hanno inoltre adottato nuove misure per proteggere la loro privacy all'interno della principesca - è il caso di dirlo - magione da 14 milioni di euro sull'isola di Vancouver ceduta loro da David Foster: 5 camere da letto, 8 bagni, due spiagge private. All'esterno del cancello è stato sistemato un telone per impedire la visione di quanto accade dentro il parco, più videocamere di sicurezza su tutto il perimetro. Il The Deep Cove Cafe, un locale poco lontano la proprietà che la coppia ha visitato più volte, ha perfino esposto sulla porta un cartello di divieto di ingresso ai giornalisti dopo che The Sun aveva rubato delle immagini al personale addetto alla sicurezza di Meghan ed Harry.

Come spendono il loro tempo? Si "godono la loro nuova vita tranquilla" dopo essersi liberati di "un peso dalle spalle". Parola di amico loquace interrogato da People. La stessa fonte rivela anche che "la decisione [di andarsene] era in discussione da tempo, e ora sono sollevati di averla presa". Sembra anche che a Harry non importasse di rinunciare al titolo con cui è nato, quello di principe e sesto erede al trono. Il futuro non li preoccupa; al momento si godono la loro villa nel verde e "si rilassano con Archie e i cani", il labrador nero Oz e il beagle Guy. Le giornate trascorrono tranquille, "fanno yoga" e Meghan passa il suo tempo ai fornelli perché "ama cucinare".

Se il Canada li mette alla porta. Un sondaggio condotto dall'istituto senza fini di lucro Angus Reid rivela che quasi tre quarti dei canadesi non vogliono pagare di tasca propria la decisione presa da Harry e Meghan Markle di trasferirsi nel Paese. In particolare, 7 su 10 (ovvero il 73 per cento degli intervistati, che in realtà sono solo 1154 persone) non vorrebbe che il Canada pagasse per la loro sicurezza. Per 1 su 5 (19 per cento) sarebbe meglio decidere una ripartizione dei costi mentre solo una manciata di canadesi si sarebbe disposto a sobbarcarsi il gravoso incarico per intero (3 per cento). In tutta risposta, i duchi sarebbero pronti a far le valigie per volare a Los Angeles. Declinando forse, in privato, la gentile offerta di Madonna: "Il Canada è noioso, venite a New York, vi affitto casa mia". Quello offerto dalla pop star è un appartamento di lusso a Manhattan: "Ha una visuale magnifica - specifica - Buckingham Palace è nulla in confronto a Central Park". Forse però Harry e Meghan cercano qualcosa di diverso e soprattutto di più vicino a Doria Ragland, la mamma di Meghan che secondo alcune fonti sarebbe "la mente" dietro il piano di fuga della coppia dalla famiglia reale inglese. Secondo i tabloid, la donna avrebbe un forte ascendente sul principe Harry, cui avrebbe consigliato di fare il possibile per rendersi indipendenti e felici perché preoccupata per la salute mentale della figlia.

I Sussex come i Beckham. Se la teoria del complotto vi appassiona (quella cioè che assegna a Meghan ogni responsabilità nella decisione di abbandonare i doveri reali, con Harry nel ruolo del bamboccio) vorrete sapere quel che il New York Magazine ha scritto recentemente al riguardo. Secondo i detrattori cui ha dato voce, l'ex attrice avrebbe elaborato un piano diabolico già prima delle nozze con Harry, considerando il suo ingresso nella famiglia reale come "un trampolino di lancio" e la sua successiva separazione dalla monarchia come una fase di "consolidamento del suo potere". Il piano prevederebbe che dopo la Megxit la coppia operi ancora assieme per creare una propria associazione benefica e magari realizzare con l'amica Ophra Winfrey un documentario sulla salute mentale. Le opportunità di guadagno per la coppia, desiderosa di rendersi "economicamente indipendente", sono pressoché infinite e, secondo le valutazioni dell'esperta di branding britannica Claire Shiels, il loro valore potrebbe sfidare rapidamente quello dei Beckham, Victoria e David, che assieme sono "un brand" valutato 700 milioni di sterline.

Il futuro della coppia. Adotteranno un altro figlio. Iscriveranno Baby Sussex in un collegio canadese, come è accaduto per il principe Andrea nel 1977, per crescerlo lontano dalla regalità. Sono molte le supposizioni in merito al futuro della coppia e molte conducono all'ultima delle questioni: Harry e Meghan rimarranno assieme? I britannici sono convinti del contrario, con il divorzio entro il 2025 dato 3 a 1 dai bookmakers. Una prima spia di una supposta crisi tra Harry e Meghan starebbe nella decisione di lui di riprendere contatto con vecchi amici lasciati in Gran Bretagna attraverso WhatsApp. Il principe, stando a quanto riportaThe Sun, è membro di una chat di gruppo da "anni" ma ora "più che mai" condivide pensieri, foto e video con i suoi amici. Quelle stesse persone che, stando ancora a indiscrezioni, avrebbe "messo da parte" dopo aver sposato Meghan Markle, nel maggio 2018; tra loro anche Guy Pelly e Tom Inskip, l'amico d'infanzia messo al bando perché avrebbe consigliato al principe di non sposare Meghan. Harry sente nostalgia di "casa" e si è pentito della decisione presa? O forse ha solo conquistato un po' di tempo libero per chattare in pace, libero da impegni pubblici e dallo stress? Di sicuro c'è solo che la royal soap andrà avanti per lungo tempo ancora, e che Harry e Meghan si facciano vivi in pubblico o meno poco importa.

Kate Middleton e il legame con il Principe Harry? "Teme di non avere più sue notizie". A soffrire maggiormente per la Megxit è proprio Kate Middleton, la quale avrebbe paura di non avere più nessun contatto con il Principe Harry a cui è molto legata. Carlo Lanna, Domenica 02/02/2020, su Il Giornale. Gli effetti della Megxit sono incontrollabili. Se da una parte Meghan e Harry stanno scrivendo un nuovo capitolo della loro vita in Canada, è a Londra che si fa la conta dei danni. E secondo le prime indiscrezioni, pare che siano incalcolabili. A subire gli effetti di questo divorzio improvviso e alquanto ingiustificato è proprio Kate Middleton. La moglie del duca di Cambridge, secondo quello che è stato rivelato da una fonte interna di palazzo, è l’unica che sta somatizzando gli effetti e le conseguenze della Megxit. La Middleton, donna tutto d’un pezzo, dedita alla famiglia e agli impegni di Corte, non riesce proprio a digerire quanto è successo nelle ultime settimane. E non sente la mancanza di Meghan, dato che tra le due il rapporto non è stato mai idillico, ma più altro soffre la lontananza del principe Harry. Come riporta l’US Weekly in una news che è stata pubblicata nelle ultime ore, pare che Kate Middleton non riesca a credere che il principe abbia deciso di rinunciare al suo ruolo e che abbia deciso di fuggire in Canada insieme a sua moglie. La fonte di palazzo, che come sempre preferisce restare anonima, riporta che la Middleton è molto afflitta, triste e arrabbiata per tutta questa faccenda. Anche se sposata con William, ha sempre avuto un bellissimo rapporto con Harry. Più che cognati erano due amici. È stato il Principe che le ha dato il benvenuto in famiglia quando era ancora uno scapestrato, ed è stato proprio lui che ha messo la Middleton a proprio agio, indicando regole e "riti" di passaggio. "Vorrebbe parlare con Harry – esordisce la gola profonda -. Ha paura però di non aver più sue notizie e teme che non potrà contare più sul suo appoggio". E come riportano le indiscrezioni, il rapporto tra Kate Middleton e il principe Harry si sarebbe logorato proprio a causa di Meghan e, soprattutto, perfino il legame con William si è spezzato a causa della ex duchessa del Sussex. E Kate sta soffrendo molto per quello che è accaduto alla sua famiglia. Ecco perché negli ultimi giorni è apparsa triste, sconsolata e visibilmente smagrita: la moglie di William sta soffrendo molto la sua lontananza. "Kate è entrata nel panico perché ora si trova a gestire da sola gli impegni di Harry e Meghan", rivela la fonte. Però secondo i ben informati, anche le cugine Beatrice e Eugenie di York, presto o tardi, dovrebbero assumere ruoli di rilievo per colmare il gap.

"Kate ora comanda su William" ​Il retroscena sulla Royal Family. Gli esperti di corte hanno analizzato la mimica facciale di Kate Middleton e del Principe William, e affermano che tra i due è la duchessa a essere la vera leader della famiglia. Carlo Lanna, Domenica 26/04/2020 su Il Giornale. Amati e invidiati da tutti, i Duchi di Cambridge ad oggi sono la coppia reale più solida della dinastia del Windsor. Sposati dal 2011 e con tre figli a seguito, Kate Middleton e il Principe William sono il fiore all’occhiello della royal family. Lo affermano le fonti di palazzo, come lo affermano ancora gli esperti di corte che analizzano e commentano ogni loro mossa. Di recente, come ha riportato il The Sun, due royal watcher hanno studiato la mimica facciale e le dichiarazioni dei duchi di Cambridge in alcune video-chiamate di lavoro a cui hanno preso parte nel corso delle ultime settimane, e hanno affermato con estrema sicurezza: "Kate è la vera leader della famiglia". Il carattere deciso della Middleton da sempre è stata una delle particolarità che ha contraddistinto la duchessa a corte. Lei è una moglie amorevole e una madre severa ma giusta, e ha sempre spiccato di fianco a William. Lui, rispetto alla moglie, si è sempre contraddistinto per essere un uomo pacato, dolce e sensibile: il classico bravo ragazzo. Questi atteggiamenti ora sono proprio palesi, almeno come riportano le esperte, le quali ai tabloid inglesi, rivelano che in famiglia è Kate Middleton a "portare i pantaloni". Angela Mollard e Roberta Fiorito su questo non hanno nessun dubbio. Le due esperte hanno passato in rassegna le espressioni e la mimica in due video-chiamate dei duchi. In una di queste il principe era molto a disagio mentre la Middleton era solare e allegra; in un’altra Kate avrebbe addirittura ripreso il marito più volte. "Kate ha un bel caratterino. Riesce a dare l’idea di essere a suo agio in qualsiasi contesto – affermano le esperte -. E’ molto organizzata rispetto a William. Per questo durante le conversazioni è lei che ha le redini. Ha paura che il marito possa fare troppe gaffe". Proprio nella seconda video-chiamata, quella più informale, Kate Middleton ha ripreso (bonariamente) William chiamandolo "musone" e accusandolo di mangiare troppo cioccolata. "Ha un scendente sul principe – continuano le due esperte di corte -. Ciò che lei dice per William è legge. Ma questo non deve essere vista come una dinamica negativa. La Middleton gioca a fin di bene con i difetti del marito – aggiunge -. È solo per far trasparire un’immagine di una famiglia normale. Lei non ha un carattere dominante. È solo se stessa". È la duchessa quindi la vera donna di casa, secondo le dichiarazioni. Forse è proprio questo il segreto di una relazione così duratura?

Spunta una foto di Kate Middleton da adolescente. In concomitanza con il viaggio di Kate Middleton e del principe William in Galles, spunta una foto inedita della duchessa di Cambridge adolescente. Francesca Rossi, Venerdì 07/02/2020, su Il Giornale. In occasione del viaggio del principe William e di Kate Middleton in Galles il Daily Mail ha tirato fuori dal cilindro una foto inedita di una (non ancora) duchessa adolescente. Lo scatto non è stato pubblicato per caso. Infatti la foto è stata realizzata alla St. Andrew’s School di Pangbourne, nel Berkshire (Galles) dove la futura regina consorte d’Inghilterra ha studiato dal 1986 ed è tornata in visita ufficiale lo scorso 4 febbraio. Kate Middleton ha ricordato i bei tempi andati dichiarando: “Voglio trasmettere ai miei bambini quello che ho appreso qui”. Durante il giro della scuola Kate ha potuto rincontrare il suo professore di francese e di tedesco, Kevin Alford, anche lui presente nell’ormai famosa fotografia. Secondo Vanity Fair la duchessa avrebbe riconosciuto subito il suo ex insegnante ed esclamato: "Il mondo è proprio piccolo" prima di fermarsi a chiacchierare con lui. Come spiega Elle la St. Andrew’s non è esattamente una scuola economica, dato che la retta dovrebbe aggirarsi sulle 16.950 sterline l’anno, ma i Middleton vi hanno iscritto tutti e tre i figli. Chi avrebbe mai detto che la timida ragazzina della fotografia sarebbe tornata in quel luogo in visita istituzionale, come duchessa di Cambridge e moglie del futuro re d’Inghilterra? Il professor Alford ha rivelato al magazine Hello: “Ho aspettato questo momento per più di venti anni" e ha proseguito: "Non l’ho più vista dal giorno in cui tornò a trovare il fratello James, quando aveva 14 anni”. Infine ha precisato: “Ovviamente tutti noi abbiamo seguito l’evoluzione della sua carriera. La sua fu una splendida classe di ragazze e andavano tutte molto d’accordo”. Kate Middleton frequentò la St. Andrews dopo il ritorno della famiglia dalla Giordania. Il periodo della scuola, però, non fu sempre così felice. La duchessa frequentò anche un'altra scuola nel Galles, la Downe House di Newbury, ancora nel Berkshire. Come racconta l'esperta Katie Nicholl, purtroppo proprio lì la duchessa sarebbe stata vittima di bullismo a causa della sua timidezza. La brutta esperienza l'avrebbe spinta a lasciare la scuola per iscriversi alla Marlborough College. Lo scatto che oggi possiamo guardare ci rimanda una Kate Middleton naturalmente molto lontana dalla donna sicura ed elegante che è oggi, eppure è perfettamente riconoscibile. Soprattutto il sorriso non è stato alterato dagli alti e bassi della vita. I cambiamenti avvenuti in lei durante tutti questi anni non sono definibili come veri e propri “stravolgimenti”, almeno in apparenza. Essere diventata duchessa di Cambridge, aver avuto tre figli e vivere a corte ha inevitabilmente modificato il comportamento e l’immagine della duchessa, eppure è come se fosse stata rispettata un’ideale consequenzialità in questa evoluzione da ragazza a madre e royal. Quasi fossero nel DNA (o destino?) di Kate Middleton. Come fossimo in un paradosso, in quella ragazzina alta e magra vi era già la duchessa e la donna che sarebbe diventata, almeno in potenza. Kate è cambiata, eppure sembra non essere cambiata affatto. Si è realizzata e tutto in lei si è modificato pur rimanendo com’è (Tancredi de Il Gattopardo avrebbe annuito).

Erica Orsini per “il Giornale” il 17 febbraio 2020. Le nausee mattutine, le notti insonni, il continuo senso di colpa di una madre schiacciata tra lavoro e cura di tre figli. Oddio, Kate la perfettina, una volta soltanto Middleton e adesso nientemeno che Duchessa di Cambridge, è la mamma lavoratrice più famosa del Regno Unito. Qualche aiuto in più delle altre ce l' ha di sicuro, ma questo non significa che non possa sentirsi, di tanto in tanto, come una donna qualunque. Una donna che ama i figli e il proprio lavoro, ma che a volte ha dei dubbi su quale ruolo scegliere e molte paure per il futuro che attende i suoi figli. Ebbene sì, anche la madre del futuro re d' Inghilterra fa parte del gruppo globale delle mamme costantemente in sella alle montagne russe dei sentimenti contrastanti. Lo rivela lei stessa in un' intervista a cuore aperto rilasciata alla podcaster Giovanna Fletcher, in cui confessa candidamente le gioie e i dolori di crescere tre figli in una famiglia così speciale e di far fronte a un calendario di impegni sempre più intensi, che poco ormai hanno a che fare con il divertimento. Un'intervista che ha fatto ancora più scalpore soprattutto perché, per la prima volta, Kate si discosta totalmente dall' immagine algida e composta che spesso aveva dato di sé stessa, presentandosi ad esempio al pubblico, poche ore dopo il parto, truccata di tutto punto. Invece alla Fletcher confessa di essersi sentita smarrita dopo la nascita di George. «Anche se durante il parto ho avuto ogni supporto possibile - ha spiegato - quando ti mandano a casa con il tuo primo figlio in braccio, ti chiedi sempre: ce la farò ad essere una buona madre?». In realtà che Kate lo sia e si diverta a stare con i suoi bambini è evidente, anche perché ha sempre voluto occuparsene in prima persona e se li è sempre portati dappertutto, almeno quando poteva. Proprio per questo ha ammesso «il senso di colpa di assentarsi per lavoro, di non poterli andare a prender a scuola». «È inevitabile sentirsi così. E qualunque genitore vi dica il contrario sta mentendo! - ha aggiunto - È normale avere dei dubbi, farsi delle domande e chiedersi se hai preso la decisione giusta. È qualcosa che inizia dal momento in cui nasce il tuo primo figlio». Per fortuna la vita di una Duchessa può essere ragionevolmente piacevole per cui Kate scherza sulle piccole difficoltà tecniche. Racconta di quando, con l' arrivo di George, la sua vita e quella del marito William, cambiarono per sempre, visto che quel despota del neonato scambiava il giorno per la notte. «William si chiedeva continuamente: Oh santo cielo, quindi essere genitori è questo? - rivela - Ci è voluto un po' di tempo per assestarci». Eppoi spiega anche di quanto possa essere complicato essere mamma e al tempo stesso una donna con uno status diverso, inutile negarlo. Ora che vive in campagna. Ha scoperto «una nuova dimensione della vita» e adora «quando siamo tutti insieme nei campi, tutti incredibilmente sporchi». Senza vestiti lunghi, senza corone e orpelli, solo lei, suo marito e i bambini e qualche animale.

"Kate Middleton teme di essere messa da parte". Dubbi sul ritorno a Londra di Harry e Meghan. A Londra si respirano le paure di Kate Middleton e del Principe William in merito al ritorno di Meghan nella City. Carlo Lanna, Venerdì 28/02/2020 su Il Giornale. Tutta l’attenzione si sposta di nuovo su Harry e Meghan. Gli ex duchi di Sussex, nelle ultime 48 ore, hanno fatto tremare ancora una volta la royal family dato che, come hanno riportato i tabloid, non avrebbero digerito il veto della Sovrana in merito al brand di "Sussex Royal". Tutto questo avrebbe influito sulla fragile stabilità di Kate Middleton e del Principe William. I duchi di Cambridge dopo la Megxit hanno cercato di mantenere un certo equilibrio all’interno della famiglia e ora, con il ritorno sul suolo inglese della chiacchieratissima coppia reale, si teme il peggio. Sia Kate Middleton che William esprimono le loro paure e i loro dubbi a un loro confidente, il quale preferisce restare anonimo, rivelando quanto possono essere incontrollati sia Harry che Meghan ora che non sono più dei reali e non hanno più vincoli imposti dalla Corona. Il Daily Mail, qualche ora fa, ha spifferato tutti i dubbi dei duchi di Cambridge affermando che "William è molto contento di poter trascorrere un po’ di tempo con il fratello", ma aggiunge inoltre che "sua moglie Kate è molto preoccupata perché teme che i media inglesi possano mettere in ombra gli sforzi compiuti nelle ultime settimane per arginare tutte le voci sulla Megxit". Paure più che lecite, eppure come riportano le fonti, né Kate né William, dovrebbero avere problemi. Gli ex Fab4 dovrebbero incontrasi solo ai principi di marzo quanto tutta la famiglia si unirà per celebrare i Giorni del Commonwealth. Fino a qual momento, ognuno di loro, dovrebbe percorrere strade diverse. E le foto e le news trapelate nelle ultime ore, avrebbero già messo a tacere i rumor su Kate Middleton. Per ora sul suolo inglese c’è solo Harry, il quale è volato a Edimburgo per un convegno sulla salute mentale. Meghan è rimasta in Canada insieme al piccolo, ma il suo ritorno a Londra è previsto a breve. Kate, d’altro canto, in tutto questo periodo ha preso in carico anche diversi impegni a cui gli ex duchi di Sussex non hanno portato a termine e, temendo altri gossip su litigi e dissidi, spera solo che l’incontra possa essere pacifico e quanto più tranquillo possibile. Come rivela la fonte, la Middleton ha lavorato duramente in quest’ultimo mese per mettere in ordine la situazione dopo l’urgano Meghan. E temendo di finire in disparte, ha l’impressione che tutto il bene e tutti gli impegni a cui ha partecipato, possano esser dimenticati solo perché la Markle è tornata a "casa". Per scoprire cosa succederà, non resta che attendere il tanto atteso incontro tra le due.

William e Kate: 9 anni di matrimonio, la favola continua. Il 29 aprile del 2011 si univano in matrimonio. Dopo nove anni sono ancora una coppia affiatata, oltre che genitori affettuosi di tre bambini. Oggi più che mai, dopo l'addio di Harry e Meghan, la monarchia inglese punta tutto su di loro. Eva Grippa il 29 Aprile 2020 su La Repubblica. La loro, è la favola che si compie. Quando li abbiamo visti scambiarsi le promesse di fronte e 2 miliardi di spettatori televisivi (più il pubblico presente), quel 29 aprile 2011, abbiamo pensato che quello fosse l'unico finale possibile della loro romantica storia: finalmente il principe William aveva trovato la principessa perfetta per lui, dolce come mamma Diana e raffinata quanto lei, e dopo 10 anni di fidanzamento era riuscito a sposarla. Grazie all'assenso della nonna regina, che tutto sommato in questa ragazza aveva trovato molte doti e aveva accettato di accoglierla in famiglia nonostante non avesse il sangue blu. Catherine Middleton era una vera commoner, una borghese, figlia di due ex assistenti di volo che avevano fatto fortuna come imprenditori, ma aveva studiato assieme a William all'Università di St Andrews e frequentato da sempre le stesse compagnie di amici. Dopo nove anni, si può dire che l'istinto di Elisabetta II non ha fallito: non solo Kate si è rivelata una perfetta duchessa, nonché moglie e madre, ma la monarchia deve molto a lei considerato che in questo decennio è stata più volte nominata tra le donne più eleganti del pianeta a tutto vantaggio dei brand inglesi che la vestono. E in generale dell'economia britannica. Kate Middleton era, ed è ancora nonostante nel frattempo abbia dovuto subìre la concorrenza di Meghan Markle, la royal influencer più amata. Copiatissima sia nei look sia nei tagli di capelli, sempre impeccabile, una vera icona di stile. Kate ha la compostezza imposta dal protocollo ma anche la spontaneità che oggi la monarchia moderna pretende: ride a crepapelle e guarda con occhi innamorati il marito, lo sfida in qualsiasi sport quando assieme visitano associazioni patrocinate, alleva i figli con grande semplicità e li veste con abiti "riciclati", ovvero riutilizzati più volte, proprio come fa lei. Gioca con i suoi bambini come qualsiasi mamma, preferisce girare in jeans ed espadrillas piuttosto che in abiti formali. Con lei accanto, anche l'impacciato William riesce a emergere di più. E anzi, a volte è lei a "bacchettarlo" quando non rispetta il protocollo, e le mette per esempio una mano sulla spalla: Kate ha preso sul serio il suo ruolo e si prepara a diventare una perfetta regina. William e Kate sono la coppia che ha salvato la monarchia inglese, secondo molti, svecchiandola e rendendola di nuovo gradita al grande pubblico dopo anni di scandali e cupezza. Come già per il compleanno del loro terzogenito Louis (23 aprile) i due celebrano l'anniversario in isolamento ad Anmer Hall, la loro residenza di campagna nel Nortfolk. Gli anni scorsi si sono concessi cene romantiche nel loro ristorante preferito, The Crown Inn, a pochi minuti dalla loro tenuta ma quest'anno festeggeranno in casa e in famiglia, assieme ai principini George (6 anni), Charlotte (4) e Louis (2). Si dice che per le coppie l'anno più difficile sia il settimo: per Will e Kate non è stato diverso. Almeno stando alle voci maligne diffuse dai tabloid, secondo le quali nel 2018, quando la duchessa era incinta del suo terzogenito, il marito si sia "distratto" con la compagnia di Rose Hanbury, una sua vecchia conoscenza nonché ex amica di Kate che non a caso, forse, l'aveva bandita da tempo dalla loro cerchia di amici. I rumors sono venuti fuori circa un anno dopo, ma a inizio 2020 la moglie del marchese David de Cholmondeley è riapparsa vicino a Kate Middleton: a Sandringham, per assistere alla messa. Che le due abbiano fatto pace? Kate e William sono ancora molto innamorati, la loro è una coppia solida su cui la monarchia costruisce il suo futuro. Soprattutto dopo l'addio di Harry, fratello di William, e Meghan Markle, che hanno rinunciato ai loro doveri reali, e ai loro titoli, in cambio di piena libertà per poter vivere da persone "normali", o quasi. In passato, i fratelli Windsor hanno condiviso lo stesso ufficio, lo stesso team di comunicazione e lo stesso accont social, KensingtonRoyal; così è stato anche quando è arrivata Meghan Markle nella vita del giovane principe, ma poco dopo le cose sono cambiate. I Fab Four, come erano stati definiti dalla stampa citando i Beatles e i super eroi, si sono presto divisi, con Meghan ed Harry che hanno creato un proprio ufficio di comunicazione, con sede a Buckingham Palace, e un proprio canale Instagram: SussexRoyal. A gennaio 2020, l'addio definitivo alla famiglia reale, ed ora sono a Los Angeles dove conducono una vita indipendente rispetto alla monarchia in cui Harry è nato. L'amata regina ha compiuto quest'anno 94 anni (il 21 aprile scorso) e sebbene sia più in gamba che mai prima o poi dovrà cedere trono e corona a Carlo, suo figlio primogenito, l'erede al trono più vecchio di sempre con i suoi 71 anni di attesa... Ma Carlo non è amato come Elisabetta II, e nemmeno come suo figlio William. Per non parlare di sua moglie Camilla, non più detestata come accadeva ai tempi di Lady Diana ma nemmeno troppo popolare. Più facile vedere Kate, in veste di amatissima regina consorte. Chissà....

Il principe Harry e la sorella di Kate. Passione segreta tra i due reali inglesi? Una biografia svela alcuni retroscena su un possibile flirt tra il Principe Harry e Pippa Middleton, confermando che i due avrebbero avuto una relazione amorosa. Carlo Lanna, Sabato 02/05/2020, su Il Giornale. Sono tanti, tantissimi, i rumor che ogni giorno serpeggiamo sui reali inglesi. Prima Meghan Markle, poi Kate Middleton, rivalità, dissidi e pallide riappacificazioni: a Buckingham Palace il gossip è all’ordine del giorno. La stampa inglese, ora ai ferri corti con la dinastia del Windsor, non ha mai dimenticato un rumor molto piccante che, ben 9 anni fa, diventò un vero e proprio boomerang. Secondo gli esperti, il Principe Harry e Pippa Middleton, sorella della duchessa di Cambridge, in passato avrebbero avuto un flirt. La passione scoppiata tra i due, però, non è stata mai confermata né dai diretti interessati né tanto meno dalle fonti ufficiali di palazzo. Si è tornato però a parlare dell’amore segreto tra Harry e Pippa in vista dell’anniversario di matrimonio dei duchi di Cambridge, e con l’uscita di un libro dal titolo "Exposed", in cui la fotografa e artista Alison Jackson ha racconto il suo punto di vista su diversi scoop di corte. Tra questi? Ci sarebbe anche la passione tra Pippa e il Principe Harry. Era il 29 aprile del 2011 e a Londra si celebrava il royal wedding di Kate e William. E i riflettori non erano puntati solo sui futuri duchi, ma anche su i rispettivi testimoni. Tutti ricordano le foto, le news e i pettegolezzi sull’abito di Pippa che, per giorni, è passato al setaccio da parte della stampa inglese; ma in pochi ricordano gli sguardi complici e i sorrisi che la sorella della sposa e il Principe Harry si sono scambiati durante il matrimonio. Gli esperti, a gran voce, avevano affermato che tra i due ci fosse una forte attrazione. 9 anni fa erano tempi molto particolari per la corona inglese. Le attenzioni era rivolte tutte verso il Principe Harry il quale, almeno in quel periodo, era ancora una mina vagante dato che preferiva uscire a far baldoria con gli amici invece che pensare al rigore di Corte. E in molti hanno visto nella vicinanza di Pippa una sorta di ancora di salvezza per il futuro duca di Sussex. Non solo il matrimonio di Kate, ma i due sono stati avvistati diverse volte insieme. E hanno persino condiviso un volo Londra-Bari per trascorrere in Puglia un week-end con amici in comune. Le cose sono andate diversamente, alla fine di tutto. Harry ha sposato Meghan e Pippa ora sfugge dalla popolarità di corte, ma come fa notare l’autrice della biografia, tra i due l’alchimia era molto forte. Verità o semplice illazione?

Meghan Markle torna in Inghilterra, ma Kate fugge a Dublino. Le tensioni continuano. Meghan Markle tornerà a Londra per qualche giorno, ma Kate e William non ci saranno per evitare altri gossip sul rapporto conflittuale tra le due duchesse. Carlo Lanna, Lunedì 24/02/2020 su Il Giornale. I rapporti tra Kate Middleton e Meghan Markle non sono mai stati idilliaci, almeno come hanno riportato i gossip dei tabloid inglesi. Le due duchesse, da quel che sembra, non sono mai riuscite a conciliare i loro caratteri estremamente diversi. Kate ha sempre rispettato le regole, comportandosi come una vera Regina. Meghan invece ha sempre agito contro il rigore di Corte, non perdendo quei suoi modi da attrice di Hollywwod. Due mondi e due diversi modi di pensare. E nessuna delle due pare sia riuscita a conciliare le loro divergenze. La Megxit, come hanno riportato alcune fonti di Palazzo, pare che abbia acuito ancora di più il rapporto tra le due. Infatti ora Kate e Meghan Markle sono agli antipodi e neanche si rivolgono più la parola. Sulla vicenda è stato il Daily Mail che ha portato un aggiornamento. Il magazine che è sempre in prima linea quando si tratta di rumor e pettegolezzi sui reali inglesi, ha pubblicato di recente un’indiscrezione in merito a quello che sta accadendo tra le due duchesse. Secondo le prime ricostruzioni, Meghan Markle e il Principe Harry, a fine febbraio saranno a Londra per adempiere ad alcuni impegni ufficiali, gli ultimi in quanto duchi. Si dovrebbero trattenere almeno fino ai principi di marzo, quando tutta la famiglia sarà riunita per il Commonwealth Day. Da quel che sembra però, Kate e William, non saranno lì ad attendere il ritorno degli ex duchi. Pare che saranno impegnati in un viaggio ufficiale nel cuore di Dublino, in un viaggio che pare sia stato calendarizzato da tempo. I più attendi però, riportano che la scelta di Meghan di tornare a Londra proprio quando Kate è assente, sarebbe stata una scelta decisa a tavolino da entrambe le parti per fare in modo che i Fab4 non si incontrassero. Sì, perché anche tra Harry e William la situazione non è affatto serena e tranquilla, anche tra di loro non scorre più buon sangue. Quindi il tabloid azzarda l’ipotesi che tutto è stato organizzato per evitare la diffusione di altri gossip di Corte, perché alla fin fine, da entrambe le parti, i rumor sono praticamente all’ordine del giorno. Kate Middleton preferisce evitare le diffusioni di altri pettegolezzi e vola a Dublino insieme al marito. Si incontrerà con Meghan solo alla cerimonia del Commonwealth nell’abazia di Westminister. Ma per come stanno messe le cose, tra le due donne ci saranno solo sorrisi di convenienza. 

Da "rainews.it" il 9 maggio 2020. Quella dell'8 maggio 1945 fu una giornata davvero particolare per la giovane Elisabetta che è stata anche raccontata, in modo romanzato, nel film Una notte con la Regina che trae però spunto da un fatto realmente accaduto. Re Giorgio VI concesse alle figlie Lilibeth e Margaret il permesso di lasciare Buckingham Palace e unirsi, seppure accompagnate da un folta schiera di persone, ai festeggiamenti dei sudditi per le strade di Londra. La stessa Elisabetta ne parlò in un'intervista alla BBC del 1985. "Avevamo paura di essere riconosciute", raccontò la Regina. "Così mi calcai fin sopra gli occhi il cappello dell'uniforme, ma fui ripresa da un ufficiale che era con noi". E ancora: "Penso sia stata la notte più memorabile della mia vita" 

Stefania Saltalamacchia per "vanityfair.it" il 9 maggio 2020. Un mese dopo lo storico discorso in era coronavirus, solo il quarto in quasi 70 anni di regno, Elisabetta II torna a parlare e lo fa in un giorno ben preciso: l’8 maggio 2020, ben 75 anni dopo da quell’8 maggio del 1945 quando il padre, re Giorgio VI aveva annunciato alla radio la fine della seconda guerra mondiale. All’epoca Elisabetta aveva 19 anni, oggi ne ha 94 ed è una monarca esperta e navigata. Sa che deve esserci nei momenti più delicati per la sua nazione. Ora la Gran Bretagna è in lockdown, sta affrontando – come il resto del mondo – la pandemia. La regina, che aveva 13 anni quando scoppiò la guerra nel 1939, fa sapere oggi: «Può sembrare difficile non poter celebrare questo anniversario speciale come vorremmo. Ma lo ricordiamo dalle nostre case, dalle nostre porte. Le nostre strade non sono vuote, sono piene dell’amore e della cura che proviamo l’uno per l’altro», ha continuato Elisabetta, facendo riferimento all’invito del governo britannico: restare a casa, stare lontani oggi per riabbraciarci presto. «E quando guardo il nostro Paese», ha continuato, con la foto del padre Giorgio VI in primo piano sulla scrivania, «E vedo quello che siamo disposti a fare per proteggerci e sostenerci a vicenda, dico con orgoglio che siamo ancora una nazione che quei coraggiosi soldati, marinai e aviatori riconoscerebbero e ammirerebbero». Il discorso della regina è stato registrato nel salotto bianco di Windsor la scorsa settimana. Nel castello poco fuori Londra, lei e il marito Filippo, 98 anni, sono ormai in isolamento da oltre un mese. Parlando dell’inizio della guerra, la regina, allora principessa, ha detto: «La prospettiva sembrava desolante, la fine lontanissima, il risultato incerto. Ma abbiamo continuato a credere che la causa fosse giusta – e questa convinzione, come ha notato mio padre, ci ha portato avanti. “Mai mollare, mai disperarsi”, era quello il messaggio del V-E Day. «Ricordo vividamente le scene esultanti a cui io e mia sorella abbiamo assistito con i nostri genitori e Winston Churchill dal balcone di Buckingham Palace», ha continuato la sovrana, «Il senso di gioia della gente che si radunava fuori e in tutto il Paese, anche se mentre si celebrava la vittoria in Europa, sapevamo che ci sarebbero stati ulteriori sacrifici. Molte persone hanno perso la vita in quel terribile conflitto. Hanno combattuto per poter vivere in pace, in patria e all’estero. Sono morti per la speranza di poter vivere come persone libere in un mondo di nazioni libere. Hanno rischiato tutto in modo che le nostre famiglie e i nostri quartieri potessero essere al sicuro. Dovremmo e li ricorderemo». La pace in Europa, ha aggiunto, la regina da allora è stata mantenuta. E questo è il modo migliore per onorare tutti quelli che dal campo di battaglia non sono mai tornati. Oggi il nemico è invisibile, la lotta è contro un virus, ma il messaggio di Elisabetta II alla Gran Bretagna non cambia: «Mai mollare, mai disperarsi».

Ecco perché la regina Elisabetta II non sarà mai regina d'Inghilterra. Siamo abituati a definire la regina Elisabetta con il titolo “regina d’Inghilterra”, ma in realtà stiamo commettendo un errore dovuto non solo alla complessa “interpretazione” di alcuni titoli nobiliari inglesi, ma anche a una questione geografica. Francesca Rossi, Mercoledì 03/06/2020 su Il Giornale. Se chiedessimo a un passante chi è la regina Elisabetta, o magari gli mostrassimo una sua fotografia senza dire nulla, molto probabilmente ci risponderebbe che la donna ritratta è la regina d’Inghilterra. Nessuno avrebbe da ridire su questa “definizione”, eppure tecnicamente non è corretta. Certo, la sovrana inglese è uno dei volti più riconoscibili a livello mondiale. La sua effigie compare sulle monete di 35 Stati, raggiungendo un primato. Elisabetta II è sul trono britannico dal 6 febbraio 1952, quando aveva solo 25 anni (ma l’incoronazione si svolse il 2 giugno 1953). È la quarta monarca più longeva della Storia. Pensate che il suo regno ha superato perfino quello del re maya Pakal il Grande, che guidò il suo popolo dal 615 al 683. Per diventare la regina più longeva in assoluto Elisabetta dovrà superare altri tre “contendenti”, tra cui il primo in classifica fino a oggi, cioè il Re Sole, che regnò per 72 anni e 110 giorni. Per adesso la regina Elisabetta rimane comunque la sovrana più longeva della storia britannica, dopo aver superato l’antenata Vittoria, sul trono per 63 anni e 216 giorni. Il tempo è decisamente dalla sua parte, l’ha aiutata a diventare un’icona mondiale, una specie di Monna Lisa vivente (chi non conosce il quadro La Gioconda?). Nonostante tutti questi primati e la fama che accompagna la sovrana, però, quasi tutti continuiamo a commettere lo stesso errore quando la indichiamo su una foto, ne parliamo, perfino quando scriviamo di lei. Il fatto interessante è che molto spesso sappiamo di sbagliare, ma l’abitudine, la convenzione e l’obiettivo di una comunicazione facile e rapida ci fanno sorvolare sull’inesattezza. L’equivoco nel titolo di regina d’Inghilterra, però, è di non poco conto e si porta dietro le conseguenze di importanti cambiamenti politici e geografici. Il magazine Express ci spiega meglio la questione. Il titolo di nascita della monarca è Sua Altezza Reale la principessa Elisabetta di York. Dunque Lilibet è nata principessa, ha da sempre il trattamento di altezza reale (lo stesso tolto a Harry e Meghan, per intenderci) ed è la figlia di re Giorgio VI (in carica dal 1936 al 1952). Quest’ultimo non era destinato a regnare e suo padre, Giorgio V (in carica dal 1910 al 1936), lo nominò duca di York nel 1920 (ecco perché la giovane Lilibet ha quel “di York” nel nome). Come sappiamo il fratello di Giorgio VI, Edoardo VIII, abdicò per sposare Wallis Simpson e la storia inglese cambiò in favore di Elisabetta. Quando Giorgio VI morì, il 6 febbraio 1952, sua figlia divenne Elisabetta II, per grazia di Dio, del Regno Unito, della Gran Bretagna, dell’Irlanda del Nord e regina dei suoi altri regno e territori, Capo del Commonwealth, Difensore della Fede. Questo è il titolo completo e ufficiale della regina Elisabetta. Una sovrana un po’ “sfortunata” da un certo punto di vista, poiché all’inizio del suo regno i fasti degli antichi domini indiani e irlandesi erano già Storia. Suo padre fu l’ultimo imperatore dell’India e l’ultimo re di tutta l’Irlanda. Elisabetta II è anche conosciuta con altri titoli non ufficiali. Per esempio in Canada è “Mother of all People”, “Madre di tutto il Popolo”, in Giamaica “The Queen Lady”, “La Signora Regina”. Per i Maori in Nuova Zelanda la regina Elisabetta è “Kotuku”, ovvero “L’Airone Bianco”, alle Isole Fiji “Tui Viti” oppure “Vunivalu”, che significa “regina”, mentre nelle Channel Islands è conosciuta come il Duca di Normandia. Eppure Elisabetta II non è regina d’Inghilterra. A dire il vero l’ultima vera regina d’Inghilterra fu Elisabetta I, la “Regina Vergine”, ultima dei Tudor (in carica dal 1558 al 1603). Per capirne il motivo dobbiamo tornare indietro nel tempo. Come spiega il sito Royal Central per secoli Inghilterra e Scozia sono stati due regni separati e in lotta tra loro. L’Inghilterra era uno Stato unitario dal 927, mentre il Regno di Scozia risale all’843. Quando Elisabetta I regina d’Inghilterra e d’Irlanda morì, nel 1603, non lasciò eredi diretti e a quanto pare non nominò alcun successore. Gli storici dibattono su quale fosse realmente la sua volontà in proposito, ma la verità non è mai venuta a galla. Forse Elisabetta I avrebbe preferito che a regnare dopo di lei fossero i discendenti della sorella, Maria Tudor, ma è probabile che non lo sapremo mai. Questa incertezza portò sul trono l’unico personaggio abbastanza potente da poter rivendicare la Corona, ovvero re Giacomo Stuart di Scozia (1603.1625). Questo sovrano venne incoronato Giacomo VI di Scozia e Giacomo I d’Inghilterra e d’Irlanda. La doppia nomenclatura ci ricorda soltanto che in Inghilterra Giacomo fu il primo re con questo nome, mentre in Scozia vi erano stati altri regnanti omonimi prima di lui. Quando ereditò l'Inghilterra Giacomo era già re di Scozia dal 24 luglio 1567, ovvero quando aveva solo un anno. Con lui, per la prima volta, i regni d’Irlanda, Scozia e Inghilterra vennero, così, unificati. Piccolo dettaglio: Giacomo divenne sovrano d’Inghilterra tramite una proclamazione ufficiale fatta da un consiglio noto come Consiglio di Accessione. Non era mai accaduto prima, ma da quel momento sarebbe divenuta la prassi per l’incoronazione di tutti i monarchi inglesi. L’unione delle Corone sotto un unico sovrano non coincise fin da subito con una effettiva fusione degli Stati, i quali continuarono a mantenere Parlamento e leggi separati (la doppia nomenclatura di re Giacomo è prova evidente di questo). Per l’unificazione ufficiale dovremo attendere l’Atto di Unione del 1707, quando Inghilterra e Scozia unirono i loro destini divenendo il Regno Unito di Gran Bretagna. Questo nome deriva da quello dell’isola più grande d’Europa, la Gran Bretagna appunto, che è anche la più estesa dell’arcipelago britannico. Il Regno d’Irlanda, invece, venne inglobato solo nel 1801 e la denominazione del nuovo Stato cambiò di nuovo in Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda (infatti dire Gran Bretagna per intendere l’intero Regno Unito sarebbe improprio, benché ormai sia un’abitudine consolidata). Nel 1922, dopo la Guerra d’Indipendenza irlandese (1919-1921) che vide sconfitti gli inglesi, la situazione politica cambiò ancora. Infatti il Trattato anglo-irlandese post-bellico lasciò alla Corona inglese solo l’Irlanda del Nord. Il cerchio si chiude. Ecco perché la regina Elisabetta non può essere chiamata regina d’Inghilterra e per quale motivo il suo potere non si estende su tutta l’Irlanda. L’Inghilterra ha mutato il suo volto politico. Non esiste più in quanto reame o Stato indipendente. Dunque non ha senso definire l'attuale sovrana "regina d'Inghilterra". Oggi la regina Elisabetta regna sui territori conosciuti con il nome di "Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord". Domini che comprendono, oltre all’Irlanda del Nord, la Scozia (con buona pace di Sean Connery), il Galles e, appunto l’Inghilterra.

La regina Elisabetta (prima) faceva il meccanico. La regina Elisabetta non smette mai di stupire con la sua vita piena di esperienze, come quella che la vide meccanico in tempo di guerra non solo per dovere verso la patria, ma anche per passione. Francesca Rossi, Martedì 28/04/2020 su Il Giornale. La regina Elisabetta è una donna che sfugge alle definizioni. Quando pensiamo di sapere tutto su di lei e di conoscerla abbastanza bene, vengono fuori nuovi dettagli sulla sua vita piena di avvenimenti felici e anche dolorosi. Capita persino di trovarsi di fronte ad aneddoti conosciuti ma arricchiti da ulteriori dettagli che ne cambiano la prospettiva e, di conseguenza, anche l’idea che ci eravamo fatti. Avrete sentito parlare dell’impegno della regina Elisabetta come esperta di motori durante la Seconda Guerra Mondiale. Il 22 aprile scorso, in occasione del 94esimo compleanno di Sua Maestà, la ITV ha mandato in onda un documentario dedicato proprio alla vita della sovrana in tempo di guerra, dal titolo "Our Queen At War". Durante il programma sono state diffuse le fotografie della giovane Elisabetta, allora 18enne, alle prese con motori e cambi ruote delle automobili. L’allora principessa dovette frequentare un corso di addestramento presso l’Auxiliary Territorial Service, ramo femminile della British Army, prima di diventare autista e meccanico. Nelle foto la vediamo in divisa, altro particolare molto interessante e per certi versi inusuale. Non tutti sanno che dietro a questi scatti c’è una storia di passione e ribellione. Di solito ci viene raccontato che la regina Elisabetta divenne un’abile esperta di auto per dovere verso la patria in un momento tragico della Storia mondiale. Tutto vero, ma c’è di più. Lilibet amava davvero il rombo dei motori. Si arruolò e compì l’addestramento nonostante il parere contrario del padre, re Giorgio VI. Alla fine i due raggiunsero un compromesso. La ragazza venne lasciata libera di inseguire la sua passione a patto di tornare a dormire ogni sera al Castello di Windsor dove, secondo il sovrano, sarebbe stata più al sicuro. La regina Elisabetta, però, non fu un’eccezione. Come racconta Cosmopolitan, in quegli anni l’ATS cercò di coinvolgere le donne nello sforzo bellico, di spingerle a superare dei limiti imposti per convenzione alle donne e imparare a fare mestieri faticosi, da sempre giudicati maschili come, per esempio, il meccanico o il magazziniere. La regina Elisabetta e altre 190mila coetanee colsero al volo l’opportunità di dimostrare di essere in grado di svolgere lavori pesanti, trasformando passo dopo passo il caos, la sofferenza causati da un evento drammatico come quello della guerra in un cammino più delineato e nuovo verso l’emancipazione delle donne. Dopo le suffragette le giovani inglesi, tra cui Lilibet, gettarono le basi per una nuova interpretazione della femminilità. La regina Elisabetta, per esempio, fu la prima nella royal family a ricoprire un ruolo nei servizi militari, partendo dal grado di sottotenente fino ad arrivare a quello di comandante junior. Negli anni del conflitto venne intervistata dal magazine Life e dichiarò di essere felice della “carriera” di meccanico e, soprattutto, di poter partecipare a eventi che sarebbero rimasti nella memoria collettiva. Elisabetta si rendeva conto di essere una testimone della Storia, ma anche di aver dato, con la sua passione, un contributo concreto alla salvezza della sua nazione. I giornali dell’epoca la soprannominarono “Princess Auto Mechanic”. Quando la guerra finì la regina Elisabetta scese in strada a festeggiare con i sudditi e sembra che di quel periodo le sia rimasto un bellissimo ricordo. Le piaceva stare in mezzo alla gente, essere attiva, sporcarsi le mani perfino nel deposito reale delle Rolls Royce. Lilibet era sempre pronta a usare la sua chiave inglese e per lei le macchine non avevano più segreti. Questo passaggio della sua vita ritorna, benché in sottofondo, nel discorso alla nazione inglese del 5 aprile 2020. Quando la regina Elisabetta ha detto che vinceremo sul coronavirus e torneremo a riabbracciarci, potevamo quasi vedere ancora in lei lo spirito vivace di quella ragazzina che ha trovato in una passione il motivo per sperare, affrontando la guerra con la consapevolezza che tutto passa, anche i drammi peggiori.

La Regina Elisabetta II: «Ho messo l’apparecchio ai denti, direi che ne è valsa la pena». Pubblicato giovedì, 20 febbraio 2020 su Corriere.it da Simona Marchetti. Per perfezionare il suo regale sorriso e imparare come dispensarlo ai sudditi, Sua Maestà non si è limitata a fare semplicemente pratica per anni davanti a uno specchio, ma è anche ricorsa a un aiuto professionale, mettendo l’apparecchio per raddrizzare i denti. A rivelare questo segreto beauty è stata la stessa regina Elisabetta II durante la sua recente visita per l’inaugurazione dei nuovi locali della Royal National ENT e dell’Eastman Dental Hospitals, dove ha incontrato lo staff medico e infermieristico e ha anche scherzato con alcuni bambini che stavano aspettando di mettere il tanto temuto apparecchio. «Ho messo anche io i fili di ferro ai denti per raddrizzarli – ha raccontato la 93enne sovrana, parlando con la piccola Ilia Aristovich, di 10 anni – per fortuna è stato molto tempo fa, ma penso che alla fine ne sia valsa la pena». Da sempre coinvolta in prima persona nelle visite agli ospedali, la Regina ha sfoggiato il consueto look a tinte forti: cappotto viola monopetto, abbinato a un cappello a tesa larga nella stessa tonalità brillante e accessoriato con una spilla di grande impatto, guanti neri e l’immancabile borsa Launer al braccio. Come viene ricordato sul «People», Sua Maestà non è il solo membro della famiglia reale ad aver messo l’apparecchio per sistemare i denti: anche il principe Harry e il fratello William lo hanno fatto durante la loro adolescenza (il primo venne immortalato dai paparazzi con i denti racchiusi dall’imbragatura di metallo nel 1999, durante la consueta passeggiata di Natale della famiglia reale) e lo stesso è capitato alle principesse Beatrice ed Eugenia durante i loro anni da teenager.

Novella Toloni per "ilgiornale.it" il 14 febbraio 2020. Tutto finito. Lo staff del principe Harry e Meghan Markle è stato definitivamente smantellato. I duchi hanno licenziato i quindici dipendenti che fino a oggi li avevano seguiti negli impegni istituzionali fuori e dentro alla Gran Bretagna. Si tratta del segnale più forte lanciato dai Sussex dopo la rottura con la famiglia reale. Lo staff di Harry e Meghan era stato avvertito subito dopo l’annuncio di abdicazione dello scorso 8 gennaio, ma fino ad oggi il loro rapporto di lavoro non si era formalmente risolto. Con il licenziamento si fa dunque sempre più chiaro il disegno di Harry e Meghan che nel Regno Unito non vogliono più tornare stabilmente. La conferma dei licenziamenti arriva dal Daily Mail che, in esclusiva, fa il punto sul futuro dei quindi lavoratori che fino a oggi si erano dimostrati leali a Harry e Meghan. "Data la loro decisione di fare un passo indietro - spiega una fonte vicina al tabloid britannico - non è più necessario un ufficio a Buckingham Palace. Mentre i dettagli sono ancora in fase di definizione e si stanno compiendo sforzi per riassegnare le persone all'interno della famiglia reale, purtroppo ci saranno alcuni licenziamenti". A fare le valigie sono, dunque, la segretaria privata di Meghan, l’esperta capo delle comunicazioni, il capo di gabinetto e il responsabile media di Harry, insieme agli altri. Tutti personaggi chiave che hanno lavorato per anni alle spalle del principe e che oggi si vedono costretti a dire addio al loro ruolo. Se da palazzo fanno sapere che solo per alcuni è previsto un reintegro in altre mansioni, tutti gli altri si preparano a cercare un nuovo impiego. La fonte vicina al Daily ha spiegato che mentre la Megxit è stata uno choc totale per l’intero staff, la maggior parte di loro era consapevole del proprio destino con la dipartita dei Sussex, accettando la chiusura dei rapporti lavorativi: "La squadra è molto leale nei confronti del Sussex e comprende e rispetta la decisione che ha preso". Semmai la delusione sarebbe arrivata dalla ricerca di personale americano fatta da Meghan che avrebbe "reso la vita incredibilmente difficile per il loro staff di Palace”. Da quanto si apprende dal tabloid inglese, infatti, i Sussex hanno organizzato dal Canada impegni privati e briefing con il team americano e hanno assunto un designer canadese per creare un nuovo sito web senza il coinvolgimento dei consulenti reali. L’ultimo grande smacco della coppia reale al suo staff inglese.

Harry e Meghan, via al licenziamento dello staff e ultimi impegni ufficiali. Pubblicato venerdì, 14 febbraio 2020 su Corriere.it da Luigi Ippolito. Harry e Meghan hanno bruciato i ponti alle spalle. I duchi di Sussex hanno chiuso la loro «corte» a Buckingham Palace e licenziato tutto lo staff: un segno evidente che non hanno più intenzione di tornare in Gran Bretagna e che vivranno definitivamente in Canada. Eppure a inizio gennaio, quando avevano annunciato il passo indietro rispetto alla famiglia reale, avevano promesso che si sarebbero divisi fra le due sponde dell’Atlantico. Non è così: ora hanno tagliato del tutto i legami. L’ultimo impegno ufficiale sarà a inizio marzo, quando Harry presenzierà alla giornata del Commonwealth a Londra: poi via, verso una nuova vita. I contorni della quale si stanno già delineando. Meghan ha ripreso attorno a sé lo staff che la seguiva nella sua carriera di attrice: il manager, l’agente, l’avvocato. E soprattutto si è affidata a una discussa agenzia americana di pubbliche relazioni, che in passato aveva rappresentato lo stupratore Harvey Weinstein e il pedofilo Michael Jackson. Questo significa che Harry è sempre più dipendente da Meghan: non ha più accanto a sé la famiglia né i suoi collaboratori ed è invece circondato dalla corte dei miracoli della moglie. Una situazione non facile, per un giovane la cui salute mentale è sempre stata molto fragile. La coppia intanto non ha perso tempo nel monetizzare il nuovo status di celebrities internazionali. La loro prima apparizione pubblica è stata in Florida, dove hanno tenuto un discorso (strapagato) di fronte ai banchieri di JP Morgan, uno dei colossi finanziari di Wall Street. E si dice che ora siano in trattativa con Goldman Sachs, l’altra super banca, per degli impegni futuri.

La security di Harry e Meghan: "Trattati come domestici". Piovono nuove polemiche su Harry e Meghan, stavolta sono gli uomini della loro security a lamentarsi di essere trattati dai duchi alla stregua di domestici e di dover svolgere mansioni che non sono di loro competenza. Francesca Rossi, Martedì 04/02/2020, su Il Giornale. Harry e Meghan stanno attraversando un momento piuttosto complicato. La Megxit e tutte le polemiche conseguenti non li hanno certo aiutati a ritrovare la serenità e i guai non sembrano finiti. Ci pensa il Sun a scagliare contro i duchi un nuovo dardo avvelenato sotto forma di articolo. Il tabloid sostiene che Harry e Meghan tratterebbero gli uomini della security alla stregua di domestici, affidando loro mansioni che esulano dall’unico dovere per cui sono stati assunti, ovvero proteggere l’integrità dei Sussex nella loro nuova quotidianità canadese. A proposito delle guardie del corpo di Harry e Meghan il Sun scrive: “La gente del posto li vede spesso mentre fanno la spesa in un negozio di alimentari che Meghan adora” e rincara la dose: “Altre volte i bodyguards vanno a una nota caffetteria, Tim Hortons, a ritirare le ordinazioni”. Il tabloid pubblica anche delle fotografie che dovrebbero avvalorare questa tesi. Non solo. Ci sarebbe anche la testimonianza di un insider della sicurezza che confessa al Sun: “I ragazzi sono felici di svolgere il loro lavoro, ma così si sentono trattati come dei domestici” e prosegue: “Sono agenti di protezione, esercitati a difendere da vicino una persona. Non devono fare altre commissioni, è pure pericoloso: sì, perché se dovesse succedere qualcosa, loro non possono permettersi di essere nel posto sbagliato al momento sbagliato”. È impossibile dare torto a ciò che la fonte spiega riguardo ai doveri di un perfetto bodyguard. Il lavoro nella security è di enorme responsabilità, dal momento che in ballo vi è la vita e l’incolumità di una persona. Il punto, però, non è questo. Harry e Meghan trattano davvero le loro guardie de corpo come fossero camerieri o valletti? Questa è la vera domanda. È possibile che commettano una leggerezza simile, oppure siamo di fronte a un nuovo attacco della stampa britannica contro i Sussex? Non lo sappiamo. Non abbiamo prove certe e, almeno per ora, i diretti interessati non hanno rilasciato dichiarazioni in merito. Tuttavia potremmo formulare delle ipotesi. Per esempio può darsi che Harry e Meghan abbiano chiesto agli uomini della sicurezza di svolgere una commissione per loro una volta o due. Potrebbe accadere, benché vi sia una componente non trascurabile di rischio. Oppure per qualche motivo a noi ignoto potrebbero essere stati gli stessi uomini della sicurezza a consigliare ai duchi di non uscire in un determinato momento, offrendosi di svolgere un compito urgente al posto loro. Se così fosse, potremmo immaginare che i bodyguards si siano organizzati in modo da garantire comunque la sicurezza di Harry e Meghan, magari dividendosi le mansioni. Vanity Fair rivela che intorno ai duchi di Sussex graviterebbero circa 15 agenti di sicurezza, alcuni canadesi, altri arrivati direttamente da Londra. La questione della protezione di Harry e Meghan ha già sollevato un polverone all’indomani della Megxit. I costi sarebbero molto alti e oscillerebbero fra i 3 e i 6 milioni di sterline. Denaro che i contribuenti canadesi non hanno alcuna intenzione di sborsare. Non è ancora chiaro chi pagherà questa spesa non indifferente, tuttavia non è da escludere che almeno gli agenti inglesi possano essere stipendiati dalla Corona (cioè dai contribuenti inglesi).

DAGONEWS l'11 febbraio 2020. Si è scagliata senza pietà contro i duchi di Sussex la femminista Germaine Greer che ha lanciato un brutale attacco a Meghan: l'81enne, intervista a “60 Minutes” Australia, si è chiesta se l’ex attrice 38enne stia fingendo di amare il principe Harry. «Tutto quello che posso pensare è che è meglio che sia innamorata. Se ha fatto finta tutto questo tempo, che squallore. Quanti orgasmi ci vorranno? Quanti gemiti falsi?». Lo scrittrice poi è passata a parlare del loro matrimonio del maggio 2018, definendolo "terribile". «Anche le nozze sono state terribili, perché era pieno di persone del mondo dello spettacolo, come se Meghan vivesse in un mondo completamente artificiale. Il punto è che il mondo dello spettacolo  non è reale e non ti sosterrà».

Novella Toloni per ilgiornale.it l'11 febbraio 2020. Non c’è pace per la famiglia reale che continua a perder "pezzi". Peter Phillips, 42 anni, primo nipote della regina Elisabetta divorzia dalla moglie Autumn Phillips. Da settimane circolavano indiscrezioni su un’imminente separazione nella famiglia reale. Le voci avevano interessato prima il principe William e Kate, poi il principe Carlo e Camilla, ma la verità è venuta a galla solo oggi. Il divorzio reale ci sarà ma sarà quello del nipote prediletto della regina, Peter Phillips e della sua compagna. Solo pochi giorni fa il nome di Peter Phillips era tornato alla ribalta della cronaca per aver prestato volto e voce in una campagna pubblicitaria cinese sul latte. Oggi la scioccante verità. La notizia è trapelata nelle ultime ore sul Daily Mail e sta facendo pian piano il giro del mondo. Fonti vicine alla coppia parlano di un Peter Phillips "scioccato e devastato" dalla rottura del suo matrimonio durato dodici anni. A mettere la parola fine alla relazione sarebbe stata la donna, Autumn Phillips 41 anni, una delle predilette di sua Maestà insieme al nipote. La rottura ha lasciato profondamente scossa regina Elisabetta II che da ormai due anni è costretta a fronteggiare continue crisi e tracolli interni alla sua famiglia. Secondo il Daily Mail la fuga in Canada di Harry e Meghan avrebbe influenzato la decisione di Autumn di chiudere il suo matrimonio per tornarsene nella sua terra natia, proprio in Canada. Se così fosse con lei potrebbero lasciare definitivamente il Regno Unito anche le due figlie della coppia Savannah, 9 anni, e Isla, 7 anni. Le fonti hanno rivelato al Daily: "Peter è assolutamente devastato da questo e non ha capito che il suo matrimonio stava crollando. Pensava di essere felicemente sposato e di avere la famiglia perfetta con due adorabili figlie. Ma ora è sotto choc". Anche la regina Elisabetta II non avrebbe preso bene la notizia, soprattutto perché Autums era una delle sue favorite all’interno della royal family e questa decisione choc avrebbe avvalorato quello che ormai è sotto gli occhi di tutti: la famiglia reale si sta sgretolando. Autumn e Peter si sono conosciuti nel 2003, durante il Grand Prix di Montreal in Canada, dove entrambi lavoravano. Dopo una frequentazione di alcuni anni, Peter Phillips e Autumn convolarono a nozze nel 2008. Le foto del loro matrimonio vennero vendute alla rivista "Hello!" per 500mila sterline e il fatto fece scandalo. Per il popolo e i media la coppia aveva sfruttato il suo status di reali per far soldi, ma in fondo non avendo titoli regali vendere in esclusiva il proprio matrimonio era lecito. Dopo dodici anni di matrimonio però la loro relazione è giunta al capolinea. L’evento però sembra essere nel dna della famiglia visto che anche la principessa Anna, madre di Peter Phillips, si separò ufficialmente dal marito il capitano Mark Phillips nel 1992. Peter fu il primo nipote, insieme alla sorella Zara, a non ottenere il titolo nobiliare a causa del rifiuto del padre al titolo di marchese, riconoscimento che la regina gli offrì poco prima di sposare la principessa Anna.

Principessa Beatrice: la Regina le offre Buckingham Palace per il ricevimento di nozze con Edoardo Mapelli Mozzi. Pubblicato martedì, 04 febbraio 2020 su Corriere.it da Simona Marchetti. La notizia che al principe Andrea erano stati tolti tutti gli incarichi reali a tempo indeterminato, complice lo scandalo Epstein, aveva gettato un’ombra non da poco sul matrimonio della figlia Beatrice con Edoardo Mapelli Mozzi, atteso entro l’anno. Ma a restituire il sorriso all’amata nipote ci ha pensato la Regina Elisabetta II in persona, offrendo ai futuri sposi Buckingham Palace come location per il ricevimento. «Bea era contentissima e ha accettato con enorme gratitudine – ha raccontato al Daily Mail un amico non meglio specificato della principessa —. Si è trattato di un gesto davvero speciale, perché sarà il primo ricevimento di nozze che si terrà a Buckingham Palace da quello di William e Catherine del 2011». Sebbene per il momento del matrimonio della primogenita del principe Andrea e Sarah Ferguson si sappia pochissimo (la location della cerimonia non sarebbe stata ancora stabilita, ma dovrebbe essere in una zona centrale di Londra), quello che è certo è che la coppia ha tanti amici e, di conseguenza, la scelta su dove organizzare il ricevimento a Palazzo potrebbe non essere così scontata: se infatti la Cappella Reale e la Cappella della Regina sono considerate troppo piccole, la Cappella delle Guardie a Wellington Barracks – che sembrava l’ipotesi più probabile – potrebbe invece risultare fuori luogo a causa del ruolo di Colonnello delle Guardie dei granatieri ricoperto da sempre dal Duca di York, ma ora in dubbio dopo lo scandalo Epstein. «Sua Maestà non vuole che Beatrice possa soffrire in alcun modo a causa dei problemi che sta vivendo suo padre», ha precisato una fonte di Palazzo. Gli ultimi tre matrimoni reali – ovvero, quello della sorella di Beatrice, Eugenia, con Jack Brooksbank; quello del principe Harry con Meghan Markle e quello di Lady Gabriella Windsor con Thomas Kingston — si sono tenuti al castello di Windsor.

DAGONEWS il 5 febbraio 2020. Dalle battutine di Brad Pitt all’inchino di Joaquin Phoenix fino al discorso di Ricky Gervais ai Golden Globes: pare che la nuova tendenza di attori e comici sia quella di perculare la corona reale inglese. La monarchia, una volta vista come intoccabile, è diventata oggetto di scherno. «Le star di Hollywood non capiranno mai le sfumature e l’eredità dei reali – ha commentato l'esperto di etichetta londinese William Hanson - Stanno usando la famiglia della Regina come facili bersagli per il loro umorismo».

L’inchino di Joaquin Phoenix. La star di Hollywood, 45 anni, si è inchinata di fronte a William dopo la cerimonia dei BAFTA: per alcuni fan si è trattato di un gesto di rispetto mentre per altri si è trattato semplicemente di una presa in giro. Di certo è stato un gesto non convenzionale visto che, davanti ai reali, gli uomini possono semplicemente chinare il capo, mentre alle donne è richiesto l’inchino. Tuttavia William non ha fatto una piega e sembrava entusiasta di parlare con l’attore per esprimergli il suo apprezzamento per la sua interpretazione in Joker.

Il discorso di Brad Pitt. Brad Pitt, 56 anni, non era ai BAFTA per ritirare il premio come miglior attore non protagonista e ha chiesto a Margot Robbie, co-protagonista di “Once Upon A Time a Hollywood”, di leggere un discorso per lui. L’attore non si è risparmiato e ha scherzato sulla “fuga” di Harry e Meghan: «Chiamerà questo premio Harry Harry perché è davvero entusiasta di riportarlo negli Stati Uniti con lui – ha detto Robbie – Sono le sue parole non le mie». La telecamera ha immediatamente fatto una panoramica su William e Kate che sono stati visti ridere di cuore insieme alla folla presente in sala. La battuta è stata gradita sui social.

Non convince Rebel Wilson. Il principe Harry non è stato l'unico reale a finire nel mirino ai BAFTA. L'attrice Rebel Wilson ha fatto una battuta sul principe Andrew, che l'anno scorso si è ritirato dalle funzioni reali dopo lo scandalo e la sua amicizia con Jeffrey Epstein. Presentando il premio come miglior regista, Rebel ha scherzato: «È davvero bello essere qui al Royal Andrew ... uh, Royal Harry ... no, scusate, Royal Phil ... in questo palazzo reale ...»' La battuta non le è venuta benissimo e ha lasciato impietriti William e Kate. Anche su Twitter hanno commentato che si è trattata di una battuta fuori luogo e poco divertente.

Ricky Gervais ai Golden Globes. I reali erano già stati presi di mira ai Golden Globe lo scorso 5 gennaio da Ricky Gervais. Nel suo monologo, il comico ha usato la controversa relazione di Andrew con il pedofilo Jeffrey Epstein per perculare Leonardo  DiCaprio: «C’era una volta a hollywood dura tre ore. Dicaprio è andato alla prima e alla fine della proiezione la sua ragazza era diventata troppo vecchia per uscire con lui. Persino il principe Andrea gli ha detto: 'Leo, hai quasi 50 anni, vedi che devi fare…'»

Enrico Franceschini per “la Repubblica” il 2 febbraio 2020. Per chi è stanco di sentir parlare della Brexit, anzi vorrebbe dimenticarla, c' è sempre il tormentone senza fine della famiglia reale britannica a offrire materiale per i tabloid. Stavolta è Beatrice, figlia del principe Andrea (sospeso da ogni ruolo pubblico per il coinvolgimento nello scandalo del miliardario pedofilo Jeffrey Epstein), nipote della regina Elisabetta, cugina di William e Harry. La notizia è che la principessa ha preso carta e penna, per rispondere personalmente ai fans dei Windsor che le hanno scritto congratulandosi per il suo fidanzamento ufficiale con il conte italiano Edoardo (detto Edo) Mapelli Mozzi. «Grazie tanto di avere pensato a noi e averci augurato di essere felici», scrive Beatrice. «Siamo così contenti di sposarci e di cominciare la nostra vita insieme. Con affetto, Beatrice ed Edo». Il messaggio non rivela dove o quando si sposerà la coppia, il cui amore è sbocciato durante una vacanza ad Amalfi, ma lascia intendere che le nozze potrebbero essere imminenti. E, secondo i giornali inglesi, benedette da un regalo speciale: la regina Elisabetta concederebbe alla coppia i saloni di Buckingham Palace per le nozze.

Michaela Bellisario per "iodonna.it" il 4 febbraio 2020. Alla fine la verità esce sempre fuori: Meghan Markle, 38 anni, vorrebbe tornare al cinema. Vuole diventare una star di Hollywood. Stando a fonti di Us Weekly starebbe cercando un agente per giocarsi un futuro nella mecca del cinema. Meglio fingere sul grande schermo di essere una principessa che esserlo davvero nella rigida corte inglese? Chissà. Forse potrebbe essere stato addirittura questo il suo piano dall’inizio. Almeno è quanto ha sottolineato Antonio Caprarica, noto royal watcher di Rai1, in un’intervista a iO Donna.

Ritorno con la Disney. La carriera di Meghan Markle ha preso il volo con la sua partecipazione al serial tv Suits, girato a Toronto. Ora, quindi, ha la possibilità di entrare a Hollywood dalla porta principale. Lo scorso luglio il principe Harry, durante l’anteprima del re Leone a Londra con Beyoncé, ha detto al produttore Bob Iger che “la moglie era molto brava con i voiceover”. L’ex attrice è stata subito scritturata dalla Disney e devolverà il compenso per la charity Elephants Without Borders.

Come Kim Kardashian. Attualmente i duchi di Sussex vivono in Canada, a Vancouver, dopo il “divorzio” dalla famiglia reale e il desiderio di diventare “economicamente indipendenti”. I pubblicitari di tutto il mondo hanno già annunciato che ogni loro attività, discorso, apparizione, ormai è monetizzabile e viene quantificata in centinaia di migliaia di dollari. Nel suo curriculum c’è anche un passato da velina. Secondo il noto giornalista inglese Piers Morgan, Meghan Markle vuole diventare “la Kim Kardashian dei royal”.

Luna di miele italiana per la principessa Beatrice. Ma la regina "censura" il viaggio. Dopo il matrimonio a sorpresa, Beatrice di York e il marito Edoardo Mapelli Mozzi si godono il viaggio di nozze ad Amalfi. Le foto esclusive pubblicate da Chi hanno però indignato sua Maestà che, secondo indiscrezioni, avrebbe impedito che la notizia trapelasse sui tabloid inglesi. Novella Toloni, Mercoledì 19/08/2020 su Il Giornale. Prima il matrimonio celebrato in gran segreto poi la luna di miele "censurata" dalla regina Elisabetta. Non c'è che dire, per la principessa Beatrice questo 2020 non è proprio dei migliori. Le foto del viaggio di nozze italiano con il neo marito, l'imprenditore Edoardo Mapelli Mozzi - pubblicate in esclusiva mondiale sul settimanale Chi - avrebbero fatto infuriare Elisabetta II, tanto da impedirne la diffusione sui tabloid britannici. Esattamente un mese fa, il 17 luglio, Beatrice di York si sposava (in gran segreto) con lo storico fidanzato Edoardo. Dopo il rinvio delle nozze (che si sarebbero dovute celebrare il 29 maggio) dovuto al lockdown imposto nel Regno Unito per contenere la diffusione del coronavirus, la principessa Beatrice ha detto "sì" con una cerimonia riservatissima e con pochissimi invitati. Solo a cose fatte la stampa inglese ha dato la notizia del lieto evento, il primo matrimonio reale della storia dei Windsor celebrato all'oscuro di tutto e tutti.

Dopo lo scandalo del padre, la principessa Beatrice si è sposata (in gran segreto). Poche foto ufficiali, pochi i dettagli della cerimonia e infine la fuga, repentina, degli sposi per la loro luna di miele cominciata in Francia e proseguita in Italia. Un viaggio di nozze che però la regina Elisabetta avrebbe "oscurato", impedendone il chiacchiericcio su tabloid e riviste inglesi. Il servizio fotografico esclusivo pubblicato sul numero di Chi in edicola mostra la principessa Beatrice felice e sorridente nelle limpide acque della costiera amalfitana. Con lei lo sposo Edoardo e il figlio di 4 anni, che l'imprenditore di origini italiane ha avuto da una precedente relazione. Gli scatti, in esclusiva mondiale, non sarebbero piaciuti a sua Maestà e sui quotidiani inglesi non c'è traccia della luna di miele che Beatrice e Edoardo stanno facendo.

La "censura" della sovrana sul viaggio di nozze della principessa Beatrice? La coppia reale ha trascorso solo quattro giorni sulla costa amalfitana, ma tanto sarebbe bastato per far infuriare la regina. A lanciare l'indiscrezione è Dagospia: "Dalla regina al regime? Lo scoop della principessa di Beatrice col neo marito, a mollo nelle acque di Amalfi, è stato preso e gettato nel cestino dal Daily Mail al Sun. No, alle Corte della Beghina Elisabetta le paparazzate, anche nell'azzurro mare d'agosto, non s'hanno da fa e una innocente e famigliare nuotata dei neo sposi non passa la censura dei Windsor". A indurre la sovrana a mentenere un profilo basso sui neo sposi sarebbero stati i crescenti casi di contagio da covid registrati in tutta Europa. Il Regno Unito, negli scorsi giorni, ha imposto la quarantena ai turisti britannici che rientrano da Francia e Olanda e la "puntatina" della principessa Beatrice di York e consorte in Italia potrebbe rientrare in un piano ben più ampio per aggirare l'isolamento imposto dal governo inglese a chi rientra dall'estero. Prima di approdare ad Amalfi, infatti, i neosposi hanno trascorso una settimana in costa Azzurra.

"Fottuto idiota": poi Beatrice ferisce Ed Sheeran con una spada. A anni di distanza dai fatti il manager del cantante inglese ha ammesso le responsabilità della principessa. Il "gioco" al termine di una festa privata costò a Sheeran diversi punti di sutura. Novella Toloni, Giovedì 08/10/2020 su Il Giornale. Fu la principessa Beatrice a sfregiare con una spada d'epoca il volto di Ed Sheeran durante una festa privata a Londra. La verità è emersa. All'epoca la vicenda fece clamore ma non troppo. I fatti vennero "insabbiati" grazie al cantante James Blunt, che per aiutare la principessa Beatrice, dichiarò che Ed Sheeran era un mitomane e che si era ferito da solo al termine di una serata alcolica. Da allora il mistero aleggia su quella folle notte di festa alla Royal Lodge e, oggi, a cinque anni di distanza a rivelare di chi fu davvero la colpa dell'incidente è il manager del cantante britannico. Tutta colpa della figlia del principe Andrea. A vuotare il sacco è stato Stuart Camp, il manager di Ed Sheeran, che ha rilasciato dichiarazioni sprezzanti sul conto della principessa Beatrice durante un'intervista al tabloid britannico Telegraph. Era il 2016, Ed Sheeran e James Blunt erano stati invitati da Beatrice di York a una festa privata alla Royal Lodge. Durante la serata, dopo qualche bicchiere di troppo, il cantante di "Beautiful People" aveva rivelato di aver un desiderio nascosto: essere nominato "Sir". La principessa Beatrice - fresca di nozze - avrebbe assecondato il gioco del cantante, prendendo una spada appesa al muro e simulando l'investitura reale. Nel farlo, però, Beatrice aveva sbagliato mira, sfregiando il volto di Sheeran che dovette ricorrere alle cure mediche e alcuni punti di sutura. Giorni dopo l'accaduto il cantante inglese non si fece problemi a dare la colpa alla nipote della regina Elisabetta. Ma la reale venne salvata da James Blunt, che scagionò la principessa sostenendo che l'amico si era inventato tutto perché ubriaco. Cinque anni dopo il manager di Ed Sheeran ha fatto luce sulla vicenda e ha puntato il dito contro Beatrice di York, parlando con il Telegraph: "Sono diventato piuttosto protettivo su questo. Perché non l'abbiamo mai commentato pubblicamente. Ma alcune persone ci dissero: “Oh, dovreste mentire e dire che non era lei e dire che era qualcun altro'. Ho detto: 'Beh, non stiamo dicendo niente a nessuno. Non sto mentendo, solo perché qualcuno è un fottuto idiota e ha pensato, mi ubriacherò e toglierò una spada dal muro. Stai solo cercando guai”". Un racconto che non lascia dubbi e che assume toni ancora più "accesi" sapendo che, dal quel giorno, i rapporti tra la reale e Ed Sheeran si sono raffreddati: "Non abbiamo più avuto sue notizie da allora". Niente scusa, insomma.

La rivelazione: "Il principe Andrea ha fatto sedere una sua amante sul trono della Regina". Nell'occhio del ciclone per via dei suoi legami con il miliardario pedofilo Jeffrey Epstein, il Duca di York sta affrontando in queste ore anche l'accusa di vilipendio alla Corona, per aver permesso a una sua amante di sedersi sul trono di sua madre la Regina. Sandra Rondini, Lunedì 02/03/2020 su Il Giornale. Il Principe Harry non è l’unico in questi giorni ad essere accusato dai media e dai sudditi di mancanza di rispetto nei confronti della Regina. Stando al Daily Mail il Principe Andrea corteggiò a lungo una top model americana invitandola persino a Buckingham Palace come se fosse la sua di residenza e non il Palazzo istituzionale della Monarchia inglese, lasciandola persino sedere sul trono di sua madre, Elisabetta II. Era il 2000 e la modella era la bionda Caprice Bourret, un nome familiare nel Regno Unito dove ha recentemente partecipato al reality show "Dancing on Ice". Dopo essere stata ricoperta di regali e portata in località da sogno si sarebbe all’improvviso resa irreperibile al Principe Andrea "perché non le interessava davvero", così ha tagliato tutti i ponti all’improvviso. E lui, senza tanti rimpianti, l’ha presto rimpiazzata con una nuova bellezza e poi tante altre ancora, tutte interessate a frequentare il figlio della Regina, già divorziato dalla moglie Sarah Ferguson, quindi single e possibile scapolo d’oro cui mirare. Non è quello che ha fatto Caprice Bourret che, secondo il Sun, avrebbe "spremuto il più possibile la sua gallina dalle uova d’oro prima di liberarsene perché Andrea non le piaceva affatto, lo trovava irritante e noioso, era solo una conquista di cui vantarsi, nulla di più", ha scritto il Sun. "Andrea l’ha portata a Buckingham Palace due volte, e in un'occasione le ha permesso di sedere sul trono della Regina", ha detto una fonte vicina a Caprice al tabloid britannico. E ancora: “Ha individuato un prezioso vassoio che le piaceva e ha chiesto ad Andrea se poteva prenderselo per darlo a sua madre. Lui le ha detto di sì e la madre di Candice è impazzita quando ha visto il regalo!”. La Caprice, che vanta nel suo carnet di conquiste famose anche il cantante Rod Stewart, sembra sia riuscita a tenere su un piano platonico la sua relazione con il Principe Andrea. Da qui la sua insistenza a impressionarla portandola a Palazzo e addirittura facendola accedere alla Sala del Trono. Ma è stato tutto invano. "Ha ottenuto qualche bacio appassionato", scrive il Sun, citando la sua fonte che ricorda bene quanto Caprice lo trovasse "snob, non gli piaceva. Ma come americana, era divertita dall'idea che Andrea facesse parte della Royal Family". Stando al Sun, inoltre, in quei mesi si creo tra Andrea e suo nipote Harry una sorta di gelosia perché il Duca del Sussex, che allora aveva solo 16 anni, "aveva un calendario sexy di Caprice sul muro della sua camera da letto" a Eton, il liceo privato da lui frequentato. La rottura tra Andrea e la modella avvenne quando la stampa iniziò a collegare i loro nomi, insinuando che tra Caprice e il Duca di Yok ci fosse una relazione. "Andrea era un gentiluomo, ma non le piaceva, così quando la stampa cominciò a fare illazioni, Caprice tagliò subito ogni rapporto perché lui non era il suo tipo e non voleva essere accostata al suo nome dai media", sostiene la fonte aggiungendo che "dopo Caprice il Principe Andrea uscì per quasi un anno con una massaggiatrice e ‘guaritrice energetica’ di nome Denise Martell". Una fonte reale ha commentato in proposito che se la notizia dell’aver fatto accedere una common americana alla Sala del Trono fosse vera sarebbe "da prendere molto seriamente", ma il Sun rincara la dose e ricorda che Andrea era "noto per portare a Palazzo i suoi amici famosi e le sue conquiste" per impressionarle, dato che tutti lo frequentavano solo perché figlio di una Regina e "probabilmente la modella non sarà stata l’unica a chiedere di potersi sedere sul trono. Solo l’unica di cui siamo a conoscenza, anche per via della prova costituita dal vassoio in possesso di sua madre". Buckingham Palace non ha ritenuto di rispondere alle richieste di commento avanzate dal Daily Mail anche perché, come nota il tabloid, "con il Principe Andrea già nella povere dopo lo scandalo di Jeffrey Epstein, il fatto che abbia ‘profanato’ e ridicolizzato il trono reale, simbolo da secoli della Monarchia inglese nel mondo, è davvero un’inezia se messa al confronto delle accuse di pedofilia che gli sono state mosse".

Antonello Guerrera per ''la Repubblica'' il 17 febbraio 2020. Il "figlio preferito" di Elisabetta potrebbe aver avuto un' altra amicizia pericolosa ad infangare, ancora di più, il suo nome. Perché ora si scopre che il principe Andrea, già implicato nel caso Jeffrey Epstein con il quale ha avuto una lunga e oggi scandalosa amicizia, ha soggiornato nel 2000 anche nella maestosa magione alle Bahamas di Peter Nygard, il guru della moda canadese-finlandese, di recente accusato di molestie sessuali. Solo tanta sfortuna per il 60enne duca di York nello scegliersi gli amici? O c' è di più? Il caso Nygard complicato quanto quello Epstein, il miliardario americano pedofilo e sfruttatore della prostituzione anche minorile che ospitò più volte negli anni Andrea nelle sue regge nel mondo, dove il principe, secondo la sua accusatrice Virginia Giuffre, avrebbe abusato di quest' ultima per ben tre volte nonostante fosse solo 17enne. Il 78enne Nygard, invece, per ora non è stato incriminato. Ma da un po' di tempo diverse donne lo accusano di averne stuprate in tutto una decina tra 2008 e 2015. Di queste, all' epoca, tre avrebbero avuto 14 anni e altre tre 15. Gli abusi sarebbero avvenuti principalmente proprio nella lussuosa villa alle Bahamas di Nygard. Il quale, secondo le accusatrici che hanno presentato una "class action" a New York, aveva messo su un meccanismo seriale affinché i servitori gli procurassero giovani fanciulle, spesso disagiate o povere, alle quali lui prometteva una carriera nella moda mentre somministrava alcol e droghe per poi violentarle. Sempre secondo i denuncianti, Nygard, per coprire le sue malefatte, avrebbe creato un sistema di corruzione così ampio alle Bahamas coinvolgendo non solo alti gradi della polizia ma anche della politica e "persino un primo ministro". Nygard e i suoi legali negano tutto, categoricamente: «Ripuliremo il nome del nostro assistito», promettono. Ma già negli anni Novanta l' imprenditore della moda aveva subito simili accuse, anche se allora tutto era stato risolto mediante accordi e risarcimenti privati con almeno tre donne coinvolte. E Andrea? Per ora si sa soltanto che nel 2000 soggiornò da Nygard, tra l' altro insieme all' allora moglie Sarah Ferguson. Dopo l' ultima, disastrosa intervista Bbc sul caso Epstein, ieri il Palazzo reale si è limitato a far sapere: "No comment".

Nicola Bambini per "vanityfair.it" il 19 febbraio 2020. Niente, non c’è pace a Buckingham Palace, e ora è di nuovo la volta di Andrea di York. Come se non bastasse lo scandalo Epstein che lo ha spinto ad abbandonare i ruoli reali, il principe è tornato sotto ai riflettori per la sua presunta amicizia con Peter Nygard, magnate della moda finlandese, accusato di recente di abusi sessuali da dieci donne, di cui tre adolescenti all’epoca dei fatti. Sì, perché seppur ad oggi Nygard non sia incriminato di nulla, è un po’ di tempo che viene accusato di stupro da persone diverse: episodi avvenuti tra il 2008 e il 2015 ma che adesso vengono fuori e sbattono l’imprenditore sulle prime pagine dei giornali. E con lui il terzogenito della regina Elisabetta, che pare abbia pure soggiornato nell’estate del 2000 nella maestosa villa di Nygard, alle Bahamas. Proprio in quella magione – stando a quanto riportato dalle accusatrici che a New York hanno presentato una “class action” – sarebbero avvenuti la gran parte degli stupri. A quanto sembra, nessuna donna accusa il principe Andrea, ma per lui si tratterebbe comunque di un’altra «amicizia pericolosa», scomoda, che infangherebbe di nuovo l’immagine pubblica della monarchia dopo la questione Epstein. Il principe sta pagando a caro prezzo i contatti avuti in passato con l’imprenditore americano, accusato di traffico minorile e morto suicida in carcere la scorsa estate: «Mi dispiace aver deluso e messo in imbarazzo la famiglia reale», ha detto pubblicamente Andrea in un’intervista, smentendo comunque le affermazioni di Virginia Giuffre che lo accusa di aver abusato di lei quando aveva appena 17 anni. «Ora, più che mai, è importante che Andrea di York faccia un passo avanti e collabori con le autorità», ha dichiarato Lisa Bloom, avvocato delle accusatrici di Epstein. «Le vittime chiedono giustizia, ascolti le loro voci». In effetti il principe, seppur abbia dichiarato più volte di essere pronto a dare una mano alle indagini, è stato criticato pure dal procuratore di New York: «Zero collaborazione». Se dovesse scatenarsi anche la bufera Nygard, Andrea si troverebbe ancor di più con le spalle al muro.

Luigi Ippolito per corriere.it l'8 giugno 3030. La giustizia americana dà la caccia al principe Andrea. Gli inquirenti Usa hanno chiesto ufficialmente al governo britannico di consegnare il figlio della regina Elisabetta per poterlo interrogare in relazione al caso Epstein, il magnate pedofilo del quale il principe era amico stretto. È una svolta senza precedenti: mai una magistratura, per di più straniera, aveva incluso un membro della famiglia reale in un’indagine criminale. Il Sun, il principale tabloid inglese, ha appreso che il Dipartimento di Giustizia americano ha inviato una richiesta di «mutua assistenza legale» al ministero dell’Interno britannico, scavalcando Buckingham Palace: è una procedura che viene usata in casi criminali e si basa su un trattato del 1994 fra i due Paesi. È una mossa che mette il governo di Londra in una posizione difficile e che non viene certo intrapresa alla leggera: ma probabilmente gli americani si sono decisi a compiere questo passo di fronte al rifiuto di Andrea di collaborare. Se i britannici dovessero acconsentire, si aprirebbero due strade: Andrea potrebbe essere interrogato e firmare una dichiarazione, ma non sotto giuramento; oppure, il principe potrebbe essere costretto a comparire di fronte a un tribunale per fornire una testimonianza giurata. A differenza della regina, Andrea non gode di immunità, anche se potrebbe avvalersi del diritto di non rispondere per evitare una auto-incriminazione: ma gli esperti legali avvertono che un simile atteggiamento potrebbe ritorcersi contro di lui. Già lo scorso gennaio il procuratore americano che indaga sul caso Epstein aveva denunciato la «cooperazione zero» fornita dal principe; e due mesi dopo aveva avvertito che il suo ufficio stava «considerando tutte le opzioni». Andrea è stato accusato da una delle vittime di Jeffrey Epstein, Virginia Roberts, oggi 36enne, di aver fatto sesso con lei in più occasioni quando la ragazza era ancora minorenne. Il principe nega di averla mai conosciuta, ma è un fatto che Andrea fosse in stretti rapporti con Epstein, che aveva organizzato un giro internazionale di ragazzine che offriva in pasto ai suoi sodali. La stessa Virginia ha raccontato di essere stata costretta a partecipare a un’orgia con altre otto ragazze e il principe Andrea.  Lo scorso novembre il figlio di Elisabetta aveva provato a mettersi alle spalle lo scandalo concedendo un’intervista alla Bbc, ma la decisione si era rivelata un boomerang disastroso: come conseguenza, era stato costretto a dimettersi da tutti gli impegni reali. Andrea ha ammesso di aver stretto amicizia con Epstein fin dal 1999: i due si sono incontrati almeno dieci volte e il principe è stato ospite del magnate a New York, a Palm Beach e sulla sua isola privata alle Virgin Islands (quella dove venivano organizzati i festini con le minorenni). Epstein, che era stato poi incarcerato per traffico di minori, venne trovato morto nella sua cella a New York, ufficialmente suicida, lo scorso agosto.

DAGONEWS il 2 giugno 2020. Non c’è pace per il principe Andrea. Dopo la denuncia di Virginia Giuffre e il presunto stupro e la disastrosa intervista alla BBc, adesso arriva il passo indietro definitivo: il duca di York non prenderà più parte agli eventi ufficiali. Sarà un caso, ma per molti appare una strana coincidenza il fatto che la decisione arrivi a pochi giorni di distanza dalla messa in onda su Neflix della nuova miniserie “Jeffrey Epstein – Soldi, potere e perversione”. Se il principe Andrea pensava di essere uscito di scena, tra l’altro rifiutandosi di testimoniare negli Usa, a tirarlo in ballo è Steve Scully, ex dipendente di 70 anni nell'isola caraibica privata di Epstein a Little Saint James, lo stesso che ha rivelato di aver visto Bill Clinton nella residenza del milionario. Circostanza sempre negata dall’ex presidente, ma confermata anche da Virginia Giuffre. La nuova tegola arriva proprio con la messa in onda della miniserie in cui Scully racconta di aver visto il principe a bordo piscina con una ragazzina. Lei era Virginia Giuffre, la stessa della famosa foto a casa di Ghislaine Maxwell e la stessa che sostiene di essere stata violentata. Nel documentario Scully dice: «Ho visto il principe Andrea, penso fosse il 2004, era con una ragazza che a quel tempo non conoscevo. Era giovane, a seno scoperto. Erano impegnati nei preliminari. La stringeva e si strofinava contro di lei. Solo dopo ho saputo che era Virginia Giuffe».

Chiara Dalla Tomasina per "iodonna.it". Non svolgerà più compiti e doveri ufficiali come membro della famiglia reale inglese. Il principe Andrea, 60 anni, dopo aver parlato con la BBC nel novembre scorso in riferimento allo scandalo sessuale legato al pedofilo Jeffrey Epstein, si era temporaneamente ritirato dagli impegni ufficiali. Ma, a distanza di sei mesi, pare proprio che il suo allontanamento dai royal duties sia diventato definitivo. Il figlio prediletto della regina Elisabetta, in quell’occasione, aveva chiesto a sua madre di potersene stare in disparte almeno “nell’immediato futuro”, per far calmare le acque intorno alla sua posizione molto controversa. La sovrana aveva accettato, ma ai tempi questa decisione appariva soltanto temporanea.

Decisione definitiva. Come riporta invece il Sunday Times, pare che questa scelta – drastica, certo, ma necessaria – si protrarrà molto più a lungo nel tempo, probabilmente per sempre. Il principe Andrea, come spiega il giornalista della testata inglese, «sperava che il suo status fosse solo temporaneo, ma le sue speranze sono scomparse» e la casa reale inglese «non ha intenzione di rivedere la sua posizione».

Un libro e un documentario. Tra le presunte vittime nel tristemente famoso giro di schiave del sesso organizzato da Epstein, c’è Virginia Giuffre, che ha rivelato di essere stata costretta, quando aveva solo 17 anni, ad avere rapporti sessuali con diversi uomini, tra cui figura anche il Duca di York. Ora, a gettare benzina sul fuoco sulla vicenda, arriva anche la nuova serie di Netflix Jeffrey Epstein: Filthy Rich e anche un libro dal titolo Prince Andrew, Epstein and the Palace, la cui uscita è prevista per il luglio 2020.

La Regina travolta dallo scandalo: "Andrea è dipendente dal sesso". Il principe Andrea è ancora nell’occhio del ciclone, ma stavolta non a causa dello scandalo Epstein, bensì di un libro che promette scottanti rivelazioni sulla sua vita intima. Francesca Rossi, Mercoledì 23/09/2020 su Il Giornale. Il 2020 è stato l’anno delle rivelazioni e delle biografie sui Windsor. Libri che hanno messo a nudo la famiglia reale più chiacchierata del mondo. L’ultimo in ordine di tempo si intitola “Sex, Lies and Dirty Money by The World’s Powerful Elite” ha tra i protagonisti il principe Andrea e promette piccanti rivelazioni sulla sua vita sessuale. L’autore, Ian Halperin, avrebbe intervistato delle ex conquiste del figlio prediletto di Sua Maestà per carpirne i segreti più intimi. Dettagli di cui le signore in questione non sono state certo avare. Tutte hanno avuto rapporti consensuali con il principe Andrea e lo hanno descritto come un amante “senza limiti tra le lenzuola”. Una di loro ha perfino dichiarato: “Andrew ha scosso il mio mondo in camera da letto. Ci sono rimasta male quando lui è sparito”.

"Due giorni a sua disposizione". Mille euro per intrattenere il principe Andrea. Un’altra ex fiamma ha fatto affermazioni molto più tranchant, sostenendo che il principe Andrea abbia una “dipendenza sessuale”. Il motivo di tale ossessione sarebbe da ricercare nel rapporto con il principe Carlo. Il duca di York avrebbe sofferto di una sorta di complesso di inferiorità nei confronti del fratello, destinato a regnare. L’ex amante di Andrea ha spiegato: “Non si sentiva abbastanza considerato nella royal family. E questo lo ha spinto al suo stile di vita da playboy. Avere tante belle donne nel suo letto lo faceva sentire speciale”. Naturalmente quest’affermazione è tutta da dimostrare. Lo scorso anno un insider rivelò al Daily Mail che il duca di York avrebbe avuto più di mille amanti e da giovane e, proprio per questa sua particolare inclinazione, gli sarebbe stato affibbiato il nomignolo di “Randy Andy”, ovvero “Andy l’arrazzato”. Confessioni di dubbio gusto che gettano una luce equivoca sul figlio della regina Elisabetta.

Brutto colpo per il figlio prediletto della regina. Ora lo cancellano pure dalla rete. Vanity Fair ricorda che un osservatore reale fece persino un calcolo a tal proposito, giungendo alla conclusione secondo cui dal momento del divorzio da Sarah Ferguson al 2010 il principe Andrea avrebbe avuto circa 15 fidanzate. Le relazioni del principe Andrea sono sempre state tollerate a corte. Ben diverso è il caso Epstein, un vero e proprio giro di prostituzione e schiavitù sessuale in cui sono state coinvolte delle ragazze minorenni all’epoca dei fatti. A proposito della presunta amicizia tra il principe Andrea e il magnate morto in carcere nel 2019, Ian Halperin sostiene di non aver trovato alcuna prova che confermi le accuse secondo le quali il duca di York avrebbe avuto rapporti con delle minorenni. Tuttavia l’autore dello scandaloso volume si dice certo che Epstein fornisse al principe “ragazze con cui fare sesso” e aggiunge: “È questo il motivo per cui erano amici. Andrea aveva un’ossessione per le ragazze dai capelli rossi. Ed Epstein gli rimediava le più belle rosse su piazza”. Il duca di York ha sempre negato le accuse, ma Halperin arriva a dichiarare che Andrea non fosse legato a Epstein solo da un rapporto di amicizia, ma anche di paura e spiega: “Epstein aveva informazioni scottanti sui suoi amici facoltosi e le usava per ricattarli”.

Abusi su minorenni, Ghislaine scandalizza la regina: si siede sul suo trono. Un classico. Squallido, ma assolutamente prevedibile. Halperin è un fiume in piena e racconta anche che il principe Andrea, nel 2011, avrebbe perfino pregato in ginocchio Epstein di non rivelare nulla sul suo conto. Dopo quell’incontro i due non si videro più, ma l’imprenditore era stato talmente furbo da posizionare telecamere in tutte le sue case, in modo da spiare gli incauti uomini facoltosi che le frequentavano. Secondo il Mail on Sunday sarebbe stato ripreso anche il principe Andrea. Se tutta questa storia venisse dimostrata, per il figlio di Elisabetta II non ci sarebbe più un posto al mondo dove andarsi a nascondere.

La Regina e il 2020 da dimenticare: ora divorzia anche il nipote David, figlio della sorella Margaret. Pubblicato martedì, 18 febbraio 2020 su Corriere.it da Simona Marchetti. Non poteva davvero iniziare nel modo peggiore questo 2020 per casa Windsor, con la regina Elisabetta II costretta a incassare la seconda separazione in famiglia in meno di una settimana, come se già non avesse abbastanza grattacapi a causa della decisione del nipote Harry e della moglie Meghan Markle di andare a vivere in Canada. Dopo infatti l’addio di Peter Phillips alla moglie Autumn Kelly rivelato pochi giorni fa, adesso ad annunciare la fine del suo matrimonio dalla moglie Serena, con cui era sposato dal 1993, è stato David Armstrong-Jones, conte di Snowdon e figlio della defunta principessa Margaret, morta nel 2002, e del fotografo delle celebrità, Anthony Armstrong-Jones, anch’egli scomparso nel 2017. «Il conte e la contessa di Snowdon hanno concordato di porre amichevolmente fine al loro matrimonio e di divorziare», ha spiegato un portavoce reale, chiedendo alla stampa di rispettare la privacy delle persone coinvolte, compresi i due figli della coppia, il visconte di Linley, Charles Armstrong-Jones e Lady Margarita Armstrong-Jones. Stando a quanto riporta il Daily Mail, Sua Maestà avrebbe accolto la notizia della separazione del nipote «con profonda tristezza», mentre gli amici si sono subito affrettati a precisare che non ci sono altre persone coinvolte nella rottura e che il motivo sarebbe legato ai continui viaggi all’estero di lui per via del lavoro. Conosciuto infatti come «il falegname reale» per via della sua azienda di mobili e accessori di lusso, Linley, in passato il conte di Snowdon è stato anche il presidente della celebre casa d’aste Christie’s ed è il 21° in linea di successione al trono. «David è molto, molto vicino alla Regina e al principe Carlo – ha spiegato un amico del conte – e va sempre a Sandringham a Natale e a Balmoral in estate. È il nipote di Giorgio VI e fa parte del circolo dei reali, ma è anche l’anti-reale per eccellenza, perché gira in bicicletta indossando una giacca fluo e viene spesso scambiato per un controllore del traffico ed è popolare e social. E poi è il reale che lavora più di tutti, anche se non per gli Windsor ed è sempre all’estero, ma tutti questi viaggi hanno messo a dura prova il matrimonio. Serena passa infatti la maggior parte del tempo nel Gloucestershire, lui invece vive a Kensington e il legame si è lentamente deteriorato. Penso che l’idea della separazione sia di lei, anche se è molto triste per questa cosa e per David sarà dura, perché è stata una sorpresa per tutti. Anche se le cose fra di loro non erano perfette, avevano entrambi a cuore la famiglia e ora l’intento è quello di preservare i due figli e di tenere comunque unita la famiglia, anche se non vivranno più insieme come coppia».

Nicola Bambini per "vanityfair.it" il 18 febbraio 2020. Niente da fare, Meghan Markle non riesce a evitare gli attacchi dei suoi familiari neppure in Canada. Sebbene la duchessa si sia dimessa dai ruoli reali, alcune sue vecchie conoscenze continuano a rilasciare interviste cariche di rabbia. A questo giro le critiche più pesanti sono firmate dal fratellastro, Thomas Jr, che si è scagliato contro la duchessa etichettandola – di fatto – come un’egoista. «Sono senza una casa e senza un lavoro, avrei potuto ritrovarmi sotto un ponte a chiedere soldi.  E lei se ne sta lì, sul suo piedistallo reale, a guardare ciò che accade alla sua famiglia», rivela l’uomo al The Sun. «Venire continuamente associato a Meghan, per via del mio cognome, mi ha quasi distrutto». Rimasto pure senza una compagna, è tornato di recente a vivere con sua madre, in New Mexico. «È stato un vero incubo», conclude Thomas Jr, «lei avrebbe dovuto dedicare un po’ del suo lavoro umanitario anche a noi». Attacchi spietati, ai quali fanno eco le nuove parole di Samantha Markle, da anni celebre per sputare veleno sulla sorellastra: «Meghan ha annunciato le “dimissioni reali” alla vigilia del compleanno di Kate, non vorrei le abbia voluto rovinare la festa di proposito per gelosia». Accuse pesanti, ma sulla stessa linea delle precedenti: l’ha definita infatti «un’arrampicatrice sociale», «un’ingrata», «un tornado per i danni che sta causando nella royal family». E poi è solita fare fastidiosi confronti con la cognata: «Sono donne incomparabili, Kate è davvero iconica», dice anche stavolta. «Sarà una fantastica regina consorte, è bellissima e adorabile soprattutto come madre». Samantha – che proprio come il fratello Thomas Jr è nata dal primo matrimonio di papà Markle con Roslyn Loveless – pare non abbia digerito neppure la questione-Disney: «Mi è parso un imbroglio, una mossa che non rispetta il protocollo reale», conclude la donna, in merito alla presunta offerta di lavoro della casa di produzione a Meghan. «Ribadisco che lei ha usato la royal family come un trampolino». Insomma, che viva a Londra o a Vancouver, Meghan deve fare i conti con la rabbia di alcuni suoi familiari.

Antonella Catena per "amica.it" il 19 febbraio 2020. La Regina Elisabetta ha deciso: Meghan Markle e Harry non sono più Royal. Nel senso che il loro Sussex Royal, marchio che dir si voglia, non esiste più. E già non erano più Altezze Reali. Prima ci sono state le consultazioni. Anzi le discussioni. Poi, la Regina Elisabetta ha detto stop. Sussex Royal, il brand di Meghan Markle e Harry non esiste più. Loro non sono più membri senior della Royal Family e quindi non hanno più diritto su quel “termine”. L’aveva detto, dopo sul summit di gennaio. Li amerà sempre, ma… Ma loro hanno deciso. Hanno scelto l’indipendenza. Sono usciti dalla Family. Resteranno Sussex, ma non più Royal. Tornati in Canada il giorno di San Valentino felici, Meghan Markle e Harry hanno adesso ricevuto la notizia bomba. La battaglia sul marchio già registrato di Sussex Royal, l’ha vinta Sua Maestà. Sussex Royal si chiama l’Instagram dei due, lanciato quando erano sposati da poco e tutto sembrava andare per il verso giusto. Ma era già un primo assaggio di quello che sarebbe successo in un anno o poco più. Anche il nuovo sito web appena lanciato, adesso dovrà cambiare nome e stemma. E l’idea di titolare Sussex Royal tutte le loro attività future (qualcuna già in essere, in realtà) è stata bloccata. Niente capsule collection Sussex Royal per intenderci…L’ha annunciato in esclusiva il Daily Mail. Che aveva pubblicato la notizia che Meghan Markle e Harry avevano depositato il loro brand già a giugno 2019 all’Intellectual Property Office. In vista di futuri outfit, articoli di cartoleria, libri…Meghan Markle e Harry che hanno rinunciato al loro ruolo di Senior Royal, devono dire addio a Sussex Royal… Le rivoluzioni non sono mai indolori…

La Regina Elisabetta avrebbe impedito a Harry e Meghan di usare il brand Sussex Royal. Pubblicato mercoledì, 19 febbraio 2020 su Corriere.it da Enrico Roddolo. Dopo aver rinunciato a farsi chiamare Altezza Reale, adesso costretti anche a rinunciare anche al brand Sussex Royal? Insomma, per i duchi di Sussex — Harry e Meghan — il passo indietro dai Royal engagements a inizio anno costerà forse più caro di quanto avessero immaginato? (Il brand potrebbe valere fino a 15 milioni di sterline l’anno). L’indiscrezione è stat rilanciata dal Daily Mail (che cita una anonima fonte vicina a Buckingham Palace). «Non sono affatto sicuro che utilizzeranno il brand Sussex Royal. Di più, sarei sorpreso se il palazzo glielo permettesse», dice da Londra al Corriere il numero uno di Brand Finance, David Haigh, la consultancy vicina alla monarchia britannica che due anni fa aveva messo sotto la lente i conti e il business della Firm dei Windsor, in occasione del sì di Harry e Meghan. Che cosa la fa dubitare, Mr Haigh, che Sussex Royal non sarà il brand – Re Mida che utilizzeranno il figlio di Diana e la moglie americana, per fare affari? «Il fatto è che per ogni utilizzo del loro titolo dovrebbero chiedere, come emerge tra le righe dalle bozze di accordo con Buckingham Palace, l’autorizzazione al Lord Chamberlain del Palazzo che è di fatto il ceo di quanto ruota attorno alla regina… E sono piuttosto sicuro che sarebbe molto selettivo. Tra l’altro, nell’accordo con la Regina concordato dal principe Harry si dice espressamente che non ci sarà un uso commerciale, dunque in linea teorica ci dovrà anche essere una pronuncia del palazzo, su ogni possibile attività che coinvolga il titolo Sussex Royal per verificare che non ci sia impiego commerciale». Ecco dunque spiegato perché a Londra, a partire dalla stampa populista come il Daily Mail, più ostile ai duchi di Sussex (rimasti duchi anche dopo la scelta di una vita più privata), si fa strada il rumor che alla fine Harry e Meghan non potranno utilizzare più il simbolo Sussex Royal. Anche se la negoziazione sui termini della loro nuova vita è ancora aperta e per nulla conclusa. Intanto i duchi di Sussex hanno comunque registrato, e da molto tempo, il marchio Sussex Royal. «Sì, l’hanno registrato nel Regno Unito e per la verità solo per alcune tipologie di attività che vanno in una direzione sociale: dall’educazione ai servizi per le famiglie e la società — continua Haigh -. Ma il problema è che quasi in contemporanea lo stesso brand è stato registrato da altri, per esempio un designer credo di “seconda fila” nel Nord Italia che ha invece registrato Sussex Royal per attività molto più commerciali: dai cosmetici alla pelletteria. E in parallelo, più o meno ovunque nel mondo sono stati registrati marchi “Sussex Royal”, in America come in Australia. Ecco anche perché - comunque si decida nelle trattative con Buckingham palace che sono ancora in corso - utilizzare il marchio Sussex Royal sarà per i principi decisamente difficile». E con tanti contendenti intanto, chi avrebbe diritto a utilizzare il marchio Sussex Royal? «Nel Regno Unito per esempio c’è il principio del first to fire: il primo che lo utilizza ne acquisisce anche il diritto». E se messi nell’impossibilità di usare “Sussex Royal”, cosa faranno i duchi? «Semplice, potrebbero creare il nuovo brand Harry & Meghan, o semplicemente potrebbero endorse, appoggiare, brand già sul mercato».

Antonella Catena per "amica.it" il 20 febbraio 2020. 31 marzo. Come la Brexit, anche la Megxit ha aspettato tanto (non così tanto), ma adesso anche lei ha una data. Dal primo aprile 2020, Meghan Markle e Harry saranno ufficialmente fuori dalla Royal Family. Di certo Buckingham Palace, per loro chiuderà i battenti. I loro uffici non esisteranno più.

Meghan Markle e Harry: gli ultimi impegni prima della Megxit. La Megxit ha finalmente una data: 31 marzo 2020. L’hanno comunicata gli stessi Meghan Markle e Harry. Il giorno stesso in cui il Daily Mail ha reso pubblica in esclusiva la fine del loro brand Sussex Royal. Vietato. Per volontà di Sua Maestà la Regina Elisabetta. A poche ore di distanza, i duchi di Sussex hanno annunciato che stanno per tornare in Inghilterra. Impegni presi in precedenza all’annunciata separazione dalla Royal Family. Prima del summit a Sandringham e dell’inizio della loro nuova vita in Canada. Se il 31 finirà tutto, prima però ci sono gli impegni per cui un po’ volenti e un po’ nolenti di due duchi devono far ritorno a Londra. Intanto il 28 febbraio tocca subito a Harry. Un evento legato agli Invictus Games: lui e Jon Bon Jovi. Il 5 marzo torna anche Meghan Markle: l’occasione in cui la rivedremo sono gli Endeavour Fund Awards dedicati ai veterani di guerra. Il giorno dopo, Harry saeò a Silverstone, il circuito di Formula Uno: lui e Lewis Hamilton, per battezzare la Silverstone Experience. Insieme, il 7 marzo, saranno al Mountbatten Festival of Music. Location la Royal Albert Hall. La stessa che ha visto il trionfo di Kate Middleton e William, nella notte dei Bafta 2020. Una serata musicale, con la performance dei Royal Marines. L’8 marzo, Festa della donna, tocca a Meghan: cosa farà? Ancora non si sa.

9 marzo 2020, Londra: reunion di famiglia. Ma la data da segnarsi in calendario è il 9 marzo. Il primo incontro, dalla dichiarazione d’indipendenza/separazione/fuga in Canada con la Regina Elisabetta. Harry l’ha incontrata a Sandringham, a inizio gennaio. Per Meghan probabilmente, si tratta di rivederla dopo 4 mesi…Oltre a Sua Maestà ci saranno anche altri membri della Royal Family. Kate Middleton e William? Carlo e Camilla? L’appuntamento è a Westminster Abbey, per il Commonwealth Service. L’anno scorso c’erano Kate in rosso Alexander McQueen e Meghan in bianco Victoria Beckham. Si sorridevano, persino… Poi il 31 marzo, l’ultimo giorno… Dall’1 aprile scatta la Megxit effettiva. Fuori dalla Royal Family. Dalla firm, la ditta come li chiamava Lady Diana. La quale, col divorzio, aveva perso il titolo di Sua Altezza Reale: esattamente con il figlio e la moglie. Chissà se Meghan Markle e Harry pensavano a un altro finale…

Nicola Bambini per "vanityfair.it" il 18 febbraio 2020. Niente da fare, Meghan Markle non riesce a evitare gli attacchi dei suoi familiari neppure in Canada. Sebbene la duchessa si sia dimessa dai ruoli reali, alcune sue vecchie conoscenze continuano a rilasciare interviste cariche di rabbia. A questo giro le critiche più pesanti sono firmate dal fratellastro, Thomas Jr, che si è scagliato contro la duchessa etichettandola – di fatto – come un’egoista. «Sono senza una casa e senza un lavoro, avrei potuto ritrovarmi sotto un ponte a chiedere soldi.  E lei se ne sta lì, sul suo piedistallo reale, a guardare ciò che accade alla sua famiglia», rivela l’uomo al The Sun. «Venire continuamente associato a Meghan, per via del mio cognome, mi ha quasi distrutto». Rimasto pure senza una compagna, è tornato di recente a vivere con sua madre, in New Mexico. «È stato un vero incubo», conclude Thomas Jr, «lei avrebbe dovuto dedicare un po’ del suo lavoro umanitario anche a noi». Attacchi spietati, ai quali fanno eco le nuove parole di Samantha Markle, da anni celebre per sputare veleno sulla sorellastra: «Meghan ha annunciato le “dimissioni reali” alla vigilia del compleanno di Kate, non vorrei le abbia voluto rovinare la festa di proposito per gelosia». Accuse pesanti, ma sulla stessa linea delle precedenti: l’ha definita infatti «un’arrampicatrice sociale», «un’ingrata», «un tornado per i danni che sta causando nella royal family». E poi è solita fare fastidiosi confronti con la cognata: «Sono donne incomparabili, Kate è davvero iconica», dice anche stavolta. «Sarà una fantastica regina consorte, è bellissima e adorabile soprattutto come madre». Samantha – che proprio come il fratello Thomas Jr è nata dal primo matrimonio di papà Markle con Roslyn Loveless – pare non abbia digerito neppure la questione-Disney: «Mi è parso un imbroglio, una mossa che non rispetta il protocollo reale», conclude la donna, in merito alla presunta offerta di lavoro della casa di produzione a Meghan. «Ribadisco che lei ha usato la royal family come un trampolino». Insomma, che viva a Londra o a Vancouver, Meghan deve fare i conti con la rabbia di alcuni suoi familiari.

Antonella Catena per "amica.it" il 19 febbraio 2020. La Regina Elisabetta ha deciso: Meghan Markle e Harry non sono più Royal. Nel senso che il loro Sussex Royal, marchio che dir si voglia, non esiste più. E già non erano più Altezze Reali. Prima ci sono state le consultazioni. Anzi le discussioni. Poi, la Regina Elisabetta ha detto stop. Sussex Royal, il brand di Meghan Markle e Harry non esiste più. Loro non sono più membri senior della Royal Family e quindi non hanno più diritto su quel “termine”. L’aveva detto, dopo sul summit di gennaio. Li amerà sempre, ma… Ma loro hanno deciso. Hanno scelto l’indipendenza. Sono usciti dalla Family. Resteranno Sussex, ma non più Royal. Tornati in Canada il giorno di San Valentino felici, Meghan Markle e Harry hanno adesso ricevuto la notizia bomba. La battaglia sul marchio già registrato di Sussex Royal, l’ha vinta Sua Maestà. Sussex Royal si chiama l’Instagram dei due, lanciato quando erano sposati da poco e tutto sembrava andare per il verso giusto. Ma era già un primo assaggio di quello che sarebbe successo in un anno o poco più. Anche il nuovo sito web appena lanciato, adesso dovrà cambiare nome e stemma. E l’idea di titolare Sussex Royal tutte le loro attività future (qualcuna già in essere, in realtà) è stata bloccata. Niente capsule collection Sussex Royal per intenderci…L’ha annunciato in esclusiva il Daily Mail. Che aveva pubblicato la notizia che Meghan Markle e Harry avevano depositato il loro brand già a giugno 2019 all’Intellectual Property Office. In vista di futuri outfit, articoli di cartoleria, libri…Meghan Markle e Harry che hanno rinunciato al loro ruolo di Senior Royal, devono dire addio a Sussex Royal… Le rivoluzioni non sono mai indolori…

Regno Unito, Harry e Meghan si arrendono alla regina: non potranno più usare il marchio "Sussex Royal". Dopo il "divorzio" dai Windsor i duchi avevano speso decine di migliaia di sterline soltanto per il sito internet "Sussex Royal". Inoltre, la parola "Reali" avrebbe sicuramente agevolato i loro affari. Ma arrivare allo scontro con la sovrana 93enne sarebbe stato controproducente per tutti. Antonello Guerrera il 21 febbraio 2020 su La Repubblica. Alla fine hanno ceduto al veto della 93enne sovrana. Perché i ribelli Harry e Meghan lo hanno confermato oggi, tramite il loro portavoce: rinunceranno alla parola "royal", cioè "reale", nel loro marchio "Sussex Royal". Non è solo una questione puramente morfologica o stilistica. È una mazzata, anche dal punto di vista economico. I duchi del Sussex infatti avevano basato buona parte della loro futura carriera - dopo il clamoroso 'divorzio' dai Windsor - proprio su questo marchio creato e inventato senza dire nulla al resto della famiglia e spendendo decine di migliaia di sterline soltanto per il sito internet "Sussex Royal". Inoltre, la parola "Royal" avrebbe sicuramente agevolato i loro - potenzialmente maestosi - affari da influencer/filantropi/star mondiali. E invece la Regina si è impuntata. Harry e Meghan hanno voluto staccarsi, più o meno traumaticamente, dalla casa reale. Perché concedergli dunque il nome "Royal" nel loro marchio? Alla fine ha vinto la sovrana, nonostante nel pomeriggio Meghan Markle avesse fatto sapere, tramite alcuni amici, che non c'era alcuna legge che avrebbe costretto lei e suo marito a rinunciare al loro marchio. Ma alla fine ha dovuto cedere persino lei. Arrivare allo scontro con la 93enne regina sarebbe stato deleterio e controproducente per tutti, soprattutto con cosi tanti soldi di mezzo. Ora i duchi del Sussex dovranno riformulare tutta la loro strategia di marketing. Non si sa ancora come. Ma una cosa è certa: senza la parola Royal il denaro che entrerà nelle casse dei Harry e Meghan sarà inferiore ai loro piani.

"Nessuna rinuncia ai titoli nobiliari". E così il principe Harry dice no alla cittadinanza americana. Da quello che sembra, il principe Harry non avrebbe nessuna intenzione di diventare un cittadino americano per non perdere i suoi diritti da reale inglese. Carlo Lanna, Sabato 09/05/2020 su Il Giornale. E in quel di Los Angeles, nonostante la pandemia, sta prendendo forma la nuova vita del Principe Harry e di Meghan Markle fuori dalla corona inglese. Una vita che non è facile da gestire. Per la coppia reale l’esperienza è tutta nuova ed è tutta da scoprire. E soprattutto, molte sono le incognite. Una di queste riguarda proprio il Principe Harry. Esperti e giornalisti, di recente, si sono interrogati su diverse questioni. Come la cittadinanza dell’ex duca di Sussex. Secondo fondi attendibili, pur di voltare pagina e pur di dimenticare la sua vita a corte, Harry era disposto ad acquisire la cittadinanza americana, ma come fa sapere il Daily Star, il principe avrebbe fatto marcia indietro. Tecnicamente parlando non sarebbe difficile per Harry diventare un cittadino americano a tutti gli effetti. Avendo sposato Meghan che di fatto non ma è mai diventata una cittadina inglese, il principe potrebbe facilmente far richiesta per la green card. Una fonte che preferisce restare anonima riferisce al magazine che ci sarebbe una spiegazione molto semplice in merito alla scelta di Harry. "Non ha nessuna intenzione di chiedere una seconda cittadinanza – afferma la gola profonda -. Potrebbe essere una sorpresa visto che il principe vive in America in pianta stabile, ma ci sono diverse ragioni per spiegare le sue motivazioni". Si crede infatti che Harry, se dovesse diventare un cittadino americano, perderebbe definitivamente il suo rango di principe e, insieme a esso, tutti i privilegi che sono stati pattuiti durante la Megxit. "Non solo perderebbe il titolo di principe, ma questo porterebbe anche a una rinuncia di tutta una serie di guadagni che ora sta ricevendo dalla corona – afferma la fonte –. Un denaro che arriva principalmente da alcune rendite che ha sul suolo inglese. E tutto questo potrebbe esporre il suo patrimonio a una dura tassazione da parte degli Stati Uniti d’America". Una scelta che sarebbe stata intrapresa proprio per cercare di preservare il suo stile di vita e nella speranza di poter realizzare tutti i progetti appena la pandemia finirà. Questa rivelazione rema contro alcune dichiarazioni che sono trapelate in rete qualche tempo fa in cui, a gran voce, si affermava che il Principe avesse già rinunciato al suo passaporto inglese. E da quel che sembra questa indiscrezione pare che non sia fondata. Invece, se questo pettegolezzo risultasse verità, si intuirebbe che il principe Harry sia ancora molto legato alla sua famiglia. Non resta che attendere gli sviluppi sulla questione.

Ora Meghan Markle deve restituire i soldi pubblici. Ora ci sarebbero anche dei problemi economici legati alla Megxit dato che Meghan Markle dovrebbe restituire tutta la somma versata per aver ristrutturato il Frogmore Cottage con soldi pubblici. Carlo Lanna, Sabato 22/02/2020 su Il Giornale. La situazione si evolve a un ritmo concitato. Nel corso delle ultime ore sono stati approvati alcuni provvedimenti sulla Megxit e, alcuni di questi, pare che stiano creando diversi malumori sia a Meghan Markle che al Principe Harry. Gli ex duchi saranno dei reali inglesi a tutti gli effetti fino al 31 maggio, poi dovranno dire addio (per sempre) al loro titolo di “altezze reali”. Sì, erano queste le intenzioni di Meghan, ma l’ex attrice non avrebbe mai immaginato che le conseguenze di tale gesto sarebbero state così disastrose. Non solo il marchio "Sussex Royals" non potrà essere accostato a nessuna delle sue attività filantropiche, ma all’orizzonte ai profilano anche diversi problemi economici. Come ha riportato il Mirror in una news che è stata pubblicata nelle ultime ore, pare che la rottura con la famiglia reale avrà una grave ripercussione sulle finanze dei duchi. Saranno comunque "ricchi per sempre" come hanno riferito bonariamente alcuni esperti di Corte, ma non è detto che sia così. Dopo la Megxit c’è da capire cosa accadrà al Frogmore Cottage. La tenuta di Meghan e di Harry che si trova fuori Londra in cui hanno vissuto dopo il matrimonio, è stata ristrutturata secondo le loro esigenze e sono stati spesi ben 2,4 milioni di sterline (quasi 3 milioni di euro), e i fondi sono stato prelevati dal Sovereing Grant. Si tratta di un fondo pubblico istituito dal governo inglese, un fondo in cui la monarchia viene pagata dal governo stesso al fine di finanziare le attività ufficiali della royal family. È stata una delle riforme più antiche e approvate in Inghilterra, dato che già nel 1760 si parlava di un fondo pubblico di questa portata. E quindi ora Meghan Markle si troverebbe nella scomoda situazione di dover versare tutti i soldi spesi per la ristrutturazione del cottage. Sull’argomento, per ora, le fonti ufficiali di Palazzo hanno deciso di non commentare la situazione, ma alcuni ipotizzano che ci saranno diversi problemi sul come ricoprire tutta la somma. Ci sarebbe la possibilità "di non coprire l’ammanco in un un’unica soluzione" e c’è chi afferma che "senza dubbio si troverà un accordo tra le parti per evitare che la situazione si possa complicare ancora di più".

Sta di fatto che affrontare questo problema per Meghan, ora hanno ottenuto la loro indipendenza economica, farà capire la reale gittata della Megxit e tutte le intenzioni dell’ex duchessa. Nonostante tutto, il cottage sarà ancora di loro proprietà anche se dovranno restituire tutti i soldi pubblici con cui è stato ristrutturato. 

Harry e Meghan, la villa a Malibu da 5,4 milioni di sterline. Laura Pellegrini il 22/02/2020 su Notizie.it. Harry e Meghan intendono trasferirsi in una villa a Malibu: il palazzo vanta 8 camere da letto, una piscina, un campo da tennis e un vasto giardino. Harry e Meghan vorrebbero acquistare una villa di Malibu, in California, da 5,4 milioni di sterline nella quale trasferirsi a seguito del “Megxit”, ovvero finiranno tutti i doveri reali ufficiali (31 marzo 2020). Dopo aver adocchiato la nuova villa in Canada, quindi, i duchi di Sussex sono pronti a un nuovo acquisto. La coppia, però, aveva promesso di dividere il tempo tra il Regno Unito e il Canada. Inoltre, i due reali avevano trascorso le vacanze di Natale di sei settimane in un lussuoso palazzo sull’isola di Vancouver. Le ultime notizie rivelano che la coppia avrebbe intenzione di trasferirsi in California, dove sarebbero vicini alla madre di Meghan, Doria Ragland. I duchi di Sussex intendono trasferirsi in California e pare che abbiano trovato una villa a Malibu del valore di 5,4 milioni di sterline. La villa vanta otto camere da letto, una piscina, un campo da tennis, una sala da ballo, sei bagni, un vasto giardino. In passato apparteneva alla star di Baywatch David Charvet e a sua moglie Brooke Burke. La tenuta, chiamata Petra Manor, è una delle proprietà che gli ex reali stanno considerando almeno in affitto nel Golden State. La spiaggia, inoltre, è a due passi dalla proprietà, così come le case delle star di Hollywood Robert Downey Jr., Mel Gibson, Dick Van Dyke e Caitlyn Jenner. La notizia del potenziale trasferimento in California è arrivata dopo che Harry e Meghan hanno partecipato a una “sessione di brainstorming” con professori e accademici dell’Università di Stanford per aiutarli con il loro lavoro a sviluppare una nuova organizzazione di beneficenza. Starebbero infatti cercando di guadagnare denaro per garantirsi l’indipendenza economica dopo il Megxit.

Megxit, Harry e Meghan non rinunceranno al titolo di Altezze Reali. Harry e Meghan ora puntano i piedi e dichiarano di non voler rinunciare al titolo di Altezze Reali dopo aver dovuto abbandonare il marchio Royal Sussex. Francesca Galici, Domenica 23/02/2020 su Il Giornale. La Megxit si sta trasformando in un terreno di battaglia spigoloso per la famiglia reale inglese. Da un lato ci sono Harry e Meghan, ormai volati dall'altra parte dell'oceano per iniziare una nuova vita in Canada, dall'altra c'è la regina Elisabetta II, che non sembra aver gradito le mosse del nipote. Sembrava essere tutto risolto a metà gennaio, quando la sovrana ha dato il via libera al nipote per lasciare il Regno Unito e trasferirsi in Canada ma, a distanza di tempo, un fulmine a ciel sereno ha squarciato quella che, in apparenza, sembrava essere un nuovo capitolo sereno dei Sussex. Tutto sembrava essere in discesa per Harry e Meghan, che erano già pronti a utilizzare il marchio Sussex Royal per i loro nuovi business milionari. Non solo la vendita dei gadget ma anche quella della loro immagine per eventi, convention e tanto altro. Sarebbe stato un giro d'affari milionario per i duchi ma la regina, a distanza di qualche settimana, ha deciso di intervenire con decisione. Qualcuno azzarda che il veto sul marchio Sussex Royal possa essere una vendetta da parte della sovrana ma il ragionamento di Elisabetta II, mai ufficializzato ma ipotizzato dai media inglesi, è molto semplice. Se Harry e Meghan hanno rinunciato al ruolo di senior nella famiglia reale, allora non possono vendersi come tali perché non lo sono più per loro stessa decisione. Immediato il comunicato dei duchi del Sussex con il quale hanno recepito la decisione della nonna, nonostante il patrimonio ingente già speso per la registrazione del marchio su una moltitudine di oggetti. Tuttavia, non sono mancate le parole piccate della coppia nei confronti di Elisabetta II attraverso un comunicato che fa capire quali siano effettivamente gli umori all'interno della famiglia reale. Harry e Meghan hanno dato la loro versione attraverso il loro sito, rendendo noto punto per punto l'accordo raggiunto prima di lasciare Londra. In questo comunicato, Harry e Meghan dichiarano che sebbene abbiano rinunciato all'utilizzo del brand Sussex Royal, non rinunceranno al titolo di Altezze Reali. I duchi hanno rivendicato il loro diritto di mantenere lo status ma non in modo attivo. Non manca una vena polemica nelle parole di Harry e Meghan Markle, che nel loro comunicato lasciando intendere di avere ricevuto un trattamento diverso rispetto ad altri membri della famiglia che in passato avevano fatto un percorso simile. Il dica e la duchessa dovranno ora sottoporsi a un periodo di revisione di 12 mesi prima di trovare un nuovo lavoro e sono tenuti a non assumere più alcun dovere reale o rappresentativo nei confronti della Corona inglese.

Da Libero Quotidiano il 23 febbraio 2020. Il duca e la duchessa del Sussex, Harry e Meghan, non utilizzeranno il marchio "Sussex Royal", registrato mesi fa per usi commerciali, pubbliche relazioni o raccolta fondi. Così ha deciso la Regina e così faranno a partire dalla prossima primavera, come prevedono le leggi inglesi per chi non fa parte più della famiglia reale. Pare, però, che Meghan sia irritata. Sul sito della coppia viene sottolineato che lo faranno «sebbene non vi sia alcuna giurisdizione da parte della Monarchia o del Gabinetto sull' uso della parola "Reale" all' estero». Una frecciatina all' indirizzo di Buckingham Palace. (LaPresse)

Enrica Roddolo per il Corriere della Sera il 23 febbraio 2020. «Il duca e la duchessa di Sussex non utilizzeranno più SussexRoyal, in alcun Paese, dopo la primavera 2020». Ad annunciarlo è l' ufficio dei principi a Londra. La conferma che il nipote di Elisabetta II, Harry, con la moglie Meghan, dopo aver accettato di non utilizzare più l' appellativo di Altezze Reali, si rassegnano ora a non utilizzare più anche il brand SussexRoyal. E pure la nuova organizzazione no profit che lanceranno più avanti nell' anno rinuncerà al termine Royal. L' indiscrezione che per i principi - per loro volontà ormai fuori dal circuito dei Senior Royals - sarebbe stato impossibile continuare a utilizzare un marchio «Royal» era filtrata da ambienti vicini a Buckingham Palace giorni fa. E David Haigh, Ceo di Brand Finance, la consultancy che ha messo sotto la lente il valore del marchio reale, sentito dal Corriere aveva messo in guardia: «Non sono affatto sicuro che i Sussex utilizzeranno il brand SussexRoyal, di più sarei sorpreso se Buckingham palace glielo consentisse. Perché per ogni impiego del Royal brand dovrebbero chiedere l' autorizzazione al Lord Chamberlain, il Ceo della macchina di Buckingham Palace, e assicurare un impiego non commerciale del brand». L' annuncio della rinuncia al brand SussexRoyal arriva pochi giorni dopo la comunicazione che Harry e Meghan usciranno - formalmente - dal circuito della Royal family il 31 marzo. Insomma, dal primo di aprile saranno una coppia (quasi) qualsiasi, liberi di muoversi tra Regno Unito (Harry ha in programma la Maratona di Londra), Canada o Stati Uniti con il loro baby Archie. E, soprattutto, liberi dai Royal engagements , liberi di guadagnarsi da vivere. Per la verità il principe ha già iniziato ad esercitarsi, ha infatti parlato giorni fa a 425 banchieri e celebrities riuniti per un investment summit in Florida, a Miami, sponsorizzato da JP Morgan. Primo ingaggio da Royal prestato agli affari del figlio di Diana. Nessuna conferma su quanto abbia monetizzato il principe, accompagnato da Meghan, da questo primo intervento davanti a un pubblico di gente della finanza, ma il Times ipotizza fino a un milione di dollari. L' inizio (in affari) della NewCo Harry & Meghan. E pare che il principe abbia già in corso trattative per un intervento a Davos 2021. Ma quanto può guadagnare la nuova family firm di Harry e Meghan, fuori dalla storica Firm dei Windsor? «Credo tra i 40 e i 50 milioni di dollari l' anno se si mettono in affari in modo molto aggressivo», calcola per il Corriere il numero uno di Brand Finance. E come pensa arriveranno a monetizzare dalla loro celebrità, quei 50 milioni di dollari l' anno, senza il SussexRoyal brand? «Potrebbero creare il nuovo brand Harry & Meghan, o semplicemente potrebbero appoggiare brand già sul mercato, prodotti». Per esempio? «Penso che il ceo di Luxottica farebbe bene a fare una telefonata a Harry e Meghan, dagli occhiali da sole agli orologi, alla moda sono tutte possibili estensioni del brand Sussex che avrebbero un incredibile successo. Anche se l' ambito di business che vedo più promettente è quello della cosmetica: Meghan sarebbe una perfetta brand ambassador per L' Oréal o ogni altro big del beauty».

Meghan Markle è in guerra con la Regina. Meghan Markle sarebbe molto furiosa per il trattamento riservatole dalla Regina e non potendo agire direttamente si scaglia, questo volta, su Beatrice di York. Carlo Lanna, Martedì 25/02/2020 su Il Giornale. Ci sono diverse novità in merito alla Megxit e, soprattutto, sul veto da parte della Sovrana sullo sfruttamento del marchio "Sussex Royal". La vicenda è più complicata del previsto e nessuno avrebbe mai immaginato che Meghan Markle si sarebbe spinta fino a questo punto. La ex duchessa proprio non riesce a digerire la scelta da parte della sovrana di non permettere lo sfruttamento del loro brand, dato che dal prossimo mese di aprile non saranno più dei reali inglesi. Elisabetta è irremovibile e, benché Meghan ancora oggi stia cercando una scappatoia con i suoi legali, la situazione resta comunque tesa e dai risvolti inaspettati. Per temporeggiare, sul sito ufficiale dei duchi è stato pubblicato un breve annuncio in cui si annunciano grandi cambiamenti entro la primavera del 2020. Sulla questione ha cercato di far chiarezza il Mirror, il quale avrebbe scoperto che la furia di Meghan Markle ora si sarebbe abbattuta persino su Beatrice di York. Non potendo attaccare direttamente la Regina, la duchessa avrebbe in un certo qual modo sfogato tutta la sua rabbia sulla cugina acquista, prossima alle nozze. Come riportano i tabloid, Meghan Markle accuserebbe la famiglia di aver subito un trattamento diverso rispetto ad altri membri dei royal. Si rivendica il fatto che esistono già diverse procedure che permettono ad altri membri della dinastia di lavorare e allo stesso tempo di sfruttare il buon nome della famiglia. Invece, come riportano i magazine, Meghan ed Harry avrebbero un periodo limitato di tempo per gestire il loro divorzio dalla Corona e per ridefinire i loro obblighi e doveri. E qui scatta l’accusa a Beatrice, la quale seppur conservando il suo ruolo, ha una vita distinta e separata dalla Corona. Lavora infatti in una casa d’aste e ha uno stipendio tutto suo, ma resta una reale inglese. Questa accusa, velata, andrebbe sicuramente a influire sull’imminente matrimonio della figlia di Sarah Ferguson. La partecipazione di Meghan era già a rischio, ora dopo questa brutale accusa, la ex duchessa potrebbe declinare l’invito una volta per tutte. La Megxit quindi resta un momento di crisi per la Corona inglese. E anche se la Sovrana sta facendo il possibile per contenere i danni e cercare di archiviare i problemi, gli atteggiamenti di Meghan colpiscono ancora una volta. Se così fosse, se la Markle avrebbe accusato la regina di aver ricevuto un trattamento diverso, la vicenda potrebbe riservare presto o tardi un altro colpo di scena.

Sandra Rondini per "ilgiornale.it" il 27 febbraio 2020. È guerra aperta tra la Regina Elisabetta II e i Sussex da quando la scorsa settimana la Sovrana ha stabilito che Harry e Meghan non possono usare il loro marchio "Sussex Royal". I due le hanno risposto venerdì scorso con una lunga dichiarazione sul loro sito web, in cui, seppur accettando il veto posto dalla Regina, ricordavano che "non ha alcuna giurisdizione sulla parola royal all’estero". Un modo neanche troppo velato per dirle che, se avessero voluto, avrebbero potuto disubbidirle. Sia la stampa che i sudditi sui social hanno subito contestato l’arroganza dei Sussex, giudicando la coppia "maleducata" e "irrispettosa". Un insider reale ha detto a Vanity Fair che la Regina "non vuole più parlare della Meghexit. È stanca e addolorata, vuole solo che tutto finisca al più presto” e giudica "offensiva", nei toni in cui è stata proposta, la dichiarazione di indipendenza di Harry e Meghan che, invece di usare tatto e discrezione, discutendone prima tutti i termini e le tempistiche con lei, l’hanno ignorata e scavalcata causando uno scandalo senza precedenti, perché, come spiega la fonte reale, "mai l’autorità di un monarca è stata minata a tal punto e di certo la Regina ne terrà conto". Tuttavia, la commentatrice reale Katie Nicholl ha sottolineato a Express UK che la Meghexit è solo il capitolo finale di un lungo scontro iniziato tra il Principe Harry e la Regina Elisabetta. Ne sarebbe, anzi, la conseguenza e non la causa. Katie Nicholl ha spiegato a Vanity Fair come la relazione tra i due sia diventata "da idilliaca a tesa in pochi giorni, quelli fatidici dei preparativi per il sontuoso matrimonio con Meghan Markle. La Regina rimase molto turbata da alcune richieste di Harry e dal modo sgarbato in cui si comportò in quelle convulse giornate. Alla fine le sue non erano nemmeno più delle richieste mosse a Sua Maestà per accontentare la futura moglie, ma autentiche pretese, fatte anche alzando la voce. Con la Regina. Un fatto davvero inaudito". Katie Nicholl ha quindi ricordato che "Harry, su richiesta di Meghan, si rifiutò di usare lo staff della Regina per il matrimonio. Lui e Meghan hanno scelto il loro fiorista e il cake designer per la loro torta nuziale. Inoltre Harry chiese all'arcivescovo di Canterbury di sposare lui e Meghan prima di consultare la Regina e il decano di Windsor, che non è il modo corretto di fare le cose, dato che la Regina è formalmente il governatore supremo della Chiesa anglicana. Se i Sussex volevano che fosse l’arcivescovo a sposarli dovevano prima chiederlo alla Regina, avvisata a cose ormai fatte da un arcivescovo costernato per l’incidente”. Ulteriori dissapori sono sorti sempre nel periodo di preparazione del matrimonio celebrato il 19 maggio 2018. "Meghan – ha ricordato l’esperta reale - pretendeva a tutti i costi una tiara con smeraldi per la cerimonia. Nonostante gli fosse stato detto che non era disponibile, Harry disse con tono furioso allo staff di Buckingham Palace: Quello che Meghan vuole, Meghan lo ottiene. Ovviamente lo staff si lamentò con la Sovrana per il trattamento ricevuto e ancora si racconta a corte di come la Regina, sentita la frase del nipote, fosse così arrabbiata da far subito chiamare Harry a corte per una furiosa ramanzina che esacerbò ancora di più il rancore del Principe verso lo staff di Buckingham Palace e causò la fine dei suoi buoni rapporti con la nonna". Un insider reale avrebbe confidato alla Nicholl, come lei stessa rivela: "Penso che fosse sgomenta per il suo atteggiamento in generale. Ricordo di aver parlato con lei e di quanto fosse sconvolta per l’arroganza e la furia di Harry che non sa tenere a freno la lingua quando si altera. D’altronde è risaputo che ha gravi problemi di gestione della rabbia e in quei giorni, pressato dalla fidanzata che voleva il matrimonio del secolo, Harry esplose come una bomba contro i suoi famigliari". E ancora: "A farne le spese fu soprattutto il fratello William a cui già non rivolgeva da mesi la parola solo perchè gli aveva consigliato di frequentare di più Meghan prima di chiederle di sposarlo. Harry la prese sul personale. Per lui era un'accusa alla sua capacità di discernimento. Secondo lui William gli stava dicendo che si era fatto abbindolare da un'arrampicatrice sociale che fingeva di essere innamorata di lui, quando in realtà, come anche il nonno Filippo, voleva solo proteggerlo. I rapporti tra i due fratelli si sono deteriorati prima del fidanzamento di Harry, quelli con la Regina durante i preparativi del matrimonio". Non sarebbe stata quindi la Meghexit ad allontanare la Regina da quello che era noto essere il suo nipote preferito, ma "le cattiverie da lui dette alla Sovrana nei giorni in cui era sotto pressione per il suo matrimonio. Se Meghan avesse fatto meno capricci e si fosse spesa per allentare la tensione oggi non saremmo a questo punto. Il legame affettivo tra nonna e nipote finì in quei giorni". Negli ultimi due anni la tensione tra Harry e il resto della sua famiglia ha continuato a intensificarsi. Tra l’altro, solo ora si scopre che la Regina non è stata in grado di assistere al battesimo di Archie perché i Sussex non hanno avvisato in tempo i funzionari reali che si occupano di stilare e aggiornare l’agenda reale. “E' opinione della Regina – sostiene Katie Nicholl – che Harry l’abbia fatto apposta. Lui non l’ha voluta al battesimo del figlio. Un’ennesima ripicca”. Naturalmente spalleggiato da Meghan che "voleva giocarsi la carta della 'vittima' agli occhi del mondo, come a dire: 'Vedete? Non mi accettano. La Regina non ha voluto nemmeno assistere al battesimo di Archie. Che altre prove volete?' . Ma la verità alla fine è venuta a galla grazie a insider di corte stanchi del trattamento riservato dai due alla Regina". Per l’esperta reale Meghan Markle è "una novella Richelieu" perché "non ha mai fatto nulla per spingere il marito a riallacciare i rapporti con la Regina, esattamente come non è intervenuta quando cresceva il distacco tra Harry e William". Ha assistito, "se non agevolato", al lento sgretolarsi dei legami famigliari del marito, preparando il terreno migliore per la sua Meghexit. "Non sarà stato difficile per lei convincere Harry, stanco di ripicche e litigi, a fuggire via quando ormai nulla di buono lo legava alla Royal Family. In questa chiave – conclude l'esperta reale nella sua analisi - è da leggere anche l’aver respinto l'invito della Regina a trascorrere del tempo con lei, proprio per fare pace, a Balmoral durante la scorsa estate o a Sandringham a Natale. I due, come si è scoperto di recente, stavano già da mesi tessendo le basi per la loro fuoriuscita dalla Famiglia Reale".

Matteo Priano per meteoweek.com il 28 febbraio 2020. Dieci milioni di dollari, circa. A tanto sarebbe montata la protezione di Harry e Meghan per il governo canadese che tuttavia, quest’oggi, con una nota ufficiale, ha confermato che nell’arco di poche settimane i due principi del Sussex niente peseranno più sulle casse dello Stato.

Tutto confermato. La notizia per la verità era già stata ufficializzata qualche tempo fa dopo alcune polemiche sollecitate proprio dai candesi, indispettiti dai costi per la permanenza della coppia di principi a Vancouver. Gli stessi Harry e Meghan avevano detto che non era loro intenzione pesare sul Canada ma che anzi sarebbero stati felici di collaborare con le associazioni benefiche del paese grazie alla loro fondazione. Uno dei motivi per cui Harry aveva scelto il Canada era proprio l’attività della fondazione che vorrebbe creare nel nome della madre Diana.

Un beneficio a termine. La sorveglianza della splendida villa nella quale stanno vivendo Harry e Megan, che per il momento sono ospiti di un amico insieme al piccolo Archie, era stata affidata fino a oggi alla Royal Canadian Mounted Police, un corpo di polizia che porta proprio il termine di Royal – reale – per ricordare la sua tradizione britannica. La polizia reale canadese si era detta orgogliosa di poter proteggere la tranquillità e la privacy dei due principi ma i costi sono davvero eccessivi. Di qui la decisione del Canada di chiedere a Harry e Meghan di essere completamente autonomi sotto questo aspetto. Una richiesta che i due principi hanno subito fatto propria. La sorveglianza durerà ancora per alcune settimane, probabilmente fino alla fine di marzo. Poi la villa di Vancouver sarà affidata a un corpo di sorveglianza privato.

Dal 31 marzo. Sempre dalla fine di marzo la coppia si dimetterà ufficialmente dai suoi incarichi reali e diventerà, di fatto, una coppia di ricchi borghesi in affari. La loro attività, che punterà prevalentemente sul settore editoriale e sul marketing, sarà divisa tra Vancouver e Los Angeles dove l’azienda che hanno creato avrà un ufficio operativo.

Il Canada li accoglie, ma con distacco. Il Canada mantiene un rapporto di rispettosa ma anche distante ospitalità nei confronti dei due principi: se da una parte, in tutta Vancouver – una città che rivendica con grande orgoglio la sua tradizione inglese e reale – sono in vendita moltissime maglie, spille e gadget con le immagini di Harry e Meghan, sono molte invece le voci discordanti. La coppia attualmente è separata. Meghan è rimasta nella Brithish Columbia con il figlio mentre Harry è a Londra “per un viaggio programmato già da qualche tempo” dice una nota ufficiale. In realtà sarebbe stato invitato da Elisabetta II in persona che ha molto timore che la moglie possa decidere di incontrare la stampa americana in qualche talk show televisivo, come si ipotizza da più parti. Harry incontrerà la regina, il padre Carlo e il fratello William. Poi tornerà in Canada. 

L'indiscrezione: "L'addio per Harry non è stato facile". Sulla Megxit a prendere la parola è una ex guardia del corto di Lady D, e afferma che non è stato facile per il Principe Harry dire addio alla corona e alla famiglia. Carlo Lanna, Martedì 03/03/2020 su Il Giornale. La scelta è stata fatta e ora non torna più indietro. Due mesi dopo quel lungo post su Instagram in cui il Principe Harry e Meghan Markle hanno espresso il desiderio di prendere le distanze dalla Corona, l’attenzione è stata catalizzata inavvertitamente su tutta la famiglia reale. Si sono spese molte parole sulla questione, alcune positive e altre negative. Una Megxit che, di certo, non è stata indolore. Una voglia di vivere una vita serena e tranquilla fuori da Londra che ha i suoi pregi e i suoi difetti. Le fonti rivelano che a soffrire di più questa frattura è stato proprio il Principe Harry. Lui è molto legato alla famiglia anche se si è sempre sentito un outsider, eppure la sua scelta nonostante tutto è stata presa con il cuore e la mente. A confermarlo è Ken Wharfe. Lui è ex guardia del corpo di Lady Diana e, intercettato dai giornalisti del Daily Mail, rivela quanto sia stato difficile per Harry seguire Meghan in Canada. "Per lui è un momento molto emozionante, in molti modi diversi – esordisce al magazine inglese - . Dire addio alla Corona non è stato facile. Per certi versi è stato un addio un po’ dolceamaro. Harry ha sempre voluto avere una vita normale e ha sempre desiderato di allontanarsi dai riflettori. È quello che sta facendo – aggiunge -. Ma prendere le distanze significa abbondare anche la sua famiglia". La fonte rivela inoltre che il Principe Harry è anche e soprattutto un ragazzo leale e coraggioso e per questo il divorzio dalla Corona è ancora più difficile da digerire. La guardia del corpo che ha poi visto crescere i figli che Lady Diana ha avuto dal principe Carlo, rivela che la principessa triste "sarebbe stata molto felice della scelta di Harry". Da quel che sembra, sarebbe stata ben contenta di sostenere il figlio, se fosse stata ancora viva. “Diana ha sempre detto che i figli avrebbero dovuto fare le cose a modo loro, senza seguire troppo le regole di Corte – aggiunge -. Il Principe ha deciso di andarsene. Ha i suoi rimpianti, questo è vero, ma la strada per la felicità è costellata di grandi soddisfazioni”. È tornato a Londra solo per qualche giorno. Come riportano le news, il Principe Harry è atterrato nella City per svolgere gli ultimi impegni prima della fine di Marzo. Tra questi? Anche la registrazione di una canzone per gli Invictus Game insieme a Jon Bon Jovi.

Il principe Harry è tornato nel Regno Unito: «Chiamatemi soltanto Harry». Pubblicato mercoledì, 26 febbraio 2020 su Corriere.it da Paola Caruso. Tornato nella terra natia, il Regno Unito, il principe Harry decide di farsi chiamare soltanto Harry, senza alcun titolo davanti al nome. La prima mossa che allontana lui e Meghan dalla famiglia reale (ufficialmente i due non saranno «Altezze reali» dal 31 marzo, come hanno spiegato su un sito aperto ad hoc per dare notizie precise sulla loro situazione) è proprio questa, una mossa venuta fuori durante una conferenza a Edimburgo che ha visto il fratello di William sul palco per parlare di sostenibilità legata ai viaggi. «Ha chiarito a tutti che vuole essere chiamato soltanto Harry — dice una donna sul palco alla conferenza per presentarlo — quindi signori e signore diamo un caloroso benvenuto a Harry». Chissà se la scelta di non usare neanche il titolo di duca (oltre a quello perso di Altezza reale) è stata una liberazione. Le regole che lui e la moglie, «dimessi» da membri senior della famiglia reale, seguiranno dalla primavera in poi sono state tutte stabilite a tavolino nel famoso incontro con la Regina di gennaio, e comunicate con dovizia di dettagli sul loro sito che però al momento si chiama ancora sussexroyal.com e contiene la parola “Royal” che, come spiega la coppia, non potranno usare a fini commerciali perché i Windsor non si vendono. D’ora in poi Harry e Meghan proveranno a guadagnare per vivere, ma in caso di insuccesso i due saranno sempre mantenuti dal principe Carlo, non con i fondi pubblici destinati alla corona, ma con i beni privati di Carlo. Poi, passati 12 mesi, la loro condizione sarà discussa nuovamente nella speranza che decidano di tornare sui loro passi. Di fatto, la coppia mantiene i patronati. E c’è chi dice che lontano dai riflettori i Sussex stiano benissimo e chi rivela che la nuova vita da «quasi commoner» stia già diventando stretta a Harry. Le chiacchere abbondano. Chissà qual è la verità.

Meghan superstar, il ritorno a Londra dei duchi del Sussex è un trionfo. Insieme ad Harry nella capitale britannica per l'ultimo viaggio da membri dei Windsor. Enrico Franceschini su La Repubblica l'08 marzo 2020. Meghan Markle Superstar. Non è un musical, ma un po' lo sembra: è il ritorno a Londra del duca e della duchessa del Sussex, per il loro giro di addio agli impegni ufficiali in rappresentanza della famiglia reale. Un compito che abbandoneranno del tutto dal prossimo 31 marzo, secondo gli accordi stipulati dalla regina dopo che la coppia ha reso nota l'intenzione di trasferirsi in Canada e fare una vita più indipendente. Harry e Meghan speravano di poter continuare a recitare la parte dei reali part-time, ma Buckingham Palace ha stabilito che non ci sono vie di mezzo. E così il viaggio di questi giorni è l'ultimo da membri a pieno titolo dei Windsor. A giudicare dall'accoglienza di pubblico e media britannici, la loro mancanza si farà sentire. Le foto dei due che "brillavano sotto la pioggia", come hanno titolato i giornali, parafrasando la celebre canzone "Singing in the rain", alla prima uscita insieme a Londra, lei in vestitino maniche corte come se fosse estate, lui a reggere l'ombrello, è finita sulle prime pagine di tutti i tabloid. Un'altra immagine, lei in abito rosso fiamma e lui nell'uniforme di gala rossa dei Royal Marines, il corpo nel quale ha fatto la sua carriera militare, domina oggi le copertine di tutta la stampa del regno, popolare e non. I paparazzi l'hanno scattata all'ingresso della Royal Albert Hall, storico ed enorme teatro londinese, per l'occasione di una serata speciale appunto in onore dei Royal Marines. Quando Harry e Meghan sono apparsi sul palco d'onore, gli invitati sono scattati tutti in piedi con uno scrosciante applauso: una "standing ovation", come si dice in inglese, che non finiva più. E che è sembrata un modo per sottolineare da che parte stia l'umore della gente, o perlomeno degli ex commilitoni del principe: a dispetto delle polemiche della casa reale e dei gossip spesso maligni (l'ultimo è che Kate avrebbe volutamente distolto l'attenzione mediatica da una cerimonia a cui partecipava Camilla, la moglie di Carlo), il cuore e la pancia del Paese sono con loro. A conferma che, per quanto William e Kate abbiano anch'essi guadagnato plausi e prime pagine nella recente visita in Irlanda, le vere star dell'opinione pubblica inglese sono i duchi ribelli del Sussex. E soprattutto la duchessa, naturalmente, apparsa radiosa, sorridente, felice e sicura di sé come raramente da quando si è fidanzata con il nipote birichino e prediletto di Sua Maestà. Tanto sicura da permettersi di dire, in un discorso in una scuola della capitale per celebrare l'8 marzo, che per le donne è più importante che mai avere il coraggio di "parlare per difendere quello che ritengono giusto". Un'allusione a sé stessa nel non sempre facile rapporto con la monarchia britannica? "Non c'è dubbio che Meghan abbia subito attacchi razzisti in Inghilterra", afferma la scrittrice Hilary Mantel, autrice del bestseller sulla dinastia dei Tudor "Wolf Hall", schierandosi anche lei decisamente dalla sua parte. Un addio a Londra in grande stile, insomma. La stella di Meghan Markle non pare affatto al tramonto. Anzi.     

Luigi Ippolito per il “Corriere della Sera” il 9 marzo 2020. Londra Harry e Meghan, ultimo atto. Oggi cala il sipario sui duchi di Sussex: l'impegno ufficiale conclusivo come membri di casa Windsor, poi via, verso il Canada, verso una nuova vita. Tutti gli sguardi saranno su di loro, nella Abbazia di Westminster, dove oggi si celebra la Giornata del Commonwealth. Tutti a scrutare un eventuale disagio, un possibile imbarazzo: perché Harry e Meghan saranno accanto alla regina, accanto a Carlo e Camilla, soprattutto accanto a William e Kate - quella famiglia reale che hanno scelto di disertare, quella monarchia cui hanno deciso di abdicare. E soprattutto lei sarà al centro dell' attenzione: perché in fin dei conti la loro fuga è diventata la «Megxit», l' uscita di scena dell' attrice hollywoodiana, altrettanto traumatica della Brexit. Meghan ha affrontato questi ultimi giorni «non senza qualche trepidazione», ha fatto sapere una fonte a lei vicina. Ma in realtà la giovane coppia non è mai apparsa così sgargiante come in questi impegni finali. Il vero congedo è avvenuto sabato sera, alla Royal Albert Hall, dove si sono presentati con un look rosso fuoco: lei fasciata in un abito di Safiya, lui con indosso l' uniforme di gala di capitano generale dei Marines - l' ultima volta che la vestiva, poiché ora dovrà abbandonare anche quel grado, assieme al titolo di Altezza Reale. Ma quando hanno preso posto nel palco d' onore, sono stati salutati da un applauso scrosciante da parte del pubblico in piedi.

Che ha fatto chiedere a molti: perché se ne sono andati? Perché hanno rinunciato a tutto questo? La risposta, forse, sta in quell' altra immagine, quella scattata giovedì scorso, quando sono riapparsi in Gran Bretagna alla Mansion House: raggianti, lui che le regge l' ombrello, mentre le gocce di pioggia fanno corona come diamanti nel buio della sera. L'istantanea della coppia più famosa del mondo, già transitata a pieno titolo nell' universo scintillante delle celebrities . Ed è qui che sta la contraddizione che ha portato alla rottura. Perché fare i reali, come Elisabetta ha mostrato in settant' anni di regno, significa innanzitutto senso del dovere e sacrificio di sé. Stringere mani, tagliare nastri, sorridere, salutare. Quello che William e Kate continuano a fare, ligi alla consegna. Per di più, Harry e Meghan erano in fondo dei reali di seconda fila, condannati a stare sempre un passo indietro rispetto agli altri. Non certo quello che lei avrebbe voluto, abituata a pretendere riflettori sempre più abbaglianti. Eppure era stata accolta a braccia aperte in quella che doveva essere la sua nuova patria. Certo, oggi c' è chi parla di «razzismo abominevole» nei suoi confronti, come ha fatto la scrittrice Hilary Mantel: ma tutti ricordano l' estasi che ha accompagnato i giorni del matrimonio, nel maggio di due anni fa. Quando Meghan era stata salutata come una ventata fresca che avrebbe dovuto rinnovare la frusta monarchia britannica, la duchessa di origine afro-americana che avrebbe rappresentato al meglio una nazione multietnica. Ma poi le cose sono andate storte. Perché i duchi di Sussex si sono rivelati quali due ragazzi viziati, che hanno presto stancato con i loro capricci. Impegnati a fare la morale, mentre scorrazzano per il Mediterraneo fra jet privati e ville lussuose. Che si fanno pagare dai contribuenti - tre milioni - la stravagante ristrutturazione del loro «cottage», la magione di Windsor dove sono andati ad abitare. Che tengono semi-segreti la nascita e il battesimo del figlio Archie - quando la monarchia è un ruolo pubblico. Ma che soprattutto, alla fine, infliggono dispiacere e insulto a Elisabetta, minacciando di fare mercato di quel marchio reale cui non hanno più diritto. Oggi, dopo l' ultimo inchino, voleranno via da tutto questo: a prendere il loro posto fra quelle celebrità americane alla cui compagnia aspirano e il cui glamour di plastica invidiano. Ma quanto potrà durare, lontano dalla magia del Palazzo? Quanto resisterà il luccichio allo scorrere del tempo? Il rischio, come ha scritto qualcuno, è che fra qualche anno, ai party in California, Harry si ritrovi a essere «quel tizio in un angolo che una volta era stato un reale».

Da “il Messaggero”  il 9 marzo 2020. Lo strappo dalla Royal Family è ormai dietro l'angolo, con l'ultimo impegno ufficiale da membri senior di casa Windsor in agenda per oggi. Ma i riflettori restano tutti per Harry e Meghan, ribelli e sorridenti. E sopratutto per Meghan, capace di rubare implacabilmente la scena al ritorno a Londra alle altre signore di corte, in particolare sullo sfondo degli eventi dell'8 marzo, Giornata della Donna. Il passo d'addio è fissato col Commonwealth Day, appuntamento solenne caro alla dinastia in calendario oggi per il quale i duchi di Sussex sono tornati in patria su espressa richiesta della 94enne regina Elisabetta e in cui torneranno a schierarsi in pubblico con il resto della famiglia prima di riattraversare l'oceano alla volta del Canada, verso la vita «più indipendente» che si sono scelti, e formalizzare il passo indietro da aprile. Ma intanto i momenti da protagonisti assoluti non mancano, in coppia o da soli. L'ultima conferma è arrivata dall'accoglienza trionfale ricevuta dall'ex attrice afroamericana durante una visita alla scuola Robert Clack di Dagenham, nella zona est di Londra, crogiolo della nuova Gran Bretagna multietnica. Mentre, di sfondo, si registra un passo falso proprio dei loro supposti, impeccabili rivali, il principe William, fratello maggiore di Harry, e la moglie Kate, reduci da una missione di amicizia in Irlanda macchiata da una gaff: fra precauzioni ignorate sull'emergenza coronavirus, a colpi di abbracci e strette di mano, e qualche battuta di troppo («siamo venuti a contagiarvi») bollata sui social come uno «scherzo fuori luogo».

Meghan e Harry, l’ultimo impegno reale dei Sussex è nel nome del Commonwealth. Pubblicato lunedì, 09 marzo 2020 su Corriere.it da Enrica Roddolo. Il Commonwealth doveva essere il loro futuro, invece - curiosa coincidenza o destino - è il loro ultimo impegno nella Royal family dei Windsor. E il loro addio a una vita da Senior Royals durata peraltro pochissimo, dal maggio 2018 con il sì a Windsor ad oggi. Addio accolto da una folla di appassionati della monarchia britannica, molti con la mascherina per proteggersi dal rischio del Covid 19. Il Commonwealth doveva essere il futuro impegno reale dei Sussex, Harry aveva preso il ruolo di Commonwealth Youth Ambassador. E Meghan sul suo velo da sposa aveva fatto ricamare i fiori delle 53 nazioni che compongono il Commonwealth, quel che resta del glorioso impero britannico. Ed è proprio al mondo del Commonwealth che è dedicata la cerimonia a Westminster Abbey alla quale Harry e Meghan sono arrivati - lei fasciata di verde smeraldo, lui in giacca e cravatta — assieme alla Royal family riunita per questo appuntamento. Riunita, ma divisa: già perché se un anno fa la regina, Carlo e Camilla e i Cambridges e i Sussexes erano arrivati tutti in corteo a Westminster, quest’anno i duchi di Sussex sono stati tenuti in disparte. O meglio fatti accomodare ai loro posti senza che abbiano partecipato al corteo con la regina. Per la verità, stessa sorte è stata decisa - all’ultimo - anche per William e Kate reduci dal successo del viaggio storico in Irlanda la settimana scorsa. Il motivo? Buckingham Palace non ha voluto svelare la ragione di questa scelta, che ha cambiato all’ultimo il cerimoniale. Forse per non accentuare il distacco tra Cambridges e Sussexes? Di certo, alla regina, sorridente in azzurro, il passo indietro dal loro impegno a tempo pieno come Royals deve essere costato molto, appunto perché per loro aveva immaginato un ruolo come perfetti ambasciatori di quel Commonwealth che come ha ricordato la sovrana anche oggi «con la sua famiglia di nazioni così diverse costruisce la forza del regno». La regina ieri ha incontrato a Windsor Meghan con un intenso faccia a faccia che arriva giorni dopo quello con il nipote Harry nel quale, oltre al rammarico di non aver potuto vedere il piccolo Archie rimasto Oltreoceano, sicuramente avrà ribadito che per loro - la porta resta comunque aperta. Non a caso non utilizzeranno più l’appellativo di HRH, ma non lo perdono affatto. Come restano duca e duchessa di Sussex. E in più - casomai avessero un ripensamento - Harry resta presidente del Queen’s Commonwealth Trust e Meghan vice-presidente del trust.

Il principe Harry vittima telefonica di una falsa Greta. Secondo alcune indiscrezioni, il Principe Harry sarebbe stato intercettato da alcuni comici russi e vittima di uno scherzo telefonico in cui si è discusso della Megxit e della politica di Donald Trump. Carlo Lanna, Mercoledì 11/03/2020, su Il Giornale. Nel corso della giornata di oggi, mercoledì 11 marzo, le agenzie stampa hanno battuto una divertente quanto inusuale notizia che riguarda niente meno che il Principe Harry. L’ex duca di Sussex, tornato da pochi giorni a Londra per gli ultimi impegni da membro della famiglia reale, sarebbe stato vittima di uno scherzo telefono. Che sia vero oppure no, questo ancora non è dato saperlo. Gli autori del bizzarro scherno telefonico ai danni del Principe Harry sarebbero stati due comici russi, Alexey Stolyarov e Vladimir Krasnov. Hanno sostenuto di averlo chiamato alla fine di dicembre. Si sarebbero spacciati per Greta Thunberg e suo padre e affermano di aver parlato a lungo con il nipote della regina Elisabetta II del recente "divorzio" dalla Famiglia reale. Una scelta "non facile", avrebbe commentato il duca di Sussex. Negli ultimi due giorni è tornato comunque a far parlare di sé dopo che, insieme a Meghan, ha partecipato al Commonwealth Day a Londra, uno degli ultimi impegni ufficiale come senior member della Firm. "Qualche volta la decisione giusta non è sempre quella facile. E questa decisione certamente non lo è stata ma era giusta per la nostra famiglia, per proteggere mio figlio – avrebbe rivelato il principe durante la telefonata alla falsa Greta -. E penso che ci sia un sacco di gente nel mondo che si può identificare e rispettarci per aver messo la nostra famiglia al primo posto". Nel corso della telefonata, secondo i due comici, il duca di Sussex avrebbe anche attaccato il presidente americano Donald Trump e la sua politica ambientale, sostenendo che "solo per il fatto che spinge per l'industria del carbone, ha il sangue sulle sue mani". Ma non è finita qui. I due comici avrebbero affermato che ci sarebbe stata una seconda telefonata, avvenuta alla fine di gennaio, quando è stato annunciato l'accordo con la regina, e anche in quel caso Harry, si sarebbe mostrato molto disponibile. "Voleva parlare apertamente, sembrava volesse togliersi un peso dal petto ed eravamo le uniche persone con cui farlo", ha affermato Stolyarov, che di scherzi telefonici è un esperto. Dopo che ha ingannato personaggi come il cantante Elton John, il politico americano Bernie Sanders e l'attore Joaquin Phoenix, nella sua morsa sarebbe caduto persino un reale inglese. Verità o bugia? Sta di fatto che le dichiarazioni di Harry sono piccate e pungenti. Chissà cosa potrebbe accadere se arrivassero all’orecchio della Regina.

Ecco il diario segreto di Meghan E adesso la Royal Family trema. Non basta l'autobiografia di prossima uscita, ora spunta anche un diario segreto di Meghan Markle che di fatto potrebbe far tremare anche lui tutta la corte inglese. Carlo Lanna, Giovedì 14/05/2020 su Il Giornale. C’è sempre grande interesse per la vita di Meghan Markle. E la curiosità cresce di giorno in giorno dopo la sua proverbiale uscita di scena dalla royal family. Per lei si stanno aprendo diverse possibilità lavorative dopo la Megxit, ma come è noto a tutti, la pandemia ha messo in standby la sua vita, come quella di Harry e della neo-nata fondazione. Ma di certo i gossip sul suo conto non sono andati in vacanza. L’annuncio della sua biografia, dal titolo "Finding Freedom", ha scosso nel profondo le fondamenta della casa reale inglese. In molti temono che il libro possa rivelare particolari scottanti sulla sua vita dentro e fuori le mura di palazzo. Questa autobiografia però potrebbe non essere l’ultimo dei problemi per i Windsor. Secondo alcune indiscrezioni che sono trapelate in rete, e pubblicate poi sul Daily Mail, un’amica fedele di Meghan Markle afferma che la ex duchessa, durante il suo periodo di permanenza a corte, avrebbe tenuto un diario segreto. E secondo le prime ricostruzioni ciò che si legge tra quelle pagine è davvero scottante. Il diario sarebbe stato scritto nel 2018 e riporterebbe i momenti salienti che Meghan aveva vissuto da sola e accanto al suo Harry fra le mura di palazzo. Un diario dettagliato, scritto in prima persona, con diversi punti di vista su Kate, la Regina e la vita di Palazzo. Non ci sarebbe nulla di male dietro la scrittura di queste pagine, come afferma l’amica di Meghan, dato che la Markle da sempre ha avuto un’insana passione per tutto ciò che riguarda il "mondo delle parole". Infatti, due anni fa, in molti ricordano il numero di Vogue Uk che portava la firma proprio della ex duchessa di Sussex. "Il diario è una vera e propria cronaca della vita di Palazzo – afferma la fonte -. E potrebbe costruire la base per un nuovo libro sulla vita di Meghan". Il tabloid che ha spifferato il gossip rivela che ci sarebbe già una persona interessata a pubblicare il memoriale. Si crede che Andrew Norton, autore di alcuni libri su Lady Diana, abbia espresso l’intenzione di mettere mano al diario. "Meghan è una brava scrittrice. Ha uno stile molto pungente. Ha studiato inglese al Northwestern college – continua -. Quel diario si legge da solo. È un successo assicurato", conclude. Per ora le indiscrezioni non hanno trovato nessun tipo di fondamento, ma se queste pagine sono così scottanti come si crede, allora la Sovrana potrebbe avere diversi problemi da affrontare, che impallidiscono quasi di fronte al virus che attanaglia il Regno Unito.

Meghan Markle: il divieto imposto quando faceva l’attrice. Linda il 06/05/2020 su Notizie.it.  Da attrice, Meghan Markle imponeva a tutti i cameraman un divieto ben preciso: ecco qual era la richiesta della moglie del principe Harry.  Da quando ha sposato il principe Harry, Meghan Markle è senza dubbio diventata una delle donne più note a livello mondiale. Il Royal Wedding le ha infatti consentito di entrare nella famiglia reale inglese divenendo persino duchessa, pur se oggi ha rinunciato a ogni titolo e privilegio per rivendicare la propria libertà. Sono molti, tuttavia, quelli che ancora la chiamano principessa nonostante l’addio ai Windsor. Evidentemente i più non sanno che tale soprannome lo aveva già prima di incontrare il fratello di William! A rivelare tale scoop è stato uno dei cameraman che fino a qualche anno fa lavorava a fianco di Meghan sul set della serie tv Suits. In un’intervista al “DailyMail”, l’uomo avrebbe difatti raccontato alcune manie della duchessa a dir poco particolari. Ebbene, tra esse pare che quando era attrice la Markle imponesse all’intero staff un ordine ben preciso, ossia quello di non inquadrare mai i suoi piedi. Sembra infatti che li abbia sempre odiati, soprattutto per via di una cicatrice probabilmente legata a una operazione per correggere l’alluce valgo. Come se non bastasse, sul set pare che Meghan Markle si comportasse come una vera e propria diva, pretendendo di visionare il girato ogni giorno. Se da una parte dava prova di essere una professionista attenta, dall’altro appariva anche talmente esigente da portare taluni a soprannominarla appunto “principessa”. Potrà anche aver rinunciato alla corona e ai titoli reali, ma a quanto pare la bella statunitense è sempre stata capace di catalizzare l’attenzione dei media.

Quanto guadagnerebbero Harry e Meghan se fossero dei veri influencer? Da giorni si rincorrono le voci di presunte manipolazioni ai profili Instagram di Harry e Meghan, William e Kate, una possibile guerra senza esclusione di colpi, ma quanto guadagnerebbero i Sussex se fossero dei veri influencer? Francesca Rossi, Venerdì 06/03/2020 su Il Giornale.  I tabloid parlano da giorni di una presunto complotto che avrebbe come scopo la manipolazione dei profili Instagram di Harry e Meghan, William e Kate, in modo da far guadagnare loro sempre più visibilità e apprezzamento. Si tratterebbe di una vera e propria guerra senza esclusione di colpi, anzi di like, che vedrebbe i post dei royal tour e delle iniziative umanitarie dei giovani Windsor trasformati in una sorta di campo di battaglia su cui si confrontano due diversi schieramenti, i duchi di Cambridge e di Sussex. Possibile che si stia svolgendo una battaglia social tra le due coppie più in vista del mondo? Davvero dobbiamo pensare che Harry e Meghan, William e Kate abbiano bisogno di competere online per qualche commento o cuoricino in più? Soprattutto, se Harry e Meghan diventassero dei veri influencer quanto arriverebbero a guadagnare? Il New York Times ci aiuta a capire meglio questa strana situazione, che Vanity Fair definisce una possibile “cospirazione”. Da quando è scoppiato il caso Megxit Harry e Meghan hanno visto crescere a ritmo serrato il numero dei loro fans su Instagram. Il 26 gennaio 2020 è persino avvenuto un incredibile sorpasso social. L’account dei Sussex ha superato quello dei Cambridge. Un testa a testa che ha stabilito la vittoria dei primi sui secondi con 11,1 milioni di follower contro 11 milioni. Forse potevamo aspettarci una cosa del genere, dato il clamore suscitato dall’addio di Harry e Meghan alla royal family e dalla curiosità che ogni loro apparizione pubblica genera, ma c’è una stranezza che i tabloid non riescono a spiegarsi. I duchi di Sussex stanno pubblicando dei post dal contenuto profondo, di grande attualità, eppure è il numero dei follower del profilo dei Cambridge ad aumentare con una certa rapidità. Questo farebbe pensare a un uso improprio dei dati per accrescere la visibilità online di William e Kate a scapito di Harry e Meghan. Se diamo uno sguardo alle pagine Instagram delle coppie noteremo che entrambe sono arrivate allo stesso numeri di fan, cioè 11,2 milioni. Ricorderete che inizialmente i Cambridge e i Sussex condividevano lo stesso profilo Instagram aperto nel 2015. Dal 2 aprile 2019, però, Harry e Meghan hanno optato per una prima separazione social grazie a un account dalla grafica ben riconoscibile (sottolineata dal colore blu) e post di un certo spessore. @SussexRoyal è entrato persino nel Guinness World Record per aver toccato quota un milione di followers in 5 ore e 45 minuti. Eppure Harry e Meghan non sono mai riusciti a superare per lungo tempo William e Kate. I numeri, però, ci racconterebbero un’altra storia. Secondo CrowdTangle, un tool di analisi di dati dei social network, 9 post su 10 con più like condivisi dagli account di entrambe lo coppie sono focalizzati su Harry e Meghan. I post dei Sussex battono di netto quelli dei Cambridge per gradimento (13,5 milioni di like) e anche per commenti. Nonostante il continuo aumento dei follower di @KensingtonRoyal. Gli esperti di analisi hanno notato che sul profilo di William e Kate c’è una discrepanza tra i like ricevuti e la costante crescita della quota dei fan. Tuttavia i numeri riportati finora non garantiscono affatto che vi siano state delle manipolazioni volontarie su una o su entrambe le pagine, poiché le variabili da verificare sono troppe. Però Harry e Meghan potrebbero diventare dei veri influencer e guadagnare dalle loro pubblicazioni. Sul Sun la COO di Inzpire, Marie Mostad, ha fatto notare che se i Sussex usassero la formula dei post sponsorizzati potrebbero ottenere fino a circa 110mila dollari a post. Con la stessa strategia William e Kate trarrebbero un profitto di “soli” 52mila dollari circa. Chissà se i duchi di Sussex opteranno mai per una simile soluzione.

Da "grazia.it" il 30 marzo 2020. Meghan Markle e Harry hanno lasciato la loro casa in Canada per trasferirsi a Los Angels, e alcuni pensano l'abbiano fatto per soldi. Una fonte ha raccontato al National Enquirer che Meghan Markle avrebbe ordinato al marito, il principe Harry, di trovarsi un lavoro. Secondo la fonte, infatti, i Sussex hanno bisogno di soldi: hanno un debito di più di 7 milioni di euro e Meghan Markle ne sente tutta la pressione. D'altra parte, la Duchessa ha ripreso la sua carriera da dove l'aveva lasciata, diventando la voce narrante per il nuovo film Disney+ Elephant. (Anche se a quanto dichiarato i proventi sarebbero andati tutti in beneficenza).

Harry e Meghan hanno un grosso debito. È stato spifferato dalla fonte che da quando Meghan e Harry hanno lasciato il loro incarico come membri della famiglia reale, hanno esaurito le loro fonti per ottenere denaro. Tra tutte le spese e i rimborsi per il Frogmore Cottage, e tutte le nuove ville lussuose in cui vivono, i conti bancari della coppia si starebbero esaurendo rapidamente ed ecco spiegato il bisogno di contanti il prima possibile. 

La fonte ha detto: «Questo debito è un duro colpo per il loro ambizioso piano di diventare miliardari a ruota libera nel mondo. Meghan è terrorizzata che i suoi sogni di essere una regina di Hollywood restino distrutti da questo incubo finanziario e sta insistendo sul fatto che Harry si dia una mossa e risolva la crisi».

La fonte continua: «Il grosso problema è che Harry non ha abilità commerciabili, non ha mai avuto un lavoro vero e proprio. Non ha un titolo universitario né conosce una seconda lingua. Ha solo un addestramento militare. Harry ha rinunciato alla vita reale per la moglie ribelle americana, ma il suo sacrificio gli sta esplodendo in faccia. Il loro matrimonio è teso, potrebbero essere a un punto di rottura».

Servono soldi anche per la sicurezza. Come hanno detto fin dall'inizio, il principe Harry e Meghan Markle non vogliono (e non possono) più fare affidamento su fondi pubblici dopo essersi dimessi da reali.  E questo fa sorgere anche domande su chi pagherà per la loro sicurezza. Dal momento in cui sono entrati negli Stati Uniti e si sono trasferiti a Los Angeles, il presidente Donald Trump ha messo bene in chiaro le cose. 

In un tweet ha specificato che: «Gli Stati Uniti non sborseranno un soldo per la loro sicurezza e protezione. Dovranno pagare loro stessi». 

Non si è fatta attendere la risposta di Harry e Meghan. Il portavoce della coppia ha infatti detto: «Il Duca e la Duchessa del Sussex non hanno in programma di chiedere al governo degli Stati Uniti risorse economiche per la loro sicurezza. Sono stati presi accordi di sicurezza finanziati privatamente».

Antonella Guerrera per "repubblica.it" il 6 aprile 2020. Il presidente americano Donald Trump ha già fatto presente, su Twitter, che la scorta se la dovranno pagare da soli. Insomma, non il migliore dei benvenuti.  E ora che Meghan e Harry sembrano prossimi a trasferirsi a Malibu, come reagiranno i residenti della paradisiaca oasi californiana sulla spiaggia poco fuori Los Angeles, sulle cui rocche vivono tantissime altre star come Bob Dylan, Sting, Julia Roberts, Dustin Hoffman, Pierce Brosnan, Chris Martin dei Coldplay, Danny De Vito, eccetera? Secondo alcuni esperti citati dal Daily Mail non bene: "Potrebbero irritarsi per i cambiamenti che porteranno. E anche molte star potrebbero andarsene". I due duchi ribelli sinora ancora non si sono visti a Malibu. Ma oramai sembra quasi certo che presto vi compreranno una magione. Non facile, visto che anche le catapecchie dei pochi residenti "normali" rimasti nel piccolo ma ambitissimo centro da 13mila abitanti costano decine di milioni di dollari, fino ai prezzi allucinanti delle case sulla spiaggia: per esempio Peter Morton, il fondatore della catena Hard Rock cafe, ha appena venduto la sua per 120 milioni di dollari, il record di sempre nella contea di Los Angeles. Ma Harry e Meghan sembrano essersi convinti: starebbero già soggiornando in una villa di John Barnett Hess, magnate del petrolio e dell'industria chimica, in barba al presunto ambientalismo della coppia (vedi la polemica sui jet privati la scorsa estate). Del resto, anche la madre del principe di Windsor in fuga, Diana Spencer, aveva immaginato di trasferirsi qui con il suo amante Dodi Al Fayed, prima di morire a Parigi. Il problema è che Harry e Meghan avranno bisogno di una protezione speciale, in pratica ancora da reali e "inviati" del governo britannico, e dunque sono ben diversi dagli altri vip, che anzi si sono trasferiti qui proprio per avere quella tranquillità lontani dai paparazzi di Beverly Hills, grazie pure all'impervia e sconnessa località. Tranquillità che l'arrivo dei duchi del Sussex potrebbe seriamente minare. Lady Victoria Hervey, una esperta del settore che possiede case sia a Malibu che a Londra, ha annusato un po' gli umori e al Daily Mail ha detto che non è la sola a pensare che l'arrivo di Harry e Meghan a Malibu potrebbe far innervosire non poco gli altri vip: "Molti di loro potrebbero andarsene presto. Perché vivono a Malibu proprio per non avere misure di sicurezza stringenti, cosa che l'arrivo di Meghan e Harry potrebbe causare. Qui ci sono star molto più famose di loro, come la cantante Cher", che proprio di recente, ricorda il tabloid, ha dichiarato che i fotografi la fanno sentire "prigioniera a casa propria". "Chi vorrebbe vicini di casa calamite di paparazzi" come Harry e Meghan?, ha continuato Lady Victoria. Non solo. Anche i residenti "plebei" potrebbero non prenderla bene. Secondo l'esperta di moda Tracey Ross, che conosce molto bene Malibu, "qui i veri reali sono i locali più "poveri" che vanno a surfare o in spiaggia senza problemi", in quanto a Malibu le spiagge sono praticamente quasi tutte pubbliche e accessibili. Secondo Ross, molti di loro "non sono soddisfatti di avere residenti come Meghan e Harry qui. Perché non vogliono che tutto questo diventi ricercato, di lusso" e perda l'essenza comunque popolare che Malibu ha avuto sinora.

La replica a Donald Trump: "Non hanno in programma di chiedere soldi agli Stati Uniti". Lo Staff della ex duchessa risponde al tweet che è stato lanciato da Donald Trump in cui si è affermato che gli Usa non avrebbero pagato per la sicurezza di Meghan e di Harry. Carlo Lanna, Martedì 31/03/2020 su Il Giornale. Nelle ultime ora si torna a parlare dell’imminente uscita di Meghan Markle e del Principe Harry dalla casa reale dei Windsor. Oggi, 31 marzo, è l’ultimo giorno in cui potranno sfoggiare il titolo di “Altezze Reali” poi dal primo aprile, finalmente, saranno dei cittadini comuni. Tutto è pronto da diverso tempo, anche se non sono mancate critiche e assurde prese di posizione. Pare però che il peggio sia passato e, dopo l’annuncio pubblicato sui social nel corso delle ultime ore, Harry e Meghan sono pronti a voltare pagina. Ma il Daily Mail, il tabloid inglese che sta seguendo da vicino l’evolversi della situazione, rivela che al momento la situazione è ancora molto critica. Di recente e in piena emergenza da coronavirus, Donald Trump aveva scritto un tweet molto pungente rivolto ai duchi di Sussex, in cui affermava a gran voce che non aveva nessuna intenzione di attingere a fondi economici pubblici per pagare la loro sicurezza visto che ora vivono in territorio americano. La risposta da parte di Meghan Markle non è tardata ad arrivare, infatti attraverso il suo staff, replica alla polemica che è stata scatenata dal Presidente degli Stati Uniti. "Sia il Duca che la Duchessa non hanno in programma di chiedere al governo nessun tipo di risorsa economica per la loro sicurezza – afferma il portavoce -. Per conto loro e con le finanze che hanno a disposizione hanno già stipulato un altro tipo di accordo tra privati2. Come fa notare il tabloid, la questione si sarebbe inasprita per un motivo ben preciso. Tra Meghan Markle e il Presidente Trump non scorre buon sangue. Ancora prima di diventare duchessa, la moglie di Harry non ha mai appoggiato la politica del Tycoon, criticando aspramente le sue posizioni su immigrazione, politica estera e parità tra uomo e donna. Infatti, quando il Presidente è arrivato a Londra per diversi incontri ufficiali con la Regina, Meghan ha sempre declinato l’invito a partecipare a pranzi ed eventi di gala. La questione sicurezza resta però un grosso problema. Gli ex duchi di Sussex quando erano ancora membri ufficiali della royal family arrivavano a spendere quasi 8 milioni di sterline l’anno per una squadra di guardie del corpo. Ora il costo potrebbe lievitare sensibilmente e, forse, le loro finanze non potrebbero essere sufficienti. Sta di fatto, come ha fatto notare lo staff della duchessa, essendo privati cittadini, "Meghan ed Harry non avrebbero potuto comunque chiedere aiuti dallo stato". La polemica dunque lascia il tempo che trova.

Da "d.repubblica.it" il 7 aprile 2020. Si sono ispirati alla cultura dell’antica Grecia il principe Harry e Meghan Markle per il nome della fondazione che hanno intenzione di lanciare non appena finirà l’incubo coronavirus. La nuova vita di Harry e Meghan negli Stati Uniti comincia dunque a prendere forma. Abbandonate le terre di Sua Maestà la Regina Elisabetta II i duchi di Sussex sono momentaneamente a Los Angeles, per essere più vicini alla mamma di Meghan durante l’epidemia di coronavirus (sebbene l’attrice non abbia ancora incontrato la madre per precauzione), con i paparazzi che non vedono l’ora di catturare qualche scatto che li ritragga insieme: Mark Karloff, un veterano del settore, è arrivato a ipotizzare che la loro prima foto nitida insieme nella nuova residenza potrà avere un valore intorno ai 90.000 euro. Ed è proprio dalla California che Harry e Meghan stanno gettando le basi del loro futuro lontano dagli impegni reali, pensando a come ricostruire, o costruire da zero, le loro nuove carriere. Quel che è certo è che i due vogliono impiegare parte del loro tempo, dei lori soldi e della loro travolgente immagine per dedicarsi alla filantropia con una fondazione benefica che si occupi di volontariato. Non si sa ancora quando potrà essere lanciata ufficialmente, visto che il lockdown mondiale imposto dall’epidemia di Covid-19 impedisce sostanzialmente qualsiasi tipo di manifestazione pubblica, ma Harry e Meghan hanno svelato al The Telegraph il nome che hanno scelto per questo nuovo capitolo della loro avventura insieme, visto che sul marchio SussexRoyal, col quale erano approdati anche su Instagram, è stato posto il veto dalla stessa regina Elisabetta II. La fondazione si chiamerà quindi “Archewell”, una parola composta da due termini, uno greco e uno inglese, con un significato profondo. “Prima ancora di SussexRoyal c’era l’idea di ‘Archè’, la parola greca per ‘sorgente dell’azione’. Ci siamo collegati a questo concetto per la charity che speriamo di poter lanciare un giorno, ed è diventata anche l’ispirazione per il nome di nostro figlio Archie”. Dunque il concetto greco di “archè”, la forza primigenia che domina il mondo, è l’ispirazione principale per il nome scelto dai duchi di Sussex, alla quale però hanno deciso di unire la parola inglese “well” che “evoca le risorse profonde a cui ognuno di noi deve attingere”. Da qui Archewell, si suppone pronunciato all’inglese, che diventerà il nome sotto il quale verranno raccolte le opere di bene di Harry e Meghan “non appena il momento sarà opportuno”.

Il Principe Carlo e quei 2 milioni di sterline sul conto bancario di Harry e Meghan. Secondo fonti certe, il Principe Carlo avrebbe intenzione di aiutare economicamente gli ex duchi di Sussex inviando loro 2 milioni di sterline dal suo conto personale. Carlo Lanna, Sabato 04/04/2020, su Il Giornale. Trapelano altre indiscrezioni e voci di corridoio sui rapporti tra il Principe Carlo e gli ex duchi di Sussex. Alla luce di una Megxit che ha creato non pochi problemi e che, di fatto, ha inasprito i rapporti intra-familiari già ampliamente provati, l’ultimo gossip diffuso dalla stampa britannica, rimescola ancora una volta le carte. Come ha riportato il Daily Mail in un approfondimento pubblicato di recente, pare che il Principe Carlo nonostante i duri scontri con il secondogenito, avrebbe comunque intenzione di aiutare Meghan ed Harry nella loro vita al di fuori della corona. I due, infatti, ora vivono a Los Angeles e stanno cercando di mettere in atto il tanto agognato sogno di libertà e di indipendenza, ma come riportano le indiscrezioni, per la ex coppia reale non è facile trovare il filo perduto del loro destino. E il problema maggiore sarebbe proprio la mancanza di liquidità. Per questo motivo pare che l’aiuto del Principe Carlo sia assolutamente necessario. Fonti certe affermano che l’erede al trono, per 12 mesi, nonostante i litigi, i dissidi e le decisioni prese dal summit con la Regina, aiuterà il figlio economicamente. Sul conto di Harry verranno versate 2 milioni di sterline al mese, così da permettere al duca di poter dormire sogni tranquilli e affrontare con più serenità la vita vera. Non si tratta però di fondi pubblici, il denaro arriverà direttamente dal conto personale di Carlo. All’inizio della Megxit, per convincere Harry a restare, il principe del Galles aveva minacciato il figlio di tagliare tutti i fondi di cui disponeva, ma a quanto sempre, il duca era molto ferro nelle sue scelte e non si è fatto intimorire. Il tabloid inglese avrebbe affermato, inoltre, che il Principe Carlo di sua spontanea volontà avrebbe deciso di inviare questa ingente somma di denaro. Una scelta che potrebbe essere estesa anche oltre se Harry e Meghan non dovrebbero trovare un lavoro, o se i duchi dovessero avere difficoltà nell’inseguire i loro obbiettivi. Questo perché Harry, rispetto a Meghan, non ha qualifiche per gettarsi alla ricerca di un impiego e, per questo motivo, l’ex duca potrebbe vivere diversi momenti di ristrettezze economiche. Il principe Carlo, che solo qualche giorno fa ha parlato alla nazione affermando di essere guarito dal coronavirus, avrebbe deciso di aiutare il figlio senza chiedere l’appoggio della Sovrana. Infatti, durante il Summit del mese di gennaio, era stato deciso il taglio dei compensi reali, ma a quanto pare, il principe non è riuscito a digerisce una scelta così difficile.

Dagonews il 20 aprile 2020. Il duca e la duchessa del Sussex hanno comunicato agli editori dei giornali britannici di tabloid che non avrebbero mai più avuto a che fare con loro, in un attacco diretto senza precedenti a gran parte dei media che chiude la possibilità di riparare un rapporto entrato in crisi già da mesi. Harry e Meghan hanno inviato una lettera ai direttori di Sun, Daily Mail, Mirror ed Express dicendo che d'ora in poi non risponderanno più alle domande dei loro giornalisti. Attueranno una politica di "zero engagement", salvo continuare a fargli causa quando riterranno opportuno. In un attacco durissimo, il duca e la duchessa che si sono appena trasferiti a Los Angeles dopo una ''tappa'' canadese, hanno scritto che non intendono più "offrirsi come moneta per un'economia di clickbait e distorsione" e hanno accusato i media di diffondere storie "distorte, false o irragionevolmente invadenti". La mossa è progettata per dire al grande pubblico di non fidarsi di nessuna delle notizie sulla coppia che appare sui tabloid britannici. Il tutto mentre Meghan si prepara alla battaglia legale contro il ''Mail on Sunday'' per la sua decisione di pubblicare una lettera che lei aveva inviato a suo padre, con un'udienza in videoconferenza prevista per venerdì. Nella lettera Harry e Meghan dicono agli editori che credono che una stampa libera sia una pietra angolare di qualsiasi democrazia che possa “illuminare i luoghi bui, raccontare storie che altrimenti non sarebbero raccontate, difendere ciò che è giusto, sfidare il potere e metterlo davanti ai suoi abusi". E però ''è gravemente preoccupante che una fetta influente dei media, nel corso di molti anni, abbia cercato di isolarsi dal prendersi la responsabilità di ciò che dice o pubblica, anche quando sa che è distorto, falso, o irragionevolmente invadente. Quando il potere viene goduto senza responsabilità, la fiducia che tutti riponiamo in questo settore tanto necessario viene degradata. C'è un vero costo umano per questo modo di fare affari e colpisce ogni parte della società. Il duca e la duchessa del Sussex hanno osservato come persone che conoscono - così come i perfetti estranei - si sono ritrovate le vite stravolte per nessun motivo, oltre all'interesse economico dietro ai pettegolezzi piccanti".  “Non si tratta di evitare le critiche. Non si tratta di interrompere il discorso pubblico o di censurare articoli accurati. I media hanno tutto il diritto di riferire e avere un'opinione sul duca e sulla duchessa del Sussex, buona o cattiva. Ma non può essere basata su una bugia."

Luigi Ippolito per "corriere.it" il 27 aprile 2020. Sarà il libro-bomba dell’anno. «Reali del tutto moderni: il vero mondo di Harry e Meghan» sarà in vendita dall’11 agosto e racconterà la Megxit vista e vissuta dai duchi di Sussex, come loro stessi l’hanno riferita a una coppia di giornalisti fidati. Ma soprattutto promette di essere un regolamento di conti col resto della famiglia reale, che ha tagliato fuori dalla monarchia la coppia di fuggiaschi. E la memoria va inevitabilmente al libro-rivelazione di Diana, «La sua vera storia»: la principessa di Galles più di vent’anni fa affidò le sue confidenze ad Andrew Morton e fu così che riprese il controllo della narrativa reale e svelò al mondo la sua sofferenza, mettendo Carlo in cattiva luce. Il libro di 320 pagine con la biografia di Harry e Meghan, è facile prevederlo, sarà immediatamente un best-seller mondiale. E a Palazzo c’è preoccupazione: anche perché si teme che, come fece Diana a suo tempo, la coppia possa aver incoraggiato i propri amici a parlare con gli autori del libro per svelare retroscena scomodi. A firmare il volume sono Omid Scobie e Carolyn Durand: e oggi il Mail on Sunday racconta che, prima di rifugiarsi in America, Harry e Meghan hanno concesso loro un lunga intervista. Scobie è un giornalista anglo-iraniano che ha coperto i reali per anni ed è stato definito «il megafono» di Meghan: ha sempre militato nel campo dell’ex attrice ed è stato uno dei pochi ammessi ad assistere all’addio di Meghan al suo staff a Buckingham Palace. Durand è invece una rispettata giornalista americana, anche lei però con un debole per i duchi di Sussex. La notizia dell’arrivo della biografia per mano di due reporter «amici» arriva nel momento in cui i due ex reali hanno ingaggiato una battaglia con la stampa britannica. In piena emergenza coronavirus e alla vigilia del compleanno della regina, Harry e Meghan hanno annunciato che taglieranno tutti i rapporti con i tabloid, i quotidiani popolari di Londra, rei di diffondere «notizie false». Una mossa sicuramente dal pessimo tempismo e che non ha certo guadagnato simpatie ai Sussex, visto che significa anche snobbare milioni di lettori. Inoltre è appena partita in tribunale la causa intentata da Meghan al Daily Mail per violazione della privacy. Insomma, quanto basta per desumere che i Sussex sono insofferenti alle critiche che piovono loro addosso e preferiscono portavoce addomesticati per mettere avanti la loro versione dei fatti.

Simona Marchetti per "corriere.it" il 22 aprile 2020. La videochiamata al castello di Windsor è arrivata martedì poco prima dell’ora del tè e anche se era prevista (l’orario era stato assegnato da giorni, tenendo conto delle otto ore di fuso orario che ci sono fra la California e il Regno Unito), ricevere gli auguri per il suo 94° compleanno dal principe Harry, dalla moglie Meghan Markle ma, soprattutto, dal piccolo Archie (che compirà un anno il prossimo maggio e non vedeva da mesi) è stato comunque un bel momento per la regina Elisabetta. Un momento che per la verità sarebbe dovuto rimanere strettamente privato – come da espressa richiesta di Buckingham Palace, che la scorsa settimana aveva appunto annunciato che il compleanno di Sua Maestà non sarebbe stato ricordato in alcun modo speciale e che ogni chiamata o videochiamata di auguri da parte dei familiari sarebbe rimasta riservata – se non fosse che i Sussex si sono premurati di far sapere al mondo di aver chattato con la sovrana. A sottolineare l’anomalo comportamento è stato il Daily Mail (guarda caso, uno dei tabloid messi alla berlina da Harry e Meghan nella loro crociata contro una parte della stampa britannica per come li ha sempre trattati), che ha infatti rivelato che la coppia avrebbe dato precise disposizioni al loro portavoce affinché inviasse una email a un ristretto numero di media con la notizia della videochiamata alla Regina e della presenza del figlio Archie durante tutta la conversazione (altro dettaglio curioso – chiosa il giornale – vista la volontà dei Sussex di tenere il bambino il più possibile lontano dai riflettori). «La Regina ha ricevuto messaggi e chiamate da tutta la sua famiglia, il che ha reso il giorno del suo compleanno davvero molto speciale», ha raccontato un’anonima fonte a Vanity Fair), aggiungendo inoltre che la sovrana è stata aiutata dai suoi assistenti ad installare Zoom sull’iPad, così da poter fare le videochiamate con amici e parenti.

Emily Stefania Coscione per "iodonna.it" il 21 aprile 2020. Il Mail On Sunday è accusato di aver pubblicato estratti di una lettera inviata da Meghan al padre Thomas nell’agosto 2018, violando così la loro privacy. La testata britannica si difende sostenendo di aver agito in base all’interesse pubblico del documento.

Messaggi segreti. A pochi giorni dall’inizio dei lavori presso l’Alta Corte – e all’indomani dell’annuncio dei duchi di Sussex riguardo la cessazione di ogni collaborazione con i tabloid, accusandoli di pubblicare notizie false e distorte a fine di lucro – alcuni documenti hanno rivelato una serie di messaggi privati inviati da Harry al futuro suocero.

Le richieste di Harry. Nelle settimane precedenti le nozze dei duchi di Sussex, celebrate il 19 maggio 2018, Harry avrebbe chiesto a Thomas Markle di contattarlo esordendo con un «Tom, sono di nuovo Harry! Ho davvero bisogno di parlarti» e avvisando poi il suocero delle conseguenze spiacevoli che sarebbero state causate dalla sua collaborazione con i media: «Esporsi in pubblico potrà solo peggiorare la situazione», avrebbe scritto. «Se parlerai con i tabloid te ne pentirai. Fidati di me, Tom. Solo noi possiamo aiutarti. Io e Meg non siamo arrabbiati, vogliamo solo parlarti. Grazie».

Lo scandalo delle foto. Thomas Markle, 75 anni e residente in Messico, avrebbe dovuto essere presente alle nozze della figlia a Windsor, ma alcune foto che lo ritraevano mentre si stava preparando all’evento causarono uno scandalo, spingendo la coppia a contattarlo. Il padre di Meghan si limitò a rispondere con un comunicato emesso attraverso il sito news americano TMZ, in cui annunciava di essere stato ricoverato in ospedale in seguito a un infarto.

La preoccupazione di Meghan. Saputo del ricovero, il 15 maggio la duchessa scrisse al padre: «Ho cercato di contattarti tutto il fine settimana ma non hai risposto. Sono molto preoccupata per la tua salute. Stiamo cercando di proteggerti, ma non sono sicura di poter fare molto se continui a non rispondere». Meghan Markle avrebbe poi inviato altri sms: «Hai bisogno di aiuto? In quale ospedale ti trovi? Chiamami, ti prego. Sono molto preoccupata ma ora la tua salute è la cosa più importante».

Il botta e risposta prima delle nozze. Thomas Markle avrebbe risposto confermando che sarebbe rimasto in ospedale alcuni giorni ma, dopo essersi sottoposto a un intervento di emergenza, inviò un messaggio alla figlia dicendo che non avrebbe potuto essere presente alle nozze e scusandosi per tutto ciò che era successo. All’aspra risposta di Harry e Meghan, che lo accusarono di aver causato loro un enorme dolore, Markle Senior avrebbe reagito dicendo: «Non ho fatto nulla per farvi del male. Mi dispiace se il mio infarto vi ha causato problemi». Un messaggio che Harry e Meghan sospettano non sia stato scritto da Thomas Markle.

Il grande rimpianto del principe Harry: "La mia esistenza è stata stravolta". Il Principe Harry rimpiange la sua carriera militare: il duca si sentirebbe frustrato, ma pare che la colpa non sia di Meghan Markle. Elisabetta Esposito, Giovedì 30/04/2020 su Il Giornale. Al Principe Harry manca la vita militare. Come riporta il Mirror, il duca di Sussex - che la Regina Elisabetta II ha spogliato dei suoi gradi a seguito degli accordi per la Megxit - avrebbe rivelato agli amici quanto la sua vita “sia stata stravolta”: il duca rimpiange il suo passato tra armi e plotoni. Harry aveva ottento i gradi di capitano dei Royal Marines, comandante onorario della Royal Air Force Honington e comandante in capo di piccole navi e sottomarini. “Aveva trovato il suo paradiso quando prestava servizio nell’esercito - ha raccontato una fonte anonima - poi ha incontrato Meghan e ha vissuto un periodo grandioso. Ma non credo che abbia previsto che le cose potessero andare in questo modo”. La fonte ha spiegato che il duca non incolpa la moglie o il figlio Archie Harrison per come è cambiata la sua vita, in particolare con il trasferimento a Los Angeles, tuttavia il Principe si sentiva "meglio protetto" nelle forze armate. Il duca ha trascorso 10 anni nell’esercito ed è stato soprannominato Captain Wales dai suoi compagni. Ha anche svolto due operazioni in Afghanistan, qualificandosi come comandante di elicotteri Apache. E infine è stato il fondatore degli Invictus Games, dei giochi benefici che sono rivolti a ex componenti delle forze armate che hanno subito gravi problemi fisici o psicologici - come per esempio il disturbo post-traumatico da stress, molto diffuso tra i militari. La carriera si è fermata nel 2015 per Harry, che però ha sempre partecipato alle cerimonie militari e ha mantenuto i suoi gradi fino alla Megxit. Il duca ha affermato in passato che avrebbe desiderato continuare a indossare l’uniforme, mescolandosi con uomini e donne impiegati nelle forze armate. Ma il suo desiderio non sarà però esaudito: tra la Megxit e il trasferimento negli Stati Uniti, il futuro appare incerto. Attualmente Harry vive a Los Angeles e ha deciso di mantenersi con i propri fondi, cercando di lavorare per il sostentamento della sua famiglia. Nei prossimi giorni, ad esempio, andrà in onda nel Regno Unito la serie “Thomas il trenino”, che vedrà proprio il Principe come narratore. Nel frattempo, sono apparsi sui social dei vecchi scatti in cui Harry da piccolo tiene una riproduzione di Thomas sotto al braccio. Intanto Meghan è stata impiegata come voce narrante in un documentario Disney.

La vita di Harry a Los Angeles. "È confuso e disorientato". Non è facile scrivere un nuovo capitolo della sua vita; una fonte vicina al Principe Harry rivela che l'ex duca non a Los Angeles non trova la sua dimensione. Carlo Lanna, Sabato 16/05/2020 su Il Giornale. Tutte le attenzioni adesso sono puntate sul Principe Harry. Da inglese doc, per lui, non è stato facile lasciare la sua amata Londra e volare prima in Canada poi a Los Angeles insieme a Meghan e suo figlio. È stata una scelta molto difficile da digerire, ma gli effetti della Megxit, inevitabilmente, hanno costretto l’ex duca a prendere le distanze dalla vita di corte. Per il Principe è stato un duro colpo, questo è vero, perché la lontananza avrebbe acuito ancora di più i dissidi con il fratello e con il padre. Litigi che pare sia già un lontano ricordo, almeno come riportano le ultime indiscrezioni. Harry però è ancora inquieto, è ancora scontento, e lo conferma una fonte vicina agli ex duchi a Vanity Fair. La gola profonda è convinta che il Principe, mesi dopo la fuga da palazzo, oggi è ancora molto "confuso e disorientato". E quindi, secondo quanto è stato rivelato da fonti vicino alla ex coppia reale, il Principe Harry non riesce a trovare il modo di adattarsi alla nuova vita insieme a Meghan. Di certo la pandemia non è stata di grande aiuto, dato che il virus ha messo in pausa forzata diversi progetti che sia Harry che la Markle avevano in ballo, ma la radice dei problemi è un’altra. Harry sta passando un momento difficile, non è né un reale inglese né un uomo comune. Non è né un cittadino britannico né tanto meno è un cittadino americano. È tutto e niente. Questo spigherebbe il motivo per quale, negli ultimi due mesi, si sono intensificate le telefonate a suo fratello William e le video-chiamate al Principe Carlo. "Harry cerca di mantenere un legame con la sua famiglia", rivela la fonte. Un legame che di fatto è stato lui a recidere ma di cui pare essersi pentito. "Inizia a comprendere di aver fatto un errore. La malinconia sta mettendo in serio pericolo il suo rapporto con Meghan". La fonte aggiunge che, in tutto questo frangente, pare che anche l’amore del Principe per Meghan sia a rischio. La duchessa è come se fosse tornata a casa dopo un lungo viaggio, riuscendo a riannodare i fili della sua vita nonostante il matrimonio reale; Harry invece si sente "vuoto e spento". E non aiutata neanche la creazione di una charity che porta il nome di Archie e quella villa da 18 milioni di dollari. Harry è insoddisfatto e la stampa comincia a speculare sui reali motivi del suo umore. Non resta che attendere gli sviluppi.

Harry e Meghan non rimpiangono Londra. Ecco la loro nuova villa da 18 milioni di dollari. Harry e Meghan a Beverly Hills occupano una villa milionaria, di proprietà di un magnate amico di Oprah Winfrey. Qui ha anche vissuto Paris Hilton per circa un anno nel 2004. Francesca Galici, Venerdì 08/05/2020 su Il Giornale. Il principe Harry e Meghan Markle non ci pensano proprio a tornare in Gran Bretagna. La coppia, insieme al piccolo Archie, si è recentemente trasferita a Los Angeles da dove la consorte del figlio di Diana vuole ripartire con la sua carriera da attrice. Intanto, i due si godono la vita di coppia lontana dalle pressioni di Buckingham Palace, tra passeggiate e opere di beneficenza, senza ovviamente rinunciare al lusso. Pare che la loro attuale dimora nella luccicante Los Angeles sia una sontuosa villa da 18 milioni di dollari, di proprietà del magnate Tyler Perry. A rivelare i dettagli dell'abitazione è stato il Daily Mail, che ha pubblicato alcune foto della residenza da favola in una delle zone più esclusive della città. Stando a quanto apprende la redazione del quotidiano inglese, pare che Harry e sua moglie non abbiano ancora deciso se intavolare una contrattazione per l'acquisto dell'immobile di lusso. A procurare loro la mega villa è stata niente meno che Oprah Winfrey, carissima amica di Meghan Markle, una delle persone più influenti del mondo. La residenza si trova si trova su una delle colline di Beverly Hills, in una delle sue aree più residenziali. Qui sorgono circa 14 abitazioni di grandissimo pregio, ciascuna delle quale parte da un minimo di 20 mila dollari al mese per l'affitto. Ce ne sono alcune che arrivano a sfiorare i 40 mila dollari per il canone mensile. Cifre esorbitanti, impensabili per (quasi) chiunque, che però pare che Harry e Meghan siano pronti a sborsare per vivere in una casa da sogno in una delle città più mondane del pianeta. Il Daily Mail non ha indicazioni sugli accordi presi da Harry e Meghan, quindi non è chiaro se i due siano solamente dei graditi ospiti di Tyler Perry o se stiano pagando l'affitto commisurato all'occupazione. La villa dove stanno attualmente vivendo Harry e Meghan richiama l'elegante stile toscano. Sorge al centro di un'ampia area di quasi 90 mila metri quadrati. All'interno della villa sono state ricavate ben 8 camere da letto e addirittura 12 bagni. Certo, lo spazio per far giocare il piccolo Archie insieme agli amati cani non manca di certo ai duchi del Sussex. La villa non è certo nuova alle cronache, perché in passato, nel lontano 2004, ha ospitato un altro nome altisonante. Per circa un anno, le sue 8 camere da letto sono state occupate da Paris Hilton. Harry e Meghan si muovono con grande cautela, il team di sicurezza è sempre pronto a intervenire per garantire alla coppia il massimo della privacy, che viene garantita all'interno dell'abitazione da un sofisticato sistema di sorveglianza.

ANTONELLO GUERRERA per repubblica.it il 18 maggio 2020. Meghan e Harry, aprite il portafogli. Ve lo chiedono la Regina Elisabetta, il principe Carlo e tutti i Windsor. Perché la recente "ribellione" dei duchi del Sussex nei confronti della famiglia reale ha ovviamente un prezzo. Di cui ora, settimana dopo settimana, si scoprono sempre più dettagli. La notizia è che Harry e Meghan, da qualche settimana trasferitisi in California e per ora nella discreta magione da 15 milioni di sterline procurata da Oprah Winfrey a Beverly Hills (in attesa di comprare una casa tutta loro), saranno costretti a ripagare le spese di ristrutturazione della loro residenza in Inghilterra. E cioè quel Frogmore Cottage dove erano riparati due anni fa per stare il più lontano possibile da William e Kate, con i quali condividevano Kensington Palace ma i rapporti non erano più buoni, per usare un eufemismo. All'epoca, per rimettere a posto quella bucolica tenuta scelta dai duchi del Sussex, erano serviti 2,4 milioni di sterline. Ovviamente tutto denaro pubblico, gentilmente offerto dai contribuenti. Denaro evidentemente sprecato, visto che i due ribelli - in quella che è stata poi ribattezzata dai media "Megxit" - hanno poi abbandonato Frogmore Cottage, dopo solo pochi mesi, per trasferirsi insieme al piccolo Archie prima in Canada e poi negli Stati Uniti nella loro nuova vita, lontani dalla famiglia reale e dagli odiati giornali inglesi - ai quali hanno fatto pure causa. Ora, però, come scrive il Daily Mail, si scopre che nelle "clausole del divorzio" di Harry e Meghan dalla Famiglia reale, mediato personalmente dalla Regina la scorsa estate, c'è anche il rimborso dei soldi della ristrutturazione di Frogmore Cottage. Perché bisogna dare il buon esempio, non potete fare quello che volete e quelli erano soldi dei sudditi. Dunque, i duchi del Sussex saranno costretti a ripagare tutti i 2,4 milioni, in comode rate da 18 mila sterline al mese per i prossimi undici anni. Almeno, senza interessi.

Ora Meghan fa tremare Elisabetta II: "La verità sulle nostre dimissioni reali". Mancano pochi mesi ormai alla pubblicazione della biografia scandalo di Harry e Meghan, un libro che già si preannuncia un best seller e, c’era da aspettarselo, una nuova bomba mediatica sganciata sulla royal family. Francesca Rossi, Lunedì 18/05/2020 su Il Giornale. Sembra di essere tornati indietro nel tempo, alle ripicche tra Lady Diana e il principe Carlo, alle interviste scandalose e ai libri pieni di segreti inconfessabili. Dardi velenosi scagliati dalla principessa del popolo, a torto o a ragione, contro i Windsor e viceversa. Una guerra senza esclusione di colpi giocata sul campo della rivalsa. Oggi sono cambiati i protagonisti, ma la battaglia si preannuncia altrettanto cruenta, come racconta il Daily Mail. Harry e Meghan hanno deciso di raccontare la loro verità sulla Megxit, senza nascondere più nulla. I Sussex non vorrebbero più tacere in nome della famiglia e tantomeno del protocollo reale. La notizia dell’imminente pubblicazione della biografia di Harry e Meghan, “Finding Freedom: Harry and Meghan and the Making of a Modern Royal Family”, cioè “Alla ricerca della Libertà: Harry e Meghan e la Costruzione di una Moderna Famiglia Reale” ha fatto il giro dei tabloid di tutto il mondo. Scritto dal giornalista di Harper’s Bazaar Omid Scobie (definito dal Daily Mail una (cheerleader di Meghan") e da Carolyn Duran che lavora per Elle, il libro sarebbe stato completato grazie alla collaborazione di Harry e Meghan. Un lavoro durato due anni, coadiuvato da una lunga chiacchierata tra gli autori e i duchi che avrebbe dato al volume spessore, verità (o, almeno, una parte di essa) e una sorta di “imprimatur”, un carattere ufficiale che rende la lettura ancora più intrigante. Proprio come accadde nel caso della biografia di Lady Diana firmata da Andrew Morton. “Diana, la vera storia nelle sue parole” fu un best seller e ancora oggi ha un ottimo riscontro di vendite. Con ogni probabilità la biografia di Harry e Meghan seguirà lo stesso percorso verso il successo e diventerà una nuova bomba mediatica scagliata sulla monarchia inglese. C’è stato anche un piccolo mistero sulla pubblicazione del libro che, però, sembrerebbe in parte risolto. Su Amazon è già possibile prenotare la versione ebook, che sarà disponibile dal prossimo 11 agosto e quella cartacea, in vendita dal 20 dello stesso mese. Stando a quanto riportato da Marie Claire molti utenti inglesi che avrebbero provato ad aggiudicarsi una copia di “Finding Freedom” avrebbero ricevuto un messaggio in cui si chiariva che l’uscita del libro era stata bloccata dall’editore. Tra questi “sfortunati” vi sarebbe perfino l’ex addetto stampa della regina Elisabetta, Dickie Arbiter, che ha dichiarato su Twitter: “L’ho prenotata su Amazon la scorsa settimana e ieri mi è stato detto che l’ordine era stato annullato dagli editori. Qualcun altro ha avuto questo problema?” L’enigmatico messaggio firmato Amazon ha fatto subito pensare che dietro al presunto giallo sulla pubblicazione bloccata vi fosse la sovrana britannica. Forse non avrebbe gradito che i segreti e le vicende della sua famiglia venissero di nuovo esposte sulla pubblica piazza mediatica. Non lo sappiamo, brancoliamo nella nebbia delle ipotesi. Certo, tentare di bloccare una pubblicazione di questo tipo potrebbe creare ulteriore scandalo e polemiche. Da una parte si schiererebbero i sostenitori della libertà di espressione di Harry e Meghan, dall’altra quanti ritengono che questa libertà non possa ledere i diritti delle persone menzionate nel libro. Insomma, una questione in cui è spesso difficile stabilire un equilibrio. Comunque il sistema di prenotazione di Amazon.Uk risulta ancora bloccato, al contrario di quello italiano in cui è possibile effettuare il preordine. Tuttavia su Twitter Omid Scobie ha chiarito che si tratterebbe di un piccolo problema tecnico che verrà risolto a breve. Insomma sembra proprio che molti curiosi abbiano già tra le mani, almeno virtualmente, la copia della biografia di Harry e Meghan. Gli altri dovranno solo pazientare un po'. Magari potremmo pensare che il messaggio ricevuto da alcuni clienti fosse un espediente pubblicitario per amplificare il senso di attesa, ma non possiamo dirlo con certezza, visto che anche stavolta non vi sono prove in merito. Le dichiarazioni rilasciate da Harry e Meghan agli autori del libro sarebbero precedenti all’ufficializzazione dell’addio alla Casa reale inglese. Se consideriamo questo elemento con i due anni di lavoro già menzionati per la scrittura della biografia, potremmo chiederci da quanto tempo i duchi di Sussex meditassero sul loro trasferimento. Forse sarà proprio “Finding Freedom” a chiarire questo particolare. Non ci resta che aspettare e, nel frattempo, leggere ciò che la casa editrice “Dey Street Books”, del gruppo Harper Collins promette su questo futuro best seller internazionale nella quarta di copertina: “Pochi conoscono la vera storia di Harry e Meghan e questa biografia promette di andare oltre i titoli dei giornali per rivelare dettagli sconosciuti della vita di Harry e Meghan insieme, dissipando le molte voci e le idee sbagliate che hanno afflitto la coppia”. Il libro, quindi, promette tutta la verità, niente altro che la verità e gli editori sottolineano: “Finding Freedom è un ritratto onesto, ravvicinato e disarmante di una coppia che non ha paura di rompere con la tradizione, determinata a creare un nuovo percorso lontano dai riflettori e dedicato a costruire un’eredità umanitaria che farà una profonda differenza nel mondo”.

La ribellione della regina Elisabetta: così va contro tutti e indossa i pantaloni. Siamo abituati a vedere la regina Elisabetta indossare sempre tailleur con gonne lineari e rigide, ma qualche volta anche Sua Maestà ha infranto il severo dress code di corte e scelto un paio di pantaloni. Francesca Rossi, Lunedì 18/05/2020 su Il Giornale. Sarebbe strano pensare alla regina Elisabetta con indosso dei pantaloni. L’abbiamo sempre vista in tailleur con gonne e giacche dalla linea sobria e con colori pastello che rendono la sovrana ben individuabile tra la folla, anche a diversi metri di distanza. Per questo faticheremmo non poco a immaginarla con uno stile diverso. D’altra parte Sua Maestà è figlia di un’epoca in cui i pantaloni erano un capo d’abbigliamento quasi esclusivamente maschile e la solita, rigida etichetta di Buckingham Palace non contempla, per una regina, altre opzioni se non quelle della gonna e degli abiti (salvo casi straordinari). Eppure qualche volta anche la regina Elisabetta ha violato il protocollo e indossato dei pantaloni. A dire il vero in 68 anni di regno e in 94 anni di vita queste eccezioni si contano sulle dita di una mano, ma fanno trasparire il carattere indipendente di Lilibet. Vanity Fair ci ricorda che la sovrana mise dei pantaloni quando lavorava come meccanico durante la Seconda Guerra Mondiale. Anzi, le fotografie ce la mostrano in tuta da lavoro, a quell’epoca caso più unico che raro per una giovane principessa erede al trono. Se poi a questo aggiungiamo il fatto che la futura monarca si mise contro l’amato padre pur di frequentare il corso dell’Auxiliary Territory Service e dare il suo aiuto alla Gran Bretagna, la ribellione giovanile è completa. E non fu nemmeno l’unica. Nel giugno 1958, quando la Corona era ormai ben salda sulla sua testa, la regina Elisabetta visitò la miniera di Rothes Colliery indossando la tuta bianca da minatore e l’elmetto d’ordinanza. Secondo una superstizione alle donne non era permesso mettere piede in quel luogo, ma la sovrana sfidò etichetta e dicerie scendendo a 1600 piedi e completando la visita in 45 minuti. Naturalmente la regina Elisabetta ha bisogno di un abbigliamento adeguato per cavalcare, abitudine che non ha mai abbandonato, neppure per il suo 94esimo compleanno. In tutte le foto che la ritraggono in sella ai regali cavalli, che si tratti di scatti del passato o recenti, la sovrana indossa dei pantaloni. Nel 2003 Elisabetta subì un’operazione al ginocchio e per evidenti ragioni di comodità dovette lasciare le gonne nell’armadio. I fotografi colsero proprio l’istante in cui la regina usciva dall’ospedale in tailleur grigio e bastone. Inoltre nel 2010, mentre si trovava a bordo della Hebridean Princess per una vacanza con la famiglia nelle isole scozzesi, la regina Elisabetta scelse di nuovo i pantaloni.

Questo fa pensare che con ogni probabilità in un clima informale, lontano da telecamere ed eventi pubblici, Sua Maestà privilegi i suoi ruoli di madre e nonna, accantonando per un po’ i doveri del suo “mestiere”. Proprio come fanno tutte le persone che lavorano quando si ritrovano in famiglia. Purtroppo non conosciamo questo tipo di particolari così intimi. Possiamo solo supporre che a Balmoral, o negli appartamenti privati di Buckingham Palace, anche la regina trovi il tempo per rilassarsi standosene in tuta, per esempio. Quasi sicuramente non avremo mai la possibilità di vederla in questa “veste” casalinga, ma possiamo comunque tentare di immaginare. Ci fu anche un momento nella storia del regno in cui la regina Elisabetta decise di cambiare look. Era il 1970 e la sovrana affidò a Ian Thomas il compito di creare dei nuovi abiti per il royal tour che si sarebbe tenuto in Canada in quello stesso anno. Il sarto era stato allievo di Sir Norman Hartnell, ovvero lo stilista che aveva disegnato l’abito da sposa e per l’incoronazione della regina. Dunque Thomas aveva un’idea ben precisa tanto dei gusti di Elisabetta, quanto delle regole dell’abbigliamento regale. Proprio questa conoscenza gli consentì di sovvertire la norma e dare spazio all’estro, dando vita a un tailleur con pantaloni ampi e una giacca a tunica, doppiopetto ma senza collo. La creazione era perfetta sul fisico snello della regina Elisabetta, ma rappresenta un evento unico e irripetibile. Sua Maestà non indossò mai più nulla di simile e bisogna dire che è un vero peccato. A quanto pare la monarca non avrebbe mai portato neppure un paio di jeans. Eppure il Daily Mail racconta dell’esistenza di una fotografia scattata negli anni Settanta, ritrovata nel 2008 e messa all’asta da Reeman Dansie a Colchester. Si tratta di uno scatto che faceva parte di una serie di foto reali inedite in cui vediamo una giovanissima Elisabetta posare davanti all’obiettivo con un ampio cappello per ripararsi dal sole e un paio di pantaloni che sembrano proprio dei denim a zampa d’elefante. Sullo sfondo lo yacht reale Britannia. Sarebbe interessante sapere perché la regina Elisabetta non ha reso l’infrazione alla regola una norma. Con la sua tempra avrebbe potuto farlo. Magari i pantaloni non rappresentano il suo stile, potrebbero essere lontani dal suo concetto di eleganza. Questo, forse, non lo sapremo mai con certezza. 

Gran Bretagna, email dal Lord dei conti: la regina è in rosso. Pubblicato martedì, 19 maggio 2020 su Corriere.it da Luigi Ippolito. La pandemia ha scavato un buco da 20 milioni di euro nelle tasche della regina. Il collasso del turismo negli ultimi due mesi ha arrestato il flusso di visitatori nei palazzi reali, che l’anno scorso aveva fruttato a Elisabetta circa 80 milioni di euro: e dal Lord ciambellano, che gestisce i possedimenti della Corona, è partita una email allarmata a tutti i dipendenti. Non che la sovrana rischi la bancarotta: la monarchia riceve ogni anno dai contribuenti britannici circa 100 milioni di euro, che servono a coprire le spese ufficiali (e più di un terzo se ne va per il mantenimento di Buckingham Palace). Ma il Lord ciambellano ha avvertito che i progetti di rinnovamento verranno messi in pausa e i 500 dipendenti della Casa Reale dovranno aspettarsi il congelamento degli stipendi e forse anche dei licenziamenti. «L’intero Paese — ha fatto sapere Buckingham Palace — sarà probabilmente colpito sul piano finanziario dal coronavirus e la Casa Reale non fa eccezione». «Come molte organizzazioni — ha scritto il Lord ciambellano nella sua mail — non siamo immuni dall’impatto della pandemia sulle nostre posizioni finanziarie. Molti progetti sono stati bloccati e tutte le spese — tranne quelle essenziali — sono state sospese». Per capire l’entità del danno, basti pensare che il castello di Windsor frutta alla monarchia quasi 30 milioni di euro l’anno, mentre Buckingham Palace (che è aperto solo un paio di mesi estivi) ne porta circa 15 nelle casse della Corona. Ora tutti i palazzi reali sono chiusi fino a data da destinarsi: la Gran Bretagna infatti non ha ancora un piano certo per l’uscita dal «lockdown» e le chiusure potrebbero protrarsi fino a dopo l’estate. Contrariamente a quello che si può pensare, la regina non è ricchissima ed è notoriamente sparagnina: i possedimenti della Corona sono proprietà dello Stato e il suo patrimonio personale è stato valutato in soli 350 milioni di sterline (circa 400 milioni di euro), il che la colloca appena al 372esimo posto nella lista delle persone più ricche di Gran Bretagna appena pubblicata dal Sunday Times. Ma non è solo il portafogli a soffrire: anche l’agenda della regina è stata sconvolta dalla pandemia. Già tutti gli impegni ufficiali fino all’autunno sono stati cancellati e la sovrana rimarrà fino ad allora in isolamento a Windsor (con i suoi 94 anni, nessuno vuole correre rischi). Ma adesso si apprende che tutta la pianificazione degli appuntamenti fino al 2022 è in sospeso: il calendario della regina richiede infatti una lunga preparazione e va coordinato con quello degli altri reali oltre che con le visite dei dignitari stranieri. E poiché l’incertezza sul futuro è totale, al momento l’agenda per i prossimi due anni è vuota: anche l’annuale ricevimento diplomatico, quando Elisabetta incontra gli ambasciatori di stanza a Londra, è adesso in forse.

L'indiscrezione: "La regina è triste. Non sappiamo se tornerà mai al lavoro". Il coronavirus ha sconvolto i ritmi quotidiani del mondo intero e secondo alcuni esperti perfino la regina Elisabetta, a causa dei rischi legati all’età, potrebbe essere costretta a modificare per sempre le abitudini legate ai suoi impegni ufficiali. Francesca Rossi, Giovedì 21/05/2020 su Il Giornale.  Il coronavirus ha scardinato la nostra quotidianità, rimescolando le carte della vita in tutto il mondo. La pandemia è un evento che (quasi) nessuno si aspettava. Abbiamo sbagliato. Forse abbiamo peccato di presunzione, magari non avremmo dovuto affidarci troppo al nostro senso un po’ illusorio di illimitata sicurezza. Uno dei compiti per il futuro sarà proprio quello di lavorare sulla lungimiranza. Una dote che non sembra mancare alla regina Elisabetta. Anche la sua vita è stata messa in pericolo dalla presenza del virus e i suoi ritmi normali sconvolti dalla quarantena e da un domani incerto. La sovrana è in isolamento al Castello di Windsor dall’inizio della pandemia in Gran Bretagna. A tenerle compagnia c’è il principe Filippo, anche lui “sradicato” dalla quiete di Wood Farm (Sandringham), dove si è ritirato a vita privata nel 2017. La tenuta di Windsor è meno caotica di Buckingham Palace e, per questo motivo, sia la monarca che il suo staff sono più protetti dai rischi della malattia. Gli esperti reali, però, stanno già pensando al futuro della regina Elisabetta, come spiega Il Messaggero. Quanto durerà la quarantena di Sua Maestà? Quando e in che modo Lilibet potrà tornare ai suoi impegni ufficiali? Omid Scobie, uno degli autori della tanto chiacchierata biografia di Harry e Meghan “Finding Freedom”, ha spiegato la sua teoria in merito durante l’Heir Podcast. Il giornalista di Harper’s Bazaar ha chiarito: “Non sappiamo per quanto tempo potrebbe durare e, quando ho chiesto al Palazzo, un portavoce ha detto che la regina continua a essere impegnata e che seguirà i consigli appropriati sugli impegni mano a mano” e ha proseguito: “Data l’età della regina a 94 anni, è in una categoria ad alto rischio per Covid-19”. Anche il biografo Andrew Morton sembra avere le idee molto chiare su un possibile ritorno della regina Elisabetta e ha dichiarato al Sun: "Ѐ terribilmente triste, ma non riesco a immaginare come la regina possa riprendere il suo lavoro usuale" e ha aggiunto: "Il virus Covid-19 non se ne andrà via presto e resterà con noi per mesi, se non per anni. Sarebbe troppo rischioso per la regina iniziare a incontrare persone regolarmente". Sui giornali si è perfino ipotizzato che la regina Elisabetta possa decidere di non tornare più ai suoi impegni ufficiali, soprattutto a quelli che prevedono assembramenti. La questione dell’età, impossibile da trascurare in un momento come questo, non sarebbe l’unico dettaglio a far pensare a una simile virata. In gioco potrebbe esserci anche un cambiamento dell’immagine della Corona, ormai giunta a un bivio, alla necessità e alla volontà di rinnovarsi. Non serve scomodare la parola “abdicazione”. La regina Elisabetta potrebbe scegliere di delegare degli incarichi più difficili da gestire e più rischiosi per la sua salute al principe Carlo e al principe William. Del resto questa linea di condotta non è affatto nuova per la sovrana. Per ora, come ha chiarito Omid Scobie, la sovrana continua a lavorare a distanza, come molti di noi fanno già da settimane e i tabloid sostengono che si tenga in forma cavalcando tutti i giorni. La situazione della pandemia è in costante evoluzione, quindi è molto difficile fare delle previsioni per quel che riguarda il futuro di Sua Maestà. Per quanto riguarda l’ipotesi più funesta, cioè che la regina Elisabetta non torni più a svolgere i suoi dover ufficiali, le parole d’ordine potrebbero essere due: tempo e pazienza. La possibilità che si verifichi questa condizione esiste, ma semplicemente non è prevedibile con largo anticipo e neppure con una certa attendibilità al momento attuale. Anche in questo caso, insomma, vale il detto “non fasciarsi la testa prima di essersela rotta”. Infatti da una parte la regina Elisabetta ha una tempra d’acciaio che abbiamo imparato a conoscere molto bene e che le ha fatto superare scogli pericolosi in passato. Dall’altra la sovrana sa benissimo che dovrà cercare di seguire il più possibile il parere dei medici per il suo bene. Possiamo aspettarci che la monarca riesca a conciliare la sua determinazione con la realtà circostante, che sappia trovare un compromesso tra la sua missione come regina e la salute. I discorsi alla nazione durante la quarantena hanno dimostrato che la regina Elisabetta è ancora la più amata dagli inglesi e non è escluso che la sua immagine, ancora così potente sui mezzi di comunicazione, riesca ancora una volta a risollevare le sorti di una nazione che, al pari del resto del mondo, sta affrontando un’emergenza grave. Gli scienziati ci dicono che la pandemia finirà, così come è accaduto in passato. Bisognerà vedere quali conseguenze sanitarie, economiche e sociali si lascerà dietro, ma avrà una fine. Allora sarà possibile formulare ipotesi realistiche sul futuro e sulla rinascita di tutti, monarchia inglese inclusa. Per ora tempo, pazienza e buon senso. Non sarebbe strano se la regina Elisabetta riprendesse le redini della sua quotidianità, più forte che mai. A quel punto tutti i tabloid, forse, diranno che ancora una volta Sua Maestà è stata una fonte d’ispirazione per molti e che da una donna come lei non potevamo aspettarci altro se non il ritorno.

L'indiscrezione: "A Buckingham Palace la regina tiene separati gli uomini dalle donne". L’ex chef della regina Elisabetta, Darren McGrady, racconta la vita a Buckingham Palace, paragonandola alle atmosfere e alle trame intricate della celebre serie Downton Abbey. Francesca Rossi, Venerdì 29/05/2020 su Il Giornale. A Buckingham Palace gli uomini e le donne dello staff della regina Elisabetta vivono da sempre rigorosamente separati. Le vite degli abitanti del Palazzo reale, si tratti di nobili o di domestici, sono racchiuse in microcosmi modellati su rigide regole di comportamento a cui perfino i sentimenti vengono assoggettati. Sembra un cliché sugli inglesi? Non proprio. In questo modo, infatti, descrive la quotidianità nella residenza della regina l’ex chef Darren McGrady. Quest’ultimo ha lavorato a corte per 11 anni, dal 1982 (nel 1993 è stato assegnato a Kensington Palace, dove ha servito Lady Diana per 4 anni) e conosce molto bene le abitudini dei reali, ha potuto osservare da un punto privilegiato le trame delle loro esistenze, respirato l’atmosfera del potere dietro al quale si celano segreti e intrighi. Proprio la confidenza con questo stile di vita ha spinto McGrady a svelare al magazine Insider la somiglianza tra la quotidianità di Buckingham Palace e quella romanzata della celebre serie targata ITV “Downton Abbey”. Come spesso accade nelle opere artistiche (poco importa che si tratti di libri o di film) la realtà e la fantasia si sovrappongono per fondersi in qualcosa di nuovo, quasi inscindibile. Darren McGrady ha focalizzato il suo racconto sul lavoro dello staff di Buckingham Palace. Quasi sempre leggiamo le storie e gli scandali dei padroni dei palazzi, dimenticando che attorno alle regine e ai principi ruota una specie di “galassia” composta dalle persone che lavorano in questi ambienti, contribuendo a renderli vivi e a costruire l’apparenza fiabesca che noi vediamo. I collaboratori, dal primo valletto all’ultimo lavapiatti, sono il “backstage” non di uno spettacolo, ma di una storia vera che si dipana nella realtà di tutti i giorni. Del resto sono loro anche le proverbiali “orecchie” di cui sarebbe dotato ogni muro regale che si rispetti. A proposito delle persone che compongono lo staff di Buckingham Palace, Darren McGrady ha sottolineato che uomini e donne abitavano su piani diversi del Palazzo, dichiarando: “Avevo una stanza a Palazzo. Quando vivevo lì l’ambiente era suddiviso proprio come nello show Downton Abbey. Avevamo un’ala preposta alla cucina degli uomini e una per le donne, il piano dei domestici, il piano delle cameriere e non era consentito visitare i piani diversi dal proprio” e ha proseguito: “Se eri un cuoco o un valletto ma provavi a intrufolarti al piano delle cameriere e venivi sorpreso, eri in guai seri. Tutti vivevano separati, funzionava così. Eravamo parte dell’era vittoriana”. McGrady usa un’espressione idiomatica molto interessante, che rende bene quel tipo di vita: “it was the done thing”, ovvero un comportamento, una prassi socialmente accettata. Nel caso specifico significa che isolare gli uomini dalle donne era considerato un atteggiamento adeguato, in linea con i dettami e il rigore dell’epoca. McGrady ha anche spiegato: “Non si poteva neanche immaginare che uomini e donne single fossero insieme allo stesso piano”. Ancora negli anni Ottanta del Novecento la vita a Buckingham Palace era rimasta quasi immutata, almeno nelle norme di convivenza, dal regno vittoriano. Proibire ai membri dello staff di intrecciare legami che andassero oltre quelli professionali era un modo per mantenere un certo ordine e decoro (naturalmente ogni divieto può essere aggirato con la giusta accortezza), ma le regole vennero ulteriormente inasprite dalla regina Vittoria che, secondo la leggenda (probabilmente molto fantasiosa, fino al ridicolo, benché vi fosse una base reale di perbenismo piuttosto ipocrita), era talmente bigotta da far coprire persino le gambe dei mobili. Darren McGrady ha confessato, poi, che vivere a Palazzo era quasi come soggiornare in un hotel. Lo chef ha detto:“In qualità di domestici avevamo diritto alla nostra stanza, ma non ci rifacevamo neppure il letto la mattina. Ogni piano aveva la sua donna delle pulizie che entrava, rifaceva i letti, cambiava gli asciugamani e ti dava il sapone”. Dunque non esiste una gerarchia solo per gli aristocratici, ma anche tra i domestici di Buckingham Palace (dettaglio ben evidenziato anche in Downton Abbey). Tutto è rigidamente definito. McGrady ha aggiunto: “Era come un hotel, un’istituzione. Si può comprendere il motivo per cui le persone rimanevano lì per 30 anni o di più, perché ti veniva dato tutto ciò di cui avevi bisogno. Venivi pagato con un salario per le piccole spese”. Come riporta il Daily Express, già nel 2017 il maggiordomo Paul Burrell paragonò Buckingham Palace alla serie Downton Abbey, puntualizzando: “Se moltiplichi Downton per 100 ottieni Buckingham Palace”. Il Palazzo reale, secondo Burrell, è un mondo a sé, una piccola città guidata dalla sua regina, Elisabetta II.

Miriam Romano per “Libero quotidiano” il 21 maggio 2020. È come se lì l'incanto non si fosse mai rotto. L'emergenza Covid, i malati, i medici disperati in corsia, come non ci fossero stati. La tenuta sterminata, la foschia inglese, gli alberi secolari. La regina Elisabetta e i suoi cavalli. La regina inglese e i suoi novantaquattro anni che sfuggono alle intemperie del tempo. Con il suo foulard intrecciato al collo, la schiena dritta come una tavola levigata, le mani sicure stringono le redini. A suo agio, leggera, elegante. Non c' è stato un giorno per lei in questa quarantena, dicono i giornali inglesi, che abbia rinunciato ad andare a cavallo. Il suo hobby preferito. La sua valvola di sfogo. Accarezza la criniera del suo destriero, monta in sella con agilità e cavalca come fosse la cosa più semplice del mondo. Le immagini della regina e dei suoi cavalli hanno fatto il giro del mondo. Da far invidia l' eleganza, da far invidia il portamento, da far invidia la forma fisica. Nel suo incredibile castello a Windsor, dove si è ritirata per l' isolamento forzato, con una corte ridotta a circa una ventina di persone, ha rinunciato a impegni e svaghi, si è cimentata in dirette sul web e riunioni in streaming. Ma si è tenuta stretta i cavalli. Di loro non ha voluto far a meno. Tanto che vederla in sella fa pensare che forse stia tutto lì il segreto dei suoi anni ben portati. Il segreto di una vita lunga e senza le grane di salute che impestano chi si spinge così in là con l' età. Nel bel mezzo della quarantena, ad aprile, ha pure compiuto gli anni, 94 dicevamo. E giustamente per la sua salute, non ha voluto saperne di uscire in questo periodo per non incorrere in rischi di contagio, si è barricata nella sua residenza, insieme ai cavalli. Rinuncia persino ai suoi abiti, ad esibire le sue gonne inamidate, per cavalcare. Quando è in sella, e solo quando è in sella, la regina si concede di indossare i pantaloni e gli stivali in pelle. Via i vezzosi cappellini delle occasioni ufficiali e le decolté. Per lei, d'altronde, i cavalli sono una faccenda alquanto seria. Ha battezzato lei stessa i quattro animali che traino le sue carrozze, Tyrone, Claudia, Rui e St. Ives. Non si è trattato di un vezzo regale, la volontà di metter becco un po' dovunque, ma è lei stessa a prendersene cura di persona. Si può dire che si trovano in buone mani, perché la regina è considerata una delle allevatrici migliori al mondo. È un amore di lunga data che percorre quasi un secolo intero. Ad andare a cavallo la sovrana ha imparato da piccola, quando aveva solo 4 anni. Suo padre, re Giorgio, le aveva regalato un pony, Peggy. È da Peggy che è nato tutto. Ha sempre avuto cavalli al suo fianco. Ha sempre cavalcato e passeggiato insieme a loro. Ed è persino una delle più esperte di cavalli del Regno Unito. Tutte le mattine sfoglia il Racing Post, il quotidiano di riferimento dei patiti dell' ippica, prima di prendere tra le mani qualsiasi altro giornale o rotocalco. Alleva trenta purosangue e ha vinto tutte le principali corse della Gran Bretagna. Non che i soldi in fatto di passioni centrino sempre qualcosa. Ma che lo stalliere dei cavalli della regina sia uno degli uomini più pagati della corte regale inglese, dice più di qualcosa sul conto del legame tra la sovrana e i quadrupedi. Con uno stipendio di 22mila euro al mese, l' assistente della regina non può sgarrare in nulla. Inoltre, e la notizia è rimbalzata pure sui social di tutto il mondo, prima ancora di mettersi in quarantena con il marito Filippo, la regina ha pensato ai suoi cavalli. La sua prima premura in questi mesi, infatti, ancora antecedente alla salute propria, è stata rivolta ai cavalli. Ha ordinato il loro trasferimento dalle scuderie reali di Buckingham Palace a un luogo più sicuro: il palazzo di Hampton Court, fuori Londra, luogo incantato che fu la residenza di Enrico VIII e non è abitato dalla famiglia reale dal XVIII secolo. Insomma si può dire che ha donato un palazzo intero ai suoi destrieri.

Scoppia la "bomba" a corte: "Dopo lo scandalo la regina non mostrerà più al pubblico suo figlio". E' stato un anno difficile per Andrea di York. Oltre all'uscita della docuserie su Jeffrey Epstein e suoi legami con il duca, ora è pronto "Prince Andrew: The End of the Monarchy and Epstein", il libro che potrebbe sancire la fine della reputazione del principe. Mariangela Garofano, Sabato 23/05/2020 su Il Giornale.  Lo scrittore Nigel Cawthorne è in procinto di pubblicare una biografia sulla vita del principe Andrea, che potrebbe rivelarsi una “bomba a mano”, pronta ad affossare definitivamente l’immagine del duca. Ma non è tutto. Netflix rilascerà una nuova docuserie su Jeffrey Epstein:"Jeffrey Epstein: Filthy Rich", che esplora i crimini commessi dal finanziere e i suoi legami con Andrea. Nella serie, diverse vittime del milionario racconteranno gli abusi subìti, e tra queste comparirà anche Virginia Giuffre. La donna ha affermato di essere stata “svenduta” al duca di York all’età di 17 anni da Epstein e la sua diabolica complice, Ghislaine Maxwell. Cawthorne, autore di "Prince Andrew: The End of the Monarchy and Epstein", che uscirà a fine maggio, ha dichiarato al Daily Beast che difficilmente rivedremo il volto del duca di York in futuro.“La regina non lascerà che il figlio muoia di fame, ma non credo che farà vedere la sua faccia in pubblico di nuovo”, ha affermato lo scrittore, che prosegue: “l’Fbi ha detto chiaramente che prima o poi parlerà con Ghislaine Maxwell e la metteranno di fronte ad una scelta: fare la spia su di lui o finire i suoi giorni in galera. Quindi è meglio che Andrea stia lontano dagli Usa”. Cawthorne, parlando della biografia da lui scritta, ha racconto al Daily Mail come il principe sia passato dall’essere considerato dai media come il principe “dal look da star del cinema”, adorato dalle ragazze, a membro meno popolare della Royal Family. “Mi chiedo come si può conciliare il tipo poco raccomandabile con il principe azzurro di un tempo”, scrive Cawthorne, che al suo attivo ha numerose pubblicazioni, tra cui “Call me Diana: The Princess of Wales on herself”. Fin da bambino Andrea si è distinto dai fratelli maggiori, Anna e Carlo. Il suo soprannome era“baby brontolone”, per la sua ostinazione. Ma il terzogenito di Elisabetta e Filippo era anche il prediletto di casa Windsor, a cui tutto veniva perdonato. “Andrea ha un atteggiamento decisamente arrogante”, racconta Cawthorne al Daily Beast. “Ma ciò non deve sorprendere, se consideriamo che ogni volta che prendi un tè con tua madre, lei ti da una medaglia. Questo ti da una strana visione del mondo”. Il ritratto che emerge dal libro è dunque quello di un bambino viziato, a cui i genitori hanno sempre perdonato tutto. Ma ora la piccola peste è cresciuta. E non può più nascondersi dietro la gonna di Elisabetta. A questo proposito, sul coinvolgimento del duca nei traffici di Jeffrey Epstein, Cawthorne non ha dubbi: “Come poteva non sapere? Era un intimo amico di Ghislaine, non poteva non sapere”. A novembre 2019 il preferito della regina ha deciso di porre fine alle speculazioni sul suo conto, rilasciando un’intervista alla Bbc. Durante la chiacchierata con la conduttrice, Andrea ha negato categoricamente di conoscere Virginia Giuffre. Ma il suo tentativo di discolparsi dalle disonorevoli accuse non è piaciuto al pubblico, che ha notato in lui quell' arroganza di cui Cawthorne ha scritto nella biografia. La “mancanza di empatia” mostrata da Andrea nei confronti delle vittime di Epstein e l’evidente predisposizione a mentire, hanno sancito una volta per tutte la rovina del duca. A questo punto, Elisabetta e il fratello maggiore Carlo non potevano fare altro che imporre all’ormai caduto in disgrazia Andrea, di ritirarsi dalla vita pubblica, per salvare il buon nome dei Windsor. Ma potrebbe andare peggio di così per il terzogenito di Elisabetta? In aggiunta allo scandalo Epstein, ecco che recentemente una nuova umiliazione si è abbattuta sull’immagine in rovina del duca. Andrea e l’ex moglie Sarah Ferguson sono stati denunciati per non aver pagato la rata finale del loro chalet in Svizzera, che ammonta a circa 9 milioni di sterline. A meno di voler rispondere agli inquirenti sui suoi legami con il pedofilo Epstein, si prospetta un futuro decisamente meno mondano per Andrea, che per ironia della sorte, era soprannominato “Airmiles Andy", per la sua passione smodata per i viaggi. La vita casalinga potrebbe diventare una realtà definitiva, con la quale il duca dovrà convivere negli anni a venire.

Mal di pancia a corte: "Carlo è infastidito dai genitori di Kate Middleton". Il Principe del Galles si sentirebbe escluso dalla vita dei suoi nipotini. Il padre e la madre di Kate Middleton trascorrono molto più tempo d lui con George, Charotte e Louis, con grande dispiacere di Carlo. Sandra Rondini, Lunedì 18/05/2020 su Il Giornale. È guerra tra nonni per i piccoli George, Charlotte e Louis, i figli di William e Kate. Il Principe Carlo, stando a una fonte di Express UK, avrebbe messo in atto una guerra fredda con i consuoceri Carole e Michael Middleton, genitori di Kate Middleton, che trascorrerebbero più tempo di lui con gli adorati nipotini. Con Archie Harrison lontano, a Los Angeles, con mamma Meghan e papà Harry alle prese con la loro nuova vita da common milionari, a Carlo restano i tre nipoti figli di William. a cui, come ha svelato una fonte del tabloid, "è molto legato perché li ha visti crescere sotto i suoi occhi, a differenza di Archie con cui ha avuto finora pochi contatti ". Come già segnalato al Daily Mail nel 2016 dall’esperta reale Katie Nicholl "il Principe di Galles si sente tagliato fuori dai genitori di Kate, Carole e Michael, che ottengono di passare più tempo di lui con George e Charlotte. Lui, in confronto, li vede molto poco e nutre un po' di rancore al riguardo". Questo avveniva 4 anni fa, quando Louis, l’ultimogenito di William e Kate non era ancora nato, eppure a distanza di tempo non sembra che le cose siano cambiate. Katie Nicholl è infatti tornata a riproporre la questione su Express UK, aggiornando i lettori con nuove confdenze fattele da una fonte che farebbe parte della cerchia più intima del Principe Carlo. Secondo la Nicholl pare che sia Kate Middleton a fare di tutto perché i suoi figli si leghino molto ai suoi genitori che sarebbero "più alla mano e meno formali del Principe Carlo" che, nonostante il grande affetto che nutre per loro, "non riuscirebbe a superare una certa freddezza che non è indifferenza nei confronti dei piccoli, ma semplicemente il modo in cui è stato abituato ad esprimere le sue emozioni, senza troppi slanci emotivi". Come ben sanno i suoi stessi figli, William e Harry, che sebbene molto legati alla figura paterna, ricevano il calore di un abbraccio e tante tenerezze solo dalla madre Lady Diana. D’altronde non è un mistero a Corte che la Regina Elisabetta II abbia allevato il Principe Carlo con fermezza "perché - ha sottolineato la Nicholl - è così che i Windsor educano i futuri Re". Secondo l'esperta reale, quindi, la nonna più amata dai principini sarebbe Carole Middleton, unica e sola dato che dell’altra, Camilla Parker Bowles, non sono noti, stando a quanto le ha riferito la sua fonte, particolari gesti d'affetto verso nipoti comunque non suoi, ma acquisiti dopo il suo matrimonio con il Principe Carlo. L'nsider definisce Carole Middleton come una "presenza piuttosto invadente" quando è a Kensington Palace, residenza ufficiale di William e Kate, e "gelosa e possessiva" del suo rapporto con i tre nipotini. La Nicholl, al riguardo, cita due episodi in particolare. "Quando George nacque nel 2013, Carlo si lamentò di aver dovuto fare anticamera prima di vedere il nipote. In ospedale i genitori di Kate furono i primi a vedere la figlia che aveva da poco messo al mondo il loro primo nipotino e si intrattennero con lei a lungo, mentre Carlo attendeva fremente in corsia". Poi c'è l'episodio della terza festa di compleanno di George nel 2016. "Fu interamente organizzata dai Middleton. Carlo e Camilla non presero parte a nessuno dei preparativi, furono semplicemente invitati alla festa", rivela la Nicholl al tabloid inglese. "Carlo era stato tutto il giorno impegnato in una riunione a Clarence House per discutere di una campagna a tutela dei parchi dell'Inghilterra rurale. Ma fece di tutto per non perdersi la festa, mentre Camilla non ci andò, sostenendo di avere altri impegni. Carlo arrivò quasi alla fine della festa, mentre Carole e Michael Middleton avevano trascorso l'intera giornata a organizzare cibo e giochi per i bambini, facendoli divertire un mondo". La fonte della Nicholl ha aggiunto: "Carlo non voleva perdersi il compleanno del nipote, ma il fatto che l'intera faccenda fosse praticamente un evento dei Middleton con Carole che orchestrava l'intera faccenda l’ha molto innervosito, soprattutto perché suo figlio William non capiva il motivo del suo disappunto. Ancora oggi - prosegue la fonte della Nicholl - Carlo si sente escluso. Passa pochissimo tempo con i suoi nipoti ed è qualcosa che lo irrita profondamente. Non fa che ripetere quanto gli dispiaccia che le cose stiano così e che Wiliam non intervenga per spalleggiarlo, anzi, persino lui trascorre più tempo con i Middleton che con la sua stessa famiglia". Per rappresaglia contro il primogenito Carlo è arrivato, sempre nel 2016, a riprendersi il controllo di Birkhall, la proprietà scozzese che apparteneva alla Regina Madre e che la Regina Elisabetta II, nei primi anni di matrimonio tra William e Kate, aveva concesso loro come proprietà in cui godersi qualche bel weekend. Ma non solo. Carlo avrebbe fatto pressione perché i Middleton non fossero invitati a diversi eventi reali chiave nel 2016, come il concorso ippico di Ascot, il servizio di Ringraziamento per il 90esimo compleanno della Regina e il Royal Windsor Horse Show. Ma la punizione non sembra aver sortito alcun effetto: i consuoceri negli anni hanno continuato ad essere i nonni più presenti e amati dai piccoli di casa Cambridge, "con William che – sottolinea la Nicholl - ricorda bene quando cercava un abbraccio dal padre e non lo trovava, rifugiandosi sempre da sua madre Lady Diana, così materna da infrangere il protocollo che imponeva di impartire un'educazione più severa a un futuro Re, quale Wlliam è”. Anche il piccolo George un giorno sarà Re e papà William desidera per lui "un’infanzia il più possibile normale, piena d'amore. Da qui la scelta di privilegiare i Middleton perché più propensi a quegli slanci d'affetto di cui suo padre Carlo sarebbe incapace a causa dell'educazione ricevuta e per il suo carattere naturalmente schivo e riservato", ha concluso la Nicholl.

Il retroscena sul royal wedding: "Meghan e Kate hanno litigato per un paio di calze". Tatler rivela la ragione della frattura tra Meghan Markle e Kate Middleton: le duchesse litigarono per i collant delle damigelle al royal wedding. Elisabetta Esposito, Mercoledì 27/05/2020 su Il Giornale. Kate Middleton è “furiosa”, si sente “esausta e in trappola” per colpa della Megxit. Ma la frattura tra lei e Meghan Markle ha radici ben salde. Andiamo con ordine. La presunta rivelazione su quelle che finora sono state solo indiscrezioni arriva da Tatler Magazine, come riportato dal Daily Mail, che ha dedicato la sua copertina proprio alla futura Principessa di Galles, chiamandola “Catherine la Grande” in un articolo di Anna Pasternak, che svelò a suo tempo la relazione tra Lady Diana e il maggiore James Hewitt. Scandagliato il rapporto tra Kate e Meghan, sono state trovate le origini della faida reale. Tutta colpa di un paio di collant. O meglio, di sei paia di collant. Il giorno prima del royal wedding del maggio 2018, c’è stata una discussione tra le allora future cognate. Meghan non voleva che le sue sei damigelle, tra cui la principessa Charlotte, indossassero le calze: sarebbe stata una giornata molto calda. Kate invece, fedelissima al protocollo, ha insistito affinché le bimba avessero le gambe coperte. L’ha spuntata Meghan e infatti si può notare che, negli scatti ufficiali, le damigelle non indossano i collant. Che invece sono ben visibili durante il royal wedding di Kate, nell’aprile 2011. “C’è stato un incidente durante le prove del matrimonio - ha detto una fonte anonima a Tatler - È stata una giornata calda e apparentemente c’è stata una discussione sul fatto che le damigelle dovessero indossare o no i collant. Kate, che seguiva il protocollo, sentiva che avrebbero dovuto. Meghan non voleva che lo facessero”. La frattura tra la duchessa di Cambridge e quella di Sussex arriva fino a oggi, con un’“esausta” Kate, oberata dagli impegni con la royal family, costretta ad assumerne di nuovi dopo che Meghan e il Principe Harry hanno fatto un passo indietro lo scorso marzo. “Kate è furiosa per il carico di lavoro più ampio - ha rivelato un’altra fonte - Certo, sorride e si veste in modo appropriato, ma non ne ha voglia. Su sente esausta e in trappola. Sta lavorando duramente come un amministratore delegato di alto livello sempre in marcia, senza benefit e senza vacanze”. Il che non è certo quello che la duchessa di Cambridge desiderasse, dato che aveva in programma di trascorrere più tempo con i suoi tre figli. “Meghan e Harry - ha rivelato un’altra fonte - sono stati così egoisti. William e Kate volevano davvero essere genitori alla mano, ma i Sussex hanno davvero gettato i loro tre figli sotto un autobus”.

"Kate Middleton furiosa con Meghan". I collaboratori della regina rompono il silenzio. Nei giorni scorsi ha suscitato un certo clamore la notizia secondo cui Kate Middleton sarebbe molto arrabbiata con Harry e Meghan a causa della Megxit, ma una nota di Buckingham Palace smentisce categoricamente tutte le voci in merito. Francesca Rossi, Venerdì 29/05/2020 su Il Giornale. Da qualche giorno si susseguono indiscrezioni che dipingono una Kate Middleton addirittura furiosa con Harry e Meghan a causa del loro addio alla corte. L’origine di questa notizia è il magazine Tatler, che ha dedicato a Kate la cover con il titolo “Caterina la Grande”, un articolo a quanto pare concordato con lo staff reale e raccolto la confessione di un amico della duchessa di Cambridge. La fonte sostiene che il motivo di tanto presunto astio non starebbe nella Megxit in sé, ma nelle sue conseguenze sulla royal family, in particolare sui futuri sovrani d'Inghilterra. William e Kate stanno cercando da mesi di far fronte a tutti gli impegni che il loro rango richiede, ma ai doveri propri del loro ruolo si sarebbero aggiunti anche quelli di Harry e Meghan. Questo significherebbe non solo un doppio sforzo per il principe William e per Kate Middleton, ma anche minor tempo da dedicare ai figli. In proposito l’insider ha spiegato: “William e Kate vorrebbero ardentemente essere genitori presenti”, ma a causa della notevole mole di lavoro questo non è del tutto possibile. La fonte ha proseguito, spiegando che Kate Middleton “sorride, indossa i suoi abiti migliori, ma non vuole tutto questo. Kate è furiosa per via del nuovo e maggiore carico di lavoro”. Insomma, la duchessa cercherebbe di fare buon viso a cattivo gioco, ma sarebbe sfinita. L’insider ha anche dichiarato: “Lavora tanto duramente quanto fa un Ceo, costretto a essere costantemente sospinto qua e là. A differenza di un Ceo, però, non gode dei benefici dati da limiti chiari né ha una vita piena di vacanze”. Pertanto Kate sarebbe adirata soprattutto con Meghan Markle. La Megxit grava ancora sui Cambridge e la regina Elisabetta non ha neppure avuto il tempo di riassegnare i compiti di Harry e Meghan ad altri membri dei Windsor, per esempio alla contessa di Wessex, o alle principesse Beatrice ed Eugenia. Il coronavirus, infatti, ha stravolto il normale corso dell’esistenza di tutti, reali e non. Purtroppo l’addio dei Sussex è arrivato nel momento più sbagliato possibile, ma non è colpa di nessuno. La pandemia ha costretto la royal family a rivedere tutti i suoi piani, a spostare impegni o a ridefinirli secondo le regole dello smart working. La duchessa di Cambridge sarebbe stata travolta dai cambiamenti dovuti sia alla scelta dei cognati che alla quarantena. Se i doveri dei Sussex ricaduti sulle sue spalle non le lasciavano il tempo per organizzare la vita familiare, il virus ha ulteriormente complicato le cose, rendendo i limiti del suo lavoro da casa più flessibili, più “liquidi” per citare e parafrasare Bauman, con un inizio e una fine non sempre ben delimitati. Nel suo ruolo di futura regina consorte, poi, la duchessa non poteva proprio tirarsi indietro. Dunque potremmo spiegare così un presunto rancore di Kate Middleton nei confronti di Meghan Markle. Se non fosse per una novità arrivata a scombinare le carte in tavola. Il sito Royal Central ci informa di una nota di Kensington Palace giunta a sorpresa per difendere la moglie del futuro re d’Inghilterra. Un gesto importante da parte del Palazzo, che si “scomodato” per mettere a tacere un gossip. Un evento non così frequente. Un portavoce dei Cambridge ha respinto le accuse al mittente, puntualizzando che l’articolo di Tatler conterrebbe numerose “inaccuratezze e false rappresentazioni”. Le notizie trapelate dal giornale non sarebbero state né verificate né approvate dal Palazzo prima della pubblicazione. A quanto pare il giornale avrebbe presentato il ritratto di una Kate esausta, intrappolata nel suo ruolo, ansiosa di liberarsi dai doveri di palazzo. Non la duchessa sempre perfetta, pronta, calma e sorridente a cui siamo abituati. In linea teorica Kensington Palace avrebbe potuto sorvolare su queste affermazioni, come già accaduto in passato. Stavolta, forse, ha deciso di intervenire perché William e Kate ora più che mai rappresentano la Corona inglese. Probabilmente ha voluto preservare la loro immagine, non far trasparire eventuali problemi. I Cambridge sono il volto giovane e sereno della monarchia, le figure che mantengono ben saldo il timone del casato nella tempesta della pandemia. Tuttavia non è da escludere che le indiscrezioni relative a Kate Middleton siano davvero false, o magari ingigantite. Se anche la duchessa fosse stanca, lo capiremmo. Viviamo un periodo davvero turbolento, ma la speranza è che tutto possa tornare alla normalità il prima possibile. Per i comuni mortali e per i royal.

Luigi Ippolito per il “Corriere della Sera” l'1 giugno 2020. Panico nelle contee. I duchi di Cambridge (ossia William e Kate) sono scesi in guerra contro Tatler , la rivista che è la bibbia dell' alta società britannica, rea di aver pubblicato un articolo irriguardoso nei confronti della duchessa. Ma Tatler è il vademecum sfogliato in tutti i salotti della upper class : con chi bisognerà schierarsi allora? A dare fuoco alle polveri è stato il pezzo di copertina dell' ultimo numero della rivista, intitolato «Catherine the Great», Caterina la Grande: apparentemente un elogio della moglie di William, ma in realtà zeppo di perfidia. Lo ha firmato Anna Pasternak, pronipote dell' autore del «Dottor Zhivago», già scrittrice di diversi libri sui reali e rea confessa di «elitario snobismo». Nell' articolo si svelano i retroscena del litigio fra Kate e Meghan Markle, che al matrimonio di quest' ultima si sarebbero accapigliate sul dilemma calze sì/calze no per le damigelle (l' ha spuntata Meghan): ma soprattutto si riferisce che la duchessa si sentirebbe «esausta e intrappolata» a causa della diserzione dei duchi di Sussex, che ha scaricato su di lei una gran mole di lavoro che le impedirebbe di stare abbastanza con i figli. Le frasi peggiori però sono riservate alla famiglia Middleton, dove si ricorda che Carole, la madre di Kate, è una ex hostess nata in una casa popolare ed è una NQOCD ( Not Quite Our Class, Darling , non proprio la nostra classe, cara) che ha imposto il suo gusto pacchiano alla casa di William e Kate, definita «molto Buckinghamshire» (ossia la contea prediletta dai nouveax riches ): «Ben lontano dall' essere un tipica dimora aristocratica, con tappeti consumati e peli di cane ovunque, appare come uno scintillante hotel a cinque stelle, con cuscini e candele». Per finire, Kate viene indicata come «pericolosamente magra» e accostata per questo alla principessa Diana, che notoriamente oscillava fra anoressia e bulimia. E lei e la sorella Pippa vengono descritte in sostanza come delle scaltre arrampicatrici sociali. Ce n' era abbastanza per scatenare la reazione dei duchi di Cambridge: che già la settimana scorsa hanno fatto uscire un insolito e furibondo comunicato da Kensington Palace in cui definivano l' articolo «falso e inaccurato». Ma adesso, ha svelato ieri il Mail on Sunday , William e Kate sono addirittura passati alle vie legali: i loro avvocati hanno scritto a Tatler per ingiungere alla rivista di rimuovere l' articolo dal loro sito internet. Altrimenti finiranno in tribunale. E' un passo davvero fuori programma per una coppia riservata come i duchi di Cambridge: e che riporta piuttosto alla campagna contro i tabloid lanciata da Harry e Meghan, che hanno citato in giudizio il Daily Mai l per violazione della privacy (e hanno perso il primo round della causa). Vedere i membri della famiglia reale scendere in campo contro i giornali non è un bello spettacolo: e infatti i duchi di Sussex sono stati criticati per aver deciso di tagliare ogni contatto con i tabloid inglesi. Solo che ora nel mirino non è finito un giornale popolare o scandalistico, ma la rivista preferita dagli aristocratici (o aspiranti tali): Tatler è un mensile di gossip d' alto bordo, tutto marchesi e contessine impegnati in feste e balli, condito di consigli aspirazionali su come apparire davvero altolocati. Insomma, è una guerra civile in seno alla migliore società: e capire da che parte stare sarà più faticoso di una caccia alla volpe.

Lo "sfogo" durissimo di Meghan: "Hanno chiamato mia madre così". Meghan Markle, in un video del 2012, ha raccontato come un uomo abbia insultato la madre in pubblico dopo un concerto e lei si sia messa a piangere. Elisabetta Esposito, Mercoledì 03/06/2020 su Il Giornale. Colpita dal razzismo, Meghan Markle rivela i retroscena di ciò che ha subito nel tempo. Come riporta il DailyMail, la duchessa di Sussex ha partecipato nel 2012 a una campagna chiamata “I Won’t Stand For”, organizzata dall’associazione no profit Erase the Hate: Meghan Markle ha realizzato per essa un video in cui racconta la sua personalissima esperienza in termini di discriminazione razziale. La clip è tornata in auge su Internet a seguito delle proteste per la morte di George Floyd. “Per me è una questione molto personale - dice Meghan Markle - Sono birazziale, la maggior parte delle persone non sa dire quali siano le mie origini e in tanta parte della mia vita mi sono sentita una mosca su un muro. E quindi alcuni degli insulti che ho sentito, le battute davvero offensive o i nomiglioli, mi hanno proprio ferita molto duramente. Un paio di anni fa ho sentito qualcuno chiamare mia mamma con la parola con la N”. Quando parla di parola con la N, la duchessa si riferisce a «nigger», ossia «negra», che da sempre negli Stati Uniti ha una connotazione negativa e dispregiativa. Accadde mentre madre e figlia lasciavano un concerto: Doria Ragland si mise a piangere. Mamma Doria, quando Meghan era piccola, veniva spesso scambiata per la tata della duchessa. Nel prosieguo del video, Meghan Markle, che indossa una t-shirt con la scritta “Non sopporterò il razzismo”, esprime il desiderio di voler migliorare le cose negli Stati Uniti. “Sono davvero orgogliosa del mio retaggio da entrambe le parti - ha aggiunto l’ex attrice, che è afroamericana per parte materna e scozzese per parte paterna - Sono davvero orgogliosa delle mie origini e della strada che sto facendo. Ma spero che, quando avrò dei figli, la gente sia ancor più di mentalità aperta sul modo in cui le cose stanno cambiando e che avere un mondo mescolato sia normale. Sicuramente sarebbe molto più bello e interessante”. Nel filmato, Meghan Markle spiega ancora che la gente non immagina immediatamente come lei abbia radici afroamericane o quale sia la sua origine. A seguito del fidanzamento con il principe Harry, emerse un dibattito mediatico in cui ci si interrogava sul colore della sua pelle. “Mi trattano in modo differente”, prosegue la duchessa, che rivela come suo nonno, trasferitosi da Cleveland a Los Angeles, dovette usare la porta sul retro per entrare nei ristoranti. Non è la prima volta che Meghan Markle si apre sulle sue origini e su quanto i suoi genitori abbiano voluto che si sentisse non ferita dal razzismo. Nel 2015 ha raccontato a Elle che da bambina, le regalarono un set di bambole personalizzato, con una madre afroamericana, un padre caucasico e i figli misti.

"Volevano farla vergognare davanti a tutti". Il retroscena sull'addio di Meghan Markle. Meghan Markle avrebbe abbandonato Londra perché si sentiva quasi perseguitata dalla royal family, al centro di una presunta cospirazione che avrebbe mirato a metterla in cattiva luce, facendola sentire sempre inadeguata. Francesca Rossi, Mercoledì 27/05/2020 su Il Giornale. Dietro all’addio del principe Harry e di Meghan Markle alla vita di corte potrebbe nascondersi un piccolo giallo. Da mesi ci chiediamo quali siano i reali motivi del trasferimento dei Sussex oltreoceano e chi nella coppia abbia avuto l’idea di abbandonare Frogmore Cottage per gli Stati Uniti. In attesa di leggere “Finding Freedom”, la biografia che dovrebbe raccontare l’uscita di scena dei duchi dal loro punto di vista, abbiamo già delle prime indiscrezioni sulle cause della Megxit. Voci che, se mai venissero confermate, getterebbero nuove ombre sulla royal family, avvicinando sempre di più la vita di Meghan Markle alle trame intricate di un romanzo d’appendice. Un amico della duchessa di Sussex avrebbe rivelato al Sunday Times un retroscena davvero inquietante. L’insider ha spiegato: “Meghan era convinta che a Palazzo fosse in atto una cospirazione contro di lei, per farla vergognare. Per questo ha chiesto subito di lasciare Kensington Palace. Credo si sia sentita un’estranea a corte fin dall’inizio della sua love story con il principe” e ha continuato: “Non era abituata a convivere con determinati atteggiamenti, così ha spinto per un cambiamento radicale”. Avevamo già capito da molto che Meghan Markle non fosse riuscita ad adattarsi alla vita di corte, al gossip e alle regole del protocollo. Avevamo anche intuito che si sentisse esclusa dalla famiglia reale. Ricorderete di sicuro la frase pronunciata dalla duchessa durante la chiacchierata intervista per il documentario “Harry e Meghan. An African Journey”. In quell’occasione la Markle dichiarò: “Esisto, non vivo. Non sto troppo bene”. Un’affermazione disarmante, diretta, che non provava neppure a nascondeva il malessere evidente provato dalla moglie del principe Harry. Per amor di verità in questa fase in cui non conosciamo bene le cause dell’addio dei Sussex dobbiamo cercare di tenere ben distanti le sensazioni dalla realtà, sottolineando la differenza tra “sentirsi” in un certo modo ed esserlo effettivamente. Questo non significa affatto che Meghan Markle stesse esagerando o addirittura fingendo. Al contrario. Se la duchessa ha provato determinati sentimenti relativamente a degli eventi, è possibile che tra lei e la royal family sia mancato un dialogo più costante e profondo. Insomma, Meghan e i Windsor non si sarebbero capiti davvero e la colpa di ciò potrebbe essere imputabile a entrambe le parti. L’insider lancia un’accusa grave quando sostiene l’ipotesi della cospirazione per far “vergognare” la moglie del principe. Questo termine andrebbe approfondito, perché farebbe pensare a una specie di complotto di corte per isolare Meghan Markle. Qualcosa di premeditato e molto perfido. D’altra parte è vero che non tutti sono “tagliati” per ruoli ufficiali e protocolli reali. La duchessa di Sussex potrebbe non essere la persona giusta per gli impegni pubblici a cui la royal family è abituata da generazioni. Non ci sarebbe niente di male, né di strano. Forse siamo noi a interpretare nel modo sbagliato l’indole di Meghan. In lei vediamo l’attrice, immaginando di conseguenza che si trovi a suo agio nella parte della duchessa, continuamente sotto l’occhio vigile delle telecamere. Non è proprio così, forse. Un conto è recitare in un film secondo un copione già stabilito, un conto è vivere una vita sempre sotto i riflettori, finché la persona e il ruolo si fondono completamente. Secondo l’insider, Meghan Markle potrebbe aver sofferto anche per la mancanza dell’indipendenza economica. La moglie di Harry è abituata a lavorare e a vedere i profitti della sua professione. La fonte ha dichiarato: “Senza guadagnare un vero reddito è probabile che si sia sentita insoddisfatta e poi avrà avvertito la mancanza delle sue relazioni sociali”. Se diamo uno sguardo superficiale alla condizione di Meghan, un problema simile potrebbe sembrarci assurdo. Come è possibile lamentarsi dei privilegi? In realtà è più comune di quanto pensiamo. Chi è abituato a contare solo su se stesso, a costruirsi un ruolo nel mondo giorno dopo giorno, potrebbe non accontentarsi facilmente, pretendere (ed è suo diritto) di partecipare attivamente ai suoi doveri, poiché in gioco c'è il desiderio di “essere presenti a se stessi”, vivere pienamente. Forse il principe Harry ha compreso il disagio della moglie. Un insider ha raccontato al Sun che il duca non sarebbe affatto contento di leggere sui giornali il termine Megxit, perché fa sembrare che l’addio a Buckingham Palace abbia una sola origine, Meghan Markle. Invece secondo la biografia “Finding Freedom”, in uscita il prossimo 11 agosto, sarebbe stato proprio il principe Harry a scegliere questa sorta di esilio. Una fonte editoriale ha rivelato al Daily Mail: “La realtà è che è stato Harry a prendere la decisione. Il libro lo chiarirà e spiegherà perché era inevitabile che accadesse”. A quanto pare Meghan sarebbe stata d’accordo, ma avrebbe anche chiesto al marito se fosse sicuro di ciò che stava per fare, se davvero fosse ciò che voleva. La stampa britannica non è stata sempre clemente con la duchessa e forse neppure il suo staff, che l’ha accusata di essere “una despota capricciosa” che “già dalla mattina tartassa di mail i suoi collaboratori”. Quanto c’è di vero e quanto di costruito in questi ritratti poco lusinghieri di Meghan Markle? È attendibile la teoria di una presunta cospirazione ai suoi danni? Forse la biografia di prossima pubblicazione potrà chiarire molti dubbi.

Concetta Desando per iodonna.it il 6 gennaio 2020. La chiamano Principessa triste perché non sorride mai nelle foto. E lei lo sa bene. Ma questa volta, Charlene di Monaco ha voluto spiegare perché il suo viso appare spesso senza un filo di gioia. «Le persone sono molto veloci nel dire: “Oh, perché non sorride nelle foto? Be’, a volte è difficile sorridere», ha detto la principessa durante un’intervista rilasciata alla rivista sudafricana Huisgenoot. «Non sanno cosa sta succedendo dietro». Solitamente timida con la stampa, la moglie del Principe Alberto di Monaco si è lasciata andare per la prima volta con sincerità a confessioni sulla sua vita privata. Spiegando anche perché non sorride nelle foto, soprattutto negli ultimi tempi. Charlene ha spiegato che lo scorso anno è stato particolarmente doloroso per lei, segnato dalla morte di due amici a distanza di dieci giorni e dalla preoccupazione per la salute del padre, che ha subito un intervento chirurgico in Sudafrica, suo Paese d’origine. Alla radice della sua tristezza, però, ci sarebbe anche la nostalgia di casa. Anche se suo fratello Mike Wittstock e la sua famiglia vivono a Monaco, la principessa si rammarica di essere lontana dal suo Paese. «Ho il privilegio di avere questa vita, ma mi mancano la mia famiglia e i miei amici in Sudafrica e spesso sono triste perché non posso essere sempre lì per loro» ha detto. A febbraio ha portato i suoi figli, i gemelli Jacques e Gabriella, 5 anni, in Sudafrica per la prima volta. «Ho sognato a lungo di portarli lì, mostrando loro il Sudafrica e anche Benoni, la città in cui sono cresciuta», ha spiegato. «I bambini erano impazienti di vedere il nonno e la nonna. Sull’aereo, quando siamo arrivati, guardavamo tutti e tre dal finestrino e Jacques ha gridato: ‘Wow, questo è il Paese da dove vieni, mamma? È così grande!” Mi ha commosso molto». 

Charlene di Monaco, l’insofferenza che la unisce a Meghan Markle. DiLei 12 gennaio 2020. Charlene di Monaco, proprio come Megan Markle, fa fatica ad adattarsi ai protocolli reali. E la nostalgia per il Sud Africa la rende triste. Appartenere ad una famiglia reale non significa necessariamente essere felici. Nonostante l’assenza di problemi economici, essere sempre esposti e al centro dell’attenzione e gli innumerevoli impegni istituzionali possono essere dei pesanti fardelli. Lo sa bene Charlene di Monaco, che ha ammesso di provare molta nostalgia per il Sud Africa, per la sua famiglia e per i suoi amici. Charlene di Monaco sorride poco. Se ne sono accorti in molti, tanto che qualcuno l’ha definita la “principessa triste”. Il matrimonio con Alberto di Monaco, infatti, seppur supportato da un profondo amore, non ha donato alla principessa consorte la felicità perpetua. Ma cos’è che la rende così malinconica? In un’intervista con un settimanale sudafricano, proprio come aveva già fatto Meghan Markle creando molto scalpore, Charlene ha ammesso di non essere felice. E, mentre molti si chiedono a cosa è dovuta l’assenza del suo sorriso durante gli impegni ufficiali, lei ha spiegato di provare una profonda nostalgia per il suo Paese. A turbarla, poi, anche altro: ha perso due amici a pochi giorni di distanza e il padre ha avuto problemi di salute in seguito ad un intervento alla schiena. Pur essendo estremamente affezionata ai suoi due figli Jacques e Gabriella, che mai lascerebbe, e consapevole del privilegio che ha vivendo una vita come membro di una famiglia reale, non può ignorare la nostalgia che prova. Alberto di Monaco è un marito e padre affettuoso, nonostante gli impegni che lo tengono occupato per molte ore se non per giorni. Proprio per questo, probabilmente, la mancanza che Charlene prova per la sua famiglia e i suoi amici è sempre più pressante, a tal punto che qualcuno vocifera che la principessa consorte potrebbe arrivare a trasferirsi in Sud Africa, almeno per qualche mese all’anno. Insomma, proprio come Meghan, Charlene è insofferente alla vita di palazzo e prova nostalgia per il suo paese. Il paragone tra le due è inevitabile e qualcuno inizia a chiedersi se anche la Principessa Consorte stia pensando di prendere una decisione simile a quella della Markle. D’altronde, ex campionessa di nuoto ed ex modella, sta riscontrando davvero molte difficoltà ad adattarsi al suo ruolo. Meghan e Charlene, nonostante le differenze caratteriali e di temperamento, sono molto simili. La sofferenza per il cambio vita radicale, in seguito alle nozze, le unisce. Se la prima, però, ha trovato il coraggio di riprendere in mano la sua vita, anche grazie al sostegno di Harry, la seconda sembra destinata a restare a corte. Per lei, infatti, cambiare potrebbe risultare molto più difficile. Riuscirà a trovare un modo per assicurarsi un po’ di serenità?

L’ex re del Belgio ora ammette: «Sì, Delphine Boël è mia figlia». Pubblicato martedì, 28 gennaio 2020 su Corriere.it da Alessandra Muglia. Dopo vent’anni l’ex sovrano del Belgio ha finalmente ceduto: ha ammesso di avere una figlia illegittima, ponendo fine a una lunga battaglia legale. Soddisfatta l’artista 51 enne Delphine Boël che dal 2005 raccontava di quel padre che non voleva riconoscerla e che ha poi trascinato in tribunale. Ora lei diventa principessa Delphine del Belgio, con diritti sull’eredità. Ma la sua non è stata una battaglia venale, garantiscono i suoi avvocati: il gentiluomo Jacques Boël che le ha fatto da padre è il rampollo di una dinastia industriale, più ricco del re. La madre è una baronessa, amante segreta del sovrano: una liaison rivelata per la prima volta nel 1999 dal diciottenne Mario Danneels, studente appassionato di cronache reali, che fece scandalo nel cattolicissimo Belgio di allora. Dopo essere stata rimbalzata più volte da Alberto, nel giugno 2013 Delphine lo cita in giudizio, un passo che per alcuni ha pesato sulla sua decisione di abdicare, il mese successivo, in favore del figlio Philippe, ufficialmente per motivi di salute. Senza più immunità reale, per Alberto la trafila giudiziaria si complica, fino a quando nel maggio 2018 la Corte d’appello di Bruxelles stabilisce che l’ex re avrebbe dovuto pagare 5 mila euro di multa per ogni giorno in cui si fosse rifiutato di fornire il suo Dna. Così lo scorso maggio ha acconsentito a sottoporsi al test. Oggi sono stati resi noti i risultati. Non sarà un giorno felice per Paola Ruffo di Calabria, l’«italienne» come veniva soprannominata, all’epoca della Dolce Vita, l’ex ragazza del Parioli diventata regina. La coppia si è avvicinata più volte al divorzio, ma poi ha sempre deciso di restare insieme.

Michaela Bellisario per "iodonna.it" il 28 gennaio 2020. Ci sono voluti sette anni per diventare… principessa perché è il titolo che avrà alla fine della sua lunga battaglia legale: Delphine Boël ha vinto la causa di riconoscimento contro il padre, l’ex re del Belgio, Alberto II, 85 anni. La donna, figlia della baronessa Sybille de Selys Longchamps, ex amante del sovrano, è nata 51 anni fa. Nel 2013 aveva iniziato la causa contro l’ex monarca.

Padre biologico. L’ex re del Belgio Alberto II si è sottoposto a un test del Dna e i dati hanno confermato la verità. Il sovrano, che ha abdicato nel 2013, ha annunciato la paternità con una dichiarazione ufficiale. Fino a oggi non aveva mai negato pubblicamente di essere il padre di Delphine Boël, ma si era rifiutato di fornire il Dna. Il 16 maggio scorso la Corte d’appello di Bruxelles lo ha costretto a pagare 5000 euro (5344 franchi al cambio attuale) di multa per ogni giorno in cui si fosse rifiutato di fornire il suo Dna. Poche settimane dopo l’ex re ha deciso di sottoporsi agli esami genetici.

Uno scandalo. Le prime voci di un figlio illegittimo emergono nel 1999 in concomitanza di una biografia non autorizzata sulla regina Paola Ruffo di Calabria. Scoppia uno scandalo e Delphine Boël decide, anni dopo, di denunciare la paternità di Alberto II in un’intervista nel 2005. Quindi nel 2013 disconosce Jacques Boël come suo padre naturale e chiede al re di riconoscerla come sua figlia. Ma, dopo quattro anni, il tribunale di Bruxelles sostiene che la richiesta di Delphine «non è fondata» e quindi l’uomo resta  il “padre legale” di Delphine. L’avvocato della donna fa appello. Lo scorso ottobre la corte d’appello “ordina” al re di fare il test.

Vita e amori. Alberto, secondogenito della casa reale belga, il 2 luglio 1959 sposa Paola del Belgio, settima figlia dell’eroe della prima guerra mondiale, l’aviatore Fulco, principe Ruffo di Calabria. Dall’unione nascono tre figli Philippe, Astrid e Laurent. Negli anni molte voci si rincorrono nei salotti di Bruxelles, e il mormorio di una figlia illegittima del principe diventa quasi una certezza nel 1999, quando è lo stesso Alberto a confessare in un’intervista la lunga crisi coniugale con Paola.

Chi è Delphine. Delphine Boël è un’artista multimediale. La madre, la baronessa Sybille de Selys Longchamps, ha avuto una relazione lunga sedici anni con Alberto II che, si dice, fosse sul punto di divorziare da Paola di Liegi quando la Boël aveva 9 anni, ma la ragion di Stato lo ha fatto desistere. La relazione è poi andata avanti fino al 1984. Delphine Boël ha saputo la verità a 18 anni, nel 1986. Ha cercato più volte di contattare il presunto padre che una volta le avrebbe detto brutalmente di non essere il genitore.